L'Eterno ruggirà da Sion,
farà sentire la sua voce da Gerusalemme,
e i cieli e la terra saranno scossi;
ma l'Eterno sarà un rifugio per il suo popolo,
una fortezza per i figli d'Israele.
Gioele 3:16  

Attualità



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Ma quali due stati, i primi a non volere la Palestina libera sono gli arabi
      Articolo OTTIMO!


L'obiettivo finale è includere le terre dal Giordano e il mare nella grande umma islamica. Lo dice la storia.

di Emanuel Segre Amar

Stato di Palestina: dietro queste due parole, che sembrano avere la massima priorità per l'Onu e per i governanti del mondo intero, si nasconde una realtà che appare sconosciuta ai più.
  Nel mondo arabo non vi è una tradizione dello stato e, a parte l'Egitto, la cui storia risale a migliaia di anni fa, di molto antecedente all'arrivo dei conquistatori/predicatori musulmani (e che tuttora è abitato anche da popolazioni non arabe, come non lo erano gli antichi egizi), non si è mai parlato di stati nel senso esportato da inglesi e francesi dopo la fine della Prima guerra mondiale. Le popolazioni arabe riconoscono, come legame fondamentale, la tribù. Se si considera quanto accade in stati artificiali, tracciati con un righello sulle mappe, come sono la Libia, la Siria o l'Iraq, vediamo che, abbattuto il dittatore, sono le tribù che riemergono con tutta la loro forza. Sopra la tribù non può esistere uno stato, inevitabilmente dilaniato da vere e proprie guerre tribali (all'interno della stessa "setta" religiosa) oltre che dalla millenaria guerra tra sunniti e sciiti.
  La storia insegna che solo un impero, come quello ottomano, o un califfato, è riuscito a mantenere un certo controllo grazie a metodi di governo impensabili in occidente. Se poi si volge lo sguardo al Maghreb - che, non a caso, in arabo significa luogo del tramonto - troviamo una realtà molto simile, a eccezione del Marocco dove il re, grazie alla sua riconosciuta discendenza diretta da Maometto, ha poteri al tempo stesso religiosi (può perfino annullare le fatwe) e amministrativi. Non è certo casuale se le terre dell'Impero ottomano si fermavano ai confini del Marocco.
  Torniamo ora alla realtà palestinese. Dopo una iniziale decisione della Società delle Nazioni, nel 1922, di creare una Jewish National Home su un territorio comprendente le attuali Giordania ed Israele, la Striscia di Gaza, la Giudea e la Samaria, nel 1923 gli inglesi tirarono fuori dal cilindro quel Regno di Transgiordania che oggi sembra riuscire a sopravvivere- non solo economicamente - grazie ai determinanti aiuti dell'occidente, e anche, in maniera poco pubblicizzata, di Israele. Ed è compito del re (e della regina) tenere unite le diverse etnie che vivono nel regno (artificiale), con difficoltà sempre crescenti.

 Tra Corano e Nazioni Unite
  Furono gli inglesi che decisero che il territorio destinato allo stato ebraico, già ridotto del 78 per cento con la sottrazione delle terre a est del Giordano, dovesse ulteriormente suddividersi in due "stati", uno dei quali "arabo", come poi deliberato dalle Nazioni Unite nel 1947. Questa decisione venne bocciata in blocco da tutti i paesi arabi per ragioni diverse, ma complementari. Nelle terre che sono già state conquistate dalla umma, parola araba che significa nazione come la identica parola ebraica, non è possibile, secondo il Corano, che nasca una amministrazione che non sia islamica, come appunto è lo stato di Israele. Ma, per gli arabi, non era chiaro nemmeno perché avrebbe dovuto nascere un nuovo "stato" su quella che per loro era sempre stata, semplicemente la Siria meridionale.
  Auni Bey Abdul-Hadi, un leader arabo locale, aveva già dichiarato alla Commissione Peel nel 1937: "Non esiste alcun paese noto come Palestina! Palestina è un termine che i sionisti hanno inventato! Il nostro paese è stato per secoli parte della Siria". Il rappresentante dell'Alto comitato arabo alle Nazioni Unite rilasciò la seguente dichiarazione in Assemblea Generale, nel maggio 1947: "La Palestina era parte della provincia della Siria; politicamente, gli arabi di Palestina non erano indipendenti, nel senso che non formavano un'entità politica separata".
  Ahmed Shuqeiri, ex presidente dell'Olp, dichiarò poi, nel 1956, davanti al Consiglio di Sicurezza dell'Onu: "E' comunemente noto che la Palestina non è altro che la Siria meridionale". Zahir Muhsein, in un' intervista al giornale olandese Trouw del 31 marzo 1977, dichiarò:
    "Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è soltanto uno strumento per la continuazione della nostra lotta contro lo stato di Israele per la nostra unità araba. In realtà oggi non c'è differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. E' soltanto per ragioni politiche e tattiche che noi parliamo dell'esistenza del popolo palestinese, dato che l'interesse nazionale arabo richiede che noi presupponiamo l'esistenza di un 'popolo palestinese' distinto, che si opponga al Sionismo. Per ragioni tattiche la Giordania, che è uno stato sovrano con confini delimitati, non può avanzare diritti su Haifa e Jaffa, mentre come palestinese io posso senza dubbio rivendicare Haifa, Jaffa, Beer-Sheva e Gerusalemme. Tuttavia, nel momento in cui reclamiamo il nostro diritto su tutta la Palestina, non aspetteremo neanche un minuto a riunire la Palestina e la Giordania". E ancora Farouk Radoumi, capo diplomatico dell'Olp, nel 1998 chiarì nuovamente il fine ultimo di quell'arma tattica nota come 'popolo palestinese': "Appena lo stato palestinese avrà guadagnato un riconoscimento dalla maggior parte delle nazioni del mondo, come ci aspettiamo, la presenza israeliana su terra palestinese diventerà illegale e noi la combatteremo con le armi. La battaglia contro le forze israeliane è un diritto a noi riservato". (Farouk Radoumi, al giornale Al Hayat al-Jadeeda, 15 ottobre 1998).
 Le parole di Arafat
  Arafat, che alla sua anima di terrorista affiancava anche un'intelligenza politica non comune, aveva - a un certo punto - iniziato a parlare di stato palestinese, ma chissà che cosa aveva in mente. Non dimentichiamo, infatti, che subito dopo la firma degli accordi di Oslo, il 10 maggio 1994, a chi provava a rimproverarlo per tale riconoscimento del nemico sionista rispose: "Questo accordo non lo considero che come l'accordo siglato dal nostro Profeta Maometto con Kureish, e ricordate che il Califfo Omar aveva respinto tale accordo come una tregua disgustosa". E infatti, nonostante gli impegni sottoscritti, non li fece mai ratificare dall'Olp, e questo dovrebbe aprire gli occhi ai tanti che pensano, nel mondo, di poter imporre dall'alto la soluzione dei due stati. Non si deve nemmeno dimenticare, a ulteriore riprova della non esistenza di questo stato di Palestina, che la maggior parte dell'odierna popolazione non è nemmeno autoctona, come non lo era lo stesso Arafat (lui stesso egiziano). Lo stesso ministro dell'Interno di Hamas, Fathi Hammad, alla tv al Hekrna, il 23 marzo 2012, protestando con gli egiziani per il blocco delle forniture di petrolio, diceva loro:
    "Tutti i palestinesi, a Gaza e in Palestina, possono dimostrare le loro origini arabe, dalla Arabia Saudita, dallo Yemen, o da tutte le altre terre. Noi abbiamo legami di sangue. La mia famiglia è egiziana. Più di trenta famiglie si chiamano al Masri (egiziano); metà dei palestinesi sono egiziani, e l'altra metà sono sauditi. Chi è palestinese? Noi siamo arabi. Noi siamo musulmani. Noi siamo una parte di voi".
Questi sono i fatti troppo spesso ignorati dai tanti che, almeno dal 1947, continuano a credere che ciò che vale in occidente, possa valere anche in Medio oriente. Se questa divisione in due stati non si è ancora realizzata, non è a causa delle colonie ebraiche: forse che gli ebrei che sono tornati, nel 1967, a Hebron o a Gerusalemme, dove avevano vissuto per 3.000 anni, fino a quando i conquistatori giordani li avevano cacciati nel 1948, possono essere considerati coloni? La mancanza di una soluzione non è dovuta a questioni di confini: sono state fatte ben 3 offerte che prevedevano la concessione fino al 97 per cento dei territori; e non è nemmeno dovuta al governo di Netanyahu e dei tanti "falchi" del suo governo: forse che non era considerato un terribile falco anche Begin che fece la prima pace firmata tra gli ebrei e gli arabi? No, forse la causa vera di questa terribile impasse, al momento senza via di uscita, è che gli arabi non vogliono uno stato palestinese, piccolo o grande che sia. No, loro vogliono tutta quell'area, dal Giordano al mare, mostrata in tutti i loro simboli, in tutti i loro libri scolastici, in tutte le loro carte geografiche, per unirla alla Umma, la grande nazione musulmana.

(Il Foglio, 11 febbraio 2017)


Il pieno di energia si fa a bordo strada, e si ricarica il bus elettrico

L'idea di ricaricare un veicolo senza fili sfruttando la stessa strada su cui esso si muove è della startup israeliana Electroad. Il primo test a Tel Aviv.

di Jessica Fabiano

 
Ricaricare un veicolo senza fili, semplicemente sfruttando la stessa strada su cui esso si muove. È l'idea della startup israeliana Electroad, che ha creato un nuovo sistema wireless che permette ai mezzi con batteria elettrica di ricaricarsi in modo assolutamente green, grazie all'induzione elettromagnetica.

 Funziona come uno smartphone
  Il concept su cui si basa è piuttosto semplice, visto che si tratta dello stesso principio legato all'alimentazione degli smartphone in modalità wifi. I veicoli elettrici sono attrezzati di sensori in grado di ricevere l'energia elettrica quando si trovano su tratti stradali che sfruttano la tecnologia di Electroad, mentre i tratti stradali sono a loro volta muniti di una particolare striscia in gomma e rame. Sui lati della carreggiata vengono poi installati degli inverter in grado di trasmettere elettricità che passa attraverso la bobina posta all'interno del mezzo. Il risultato è che il veicolo non ha più la necessità di lunghe soste per fare il pieno di energia: basta che si sposti sulla parte green del tratto stradale.

 Il test su venti metri di strada di Tel Aviv
  Il sistema, che ha ottenuto un finanziamento dal progetto europeo Horizon 2020 e che nasce principalmente per ridurre l'impatto ambientale del trasporto pubblico, è ancora in fase iniziale, anche se è già stato testato su un tratto di strada di venti metri di Tel Aviv, dove è riuscito ad alimentare un bus elettrico della città. L'obiettivo della startup è di offrire delle vere e proprie "corsie verdi", iniziando fornendo maggiori soluzioni di ricarica che permettano agli autobus di utilizzare batterie più piccole, riducendo il peso e il costo complessivo di questi veicoli elettrici.

 Gli altri progetti
  Non è la prima volta che un progetto del genere viene testato: a livello europeo, l'azienda Scania sta sperimentando un autobus ibrido in Svezia, il Citywide LE4x2, che monta due motori, uno a biodiesel e l'altro elettrico, in grado di lavorare insieme. Il nuovo modello del veicolo è capace di ricevere l'elettricità tramite l'induzione elettromagnetica.

(Corriere Innovazione, 13 febbraio 2017)


L'ultima risoluzione Onu e il "regalo" avvelenato di Obama

Tutte le conseguenze e i danni di una diplomazia delle anime belle. E della loro ipocrisia.

di Paolo Shalom

La Storia corre in fretta, nel lontano Occidente. Ma, in apparenza, solo quando c'è Israele di mezzo.
   Le sorprese di fine anno alle Nazioni Unite - difficili da digerire - sono state preparate e messe al voto nello spazio di pochi giorni. Il riferimento è alla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza che, per la prima volta, definisce "illegali" gli insediamenti nei Territori, compresi quelli a Gerusalemme Est. In poche parole, la Comunità internazionale ritiene che il Muro Occidentale (non solo il Monte del Tempio), e il Quartiere ebraico della Città Vecchia siano zone "occupate", territorio straniero e non afferente allo Stato Ebraico. Il tutto con l'imprimatur degli Stati Uniti del presidente (ormai non più) Barack Obama che ha ordinato l'astensione al momento del voto. Dov'è la logica in tutto questo? Perché l'America ha promosso un testo che ignora volutamente lo scopo in sé della nascita di Israele, e cioè il ritorno alla terra degli avi, liberi di fronte al mondo, in pieno possesso dei luoghi che hanno nutrito l'anima del popolo ebraico nei millenni?
   Intanto, così facendo, Obama ha esercitato la sua vendetta personale contro Netanyahu, l'unico leader che abbia osato sfidarlo ripetutamente nel corso dei suoi otto anni alla Casa Bianca (e ora capiamo perché lo abbia fatto). E, poi, ha anche impresso il suo "marchio" sulla politica dell'attuale presidente Usa, Donald Trump, al potere dal 20 gennaio. Perché una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, per quanto abborracciata e contraddittoria, difficilmente può essere cancellata: il diritto di veto è esercitato con grande cura e su basi di real-politik dagli altri Stati che ne beneficiano (oltre agli Usa: Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna), ragion per cui, per esempio, il regime siriano di Assad è stato accuratamente protetto da Mosca, nonostante stragi e orrori di una guerra civile durata sei anni, secondo il principio che gli "alleati non si tradiscono". Perciò difficile immaginare l'approvazione di una nuova risoluzione che cancelli le follie di quest'ultima.
   Almeno l'Amministrazione Trump sarà, nelle future avversità, una sincera amica di Israele? Forse. Ma anche lui, Trump, dovrà considerare gli equilibri mondiali. Perciò è realistico non farsi troppe illusioni. Come è purtroppo un dato di fatto che l'ultima carta giocata da Obama allontanerà la pace invece che avvicinarla, come ha stoltamente affermato il suo segretario di Stato, John Kerry. Perché? Che fareste voi, dovendo trattare per avere qualcosa che vi viene assicurata ancor prima di sedervi al tavolo? Ecco: i palestinesi non hanno mai mostrato una seria propensione ad accettare compromessi: ora che hanno vinto una battaglia senza colpo ferire, saranno ancora più determinati a vincere la guerra a modo loro. Queste sono le conseguenze della diplomazia delle anime belle nel lontano Occidente.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, febbraio 2017)


Maratona di Tel Aviv: attesi oltre 40mila persone per il 24 Febbraio

Maratona di Tel Aviv 2016
Preparativi ormai ultimati a Tel Aviv per la maratona annuale che si terrà il prossimo 24 Febbraio. Sono attesi più di 40mila corridori (di cui solo 2mila circa percorreranno interamente i 42,195 km) per quello che negli ultimi anni è diventato uno degli eventi internazionali più importanti in Israele, e prevede oltre alla maratona completa anche la mezza maratona, i 10 km e i 5 km di corsa, ed anche una corsa ciclistica in hand bike per le persone portatrici di handicap.
La maratona è già una tradizione per gli appassionati sportivi ed offre ai partecipanti la possibilità di correre attraverso un percorso urbano unico nel suo genere pensato per poter mettere in evidenza il meglio della Città Bianca, riconosciuta ufficialmente come patrimonio mondiale dell'Unesco, passando lungo le sue vie principali come Dizengoff Street, Rothschild Boulevard, Kikar Rabin e la Tayelet (il lungomare), per costeggiare il Parco Hayarkon, vero polmone verde dell'area.
Le iscrizioni sono aperte fino al 18 Febbraio e anche quest'anno sono previste numerose adesioni, soprattutto da parte di chi vuole godersi una giornata all'insegna dell'attività sportiva e della semplice partecipazione agli eventi collegati alla maratona: l'evento infatti è denominato "Tel Aviv SAMSUNG Marathon - Non Stop Party in a Non Stop City!", ad ulteriore conferma del fatto che la Città che non dorme mai è pronta anche quest'anno a proporre una esperienza unica a tutti gli iscritti!
Con una serie di eventi tra cui una maratona completa, mezza maratona, 10 km e 5 km corsa, così come corsa ciclistica 42 km a mano per le persone con esigenze particolari, il giorno della maratona sarà pieno di azione come i partecipanti potranno vedere alcuni dei più grandi siti di questa bella città. Questo è il più grande evento sportivo in Israele, con più di 35 mila corridori!

(Cool Israel, febbraio 2017)


Come ha fatto Israele a diventare eccellenza mondiale nel campo della cybersecurity

Il futuro è già qui, e non sembra un futuro accogliente. Virus, malware, cyber attack, ransomware, fenomeni in ascesa che dipingono uno scenario a tinte fosche, e neanche troppo lontano, stando alla velocità di crescita ed espansione del cyberspazio e del suo utilizzo da parte nostra.

di Cecilia Scaldaferri

Girando per gli stand della CyberTech di Tel Aviv, la seconda più grande fiera al mondo in materia di cyber security (una vera e propria celebrazione della leadership dello Stato ebraico nel settore), gli allarmi sono ovunque e invitano a mettere al sicuro i tanti strumenti tecnologici che usiamo quotidianamente: Non basta più l'antivirus sul computer, la nuova frontiera è la sicurezza dei dispositivi mobile, il nostro 'cordone ombelicale' con un mondo sempre più interconnesso.
  Allarmi da prendere seriamente alla luce del 2016, "un anno cruciale" secondo Nadav Zafrir, cofondatore e ad del Team 8, per 25 anni nei ranghi delle forze armate israeliane, di cui gli ultimi dieci alla guida della leggendaria unità 8200, l'elite dell'esercito dedicata alla lotta contro i nemici dello Stato ebraico nel profondo della Rete. Una preparazione d'eccezione che l'ha portato, una volta abbandonata la divisa, a creare la propria società, percorso naturale per molti ex militari impegnati nel settore.

 Intercettare le menti migliori fin dal liceo
 
  Proprio questa è una delle ragioni del successo israeliano nella sicurezza cibernetica: sicuramente gioca a suo favore la situazione geopolitica - un paese piccolo, con tanti nemici e minacce costanti - ma la vera chiave di volta è il modello formativo, con i migliori talenti selezionati fin dai tempi del liceo, indirizzati all'università verso le facoltà scientifiche e tecnologiche e poi assorbiti dalle forze armate, in unità dedicate, per i due/tre anni obbligatori di leva. Così facendo, sottolinea Zafrir, Israele "ha trasformato un costo per l'economia (la leva obbligatoria, ndr) in una spinta": questi giovani "talentuosi, motivati e pratici, messi nel giusto ambiente con stimoli continui, creano qualcosa di magico". Da lì, escono a 25/26 anni con un bagaglio di esperienza invidiabile, capacità manageriali e di gestione delle crisi, un approccio ai problemi che non prevede l'impossibile, una forte motivazione e dedizione, insieme a idee spendibili sul mercato. Sono nate da questo ecosistema quasi unico al mondo centinaia di start up, di cui molte acquisite dai colossi tecnologici mondiali, e decine continuano a vedere la luce ogni giorno.
  C'è un turn over continuo nelle unità militari. E quelli che lasciano l'esercito per lanciarsi nel settore privato si portano via "non 'i segreti' del mestiere ma l'approccio, come si affrontano sfide" che sembrano impossibili, spiega Zafrir, sottolineando che quando vengono selezionati, a contare maggiormente non sono le nozioni (a 16 anni sono quasi inesistenti), ma la velocità di apprendimento. "Questo è un settore dove si ha uno sviluppo continuo, a un ritmo incredibile ed esponenziale: quello che si inizia a studiare il primo anno di università, pochi anni più tardi è già obsoleto".

 Il 2016 è stato un anno cruciale, colpiti i pilastri del nostro sistema
  Una potenza di fuoco, non fisica ma virtuale, che sembra quasi eccessiva a occhi profani. Ma nella realtà, ad ascoltare i principali attori impegnati nella cyber sicurezza - imprenditori, accademici, esponenti governativi e militari - è assolutamente giustificata. Il 2016 è stato un anno cruciale, ribadisce Zafrif, mettendo in luce i principali attacchi che hanno funestato l'anno appena passato e che hanno interessato i gangli vitali del nostro sistema: il settore finanziario, le infrastrutture civili, il sistema elettorale e la stessa rete internet.
  Si va dagli hacker che hanno colpito la banca centrale in Bangladesh rubando 80 milioni di dollari (e potevano essere molti di più se non avessero fatto un microscopico ma decisivo errore che li ha fatti scoprire) al black out della rete elettrica ucraina fino alle violazioni nel sistema elettorale americano e l'oscuramento di Internet sulla costa orientale Usa lo scorso ottobre.

 Sempre più attaccati al telefonino… ma senza protezioni adeguate
 
  "Siamo tutti connessi, e sempre di più. Questa è la realtà di oggi e dobbiamo difenderci", ricorda Gil Shwed, enfant prodige che 'smanettava' sui computer già a 10 anni, cofondatore di Check Point, una potenza da 100mila clienti nel mondo, più di 4.300 dipendenti e 1,78 miliardi di fatturato nel 2016. "Il 90% delle aziende ha dispositivi mobile non protetti perché pensano che non sia necessario", sottolinea, puntando l'attenzione sulla maggiore sfida (e minaccia) attuale.
  I numeri stupiscono: circa il 99% delle organizzazioni non hanno protezioni sui dispositivi mobile, il 96% non usa firewall di prevenzione avanzata e il 98% delle aziende nel mondo non usa sistemi di sicurezza del cloud. Si nega la realtà del pericolo e si prendono talvolta rischi troppo grandi, salvo poi disperarsi, dopo. "La parola chiave - scandisce Shwed - è prevenzione". Altro tema ugualmente in agenda, la sicurezza del cloud: la prospettiva è che le aziende lo usino sempre di più come estensione della propria struttura. "Bisognerebbe sviluppare un'architettura e integrare varie tecnologie di cybersecurity in un singolo sistema da offrire ai clienti, dando loro una protezione efficace contro attacchi diretti verso il cloud, i dispositivi mobile, i data center e i sistemi informatici".

