Israele bombarda lo Yemen per mandare un messaggio a Iran e Arabia Saudita
di Andrea Muratore
Le bombe e i missili cadono su Sana’a, capitale dello Yemen, e sul porto di Hodeida ma i destinatari si chiamano Iran e Arabia Saudita: i raid di Israele sul Paese della penisola arabica nella notte tra il 18 e il 19 dicembre hanno rilanciato l’azione di Tel Aviv nel quadrante mediorientale e parlano sia a Teheran, rivale strategico numero uno dello Stato Ebraico, che a Riad, con cui il governo di Benjamin Netanyahu cerca un dialogo.
• Perché israele attacca lo yemen I caccia F-16 hanno penetrato le linee dei ribelli yemeniti colpendo terminal energetici, batterie anti-aeree, depositi di armi, rilanciando il settimo fronte di guerra di Tel Aviv dal 7 ottobre 2023 a oggi: a Gaza, dove nonostante i colloqui la guerra non si ferma, e al Libano interessato da un precario cessate il fuoco, si aggiungono la Cisgiordania, in cui spingono i coloni sostenuti dal governo, la Siria, colpita dai caccia dopo la caduta di Bashar al-Assad e sostanzialmente demilitarizzata da Tel Aviv e i tre Paesi su cui Israele ha compiuto raid: Iraq, Iran e, appunto, Yemen.
Qual è l’obiettivo di Israele? Enfatizzare la presenza della minaccia degli Houthi nel Mar Rosso contro il commercio globale come pivot attorno a cui costruire una nuova alleanza nel Medio Oriente, superando le contingenze negative imposte per la diplomazia dello Stato Ebraico dalle conseguenze della guerra di Gaza.
Obiettivo di fondo: sperare che il riavvicinamento Tel Aviv-Riad possa emergere sulla scia della messa a terra di manovre anti-Houthi che spingano i sauditi a riconsiderare il loro impegno a ridurre il coinvolgimento nello scenario regionale e ripensare il riavvicinamento all’Iran. Una strategia che parla anche agli Stati Uniti, i quali da un anno bombardano gli Houthi e non hanno mancato di rafforzare la loro presenza in Medio Oriente dopo la fine del regime siriano, ufficialmente per contrastare possibili riprese dello Stato Islamico.
• Obiettivo massima pressione? In prospettiva, l’obiettivo ideale di Tel Aviv sarebbe vedere se è possibile plasmare quell’asse Israele-Usa-Arabia Saudita per contenere la proiezione iraniana nella regione e spingere alle porte della Repubblica Islamica il contenimento. La via che Netanyahu vuole seguire passa per l’offensiva contro gli alleati di Teheran e l’attesa per nuove mosse contro il Paese degli ayatollah da parte dell’amministrazione Usa entrante di Donald Trump.
L’idea che il Trump 2.0 possa avversare nettamente l’Iran è altamente plausibile, e Netanyahu spinge per colpire le forze legate alla Repubblica Islamica ovunque, magari per spingere Teheran a una reazione eccessiva, soprattutto sul programma nucleare, che dia il là a un attacco diretto. Ad oggi tiene solo l’apparente pace iraniano-saudita, mentre Netanyahu lavora per la distensione col Paese di Mohammad bin Salman ora che i colloqui sono ripresi a 14 mesi dal massacro del 7 ottobre. Trump riprenderà il filo degli Accordi di Abramo? Per vederli realizzati, va ricordato, serve un obiettivo comune. Nel 2019-2020 fu l’ostilità contro l’Iran. Ora, va capito se casa Saud sarà della partita prima di dare per ripreso il filo interrotto della politica americana e israeliana in Medio Oriente.
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(Inside Over, 21 dicembre 2024)
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Due adolescenti condannate per attacchi antisemiti a Londra
di Michelle Zarfati
Due ragazze adolescenti di 14 e 15 anni sono state condannate per una serie di attacchi antisemiti a Londra. Ad aggravare la loro posizione l’ultimo dei loro attacchi, che, secondo quanto riportato dal The Guardian, avrebbe lasciato una donna senza conoscenza per qualche ora. Le adolescenti, che non possono essere nominate a causa della loro età, hanno preso di mira i membri della comunità ebraica di Stamford Hill in quattro incidenti separati, avvenuti nell’arco di mezz’ora, tutti nel dicembre 2023, come dichiarato dal Crown Prosecution Service (CPS).
Il CPS ha rivelato che la coppia è apparsa mercoledì alla corte dei magistrati di Stratford, dove è stato imposto loro un ordine di riabilitazione giovanile per 18 mesi. Le due ragazze sono state inoltre poste sotto coprifuoco con un tag elettronico per tre mesi. Il CPS ha poi spiegato di aver chiesto con successo una sentenza più severa in quanto la maggior parte degli attacchi da parte delle due giovani sono stati “motivati dall’odio”. I pubblici ministeri hanno raccontato che, durante il primo incidente, le adolescenti avrebbero chiesto soldi a una donna su St Ann’s Road. Durante la richiesta una delle due ha cercato di colpire la vittima, che è poi riuscita a fuggire. Durante la stessa giornata, circa dieci minuti dopo la coppia ha chiesto soldi a una ragazzina di 12 anni vicino a Holmdale Terrace. Nel giro di cinque minuti, le due hanno iniziato a molestare un gruppo di quattro ragazze di 11 anni, gridando loro frasi antisemite e chiedendo ancora soldi. Secondo il CPS il gruppo è stato poi inseguito e una delle ragazzine è stata afferrata per un braccio violentemente.
Nell’ultimo incidente, avvenuto mezz’ora dopo il primo, le adolescenti hanno aggredito una donna su Rostrevor Avenue. Le imputate si sono avvicinate alla vittima e le hanno chiesto se avesse dei soldi in tasca. Quando la donna ha cercato di allontanarsi da loro, è stata colpita alla schiena. Il CPS ha aggiunto che le due hanno afferrato il telefono della vittima prima di schiaffeggiarla, toglierle la parrucca, gettarla a terra per prenderla a calci. La donna ha perso brevemente conoscenza e ha riportato “lividi significativi”.
Le ragazze sono state entrambe giudicate colpevoli di tentata rapina, molestie aggravate dalla religione e lesioni personali durante il processo. “Le prove in questo caso hanno dimostrato che le due adolescenti hanno preso di mira la maggior parte delle vittime solo perché ebree” ha spiegato Jagjeet Saund, del CPS. “Le testimonianze chiave hanno dimostrato che le imputate hanno schernito le vittime, usando un linguaggio antisemita, rendendo chiaramente ovvio che questi attacchi erano crimini d’odio. Evidenziando questo modello di reato, abbiamo chiesto con successo al tribunale di aumentare la pena emessa oggi contro gli imputati – si legge nella nota del CPS – All’udienza di oggi, abbiamo utilizzato una dichiarazione di per dimostrare ulteriormente l’impatto che questa dimostrazione di odio può avere sulla comunità locale, causando traumi e paura in tutta la società. Non c’è posto per tale intolleranza e odio, e il Crown Prosecution Service continuerà a lavorare a stretto contatto con la polizia per garantire che coloro che diffondono odio, pregiudizio e ostilità siano perseguiti”.
(Bet Magazine Mosaico, 20 dicembre 2024)
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Il turpe can can anti-israeliano e i risultati sul terreno
La guerra a Gaza, iniziata con l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele il 7 ottobre 2023, ci ha consegnato due fenomeni interconnessi e paralleli: la più feroce propaganda contro Israele di cui si abbia memoria e il più copioso rigurgito di antisemitismo dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. Era tutto, a guardare bene, ampiamente prevedibile, dopotutto la propaganda contro lo Stato ebraico è cominciata subito dopo la guerra dei Sei Giorni e ha avuto nell’ONU, fin da allora, una delle sue agenzie principali, quando propose la Risoluzione 242 che i russi e gli arabi cercarono di modificare per obbligare Israele a Israele ritirarsi da tutti i territori conquistati, ovvero anche da Gaza e dalla Cisgiordania che gli erano stati assegnati dal Mandato Britannico per la Palestina del 1922. Da allora è stato un crescendo senza sosta, un macinare di risoluzioni avverse sotto regia sovietica con il concorso arabo e degli Stati nell’orbita sovietica, (la Russia è stata il grande laboratorio dove si è costruito tutto l’armamentario lessicale contro Israele in uso ancora oggi, Stato “razzista”, “nazista” “genocida”, dove si pratica l’apartheid), per continuare con lena piena anche dopo il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione del Moloch sovietico. Per quanto concerne l’antisemitismo, va detto che non ha mai abbandonato la scena da duemila anni a questa parte, con alti e bassi, ed è sempre cresciuto tutte le volte che Israele ha dovuto entrare in guerra, perché ciò che proprio agli ebrei non si riesce a perdonare è che sappiano combattere e vincere le guerre, soprattutto nel mondo islamico, dove per secoli erano considerati succubi, dhimmi, e lì, in quel ruolo, dovevano restare per sempre, come fossili. Acme del processo propagandistico e suo maggiore successo è stata l’invenzione della Palestina, regione popolata da un popolo antichissimo, quello palestinese appunto, anche quando la geografia era ripartita tra Giudea, Samaria e Galilea, regioni dove predicava Gesù, a cui, al posto del talit è stato poi fatta indossare la kefiah in quel processo di appropriazione culturale che ha espropriato gli ebrei anche del Muro Occidentale, rinominato dall’UNESCO in onore del Burak, il mitico quadrupede alato con cui Maometto sarebbe volato a Gerusalemme mai citata nel Corano. Dalla Palestina è disceso per filiazione uno Stato palestinese, senza confini, capitale e moneta, ma accolto all’ONU in virtù di osservatore e oggi riconosciuto virtualmente da Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia. Si tratta di capolavori, a cui si è aggiunto il vertice odierno, l’accusa di genocidio che Israele avrebbe compiuto a Gaza dove secondo la rivista Lancet, già prodiga in passato di accuse a Israele, non sarebbero morti quarantaduemila civili (nessun miliziano jihadista) ma addirittura centosessantaseimila, in attesa di nuove cifre più cospicue che, a questo punto, presto supereranno i cinquecentomila morti della guerra siriana, anche se nessuno ha mai accusato Assad di genocidio o ha emesso nei suoi confronti mandati di arresto come è successo a Netanyahu. Si potrebbe continuare ma ci fermeremo qui, lo spazio non basterebbe. Nonostante questo e altro, c’è da dire che Israele la guerra la sta vincendo, non l’ha ancora vinta ma è sulla buona strada, con Hamas a pezzi a Gaza, Hezbollah assai malconcio e privo della parte più consistente del suo quadro dirigente, Assad fuggito in Russia e l’Iran, grande sponsor che guarda affranto il crollo dell'”asse della resistenza” e il volatizzarsi in fumo dei milardi di dollari spesi per sostenerlo. C’è da aggiungere che a breve Donald Trump tornerà alla Casa Bianca e Netanyahu e il suo governo ne usciranno rafforzati. Malgrado il turpe cancan anti-israeliano, non sono buoni giorni per gli antisemiti e gli odiatori di Israele.
(L'informale, 20 dicembre 2024)
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7 ottobre – Engelmayer porta le sue cartoline a Torino
Un uomo assorto cammina per Torino. Passeggia per le vie, sullo sfondo la Mole antonelliana, il Monte dei Capuccini. Ma il suo pensiero è rivolto altrove: agli ostaggi da 441 giorni prigionieri di Hamas a Gaza. «Io sono a Torino, ma gli ostaggi sono ancora lì. E questo è sempre il mio primo pensiero. Da un anno disegno i loro volti, le loro storie. È una forma di attivismo che non mi abbandona mai, non importa la città in cui sono. Del resto non importa cosa facciamo noi nella nostra quotidianità, la costante è che loro sono ancora prigionieri», afferma a Pagine Ebraiche Zeev Engelmayer. I lettori di questo giornale lo conoscono: il numero di settembre portava in copertina una sua opera, assieme a una lunga intervista. Ora è in Italia per presentare di persona le sue cartoline quotidiane. L’appuntamento era al centro sociale della Comunità ebraica di Torino. «Ho presentato la mia storia di illustratore e di attivista con il personaggio umoristico di Shoshke (una donna sua alter ego), ma soprattutto il mio impegno dopo il 7 ottobre».
Dopo le stragi e i rapimenti di Hamas, Engelmayer ha iniziato a disegnare gli ostaggi. «Ha un tratto completamente diverso dagli altri. Attraverso l’uso di colori e un disegno apparentemente ingenuo riesce a dare un senso di ottimismo anche in questa situazione drammatica», sottolinea il gallerista Ermanno Tedeschi, promotore insieme all’Adei Wizo di Torino dell’incontro con Engelmayer. A portare l’illustratore in Italia per la terza volta è stata l’addetta culturale dell’ambasciata d’Israele, Maya Katzir. «In Israele tutti lo conoscono. Le sue cartoline per gli ostaggi sono ovunque: dalle fermate degli autobus alle manifestazioni dei famigliari dei rapiti».
Al pubblico torinese l’illustratore ha regalato alcune delle sue opere. «È stato un gesto spontaneo», racconta Engelmayer. «Non mi aspettavo di trovare anche qui dei legami così forti con Israele e con la situazione degli ostaggi. Per noi è la quotidianità, siamo immersi in queste storie e sappiamo chi sono Naama Levy, Liri Albag, Matan Zangauker. Ho trovato anche qui a Torino molta consapevolezza e solidarietà».
Nel corso della serata torinese sono state raccolte donazioni per la campagna “Ritorno a Sderot”, in favore della città del sud di Israele duramente colpita il 7 ottobre. d.r.
(moked, 20 dicembre 2024)
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Distrutti 7 km di tunnel a Gaza. Da Stoccolma stop all’Unrwa
A distanza di oltre un anno dall’inizio della guerra a Gaza, Tsahal è ancora impegnata nella distruzione dei tunnel di Hamas. Negli ultimi giorni l’unità Yahalom, corpo d’élite del genio militare israeliano, ha identificato e distrutto tre tunnel. Oltre sette chilometri di reticoli, in cui i soldati hanno trovato attrezzature delle Israel Defence Forces rubate dai terroristi durante l’assalto del 7 ottobre, oltre ad armi e mappe delle comunità israeliane a ridosso del confine con Gaza.
Nell’enclave palestinese Tsahal continua dunque la sua operazione per smantellare l’infrastruttura di Hamas e degli altri gruppi terroristici. Nel mentre attende come tutto il paese aggiornamenti sulle trattative per una tregua. Dopo le parole di ottimismo del ministro della Difesa Israel Katz, il negoziato è nuovamente rallentato. La firma descritta giorni fa come imminente, ma ora alcuni media arabi parlano di settimane. Resta la speranza, a cui si affida anche il segretario di stato Usa Antony Blinken. Intervistato dall’americana MSNBC, Blinken ha ribadito l’impegno di Washington per arrivare a un cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi. 100 persone, di cui almeno 34 non più in vita, prigioniere da quattordici mesi di Hamas. «Dobbiamo riportarle a casa», ha sottolineato Blinken. Secondo il capo della diplomazia Usa la fine della guerra a Gaza è nell’interesse di Israele, così come evitare un’occupazione prolungata dell’enclave palestinese. «Se finiscono per occupare Gaza, dovranno affrontare un’insurrezione per anni. Non è nel loro interesse». Il futuro di Gaza, ha aggiunto, non deve prevedere Hamas. «È necessario un piano coerente per il futuro».
Intanto dalla Svezia arriva la notizia che il governo di Stoccolma smetterà di finanziare l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per l’assistenza ai rifugiati palestinesi, accusata da Israele e da altri Paesi di collusione con Hamas. Gli aiuti alla popolazione civile di Gaza verranno allo stesso tempo raddoppiati, ha dichiarato il ministro svedese per la cooperazione Benjamin Dousa. «I fondi andranno a diversi organi Onu che si occupano di distribuire medicine, cibo e altri generi di prima necessità».
(moked, 20 dicembre 2024)
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Erdogan sta per invadere il nord della Siria ma critica Israele per il Golan
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha fatto capire che la Turchia potrebbe intervenire nel nord della Siria per eliminare quelle che, a suo dire, sono minacce alla sua sicurezza poste dai gruppi curdi siriani.
Tuttavia, anche se medita un’invasione, Erdogan sostiene che gli Stati Uniti e le potenze occidentali hanno la “responsabilità di impedire a Israele” di operare in territorio siriano.
A differenza della Turchia, i cui proxy controllano ampie zone della Siria settentrionale, l’IDF è entrato in una zona cuscinetto tra la Siria e la parte delle Alture del Golan annessa a Israele solo questo mese, affermando di farlo temporaneamente, fino a quando non sarà istituito un nuovo regime che possa garantire il rispetto dell’accordo di disimpegno del 1974 che ha formato la zona demilitarizzata.
La dichiarazione di Erdogan a un gruppo di giornalisti arriva anche in mezzo a notizie di combattimenti tra combattenti sostenuti dalla Turchia e le Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda sostenute dagli Stati Uniti nel nord della Siria, vicino alla città di confine di Kobani e alla diga di Tishrin sul fiume Eufrate.
“Dimostreremo che è giunto il momento di neutralizzare le organizzazioni terroristiche presenti in Siria”, ha dichiarato Erdogan, secondo una trascrizione delle sue osservazioni. “Lo faremo per prevenire qualsiasi ulteriore minaccia proveniente dal sud dei nostri confini”.
La Turchia considera l’SDF un’organizzazione terroristica perché la sua componente principale è un gruppo allineato con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, o PKK, che è vietato in Turchia. All’inizio della settimana, l’SDF ha dichiarato che gli sforzi di mediazione guidati dagli Stati Uniti non sono riusciti a raggiungere una tregua permanente nel nord della Siria.
“La fine della strada per le organizzazioni terroristiche è vicina”, ha dichiarato Erdogan. “Non c’è spazio per i terroristi nel futuro della regione. La vita dell’organizzazione terroristica del PKK e delle sue estensioni si è esaurita”.
Erdogan afferma che mettendo in sicurezza la zona di confine con la Siria, la Turchia impedirà al PKK di reclutare combattenti.
Il leader turco, nel frattempo, accoglie con favore il fatto che molti Paesi stiano stabilendo contatti con i nuovi leader siriani, affermando che si tratta di “un segno di fiducia” nella nuova amministrazione. Ha dichiarato che la Turchia assisterà il Paese nella creazione di nuove “strutture statali”.
Erdogan aggiunge che il Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan si recherà presto in Siria.
(Rights Reporter, 20 dicembre 2024)
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Il caso Le Monde: polemiche e accuse di schieramento ideologico tra filo-palestinismo e critica a Israele. Redazione spaccata
di Marina Gersony
Si respira un’aria pesante nella nuova sede avveniristica del quotidiano Le Monde, un edificio di vetro e acciaio nelle immediate vicinanze della stazione. Nonostante l’architettura trasparente e l’open-space, dove anche gli amministratori condividono le scrivanie con i giornalisti, il clima di collaborazione sembra un lontano miraggio. «La gente ha paura», confessa un redattore sotto anonimato, dando voce al malcontento che da mesi serpeggia tra le scrivanie di tra i giornali più importanti in Francia e non solo.
Secondo una minuziosa inchiesta condotta da Le Figaro e riservata ai suoi abbonati, il disagio è palpabile e riguarda principalmente il trattamento editoriale del conflitto israelo-palestinese. Tra i temi caldi spiccano il controverso “muro di Gaza” e le polemiche attorno a Benjamin Barthe, vicecaporedattore della sezione internazionale, la cui vita privata e scelte professionali stanno alimentando divisioni profonde nella redazione. Barthe è sposato con Muzna Shihabi, un’attivista palestinese le cui posizioni politiche esplicite sollevano dubbi sull’imparzialità del giornale.
• IL “MURO DI GAZA” E LA QUESTIONE DELL’OMERTÀ Ma qual è il punto? All’interno degli spazi comuni della redazione di Le Monde, un angolo è stato ribattezzato “il muro di Gaza”. Qui campeggiano immagini di bambini palestinesi, articoli di denuncia e slogan come “Stop al genocidio” e “Non lasciate che vi dicano che tutto è iniziato il 7 ottobre 2023”. Secondo le testimonianze raccolte da Le Figaro, il muro sarebbe un simbolo della presa di posizione pro-palestinese di una parte della redazione. Un altro disegno, che rappresenta la Statua della Libertà con un drappo insanguinato, reca la scritta “Libertà di uccidere”. La narrazione offerta da questi materiali è giudicata da alcuni redattori come troppo unilaterale e ideologica.
«Passare davanti a quel muro ogni giorno mi disturba profondamente», ammette turbata una giornalista, aggiungendo che la complessità del conflitto israelo-palestinese richiederebbe una rappresentazione più equilibrata. Tuttavia, il dibattito interno sembra soffocato: «C’è un clima di omertà; chi critica rischia di essere isolato», è il commento di chi denuncia il trattamento riservato a Israele sul quotidiano. Ma oltre al clima teso che sembra regnare all’interno della redazione, è tutta la linea editoriale ad aver suscitato reazioni sia all’interno che tra i lettori.
• LE ACCUSE CONTRO BARTHE E SUA MOGLIE Il caso di Benjamin Barthe rappresenta un altro nodo cruciale. Ex corrispondente in Medio Oriente, Barthe è stato accusato di aver adottato una linea editoriale favorevole ai palestinesi, influenzata, secondo alcuni, dall’attivismo della moglie. Muzna Shihabi non ha mai nascosto le sue opinioni: sui social media utilizza spesso hashtag come #FreePalestine e ha espresso solidarietà per figure controverse come Ismaïl Haniyeh, leader di Hamas. Una delle sue dichiarazioni più discusse recita: «Che Dio distrugga il regime sionista».
Questi legami hanno alimentato un acceso dibattito sulla deontologia e sull’imparzialità di Barthe. Sebbene il comitato etico di Le Monde abbia descritto le critiche come una «campagna di intimidazione», il malcontento interno cresce. Alcuni redattori ritengono che la presenza di Barthe nella sezione internazionale comprometta la credibilità del giornale.
Nel frattempo, sui social la questione suscita clamore. Come riporta Le Journal du Dimanche (chiamato anche Le JDD), l’ex redattrice capo di i24News, Noémie Halioua, condanna un «muro in cui convivono odio anti-israeliano, antisemitismo e deliri complottisti». Il giurista Étienne Dujardin paragona a sua volta quel muro al «muro dei cretini» presente nella magistratura e afferma che «il giornale Le Monde è in totale deriva».
• LE MONDE, NESSUN PASSO INDIETRO «Deriva anti-israeliana: la risposta sconcertante di Le Monde dopo le rivelazioni di Le Figaro», titola Le JDD che ha ottenuto un comunicato dal CDR (Comitato di Redazione), dal quale non emerge alcuna autocritica o messa in discussione delle posizioni del giornale. Il CDR respinge con fermezza le rivelazioni del quotidiano concorrente, definendo l’inchiesta basata su «interpretazioni errate e fatti distorti». Rivolgendosi all’intera redazione, il Consiglio sottolinea che all’interno del giornale esistono «spazi di confronto e dialogo», nei quali vengono regolarmente discussi temi importanti, spesso con dibattiti accesi durante le riunioni editoriali. Il comunicato esprime inoltre disapprovazione per il fatto che alcuni membri della redazione abbiano scelto di manifestare il proprio dissenso pubblicamente, anziché discuterne nelle sedi interne appropriate. Viene anche condannata la diffusione di immagini degli uffici di una persona estranea al ruolo di giornalista, considerata una grave violazione durante questa vicenda.
• RADICI STORICHE DEL CONFLITTO INTERNO Per comprendere la crisi attuale, è utile guardare al passato di Le Monde. Fondato nel 1944 da Hubert Beuve-Méry, il giornale ha sempre cercato di mantenere una reputazione di rigore e imparzialità. Tuttavia, le sue posizioni editoriali hanno spesso rispecchiato un certo impegno politico, soprattutto durante momenti storici critici come la decolonizzazione e il conflitto in Algeria. Questa tradizione di attivismo si intreccia oggi con le dinamiche interne di una redazione che deve confrontarsi con il peso delle opinioni personali e delle pressioni esterne.
La crescente polarizzazione sociale ha spinto molti giornalisti a rivendicare maggiore libertà espressiva, talvolta a scapito di un approccio neutrale. Questo è evidente non solo nel caso di Barthe, ma anche in altre figure di spicco della redazione, che utilizzano i social media per esprimere opinioni forti, spesso divergenti dalla linea ufficiale del giornale. Il rischio, secondo alcuni osservatori a commento della questione, è che questa frammentazione comprometta la coesione e l’autorevolezza della testata.
• UNA CRISI CHE RIFLETTE IL PANORAMA MEDIATICO Il caso di Le Monde non è isolato, ma si inserisce in un contesto più ampio di polarizzazione del giornalismo francese e probabilmente non solo. Negli ultimi anni, molte testate hanno abbandonato la pretesa di neutralità per abbracciare narrative più esplicite, spesso in linea con la sensibilità del proprio pubblico. Tuttavia, quando un giornale come Le Monde, che ha costruito la sua reputazione su rigore e imparzialità, appare schierato, le reazioni sono inevitabilmente più forti.
L’inchiesta di Le Figaro ha messo in luce una frattura profonda: da un lato, chi difende una linea editoriale più empatica verso i palestinesi, dall’altro, chi chiede un approccio più bilanciato. Nel mezzo, una redazione divisa e un pubblico sempre più critico. «Abbiamo ricevuto centinaia di disdette dopo le prime pagine del 7 e 8 ottobre», rivela una fonte interna, riferendosi alle edizioni pubblicate all’indomani degli attacchi di Hamas contro Israele.
• LE SFIDE DEL GIORNALISMO CONTEMPORANEO Il dibattito su Le Monde solleva interrogativi più ampi sul ruolo dei media in una società sempre più polarizzata. Possono i giornali mantenere una neutralità autentica o devono inevitabilmente prendere posizione? Qual è il confine tra legittima sensibilità personale e il rispetto dei principi deontologici?
In questo contesto, la figura del giornalista si trova sotto pressione. Non è più sufficiente riportare i fatti; oggi, ai professionisti dell’informazione viene richiesto di decodificare una realtà complessa e, talvolta, di orientare il dibattito pubblico. Questa evoluzione ha portato a una tensione crescente tra l’esigenza di preservare la credibilità delle testate e la necessità di attirare un pubblico sempre più segmentato.
In un mondo in cui le verità assolute sono sempre più rare, la sfida non è solo raccontare i fatti, ma farlo in modo che tutti possano sentirsi rappresentati. La posta in gioco non è solo la credibilità di un giornale, ma il futuro del giornalismo stesso.
(Bet Magazine Mosaico, 20 dicembre 2024)
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Amichai Chikli al Papa: “Chiarisca le sue dichiarazioni su Israele. Accuse di genocidio infondate e pericolose”
di Luca Spizzichino
In una lettera aperta indirizzata a Papa Francesco, il Ministro israeliano della Diaspora e contro l’antisemitismo, Amichai Chikli, ha espresso profonda preoccupazione per alcune recenti dichiarazioni e gesti del Pontefice. Chikli ha esortato il Papa a chiarire la sua posizione riguardo alle accuse di genocidio rivolte a Israele e a riflettere sulle implicazioni delle narrazioni che rischiano di distorcere la storia e il legame millenario tra il popolo ebraico e la Terra d’Israele.
Chikli apre la sua lettera ricordando che Betlemme, città natale di Gesù, è un luogo profondamente legato alla storia ebraica. “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode”, scrive, citando il Vangelo secondo Matteo. Il ministro sottolinea che Betlemme è anche il luogo in cui Rachele, una delle matriarche ebraiche, morì dando alla luce Beniamino. Rievocando il passato, Chikli menziona la rivolta di Bar Kochba (132-135 d.C.) contro l’Impero Romano, un momento cruciale nella storia del popolo ebraico. “Lo storico romano Dione Cassio descrive come 985 villaggi ebraici furono distrutti, e 580 mila uomini persero la vita in battaglia”, scrive Chikli, evidenziando come l’imperatore Adriano cercò di cancellare ogni traccia del legame tra gli ebrei e la loro terra, rinominando la Giudea in “Syria Palaestina” e Gerusalemme in “Aelia Capitolina”.
Il cuore della lettera è però dedicato alle recenti dichiarazioni di Papa Francesco, che, secondo Chikli, rischiano di alimentare narrazioni pericolose. “Lei ha affermato che le accuse di genocidio a Gaza dovrebbero essere ‘esaminate attentamente’”, scrive il ministro, aggiungendo: “In quanto popolo che ha perso sei milioni di suoi figli nell’Olocausto, siamo particolarmente sensibili alla banalizzazione del termine ‘genocidio’, che si avvicina pericolosamente alla negazione dell’Olocausto”. Chikli denuncia anche il ruolo di organizzazioni come Amnesty International, che nel suo rapporto avrebbe falsamente affermato che Israele ha lanciato un attacco non provocato contro Gaza il 7 ottobre 2023. “In quella terribile giornata, Israele non ha attaccato Gaza. È stato invece oggetto di un’aggressione senza precedenti da parte di Hamas”, chiarisce il ministro, elencando le atrocità commesse durante l’attacco, tra cui massacri, stupri e rapimenti di civili innocenti.
Rivolgendosi direttamente al Papa, Chikli ricorda l’importanza di combattere la disinformazione e di preservare la verità storica. “Il silenzio del Vaticano durante i giorni bui della Shoah è ancora assordante”, scrive, sottolineando che è necessario evitare che la storia si ripeta. Chikli conclude la sua lettera con un appello a Papa Francesco affinché chiarisca la sua posizione e rafforzi il dialogo tra il Vaticano e il popolo ebraico: “Sappiamo che lei è un caro amico del popolo ebraico. Apprezziamo i suoi sforzi e desideriamo approfondire il rapporto tra il Vaticano e lo Stato di Israele, così come tra il popolo cristiano e quello ebraico”.
Il 2025 segnerà il 60° anniversario della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, un documento fondamentale che ha trasformato il rapporto tra cristiani ed ebrei. Chikli auspica che questo anniversario possa rappresentare un’occasione per rinnovare l’impegno verso la verità e il rispetto reciproco. “Verità e D-o sono una cosa sola”, conclude Chikli, affidando al Pontefice la responsabilità di utilizzare la sua influenza per promuovere giustizia e riconciliazione.
(Shalom, 20 dicembre 2024)
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Israele – Sondaggio rivela nuovo senso di appartenenza della minoranza araba
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L’ingresso della moschea El Jazzar ad Acri, città nel nord d’Israele
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Un nuovo sondaggio dell’Università di Tel Aviv rivela un dato imprevisto: il 57,8% degli arabi israeliani – musulmani, drusi e cristiani inclusi – ritiene che la guerra in corso abbia contribuito a creare un «senso di condivisione del destino» con la comunità ebraica. Il risultato, parte di un’indagine del Centro Moshe Dayan, segna un importante cambiamento rispetto al passato. Nel giugno 2024, il 51,6% degli intervistati esprimeva un’opinione simile, mentre a novembre 2023, subito dopo gli attacchi del 7 ottobre, il 69,8% riteneva che la guerra avesse danneggiato la solidarietà tra le due comunità.
La guerra a Gaza sembra aver stimolato una nuova riflessione sulla soluzione al conflitto israelo-palestinese. Quasi la metà degli arabi israeliani (49,7%) oggi considera la soluzione dei due Stati, basata sui confini del 1967, l’opzione più realistica, in netto aumento rispetto al 17,2% del 2023. Parallelamente, diminuisce il pessimismo: solo il 27,1% crede che non ci siano soluzioni politiche in vista, contro il 55,6% dello scorso anno.
«Prima degli eventi di ottobre 2023, la maggioranza degli arabi israeliani riteneva che non ci fosse alcuna soluzione politica praticabile,» afferma il rapporto. «Oggi, la prospettiva dei due Stati è vista come l’alternativa più realistica».
• LA CRIMINALITÀ PRIMA PREOCCUPAZIONE
Nonostante il rinnovato interesse per le questioni politiche, è la violenza criminale a dominare le preoccupazioni della comunità araba israeliana. Il 66,5% degli intervistati la identifica come la sfida più urgente, superando altre priorità come il conflitto israelo-palestinese (10,9%) o la povertà (4,9%). «La crescente violenza, alimentata da decenni di negligenza governativa e dal proliferare di gruppi criminali organizzati, ha lasciato molte comunità arabe in una situazione di insicurezza», denunciano gli autori dell’indagine. Il 65,8% degli intervistati dichiara di sentirsi poco sicuro nella propria vita quotidiana.
• SENTIRSI ISRAELIANI
Sul piano identitario, l’appartenenza alla cittadinanza israeliana si consolida: il 33,9% degli arabi israeliani la indica come componente dominante della propria identità, seguita dall’affiliazione religiosa (29,2%) e dall’identità araba (26,9%). Solo il 9% considera l’identità palestinese il fulcro della propria appartenenza.
L’inclusione di partiti arabi nel governo israeliano gode oggi di un ampio sostegno: il 71,8% degli intervistati è favorevole a questa opzione, e quasi la metà (47,8%) sostiene la partecipazione politica dei partiti arabi a prescindere dall’orientamento della coalizione. Il cambiamento è attribuito all’esperienza del partito Ra’am, che ha sostenuto la coalizione Bennett-Lapid del 2021, stabilendo un precedente per la politica araba israeliana.
• NO A HAMAS
Sul piano regionale, oltre la metà degli arabi israeliani (53,4%) vede un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita come un’opportunità positiva, anche senza una risoluzione preliminare del conflitto con i palestinesi. Solo una minoranza (6,7%) sostiene che Hamas debba continuare a governare Gaza, mentre altre opzioni – tra cui il coinvolgimento dell’Autorità Palestinese o di entità multinazionali – raccolgono molto consenso.
Per Arik Rudnitzky, responsabile della ricerca, «gli arabi israeliani stanno inviando un messaggio chiaro alle autorità e alla maggioranza ebraica. Sono pronti a collaborare per ricostruire la società israeliana finita questa guerra». d.r.
(moked, 19 dicembre 2024)
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Huthi distruggono scuola, Tsahal colpisce Sana’a
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La scuola distrutta di Ramat Gan
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Una scuola elementare di Ramat Gan, a est di Tel Aviv, non c’è più. È stata completamente distrutta dai frammenti di un missile sparato dallo Yemen e intercettato dal sistema di difesa a lungo raggio Arrow. È il secondo attacco degli Huthi in pochi giorni, il primo a creare gravi danni. Fortunatamente, dichiarano le autorità, non ci sono feriti. «L’incidente è avvenuto nel cuore della notte», spiega a Kan il sindaco di Ramat Gan Carmel Shama. La scuola era deserta e anche l’area vicina. L’edificio è completamente collassato, sarà demolito e ricostruito. «Il servizio di sostegno psicologico accompagnerà gli studenti e il personale educativo della scuola. Questa è un’esperienza difficile», ammette Shama. Alcuni studenti sono stati subito trasferiti in altri istituti, mentre per altri è stata attivata la didattica a distanza. «Troveremo per tutti una sistemazione», promette il ministro dell’Istruzione Yoav Kish. Secondo il ministro a distruggere la scuola è stata «la testata di un missile sparato dallo Yemen». Si tratterebbe quindi di un colpo diretto. Secondo altre ricostruzioni i danni sono stati causati dall’intercettazione del missile. Tsahal sta verificando la dinamica dell’incidente.
Qualsiasi sia la causa del danno, Tsahal ha risposto nella notte all’attacco Huthi, colpendo la città portuale di Hodeida e, per la prima volta, la capitale Sana’a. L’obiettivo della missione, hanno spiegato fonti militari ai media locali, era paralizzare il sistema portuale controllato dai ribelli sostenuti dall’Iran. Dopo le stragi del 7 ottobre, gli Huthi hanno spalleggiato i terroristi di Hamas nella guerra con Israele. Oltre ai missili, in questi mesi hanno lanciato diversi droni kamikaze, uccidendo a Tel Aviv una persona. Israele ha reagito, colpendo per tre volte obiettivi strategici del gruppo in Yemen. «Avverto i leader dell’organizzazione terroristica Huthi: la lunga mano di Israele raggiungerà anche voi. Colpiremo duramente e non permetteremo attacchi e minacce contro il nostro stato», ha dichiarato il ministro della Difesa Israel Katz. Secondo il portavoce militare, il contrammiraglio Daniel Hagari, i caccia israeliani nella notte hanno anche «danneggiato il trasferimento di armi iraniane nella regione».
(moked, 19 dicembre 2024)
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Perché Israele attacca lo Yemen e allarga il fronte del conflitto
Dopo aver sconfitto Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e contribuito al crollo del regime siriano, Israele si occupa dei ribelli Houthi con un’operazione senza precedenti.
di Massimiliano Boccolini
L’offensiva israeliana iniziata con i massacri del 7 ottobre 2023 registra oggi una nuova fase che porta l’esercito israeliano a operare a migliaia di chilometri di distanza dal proprio Paese. Dopo aver annientato le forze di Hamas a Gaza, di Hezbollah in Libano e consentito il crollo del regime di Bashar al-Assad in Siria è la volta dello Yemen. Nonostante questi successi militari del premier Benjamin Netanyahu infatti i ribelli Houthi, proxy yemenita del regime iraniano, hanno proseguito in queste settimane con il lancio di droni e missili, per lo più intercettati, contro lo Stato ebraico. L’ultimo però, quello lanciato nella notte, è il primo che ha provocato ingenti danni ed ha dato il via ad un’operazione aerea israeliana senza precedenti in Yemen. I detriti frutto dell’intercettazione di un missile balistico Houthi lanciato dallo Yemen verso il centro di Israele questa mattina hanno causato ingenti danni a una scuola a Ramat Gan. Secondo l’esercito israeliano, il missile balistico è stato intercettato dal sistema di difesa aerea a lungo raggio Arrow e le sirene sono suonate nel centro di Israele a causa del timore di caduta di schegge. Un edificio in una scuola a Ramat Gan è crollato apparentemente a causa di un grosso pezzo di detriti che ha colpito la zona. Non è la prima volta che l’aviazione israeliana conduce attacchi contro obiettivi Houthi. Si tratta infatti del terzo raid sul Paese arabo ma è il primo a prendere di mira le infrastrutture civili e militari del nord dello Yemen controllato dagli uomini di Teheran. Secondo l’analista e attivista per i diritti umani yemenita, Tawfiq al Hamidi, “bombardando Tel Aviv, gli Houthi cercano di rafforzare il loro ruolo nel conflitto regionale e di presentarsi come una parte influente dell’asse della resistenza, soprattutto alla luce dei colpi ricevuti dagli alleati dell’Iran nella regione, Hezbollah e Assad in Siria”. I ribelli yemeniti vogliono inoltre, secondo quanto ha spiegato l’esperto a “Formiche“, “aiutare anche l’Iran rispetto alle trattative sul suo programma nucleare. Israele, da parte sua, cerca di scoraggiare e dimostrare il proprio potere prendendo di mira direttamente gli Houthi. L’obiettivo dei raid è quello di inviare un chiaro messaggio che qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale subirà una dura risposta, come i leader israeliani hanno annunciato più di una volta, e che rientra nella strategia di Israele di indebolire l’influenza iraniana nello Yemen, oltre a creare uno stato psicologico di ansia a livello popolare e tra il gruppo Houthi alla luce degli sviluppi nella regione, in particolare in Siria”. In definitiva, secondo al Hamidi, questa escalation “minaccia di trascinare la regione in un confronto regionale più ampio, in cui gli interessi regionali e internazionali si intrecciano in un panorama complesso. È necessario intensificare gli sforzi diplomatici per contenere le violenze ed evitare che la situazione peggiori, ma i rischi sul terreno indicano la possibilità di un rapido deterioramento degli aspetti politici, militari e umanitari se la situazione non verrà messa sotto controllo al più presto possibile”. Sono nove le persone che sono state uccise negli attacchi israeliani sullo Yemen avvenuti nella notte secondo i media yemeniti. “Al Masirah Tv”, il principale canale televisivo di informazione gestito dal movimento che controlla gran parte del paese, parla di sette persone uccise in un attacco al porto di Salif e il resto in due attacchi all’impianto petrolifero di Ras Issa, entrambi situati nella provincia occidentale di Hodeidah. Gli attacchi hanno anche preso di mira due centrali elettriche centrali a sud e a nord della capitale, Sanaa, aggiunge. In una dichiarazione, l’esercito israeliano afferma di aver “condotto attacchi precisi su obiettivi militari Houthi nello Yemen, inclusi porti e infrastrutture energetiche a Sanaa. Gli attacchi aerei israeliani notturni nello Yemen erano mirati a paralizzare tutti e tre i porti utilizzati dagli Houthi sostenuti dall’Iran sulla costa del paese. Tutti i rimorchiatori utilizzati per portare le navi nei porti sono stati colpiti nell’attacco israeliano. Nel precedente attacco di Israele al porto di Hodeidah, le gru utilizzate per scaricare le spedizioni sono state colpite. Ora, Israele ritiene che tutte le attività nei porti controllati dagli Houthi siano paralizzate. L’aeronautica militare israeliana si è preparata per diverse settimane agli attacchi notturni in Yemen. Secondo l’esercito, decine di aerei dell’aeronautica militare israeliana hanno partecipato agli attacchi in Yemen durante la notte, tra cui caccia da combattimento e aerei spia, a circa 2.000 chilometri da Israele. Gli “obiettivi militari” degli Houthi sono stati colpiti al porto di Hodeidah, che Israele ha già colpito due volte in precedenza, e per la prima volta, nella capitale Sanaa, afferma l’IDF. Gli attacchi aerei dell’aeronautica militare israeliana contro obiettivi Houthi nello Yemen durante la notte sono stati effettuati in due ondate. Quattordici caccia da combattimento dell’IAF, insieme a rifornitori e aerei spia, sono stati coinvolti negli attacchi, che erano stati pianificati dall’esercito per diverse settimane in risposta agli attacchi del gruppo sostenuto dall’Iran contro Israele. I caccia da combattimento dell’IAF erano già in rotta verso lo Yemen quando gli Houthi hanno lanciato un missile balistico su Israele intorno alle 2:35 del mattino. L’attacco è stato programmato per la notte a causa di varie preoccupazioni operative e sforzi per migliorare l’intelligence sugli obiettivi. Alle 3:15 del mattino è stata effettuata la prima ondata di attacchi lungo la costa dello Yemen, colpendo i porti di Hodeidah Ras Isa e Salif. Otto rimorchiatori utilizzati per portare le navi nei porti sono stati distrutti negli attacchi. Una seconda ondata di attacchi aerei alle 4:30 del mattino ha colpito due centrali elettriche nella capitale Sanaa. In totale, decine di munizioni sono state sganciate dall’IAF sui cinque obiettivi. Gli Houthi hanno lanciato oltre 200 missili e 170 droni contro Israele nell’ultimo anno. Secondo l’IDF, la stragrande maggioranza non ha raggiunto Israele o è stata intercettata dall’esercito e dai suoi alleati nella regione. Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha lanciato un avvertimento ai leader Houthi: “Il lungo braccio di Israele vi raggiungerà”, afferma in una dichiarazione. “Chiunque sollevi una mano, verrà mozzata. Chiunque colpisca [noi], verrà colpito più volte”. Nel frattempo, il portavoce capo dell’IDF Daniel Hagari ha affermato che tra gli obiettivi colpiti negli “attacchi precisi” c’erano “porti e infrastrutture energetiche” nella capitale Sanaa controllata dai ribelli che gli Houthi hanno sfruttato per “le loro azioni militari”. “Con i loro attacchi alle navi mercantili internazionali e alle rotte nel Mar Rosso e in altri luoghi, gli Houthi sono diventati una minaccia globale. Chi c’è dietro gli Houthi? L’Iran”, afferma in una dichiarazione video in lingua inglese, mentre giura che l’esercito “agirà contro chiunque in Medio Oriente” minacci Israele. Da Teheran invece arriva la condanna come “flagrante violazione” agli attacchi israeliani. Il portavoce del ministero degli Esteri Esmaeil Baqaei ha affermato che i raid sono stati “una flagrante violazione dei principi e delle norme del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite”. Dal canto loro, i ribelli yemeniti Houthi continueranno ad attaccare Israele fino a quando non ci sarà una tregua a Gaza. Il leader del gruppo yemenita Ansar Allah (Houthi), Muhammad Ali Al-Houthi, ha dichiarato: “Gli attacchi del nemico israelo-americano contro obiettivi civili sono crimini di guerra terroristici”. Commentando i raid aerei israeliani della notte al-Houthi ha aggiunto che i crimini “terroristici” di Israele e dell’America non dissuaderanno lo Yemen dall’adempiere al proprio dovere di sostenere Gaza. Il membro dell’Ufficio Politico del Movimento Ansar Allah (Houthi), Muhammad Al-Bukhaiti, ha affermato invece che il “bombardamento delle strutture civili nello Yemen rivela la verità dell’ipocrisia dell’Occidente”. Al-Bukhaiti ha aggiunto, in un tweet sul sito X, che le “nostre operazioni militari a sostegno di Gaza continueranno e che incontreremo un’escalation con un’escalation finché i crimini di genocidio a Gaza non saranno fermati e cibo, medicine e carburante non potranno entrare nel territorio della Striscia”. Al momento non si registrano reazioni da parte del governo legittimo yemenita. Una fonte dell’esecutivo contatta ad Aden da “Formiche” ha spiegato però di ritenere sempre sbagliati questo tipo di azioni che colpisce anche i civili yemeniti. In particolare ci si chiede come mai “Israele applichi una tattica diversa in Yemen rispetto a quanto fatto con Hamas a Gaza o con Hezbollah in Libano e Siria. In Yemen invece di colpire con raid mirati i vertici degli Houthi, Israele colpisce le infrastrutture civili oltre che militari mettendo in ginocchio la già fragile situazione del Paese”.
(Formiche.net, 19 dicembre 2024)
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Arriva “Lasso”, il nuovo software dell’IDF
di Olga Flori
L’ultima invenzione tecnologica israeliana è un software militare creato dall’IDF, chiamato “Lasso”. Progettato per supportare l’esercito nel monitoraggio in tempo reale delle operazioni, questo programma consentirà all’IDF anche di analizzare le azioni sul campo e le tattiche nemiche, ottimizzando le strategie attraverso l’apprendimento dalle azioni militari precedenti. Il software è stato pensato soprattutto come uno strumento in più per aiutare i comandanti ad imparare dall’esperienza accumulata.
Lasso raccoglie i dati trasmessi dalle reti militari, monitorando in particolare i movimenti delle truppe e il rilevamento delle forze nemiche. Il software ha integrato piattaforme già esistenti e in uso presso l’IDF, come Digital Ground Army, che consente di localizzare le posizioni dei nemici e di tracciare in tempo reale, su una mappa, la dislocazione dei soldati israeliani.
Il Capitano Bar Donald, product manager della divisione tecnologica dell’IDF, ha dichiarato al Jerusalem Post che “gli sviluppatori non comprendono sempre le sfide operative. Raccogliamo feedback dai soldati per individuare i loro bisogni, perfezionare le funzionalità ed aggiornare il sistema”. Secondo Donald, l’obiettivo è garantire all’IDF di mantenere uno stato di apprendimento continuo: Lasso, analizzando le operazioni dell’IDF e le tattiche nemiche, potrà contribuire ad un costante miglioramento delle capacità operative dei militari dello Stato ebraico.
