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Approfondimenti
La persecuzione dei cristiani
di David Harris*
Un recente titolo del Guardian riferiva: "A Gaza i Cristiani rimpiangono il Natale cancellato da Hamas". Come non cristiano sono curioso circa la reazione a questa notizia. Penso a quando i media riportano degli attacchi ai Cristiani Copti, circa il dieci percento della popolazione egiziana.
Un pezzo del genere è apparso sul Wall Street Journal il 24 Dicembre. Riportava di attacchi mortali contro i cristiani e le loro chiese, mentre le fonti autorevoli, tra cui la Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale, documentava i comportamenti discriminatori contro i cristiani copti, il cui risultato è un costante flusso di emigrazione cristiana dall'Egitto.
Mi incuriosisce la reazione alla notizia diffusa dai media che la popolazione cristiana in Iraq è calata vertiginosamente a causa dell'abbandono in massa del paese della gente, per la paura del futuro che li aspetta. Mi preoccupa l'Arabia Saudita che mostra tolleranza zero per il culto pubblico o altre attività praticate da comunità non-musulmane.
Ricordate la Guerra del Golfo del 1990-1991, quando l'America inviò le sue truppe per proteggere il regno saudita contro il possibile attacco da parte dell'Iraq di Saddam Hussein? Ai nostri uomini e donne fu chiesto di rischiare le proprie vite per difendere i sauditi, ma gli fu detto di tenere nascosto qualsiasi simbolo religioso a loro caro, come ad esempio una croce o una Stella di Davide, per non "offendere" la nazione ospitante.
Non è cambiato molto da allora per i non musulmani in Arabia Saudita. Mi preoccupo quando, per il secondo anno consecutivo, un gruppo terrorista musulmano nigeriano ha rivendicato con orgoglio la responsabilità di attacchi mortali contro fedeli cristiani che celebravano la messa natalizia.
Quest'anno il bilancio delle vittime è stato di almeno 39 morti e molti altri feriti. Cerco una reazione e tutto ciò che trovo è per lo più un assordante silenzio. Certo, ci sono affermazioni superficiali emesse qua e là, ma finisce lì. Ciò che manca è l'indignazione.
Bersagliare qualsiasi comunità religiosa, diciamola forte, sia essa musulmana sufi o ismailita, bahai, caldea o cristiana copta, ebraica o chiunque altro, dovrebbe far scattare una risposta globale fragorosa. Provengo da una comunità che aveva tenuto una veglia davanti all'ambasciata sovietica a Washington ogni giorno per 20 anni - sì, 20 anni - per protestare contro la situazione degli ebrei in Unione Sovietica.
L'obiettivo era far sapere al Cremlino che il mondo non sarebbe rimasto in silenzio. Tra l'altro, si unirono lodevolmente molti non ebrei, comprendendo che tale intolleranza bigotta nei confronti di qualsiasi gruppo religioso richiede una condanna universale. A dire il vero, c'erano state precedenti discussioni all'interno della comunità ebraica sulla scelta tra l'attività pubblica o la diplomazia privata.
Questo dibattito evocò per me la storia di due partigiani che dovevano essere uccisi da un plotone di esecuzione nazista. L'ufficiale preposto chiese se avevano qualcosa da dire prima di essere giustiziati. Uno disse no. Al contrario l'altro cominciò a maledire i nazisti, il che suscitò un monito da parte del compagno: "Shh, non facciamoli innervosire ancora di più".
Chiaramente la diplomazia privata, senza il fragore delle strade, non sarebbe andata molto lontano. Ogni situazione è unica nel suo genere. Ma comunque ci sono metodi comuni sul come rispondere. Ciò che dovrebbe essere abbondantemente chiaro, soprattutto, è che l'indifferenza o l'inerzia non è una strategia contro le persecuzioni religiose, né può essere una ricetta per dormire bene la notte.
Primo, le Nazioni hanno obblighi derivanti dagli accordi internazionali e dalle alleanze che hanno firmato e ratificato, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Permettere a loro, o a gruppi all'interno dei loro confini, di calpestare impunemente i diritti fondamentali come la libertà di culto e della sua tutela davanti alla legge, trasformerebbe questi impegni in una farsa.
Dovrebbero invece essere richiamati, colpevolizzati e disonorati se non cambiano atteggiamento. Non assicurandosi che i responsabili per l'intolleranza e la violenza siano ritenuti colpevoli, i governi, vecchi e nuovi, in queste nazioni, stanno in realtà incoraggiando ulteriori violenze contro le minoranze religiose.
Quando l'Unione Sovietica approvò l'Atto Finale di Helsinki nel 1975, non pensò mai che qualcuno avesse intenzione di costringerli a rispettare gli standard stabiliti per i Diritti Umani. Ma i gruppi di monitoraggio di Helsinki spuntarono in tutto il blocco sovietico e, per sostenerli, anche nei paesi occidentali.
L'impatto fu alquanto forte. Secondo, i Cristiani Copti, per fare un esempio, non sono "ospiti" in Egitto né devono essere dipinti in questo modo. La storia ci dice che essi vivevano in Egitto già molti secoli prima dell'arrivo dell'Islam. Non sono lì per concessione della maggioranza.
Il Cairo non può pretendere di essere sulla strada della democrazia, o invocare nobili principi in altisonanti documenti, se poi, nel mondo reale, le minoranze vivono nella paura. Terzo, i paesi complici devono capire che non possono cavarsela consentendo tale comportamento senza pagare un prezzo.
Se non chiariamo questo punto, e se siamo d'accordo solo a parole perché poi ci sono degli "interessi" superiori in gioco, possiamo solo peggiorare le cose, sia per i gruppi vulnerabili sia per ogni prospettiva di democrazia e di stato di diritto. Se non è ora il tempo di alzarsi, farsi sentire e uscire allo scoperto, quando lo sarà? Quante chiese Cristiane devono ancora essere attaccate, quanti fedeli cristiani devono ancora essere uccisi, quanti cristiani ancora devono pregare immersi nella paura di essere molestati e quante famiglie cristiane ancora devono emigrare prima che il silenzio sia veramente rotto?
* Direttore esecutivo American Jewish Committee
(l'Opinione, 11 gennaio 2012 - trad. Carmine Monaco)
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