 Israele ecosistema per seimila startup
  Nel 2016 il 20% degli investimenti privati mondiali sono finiti in aziende israeliane, sono tra 450 e 500 le start up nel settore della cyber sicurezza, con 40-50 che si uniscono ogni anno. Ma l'innovazione in Israele non si limita a questo settore, "è la base stessa della nostra economia", ricorda Avi Hasson, il chief scientist del ministero dell'Economia a capo dell'Autorità Israeliana per l'Innovazione (AII). Due gli elementi caratterizzanti del modello israeliano: "la profonda partnership tra pubblico e privato", insieme a una "politica di lungo periodo" che dagli anni '70 è stata adottata dal governo, a prescindere da chi lo guidi, dando una stabilità di lungo periodo. Gli investimenti dell'Authorità riguardano qualsiasi settore dell'economia, tranne quello militare e della formazione. Il risultato sono le seimila startup innovative esistenti nello Stato ebraico, "un numero in crescita" anche se sono anche tante - fino a un centinaio - quelle che ogni anno chiudono i battenti.
  "La nostra missione - spiega Hasson - è quella di trasformare l'innovazione in prosperità economica". Da qui, una serie di misure messe in atto per attrarre capitali, dalle esenzioni fiscali per gli investitori, ai visti per società e imprenditori, fino a regolamentazioni ad hoc. L'Autorità, spiega Hasson, è "la voce dell'ecosistema innovativo all'interno del governo". Uno sforzo di sistema che solo nel 2016 ha visto investimenti nelle start up israeliane per 4,8 miliardi di dollari, per l'85% provenienti dall'estero. Il 50% dell'export israeliano deriva dall'hi-tech. Centinaia di multinazionali hanno qui centri di ricerca e sviluppo, con "mutui benefici", senza contare i 70 accordi bilaterali con strutture sparse nei cinque continenti, dal Cile al Giappone. A decidere su quali progetti investire, sono 150 analisti indipendenti che vagliano approfonditamente ogni singola iniziativa e presentano i risultati a una commissione mista, pubblico e privato. Le risorse sono limitate, "il budget riesce a coprire solo il 20% delle domande che ci vengono sottoposte, il che significa che sono 5 volte tanto".

 Matania, lavoriamo allo sviluppo di un 'Iron Dome' digitale
  L'AII lavora a stretto contatto con l'Israel National Cyber Directorate, l'ente dedicato a raccomandare una politica nazionale, promuovendola in accordo con le leggi e le indicazioni governative. L'obiettivo è rendere lo Stato ebraico pronto ad affrontare qualsiasi minaccia virtuale. Per questo, ha annunciato il responsabile dell'ufficio Eviatar Matania, si sta lavorando alla creazione dell'"equivalente digitale dell'Iron Dome" (il sistema mobile per la difesa anti-missile, ndr). Un simile scudo difensivo non sarà composto da "un solo sistema, ma da una loro combinazione" in modo da difendersi in maniera molto più efficace. "Nel giro di alcuni anni, penso che saremo in una posizione molto diversa, con tutti i sistemi che lavorano insieme".
  Un primo passo in questa direzione è stata la realizzazione di Cyber Net, che permette al Cert (il Comupter emergency response team con sede a Beer Sheva, 'capitale' israeliana della cyber security) di mettersi in connessione con i team dedicati alla cyberdefense sia nel settore pubblico che nelle organizzazioni private, per condividere informazioni sugli attacchi ed evitarne altri.

 Cooperare per affrontare le minacce terroristiche
  E' un'ecosistema che funziona e che ha portato Israele a raggiungere una posizione dominante nel settore: "La grandezza fisica del Paese non ha limitato il suo potere nella cyber technology", ha sottolineato il premier Benjamin Netanyahu, rivolgendosi alla vasta platea di addetti al settore, 'nerd', appassionati, imprenditori, esponenti governativi e big della Silicon Valley accorsi alla CyberTech a Tel Aviv. Il rischio, ha aggiunto, è una "sovraregolamentazione: una volta imposta, si ostacola lo sviluppo dell'industria cybertecnologica". Quello di cui invece c'è bisogno sono gli investimenti, e per questo il governo è attivo con diverse misure: "sosteniamo programmi per le aziende che vogliono venire per stabilire centri di sviluppo, inoltre sviluppiamo il capitale umano d'Israele attraverso programmi formativi nel settore militare e accademico".
  Uno sforzo imponente, di fronte a minacce crescenti. Come ha ricordato Netanyahu, "negli ultimi anni l'Iran ha sviluppato un'infrastruttura terroristica in Medio Oriente. L'internet delle cose può essere usata da queste organizzazioni terroristiche per scopi pericolosi". Senza andare troppo lontano, all'inizio di gennaio l'esercito israeliano ha annunciato di aver svelato un cyber attacco da parte di Hamas: miliziani, spacciandosi per avvenenti ragazze, contattavano soldati di Tsahal e così erano riusciti a infettare decine di dispositivi, alla ricerca di informazioni di intelligence per operazioni militari ai confini della Striscia di Gaza. "In questo contesto - ha sottolineato il premier - Israele, Stati Uniti e altri Paesi dovrebbero cooperare a livello governativo così come tra imprese".

(Agenzia giornalistica Italia, 12 febbraio 2017)


Onu, l'israeliana Tzipi Livni verso il ruolo di vice-Guterres

Un rappresentante di Gerusalemme per la prima volta candidato al piani alti delle nazioni unite. Deciderà il Consiglio di Sicurezza

di Paolo Mastrolilli

Tzipi Livni, 58 anni, è una politica e un avvocato, con un'esperienza nel Mossad: è stata la prima donna a guidare la diplomazia israeliana dopo Golda Meir. È leader del partito HaTnuah e parlamentare della Knesset
NEWYORK - Gli Stati Uniti bloccano la nomina di Salam Fayyad come nuovo inviato dell'Onu in Libia, ufficialmente perché è palestinese. Così provocano una crisi e uno shock al Palazzo di Vetro, perché la scelta dell'ex premier era stata approvata dall'ambasciatrice Nikki Haley. Fayyad infatti è considerato il palestinese più vicino agli Usa e ad Israele, e godendo dell'appoggio degli Emirati Arabi Uniti e dell'Egitto, può cambiare il governo di Tripoli e fare l'accordo con quello di Tobruk per stabilizzare il Paese. Forse però è un gioco delle parti: Israele otterrà un posto all'Onu per l'ex ministro degli Esteri Tzipi Livni, e Washington sbloccherà Fayyad.
   Il segretario generale Guterres aveva inviato una lettera ai membri del Consiglio di Sicurezza 1'8 febbraio scorso, informandoli dell'intenzione di nominare Fayyad al posto di Kobler. I membri avevano tempo fino alla mezzanotte di venerdì per obiettare, e alle sei e mezzo è arrivato questo comunicato di Haley: «Gli Usa sono delusi nel vedere una lettera che indica l'intenzione di nominare l'ex premier dell'Autorità palestinese alla guida della missione in Libia. Per troppo tempo l'Onu ha ingiustamente favorito l'Autorità palestinese a scapito dei nostri alleati in Israele. Gli Usa non riconoscono attualmente uno Stato palestinese e non sostengono il segnale che questa nomina manderebbe all'interno delle Nazioni Unite». Il portavoce di Guterres, Stephane Dujarrie, ha prima sottolineato che Fayyad era stato scelto «per le sue capacità personali», non perché è palestinese, e poi ha aggiunto che il segretario generale, sulla base delle consultazioni fatte, «aveva avuto la percezione, ora dimostrata erronea, che la proposta sarebbe stata accettabile al Consiglio». Quindi ha aperto uno spiraglio: «Israeliani e palestinesi sono entrambi sotto rappresentati all'Onu, e Guterres intende correggere questa situazione».
   La verità è che Haley aveva approvato Fayyad, che era diventato premier palestinese con l'aiuto dell'amministrazione Bush, e poi aveva rotto con Abbas proprio perché si opponeva allo scontro con Israele. L'ex premier ha un rapporto stretto con gli Emirati Arabi Uniti ed era appoggiato dall'Egitto, sostenitori chiave del generale Haftar, capo militare della fazione di Tobruk. Il suo obiettivo era formare un nuovo governo di accordo nazionale a Tripoli, probabilmente con l'ambasciatore libico negli Emirati Aref Ali Nayed come premier al posto di Sarraj, e Haftar ministro della Difesa, in modo da creare un esecutivo unitario accettato da tutti per stabilizzare il Paese, e combattere i terroristi e i trafficanti di esseri umani. Quando però la nomina è arrivata a Trump è stata bloccata, obbligando la Haley a smentire se stessa. Forse così il presidente pensava di fare una cortesia a Netanyahu, che riceverà mercoledì alla Casa Bianca, ma secondo il giornale Haaretz il governo israeliano non era stato consultato sulla decisione. La soluzione ora potrebbe essere uno scambio: un posto per Livni all'Onu in cambio del via libera a Fayyad.

(La Stampa, 12 febbraio 2017)


Trump, segnale a Israele (e i nuovi rischi per l'Italia)

La designazione di Fayyad è sembrata alla Casa Bianca un elemento di disturbo alla vigilia della visita di Netanyahu.

di Franco Venturini

Il grande disordine libico, che per l'Italia si identifica con una immigrazione massiccia pronta a riesplodere nella prossima primavera, dovrà fare a meno del palestinese Fayyad che a molti, anche agli italiani, pareva un valido mediatore di pace. L'ambasciatrice statunitense all'Onu ha il merito di aver evitato ogni ambiguità: gli Usa non riconoscono uno Stato palestinese, e la nomina di Fayyad proposta dal Segretario generale Guterres, se approvata dal Consiglio di sicurezza, lancerebbe «un segnale sbagliato» . Anche perché non sono più accettabili le parzialità del Palazzo di vetro contro Israele. Vanamente Guterres ha replicato che l'economista di scuola americana ed ex premier palestinese era stato scelto per i suoi meriti. E vanamente l'Autorità palestinese ha parlato di discriminazione identitaria, mentre Israele invece si compiaceva. Trump ha voluto lanciare i «suoi» segnali: Guterres ci consulti prima di prendere iniziative; ricordiamoci che i palestinesi sono osservatori, non membri dell'Onu; è finito il tempo di Obama e delle astensioni Usa su risoluzioni critiche verso Israele; e soprattutto, la casa Bianca non vuole turbare la visita che il premier Netanyahu farà a Washington tra pochi giorni.
   In quella occasione, accanto alla conferma della grande amicizia che ha già ripetutamente espresso verso Israele, Trump intende discutere il nodo irrisolto dei nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania, il possibile trasferimento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, e un rilancio dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi forse con l'aiuto di Giordania, Egitto e Arabia Saudita. Si può capire allora che la designazione dell'incolpevole Fayyad sia parsa alla Casa Bianca un elemento di disturbo in un momento cruciale. Ma resta, intatto, il problema della Libia.
   Tanto più che il Dipartimento di Stato, in un comunicato, si è schierato a spada tratta dalla parte del «Governo di accordo nazionale» che ha sede a Tripoli ed è guidato (ironicamente con il pieno appoggio dell'Onu) da Fayez al Serraj. Posizione non nuova per gli Usa, e sulla carta pienamente coincidente con quella italiana. Ma gli ultimi sviluppi sul tema Libia-migranti avevano fatto pensare a una evoluzione che evidentemente non si è rivelata possibile, o che non è ancora matura.
   Il memorandum d'intesa sottoscritto il 3 febbraio scorso da Gentiloni e dal traballante Serrai, nel migliore dei casi, potrebbe garantirci la benevolenza di Tripoli e forse la sorveglianza di alcuni tratti di costa. Ma anche questi risultati minimi sono fortemente in dubbio fino a quando il generale Haftar non sarà positivamente coinvolto nella trattativa, la Cirenaica non sarà più divisa come è oggi dalla Tripolitania, e la Libia avrà un solo esercito nazionale. Chi può convincere, allora, Haftar e Bengasi a mostrarsi ragionevoli? Di sicuro l'Egitto e la Russia, perché la Francia è indebolita dal voler tenere i piedi in troppe staffe. E poi, si aspettava Trump. Che con l'egiziano al-Sisi è in grande cordialità e che vuole dialogare con Putin, anche se il dialogo difficilmente si spingerebbe fino ad accettare una nuova base militare russa sulla costa della Cirenaica.
   Il Dipartimento di Stato vuole segnalare che l'aggancio di Haftar risulta troppo problematico? Oppure si tratta di una posizione di partenza prima di parlare con il Cairo e con Mosca? Con Trump tutto è possibile, anche per il meglio. Ma intanto la Libia affonda, e proietta i suoi tormenti sull'Italia.

(Corriere della Sera, 12 febbraio 2017)


Gli ebrei di Tortona e la conversione di Michaela

Breve storia degli ebrei nella provincia di Tortona

 
La cattedrale di Tortona, edificata al posto di una sinagoga che fu demolita
La prima attestazione della presenza ebraica a Tortona, risalente alla seconda metà del XV secolo, consiste nelle disposizioni impartite dal Duca al feneratore (prestatore di denaro ad interesse) locale, Madius (Meir), circa i pegni che non dovevano essere trasportati fuori, durante l'anno in cui erano impegnati.
   Nel 1452 e nel 1453, l'ebreo che prestava veniva menzionato con il nome di Mosè che, l'anno seguente, fu accusato dal Comune di aver fatto promesse, al momento del suo insediamento in loco che, in seguito, non aveva mantenuto. Il Duca, dopo aver ordinato al Podestà di accertare la verità, esortò a comporre la vertenza in modo pacifico. Venivano menzionati nei documenti di quell'anno anche i prestatori Elia e Davide, per i quali il Duca ordinò il risarcimento dei debiti, onde potessero far fronte alla sovvenzione alle casse ducali.
   Inoltre, nel 1454, il Duca intervenne in favore di Mosè, in contenzioso con Pietro Monga di Pontecurone, che lo aveva fatto arrestare, mentre vi si trovava di passaggio durante un viaggio d'affari. Il Duca si adoperò anche, ripetutamente, perché Elia e il figlio Davide recuperassero i propri crediti mentre, sempre nel 1454, alcuni abitanti di Tortona protestarono contro gli ebrei e il Podestà ricevette ordine di appurare la verità delle accuse e di agire secondo giustizia sine strepitu. L'anno seguente, il Duca ordinò al proprio funzionario di comporre la vertenza tra un debitore e Mosè, causata dallo smarrimento di un pegno di notevole valore, che il debitore riteneva sottratto dolosamente e, nello stesso anno, incaricò lo stesso funzionario a fungere da giudice anche nella disputa scoppiata tra il Comune, Elia e il figlio Davide. In seguito, ordinò di pagare i debiti agli ebrei e, tra l'altro, di risarcire con 266 ducati Menasse e Giuseppe, mentre, poco dopo, intervenne affinché venissero corrisposti i crediti di Elia e di Davide, il quale, dopo il furto di alcuni pegni depositati presso di lui, si appellò perché fosse inviato un funzionario ad esigere il danaro dovutogli, dato che il Podestà non intendeva eseguire l'ordine ricevuto a questo proposito.
   Nel 1456, tra gli ebrei cui il Duca condonò la pena per atti illegali commessi, c'era anche Mosè di Tortona, perdonato nuovamente l'anno seguente, insieme a Manno di Pavia, per aver violato le disposizioni rispetto alla peste. Sempre nel 1457, alcuni correligionari fecero causa allo stesso Mosè, provocando l'intervento del commissario, per far luce sul caso: l'anno dopo, quest'ultimo ricevette ordine di convocare Mosè e, se le lagnanze di Giacobbe (Giacobone) e di Abramo fossero state fondate, di rendere loro giustizia. Del resto Mosè ed altri israeliti di Tortona furono protagonisti anche di una disputa, di poco successiva, circa la quota delle tasse che il primo avrebbe dovuto pagare. Quanto alle imposte cittadine, gli ebrei di Tortona ne erano esentati, nel 1458.
   Sempre nel 1458, il luogotenente di Tortona chiese al Duca istruzioni per risolvere un caso scabroso: dopo le pressioni esercitate da Mosè sul genero, accusato di impotenza, perché divorziasse da sua figlia, quest'ultima aveva dato alla luce un bimbo, rivendicato, tuttavia, come proprio dalla moglie di Mosè. Nel 1459 il Duca intervenne affinché Mosè e Mazo di cessassero di essere fatti oggetto di ostilità e di essere ostacolati dai consoli cittadini nell'esercizio del prestito su pegno e, contemporaneamente, venne proposto ai funzionari del Comune di rimpinguare le casse ducali, multando un ricco ebreo, accusato di coabitazione con una cristiana, mentre l'ideatore del piano avrebbe trattenuto come ricompensa un quarto della multa.
   Qualche anno dopo, due monaci (o frati) di Pallenzona chiesero l'appoggio delle autorità per riavere i denari che sostenevano di avere dato ad un israelita tortonese.
   Nel 1470, 105 ebrei risultavano presenti alle nozze del figlio di Mazio (Meir) di Tortona ed un gruppo di nobili che desiderava partecipare alle nozze era stato da loro scacciato in malo modo, provocando il proposito del commissario di punirli, arricchendo, al contempo, il Tesoro. Inoltre, dalla testimonianza dei consiglieri comunali, risultò che, mentre veniva celebrato lo sposalizio, un gruppo di giovani aveva fatto irruzione in casa e nel banco di Mazio, rubandogli alcuni beni ed alcuni pegni, con la copertura di funzionari governativi che avevano mosso false accuse contro il prestatore. Il Duca, pertanto, intervenne a tutela di quest'ultimo, mentre, riguardo al primo episodio, ordinò che fosse chiarito l'accaduto e giustizia fosse fatta.
   Nel 1471 Madius (Meir) ricevette ordine dal Duca di recarsi a Piacenza, per far parte della commissione d'appello sulla ripartizione delle imposte. Nella absolutio ducale del 1471, figurava anche un non meglio identificato Magister di Tortona.
   Nel 1474 il Duca ordinò alle autorità di Tortona di non introdurre nessun cambiamento nel privilegio degli ebrei locali e, nel 1478, dispose di prendere le necessarie misure per proteggerli dalle ostilità provocate dai sermoni dei predicatori, durante la Quaresima e la Settimana Santa. Nel 1480 gli ebrei di Tortona, come quelli di una serie di altre località del Ducato, ricevettero ordine di recarsi a Piacenza per stabilire la ripartizione delle tasse dovute all'erario ducale.
   In tema di conversioni, nel 1483 vi fu quella di Michaela, vedova di Simone di Totona, che provocò a uno scontro con gli ebrei di Piacenza.
   Nel 1490, secondo il noto cronista Yosef ha Kohen, ebbe luogo, vicino a Tortona (in una località non meglio precisata), un episodio di accusa di omicidio rituale, simile a quello di Trento e, come a Trento, anche qui il fanciullo fu chiamato Bia Zannin e fu fatto oggetto di culto.
   Nel 1513 i governatori di una serie di città, tra cui Tortona, ricevettero ordine di fare un accurato censimento segreto di tutte le famiglie ebraiche residenti in loco, includendovi le informazioni sulla loro situazione finanziaria.
   Nell'elenco dei banchieri del Ducato, stilato nel 1522, a Tortona (indicata come Terdona) figurava operare tale Vita, mentre nel 1558 era titolare del banco tale Elia.
   Nel 1567, dalla dichiarazione del Podestà, si evince che non vivevano più ebrei a Tortona. Il governatore di Milano, in occasione del rimborso dei crediti ebraici nel 1595, dietro petizione di alcune città, tra cui Tortona, accordò tutto il mese di dicembre per il pagamento delle quote: tuttavia, Tortona si rifiutò di partecipare alla spesa, dichiarando che non vi abitavano più ebrei e che, pertanto, la questione relative alla loro espulsione o meno non la riguardava.
   Dalle testimonianze attualmente a disposizione, non risulta un'ulteriore presenza ebraica nella città. (Nella foto, la cattedrale di Tortona, edificata al posto di una sinagoga che fu demolita).

(Alessandria Oggi, 12 febbraio 2017)


Ritratto di famiglia con girasoli

di Alessandro Izzi

 
Ritratto di famiglia con girasoli
è in realtà il terzo capitolo di una ideale trilogia del silenzio e della parola che Vittorio Pavoncello ha iniziato già nel 1999 con Roma una breve eternità e che era proseguito poi nel 2010 con Il cielo come destino.
   Diciamo qui ideale perché ad essere centrale nel disegno di composizione dei singoli tasselli di questo interessante trittico non è semplicemente il tema comune della Shoah, ma il principio formale che sottende alla definizione delle scelte estetiche di volta in volta portate avanti.
   Del resto, a uno sguardo appena superficiale sui tre titoli, sorprende, in fondo, la straordinaria eterogeneità degli argomenti trattati, malgrado il comune sfondo doloroso degli orrori dei campi di sterminio. Se il primo tassello della trilogia, infatti, era una riflessione a tratti scorata della realtà romana prima e dopo la promulgazione delle leggi razziali e il secondo ricostruiva l'odissea dei profughi ebrei che cercavano rifugio nella nascente Israele, questo Ritratto di famiglia con girasoli, forte delle pagine bellissime di Wiesenthal che è l'aggancio letterario al disegno, si rivela una pregnante riflessione sul tema della colpa e del perdono.
   Al di là dell'evidente varietà tematica il principio di fondo che Pavoncello rintraccia in tutti e tre i titoli della trilogia è un nucleo comune che riguarda in specifico la persistenza dell'orrore e delle cause che l'hanno generato anche all'interno della società contemporanea. Il punto di vista dell'autore non è quindi vuotamente museale né si pone nella posizione della semplice commemorazione da svolgersi nell'occasione comandata (come molte, troppe, produzioni relative alla Memoria), ma riflette con insistenza disturbante sulle continuità tra l'atteggiamento razzista di allora e l'intolleranza nei confronti del diverso di oggi.
   Messa in scena di fantasmi che popolano il nostro vivere, i tre film sono, quindi, espressione di una perturbanza dell'inconscio collettivo, sale e aceto su una ferita che non si è ancora rimarginata per la semplice ragione che il nostro contesto culturale ha preferito ignorarla, rimuoverla a porla nello statuto di un'odiosa amnesia collettiva.
   Non è un caso che in queste opere sia così portante la messa in scena di un trauma che, addirittura in Roma una breve eternità prende la forma della seduta psicanalitica in cui spettri del passato riversano nel presente, rispecchiandovisi, identiche ipocrisie e reticenze.
   Per far fronte a tanta messe di suggestioni e a tanta complessità di sovrapposizioni tra privato e pubblico tra sociale e culturale, il linguaggio cinematografico da solo non basta più ed ecco che nei tre film Pavoncello, alla ricerca di un'utopica fusione tra la dimensione passivizzante della ricezione cinematografica e quella invece brechtianamente attiva del teatro, avvera un'interessante crocevia di diverse istanze estetiche.
   Posto a metà strada tra teatro e cinema, tra musica e pittura, il cinema di Pavoncello aspira alla dimensione di unicum che disturbando invita alla riflessione e mostrando impone nello spettatore il bisogno di una presa di posizione che sia anche azione.
   In Ritratto di famiglia con girasoli, nella messa in scena di una famiglia distrutta dalle ombre della Shoah, dilaniata dal conflitto tra un figlio neonazista e il fratello che non trova risposta agli interrogativi del passato, questa riflessione passa per una ridefinizione dello spazio memoriale.
   Il racconto prende le mosse in una casa strategicamente a metà strada tra il ghetto da dove furono deportati gli ebrei romani e il carcere di Regina Coeli da dove furono invece prelevati gli ebrei destinati all'eccidio delle Fosse Ardeatine. Qui in questo spazio ponte, la casa è solo un insieme di muri che nascondono scheletri negli armadi e scomode verità che si vorrebbe nascondere a se stessi prima ancora che agli altri.
   In questo quadro silenzi e parola (e non, come di solito, silenzio e parole) tessono un complesso ordito che aspira alle altezze di un contrappunto filosofico sugli orrori della storia e i mostri che nascono dalla rimozione di scomode responsabilità.
   Sullo sfondo l'estremo nitore della posizione di Wisenthal che ha dedicato la sua esistenza al perseguimento di una giustizia sempre lontana dalla semplice vendetta e capace di illuminare l'ordinario squallore del semplice sopravvivere al passato.
   Seguendo un disegno a tratti volutamente ostico, ma sempre assolutamente rigoroso Pavoncello ci consegna un ritratto non pacificato del nostro rapporto con il passato e ci lascia con il disperato bisogno di guardare in faccia il nostro presente costruito sulle macerie senza indulgenze o false ipocrisie.