(Bet Magazine Mosaico, 19 dicembre 2024)
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La Svizzera vota per mettere al bando Hezbollah
di Ludovica Iacovacci
La Svizzera mette al bando Hezbollah. Martedì 17 dicembre il parlamento elvetico ha votato per vietare l’organizzazione terroristica libanese, segnando una rara mossa da parte di un Paese neutrale che tradizionalmente segue una politica di promozione del dialogo e della mediazione internazionale. Hezbollah è considerata una minaccia troppo pericolosa per lasciare indifferente perfino la Svizzera. La misura è stata approvata dalla Camera bassa dopo aver ricevuto il consenso della Camera alta la scorsa settimana. I sostenitori del divieto hanno affermato che l’organizzazione terroristica libanese rappresenta una minaccia per la sicurezza internazionale e che la Svizzera deve proibirla per prendere posizione contro il terrorismo. Il governo svizzero si è opposto al divieto dopo che il Consiglio federale ha dichiarato che il gruppo terroristico non poteva essere messo al bando poiché la legge vigente richiede sanzioni o un divieto da parte delle Nazioni Unite affinché tale misura possa essere applicata. Il ministro della Giustizia Beat Jans, durante il dibattito parlamentare, ha affermato: “Se ora la Svizzera si muove per vietare tali organizzazioni con leggi speciali, dobbiamo chiederci dove e come vengono tracciati i confini” ma non ha convinto la maggioranza. La messa al bando è stata approvata dalla Camera bassa con 126 voti a favore, 20 contrari e 41 astensioni. Il comitato per la politica di sicurezza, che ha proposto la misura, ha sostenuto che il ruolo di mediazione della Svizzera rimarrà intatto grazie a una disposizione specifica sui colloqui di pace e sugli aiuti umanitari. La scorsa settimana, il parlamento svizzero ha dichiarato fuorilegge Hamas a causa dell’attacco terroristico del gruppo terroristico palestinese del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele, in cui sono state uccise circa 1.200 persone, per lo più civili, e 251 sono state prese in ostaggio. Il governo, che ha redatto il disegno di legge per mettere al bando Hamas, ha affermato di averlo fatto in linea con la pratica di proscrivere le organizzazioni caso per caso solo “per ragioni estremamente serie”. Il giorno dopo il massacro del 7 ottobre perpetrato dai terroristi di Hamas, Hezbollah ha iniziato a lanciare attacchi transfrontalieri contro Israele dal Libano. L’organizzazione terroristica libanese ha scagliato razzi e droni contro comunità di confine e avamposti militari, costringendo circa 60.000 israeliani ad abbandonare le loro case nel nord del Paese. In precedenza la Svizzera aveva messo al bando solo al-Qaeda e lo Stato islamico, che figurano nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dalle Nazioni Unite. Negli ultimi anni, anche altri Paesi del mondo hanno inserito Hezbollah nella lista nera. Nel marzo del 2019, il governo britannico ha designato Hezbollah come organizzazione terroristica. Nel novembre del 2020, la Slovenia si è unita alla lista degli Stati non indifferenti. Sempre quell’anno, la Germania ha emesso un ordine federale che metteva fuori legge Hezbollah nel Paese e ha anche adottato misure esecutive ai sensi delle disposizioni dell’ordine. Nel 2021, il Consiglio regionale della Liguria in Italia ha designato Hezbollah nella sua interezza come organizzazione terroristica.
(Bet Magazine Mosaico, 19 dicembre 2024)
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Il governo non riconosce lo Stato di Palestina, per Provenzano (Pd) è un “affronto” mentre Hamas nel futuro di Gaza non lo è…
di Iuri Maria Prado
È giusto che il governo italiano sia chiamato a rendere conto del proprio atteggiamento rispetto alla guerra di Gaza, vale a dire la guerra scatenata delle migliaia di miliziani e civili palestinesi che, il 7 ottobre dell’anno scorso, hanno sterminato 1200 israeliani e ne hanno rapiti altri duecentocinquanta, parte dei quali giustiziati un po’ alla volta e gli altri – non si sa quanti ancora in vita – tenuti per quattordici mesi nei tunnel costruiti con i soldi della cooperazione internazionale. Dunque anche i soldi dei cittadini italiani.
Ma in politica internazionale la “faccia” dell’Italia non coincide esclusivamente con quella del governo: giusto come il profilo statunitense nel mondo non è solo quello di Joe Biden, secondo cui i responsabili di Hamas pagheranno per i loro crimini, ma anche quello del senatore Bernie Sanders che fa propria la propaganda palestinese sull’uso della fame come strumento di guerra; giusto come il Regno Unito non si mostra all’opinione pubblica internazionale solo con gli esercizi equilibristici del primo ministro Keir Starmer, ma anche con la retorica antisemita di Jeremy Corbyn che chiama “amici” i macellai di Hezbollah; giusto come la Francia non è solo i tira e molla dell’abile presidente Macron, ma anche la postura indecente di Jean-Luc Mélenchon, orgoglioso di condividere il palco dei comizi con la filo-terrorista Rima Hassan, quella degli israeliani che addestrano i cani allo stupro dei palestinesi. Insomma – e potremmo continuare con gli esempi – nelle questioni di politica estera è il Paese tutto, non il governo soltanto, a dover rendere conto di sé stesso in faccia al mondo.
• PROVENZANO E “L’AFFRONTO”
Ora, l’opposizione del nostro Paese fa benissimo a incalzare il governo sui punti critici per cui si segnalerebbe l’azione esecutiva italiana, ma non si sa quanto essa sia consapevole di dover a propria volta rendere conto del proprio operato: che non è necessariamente buono solo perché opposto a un andazzo di maggioranza in ipotesi cattivo. L’altro giorno, alla Camera, in occasione delle comunicazioni della presidente del Consiglio in vista del prossimo Consiglio europeo, l’Onorevole Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Partito Democratico, ha addebitato alla maggioranza di governo di essersi resa responsabile di un “affronto” nei confronti dell’Autorità Palestinese per non aver riconosciuto il cosiddetto Stato di Palestina. Ancora, Provenzano ha rinfacciato al governo non si sa bene quale irriguardoso atteggiamento nei confronti della Corte Penale Internazionale, sollecitata da un discusso prosecutor a emettere i noti ordini di arresto nei confronti di Bibi Netanyahu e dell’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant.
Nei pressi di Montecitorio e nelle trattorie della stupenda campagna romana la cosa non risuona in nessun modo, ma altrove – cioè appunto dove queste faccende hanno un peso – una mozione come quella del Partito Democratico, che chiedeva il riconoscimento dello Stato di Palestina senza neppure un accenno all’esigenza prioritaria, e cioè al fatto che i macellai di Hamas non potessero neppure pensare di poter far parte di un qualsiasi futuro di Gaza, ecco, diciamo che presso alcuni una mozione come quella suonava assai male. Suonava anche peggio quando – assicurando “pieno sostegno al segretario generale dell’Onu a fronte di pericolosi tentativi di delegittimazione” – si lasciava andare al vellicamento delle trippe del signore, Antonio Guterres, capace di spiegare che il 7 ottobre non viene dal nulla e dotato del coraggio di chiamare “colleghi” gli assassini dell’Unrwa embedded in Hamas.
Queste cose contano – these things matter – oltre i confini del Grande Raccordo Anulare. Così come conta porsi quale soggetto politico che in relazione neppure a una sentenza, ma a un ordine di arresto, pretende che l’Italia si esibisca nel girotondo all’Aia agitando le manette da applicare al duo genocida. Fa fatica di suo a essere una cosa seria, quel presunto processo: se diventa la Mani Pulite dal fiume al mare, coi parlamenti che chiedono ai giudici di farli sognare, non onoriamo il diritto ma ciò che ne è cupo e plebeo simulacro.
Dio solo sa quanto l’Italia potrebbe fare meglio, sulla guerra di Gaza. C’è caso che sia istigata a fare peggio.
(Il Riformista, 19 dicembre 2024)
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Al Jolani: no ad attacchi dal nostro territorio
La Siria «non verrà utilizzata» come base per attacchi contro Israele o qualsiasi altro stato. Lo ha promesso Abu Mohammad al Jolani, il capo della coalizione islamista che ha preso il potere a Damasco, in un’intervista al britannico Times. Allo stesso tempo il leader siriano ha sottolineato che Gerusalemme deve porre fine agli attacchi aerei in Siria e ritirarsi dal territorio occupato nel Golan siriano dopo la caduta di Bashar al-Assad. «La giustificazione di Israele era la presenza di Hezbollah e delle milizie iraniane, e quella giustificazione è venuta meno», ha sostenuto al Jolani.
Nell’intervista il leader ha spiegato di non volere «conflitti con Israele o con altre nazioni» e ribadito il concetto che la Siria ora non ha bisogno di guerre, ma di pace».
Guardando al futuro della Siria, il leader sunnita ha posto l’accento sulla necessità di ricostruire il paese: «La priorità ora deve essere la costruzione di uno stato forte e la creazione di istituzioni pubbliche al servizio di tutti i siriani». Ha inoltre rivelato che potrebbe candidarsi alla presidenza, a condizione di ricevere un sostegno sufficiente. Alla comunità internazionale al Jolani chiede intanto di rimuovere le sanzioni imposte alla Siria per colpire Bashar Assad, ormai fuggito in Russia. Per l’Ue risponde l’alto rappresentante agli Esteri, Kaja Kallas. Dobbiamo «iniziare a riflettere su una possibile revisione del nostro regime di sanzioni, al fine di sostenere il percorso della Siria verso la ripresa mantenendo al contempo la nostra influenza», ha affermato Kallas.
Secondo l’esperta israeliana di Siria Carmit Valensi, anche Israele dovrebbe valutare possibili aiuti a Damasco e cercare di dialogare con attori ritenuti affidabili. L’esempio sono le forze ribelli dispiegate nell’area vicino al confine con lo stato ebraico. «Si tratta dell’Esercito siriano libero e delle forze druse, che hanno avuto un atteggiamento positivo nei confronti di Israele in passato e con cui ci sono già state collaborazioni», scrive l’analista sul sito dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv. Per Valensi Gerusalemme potrebbe dare l’ok a una missione simile a quella portata avanti tra il 2016 e il 2018, intitolata “Buon vicinato”. All’epoca furono forniti aiuti medici e cibo ai siriani durante la guerra civile. «I meccanismi necessari a mettere in piedi l’operazione e alcuni dei contatti chiave sono ancora disponibili, il che significa che Israele non dovrebbe partire da zero». Oltre a impegnarsi con i vari attori in Siria, Israele, ribadisce Valensi, «dovrebbe mantenere una presenza militare deterrente lungo il confine e continuare a impegnarsi per bloccare la presenza iraniana nell’area». Azioni già intraprese da Tsahal in queste settimane.
(moked, 18 dicembre 2024)
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Chi sarà il prossimo a cadere?
La rivoluzione in Siria si ripercuote sul Medio Oriente, in particolare sul Libano, sulla Giordania e sull'Autorità Palestinese nel cuore biblico della Giudea e della Samaria. Anche l'Egitto è preoccupato - un effetto domino che preoccupa Israele. di Aviel Schneider
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Un combattente dell'opposizione calpesta la statua decapitata di Hafez al-Assad all'aeroporto militare di Damasco, il 12 dicembre 2024
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GERUSALEMME - La caduta del regime siriano di Assad e la sconfitta dei suoi alleati sciiti, Hezbollah e Iran, rappresentano senza dubbio un successo significativo per Israele. Tuttavia, se questo dovesse portare a ulteriori rivoluzioni negli Stati arabi vicini, si tratterebbe di uno scenario deleterio per Israele. In Medio Oriente, tali circostanze vengono sfruttate rapidamente. Non esiste un vuoto di potere e non appena un regime cade nel mondo arabo, l'effetto si diffonde spesso ad altri governi. Uno sguardo al passato lo dimostra: La Primavera araba del 2011 è iniziata in Tunisia e si è diffusa in altri Stati arabi. Ha portato alla caduta di diversi governanti, tra cui il presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali, il presidente egiziano Hosni Mubarak e il governatore libico Muammar Gheddafi. Come persona che segue molti canali sunniti e sciiti su Telegram, so che i gruppi terroristici in Medio Oriente stanno già sognando una nuova ondata di rivoluzione. La più grande preoccupazione di Israele al momento è la stabilità della Giordania. Non è un caso che il capo del servizio di sicurezza israeliano Shin Bet, Ronen Bar, e il capo del servizio di intelligence militare Aman, il maggior generale Schlomi Binder, abbiano visitato la Giordania la scorsa settimana. La questione è stata discussa anche l'altro ieri in una riunione speciale del Gabinetto del Comando centrale. Secondo gli esperti di sicurezza israeliani, la Giordania osserva con grande preoccupazione gli sviluppi nel sud della Siria. L'esercito giordano ha aumentato il livello di allerta al confine con la Siria per timore che civili siriani o gruppi jihadisti possano tentare di infiltrarsi nel Paese. L'ampio smantellamento di Hezbollah ha innescato un drammatico effetto domino che sta ispirando gruppi terroristici armati anche nei territori biblici di Giudea e Samaria - uno sviluppo che ricorda le dinamiche della Primavera araba. In risposta all'attacco dei ribelli sunniti di quindici giorni fa, la Giordania ha chiuso il valico di frontiera di Jaber. Questo confina con il valico siriano di Nassib, controllato dai ribelli jihadisti. Rapporti sui canali Telegram siriani e giordani descrivono condizioni caotiche al confine tra Siria e Giordania, soprattutto nei pressi della città di Daraa, epicentro delle proteste del 2011 che hanno dato inizio alla guerra civile siriana.
• DI COSA HANNO PAURA GIORDANIA E ISRAELE? Un nuovo regime jihadista sunnita in Siria potrebbe allearsi con i Fratelli Musulmani in Giordania e mettere in pericolo il regno hashemita di re Abdullah. Nonostante la relativa stabilità del regno, c'è qualcosa che ribolle sotto la superficie: la maggioranza palestinese e i gruppi islamisti ostili a Israele potrebbero vedere gli sviluppi in Siria come un modello e tentare di provocare un cambiamento di regime anche in Giordania. Un crollo della Giordania avrebbe un impatto diretto sui 300 chilometri di confine orientale di Israele, una sfida immensa per la sicurezza. I gruppi terroristici sunniti sono profondamente coinvolti nel contrabbando di armi e della droga Captagon dalle regioni siriane di Daraa e As-Suwayda verso la Giordania. L'esercito giordano sta conducendo da anni una feroce battaglia contro questi contrabbandieri. Re Abdullah teme che i gruppi di contrabbandieri, insieme ai Fratelli Musulmani radicali, possano mettere la popolazione palestinese contro di lui. “Il regime giordano è fondamentalmente diverso da quello siriano. È liberale e gode di legittimità nel Paese. In Giordania non ci sono prigioni segrete come la famigerata prigione di Sednaya in Siria”, spiega a Jediot Achronot il professor Ronen Yitzchak, responsabile degli studi sul Medio Oriente presso il Collegio accademico della Galilea occidentale. Il sistema giordano si basa piuttosto su una politica di inclusione. Parallelamente alle tensioni sul confine giordano-siriano, la scorsa settimana l'Autorità palestinese (AP), in coordinamento con l'esercito israeliano e lo Shin Bet, ha lanciato un'operazione militare su larga scala contro i gruppi terroristici nei campi profughi della Samaria settentrionale. L'operazione, denominata “Difesa della Patria”, segna un cambiamento di strategia: per la prima volta, le forze di sicurezza palestinesi entrano nei campi profughi di Jenin e Tulkarem per arrestare i terroristi. Due terroristi armati sono stati uccisi durante un'operazione a Jenin, cosa che ha fatto infuriare parte della popolazione palestinese ma ha anche sottolineato la forza di Israele nella regione. Il leader palestinese Mahmoud Abbas, che in precedenza aveva esitato ad agire in prima persona contro il terrorismo nei campi profughi, si trova sempre più sotto pressione. La sua posizione esitante ha favorito la creazione di nuove strutture terroristiche da parte di Hamas e della Jihad islamica, sostenute da risorse iraniane. Israele sta ora sollecitando Abbas a riprendere il controllo dei territori, anche per evitare un potenziale effetto domino come in Siria. Tuttavia, le autorità di sicurezza israeliane si stanno preparando a intervenire militarmente se il controllo dell'Autorità palestinese a Ramallah dovesse vacillare. Ambienti governativi di alto livello sottolineano che Israele non permetterà ad Hamas di prendere il controllo dei territori palestinesi, come è successo nella Striscia di Gaza nel 2007. Anche l'Egitto potrebbe essere interessato dagli sviluppi: una vittoria dei jihadisti sunniti sul regime sciita di Assad potrebbe essere percepita come un trionfo ideologico e scatenare una nuova ondata di terrore. I Fratelli Musulmani in Egitto potrebbero trarne ispirazione per riprendere la loro lotta. Gruppi radicali come Wilayat Sinai potrebbero riprendere forza, mentre le tensioni sociali ed economiche potrebbero destabilizzare ulteriormente il regime di Al-Sisi. Israele deve monitorare attentamente l'impatto del cambio di potere in Siria sull'intera regione. Se il successo dei jihadisti sunniti dovesse alimentare le loro ambizioni, potrebbero essere presi di mira la Giordania, l'Egitto e persino aree della Giudea e della Samaria. Israele ha il compito urgente di prepararsi a questi sviluppi.
(Israel Heute, 18 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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“Il nostro è un luogo di ritrovo dove la gente si sente ispirata”
Cafe Otef, la catena di food store dei sopravvissuti al 7 ottobre, si espande in Israele
di Pietro Baragiola
Fondata dall’imprenditore culinario Tamir Barelko, Cafe Otef è una catena di food store israeliani lanciata da e per i sopravvissuti del 7 ottobre. Il nome “Otef” (“busta” in italiano) si riferisce alla regione di Israele al confine con Gaza che è stata colpita duramente dai terroristi di Hamas. La catena è gestita interamente da sfollati provenienti dalle comunità del sud del Paese e offre un’ampia gamma di prodotti provenienti proprio da quelle aree: formaggi di Be’eri, miele del kibbutz Erez, marmellate, creme, muesli e torte, oltre a numerosi articoli di marca come magliette e grembiuli. La prima filiale è stata aperta agli inizi del 2024 nel quartiere Sarona a Tel Aviv e il suo personale era composto da residenti di Netiv HaAsara. Presto, però il locale ha avuto un così grande successo da permettere l’apertura di una seconda filiale, oggi situata nel quartiere di tendenza Florentin e gestita dall’israeliana Reut Karp.
• REUT E DVIR KARP
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Ritratto di Dvir, ucciso il 7 ottobre al kibbutz Re'im
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Il poster con i messaggi inviati il 7 ottobre dagli abitanti del sud
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Jewish Telegraphic Agency, Reut ha raccontato che ‘quando tutti pensavano di morire per la pandemia’ aveva esortato il marito Dvir, chocolatier, a scrivere le sue ricette e, nonostante l’iniziale resistenza, alla fine lui ha acconsentito. Durante la strage del 7 ottobre, Dvir è stato ucciso nel kibbutz Re’im davanti ai loro figli, all’epoca di 10 e 8 anni, e Reut ha sentito subito la profonda responsabilità di preservare il ricordo del marito in ogni modo possibile. Oggi i cioccolatini preparati con le ricette di Dvir sono il pezzo forte della sua filiale del Cafe Otef e Reut è convinta che suo marito sarebbe fiero di lei. “Probabilmente direbbe solo che ho esagerato” ha affermato la proprietaria del locale, spiegando di aver creato un nuovo logo per i cioccolatini ispirandosi al rinomato brand Cartier. “Negli ultimi sei mesi ho detto tante volte ‘grazie’ a Dio per questo locale che mi spinge ad alzarmi dal letto e a dare un senso alle mie giornate. È bello sapere che anche i miei collaboratori la pensano come me”. Il locale è diventato presto un luogo di ritrovo per tutti coloro che sono stati direttamente colpiti dagli eventi del 7 ottobre: che siano sopravvissuti al Nova Music Festival, genitori in lutto o molti altri, Cafe Otef offre loro uno spazio per raccontare le proprie storie e affrontarle insieme. “Vogliono sentire un senso di connessione” ha affermato Reut, la cui filiale è stata battezzata Cafe Otef-Re’im per rendere omaggio al proprio kibbutz dove 80 terroristi hanno ucciso sette residenti (tra cui Dvir) e ne hanno rapiti altri QUATTRO.
• IL CAFE OTEF-RE’IM
Posizionato nell’area centrale di Tel Aviv, Cafe Otef-Re’im è diventato un punto d’incontro naturale per gli sfollati provenienti dal nord e sud di Israele, che hanno creato tra loro un senso di cameratismo all’interno del locale. Reut nel corso della sua intervista ha raccontato di come una donna del kibbutz Manara, oggi ritenuto ‘una Chernobyl israeliana’ per la quantità di frammenti di razzi e detriti sparsi a terra, si sia recata nel suo store qualche settimana fa solo per abbracciarla. “Quel contatto è stato come un caricatore umano per me” ha affermato Reut. “Ho capito che avevo fatto la scelta giusta nel prendere in gestione questo posto.” L’anemone coronaria, il fiore nazionale israeliano onnipresente nella regione di Re’im, è ovunque anche nel locale di Reut: ricamato sulle uniformi del personale, stampato sulle tazze da asporto ed esposto sugli oggetti in ceramica in vendita. Sulla parete principale è appeso un poster creato da Adi Drimer, un insegnante d’arte di Re’im che ha raccolto insieme i messaggi disperati inviati nel gruppo WhatsApp del kibbutz durante la strage del 7 ottobre. Tra i frammenti di testo presenti c’è anche un messaggio di Reut in cui implorava gli altri membri del kibbutz di salvare i suoi figli: “Urgente! Urgente! Daria e Levi sono soli. Mio marito Dvir è stato ucciso.” “È importante ricordare che non è nostra intenzione far sprofondare gli ospiti nel nostro dolore” ha spiegato Reut alla Jewish Telegraphic Agency. “Questo è innanzitutto un luogo di ritrovo, quando la gente ci vede andare avanti, si sente ispirata.” Tra i dipendenti di Reut c’è anche il 20enne Ziv Hai, che si è trasferito a Tel Aviv dopo che ha dovuto abbandonare il suo kibbutz al confine con l’Egitto. “Mi sento come se avessi lasciato un pezzo di me stesso a Sufa e qui a Tel Aviv sto cercando di ricostruirmi. Il locale mi dà un posto dove posso sentirmi a mio agio. Posso raccontare una barzelletta scurrile e tutti qui – perché anche loro vengono dal sud – la capiscono” ha raccontato Hai alla Jewish Telegraphic Agency. Oggi circa 100 dei 450 residenti di Re’im sono tornati a casa, tra cui molti dipendenti di Reut, ma non tutti sono lieti di questa notizia. “Molti nostri clienti hanno sentimenti contrastanti sulla nostra partenza. Da un lato sono felici che torniamo a casa, ma dall’altro vogliono che restiamo perché la nostra presenza qui ha dato un volto al 7 ottobre” ha spiegato la proprietaria del locale, fiera dell’impatto che sta portando con il suo lavoro. Oggi il fondatore di Cafe Otef, Barelko, ha grandi progetti per espandere sempre più i suoi store in Israele e, già nelle prossime settimane, aprirà due nuove filiali: Cafe Otef-Sderot e Cafe Otef-Kiryat Shmona. L’obiettivo è quello di introdurre l’utilizzo di food truck in varie località del Paese e coinvolgere il più possibile i numerosi soldati rimasti invalidi a causa del conflitto in Medio Oriente, per aiutarli a reintegrarsi nelle loro comunità.
(Bet Magazine Mosaico, 18 dicembre 2024)
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La Columbia University assegna un corso sul sionismo al professore che ha lodato il 7 ottobre
“La Columbia ha perso non solo la sua bussola morale, ma anche quella intellettuale”, dice un professore dimissionario
La Columbia University sta affrontando una nuova controversia dopo aver assegnato un corso sullo “sviluppo del sionismo” a Joseph Massad, un accademico giordano che il 7 ottobre ha approvato pubblicamente le azioni di Hamas. La decisione ha provocato scosse nella comunità accademica e non solo.
In un articolo pubblicato sul sito web “Electronic Intifada” il giorno successivo agli attacchi, Massad ha definito “straordinarie” le azioni di Hamas, descrivendo con ammirazione “i combattenti della resistenza palestinese che assaltano le barriere israeliane”. Ha anche descritto gli israeliani come “occupanti brutali”.
La polemica ha già avuto ripercussioni concrete. Il professor Lawrence Rosenblatt, specialista in relazioni internazionali, si è dimesso dal suo incarico per protesta. Nella sua lettera di dimissioni, ha dichiarato che “la Columbia ha perso non solo la sua bussola morale, ma anche la sua bussola intellettuale”, sottolineando l'incompatibilità tra la missione educativa dell'università e l’attribuzione di un corso a qualcuno “che sostiene lo sterminio di un popolo”.
Le critiche vanno oltre l'università. Il rappresentante democratico Richie Torres ha messo pubblicamente in dubbio la pertinenza dei finanziamenti pubblici per un insegnamento che, a suo dire, “glorifica l'uccisione, lo stupro e il rapimento di ebrei e israeliani”. Il movimento StopAntisemitism ha ironizzato sulla situazione chiedendo se “Kim Jong-un avrebbe tenuto un corso sulla democrazia”.
Questa polemica si inserisce in un contesto più ampio di tensione nei campus americani, dove la Columbia è già stata teatro di numerosi incidenti antisemiti dopo il 7 ottobre.
(i24, 18 dicembre 2024)
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Rinvenute prove di riti di culto risalenti a 35.000 anni fa
Una roccia con guscio di tartaruga nella Grotta di Manot testimonia le riunioni religiose. Probabilmente esistevano già nelle culture preistoriche.
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I numeri indicano grandi gruppi di stalagmiti nella grotta.
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MANOT - I ricercatori hanno trovato prove di incontri religiosi risalenti a 35.000 anni fa in un sito archeologico nella Grotta di Manot, nella Galilea settentrionale di Israele. Si tratta del primo ritrovamento di questo tipo nel Levante e di uno dei primi a livello mondiale. Lo ha riferito la scorsa settimana la rivista scientifica PNAS nell'articolo “Early human collective practices and symbolism in the early Upper Palaeolithic of Southwest Asia”. Gli autori sono gli scienziati Omry Barsilai, Ofer Marder, José-Miguel Tejero e Israel Herschkovitz. Una roccia con incisioni geometriche che ricordano il guscio di una tartaruga costituisce il fulcro del ritrovamento. È stata “deliberatamente collocata in una nicchia nella parte più profonda e buia della grotta”, ha spiegato Barsilai. “Il disegno del guscio di tartaruga indica che potrebbe trattarsi di un totem o di una figura mitologica o spirituale”. L'archeologo ha aggiunto che la particolare posizione della roccia depone a favore di un oggetto di culto: è lontana dall'ingresso della grotta, dove si svolgeva la vita quotidiana. Altri elementi nella grotta testimoniano attività come la preghiera, il canto e la danza: l'acustica naturale della grotta serviva alla comunità. Resti di cenere nell'area intorno alla roccia del guscio di tartaruga indicano l'uso del fuoco per l'illuminazione.
• UNA MIGLIORE COMPRENSIONE DELLE POPOLAZIONI PREISTORICHE La scoperta “arricchisce la nostra comprensione delle popolazioni preistoriche, del loro mondo simbolico e della natura dei rituali di culto che univano le antiche comunità”, afferma il quotidiano online “Times of Israel”. Si tratta di una “svolta nella nostra comprensione della società umana, che rivela il ruolo centrale dei rituali e dei simboli nella formazione dell'identità collettiva e nel rafforzamento dei legami sociali”. I ricercatori dell'Autorità israeliana per le antichità e dell'Università Ben-Gurion di Be'er Sheva hanno scoperto la Grotta di Manot nel 2008, considerata una testimonianza di culture preistoriche.
(Israelnetz, 18 dicembre 2024)
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Le pressioni di Trump e i progressi nei negoziati per il rilascio degli ostaggi
Attesa una svolta per Chanukkah
di Luca Spizzichino
Il Presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato lunedì di essere attivamente impegnato per garantire il rilascio degli ostaggi ancora detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza. “Stiamo cercando di aiutare con grande impegno per riportare a casa gli ostaggi”, ha detto Trump durante una conferenza stampa al suo resort Mar-a-Lago a Palm Beach, Florida.
Trump ha confermato inoltre di aver avuto una “chiamata di aggiornamento” con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante il fine settimana, senza però entrare nei dettagli. “Abbiamo avuto una conversazione molto positiva, abbiamo discusso di ciò che accadrà e sarò pienamente disponibile dal 20 gennaio. Vedremo” ha dichiarato. Il Presidente eletto ha aggiunto che, se gli ostaggi non saranno rilasciati entro il giorno del suo insediamento, “scoppierà l’inferno”.
Secondo fonti israeliane e arabe citate dal Times of Israel, i negoziati mediati dal Qatar e dall’Egitto avrebbero registrato significativi progressi negli ultimi giorni, anche se restano ostacoli da superare. L’obiettivo è garantire il rilascio iniziale degli ostaggi più vulnerabili, tra cui donne, anziani e malati, in cambio di un cessate il fuoco di sei settimane.
Netanyahu, in un comunicato ufficiale, ha ribadito il suo impegno a “massimizzare il numero di ostaggi vivi che verranno liberati in qualsiasi possibile quadro di accordo”. Il premier israeliano lunedì ha incontrato Adam Boehler, inviato speciale per gli affari legati agli ostaggi nominato da Trump, insieme ad alti funzionari israeliani. Il Ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha dichiarato che Israele è “più vicino a un accordo per il rilascio degli ostaggi rispetto all’ultima volta”. Durante una riunione della Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset, Katz ha sottolineato che Hamas ha mostrato una nuova flessibilità. “È una questione morale e la missione più importante che abbiamo davanti,” ha affermato.
Il Segretario di Stato Antony Blinken ha chiesto alla Turchia di esercitare pressioni su Hamas per accettare un accordo. Il portavoce Matthew Miller ha sottolineato che le discussioni sono vicine a una conclusione, ma ha avvertito che negoziati simili in passato sono falliti all’ultimo momento. Trump ha inoltre inviato i suoi inviati Steve Witkoff e Massad Boulos nella regione per incontri con i leader di Arabia Saudita e Qatar. Parallelamente, una delegazione israeliana è attualmente a Doha per proseguire i negoziati.
Il principale ostacolo resta la durata del cessate il fuoco. Israele insiste per avere il diritto di riprendere le operazioni militari dopo la prima fase dell’accordo, mentre Hamas richiede un ritiro definitivo delle forze israeliane. Secondo i negoziatori, l’accordo potrebbe essere concluso entro Chanukkah, ma l’attuazione richiederebbe un periodo più lungo. Le famiglie degli ostaggi hanno espresso speranza e preoccupazione durante una manifestazione presso il parlamento israeliano. Hadassah Lazar, sorella di Shlomo Mansour, prigioniero a Gaza, ha dichiarato: “Spero e credo che ci sarà un miracolo di Chanukkah. Esigiamo che tutti gli ostaggi tornino insieme in un unico accordo, senza lasciare nessuno indietro”.
(Shalom, 17 dicembre 2024)
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"Se vincessero i nemici il prossimo bersaglio sarebbe l’Occidente"
Intervista a Jonathan Peled, nuovo Ambasciatore di Israele in Italia
di Maurizio Caprara
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L'ambasciatore Jonathan Peled
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«Sulle prospettive per il Medio Oriente sono prudentemente ottimista. Sulle relazioni tra Israele e Italia assolutamente ottimista», dice il nuovo ambasciatore dello Stato ebraico a Roma. Jonathan Peled, 63 anni, è stato mandato a rappresentare il Paese governato dal conservatore Benjamin Netanyahu dopo aver ricoperto, tra l’altro, la carica di consigliere politico aggiunto di Shimon Peres quando lo statista di formazione laburista era ministro degli Esteri. A differenza del candidato originario per la sede di Roma Benny Kashriel, al quale non è stato dato il gradimento perché molto legato agli insediamenti in Cisgiordania, Peled è un diplomatico di carriera. Già maggiore dell’Aeronautica, abitava in un kibbutz della Galilea a soli 36 chilometri dal Monte Hermon sul cui versante siriano, due domeniche fa, soldati israeliani hanno innalzato una bandiera con la stella di Davide. Peled ha presentato le credenziali al Quirinale il 5 dicembre e questa è la sua prima intervista nel nuovo incarico.
- Lei rappresenta uno Stato alle prese con una guerra a Gaza e una in Libano mentre in una nazione confinante, la Siria, è crollato un regime nemico e ci si interroga su come governeranno i ribelli islamici che ne hanno preso il posto. Per il 2025 cosa ha nella sua agenda uno che fa il suo lavoro? «Dobbiamo riportare le relazioni tra Israele e Italia a prima delle stragi compiute da Hamas il 7 ottobre 2023, mentre si era concentrati su nuove tecnologie, spazio, energia, acqua. Apprezziamo molto la posizione avuta dal governo italiano dal 7 ottobre e la forte amicizia tra i rispettivi popoli. Adesso c’è da riprendere un forte flusso di scambi accademici, commerciali, tecnologici, politici. Per fine ottobre 2023 era previsto un incontro da noi tra i due governi. Non fu possibile tenerlo. Speriamo si possa nel 2025».
- La Corte penale internazionale ha chiesto l’arresto di Netanyahu per crimini di guerra. Se il suo primo ministro venisse a Roma lei si aspetta che in Italia sarebbe catturato? «Al momento non ci sono inviti sul tavolo. È una domanda ipotetica che andrebbe posta alle autorità italiane».
- Israele il 7 ottobre 2023 è stato attaccato con ferocia, ma nella continuazione della guerra di Gaza la sua immagine è stata percepita negativamente in settori di larga parte dell’Occidente. Per invertire la tendenza suo avviso quali azioni servirebbero? «Innanzitutto si dovrebbe distinguere tra il diritto di Israele all’autodifesa, la guerra che il Paese combatte per l’Occidente e anche per l’Italia, e la sua leadership politica. Non è un segreto che la nostra è una democrazia molto autocritica. Parti di Israele criticano il governo, tuttavia nessuno mette in dubbio che Israele stia facendo ciò che deve fare a Gaza e su un totale di sette fronti, dagli attacchi degli Houthi dallo Yemen a quelli di milizie irachene. Questa guerra la stiamo vincendo, però se non la vincessimo il prossimo nemico di chi ci attacca sarebbe l’Occidente».
- Anche se i numeri di vittime forniti da Hamas sono difficili da verificare, a Gaza i palestinesi morti sono tanti. «Proviamo rimpianto per ogni morte di innocenti. La popolazione civile non viene colpita intenzionalmente. Facciamo il nostro massimo per ridurre al minimo le vittime civili anche quando questi sono usati come scudi umani. La guerra è tragica e in guerra viene uccisa gente, sebbene incolpevole. Poi ci sono disinformazione, incitamento all’odio. Noi stiamo combattendo una guerra asimmetrica. Nessuna altra democrazia viene aggredita ai suoi confini da soggetti non statali, come Hamas e Hezbollah, che possono nascondersi tra la popolazione, non rispettare nostri valori, norme, prigionieri e civili né obblighi di moderazione o della Convenzione di Ginevra».
- L’Italia ha un migliaio di militari nella Forza di interposizione delle Nazioni Unite in Libano, Unifil. Come potrebbe contribuire al consolidamento del cessate il fuoco o al mantenimento degli accordi di pace in Medio Oriente una volta raggiunti? «L’Italia sta ricoprendo un ruolo costruttivo, ne può avere ancora dal “giorno dopo”. Sia come parte di Unifil, sia come membro di un comitato di coordinamento, sia nello sviluppo delle forze armate libanesi».
- E Unifil, che negli ultimi anni ha potuto soltanto misurare l’espansione degli arsenali di Hezbollah, rimarrebbe com’è? «Più che la quantità di personale da impiegare, il problema è che cosa deve fare, e questo non spetta a Israele stabilirlo. Certo, dovrebbe cambiare le sue regole di ingaggio e avere compiti più efficaci».
- Ambasciatore, nei canali diplomatici quali spiegazioni ha dato dei colpi sugli italiani partiti da unità israeliane in Libano? «Abbiamo reso molto chiaro che si è trattato di incidenti, e non di atti intenzionali. Non dimentichiamo che Hezbollah si nascondeva dietro le postazioni di Unifil».
- Lei prevede che nel 2025 si occuperà di Iran? «Dobbiamo essere sicuri che non disponga di armi nucleari e agiremo affinché le sue “guardie rivoluzionarie” vengano sanzionate per gli attacchi all’estero. Unione Europea e Italia, per noi, su questo sono importanti».
(Corriere della Sera, 17 dicembre 2024)
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La Turchia sta per invadere il Kurdistan siriano
Tutto lascia pensare che la Turchia stia per dare il via ad una invasione su larga scala del Kurdistan siriano.
Fonti di alto livello statunitensi affermano che la Turchia e i miliziani suoi alleati stanno accumulando forze lungo il confine con la Siria, suscitando il sospetto che Ankara si stia preparando per un’incursione su larga scala nel territorio detenuto dai curdi siriani sostenuti dagli americani. Le forze includono combattenti della milizia, commando in uniforme turca e artiglieria in gran numero che si concentrano vicino a Kobani, una città a maggioranza curda in Siria al confine settentrionale con la Turchia. Un’operazione transfrontaliera turca potrebbe essere imminente, ha detto uno dei funzionari statunitensi. Il rafforzamento, iniziato dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad all’inizio di dicembre, sembra simile alle mosse militari turche in vista dell’invasione del 2019 del nord-est della Siria. “Siamo concentrati su questo aspetto e stiamo facendo pressione per la moderazione”, ha detto un altro funzionario statunitense. Ilham Ahmed, un funzionario dell’amministrazione civile dei curdi siriani, lunedì ha detto al presidente eletto Donald Trump che un’operazione militare turca sembrava probabile, invitandolo a fare pressione sul presidente turco Recep Tayyip Erdogan affinché non invii truppe oltre il confine. L’obiettivo della Turchia è quello di “stabilire un controllo de facto sulla nostra terra prima che lei entri in carica, costringendola a impegnarsi con loro come dominatori del nostro territorio”, ha scritto Ahmed a Trump in una lettera visionata dalla stampa. “Se la Turchia procederà con la sua invasione, le conseguenze saranno catastrofiche”. La minaccia della Turchia ha lasciato le Forze Democratiche Siriane a guida curda, che si uniscono alle truppe statunitensi nel nord-est della Siria per cacciare i resti dello Stato Islamico, in una posizione vulnerabile settimane prima che l’amministrazione Biden lasci il suo incarico. Il Segretario di Stato Antony Blinken si è recato in Turchia la scorsa settimana per discutere del futuro della Siria con Erdogan e ottenere garanzie che Ankara avrebbe ridotto le operazioni contro i combattenti curdi. Ma secondo un portavoce delle Forze Democratiche Siriane i colloqui per il cessate il fuoco tra i curdi siriani e i ribelli sostenuti dalla Turchia a Kobani, mediati dagli Stati Uniti, sono crollati lunedì senza un accordo. L’SDF sta ora assistendo a “significativi assembramenti militari” a est e a ovest della città, ha detto il portavoce. “Dall’altra parte del confine, possiamo già vedere le forze turche che si stanno ammassando e i nostri civili vivono nel costante timore di morte e distruzione imminenti”, ha scritto Ahmed a Trump. L’estromissione del leader siriano Assad da parte dei gruppi ribelli guidati da Hayat Tahrir al-Sham, precedentemente affiliato ad al-Qaeda, ha lasciato il futuro del Paese in uno stato di incertezza e ha dato il via a nuovi combattimenti tra i curdi siriani e i gruppi ribelli sostenuti dalla Turchia. La caduta di Assad ha portato a un’intensificazione delle operazioni turche contro l’SDF, che Ankara considera un’estensione del vietato Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Lunedì Trump ha insinuato che la Turchia ha orchestrato la conquista della Siria da parte di Hayat Tahrir al-Sham, dicendo ai giornalisti nella sua residenza in Florida che “la Turchia ha fatto una presa di potere non amichevole senza perdere molte vite”. Ahmed ha avvertito Trump che un’invasione turca provocherebbe lo sfollamento di oltre 200.000 civili curdi nella sola Kobani e di molte comunità cristiane. Durante il suo primo mandato, Trump ha parzialmente ritirato le truppe statunitensi dal nord-est della Siria, aprendo la strada a un’invasione turca su larga scala che ha ucciso e sfollato centinaia di migliaia di siriani. L’amministrazione Trump ha infine contribuito a mediare un cessate il fuoco in cambio della cessione da parte dei curdi di chilometri di territorio di confine ai turchi. Anche se Trump subentrerà al presidente Biden solo il 20 gennaio, Ahmed ha esortato il presidente eletto a usare il suo “approccio unico alla diplomazia” per convincere Erdogan a fermare qualsiasi operazione pianificata. Ha fatto riferimento a un precedente incontro con Trump, ricordando che l’allora presidente aveva promesso che “gli Stati Uniti non avrebbero abbandonato i curdi”. “Crediamo che lei abbia il potere di impedire questa catastrofe. Il Presidente Erdogan l’ha già ascoltata in passato e confidiamo che ascolterà di nuovo il suo appello”, ha scritto Ahmed. “La sua leadership decisiva può fermare questa invasione e preservare la dignità e la sicurezza di coloro che sono stati solidi alleati nella lotta per la pace e la sicurezza”.
(Rights Reporter, 17 dicembre 2024)
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Uno sguardo all'interno dell'Unità 504
Potete immaginare l’interrogatorio di un terrorista?
di David Shishkoff
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Sorveglianza in una prigione nel sud di Israele ai terroristi di Hamas catturati il 7 ottobre e durante l'operazione dell'IDF a Gaza
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GERUSALEMME - Nell'ultima settimana di novembre 2024, il Corpo di Intelligence delle Forze di Difesa Israeliane ha fornito una panoramica su una delle sue unità. L'Unità 504 del Corpo di Intelligence è responsabile della ricognizione "umana" (in contrapposizione alla ricognizione tecnologica). Uno dei loro compiti è l'interrogatorio dei prigionieri di guerra. Sono stati molto impegnati dal 7 ottobre. Quando le forze israeliane hanno posto fine al massacro, hanno catturato migliaia di terroristi di Gaza. Nei mesi seguenti l'Unità 504 ha interrogato più di 2.500 terroristi, ottenendo decine di migliaia di "informazioni" sulle posizioni nemiche e identificando migliaia di obiettivi per gli attacchi delle forze israeliane. Molti di questi terroristi avevano informazioni che potevano fare la differenza tra la vita e la morte per i soldati israeliani che penetravano nella zona grigia di Gaza, fatta di tunnel nascosti e trappole esplosive. Le informazioni potevano essere, ad esempio, la posizione di un tunnel, una casa con una trappola esplosiva o il luogo in cui sono conservati i razzi. Gli inquisitori dell'Unità 504 sono stati chiamati urgentemente in servizio attivo dopo il 7 ottobre per cercare di ottenere queste informazioni cruciali dai terroristi catturati. Gli inquisitori parlano tutti correntemente l'arabo. Molti di loro hanno superato l'età normale per il servizio di riserva nelle Forze di Difesa israeliane e tuttavia sono rimasti volentieri in servizio dopo il 7 ottobre. Gli interrogatori possono durare molte ore e continuare per giorni mentre l'inquisitore guarda il terrorista negli occhi. Gli esperti del 504 paragonano gli interrogatori a una partita di poker in cui nessuna delle due parti sa esattamente quali "carte" (conoscenze) ha in mano l'altra. Uno degli inquisitori, il Capitano "A", è sposato e padre di sei figli. Dice: "Paragono un interrogatorio a una partita di poker. Due persone siedono lì, ognuna ha delle carte e ognuna cerca di scoprire cosa ha l'altra. Tutti cercano di imbrogliare, di bluffare - e il vostro compito di interrogane è capire se la persona che avete di fronte sta mentendo o no. Se quello che sta dicendo è vero o no. Più informazioni portate in un interrogatorio, più forti sono le vostre carte e più probabilità avete di avere successo. Se riesco a far capire che il gioco è finito e che solo un idiota continuerebbe a giocare, ho vinto". "I terroristi della Jihad islamica a Gaza sono stati sottoposti a interrogazione. Uno di loro ha insistito sul fatto di non essere collegato ad alcuna attività militare. A un certo punto gli ho detto: "Se ti dico il nome del tuo comandante diretto, dirai che la partita è finita?". Mi ha guardato e ha detto: "Sì". Gli ho detto il nome del suo comandante diretto, Abdullah. Mi chiese: "Qual è il suo [di Abdullah] cognome?". Gli ho detto il cognome del comandante. Dopo di che, era pronto a "parlare" perché aveva capito che uno degli altri prigionieri era crollato e ci aveva raccontato tutto". Gli inquisitori delle Forze di Difesa israeliane iniziano a interrogare i terroristi islamici il prima possibile dopo la cattura, con il chiaro scopo di salvare la vita dei soldati che stanno per entrare in quartieri di Gaza minati o con trappole esplosive. A volte le informazioni appena ottenute da un terrorista catturato sono state immediatamente trasmesse alle truppe da combattimento, salvando vite umane e aiutandole a evitare l'ingresso in aree minate o con tunnel nascosti. Gli esperti della 504 raccontano il fenomeno surreale di interrogare un prigioniero che solo poco tempo prima ha commesso i peggiori e immaginabili omicidi e stupri. Eppure, devono passare dubito alla prioritaria necessità di capire quali altre informazioni questo mostruoso individuo possa avere che domani potrebbero ancora diminuire il pericolo per un soldato delle Forze di Difesa israeliane. Gli esperti della 504 riferiscono che i terroristi ammettono apertamente tutti i crimini commessi, spesso con orgoglio e mai con vero rimorso. Il massimo che esprimono è che sono dispiaciuti che le loro azioni abbiano portato distruzione al loro stesso popolo e imprigionamento a loro stessi. Tuttavia, nessuno di loro si pente delle azioni commesse dicendo che sono moralmente sbagliate. Alla domanda su come mantenere la distanza emotiva durante un interrogatorio, un inquisitore ha risposto: "Non hai scelta. Se qualcuno si siede con te durante un interrogatorio e dice: 'Ho messo tre ebrei contro il muro e gli ho sparato al cuore uno dopo l'altro', e subito, senza fermarsi, ti chiede: 'Posso avere un bicchiere d'acqua?", allora puoi rispondergli, se serve all'interrogatorio: "Come preferisci l'acqua, fredda o a temperatura ambiente?". Il mio obiettivo è ottenere le informazioni che conosce alla fine della giornata. Se mi lascio trasportare dalle emozioni, non posso raggiungere il mio obiettivo". Anche durante i mesi necessari per interrogare i terroristi originali del 7 ottobre, nuovi terroristi sono stati catturati e/o si sono arresi.Spesso il tempo è fondamentale quando gli inquisitori cercano la "chiave" per aprire la bocca del prigioniero e ottenere informazioni. Diventa una gara di abilità contro abilità. Gli inquisitori devono essere in grado di distaccarsi dalle emozioni che provano quando sentono un terrorista raccontare con orgoglio le sue imprese omicide. L'investigatore deve pensare con freddezza e creare una sorta di "piattaforma" psicologica sulla quale il terrorista rivela le informazioni che conosce al suo nemico israeliano. Il ruolo dei soldati combattenti come eroi negli scontri a fuoco diretti era già noto. Ora le Forze di Difesa israeliane hanno dato uno sguardo a un altro tipo di eroe e a un altro aspetto di questa lunga guerra. Gli uomini dell'Unità 504 stanno servendo Israele perché sono disposti a impegnarsi in una conversazione lunga e prolungata e in una lotta psicologica con un nemico vile. La loro disponibilità a esporsi alla cattiveria, settimana dopo settimana, come parte della guerra di intelligence, salva delle vite di soldati israeliani. Alla domanda sulla differenza tra i terroristi di Hamas e i civili di Gaza, un inquisitore ha risposto che la resistenza violenta a Israele è una parte così radicata della vita a Gaza che si trova in quasi tutte le famiglie, i quartieri e i principali gruppi tribali. "La si vede [a Gaza] da nord a sud. Tutti sono coinvolti, non se ne vergognano e fa parte della loro vita. Se non è lui, è suo fratello, e se non è suo fratello, è il cugino". Ai bambini di Gaza viene chiesto di tenere il coltello e macellare la capra durante la festa musulmana del sacrificio. Nella cultura gazana, la morte e l'odio sono trattati in modo molto diverso dalla cultura israeliana. Un inquisitore ha detto: "Credo che il nostro modo di pensare e il nostro desiderio di vita sia diverso dal loro. Sono cresciuti in modo diverso e allevano i loro figli in modo diverso. L'omicidio non è estraneo a loro, fa parte della loro vita. All'inizio siamo rimasti molto sorpresi dal numero di persone apparentemente "non coinvolte" che sono entrate in territorio israeliano il 7 ottobre. È comprensibile che un terrorista di Hamas, addestrato per anni, invada un Paese nemico. Ma ci sono stati anche civili che sono entrati in gran numero e hanno preso parte ad atti di omicidio e saccheggio. Questo fa pensare a qualcos'altro". Altri inquisitori hanno espresso un parere leggermente diverso, sottolineando che alcuni civili di Gaza temono Hamas più delle forze israeliane. Ci si potrebbe chiedere, tuttavia, dove siano tutti i civili innocenti di Gaza che ci si potrebbe aspettare che cambino schieramento se odiano così tanto Hamas. Alcuni degli inquisitori conoscono molto bene il Corano e usano questa conoscenza per creare un'intesa con i terroristi che conoscono bene il libro sacro musulmano. Onore all'Unità 504! un altro gruppo di coraggiosi soldati delle Forze di Difesa israeliane.
