«Se Dio esiste...»

di Marcello Cicchese

 
Sono nato a Roma in una famiglia di veri cattolici italiani: cioè cattolici tiepidi. Non si pensi infatti che i veri cattolici siano quelli tutti casa e chiesa, che non perdono una messa e fanno collezione di santini: quelli sono una minoranza, che spesso dà anche un po' di noia all'istituzione ecclesiastica. Se poi qualcuno pensa che a Roma, essendoci il Papa, i cattolici siano almeno un po' più seri e ferventi, dovrà cambiare idea: è vero il contrario. Come dice un detto: "A Roma si fa la fede e altrove ci si crede". I romani autentici di vecchia data hanno un'esperienza secolare in fatto di dissacrazione: basta leggere i sonetti di Giuseppe Gioachino Belli per rendersene conto. Ma quella romana è un'opposizione bonaria, accomodante, perché profondamente scettica. Al prete - si pensa - si deve lasciar fare il suo mestiere, ma bisogna solo stare un po' attenti quando vuole uscirne. In fatto di soldi, per esempio, è bene fare attenzione, perché, come dice Leo Longanesi in uno dei suoi memorabili aforismi: "Al prete, in punto di morte, si può affidare tranquillamente la propria anima; ma, vivi e in buona salute, non c'è prete a cui si affidino i propri quattrini alla leggera". Anche in fatto di vicinanze personali extra ecclesiastiche bisogna essere cauti, come avvisa il Belli in uno dei suoi icastici sonetti: "Sora Terresa mia, sora Terresa, / io ve vorrebbe vede appersuasa / de nun favve ggirà ffrati pe ccasa / ché li frati so rrobba pe la cchiesa".
   In questo clima di normale, ovvia cattolicità sono cresciuto fin da piccolo.
   La persona in famiglia forse un po' più fervente delle altre era la mia nonna paterna: una pia donna proveniente dalla campagna marsicana che non perdeva una funzione di quelle comandate, ma che, essendosi portata a Roma le galline che aveva in campagna, e allevandole sul terrazzo di casa sua, quando si trattava di tirare il collo a qualcuna di loro non aveva il minimo accenno di esitazione, facendo così inorridire mia zia, che viveva con lei, e che, essendo sempre vissuta in città, non ne aveva il coraggio. E della madre diceva: "Cià 'n core nero..." Nonna Susanna, che ricordo sempre con tenerezza, avrebbe voluto avere un prete in famiglia e aveva messo gli occhi su di me. Mi dispiace di averle dato una delusione, ma alla fine credo che mi abbia perdonato.
   Mio padre invece era un normale cattolico maschio di quei tempi: un po' di religione - pensava - fa bene alla famiglia, ma senza esagerare. I momenti forti della vita familiare, come nascita, battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio, funerale avvenivano quindi, ovviamente, nell'usuale cornice religiosa. Sono stato quindi anch'io regolarmente battezzato da piccolo, cosa di cui ovviamente non ho alcun ricordo. Mi ricordo invece abbastanza bene della cresima, che potrebbe essere vista come il corrispondente, o forse l'imitazione, del Bar Mitzvà ebraico. Ricordo ancora lo schiaffetto con cui il vescovo mi ha arruolato come "soldato di Cristo" nell'esercito della chiesa.
   Alla cresima si arrivava (parlo al passato perché per il presente non sono informato) dopo aver fatto la prima comunione; e prima ancora bisognava frequentare un corso di istruzione in cui si doveva imparare un certo numero di preghiere a memoria, naturalmente in latino, perché quella era la lingua sacra con cui ci si rivolgeva a Dio in quel tempo. All'età di otto anni dunque ho imparato a memoria preghiere in latino, una lingua che ovviamente nessuno in famiglia praticava o conosceva, come del resto è avvenuto per secoli agli ebrei in diaspora rispetto alla lingua ebraica. Solo in seguito ho capito che la scelta del latino come lingua sacra per rivolgersi a Dio è un altro aspetto della teologia della sostituzione.
   Posso dire, comunque, che quelle preghiere in latino le ricordo ancora quasi tutte, e potrei recitarne qualcuna a memoria, come per esempio il Pater noster.
   Quanto a mio padre, la società cristiana, non certo l'insegnamento esplicito della chiesa cattolica, gli chiedeva di avere una religiosità da uomo: quindi rispetto per chi vuol fare pratiche religiose, ma niente atteggiamenti da pia donnetta. Bisogna dire che mio padre si è adeguato bene al cliché richiestogli, perché è rimasto sempre il classico cattolico di Natale e Pasqua.
   Ha voluto però che per quanto possibile i suoi figli frequentassero delle scuole religiose. E così è stato anche per me. Gli ultimi anni delle elementari e gli anni della media li ho fatti in un istituto religioso della "zona bene" di Roma: i Parioli. Lì, oltre alle preghiere in latino, durante la messa ci facevano cantare in gregoriano. Era ancora lontano il tempo delle messe beat; al Signore bisognava rivolgersi nell'unica lingua veramente sacra: il latino. E si doveva usare una musica che non si appoggia sulla carnalità dei sensi, ma ha un carattere di spiritualità che conduce verso l'alto. E questo, appunto, è il gregoriano. Ricordo ancora musica e testo del Tantum Ergo Sacramentum, di cui solo in seguito ho saputo che è un inno liturgico estratto da una composizione di Tommaso d'Aquino. A quel tempo invece, di quello che cantavo non capivo assolutamente nulla, senza che nessuno si preoccupasse di spiegarmelo e senza che io mi preoccupassi di chiederlo. La religione era quella: punto e basta. La religione si fa, non si discute. E tuttavia, quell'inno imparato da bambino lo ricordo ancora bene: saprei cantarne anche adesso almeno la prima strofa, come una volta. Più tardi, molto più tardi ho anche capito che in quelle poche parole è già contenuto il nocciolo della teologia della sostituzione: "antiquum documentum novo cedat ritui", l'antico documento ceda il posto al nuovo rito.
   Ho voluto raccontare tutto questo per dare un'idea del clima religioso e familiare in cui ho trascorso i primi anni della mia vita: un clima a questo riguardo tutto sommato tranquillo, senza tormenti interiori o laceranti contrasti.