(close up, 12 febbraio 2017)


Città Santa del fotografo

di Laura Leonelli

Yehuda Amichai, il grande poeta israeliano, diceva che per capire Gerusalemme «bisogna guardare le vetrine dei negozi dei fotografi, e osservare gli sposi e il loro tenero ab braccio, una classe di bambini abbagliati dalla luce e dal futuro, i vecchi nello splendore della loro memoria, e poi un ragazzo e una ragazza soldato, chiusi nel profilo pesante della cornice. Che l'invenzione di Daguerre aiuti ad avvicinarsi ali' enigma di questa città unica al mondo, lo conferma l'origine stessa della parola fotografia, che al suo apparire nel XIX secolo venne tradotta in ebraico con il termine Tselem Or, immagine di luce. Ma anche l'uomo era stato creato a immagine, di nuovo Tselem, di Dio e risultò quindi che la fotografia fosse una copia della copia della potenza divina.Sull'onda di questa esegesi così lusinghiera, l'ultima edizione di Open House Jerusalem - che ha luogo ogni anno ed è un modo inedito di scoprire la Terra Santa, grazie al sostegno del Ministero del Turismo di Israele, del Comune di Gerusalemme e di El Al - ha inserito in una collezione di edifici storici e case private da visitare in libertà anche il negozio di Elia Kahvedjian, Elia Photo Shop, inaugurato nel 1949 nel quartiere cristiano, e ancora oggi attivo grazie agli eredi del famoso fotografo armeno.
  Eppure, al suo annuncio nel 1839 la fotografia era stata accolta con sospetto dagli abitanti della Città Santa, come ricordano Shimon Lev, Lavi Shay e Meier Appelfeld, autori del bel volume Camera Man. Women and Men Photograph Jerusalem 1900-1950. Al contrario i fotografi europei si erano precipitati a immortalare le bellezze del Vecchio e Nuovo Testamento, e aprendo i negozi lungo la Jaffa Road e nella Cittadella avevano cominciato a ritrarre i turisti, vestiti da beduini e portatrici d'acqua, e poco dopo gli stessi residenti, ebrei, musulmani e cristiani. I primi fotografi locali furono invece armeni e spetta a Yessayi Garabedian, sacerdote, battezzare la tradizione fotografica di Gerusalemme, tanto che una volta divenuto Patriarca nel 1865 allestì sul tetto del suo monastero uno studio fotografico, attivo per vent'anni. Nel 1898 un suo allievo, Garabed Krikorian, si unì ai fotografi dell'American Colony per documentare la visita dell'imperatore Guglielmo II in Terra Santa. Ancora un passo e all'epoca del Mandato in Palestina, gli inglesi ampliarono il catalogo dei soggetti, e accanto alle immagini di propaganda dei missionari cristiani e dei nuovi insediamenti ebraici, apparvero le prime fotografie aeree e un timido inizio di fotogiornalismo. Era il 1917.
  Contemporaneamente a Urfa, nel sud della Turchia, un bambino armeno assisteva all'uccisione della sua famiglia per mano dei Giovani Turchi. Sembra incredibile, ma di questa e di altre esperienze che avrebbero potuto alimentare un odio infinito, non vi è traccia nelle fotografie "candide" che un giorno quello stesso bambino avrebbe realizzato a Gerusalemme. Elia Kahvedjian era arrivato nella Città Santa a sedici anni, nel 1926, dopo un lunghissimo viaggio. A cinque, vittima del genocidio, si era incamminato lungo la marcia della morte attraverso il deserto siriano. Per salvarlo la madre lo aveva affidato a un mercante curdo, che per due soldi d'oro lo aveva venduto come schiavo a un maniscalco di Mardin, a sua volta costretto dalla nuova moglie a ributtare il bambino in strada. Mendicando, Elia era sopravvissuto alla carestia e dopo quattro anni era tornato nella sua città natale, Urfa, accolto in un orfanotrofio. Della sua famiglia non sapeva più nulla, neppure il cognome. Ricordava solo che il padre vendeva caffè, kahve in turco, ed a quella parola, nella lingua ormai nemica, era nata la sua nuova identità, Kahvedjian.
  Le peregrinazioni continuano ed Elia, assistito dall'American Near East Relief Foundation, si ritrova in Libano e poi a Nazareth, dove un insegnante, colpito dalla sua abilità nel disegno, lo presenta a Krikor Boghosian, fotografo, anche lui armeno. L'incontro è illuminante. Tappa successiva, lo studio fotografico dei Fratelli Hananya, cristiani di Gerusalemme. In poco tempo il giovane assistente di straordinaria bravura rileva l'attività e sul biglietto da visita si legge Elia Photo Service. Approved military photographer n. 7. Anni dopo, osservando una foto di gruppo, il figlio, Kevork Kahvedjian, scoprirà che il padre apparteneva alla Massoneria inglese e forse per questo due giorni prima dello scoppio della guerra arabo-israeliana, un ufficiale britannico suggerisce a Elia di chiudere lo studio e di rifugiarsi altrove. L'archivio dei negativi, caricato su due camion militari, viene nascosto in una cantina lungo la Via Dolorosa.
  Nel 1949 Elia riapre il negozio, oggi gestito dal nipote allo stesso identico indirizzo, al 14 di Al-Khanka Street. Nel 1987 Kevork e sua moglie decidono di fare pulizia nella vecchia cantina non lontano da casa. Dal buio riemerge un tesoro di tremila negativi scattati dalla fine degli anni '20 alla metà degli anni' 40. Persino Elia, conosciuto da tutti come "il fotografo invisibile" per la sua discrezione e velocità, si era dimenticato di quelle fotografie, prese durante il fine settimana per puro piacere. Pochi mesi e nella sala dell'American Colony Hotel, nella vetrina di Elia Photo Shop e in un bellissimo libro, Jerusalem through my Jather's eyes, splendono le immagini di una ragazza gitana, di un ciabattino musulmano, di una bambina armena alla fonte, quindi di un gruppo di arabi intorno a un piatto di humus, e poi di un monaco all'ingresso del Santo Sepolcro, e di una fila di ebrei al Muro del Pianto, dove negli anni '30 uomini e donne pregavano ancora insieme. Infine appare lo Zeppelin che sorvola e riprende la Città Vecchia, prima di dirigersi verso il Sud America. Se Yehuda Amichai fosse passato di lì, guardando la vetrina del negozio di Elia Kahvedjian, avrebbe visto una Gerusalemme luminosa, di tutti, Tselem divina e umana di una possibile pace.

(Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2017)


I nuovi barbari

Nazionalismo, crisi demografica, islam, debito pubblico, ipertrofia, panem et circenses: il crollo dell'antica Roma un monito per l'Europa d'oggi. Parla lo storico David Engels.

di Giulio Meotti

Tante sono le somi- glianze: "Disoccupa- zione, immigrazione, fondamentalismo,
crisi della famiglia, tecnocrazia, Molenbeek"
"L'assurdo è che, mentre la cultura europea si sta diffondendo in Asia e in Africa, l'Europa diventa sempre meno europea" "Non è l'islamismo che frattura l'Europa, ma l'autoscioglimento della cultura occiden- tale che porta all'ascesa dell'isla- mismo" "Come l' Ue, anche il mio paese, il Belgio, cerca di escludere tutti i riferimenti alla storia, alla cultura, alla tradizione e alla religione"


Le cause della decadenza di Roma costituiscono un tema dominante del pensiero storico dal mondo antico ai giorni nostri, quasi un paradigma. Ma è vero anche che nelle storie di quella decadenza gli europei occidentali amano rispecchiarsi. Uno storico belga, David Engels, legge la storia di Roma come un ammonimento all'Europa contemporanea. Engels lo ha appena detto al maggiore quotidiano austriaco, Kronen Zeitung: "Seguiremo l'esempio della decomposizione della Repubblica romana. Proprio come la tarda Repubblica romana, anche l'Europa si trova su un vulcano che può scoppiare in qualsiasi momento".
  Docente di Storia romana alla Libera Università di Bruxelles, un bastione del secolarismo intellettuale, Engels su questo tema ha scritto anche un libro affascinante, "Le déclin". Nel recensirlo, il Monde scrive che "la parte più incisiva del libro sta nella critica di una concezione disincarnata della costruzione europea". Engels, infatti, nel saggio spiega che "il disperato e infruttuoso tentativo di rifiutare i valori tradizionali del passato e costruire una nuova identità collettiva europea basata su ideali universalistici è più un sintomo della crisi che la soluzione".
  Apriamo l'intervista a Engels partendo dai motivi del suo pessimismo. "Perché la storia sembra ripetersi e non vedo nulla di buono per le prossime generazioni di europei", dice lo storico belga al Foglio. "Ovviamente, come storico, evito di pensare in termini di pessimismo e ottimismo, e non ho una agenda politica tale da sviluppare uno sguardo realistico e pragmatico. La mia prospettiva specifica sulla storia è condizionata dal metodo delle analogie storiche, ovvero sono persuaso che il presente e il futuro possano essere meglio compresi paragonandoli a periodi simili del passato. Nel mio libro, 'Le déclin'. La crise de l'Union europèenne et la chute de la République romaine', ho cercato di spiegare che la presente crisi della società occidentale riflette gli ultimi decenni della Repubblica romana: disoccupazione di massa, polarizzazione sociale, declino demografico, globalizzazione, materialismo; immigrazione di massa, cosmopolitismo, individualismo, scomparsa della tradizione religiosa, fondamentalismo, declino della famiglia, tecnocrazia, guerra asimmetrica, politicamente corretto, populismo, spesa sociale, apolitismo, debito pubblico, lobbismo e una cultura basata su 'panem et circenses'. Questi paralleli sono, ovviamente, poco lusinghieri per il presente, e le analogie sono così ovvie e pericolose che penso andremo incontro allo stesso destino della Repubblica romana ".
  Engels: continua con la rievocazione. "Negli ultimi decenni della Repubblica romana, ossia a metà del Primo secolo a. C., era diventato evidente che lo stato romano non era più in grado di affrontare le numerose crisi che ho appena elencato e impostare le riforme politiche, istituzionali ed economiche necessarie per la propria sopravvivenza. Infatti, da un lato, l'élite senatoriale ricca e potente si era sclerotizzata nelle proprie rivalità interne nonché nell'impossibilità costituzionale di prendere decisioni a lungo termine. D'altra parte, l'ascesa di politici populisti, come Catilina o Clodio, aveva contribuita a destabilizzare ulteriormente l'intera sistema attraverso l'emanazione di leggi demagogicbe e pericolose. In combinazione alla crescente insoddisfazione e alla povertà della gente, questo alla fine ha portato al disastro economico e politico, allo scoppio della decennale guerra civile e, alla fine, all'ascesa al potere di un individuo, Augusto, che ha restaurato legge e ordine, ma al prezzo della libertà politica. Temo che questo possa essere il modello esatto del destino dell'Europa nei prossimi due o tre decenni: un immobilismo crescente, l'ipocrisia e la corruzione delle élite politiche, la compromissione degli ultimi residui di stabilità attraverso la rivolta delle masse, e un aumento di movimenti populisti ovunque in occidente (Trump è solo l'inizio), il tutto portando a una graduale perdita di controllo dello stato e allo scoppio della grande guerra civile".
  Contrariamente a Roma, però, Engels non si aspetta la guerra tradizionale, quanto la guerriglia stile Molenbeek, il nido jihadista di Bruxelles: "Sarà piuttosto una situazione in cui gran parte delle città saranno dominate da milizie in competizione e da gruppi religiosi, in cui la legge ufficiale diventerà cosi inefficace che i problemi saranno regolati con i capi locali, dove la sicurezza sociale diventerà più o meno inesistente e la differenza tra ricchi e poveri aumenterà ancora di più, e dove l'odio tra i fondamentalisti, i gruppi europei e gli immigrati porterà a continui atti di terrorismo. Tutto questo porterà alla rovina economica dell'Europa e, alla fine, quando la gente sarà diventata cosi disperata da pensare di non avere nulla da perdere, all'affermarsi della dittatura. Come Augusto con la sua 'Res publica restituita, questo nuovo governo proclamerà il 'restauro' della democrazia, della legge e dell'ordine, ma, in realtà, avrà istituito un governo autoritario di lunga durata, non dissimile dalla Russia di Putin. E come a Roma, temo che la gente applaudirà, piuttosto che opporsi ad essa".
  Engels indica il paradosso della cattiva coscienza europea. "Ancora una volta, come storico, credo che il nostro stato politico mentale attuale, caratterizzato da insicurezza e cattiva coscienza, debba essere visto in una prospettiva a lungo termine, e mi sembra interessante notare che nel mondo antico tardo-ellenistico e tardo-repubblicano vediamo uun'evoluzioneabbastanza simile. Sappiamo che a Roma anche la legittimità di espansione imperiale è stata fortemente discussa, che le differenze etniche o culturali sono state criticate e sostituite dalla fede nel cosmopolitismo e nell'umanesimo, e la religione tradizionale è stata combattuta nel nome della ragione e della logica. Naturalmente, la contemporanea 'correttezza politica' è molto più influente di duemila anni fa, a causa delle esperienze traumatiche delle guerre mondiali e della decolonizzazione, e ha raggiunto un grado di disgusto di sé abbastanza unico nella storia, tanto che è diventata una corrente di pensiero criticare la cultura occidentale in tutti i suoi aspetti - politica, religione, cultura, economia, ecc. - per i suoi precedenti crimini storici e chiedere scusa per la nostra mera esistenza, mentre, allo stesso tempo, siamo invitati a valorizzare, a volte anche ad abbracciare, culture straniere al fine di mostrare la nostra 'tolleranza' e la redenzione. Questa antinomia mi sembra molto pericolosa, tanto più che la presunta 'apertura' è in ultima analisi basata sulla prospettiva eurocentrica, dove i valori occidentali specifici e ancora abbastanza giovani - la democrazia rappresentativa, l'ultra-liberalismo, il secolarismo, il materialismo, la radicale uguaglianza di genere - sono unilateralmente considerati come diritti 'umanisti' onnicomprensivi e più o meno brutalmente imposti in tutto il mondo sui popoli e culture con una prospettiva molto diversa su come una società ideale e armonica dovrebbe essere".
  Qui entra in gioco un paradosso: "Il risultato assurdo è che, mentre la cultura 'europea' si sta diffondendo in Asia e io Africa e fa scattare risentimenti crescenti, la stessa Europa e sempre meno europea, diventando la casa di gruppi stranieri che vogliono beneficiare delle straordinarie opportunità materiali offerte dalla nostra società, mentre sono paradossalmente rafforzati nel loro desiderio di non essere assimilati da un'interpretazione di ciò che 'tolleranza' dovrebbe significare".
  E' l'islam che sta fratturando il sistema europeo o è l'emergenza islamista una conseguenza della faglia? "Nel mio punto di vista comparativo, non è l'islamismo che frattura il progetto europeo, ma piuttosto l'autoscioglimento della cultura occidentale che sta portando in tutto il mondo all'ascesa di gruppi religiosi o movimenti identitari che cercano di opporsi a ciò che percepiscono come la decadenza, aggrappati a una interpretazione tradizionalista dell'identità, spesso totalitaria. In questa prospettiva, l'islamismo radicale mi sembra in continuità diretta con i movimenti anarchici, comunisti e fascisti della prima metà del XX secolo, e non c'è da meravigliarsi che la guerra civile siriana assomigli in molti aspetti alla Guerra civile spagnola degli anni Trenta: i giovani delusi dalla superficialità spirituale e intellettuale della loro società, disgustati dalla ingiustizia del sistema politico e giuridico, ed esclusi dalla mobilità sociale, sviluppano un nuovo, 'totale' sistema utopico di pensiero in cui ognuno ha il proprio posto. La differenza principale sembra, ovviamente, il fatto che l'islam è in qualche modo 'importato' in Europa da gruppi esteri. Tuttavia, è da notare che la maggior parte dei terroristi fondamentalisti ha goduto di una socializzazione tipica occidentale, e che sempre più giovani europei che vivono nella periferia tentacolare delle nostre megalopoli si stanno convertendo all'islam al fine di trovare un nuovo senso di appartenenza sociale e la spiritualità della loro vita che la cultura occidentale con il suo materialismo, l'individualismo e l'ipocrisia, non sembra in grado di fornire. In questa prospettiva, l'ascesa dell'islam e la lenta scomparsa delle forme tradizionali di cristianesimo, cattolico e protestante, è l'esatto equivalente morfologico delle religioni orientali che hanno sostituito lentamente il declino della religione romana repubblicana nel Primo secolo a. C. e nel Primo secolo d. C. Le prime sette cristiane nutrivano ostilità radicale verso la società pagana e desideravano cercare la propria morte, al fine di ottenere il paradiso ...".
  Nel romanzo "Cuore di tenebra", Joseph Conrad definì Bruxelles la città dei sepolcri imbiancati. Il caso belga insegna qualcosa sul destino dell'Europa? "Appartengo alla minoranza di Lingua tedesca del Belgio, quindi il mio punto di vista è, in una certa misura, la prospettiva di un estraneo e non può essere totalmente rappresentativo", conclude Engels in questa intervista al Foglio. "Tuttavia, spesso mi chiedo se la decisione dell'Unione europea di istituire la maggior parte delle sue istituzioni in Belgio sia stata davvero una buona idea, o fino a che punto alcuni problemi o modelli di comportamento tipici del Belgio potrebbero rovesciarsi sull'Unione europea. Cosi, esattamente come l'Unione europea, il Belgio ha a che fare con il problema di come definire la propria identità e il modo di mediare tra gli interessi contrapposti dei suoi principali gruppi di popolazione, e cerca di escludere tutti i riferimenti alla storia, cultura, tradizione e religione. Esattamente come l'Unione europea, i politici belgi hanno anche sviluppato una vera e propria maestria nell'arte del compromesso e del 'bricolage' istituzionale, che è quello di non prendere mai una decisione vera ma piuttosto di spingere i problemi sempre crescenti da una legislatura all'altra, con il risultato negativo che la loro soluzione diventa semplicemente a poco a poco impossibile. Esattamente come l'Unione europea, e in nome della sussidiarietà e del federalismo, il Belgio troppo spesso ha sviluppato le sue istituzioni ufficiali fino a un tale grado di complessità e di ipertrofia che è diventato assolutamente impossibile realizzare una riforma a lungo termine o di reagire adeguatamente alle numerose minacce dei tempi pericolosi in cui viviamo. Inoltre, esattamente come l'Unione europea, il Belgio ha messo a punto una politica di frontiere aperte e di multiculturalismo e, grazie alla sua complessità interna, è diventato un obiettivo del terrorismo islamico. E, infine, esattamente come l'Unione europea, il Belgio, invece di ammettere apertamente i suoi numerosi problemi interni, continua a promuovere una immagine di sé grandiosa e anacronistica composta da un curioso misto di ricordi di tempi ormai passati quando il Belgio è stato tra i paesi più sviluppali del mondo, e da un orgoglio pieno di sé, della propria tolleranza e 'correttezza politica' tale che, paradossalmente, cresce nella stessa misura in cui la società belga è piagata da terrorismo, criminalità e populismo".
  Dopo la Repubblica fu l'Impero. E nel giro di una sola generazione il crollo. Cominciò con un affanno fatto di incubi mascherati, ansie, presentimenti, lucidità dolente, nostalgie e cattiva coscienza. Sotto l'apologia, si sentiva il tedio del presente e la paura del futuro. E anche questa fase successiva ci appare come il dejavù di un'epoca del disincanto, fatta di disperata rinunci a ed elegante scetticismo, che tiene di mira l'Europa contemporanea.

(Il Foglio, 12 febbraio 2017)


Israele attaccata con tre razzi da Isis egiziana

di Marica Lieto

Attacco su Eilat, il porto israeliano sul Mar Rosso. Lo ha detto il portavoce militare. La città turistica ha vissuto attimi e momenti di paura, le sirene hanno suonato l'allarme, non ci sono al momento vittime, feriti o danni. Sirene, terrore in città. Secondo quanto riferiscono i media di Gaza rilanciati dal Jerusalem Post, la propaggine dell'Is attiva nel Sinai sarebbe responsabile della raffica di razzi lanciati contro Eilat, nel sud dello Stato ebraico. Lo Stato Islamico ha rivendicato il lancio di razzi dall'Egitto a Israele avvenuto nella notte. Già nel 2012 un razzo Grad era esploso a Eilat, proveniente dal Sinai. Poche ore prima, in seguito alla cannonata di un tank siriano sulle Alture del Golan occupate e annesse da Israele, l'esercito israeliano aveva risposto colpendo una postazione dell'esercito di Damasco dall'altra parte del confine. Due anni prima dalla Penisola era stata attaccata la città giordana di Aqaba, che si trova davanti alla gemella israeliana.