(Israel Heute, 17 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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In Canada, l’antisemitismo ha raggiunto livelli record
Gli ebrei sono le vittime principali dei crimini d’odio nel paese nord-americano. Un esempio? Gli spari contro la vetrina del ristorante Falafel Yoni a Montréal, dopo che i filopalestinesi avevano chiesto di boicottarlo. Intervista a Ron East, direttore di TheJ.Ca.
di Nathan Greppi
All’inizio di dicembre, durante una conferenza stampa organizzata a Toronto dalla Jewish Medical Association of Ontario (JMAO), il dottor Sam Silver ha raccontato: “Lavoro con studenti di medicina brillanti, compassionevoli e che si impegnano per diventare il futuro del settore sanitario in Canada. Eppure, stanno navigando in un ambiente ostile in cui la loro identità ebraica li rende vittime di odio ed esclusione. Non si può andare avanti così”.
Questa testimonianza è giunta dopo che un sondaggio commissionato dalla JMAO ha rivelato che in seguito ai massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre 2023, l’80 per cento degli ebrei canadesi che lavorano in ambito medico ha dovuto affrontare l’antisemitismo sul luogo di lavoro. Prima del 7 ottobre, la percentuale di medici ebrei che aveva avuto esperienze di antisemitismo sul lavoro era solo dell’1 per cento.
• LE STATISTICHE Più in generale, il Canada ha visto crescere considerevolmente l’antisemitismo dall’inizio della guerra in corso: secondo l’ultimo rapporto annuale, uscito nel maggio 2024, dell’organizzazione ebraica B’nai Brith Canada, in tutto il 2023 si sono registrati 5.791 episodi di antisemitismo nel paese nordamericano, che ospita la quarta più grande comunità ebraica al mondo (398.000 persone nel 2023, dietro solo a Israele, Stati Uniti e Francia). Questi episodi erano più del doppio rispetto ai 2.769 del 2022 e ai 2.799 del 2021. In termini percentuali, l’aumento degli episodi di antisemitismo risultava essere all’incirca del 109 per cento.
In tale occasione, il principale quotidiano canadese, The Globe and Mail, ha pubblicato un editoriale in cui ha denunciato ciò che stava accadendo dopo il 7 ottobre. Tra i crimini d’odio elencati nell’articolo, figuravano un attacco a un ristorante ebraico di Toronto, colpi di arma da fuoco sparati contro una scuola ebraica di Montréal, un atto di vandalismo contro una libreria Indigo, perché il fondatore della catena è ebreo, e la vandalizzazione di abitazioni private con immagini e scritte antisemite.
Pur rappresentando appena l’1 per cento di tutta la popolazione canadese, gli ebrei subiscono molte più manifestazioni di ostilità rispetto ad altri gruppi: a Toronto, secondo i dati resi pubblici dalla polizia locale, dopo il 7 ottobre gli ebrei sono stati vittime del 57 per cento dei crimini d’odio. E nel corso di tutto il 2023, gli ebrei hanno subito il 78 per cento di tutti i crimini d’odio su base religiosa avvenuti nella stessa città.
Le cose non vanno meglio nella regione francofona del Québec: secondo il settimanale francese Le Point, nelle settimane immediatamente successive ai massacri perpetrati da Hamas, 132 crimini d’odio hanno avuto come bersaglio la comunità ebraica di Montréal. Per fare degli esempi, ci sono stati degli spari contro la vetrina di un ristorante di cucina israeliana, il Falafel Yoni. Il ristorante era in un elenco di attività commerciali da boicottare pubblicato dai filopalestinesi.
• UN PAESE CAMBIATO «Prima del 7 ottobre, il Canada era un posto dove ebrei, israeliani e sionisti potevano camminare tranquillamente per strada, nei campus e in altri spazi pubblici senza temerne le ripercussioni -, racconta a Bet Magazine Mosaico il giornalista israelo-canadese Ron East, direttore del giornale TheJ.Ca. – Certo, c’erano già delle manifestazioni, ad esempio durante l’Al Quds Day, ma niente che potesse seriamente minacciare la sicurezza della comunità ebraica. Quando è avvenuto il 7 ottobre, sembrava che qualcuno avesse aperto i cancelli e fatto uscire allo scoperto tutti gli antisemiti. Da quel momento, un paese che fino ad allora era stato assai pacifico, dove gli ebrei sentivano di poter crescere i loro figli, è diventato un luogo dove temi per la tua sicurezza quasi ogni giorno».
A dispetto di questi fatti, non sono mancati casi di ebrei di estrema sinistra filopalestinesi che si sono prestati a fare da “foglia di fico” agli odiatori: a dicembre, un gruppo di manifestanti è entrato nella sede del Parlamento canadese ad Ottawa per chiedere un embargo sulla vendita di armi ed equipaggiamenti militari a Israele. Tra le sigle che hanno preso parte alla manifestazione, figurava l’organizzazione antisraeliana Independent Jewish Voices Canada. Se gli attivisti propal possono arrivare ad entrare in Parlamento, per quelli filoisraeliani spesso le cose possono mettersi male quando si espongono pubblicamente: East racconta che «CJPME (Canadians for Justice and Peace in the Middle East), una lobby filopalestinese molto influente, ha contattato tutti i nostri sponsor e coloro con i quali TheJ.Ca ha accordi pubblicitari, e ha fatto molta pressione su di loro affinché interrompessero le loro pubblicità sul mio giornale. Hanno anche contattato i media che mi intervistavano per cercare di convincerli a smettere di offrirmi uno spazio».
In taluni casi, dietro le manifestazioni si nascondono finanziamenti di dubbia provenienza: nel gennaio 2024, in seguito a una manifestazione filopalestinese nella città di Victoria, è emerso che una delle ONG che la organizzavano, Plenty Collective, pagava le persone per andare a manifestare, senza tuttavia specificare nel dettaglio da dove arrivassero quei soldi.
Mondo accademico
Come nel resto dell’Occidente, questa ondata non ha risparmiato le università, che al contrario si sono rivelate tra i principali incubatori dell’odio: per fare un esempio, a settembre gruppi pro-Palestina hanno fissato delle teste di maiale sui cancelli dell’Università della Columbia Britannica, assieme a uno striscione che recitava “maiali fuori dal campus”, in riferimento ad ebrei e filoisraeliani. E all’inizio di quest’anno, gli stessi collettivi proPal hanno condotto una campagna per espellere dal campus l’organizzazione ebraica Hillel.
Episodi analoghi si sono verificati anche in altri atenei: a marzo, gli studenti ebrei che frequentavano la Concordia University di Montréal hanno raccontato alla rivista ebraica americana Algemeiner di essere stati costretti a cavarsela da soli quando i loro compagni di classe antisionisti li hanno aggrediti e molestati. Su tutti, spicca un episodio avvenuto il 12 marzo, quando degli studenti ebrei si sono ritrovati intrappolati nella sede Hillel dell’ateneo, mentre membri del gruppo Supporting Palestinian Human Rights (SPHR) sbattevano contro le finestre e le porte. Quando gli agenti di sicurezza del campus sono arrivati sulla scena, si sono rifiutati di punire i delinquenti e hanno accusato gli studenti ebrei di aver istigato l’incidente, solo perché avevano filmato ciò che era accaduto.
Sempre a Montréal, a inizio dicembre il governo del Québec ha annunciato di aver avviato una indagine su due college dove sono stati denunciati degli episodi di molestie e di istigazione all’odio nei confronti degli studenti ebrei all’interno dei campus. Mentre all’Università del Manitoba, a Winnipeg, a maggio un laureando in medicina ha tenuto un discorso in cui accusava Israele di prendere di mira deliberatamente medici e ospedali a Gaza.
La situazione che si è venuta a creare è stata denunciata dal medico Lior Bibas, co-fondatore dell’Association des médecins juifs du Québec (AMJQ), che a novembre ha twittato: “Sono un ebreo del Québec e canadese di prima generazione, e guardo la mia città natale, Montréal, precipitare nel caos, con la legge e l’ordine apparentemente abbandonati per placare gli odiosi codardi mascherati”.
(Bet Magazine Mosaico, 17 dicembre 2024)
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Gaza, anche Israele conferma che l’accordo sulla tregua è più vicino
Katz: “Sarà temporaneo, sanno che la guerra non è finita”
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Parlando al Comitato per gli Affari Esteri e la Difesa, il ministro Israel Katz ha confermato che l'intesa è sempre più vicina
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Per la prima volta dall’inizio del conflitto a Gaza, tutte le parti sembrano guardare nella stessa direzione, quella di un cessate il fuoco di medio-lungo termine. Il primo passo pubblico è stato compiuto dagli Stati Uniti, con la scarcerazione anticipata di Mofid Abdul Qadir Meshaal, fratellastro del più noto ex leader politico di Hamas, Khaled Meshaal. Il giorno dopo era stata Hamas, tramite un suo funzionario, ad aprire a una tregua “entro il 2024”, sollevando però dubbi sulla disponibilità di Israele. E lunedì è arrivata anche la risposta di Tel Aviv per bocca di una delle figure più radicali del governo Netanyahu, il ministro della Difesa Israel Katz. A porte chiuse, ad alcuni deputati della Knesset l’esponente dell’esecutivo ha assicurato che il governo è più vicino che mai a un accordo per la liberazione degli ostaggi a Gaza. Quali siano, nello specifico, i termini dell’intesa che appare sempre più imminente non è ancora chiaro. Di sicuro questa prevederà un cessate il fuoco a medio-lungo termine, la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e la contestuale scarcerazione di centinaia di prigionieri palestinesi dai penitenziari israeliani. “Siamo più vicini che mai a raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri”, sempre che il primo ministro israeliano “Netanyahu non ostacoli l’accordo”, ha ribadito un leader di Hamas in anonimato al giornale saudita Asharq News. La fonte ha spiegato che il partito armato palestinese ha presentato una proposta di accordo mostrando una “grande flessibilità” per arrivare a una “fine graduale della guerra e a un ritiro graduale delle forze israeliane in base a una tempistica condivisa e alle garanzie dei mediatori internazionali”. Da Tel Aviv è arrivata poi la conferma, con le dichiarazioni di Katz, che le contrattazioni hanno imboccato la strada giusta. I commenti del ministro al Comitato per gli Affari Esteri e la Difesa della Knesset sono stati fatti a porte chiuse, ma le sue osservazioni sono state riprese dalla stampa ebraica. “Israele è più vicina che mai a un altro accordo sugli ostaggi”, ha dichiarato sottolineando che meno se ne parla e meglio è. Il ministro prevede che l’intesa sarà sostenuta dalla maggior parte della coalizione e non dovrebbe incontrare ostacoli interni. Katz sembra inoltre indicare che questo non includerà una sospensione a tempo indeterminato delle ostilità, come richiesto da Hamas: “C’è flessibilità dall’altra parte. Hanno capito che non metteremo fine alla guerra”.
(il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2024)
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Perché Israele vuole chiudere la sua ambasciata in Irlanda
Il governo irlandese è uno dei più filopalestinesi in Europa, a quello di Netanyahu questa cosa piace molto poco
Domenica il governo israeliano di destra guidato da Benjamin Netanyahu ha annunciato che intende chiudere l’ambasciata israeliana in Irlanda, a Dublino, per via di alcune posizioni che giudica “anti-israeliane” del governo irlandese, guidato da una coalizione che va dal centrodestra ai Verdi. È una decisione che non ha precedenti nella storia contemporanea: finora Israele non aveva mai chiuso una propria ambasciata in un paese europeo. In un certo senso però era nell’aria. L’Irlanda è uno dei paesi più filo-palestinesi nell’Unione Europea, e i suoi governi – a prescindere dalla composizione – criticano da tempo le azioni del governo di Netanyahu, come l’espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania e più di recente l’invasione della Striscia di Gaza. La decisione di Israele peraltro è arrivata cinque giorni dopo che l’Irlanda aveva annunciato di volersi unire alla causa per genocidio avanzata dal Sudafrica contro Israele alla Corte internazionale di giustizia. Per contro, il governo israeliano sta adottando una politica estera sempre più aggressiva nei confronti dei paesi che percepisce come alleati poco affidabili. Netanyahu critica sempre più duramente i leader stranieri che avanzano dubbi sulla condotta israeliana nell’invasione della Striscia di Gaza e del Libano. Finora però alle sue dichiarazioni non erano seguite implicazioni particolarmente concrete. I rapporti fra Irlanda e Israele sono sempre stati piuttosto difficili. In Irlanda esiste una simpatia trasversale per la causa palestinese, considerata una campagna anti-coloniale simile a quella che gli irlandesi condussero per secoli contro l’Impero britannico. Nel 1980 l’Irlanda diventò il primo stato dell’allora Comunità Economica Europea (l’antenato dell’Unione Europea) a chiedere la nascita di uno stato indipendente palestinese. Negli anni più recenti la comunità di residenti di religione musulmana si è molto allargata, quasi raddoppiando dal 2011 a oggi. In un sondaggio realizzato a febbraio è emerso che il 79 per cento degli irlandesi ritiene che Israele stia compiendo un genocidio nella Striscia di Gaza (in Italia, che pure ha percentuali superiori a vari paesi dell’Europa occidentale, lo crede il 49 per cento, secondo un sondaggio di aprile). Dall’inizio dell’invasione della Striscia di Gaza peraltro il governo irlandese aveva intensificato le sue critiche, ma aveva anche preso alcuni provvedimenti ufficiali. A maggio aveva formalmente riconosciuto lo Stato di Palestina insieme a Norvegia e Spagna: in quel caso il governo di Netanyahu aveva richiamato brevemente l’ambasciatore israeliano in Irlanda. A ottobre aveva annunciato una norma per impedire l’importazione in Irlanda di merce prodotta nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Pochi giorni fa, come detto, è arrivata la notizia che l’Irlanda si sarebbe unita alla causa per genocidio alla Corte internazionale di giustizia. Più nello specifico l’Irlanda chiederà alla Corte di ampliare la sua interpretazione di ciò che rientra nella definizione di genocidio, su cui ormai da anni sono in corso dibattiti e discussioni accademiche che hanno ripreso forza dopo l’invasione della Striscia di Gaza. Un funzionario israeliano ha detto all’Irish Times che al momento il governo non prevede di chiudere ulteriori ambasciate in altri paesi europei. Non è chiaro se le cose cambieranno in futuro, anche perché il ministro degli Esteri israeliano è cambiato da poco. A inizio novembre, nell’ambito di un rimpasto interno al governo, il politico conservatore Gideon Sa’ar aveva lasciato il proprio incarico di ministro dell’Interno ed era diventato ministro degli Esteri sostituendo Israel Katz, uno degli storici leader del partito di Netanyahu.
(il Post, 16 dicembre 2024)
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Israele: pilota ‘disegna’ in cielo un nastro per la liberazione degli ostaggi
di Luca Spizzichino
Questa mattina, nei cieli di Israele, il simbolo della lotta per la liberazione degli ostaggi israeliani ha catturato l’attenzione e l’emozione di tutto il Paese. Un pilota, o forse più di uno, ha “disegnato” delle strisce che richiamano i nastri simbolici, visibili dal nord al sud dello Stato ebraico.
Resta ancora incerto se si tratti di semplici scie di condensazione o di un sistema di fumogeni appositamente installato a bordo dell’aereo. Anche l’identità del pilota rimane sconosciuta, alimentando il mistero intorno a questo gesto. Tuttavia, il messaggio trasmesso è stato potente e capace di unire gli israeliani sotto un cielo che per qualche ora si è fatto voce delle loro speranze.
Le immagini delle strisce luminose nel cielo hanno rapidamente invaso i social media, accompagnate da commenti carichi di emozione. Tra le fotografie più toccanti, spicca quella scattata al confine con Gaza, che ritrae il simbolo stagliarsi nel cielo sopra il memoriale dedicato alle osservatrici uccise il 7 ottobre.
In molti hanno interpretato il gesto come un segno di speranza. “Anche il cielo vuole che gli ostaggi tornino a casa”, ha scritto un utente. “Che sia un segno che siamo vicini a una soluzione”, ha commentato un altro, riferendosi alle delicate trattative per il rilascio degli ostaggi, ancora avvolte dal massimo riserbo.
Un gesto semplice, ma carico di significato, che ha unito per un attimo tutto il Paese sotto uno stesso cielo.
(Shalom, 16 dicembre 2024)
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Perché il successo dell'Università israeliana Technion ha radici tedesche
Il Technion di Haifa ha iniziato ad insegnare un secolo fa. La storia dell'università è molto tedesca all'inizio e allo stesso tempo ha un nucleo sionista. I suoi successi sono impressionanti.
di Sandro Serafin
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L'edificio del primo centro tecnico in Israele è stato progettato da un architetto prussiano
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Quest'anno l'università tecnica israeliana può vantare cento anni di insegnamento: Il Technion di Haifa ha iniziato la sua attività alla fine del 1924. Da allora, ha prodotto innumerevoli scienziati che hanno contribuito a plasmare l'economia e le innovazioni israeliane, alcuni dei quali hanno vinto il Premio Nobel. Le prime idee per un istituto di questo tipo sono emerse all'inizio del XX secolo. Nel 1902, Martin Buber, Chaim Weizmann e Berthold Feiwel pubblicarono un memorandum intitolato “Un'università ebraica”. La loro analisi: in molti Paesi gli ebrei erano discriminati ed esclusi dall'istruzione superiore, con conseguenze intellettuali, economiche e sociali nefaste che “non possono essere descritte o anche solo immaginate per il futuro”. La soluzione è stata individuata nella fondazione di una “università ebraica”. Il modo migliore per farlo è in Palestina, poiché non c'è dubbio che l'esistenza di un'università palestinese “aumenterebbe e consoliderebbe notevolmente la fiducia nella possibilità di creare una patria”. I tre visionari presentarono la loro idea al Congresso sionista. • SIONISTI E NON SIONISTI
Tuttavia, inizialmente non furono i sionisti a portare avanti in pratica il progetto con il sostegno finanziario di ebrei facoltosi, ma fu soprattutto l'“Hilfsverein der Deutschen Juden”, che si distanziava dal sionismo. Si occupava dello “sviluppo dei compagni di fede”, soprattutto nell'Europa orientale e in Palestina. Gestiva diverse scuole in quello che all'epoca era ancora territorio ottomano. Anche Paul Nathan, uno dei fondatori, accolse l'idea di un'università tecnica. Egli vedeva un grande potenziale di sviluppo soprattutto in Oriente: questa regione poteva ancora essere “conquistata dalla tecnologia moderna quasi all'infinito”. Secondo l'Hilfsverein, ciò non avrebbe giovato solo agli ebrei stessi, ma anche alla “patria ottomana”. L'enfasi sulla “patria ottomana” non era una prospettiva molto sionista. La sede migliore per il Technikum - questo era inizialmente il nome tedesco del Technion - era stata individuata da Paul Nathan in Haifa. Questa città mediterranea nel nord della Palestina era da preferire perché Haifa “ha un grande futuro grazie alla sua posizione sul mare e al suo collegamento ferroviario con Damasco”. • UN PRUSSIANO PROGETTÒ L'EDIFICIO
Alcuni abitanti di Gerusalemme si opposero senza successo a questa scelta: Nel 1908, la società acquistò un terreno sul versante inferiore del monte Carmelo. La prima pietra dell'edificio centrale fu posata nel 1912. L'architetto incaricato fu l'ebreo prussiano Alexander Baerwald, che aveva progettato anche la ristrutturazione della Staatsbibliothek Unter den Linden. L’influenza tedesca nei primi anni del Technikum è stata immensa, come ha dimostrato in particolare Se'ev Sadmon in uno studio esaustivo. Secondo questo studio, le attrezzature per le officine e i laboratori furono inizialmente ordinate esclusivamente ad aziende tedesche. Dal 1909 due professori della Königliche Technische Hochschule di Berlino-Charlottenburg erano a capo di un comitato scientifico consultivo. Quando fu aperto il centro tecnico, quattro dei sette docenti delle materie principali provenivano dalla Germania. A volte il progetto ha attirato l'attenzione del governo tedesco. James Simon, presidente dell'organizzazione di aiuti con buoni contatti nella politica tedesca, una volta spiegò che lui stesso aveva promesso volentieri al Kaiser di “trasformare il centro tecnico in un'istituzione tedesca”. • BEN-JEHUDA MINACCIAVA SPARGIMENTI DI SANGUE
Negli anni Dieci, il progetto si arenò a causa di due eventi imprevisti. Il primo aveva uno sfondo interno ebraico interno: nel 1913, le tensioni latenti tra sionisti e non sionisti sul Technikum scoppiarono apertamente. Il motivo fu una decisione del Consiglio di amministrazione, secondo la quale nessuna lingua ufficiale di insegnamento era considerata obbligatoria. Per quanto riguarda l'ebraico moderno, una delle forme più alte di espressione del sionismo, si affermava soltanto che avrebbe dovuto ricevere “la cura più accurata”. Paul Nathan dell'Hilfsverein spiegò la scelta con considerazioni pratiche: Mancavano libri di testo, insegnanti e parole in ebraico. La decisione suscitò indignazione non solo tra i sionisti in Palestina, ma in tutto il mondo: ed è passata alla storia come la “guerra delle lingue”. In Palestina furono organizzate manifestazioni di protesta e scioperi in molti luoghi. Elieser Ben-Jehuda, ideatore della nuova lingua ebraica, minacciò in una lettera a Nathan dicendo che l'apertura “non avrebbe avuto luogo senza lo spargimento di sangue ebraico”. Si sentivano “violati e derubati dell'unico santuario che speravano presto di possedere”. • “L’EBRAICIZZAZIONE DEL TECHNIKUM
Per i sionisti si trattava anche della loro emancipazione dalla diaspora: “Vogliamo tollerare che gli assimilazionisti dell'Europa occidentale agitino una scure sulle nostre tenere piantagioni?”, si indignava il giornale di Gerusalemme “HaCherut”. Il Consiglio di amministrazione fu infine costretto a rivedere la sua decisione e ad assegnare all'ebraico un ruolo maggiore. Il giornale sionista “Die Welt ‘ definì questa decisione ’l'ebraicizzazione del Technikum”. Oltre alla “guerra delle lingue”, anche lo scoppio della Prima Guerra Mondiale causò dei ritardi. A volte, il centro tecnico servì come campo per i militari tedeschi, turchi e poi britannici. In questo periodo si è perso l'inventario. Infine, si sviluppò un lungo tira e molla che si concluse con l'acquisto dell'istituzione da parte dell'Organizzazione Sionista Mondiale nel 1920. Nell'inverno del 1924/25 iniziò finalmente l'attività didattica. Un anno prima, Max Hecker, il primo presidente dell'università, aveva riassunto il nucleo del progetto da una prospettiva sionista: il Technikum porta con sé “una sana forza di contrasto contro il pericolo dell'intellettualismo unilaterale”e “svolge un ruolo essenziale nella creazione della nuova generazione ebraica verso la quale sono rivolte le nostre speranze”. In altre parole: d’ora in poi, il “nuovo ebreo” deve essere costruito qui, diverso dal vecchio “ebreo della diaspora”. • 15 NUOVE AZIENDE OGNI ANNO
Qualche anno dopo, i primi 17 studenti si laurearono in ingegneria e architettura. Uno di loro era una donna. Da allora, il Technion è cresciuto enormemente. Con il cambiare dei tempi, è cambiata anche l'università: sono state istituite, tra l'altro, le facoltà di ingegneria aerospaziale e di ingegneria elettrica. Negli anni '30 e '40, il Technion ha beneficiato dell'ammissione di molti ebrei europei che si sono rifugiati in Palestina per sfuggire al regime nazista. Nel corso degli anni, l'università si è anche trasferita in una nuova sede su un versante del Carmelo. Secondo l'università, “Technion City” copre ora un'area di 1,2 chilometri quadrati. All'inizio di quest'anno, studiavano qui circa 15.000 studenti in 18 facoltà (da biologia e chimica a scienze informatiche, architettura e ingegneria). L'università conta oggi un totale di circa 100.000 ex-alunni. “Ogni anno vengono fondate al Technion 15 nuove aziende ”, ha spiegato il presidente dell'università Uri Sivan al quotidiano ‘Israel Hajom’ a febbraio: ‘La maggior parte delle infrastrutture civili di oggi in tutto Israele - strade, ferrovie, acqua, desalinizzazione, agricoltura - è opera di laureati e membri del Technion’, ha aggiunto. Un esempio concreto: circa l'80% degli ingegneri che lavorano al sistema di difesa missilistica Iron Dome, oggi famoso a livello internazionale, sono laureati del Technion.
(Israelnetz, 16 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’antisemitismo online è dilagante: come combatterlo
di Nathan Greppi
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Una conferenza del Foa
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Già prima dei fatti del 7 ottobre, internet e i social erano diventati negli ultimi decenni i principali veicoli dell’antisemitismo. Ma dopo quel giorno, i livelli di odio e aggressività nei confronti degli ebrei e Israele hanno raggiunto dei livelli record, destando non poche preoccupazioni tra gli addetti ai lavori.
Per capire come si sta evolvendo la situazione e come può essere affrontata, abbiamo parlato con Dina Maharshak, direttrice del Content Team del FOA (Fighting Online Antisemitism), tra le principali organizzazioni specializzate nel contrasto dei crimini d’odio antiebraici che si verificano nel mondo digitale.
- Su quali piattaforme social sono più diffusi i contenuti antisemiti e antisraeliani? Sono diffusi soprattutto sulle principali piattaforme come X (ex-Twitter), Facebook, Instagram, TikTok e YouTube, così come su spazi meno regolamentati come Telegram, VKontakte e Gab. Il FOA ha identificato X come l’hotspot principale per i contenuti antisemiti nel 2023, rappresentando il 40% di tutti i contenuti segnalati, seguito da Facebook (8,5%), Instagram (6,5%), TikTok (2%) e YouTube (2,5%). Queste piattaforme sono diventate dei focolai per la diffusione di narrazioni nocive, soprattutto dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha triplicato l’antisemitismo online rispetto al 2022.
- Quali sono stati i cambiamenti più significativi avvenuti dopo il 7 ottobre e durante la guerra in corso? Dopo il 7 ottobre, il brutale attacco di Hamas e la successiva guerra, c’è stata un ’impennata di incidenti antisemiti a livello globale, con le comunità ebraiche della diaspora che hanno ricevuto sempre più minacce. Questa crisi ha rimarcato l ‘unità globale tra il popolo ebraico dentro e fuori da Israele, e l’impatto significativo che gli eventi in Israele esercitano sugli ebrei di tutto il mondo.
Anche l’antisemitismo online si è intensificato. Le piattaforme dei social media si sono inondate di disinformazione, teorie del complotto e discorsi di odio contro il popolo ebraico e Israele, tra cui la negazione della Shoah e la glorificazione della violenza contro gli ebrei.
- Può farci qualche esempio? Tra i principali cambiamenti, spiccano: l ’amplificazione di hashtag e slogan antisemiti, come #FromTheRiverToTheSea, che molti ritengono essere un appello allo sradicamento di Israele; l’aumento delle molestie nei confronti degli utenti e delle comunità ebraiche su piattaforme come X, Instagram e TikTok, con episodi di trolling e minacce di morte coordinate; la glorificazione del terrorismo di Hamas da parte di alcuni utenti e influencer, assieme alla giustificazioni della violenza contro i civili; teorie del complotto antisemite, che ad esempio incolpano gli ebrei per la guerra; shadowbanning degli account pro-Israele, in cui gli utenti hanno segnalato che i loro post a sostegno di Israele o che condannavano l’antisemitismo venivano soppressi, mentre i contenuti antisemiti rimanevano visibili.
Il monitoraggio da parte del FOA ha dimostrato come le lacune nella moderazione dei contenuti abbiano permesso a narrazioni dannose di prosperare incontrollate. Ad esempio, alcuni contenuti antisemiti sono stati mascherati da retorica “antisionista”, rendendone più difficile l’identificazione e la rimozione da parte degli algoritmi. Ciò è stato successivamente esaminato da Meta, che ha classificato alcuni casi dell’uso della parola “sionista” o delle sue abbreviazioni come incitamento all’odio.
- Che tipo di strategie mette in atto il FOA per combattere l’antisemitismo online? Il FOA impiega una strategia su più fronti per combattere l’antisemitismo online, combinando innovazione tecnologica, iniziative didattiche, il coinvolgimento della comunità e progetti di advocacy su scala globale. Questo approccio garantisce non solo l’individuazione e la rimozione di contenuti pericolosi, ma anche la responsabilizzazione degli individui e delle istituzioni per combattere attivamente l’odio online.
Monitoriamo rigorosamente l’antisemitismo online utilizzando metodologie allineate con la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). Il FOA aggrega i dati in report mensili e annuali suddivisi per piattaforma, tipo di contenuto e regione. Inoltre, è stato sviluppato un algoritmo basato sull’intelligenza artificiale per migliorare il rilevamento di contenuti antisemiti, che in questo modo vengono identificati e classificati automaticamente in base a parole chiave, immagini e modelli mirati.
Lo status del FOA come “Trusted Flagger” sulle principali piattaforme come Facebook, X, TikTok e YouTube garantisce che i contenuti da esso segnalati abbiano la priorità per la revisione e la rimozione. Questo status, assieme alle partnership di FOA con giganti della tecnologia come Google e la sua appartenenza all’International Network Against Cyber Hate (INACH), nel 2023 ha portato ad un tasso medio di rimozione dei contenuti d’odio del 41% sui principali social.
- Svolgete anche attività educative rivolte ai giovani, per contrastare l’odio in rete? Il FOA riconosce che la lotta all’antisemitismo richiede non solo la rimozione di contenuti nocivi, ma anche l’educazione per cambiare gli atteggiamenti degli utenti. L’organizzazione offre, tra le altre cose, workshop e sessioni di formazione per attivisti, educatori e comunità ebraiche di tutto il mondo per aiutarli a identificare, segnalare e contrastare efficacemente i contenuti antisemiti.
A ciò si aggiungono le partnership con università, scuole superiori e organizzazioni comunitarie per fornire ai giovani gli strumenti per riconoscere e opporsi all’antisemitismo. In Israele, il programma del FOA, accreditato dal Ministero dell’Istruzione, educa studenti di diverse origini religiose ed etniche su argomenti come la negazione della Shoah, l’antisemitismo sui social media e il razzismo. Inoltre, organizziamo iniziative su scala globale per coinvolgere i giovani, tra cui corsi online e opportunità di volontariato. I nostri volontari sono in grado di lavorare in otto lingue, e grazie a queste conoscenze monitorano gli spazi online alla ricerca di contenuti antisemiti, ne chiedono la rimozione e partecipano ad attività educative e di advocacy.
- Presentate mai i risultati del vostro lavoro alle istituzioni internazionali (ONU, UE, ecc.)? Oltre a collaborare con il governo israeliano, il FOA presenta i risultati del suo lavoro a istituzioni internazionali come l’INACH, l’IHRA, la Commissione europea e diverse ONG.
- Cosa possono fare le comunità ebraiche per combattere l’odio online? Le comunità ebraiche possono adottare diverse misure proattive per combattere l’antisemitismo online. Innanzitutto, occorre imparare a identificare l’antisemitismo, anche quando è mascherato da antisionismo, per poi condividere le conoscenze e fare rete per creare consapevolezza su come l’incitamento all’odio si diffonde online e sul suo impatto.
Poi, occorre imparare ad utilizzare gli strumenti di segnalazione sulle piattaforme social per segnalare i contenuti antisemiti. Inoltre, bisogna saper costruire una resilienza digitale: rafforzare le misure di sicurezza online, proteggere gli account sui social media ed evitare la condivisione eccessiva di informazioni personali per prevenire il doxing, che consiste nell’esporre pubblicamente online le informazioni di qualcuno rendendolo un bersaglio.
(Bet Magazine Mosaico, 16 dicembre 2024)
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La manipolazione dei dati sui decessi civili a Gaza
Uno studio britannico smaschera la propaganda
di Luca Spizzichino
Un nuovo studio, pubblicato dalla Henry Jackson Society, con sede nel Regno Unito, accusa il Ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas, di manipolare i dati sui decessi per rafforzare la narrativa secondo cui Israele prenderebbe di mira deliberatamente i civili durante il conflitto. Lo studio, intitolato “Questionable Counting: Analysing the Death Toll from the Hamas-Run Ministry of Health in Gaza“, denuncia come i numeri forniti siano stati sistematicamente alterati per rafforzare l’idea della crudeltà israeliana e degli attacchi svolti in modo indiscriminato.
Il rapporto offre una serie di evidenze che mettono in discussione la narrativa prevalente. Tra le pratiche più discutibili, spiccano la registrazione di uomini come donne per gonfiare il numero di vittime femminili, la classificazione di adulti come bambini, e persino l’inclusione di morti naturali – come pazienti oncologici o decessi preesistenti al conflitto – nel conteggio delle vittime della guerra.
L’analisi dei dati mostra infatti una sproporzione nei decessi dichiarati di donne e bambini rispetto agli uomini in età da combattimento. Per esempio, il 62% delle vittime riportate dalle famiglie erano uomini, contro il 42% registrato nei dati ospedalieri. Questo suggerisce che molti combattenti possano essere stati classificati come civili. Inoltre, il rapporto sottolinea casi in cui la percentuale di donne e bambini morti superava il numero complessivo di vittime riportate nello stesso periodo. Ad esempio, il 5 dicembre 2023 il Ministero della Salute di Gaza ha dichiarato un aumento di 1.041 decessi, ma i nuovi casi di donne e bambini ammontavano a 1.353.
Secondo lo studio, l’obiettivo di queste manipolazioni è chiaro: rafforzare l’immagine di un conflitto in cui la popolazione civile, in particolare donne e bambini, sopporta il peso maggiore della violenza. È una strategia che sfrutta l’emotività di certi numeri per orientare l’opinione pubblica internazionale e alimentare una narrativa di condanna verso Israele. Tuttavia, un’analisi più approfondita dei dati mostra una realtà diversa. Ad esempio, la maggior parte delle vittime registrate sono uomini in età da combattimento – un dato che suggerisce che molte di queste persone potrebbero essere combattenti di Hamas, non semplici civili. Israele, infatti, ha stimato che oltre 17.000 militanti di Hamas siano stati uccisi durante il conflitto, ma questi numeri raramente trovano spazio nei report internazionali. I media, invece, tendono a concentrarsi quasi esclusivamente sui dati forniti dal Ministero della Salute di Gaza, nonostante il suo legame diretto con Hamas.
Un altro aspetto centrale dello studio riguarda proprio il modo in cui i media trattano questi dati. Uno studio su 1.378 articoli pubblicati tra febbraio e maggio 2024 ha rilevato che l’84% non ha distinto tra morti civili e combattenti. Solo il 5% degli articoli ha menzionato i dati israeliani, mentre il 98% ha citato le statistiche del Ministero della Salute di Gaza senza verifiche. Secondo il rapporto, questo approccio contribuisce a una narrativa distorta che amplifica le sofferenze civili, riducendo la complessità del conflitto e influenzando l’opinione pubblica internazionale.
Questo approccio, denuncia il rapporto, “perpetua una narrativa parziale, ma oscura la complessità del conflitto”. La distinzione fondamentale tra civili e combattenti viene spesso ignorata, contribuendo a dipingere Israele come un aggressore che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile.
Secondo l’associazione manipolare i numeri per scopi propagandistici non solo mina la comprensione del conflitto, ma ostacola anche gli sforzi di pace. “Ogni vita persa è una tragedia, ma per trovare soluzioni sostenibili dobbiamo partire da dati onesti e verificati”, conclude il rapporto.
(Shalom, 15 dicembre 2024)
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Diario minimo (di un conflitto). La strada verso casa
di Luciano Assin
Come un infante che compie i suoi primi passi incespicando in cerca di equilibrio e solidi basi, così appare la tregua siglata col governo libanese: ancora traballante e con più dubbi che risposte. L’improvvisa e inaspettata implosione della Siria non fa che aumentare le incertezze e gli imprevisti.
Il desiderio di tornare, per chi ha ancora la casa intatta, è enorme ma le variabili che influiscono su una decisione definitiva sono numerose e legate a interessi e decisioni al di sopra della volontà del singolo individuo. Non è solo una questione di quanto e come durerà la tregua, ci sono numerose questioni pratiche e psicologiche da risolvere.
Quanto tempo sarà necessario per rimettere in piedi il sistema educativo? L’anno scolastico è iniziato a settembre, e i bambini in età scolastica si trovano attualmente in scuole lontane e in classi diverse con nuovi compagni. In questi ultimi 14 mesi la gente ha dovuto trovare un nuovo lavoro, affittare un appartamento e cambiare drasticamente le abitudini quotidiane.
Ma il tema centrale che frena un ritorno di massa è la sicurezza personale. L’esercito ha perso buona parte del prestigio di cui ha sempre goduto, il governo, che ha sempre rifiutato di assumersi la piena responsabilità del pogrom del 7 ottobre, è impegnato a portare avanti una politica che aumenta le divisioni all’interno della società israeliana invece di cercare di saldare una frattura che alla fine potrà rivelarsi insanabile. Né Bibi né il resto dell’esecutivo si è ancora pronunciato su una possibile data che segni in qualche modo la fine di un incubo che ci accompagnerà per tutta la nostra vita.
In una tale realtà il ritorno alle proprie case diventa una priorità, la seconda per importanza dopo la liberazione degli ostaggi, ma l’orizzonte non è ancora abbastanza limpido e chiaro per imboccare la strada verso casa.
Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di tutti noi.
(Bet Magazine Mosaico, 15 dicembre 2024)
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Il crollo dell’ “asse della resistenza”
di Niram Ferretti
Dopo un anno e due mesi dall’eccidio del sette ottobre 2023 perpetrato da Hamas in Israele, il panorama del Medio Oriente ha subito una scossa tellurica che è ancora in pieno corso e le cui ripercussioni, attualmente non sono pienamente decifrabili, tuttavia, alcuni elementi appaiono sufficientemente chiari.
A seguito dello shock del 7 ottobre e l’apertura di due fronti di guerra, il principale a Gaza e quello secondario nei confronti di Hezbollah, a cui si sono poi successivamente aggiunti gli houti dallo Yemen e gli attacchi dell’Iran, Israele si è trovato stretto in una morsa di fuoco che ha goduto del sostegno incondizionato del regime di Teheran. Questa morsa di fuoco non si è limitata ai teatri della guerra, ma si è allargata ben oltre il Medio Oriente includendo una massiccia propaganda anti-israeliana di cui non si era mai visto uguale precedentemente e sulla quale l’Iran ha inciso tramite i suoi canali finanziari e i suoi emissari.
La demonizzazione di Israele nell’arena internazionale è, dal 1967, anno della Guerra dei Sei Giorni, un costitutivo essenziale dell’offensiva contro di esso ma mai come in questa guerra, la più lunga che lo Stato ebraico abbia combattuto, ha raggiunto tali livelli parossistici. Più Israele è avanzato nella sua offensiva, maggiore è stato lo scatenamento della propaganda, la cui potenza distorcente ha persino portato alla ridefinizione se non allo spappolamento del concetto di “genocidio” purché esso diventasse funzionale a criminalizzare la risposta israeliana all’aggressione di Hamas.
Nonostante ciò, e nonostante abbia subito dal suo principale alleato, gli Stati Uniti, una serie di pesanti condizionamenti che non solo hanno rallentato la campagna militare ma hanno contribuito ulteriormente a danneggiare la sua immagine, Israele ha perseguito con tenacia gli obiettivi prefissati fin dall’inizio della guerra, mettere fine al dominio di Hamas a Gaza e mettere Hezbollah nella condizione di non rappresentare più una minaccia alla propria sicurezza.
A partire dall’estate, con l’uccisione di Ismail Haniyah a Teheran, che seguiva quella di altri esponenti di spicco di Hamas e di Hezbollah, e successivamente con l’uccisione di Hassan Nasrallah, capo supremo della formazione sciita e quindi di Yahya Sinwar, Israele ha messo in atto una clamorosa rimonta che oggi, dopo la tragedia del 7 ottobre, lo ha riposizionato come forza egemone del Medio Oriente, ripristinando l’immagine che Hamas aveva clamorosamente infranto.
La caduta del regime di Assad in Siria, privato improvvisamente del sostegno fornito dall’Iran tramite Hezbollah, è un’altra tessera dell’effetto domino provocato dalla rimonta israeliana e dal successo della sua offensiva. Quale che sarà il futuro assetto della Siria, l’Iran ha perso un alleato importante che gli consentiva uno sbocco verso il Mediterraneo e un consolidamento regionale.
Nell’arco degli ultimi sei mesi, l’Iran ha visto crollare il suo cosiddetto asse resistenziale, cioè la compagine radicale islamica che si era costituita contro Israele e che aveva a Teheran il suo epicentro. Si tratta di un colpo duro per il regime degli ayatollah che si trova in una fase di oggettiva debolezza e incapace da solo di potere reagire ai successi israeliani, oltretutto in prossimità dell’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump il quale non ha escluso, in una recente dichiarazione, di mettere Israele nelle condizioni di colpire i siti nucleari iraniani.
Il ritorno della convergenza Trump-Netanyahu, per l’Iran non è una buona notizia in uno scenario già ampiamente sfavorevole.
(L'informale, 15 dicembre 2024)
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USA – Cerchi lavoro? Meglio un curriculum non ebraico
Farsi riconoscere come ebrei o come israeliani porta ad essere discriminati sul mercato del lavoro, negli Stati Uniti? È la domanda cui prova a rispondere il sondaggio condotto da Bryan Tomlin, professore di Economia e presidente del Dipartimento di Economia della Martin V. Smith School of Business and Economics della California State University Channel Islands, grazie a una sponsorizzazione della Anti-Defamation League (ADL). Tremila curriculum dal contenuto identico, tranne per il nome del candidato, sono stati inviati in risposta ad altrettante offerte di lavoro, da persone che poteva sembrare avessero un nome ebraico, un nome israeliano, o un nome più genericamente europeo. I risultati hanno confermato la presenza di un pregiudizio: i candidati dal nome ebraico hanno dovuto inviare il 24,2% di richieste in più per ricevere lo stesso numero di risposte; quelli dal nome israeliano ne hanno dovuto il 39% in più. Nulla di sorprendente: secondo un recente rapporto dell’ADL nei primi tre mesi del 2024 negli USA si sono verificati 3.264 episodi di antisemitismo, tra aggressioni fisiche (56), vandalismo (554), molestie verbali o scritte (1.347) e ben 1.307 raduni nei campus in cui è stata usata una retorica antisemita. Ma a differenza di quando vengono commessi crimini violenti, in questi casi è estremamente difficile dimostrare di aver subito un trattamento sfavorevole per motivi religiosi o di appartenenza, sia perché le interazioni su cui basare le proprie conclusioni sono limitate sia perché non potendo conoscere le competenze o le qualifiche degli altri candidati il singolo non può dimostrare che sta perdendo un’opportunità di lavoro a causa della sua religione. Ma l’esperimento ha dato risultati conformi al modello generale di comportamento antisemita osservato nei report dell’ADL.
• METODOLOGIA
La metodologia usata è analoga a quella utilizzata in altre ricerche sul mercato del lavoro, con l’invio di un numero cospicuo di richieste di informazioni, via e-mail, che sono state mandate in tutti gli Stati Uniti tra maggio e ottobre 2024. Tutte le richieste sono state inviate da candidati il cui nome è stato scelto per essere “femminile”: Kristen Miller (Europa occidentale – gruppo di controllo), Rebecca Cohen (“gruppo ebraico”) e Lia Avraham (“gruppo israeliano”). A ciascun annuncio di lavoro è stata inviata una singola mail da parte di una singola candidata, assegnata in modo casuale, e gli annunci sono stati scelti sul portale craigslist perché è uno dei pochi in cui il processo di candidatura online o di screening dei curriculum non è guidato dall’intelligenza artificiale. Gli annunci sono stati tutti selezionati nel settore dell’assistenza amministrativa che spesso comporta un’interazione diretta con i clienti e può essere perciò sensibile sia ai pregiudizi del datore di lavoro sia a quelli percepiti dai clienti. I candidati avevano curriculum identici, solo “adattati” alla località dove si offriva un posto di lavoro, e con una seconda lingua coerente con il gruppo di appartenenza. Nonostante sia impossibile verificare in che misura i segnali di “trattamento” dei nomi siano in effetti percepiti dai datori di lavoro, alcuni dati qualitativi contenuti nelle risposte suggeriscono che i segnali fossero chiari: per esempio diverse risposte al “gruppo israeliano” erano scritte in ebraico. Non è mai successo con il gruppo di controllo, che non ha mai ricevuto risposte nella seconda lingua (segnalata nel CV, in questo caso era francese o tedesco), né ha ricevuto risposte che parlassero del patrimonio personale.
• RISULTATI
L’antisemitismo non è presente solo in uno spazio verbale o fisico facilmente identificabile ma esiste anche nel mercato del lavoro. Non è possibile stabilire quanto i risultati di questo studio siano applicabili ad altri ambiti lavorativi, ma di sicuro la ricerca ha dimostrato che un’ulteriore indagine sul potenziale trattamento avverso sarebbe auspicabile. O necessaria.
(moked, 15 dicembre 2024)
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Futuro!
Incoraggiati dalla profezia biblica
di Andreas Heimbichner
Molti cristiani che si occupano di profezia biblica sono accusati di vedere il mondo in nero e di essere pessimisti. Sono visti come profeti di sventura. Forse questo vale per qualcuno di loro, ma fondamentalmente è vero il contrario. Chi si impegna in una sana profezia biblica è incoraggiato, si rallegra, è grato, guarda al futuro con fiducia e può incoraggiare e contagiare altri. Serve il suo Signore con gioia.
Se ora ci chiediamo: “Dove sta operando Dio profeticamente in questo mondo?”, la risposta è abbastanza semplice: nel suo popolo Israele. In altre parole: osserviamo Israele per interpretare i segni dei tempi. Gesù rimproverò i farisei perché non erano in grado di valutare i segni dei tempi (Matteo 16). Ma le Scritture ci invitano a vedere ciò che Dio sta facendo in questo mondo. E quando lo riconosciamo, siamo incoraggiati.