Una silenziosa uscita
All'età di circa quindici anni ho interiormente abbandonato il mio tranquillo ambiente familiare per tutto quello che riguardava Dio. Non sono uscito sbattendo la porta, non sono rimasto scandalizzato da comportamenti indecenti di preti o affascinato da una religione d'amore universale o da un'ideologia di lotta continua: semplicemente, esaminando con onestà i miei pensieri, ho preso atto di non essere affatto convinto della verità di tutto quello che mi era stato insegnato. E per coerenza ho smesso di considerarmi un cristiano.
   In pratica, all'inizio non cambiò nulla. Non essendoci più mia madre, e con un padre che dovendo mantenere sei figli, aveva ben altro a cui pensare prima di chiedersi che cosa stava passando per la testa di uno di loro, le cose andarono avanti senza che nessuno notasse in me qualcosa di particolare. E io, considerato anche il mio carattere, mi guardavo bene dal comunicare in famiglia i miei pensieri: erano fatti miei, che c'entravano gli altri?
   In questa mia uscita dal cristianesimo di famiglia dunque non c'è niente di drammatico, niente che si presti a colorite ricostruzioni romanzate. Vorrei soltanto sottolineare una non piccola differenza tra la mia esperienza e quella di un ebreo che abbandona la fede insegnatagli da piccolo. Quando un ebreo cresciuto in una famiglia di normale religiosità ebraica si accorge di non credere più a quel Dio di cui gli avevano parlato, non cessa di considerarsi ebreo, e quindi spiritualmente non esce di casa: passa soltanto da una stanza all'altra. Quando invece un gentile come me, cresciuto in una famiglia di normale religiosità cattolica, si accorge di non credere più a quel Dio di cui gli avevano parlato da piccolo, esce spiritualmente del tutto dalla casa. E può accadere che non ne trovi un'altra. Che resti per strada. Senza usare toni drammatizzanti, posso dire che quella è stata la mia esperienza in quegli anni: ero solo. Non c'era un "noi" che potessi dire con convinzione, tanto meno con fierezza o consolazione. Non avrei potuto trovare conforto cantando, come fanno gli ebrei, l'inno sionista "HaTikvà" (la speranza), perché non sapevo ancora - ma adesso lo so - che ero nella posizione in cui si trovano per natura tutti i gentili: ero senza speranza e senza Dio nel mondo (Efesini 2:12).


Non cercavo un confortevole rifugio
Per quanto riguarda il rapporto con Dio (supposto che ci fosse, cosa di cui allora dubitavo), ero tutt'altro che ben disposto ad accogliere eventuali proposte di sognatori, quelli che ti sanno presentare belle e attraenti realtà spirituali in cui ti attirano perché loro vi si trovano bene: non ero alla ricerca di un rifugio in cui stare al calduccio e trovare un po' di conforto. Se fosse stato così, tutto sommato avrei potuto rimanere dov'ero. La vita è dura, certo, anche per un giovane che ha davanti a sé tutta la vita aperta, ma credo che se si vuole trovare soltanto un po' di sollievo alle proprie pene, si può decidere di coltivare qualche interesse gradevole, come la musica, il teatro, le lingue straniere, i viaggi, il calcio, il biliardo, le bocce, ma scegliere a questo scopo una religione, di solito quella più a portata di mano, e fingere con se stesso e con gli altri di crederci perché così "ci si sente meglio", era una cosa che mi sembrava del tutto stupida. Il mio discorso era semplice: se un Dio davvero esiste, non si può prenderlo in giro con queste messe in scena; né si può pensare che Lui si faccia davvero prendere in giro in questo modo. Ripeto: non ero affatto sicuro che Dio ci fosse, ma in qualche modo avevo già deciso che se Dio c'è, è una persona seria. E non mi sbagliavo.
   Continuai dunque a fare quello che facevo prima, sentendomi semplicemente libero da obblighi religiosi di qualunque tipo. Mi piaceva leggere, e continuai a farlo con maggiore intensità, non per colmare vuoti che non avvertivo, ma per desiderio di conoscere e imparare. E proprio in quel periodo feci la conoscenza della letteratura russa, cominciando da un romanzo che mi piacque moltissimo: "Guerra e pace" di Tolstoi. Sulla spinta di quella lettura volli leggere altri romanzi dello stesso autore, per passare poi ad altri scrittori russi dello stesso periodo.
   Fu in un modo apparentemente casuale che le cose cominciarono a cambiare.