(ReggioNotizie, 11 febbraio 2017)


Turismo, l'Italia è una delle mete preferite dagli israeliani

Dorina Bianchi, Sottosegretario per i Beni culturali ed il Turismo
Si è conclusa la visita in Israele del Sottosegretario per i Beni culturali ed il Turismo, Dorina Bianchi. La missione si e' svolta in concomitanza con la fiera turistica israeliana di maggiore rilevanza (International Mediterranean Tourism Market, IMTM). Nel 2016 il settore turistico in Israele ha visto una crescita costante e gli operatori italiani del settore mostrano sempre maggiore interesse per il mercato israeliano, caratterizzato da una propensione al viaggio tra le più elevate al mondo. L'Italia è una delle mete preferite dai turisti israeliani, attirati in modo particolare dal patrimonio culturale, dal settore moda e dall'enogastronomia. L'attenzione del pubblico israeliano verso l'Italia è in costante aumento anche grazie alle numerose iniziative mirate e di sistema effettuate dalle istituzioni italiane in Israele (Ambasciata, ICE, Camera di Commercio, Istituti di Cultura).
   La partecipazione delle aziende italiane alla Lera IMTM è infatti in continua crescita (quest'anno 14 aziende lombarde e venete, tra cui spicca Gardaland, il grande parco divertimenti sul Lago di Garda) . "Dobbiamo potenziare sempre di più i legami tra Italia e Israele sul piano del turismo con la promozione di iniziative congiunte. La presenza dell'Italia all'International Mediterranean Tourism Market (IMTM), la Lera turistica israeliana di maggiore rilevanza, è riprova di questo rapporto consolidato che negli ultimi dieci anni ha visto crescere del 3,9% l'interscambio tra i due Paesi". E' quanto il Sottosegretario Bianchi ha ribadito a margine dell'incontro bilaterale con il ministro israeliano Levin nel corso dell'International Mediterranean Tourism Market. "Nel corso del bilaterale - ha continuato il Sottosegretario - abbiamo concordato che per incrementare i rapporti bisogna puntare su iniziative in materia di turismo religioso ma non solo, soprattutto promuovendo triangolazioni di viaggiatori provenienti da Paesi terzi attraverso pacchetti congiunti promozionali partendo dall'estremo oriente e dall'America Latina, aree di grosso interesse per entrambi i Paesi. Lavoreremo poi per istituire concreti meccanismi di lavoro tra il MiBACT e gli UfLci per il Turismo israeleiani". " Israele è un Paese accogliente e amico dell'Italia. Analogamente l'Italia è un Paese sicuro e viene percepito come tale anche in Israele. Questo è un valore aggiunto per rinforzare i rapporti tra i due Paesi", ha concluso.

(Il Fogliettone, 11 febbraio 2017)


Da oggi riapre per tre giorni il valico di Rafah

IL CAIRO - Le autorità egiziane hanno riaperto oggi il valico di Rafah, al confine con la Striscia di Gaza, per tre giorni. Lo ha reso noto l'ambasciata palestinese al Cairo in un comunicato. Il valico sarà riaperto da entrambi i lati fino a lunedì 13 febbraio per motivi umanitari. Il passaggio di Rafah costituisce l'unico accesso al resto del mondo per i palestinesi di Gaza, ma nel corso degli ultimi tre anni è rimasto chiuso per la gran parte del tempo per ragioni di sicurezza. Il governo egiziano del presidente Abdel Fatah al Sisi, infatti, accusa il movimento palestinese di Hamas di sostenere i presunti terroristi che compiono attacchi nella regione del Sinai. Nel 2015, il valico di Rafah è stato chiuso per 344 giorni. Tuttavia, l'apertura del passaggio è stata più regolare nel 2016.

(Agenzia Nova, 11 febbraio 2017)


Milizie iraniane nella lista nera Usa del terrore

È la proposta che Trump farà mercoledì al premier israeliano Netanyahu in visita

di Fiamma Nirenstein

A 38 anni esatti dalla presa del potere degli ayatollah sull'Iran, la canzone nella piazza di Teheran è sempre la stessa: «morte all'America». Le agenzie locali danno a centinaia di migliaia i manifestanti, l'aria è sempre più arroventata da quando Donald Trump è diventato lo scomodo interlocutore che ha minacciato di cancellare il «pessimo accordo», così l'ha chiamato, sul nucleare, che in verità fa acqua da tutte le parti.
   Il trattato del luglio dell'anno scorso registra delle violazioni, i missili balistici che, come minaccia Khamenei «possono colpire Tel A viv in sette minuti» seguitano a essere sperimentati e a aspettare una testata nucleare degna di tanta potenza. I sorrisi diplomatici del ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif stanno svanendo nell'aria come il sorriso del gatto di Alice: il tempo e i fatti hanno fatto scolorire la mano tesa di Obama, si profila all'orizzonte una stretta di mano speciale, quella che il 15 vedrà a Washington a discutere insieme il presidente Trump e il primo ministro israeliano Netanyahu, e certo l'Iran sarà il primo argomento in agenda.
   Fonti della Casa Bianca svelano una proposta americana di mettere nella lista nera delle organizzazioni terroriste proprio la Guardia Rivoluzionaria Islamica stessa, la spina dorsale del regime. Una milizia di 125mila uomini, padroni delle guerre iraniane, che controlla i 90mila basiji addetti al fronte interno, guidano le azioni terroriste, gestisce i fronti di Siria, in Iraq, in Libano, in Yemen, si occupa dei propri proxy hezbollah e hamas, porta la bandiera della distruzione antisemita. Sono credenti sciiti di diamante, che hanno represso nel sangue il disperato tentativo insurrezionale del popolo nel 2009 per cambiare il regime.
Un rapporto americano dell'Istituto per lo Studio della Guerra ha spiegato che l'Iran sta trasformando la sua struttura militare (esercito regolare e Guardia rivoluzionaria) per affrontare guerre a centinaia di chilometri dai suoi confini. Questa capacità che hanno pochissimi Stati nel mondo cambierà l'equilibrio del potere in Medio Oriente. Dice il rapporto che la leadership militare ha dislocato sia la Guardia, che i basiji in Siria in modo sperimentale, così da esporre una porzione significativa delle sue forze a questo tipo di guerra. L'Iran si appresta così a un ruolo fisso di superpotenza, di conquista; si stacca dalla preparazione delle sue forze per la guerra asimmetrica e costruisce una forza convenzionale, un vero grande esercito.
   Teheran ha già saputo dispiegare migliaia di soldati di tutte le sue unità in un'operazione di 15 mesi in Siria: ha ottenuto un grande successo e si propone di usare la sua forza come deterrenza verso Israele e gli Usa mentre sa che può cambiare qualcosa anche con gli alleati russi: la rivoluzione islamica iraniana è quella che nei progetti di Khamenei e odierni riporterà il Mahdi, il loro profeta nascosto, alla conquista del mondo, e l'apocalisse non fa paura, anzi, è benvenuta.
   L'Iran, col disegno implacabile di un ruolo imperialista e antisemita è in lizza con chiunque non sia dalla sua parte, in prospettiva persino con Putin, che sa benissimo, meglio dell'Unione Europea, che fare affari con una banda enorme e determinata come la Guardia alla lunga contrasterà non solo con i suoi fini, ma impedirà ogni accordo con la componente sunnita del Medio Oriente. Sarà una guerra continua fatta di stragi oltre anche il 40o compleanno iraniano, a meno che Trump e Putin non convengano per arginare lo strapotere degli ayatollah.

(il Giornale, 11 febbraio 2017)



I rotoli del Mar Morto e la dodicesima grotta

Scoperto dagli archeologi a Qumran, in Cisgiordania, un nuovo sito con tracce della presenza di altri manoscritti millenari. È il primo dopo oltre 60 anni.

di Michelle Z. Donahue

 
L'esterno della grotta trovata sulle alture rocciose del Qumran che conserva tracce di antiche pergamene
 
Vasi nascosti nella roccia e fatti a pezzi
 
Frammenti di pergamena senza tracce di scrittura
La scoperta di una dodicesima grotta collegata al ritrovamento dei cosiddetti Rotoli del Mar Morto può fornire agli studiosi nuovi mezzi per scoraggiare i saccheggiatori e, allo stempo tempo, individuare falsi degli antichi documenti.
Un gruppo di archeologi della Università Ebraica di Gerusalemme e della Liberty University ha scavato un nuovo antro che ospitava manoscritti. Era dal 1956, ossia più di 60 anni, che i ricercatori non identificavano nuovi siti collegati ai preziosi documenti e le tracce, in quest'ultimo, sono inequivocabili: la squadra israeliana ha trovato numerosi vasi che erano stati nascosti in alcune nicchie scavate nelle pareti della grotta, fatti a pezzi (foto) e con il contenuto, evidentemente, rimosso. Ma alcuni manufatti come cinturini di pelle e panni per avvolgere i rotoli e un paio di picconi arrugginiti risalenti agli anni '50, sono stati lasciati sul posto, segno che la grotta prima dell'evidente saccheggio, avvenuto alcuni decenni orsono, doveva contenere una nutrita collezione di pergamene conservate in vasi di creta.
"Gli studi indicano al di là di ogni dubbio che la grotta conteneva rotoli che sono stati rubati", ha dichiarato Oren Gutfeld, archeologo e direttore degli scavi per conto dell'Università Ebraica di Gerusalemme.
Il team di archeologi ha trovato anche frammenti di pergamena senza tracce di scrittura (foto in basso). "Questi manoscritti sono diventati ambiti, con prezzi molto elevati sul mercato antiquario", spiega Randall Price, archeologo della Liberty University che ha collaborato al progetto.
Gran parte dei reperti è finita in mano ai tombaroli che in questi anni hanno saccheggiato le grotte del Mar Morto.
L'Israel Antiquities Authority (IAA) ha arrestato in flagrante un numero crescente di cacciatori di antichità che tentavano di entrare nelle grotte, di solito nottetempo, afferma Price. L'aumento degli scavi illegali ha spinto la IAA a lanciare un'operazione di monitoraggio e studio, un rinnovato sforzo di individuare ed esplorare sistematicamente le grotte della regione. Lo scopo è quello di impedire che importanti conoscenze e testimonianze del mondo antico vengano cancellate dalla storia. "E ci sono altri 50 siti pronti ad essere indagati nell'area", aggiunge Price.

 Attenti al falso
  I rotoli del Mar Morto sono da molti ritenuti la più grande scoperta archeologica del XX secolo. Datati tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C. comprendono i più antichi manoscritti della Bibbia ebraica. I primi rotoli furono scoperti alla fine del 1946 o all'inizio del 1947 da pastori beduini in una grotta di Khirbet Qumran, sulla sponda Nord-ovest del Mar Morto. Da allora i ricercatori hanno rinvenuto oltre 900 manoscritti, per lo più su pergamena ma anche su papiro, in altre dieci grotte.
Negli ultimi 15 anni il mercato antiquario privato ha visto aumentare l'offerta di presunti frammenti dei manoscritti del Mar Morto, dice Lawrence Shiffman, professore di Studi Ebraici alla New York Universtity, un'autorità in materia, ma per la maggior parte si tratta di contraffazioni.
Alcuni testi sono stati riprodotti con perizia su pergamene antiche quanto i rotoli, spiega Schiffman. E' possibile che questi frammenti provengano dal saccheggio delle stesse cave.
Lo studio della pergamena priva di scritte (foto) che gli archeologi hanno trovato di recente può aiutare a far luce su questi falsi di "alta qualità" e a scoprire come sono arrivati sul mercato antiquario.
Rivelazioni e rivendicazioni
  La prospettiva di scoprire nuovi rotoli ha già dato adito a voci e speculazioni, ma Schiffman non si aspetta che sarà portato alla luce materiale fonte di ispirazione per romanzi alla Dan Brown, l'autore de Il codice da Vinci. "Non troveremo il diario dei tre saggi", scherza. "Potremmo più verosimilmente scoprire nuovi testi che ci aiutino a capire passaggi del Nuovo Testamento o la letteratura talmudica.
L'idea che venga fuori un "testo-bomba" a ribaltare le basi consolidate di questa antica religione non è affatto realistica. Né è realistico aspettarsi, secondo Schiffman, che Israele presti la benché minima attenzione alle rivendicazioni dei palestinesi, i quali sostengono che i rotoli del Mar Morto siano di diritto parte del proprio patrimonio culturale.
Le operazioni di ricerca e recupero dei rotoli, infatti, si svolgono in Cisgiordania, che palestinesi e Nazioni Unite considerano territorio occupato, e Israele nel 1954 ha firmato la convenzione Unesco che proibisce lo scavo e l'asportazione o rimozione di beni culturali di un paese da parte di occupanti stranieri. Ciò detto nessun governo di Israele rinuncerà mai al possesso delle più antiche copie dei testi sacri della Bibbia e della letteratura ebraica. Molto semplicemente, non accadrà.

(National Geographic Italia, 11 febbraio 2017)


E fu lite su Israele

1948, guerra fredda a Washington: il segretario di stato Marshall era contrario a riconoscere la nazione ebraica, ma vinse Truman

di Antonio Donno

La questione del medio oriente fu il caso più clamoroso di contrasto tra il generale salito al dipartimento di stato e il presidente Roosevelt riteneva che gli Stati Uniti non dovessero occuparsi della questione della Palestina, ma lasciarla nelle mani di Londra Gli esiti della guerra ponevano nuovi problemi per l'assetto del medio oriente. Gli interessi della Gran Bretagna e quelli dell' Urss Marshall e il dipartimento si adoperarono per affossare la spartizione. Le minacce arabe e la svolta di Ben-Gurion

Il 21 gennaio 1947 George C. Marshall divenne segretario di stato americano per volere del presidente Harry Truman. Il generale Marshall, da tutti considerato un eroe nazionale per aver comandato le armate americane durante il Secondo conflitto mondiale, fu chiamato a ricoprire una carica politica diversa dalle mansioni militari che fino a quel momento aveva svolto. Questa nomina, di primo acchito, lasciò perplessi i funzionari del dipartimento di stato, avvezzi ad avere al vertice un uomo politico. Ma Marshall portava con sé l'apprezzamento incondizionato di Roosevelt e questo era il dato politico che metteva a tacere qualsiasi discussione, dato che gli uomini del livello più alto del dipartimento di stato avevano servito durante le presidenze di Roosevelt. La vera questione era che questi uomini non avevano lo stesso concetto per il nuovo presidente, considerato un personaggio di secondo o terzo livello sul quale si spendeva una certa ironia. Truman lo sapeva bene e le sue memorie riferiscono della sua irritazione nei confronti dei subalterni, eredi della grandezza rooseveltiana e per questo dotati di una certa presunzione.
  La questione del medio oriente e soprattutto del progetto sionista di dar vita a uno stato ebraico in Palestina fu il caso più clamoroso di contrasto tra il dipartimento di stato e il presidente, contrasto che vide in prima linea George Marshall, che non aveva fatto mai mistero della sua contrarietà verso la politica sionista. Questa contrarietà si evidenziò non solo dopo la sua nomina a segretario di stato, ma fu una posizione che Marshall condivise con Roosevelt negli ultimi anni di vita del presidente. Roosevelt fu sempre contrario a una eventuale spartizione della Palestina e alla nascita di uno stato ebraico in quella regione. Marshall era di quest'avviso. Ripercorrere le fasi del suo pensiero su questo problema è importante per comprendere lo sviluppo della politica americana al proposito e il ritardo con cui Washington si espresse a favore della nascita di Israele a tutto vantaggio, momentaneo, dell'Unione sovietica.
  Il momento culminante del contrasto, il climax di mesi di contrapposizioni tra Truman e il suo consigliere speciale Clark Clifford, da una parte, e il dipartimento di stato, e Marshall in particolare, dall'altra, si verificò in un meeting del 12 maggio 1948, due giorni prima della dichiarazione d'indipendenza dello Stato di Israele. Si trattava di riconoscere il nuovo stato, atto finale della lunga marcia del movimento sionista verso la sua meta storica. In quella circostanza i nodi vennero al pettine. Clifford espose le ragioni, condivise da Truman, per le quali occorreva che Washington riconoscesse il nuovo stato ebraico; Robert Lovett, il sottosegretario di stato, quelle contrarie. A questo punto, Marshall obiettò che Clifford non dovesse far parte di quella riunione. Al che Truman rispose seccamente: "Generale, Clifford è qui perché gli ho chiesto io di essere qui". Marshall divenne paonazzo ma non osò obiettare. Questo episodio non è riportato - per ovvie ragioni - nel memorandum ufficiale dell'incontro, ma Clifford lo riporta nelle sue memorie ed è ormai inserito in tutte le ricostruzioni dell'incontro del 12 maggio. Washington, poi, riconobbe, ma solo "de facto" lo Stato di Israele, preceduta da Mosca, che lo riconobbe, invece, "de jure". Differenza sostanziale, che stava a indicare l'interesse dell'Unione sovietica a ottenere l'appoggio israeliano in funzione anti-americana nel contesto mediorientale.
  Ma, come si è detto all'inizio, l'opposizione del dipartimento di stato alla nascita di uno stato ebraico in Palestina risaliva ai tempi di Roosevelt. Roosevelt riteneva che gli Stati Uniti non dovessero occuparsi della questione della Palestina, reputando che dovesse essere demandata ancora alla politica di Londra dopo la fine della guerra. E' ben strano, tuttavia, che il presidente americano non avesse valutato per tempo le condizioni insopportabili, dal punto di vista economico, di fronte alle quali si sarebbe trovata Londra una volta terminato il conflitto. Eppure, lo stesso Churchill aveva messo in guardia Roosevelt sul problema della possibile ingerenza sovietica nella regione mediorientale: "Non dobbiamo essere troppo sicuri che la perdita dell'Egitto e del medio oriente non avrebbe gravi conseguenze", ma, nello stesso tempo, dichiarava di essere fortemente impegnato a difendere la causa sionista. L'atteggiamento ondivago di Churchill aveva una realizzazione pratica molto semplice in Roosevelt. Per tutti gli anni delle sue amministrazioni aveva più volte ricevuto delegazioni sioniste e arabe, alle quali aveva sempre promesso ciò che esse chiedevano, anche se si trattava di richieste opposte. Ma un punto era fisso: assicurava gli arabi che nulla si sarebbe modificato nella regione senza l'accordo tra le due parti, il che si traduceva nella possibilità per gli arabi di opporre sempre un diniego a ogni trattativa con i sionisti.
  Marshall concordava con il comportamento di Roosevelt. Nel febbraio 1944, due democratici, Sol Bloom, chairman del House Committee for Foreign Affairs, e Tom Connally, chairman della stessa commissione al Senato, presentarono una risoluzione a favore della più ampia immigrazione ebraica in Palestina e della creazione di un commonwealth ebraico nella stessa regione. Gli estensori richiedevano che la risoluzione fosse pubblica. Immediatamente il War Department entrò in allarme. Il segretario alla Guerra, Edward Stimson, riferì che avrebbe trattato la materia con il generale Marshall, il quale "era ansioso che la lettera non fosse resa pubblica". Marshall era dell'avviso che l'approvazione della risoluzione avrebbe portato a "un alto grado di tensione in Palestina". Ancora: "Non intendo esagerare le conseguenze che deriverebbero dall'adozione di questa risoluzione, [ma] penso che sia del tutto evidente che da un punto di vista militare si dovrebbe preferire che i cani continuino a dormire". In sostanza, Marshall e il War Department avanzavano critiche alla risoluzione esclusivamente sul piano bellico.
  Ma non era solo questo l'unico motivo dell'opposizione; altrimenti, finita la guerra, le ragioni belliche non avrebbero dovuto più rappresentare un motivo di contrasto. Invece, come scrive Clifford nelle sue memorie, "Truman e Marshall collidevano a proposito della politica mediorientale". Marshall, infatti, era sulle posizioni di Londra. La Gran Bretagna era dell'avviso che la Dichiarazione Balfour del 1917 e la risoluzione della Società delle nazioni del 1920 non avessero più senso, perché gli esiti della Seconda guerra avevano posto sul tappeto nuovi problemi relativi all'assetto del medio oriente. Naturalmente, dietro la posizione di Londra v'erano interessi precisi della Gran Bretagna a mantenere la propria egemonia sulla regione e sui suoi regnanti arabi, senza considerare che le condizioni politiche ed economiche di questa egemonia sarebbero venute meno alla fine della guerra. Da parte di Marshall e del dipartimento di stato ci si riferiva, invece, alle prospettive di una presenza sempre più incisiva dell'Unione sovietica nella regione. Per la verità, negli ultimi anni della guerra e nei successivi due-tre anni l'analisi sovietica sul mondo arabo era negativa. Secondo la dogmatica marxista, il mondo arabo non poteva rappresentare alcun vantaggio per la causa della rivoluzione mondiale dei lavoratori. Si trattava di regimi feudali, anacronistici, inservibili per la rivoluzione proletaria. Solo qualche anno più tardi Mosca muterà atteggiamento e sceglierà di avvicinarsi al mondo arabo nella sfida della Guerra fredda con gli Stati Uniti nella regione.
  Negli anni in cui l'Unione sovietica era ideologicamente lontana dai regimi arabi, Marshall non conosceva la dogmatica marxista, oppure prevedeva l'evoluzione sovietica riguardo alle dinamiche della Guerra fredda. Fatto sta che, fin dal febbraio 1944, Marshall era contrario a un'eventuale spartizione e alla nascita di uno stato ebraico in Palestina, per ragioni che muteranno nel corso degli anni fino alla drammatica seduta del 12 maggio 1948. Quando, il 21 gennaio del 1947, Truman nominò Marshall alla guida del dipartimento di stato, evidentemente riteneva che le posizioni del nuovo segretario si sarebbero acconciate sulle sue. Si sbagliava, perché, come si è detto, Marshall era ancora legato alle posizioni di Roosevelt a proposito della Palestina. Scrive Truman nelle sue memorie: "Mi rendevo sempre più conto che non tutti i miei collaboratori guardavano al problema della Palestina con i miei occhi". Marshall rientrava tra quei collaboratori, ai quali Clifford imputava una certa dose di antisemitismo, di cui, però, non v'è alcuna traccia nelle posizioni di Marshall.
  Eppure Marshall, dopo la sua nomina, non sembrò ostile alla spartizione e, quindi, alla nascita di uno stato ebraico. Quando, nel maggio del 1947, la United Nations Special Committee on Palestine (Unscop) approvò a maggioranza un documento che prevedeva la spartizione, Marshall lo approvò. Che cosa poi lo indusse a cambiare idea è una questione che non è esplicitata nei due libri di memorie che egli dettò a Rose Page Wilson (1968) e a Forrest C. Pogue (1991). Anzi, nei due libri non v'è traccia della questione della Palestina. Il primo segnale del suo cambiamento di rotta avvenne il 17 settembre, quando, parlando alle Nazioni Unite, Marshall si limitò ad affermare che gli Stati Uniti guardavano con eguale interesse alla relazione di maggioranza e a quella di minoranza. Ma, già nel marzo, Marshall aveva approvato un documento in cui si leggeva: "La posizione degli Stati Uniti è che il governo inglese è nella migliore posizione per determinare la natura della formulazione del problema che desidera presentare alle Nazioni Unite". Con queste parole, Marshall si piegava di fatto alle richieste di Ernest Bevin, segretario agli Affari esteri inglese, che nei mesi precedenti aveva letteralmente tartassato il dipartimento di stato con documenti contrari a qualsiasi ipotesi di spartizione. Da quel momento in poi, grazie anche alle pressioni dei suoi sottoposti, che condividevano le posizioni inglesi, Marshall divenne sempre più convinto delle ragioni di Londra e, soprattutto, di quelle del dipartimento di stato che dirigeva. E così, il 17 settembre, in una riunione della delegazione americana alle Nazioni Unite, Marshall gettò definitivamente la maschera e affermò che sostenere il documento di maggioranza dell'Unscop avrebbe scatenato la reazione del mondo arabo e provocato il suo passaggio dalla parte dell'Unione sovietica. Il che avvenne, ma non perché gli Stati Uniti avessero infine sostenuto la nascita di Israele (o, almeno, questo non fu il motivo principale), ma perché gli arabi vedevano negli Stati Uniti la continuazione del dominio coloniale inglese e nell'Unione sovietica il paese che avrebbe difeso i diritti dei popoli del Terzo mondo. Nasser fu sempre esplicito nel sostenere questa posizione.
  La situazione era tale che Truman aveva perso il timone della politica americana sulla Palestina. Il dipartimento di stato produceva documenti in continuazione, cercando di dimostrare l'inapplicabilità della risoluzione maggioritaria dell'Uunscop. Marshall non si scopriva con il presidente, ma approvava l'operato dei suoi sottoposti. Nella vastissima documentazione ufficiale è impossibile trovare un documento firmato da Marshall che si pronunci esplicitamente contro la spartizione. Ma gli esiti del confronto con il presidente non lasceranno dubbi sulla sua posizione. Il 19 marzo, il governo americano rese pubblico un documento in cui si raccomandava la sospensione della proposta di spartizione in favore di un temporaneo prolungamento del mandato sulla Palestina, da affidare questa volta alle Nazioni Unite. Il movimento sionista esplose di rabbia. Il responsabile di questo drammatico voltafaccia fu George C. Marshall.
  L'approvazione della spartizione nella seduta dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre 1947, voluta espressamente da Truman, non mutò l'atteggiamento del dipartimento di stato e dello stesso Marshall. Al contrario, Marshall e il dipartimento si adoperarono incessantemente per affossare la spartizione, contrastando la volontà del presidente. Marshall non fu leale con Truman.
  E così, nei mesi che seguirono la decisione delle Nazioni Unite, in cui Londra continuava a esercitare un ruolo di opposizione alla spartizione, i paesi arabi minacciavano di invadere il territorio assegnato agli ebrei e il dipartimento di stato tesseva la sua tela in combutta con gli inglesi, si giunse al fatidico 12 maggio 1948, in cui i nodi vennero al pettine all'interno del governo americano. Si può dire che, grazie a Ben-Gurion che, il 14 maggio, dichiarò la nascita di Israele, Marshall fu definitivamente sconfitto. Si dimetterà dalla sua carica, per ragioni di salute, il 7 gennaio 1949.