Rivolgiamo la nostra attenzione al profeta Ezechiele. Egli visse 2.600 anni fa in un'epoca molto eccitante per lui, un'epoca di sconvolgimenti. Fu testimone del trasporto del popolo d'Israele. Dio aveva ripetutamente inviato i suoi profeti e ammonito il popolo a tornare a lui, ma essi non lo ascoltavano. Alla fine il Signore disse: “Allora vi strapperò dal paese e vi porterò a Babilonia”. Anche il profeta Ezechiele era tra questi esuli. Fu testimone di come la gloria del Signore lasciò il tempio e di come il tempio fu definitivamente distrutto. Fu un periodo drammatico. Ma Dio non mise un punto fermo, bensì una virgola, promettendo di radunare di nuovo un giorno il popolo d'Israele e di riportarlo nella terra.
Questa promessa si realizzò parzialmente sotto Esdra e Neemia, ma il profeta Ezechiele guardava lontano, nel futuro. Dio promise che avrebbe radunato il popolo in modo pubblico, davanti agli occhi delle nazioni. Questo dunque non avverrà in segreto. Ezechiele 20:41 dice: “Io mi compiacerò di voi come di un profumo di soave odore, quando vi avrò fatti uscire di mezzo ai popoli e vi avrò radunati dai paesi nei quali siete stati dispersi; e sarò santificato in voi davanti agli occhi delle nazioni”. Ezechiele dice qualcosa di simile nel capitolo 28, versetto 25:” Così parla il Signore, l'Eterno: 'Quando avrò raccolto la casa d'Israele di mezzo ai popoli fra i quali essa è dispersa, io mi santificherò in loro in presenza delle nazioni, ed essi abiteranno il loro paese che io ho dato al mio servo Giacobbe’”.
Viviamo in tempi entusiasmanti. Non è mai stato così facile scoprire cosa succede in Israele nel mondo, soprattutto grazie alla tecnologia degli smartphone. Nel 2019, gli utenti di smartphone nel mondo erano circa 3,5 miliardi. Entro il 2022, questa cifra è salita a 4,7 miliardi. Ciò significa che oltre due terzi della popolazione mondiale ha accesso alle notizie tramite smartphone. Ora avete il conflitto in Medio Oriente in tasca e potete sapere cosa sta succedendo in Israele in pochi secondi. Magari non siete ben informati, ma potete scoprire rapidamente cosa sta accadendo.
A volte le persone che non sono sul posto sanno le notizie più velocemente delle persone che vivono in Israele. La tecnologia ci permette di osservare tutto ciò che accade in Israele. Ma cosa succede quando le persone vengono ancora di più influenzate da questa tecnologia? Sono già in corso ricerche per impiantare chip nel cervello, al fine di esercitare un'influenza ancora maggiore sulle persone. Neuralink, una società di proprietà di Elon Musk, sta lavorando a questo progetto. L'obiettivo a lungo termine è che le persone siano in grado di scambiare telepaticamente i propri pensieri e di memorizzarli esternamente in un cloud. Lo storico israeliano Yuval Noah Harari sostiene che gli smartphone si stanno sempre più fondendo con le persone e influenzano la nostra visione del mondo.
Non sappiamo esattamente come si svolgeranno questi sviluppi, ma è possibile. Non vogliamo essere pessimisti, ma tuttavia abbiamo bisogno di un quadro generale. Sappiamo che alcuni sviluppi sono allarmanti, ma Dio ci dice che agirà davanti agli occhi delle nazioni alla fine dei tempi. Come guarda il mondo Israele e come guardiamo noi Israele? Quando guardiamo Israele, questo dovrebbe incoraggiarci. È esattamente il contrario di come il mondo guarda Israele.
Qualche tempo fa è stata pubblicata la “World Press Photo of the Year 2024”. Ancora una volta, Israele ha “vinto”. La foto mostra una donna palestinese di 36 anni che si china sul corpo della nipote di cinque anni, uccisa nel conflitto. La giuria l'ha definita una visione struggente di una sofferenza incommensurabile. Non è la prima volta che un'immagine del conflitto mediorientale viene premiata come “World Press Photo of the Year” e probabilmente non sarà l'ultima. Il mondo guarda spesso in modo negativo a Israele, e potrei elencare molti altri esempi che lo dimostrano. Prendiamo la famosa poesia di Dieter Hallervorden “Gaza, Gaza”, in cui l'autore accusa Israele di genocidio.
Le proteste anti-israeliane nelle università degli Stati Uniti e della Germania sono un altro esempio di come il mondo vede negativamente Israele. Ma la domanda rimane:
Come guardiamo noi Israele? A volte ho l'impressione che l'argomento non ci interessi affatto. Il mondo guarda a Israele, anche se in modo negativo. Ma in molte comunità cristiane non si parla quasi mai di Israele. In passato, molti cristiani non hanno nemmeno riconosciuto il significato di Israele.
Nel mio libro “2000 anni di ebrei e cristiani”, ho cercato di mostrare il difficile rapporto tra ebrei e cristiani. Questa relazione è stata spesso molto tesa e i cristiani hanno a lungo considerato gli ebrei come maledetti. Vorrei citare alcune frasi tratte dalla storia.
Il padre della chiesa Giovanni Crisostomo, ad esempio, descriveva la sinagoga come un “covo di iniquità del diavolo” e un'“assemblea di assassini di Cristo”. Allo stesso modo, il vescovo Ambrogio parlò di un “luogo di incredulità” e di un “luogo di follia”. Questi padri della chiesa avevano un cuore per la chiesa di Gesù, ma nessuna visione per Israele.
Se si osservano molte chiese in Europa, si vedono spesso raffigurazioni di due donne: Una rappresenta la chiesa, in piedi con corona e scettro, mentre l'altra, la “sinagoga”, è raffigurata piegata e bendata. Queste immagini mostrano che Israele era visto come cieco e sconfitto. Ma a volte penso che questa cecità si applichi più ai cristiani che non vedono il piano di Dio per Israele.
Se andiamo più avanti nella storia, arriviamo a Martin Lutero, a cui dobbiamo molto, come la traduzione tedesca della Bibbia e la riscoperta dell'eredità della Riforma. Ma Lutero non aveva una visione per il popolo ebraico. In una delle sue lettere scrisse: “Se gli ebrei tornassero nel loro Paese e lo costruissero, allora ci sarebbe un buon motivo per diventare ebrei”. Non so se fosse serio o ironico, ma mi chiedo come avrebbe reagito alla fondazione dello Stato di Israele.
Lutero avrebbe riconsiderato la sua teologia antiebraica? Avrebbe continuato, come molti teologi di oggi, ad attenersi a una teologia che non attribuisce alcun futuro a Israele? Non lo sappiamo. Ma la nostra reazione dovrebbe essere quella di essere incoraggiati quando guardiamo a Israele e vediamo ciò che Dio sta facendo lì.
Ci sono state altre voci nella storia della chiesa. Nel 1642, l'arcivescovo Robert Layton predicò a Glasgow su Isaia 60:1 e disse: “Senza dubbio questo popolo di ebrei sarà riportato in vita e diventerà luce, e la sua restaurazione sarà la ricchezza del mondo”. Quasi 400 anni prima della fondazione dello Stato di Israele, quest'uomo si aggrappò alle promesse di Dio.
200 anni dopo visse Charles Spurgeon, uno dei più grandi predicatori del XIX secolo. Egli disse di Israele: “Non diamo abbastanza importanza alla restaurazione degli ebrei. Non ci pensiamo abbastanza. Sicuramente, se c'è qualcosa di promesso nella Bibbia, è proprio questo”. Spurgeon riconosceva che la restaurazione di Israele avrebbe portato al mondo benefici senza precedenti. Queste parole hanno ancora oggi un grande significato.
Dipende da quali occhiali indossiamo quando guardiamo Israele. Se indossate gli occhiali del mondo, avrete paura e timore quando osservate gli eventi in Medio Oriente. Ma se indossate gli occhiali della Bibbia e vedete ciò che Dio sta facendo, sarete incoraggiati.
Ora vorrei sottolineare alcuni aspetti di come la profezia biblica può incoraggiarci nella nostra vita quotidiana. Il primo punto: essere incoraggiati dal piano di salvezza di Dio. Come cristiani, a volte corriamo il rischio di concentrarci solo su noi stessi. Siamo attivi nella nostra chiesa, il che è ottimo, ma non dobbiamo dimenticare che il piano di salvezza di Dio è molto più grande e comprende il mondo intero. Dio non ha lasciato questo mondo a se stesso, ma ha un piano che sta portando avanti. Questo consiglio include anche Israele e Gerusalemme.
Gerusalemme è citata più di 2.500 volte nella Bibbia, Israele più di 2.500 volte. Ciò dimostra che questo argomento è di grande importanza per Dio. Il suo amore per il suo popolo è visibile ovunque nella Bibbia. Dobbiamo solo indossare gli occhiali giusti per scoprirlo.
Se guardiamo un po' indietro: I padri della chiesa di cui ho parlato prima applicavano le parole maledette dell'Antico Testamento al popolo ebraico e rivendicavano le promesse per sé e per la chiesa. Ma se prendiamo alla lettera la parola di Dio, scopriamo che l'amore di Dio per il suo popolo trabocca ovunque nella Bibbia. Uno sguardo al libro di Isaia ce lo mostra chiaramente. Dio si definisce “il Santo d'Israele” (Isaia 41,20), “il Creatore d'Israele” (Isaia 43,15), “il Re d'Israele” (Isaia 44,1), “il Dio d'Israele” (Isaia 45,15) e parla del suo amore eterno per il suo popolo.
Possiamo quindi essere incoraggiati dal piano di salvezza di Dio. Questo piano ci aiuta a guardare oltre i nostri orizzonti. Voi siete parte di questo piano, così come la chiesa. Il mondo fa parte di un piano più grande, e colui che porta avanti questo piano è Dio Onnipotente.
La prossima volta che vi sveglierete preoccupati, ricordate che questo grande Dio tiene la vostra vita nelle sue mani. Così come dirige la storia e porterà Israele a destinazione, porterà anche voi a destinazione.
Siate incoraggiati dal futuro di Israele. Dio ha detto in Isaia 44:21: “Considera questo, Giacobbe, e tu, Israele, perché sei mio servo! Io ti ho formato, tu sei il mio servo; o Israele, tu non sarai dimenticato da me!”. Che promessa meravigliosa! In Isaia 66:22, il Signore lega il futuro di Israele ai nuovi cieli e alla nuova terra. Israele ha un futuro e questo significa che non dobbiamo mettere in dubbio ciò che Dio ha promesso.
Israele ha un futuro, e cosa significa concretamente per noi? Se Dio dice così chiaramente nella sua parola che non dimenticherà Israele e che ha un futuro, allora dovremmo chiederci come possiamo mettere in dubbio questo. Se affermiamo che Israele è stato sostituito, come possiamo essere sicuri che il nostro futuro come chiesa sia sicuro? Se Dio non dimenticherà il suo popolo Israele, non dimenticherà nemmeno la chiesa. Il nostro futuro dipende dal futuro di Israele. Dio ha promesso che porterà Israele a destinazione, e questo rimane vero.
Siate incoraggiati dal ritorno di Gesù. Gesù tornerà per noi nel Rapimento e per Israele apparirà visibilmente nella gloria sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. Probabilmente non esiste un altro Paese al mondo in cui l'attesa del Messia sia così forte come in Israele. In Israele si attende il Messia e questo tema permea molti ambiti della vita quotidiana: dalle preghiere ai matrimoni e ai funerali. Questa attesa del Messia può ispirare e incoraggiare anche noi cristiani a sperare nel ritorno di Gesù.
Da quando il popolo d'Israele è stato riunito e possiamo vedere come Dio sta realizzando le sue promesse davanti ai nostri occhi, il tema è diventato più esplosivo e attuale. Gesù sta per tornare, non a Berlino, Parigi o New York, ma prima per la sua chiesa e poi per il suo popolo Israele a Gerusalemme. Questo dovrebbe incoraggiarci a vivere in vista della profezia biblica e ad aspettare il ritorno di Gesù. Paolo ci incoraggia: “Confortatevi a vicenda con queste parole” (1 Tessalonicesi 4,18). Anche Gesù, in Luca 21:28, ci invita ad alzare il capo quando queste cose inizieranno ad accadere, perché la nostra redenzione si avvicina.
Israele è un'immagine per noi e quando vediamo come Dio è fedele al suo popolo, dobbiamo essere incoraggiati anche noi. Dio è fedele e arriverà alla fine con noi, così come arriverà alla fine con Israele.
In Romani 15:8-13, Paolo riassume il piano di salvezza di Dio dicendo che Cristo è diventato servo della circoncisione per confermare le promesse fatte ai padri. Dio non solo ha adempiuto a queste promesse, ma le ha anche confermate. Queste promesse includono la terra, la benedizione, la discendenza e il Messia, e sono solide e affidabili. Paolo usa la stessa parola qui e in 1 Corinzi 1:8, dove scrive che Dio ci stabilirà fino alla fine.
Lo scopo di questo piano è che le nazioni glorifichino Dio e lo lodino insieme a Israele. Paolo cita qui diversi passi dell'Antico Testamento per dimostrare che questo era il piano di Dio fin dall'inizio. Le nazioni devono lodare e glorificare Dio insieme a Israele. Dio ha promesso il Messia e Gesù è venuto a confermare queste promesse. Non ha sostituito Israele, ma ha confermato le promesse. Questo ci dà fiducia come chiesa, perché Dio è fedele al suo popolo e altrettanto fedele a noi. Paolo parla di Gesù che viene come servo della circoncisione per confermare la verità di Dio. Questo ci mostra che Dio non ha dimenticato le sue promesse e ci dà speranza per il futuro.
Siate incoraggiati mentre benedite Israele. Ci sono migliaia di popoli che hanno bisogno del Vangelo e come cristiani abbiamo il mandato di diffondere il Vangelo. Ma abbiamo anche un rapporto speciale con Israele e dobbiamo benedire questa nazione, sia con la preghiera che con il sostegno pratico. Paolo incoraggia la chiesa a fare collette per i bisognosi a Gerusalemme. Dice che le nazioni sono debitrici di Israele perché hanno partecipato ai suoi beni spirituali (Romani 15,25-27). Sono quindi obbligati a servire Israele anche nelle cose corporali.
È interessante la storia di Hudson Taylor, il noto missionario in Cina, che ogni anno inviava un assegno a un missionario ebreo di Londra con la nota “Prima agli ebrei”. Il missionario rispondeva con un assegno a Hudson Taylor, con la nota “E anche ai gentili”. Questo bel gesto dimostra che Dio ha in mente sia gli ebrei che i gentili. Noi possiamo benedire Israele e Dio ci benedirà in contraccambio.
Siate dunque incoraggiati dal piano di salvezza di Dio, dal futuro di Israele, dal ritorno di Gesù e dalla benedizione che sperimentiamo quando benediciamo Israele. Dio è fedele e raggiungerà il suo obiettivo con il suo popolo e la sua chiesa.
(Nachrichten aus Israele, dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La caduta di Bashar al-Assad segna la vittoria di Israele sull'Iran Intervista a Frédéric Encel
di Antoine de Lagarde
L'improvviso crollo della dinastia el-Assad, al potere da più di mezzo secolo, è una diretta conseguenza degli assalti che lo Stato ebraico sta conducendo contro l'Iran e Hezbollah, analizza il dottore in geopolitica Frédéric Encel*.
- LE FIGARO. - Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha dichiarato domenica che la caduta del regime di al-Assad è “una diretta conseguenza dei colpi che (Israele) ha inferto all'Iran e a Hezbollah, (suoi) principali sostenitori”. È una spacconata politica o una realtà militare? FRÉDÉRIC ENCEL - È vero in larga misura. Non è l'unica spiegazione, ma è la principale. Quando tra il 2015 e il 2017 il regime di Bashar al-Assad era in agonia di fronte agli assalti della potente coalizione ribelle, Hezbollah ha salvato il regime, insieme all'aviazione russa. Tuttavia, nelle ultime settimane Hezbollah è stato talmente indebolito da Israele che non è stato in grado di venire in aiuto del regime, soprattutto perché gli israeliani avevano bloccato il flusso di truppe e attrezzature iraniane verso il Libano attraverso la Siria.
L'altra spiegazione ha a che fare con la Turchia e la Russia. Così come a El-Assad mancavano i soldati di Hezbollah, gli mancavano anche gli squadroni di Mosca. La Russia sta così rivelando di essere incapace di sostenere il suo unico alleato militare nella regione dal 1959, grazie al quale aveva le sue uniche due basi nell'intera area del Mediterraneo-Medio Oriente: non ha altri alleati in questa zona strategica. Ciò dimostra sia la doppiezza di Putin che la sua debolezza militare. Inoltre, l'efficienza fulminea di questo attacco può essere collegata solo all'aiuto della Turchia: è l'unico Paese confinante con la sacca di Idlib e molti gruppi ribelli hanno legami con essa. È evidente che c'è stata una preparazione militare e un finanziamento da parte della Turchia.
- Israele si ritrova quindi con una potenza sostenuta dalla Turchia al suo confine. Che legami hanno questi due Stati? Le due potenze hanno interessi comuni che sono stati serviti da questa coalizione di ribelli guidata da Hayat Tahrir al-Cham (HTC). La caduta di Bashar al-Assad offre alla Turchia una mano libera nel nord della Siria, dove sta cercando di spezzare i tentativi curdi di stabilire un'autonomia. La caduta di Bashar al-Assad permette inoltre alla Turchia di rimandare a casa più di tre milioni di rifugiati siriani e di avere un regime al proprio confine con cui ha una complicità ideologica.
L'interesse di Israele nella caduta del governo di al-Assad è quello di spezzare l'“ asse di resistenza” iraniano. Tuttavia, da quando l'AKP (il partito islamo-nazionalista di Erdogan) è salito al potere nel 2002, i loro rapporti sono sempre stati freddi, e sono addirittura rimasti in ghiaccio, almeno retoricamente, dopo la vicenda della Mavi Marmara nel 2010 (una nave turca che faceva parte di una flottiglia che cercava di rompere il blocco di Gaza, abbordata da Israele), ma non sono mai stati interrotti.
- La fine della dinastia el-Assad è davvero una buona notizia per Israele? Di per sé, la caduta di el-Assad è una buona notizia per Israele, ma è più simbolica e politica che militare. Hafez el-Assad, padre di Bashar, è stato uno dei principali artefici della Guerra dello Yom Kippur del 1973, che un'intera generazione di israeliani ricorda (morirono più di 2.200 soldati israeliani). Anche prima degli el-Assad, la Siria aveva accolto il criminale nazista Alois Brunner, aveva mantenuto una terribile presa sugli ebrei siriani (fino alla loro partenza nel 1994) e aveva guidato coalizioni arabe contro lo Stato ebraico.
Israele aborriva questa dinastia ma, dal 1974, non ha avuto la capacità di danneggiarla militarmente. La caduta di Bashar al-Assad è soprattutto il risultato dello schiacciamento di Hezbollah da parte di Israele: Benyamin Netanyahu può ora mostrare alla sua popolazione, ancora traumatizzata dal gigantesco pogrom del 7 ottobre, una prova tangibile degli effetti della guerra che sta conducendo. È anche la traduzione della vittoria di Israele sull'Iran, che non aveva i mezzi per sostenere el-Assad e ora si trova isolato da un Hezbollah molto indebolito.
- C'era una sorta di alleanza oggettiva tra i gruppi ribelli e Israele contro l'Iran? Avevano un nemico comune. Oggi, la coalizione islamista sunnita che ha preso il potere in Siria sta cercando di rompere il continuum pan-sciita che è asservito all'Iran, perché la divisione politica e teologica tra sciiti e sunniti è abissale. Questa divisione è molto più efficace per comprendere il Medio Oriente rispetto a quella tra Israele e il mondo arabo, che è obsoleta se non addirittura fittizia. Da quando è salita al potere, questa coalizione ha stigmatizzato l'Iran e Hezbollah nelle sue dichiarazioni, e per il momento non ha menzionato Israele o l'Occidente. Non per dissimulazione, ma per ideologia: per i sunniti, gli sciiti sono veri e propri eretici. Lo dimostra l'attacco condotto da Daech in Iran il 3 gennaio.
Domenica l'esercito israeliano ha lanciato una serie di raid sulle principali installazioni militari siriane e si è spostato sulle alture del Golan. Questo presuppone l'ostilità del nuovo governo?
L'obiettivo di Israele è distruggere tutto ciò che potrebbe costituire un futuro esercito siriano. Per il momento, i ribelli non rappresentano una vera minaccia. È un attacco preventivo, come l'investimento militare nella terra di nessuno della zona cuscinetto del 31 maggio 1974 e del Monte Hermon, che si erge a 2.800 metri: si può vedere fino a Damasco a est e alla Bekaa a ovest!
Il messaggio era: state lontani dai nostri confini. L'incursione nelle alture orientali del Golan ha anche lo scopo di rassicurare i drusi israeliani, fornendo loro una possibile protezione sul Jebel al-Druze (catena montuosa) in Siria. Tuttavia, lo Stato ebraico non sta espandendo il suo territorio: interverrebbe solo se la coalizione al potere decidesse di attaccare il Jebel al-Druze.
- Chi sono i gruppi ribelli che confinano con il Golan e che non dichiarano di far parte della coalizione guidata da HTC? Molti di loro sono ex membri di movimenti jihadisti, diverse centinaia, che non si sono mai arresi o che sono fuggiti dall'Iraq. In realtà, l'attuale coalizione detiene solo le principali città della Siria: non domina ancora pienamente la montagna marina alawita, il nord-est curdo, il deserto nell'est del Paese (dove Daech è ancora attivo), o il jebel al-Druze nell'estremo sud-ovest.
Per di più, al-Joulani è considerato un traditore da Daech, che ha lasciato: tra i gruppi islamisti radicali è una permanente “notte dei lunghi coltelli” da almeno due decenni! Come nella vera e propria guerra tra Daech e al-Qaeda nello Yemen di qualche anno fa, con migliaia di morti. L'obiettivo è più o meno lo stesso, ma le strategie non lo sono di certo. Di conseguenza, a priori, Daech non si schiererà a favore di HTC senza negoziati preliminari.
- Quali sono le conseguenze del cambio di potere in Siria per le operazioni militari di Israele in Libano e a Gaza? A differenza di quanto accaduto alla fine della Seconda guerra del Libano nel 2006, gli israeliani non permetteranno a Hezbollah di scendere a sud del Litani (il fiume nel Libano meridionale e orientale) contro la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a causa del trauma del 7 ottobre. L'immediata vicinanza fisica al nemico è diventata intollerabile e Francia e Stati Uniti stanno esercitando una pressione maggiore su Hezbollah rispetto al 2006.
Tuttavia, sono ottimista sul fatto che la situazione si calmerà, perché Hezbollah è guidato da fanatici ma non da pazzi: è consapevole dell'equilibrio di potere. La prova è che hanno accettato il cessate il fuoco quando erano vicini all'annientamento. Hezbollah è isolato e l'Iran non può più inviare truppe o attrezzature.
Quanto ad Hamas, è militarmente morto. I suoi leader sono stati eliminati, non domina più la Striscia di Gaza e non ha tutti gli ostaggi, il che significa che non può nemmeno proporre a Israele un accordo globale. Tuttavia, il centinaio di ostaggi è ancora il tallone d'Achille di Israele. La Siria è persa per gli sciiti, quindi né l'Iran né Hezbollah possono venire in suo aiuto.
Quanto all'Arabia Saudita, i suoi servizi segreti stanno già collaborando con gli israeliani. Il fallimento di Hamas, Hezbollah e dell'Iran è completo e totale.
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*Frédéric Encel ha un dottorato (HDR) in geopolitica, è docente a Sciences Po Paris e fondatore degli Incontri geopolitici di Trouville. È autore di Voies de la puissance (Prix de l'Académie des sciences morales et politiques, Odile Jacob, 2023).
(JForum fr, 14 dicembre 2024)
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Blinken in Turchia per parlare di Siria e di Hamas
Al centro dei colloqui anche la questione dei curdi siriani
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Il Segretario di Stato americano Antony Blinken stringe la mano al Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan dopo una conferenza stampa congiunta presso la sede del Ministero nella capitale turca Ankara il 13 dicembre 2024
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Il segretario di Stato americano Antony Blinken e il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan hanno concordato venerdì sulla necessità di proseguire gli sforzi per contrastare qualsiasi rinascita dello Stato islamico in Siria dopo la caduta di Bashar al-Assad. Nei suoi colloqui con il presidente e il ministro degli esteri della Turchia, Blinken ha detto di aver discusso anche dell’imperativo che Hamas dica “sì” a un accordo di cessate il fuoco a Gaza. Una fonte statunitense ha detto che Hamas ha ammorbidito la sua posizione nei colloqui di cessate il fuoco. Blinken sta girando il Medio Oriente per creare un fronte unito con gli alleati arabi e turchi sui principi che Washington spera possano guidare la transizione politica della Siria, come l’inclusività e il rispetto delle minoranze. Lunedì ha affermato che lo Stato islamico avrebbe cercato di sfruttare questo periodo per ripristinare le sue capacità in Siria, ma gli Stati Uniti erano determinati a non permettere che ciò accadesse. “I nostri Paesi hanno lavorato duramente e hanno dato molto nel corso di molti anni per garantire l’eliminazione del califfato territoriale dell’ISIS, per garantire che la minaccia non si ripresenti, ed è fondamentale che continuiamo a impegnarci”, ha affermato Blinken insieme a Fidan dopo il loro incontro ad Ankara. I colloqui si sono concentrati anche su un aspetto cruciale per il ripristino della stabilità in Siria: gli scontri nel nord del Paese tra le Forze democratiche siriane (SDF) guidate dai curdi e sostenute dagli Stati Uniti e i ribelli sostenuti dalla Turchia. Le SDF sono il principale alleato di una coalizione statunitense contro i terroristi dello Stato islamico. Sono guidate dalla milizia YPG, un gruppo che Ankara vede come un’estensione dei militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Gli alleati della NATO Washington e Ankara hanno sostenuto i ribelli siriani durante i 13 anni di guerra civile, ma i loro interessi si sono scontrati quando si è trattato della fazione SDF. I leader turchi hanno concordato con Blinken sul fatto che le SDF non dovrebbero essere distratte dal loro ruolo di proteggere i campi in cui sono detenuti i combattenti dello Stato Islamico e dal combattere i resti di quel gruppo, ha affermato una fonte statunitense, che ha parlato a condizione di mantenere l’anonimato. All’inizio di questa settimana, le forze sostenute dalla Turchia hanno sequestrato la città settentrionale di Manbij alle SDF, che si sono poi dirette a est del fiume Eufrate. Una fonte dell’opposizione siriana ha detto che gli Stati Uniti e la Turchia avevano raggiunto un accordo sul ritiro. Né Blinken né Fidan hanno fatto alcun riferimento all’accordo, ma il funzionario statunitense che viaggiava con Blinken ha affermato che era uno dei punti centrali dei colloqui. Il funzionario ha affermato che il cessate il fuoco ha generalmente retto, ma che risolvere le tensioni più ampie tra i curdi in Siria e la Turchia richiederà più tempo, aggiungendo che Washington sta monitorando attentamente qualsiasi mossa della Turchia o delle forze sostenute dalla Turchia nella città di Kobani, controllata dai curdi. Dopo l’incontro con Blinken, Fidan ha affermato che “la priorità della Turchia in Siria è garantire la stabilità… il prima possibile, impedire al terrorismo di guadagnare terreno e impedire allo Stato islamico e al PKK di dominare il Paese”. “Abbiamo discusso in dettaglio cosa possiamo fare al riguardo, quali sono le nostre preoccupazioni comuni e quali dovrebbero essere le nostre soluzioni comuni”, ha affermato. In un’intervista rilasciata all’emittente turca NTV venerdì sera, Fidan ha affermato che l’eliminazione delle YPG era “l’obiettivo strategico” della Turchia e ha esortato i comandanti del gruppo a lasciare la Siria. Ha inoltre criticato l’Occidente, affermando che sta utilizzando il PKK per mettere in sicurezza i campi di detenzione in cui sono detenuti i combattenti dello Stato Islamico e che, attraverso questo ruolo, il PKK sta “ricattando” la comunità internazionale.
• CESSATE IL FUOCO A GAZA
Durante i suoi incontri in Turchia, Blinken ha anche insistito sull’importanza di un cessate il fuoco per porre fine alle ostilità tra Hamas e Israele a Gaza, mentre Washington tenta nuovamente di concludere un accordo che sfugge all’amministrazione del presidente Joe Biden da oltre un anno. “Nei miei colloqui con il presidente Erdogan e con il ministro Fidan abbiamo parlato dell’imperativo che Hamas dica sì all’accordo (di Gaza) affinché sia possibile contribuire finalmente a porre fine a tutto questo”, ha affermato Blinken dopo l’incontro con Fidan. “Apprezziamo molto il ruolo che la Turchia può svolgere nell’usare la sua voce presso Hamas per cercare di porre fine a questa situazione”. Hamas ha ammorbidito la sua posizione nei colloqui di cessate il fuoco e la Turchia ha iniziato a esercitare la sua influenza sul gruppo da quando molti leader di Hamas si sono trasferiti da Doha a Istanbul, ha affermato un funzionario statunitense.
(Rights Reporter, 14 dicembre 2024)
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Le donne riserviste israeliane: in divisa dal 7 ottobre lontane dai figli per amore d’Israele
di Michelle Zarfati
Da quando il 7 ottobre del 2023 Hamas ha colpito Israele con un pogrom senza precedenti, centinaia di migliaia di riservisti hanno preso di nuovo servizio nell’IDF. Non solo uomini, ma anche moltissime donne: mogli e madri che hanno lasciato i loro figli, i loro mariti e la loro vita per trascorrere giorni e notti in uniforme. Le donne che hanno dato, e danno quotidianamente, così tanto ad Israele hanno parlato delle difficoltà del lungo servizio di riserva delle difficoltà e dei successi al notiziario Israeliano Ynet.
Tra loro c’è il Soldato Maggiore S, 44 anni, da Ein HaBesor. La donna, che presta servizio come ufficiale operativo in un’unità classificata, ha già completato più di 300 giorni nelle riserve dal 7 ottobre. Non appena è atterrata in Israele il 7 ottobre da una vacanza all’estero, ha guidato dall’aeroporto a Ofakim e si è unita al sostegno dei feriti al Magen David Adom. Durante il suo volo di rimpatrio, i suoi figli Koren e Inbar sono stati chiusi nella casa del padre a Ein HaBesor. “Appena prima del decollo, sono riusciti a dirmi che avevano sentito degli spari e delle urla in arabo fuori dal finestrino. Ho detto loro di nascondersi. Ero terrorizzata”. Dopo una notte insonne in ambulanza, tra l’evacuazione dei feriti e la fornitura di cure a terra, S. è andata a trovare i suoi figli. “È stato un grande sollievo, ho potuto respirare di nuovo”, ha raccontato la donna. Da allora, i due non hanno avuto modo di vedere molto la madre, che viaggia tra le basi in tutto il paese. “Sto facendo qualcosa di grande, ma non posso condividere nulla con loro, e questa è la cosa più difficile”. Koren ha rivelato che le manca sua madre, soprattutto quando ha iniziato una nuova scuola a Tel Aviv, dove sono stati evacuati, o durante il suo quindicesimo compleanno, che avrebbe voluto festeggiare assieme a lei”.
C’è anche Noa Tom e i suoi figli Gali di 8 anni, Omer di 5 e Yuval di 2, una famiglia di Zikhron Ya’akov. “Ho prestato servizio nelle riserve per 20 anni, sono stata anche chiamata nella seconda guerra del Libano”, dice il maggiore Noa Tom, 41 anni, ufficiale di addestramento nella 55a divisione. “I bambini sono abituati a vedere la madre in uniforme, ma non con questa intensità. Ora è davvero come se fossi tornata in servizio”. La donna, per più di un anno, ha accompagnato le forze, spostandosi tra la Striscia di Gaza e il Libano , dormendo in una tenda per mesi. “La divisione è composta principalmente da uomini, dal soldato al comandante di divisione – ha raccontato – di solito sono l’unica donna nella divisione. Vorrei davvero vivere in un mondo in cui non ci sia bisogno di fare articoli sulle madri riserviste. In un mondo che funziona è ovvio che sia l’uomo che la donna prestano servizio come riserve. In questo modo, smetteranno di dire a mio marito, ‘Bel lavoro con i bambini’, e di dire a me, ‘Grazie per il tuo servizio'”. Il 7 ottobre, Noa ha fatto la valigia, ha salutato il marito e i figli ed è partita per la base militare. “I miei figli sono fortunati perché il papà è più tenero della mamma, è il migliore”. Da allora, ogni volta che fa la valigia e prende la sua arma in mano “i bambini capiscono che il mio tempo a casa è finito e che sto tornando nell’esercito. Piangono molto, quindi li calmo e prometto di tornare presto”.
C’è poi il soldato Maggiore A. e i suoi figli Yiftah, 9 anni, Eti, 7 anni, e Negev, 5 anni, residenti in un moshav nel centro di Israele. “Da quando è scoppiata la guerra, A. e suo marito, il Maggiore Assaf, indossarono l’uniforme insieme. Lei controlla i voli dell’aeronautica e lui è un soldato combattente. Da ottobre, lasciano i loro tre figli e cinque cani a casa “Grazie al cielo ci sono i nonni”, ha detto A. descrivendo con orgoglio il suo lavoro: “Sono responsabile della gestione dello spazio aereo di Israele. Sono in allerta 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per identificare le minacce nell’area e realizzare una valutazione precisa”. Grazie al suo ruolo, è anche responsabile del coordinamento delle forze di terra. “Sapevo sempre dove si trovava mio marito”, ha raccontato. “Da un lato, dovevo restare concentrata sulla missione, dall’altro, avevo paura quando lui era sul campo. In qualsiasi evento insolito o evacuazione di soldati feriti, dovevo disconnettere le mie emozioni e non farmi trasportare dalla paura che mio marito poteva esser ferito o peggio.
A. afferma che la sfida più significativa sono le transizioni. “Dal gestire vite umane e missioni di importanza nazionale, torno a casa ad una pila di panni da lavare e al fare la spesa”. “La mamma dice agli aerei dove volare e papà sta combattendo a Gaza. In un attimo, entrambi i miei genitori hanno lasciato il lavoro per andare nell’esercito e da allora sono nella riserva. È dura perché non sono con me, o vengono per un po’ e poi vanno via – ha detto Yiftah, la figlia di nove anni – nel frattempo, sono con i miei nonni, che amo molto, ma non possono sostituire i miei genitori. Sto aspettando che la guerra finisca così da tornare presto ad essere una famiglia come prima”.
(Shalom, 13 dicembre 2024)
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Antisemitismo – Torna l’indagine triennale del JDC
«Immagino che il trauma sia ancora in corso. Sembra che sia il 7 ottobre ancora e ancora, ogni giorno. La mia vita e la vita di ogni ebreo che conosco sono cambiate da allora. Mi sento meno al sicuro, meno accettato, meno integrato in una società in cui pensavo di appartenere». A parlare è un professionista iscritto a una Comunità ebraica italiana. Il suo pensiero rispecchia l’opinione della maggioranza degli ebrei non solo italiani, ma europei, come emerge dalla sesta Indagine sui dirigenti e sui professionisti delle comunità ebraiche europee realizzata dal Centro internazionale per lo sviluppo comunitario (JDC-ICCD) e diretta da Marcelo Dimentstein. Uno strumento nato nel 2008 per inquadrare le sfide presenti e future dell’ebraismo europeo, che oggi fa i conti con una società stravolta dal 7 ottobre. «La simultanea crescita degli incidenti antisemiti e delle proteste antisraeliane in tutta Europa è stata la principale preoccupazione per i dirigenti ebrei del continente. Questo sondaggio fornisce dati preziosi sull’aumento dei livelli di isolamento, insicurezza e paura tra gli ebrei europei, assieme al crescente desiderio di riunirsi in comunità», spiega Stefano Oscar, direttore regionale di JDC Europa, nella presentazione dell’indagine. Una ricerca a cadenza triennale a cui ha lavorato la sociologa Betti Guetta della Fondazione Cdec e a cui ha collaborato l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Il sondaggio è stato condotto online in dieci lingue, hanno risposto 879 intervistati provenienti da 32 paesi europei ed è stata inserita una sezione dedicata agli effetti del 7 ottobre.
Come nell’edizione precedente (2021), la lotta all’antisemitismo si conferma in cima alle priorità della leadership ebraica. Pensare che nel 2011 era al settimo posto. Un passato lontano. Il senso di insicurezza e di isolamento, raccontano i dati dell’indagine, sono cresciuti ovunque. «Un significativo 38% degli intervistati ha riferito che le proprie istituzioni hanno subito episodi di antisemitismo dal 7 ottobre, e un’ampia maggioranza (78%) afferma che è diventato meno sicuro vivere e praticare il proprio ebraismo», si legge nella ricerca, che sarà presentata durante il prossimo Consiglio Ucei. Ci si sente molto meno liberi di girare per le strade con la kippah o con segni che possano identificare la propria identità ebraica. Anche con gli amici fuori dal mondo ebraico sono aumentate le distanze e le incomprensioni.
All’insicurezza e al senso di isolamento, sottolinea la leadership ebraica, le persone hanno risposto con una maggiore partecipazione alle attività delle rispettive comunità e con un maggior sostegno a Israele. «La stragrande maggioranza degli intervistati, l’82%, ha riferito che il proprio impegno nei confronti di Israele è stato più forte dopo il 7 ottobre e una maggioranza crescente ha affermato che tutti gli ebrei hanno la responsabilità di sostenere Israele e di farlo incondizionatamente», spiegano gli autori dell’indagine.
In un clima di timori e diffidenza ci si attenderebbe anche una maggior propensione all’emigrazione e invece questo dato rispetto al 2021 non è aumentato. Segno di un impegno a resistere agli stravolgimenti dell’ultimo anno. Il pessimismo sul futuro dell’Europa non viene nascosto – pur con significative differenze tra Europa occidentale (più negativa) ed orientale (più ottimista) – ma si risponde rafforzando i legami interni.
• IL PANORAMA ITALIANO
L’indagine ha poi un focus sull’Italia in cui si registrano trend coerenti con il resto d’Europa, con alcune differenze. Ad esempio l’80% degli intervistati dichiara di sentirsi al sicuro a vivere come ebreo nella propria città contro il 73% della media europea (considerando l’Europa occidentale la media è ancor più bassa, 67%). Resta, come in passato, una significativa preoccupazione per il declino demografico di cui risente l’ebraismo italiano (per l’85% degli intervistati italiani è una minaccia seria, contro il 64% dei colleghi europei).
Tanti da mettere in fila e analizzare, sottolineano gli autori della ricerca, per cercare di trarne delle politiche concrete da applicare per il futuro. «La speranza di JDC-ICCD», scrive a riguardo Oscar, «è che le informazioni contenute in questa indagine servano da guida per la leadership delle comunità ebraiche in tutta Europa per aiutare a pianificare e innovare, rafforzare la vita ebraica per le generazioni a venire, trasformando le sfide in opportunità». d.r.
(moked, 13 dicembre 2024)
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Parashat Vayishlach. La fede, un viaggio continuo
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Perché Giacobbe è il padre del nostro popolo, l’eroe della nostra fede? Noi siamo “la comunità di Giacobbe”, “i figli di Israele”. Eppure è stato Abramo a iniziare il cammino ebraico, Isacco a essere disposto al sacrificio, Giuseppe a salvare la sua famiglia negli anni della carestia, Mosè a condurre il popolo fuori dall’Egitto e a darne le leggi. Fu Giosuè a portare il popolo nella Terra Promessa, Davide a diventarne il più grande re, Salomone a costruire il Tempio e i profeti che, attraverso i secoli, divennero la voce di Dio. Il racconto di Giacobbe nella Torà sembra essere inferiore a queste altre vite, almeno se leggiamo il testo alla lettera. Ha rapporti tesi con il fratello Esaù, con le mogli Rachel e Leah, con il suocero Labano e con i tre figli maggiori, Ruben, Simone e Levi. Ci sono momenti in cui sembra pieno di paura, altri in cui agisce – o almeno sembra agire – con meno di una totale onestà. Rispondendo al Faraone, dice di sé: “I giorni della mia vita sono stati pochi e difficili” (Genesi 47:9). È meno di quanto ci si possa aspettare da un eroe della fede. Ecco perché gran parte dell’immagine che abbiamo di Giacobbe è filtrata attraverso la lente del Midrash, la tradizione orale conservata dai Saggi. In questa tradizione, Giacobbe è tutto buono, Esaù tutto cattivo. Doveva essere così – sosteneva Rabbi Zvi Hirsch Chajes (1805-1855) nel suo saggio sulla natura dell’interpretazione del midrash – perché altrimenti avremmo avuto difficoltà a trarre dal testo biblico un chiaro senso di giusto e sbagliato, di buono e cattivo. La Torà è un libro eccezionalmente impercettibile, e i libri così tendono a essere fraintesi. Così la Tradizione orale ha semplificato le cose: bianco e nero invece di sfumature di grigio. Tuttavia, forse, anche senza il Midrash, possiamo trovare una risposta – e il modo migliore per farlo è pensare all’idea di un viaggio. L’ebraismo parla di fede come di un viaggio. Inizia con il viaggio di Abramo e Sara, che si lasciano alle spalle la loro “terra, il luogo di nascita e la casa paterna” e viaggiano verso una destinazione sconosciuta, “la terra che ti mostrerò”. Il popolo ebraico è definito da un altro viaggio, in un’epoca diversa: il viaggio di Mosè e degli israeliti dall’Egitto attraverso il deserto fino alla Terra Promessa. Quel viaggio diventa una litania nella parashà di Masè: “Partirono da X e si accamparono in Y. Partirono da Y e si accamparono in Z”. Essere ebrei significa muoversi, viaggiare e solo raramente, se non mai, stabilirsi. Mosè mette in guardia il popolo dal pericolo di stabilirsi e di dare per scontato lo status quo, anche nello stesso Israele: “Quando avrete figli e nipoti e vi sarete stabiliti nel paese per molto tempo, potreste diventare decadenti”. (Deuteronomio 4:25) Da qui le regole per cui Israele deve sempre ricordare il suo passato, non dimenticare mai gli anni di schiavitù in Egitto, non dimenticare mai a Succot che i nostri antenati un tempo vivevano in abitazioni temporanee, non dimenticare mai che la terra non è di nostra proprietà – appartiene a Dio – e che noi siamo lì solo come gherim ve-toshavim di Dio, “stranieri e residenti di Dio” (Levitico 25:23). Perché? Perché essere ebrei significa non essere pienamente a casa nel mondo. Essere ebrei significa vivere nella tensione tra cielo e terra, tra creazione e rivelazione, tra il mondo che è e il mondo che siamo chiamati a creare; tra esilio e casa, tra l’universalità della condizione umana e la particolarità dell’identità ebraica. Gli ebrei non stanno fermi se non quando si trovano davanti a Dio. L’universo, dalle galassie alle particelle subatomiche, è in costante movimento, e così l’anima ebraica. Siamo, crediamo, in una combinazione instabile di polvere della terra e respiro di Dio e questo ci chiama costantemente a prendere decisioni, a fare scelte, che ci faranno crescere fino a diventare grandi come i nostri ideali o, se scegliamo male, ci faranno raggrinzire in piccole e petulanti creature ossessionate dalla banalità. La vita come viaggio significa sforzarsi ogni giorno di essere più grandi del giorno prima, individualmente e collettivamente. Se il concetto di viaggio è una metafora centrale della vita ebraica, qual è la differenza tra Abramo, Isacco e Giacobbe? La vita di Abramo è incorniciata da due viaggi che utilizzano entrambi la frase Lech Lechà, “intraprendere un viaggio”: una volta in Genesi 12 quando gli viene detto di lasciare la sua terra e la casa paterna, l’altra in Genesi 22:2 al momento della legatura di Isacco, quando gli viene detto “Prendi tuo figlio, l’unico che ami – Isacco – e vai [lech lecha] nella regione di Moriah”. Ciò che è così commovente in Abramo è che egli va, immediatamente e senza fare domande, nonostante il fatto che entrambi i viaggi siano strazianti in termini umani. Nel primo deve lasciare suo padre. Nel secondo deve lasciare suo figlio. Deve dire addio al passato e rischiare di dire addio al futuro. Abramo è fede pura. Ama Dio e si fida assolutamente di Lui. Non tutti possono raggiungere questo tipo di fede. È quasi sovrumana. Isacco è l’opposto. È come se Abramo, conoscendo i sacrifici emotivi che ha dovuto fare, conoscendo anche il trauma che Isacco deve aver provato al momento della “Legatura”, cercasse di proteggere suo figlio per quanto è in suo potere. Si assicura che Isacco non lasci la Terra Santa (cfr. Genesi 24:6 – per questo Abramo non lo lasciò viaggiare per cercare una moglie). L’unico viaggio di Isacco (nella terra dei Filistei, in Genesi 26) è limitato e locale. La vita di Isacco è una breve tregua rispetto all’esistenza nomade di Abramo e Giacobbe. Giacobbe è ancora diverso. Ciò che lo rende unico è che ha i suoi incontri più intensi con Dio – sono i più drammatici di tutto il libro della Genesi – nel mezzo del viaggio, da solo, di notte, lontano da casa, fuggendo da un pericolo all’altro, da Esaù a Labano nel viaggio di andata, da Labano a Esaù nel ritorno. Nel mezzo del primo viaggio ha la rivelazione sfolgorante della scala che si estende dalla terra al cielo, con gli angeli che salgono e scendono, che lo porta a dire al risveglio: “Dio è veramente in questo luogo, ma io non lo sapevo…”. Questa deve essere la casa di Dio e questa la porta del cielo” (Genesi 28:16-17). Nessuno degli altri patriarchi, nemmeno Mosè, ha una visione simile. Il secondo viaggio, nella nostra Parashà, ha l’inquietante ed enigmatico incontro di lotta con l’uomo/angelo/Dio, che lo lascia zoppicante ma trasformato in modo permanente – l’unica persona nella Torà che ha ricevuto da Dio un nome completamente nuovo, Israele, che può significare “uno che ha lottato con Dio e con gli uomini” o “uno che è diventato un principe [sar] davanti a Dio”. L’aspetto affascinante è che gli incontri di Giacobbe con gli angeli sono descritti dallo stesso verbo – פגע’ -‘p-g-‘a, (Genesi 28:11 e Genesi 32:2) che significa “un incontro casuale”, come se avessero colto Giacobbe di sorpresa, cosa che evidentemente fecero. I momenti più spirituali di Giacobbe sono quelli che non aveva pianificato. Pensava ad altre cose, a ciò che si lasciava alle spalle e a ciò che lo aspettava. È stato, per così dire, “sorpreso da Dio”. Giacobbe è una persona con cui possiamo identificarci. Non tutti possono aspirare alla fede amorevole e alla fiducia totale di Abramo o alla solitudine di Isacco. Ma Giacobbe è una persona che possiamo capire. Possiamo sentire la sua paura, comprendere il suo dolore per le tensioni nella sua famiglia e simpatizzare con il suo profondo desiderio di una vita di quiete e di pace (i Saggi dicono, a proposito dell’incipit della Parashà della prossima settimana, che “Giacobbe desiderava vivere in pace, ma fu immediatamente spinto nei problemi di Giuseppe”). Il punto non è solo che Giacobbe è il più umano dei patriarchi, ma piuttosto che, nel profondo della sua disperazione, viene innalzato alle più alte vette della spiritualità. È l’uomo che incontra gli angeli. È la persona sorpresa da Dio. È colui che, proprio nei momenti in cui si sente più solo, scopre di non esserlo, che Dio è con lui, che è accompagnato dagli angeli. Il messaggio di Giacobbe definisce l’esistenza ebraica. Il nostro destino è viaggiare. Siamo un popolo inquieto. Rare e brevi sono state le nostre parentesi di pace. Ma nel buio della notte ci siamo trovati sollevati da una forza di fede che non sapevamo di avere, circondati da angeli che non sapevamo esistessero. Se camminiamo sulla via di Giacobbe, anche noi possiamo trovarci sorpresi da Dio.