Un compagno di scuola preparato e anticlericale
Nella nostra classe di liceo c'era un ragazzo - che in seguito chiamerò Lorenzo - molto preparato in fatto di storia e attualità politica. Ce n'eravamo accorti perché ogni tanto si metteva a questionare con il professore di filosofia, contrastando vivacemente le sue affermazioni. Quel professore era una persona liberale di squisita educazione: si rivolgeva a noi dandoci del lei, lasciava che noi stessi decidessimo quando volevamo essere interrogati, accettava il dibattito con noi, che spesso non sapevamo dire nient'altro che sciocchezze. Ogni tanto ci accadeva di dover assistere a lunghe e animate discussioni tra lui e Lorenzo. A noi studenti in fondo la cosa non dispiaceva, anzi, qualche volta eravamo noi stessi a chiedere a Lorenzo di provocare il professore in qualche acceso dibattito, in modo da poterci fare tranquillamente i fatti nostri durante il tempo della lezione.
   Lorenzo era un anticlericale. La cosa divenne chiara quando una volta, essendogli stato chiesto di leggere in classe un testo di storia in cui a un certo punto si trovava scritto "S.S. Pio XII...", lui lesse ad alta voce: "Esse Esse Pio XII...", facendo naturalmente ridere tutta la classe.
   Essendo venuto a sapere che non mi consideravo più cattolico, una volta mi propose di andare ad ascoltare una conferenza nella Chiesa Evangelica Valdese in Piazza Cavour. Vi andai, non perché fossi alla ricerca di qualcosa di sostitutivo della religione cattolica, ma per semplice curiosità e desiderio di ampliare le mie conoscenze. L'oratore parlò di Lutero. Non ricordo niente di quello che disse, e sono convinto che anche allora ne capii ben poco: non era un tema che fino a quel momento rientrava nei miei interessi. L'unica cosa che notai, ed era per me nuova, fu che di Lutero l'oratore parlava bene. Per me, per come l'avevo sempre sentito nominare in ambito cattolico, il nome di Lutero non si distingueva molto da quello di Lucifero.
   Presi dunque coscienza diretta che esistevano anche cristiani non cattolici. Lo sapevo, certo, dai libri di scuola, ma fino a quel momento quegli strani esseri erano rimasti soltanto un paragrafo di storia da imparare per doveri scolastici. La cosa comunque non mi aveva molto impressionato: per me tutto restava come prima.
   Lorenzo però, anche se non mi sembrava che fosse un protestante molto assiduo e convinto, mi prese sotto la sua tutela e si propose di farmi conoscere meglio l'ambiente degli evangelici.
   Mi portò quindi non più ad ascoltare una conferenza, ma ad assistere a un vero e proprio culto religioso in una Chiesa Evangelica Metodista. Qui posso dire che ricordo qualcosa di più: il predicatore parlò sulla parabola dei talenti. Lorenzo disse però che la predica non valeva molto, ed io non saprei riportarne le ragioni. Ricordavo ancora le preghiere in latino imparate da piccolo, ma i racconti evangelici non facevano parte del mio bagaglio di conoscenze, tanto meno di riflessione.