(Il Foglio, 11 febbraio 2017)


Crisi libica: la Casa Bianca blocca la nomina di un palestinese come inviato Onu

di Daniele Basili

Salam Fayad
REGGIO CALABRIA - La linea dura pro Israele del neo Presidente Donald Trump inizia a sortire i suoi effetti. Gli Stati Uniti d'America hanno posto il veto sulla nomina dell'ex premier palestinese Salam Fayad a nuovo inviato per la Libia, bloccandone l'iter di investitura all'Onu.
Gli Usa hanno bloccato la nomina dell'ex premier palestinese Salam Fayad come nuovo inviato dell'Onu per la Libia.
L'ambasciatrice statunitense, Nikki Haley, il cui mandato è cominciato il 27 gennaio, ha sottolineato che le Nazioni Unite sono state "per troppo tempo sbilanciate a favore dell'Autorità nazionale palestinese a discapito dei nostri alleati in Israele".
Haley si è detta anche "delusa" dalla scelta del segretario generale, Antonio Guterres, per la persona scelta per il delicato incarico, mettendo definitivamente la parola fine sulle voci che circolavano da alcuni giorni in merito alla scelta di Fayad.
La diplomatica ha ricordato che il suo Paese "non riconosce attualmente uno Stato palestinese e non è favorevole al segnale che questa nomina invierebbe in seno alle Nazioni Unite". "Andando avanti, gli Usa -ha aggiunto- agiranno, non solo parleranno in appoggio dei nostri alleati".
La polemica è scoppiata dopo che il Segretario Generale dell'Onu ha informato, con una missiva, il Consiglio di Sicurezza circa la sua intenzione di nominare Fayad in sostituzione del tedesco Martin Kobler, il cui mandato termina quest'anno. Una decisione che però non è mai stata resa pubblica e, dopo le parole di Haley, probabilmente non lo sarà mai.
La posizione americana è stata accolta con estremo favore da Israele, che ha fatto notare il cambio di passo rispetto all'era Obama. "Questo e' l'inizio di una nuova era nell'Onu, in cui gli Usa sono fermamente con Israele contro qualunque tentativo di danneggiare lo Stato ebraico", ha commentato in un comunicato l'ambasciatore israeliano, Danny Danon.

(infoOGGI, 11 febbraio 2017)


"Israele potrebbe non esistere più nella sua forma attuale entro i prossimi venti anni!"

Riportiamo questa notizia da un sito che ha un nome programmatico: "Palestina Felix". La massima felicità per loro naturalmente sarebbe la sparizione dello Stato d'Israele, quindi accolgono con piacere una "rosea" previsione di fonte imprevista: la CIA. NsI

di Suleiman Kahani

La CIA, di norma, è una ricchissima, avanzatissima, iperaddestrata agenzia di pasticcioni, che seminano "un milione di chicchi per raccogliere una spiga", quando non si impelagano in 'catastrofi perfette' come confermano eventi quali la Baia dei Porci oppure il rapporto secondo cui "L'Iran non è in una situazione rivoluzionaria e nemmeno pre-rivoluzionaria" (scritto sei mesi prima della cacciata di Reza Palhevi).
Il che non toglie che, a forza di grandi numeri, qualche volta "ci azzecchi" pure.
Speriamo che questo sia il caso del rapporto inviato dalla 'Compagnia' ad alcuni membri della Commissione Senatoriale per l'Intelligence nel quale si prevede che l'entità sionista occupante la Palestina "potrebbe non esistere più nella sua forma corrente entro i prossimi venti anni".
Personalmente chi vi sta scrivendo é sempre stato persuaso di questa tesi, ed è abbastanza stupito di trovare nell'analisi della CIA il primo e più importante parallelo storico di cui ha fatto uso più volte su queste stesse pagine per sostanziare tale sua convinzione.
Quello, ovviamente, col Sudafrica dell'Apartheid.
Anche in quel caso, un regime militarmente iper-forte (specie in relazione a chi ad esso si opponeva) si sciolse e si liquefò in breve tempo e scomparve, sostituito da uno Stato che, con tutti i propri limiti, cerca di essere una democrazia e sperimenta tassi di crescita economica tali da posizionarlo nella cerchia dei paesi emergenti (BRICS) del nuovo mondo multipolare che sta nascendo.
Nel rapporto CIA si legge che il consenso internazionale si sta gradatamente spostando dalla impossibile e impraticabile "Soluzione a Due Stati" (sulla cui irrealizzabilità ci siamo spesi più volte) alla possibilità di una "Soluzione a Uno Stato", che preveda, tra l'altro il "Diritto al Ritorno" per i profughi palestinesi e i loro discendenti.
Questo fatto, prosegue la relazione, potrebbe portare "di rimbalzo" a un contro-esodo di sionisti che si sposterebbero in Usa, Europa Occidentale e, in misura minore, in Russia.

(Palestina Felix, 11 febbraio 2017)


Cia sees end of Israel


Lancio di razzi su Eilat. Legami di Hamas con lo Stato del Sinai e Il Cairo

GERUSALEMME - Il lancio di razzi dalla penisola del Sinai verso la città israeliana di Eilat, avvenuto lo scorso 8 febbraio, giunge a poche settimane dagli incontri organizzati al Cairo tra funzionari dell'intelligence egiziana e rappresentanti del movimento palestinese di Hamas. Lo scorso 22 gennaio il numero due dell'ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha incontrato al Cairo il capo dell'intelligence egiziana, Khaled Fawzi. Mentre il 3 febbraio scorso è stato il capo di Stato maggiore delle Brigate al Qassam (braccio armato del movimento palestinese Hamas), Marwan Issa ad incontrare i funzionari della sicurezza egiziana. Inoltre, da tempo Hamas, che dal 2006 governa la Striscia di Gaza, è impegnata da un lato a combattere i gruppi salafiti attivi nel territorio palestinese. Dall'altro, tuttavia, il gruppo palestinese ha relazioni con i gruppi estremisti legati allo Stato islamico attivi in Sinai. Attraverso i tunnel che collegano i Territori palestinesi all'Egitto vengono smistate armi, come riferiscono diversi rapporti di analisi. Parallelamente il governo del presidente Abdel Fatah al Sisi è impegnato in una lotta contro il gruppo Wilyat Sinai, affiliato allo Stato islamico, ma noto fino al 2014 come Ansar Beit al Maqdis, che letteralmente significa "sostenitori della Città santa", ovvero Gerusalemme. Come sottolinea un rapporto del think tank "Carnegie Endowment for International Peace", i tunnel sono diventati negli anni anche un luogo attraverso cui passano beni di altro tipo, come il cibo, il carburante, a causa del blocco imposto dalle autorità israeliane. Il Cairo apre periodicamente il valico di Rafah proprio per consentire agli abitanti della Striscia di Gaza di rifornirsi di beni di prima necessità e ricevere cure mediche.

(Agenzia Nova, 10 febbraio 2017)


Israele d'inverno

di Riccardo Barlaam

Una settimana di stacco, dalla nebbia e dal freddo. Un viaggio in Israele d'inverno è una sorpresa: non troppo distante dall'Europa, con un clima mite, almeno nelle ore centrali del giorno, e tante cose da fare e da vedere, oltre a quelle solite a cui uno pensa quando si parla della Terra Santa.
   Prima tappa Gerusalemme, antichissima città adagiata sulle colline con tutti gli edifici dal caratteristico colore pietra. Città di contrasti e storia con i tre luoghi importanti per le tre religioni monoteiste - ebraismo, cristianesimo, islam - situati a poche centinaia di metri di distanza.
 
Segway tour a Gerusalemme
   Un modo diverso di girare la città vecchia, percorrere le sue antiche mura e il centro storico è uno smart tour guidato con il Segway: i giri partono dalla vecchia stazione ferroviaria dismessa dei tempi dell'impero ottomano, ora trasformata in area di street market e parco giochi, a poche centinaia di metri di distanza dall'Hotel King David e dal Mulino a Vento.
   Una visita merita il Mahane Yehuda Market, il mercato della frutta e verdura che, un po' come avviene in tante città europee, la sera si trasforma in una zona molto frequentata dai giovani con tanti chioschi che vendono cibo di tutti i tipi, a buon prezzo, per passare qualche ora in un'area davvero caratteristica, con i suoi colori e odori mediorientali.
   D'obbligo, oltre a una passeggiata nei luoghi sacri della Città vecchia, anche una visita a Yad Vashem, il Memoriale dell'Olocausto, per non dimenticare i 6 milioni di morti - di cui 1,5 milioni di bambini, non solo ebrei ma anche disabili, zingari, omosessuali. E il Giardino dei Giusti in cui sono ricordate le persone - più di 600 italiani, tra cui Gino Bartali, Giorgio Perlasca, i Carabinieri - che salvarono vite e aiutarono tanti ad evitare la deportazione nei carri bestiame diretti ai campi di concentramento nazisti. Particolare emozione si prova - un po' la stessa sensazione che si ha visitando il memoriale dell'attentato dell'11 Settembre a Ground Zero a Ny - nel ripercorrere la storia dall'ascesa di Hitler al 1948. Situato in un bell'edificio contemporaneo completato dal 2005 e progettato dall'architetto Moshe Safdie, interamente in cemento armato - e non in Pietra di Gerusalemme come tutto il resto della città, ma in cemento, come una ferita, una cicatrice che resta visibile - con una forma prismatica, non a caso leggermente in salita. Il museo ripercorre la storia delle deportazioni, in un itinerario che è fisico, visivo, architettonico, ma anche storico e interiore, tra buio e luce. Si parte dal buio, dai 6 milioni di vittime della Shoah e si finisce camminando leggermente in salita nella luce: le vetrate che danno sul sole, il cielo, la speranza, il futuro.
   Il Museo storico è stato ultimato da pochi anni, ed è circondato, come detto, dal Giardino dei Giusti, oltre 450 alberi, ulivi e altre essenze, in cui vengono ricordati, simbolicamente, tutti i Giusti, persone di ogni credo ed etnia che, come accennato, sfidando le leggi e i divieti dell'epoca, hanno aiutato tanti a salvarsi dall'Olocausto. Una visita davvero toccante - consigliato farsi accompagnare da una guida per comprendere bene tutto il percorso e il significato di quello che si vede e si sente - che resta impressa nella memoria.
   La giornata a Gerusalemme si può concludere con una serata al Museo della Torre di David per assistere a "The Night Spectacular" spettacolo multimediale, coloratissimo che attraverso luci e suoni e proiezioni digitali sui resti archeologici delle dell'antica fortezza, in poco più di un'ora, ripercorre in modo visivo - un film di animazione proiettato sulle mura attraverso speciali proiettori - i 5mila anni di storia di Gerusalemme.
   In questo periodo dell'anno poi è molto piacevole, viste le temperature non troppo elevate in Israele, trascorrere qualche giorno in uno dei diversi resort sul Mar Morto, il lago salato a 415 metri sotto il livello del mare. Tra cure termali, buon cibo, e bagni nell'acqua salata dove è impossibile nuotare - si resta a galla e non si va giù - e dove bisogna stare attenti a non immergersi con gli occhi che rischiano di bruciare
 
Il kibbutz Sde Boker nel Negev
 
Le tombe di David Ben Gurion e della moglie Paula
per le alte concentrazioni di sale presenti nel bacino. Un bagno nel Mar Morto in ogni caso è un'esperienza diversa da tutte le altre, per certi versi indimenticabile, che una volta nella vita bisogna provare.
   Sulla strada per il Mar Morto si possono visitare diversi kibbutz, le comuni agricole nate nei primi anni Cinquanta, come quello di Sde Boker, nel deserto del Negev, dove visse gli ultimi anni della sua vita il primo ministro Ben Gurion, oggi trasformato in un'oasi dove si vive di agricoltura ma soprattutto di turismo grazie alla spa e ai piccoli bungalow in affitto, dove si possono ammirare le colture di Mirra, la pianta aromatica tipica del Medio Oriente, diffusa in Kuwait e in Sudan, che da queste parti era sparita ma è stata reintrodotta in questi anni, o come gli enormi Baobab cresciuti nel deserto grazie alla cura e alle tecniche agronomiche degli agricoltori del Kibbutz.
   E poi si incontra Masada, le rovine della fortezza del Re Erode, in cima alla montagna, simbolo della resistenza degli ebrei contro i romani nel 73 d.C., oggi candidata a entrare nel patrimonio dell'umanità dell'Unesco e dove, nei periodi estivi, con lo sfondo del deserto del Negev, si svolgono suggestivi spettacoli dal vivo di Opera lirica.
   Continuando la strada verso l'estremo Sud di Israele si percorre la wine route nel Negev, la strada dei vini dove si incontrano diverse aziende vitivinicole, come ad esempio Carmey Avdat Farm, che sono sorte in quest'area desertica, grazie alla tenacia e alla capacità dei viticoltori locali che sono riusciti a far attecchire, nel deserto, le piante della vite e - grazie alla irrigazione a goccia e agli impianti di desalinizzazione dell'acqua di mare - a farle crescere tanto da produrre ottimi vini rossi e bianchi.
   Scendendo verso la città costiera di Eilat si attraversano il monte Negev e la riserva naturale e geologica di Makhtesh Ramon con l'omonimo cratere dal quale, deviando per qualche chilometro dalla strada asfaltata e avventurandosi nei sentieri poco battuti, magari su una jeep, accompagnati da una guida naturalistica locale, non è difficile arrivare a delle Antiche oasi e ai resti dei Caravanserraglio, gli "alberghi" dell'antichità che venivano utilizzati per la sosta dalle carovane che attraversavano il deserto.
   Eilat è nell'estrema punta a sud di Israele. Un lembo di terra che dà sul Mar Rosso, dove da un lato vedi il confine con la Giordania. E dall'altro, a pochi chilometri di distanza, l'Egitto. Eilat sembra un pezzetto di Florida. Miami Beach piantata nel mezzo del Mar Rosso. Un'oasi di Occidente, grandi alberghi, palme, mall e fast food, circondata dal mondo arabo, dal mare e dal deserto. Trascorrere qualche giorno qui in questo periodo dell'anno può essere davvero riposante. La temperatura è mite e non è eccessivamente caldo come d'estate. Si può fare il bagno nelle ore assolate anche senza muta. Il posto ideale per fare sport di resistenza - qui si svolge l'Israman, la gara di triathlon lungo più importante di Israele - e le immersioni subacquee.
   La settimana ideale in un tour di Israele d'inverno non può non terminare a Tel Aviv. La città balneare del mediterraneo, con i suoi 1.200 dance bar e la sua vivace vita notturna è il completamento di un viaggio indimenticabile, in un paese ricco di culture e di inventiva. Tel Aviv, la città "che non dorme mai", il suo mare, i suoi hotel e i suoi locali da ballo è un po' il simbolo di una nazione che, nonostante tutto, tra mille difficoltà, si sforza di guardare avanti. Al futuro.
   Il mare di Tel Aviv rispetto a Eilat in inverno è più mosso: ci sono onde alte che ricordano l'Oceano. Tanti giovani dal mattino presto si gettano nelle sue acque con le tavole da surf e la muta. Restano fermi in attesa, distesi sulle loro tavole. Lunghi minuti che sembrano ore. In attesa dell'onda migliore da cavalcare che arriverà. Prima o poi.

(Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2017)


Le Pen: i franco-israeliani scelgano o Francia o Israele

La candidata del Front National contraria alla doppia cittadinanza, ma c'è chi sente odore di anti-semitismo.

Lei parla di una norma generale che si applica a tutti, ma molti l'hanno già tacciata si antisemitismo strisciante.
Opposta alla doppia nazionalità per i cittadini extra-europei, la candidata del Front National, Marine Le Pen, è stata a chiamata a rispondere a una domanda su quello che attende i cittadini franco-israeliani nel caso di una sua vittoria all'Eliseo.
Nel corso dell'Emission Politique, il grande talk show politico di France 2, la tv di Stato, la giornalista Le'a Salame', ha chiesto a Le Pen se domanderà "agli ebrei francesi di rinunciare alla doppia nazionalità israeliana?".
La candidata Fn ha risposto prima così: "Israele non è un Paese europeo, credo anche che Israele accetti di dirlo e pensarlo. Sono contro la doppia nazionalità extra-europea". Quindi - ha incalzato Le'a Salame' - "stasera chiedete agli ebrei francesi di rinunciare se vogliono una doppia nazionalità?. "Loro come gli altri - risponde Le Pen - non è agli ebrei ma agli israeliani a cui chiedo di scegliere la propria nazionalità". E però, ha tenuto a puntualizzare davanti alle telecamere di France 2: "Questo non significa che, se non scelgono la nazionalità francese, debbano andarsene dalla Francia. La Francia ha assolutamente la possibilità di accogliere sul suo territorio, incluso per tanto tempo, gente straniera che conserva la propria cittadinanza, a partire dal momento in cui rispetta le leggi e i valori francesi. Raramente abbiamo avuto problemi con Israele su questo tema", ha concluso Le Pen.

(globalist, 10 febbraio 2017)


Quei cimiteri europei restaurati dalla Cdu

di Simone Porrovecchio

Il villaggio di Sdolbuniw, nell'Ucraina occidentale, ha appena inaugurato il suo nuovo cimitero. Vecchio quasi 300 anni. Lo storico cimitero ebraico, raso al suolo dalle SS nell'ottobre del 1942, è stato infatti riscoperto, ricostruito e restaurato nelle poche parti rimaste intatte, grazie a un progetto dello European Jewish Cemeteries Initiative, coordinato da Gerusalemme da Philip Carmel. Al piano di recupero, fortemente voluto dall'ex ministro israeliano Yossi Beilin, hanno partecipato anche la Konrad Adenauer Stiftung, la fondazione tedesca vicina al partito della Cdu, e il Ministero delle finanze tedesco che, intanto, ha messo a disposizione un milione e mezzo di euro. «La prima tranche di finanziamento servirà al recupero di 45 cimiteri, tra Polonia, Ucraina, Repubblica Ceca, Moldavia e Serbia. Secondo le stime, tuttavia, almeno altri 50 andranno ricostruiti nel prossimo futuro. E parliamo solo di quelli di cui esistono tracce» spiega Gerhard Wahlers, direttore generale della Konrad Adenauer Stiftung.
   Ma perché ricostruire cimiteri ebraici in località dove, quasi sempre, una comunità ebraica non esiste neanche più? «Solo a Sdolbuniw, in una sola settimana, sono stati massacrati con un colpo alla nuca circa 17 mila ebrei. Il 70 per cento della popolazione che allora aveva quel villaggio» afferma Carmel. «Tra il fiume Elba e il Dnepr, che attraversa Russia, Bielorussia e Ucraina, prima della guerra c'erano 7 mila cimiteri ebraici, molti dei quali eretti già nel Trecento. Questi cimiteri sono il ricordo della ricchissima cultura ebraica che fino al 1943-44 permeava quest'area d'Europa. Sta a noi riportare in vita il ricordo. E con esso la coscienza delle radici di questo continente».

(la Repubblica, 10 febbraio 2017)


Droni e terrorismo, tecnologia israeliana in Italia

Presentata a Udine, in anteprima nazionale, con simulazione sul campo. Hanno assistito oltre 60 persone tra forze dell'ordine e privati: gli alti rappresentanti di polizia e carabinieri e i rispettivi corpi speciali e anche i responsabili sicurezza dell'Enac e di grande aziende multinazionali.

 
La presentazione a Udine della tecnologia MC-Horizon
 
Sistema anti-drone MC-Horizon
UDINE - Al mondo esiste una sola tecnologia in grado di identificare, intercettare e neutralizzare i droni a distanza: si chiama MC-Horizon e il 10 febbraio è stata presentata, per la prima volta in Italia, a Udine, all'interno degli spazi della Fiera cittadina. A farla conoscere è McTech, l'azienda israeliana che, grazie alla collaborazione con le aziende friulane Saroal srl e MD Systems, che ne sarà partner in esclusiva per l'Italia, ha scelto Udine per la prima dimostrazione in real time sul campo.