- Redazione Rabbi Jonathan Sacks zz
(Bet Magazine Mosaico, 13 dicembre 2024)
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Parashà della settimana: Va-ishlach (Mandò avanti)
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Il mondo è stupito e l'Iran è arrabbiato
Forse l'Iran stesso è stupito di come le cose sono andate a favore di Israele negli ultimi mesi.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Se i chierici e i leader sciiti sono così religiosi come fingono di essere nei loro discorsi di odio contro Israele e i sionisti, devono chiedersi, a porte chiuse, che tipo di Dio potente stia combattendo per Israele. Tutti i loro slogan su Allah Al-Aksa, Al-Quds, la conquista di Gerusalemme e la distruzione di Israele sono andati in frantumi. Le continue grida di “Allah hu Akbar” non sono altro che un trauma pop e non hanno contribuito in alcun modo ai loro desideri e piani. Naturalmente, gli iraniani sono frustrati e arrabbiati perché ammettere la sconfitta è percepito nella nostra regione come un segno di debolezza, che indebolisce la posizione del governo a livello interno e internazionale. Il regime dei mullah di Teheran ha una struttura politica caratterizzata da orgoglio e forza ideologica, soprattutto quando si tratta di resistere all'Occidente e ai suoi alleati. I terroristi palestinesi di Gaza hanno coinvolto l'Iran e Hezbollah in una costosa avventura militare per la quale l'Iran sta pagando un prezzo altissimo e ha perso l'esistenza dell'asse sciita. Peggio ancora, Hamas è sunnita e non sciita come Hezbollah. E ora sono maledetti mille volte di più a Teheran solo perché sono terroristi sunniti. Gli Hezbollah, alleati dell'Iran in Libano, e il regime di Assad in Siria sono finiti, e devono ringraziare i sunniti di Gaza. È così che ragionano le loro teste. L'attacco a sorpresa di Hamas ha costretto l'Iran e Hezbollah a combattere contro Israele per venire in aiuto di Hamas nella Striscia di Gaza. Israele non solo ha eliminato l'intera leadership di Hamas sul terreno, ma anche Ismail Haniyeh e il suo vice Saleh al-Arouri all'estero, così come l'intera leadership terroristica e politica di Hezbollah, compreso Hassan Nasrallah. Israele ha anche distrutto circa il 70% dell'arsenale missilistico della milizia terroristica. L'Iran ha investito più di 40 anni nell'asse del terrore sciita in Medio Oriente e ora tutto è crollato. Secondo fonti di intelligence occidentali, l'Iran è il principale perdente dell'attacco a sorpresa contro Israele del 7 ottobre. L'imminente insediamento del neoeletto Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il 20 gennaio, rischia di peggiorare ulteriormente la situazione strategica dell'Iran. Il quotidiano britannico The Telegraph ha riferito che la leadership iraniana si è sentita in imbarazzo per la situazione in Siria e si stanno accusando a vicenda. “L'atmosfera qui è quasi da scontro fisico, con persone che sbattono sui muri, si urlano addosso e prendono a calci i bidoni della spazzatura. Si accusano a vicenda e nessuno si assume la responsabilità”, ha dichiarato una fonte. Dalla caduta del regime di Assad, si è sviluppata una “guerra di recriminazioni” all'interno delle Guardie rivoluzionarie, in cui i responsabili del fallimento sono ricercati a Teheran. La fonte ha aggiunto: “Nessuno ha mai pensato che Assad sarebbe fuggito perché per dieci anni ci si è concentrati solo sul mantenerlo al potere. Non perché ci piacesse, ma perché volevamo garantire la vicinanza a Israele e a Hezbollah”. Le lamentele iraniane continuano. Un comandante delle Guardie Rivoluzionarie sul crollo del regime di Assad: “Sapevamo dei movimenti dei ribelli diversi mesi fa, ma non facciamo la guerra in un altro Paese mentre l'esercito di quel Paese se ne sta con le mani in mano”. Fonti di intelligence occidentali riferiscono che l'Iran è furioso con la leadership di Hamas, in particolare con Yahya Sinwar, che nel frattempo è stato eliminato. Sinwar si era servito dell'Iran e di Hezbollah per costruire le infrastrutture militari di Hamas nella Striscia di Gaza. Tuttavia, non ha rivelato la data esatta dell'attacco a sorpresa alle città israeliane di confine, il 7 ottobre 2023. A seguito di questa mossa e del massacro nel sud di Israele, l'Iran ha perso il suo prestigio terroristico. Di conseguenza, il regime di Assad è crollato pochi giorni fa con un effetto domino. Secondo fonti di intelligence occidentali, la guerra in Siria tra le milizie jihadiste e l'esercito siriano di Assad (che non esiste più) ha rivelato la profondità della crisi in cui si trova l'Iran.
Sinwar voleva raccogliere una gloria personale per il suo attacco “Flood Jerusalem” e passare alla storia come l'architetto musulmano sunnita dell'operazione, simile al capo militare musulmano Saladino, che liberò Gerusalemme dai crociati nel 1187. Sinwar non voleva dare il minimo riconoscimento all'asse sciita guidato dall'Iran. A posteriori, la sua strategia si è rivelata vincente, poiché l'Iran e i suoi alleati sono stati involontariamente coinvolti nel conflitto contro Israele. Secondo fonti di intelligence occidentali, l'attacco di Sinwar a Israele ha portato infine a un confronto militare diretto tra Iran e Israele. Di conseguenza, l'Iran ha perso il suo sistema di difesa aerea strategica e le sue strutture nucleari sono ora vulnerabili agli attacchi israeliani. Inoltre, l'attacco ha innescato un effetto domino in Medio Oriente che mette a rischio gli interessi dell'Iran. La Turchia, membro della NATO ed economicamente molto più forte dell'Iran, sta intervenendo nel conflitto siriano e anche Israele minaccia di intervenire militarmente in Siria se i suoi interessi di sicurezza sono minacciati. L'Iran sta quindi perdendo il dominio militare ed economico che ha costruito in Siria dal 2011. Un'altra fonte delle Guardie Rivoluzionarie ha commentato la possibilità di continuare a rifornire Hezbollah di armi dopo la perdita della sua influenza in Siria: “Ci deve essere qualcuno sul terreno che può inviare armi, ma loro (la gente e i soldati di Assad) o vengono uccisi o fuggono. Al momento ci stiamo concentrando per uscire da questa impasse. Non ci sono discussioni sulle forniture di armi perché tutti cercano di capire cosa stia realmente accadendo e quanto questo metta a rischio l'Iran”. All'esterno, il regime iraniano sta cercando di fingere la normalità. Ebrahim Rezaei, portavoce del Comitato per la sicurezza nazionale in Parlamento, ha parlato della sessione a porte chiuse del comitato in un'intervista all'agenzia di stampa iraniana Mehr. Alla riunione hanno partecipato il Comandante in capo delle Guardie rivoluzionarie, generale Hossein Salami, e cinque parlamentari che hanno espresso le loro opinioni su questioni nazionali e regionali. Rezaei ha dichiarato: “Il generale Salami ha analizzato la situazione nella regione e ha sottolineato che non siamo stati indeboliti e che il potere dell'Iran non è diminuito in alcun modo. Ha anche ribadito che il rovesciamento del regime sionista rimane nella nostra agenda”. La Bibbia descrive situazioni in cui i nemici di Israele riconoscono la potenza del Dio di Israele e il suo ruolo nei successi di Israele nelle guerre. Durante le dieci piaghe, il faraone e gli egiziani riconobbero il potere di Dio come sovrano di tutto il creato. Anche se era difficile per il Faraone ammetterlo apertamente, a volte dice che “il Signore è giusto” e capisce che il potere che sta dietro le piaghe è di origine divina. Rahab, la prostituta di Gerico, disse alle spie: “Abbiamo sentito come il Signore ha prosciugato le acque del Mar Rosso davanti a voi, quando siete usciti dall'Egitto, e cosa avete fatto ai due re degli Amorrei, Sihon e Og, al di là del Giordano, sui quali avete eseguito il bando” (Giosuè 2). Quando i Filistei seppero che l'Arca dell'Alleanza era stata portata nell'accampamento di Israele, furono presi dal panico e dissero: “Guai a noi! Chi ci libererà dalla mano di questi potenti dèi? Questi sono gli dèi che hanno colpito gli Egiziani nel deserto con ogni sorta di piaghe!” (1 Samuele 4). Oppure, dopo che i tre testimoni della fede Shadrach, Meshach e Abednego erano usciti illesi dalla fornace ardente, Nabucodonosor disse: “Benedetto sia il Dio di Shadrach, Meshach e Abednego, che ha mandato il suo angelo e ha liberato i suoi servi che hanno confidato in lui e hanno trasgredito il comandamento del re e hanno rinunciato ai loro corpi perché non adoravano e non adorano altro dio che il loro Dio soltanto!” (Daniele 3). Sì, i nemici di Israele nella Bibbia riconoscono spesso la potenza del Dio di Israele, soprattutto quando sperimentano apparenti miracoli o subiscono sconfitte che naturalmente sembrano loro inspiegabili. Questo riconoscimento non sempre li portava a cambiare strada, ma rifletteva la soggezione e la comprensione del potere del Dio di Israele nelle guerre e nella storia. E sì, Israele sta vedendo miracoli davanti ai suoi occhi in questi giorni, e i nostri nemici non vogliono ammetterlo davanti alle telecamere, ma abbiamo agenzie di intelligence e fonti che lo rivelano a porte chiuse.
(Israel Heute, 13 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Si sarà notata la facilità con cui il direttore di "Israel heute" cita passi della Bibbia. Questo dipende certamente dalla famiglia in cui è cresciuto, in cui il padre Ludwig Schneider (che ho personalmente conosciuto) era un ebreo tedesco convertito a Cristo che ha fatto crescere i suoi nove figli in Israele. Per favorire la conoscenza di Israele in Germania, ha scritto un libro dal titolo 100 Fragen an Israel: was Sie schon immer wissen wollten (100 domande a Israele: quello che Lei avrebbe sempre voluto sapere). Riportiamo qui la domanda numero 32. M.C.
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“Possono essere salvati gli ebrei senza Gesù?”
Il Nuovo Testamento afferma inequivocabilmente che Gesù (in ebraico Yeshua) è diventato la pietra angolare e che la salvezza non si trova in nessun altro, perché non c'è altro nome sotto il cielo con cui noi uomini possiamo essere salvati (Atti 4:11-12). La validità di questa affermazione non può essere contestata. Gesù stesso dice: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6). Questo ricorda la storia di Giuseppe (Genesi, capitoli 37-50), in cui Giuseppe funge da prototipo del Messia. I fratelli di Giuseppe sono stati salvati da Giuseppe molto prima che lo riconoscessero come loro fratello. La consapevolezza che lo “straniero” fosse in realtà Giuseppe, il loro fratello, arrivò solo in seguito. Allo stesso modo, la consapevolezza che Yeshua è il Messia arriverà solo dopo, quando “guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zaccaria 12:10). Gli ebrei pregano da tempo nella loro benedizione settimanale della Hawdala: “L’Eterno è diventato Yeshua (salvezza) per me. Berrete con gioia l'acqua delle sorgenti di Yeshua (salvezza). Alzo il calice di Yeshua (salvezza) e invoco il nome dell'Eterno”.
Yeshua, non ancora riconosciuto dagli ebrei, provvede già ai suoi fratelli? Così come c'è una grazia che segue, c'è forse anche una grazia che precede? “O Signore, Tu lo sai!”.
(da “100 Fragen an Israel: was Sie schon immer wissen wollten”, Hänssler Verlag, 1997)
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Ora Israele valuta seriamente un attacco ai siti nucleari iraniani
Il controllo completo dei cieli siriani permette a Israele di studiare con più facilità un attacco ai siti nucleari iraniani
di Paola P. Goldberger
Le Forze di difesa israeliane (IDF) ritengono che, in seguito all’indebolimento dei gruppi paramilitari iraniani in Medio Oriente e alla drammatica caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria, ci sia la possibilità di colpire gli impianti nucleari iraniani. L’aeronautica militare israeliana (IAF) ha quindi continuato ad aumentare la propria prontezza e i preparativi per possibili attacchi in Iran. L’IDF ritiene inoltre che l’Iran, isolato dopo la caduta del regime di Assad e dall’indebolimento di Hezbollah in Libano, potrebbe proseguire con il suo programma nucleare e sviluppare una bomba, nel tentativo di ricostruire la propria deterrenza. L’Iran ha sempre negato di voler dotarsi di armi nucleari e afferma che sia il suo programma spaziale sia le sue attività nucleari hanno scopi puramente civili. Tuttavia, le agenzie di intelligence statunitensi e l’AIEA affermano che l’Iran aveva un programma nucleare militare organizzato fino al 2003 e ha continuato a sviluppare il suo programma nucleare oltre le necessità civili. Israele sostiene che la Repubblica islamica non ha mai veramente abbandonato il suo programma di armi nucleari e molti dei suoi siti nucleari sono sepolti sotto montagne pesantemente fortificate. L’Iran è impegnato nella distruzione di Israele. Nell’ultimo anno, ha lanciato due volte massicce raffiche di missili contro Israele, che ha giurato di impedire a Teheran di ottenere armi nucleari. Israele, dal canto suo, ha colpito importanti strutture militari iraniane come rappresaglia per entrambi gli attacchi, avvenuti nel contesto di una guerra su più fronti aperta dai terroristi iraniani contro lo stato ebraico.
• SUPERIORITÀ AEREA COMPLETA IN SIRIA Giovedì, l’IAF ha dichiarato che, dopo oltre un decennio di elusione delle difese aeree sui cieli della Siria durante una campagna contro la fornitura di armi da parte dell’Iran a Hezbollah, aveva raggiunto la superiorità aerea totale nella zona. Questa superiorità aerea sulla Siria potrebbe consentire un passaggio più sicuro agli aerei dell’IAF per lanciare un attacco contro l’Iran, hanno affermato fonti militari. Una campagna di bombardamenti israeliana condotta all’inizio di questa settimana in Siria, volta a distruggere armamenti avanzati che potrebbero cadere nelle mani di elementi ostili dopo il crollo del regime di Bashar al-Assad, ha distrutto anche la maggior parte delle difese aeree del Paese. Secondo l’esercito, l’IAF ha distrutto l’86% dei sistemi di difesa aerea dell’ex regime di Assad in Siria, per un totale di 107 componenti separati di difesa aerea e altri 47 radar. I numeri includono l’80% del sistema di difesa aerea a corto e medio raggio SA-22, noto anche come Pantsir-S1, e il 90% del sistema di difesa aerea a medio raggio russo SA-17, noto anche come Buk. Entrambi i sistemi di fabbricazione russa avevano rappresentato una sfida per l’IAF durante la cosiddetta campagna tra le campagne, o Mabam , come è nota con l’acronimo ebraico, volta a contrastare le consegne di armi iraniane a Hezbollah in Libano e i tentativi da parte di gruppi sostenuti dall’Iran di mettere piede nel paese, campagna iniziata nel 2013. Ora in Siria restano solo pochi sistemi di difesa aerea, che non sono considerati una minaccia seria per l’IAF, che ha dichiarato di poter operare liberamente nei cieli del Paese. “Il sistema di difesa aerea siriano è uno dei più potenti in Medio Oriente e il colpo infertogli rappresenta un risultato significativo per la superiorità dell’Aeronautica nella regione”, ha affermato l’IDF in una nota. La nuova libertà di azione aerea offre all’IAF anche nuove opportunità in Siria, oltre a potenziali attacchi in Iran. Se in passato l’IAF non avrebbe sorvolato direttamente Damasco quando effettuava attacchi su obiettivi legati all’Iran nella capitale, ora può farlo. L’IAF può anche inviare droni di sorveglianza sulla capitale siriana senza il timore che vengano abbattuti dagli avanzati sistemi di difesa aerea di fabbricazione russa.
• HEZBOLLAH CERCA DI IMPOSSESSARSI DELLE ARMI DI ASSAD Nonostante la caduta del regime di Assad, sostenuto dall’Iran, Israele ha affermato che avrebbe continuato a operare in Siria per garantire che le armi avanzate dell’esercito di Assad non raggiungessero Hezbollah in Libano o qualsiasi altro gruppo ostile a Israele nella regione. La campagna di bombardamenti di domenica e lunedì, iniziata ore dopo la caduta del regime di Assad, ha colpito anche basi aeree siriane, depositi di armi, siti di produzione di armi e siti di armi chimiche, oltre ai sistemi di difesa aerea. Gli attacchi hanno distrutto centinaia di missili e sistemi correlati, 27 jet da combattimento, tra cui SU-22 e SU-24, 24 elicotteri e altro ancora. Gli attacchi della Marina israeliana hanno anche distrutto 15 navi militari siriane. In totale, l’IAF ha utilizzato 1.800 munizioni negli attacchi, distruggendo quasi tutti i siti con “capacità militari strategiche” di cui Israele era a conoscenza. L’IDF ha valutato di non aver distrutto tutte le capacità militari del regime di Assad e Hezbollah cercherà sicuramente di mettere le mani su tutte le armi avanzate finora risparmiate. Secondo le valutazioni dell’IDF, le possibilità che armi provenienti dalla Siria raggiungano Hezbollah in Libano sono considerate elevate. Per impedire che le armi raggiungano Hezbollah, l’IAF ha bombardato tutti i valichi di frontiera tra Siria e Libano, lasciandone solo uno, Masnaa, aperto al traffico pedonale. L’IAF ha affermato di monitorare costantemente i valichi per assicurarsi che Hezbollah non vi ritorni per prelevare armi. Allo stesso tempo, l’esercito ritiene anche di aver inferto un duro colpo alle capacità di produzione di armi dell’intero asse guidato dall’Iran, in Libano, Siria e nello stesso Iran, con l’attacco di ottobre in risposta all’attacco missilistico balistico di Teheran.
(Rights Reporter, 13 dicembre 2024)
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Drusi del sud della Siria chiedono l'annessione del loro villaggio a Israele
La richiesta di annessione segna un radicale cambiamento di atteggiamento tra gli abitanti di Hader, un tempo fedeli al regime di Assad.
I video diffusi venerdì mattina mostrano un insolito raduno nel villaggio druso di Hader, nel sud della Siria, vicino al confine con Israele. Gli abitanti chiedono pubblicamente di essere legati allo Stato ebraico, esprimendo la loro riluttanza a vivere sotto la nuova autorità siriana.
Queste richieste però non sono unanimi, secondo un attivista dell'opposizione citato da Ynet, e stanno causando preoccupazione tra gli altri gruppi della Siria meridionale.
Hader presenta una situazione particolare: il villaggio è stato separato durante la Guerra dei Sei Giorni dagli altri quattro villaggi drusi che sono passati sotto il controllo israeliano - Majdal Shams, Restaurant, Buqaata e Ein Kiniya. Nel 2017, dopo un attacco mortale in cui sono state uccise nove persone, Tsahal si è impegnato pubblicamente a “proteggere i drusi e impedire l'occupazione del villaggio siriano di Hader”.
Questa richiesta di annessione segna un cambiamento radicale di atteggiamento. Gli abitanti di Hader, in passato fedeli al regime di Assad, si erano opposti a Tsahal anche con la violenza, in particolare durante le operazioni condotte con Hezbollah. Gli incidenti del 2013 e del 2015 hanno provocato diverse vittime, tra cui quattro abitanti del villaggio uccisi mentre preparavano un attacco.
Questa richiesta arriva sullo sfondo di una più ampia rivolta drusa. La scorsa settimana, la comunità ha preso il controllo di al-Sweida, una storica roccaforte drusa, dopo scontri con l'esercito siriano. Questa azione, approvata dal leader spirituale druso Sheikh Hekmat al-Hajri, ha portato al rilascio di prigionieri del regime.
Il comandante della forza che ha preso al-Sweida, Sheikh Lui, ha sottolineato che questa azione contro il regime è stata coordinata con l'organizzazione ribelle Hayat Tahrir al-Sham, un attore chiave nella caduta di Damasco.
(i24, 13 dicembre 2024)
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Le comunità ebraiche: 'Lo sciopero non è una piazza per l'odio per Israele'
"Se da cittadini comprendiamo le ragioni di uno sciopero pur con tutti i disagi, da cittadini di questo paese ribadiamo che uno sciopero non è una piazza dalla quale si annunciano slogan di odio e distorsione".
Così Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, in merito allo sciopero oggi.
"Leggiamo attoniti tra le motivazioni dello sciopero indetto per oggi e avallate anche dal Tar quella di esprimersi "contro il crescente coinvolgimento dell'Italia nei teatri di guerra tanto ad est quanto nel sostegno al genocida governo israeliano", trasformando così anche questo momento di rivendicazione salariale/sindacale in uno spazio prettamente prestato alla strumentalizzazione politica e alla distorsione che semina odio", aggiunge la presidente Ucei.
"In altre parole - prosegue Di Segni - il concetto è questo: va di moda il binomio Israele-genocidio e attrae attenzione? Usiamolo anche come sindacati per qualsiasi pretesa. E non importa che in altre parti del Medioriente e del mondo si è visto l'orrore proprio in questi giorni. Continuiamo ad insistere non solo per stigmatizzare l'abuso divenuto abitudine dei diritti costituzionali e dei fondamentali strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori, per di più attraverso un'azienda municipalizzata, ma anche sul diritto di Israele di difendersi e favorire negoziati in corso sostenendoli anziché frenarli con slogan e sentenze cieche di quanto realmente avviene e le minacce presenti anche nelle nostre democrazie europee".
• LA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA: NON RIMANIAMO IN SILENZIO
"Sgomento e sconcerto. Non ci sono altre parole per descrivere quello che proviamo leggendo che tra le motivazioni dello sciopero indetto dall'Unione sindacale di base c'è il sostegno dell'Italia al 'genocida governo israeliano'. Purtroppo, siamo di fronte all'emergere di un sentimento di odio verso Israele che prescinde da qualsiasi ragionevole contesto, e che non può avere altra spiegazione se non l'urgenza di esprimere - anche fuori luogo - un antisemitismo che cova da sempre. Che non è mai stato debellato. Il nostro compito è non restare in silenzio e denunciarlo. Sempre e comunque". Così Victor Fadlun, presidente della Comunità Ebraica di Roma, in merito allo sciopero di oggi.
(ANSA, 13 dicembre 2024)
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La comunità ebraica dovrebbe chiedersi se non avrebbe dovuto opporsi con maggiore convinzione e forza all'equiparazione tra guerra in Ucraina e guerra in Gaza, come guerre in cui entrambi vanno difesi in quanto parti dell'Occidente libero e buono contro il barbaro Oriente tirannico e cattivo. Adesso in piazza contro Israele ci sono Oriente (propal) e Occidente (sindacati) ben assortiti che parlano genericamente di "teatri di guerra tanto ad est quanto ad ovest". E ci sono i buoni che si mettono contro i cattivi, tra cui naturalmente emerge come sempre il governo israeliano, quello del genocidio. Viva l'Occidente! M.C.
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Rivelazione choc per legami con Hamas. La World Central Kitchen licenzia 62 dipendenti a Gaza
di Anna Coen
In questi giorni la World Central Kitchen (WCK), nota organizzazione umanitaria statunitense specializzata nell’assistenza alimentare durante le emergenze, è finita al centro di una controversia dopo aver licenziato 62 dipendenti nella Striscia di Gaza. La decisione segue le accuse di Israele secondo cui alcuni di questi lavoratori avrebbero legami con Hamas e con altre organizzazioni terroristiche che governano la zona. Secondo Reuters, alcuni di questi dipendenti avrebbero addirittura preso parte agli attentati del 7 ottobre costati la vita a oltre 1.200 persone in Israele. In un messaggio al personale, WCK ha confermato di aver «apportato delle modifiche» dopo che Israele ha chiesto un’indagine sulle sue pratiche di assunzione a Gaza. Tra i dipendenti licenziati spicca il caso di Kahad Azmi Kadih (noto anche come Ahed Azmi Qudeih), un palestinese accusato di aver preso parte agli attacchi di Nir Oz e successivamente ucciso in un raid aereo il 30 novembre. La WCK ha dichiarato di aver agito con i licenziamenti per motivi di sicurezza, ma ha sottolineato che Israele non ha fornito prove sufficienti per verificare pienamente le accuse e che non ha condiviso le sue informazioni di Intelligence: «Non conosciamo su cosa Israele si sia basata per denunciare questi individui», ha affermato l’organizzazione, aggiungendo che queste misure sono state adottate «per proteggere la nostra squadra e le nostre operazioni». L’organizzazione ha sospeso temporaneamente le operazioni a Gaza, manifestando preoccupazione per il suo personale e per la neutralità delle sue attività.
• IL COINVOLGIMENTO DI UNRWA E ALTRE ORGANIZZAZIONI Questa vicenda come noto non è isolata. L’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, è stata oggetto di critiche pesanti in questi mesi di conflitto per il presunto coinvolgimento di alcuni suoi dipendenti con Hamas e altre fazioni armate. Secondo quanto riportato da The Jewish Press a seguito di interviste e di un’analisi dei registri condivisi con il New York Times dall’esercito israeliano e dal Ministero degli Esteri, Israele avrebbe scoperto che almeno 24 dipendenti dell’UNRWA erano legati ad attività militanti, utilizzando le infrastrutture dell’agenzia per scopi bellici, come il deposito di armi e il lancio di razzi contro obiettivi israeliani.
(Bet Magazine Mosaico, 13 dicembre 2024)
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Trecentocinquanta attacchi aerei in sole 48 ore: cosa sta facendo l’IDF in Siria e perché?
di Sofia Tranchina
Dopo 14 truci anni di cui l’orrore si può soltanto evocare e non comprendere, tra torture e massacri insensati, il popolo siriano si concede di esultare. Ma, in mezzo ai festeggiamenti, i nodi irrisolti, le paure, le rivalità tra etnogruppi e le insidie ancora incombono sul Paese. Tra questi, i bombardamenti dell’IDF, che nel caos della rivoluzione ha trovato una finestra per condurre la più riuscita operazione di smantellamento delle forze siriane, senza temere di innescare una guerra diretta. L’IDF stima di aver annientato tra il 70 e l’80% delle capacità militari del precedente regime, con l’obiettivo dichiarato di impedire che – a seguito del crollo delle infrastrutture statali e della ritirata dell’esercito siriano – armi sofisticate abbandonate cadessero in mani sbagliate: Hezbollah, jihadisti, o altri gruppi ostili ancor più pericolosi dei precedenti proprietari. Con trecentocinquanta attacchi aerei, le IDF hanno colpito obiettivi strategici – basi aeree, depositi di armi, siti di produzione di armamenti e infrastrutture militari – a Damasco, Homs, Tartus, Palmira e Latakia, dove hanno distrutto le quindici navi che componevano la flotta della marina militare siriana. Quanto è vero che Assad era nemico di Israele e permetteva all’Iran di armare Hezbollah, è anche vero che dei nuovi padroni di casa si sa troppo poco per poter lasciare la sicurezza al caso. Nei quattordici anni di guerra civile Israele ha dato supporto umanitario, economico e bellico ai ribelli. Nel 2016 ha avviato l’iniziativa umanitaria Operazione Buon Vicino per fornire assistenza ai civili siriani colpiti dalla guerra e a costruire relazioni positive con la popolazione siriana. Sono stati inviati 360 tonnellate di cibo, distribuite 12.000 confezioni di latte artificiale e 1800 pacchi di pannolini, fornite otto automobili e sei muli per le operazioni locali. Sono state costruite due cliniche in Siria, nella zona di Quneitra, e una clinica presso l’avamposto 116 in Israele, e oltre tremila siriani feriti sono stati trattati in ospedali israeliani. Israele ha anche fornito armi leggere ai gruppi ribelli siriani nel Golan, ufficialmente destinate all’autodifesa, per contrastare l’influenza di Iran e Hezbollah nella regione (lo ha confermato nel 2019 l’ex capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eisenkot). Lo stesso crollo del regime di Assad è in gran parte stato favorito (oltre che dalla resistenza dell’Ucraina che ha distolto la Russia dalle sue aspirazioni mediorientali) dalla resistenza di Israele, che ha decimato le forze di Hezbollah e messo in crisi la mezzaluna sciita dell’Iran. Ciononostante, Israele guarda con circospezione i nuovi vicini. Il leader della coalizione al Fatah al Mubin – che in dieci giorni ha respinto il vecchio regime e “liberato” la Siria – è Abu Muhammad al Jolani (o al Golani, prendendo il soprannome dalle alture del Golan di cui è originario), jihadista salafita dal passato a dir poco controverso. Alleato di Al Baghdadi nel 2011, al Jolani fondò Jabat al Nusra come costola siriana dell’ISIS e si unì alla guerra civile, non con le aspirazioni democratiche dei ribelli della prima ora, bensì per fondare uno Stato fondamentalista basato sulla sharìa. Come i talebani afghani, le sue milizie non disdegnavano decapitazioni sommarie, torture, e attacchi terroristici. Nel 2013 al Jolani voltò faccia e giurò fedeltà ad Al Qaida, ma tra il 2016 e il 2017 – per salvarsi dai bombardamenti americani e russi e aprire le porte all’approvazione e ai finanziamenti internazionali – al Jolani abbandonò anche questa, si mise in proprio, cambiò due volte il nome della sua organizzazione (attualmente conosciuta come Hayat Tahrir al Sham) e abbandonò la jihad globale per concentrarsi su obiettivi nazionali. Iniziò a mostrarsi in pubblico in abiti civili, a parlare di moderazione e rispetto delle minoranze, e permise la riapertura delle chiese a Idlib, la regione sotto il suo potere. Adesso che ha preso il controllo di tutto il Paese, al Jolani ha scelto come nuovo Primo Ministro Mohammad al Bashir, incarnazione di quello che pare essere un nuovo “islamismo moderato in barba e cravatta”, come dice l’inviato del Corriere della Sera Andrea Nicastro. È stata una combinazione di incomprensione e di comportamenti sbagliati ad aver travisato l’Islam, spiega al Bashir, ma i membri di Hayat Tahrir al Sham, «proprio perché islamici», garantiranno «i diritti di tutte le genti e tutti i popoli della Siria». Ma, quando Nicastro gli chiede se sarebbe disposto alla pace con Israele, Bashir ‘ringrazia e se ne va;. «Questo è l’accampamento dei musulmani. Da qui, veniamo Gerusalemme: sii paziente, popolo di Gaza! Allah uAkbar!», gridano alcuni militanti di Hayat Tahrir al Sham in un video pubblicato da Althawra Network Media, verificato e tradotto da MemriTV. «Così come siamo entrati nella moschea degli Omayyadi a Damasco, entreremo nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme». Hamas ha espresso il suo sostegno e si è congratulata «con il fratello popolo siriano per il successo nel raggiungere le sue aspirazioni di libertà e giustizia», auspicando che la nuova Siria continui «il suo ruolo storico e fondamentale nel sostenere il popolo palestinese». Dal canto suo Israele, pur mantenendosi – almeno a parole – aperta all’eventualità di trovare accordi con il nuovo governo siriano, si è preparata al peggior scenario. «Vogliamo relazioni corrette con il nuovo regime» e «non abbiamo intenzione di interferire negli affari interni della Siria», ha dichiarato il premier israeliano Netanyahu, «ma certamente intendiamo fare ciò che è necessario a garantire la nostra sicurezza. Se il nuovo regime permette all’Iran di ristabilirsi in Siria, o consente il trasferimento di armi a Hezbollah, o ci attacca, risponderemo con forza e gli faremo pagare un caro prezzo». Le truppe dell’IDF si sono dunque schierate al confine tra Israele e Siria occupando anche la zona cuscinetto concordata nell’Accordo di Disimpegno del 1974. A seguito della guerra del Kippur del 1973 – quando la Siria e l’Egitto attaccarono a sorpresa Israele, che si difese energicamente e vinse – l’Accordo di Disimpegno prevedeva il mantenimento di una Area di Separazione smilitarizzata di circa 235 chilometri quadrati, tra le linee alpha dal lato israeliano (dove è stato allestito il Camp Ziouani) e bravo dal lato siriano (con il Camp Faouar). Prevedeva inoltre che milleduecento soldati della Forza di disimpegno degli osservatori delle Nazioni Unite (UNDOF) effettuassero pattugliamenti regolari e monitorassero eventuali attività militari dai posti di osservazione. Dopo la ritirata dell’esercito siriano, la situazione sulle strategiche alture del Golan è diventata critica. Da lì, infatti, è facile “dominare dall’alto” Israele; da lì, tra gli anni ’50 e ’60 la Siria lanciava numerosi attacchi contro civili israeliani in Galilea (come quelli che uccisero Ra’aya Goldschmidt al kibbutz Gadot e Kamus Ben Atiya al kibbutz Gonen). Per prevenire infiltrazioni da parte di gruppi ribelli o jihadisti, che potrebbero aver acquisito tecnologie militari avanzate e droni di sorveglianza per spiare o attaccare Israele, l’IDF ha ritenuto necessario prendere il controllo del monte Hermon, rimasto vuoto. «Non sappiamo chi ci contrasterà dalla parte siriana, che si tratti di Al Qaida, dell’ISIS, o di altri, quindi dobbiamo essere pronti a proteggere i nostri civili», ha spiegato il membro dell’intelligence Citrinowicz. Va stabilita una «zona di difesa sterile libera da armi e minacce terroristiche nella Siria meridionale», ha rincarato il ministro della Difesa Israel Katz. Qatar, Turchia ed Egitto hanno accusato Israele di sfruttare e violare la sovranità della Siria, e le Nazioni Unite hanno accusato Israele di violare l’accordo di disimpegno. «L’accordo del 1974 è collassato», ha risposto Netanyahu, e in ogni caso si tratterebbe soltanto di una misura temporanea di sicurezza, chiarisce. Gli Stati Uniti ne comprendono la necessità, ma evitano di stabilire le tempistiche di quel “temporaneo” per adattarsi a una situazione in rapido svolgimento. Anche il Regno Unito ha riconosciuto le «legittime preoccupazioni per la sicurezza» di Israele.
(Bet Magazine Mosaico, 12 dicembre 2024)
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500 anni della Comunità Ebraica di Roma moderna
di Claudio Procaccia
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Ettore Roesler Franz, Ghetto. Via Rua in fondo al Portico d’Ottavia (1878). Museo di Roma. Copia fotografica dell’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma
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Era il 12 dicembre 1524, esattamente 500 anni fa: la bolla papale, emessa da Clemente VII, decretava la nascita dell’Universitas Hebraeorum Urbis, una sorta di federazione delle molte collettività ebraiche presenti sul territorio. In sostanza, era l’atto che segnava la nascita di una comunità con una struttura centralizzata. La presenza degli ebrei nella Città Eterna è attestata sin dal II secolo avanti l’era cristiana e nella prima età moderna nell’Urbe vi erano diverse compagini ebraiche, come si evince da una bolla del 1519, emessa durante il pontificato di Leone X nella quale erano annoverate ben 11 sinagoghe fra spagnole, francesi, tedesche e italiane.
La creazione di una struttura comunitaria di tipo moderno si può ricondurre a più fattori, come la regolamentazione della rivalità tra le varie compagini ebraiche e le necessità associate alla formazione di uno Stato moderno, quello pontificio, che progressivamente stava accentrando le funzioni governative rispetto all’epoca medievale. Le diverse collettività ebraiche furono organizzate attraverso una sorta di statuto (i Capitoli) redatto da un banchiere toscano ed ebreo, Daniele da Pisa. Il nuovo organigramma prevedeva la Congrega dei Sessanta, una specie di organo legislativo formato da banchieri e mercanti. Questi nominavano i Fattori, che rappresentavano una sorta di esecutivo necessario per regolare la vita cultuale e materiale delle diverse collettività divise per sinagoghe di appartenenza. Pertanto, si stabilì un unico interlocutore per le autorità ecclesiastiche, quelle laiche e le altre comunità ebraiche.
I primi anni della neonata comunità furono però contrassegnati da eventi drammatici: il sacco di Roma dei lanzichenecchi del 1527 e le crisi successive; l’istituzione del Sant’Uffizio (1542) e della Casa dei catecumeni (1543) per la conversione anche degli ebrei al cattolicesimo. Culmine di questo processo e di un rapporto sempre più difficile con la Chiesa di Roma furono il rogo dei libri del Talmud (1553) e l’istituzione del ghetto da parte di Paolo IV, il 14 luglio 1555. Segregata in spazi angusti e messa ai margini della società coeva, la comunità ebraica fu segnata da un periodo di declino economico, culturale e sociale. Ciononostante, la tenuta della vita ebraica si mantenne viva sia in termini materiali, sia identitari, grazie all’attività delle sinagoghe (le cosiddette “Cinque Scuole”) e alle confraternite, impegnate in opere di sostegno economico e spirituale. Dopo alcuni illusori momenti di libertà tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento legati alle guerre napoleoniche e alla Repubblica romana del 1849, la svolta si ebbe il 20 settembre 1870, con la breccia di Porta Pia, la fine dell’era del ghetto e dello Stato Pontificio, nonché l’inizio dell’emancipazione, che si inserì nell’impetuoso processo di crescita demografica, urbanistica, economica e politica che caratterizzò Roma nel periodo post risorgimentale. Questo periodo felice durò pochi decenni: le leggi razziali del 1938 impoverirono e marginalizzarono gli ebrei romani, facendo da preludio al periodo più drammatico, l’occupazione nazista della città (1943-1944), durante il quale maturarono le deportazioni di molti membri della compagine ebraica romana nei campi di sterminio e l’eccidio delle Fosse Ardeatine. La ripresa nel dopoguerra fu tanto faticosa quanto significativa, grazie alla guida di rabbini come David Prato (1945–1951) ed Elio Toaff(1951–2001) e al sostegno delle istituzioni ebraiche romane, italiane e internazionali.
L’arrivo degli ebrei dalla Libia, tra il 1967 e il 1970, favorì trasformazioni economiche e culturali rilevanti in seno alla collettività ebraica della capitale.
Successivamente, un evento drammatico ha colpito la nostra comunità: l’attentato al Tempio Maggiore del 9 ottobre 1982, in cui morì un bambino di soli due anni, Stefano Gaj Taché, e furono ferite 42 persone.
Tuttavia, dagli anni Sessanta del secolo scorso, fino agli inizi del nuovo millennio, vi sono stati cambiamenti in positivo dovuti alla forte crescita economica e demografica della compagine ebraica romana, ma anche importanti trasformazioni nelle relazioni ebraico-cristiane segnate, tra l’altro, dalla visita al Tempio Maggiore di Roma di ben tre pontefici (Giovanni Paolo II nel 1986, Benedetto XVI nel 2010 e Papa Francesco nel 2016).
A cinquecento anni dalla nascita dalla moderna struttura comunitaria, e a distanza di oltre due millenni dai primi stanziamenti, gli ebrei rappresentano una componente della città di Roma produttiva e culturalmente vivace.
(Shalom, 12 dicembre 2024)
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Il Paraguay riapre l'ambasciata a Gerusalemme
Nel 2018 per cinque mesi il Paraguay trasferì la sua ambasciata a Gerusalemme. Un gesto simbolico, sulla scia della decisione dell’allora presidente Usa Donald Trump di insediare la rappresentanza diplomatica statunitense nella capitale israeliana. Poi però il paese sudamericano aveva fatto marcia indietro. Il presidente Abdo Benitez, cancellando l’iniziativa del suo predecessore Horacio Cartes, aveva riportato a Tel Aviv l’ambasciata. Nelle prossime ore si prospetta un nuovo trasferimento, forse l’ultimo. L’attuale guida del Paraguay, Santiago Peña, è arrivato in Israele per riaprire gli uffici diplomatici a Gerusalemme. «È un punto di svolta per il nostro paese», ha dichiarato Peña incontrando il presidente d’Israele Isaac Herzog. È un gesto, ha aggiunto, che rappresenta «l’amicizia tra i due paesi e la fede in un futuro luminoso». Herzog ha ringraziato e si è detto contento dell’inaugurazione domani dell’ambasciata «nella nostra città santa, la capitale eterna dello stato d’Israele e del popolo ebraico».
Anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha elogiato Peña. Durante una sessione speciale della Knesset, Netanyahu ha dichiarato: «La sua importante visita avviene nel mezzo di una guerra esistenziale che stiamo conducendo su sette fronti contro chi cerca di distruggerci». Il premier ha ricordato la lunga amicizia tra Paraguay e Israele, risalente al sostegno del Paraguay alla creazione dello stato ebraico nel 1947, e ha sottolineato come durante la Seconda guerra mondiale il rilascio di passaporti paraguaiani salvò dalla Shoah centinaia di ebrei, inclusa la famiglia di suo suocero. «Anche se migliaia di chilometri separano Israele dal Paraguay, le nostre due nazioni provano simpatia l’una per l’altra», ha affermato Netanyahu.
Il Paraguay diventerà il sesto paese con un’ambasciata a Gerusalemme, insieme a Stati Uniti, Guatemala, Honduras, Kosovo e Papua Nuova Guinea.
(moked, 11 dicembre 2024)
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Premi Michelin USA, trionfo dei ristoranti con chef israeliani
di Michelle Zarfati
La cucina israeliana è stata tra i protagonisti della cerimonia di premiazione Michelin per i migliori ristoranti degli Stati Uniti, tenutasi ieri sera a New York. Ancora una volta, è stata data una stella al ristorante Shmoné che continua a brillare, grazie ai suoi chef Eyal Shani e Nadav Greenberg. Una stella confermata e un posto unico nella prestigiosa lista Michelin in cui è entrato l’anno scorso. In tipico stile israeliano, i premiati sono arrivati in ritardo per ricevere l’ambita stella, che significa “vera cucina di alta qualità”.
“Questo spazio piccolo ed elegante colpisce ben oltre il suo peso con l’abbagliante cucina neo-levantina. Molte cucine vantano di utilizzare ingredienti freschi, ma Shmoné porta questa filosofia a un altro livello, creando un nuovo menù ogni giorno (anche se alcuni elementi rimangono)” ha descritto la guida Michelin la cucina di Shmoné. “La cucina si basa sulla griglia fino al dessert. Un luogo in cui si possono trovare fichi grigliati sopra la crema chantilly. I piatti non si ripetono ma semplicemente certamente memorabili – continua la descrizione. I sapori sono composti in modo impressionante e rendono il posto sorprendente nella sua umiltà. L’interno del locale ha un’atmosfera unica: puoi prendere un posto al bancone per ammirare il bar e la cucina a vista”.
Un altro rappresentante della cucina israeliana negli States è Galit a Chicago, che ha ricevuto anch’esso una stella Michelin. Lo chef Zachary Engel, porta nel suo locale quello che la guida definisce un “marchio personale della moderna cucina mediorientale”. “Il suo prezzo fisso consente ai commensali di fare le proprie selezioni tra una vasta gamma di opzioni. Un primo piatto generoso dà il via alle danze: hummus cremoso con petto e salatim (creme spalmabili e sottaceti) accompagnato da pita appena cotta dalla fiamma”, si legge nella guida. “Anche i piatti must come i falafel croccanti e croccanti con labneh di mango offrono un sapore sorprendente. L’impressionante intenzionalità del team si estende al suo programma di bevande, poiché i vini esoterici provenienti da Armenia, Libano, e Israele raccontano le loro storie e creando bellissimi abbinamenti” prosegue la recensione della guida.
Diversi rappresentanti israeliani a New York sono stati premiati con il Bib Gourmand Award, che non assegna stelle ma riconosce “una cucina di buona qualità e di buon valore”, come “Miss Ada” dello chef Tomer Blechman. Tra loro anche Tanoreen, gestito da Rawia Bishara, sorella dell’ex deputato Azmi Bishara, fuggito in Qatar dopo le accuse di spionaggio. Ma anche il ristorante fusion Shalom Japan, che mescola influenze ebraiche e giapponesi, e locali classici come Katz’s Delicatessen e Russ & Daughters. Situato a Washington, D.C., anche Sababa ha ricevuto riconoscimenti. “Sababa”, che in gergo ebraico significa ‘figo’, è un ristorante cool di nome e di fatto. “Condividendo un muro e collegato da una splendida barra di zinco a Bindaas della porta accanto, questa ode al Medio Oriente è inondata di piastrelle mediterranee. Ma nonostante gli scavi alla moda, qui è tutta una questione di cibo” commenta la guida. “Il menu raffinato offre insalate israeliane, salse e kebab, ma i piccoli piatti sono il suo cuore e la sua anima. Si inizia infatti con le salatim, un antipasto di cinque insalate. L’elenco potrebbe continuare, ma una cosa da non saltare mai è l’hummus. È molto più del solito che è persino elencato come specialità del giorno. In linea con lo spirito c’è la loro carta dei vini incentrata su Israele e Grecia”.
Ed infine c’è l’Ash’kara di Denver, guidato dallo chef Reggie Dotson, riconosciuto dalla lista Michelin. “In questo quartiere vivacemente ospitale, lo chef Reggie Dotson offre un’esplorazione della cucina israeliana contemporanea, attingendo alle influenze del Mediterraneo, del Nord Africa e del Medio Oriente. Il menu si apre con mini-antipasti, delle versioni di prim’ordine di prodotti familiari come hummus, babaganoush e falafel, abbinati a un’eccellente pita integrale cotta a legna a base di grano antico. La cena offre piatti più sostanziosi, come le tagine salate con melanzane o filetto di agnello – si legge nella recensione. La cucina è a base di verdure e si preoccupa di soddisfare tutte le restrizioni dietetiche (c’è anche un’opzione pita senza glutine), ma qui non ci sono espedienti, solo piatti premurosi e saporiti realizzati con ingredienti di alta qualità e un po’ di stile in più” conclude la recensione.
(Shalom, 12 dicembre 2024)
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Pure Forza Italia è per la vessazione eterna
di Carlo Tarallo
Un Paese senza speranza (con la «s» minuscola): in Italia la politica arriva a dividersi pure sulla cancellazione di una multa che quasi nessuno ha pagato, che nessuno dei «morosi» avrebbe mai più pagato, sospesa già più volte e che appartiene a un'epoca fortunatamente chiusa, quella della pandemia da Covid.
Parliamo della famigerata contravvenzione da 100 euro che il governo Draghi, nel gennaio 2022, aveva previsto per chi avesse disatteso l'obbligo di vaccinazione anti Covid, obbligo che riguardava gli ultracinquantenni e alcune categorie di lavoratori, tra i quali medici e insegnanti. Queste multe sono state poi sospese dal governo guidato da Giorgia Meloni, e ora, con il decreto Milleproproghe, definitivamente annullate.
Due milioni circa sono state le multe comminate, pochissime quelle pagate (e la vera ingiustizia è non rimborsare i valorosi contribuenti che hanno versato i 100 euro) e intorno a questa decisione del governo si infiamma una polemica politica meritevole, a nostro parere, di argomenti di ben maggiore importanza per gli italiani.
Si spacca addirittura la maggioranza, con Forza Italia che va all'assalto: «Quello della vaccinazione», scrive sui social il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulé, «era un dovere morale e civico durante la pandemia, sottrarsi a quel dovere avrebbe significato mettere in pericolo la salute altrui. È come passare col semaforo rosso: non si mette a rischio solo la propria vita ma anche quella degli altri. Siccome non c'è nessuna evidenza», aggiunge Mulé, «che dimostri che i vaccini hanno fatto male, anzi, hanno salvato questo paese e il mondo intero dalla pandemia, non vedo perché adesso si debba fare un atto che va nella direzione di asseverare una condotta che è andata contro quello che era un dovere morale e civico. Si può agire in Parlamento, certamente io non voterò l'amnistia delle multe».