Il pacchetto-chiesa
Le cose dunque continuavano come prima, né c'era motivo perché cambiassero. Avevo conosciuto altre chiese cristiane, un po' diverse da quella cattolica, ma non vedevo in quale modo questa esperienza, abbastanza interessante sì ma non troppo, avrebbe dovuto modificare le mie considerazioni su Dio. Ero abituato fin da bambino a vedere Dio come un elemento inseparabile del pacchetto-chiesa: avendo gettato via il pacchetto cattolico, era ovvio che per me anche Dio facesse la stessa fine. Mi erano stati proposti altri pacchetti, presentati come migliori, certo, ma non potevano riuscire a farmi cambiare il mio modo di porre il problema di Dio.
   Lorenzo però non voleva demordere. Mi portò allora da un missionario evangelico di sua conoscenza. L'esperienza questa volta fu diversa: non entrai nell'edificio austero di una chiesa, né vidi un officiante vestito in abiti solenni far piovere dall'alto sacre parole da prendere o lasciare. Entrai invece in un ufficio come tanti altri, pieno di libri, carte, attrezzi, e vi trovai un giovanotto sui trent'anni, vestito come tutti, con il quale Lorenzo mi propose di entrare in discussione. Discutere mi piaceva, quindi accettai. Non ricordo come si svolse quella prima chiacchierata, ma il risultato fu che alla fine accettai di avere altri scambi ed ebbe inizio una serie di incontri in cui Lorenzo riuscì ad invitare anche altri giovani, tra cui qualche nostro compagno di classe.
   La prima cosa che il missionario cercò di farmi capire, con qualche fatica da parte mia perché quel modo di pensare mi era del tutto estraneo, era che il rapporto dell'uomo con Dio non ha come elemento primario la chiesa, ma la persona di Gesù. La chiesa non è quella bella e indispensabile confezione in cui si trova contenuto Gesù; non è il pacchetto offerto agli uomini perché possano trovarvi dentro il Salvatore; la chiesa - cercava di farmi capire il missionario - è l'insieme di coloro che hanno conosciuto e accolto personalmente Gesù risuscitato. Anche se le esperienze personali possono apparire diverse, nel rapporto con Dio la successione vera è questa: si entra nella chiesa perché si è creduto in Gesù, non si crede in Gesù come conseguenza del fatto che si è entrati nella chiesa.
   Adesso queste cose so spiegarle, ma quanta fatica facevo allora a capirle! Per me Gesù era sempre stato uno degli elementi dell'insegnamento cattolico; un elemento importante, certo, anzi fondamentale, ma sempre e soltanto una parte della struttura della chiesa. Ed è per questo nell'insegnamento di questa istituzione religiosa viene per prima la frase "Extra Ecclesiam nulla salus", al di fuori della chiesa non c'è salvezza. Questo veniva insegnato nei fatti, anche se non sempre lo si ripeteva in termini così chiari e netti.
   La mia domanda allora in quel tempo era questa: "Ma se non sono obbligato a passare attraverso la chiesa per conoscere Gesù, in che modo posso conoscerlo?" "Attraverso la lettura delle Sacre Scritture", fu la risposta del missionario. Questa fu per me la seconda cosa assolutamente nuova. Ero preparato a fare molte domande e obiezioni sul pacchetto cattolico contenente Gesù, ma se adesso mi dicevano che il vero Gesù si trova soltanto nelle parole della Bibbia, mi trovavo davanti a una sfida: se volevo continuare a discutere di Gesù con quel missionario non avevo altra scelta: dovevo leggere la Bibbia. Era una cosa che non mi aspettavo e a cui non ero preparato.
   Mi regalarono un Nuovo Testamento. Naturalmente non l'avevo mai letto; cosa normale per i cattolici di quel tempo. Non si dimentichi che allora la Bibbia era un libro proibito ai laici. Qualche racconto dei Vangeli lo conoscevo, e forse l'avevo anche letto in qualche pubblicazione religiosa per ragazzi, ma che oltre ai Vangeli esistesse anche un Nuovo Testamento, non credo proprio che a quel tempo lo sapessi. A dire il vero, nella biblioteca di mio padre una Bibbia c'era: una bella Bibbia del Martini in due grossi volumi con le preziose illustrazioni del Dorè. E sempre con le illustrazioni del Dorè c'era anche una Divina Commedia in tre volumi. A entrambe le opere avevo dedicato la medesima cura: non ne avevo letto nemmeno una pagina.


Un libro difficile da capire
Cominciai dunque a leggere, con impegno e attenzione, come del resto ero abituato a fare anche con altri testi. Ma l'educazione cattolica ricevuta non mi aiutava affatto a capire quello che leggevo. Tutto per me era nuovo, o se l'avevo già sentito prima, adesso lo vedevo presentato in modo diverso, in qualche caso addirittura opposto. Quasi ad ogni pagina mi veniva spontaneo di porre domande su domande, a cui naturalmente quasi mai trovavo risposte. Ponevo interrogativi che mi sembravano logici, intelligenti, come tutti quelli che si compiacciono di aver trovato nel testo una contraddizione e pensano di essere stati i primi a trovarla.
   Ponevo dunque domande su domande e non trovavo risposte soddisfacenti. Ne parlavo con il missionario quando ci incontravamo; lui mi dava delle spiegazioni; ma queste non mi convincevano. Infatti non hanno lasciato tracce nella mia memoria. Ricordo soltanto una volta, quando con grande fatica cercò di spiegarmi che cos'è secondo la Bibbia la giustificazione per grazia mediante la fede. A me venne quasi il mal di testa nello sforzo di capire quello che diceva. Alla fine mi sembrava d'aver capito, senza tuttavia esserne convinto, e glielo dissi. Poi aggiunsi: "Ma come fa una persona semplice a capire una dottrina così complicata? Io ho fatto molta fatica a seguire la sua spiegazione, eppure sono uno che ha studiato". "Forse è proprio per questo che fai tanta fatica - mi rispose il missionario - un altro ne avrebbe fatta molto meno".
   Nonostante questa indisponente risposta, continuai a leggere, perché i Vangeli, anche quando sembrano strani e forse anche oscuri a chi li legge la prima volta, hanno una singolarità che attrae e non permette di distaccarsene facilmente.