 Tecnologia anti-drone
  Otto persone tra ingegneri e addetti sono arrivati da Israele con uno speciale simulatore per la presentazione: questa tecnologia anti-drone è l'unica al mondo che riesce a identificare un 'oggetto volante' a 300 metri di distanza, intercettarne la rotta e i comandi per portarlo lontano dalle eventuali zone a rischio. «La tecnologia di MC-Horizon è stata sviluppata circa 2 anni fa: ci è voluto circa un anno di lavoro per ottimizzarla e continua ad essere costantemente aggiornata e migliorata» spiega la McTech. «È un sistema che funziona a 4 livelli: Detection, l'identificazione del drone attraverso radar e RF scanning, Acquiring, rilevamento e «cattura» attraverso telecamere termiche a lungo raggio, RF neutralization che disturba la trasmissione neutralizzandone il segnale, e la Distruction, la distruzione finale attraverso laser».

 La soluzione ottimale per la sicurezza pubblica e privata
  Si tratta di un'innovazione notevole (il costo va dai 150mila ai 300mila euro) in quanto gli altri sistemi in uso nel mondo riescono soltanto a intercettare la frequenza del drone interrompendone il volo e facendolo precipitare con il rischio di far detonare a terra l'eventuale materiale esplosivo a bordo o di fare disperdere le sostanze nocive con effetti disastrosi su persone e cose nel giro di metri o kilometri. «Questa tecnologia anti-drone - spiega Marco Cavalli, analista della MD Systems - rappresenta la soluzione ottimale per la sicurezza pubblica e privata: basti pensare a zone militari, edifici governativi e siti nucleari, ai grandi luoghi pubblici a rischio attacco come stadi, aeroporti, stazioni, piazze, mercati, oppure agli stabilimenti delle aziende che possono essere facilmente violati e spiati da un drone in volo». Per questo il 10 febbraio hanno assistito alla simulazione oltre 60 persone tra forze dell'ordine e privati: presenti gli alti rappresentanti di polizia e carabinieri e i rispettivi corpi speciali e anche i responsabili sicurezza dell'Enac (Ente nazionale per l'aviazione civile), dei principali aeroporti italiani e di grande aziende multinazionali che sempre di più hanno bisogno di tutelare i luoghi di produzione, gli stabilimenti e le proprie sedi nel mondo.

(Diario di Udine, 10 febbraio 2017)


Un palestinese spara sulla folla. Cinque colpiti a Tel Aviv, arrestato 18enne

GERUSALEMME - Un palestinese ha sparato sulla folla a Petah Tikva, poco fuori Tel Aviv, e poi ha accoltellato diverse persone. Il bilancio è di almeno 5 feriti, nessuno dei quali rischia la vita. Lo ha riferito la polizia israeliana.
L'uomo, un giovane dell'età apparente di 18 anni proveniente da Nablus, in Cisgiordania, è stato arrestato poco dopo. I soccorritori hanno riferito di aver ricoverato un uomo sulla cinquantina e una donna di circa 30 anni con ferite da armi da fuoco nella parte inferiore del corpo. Un altro uomo, di circa 40 anni, è stato soccorso dopo aver ricevuto una pugnalata. I feriti sono stati ricoverati al Rabin medicai center. Almeno altri due passanti sono stati feriti lievemente. La polizia ha ricevuto una segnalazione della sparatoria alle 16.45 a Hirsch Street e all'ingresso di un mercato all'aperto di Petah Tikva. La polizia ha riferito che il sospetto attentatore, fermato in Montefiore street, aveva con sè una bomba.

(Avvenire, 10 febbraio 2017)


Celebriamo Tu Bishvat, perché "l'uomo è come un albero del campo"

Come ogni anno la comunità ebraica celebra il capodanno degli alberi, che quest'anno cade l'11 febbraio.

di Daniele Cohenca

Tu Bishvat viene da sempre chiamato capodanno degli alberi. Ma il concetto di capodanno si rispecchia particolarmente negli essere umani; e allora perché i Testi sacri ci impongono la celebrazione e il tradizionale assaggio delle sette specie della Terra d'Israele, enfatizzando la festa proprio con il nome di "capodanno degli alberi"?
Il celebre versetto "Ki haadam etz hassadé - Perché l'uomo è come un albero del campo" (Numeri 20:19) ci fornisce la risposta: oltre al messaggio evidentemente ecologico che traspare dal versetto, dobbiamo cercare di cogliere gli elementi comuni: l'albero, solidamente radicato alla terra, da cui trae il nutrimento, si sviluppa armoniosamente fino a produrre frutti che una volta consumati dall'uomo gli procureranno il senso del "piacere" e della "delizia".
Questo è in realtà solo uno dei tratti dell'essere umano il cui sviluppo spirituale, intellettuale e morale si basa in principio solo sulla robustezza delle sue radici e sulla qualità del "suolo" in cui sono fissate. Così come l'albero non avrà futuro se non avrà radici solide nel terreno, non darà frutti se non viene curato e protetto, non ci può essere un futuro per l'essere umano senza un passato solido di tradizioni e di fede, né senza una continua attenzione al suo sviluppo individuale e nelle società. Inoltre, l'albero raggiunge la perfezione tramite i suoi frutti che sono lo scopo della sua stessa esistenza e ne sono l'incoronamento.
La vita dell'uomo è paragonabile a quella dell'albero, in quanto la vita umana assume un senso se è promettente, prolifica e creatrice di un futuro, di messaggi e valori che l'uomo sarà in grado di tramandare ai discendenti, i quali potranno a loro volta godere anch'essi delle "delizie", morali e spirituali che gli sono state lasciate.
Nella società moderna non è un compito facile: tracciare dei limiti entro quali muoversi, come quelli della Torà e delle Mizvot, mantenendo allo stesso tempo relazioni sociali di ampio spettro è compito arduo. A questo proposito, recita la Mishnà (Pirqè Avòt Cap. 3 Mishnà 24): Egli affermava: colui, la cui sapienza supera le sue azioni, a che cosa si puo' paragonare? Ad un albero i cui rami sono numerosi, ma ha poche radici; viene un vento, lo sradica e lo rovescia; secondo quanto e' detto: egli sarà come un arbusto in mezzo alla steppa e neppure si accorgerà quando verrà il bel tempo; avrà per dimora le aridità del deserto, la terra salsa non abitabile (Geremia, 17 6). Invece colui le cui opere superano la sua sapienza, a che cosa si può paragonare? Ad un albero che ha pochi rami ma abbondanti radici, che anche se dovessero soffiargli contro tutti i venti del mondo, non riuscirebbero a smuoverlo dal suo posto, secondo quanto e' scritto: egli sarà come un albero piantato vicino all'acqua, che dirama le radici presso un ruscello; esso non si accorgerà neppure quando giungerà la stagione calda, le sue foglie rimarranno verdi e non avrà da preoccuparsi della stagione di siccità, perché invece continuerà a dare frutti (Geremia, 17,8).
Come l'albero, l'uomo è una creatura che si coltiva, le cure e le premure che le si prodigano agevoleranno la piena espressione della sua potenzialità. E tutto ciò comincia dall'educazione che gli verrà proposta.

(Mosaico - Comunità ebraica di Milano, febbraio 2017)


Follia: fanno rieducare i terroristi dagli imam

L'antijihadismo creativo del tribunale di Bari. La deislamizzazione è affidata ai predicatori musulmani. Ma non si sa nemmeno chi siano quelli più estremisti

di Carlo Panella

Negli anni bui del terrorismo italiano non sarebbe mai venuto in mente a un magistrato di affidare a un Costituzionalista un fanatico simpatizzante delle Brigate Rosse, che esaltasse le loro gesta più cruente e minacciasse il governo di sovversione e distruzione. All'ammiratore delle Br sarebbe andata già di lusso non essere condannato come membro di associazione sovversiva. A fronte di un cittadino albanese islamico che esalta le peggiori imprese del jihadismo, il tribunale di Bari ha però adottato, neanche coercitivamente, il principio della «autoeducazione» e gli ha consigliato, non imposto, «l'avvio di un percorso di studio dei valori della religione islamica che consenta di acquisire elementi di conoscenza che gli consentano di comprenderne gli insegnamenti senza confonderli con il fondamentalismo religioso e la propaganda islamista». Per fortuna, il consiglio buonista è accompagnato da misure restrittive: la sorveglianza speciale per due anni, l'obbligo di soggiorno nel Comune di residenza, del ritiro del passaporto e di ogni altro documento valido per l'espatrio. Il minimo concepibile. Pure, la Digos ha fornito al magistrato un'impressionante documentazione sull'attività di esaltazione del terrorismo jihadista da parte dell'albanese: nei suoi computer e smartphone, post che esaltano gli attentati di Parigi, foto che lo ritraggono mentre imbraccia un fucile mitragliatore, la condivisione di video di azioni terroristiche dell'Isis, di esecuzione di prigionieri, con commenti nei quali si afferma che il vero terrorismo è quello dei governi occidentali, la visualizzazione di un noto videogioco (Assassin's Creed) nel quale le voci originali sono sostituite da altre che esaltano l'Isis, la condivisione in rete di un video inneggiante alla conquista islamica dello Stato italiano e la condivisione on line dell'intervista del fondamentalista islamico inglese Anjem Choudary che minaccia l'Italia annunciando che l'Isis conquisterà Roma per affermarvi la Sharia. Non però attività di proselitismo e indizi sulla sua propensione a commettere reati, né ad arruolare foreign fighters o ad andare a combattere in Siria con l'Isis. Questo ha evitato all'albanese di incorrere nelle dure pene previste dalla nuova legge antiterrorismo del 2015.
   Resta però una certezza sconcertante: de-radicalizzare un esaltato filo-jihadista consigliandogli di «comprendere il vero Islam» è un non senso assoluto, così come chiedere assistenza alla comunità islamica barese perché lo segua in questo percorso. Ammesso e non concesso che a Bari vi siano imam solidamente preparati (il 90% degli Imam in Italia sono fai-da-te e assolutamente inadeguati), è evidente che nulla possono fare per scalfire le convinzioni sanguinarie ed eversive del «non condannato». È come affidare uno scatenato e violento No Tav alla «rieducazione» di un magistrato. Linguaggi, aspirazioni e strutture mentali incomunicabili.
   L'episodio è dunque sintomatico di una scabrosa realtà: in Italia non esiste una minima struttura per affrontare percorsi di de-radicalizzazione. E così in Europa. I giornali francesi sono pieni di report sul fallimento vergognoso dei tentativi fatti: Julien Revial, studente di 24 anni «rieducato», racconta in un libro la «cronaca di una disillusione»: la storia della sua cellula di de-radicalizzazione voluta da Hollande, dove c'erano «più giornalisti che famiglie», un puro spot pubblicitario per il governo. Il settimanale Marianne denuncia: su 12 centri di de-radicalizzazione annunciati dal governo, ne funziona uno solo, con tre ospiti sui trenta previsti!
   Un ritardo inconcepibile, emblema del disarmo culturale europeo a fronte del jihadismo, che il Parlamento italiano tenta ora di colmare con una legge che prevede, appunto, strutture ad hoc per la de radicalizzazione. Sarebbe opportuno che queste strutture usufruiscano dell'esperienza degli esperti del Marocco, che da anni hanno elaborato e praticato programmi seri, e funzionanti, per demotivare i jihadisti.

(Libero, 10 febbraio 2017)


Dimmi come ti chiami e ti dirò cosa sei. E soprattutto a chi appartieni.

La sterile battaglia dei toponimi per decidere se c'era prima la Giudea o la Palestina

di Claudio Vercelli

 
"E poi c'era lo Stato di Palestina e sono quindi arrivati i sionisti ad impossessari ingiustamente del suoi territori". A credere in questo falso storico sono ancora in tanti. In fondo, a conti fatti, si rivelano essere i più sprovveduti. Lo Stato non c'era. Punto e a capo. Semmai, una volta costretti a rettificare l"'errore", il fuoco della polemica si sposta dall'inesistente sovranità statale palestinese ai territori in quanto tali e, in immediata successione, al nome che essi storicamente portano con sé. Nella convinzione che la denominazione di una porzione di terra istituisca una legittimità politica che, con l'arrivo di "stranieri", ossia di estranei a quei luoghi, sarebbe stata in qualche modo conculcata. Se parliamo della mutevole geografia di un'ampia area che comprende, ai giorni nostri, sia lo Stato d'Israele sia le terre che si trovano ad occidente del fiume Giordano, non costituendo queste ultime parte d'esso bensì territorio conteso in un regime di temporanea amministrazione mista, allora i nomi che quei luoghi, e quelli ad essi attigui, hanno assunto nel corso del tempo, sono cambiati ripetutamente. Poiché denominare uno spazio di territorio è un atto politico dal momento in cui su di esso si istituisce una sovranità o la si rivendica (o la si immagina come esistente).
   Sulla parola "Palestina", sulla sua radice storica, si sta svolgendo da decenni un conflitto parallelo a quello delle armi. Per retrodatarla, nella convinzione che ciò rafforzi le pretese di una parte a scapito dell'altra. Brevemente, al netto dei rimandi biblici (Eretz lsrael, Pheleshet, Canaan), va ricordato che il primo richiamo secolare al suo nome, riferendosi all'intera area tra la Fenicia e l'Egitto, risale al quinto secolo ante era volgare, quando Erodoto nelle «Storie» chiamò la parte meridionale dell'area siriaca come «Palaistine». L'autore afferma che i suoi abitanti erano circoncisi, riferendosi in tutta plausibilità agli israeliti. Il termine fu invece usato in chiave politica, ossia per indicare una provincia ufficiale, solo nel 135, quando le autorità romane, dopo aver represso la rivolta di Bar Kokhba, cambiarono il nome della provincia di Giudea in «Syria Palaestina».
   L'imposizione del nome Palestina da parte dell'Imperatore Adriano era la sanzione definitiva della sconfitta ebraica sul piano militare e non il riconoscimento di una preesistente comunità politica non ebraica. Doveva quindi servire a occultare il carattere prevalentemente giudaico del territorio. Il termine arabizzato «Filastin» venne invece assunto dopo la conquista dell'VII secolo, anche se la segmentazione amministrativa e politica dei territori fece sì che non indicasse un'unità politica omogenea, semmai ripetutamente definita come Siria o Grande Siria. È con l'inizio del Ventesimo secolo che la parola iniziò ad assumere la fisionomia di endonimo (il modo in cui una collettività definisce il proprio territorio), tra gli arabi cristiani e con lo strategico avallo dei britannici. La «Palestina», da questo punto di vista, è una creazione della potenza mandataria. Detto questo, vogliamo fare un passo oltre o continuiamo con la sterile battaglia dei toponimi?

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, febbraio 2017)


Lo "Stato del Sinai" rivendica il lancio di razzi contro la città di Eilat

IL CAIRO - Il gruppo terroristico "Stato del Sinai" (gruppo affiliato allo Stato islamico) ha rivendicato il lancio di razzi contro la città israeliana di Eilat nel sud del paese. Lo riferiscono i media egiziani, secondo il messaggio di rivendicazione è stato pubblicato su alcuni profili del social network Twitter riconducibili al gruppo terroristico. "Grazie alla forza di Allah un gruppo di nostri insorti è riuscito a lanciare missili Grad contro un raduno di ebrei a Um al Rashrash (antico nome arabo di Eilat, ndr)", si legge nella rivendicazione. "Ebrei e crociati - continua il messaggio - devono sapere che questa guerra per procura non andrà a loro vantaggio". Nella sua rivendicazione lo Stato del Sinai ha promesso nuovi e peggiori attacchi contro Israele.

(Agenzia Nova, 9 febbraio 2017)


Si sposa con la bandiera della Lazio. La particolarità? Vive in Israele

di Arianna Di Pasquale

Torna l'appuntamento con la rubrica 'L'angolo del tifoso' in cui i veri protagonisti siete voi. Oggi è il turno di Liad Mazor, un israeliano che vive lontano da Roma ma che non conosce altri colori oltre il bianco ed il celeste. Non a caso, al suo matrimonio era presente la bandiera della prima squadra della capitale. Il suo sogno è quello di estendere il tifo laziale, un "qualcosa" di magico che lui stesso definisce impossibile da descrivere a parole.

- Da quanto tempo sei tifoso della Lazio?

  "Tifo la Lazio da quando avevo 14 anni, è stato amore a prima vista. La seguo a distanza da 22 anni".

- Qual è stata la prima partita che hai visto?

  "Lazio-Parma, vincemmo 2-1. Parlo dell'anno 1995.

- Cosa significa per te essere della Lazio?

  "Questa squadra significa tutto per me, è la mia vita. Io non posso vivere senza la Lazio, è nel mio cuore, nel mio sangue e nella mia testa 24 ore al giorno".

- Qual è stato il suo giocatore preferito? E quale preferisce attualmente?

  "Il mio preferito rimane sempre Paolo Di Canio, è veramente un tifoso prima di essere un calciatore. Attualmente mi piace molto Immobile, bravo tecnicamente e molto carismatico".

- Qual è il suo gol preferito?

  "Impossibile non pensare al gol di Lulic al 71?. Parliamo di un trofeo e, soprattutto, di un derby. Un'emozione unica".

- Quante volte riesce ad essere presente in Italia per seguire le partite?

  "Io sono all'Olimpico una o due volte l'anno, purtroppo sono lontano altrimenti non mi perderei neanche una partita della mia amata Lazio".

- Qual è stata l'ultima partita che ha visto all'Olimpico?

  "Sono stato pochi mesi fa a Roma a vedere Lazio-Sassuolo, ho portato fortuna: abbiamo vinto 2-1?

- Un matrimonio in pieno stile biancoceleste. Anche sua moglie è una tifosa?

  "Mia moglie è diventata lazialissima dal primo giorno che mi ha conosciuto. Impossibile non amare questi colori sei fai parte della mia vita. La Lazio, appunto, è la mia vita ed è diventata anche la sua".

(Laziopress, 10 febbraio 2017)


La redazione prende rispettosamente atto di questa strana passione di un israeliano per la Lazio, tiene comunque a precisare che la "prima squadra della capitale" porta il nome della capitale, cioè Roma.


Chiude il centro di stoccaggio dell'ammoniaca di Haifa

Su ordinanza della magistratura

GERUSALEMME - Il giudice della Corte per gli affari locali di Haifa, Sigalit Gatz-Ofir, ha emesso ieri, 8 febbraio, un ordine di chiusura dello stabilimento per lo stoccaggio dell'ammoniaca della città israeliana, in attesa di una nuova valutazione della sicurezza dell'impianto fissata per la giornata di oggi. L'ordine è una risposta all'appello della municipalità di Haifa per la chiusura dell'impianto, dopo che un rapporto pubblicato la scorsa settimana ha rivelato gravi deficit strutturali che metterebbero a rischio la vita di decine di migliaia di persone. Da anni attivisti e politici si battono per la chiusura dell'impianto, che lo scorso anno Hezbollah ha minacciato di colpire con i propri razzi. Un team di ricercatori, guidato dal professore Ehud Keinan dell'istituto Technion Israel of Technology, ha concluso che un attacco nemico all'impianto per lo stoccaggio di 12 mila tonnellate di ammoniaca causerebbe un disastro ambientale di proporzioni "apocalittiche", mettendo a rischio ben 800 mila persone.