Sulla stessa lunghezza d'onda la vicepresidente del Senato, Licia Ronzulli, anche lei esponente di Fi: «Trovo assurda», sottolinea la Ronzulli, «la decisione del governo di annullare le multe per coloro che non si erano sottoposti alla vaccinazione Covid. Ritengo doveroso sollevare interrogativi importanti sulla responsabilità collettiva e sul valore della prevenzione. E non lo dico in una chiave etica, morale, alcuni dicono persecutoria, di chi non ha dato seguito ad una legge dello Stato. L'obbligo vaccinale», aggiunge la Ronzulli, «non era una misura coercitiva, punitiva, come qualcuno la descrive. Rappresentava invece il dovere per uno Stato serio di proteggere l'intera popolazione, di metterla in sicurezza da una malattia che era potenzialmente letale. L'assenza di una adeguata copertura vaccinale avrebbe potuto avere conseguenze devastanti». Maurizio Gasparri, capogruppo azzurro in Senato, ha detto che fu «giusto multare» i renitenti, ma ha precisato che il governo di centrodestra resta «favorevolissimo» all'uso dei vaccini.
Per il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Galeazzo Bignami, «l'obbligo vaccinale ha rappresentato una sconfitta per lo Stato, perché fu un'imposizione con cui si obbligava qualcuno a un trattamento sanitario. Lo Stato aveva il compito di convincere spiegando e non di obbligare. Con questa scelta», precisa Bignami, «abbiamo deciso di chiudere una vicenda che potrebbe avere più ombre che luci, senza considerare che i costi delle contravvenzioni rischiavano di rendere non economica l'esazione». Anche Maurizio Lupi, di Noi moderati, ne ha fatto una questione pratica:« Trattandosi di una cifra esigua, si rischia di spendere, per incassarla, più soldi di quanti ne entrerebbero». E invece è una questione di principio .
«Era una misura che avevamo già annunciato», spiega all'Adnkronos il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, «un impegno mantenuto. Parliamo anche di aspetti banalmente burocratici: creare del contenzioso per 100 euro significa arrecare un danno alle casse dello Stato, o comunque una burocratizzazione enorme in un'Italia che non ha bisogno di altra burocrazia».
Fornisce una spiegazione più articolata la deputata Alice Buonguerrieri, capogruppo di Fdi in Commissione Covid: «E’ ormai chiaro che i vaccini imposti surrettiziamente alla popolazione non impedivano il contagio, dunque manca il presupposto fondante obbligo e sanzioni».
Italia viva cerca di incunearsi nelle divisioni del centrodestra: « Se per Forza Italia la cancellazione delle multe ai no vax è uno schiaffo alle leggi dello Stato e un pericolo per la popolazione», sottolinea il capogruppo renziano alla Camera, Davide Faraone, «la soluzione è semplice: quando si tratterà di votare, Fi si comporti di conseguenza. Il partito di Tajani ha finalmente l'occasione per dimostrare che, al contrario di quanto accaduto sullo ius culturae o le carceri, non si limita sempre e solo alle chiacchiere ma fa quel che dice». Contrarissimi al condono anche Pd e M5s.
(La Verità, 12 dicembre 2024)
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Gli invasati delle multe covid
Il vaccino non impediva i contagi né la trasmissione del virus. L’obbligo era illegittimo e antiscientifico. Abolendo le sanzioni si è sanato un abuso di potere, un vulnus alla Costituzione.
di Maurizio Belpietro
Non è una questione sanitaria e nemmeno di giustizia, ma solo di ideologia. Anzi, di fondamentalismo ideologico. Roberto Burioni, Licia Ronzulli, Maria Elena Boschi, Roberto Speranza e tutti i virologi da salotto che abbiamo conosciuto durante la pandemia non si scagliano contro la decisione di annullare le multe a chi non si è vaccinato per tutelare la salute degli italiani, e neppure per onorare la memoria delle vitti me del Covid.
Vogliono solo punire quanti non hanno offerto il braccio alla patria (ma forse sarebbe meglio dire ai fanatici dell'iniezione, visto il loro comportamento) per poter dire di averla avuta vinta. Non c'è alcuna motivazione scientifica nel continuare a dire che obbligare le persone a vaccinarsi fosse giusto. E non c'è alcuna spiegazione giuridica che consenta di insistere a sostenere che costringere le persone a sottoporsi all'immunizzazione minacciando la perdita del lavoro e dello stipendio fosse legittimo. In nessuna democrazia al mondo si è arrivati al punto di vessare i cittadini limitando diritti fondamentali come quello di circolare liberamente, prendere i mezzi pubblici, usufruire dei servizi di ristorazione e avere diritto al proprio lavoro. Ciò che è stato fatto negli anni del Covid è un palese abuso di potere e se allora politici, magistrati e alti papaveri delle istituzioni si sono inchinati al volere di un pugno di incompetenti e invasati, non significa che oggi, a distanza di anni, quando lentamente emerge la verità, si debba continuare nell'abuso.
Non era vero, e ora lo ammettono anche i sassi, che vaccinarsi equivaleva a essere sicuri di non contagiarsi e non contagiare, come ebbe a dire l'allora presidente del Consiglio Mario Draghi, introducendo il green pass, ovvero la tessera annonaria per poter usufruire dei diritti sanciti dalla Costituzione. Essere vaccinati non era una garanzia di nulla se non, dopo l'istituzione di un lasciapassare legato al vaccino, di avere garantiti quei diritti che secondo la nostra Carta non possono essere negati ad alcun cittadino. La nostra Repubblica è fondata sul lavoro e assicura a tutti i cittadini pari dignità sociale, specificando che tutti sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di condizioni personali e sociali ed è compito dello Stato rimuovere ogni ostacolo che limiti la libertà e l'eguaglianza dei cittadini. Durante la pandemia invece, non soltanto la Repubblica non ha rimosso gli ostacoli che impedivano a una parte degli italiani di poter lavorare, avere pari dignità sociale, esercitare i propri diritti. Ma addirittura, quegli ostacoli sono stati posti dai governi - quello di Giuseppe Conte prima, di Mario Draghi dopo - con il dichiarato intento di dividere in due categorie gli italiani vaccinati e i non vaccinati. Contravvenendo così al dettato costituzionale, che vuole i cittadini uguali davanti alla legge, senza discriminazione alcuna.
Lo so che la Corte costituzionale, a cui alcuni erano ricorsi, ha sostenuto la legittimità delle decisioni dei governi coinvolti. E che avreste voluto che facesse una corte nominata dalla politica e dalla sinistra se non assecondare le decisioni di esecutivi di sinistra e benedetti dai poteri forti? C'era da aspettarsi un pronunciamento in favore della violazione dei diritti e a tutela dell'establishment. A essere obbligati a vaccinarsi non erano i migranti, i quali hanno potuto continuare a sbarcare indisturbati, ma gli italiani e per loro non era prevista alcuna esenzione dai diktat di Palazzo Chigi.
Che l'obbligo vaccinale fosse antiscientifico e illegittimo ormai è noto anche a chi si è sottoposto a prima, seconda, terza e quarta dose. E infatti ormai solo alcuni talebani in camice bianco insistono sull'urgenza di iniettare vaccini a chiunque (anche se alla comparsa della prima influenza in tanti ci provano). Però gli effetti collaterali del green pass ancora si sentono, prova ne sia che l'annullamento delle multe nei confronti di chi non aveva accettato di chinare il capo di fronte agli abusi ha scatenato gli haters dell'iniezione. Non so che cosa vorrebbero che si facesse Burioni, Boschi, Speranza e Ronzulli: forse privare del diritto di voto i non vaccinati, in modo da poterli escludere dal consesso civile? Può darsi: togliendo i diritti elettorali a milioni di italiani probabilmente pensano di poter vincere le elezioni. In tal caso farebbero meglio a farsi eleggere in qualche altro Paese, dove non c'è una Costituzione in cui, all'articolo 1, si sostiene che il popolo è sovrano. Se vogliono cancellare i diritti a chi non la pensa come loro, fondino la repubblica di Burioni, Boschi, Speranza o Ronzulli e vedremo quanti italiani vorranno farne parte. Così ci sarà da ridere.
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Quei 100 euro imposti per legge a sostegno della menzogna sono una cosa seria. Non per tutti, certamente, perché in fondo si tratta “soltanto” di una questione di coscienza. E per molti, come dice Trilussa, “in fatto di coscienza, male che vada se ne po’ fa senza”. M.C.
(La Verità, 12 dicembre 2024)
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Dopo Damasco si sbriciolerà anche Teheran?
Il fattore decisivo dell'uscita di scena di Assad è stata la crisi politico-militare dell'Iran dopo la sconfitta quasi totale di Hamas e il ridimensionamento di Hezbollah.
di Lodovico Festa
Sono sorprendenti la velocità e la facilità con cui un gruppo di ribelli ex Isis ha liquidato una dittatura degli Assad iniziata nel 1971 e durata dunque be 53 anni. Fattore decisivo di questa “velocità” è stata la crisi verticale politico-militare dell’Iran, che con gli Hezbollah e i rifornimenti via Iraq, costituiva il vero sostegno del potere di Bashar al Assad, ben più importante di quello dei russi, quest’ultimo comunque depotenziato dalla guerra in Ucraina. Spesso troppo attenti alla cronaca colorata dei fatti invece che all’analisi, si è sottovaluto che cosa abbia significato per Teheran la sconfitta quasi totale di Hamas, il duro ridimensionamento degli Hezbollah, e non si è riflettuto adeguatamente sulla prova che l’aviazione israeliana ha dato (cento apparecchi, nessuno abbattuto) di dominare i cieli di Teheran e paraggi: una dimostrazione che ha gettato nel panico gli ayatollah e i loro alleati, a partire dalle milizie filoiraniane irakene che, pur sollecitate, non si sono mosse in soccorso del regime siriano. E adesso che cosa accadrà? Non è irragionevole essere preoccupati di un regime di ex Isis insediato a Damasco. Però per inquadrare la situazione attuale non vanno sottovalutati alcuni altri fattori: c’è innanzi tutto il peso che Ankara gioca nella partita. E con tutte le sue spregiudicatezze Recep Erdogan resta pur sempre nella Nato e sebbene si muova su tutti i fronti (è entrato anche nei Brics) alla fine le sue velleità di restaurazione di un’egemonia ottomana sul mondo islamico si intrecciano a precisi interessi economici (a partire dai gasdotti). E queste implicazioni “economiche” ne condizionano i comportamenti. Altro elemento da tener ben presente sarà quello delle reazioni di sauditi preoccupati dall’attivismo turco nel mondo musulmano e dal disordine che questo provoca. Con Teheran, Riyad aveva trovato (soprattutto dopo le batoste inferte da Israele al regime degli ayatollah) una qualche intesa per cercare di convivere senza troppi conflitti, adesso dovrà rimettere in moto la sua iniziativa diplomatica di fronte ai neo rischi neo ottomani. Infine va considerato quel che succederà in un Iran sempre più umiliato. Due piccoli avvenimenti ci possono aiutare a capire quel che potrebbe avvenire. Il premio Nobel per la Pace, Narges Mohammadi, attivista per i diritti umani incarcerata nel 2016, è stata rilasciata per tre settimane dalla galera per motivi medici. Ahu Daryaei, giovane studentessa, arrestata nei giorni scorsi per aver camminato in biancheria intima all’interno dell’Università Islamica Azad protestando contro soprusi che le Guardie rivoluzionarie avevano commesso contro di lei, è stata rimandata in famiglia per curarsi. È evidente come solo qualche tempo fa la Mohammadi sarebbe stata lasciata morire nella sua cella e la Daryaei fustigata su una pubblica piazza. Questi piccoli ma significativi avvenimenti ci parlano del panico diffuso in un regime che da 45 anni opprime il popolo iraniano. Oggi a Damasco, domani a Teheran?
(Startmag, 11 dicembre 2024)
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Le mosse strategiche di Israele dopo il crollo di Assad
di Luca Spizzichino
Il collasso improvviso del regime di Bashar al-Assad, avvenuto in seguito a una rapida offensiva delle forze ribelli, ha scatenato una serie di operazioni strategiche da parte di Israele. L’obiettivo è stato duplice: garantire la sicurezza nazionale e impedire che tecnologie militari avanzate e armamenti siriani cadessero nelle mani di gruppi jihadisti o altre forze ostili.
• DISTRUZIONE DI INFRASTRUTTURE MILITARI
Nei giorni successivi al collasso del regime, l’aviazione israeliana ha intensificato le operazioni contro obiettivi militari in Siria, conducendo centinaia di raid aerei. Tra i bersagli principali figurano basi militari, aeroporti e centri di ricerca collegati allo sviluppo di armi avanzate, incluso un importante impianto nella zona di Barzeh, a Damasco, già colpito da attacchi occidentali nel 2018 per la sua presunta connessione al programma chimico siriano.
Questi raid hanno portato alla distruzione di decine di elicotteri, jet da combattimento e risorse dell’esercito siriano, azzerando di fatto le capacità militari residue. La marina israeliana, dal canto suo, ha eliminato una significativa porzione della flotta navale siriana, compresi missili antinave, attraverso attacchi mirati nelle località costiere di Latakia e Minet el-Beida.
• IL CONTROLLO DEL MONTE HERMON
Il Monte Hermon, con un’altitudine di 2.814 metri, rappresenta uno dei punti strategici più importanti della regione. Situato al confine tra Israele, Siria e Libano, offre una posizione privilegiata per il monitoraggio e l’intercettazione di segnali nemici, fungendo anche da barriera naturale contro potenziali incursioni dal nord.
Nelle ultime ore, l’unità d’élite Shaldag dell’aeronautica israeliana ha raggiunto il picco del monte senza incontrare resistenza, consolidando il controllo israeliano sull’area. Questo intervento permette a Israele di rafforzare la propria capacità di sorveglianza e difesa, trasformando il Monte Hermon in una postazione avanzata di monitoraggio e intelligence.
• ESTENSIONE DELLA BUFFER ZONE NEL GOLAN
Con l’intento di prevenire incursioni ostili e proteggere il confine settentrionale, Israele ha inoltre esteso il controllo sulla zona cuscinetto del Golan creata nel 1974. Le forze di terra israeliane si sono temporaneamente posizionate in quest’area strategica, stabilendo presidi difensivi per monitorare i movimenti lungo il confine. Il governo israeliano ha sottolineato che tale presenza è “limitata e temporanea” e finalizzata esclusivamente a garantire la sicurezza nazionale.
• IL FUTURO DELLE ALTURE DEL GOLAN
La situazione nelle alture del Golan rimane una questione centrale nella strategia di Israele. Il governo, guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha riaffermato che il Golan è e rimarrà parte integrante del territorio israeliano, una posizione riconosciuta ufficialmente dagli Stati Uniti nel 2019. Israele, anticipando le possibili minacce, ha adottato misure decisive per consolidare la propria sicurezza e preservare l’equilibrio strategico, rafforzando al contempo il controllo su aree chiave come il Monte Hermon e le alture del Golan, per evitare che diventino un punto di lancio per attacchi da parte di milizie ostili.
(Shalom, 10 dicembre 2024)
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Ecco cosa sta facendo Israele in Siria
A seguito di un’importante campagna di bombardamenti di 48 ore in Siria, le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato martedì di aver distrutto la maggior parte delle capacità militari strategiche dell’ex regime di Bashar al-Assad, nel tentativo di impedire che armi avanzate cadano nelle mani di elementi ostili. In un comunicato, l’IDF ha affermato che l’aviazione e la marina hanno effettuato oltre 350 attacchi contro “obiettivi strategici” in Siria dalla caduta del regime di Assad nel fine settimana, eliminando “la maggior parte delle scorte di armi strategiche in Siria”. L’esercito ha stimato di aver distrutto il 70-80% delle capacità militari strategiche dell’ex regime di Assad. L’operazione è stata soprannominata dall’esercito “Freccia di Bashan”, dal nome biblico delle alture del Golan e della regione meridionale della Siria. L’IDF ha pubblicato i filmati della campagna, durante la quale sono stati colpiti oltre 320 obiettivi in tutta la Siria. Gli attacchi sono iniziati sabato scorso, eliminando le difese aeree siriane per dare più libertà all’aviazione israeliana. Ondate dopo ondate di attacchi aerei condotti da jet da combattimento e droni dell’IAF hanno poi colpito basi aeree siriane, depositi di armi e siti di produzione di armi a Damasco, Homs, Tartus, Latakia e Palmira, secondo i militari. L’esercito ha dichiarato che gli attacchi aerei hanno distrutto molti proiettili a lungo raggio, missili Scud, missili da crociera, missili coast-to-sea, missili di difesa aerea, jet da combattimento, elicotteri, radar, carri armati, hangar e altro ancora. L’IAF ha anche preso di mira diversi siti di armi chimiche in Siria durante le ondate di attacchi, hanno dichiarato i funzionari israeliani. Nel frattempo, lunedì sera, le navi missilistiche della Marina israeliana hanno distrutto 15 imbarcazioni appartenenti all’ex regime nella baia di Minet el-Beida e nel porto di Latakia, sulla costa siriana, hanno dichiarato i militari. Il regime di Assad, caduto domenica dopo un’offensiva lampo delle forze ribelli, era un alleato del regime iraniano e faceva parte del suo cosiddetto Asse della Resistenza contro Israele. Per molti anni, la Siria è stata utilizzata come via di passaggio per le armi iraniane, dirette ai gruppi terroristici, tra cui Hezbollah in Libano, con cui Israele ha raggiunto un traballante cessate il fuoco il mese scorso. Israele temeva che, in seguito al crollo del regime di Assad, le armi dell’ex esercito siriano potessero cadere nelle mani di forze ostili nel Paese, oltre che degli Hezbollah sostenuti dall’Iran in Libano. In un messaggio al nuovo regime che sta prendendo forma in Siria, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato martedì che Israele cercherà di stabilire relazioni, ma non esiterà ad attaccare se minaccerà lo Stato ebraico. “Non abbiamo intenzione di interferire negli affari interni della Siria”, ha dichiarato in una dichiarazione video, ‘ma certamente intendiamo fare ciò che è necessario per garantire la nostra sicurezza’. Per questo, ha detto, l’aviazione israeliana sta bombardando le “capacità militari strategiche” lasciate dall’esercito siriano del deposto regime di Assad, “in modo che non cadano nelle mani dei jihadisti”. “Vogliamo relazioni corrette con il nuovo regime siriano”, ha proseguito. “Ma se questo regime permette all’Iran di ristabilirsi in Siria, o permette il trasferimento di armi iraniane o di qualsiasi altra arma a Hezbollah, o ci attacca, risponderemo con forza e gli chiederemo un prezzo pesante”. “Ciò che è accaduto al regime precedente accadrà anche a questo regime”, ha avvertito. Il Ministro della Difesa Israel Katz ha anche lanciato un avvertimento ai ribelli siriani, affermando che qualsiasi entità che rappresenti una minaccia per Israele sarà presa di mira senza sosta. “L’IDF ha agito negli ultimi giorni per attaccare e distruggere le capacità strategiche che minacciano lo Stato di Israele”, ha dichiarato il ministro, durante una visita alla base navale di Haifa, nel corso della quale è stato informato degli attacchi della Marina contro le strutture navali del regime di Assad. Ha avvertito i ribelli che “chiunque segua le orme di Assad farà la stessa fine di Assad. Non permetteremo a un’entità terroristica estremista islamica di agire contro Israele da oltre i suoi confini… faremo di tutto per eliminare la minaccia”. Katz ha ribadito che l’IDF sta creando un’area smilitarizzata e ha detto di aver ordinato la creazione di una “zona difensiva sterile” nel sud della Siria, senza una presenza israeliana permanente, per prevenire qualsiasi minaccia terroristica a Israele. Israele ha di nuovo smentito le notizie secondo cui le sue forze di terra si sarebbero spinte oltre una zona cuscinetto nelle alture del Golan, che l’IDF ha conquistato domenica, sottolineando che il suo controllo dell’area è una misura temporanea e difensiva. “Le notizie che circolano su alcuni media e che affermano che le truppe dell’IDF stanno avanzando o si stanno avvicinando a Damasco sono completamente errate”, ha scritto su X il col. Avichay Adraee, portavoce dell’IDF in lingua araba. “Le truppe dell’IDF sono presenti all’interno della zona cuscinetto e in posizioni difensive vicino al confine per proteggere la frontiera israeliana”, ha aggiunto. Israele ha dichiarato che i suoi attacchi aerei continueranno per giorni, ma ha detto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che non sta intervenendo nel conflitto siriano. Ha dichiarato di aver preso “misure limitate e temporanee” solo per proteggere la propria sicurezza.
(Rights Reporter, 11 dicembre 2024)
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I ribelli siriani attaccheranno Israele?
L'Occidente è impegnato a dare una nuova veste ai vecchi terroristi dell'ISIS e di Al-Qaeda, ma i loro sostenitori stanno chiarendo che non hanno intenzione di fermarsi a Damasco.
di Ryan Jones
Abu Mohammed al-Julani, il leader dei ribelli che hanno conquistato la Siria, è impegnato a trasformare la sua immagine in quella di un “moderato” con l'aiuto dei media mainstream occidentali. Tuttavia, alcuni dei suoi combattenti subordinati (direttamente o indirettamente) stanno rivelando le loro vere intenzioni a lungo termine attraverso minacce registrate contro Israele e gli ebrei. In una dichiarazione rilasciata all'emittente pubblica israeliana Kan 11, un leader dei ribelli siriani ha affermato che Israele sta “iniziando male” con la sua massiccia campagna aerea e l'incursione nel sud della Siria. “Israele sta rovinando la gioia dei siriani invadendo il loro territorio”, ha sottolineato il portavoce. In un video diffuso da un gruppo di ribelli della Grande Moschea di Damasco, essi promettono di continuare a combattere e conquistare Israele. Nel video dichiarano che il loro prossimo obiettivo è Gerusalemme e Al-Aqsa, per poi passare a Gaza. “Siamo entrati nella moschea degli Omayyadi a Damasco e abbiamo gridato Allahu Akbar, e con l'aiuto di Allah entreremo anche nella moschea di Al-Aqsa e anche nella moschea del Profeta Maometto (ad Al-Madinah, in Arabia Saudita) e nella Kaaba alla Mecca”. Un altro video pubblicato sui social media mostra i ribelli che festeggiano al mercato di Al-Hamdia a Damasco e si impegnano a dichiarare la Siria un califfato islamico e a giurare fedeltà a un califfo musulmano per “combattere gli ebrei”. In un'altra clip, i combattenti siriani rispondono al Capo di Stato Maggiore israeliano, il generale Herzi Levi, che aveva precedentemente rilasciato una dichiarazione sulle operazioni in corso delle Forze di Difesa israeliane in Siria. “Noi diciamo al Capo di Stato Maggiore israeliano: 'Dove stiamo andando? A Gerusalemme!“ Stiamo venendo a prendere voi ebrei”. È proprio per questo motivo che questa settimana Israele ha condotto un'operazione militare senza precedenti per distruggere tutte le rimanenti armi pesanti detenute dalle forze siriane. Non è ancora chiaro quale sarà la prossima mossa delle orde jihadiste che hanno conquistato la Siria. Se dovessero tentare di affrontare Israele, sarebbe meglio che fossero armati il meno possibile. Le Forze di Difesa israeliane hanno dichiarato che l'operazione era volta a impedire che le armi dell'esercito siriano “cadessero nelle mani dei terroristi”. A tal fine, l'esercito israeliano ha annunciato i seguenti dettagli delle sue attività in Siria per un periodo di 48 ore: Operazioni navali: Lunedì sera, le navi missilistiche della marina israeliana hanno attaccato contemporaneamente due strutture navali siriane: il porto di Al-Bayda e il porto di Latakia, dove erano attraccate 15 navi della marina siriana. Obiettivi: Sono state distrutte decine di missili mare-mare con una gittata compresa tra 80 e 190 chilometri. Ogni missile trasportava una carica esplosiva significativa, che rappresentava una minaccia per le navi civili e militari della regione. Ore di volo: Gli aerei con equipaggio hanno sorvolato per centinaia di ore lo spazio aereo siriano e insieme ai caccia hanno effettuato oltre 350 attacchi aerei. Obiettivi attaccati: Sono stati attaccati diversi obiettivi, tra cui batterie di difesa aerea, campi di aviazione dell'Aeronautica militare siriana e decine di siti di produzione di armi a Damasco, Homs, Tartus, Latakia e Palmira. Scorte neutralizzate: Sono state neutralizzate numerose armi strategiche, tra cui missili Scud, missili da crociera, missili terra-mare, superficie-aria e superficie-superficie, veicoli aerei senza pilota, jet da combattimento, elicotteri d'attacco, installazioni radar, carri armati, hangar e altro ancora.
(Israel Heute, 11 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Riccardo Calimani: Gesù con la kefiah sciocchezza antistorica
di Adam Smulevich
Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione di Gesù ebreo, uno dei libri di maggior successo di Riccardo Calimani. «Chi si ricorda più del perché il capodanno arrivi otto giorni dopo Natale? Quanti ricordano, nel momento in cui brindano all’anno nuovo, che festeggiano la circoncisione di un bambino ebreo? Conoscere le origini di questa storia può, forse, avvicinare uomini che credono di essere molto diversi», premetteva lo studioso dell’ebraismo italiano all’inizio della sua dotta ricostruzione per calare «nel reale contesto storico» la vita di Gesù.
Anche per questo Calimani si dice amareggiato per la “palestinizzazione” del presepe vaticano omaggiato da papa Francesco venerdì scorso, con al centro della scena il bambin Gesù avvolto da una kefiah. «Una vera sciocchezza. Lo dico da pacifista assoluto, che soffre senza distinzioni per tutte le popolazioni di quell’area. La guerra è lunga e logorante e sinceramente non capisco dove vada a parare. Ma prendere una posizione di quel tipo, farlo in quel modo, mina la comprensione dei fatti», sostiene Calimani, già presidente del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara e della Comunità ebraica di Venezia. Lo studioso si è dato una spiegazione per l’accaduto: «Il fatto è che gli ebrei sono “perturbanti”, ancor di più in una situazione di conflitto estenuante come questa. Ma non bisogna perdere di vista la realtà: Gesù è stato un ebreo osservante e come tale visse tutta la sua esistenza dalla nascita fino alla morte. Nel saggio mi sembra di averlo dimostrato in modo esauriente».
Il libro di Calimani ricevette all’epoca «un positivo riscontro nell’opinione pubblica», sottolinea l’autore. Ma ci fu anche chi in ambito ecclesiastico non gradì, «come ad esempio il cardinal Gianfranco Ravasi, che scrisse una stroncatura: anni dopo comunque ci siamo rincontrati ed è stato più affettuoso rispetto ad allora; tra l’altro ha letto con attenzione e citato un mio successivo lavoro su Paolo di Tarso». Calimani ricorda che all’uscita del libro ci fu «anche qualche diffidenza nel mondo ebraico e ancora oggi in quest’ambito c’è chi fa confusione tra la proiezione messianica del “Cristo” e la figura storica di Gesù l’ebreo: la prima evidentemente non ci riguarda, la seconda invece sì». Non fosse altro per affrontare con maggiore consapevolezza eventuali storture e strumentalizzazioni come quelle di cui sopra, sostiene l’autore di Gesù ebreo. Per Calimani, «il Dialogo deve servire a progredire in ogni senso e per questo è bene essere franchi e schietti, mai dimenticando che il mondo ebraico è anche abbastanza anarchico di per sé; noi il papa non ce l’abbiamo e ogni ebreo pensa con la sua testa».
(moked, 11 dicembre 2024)
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E' proprio sicuro Calimani che "la proiezione messianica del Cristo" non riguardi gli ebrei? Ed è proprio sicuro che la presentazione di Gesù con la kefiah sia soltanto una "sciocchezza storica"? Che strana sorte quella degli storici, che da una parte pensano sia atteggiamento scientifico la "riduzione al minimo" della presentazione particolare dei fatti e dall'altra si esibiscono in un "innalzamento al massimo" della loro interpretazione generale. "Calzolaio, non oltre la scarpa!" M.C.
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Sul confine settentrionale di Israele con migliaia di contadini thai
Sul confine settentrionale di Israele con migliaia di contadini thai
di Rebecca Tan e Heidi Levine
Da circa un anno il confine settentrionale di Israele con il Libano è stato in gran parte sgomberato dalla presenza di civili. Anche prima che iniziasse a vacillare il cessate il fuoco con Hezbollah il governo israeliano aveva detto che il ritorno a casa dei residenti non era sicuro. C’è stato un gruppo di civili, però, che sono rimasti lì per tutta la guerra. Quando Israele ha ordinato l’evacuazione dalle regioni di frontiera per i 143 mila civili oltre un anno fa, permise ai lavoratori agricoli migranti, che provengono per lo più dalla Thailandia, di restare per innaffiare i raccolti, gli alberi delle prugne e raccogliere la frutta mentre i missili cadevano attorno a loro. Secondo le autorità, migliaia di lavoratori thailandesi lavorano da mesi vicino alle frontiere di Israele, alcuni dentro zone militari chiuse dove sono i soli civili presenti insieme ai soldati israeliani. Durante gli attacchi lungo la frontiera questo anno sono morti almeno sei migranti, cinque thailandesi ed un indiano. Quattro lavoratori thai sono stati uccisi dal fuoco dei missili ad ottobre dopo aver ricevuto il permesso militare di Israele di lavorare nella città evacuata di Metula, a qualche centinaio di metri dalla frontiera, hanno detto le autorità thailandesi. “Abbiamo provato tutto il possibile per fermare questa situazione” ha detto l’ambasciatrice thai in Israele, Pannabha Chandraramya in un’intervista a Tel Aviv. Anche prima dell’incidente a Metula, le autorità thai avevano pregato le autorità israeliane tantissime volte di non permettere di lavorare nelle zone ad alto rischio, ha detto l’ambasciatrice, ed ogni volta aveva ricevuto le rassicurazioni degli israeliani. La legalità di inviare lavoratori stranieri nelle zone militari è vaga, dicono i gruppi dei diritti, fino ad ottobre, quando fu ucciso un thailandese. Poi il ministro degli interni israeliano Moshe Arbel disse che era illegale impiegarli in aree che erano state evacuate. In incontro privato il mese seguente, dice Pannabha, Arbel promise di nuovo che non sarebbero stati mandati lavoratori thai sulle prime linee. E tuttavia, l’ambasciatrice sa che ci sono ancora cittadini thailandesi nei campi aperti della battaglia del nord come del sud di Israele, lontani dai rifugi e senza quasi nulla che li ripari dalle granate. Quando a metà novembre si sono intensificati gli scontri sulla frontiera con il Libano, i giornalisti del WP vedevano camion di lavoratori thai entrare nelle zone militari chiuse presso i posti di blocco di Israele. “E’ una cosa inaccettabile” dice l’ambasciatrice con la voce esasperata. La Thailandia ha già perso troppo in questa guerra, aggiunge. Sono infatti 41 i cittadini thailandesi uccisi il 7 ottobre 2023 dai militanti di Hamas, il terzo numero di morti maggiore dopo Israele e USA. Circa 30 sono stati presi in ostaggio e sei sono ancora lì. La Federazione degli Agricoltori Israeliani, che rappresenta gli agricoltori del paese, non ha risposto alle richieste di commento. Il ministro degli Interni ha diretto le domande all’Autorità della Popolazione e Immigrazione, che ha detto che la responsabilità di permettere ai lavoratori di entrare nelle zone ad alto rischio sta nelle mani dei militari. “L’agricoltura è una componente fondamentale dell’economia dei cittadini nel nord, e per bilanciare i vari bisogni e permettere il mantenimento dell’agricoltura per quanto possibile, sono riviste le richieste degli agricoltori nelle zone militari chiuse. Secondo la valutazione del caso si fanno eccezioni per permettere il lavoro agricolo nelle aree militari ristrette” si legge in una dichiarazione dei militari israeliani.
• UNA LIBERA SCELTA?
Il governo israeliano dice che i lavoratori thai non sono costretti a lavorare nelle regioni di frontiera né a stare in Israele. Per i gruppi di difesa del lavoro si tratta di pura ipocrisia. “Non si tratta di una scelta libera, per niente affatto” dice Nir Dvortchin, regista israeliano che ha prodotto un documentario sui lavoratori thailandesi in Israele. Anche se volessero cambiare datore di lavoro o cantiere, la maggior parte dei lavoratori thailandesi ha troppa paura di chiederlo o non è in grado di farlo perché parla poco o niente l’inglese, ha dichiarato Orit Ronen, responsabile del dipartimento per i lavoratori agricoli di Kav LaOved, un gruppo israeliano per i diritti. Una decina di lavoratori thai intervistati da WP dicono che guadagnano in Israele dieci volte di più di quanto guadagnano nel povero Nordest Thailandese da cui proviene la maggioranza di loro. Hanno inoltre giovani figli da mantenere ed alcuni hanno fatto i debiti per poter raggiungere Israele. Se scelgono in un dato giorno di non lavorare per questioni di sicurezza, i datori di lavoro non li pagano. Perciò lavorano quasi tutti giorni. I video fatti dagli stessi li mostrano mentre raccolgono le mele e i kiwi durante il suono delle sirene, nascondendosi dietro gli alberi o sotto i camion mentre i missili scorrono sulle loro teste, e correre a piedi nei campo quando inizia il panico. Non è un lavoro normale, dice Thitiwat Klangrit, mentre pota un albero di pesche a Metula durante un pomeriggio recente. Vestito con una camicia di cotone sottile e un cappello da sole, ha fatto una smorfia mentre i razzi scoppiavano nelle vicinanze. Si era abituato ai rumori della guerra, dice, ma è diventato più nervoso qualche settimana fa, dopo che un gruppo di quattro operai che conosceva è andato a lavorare vicino alla collina dietro di lui. Thitiwat ha strizzato gli occhi al sole, indicando la direzione della linea di confine. I suoi amici hanno superato quella collina, ha detto, e non sono più tornati indietro.
• LASCIARE E RITORNARE
Israele si è trovata sotto la forte pressione di far crescere il proprio settore agricolo dopo che la Turchia, che era un grande esportatore di alimenti, ha fermato tutti gli scambi a maggio. La maggior parte dei raccolti nazionali di Israele, però, si trovano nelle regioni settentrionali e meridionali dove mancano i lavoratori. Ai lavoratori palestinesi è stato vietato di lavorare in Israele dopo la guerra e molti lavoratori israeliani sono stati arruolati per combattere. Prima dell’attacco del 7 ottobre, circa 30.000 thailandesi lavoravano nelle aziende agricole israeliane, il risultato di uno sforzo di reclutamento pluridecennale da parte di Israele per liberarsi della forza lavoro palestinese, secondo i ricercatori del lavoro. Circa 9.000 di loro sono tornati a casa subito dopo l’attacco. Ma gli agricoltori israeliani hanno offerto salari più alti a quelli disposti a tornare – e molti hanno accettato, arrivando a ondate dall’inizio dell’anno. A novembre, secondo i dati del governo, c’erano 35.000 lavoratori thailandesi in Israele. Lior Bez, 51 anni, membro dell’unità di riservisti delle Forze di Difesa israeliane che sorveglia il posto di blocco a Metula, ha detto che ci sono “un sacco” di thailandesi che lavorano nella città pesantemente bombardata e nei dintorni. “Hanno le loro ragioni per tornare”, ha detto Bez. “Non possiamo certo chiedere loro di andarsene”. Suraphut Theerawuth lavorava ai sistemi di irrigazione lungo il confine con Gaza durante l’assalto di Hamas e ha detto di essere sopravvissuto chiudendosi in un bunker. Ritornò nella sua provincia di Udon Thani in Thailandia, dove però non c’erano posti di lavoro che potessero competere con la sua paga in Israele, circa 2.700 dollari al mese, ha detto. Così è tornato alla sua vecchia fattoria, che era “abbandonata”, ha detto, tranne che per i thailandesi. Il suono dei bombardamenti israeliani su Gaza settentrionale sono una costante. Occasionalmente razzi e granate arrivano sul lato israeliano della frontiera. “Naturalmente ho paura ma devo lavorare” dice Suraphut che condivide la foto della figlia di cinque anni dagli occhi belli e scuri e dalle sopracciglia folte. Anuchat Khokham, un uomo di 43 anni, ha detto di essere tornato a Metula dopo che sua moglie ha partorito due gemelli otto mesi fa. Pradoemchai Samart ha detto di essere tornato nei terreni agricoli a nord di Haifa perché ha accumulato debiti in Thailandia che ora deve saldare. Pensava che a nord sarebbe stato più sicuro che a sud. Ma anche lì i suoni dei missili, dei jet e dei droni suonano a ripetizione e lo tengono sveglio di notte, ha detto Pradoemchai. “Non sapevo che sarebbe stato così”, ha detto.
• NON AVEVO IDEA DI COME SENTIRMI
Quando Thitiwat è arrivato ad aprile per lavorare a Metula, Prahyat Pilasrum era lì da sei mesi. I due condividevano una stanza, insieme a un terzo lavoratore, in un hotel a circa 17 miglia dal confine, ha raccontato Thitiwat. Cucinavano cibo thailandese l’uno per l’altro su una stufa a gas che avevano montato sul balcone e si scambiavano birre il sabato, il loro unico giorno libero. Negli ultimi mesi hanno parlato di più della guerra. Prahyat è più ottimista di lui, dice Thitiwat. Una volta che la situazione fosse diventata meno pericolosa, gli ha detto il suo compagno di stanza, sarebbero andati a pescare insieme. Il 31 ottobre, Thitiwat era al lavoro in un pescheto quando ha visto un’esplosione che sembrava più vicina del solito. Poco dopo, lui e altri lavoratori hanno visto un elicottero scendere sul luogo dell’esplosione. Thitiwat ha raccontato di aver chiamato più volte il telefono di Prahyat, ma il suo coinquilino non ha risposto. “Non avevo idea di cosa fare. Non sapevo come sentirmi”, ha ricordato Thitiwat. Prahyat era uno dei quattro lavoratori thailandesi uccisi quel giorno. Aveva 42 anni, era padre di tre figli ed era il capofamiglia della sua famiglia. I resti dei lavoratori sono stati raccolti e inviati all’aeroporto Ben Gurion di Israele, dove Pannabha ha guidato i funzionari thailandesi e israeliani in una cerimonia. Pannabha ha detto che rimpatriare i resti dei cittadini thailandesi, cosa che ha dovuto fare più volte nell’ultimo anno, è stato l’incarico più difficile della sua carriera. “Ogni volta”, ha detto, “prego che sia l’ultima”. Dopo l’incidente, il ministro degli Esteri thailandese ha inviato a Israele una lettera di protesta e ha chiesto a tutti i cittadini thailandesi di evacuare le regioni di confine. L’ambasciata thailandese a Tel Aviv ha diffuso degli opuscoli per informare i lavoratori che il nord non è sicuro. Ma alla fine, ha detto Pannabha, la Thailandia non ha autorità nel Paese. Thitiwat ha detto di non essere riuscito ad andare al lavoro il giorno dopo l’uccisione di Prahyat. Non è andato nemmeno il secondo giorno. Il terzo giorno ha chiamato la moglie, che era a casa in Thailandia e si occupava della loro figlia di 2 anni. Il quarto giorno, ha detto Thitiwat, si è alzato prima dell’alba, ha lasciato la stanza d’albergo con il letto vuoto di Prahyat ed è tornato al lavoro.
(Le Terre Sotto Vento, 11 dicembre 2024)
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Netanyahu: “Stiamo smantellando l’asse iraniano pezzo per pezzo”
Lo Stato di Israele sta affermando il suo status di centro di potere nella nostra regione, come non accadeva da decenni Con la caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria si è aperto un nuovo capitolo in Medio Oriente. Lo ha affermato ieri (lunedì) il primo ministro Benjamin Netanyahu in una conferenza stampa a Gerusalemme, la prima in 99 giorni. Parlando ai giornalisti, ha affermato che Israele stava sconfiggendo i suoi nemici “passo dopo passo” in una “guerra per l’esistenza che ci è stata imposta”, e ha citato la Siria di Assad come “elemento centrale dell’asse del male dell’Iran”. Domenica mattina, i ribelli siriani hanno preso il controllo di Damasco dopo un’offensiva lampo durata due settimane, ponendo fine a 13 anni di guerra civile contro il governo siriano e a oltre 50 anni di governo della famiglia Assad. Netanyahu ha sottolineato i miliardi di dollari investiti dall’Iran per mantenere Assad al potere e la crudeltà del regime nei confronti dei suoi cittadini, sottolineando che ha “massacrato centinaia di migliaia di suoi connazionali”. La Siria di Assad ha “fomentato ostilità e odio” verso Israele, lo ha attaccato nella guerra dello Yom Kippur del 1973, è stata “una postazione avanzata del terrore iraniano” e un canale di trasporto di armi dall’Iran a Hezbollah, ha aggiunto. Facendo riferimento alla conquista delle alture del Golan da parte di Israele nel 1967 e alla successiva annessione, Netanyahu ha affermato che “oggi tutti comprendono la grande importanza della nostra presenza lì, sul Golan, e non sulle sue pendici”, aggiungendo che il controllo di Israele sul Golan garantisce la sua sicurezza e sovranità. Il premier ha ringraziato il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump per aver “riconosciuto la sovranità israeliana” sul Golan nel 2019. “Le alture del Golan saranno per sempre una parte inseparabile dello Stato di Israele”, ha affermato. Netanyahu ha ribadito la sua precedente affermazione secondo cui la caduta di Assad è stata il “risultato diretto dei duri colpi che abbiamo inferto ad Hamas, a Hezbollah e all’Iran”, e ha affermato che fin dagli attacchi del 7 ottobre, Israele ha lavorato in modo “sistematico, misurato e ordinato” per smantellare l’asse iraniano. A Gaza, ha affermato, Israele sta ora agendo “per smantellare i resti delle capacità militari di Hamas e tutte le sue capacità di governo” e per riportare indietro tutti gli ostaggi. Passando al Libano, Netanyahu ha sottolineato che il leader di Hezbollah eliminato Hassan Nasrallah era stato il collegamento chiave tra Hezbollah, Siria e Iran. Era “l’asse dell’asse: colpiscilo e colpisci duramente l’asse”.
L’eliminazione di Nasrallah è stata una svolta nel crollo
dell’asse,
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ha sostenuto, aggiungendo che “Nasrallah non è più con noi e l’asse non è più quello di una volta”. Israele lo sta “smantellando passo dopo passo”. Hezbollah ha iniziato a lanciare attacchi transfrontalieri contro Israele il giorno dopo l’attacco di Hamas dell’anno scorso, lanciando razzi e droni contro comunità di confine e postazioni militari, costringendo a sfollare circa 60.000 israeliani dalle loro case nel nord del paese. Nasrallah è stato ucciso a fine settembre 2024 da un attacco aereo israeliano a Beirut, mentre Israele intensificava la sua campagna contro Hezbollah, lanciando infine un’incursione di terra nel Libano meridionale. Alla fine di novembre, le parti hanno concordato un cessate il fuoco, che ha sostanzialmente retto, nonostante alcuni attacchi aerei da parte di Israele contro gli agenti di Hezbollah, in seguito a violazioni della tregua. “L’Iran ha creato una rotta del terrore dal Golfo Persico al Mar Mediterraneo, dall’Iran all’Iraq, dall’Iraq alla Siria, dalla Siria al Libano. A sud, hanno armato Hamas. Ancora più a sud, gli Houthi, che abbiamo anche duramente colpito”, ha detto, ma ha aggiunto che “l’asse non è ancora scomparso”.
“Chiunque collabori con noi, ne trae grandi benefici. Chiunque ci attacchi, perde molto”.
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“Ma come ho promesso, stiamo trasformando il volto del Medio Oriente”, ha detto Netanyahu. “Lo Stato di Israele sta affermando il suo status di centro di potere nella nostra regione, come non accadeva da decenni”.
ha detto, aggiungendo che vuole vedere una Siria diversa, a beneficio sia di Israele che dei siriani. “Lo abbiamo dimostrato all’inizio della guerra civile quando abbiamo costruito un ospedale da campo al confine, e abbiamo curato migliaia di [civili] siriani feriti”, ha ricordato. “Centinaia di bambini siriani sono nati in Israele. Ancora oggi, [stiamo] tendendo una mano a chiunque voglia vivere con noi in pace, e taglieremo la mano a chiunque cerchi di farci del male”. Passando alle nuove posizioni delle IDF in una zona cuscinetto tra Israele e Siria sulle alture del Golan, Netanyahu ha osservato di aver ordinato all’esercito di prendere il controllo della zona cuscinetto e dei punti di accesso, “incluso quello che viene chiamato l’Hermon siriano”. L’IDF ha sottolineato che la mossa, che ha visto le forze israeliane prendere posizione all’interno della zona cuscinetto per la prima volta dall’Accordo di disimpegno del 1974, è temporanea, ma hanno riconosciuto che le truppe probabilmente rimarranno all’interno del territorio siriano per il prossimo futuro. Guardando più lontano, Netanyahu ha affermato che la guerra su più fronti condotta da Israele ha avuto successo grazie a tre elementi: il coraggio dei soldati, la resilienza del fronte interno e la volontà sua e del suo governo di resistere alle forti pressioni interne e internazionali “per fermare la guerra prima di aver raggiunto tutti i nostri obiettivi”. “Le nostre azioni stanno smantellando l’asse mattone dopo mattone, e tutto questo perché abbiamo resistito, io ho resistito, alla pressione” di fermare la guerra prematuramente, ha affermato, aggiungendo di essersi attenuto “agli obiettivi della guerra fino alla vittoria totale”. L’obiettivo della vittoria totale – che “la gente derideva”, ha detto – “sta oggi diventando realtà”.
“L’isolamento di Hamas apre un’altra possibilità di progredire verso un accordo che riporterà indietro i nostri ostaggi”,
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ha detto, promettendo che lui e il governo stanno “girando ogni pietra” per riportare a casa tutti gli ostaggi, “i vivi e i caduti”.
Parlando di Hamas, ha detto che il gruppo terroristico di Gaza è “più isolato che mai” dopo la caduta di Assad in Siria. “Sperava in un’unificazione dei fronti. Invece, ha ottenuto un crollo dei fronti. Si aspettava aiuto da Hezbollah, glielo abbiamo tolto. Si aspettava aiuto dall’Iran, gli abbiamo tolto anche quello. Si aspettava aiuto dal regime di Assad, beh, ora non succederà”, ha detto seccamente.
Le trattative per un accordo sugli ostaggi si sono arenate e sono fallite più volte nell’ultimo anno, ma sono state recentemente riprese in seguito al cessate il fuoco in Libano e ad altri sviluppi nella regione, insieme alla minaccia del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump che “sarà dura pagare l’inferno” se gli ostaggi non verranno rilasciati entro la sua entrata in carica il 20 gennaio. Israele ritiene che 96 dei 251 ostaggi rapiti il 7 ottobre siano ancora a Gaza, compresi i corpi di almeno 34 morti confermati dalle Forze di difesa israeliane. Negli ultimi 14 mesi, le truppe dell’IDF hanno salvato otto ostaggi e recuperato i corpi di 38. “Eravamo qui prima dei nostri nemici e saremo qui dopo i nostri nemici”, ha concluso Netanyahu, avvertendo che Israele ha ancora “grandi sfide” davanti a sé, ma è fiducioso che lo Stato ebraico prevarrà.
