Il termine «coloni»
I telespettatori e i lettori di giornali, anche quelli più avvertiti, si sono ormai assuefatti al termine «colono». Ma perché questa puntigliosa precisazione, così diffusa, eppure così grave? Le parole non sono etichette vuote e indifferenti; hanno un significato che spesso veicola messaggi molteplici. Il termine «colono» sintetizza il modo di vedere di Israele, ne decreta la delegittimazione. Dalla guerra dei Sei Giorni, che Israele fu costretto a vincere, cominciò a circolare a chiare lettere l'accusa di colonialismo. Nei territori occupati in seguito alla guerra si svilupparono insediamenti che in gergo giornalistico divennero ben presto colonie. Si può su questo punto criticare la politica di insediamento dei governi israeliani successivi. Tuttavia la categoria semantica «colonie» resta problematica. Il potere coloniale è ben altra cosa: si fonda su una metropoli e sulla installazione di territori immensi e lontani, in una discontinuità storico-geografica, di cui si sfruttano le risorse e dai quali si ricavano redditi. È stato questo il modello delle colonie europee. Le cosiddette «colonie», di cui si parla in riferimento a Israele, si estendono per 5.800 chilometri e sono molto spesso paragonabili alla periferia di grandi reti urbane. L'uso disinvolto, e forse talvolta inconsapevole, del termine «colono» è inaccettabile, perché finisce per rappresentare Israele come una grande, enorme colonia, per infangarne la storia, per comprometterne l'esistenza politica, per minarne la legittimità democratica. Usare il termine «coloni» piuttosto che israeliani significa far passare l'idea che si tratta di cittadini che risiedono illegittimamente rispetto agli autoctoni, o presunti tali, significa rispolverare il vecchio argomento dell'autoctonia e del possesso della terra. Donatella Di Cesare
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