Il timore che possa essere vero
Un fatto strano che quasi sempre accade a chi legge i Vangeli è questo: ti avvicini al testo con la ferma intenzione di esaminare con severità le sue parole e ad un tratto ti accorgi con imbarazzo che sei tu ad essere esaminato. Leggi: "Chiunque s'innalzerà sarà abbassato", e immediatamente pensi: non è il caso mio, io non m'innalzo. Poi magari ti viene qualche dubbio, ma passi oltre. E leggi: "Ravvedetevi, poiché il Regno dei cieli è vicino", e ti chiedi: ma che cos'è questo regno dei cieli? Io non lo so. So però che cosa significa la parola "ravvedetevi". Questo allora vuol dire che se un giorno arriverò a capire che cos'è il regno dei cieli, saprò anche che cosa devo fare per entrarci: ravvedermi. E' a questo punto che qualcuno comincia a temere che quello che legge sia proprio vero. E magari abbandona la lettura, adducendo qualche ragione intellettuale, che a lui naturalmente sembra decisiva.
   Io invece continuai a leggere, ma con la ferma intenzione di non modificare l'atteggiamento che avevo deciso di avere con ogni organizzazione religiosa che mi proponesse la sua verità. Se mi dicevano che soltanto nei Vangeli si può trovare il vero Gesù, allora le parole di Gesù che stavo leggendo dovevano riuscire a convincermi. Supposto che un Dio esista, non avrebbe potuto rimproverarmi di non aver accolto parole che non riuscivo a capire. La mia linea di difesa davanti a un eventuale tribunale divino sarebbe stata questa: non ho rifiutato la tua parola, perché per rifiutare una parola bisogna capirla, e io non l'ho capita. Il parlare di Gesù mi pareva strano, lacunoso, incomprensibile. E naturalmente di tutto questo attribuivo la responsabilità a chi parla, non a chi ascolta.
   La Bibbia però è un libro difficile da controllare: quando ti sembra di averlo debitamente inquadrato, ti scappa fuori da qualche parte che non t'aspetti e non riesci più a rimetterlo in carreggiata. Se una cosa così può capitare anche a chi legge la Bibbia da oltre cinquant'anni, figuriamoci se poteva non capitare a me dopo qualche settimana. Continuando dunque nella lettura, scoprii con sorpresa che il Dio della Bibbia non parla soltanto per farsi capire, ma in qualche caso anche se sa, fin dall'inizio, che non sarà capito, e addirittura con l'intenzione esplicita di non farsi capire. Certe parole di Gesù mi arrivarono addosso come macigni:
    "Allora i discepoli si avvicinarono e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?» Egli rispose loro: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ma a loro non è dato. Perché a chiunque ha sarà dato, e sarà nell'abbondanza; ma a chiunque non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole, perché, vedendo, non vedono; e udendo, non odono né comprendono. E si adempie in loro la profezia d'Isaia che dice: "Udrete con i vostri orecchi e non comprenderete; guarderete con i vostri occhi e non vedrete." (Matteo 13:10-14).

Il problema con Dio cambia forma
Se le cose stanno così - cominciai a pensare - il mio non capire non potrà essere un argomento a mia discolpa; al contrario, mi potrebbe essere chiesto: "Perché non hai capito? Perché non sei stato reputato degno di ricevere la possibilità di capire?" Questo mi fece perdere un po' della mia baldanzosa sicurezza. Se davvero esiste un'autorità di questo tipo - pensavo -, le mie obiezioni logiche non hanno alcun peso.
   A questo punto il problema con Dio per me si poneva in modo diverso da prima, e poteva essere formulato così: supposto che il Dio della Bibbia esista, non sono io che decido se le sue parole sono convincenti, ma è Dio che decide se io sono degno di capire e accogliere le sue parole. Stando così le cose, le obiezioni che sapevo fare al testo non riuscivano più a farmi restare così sicuro e compiaciuto della mia finezza logica: in me piuttosto cominciava a prevalere il timore di essere tagliato fuori dalla possibilità di capire. Credo proprio che sia stata questa la prima rivelazione che mi ha fatto arrivare il Signore, senza che ovviamente me ne rendessi conto.
   Continuai a leggere, e con maggiore impegno, perché la parola di Gesù adesso mi attirava e volevo capire se era vera. In poche parole: ero alla ricerca della verità. Nient'altro che la piena certezza della verità avrebbe potuto soddisfarmi. Se questo non fosse stato possibile, sarei rimasto nella mia posizione di agnosticismo. Però, dopo tutto quello che avevo letto e capito, anche questa posizione non sarebbe più stata tanto comoda. E' una caratteristica dei Vangeli: dopo averli letti con attenzione e serietà o si sta meglio o si sta peggio.
   Non ricordo di preciso come mi sentivo in quel tempo, ma sicuramente certe parole di Gesù avevano lasciato il segno:
    "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero" (Matteo 11:28-30).
Tuttavia, per quanto attraente potesse apparire l'invito a credere, le mie domande rimanevano senza risposta e quindi, per quella veracità interna che mi ero proposta e ritengo ancora essenziale per poter accogliere la verità, non ero disposto a chiudere gli occhi, a mentire a me stesso, ad agire "come se" la cosa fosse vera anche senza esserne del tutto convinto, per il solo motivo che in questo modo "si vive meglio".
   La mia rigorosa impostazione logica non mi venne minimamente in aiuto, almeno in un primo momento. Di nessuna cosa in questo mondo si può essere certi al cento per cento, ma, al fine di muoversi concretamente, di prendere una decisione, il grado di certezza deve essere tanto maggiore quanto è più grande la gravità della scelta da fare. Posso uscire di casa senza ombrello anche se, secondo le previsioni, la probabilità della pioggia è data al cinquanta per cento; ma se devo decidere di mangiare un cibo che secondo qualcuno potrebbe essere avvelenato, prima di farlo non mi accontenterei neanche del novanta per cento di certezza. Considerando allora l'«oggetto Dio» - pensavo - esso è di una gravità infinita; ne discende che per arrivare a dire "credo in Dio" è assolutamente necessario avere una fede al cento per cento. Se alla mia fede concedo anche soltanto uno 0,01 per cento di possibilità negativa, cioè che non sia vero quello che credo, allora in realtà io non credo affatto.
   So bene che non tutti, o forse ben pochi, arrivano alla fede con problemi di questo tipo, ma per me è stato così.