(Rights Reporter, 10 dicembre 2024)
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Il mondo si meraviglia di Israele
La guerra di Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza sta cambiando il Medio Oriente e dimostra le straordinarie capacità militari di Israele. In un effetto domino che nessuno avrebbe potuto prevedere, soprattutto nei primi mesi di guerra, gli arcinemici di Israele stanno cadendo uno dopo l'altro: Hamas, Hezbollah, altre milizie terroristiche sciite, la Siria e un Iran strategicamente e moralmente indebolito. Né l'Iran né la Russia hanno voluto o potuto salvare il loro alleato di lunga data in Siria, il regime di Assad.
di Aviel Schneider
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Una foto di Nasrallah appesa durante il funerale di 30 combattenti di Hezbollah uccisi nel combattimento contro le forze israeliane
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GERUSALEMME - La guerra in corso di Israele contro Hezbollah in Libano ha avuto ripercussioni strategiche nella regione e alla fine ha portato al collasso dell'asse iraniano nel nord di Israele. Fonti di intelligence occidentali sostengono che il regime degli ayatollah di Teheran sia furioso per i danni che Hamas ha inflitto all'intero “asse della resistenza”. L'asse sciita è stato costruito in quattro decenni e ora tutto è stato distrutto. È colpa di Israele e perché questo asse voleva distruggere Israele. Ma tutto è andato storto perché i nemici hanno colpito la sicurezza di Israele, il popolo di Israele, la biblica pupilla dell'occhio di Dio.
Dopo la caduta del regime di Assad, John Spencer, ex ufficiale dell'esercito statunitense, ha parlato al quotidiano Maariv della nuova realtà strategica di Israele: “I Paesi della regione devono assumersi la responsabilità della loro sicurezza e Israele è il chiaro leader. Israele ha difeso i suoi interessi di sicurezza con capacità militari eccezionali che lo rendono oggi uno dei Paesi più forti della regione”. La gente vede il cambiamento nella guerra, ma non tutti vogliono o possono riconoscere il cambiamento positivo in Israele. Che sia per odio, stupidità o pura follia. Chi ha occhi vede, chi ha orecchie sente, ma non capisce. Non è forse di questo che parlava il profeta Isaia quando diceva: “Con le orecchie udrete ma non capirete, con gli occhi vedrete ma non riconoscerete”? Senza sicurezza, Israele non ha il diritto di esistere in questa regione. È una responsabilità del popolo, non solo del governo e dell'esercito. Il popolo israeliano, in senso collettivo, ha dimostrato il suo dovere in questo senso, nonostante le divisioni politiche tra i cittadini.
Il punto di svolta nella guerra è arrivato poco prima delle festività ebraiche di settembre, quando migliaia di cercapersone sono esplosi nelle tasche dei terroristi sciiti di Hezbollah in Libano. “Nonostante tutte le sfide, e dopo 14 mesi di combattimenti, Israele è più forte che mai, sia militarmente che politicamente”, ha dichiarato Spencer. “Si è affermato come potenza centrale nella regione e difensore dei valori democratici”. La distruzione delle basi iraniane e l'interruzione delle forniture di armi a Hezbollah sono elementi centrali della politica di deterrenza di Israele. “Israele non sta compromettendo la sua sicurezza e sta conducendo un'efficace campagna militare per ridurre la minaccia iraniana evitando un'escalation”. Oltre a Spencer, anche il comandante dell'esercito britannico ha espresso il suo stupore per le capacità militari di Israele. “Israele ha quasi completamente distrutto il sistema di difesa aerea dell'Iran e paralizzato la sua capacità di missili balistici per un anno”. L'ammiraglio Tony Radakin, comandante dell'esercito britannico, ha dichiarato ieri in un discorso al Royal United Services Institute. “Israele ci ha dimostrato il vantaggio sproporzionato della guerra moderna nella sua risposta all'Iran”, ha detto Radakin. “Non entrerò nei dettagli, ma negli attacchi di rappresaglia contro l'Iran in ottobre, Israele ha schierato più di 100 aerei che trasportavano meno di 100 armi. Gli aerei sono rimasti a più di 100 miglia (160 km) di distanza dagli obiettivi della prima ondata. Questo dimostra la potenza dei velivoli di quinta generazione combinata con eccellenti tecniche di attacco e un'eccezionale ricognizione. E tutto questo in un'unica missione”.
Lo Stato di Israele considera la sua sicurezza di altissimo valore per ragioni storiche, geografiche, sociali e spirituali. Il popolo ebraico ha vissuto generazioni di persecuzioni, antisemitismo e Olocausto, che hanno portato alla consapevolezza dell'importanza dell'indipendenza e dell'autoprotezione. Lo Stato è stato fondato per garantire che il popolo ebraico non debba mai più affrontare una simile minaccia. Dalla sua fondazione nel 1948, Israele ha affrontato una costante minaccia alla sua sicurezza da parte di Stati ostili e organizzazioni terroristiche. Conflitti come le guerre con gli Stati confinanti, gli attacchi terroristici e i lanci di razzi hanno evidenziato la necessità di una costante attenzione alla sicurezza. Israele si trova nel cuore del Medio Oriente, una regione caratterizzata da tensioni geopolitiche, conflitti religiosi ed etnici e interessi contrastanti delle potenze globali e regionali. Una forte sicurezza è considerata essenziale per preservare la sovranità di Israele e per poter condurre i negoziati di pace da una posizione di forza. Rispetto ai suoi vicini, Israele è geograficamente e demograficamente piccolo, il che lo rende più vulnerabile.
Gli investimenti nella sicurezza consentono al Paese di affrontare queste sfide. La società israeliana attribuisce grande valore alla coscrizione, al servizio militare e all'autodifesa come elementi centrali dell'identità nazionale. Israele sviluppa ed esporta tecnologie di sicurezza avanzate, non solo per garantire la propria sicurezza, ma anche per posizionarsi come potenza tecnologica e rafforzare le relazioni con altri Stati. La combinazione di tutti questi fattori porta Israele a investire notevoli risorse nella sua sicurezza, sapendo che questa è una condizione necessaria per la sua sopravvivenza e prosperità. Questo è ciò che vedono le persone che vogliono veramente vedere.
(Israel Heute, 10 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"Siano confusi e voltino le spalle tutti quelli che odiano Sion!
Siano come l'erba dei tetti, che secca prima di crescere!" (Salmo 129:5-6). Stiano attenti quelli anche soltanto a parole esprimono ad alta voce il loro odio verso Israele. La maledizione di Dio può essere tremendamente pratica (Genesi 12:3). M.C.
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Evento zoom con Ugo Volli e Emanuel Segre Amar
Martedì 10 dicembre - Ore 21
La guerra di Israele su sette scenari + ONU
Modera Bruno Guazzo
Presidente Federazione Associazioni Italia Israele
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Link
(Notizie su Israele, 10 dicembre 2024)
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Mosaico siriano
di Davide Cavaliere
Nel 1961, dopo lo scioglimento della Repubblica Araba Unita con l’Egitto, il governo siriano decise di «riconoscere i curdi» come entità allogena e nell’estate del 1962 avviò un censimento della popolazione della provincia di Jazira. Tutti i curdi identificati furono privati della cittadinanza siriana e dichiarati «estranei». Nello stesso periodo fu lanciata una campagna mediatica contro i curdi con slogan come «Salvate l’arabismo in Jazira» e «Combattete la minaccia curda». Queste politiche coincisero, non a caso, con l’inizio della rivolta curda di Mustafa Barzani in Iraq e la scoperta di giacimenti petroliferi proprio nella provincia di Jazira. Nell’estate del 1963, le forze armate siriane si unirono all’esercito iracheno per attaccare la rivolta guidata da Barzani.
La rapida avanzata delle fazioni dei ribelli in Siria e la fuga di Assad mette in luce alcuni aspetti di forte rilievo geopolitico sullo scacchiere mediorientale, al centro di una guerra che si protrae da un anno e due mesi tra Israele e Hamas spalleggiato da Hezbollah.
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l primo è che con la caduta del regime di Assad, il cui esercito si è squagliato come neve al sole, Israele incassa un altro risultato favorevole.
Dal 2013 ad oggi sono state centinaia le incursioni aeree israeliane sul territorio siriano per colpire le infrastrutture di Hezbollah, oggi che Hezbollah si trova fortemente indebolito, non ha potuto soccorrere il regime fantoccio russo alawita, lasciando di fatto spazio aperto all’avanzata dei ribelli. L’Iran, principale sponsor della formazione sciita libanese, viene così ulteriormente indebolito.
Negli ultimi mesi ha dovuto incassare l’uccisione del proprio plenipotenziario in Libano, Hassan Nasrallah, la decapitazione dei vertici militari di Hezbollah, e la distruzione di una parte consistente dell’arsenale del proprio principale delegato. Ora perde anche la sponda siriana, mentre a Gaza, quel che resta di Hamas, si avvia all’inevitabile conclusione della sua egemonia politico-militare all’interno della Striscia.
Tutto ciò mostra con evidenza che la strategia iraniana di accerchiamento di Israele, di un suo strangolamento dentro un cerchio di fuoco che avrebbe dovuto idealmente contemplare anche una sollevazione contro Israele in Cisgiordania, è fallito. Il cerchio è stato spezzato e sembra assai difficile che esso possa ricostruirsi in tempi brevi.
Il secondo è che la Russia, grande protettrice della Siria, non è in grado di garantire ad Assad il supporto militare necessario. È sicuramente prematuro affermare che con la caduta del regime di Assad, la Russia abbia perso il suo avamposto in Medio Oriente acquisito dopo la rinuncia americana ad avere un ruolo risolutivo nel contesto della guerra civile siriana, ma certo la sua mancanza di determinazione nel fare da argine all’avanzata delle forze anti Assad, denuncia la difficoltà a impegnarsi su un altro fronte che non sia quello ucraino.
Una Russia debole in Medio Oriente sicuramente non dispiace a Israele, considerando oggettivamente che le alleanze russe sono esplicitamente anti-israeliane come lo sono sempre state dal 1956 ad oggi. Nel dopo Assad, quale che sarà la fisionomia politica che assumerà il paese, se la Russia non si impegnerà a inviare forze per combattere i ribelli, essa perderà progressivamente peso.
Lo scenario che si inaugura è ancora fluido, ma apre indubbiamente una prospettiva di consolidamento americana e rilancia Israele come la principale potenza regionale. Spetterà dunque alla nuova Amministrazione Trump cogliere l’opportunità che si presenta, consentire a Israele di indebolire ulteriormente l’Iran e congiungere agli anelli già forgiati degli Accordi di Abramo, l’anello più importante, quello saudita.
(L'informale, 10 dicembre 2024)
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Il New York Times conferma la presenza di Hamas nelle scuole dell’ONU
di Michelle Zarfati
“Almeno 24 persone impiegate dall’UNRWA – in 24 scuole diverse – appartenevano ad Hamas o alla Jihad islamica palestinese (PIJ)” ha riferito il New York Times. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), responsabile dell’istruzione e dei servizi sociali nella Striscia di Gaza, ha dunque assunto membri di Hamas, come conferma il noto quotidiano americano, ribadendo la rivelazione fatta un anno fa da Israele.
Il giornale ha richiesto ad Israele documenti relativi ai dipendenti scolastici dell’UNRWA, dopo la distribuzione, ad opera dello Stato ebraico, di una lista di cento lavoratori dell’agenzia. Attraverso l’analisi dei documenti, ottenuti da Israele durante la sua campagna militare a Gaza, e le interviste con “attuali ed ex dipendenti dell’UNRWA, residenti ed ex studenti a Gaza”, il Times ha scoperto che “almeno 24 persone impiegate dall’UNRWA – in 24 scuole diverse” appartenevano ad Hamas o alla Jihad islamica palestinese (PIJ). La maggior parte erano amministratori di alto livello delle scuole – presidi o vicepresidi – il resto erano consulenti scolastici e insegnanti”, si legge nei documenti. “Quasi tutti gli educatori erano legati ad Hamas – secondo i registri – Erano quasi interamente combattenti delle Brigate Qassam”, ha riferito il giornale.
“I residenti di Gaza hanno rivelato nelle interviste che l’idea che Hamas avesse agenti nelle scuole dell’UNRWA era un “segreto di Pulcinella”. Un educatore sulla lista dei cento d’Israele è stato regolarmente visto dopo ore in divisa di Hamas con un kalashnikov al collo”, ha detto il giornale. Il Times ha puntato i riflettori su Ahmad al-Khatib, vicepreside di una scuola elementare gestita dall’UNRWA a Gaza. Era un terrorista di Hamas attivo a Khan Younis. Al-Khatib era un comandante di squadra con “almeno una dozzina di armi, tra cui un kalashnikov e bombe a mano”, secondo dettagliati documenti di Hamas. I protocolli mostrano inoltre che Hamas considerava le scuole e le altre strutture civili come “i migliori ostacoli per proteggere la resistenza” nella guerra del gruppo contro Israele.
L’uso da parte di Hamas delle scuole dell’UNRWA è andato oltre i confini di Gaza. Il Times ha osservato che a settembre Hamas ha annunciato la morte del suo leader in Libano. Si chiamava Fateh Sherif Abu el-Amin ed è stato ucciso in un attacco aereo nell’area di Tiro, nel sud del Paese, il 30 settembre. UN Watch ha rivelato che el-Amin era il preside della scuola secondaria Deir Yassin di El-Buss, gestita dall’UNRWA, e dirigeva il sindacato degli insegnanti dell’UNRWA in Libano, che supervisionava circa 39.000 studenti in 65 scuole. Nel corso degli ultimi mesi, Israele ha rivelato che l’UNRWA ha impiegato centinaia di terroristi grazie alle strutture scolastiche.
A luglio, il ministero degli Esteri israeliano ha pubblicato quello che ha detto essere solo un elenco parziale, contenente i nomi e i numeri di identificazione di 108 dipendenti dell’UNRWA che, secondo Israele, lavoravano per Hamas. L’elenco più ampio non è stato ancora rilasciato a causa di considerazioni di sicurezza, secondo il ministero. “Abbiamo fornito molte prove che l’UNRWA lavorasse fianco a fianco con Hamas”, ha detto il portavoce dell’Ufficio del Primo Ministro David Mencer, riferendosi alla server farm di Hamas scoperta sotto il quartier generale dell’UNRWA a Gaza City e ai tunnel di Hamas sotto le scuole dell’UNRWA nella Striscia. A ottobre, la Knesset ha votato per bandire l’UNRWA, con il ministero degli Esteri che ha definito l’agenzia per i rifugiati “marcia”. “Non si tratta solo di poche mele marce, come sta cercando di sostenere il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres. L’UNRWA a Gaza è un albero marcio completamente infettato da terroristi”, ha aggiunto il ministero.
(Shalom, 10 dicembre 2024)
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L’ambasciatore Di Gianfrancesco visita il museo degli ebrei del Caucaso
L'ambasciatore d'Italia a Baku (Azerbaigian), Luca Di Gianfrancesco, ha visitato il museo 'Mountain Jews" a Qirmizu Qeseba.Il Museo degli Ebrei di Montagna è stato inaugurato nel 2020 ed è ospitato nella sinagoga Karzhog del XIX secolo.
Gli ebrei della montagna, ebrei del Caucaso o juhuro sono i gruppi ebraici del Caucaso orientale, principalmente del Daghestan e delle regioni settentrionali dell'Azerbaigian. E' stata la fondazione "Stmeqi" che si è assunta la responsabilità di fornire reperti al museo. Questa fondazione è la più grande organizzazione che unisce gli ebrei di montagna nel mondo.
Durante la preparazione del museo, la fondazione ha invitato la diaspora e le comunità a trovare antichi manufatti.
"Il museo testimonia lo storico multiculturalismo e la secolare tolleranza religiosa in Azerbaigian" ha commentato l'ambasciatore.
(ANSA, 10 dicembre 2024)
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Milano – Beteavòn, dieci anni di mensa per tutti
di Daniel Reichel
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Le cuoche di Beteavòn
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Era il 2014 quando a Milano apriva i battenti Beteavòn, la prima cucina sociale kasher d’Italia, nata su iniziativa del Merkos l’Inyonei Chinuch, il ramo educativo del movimento Chabad-Lubavitch. Da dieci anni la missione non è cambiata: offrire pasti gratuiti a quanti si trovano in difficoltà dentro e fuori la comunità ebraica. «Quello che è cambiato», testimonia Sonia Norsa, tra le prime cuoche volontarie di Beteavòn, «è la quantità. Quando ho iniziato, il mercoledì preparavamo le challot (il pane per il sabato) e il giovedì i piatti da consegnare il giorno seguente per shabbat. Parliamo di qualche decina di pasti». Oggi dalla stessa cucina, condivisa con la scuola ebraica del Merkos, escono centinaia di pasti al mese distribuiti a persone bisognose della comunità e ai senzatetto assieme ai volontari dell’associazione City Angels, come anche ai centri di accoglienza presenti sul territorio. «Ci siamo accorti ben presto che la necessità e il bacino di utenza erano molto più ampi e non potevamo rimanere indifferenti», spiega Igal Hazan, rabbino del movimento Chabad di Milano e fondatore di Beteavòn, che in ebraico significa «Buon appetito». «In questi dieci anni», prosegue Hazan, «uno dei più importanti risultati è stato riunire, attraverso un’iniziativa ebraica, diversi enti e associazioni del territorio e della società civile. Non bisogna sottovalutare il valore della coesione e dell’unità nell’aiutare il prossimo». Un impegno riconosciuto dalla città di Milano, che negli scorsi giorni ha conferito a Beteavòn l’attestato di benemerenza civica.
Tra i progetti più recenti c’è la collaborazione con il Centro accoglienza ambrosiano di via Tonezza. «Due anni fa abbiamo cercato un’associazione da aiutare nella nostra zona. Il centro è praticamente dietro di noi», racconta Nathalie Silvera, tra i responsabili di Beteavòn. «Abbiamo parlato con la direzione e c’è stata subito sintonia. Così è iniziata una nuova collaborazione: ogni mercoledì, da due anni, portiamo una quarantina di pasti per chi è ospite del centro». Si tratta di una struttura attiva da oltre 40 anni in cui sono accolte e sostenute mamme in difficoltà. «Offriamo alle madri e ai loro bambini una casa e le aiutiamo in un percorso verso l’autonomia», spiega Francesca Magna del Centro accoglienza ambrosiano. «L’obiettivo è integrare o reintegrare le donne che arrivano da noi nella società, evitando che entrino nel circolo vizioso dell’assistenzialismo. I motivi per cui sono qui sono diversi: difficoltà economiche, abusi o sfruttamento da parte del partner o di un altro membro della famiglia». Il focus iniziale, quando le madri sono accolte in comunità «è soprattutto il benessere del bambino: creare le condizioni perché cresca in un ambiente sano che tuteli la sua infanzia. Dopo l’attenzione alle capacità genitoriali, ci concentriamo sulle competenze per permettere alle donne di migliorare ad esempio la lingua, di trovare un lavoro, di conoscere tutti i servizi territoriali di cui possono aver bisogno: dai servizi scolastici, al doposcuola, ai presidi sanitari, fino all’assistenza legale». Un aiuto, aggiunge Magna, è arrivato da un’altra collaborazione legata al mondo ebraico: l’associazione Human in progress. «Sono un gruppo di professionisti che ci stanno aiutando su alcuni profili per dare sostegno terapeutico e assistenza legale». Coma Hazan, anche Magna sottolinea l’importanza di fare rete. «Con Beteavòn ci siamo conosciuti per un fattore di prossimità ». Gestire le case accoglienza ha molti costi e il vitto è uno di questi. «Poter contare ogni mercoledì sui pasti monoporzione della cucina sociale ebraica è un aiuto importante. In più, ci mettono la massima cura e attenzione, tutti gli alimenti sono ben specificati».
Chi da due anni porta fisicamente in via Tonezza i pasti è Yonathan Ferri Abarbanel, genovese, nato in Israele, e gestore di due locali a Genova e Milano. «Ho visto un post su Instagram di una mia amica in cui raccontava di essere andata la sera a distribuire cibo ai senzatetto in stazione Garibaldi. Per me l’orario serale vuol dire lavoro, ma volevo dare anch’io un contributo ». E così è iniziata la collaborazione con Beteavòn il mercoledì pomeriggio. «Io non faccio molto, se non andare a prendere il cibo già pronto, metterlo in macchina e consegnarlo al Centro di accoglienza. Mi sento però utile e nel mio piccolo do una mano». Ad eccezione di un incontro, non c’è interazione tra lui e le persone ospitate nel centro. «Se non sbaglio, per l’ebraismo la forma di beneficenza più nobile è quando chi dà non sa a chi sta dando e chi riceve non sa da chi sta ricevendo. E mi ritrovo in questa idea».
Anche per Norsa l’importante è fare, nel suo caso cucinare. «Per chiunque siano i nostri piatti, ci mettiamo amore. Vogliamo sentano che è una cucina di famiglia. Se faccio un brasato, lo faccio come lo farei per i miei figli e nipoti. Abbondante e saporito». Si cucina pesce, carne, verdure, e le ricette vengono decise a seconda di cosa viene comprato o regalato da chi sostiene Beteavòn. «Facciamo dal cholent (stufato della tradizione ebraica ashkenazita) al pollo al curry. Alcune ricette un po’ le inventiamo. L’importante è la cura e il sapore di casa». Nell’ultimo periodo Norsa ha rallentato. «Ho avuto un infarto per cui purtroppo non posso andare quanto vorrei, ma tutte le cuoche sono bravissime. Io ho mandato anche mio figlio e mio nipote a distribuire il cibo ai senzatetto. In passato distribuivamo direttamente dai pentoloni ed era bello vedere i sorrisi delle persone. Cucinare bene per loro significa anche rispettarne la dignità. Dire con il cuore Beteavòn».
Per ogni festa ebraica escono dalla cucina sociale pasti ad hoc. «Per Chanukkah (quest’anno il primo giorno è il 25 dicembre) prepariamo alcuni dolci per i nostri utenti e per la casa di riposo della Comunità ebraica», sottolinea Hazan, che ricorda anche il significato di Chanukkah. «È la festa in cui accendiamo i lumi. Per farlo deve necessariamente essere buio, questo perché è in quel momento che si vede il valore della luce. Quando il periodo è più buio, ancor più importante è portare la luce».
(moked, 10 dicembre 2024)
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Israele nel Golan siriano: per la prima volta dal ‘73
Netanyahu: il regime di Assad è finito e così l’armistizio del 1974. “Questo accordo è durato 50 anni e ieri sera è crollato”.
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME – Le immagini diffuse dall’esercito mostrano soldati con pesante equipaggiamento invernale farsi strada in un paesaggio vasto e deserto, con i versanti brulli delle montagne parzialmente ricoperti di neve. Per la prima volta dalla guerra del Kippur nel 1973, Israele è rientrata in territorio siriano, e ha schierato le sue truppe non solo nella zona cuscinetto demilitarizzata ma anche sul lato sotto controllo di Damasco nelle alture del Golan - quello israeliano, annesso dallo Stato ebraico nel 1981 viene considerato territorio occupato da gran parte della comunità internazionale. Il complesso montuoso è considerato strategico perché consente di mantenere la visuale sulla zona circostante. La mossa israeliana è stata descritta dal primo Ministro Benjamin Netanyahu come necessaria per evitare che “forze ostili si insedino proprio presso il nostro confine”. Netanyahu però ha anche descritto il crollo del regime di Bashar al-Assad come un evento che potrebbe aprire nuove porte per un futuro diverso in Medio Oriente. “Questa è una giornata storica,” ha sottolineato ieri il premier visitando il confine. “Il crollo del regime di Assad, della tirannia di Damasco, offre grandi opportunità, ma è anche irto di pericoli significativi”. Netanyahu ha descritto gli eventi in Siria come una diretta conseguenza dell’azione israeliana contro Hezbollah e l’Iran, che avevano sostenuto il dittatore nel corso dei 14 anni di guerra civile. Allo stesso tempo però il primo ministro israeliano ha anche affermato che il collasso del regime segna anche quello dell’armistizio tra i due paesi risalente al 1974. “Questo accordo è durato 50 anni e ieri sera è crollato”, le parole di Netanyahu. “L'esercito siriano ha abbandonato le sue posizioni. Così abbiamo dato all'esercito israeliano l'ordine di prendere il controllo di queste posizioni per garantire che nessuna forza ostile si insedi proprio accanto al confine di Israele. Questa è una posizione difensiva temporanea finché non verrà trovato un accordo adatto”. In seguito ai movimenti delle truppe israeliane, il portavoce dell’Idf in lingua araba ha chiesto agli abitanti di cinque villaggi nelle zone limitrofe, Ofaniya, Quneitra, al-Hamidiyah, Samdaniya al-Gharbiyya and al-Qahtaniyah, di rimanere nelle proprie case fino a nuovo ordine. Israele non si è limitata a blindare il confine, con truppe e nuove trincee. Nelle ultime 48 ore, l’aviazione ha compiuto ripetuti raid in territorio siriano per distruggere fabbriche e depositi di armi, incluse armi chimiche. L’Idf ha affermato di aver anche aiutato una postazione delle Nazioni Unite a sud della Siria a respingere un attacco di uomini armati non identificati. Negli ultimi anni, Israele ha effettuato centinaia di raid nel paese, in massima parte senza assumersene ufficialmente la responsabilità, per contrastare le attività di Hezbollah e dell’Iran nella regione, con una sorta di patto di non belligeranza con la Russia, che della Siria ha controllato i cieli dall’inizio della guerra civile, e ha tollerato le attività dell’Idf in cambio dell’assicurazione che le sue forze non venissero in alcun modo coinvolte. Un equilibrio di interessi e attori in campo anche questo sgretolato dalla fine di Assad. Negli anni più cruenti della guerra siriana, Israele rimase alla finestra e riuscì a evitare scontri tanto con le truppe governative quanto con i ribelli. Addirittura, la stessa Idf si dedicò all’operazione Buon Vicino, mettendo su un ospedale da campo proprio sulle alture del Golan, evacuando pazienti siriani nei propri ospedali al nord e organizzando un servizio di clinica dentistica e pediatrica per i bambini della zona. Se oggi Israele guarda agli eventi in Siria con cautela, leader e analisti offrono qualche segnale di speranza.“Tendiamo la mano a tutti coloro che sono oltre il nostro confine in Siria: ai drusi, ai curdi, ai cristiani e ai musulmani che vogliono vivere in pace con Israele”, ha affermato Netanyahu. “Seguiremo gli eventi con molta attenzione. Se sarà possibile stabilire relazioni di buon vicinato con le nuove forze emergenti in Siria, questo è il nostro desiderio. Ma se non lo sarà, faremo tutto il necessario per difenderci.”
(la Repubblica, 9 dicembre 2024)
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Katz ordina una zona di sicurezza al confine con la Siria
L'Aeronautica militare israeliana (IAF) ha effettuato diversi attacchi in Siria nella notte di lunedì, distruggendo armi che Gerusalemme teme possano cadere nelle mani delle forze nemiche
di Akiva van Koningsveld e Amelie Botbol
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Truppe dell'unità d'élite Shaldag dell'Aeronautica israeliana sul versante siriano del Monte Hermon, 8 dicembre 2024
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Il Ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha ordinato alle Forze di Difesa Israeliane (IDF) di creare una zona di sicurezza al di là della zona cuscinetto con la Siria, priva di “armi strategiche pesanti e infrastrutture terroristiche”, ha annunciato lunedì il Ministero della Difesa. Katz ha dichiarato di aver ordinato all'IDF di assumere il pieno controllo della zona cuscinetto demilitarizzata sulle alture del Golan, creata dall'accordo di separazione delle forze del 1974 tra Damasco e Gerusalemme che pose fine alla guerra dello Yom Kippur del 1973. Inoltre, Katz ha ordinato l'ulteriore distruzione di armi strategiche precedentemente detenute dal regime e dalle milizie sostenute dall'Iran per evitare che cadano nelle mani delle forze terroristiche. Secondo il ministero, queste armi includono “missili terra-aria, sistemi di difesa aerea, missili superficie-superficie, missili da crociera, missili a lungo raggio e missili da crociera costieri”. Katz ha anche incaricato l'esercito di “prevenire e impedire il ripristino della via del contrabbando di armi dall'Iran al Libano attraverso la Siria, sul territorio siriano e ai valichi di frontiera”. Infine, Katz ha detto di aver chiesto all'esercito di cercare di stabilire contatti con la comunità drusa in Siria e con altre popolazioni locali. L'ex presidente siriano Bashar al-Assad è fuggito da Damasco domenica dopo che i gruppi di ribelli hanno preso d'assalto la capitale, ponendo fine al governo della sua famiglia durato cinque decenni. Un portavoce dei ribelli ha dichiarato domenica mattina alla televisione di Stato: “Il tiranno Bashar al-Assad è stato rovesciato”. In seguito agli eventi in Siria, l'IDF è stato schierato nella zona cuscinetto e in “alcune altre posizioni di difesa necessarie”. L'esercito ha spiegato che questa misura è stata presa a seguito di una valutazione della situazione, al fine di “garantire la sicurezza delle comunità delle Alture del Golan e dei cittadini di Israele”. I capi dell'intelligence hanno avvertito che il crollo del regime potrebbe portare a un caos che potrebbe sfociare in minacce contro Israele. L'IDF ha dichiarato nella tarda serata di domenica di continuare a operare lungo la nuova linea di confine con la Siria e di concentrarsi sulla ricognizione e sulla protezione della popolazione israeliana, in particolare sulle alture del Golan. Il versante siriano del Monte Hermon è stato conquistato domenica dalle forze speciali israeliane, che non hanno incontrato resistenza durante l'operazione. Tra le altre cose, le forze israeliane starebbero lavorando per portare avanti la costruzione di una barriera fortificata lungo il confine tra i due Paesi, il cosiddetto “Nuovo Oriente”. Nel frattempo, due “fonti di sicurezza del Medio Oriente” hanno riferito alla Reuters che l'IDF ha attaccato una struttura di ricerca a Damasco che sarebbe stata utilizzata dall'Iran per sviluppare missili di precisione a lungo raggio. L'IAF ha effettuato diversi attacchi in Siria nella notte di domenica e ha distrutto armi che Gerusalemme teme possano cadere nelle mani delle forze nemiche. Gli attacchi sono stati diretti contro depositi di armi, sistemi di difesa aerea e impianti di produzione di armi. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che domenica ha visitato il confine siriano, ha accolto con favore il crollo del regime di Assad, che ha descritto come un “anello centrale dell'asse del male dell'Iran”, e lo ha definito un “giorno storico nella storia del Medio Oriente”. Tuttavia, Israele proteggerà innanzitutto i suoi confini. “Quest'area è stata controllata da una zona cuscinetto per quasi 50 anni”, ha detto durante una visita al Monte Bental, un vulcano spento nelle Alture del Golan. “Ieri ho dato istruzioni all'IDF di prendere il controllo della zona cuscinetto e dei posti di blocco vicini. Non permetteremo alle forze nemiche di insediarsi ai nostri confini”, ha dichiarato il Primo Ministro. L'ex deputato israeliano e tenente colonnello dell'IDF in pensione Anat Berko ha dichiarato domenica a JNS: “Vediamo chiaramente il conflitto secolare - che risale al VII secolo tra sunniti e sciiti - e gli effetti domino della risposta di Israele dopo il massacro del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas e della Jihad islamica sul suolo israeliano, e dopo l'indebolimento di Hezbollah, che è stato coinvolto nel conflitto siriano per molti anni”. Sebbene il crollo del governo di Assad potrebbe avvantaggiare Israele nel breve termine, Berko ha affermato che “la Siria potrebbe diventare una terra di nessuno, simile a quella che io chiamo l'era dell'ISIS e del turismo jihadista”. Quando è iniziata la guerra civile, ha osservato Berko, cittadini di oltre 70 Paesi si sono recati in Siria per unirsi allo Stato Islamico, compresi cristiani convertiti all'Islam e arabi israeliani. “Spero che gli israeliani abbiano imparato la lezione del 7 ottobre”, ha detto l'ex parlamentare del Likud. “Dobbiamo presumere che ci siano tunnel al confine siriano con Israele e dobbiamo essere preparati a questo e analizzare la situazione molto attentamente. Non abbiamo a che fare con il nemico del nostro nemico. Sono entrambi nemici; i sunniti e gli sciiti odiano gli ebrei”. L'ex ambasciatore Jeremy Issacharoff, che è stato vicedirettore generale del Dipartimento di Stato a Gerusalemme e ha diretto la Divisione Affari Multilaterali e Strategici, ha osservato che mentre ci sono “elementi di pericolo e molta incertezza su ciò che accadrà e su chi prenderà il controllo”, la caduta di Assad è una “opportunità” in quanto “gli eventi attuali portano molti svantaggi ai nemici di Israele”. “Il popolo siriano è intelligente; si renderà conto che, dopo tanti anni di governo della famiglia Assad, potrebbe esserci l'opportunità di stabilizzare lo Stato, ricostruire le istituzioni e unire il Paese; questo potrebbe essere difficile, poiché molte aree devono essere riunite”, ha detto Issacharoff. “Stiamo seguendo da vicino e speriamo che in Siria possa emergere una leadership che possa creare maggiori opportunità per Israele”, ha aggiunto. Allo stesso tempo, secondo l'ex diplomatico israeliano, Gerusalemme “osserva sempre ciò che accade in Siria e siamo sempre preoccupati di come l'Iran stia usando la Siria per trasferire armi a Hezbollah”. “Penso che oggi ci sia un chiaro incentivo per i siriani a cercare una via di mezzo moderata invece di presentarsi come jihadisti islamici estremi”, ha concluso Issacharoff.
(Israel Heute, 9 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele distrugge le armi chimiche di Assad prima che finiscano in mano dei jihadisti
Decine di attacchi hanno distrutto anche arsenali di armi avanzate, missili e armi pesanti.
di Sarah G. Frankl
Domenica, i caccia dell’aeronautica militare israeliana hanno colpito decine di obiettivi in tutta la Siria, distruggendo armamenti che Israele temeva potessero cadere nelle mani di forze ostili, alla luce della drammatica caduta del regime di Bashar al-Assad. Sempre domenica, le Forze di difesa israeliane hanno preso il controllo di una zona cuscinetto tra il confine tra Israele e Siria sulle alture del Golan, in quella che hanno descritto come una misura difensiva temporanea. Decine di aerei dell’IAF hanno colpito numerosi obiettivi, concentrandosi sulla distruzione di “armi strategiche”, hanno riferito fonti della difesa, descrivendo gli attacchi come “molto intensivi”. Le armi colpite dagli aerei da guerra includevano siti avanzati di stoccaggio di missili, sistemi di difesa aerea e strutture di produzione di armi. Israele ha anche colpito un sito di armi chimiche nella notte tra sabato e domenica. Il regime di Assad, caduto domenica dopo un’offensiva lampo delle forze ribelli, era alleato del regime iraniano e faceva parte del cosiddetto Asse di resistenza contro Israele. Per molti anni la Siria è stata utilizzata come passaggio per le armi iraniane, dirette verso gruppi terroristici tra cui Hezbollah in Libano, con cui Israele ha stipulato un traballante cessate il fuoco il mese scorso. Secondo quanto riferito da fonti della sicurezza regionale, domenica Israele ha colpito almeno sette obiettivi nella Siria sudoccidentale. Tra queste, la base aerea di Khalkhala a nord della città di Sweida, da cui le truppe dell’esercito siriano si sono ritirate sabato sera. Le fonti regionali hanno affermato che l’esercito ha lasciato dietro di sé un’ampia scorta di missili, batterie di difesa aerea e munizioni, che sono state colpite domenica. Gli attacchi alla base aerea di Mezzeh a Damasco hanno preso di mira altri depositi di munizioni, hanno riferito le fonti. Filmati pubblicati sui social media presumibilmente mostrano i grandi attacchi aerei israeliani che hanno preso di mira la base aerea di Mezzeh. I video hanno mostrato un pesante bombardamento della base aerea. Successivamente, Israele ha condotto un’altra ondata di almeno tre attacchi aerei nella capitale siriana, prendendo di mira un complesso di sicurezza e un centro di ricerca governativo. Tali attacchi hanno causato ingenti danni alla sede principale della dogana e agli edifici adiacenti agli uffici dell’intelligence militare all’interno del complesso di sicurezza, nel quartiere Kafr Sousa di Damasco, dove Israele aveva precedentemente affermato che gli scienziati iraniani stavano sviluppando missili. Anche il centro di ricerca è stato danneggiato, ha riferito una fonte. Una delle fonti regionali ha affermato che gli attacchi hanno colpito le infrastrutture utilizzate per immagazzinare dati militari sensibili, equipaggiamenti e componenti di missili guidati. Secondo i media locali, sono stati segnalati attacchi anche nei governatorati di Daraa e Suwayda, nella Siria meridionale.
• PROTEGGERE IL CONFINE
Nel frattempo, l’IDF ha diramato un “avviso urgente” ai residenti di diversi villaggi siriani vicini al confine israeliano, durante le operazioni nella zona cuscinetto tra Israele e Siria. “I combattimenti nella vostra zona stanno costringendo l’IDF ad agire e non intendiamo farvi del male”, ha detto il colonnello Avichay Adraee, portavoce in lingua araba dell’IDF su X. “Per la vostra sicurezza, dovete restare a casa e non uscire fino a nuovo avviso”. L’avvertimento è stato lanciato ai residenti di Ofaniya, Quneitra, al-Hamidiyah, Samdaniya al-Gharbiyya e al-Qahtaniyah, tutti vicini al confine israeliano. Domenica l’IDF ha preso il controllo della zona cuscinetto tra Israele e Siria, sottolineando che si trattava di una misura difensiva e temporanea, dato il caos nel Paese dopo la caduta del regime di Assad. È la prima volta dalla firma dell’Accordo di disimpegno del 1974, in seguito alla guerra dello Yom Kippur, che le forze israeliane prendono posizione all’interno della zona cuscinetto tra Israele e Siria, sebbene in passato l’IDF sia entrato brevemente nella zona in diverse occasioni. “Stiamo agendo prima di tutto per proteggere il nostro confine”, ha detto il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, in visita alle Alture del Golan. “Quest’area è stata controllata per quasi 50 anni da una zona cuscinetto, concordata nel 1974, l’Accordo di separazione delle forze. Questo accordo è crollato, i soldati siriani hanno abbandonato le loro posizioni”. Secondo l’esercito, le truppe israeliane sono state dispiegate in specifiche posizioni strategiche nella zona cuscinetto per impedire la presenza di uomini armati non identificati nella zona. Israele ha informato gli Stati Uniti prima di assumere il controllo della zona, ha riferito Axios domenica sera, dicendo all’amministrazione Biden che si trattava di una mossa temporanea, che sarebbe durata solo pochi giorni o al massimo alcune settimane. L’IDF ha affermato che lo spiegamento è stato effettuato in coordinamento con la United Nations Disengagement Observer Force (UNDOF), che ha il compito di gestire la zona cuscinetto. I membri dell’UNDOF, fino a domenica, sono rimasti nelle loro posizioni. L’emittente pubblica Kan ha riferito domenica che il governo stava valutando di estendere ulteriormente l’area sotto il controllo delle IDF nelle alture del Golan, “prima che qualcun altro entri nel vuoto che si è creato”, citando una fonte anonima a conoscenza dell’argomento. Tra i movimenti in atto nella zona, domenica le truppe dell’unità d’élite Shaldag dell’aeronautica militare israeliana hanno conquistato il versante siriano del monte Hermon, situato a circa 10 chilometri dal confine, senza incontrare alcuna resistenza durante l’operazione. Un’immagine circolata domenica sui social media e ampiamente pubblicata sui media ebraici mostrava un gruppo di soldati dell’IDF che reggevano una bandiera israeliana sulla cima della montagna.
(Rights Reporter, 9 dicembre 2024)
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Diario minimo (di un conflitto). La casa di carta
di Luciano Assin
È bastata meno di una settimana per far crollare, come un castello di carte, il
sanguinoso regime della famiglia Assad, che da oltre 54 anni governava incontrastata la Siria. Anche questa volta, come è accaduto troppe volte in questo recente passato, le maggiori agenzie di Intelligence mondiali non sono state in grado di prevedere un simile collasso. Nonostante i proclami di
Abu Muhammed el Julani, il nuovo astro nascente dello scacchiere mediorientale, la prolificazione di etnie, minoranze e correnti sunnite e sciite unite nell’odio contro la dittatura halawita ma profondamente distanti fra di loro su come affrontare il futuro
non promette nulla di buono. Paradossalmente in una regione così martoriata come la nostra sono proprio i regimi più sanguinari e crudeli quelli che hanno garantito una discreta “stabilità” politica. Basti pensare a ciò che succede in Iraq e Libia dopo l’eliminazione di due figure chiave come Sadam Hussein e Gheddafi. Gli avvenimenti si sono svolti ad un ritmo così serrato che nessuna analisi è ancora possibile. Questa volta preferisco sottolineare alcuni spunti di riflessione.
• L’INCRINAMENTO DELL’ASSE SCIITA Questo è sicuramente il risultato più eclatante di questi ultimi avvenimenti.
Hezbollah ha siglato, con l’assenso iraniano, una tregua con Israele per riorganizzare le proprie fila. Hamas, lasciato solo al suo destino, cercherà anche lui di arrivare ad un compromesso col quale possa mantenere il suo potere nella striscia di Gaza. Proprio questo indebolimento dei tradizionali alleati degli Ayatollah porterà a mio avviso ad una
accelerazione del programma nucleare iraniano. In questo Khamenei punta sulle incertezze europee e sulle dichiarazioni di Trump che preludono ad un graduale distacco dallo scacchiere mediorientale.
• IL MANCATO INTERVENTO RUSSO
Putin è sempre stato attento a garantire una copertura politica e militare ai suoi alleati. Non aver saputo reagire in tempo reale all’implosione del regime halawita lede enormemente il suo prestigio e i suoi interessi geopolitici. La Russia ha in territorio siriano delle basi navali che rappresentano il suo unico sbocco sul Mediterraneo, è un patrimonio di vitale importanza per lo zar, che farà di tutto per non perderlo.
• L’IMPORTANZA STRATEGICA DEL GOLAN
Oggi più che mai l’altopiano del Golan ha assunto un’importanza strategica che dopo la guerra del Kippur sembrava definitivamente scomparsa. Nel caso di un attacco sul fronte siriano le alture in questione rappresenterebbero un
cuscinetto abbastanza profondo per arrestare un’operazione terrestre in larga scala. Proprio per evitare un simile scenario l’esercito israeliano ha già occupato delle postazioni strategiche nella zona cuscinetto stabilita negli accordi di non belligeranza siglati nel ’74.
• L’ATOMICA DEI POVERI
Anche i siriani tentarono di realizzare un progetto nucleare che si concluse con la distruzione da parte di Israele nel 2007, di una centrale atomica in costruzione di progettazione nordcoreana. In mancanza della bomba atomica la famiglia Assad sviluppò un programma basato su
ordigni chimici e batteriologici, usato con triste “successo” sia dal padre che dal figlio contro il loro stesso popolo. Una minaccia da non prendere assolutamente sottogamba.
• FIDARSI E BENE, NON FIDARSI È MEGLIO
Anche la
Giordania è governata da una minoranza, quella hascemita, non si tratta di una vera e propria dittatura ma esiste indubbiamente un pugno di ferro. Nonostante un’economia malandata e oltre 650mila profughi siriani, fuggiti dalla guerra civile, Re Hussein è riuscito fino a mantenere una buona stabilità politica nel paese, ma tutto è possibile e Israele, nonostante gli accordi di pace, dovrà guardare al vicino orientale con un certo sospetto.
A proposito di vicini, sulle alture del Golan esistono
4 villaggi drusi che da sempre si considerano parte della Siria. Già stasera, nella piazza principale di Majdal Shams, sventolavano in segno di solidarietà diverse bandiere siriane. Per il momento è da considerarsi più come un fatto di folklore che non come una rivolta civile, a mio avviso la minoranza drusa del Golan ha solo da perdere in tal caso.
Insomma, per il momento tutti navigano a vista, e nemmeno il capitano più esperto è in grado di prevedere dove soffierà il vento.
Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di ognuno di noi.
(Bet Magazine Mosaico, 9 dicembre 2024)
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Il tribunale di Gerusalemme assegna 2,3 milioni di dollari ai “collaboratori” torturati dall’Autorità Palestinese
di Michelle Zarfati
La Corte Distrettuale di Gerusalemme ha ordinato all’Autorità Palestinese di pagare un risarcimento a cinque palestinesi per un totale di circa 8 milioni di shekel (2,3 milioni di dollari) dopo che i civili sono stati torturati dalle forze dell’Autorità Palestinese con l’accusa di “collaborare” con le autorità israeliane. La sentenza è stata riportata per la prima volta domenica dal quotidiano israeliano Maariv.
Il giudice incaricato Miriam Ilany ha affermato che l’Autorità Palestinese “è responsabile dell’incarcerazione illegale e della tortura dei collaboratori”, aggiungendo che la condotta in corso di Ramallah “costituisce una palese violazione dei diritti umani fondamentali”. Ilany ha anche scritto che “non si tratta solo della perdita della libertà dei querelanti, ma anche di torture fisiche e psicologiche prolungate che lasceranno cicatrici per tutta la vita”.
Lo studio legale Arbus, Kedem e Tzur con sede a Gerusalemme, che ha rappresentato i palestinesi e le vittime del terrorismo, ha detto che le sentenze della corte inviano “un chiaro messaggio che lo Stato di Israele sosterrà chiunque gli tenda la mano nella sua lotta contro il terrorismo”. “Queste sentenze non riguardano solo il risarcimento, ma anche il ritenere responsabile un’autorità malvagia che perpetua il terrorismo a tutti i livelli”, ha condiviso l’azienda. Lo studio legale di Gerusalemme è attualmente coinvolto in un caso della Corte Suprema che mira ad espandersi, portando della legge israeliana a tutti coloro che hanno collaborato con lo Stato ebraico contro il terrorismo, nel tentativo di fornire un risarcimento aggiuntivo alle vittime della tortura palestinese.
A settembre, la Corte distrettuale di Gerusalemme ha emesso sentenze che ordinano all’Autorità Palestinese di risarcire tre “collaborazionisti” palestinesi che sono stati torturati per circa 3 milioni di shekel (840.000 dollari). Tra gli altri metodi di tortura, le vittime sarebbero state picchiate su tutto il corpo con fucili, manganelli e cavi elettrici, private del sonno, costrette a bere sapone. Sarebbero stati rotti anche dei denti alle vittime, con minacce e torture ai familiari.
“Gli atti definiti dai terroristi di ‘tradimento’ avevano lo scopo di prevenire ulteriore terrorismo contro Israele e contro gli israeliani – ha detto il giudice – cosa che l’Autorità Palestinese si era impegnata a prevenire nell’accordo provvisorio [degli Accordi di Oslo]”. Secondo i termini degli accordi di Oslo, che lo Stato ebraico ha firmato con Yasser Arafat negli anni ’90, la neonata Autorità Palestinese aveva il compito di combattere il terrorismo in alcune parti della Giudea e della Samaria.
Secondo Ilany, l’Autorità Palestinese “ha il diritto di proteggere la propria sicurezza e di agire contro spie e collaboratori, purché ciò non danneggi gli interessi di sicurezza di Israele”. Il 4 settembre, Kedem ha ottenuto un ordine provvisorio che consente a un gruppo di famiglie israeliane, che hanno perso i propri cari a causa del terrorismo, di sequestrare 160 milioni di shekel (42 milioni di dollari) di fondi dell’Autorità Palestinese congelati da Gerusalemme in attesa del procedimento. La causa ha segnato la prima azione intrapresa da quando la Knesset israeliana ha approvato il “Compensation for Terror Victims Bill” a marzo. La legge richiede ai tribunali di concedere danni punitivi di 10 milioni di shekel (2,66 milioni di dollari) per ogni decesso. Per facilitare la riscossione dei risarcimenti punitivi da parte delle vittime e dei loro eredi, le sentenze possono essere eseguite contro “qualsiasi proprietà dell’imputato, comprese le proprietà sequestrate o congelate dallo Stato di Israele”. L’Autorità Palestinese ha una delle più grandi forze di sicurezza pro capite del mondo, addestrata e armata dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali. L’amministrazione Biden aveva avanzato una proposta nei mesi precedenti che vedeva l’Autorità Palestinese al centro, assumendo il controllo della Striscia di Gaza dopo la fine della guerra contro Hamas, una proposta finora non vista di buon occhio a Gerusalemme.