(Agenzia Nova, 9 febbraio 2017)


Le due anime d'Israele

Hanno combattuto assieme nella guerra del 1973, oggi litigano sulle colonie. Parlano Barnea e Harel

di Giulio Meotti

 
                                  Israel Harel                                                                    Nahum Barnea
ROMA - Il viaggio verso l'Egitto cominciò molte ore prima, in una Tel Aviv illuminata come in tempo di pace. Due giovani paracadutisti israeliani, Nahum Barnea e Israel Harel, varcarono assieme il canale di Suez, nella battaglia che cambiò le sorti del medio oriente. Dieci giorni dopo l'attacco a sorpresa della Terza armata egiziana nel Sinai, Harel e Barnea, sotto il comando di Ariel Sharon, aggirarono le linee nemiche rovesciando le sorti della guerra. Sappiamo come andarono le cose: lo sfondamento delle linee israeliane, l'angoscia di non "tenere", di essere ricacciati in mare, come avevano promesso Nasser nel 1967 e Sadat nel 1972, il cedimento dell'Europa al ricatto arabo e l'invito a Israele di ritirarsi dai Territori, come se per Israele si trattasse di una provincia in più o in meno e non d'una questione di vita o di morte. Da allora i "Territori occupati" fiatano sul collo di Israele un enigmatico destino. Oggi Barnea e Harel sono su fronti opposti: il primo è il più famoso giornalista israeliano, firma di punta di Yedioth Ahronoth e arcinemico dei coloni e di Bibi Netanyahu; il secondo è l'abitante degli insediamenti più noto della stampa israeliana. Harel ha, infatti, una rubrica storica su Haaretz, il giornale della sinistra intellettuale, da quando perorò la causa delle colonie assieme ai due più grandi poeti israeliani, Nathan Alterman e Uri Zvi Greenberg.
  Barnea e Harel sono le due anime opposte di Israele, laico e pragmatico il primo, religioso e ideologico il secondo. Con loro parliamo dei territori su cui la Knesset, il Parlamento di Gerusalemme, ha appena varato la legge più controversa che legalizza le case costruite su terre contese ai palestinesi. "Non c'è visione né dibattito su cosa fare dei territori", dice al Foglio Barnea, che ha perso un figlio in un attentato durante la Seconda Intifada. "La domanda non è se queste case siano legali, ma un'altra: annettiamo i territori o ci ritiriamo? Non puoi lasciare che gli israeliani ci vadano a vivere mantenendo i territori sotto un regime di occupazione militare". Perché non sono stati annessi? "Paura della demografia e che il mondo ci condanni. Non siamo la Cina che annette il Tibet. Siamo una potenza regionale. Non possiamo permettercelo. Così abbiamo colonizzato e usato quelle terre come moneta di scambio". Israel Harel, per vent'anni presidente del Consiglio dei coloni, non potrebbe essere meno d'accordo. "Non puoi cambiare la terra come se fosse un'auto usata", dice Harel al Foglio. "Siamo sopravvissuti come popolo ebraico per tornare a Sion. Il nord Italia, il Trentino, apparteneva agli austriaci, ma nessuno di voi darebbe indietro quelle regioni".
  Entrambi i movimenti, "Pace Adesso" e i coloni, nacquero allora, sull'onda del terrore della guerra del 1973, convinti ambedue di portare il verbo a un paese allo sbando. Per la sinistra, il peccato d'Israele era "l'intossicazione del potere", i Territori, Moshe Dayan che diceva "fra la pace senza i territori e i Territori senza la pace io preferisco la seconda opzione". Per la destra religiosa, il peccato era l'ingratitudine, aver ignorato l'occasione offerta nel 1967 di ripristinare l'integrità della nazione. Fu allora che Yossi Beilin, il rampollo di una famiglia religiosa, abbandonò la kippà per diventare la colomba degli accordi di Oslo. In quei giorni, Israel Harel avrebbe compiuto il percorso inverso, andando a fondare Ofra, la prima colonia, nel cuore della Cisgiordania.
  Ieri tanti alleati di Israele, oltre ovviamente all'Unione europea e alle Nazioni Unite, hanno criticato duramente la legge che retroattivamente legalizza quattromila case ebraiche nei Territori. Secondo Nahum Barnea, lo status quo nei Territori non durerà a lungo: "E' questo il fallimento del governo. Da un lato il premier Netanyahu si dichiara a favore dei due stati, dall'altro il governo cede alla lobby dei coloni. La Knesset ha approvato una legge che apre la strada all'annessione. Preferirei un governo che si dichiara a favore dell'annessione. Ma l'annessione comporterebbe di dare la cittadinanza israeliana a due milioni di palestinesi. Attualmente i palestinesi vivono sotto una 'autonomia', ma con l'esercito che controlla i territori. Questo non può continuare all'infinito. L'annessione sarebbe la nascita di uno stato unico". Cosa sono per lei, i territori? "Li vedo dalla mia finestra a Tel Aviv, sono vicini, non è come andare in Abissinia dall'Italia. E' vero quindi che ritirarsi sarebbe un rischio per la sicurezza, ma restare è un rischio maggiore. I territori sono diventati un problema, più che una risorsa. Israele è un grande successo dopo settant'anni, la vita qui è migliore che in molti stati occidentali per tanti aspetti, ma il conflitto con i palestinesi mette a rischio questi successi".
  Israel Harel è nato Hasenfratz prima della Shoah in quella parte di Romania nota come Bucovina del nord, la terra del poeta Paul Celan. "Se smetti di pedalare, cadi", dice Harel a giustificazione che gli insediamenti vadano avanti. "Dobbiamo insediare altri ebrei, costruire, è questo il sionismo. Quarant'anni fa, quando fondai Ofra, sognavamo di portarci un milione di ebrei e di edificare dieci città. Oggi ci dobbiamo accontentare di mezzo milione di ebrei e di tre, quattro grandi città, come Maaleh Adumim. Nahum Barnea appartiene a quegli ebrei che hanno la mentalità dell'esilio. Dopo tanti anni, il senso ebraico di inferiorità sarebbe dovuto estinguersi, invece sopravvive. Senza la Giudea e la Samaria, Israele non ha diritti ad alcuna terra. I territori sono solo un aspetto di una più grande questione: siamo venuti qui come rifugiati o come popolo sovrano? In molte parti della Diaspora oggi un ebreo sarebbe più al sicuro che in Israele. Siamo qui per avere un posto sicuro? Allora è meglio andarcene. Israele è in pericolo. E non siamo venuti a vivere in un ghetto".
  Harel non è d'accordo con Barnea neppure sull'annessione totale: "Dobbiamo annettere soltanto le zone dove ci sono gli insediamenti. Poi, un giorno, si concretizzerà l''opzione giordana': la monarchia di Hussein si trasformerà in una repubblica a maggioranza palestinese e creeremo un corridoio con la Cisgiordania".
  Ma come farete a convincere l'Olp? "Ci penseranno un milione di ebrei che vivranno nei Territori a convincerli. In Tanzania ho visto leoni divorare prede deboli, ma arretrare di fronte a un altro animale feroce. Non dobbiamo esitare, il terrorismo continuerà, ma il progetto palestinese fallirà. Un giorno i palestinesi capiranno che non torneranno mai a Haifa, Giaffa, Acco. Ci sono ventidue stati arabi e un solo stato ebraico. Deve rimanere così. La sinistra di Barnea sogna il giorno in cui i palestinesi si accontenteranno della Giudea e della Samaria. Non lo faranno mai".
  Molti in Israele ritengono che, così come c'è una cospicua minoranza araba nello stato ebraico pre-1967, non dovrebbe esserci problema se israeliani intendono restare a vivere in uno stato palestinese. "Scordatevelo", conclude Harel. "Non vivremo mai sotto un regime dell'Isis o di Hamas. Verremmo massacrati come accadde agli ebrei a Gerusalemme nel 1921 e a Hebron nel 1929. Soltanto i pacifisti e gli scrittori scollegati dalla realtà, come Abraham Yehoshua, possono pensare che gli ebrei rimarrebbero sotto controllo palestinese. Nessun ebreo sano di mente lo farebbe. Siamo venuti qui per essere indipendenti, altrimenti sarebbe meglio tornare a vivere in Italia".

(Il Foglio, 9 febbraio 2017)


“Avaro”

di Adriano Sofri

Ieri un giovane interlocutore curdo che prova ad arrangiarsi con l'inglese, come me del resto, a un certo punto mi dice di un suo collega di lavoro che è "jew". Jew? - chiedo stupito, perché il contesto non gli si adatta. Vuole dire che è molto attaccato ai soldi, dice. Voleva dire avaro. Qualcuno gli ha detto che si dice così. Non si dice così, obietto, e provo a spiegargli perché. Gli consiglio di tradurre "mean", o "niggard". Più tardi controllo il dizionario italiano-inglese, alla voce Avaro. Il dizionario italiano-inglese WordReference.com, largamente consultato, recita: "Avaro (agg) (tirchio, spilorcio, taccagno) mean, cheap, stingy, miserly, avaricious". E più sotto, nelle esemplificazioni: "avaro found in these entries: ebreo - pidocchio - pitocco - taccagno - tirato - tirchio". "Ebreo" è la prima entry, magari solo per l'ordine alfabetico. (Verificate, per favore. Presto, perché spero che la mia segnalazione faccia cancellare questa spicciola infamia).

(Il Foglio, 9 febbraio 2017)


Verifica



Parashà della settimana: Beshalach (Fece partire)

Esodo 13:17-17:16

 - "Quando il faraone fece partire (be-shalach) il popolo ebraico" (Es. 13.17) questo si ritrovò rapidamente nelle vicinanze del mare minacciato dall'esercito egiziano lanciato al suo inseguimento. Protetto dalla colonna di fuoco, gli ebrei, durante la notte, attraversano il mare all'asciutto essendosi le acque ritirate per volontà di D-o Benedetto. L'armata egiziana nella sua cieca precipitazione di raggiungere la preda, continua il suo inseguimento e viene travolta e sommersa dalle acque del mare che si richiudono su di loro.
Miriam, sorella di Moshè, innalza un inno di lode al Signore d'Israele per il miracolo ricevuto con queste parole: "Chi è come Te, tra le Divinità dei popoli" (Es. 15.11). Secondo un midrash queste parole sono state ascoltate e ripetute dal faraone che si pentì (teshuvà) del suo comportamento verso il popolo ebraico, nel riconoscere l'esistenza di un Unico Creatore.
L'antisionismo del faraone ha un limite a differenza dell'antisionismo di Amalek, che attacca il popolo ebraico alle spalle appena uscito dalla terra d'Egitto debole e indifeso. Riguardo a questo nemico storico d'Israele, la Torah aggiunge: "il Signore combatterà contro Amalek di generazione in generazione, affinché la sua memoria sia cancellata da sotto il cielo" (Es. 17.15).
Difatti ogni qualvolta gli ebrei hanno cercato di costruire la propria Nazione, puntuale è stata la presenza di Amalek ad impedirlo e fino ai nostri giorni. Cosa dire della avversione delle Nazioni verso Israele?
Ma gli ebrei invece di prestare "fede" a queste parole del Signore, si ribellarono a Moshè dicendogli: "Non vi erano abbastanza cimiteri in Egitto per averci trascinato a morire nel deserto?" (Es. 14.11).
Rashì spiega che coloro che accusavano Moshè erano la schiuma nera della "Erev rav" (lett. Grande miscuglio) uscita dall'Egitto insieme al popolo e capeggiata da Datan e Aviram, delatori di Moshè presso il faraone. Attraverso questi due personaggi la Torah vuole mostrarci l'identità degli "ebrei dell'esilio". E' una malattia che fa cadere gli ebrei nella psicosi e nella paura, per cui è meglio essere schiavi del potere del faraone che liberi nella propria terra. Datan e Aviram sono usciti dall'Egitto, ma incapaci di far uscire l'Egitto dalla loro coscienza, essendo l'esilio presente nella loro testa "malata". E' l' esilio "mentale" dell'ebreo, che pur trovandosi in terra d'Israele, è rimasto ancorato al desiderio della golà (esilio). Questo insegnamento è di una bruciante attualità. Datan e Aviram un tempo schiavi del faraone oggi sono schiavi del potere politico-religioso delle Nazioni del mondo, assimilati e senza memoria. Sono costoro le vittime preferite dal cosmopolitismo pacifista (Occidente) e dalle feroci dittature delle società islamiche (Iran e compari).

La Manna e lo Shabat
"E Moshè disse loro: «Questo è il pane che il Signore vi ha mandato per cibo»" (Es. 16.15). Era la manna che cadeva dal cielo.
I figli d'Israele ne raccolsero un "omer" a testa e Moshè ordinò che nessuno ne lasciasse avanzare fino al giorno dopo. Ora avvenne che nel sesto giorno (venerdì) gli ebrei ne raccogliessero una doppia razione per osservare il riposo sabatico. "Domani è giorno di riposo è il Sabato del Signore" (Es. 16.23).
Il sabato era già rispettato in Egitto secondo quanto riportato negli scritti di Schemoth Rabbà. Il popolo ebraico iniziò a conoscere lo shabat proprio in Egitto inteso come un riposo fisico dal duro lavoro di costruire mattoni. A questa dimensione materiale si aggiunge ora anche quella spirituale legata alla liberazione dalla schiavitù, liberi cioè di servire D-o. Questo giorno che è la pietra angolare del Giudaismo, alla fine della nostra parashà viene menzionato tre volte. Il sesto giorno (venerdì) quando cade una doppia porzione di manna, l'avvertimento di Moshè al popolo che nel giorno del sabato la manna non cadrà ed infine il legame tra la manna (nutrimento) e il sabato. Questi tre aspetti si ritrovano ancora oggi nelle nostre tefilloth (preghiere). F.C.

*

 - Il popolo parte: lascia l'Egitto e si avvia in direzione di Canaan. Il viaggio potrebbe avvenire tutto sulla terra ferma, senza nessun passaggio su acqua. Hanno già fatto un po' di strada quando Dio ordina a Mosè di tornare indietro: vuole che il popolo vada a mettersi in una posizione "fra Migdol e il mare" (Es. 14:2). Il fatto indubbiamente è strano, perché adesso il popolo se vuole continuare il viaggio senza tornare indietro dovrà attraversare il mare. Come mai?

Dio mette alla prova sia gli egiziani, sia gli ebrei.
"Il Faraone dirà dei figli d'Israele: «Si sono smarriti nel paese; il deserto li tiene rinchiusi»" (Es. 14:3), dice Dio a Mosè. «Sono in trappola», penserà il Faraone, e questo gli farà venire la voglia di rincorrerli e farli tornare indietro. Si confermeranno così le sue malvagie intenzioni verso gli ebrei, nonostante il tremendo giudizio ricevuto. "Ma io trarrò gloria dal Faraone e da tutto il suo esercito, e gli egiziani sapranno che io sono l'Eterno" (Es. 14:4). Ancora una volta, il Signore vuole farsi conoscere.
Anche gli ebrei però sono messi alla prova. Avevano visto coi loro occhi tutta la potenza di Dio spiegata a loro favore, ma quando vedono arrivare l'esercito egiziano dimenticano tutto: "... ebbero una gran paura e gridarono all'Eterno" (Es. 14:10). Gridano a Dio, certo, ma invece di aspettare la risposta passano subito a prendersela con Mosè. Possiamo immaginare quello che gli avranno detto, in uno stile tipicamente ebraico: "Te l'avevamo detto noi: hai messo la spada in mano al Faraone per ucciderci. D'accordo, lui non è riuscito a farlo mentre eravamo nel paese, ma si prepara a farlo adesso che siamo usciti"; "... e dissero a Mosè: «Mancavano forse tombe in Egitto, per portarci a morire nel deserto?» Che cosa hai fatto, facendoci uscire dall'Egitto? Non è forse questo che ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare, che serviamo gli egiziani? Poiché meglio era per noi servire gli egiziani che morire nel deserto" (Es. 14:11-12).
Il popolo voleva essere liberato dalla sofferenza, non dalla schiavitù. E perché avrebbe dovuto? liberi? di fare che? di andarsi a mettere in un deserto e chiedersi ogni giorno come sfamare una massa di centinaia di migliaia di persone e di bestie? per andare dove? in un paese dove gli abitanti ti accolgono a frecciate?
Un simile dilemma ha tormentato spesso il popolo ebraico: restare o partire? Qui si sta male, ma seguire audaci condottieri che promettono decoro e libertà potrebbe farci stare ancora peggio.

Tutti sono costretti a dare gloria a Dio
La prova alla fine non è stata superata, né dagli egiziani né dagli ebrei, e tuttavia, sia gli uni che gli altri alla fine sono costretti a dare gloria a Dio.
"Fuggiamo d'innanzi ad Israele, perché l'Eterno combatte per loro contro gli egiziani" (Es 14:25), dicono i primi, riconoscendo la sovrana potenza di Dio.
"E Israele vide la gran potenza che l'Eterno aveva spiegata contro gli egiziani; il popolo dunque temette l'Eterno e credette nell'Eterno e in Mosè suo servo" (Es. 14:31), dicono i secondi, manifestando una fede in Dio che viene sempre dopo averlo visto all'opera, mai prima.
Subito dopo aver cantato insieme a Mosè un meraviglioso canto trionfale all'Eterno per la distruzione dell'esercito egiziano (Es. 15:1-21), il popolo si mette in marcia, e alla prima tappa incontra subito il primo problema: non trova l'acqua. Un problema non piccolo, indubbiamente, ma che il Signore in questo caso risolve subito facendo arrivare l'acqua attraverso Mosè. Allo stesso tempo però dona al popolo un'altra cosa: "Quivi l'Eterno dette al popolo una legge e una prescrizione, e lo mise alla prova" (Es. 15:25). E' un passaggio importante, perché per la prima volta il Signore si rivolge al popolo facendogli una promessa condizionata:
"Se ascolti attentamente la voce dell'Eterno, che è il tuo Dio, e fai ciò ch'è giusto agli occhi suoi e porgi orecchio ai suoi comandamenti e osservi tutte le sue leggi...", è la condizione posta al popolo; a cui segue l'impegno di Dio: "... io non ti manderò addosso alcuna delle malattie che ho mandate addosso agli egiziani, perché io sono l'Eterno che ti guarisco" (Es. 15:26).
Qualcuno dirà che come promessa non è una gran cosa, e si chiederà se la condizione posta non sia troppo pesante. Quanti e quali saranno i comandamenti da osservare come condizione? Qualcuno penserà ai 613 precetti della Torah - che a dire il vero non sono pochi - e si chiederà se la condizione posta non sia eccessiva rispetto alla promessa: in fondo, il diritto alla salute è una rivendicazione legittima al giorno d'oggi...
Qualcun altro spiegherà che ordini e divieti devono essere considerati prove di ubbidienza, puro e semplice segno di sottomissione della propria volontà a quella di un Altro. Se è così, è chiaro che più l'ordine è strano, irrazionale, privo di scopo, più è adatto a mettere alla prova la sottomissione dell'esaminato. L'esecuzione puntigliosa dell'ordine servirebbe dunque a dare prova di "obbedienza cieca, pronta e assoluta", come scriveva Giovannino Guareschi nelle sue satiriche vignette?
Diciamo subito che non è così, se si rimane sul terreno biblico. I profeti si scaglieranno più volte contro la pura e semplice osservanza formale di precetti codificati: "Che m'importa la moltitudine dei vostri sacrifici? dice l'Eterno; io sono sazio d'olocausti di montoni e di grasso di bestie ingrassate; il sangue di tori, di agnelli e di capri, io non lo gradisco" (Isaia 1:11).

La prova di Dio non è un test attitudinale
Il Signore non mette alla prova il popolo dandogli un ordine per sapere quello che è capace di fare; il Signore comincia col fare qualcosa di benefico; poi promette qualcosa di benefico; poi dà un ordine per vedere se il popolo è grato per quello che ha fatto e crede in quello che ha promesso.
Dio fa così quando manda la manna come cibo e ordina di prenderne ogni giorno soltanto il necessario e di astenersi dal prenderne in giorno di sabato. "«Riflettete che l'Eterno vi ha dato il sabato; per questo, nel sesto giorno egli vi dà del pane per due giorni; ognuno stia dov'è; nessuno esca dalla sua tenda il settimo giorno». Il popolo dunque si riposò il settimo giorno" (Es. 16:29-30).
Il comandamento del sabato, che qui compare per la prima volta e come unico precetto fino all'arrivo al Sinai, non è una difficile opera meritoria da compiere con grande fatica, ma una prova di fede. E' la fiducia in Lui che il Signore chiede al suo popolo, perché è in questo modo che si esprime l'asimmetrico rapporto d'amore tra Dio e la sua creatura.
Anche il resto dell'avventura di Dio con il suo popolo deve essere visto in questa chiave. Dopo gli incidenti legati alla fame e alla sete, compaiono per la prima volta nuovi nemici: gli amalechiti. Ancora una volta Dio mette alla prova la fede del popolo, ma in modo diverso da prima. Quando l'esercito egiziano si avvicinava minacciosamente, Mosè aveva detto al popolo: "Non temete, state fermi, e vedrete la liberazione che l'Eterno compirà oggi per voi" (Es. 14:13), dunque un esercizio di fede passiva, uno dei più tremendi. In questo caso invece gli ebrei devono combattere, ma la vittoria non dipende da loro: l'esercito guidato da Giosuè vince quando Mosè tiene le mani alzate in preghiera e perde quando le abbassa. In questo caso il Signore impone al popolo un esercizio di fede attiva e comunitaria: una parte deve combattere, una parte deve pregare.
L'opera di istruzione del popolo da parte di Dio continua. M.C.

  (Notizie su Israele, 9 febbraio 2017)


Lancio di razzi dal Sinai contro Israele

Lo Stato Islamico ha rivendicato il lancio di razzi dall'Egitto a Israele avvenuto nella notte. Secondo quanto riferiscono i media di Gaza rilanciati dal Jerusalem Post, la propaggine dell'Is attiva nel Sinai sarebbe responsabile della raffica di razzi lanciati contro Eilat, nel sud dello Stato ebraico.
Tre dei quattro razzi lanciati dal Sinai sono stati intercettati dal sistema israeliano anti missile Iron Dome, un quarto e' esploso in un'area disabitata. Secondo i media di Gaza, i razzi lanciati sarebbero stati in tutto sette.
In risposta all'attacco le forze israeliane all'alba hanno condotto un raid aereo al confine tra la parte meridionale della Striscia di Gaza e l'Egitto. Nel raid, secondo fonti mediche palestinesi e testimoni, due palestinesi sono rimasti uccisi e altri cinque feriti. I caccia israeliani hanno colpito un tunnel sotterraneo utilizzato per il passaggio di merci e persone.

(Adnkronos, 9 febbraio 2017)


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Israele: non abbiamo effettuato alcun raid su Gaza nella notte

Le forze armate israeliane negano di aver condotto la scorsa notte alcun raid su Gaza, come invece affermano fonti palestinesi, lamentando la morte di due civili. Lo riferisce la radio militare. Intanto la normalità è tornata ad Eilat (Mar Rosso) dopo che mercoledì quattro razzi sono stati sparati dal Sinai egiziano nella sua direzione e sono stati intercettati dal sistema Iron-Dome.

(TGCOM24, 9 febbraio 2017)


Casa Bianca: Fratelli musulmani e Guardie della Rivoluzione iraniane nella "lista nera"?

NEW YORK - I consiglieri del presidente Usa Donald Trump stanno discutendo un decreto che comporterebbe l'iscrizione dei Fratelli musulmani nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali del dipartimento di Stato Usa. I Fratelli musulmani, organizzazione sociale e politica che conta milioni di sostenitori, è uno dei più vecchi e influenti gruppi islamisti del Medio Oriente. Ufficialmente, ha rinunciato alla violenza decenni fa: nel 2011 ha conquistato democraticamente il potere in Egitto con Mohamed Morsi, deposto dalle Forze armate nel 2013. Gruppi affiliati allo Stato islamico sono parte integrante del sistema politico in paesi come Tunisia e Turchia. L'ex presidente Usa, Barack Obama, ha resistito a lungo alle pressioni tese a derubricare l'organizzazione a gruppo terroristico. I Fratelli musulmani, però, professano un modello di società dominato dalla legge islamica, e alcune delle sue derivazioni - primo tra tutti il gruppo palestinese Hamas - hanno un orientamento decisamente più radicale. Alcuni dei consiglieri del presidente Usa, scrive il "New York Times", ritengono i Fratelli musulmani una setta radicale che da anni si infiltra nel tessuto sociopolitico Usa per diffondervi la Sharia.
   Se l'amministrazione Trump iscrivesse davvero i Fratelli musulmani alla lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, il quadro delle relazioni Usa nel Medio Oriente subirebbe quasi certamente un mutamento radicale. I leader di alcuni paesi autocratici come l'Egitto e di monarchie come gli Emirati Arabi, che da anni combattono quell'organizzazione politica, insistono da tempo perché Washington "metta al bando" il partito islamista. I Fratelli musulmani, però, sono un vero e proprio pilastro dell'ordine sociale e politico in diversi altri paesi musulmani. Il piano della Casa Bianca fa il paio con un secondo atto a classificare come organizzazione terroristica anche il Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica dell'Iran: questo piano, afferma il "New York Times", godrebbe a Washington di numerosi sostenitori.
   Inoltre, l'amministrazione Trump sta esaminando una proposta che porterebbe all'inserimento del Corpo delle Guardie Rivoluzione islamica dell'Iran nella lista delle organizzazioni terroristiche del dipartimento di Stato. Lo riferiscono fonti vicine all'amministrazione riprese dal quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Stando alle fonti, diverse agenzie governative Usa sono già state consultate in merito alla proposta, che se si concretizzasse inasprirebbe ulteriormente le restrizioni e le misure sanzionatorie già varate da Washington nei confronti del più potente corpo militare iraniano. Se adottata, però, tale decisione rischierebbe anche di causare effetti destabilizzanti nel quadro già compromesso della sicurezza regionale mediorientale. Il Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche, ricorda il quotidiano israeliano, è di gran lunga la più potente organizzazione militare dell'Iran, ed esercita il controllo su grandi partecipate dell'economia di Teheran e una rilevante influenza nel suo sistema politico.