Il palleggio delle responsabilità
La situazione dunque si presentava abbastanza disperata perché, essendo per natura piuttosto critico e assolutamente non incline alla ricerca di drogati mondi immaginari, la probabilità che davo alla possibilità per me di arrivare ad una fede in Dio al cento per cento era pari allo zero per cento.
   A questo punto però il Signore, nella sua paziente e intelligente misericordia, mi venne in soccorso proprio attraverso quell'impostazione logica che mi aveva dato fin dalla nascita.
   Ero partito col dire che non credo in Dio perché sinceramente non sono convinto della sua esistenza, e quindi non posso essere di questo incolpato. Ma leggendo i Vangeli avevo capito che il Dio di cui lì si parla non è obbligato a farsi trovare da chiunque gli ponga domande a modo suo ed esiga da lui risposte precise a quello che chiede. Dio c'è, ma può decidere di non farsi trovare; Dio parla, ma può decidere di non farsi capire. Dipende da come Dio valuta l'interlocutore che gli sta davanti. Che in questo caso ero io. Ero messo alle strette. Per usare termini del linguaggio politico, dovevo prendere atto che nel gioco delle responsabilità fra Dio e me, la palla mi era rimasta fra le mani. Dovevo ributtarla dall'altra parte. Per via logica capii che avevo una sola possibilità.
   In un momento che non avevo preparato, in un luogo che non era casa mia, in mezzo a persone che non conoscevo e non mi conoscevano, improvvisamente mi decisi a fare, con una certa fatica, una cosa che non avevo mai fatto in vita mia: rivolgere la parola a qualcuno che non sapevo nemmeno se c'è. Non ricordo se con le labbra o soltanto nella mente, rivolsi "al dio sconosciuto" (Atti:17:23) questa brevissima preghiera: "O Dio, se esisti, rivelati a me". La palla adesso era tornata nelle sue mani. Se nulla fosse accaduto, per me la colpa era sua. La colpa di non esistere, o di non volersi far trovare.
   Per un po' di tempo, in realtà, non accadde nulla; e poiché non gli avevo posto scadenze temporali, continuai tranquillamente a leggere i Vangeli e a vivere come prima.
   Alla fine però qualcosa di nuovo effettivamente accadde.


Importanza del testo biblico
Del mio percorso di avvicinamento a Dio vorrei mettere anzitutto in risalto un aspetto fondamentale che è stato la chiave che mi ha aperto la porta della fede: il valore insostituibile del testo biblico. Questo elemento non era parte del patrimonio religioso ricevuto con la mia educazione cattolica, ma è entrato a far parte della mia riflessione quando sono venuto in contatto con ambienti evangelici. So che oggi ci sono evangelici di tutti i tipi (come ci sono ebrei di tutti i tipi), ma uno degli elementi fondamentali (anche se non l'unico) per continuare a dirsi tali è il riconoscimento dell'ispirazione divina della Scrittura e del suo carattere di ultima, decisiva autorità. La possibilità di diverse interpretazioni resta aperta, perché al contrario di quello che ha insegnato per secoli la chiesa cattolica, non esiste un'autorità umana a cui spetta l'ultima parola, ma di ogni interpretazione o applicazione che si voglia dare, ciascuno è tenuto a fornire un convincente riferimento al testo biblico e ad assumersene la responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini.
   Avendo capito quello che mi veniva presentato, e avendolo accettato come strumento della mia ricerca, il mio problema con Dio aveva ormai preso la forma di un confronto con il testo biblico.


Continuai a leggere
Continuai dunque a leggere, e per capire l'importanza che davo alla cosa, dico qualcosa sul particolare momento di vita in cui allora mi trovavo. Ero alla fine dell'ultimo anno di liceo e mi stava davanti lo spettro angosciante dell'esame di diploma degli anni cinquanta: prove scritte e orali in tutte le materie, senza nessuna distinzione fra importanti e meno importanti, senza nessuna pietà per i poveri studenti, il cui cammino di sofferenza cominciava i primi di giugno e terminava quasi alla fine di luglio. Ero indietro con la preparazione, quindi nel mese di maggio avevo preso a studiare molto più di quello che mi veniva richiesto a lezione. Nonostante ciò, avevo deciso di leggere regolarmente il Nuovo Testamento, e per poterlo fare senza modificare il mio programma di studio mi alzavo presto la mattina, e prima di andare a scuola, nel silenzio della casa che ancora dormiva, leggevo lo strano libro che mi avevano messo fra le mani.
   Avevo ormai capito che il Dio della Bibbia non si sente obbligato a sottoporsi a interrogatori umani e può anche decidere di non farsi trovare da chi avanza pretese inaccettabili. Mi adattai allora alla situazione, e continuando nella lettura dei testi biblici in un atteggiamento di disponibilità in sostanza chiedevo cortesemente a Dio che, nel caso esistesse, trovasse il modo di farmelo sapere. Non avevo la minima idea di come questo sarebbe potuto accadere, e neppure ero nella trepida attesa di qualcosa di sensazionale da un momento all'altro. In fondo - pensavo - è un problema suo. Dopo aver fatto la mia semplice, diretta richiesta, feci quello che mi sembrava la cosa più naturale: continuai a leggere.
   Avvenne così che una mattina, quando ero già arrivato abbastanza avanti nella mia lettura del Nuovo Testamento, per motivi che non saprei dire decisi di tornare a leggere un passo che avevo già letto: i capitoli 5,6,7 del Vangelo di Matteo: il famoso Sermone sul Monte di Gesù. Torno a dire: l'avevo già letto, ma da quella prima lettura non avevo tratto nulla di veramente interessante e fondamentale, e quindi certamente non avevo ricevuto risposta alle mie domande.


La risposta
Questa volta invece fu diverso. E' difficile, forse impossibile, rendere la diversità. Si può provare a fare un'analogia. E' come se nel passato tu avessi visto un vecchio film muto senza didascalie, in cui si muove un personaggio interessante, che attrae la tua attenzione, e di cui vorresti capire quello che fa e dice, ma non ci riesci. Dopo qualche tempo vai a rivedere il filmato sperando di capirne qualcosa di più, e a un tratto, inaspettatamente, senti che il personaggio parla, ne odi la voce. Sei stupefatto, non solo perché odi una voce che prima non sentivi, ma anche per le parole che senti uscire da quella bocca. Leggevo:
    "Gesù, vedendo le folle, salì sul monte; e postosi a sedere, i suoi discepoli si accostarono a lui. Ed egli, aperta la bocca, li ammaestrava dicendo..."
Ecco, sì, è proprio come se Dio a un tratto avesse messo il sonoro: adesso udivo la sua voce. E questo dipendeva da Lui, non da me. Andai avanti nella lettura del sermone e il suono di quella voce, il susseguirsi di quelle parole, mi faceva avvertire quasi fisicamente il peso di una grandezza infinita che le rendeva incomparabili con quelle di chiunque altro: avevano il peso della verità. Alla fine della lettura ero certo: queste non sono parole di un uomo. Di chi allora? La risposta non poteva che essere una sola: di Dio.
   Dalla lettura fatta in quel momento non sarei stato capace di trarre nessuna delle numerose applicazioni morali o dottrinali che si trovano scritte nei libri; una sola cosa si era impressa in modo ormai indelebile nella mia mente e nella mia coscienza: l'autorità della persona di Gesù. Un'autorità su tutti e su tutto, universale dunque, ma anche personale. Me ne accorsi proprio durante la lettura, quando fui colpito dalla risposta precisa che ricevetti alla richiesta che avevo fatta giorni prima. Mentre ascoltavo Gesù parlare, sempre più avvinto da quel discorso che pareva farsi sempre più incalzante, quasi alla fine del sermone fui come folgorato da parole che sentii rivolte a me personalmente:
    "Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi picchia".
Era la risposta alla mia richiesta: Dio si era rivelato a me. Non avevo più dubbi, era impossibile dubitare: certezza al cento per cento.