(Agenzia Nova, 8 febbraio 2017)


Sul Golan, in Israele, trovato un nuovo teatro romano

di Stefano Sassi

Resti del teatro romano trovato nella città di Sussita (Hippos)
Un grande teatro romano è stato scoperto in uno scavo archeologico condotto dall'Università di Haifa nella città di Sussita (Hippos) sulle alture del Golan.
Il teatro si trova al di fuori delle mura della città vecchia, cosa che ha portato ricercatori ed archeologi a credere che è stato utilizzato principalmente per riti religiosi, piuttosto che come un luogo di intrattenimento. Nuovi scavi archeologici si stanno moltiplicando in tutto Israele soprattutto in prossimità delle città romane, che a loro volta seguivano le costruzioni lasciate soprattutto da Alessandro Magno, e si vengono a scoprire nuove verità storiche che arricchiscono la cultura del paese e creano nuovi siti da visitare.
Gli scavi al di fuori della città di Hippos (che vuol dire cavallo) negli ultimi anni sono diventati "un giallo", come ha affermato Michael Eisenberg dell'Università di Haifa, che è responsabile del gruppo di lavoro presente sul Golan, e che ha presentato la nuova scoperta alla conferenza annuale dei ricercatori presso l'Istituto Zinman di Archeologia.
"In primo luogo abbiamo trovato una maschera del dio Pan, poi la porta monumentale che conduce a quello che abbiamo iniziato a considerare che fosse un grande complesso pubblico, probabilmente un santuario. E ora, quest'anno, abbiamo trovato un bagno pubblico e un teatro nello stesso luogo, entrambe le strutture del periodo romano potrebbero essere associate con la medicina del dio Asclepio o agli dei della natura come Dioniso e Pan. Tutti questi ritrovamenti suggeriscono che un grande santuario era al di fuori delle mura della città", una struttura che cambia tutto ciò che i ricercatori sanno di Sussita.
E' del tutto possibile che migliaia di visitatori vennero a teatro su queste colline non per vedere l'ultimo spettacolo in città, ma a partecipare a riti in onore di uno degli dei del pantheon greco-romano. A quei tempi Sussita o Hippos era una città di primo piano nella zona a est del Mar di Galilea e le alture del Golan. il ritrovamento del teatro testimonia l'importanza della città stessa, posta in una zona, il Golan, ai confini con il Libano e la Siria, che anche in un recente passato, per altre ragioni, è stata strategica. Ora questa area di Sussita ( che è una parola ebraica) è diventata un parco nazionale tutta tesa allo sviluppo del turismo culturale.

(Itinerari nell'arte, 8 febbraio 2017)


Assordanti silenzi

di Francesco Lucrezi

La battaglia legale in corso negli Stati Uniti intorno alla validità del decreto firmato dal Presidente Trump (che, com'è noto, impedirebbe ai cittadini di sette Paesi islamici di fare ingresso negli States per 90 giorni), si presta a diverse considerazioni.
   Nel merito e nella forma del provvedimento, dico subito che lo considero sbagliato, controproducente e illegittimo. La lotta al terrorismo non si fa certo adottando la stessa rozza e violenta mentalità dei terroristi e degli estremisti, che considerano gli uomini nemici da colpire esclusivamente sulla base della loro nazionalità, religione o etnia. Trump fa bene a contrastare tutti i Paesi che foraggiano la violenza e il terrore, ma, se vuole davvero farlo, sbaglia completamente bersaglio prendendosela con i loro cittadini, anche quelli che bussano alla porta dell'America per fuggire dai loro regimi oscurantisti, in cerca di libertà e sicurezza. Niente fa più il gioco dei violenti che la logica brutale del muro contro muro, senza alcuna sfumatura e alcun distinguo.
   In un Paese democratico, poi, il Presidente non è un padrone di casa che decide lui, di volta in volta, a chi aprire l'uscio e a chi no. Queste cose, in uno stato di diritto, le decide la legge, non il governo, e neanche il potentissimo Presidente degli Stati Uniti è al di sopra della legge. Sto quindi dalla parte del Procuratore dello Stato di Washington, Bob Ferguson, che ha chiesto di bloccare il provvedimento, del giudice di Seattle, James Robart, che ha accolto il ricorso, e della Corte di Appello di Washington, che ha respinto il contro-ricorso presentato dal Dipartimento di Giustizia, contro la sentenza di Robart. E gli insulti contro i magistrati (il "cosiddetto giudice…"), pronunciati dall'incollerito Trump - che a noi italiani suonano tristemente familiari -, rafforzano la loro ragione, e il torto del Presidente.
   Ciò detto, mi dissocio nettamente dal coro universale di critiche a Trump, per un semplice motivo. Non ha nessun titolo morale per criticare il provvedimento del Presidente americano chi resta in assordante silenzio - come è stato opportunamente ricordato - innanzi alla scandalosa vergogna di ben 16 Paesi che impediscono - sulla base non di ragioni di sicurezza, per quanto opinabili, ma per motivi squisitamente razzisti - di entrare nei loro confini ai cittadini dello Stato di Israele. Una vergogna a cui si aggiunge l'altra, ancora più eclatante, costituita dal fatto che alcuni di questi Paesi impediscono l'ingresso non solo ai cittadini israeliani, ma anche a chiunque, di una qualsivoglia nazionalità, porti sul proprio passaporto un timbro dell'aeroporto Ben Gurion. Una misura disgustosa, che discrimina, tra l'altro, anche i cittadini italiani (moltissimi dei quali si recano ogni giorno in viaggio in Israele), e i Paesi democratici che la subiscono passivamente, senza neanche fiatare (tra cui, ovviamente, l'Italia), danno una tale prova di cinismo, viltà e doppia morale che dovrebbero solo andare a nascondersi, altro che dare le pagelle a Trump o a Putin.
   C'è un altro posto, poi, che si chiama Gaza, dove i cittadini israeliani sono invece sempre benvenuti: vengono infatti accolti a braccia aperte, e trattenuti per lunghi anni, o per sempre - anche se si tratta, come dimostrano le notizie di questi giorni, di giovani etiopi o beduini che soffrono di disturbi psichici, e che sono entrati nella striscia perché hanno perso la strada -, come una preziosissima risorsa, vero e proprio "oro umano", utile a intavolare estenuanti ma lucrosissime trattative per il loro rilascio, attraverso le quali estorcere al nemico, come scambio, quanti più tagliagole possibile. Ma anche su questo, ovviamente, il mondo tace.
   Tutto questo non mi porterà certo a mutare il mio giudizio sulle scelte del Presidente americano, le sue logiche e il suo linguaggio. Ma, sia chiaro, le mie critiche le farò sempre in beata e assoluta solitudine, mille miglia lontano dai chiassosi e affollatissimi cortei degli ipocriti manifestanti anti-Trump.

(moked, 8 febbraio 2017)


I nuovi insediamenti in Palestina svelano l'ipocrisia contro Israele

Indignazione a senso unico

di Fiamma Nirenstein

 
Eppure è difficile abituarsi a un atteggiamento saccente e punitivo quando guarda con un occhio solo. Come è possibile che l'Ue abbia scoperto una improvvisa efficienza cancellando sine die per punizione il summit previsto con Israele? Come può accadere che nelle stesse ore né l'Unione Europea, né l'Onu, né il governo francese o quello inglese facciano qualcosa di fronte alla notizia che il governo siriano ha impiccato 13mila dissidenti; come mai nessuno chiede di che si tratta quando il capo degli hezbollah Nasrallah annuncia una «grande sorpresa» a Israele proprio mentre si viene a sapere che aveva preparato eccidi di bambini ebrei in Brasile; come può capitare che nessuno da Bruxelles dica una parola all'Iran che spiega che può colpire Tel Aviv in 7 minuti. E invece tutti trovano il fiato per condannare una legge votata alla Knesset che consente di conservare certi «outpost», ovvero parti periferiche di insediamenti, costruite su terreni di proprietà palestinese? Tutta Europa si è alzata in piedi abbaiando, e sembra però che nessuno abbia letto la legge. Che detta «regolamento per gli avamposti» potrebbe essere obliterata dall'Alta Corte di Giustizia, cui hanno promesso di denunciarla i partiti di opposizione: presto altrimenti, dicono, la Corte dell'Aia criminalizzerà Israele. I palestinesi promettono azioni immediate. Netanyahu, che si trovava in Inghilterra da Theresa May mentre la legge veniva votata, avrebbe preferito rimandare il voto a dopo l'incontro con Donald Trump previsto per il 15 febbraio. Ma bruciava lo sgombero di Amo-na, appena avvenuto, e il voto c'è stato.
   I settler lo vedono come un evento che stabilisce un diritto anche su territori controversi. La legge stabilisce che si sospenda per un anno l'ordine di smantellamento per 6 outpost contrastati, che per ordine della Corte dovevano andare distrutti, e intanto l'Amministrazione civili indaghi. Gli ordini possono venire sospesi tuttavia solo se le costruzioni sono state fatte in buona fede e con l'approvazione dello Stato. Sono previste compensazioni per gli ex proprietari palestinesi del 125 per cento del valore o a scelta della sostituzione con altra terra. I palestinesi la chiamano una legge che «legalizza il furto», il mondo arabo gli va dietro, l'inviato dell'Onu Nickolay Mladenov dice che «la legge stabilisce un principio molto pericoloso» perché apre le porte all'annessione totale della West Bank, il ministro inglese Tobias Ellwood dice che la legge «minaccia la soluzione di due Stati» e il ministro degli Esteri francesi Jean Marc Ayrault non ha fatto mancare la sua condanna. Ma si consenta di dire che migliaia di case, secondo Eugene Kontorovitch esperto di diritto internazionale, sono state costruite sul latifondo, terre date via dalla monarchia Ashemita durante la presenza giordana là, dal 1949 al 67. Poche famiglie sono mai venute a richiedere la terra in questione negli anni: sotto la legge giordana, la questione della proprietà sarebbe in gran parte caduta in prescrizione. Se poi ci fosse stata una vendita segreta agli ebrei, sarebbe stata punita con la pena di morte, e quindi nessuno la confermerà. Non solo: la terra intanto è diventata abitata e produttiva, e per esempio alcuni settler di Amona accettano la cacciata da casa, ma non quella della terra coltivata e hanno fatto ricorso. L'occupazione turca di Cipro permise ai settlers turchi di restare nelle proprietà greche nel 2005. Se si pensa poi allo sgombero di Gaza, alle serre fatte a pezzi, alle case e alle sinagoghe distrutte in poche ore col fuoco e il piccone una volta sgomberati i settler, è difficile capire il sacro fuoco europeo.
(il Giornale, 8 febbraio 2017)


“... è difficile capire il sacro fuoco europeo”. Si capisce, si capisce: è sacro odio antiebraico. Si legga l’articolo che segue. M.C.


Il dilemma d'Israele: insediarsi o ritirarsi dalle terre del 1967?

Un capo dei coloni e uno della sinistra bohème a confronto.

di Giulio Meotti

ROMA - "La domanda è una sola: la Giudea e la Samaria sono la nostra Alsazia e Lorena o sono territori occupati?". Si capisce perché Mordecai Richler uscì frastornato dall'incontro con Elyakim Haetzni, ritratto nel libro "Quest'anno a Gerusalemme" (Adelphi). Haetzni passa dalla musica di Schubert agli attentati dell'Intifada nella stessa frase. E' nato con il nome di Georg Bombach a Kiel, in Germania, prima dell'avvento del nazismo, ferito nella guerra arabo-israeliana del 1948 e di casa a Hebron da mezzo secolo, dov'è l'intellettuale laico di riferimento dei coloni israeliani. Quando inizia a parlare non si ferma più. Lo abbiamo intervistato dopo che lunedì la Knesset, il Parlamento israeliano, ha legalizzato gli insediamenti ebraici su terre private palestinesi. In cambio, i palestinesi possono scegliere fra risarcimento e appezzamento alternativo. Per la prima volta, Israele legifera sulla presenza israeliana oltre la Linea verde, quei Territori che chiamano "Giudea e Samaria" e che il mondo considera "occupati". Ne parliamo con due intellettuali opposti. Uno è Haetzni, editorialista di Yedioth Ahronoth, avvocato, ex deputato. L'altro è Yossi Klein Halevi, corrispondente di New Republic, ricercatore allo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme e fra gli esponenti di punta di quella bohème intellettuale israelo-americana.
  "La legge varata al Parlamento israeliano è un punto di non ritorno", dice al Foglio Elyakim Haetzni, uno dei padri storici degli insediamenti israeliani. "Dopo la guerra del 1967, Meir Shamgar, futuro capo della Corte suprema, tenne una conferenza sull'applicazione delle convenzioni internazionali in Giudea e Samaria: 'Il territorio conquistato non sempre diventa occupato. La Francia avrebbe dovuto agire in Alsazia-Lorena in conformità con le regole della Convenzione dell'Aia. Come è noto, la Francia ha trattato l'Alsazia-Lorena come territorio 'liberato'". Continua Haetzni: "Gli inglesi ebbero il Mandato britannico non per farci una colonia, ma al fine di preservarla per il popolo ebraico. Oggi Israele sta ripristinando quei diritti storici. Queste terre furono prese con la forza dagli arabi nel 1948, Israele li ha ripresi in un'altra guerra nel 1967 e oggi ci siamo noi ad amministrarli. Per mezzo secolo, Israele non ha saputo cosa fare di queste terre. Da qui la contraddizione. Oggi ci sono quasi mezzo milione di ebrei nei territori. Indietro non si torna".
  Israele si ritirerà mai dai territori? "Neville Chamberlain era il ritratto della naìveté, ci ha dato Monaco '38, ma non ha commesso due volte lo stesso errore e ha dichiarato guerra alla Germania. Pensava di placare Hitler dandogli la Cecoslovacchia. Così abbiamo fatto noi portando via i coloni di Gaza. Noi non faremo la fine della Cecoslovacchia". Due giorni fa, Yossi Klein Halevi ha scritto sul Wall Street Journal un lungo articolo sul dilemma israeliano. "Io vivo qui da 35 anni e come ebreo mi sento più a casa a Hebron che a Tel Aviv", dice Halevi al Foglio. "Ma in Giudea e Samaria c'è un altro popolo, i palestinesi, che considera anche Israele come parte della Palestina. Possiamo continuare a combattere, oppure possiamo accettare un livello di 'ingiustizia'. La soluzione due stati due popoli è quella ingiustizia minima. Dubito che sarà uno stato palestinese in pace con noi, ho dubbi sulla sicurezza, perché se ci ritiriamo ancora ci sarà un'altra Gush Katif (le colonie di Gaza evacuate e sostituite dai missili di Hamas, ndr). Ma se rimaniamo? Un giorno dovremo scegliere fra stato democratico ed ebraico e io non voglio scegliere. Capisco i coloni, li sento vicini, ma non sanno rispondermi a una domanda: cosa facciamo se rimaniamo? Israele diventerebbe come la Yugoslavia, la Siria, il Libano, l'Iraq. Non esiste un esempio di stato multietnico che funzioni. Non mi fido dei palestinesi, ma come posso vivere in uno stato in guerra con se stesso?".
  Se c'è una cosa su cui il colono e la colomba concordano è l'avversione per l'Europa. "Non mi faccio illusioni", conclude Haetzni al Foglio. "Hitler ha avuto successo grazie all'antisemitismo, fu questo a spingere i popoli europei, anche voi italiani, a collaborare. Perché oggi l'Europa ama tanto i palestinesi fra tante ingiustizie nel mondo? Perché hanno occhi bellissimi? No, perché Israele è il loro 'aggressore'. Anche i palestinesi vivono per il conflitto. Se finisse, diventerebbero irrilevanti come il Bangladesh. Prendi l'Inghilterra: ha combattuto Hitler, ma qui sobillava gli arabi ad attaccare gli ebrei. Basta leggere il monologo di Shylock in Shakespeare per capire questa ossessione". All'Europa, anche Halevi riserva parole di fuoco: "Il medio oriente non è un posto per i pacifisti. Qui la signora Mogherini non sopravviverebbe cinque minuti. La mia scelta non è fra terra e pace, ma fra una vulnerabilità e un'altra vulnerabilità. L'Europa tenga per sé le lezioni sulla pace".

(Il Foglio, 8 febbraio 2017)


Fra Washington e Teheran torna lo spettro della guerra fredda

Ma Putin consegna all'Iran 169 tonnellate di uranio

di Carlo Panella

È iniziata la Guerra Fredda tra l'Iran degli ayatollah e Donald Trump, come abbondantemente preannunciato dal neo presidente durante tutta la sua campagna elettorale. L'occasione è stata data dalla ovvia reazione di Trump alla notizia del lancio il 29 gennaio scorso di un missile balistico iraniano a media gittata da parte della speciale brigata dei Pasdaran. In termini chiari: un missile in grado di raggiungere l'Europa, Israele e - naturalmente - l'acerrimo nemico politico religioso degli ayatollah: l'Arabia Saudita che secondo loro «usurpa» la Custodia dei Luoghi Santi, la Mecca e la Medina. Immediata, ma non durissima, la reazione della Casa Bianca che ha considerato quel lancio di missile balistico una violazione degli accordi Usa- Iran siglati in sede Onu e ha varato nuove sanzioni contro alcune personalità e alcune organizzazioni del regime di Teheran. Furiosa, ieri, la reazione della Guida della Rivoluzione, l'ayatollah Khamenei, che ha personalmente attaccato Donald Trump.
   Una escalation verbale che mette in luce il dilemma fondamentale della politica estera di Trump. Il suo asse portante, oltre al neo isolazionismo, è infatti una politica di appeasement con Vladimir Putin, ma non è facile impostarla se contemporaneamente si portano al calor bianco le relazioni con un Iran, che della Russia è il principale - e indispensabile - alleato in Medio Oriente e che ha di fatto garantito con i suoi Pasdaran e le sue milizie sciite la vittoria di Assad (e quindi di Putin) ad Aleppo. Un'alleanza che ha visto Putin in persona concordare col generale iraniano Ghassem Suleimaini tutte le offensive in Siria e in Iraq. La Russia, per di più, nei giorni scorsi ha consegnato all'Iran 169 tonnellate di uranio arricchito per lo sviluppo del suo programma nucleare. Una fornitura che si accompagna a quella delle stesse centrali nucleari - costruite con tecnologia e impianti russi - , così come di armamenti di vario tipo, il che dimostra che l'asse Mosca-Teheran è politico-militare, ma anche strategico dal punto di vista economico. Trump, sul nucleare iraniano, così come gli uomini che gestiscono la sua politica estera e militare è stato chiarissimo: "L'accordo sul nucleare con l'Iran è il peggiore possibile". Non l'ha ancora denunciato, ma è chiaro che farà di tutto per un suo azzeramento sostanziale.
   Si vedrà quindi nelle prossimi mesi se e come questo nodo gordiano della politica di Trump potrà essere troncato. Ma si è facili profeti nel prevedere che la Guerra Fredda tra Usa e Iran sarà il punto più scabroso nelle relazioni tra la nuova amministrazione Usa e Putin.

(Libero, 8 febbraio 2017)


L'Ambasciatore Sachs: Israele rispetta la legalità, non è più isolata di prima

di Benedetta Guerrera

ROMA - Dopo la decisione della Knesset di legalizzare migliaia di insediamenti su territorio palestinese "Israele non è più isolata di prima". Lo sostiene l'ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs che, in un forum all'ANSA, ha spiegato perché, rispetto al provvedimento passato in Parlamento, il suo Paese continua a procedere "nel rispetto della legalità".
   "In Israele abbiamo un governo di destra, la sua opinione è chiara", ha detto l'ambasciatore commentando la decisione della Knesset. "Detto ciò - ha precisato - siamo ancora nell'ambito di un processo, solo il tempo ci dirà se la legge sarà poi attuata. In secondo luogo, abbiamo visto in passato quanto Israele rispetti la cornice legale: solo una settimana fa, sono stati sgomberati degli insediamenti dopo vent'anni in virtù di una decisione della Corte Suprema". Indubbiamente la decisione "solleverà critiche, alcune delle quali saranno molto forti, ma anche con gli amici più stretti in Usa o in Europa non andiamo d'accordo su tutto". Per questo "Israele non è più isolata di prima".
   A proposito di alleanze di qua e di là dall'Oceano, per l'ambasciatore israeliano "è ancora troppo presto per dare un giudizio sull'amministrazione Trump che, per il momento, sta seguendo le linee della sua campagna elettorale". Il Medio Oriente non rientra tra le priorità del presidente americano per ora ma, è convinto Sachs, "durante il faccia a faccia tra Trump e Netanyahu il 15 saranno discusse diverse questioni".
   Non ci sono dubbi invece che per Israele "l'Iran è ancora la più grande minaccia nella regione". E sull'accordo con Teheran il governo israeliano non ha mai cambiato opinione: "Non ne siamo felici, ma è lì ormai e dobbiamo farci i conti", ha chiarito Sachs. "Ma qual è la ragione per cui l'Iran ha fatto quel test missilistico? Credo che il mondo debba fare di più", è il suo invito.
   Quanto all'Europa, l'auspicio di Israele è che ritorni "forte e unita" perché la "democrazia e il mondo" ne hanno bisogno contro le crescenti ondate populiste. Populismo che, secondo l'ambasciatore, si sta diffondendo fondamentalmente per due ragioni: le sfide economiche da cui l'Europa ha fatto più fatica ad uscire rispetto agli Usa e le tensioni sollevate dall'arrivo in massa di migranti. "Probabilmente se l'Ue avesse potuto agire con più forza in Siria o in alcune aree dell'Africa per creare stabilità e benessere, sarebbe stata in grado di diminuire queste tensioni", ha rilevato Sachs.
   Infine un appello al Paese che lo ospita a rafforzare la collaborazione economica e commerciale sull'esempio di quella in atto tra Israele e Stati Uniti. "L'Italia è una superpotenza economica. Dobbiamo fare di più per incrementare la cooperazione tra i nostri due Paesi", ha detto l'ambasciatore, invitando le imprese italiane "a guardare di più a Israele": "Il potenziale è enorme, dobbiamo cominciare - ha concluso - dal settore privato e dalle grandi imprese".

(ANSA, 8 febbraio 2017)



L'Onu è illegale

 


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