Una verità d'amore
Avevo ormai la piena certezza della verità, ma non di una verità astratta, teoretica, perché fin dall'inizio avvertii che è una verità d'amore. Il discorso di Gesù infatti continua così:
    "Qual è l'uomo fra voi, il quale, se il figlio gli chiede un pane gli dia una pietra? Oppure se gli chiede un pesce gli dia un serpente? Se dunque voi che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano!"
Gli avevo chiesto una cosa buona, Dio me l'aveva data. Che cosa ci può essere infatti di più buono di un Dio onnipotente che ti fa conoscere il suo amore?
   Un'esperienza del tutto personale - penserà qualcuno - che in ogni caso non obbliga altri a credere alle stesse cose e nello stesso modo. E' assolutamente vero: era quello che pensavo anch'io a quel tempo e continuo a pensare ancora oggi. Ed è conforme al dato biblico: nessuno oggi può, né deve, imporre la fede con la forza, né fisica, né morale. Quello che Dio vuole dai suoi discepoli è che siano testimoni. Di che cosa? Della risurrezione di Gesù.
    "Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato; di ciò, noi tutti siamo testimoni" (Atti 2:32). "Gli apostoli, con grande potenza, rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù" (Atti 4:33).

Testimoni di Gesù
I primi testimoni di Gesù sono i testimoni oculari: coloro che hanno incontrato Gesù dopo la sua risurrezione dai morti e prima che fosse assunto in cielo. Sono secondi testimoni di Gesù tutti coloro che l'hanno incontrato nella sua Parola, riportata nel testo scritto e sostenuta dallo Spirito Santo.
   La fede cristiana è in primo luogo ed essenzialmente fede in Gesù risuscitato dai morti. Chi vuole porsi contro questa fede non ha bisogno di fare lunghi discorsi storici, politici, sociologici, teologici; è sufficiente che dica: la risurrezione di Gesù non è mai avvenuta, quindi il credervi è una sciocchezza. Chi sostiene questo dovrebbe essere poi tanto onesto e coerente da aggiungere che è una sciocchezza anche il cercare di difendere la figura di Gesù pur dicendo che non è risuscitato dai morti. Un sano modo di pensare deve portare a dire che se Gesù non è veramente risuscitato, allora quella persona è un impostore o un pazzo mitomane. Non c'è alternativa.
    "Se Cristo non è risuscitato, vana è la nostra predicazione, e vana pure è la vostra fede" (1 Corinzi 15:14).
Con il racconto di alcuni fatti della mia vita ho voluto soltanto "rendere testimonianza di Gesù", secondo l'indicazione biblica (Apocalisse 1:9, 12:17, 19:10), cioè dichiarare che Gesù è risuscitato dai morti, portando come testimonianza il racconto del mio incontro con Lui. Questo non ha niente di eccezionale, perché dirsi cristiani significa innanzi tutto essere testimoni, per esperienza personale, di Gesù risuscitato. Chi pensa di non poter fare questo, sarebbe bene che evitasse di dirsi cristiano.


Un Dio che perdona
La prima cosa che ho riconosciuto nel Gesù presentato nei Vangeli è la sua divina autorità: di questo avevo assolutamente bisogno per andare avanti nel mio cammino di fede, perché a nessuna persona o chiesa o organizzazione religiosa ero disposto a concedere piena fiducia a questo riguardo. Subito dopo ho capito che Gesù è un'autorità d'amore, e me ne sono sentito attratto. Ho desiderato dunque conoscerlo sempre meglio, e ho capito che questo era possibile soltanto continuando a camminare sulla via per la quale l'avevo incontrato: nella Sacra Scrittura, che ho quasi subito accettato come lo strumento della sua Parola. Non sono quindi ritornato nella mia "casa" d'origine, la chiesa cattolica, ma ho cercato altri fratelli in fede che avessero lo stesso tipo di rapporto con Dio e con la sua Parola.


Giustificati per fede
Nei giorni successivi continuai a leggere, ma adesso tutto era diverso, tutto aveva un'altra naturalezza, tutto era diventato più chiaro. E quando non riuscivo a capire qualcosa, l'incomprensione era uno stimolo all'approfondimento, non un intoppo che bloccava. Un'esperienza di questo tipo fecero all'inizio anche i discepoli, quando con loro sorpresa incontrarono Gesù risuscitato:
    "Allora [Gesù] aprì loro la mente per intendere le Scritture e disse loro: «Così è scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno, e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni»" (Luca 24:45-49).
Andando avanti nella lettura, ormai convinto dell'autorità di quelle parole su di me, feci la "scoperta" di una cosa che in qualche modo già sapevo, ma a cui come tutti non avevo dato molto peso: scoprii di essere un peccatore. Nessuno pensi al riconoscimento di qualche orrendo crimine fino ad allora tenuto segreto; no, ero quel che si dice "un bravo ragazzo", secondo gli usuali standard. Che però non sono quelli di Dio. I suoi standard, li trovai nella sua Parola: è in essa infatti che si trova, oltre a una diagnosi spietata della malattia spirituale di cui ogni uomo soffre, il decisivo rimedio: la morte espiatoria di Gesù sulla croce.
    "Noi crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (Romani 4:25-25).
Accettai la diagnosi del mio male e il rimedio che mi era offerto.
   E oggi, a tanti anni di distanza dai fatti che qui ho narrato, posso dire di continuare ad essere fra coloro che dicono con convinzione:
    "Giustificati per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo saldi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio" (Romani 5:1-2).
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