(Shalom, 9 dicembre 2024)
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La caduta di Assad è una vittoria di Israele
di Ugo Volli
• LA SIRIA PRESA DAI RIBELLI
Il regime siriano è caduto la notte scorsa. Con un’operazione straordinariamente rapida i ribelli della HTS (Commissione per la salvezza della Siria) hanno conquistato in dieci giorni prima Aleppo, la seconda città del paese, e poi sono avanzati a sud fino a prendere le città della fascia più fertile e popolosa (Hama e poi Homs), fino ad arrivare a Damasco. Nel frattempo crollavano anche i bastioni del regime a sud, al confine con Israele, e a est, verso la Giordania e l’Iraq. Stamattina sono entrati a Damasco; il primo ministro siriano, Ghazi al-Jalali, ha sancito il passaggio del potere politico, il presidente Assad è fuggito in aereo per direzione ignota. Non vi è stata sostanzialmente resistenza militare e anche i protettori del regime (Russia, Iran con i suoi satelliti di Hezbollah e delle milizie sciite dell’Iraq), pur avendo basi e forze militare nel paese, non hanno tentato di resistere.
• UN CAMBIAMENTO STORICO
È un fatto storico. Il partito Baath controllava il paese dal 1961, la famiglia Assad ne aveva preso le redini nel 1970, prima col generale Hāfiẓ al-Asad, poi dopo la sua morte nel 2000 col figlio ed erede designato, Bashār al-Asad. Sotto la loro guida e quella dei loro predecessori la Siria era stata fra i nemici più pericolosi di Israele, partecipando a tutte le guerre contro lo Stato ebraico. Il suo esercito era temuto, nel ’73 solo l’eroica resistenza di un reparto carrista impedì alle truppe siriane di dilagare dal Golan in Galilea, fino a Haifa. Per un lungo periodo la Siria degli Assad esercitò un potere di fatto anche sul Libano. Poi l’inefficienza e la corruzione del regime e il fatto di essere basato sulla minoranza religiosa degli alawuiti (più simili agli sciiti dell’Iran che alla maggioranza sunnita) produsse una forte resistenza che fra il 2011 e il 2016 divenne rivolta e guerra civile. Questa fu repressa da Assad con atroce violenza, anche con l’uso di gas contro le città ribelli, nonostante la velleitaria opposizione di Obama. Alla fine il regime riuscì a stare il piedi, ma solo grazie all’aiuto militare di Russia, Iran e Hezbollah. Larghe zone del paese restavano fuori controllo, presidiate dai curdi appoggiati dagli americani e dai sunniti sostenuti dalla Turchia.
• IL DOPPIO ROVESCIAMENTO STRATEGICO
Il regime però era diventato un satellite dell’Iran e la base militare mediterranea della Russia. Per l’Iran, la Siria era l’anello centrale del suo progetto di un “ponte terrestre” fra il territorio persiano e il Mediterraneo e di un “anello di fuoco” mirato a distruggere lo Stato di Israele. Per la Russia era il punto di partenza per conservare e restaurare il potere che l’URSS aveva avuto nel Mediterraneo e nell’Africa. Entrambe queste grandi strategie imperialiste oggi sono crollate, per merito esclusivo di Israele. È stato lo smantellamento di Hezbollah e la distruzione delle difese aeree dell’Iran che hanno permesso ai ribelli di prendere l’iniziativa e di vincere. Gli ayatollah iraniani che pensavano il 7 ottobre del 2023 di dare il via alla distruzione dell’“entità sionista” ora si ritrovano con la liquidazione dei principali satelliti (Hamas e Hezbollah) che avevano addestrato, finanziato, armato e con l’instaurazione di un potere nemico nel paese centrale del loro progetto geopolitico, che avevano pure sostenuto con armi, finanziamenti, soldati. È un fallimento sostanziale, il crollo di un progetto decennale che ha impegnato centinaia di miliardi di dollari, tutto il potere militare e politico degli ayatollah: un crollo che potrebbe avere echi importanti anche dentro l’Iran. La Russia ha subito pure una sconfitta durissima, che mostra il costo enorme della guerra in Ucraina, che ha consumato le sue forze.
• LA PROSPETTIVA DI PACE
C’è ora una possibilità di pace per il Medio Oriente, condizionata però alla distruzione (negoziata o armata) del progetto nucleare dell’Iran e al problema del panturchismo che diventa improvvisamente di attualità. La vittoria dei ribelli siriani è stata infatti sostenuta logisticamente e politicamente dalla Turchia, che ha ambizioni imperiali neo-ottomane sull’Asia centrale, sul Mediterraneo e sul Medio Oriente, con toni sempre più aggressivi nei confronti di Israele. Bisognerà anche vedere se il nuovo regime siriano manterrà la faccia non aggressiva che ha ostentato finora, in particolare nei confronti di Israele, ma anche dei curdi. Israele si è preparata a tutti i possibili scenari, rafforzando il dispositivo militare nel Golan e occupando anche delle posizioni difensive nella fascia smilitarizzata tra il suo confine e quello siriano. Ma la sconfitta del tentativo imperialista iraniano apre comunque una finestra di pace possibile.
• UNA VITTORIA PER ISRAELE
Questi sviluppi hanno un grande significato per Israele. È chiaro che la strategia della guerra fino alla vittoria sostenuta dal governo Netanyahu contro il freno dell’amministrazione Biden e anche di importanti forze interne (l’opposizione di sinistra, ma anche parte dell’apparato militare e dei servizi) ha pagato. Israele potrebbe uscire da questa guerra con una vittoria militare che significa un sostanziale ridimensionamento dei suoi nemici, e – nella logica politica mediorientale – la possibilità di consolidare i rapporti con il mondo sunnita, in particolare con l’Arabia Saudita. Per concludere la terribile pagina di storia aperta dal pogrom del 7 ottobre, Israele deve però ottenere la liberazione dei rapiti, eliminare del tutto la struttura militare di Hamas e Hezbollah e soprattutto liquidare la minaccia nucleare iraniana. È probabile che con la presidenza Trump questi obiettivi siano a portata. Sarebbe una vittoria per tutto il mondo libero, ottenuta nonostante la freddezza di buona parte della politica europea e americana, in particolare dei suoi settori che a torto si dicono progressisti.
(Shalom, 8 dicembre 2024)
La caduta di Assad e la saldatura degli anelli
di Niram Ferretti
La rapida avanzata delle fazioni dei ribelli in Siria e la fuga di Assad mette in luce alcuni aspetti di forte rilievo geopolitico sullo scacchiere mediorientale, al centro di una guerra che si protrae da un anno e due mesi tra Israele e Hamas spalleggiato da Hezbollah.
Il primo è che con la caduta del regime di Assad, il cui esercito si è squagliato come neve al sole, Israele incassa un altro risultato favorevole.
Dal 2013 ad oggi sono state centinaia le incursioni aeree israeliane sul territorio siriano per colpire le infrastrutture di Hezbollah, oggi che Hezbollah si trova fortemente indebolito, non ha potuto soccorrere il regime fantoccio russo alawita, lasciando di fatto spazio aperto all’avanzata dei ribelli. L’Iran, principale sponsor della formazione sciita libanese, viene così ulteriormente indebolito.
Negli ultimi mesi ha dovuto incassare l’uccisione del proprio plenipotenziario in Libano, Hassan Nasrallah, la decapitazione dei vertici militari di Hezbollah, e la distruzione di una parte consistente dell’arsenale del proprio principale delegato. Ora perde anche la sponda siriana, mentre a Gaza, quel che resta di Hamas, si avvia all’inevitabile conclusione della sua egemonia politico-militare all’interno della Striscia.
Tutto ciò mostra con evidenza che la strategia iraniana di accerchiamento di Israele, di un suo strangolamento dentro un cerchio di fuoco che avrebbe dovuto idealmente contemplare anche una sollevazione contro Israele in Cisgiordania, è fallito. Il cerchio è stato spezzato e sembra assai difficile che esso possa ricostruirsi in tempi brevi.
Il secondo è che la Russia, grande protettrice della Siria, non è in grado di garantire ad Assad il supporto militare necessario. È sicuramente prematuro affermare che con la caduta del regime di Assad, la Russia abbia perso il suo avamposto in Medio Oriente acquisito dopo la rinuncia americana ad avere un ruolo risolutivo nel contesto della guerra civile siriana, ma certo la sua mancanza di determinazione nel fare da argine all’avanzata delle forze anti Assad, denuncia la difficoltà a impegnarsi su un altro fronte che non sia quello ucraino.
Una Russia debole in Medio Oriente sicuramente non dispiace a Israele, considerando oggettivamente che le alleanze russe sono esplicitamente anti-israeliane come lo sono sempre state dal 1956 ad oggi. Nel dopo Assad, quale che sarà la fisionomia politica che assumerà il paese, se la Russia non si impegnerà a inviare forze per combattere i ribelli, essa perderà progressivamente peso.
Lo scenario che si inaugura è ancora fluido, ma apre indubbiamente una prospettiva di consolidamento americana e rilancia Israele come la principale potenza regionale. Spetterà dunque alla nuova Amministrazione Trump cogliere l’opportunità che si presenta, consentire a Israele di indebolire ulteriormente l’Iran e congiungere agli anelli già forgiati degli Accordi di Abramo, l’anello più importante, quello saudita.
(L'informale, 8 dicembre 2024)
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Scandalo Wikipedia: un gruppo di editor sta riscrivendo le voci contro Israele
Da enciclopedia libera a megafono di propaganda pro-pal. Smascherata operazione per rimodellare la percezione del conflitto israelo-palestinese: alterati migliaia di articoli.
In tempi recenti, diverse ricerche e analisi hanno dimostrato come Wikipedia, pur essendo nata come un enciclopedia digitale aperta a tutti e con l’obbligo dell’imparzialità, si sia sempre più spesso prestata a riflettere i pregiudizi degli utenti che vi creano e modificano contenuti, rivelando un bias politico sbilanciato a sinistra. Tanto che persino il suo co-fondatore Larry Sanger, intervistato nel luglio 2021 dalla testata online UnHerd, disse che la sua creazione non era più affidabile.
Tale pregiudizio è diventato particolarmente evidente nelle pagine dedicate a Israele e al popolo ebraico: dopo che già nel marzo 2024 una ricerca condotta dall’accademica israeliana Shlomit Aharoni Lir e pubblicata dal World Jewish Congress, dal titolo The Bias Against Israel on Wikipedia, ha rivelato un forte sbilanciamento contro lo Stato ebraico da parte dell’enciclopedia, ulteriore conferma è giunta di recente dal giornalista investigativo americano Ashley Rindsberg, che in una recente inchiesta ha smascherato un’operazione coordinata da parte di un gruppo di utenti di Wikipedia per rimodellare la percezione del conflitto israelo-palestinese.
Intervistato a inizio dicembre dalla rivista Algemeiner, Rindsberg ha dichiarato che questa campagna telematica ha “cambiato quello che sembra essere il volto non solo del conflitto israelo-palestinese, ma dell’intera giustificazione e legittimità del diritto di Israele a esistere, che è il loro vero obiettivo”.
• PULIZIA IDEOLOGICA Nel report, pubblicato ad ottobre dalla testata digitale Pirate Wires, Rindsberg ha messo in luce una coalizione di circa 40 editor di Wikipedia che ha sistematicamente alterato migliaia di articoli per spostare l’opinione pubblica contro Israele. Questi individui, agendo in maniera coordinata, hanno eseguito circa 850.000 modifiche su quasi 10.000 articoli legati al conflitto, spostando sottilmente il fondamento ideologico dei contenuti relativi a Israele, ai palestinesi e più in generale alla geopolitica del Medio Oriente. Nell’inchiesta si legge:
Questi sforzi hanno un successo notevole. Digita “Sionismo” nella casella di ricerca di Wikipedia e, a parte l’articolo principale sul sionismo (e una pagina di disambiguazione), il riempimento automatico restituisce: “Sionismo come colonialismo dei coloni”, “Sionismo nell’era dei dittatori” (in titolo del libro di un trotskista filo-palestinese), “Sionismo dal punto di vista delle sue vittime” e “Razzismo in Israele”.
Le modifiche in questione spaziano dalla rimozione dei legami tra la storia ebraica e la terra di Israele all’omissione di riferimenti alle atrocità commesse durante l’attacco condotto da Hamas nel sud di Israele lo scorso 7 ottobre, tra cui, in modo più eclatante, riferimenti a stupri e altri atti di violenza sessuale.
Gli editor filopalestinesi hanno anche ripulito articoli su personaggi storici controversi, tra cui quelli legati alla Germania nazista, come il Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, oltre ad aver diluito i riferimenti alle violazioni dei diritti umani da parte del regime iraniano.
In un articolo sugli “ebrei”, ad esempio, un editor ha rimosso la frase “Terra di Israele” da una frase sull’origine del popolo ebraico, del quale si cerca di negare il legame storico con la terra in cui vivevano prima della distruzione del Secondo Tempio.
• TECH FOR PALESTINE L’operazione è stata appoggiata da Tech for Palestine, un gruppo filopalestinese. Secondo l’indagine di Rindsberg, il gruppo lavora in tandem con editor veterani di Wikipedia per eseguire campagne di editing coordinate. Gli editor lavorano quindi in coppia o in trio nel tentativo di non essere smascherati.
Tech for Palestine ha creato un canale dedicato, Wikipedia Collaboration, allo scopo di semplificare i loro sforzi. L’iniziativa prevedeva il reclutamento di volontari, che andavano guidati attraverso sessioni di orientamento ben strutturate. Il messaggio di benvenuto del canale ha evidenziato il suo intento con questa domanda: “Perché Wikipedia? È una risorsa ampiamente accessibile e il suo contenuto influenza la percezione pubblica”.
Una editor veterana conosciuta come Ïvana, il cui nome utente presenta come logo un triangolo rosso (simbolo spesso utilizzato dai filopalestinesi per identificare e prendere di mira gli ebrei), è stata nominata esperta di Wikipedia del canale. L’influenza del gruppo si estende oltre gli articoli relativi al conflitto, includendo anche profili di celebrità, con l’obiettivo di amplificare narrazioni vicine alle loro posizioni e di mettere a tacere le critiche verso organizzazioni terroristiche come Hamas e Hezbollah.
• PERCEZIONE ALTERATA Milioni di lettori vengono influenzati da questa campagna. Siccome gli articoli di Wikipedia sono spesso in cima ai risultati dei motori di ricerca, e in particolare di Google, questi cambiamenti dettano di fatto la percezione che l’opinione pubblica mondiale ha del conflitto israelo-palestinese. “Milioni e milioni di persone vengono imbottite di informazioni che sono state essenzialmente prodotte da un gruppo di 40 redattori pro-Palestina che agiscono in modo coordinato”, ha detto Rindsberg ad Algemeiner.
Gli effetti sono molteplici. Il modello di Wikipedia di editing aperto e guidato da una comunità di utenti si basa sul presupposto della buona fede. Alterando narrazioni storiche e omettendo dettagli chiave, non stanno semplicemente influenzando le opinioni, ma stanno attivamente rimodellando la realtà per un pubblico globale ignaro di queste dinamiche e, in questo caso, come ha detto Rindsberg, “alterando completamente il modo in cui il mondo vede il conflitto e la regione”.
Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del Pirate Wires, l’utente filopalestinese Ïvana ha dichiarato di essere stata “convocata” dal Wikipedia’s Arbitration Committee, e per le sue violazioni rischia un potenziale ban a vita dalla piattaforma. Rindsberg ha affermato che sono state avviate anche altre indagini in seguito alla pubblicazione dell’articolo.
(ATLANTICO, 8 dicembre 2024)
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Sarà restaurato il regno di Israele?
di Michael Vlach
Un passo della Bibbia che conferma l'attesa di una restaurazione del regno d'Israele è Atti 1:6-7. “Essi dunque, riuniti, lo interrogarono dicendo: ”Signore, è in questo tempo che ricostituirai il regno a Israele? Egli rispose loro: Non spetta a voi conoscere tempi o date che il Padre ha riservato alla propria autorità”. Questo passo, in cui sono riportate le ultime parole di Gesù agli apostoli prima della sua ascensione, conferma l'idea di una restaurazione del regno d'Israele in un duplice senso. In primo luogo, è chiaro da questi versetti che a questo punto avanzato del ministero terreno di Gesù, gli apostoli stavano ancora facendo i conti con la restaurazione del regno d'Israele. In secondo luogo, Gesù non li rimprovera né li redarguisce per questo. La sua risposta conferma quindi la correttezza della loro comprensione. Per quanto riguarda il primo punto, Atti 1:6 mostra chiaramente che gli apostoli si aspettavano una futura restaurazione del regno di Davide. McLean afferma che:
“I termini «Israele» e «Israelita» ricorrono 32 volte nel Vangelo di Luca e negli Atti. Ogni volta si riferiscono al popolo di Israele come unità nazionale. Sembra quindi corretto mettere in relazione la domanda dei discepoli in Atti 1:6 con la restaurazione del dominio del popolo d'Israele. Essi volevano sapere da Gesù quando sarebbe avvenuta la restaurazione del regno di Davide, come descritto e definito nell'Antico Testamento”.
Che questa aspettativa dei discepoli non fosse un'idea sbagliata è evidente per le seguenti due ragioni: in primo luogo, Atti 1:3 dice che Gesù parlò con i suoi discepoli per quaranta giorni dopo la sua risurrezione “delle cose riguardanti il regno di Dio”. È improbabile che i discepoli avessero ancora idee sbagliate sul regno di Dio dopo questi quaranta giorni di istruzione da parte del Signore risorto. Penney afferma: “La domanda dei discepoli (1,6) non può essere interpretata come un malinteso nazionalistico. È modellata sulle parole di Gabriele dei capitoli iniziali del Vangelo (Luca 1:26-32)” .
In secondo luogo, la mancanza di un rimprovero da parte di Gesù in Atti 1,7 è una conferma che i discepoli avevano ragione nella loro fede nella restaurazione di Israele. Se i discepoli si fossero sbagliati, Gesù avrebbe corretto il loro errore, come ha fatto in altri casi. La mancanza di rimprovero può essere vista come una conferma del loro punto di vista. McLean afferma che:
“Il ministero di Gesù consisteva, tra le altre cose, nell'indicare i falsi insegnamenti o nel rimproverare i falsi maestri. È quindi notevole che Gesù non abbia corretto la domanda dei suoi discepoli sulla restaurazione del regno di Israele. Data l'insistenza con cui Gesù correggeva i suoi discepoli ogni volta che erano in errore, sembra ragionevole concludere che la loro domanda in Atti 1:6 esprimesse la legittima aspettativa di una futura restaurazione del regno di Israele”.
Gesù ha rifiutato di parlare dei tempi della restaurazione di questo regno, ma non ha respinto l'idea che ce ne sarà uno. Chance scrive:
La risposta di Gesù è, in breve, un rifiuto della speranza di un'imminente restaurazione di Israele. Non è, tuttavia, un rifiuto della speranza di una tale restaurazione in sé e per sé”.
Sebbene i supersessionisti abbiano spesso ammesso che i discepoli nutrissero aspettative nazionalistiche a questo punto, non ritengono che Atti 1:6 sia una prova di una futura restaurazione di Israele come nazione. I supersessionisti offrono due spiegazioni alternative per il significato di Atti 1,6. In primo luogo, alcuni sostengono che i discepoli avevano semplicemente una falsa comprensione del regno di Dio, o che non avevano ancora capito il vero significato del messaggio di Gesù. Secondo Zorn, Atti 1:6 descrive “l'ultimo guizzo della speranza degli apostoli che la nazione di Israele sarebbe tornata a essere una teocrazia politica”.
In secondo luogo, altri come Robertson sostengono che Israele sarà effettivamente restaurato, ma in un modo che non ha nulla a che fare con l'aspettativa nazionalistica dei discepoli. Egli scrive:
“Il regno di Dio sarà restaurato in Israele attraverso il regno del Messia, attraverso l'opera dello Spirito Santo nei discepoli di Cristo, che porteranno la loro testimonianza fino alle estremità della terra”.
Quindi, la restaurazione del regno di Israele consisterebbe nella proclamazione del messaggio del regno di Dio nel mondo, operata dallo Spirito Santo. A sostegno della sua tesi, Robertson collega la domanda dei discepoli in Atti 1,6 con le parole di Gesù , secondo cui i discepoli riceveranno la forza dello Spirito Santo e saranno testimoni di Gesù fino agli estremi confini della terra:
“Queste parole [in 1,8] non devono essere disgiunte dalla domanda dei discepoli. Esse hanno un riferimento diretto alla restaurazione del regno di Israele”.
Nonostante questi tentativi di spiegazione, Atti 1,6 è e rimane un'importante prova del punto di vista non supersessionista. Considerando che i discepoli erano stati istruiti sul regno di Dio dal Signore risorto per 40 giorni (cfr. Atti 1,3), è improbabile che avessero un'idea completamente sbagliata sulla natura di questo regno e sulla relazione di Israele con esso. Sebbene Gesù nella sua risposta non confermi esplicitamente la loro speranza, conferma indirettamente la correttezza della loro aspettativa. Mc Knight ha ragione quando dice: “Poiché Gesù era un così buon maestro, abbiamo il diritto di supporre che le speranze impulsive dei suoi ascoltatori fossero giustificate”. Sono quindi d'accordo con l'opinione di Walaskay secondo cui Gesù “non disse nulla che avrebbe smorzato le speranze dei suoi discepoli per un regno nazionale”. ---
Estratto da Hat die Gemeinde Israel ersetzt?
(Nachrichten aus Israele, novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Hamas verifica le condizioni degli ostaggi: la mossa in vista di un accordo
La leadership politica di Hamas ha chiesto a vari gruppi nella Striscia di Gaza una verifica delle condizioni degli ostaggi in vista di un possibile accordo che preveda il loro rilascio. Lo scrive il quotidiano arabo Asharq Al-Awsat citando fonti palestinesi secondo le quali appunto Hamas avrebbe chiesto aggiornamenti sugli ostaggi tenuti da altri gruppi a Gaza in quanto prevede possibili sviluppi su un accordo di cessate il fuoco con Israele.
Israele ritiene che siano 100 gli ostaggi ancora nella Striscia di Gaza, tra vivi e morti. Il Times of Israel riferisce che si ritiene che circa la metà siano vivi.
Sul fronte dei negoziati per Gaza, ''questa volta c'è la possibilità concreta di raggiungere un accordo sugli ostaggi'' con Hamas, aveva dichiarato il 4 dicembre scorso il ministro della Difesa israeliano Israel Katz, esprimendo il suo ottimismo durante una visita alla base aerea di Tel Nof e sottolineando che ''riportare a casa gli ostaggi è una priorità per Israele''. Katz aveva quindi spiegato che c'è una ''crescente pressione'' su Hamas affinché accetti l'accordo.
"La cosa più importante oggi nella guerra è riportare a casa gli ostaggi. Questo è l'obiettivo supremo che ci sta di fronte e stiamo lavorando in ogni modo per far sì che ciò accada", aveva poi affermato Katz in una nota diffusa dal suo ufficio. "L'intensità della pressione su questa mostruosa organizzazione chiamata Hamas sta aumentando e c'è la possibilità che questa volta possiamo davvero arrivare a un accordo sugli ostaggi", aveva aggiunto.
(Adnkronos, 7 dicembre 2024)
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Dopo il 7 ottobre
di Micol Flammini
Le milizie di Hayat Tahrir al Sham (Hts) potrebbero nominare il vescovo latino Hanna Jallouf nuovo governatore provvisorio di Aleppo. Il rumor, inizialmente limitato a qualche account su X, è stato ripreso da Hassan I. Hassan, fondatore e direttore di New Lines Magazine. Hassan si è detto “scettico” che ciò possa accadere, ma se invece fosse tutto vero, “non ne sarei sorpreso: ormai è difficile definire qualcosa come impossibile”. L’eventualità pare inverosimile, tant’è che lo stesso Jallouf ha smentito tutto: “Siamo uomini di Dio, non ci occupiamo di politica”. Ma il punto rilevante della questione è un altro. Ciò che conta è la volontà di Hts di farsi percepire dal mondo come una compagine politica “normale”, senza marchi di sorta: niente legami con il terrorismo, tantomeno con quello islamista che fu di Abu Bakr al Baghdadi.
Gli uomini di Nasrallah impararono a combattere al fianco dei soldati russi e anche dei mercenari della Wagner. Mentre combattevano, Israele li ha osservati per anni, li ha seguiti, ha tracciato la catena di comando: in Siria Hezbollah è diventato un libro aperto per Israele. Nasrallah nel 2015 non poteva sapere che sarebbe successo il contrario, non sapeva che lui sarebbe stato eliminato a Beirut in un pomeriggio di fine settembre e che proprio la caduta di Hezbollah sarebbe stata tra gli elementi determinanti di un possibile crollo del regime di Assad in Siria.
Negli ultimi giorni Tsahal ha rafforzato la sua presenza lungo il confine con la Siria, mentre l’avanzata dei ribelli guidati dal gruppo Hayat Tahrir al Sham si spinge verso sud e si avvicina alla frontiera con Israele. Contemporaneamente i soldati israeliani e l’intelligence devono tenere sotto osservazione i jihadisti, che stanno sbaragliando l’esercito di Assad, e Teheran, che da sempre è un alleato prezioso del regime siriano e insieme a Mosca ha contribuito alla fortificazione del dittatore mandando i suoi uomini a fare guerra per mantenerlo al potere. Non ci sono alleati per Israele in questo stravolgimento siriano, c’è una situazione da osservare, ci sono opportunità da cogliere con cautela. Se Teheran ha aiutato Assad a sopravvivere, Assad ha dato a Teheran la possibilità di utilizzare la Siria come un crocevia per rifornire le sue milizie, per armare Hezbollah, renderla sempre più numerosa e dotata di un arsenale potente quanto quello di un esercito regolare. Nel 2015, tuonando nel suo discorso, Nasrallah aveva definito la Siria la “spina dorsale” delle milizie iraniane: intendeva Hezbollah in primo luogo, ma poi dal Libano le armi e il denaro di Teheran si spostavano altrove. L’occhio di Israele sulla Siria è sempre stato presente per contenere Teheran e anche adesso, nel caso doppio di un regime che cade sotto i colpi di gruppi che non saranno mai alleati, lo stato ebraico osserva due variabili: fino a che punto i ribelli jihadisti possono essere una minaccia e quanto la Repubblica islamica intende aiutare Assad a sopravvivere e utilizzare il momento per introdurre uomini e armi, da utilizzare poi contro Israele. Alcune fonti vicine a Teheran hanno raccontato del ritorno in Siria di Javad Ghaffari, comandante delle brigate al Quds, conosciuto come tanti con l’appellativo di “macellaio di Aleppo”, la prima città presa dai ribelli nella loro avanzata è stata distrutta da russi e iraniani con attacchi in aree residenziali prive di interesse militare, il titolo onorifico di “macellaio” è stato diviso da molti generali fra Mosca e Teheran. Ghaffari però non è stato soltanto ad Aleppo, ha combattuto in molte parti della Siria, è uno di campo, e nel 2021 venne richiamato: soltanto alcune fonti israeliane diedero una spiegazione per il suo ritorno a Teheran e dissero che il regime siriano era contrario ad alcune sue azioni contro soldati americani e ne comandò l’espulsione. Ghaffari è un generale incauto, vorace, pronto a tutto, il suo ritorno rappresenta una mossa disperata tanto per Teheran quanto per il regime di Assad e a Israele non è sfuggita.
La Siria è stata un campo di addestramento per le guerre dei russi e degli iraniani, per Israele è stato un campo di osservazione per studiare il combattimento dei nemici, per seguirne i movimenti e per bloccare i crocevia delle armi che Teheran mandava a Hezbollah proprio attraverso la Siria. Dopo il 7 ottobre, Israele ha fatto una valutazione diversa riguardo alla propria sicurezza: l’Iran ha mosso attorno a Israele una strategia di accerchiamento che contava sul Libano, controllato da Hezbollah, come elemento di maggior prestigio; sulla Striscia di Gaza come punto di destabilizzazione; sulla Siria come punto di rifornimento per il passaggio degli interessi del regime e poi sugli houthi nello Yemen e le milizie sciite in Iraq. Per bloccare Hezbollah e non permettere a Teheran di ricostituire in tutta la sua potenza l’anello di fuoco, Israele ha scelto di togliere le certezze del regime iraniano, ha iniziato a colpire la Siria sempre più in profondità, bloccando le autostrade più usate per il trasporto delle armi, ha minacciato Assad, e in questo contesto si sono inseriti i ribelli, che da tempo preparavano l’avanzata. Non ci sono alleati per Israele in Siria, ma se crolla Assad, Teheran perde la sua “spina dorsale”. Dovrà ricostruire tutta la sua infrastruttura contro Israele.
Il Foglio, 7 dicembre 2024)
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L’Iran in fuga dalla Siria. Assad abbandonato a se stesso
La Forza Quds, elite delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, ha lasciato la Siria venerdì mattina, mentre è fuga generale anche dei diplomatici iraniani. Spariti nel nulla i combattenti sciiti iracheni. Assad è solo
Secondo fonti iraniane, l’Iran ha iniziato venerdì a evacuare i suoi comandanti militari e il personale dalla Siria, a dimostrazione dell’incapacità da parte di Teheran di contribuire a mantenere al potere il presidente Bashar al-Assad. Tra coloro che sono stati evacuati nei vicini Iraq e Libano c’erano anche i comandanti di alto rango delle potenti Forze Quds, il ramo esterno del Corpo delle Guardie della Rivoluzione. Questa decisione ha segnato una svolta notevole per Assad, il cui regime è stato sostenuto dall’Iran durante i 13 anni di guerra civile in Siria, e per l’Iran, che ha utilizzato la Siria come rotta chiave per fornire armi a Hezbollah in Libano. Anche il personale delle Guardie, alcuni membri dello staff diplomatico iraniano, le loro famiglie e civili iraniani sono stati evacuati, tra loro anche i funzionari regionali. Gli iraniani hanno iniziato a lasciare la Siria venerdì mattina. Sono state ordinate evacuazioni presso l’ambasciata iraniana a Damasco e presso le basi delle Guardie rivoluzionarie. Almeno una parte del personale dell’ambasciata è partita. Alcuni partono in aereo per Teheran, mentre altri via terra diretti in Libano, Iraq e al porto siriano di Latakia, hanno affermato i funzionari. “L’Iran sta iniziando a evacuare le sue forze e il suo personale militare perché non possiamo combattere come forza consultiva e di supporto se l’esercito siriano stesso non vuole combattere”, ha affermato in un’intervista telefonica Mehdi Rahmati, un importante analista e consigliere iraniano. “La conclusione”, ha aggiunto, “è che l’Iran ha capito che non può gestire la situazione in Siria in questo momento con alcuna operazione militare e questa opzione è fuori discussione”. Insieme alla Russia, l’Iran è stato il più potente sostenitore del governo siriano, inviando consiglieri e comandanti alle basi e in prima linea e sostenendo le milizie. Ha inoltre schierato decine di migliaia di combattenti volontari, tra cui iraniani, afghani e sciiti pakistani, per difendere il governo e riconquistare il territorio dal gruppo terroristico dello Stato islamico al culmine della guerra civile siriana. Alcune delle forze iraniane, come la brigata afghana Fatemiyoun, erano rimaste in Siria presso basi militari gestite dall’Iran; venerdì, sono state trasferite anche a Damasco e Latakia, una roccaforte del governo di Assad. Un video pubblicato su account affiliati alle Guardie mostrava le Fatemiyoun in uniforme che si rifugiavano nel santuario di Seyed Zainab vicino a Damasco. L’offensiva a sorpresa di una coalizione ribelle ha cambiato radicalmente il panorama della guerra civile. In poco più di una settimana, i ribelli hanno invaso grandi città come Aleppo e Hama, conquistato fasce di territorio in quattro province e si sono mossi verso la capitale siriana, Damasco. Fonti iraniane hanno affermato che due generali di alto rango delle forze Quds iraniane, schierate per consigliare l’esercito siriano, sono fuggiti in Iraq mentre venerdì vari gruppi ribelli hanno preso il controllo di Homs e Deir al-Zour. “La Siria è sull’orlo del collasso e noi la guardiamo con calma”, ha detto Ahmad Naderi, membro del Parlamento iraniano, in un post sui social media venerdì. Ha aggiunto che se Damasco cadesse, l’Iran perderebbe anche la sua influenza in Iraq e Libano, dicendo: “Non capisco il motivo di questa inazione, ma qualunque cosa sia, non è un bene per il nostro Paese”. L’offensiva dei ribelli è arrivata in un momento di relativa debolezza per tre dei più importanti sostenitori della Siria. La capacità dell’Iran di aiutare è stata ridotta dal suo conflitto con Israele; l’esercito russo è stato indebolito dalla sua invasione dell’Ucraina; e Hezbollah, che in precedenza aveva fornito combattenti per aiutare il governo di Assad nella lotta contro lo Stato islamico, è stato duramente colpito dalla sua stessa guerra con Israele. La caduta di un ulteriore territorio in mano alle forze ribelli, guidate dal gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham, potrebbe anche minacciare la capacità dell’Iran di fornire armi e consiglieri al regime di Assad o a Hezbollah. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, si è recato a Damasco questa settimana, incontrando Assad e garantendogli il pieno sostegno dell’Iran. Ma venerdì a Baghdad, è sembrato fare una dichiarazione più ambigua. “Non siamo cartomanti”, ha detto in un’intervista alla televisione irachena. “Qualunque sia la volontà di Dio accadrà, ma la resistenza adempirà al suo dovere”.
(Rights Reporter, 7 dicembre 2024)
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Siria e poi Iran. Chi sfida Israele finisce a pezzi
Non avremmo assistito alla caduta di Aleppo se la forza complessiva dell'Iran non fosse stata devastata dall'annientamento da parte di Israele dei suoi alleati di Hezbollah e dallo schiacciamento delle difese aeree di Teheran
di Edward Luttwak
Dal quinto giorno della guerra in Medio Oriente (12 ottobre 2023, con l'articolo titolato «Che cosa otterrà l'invasione di Gaza da parte di Israele?»), ho cercato di spiegare e persino di prevedere gli eventi in corso, guidato dalla certezza che questa guerra non poteva essere fondamentalmente diversa dalle precedenti guerre di Israele, che risalgono al 1947 e che hanno portato a una vittoria israeliana decisiva attraverso sconfitte iniziali, aspre controversie politiche e molta confusione. Non avremmo assistito alla caduta di Aleppo se la forza complessiva dell'Iran non fosse stata devastata dall'annientamento da parte di Israele dei suoi alleati di Hezbollah e dallo schiacciamento delle difese aeree di Teheran. Per questo la caduta di Aleppo suggerisce che il regime iraniano stesso potrebbe crollare, se questa guerra dovesse continuare per qualche altro round. La situazione era molto diversa quando tutto è iniziato il 7 ottobre 2023 con l'attacco a sorpresa di Hamas e il leader iraniano Ayatollah Khamenei che allegramente vaticinava l'imminente distruzione di Israele. D'altronde, da sempre tutte le guerre di Israele sono state accompagnate da una costante fiducia dei suoi nemici nella imminente vittoria. Tra la prima e l'ultima guerra, quando il presidente egiziano Abdul Gamal Nasser inviò l'esercito egiziano nel Sinai nel maggio 1967 e impose un blocco del Mar Rosso, sapendo che Israele avrebbe combattuto, accolse con favore l'opportunità: «Gli ebrei minacciano la guerra. Noi diciamo loro che siete i benvenuti. Siamo pronti alla guerra». I combattimenti iniziarono il 5 giugno e l'esercito e l'aviazione egiziana crollarono in quattro giorni. Nell'ultima guerra, il riuscitissimo attacco a sorpresa di Hamas del 7 ottobre è stato accolto con reazioni entusiastiche e senza riserve non solo da parte di folle esaltate, ma anche da parte di professori statunitensi di ruolo, come Joseph Massad della Columbia, che l'ha definito «meraviglioso». L'8 ottobre, Hezbollah si è unito con fiducia alla guerra lanciando il primo di migliaia di razzi e missili, ricordando la profezia ottimistica del suo leader Hassan Nasrallah, per cui «Israele non è più forte di una tela di ragno». Un altro elemento di continuità è che il primo ministro israeliano di turno è sempre visto come il peggior leader possibile per il Paese in tempo di guerra, o forse per qualsiasi Paese in qualsiasi momento. Alla vigilia della guerra del 1967, il premier e ministro della Difesa era Levi Eshkol, un fedele uomo di partito con l'atteggiamento di un contabile stanco, che rispondeva alle fragorose minacce di annientamento dei leader arabi con parole incerte e inficiate da un difetto di pronuncia, finché la popolazione furiosa non costrinse a promuovere a ministro della Difesa il suo principale nemico politico, l'eroe di guerra guercio Moshe Dayan. Quella fu la guerra che si concluse con la totale sconfitta dei nemici di Israele in soli sei giorni di combattimento. Nella Guerra dello Yom Kippur dell'ottobre 1973 il primo ministro era Golda Meir, alla fine molto celebrata come una delle pioniere del Paese, ma all'epoca aspramente criticata per aver rifiutato l'autorizzazione agli attacchi aerei quando le offensive a sorpresa di Egitto e Siria furono imperdonabilmente rilevate troppo tardi per mobilitare l'esercito. Migliaia di morti, ma la guerra si concluse molto bene, con l'esercito israeliano che attraversava il Canale di Suez sulla strada per il Cairo e con entrambi i Paesi pronti a passare da un cessate il fuoco a una pace duratura. Nella guerra del Libano del 1982, che spinse l'esercito dell'Olp con carri armati e artiglieria fuori dal Libano, il primo ministro Menachem Begin fu platealmente incapace di controllare il ministro della Difesa ed eroe di guerra Ariel Sharon. Tutti concordarono sul fatto che Begin fosse assolutamente inadatto alla carica, come nel caso del primo ministro Ehud Olmert nella guerra del 2006 contro Hezbollah. Con una formazione da ufficiale inferiore, Olmert permise al Capo di Stato maggiore, appartenente all'aeronautica, di condurre una guerra di bombardamenti che non uccise molti combattenti di Hezbollah, ma scatenò in compenso una guerra di propaganda a livello mondiale, quando i giornalisti libanesi sotto il controllo di Hezbollah presentarono all'opinione pubblica i combattimenti come un massacro di donne e bambini, senza mai menzionare gli uomini armati. Proprio come a Gaza dopo il 7 ottobre. In questa guerra, Netanyahu è stato pre-condannato politicamente per la sua disponibilità ad accettare due imbarazzanti ultra-estremisti nella sua coalizione di governo, per raggiungere i 61 voti di una maggioranza risicata nel Parlamento israeliano di 120 seggi, e ulteriormente condannato dai «progressisti» israeliani per il suo tentativo di riformare il sistema giudiziario con la nomina di giudici da parte dei ministri della Giustizia, in contrapposizione ai giudici più anziani. Netanyahu è così odiato dai suoi oppositori infinitamente frustrati - le sue continue manovre di coalizione lo hanno tenuto al potere per due decenni - che persino la sua riforma giudiziaria, perfettamente democratica, è stata travisata come un «golpe giudiziario» in innumerevoli manifestazioni. I suoi nemici hanno trovato molti simpatizzanti negli Stati Uniti, ma non in Europa, dove tutti i giudici sono nominati da ministri eletti dal governo e non da giudici più anziani. Un'ultima accusa che Netanyahu non può negare: avendo formato il suo primo governo di coalizione il 18 giugno 1996, a cui ne sono seguiti altri cinque ma con brevi interruzioni, Netanyahu è stato al comando nei due decenni in cui Israele non ha cercato di fermare Hamas mentre costruiva la sua vasta rete di tunnel da combattimento, né Hezbollah mentre accumulava migliaia di missili da bombardamento sempre più efficaci e decine di migliaia di razzi. L'unico rimedio possibile era quello di prevenire entrambe le minacce prima del 7 ottobre 2023, lanciando offensive massicce sia con le forze di terra sia con quelle aeree, ottenendo la sorpresa di attaccare in un giorno perfettamente tranquillo, senza crisi o provocazioni precedenti. Ma in realtà nessun governo democratico può fare una cosa del genere, tanto meno quello di Netanyahu, ogni decisione del quale viene immediatamente interpretata come del tutto egoistica, oltre che ovviamente del tutto sbagliata. I critici che continuano a trovare nuovi modi per deplorare i due decenni di vergognoso abbandono, non notano però cos'altro è successo in quei vent'anni. L'economia israeliana ha fatto un balzo in avanti (gli israeliani, un tempo molto più poveri della media europea, sono diventati molto più ricchi), sono stati forniti rifugi antiaerei ben costruiti ovunque, evitando decine di migliaia di vittime solo nella guerra in corso. Con uno sforzo immane, Israele ha anche acquisito affidabilissime difese missilistiche balistiche «spaziali» che nessun altro Paese possiede. I combattimenti a terra hanno inoltre rivelato che i veicoli blindati israeliani sono attualmente i più avanzati al mondo, mentre il raid aereo contro la base iraniana più segreta di Parchim ha dimostrato la capacità di Israele di lanciare attacchi di precisione a lungo raggio anche con i suoi caccia F-16 più vecchi e a corto raggio, grazie ai loro missili balistici lanciati in aria. Completamente surclassati, i leader iraniani sanno ora che qualsiasi altro bombardamento missilistico contro Israele potrebbe evocare il bombardamento della sede di Khamenei a Teheran o, più concretamente, del principale terminale di esportazione del petrolio del Paese. Niente di tutto ciò è bastato a evitare la terribile sorpresa e le uccisioni di massa del 7 ottobre, ma i due decenni di investimenti in tecnologie militari hanno fatto sì che il numero di vittime israeliane nei successivi 14 mesi di combattimenti urbani - normalmente molto letali anche senza i pericoli aggiunti dei tunnel - sia rimasto molto più basso del previsto. Invece di decine di morti o disabili al giorno, la media è di uno o due. Nel corso di questi due decenni, ci sono stati anche altri sforzi precauzionali, sia da parte degli agenti segreti sia degli ingegneri, che alla fine hanno permesso la decapitazione in tre fasi dell'intera leadership di Hezbollah. Prima sono riusciti a dissuadere dall'uso degli smartphone in quanto irrimediabilmente insicuri, per suggerire invece l'uso di telefoni casuali se sollecitati da avvisi acustici, con nuove radio da campo come back-up. Poi lo stesso ufficiale della Guardia rivoluzionaria iraniana che ha convinto i leader di Hezbollah a privarsi dei loro smartphone facilmente compromessi, ha suggerito dove sarebbe stato meglio acquistare dei cercapersone su misura e anche delle ricetrasmittenti portatili. Quando entrambi hanno iniziato a esplodere, l'intera linea di comando si è dovuta riunire faccia a faccia nel bunker di comando di Hezbollah, a sud di Beirut, ultra profondo, multilivello e in ferrocemento, che nessuna bomba poteva penetrare. Ma dove il colpo di grazia è arrivato con una sequenza di bombe da 2000 libbre con rivestimento in acciaio che sono cadute verticalmente esattamente nello stesso punto, uccidendo Hassan Nasrallah e tutto il suo alto comando, insieme al loro responsabile e supervisore delle Guardie Rivoluzionarie iraniane. Una mossa che a sua volta ha reso impossibile il bombardamento concentrato di Israele, pianificato da tempo da Hezbollah con migliaia di missili e più di centomila razzi. Al contrario, l'aviazione israeliana ha così potuto distruggere le batterie di missili e razzi con attacchi aerei giorno dopo giorno, fino al cessate il fuoco. La guerra rivela i veri punti di forza e di debolezza di ogni nazione, inducendo i suoi nemici alla giusta cautela. Il religioso al potere in Iran e i suoi generali della Guardia Rivoluzionaria, rigorosamente non rasati, si sono finora rifiutati di accettare le prove schiaccianti della superiorità militare di Israele su tutta la linea, così come i sostenitori più accesi della vittoria totale dei palestinesi «dal fiume al mare» in tutto il mondo. Poiché non partecipano mai ai combattimenti, gli entusiasti stranieri non possono mai essere dissuasi, anche se incitano i palestinesi che finiscono prigionieri o morti. I leader iraniani non sono né studenti ingenui né accademici sprovveduti. Avendo subìto la pesantissima conseguenza di un attacco aereo di un solo giorno da parte di una manciata di aerei, è probabile che si ritirino prudentemente. Se non lo faranno, ciò che è iniziato con la caduta di Aleppo potrebbe continuare fino in fondo e poi proseguire in Iran. Tutti i regimi devono finire, anche quello iraniano.
(il Giornale, 7 dicembre 2024)
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Palermo – Sinagoga nell’ex oratorio, firmato il nuovo protocollo
Nel 2017, la notizia che l’Arcidiocesi di Palermo aveva deciso di concedere in comodato d’uso gratuito un oratorio di proprietà ecclesiastica per ricavarne una sinagoga fece il giro del mondo. “500 Years After Expulsion, Sicily’s Jews Reclaim a Lost History”, titolò tra gli altri il New York Times, richiamando la valenza anche simbolica dell’atto a oltre cinque secoli dall’espulsione degli ebrei dall’isola. Un nuovo documento siglato in queste ore nel capoluogo siciliano dà ulteriore slancio al progetto di trasformare l’ex Oratorio di S. Maria del Sabato in un luogo di culto e aggregazione ebraico, stabilendo che sia la città a farsi carico di tutte le spese di ristrutturazione previste nel primo accordo. A garantire una svolta in tal senso il protocollo condiviso dal Comune, dall’Arcidiocesi, dall’Ucei e dalla Comunità ebraica di Napoli, con le firme in calce del sindaco Roberto Lagalla, di monsignor Corrado Lorefice, della presidente Ucei Noemi Di Segni e della presidente della Comunità ebraica partenopea Lydia Schapirer.
«Siamo molto contenti. Per diverso tempo questo “dono” era rimasto in sospeso, in attesa della possibilità di avviare il restauro. Ciò diventa oggi possibile grazie all’intervento del Comune», sottolinea Di Segni. «In raccordo con il rabbinato italiano, si procederà per far sì che questo spazio diventi luogo non solo di culto, ma anche di cultura ebraica. Un polmone che questa città merita di avere, perché non bisogna mai dimenticare che è la cultura a generare convivenza e dialogo».
• IL RICORDO DI EVELYNE AOUATE Di Segni dedica questa giornata a Evelyne Aouate, fondatrice dell’Istituto siciliano di studi ebraici e referente della sezione locale della Comunità di Napoli fino alla morte, avvenuta nel 2022. A rappresentarla erano oggi le sue figlie. Anche l’istituto sarà accolto nei locali della sinagoga. «Evelyne è stata la promotrice di tutto quanto, intessendo rapporti fondamentali», riconosce Di Segni. Concorda l’avvocato Giulio Disegni, vicepresidente Ucei: «Evelyne è stata l’anima della riscoperta dell’ebraismo a Palermo». Disegni, riflettendo sulla giornata odierna, parla di «documento importante per rafforzare la cultura del dialogo, a suo modo esemplare perché mette insieme amministrazione comunale, mondo cattolico e mondo ebraico, forse un unicum a livello europeo». Il progetto è a suo modo peculiare anche perché «la storia del Sud ebraico è spesso una storia di sinagoghe trasformate in chiese, mentre in questo caso abbiamo una chiesa che diventerà sinagoga, nel quartiere un tempo ebraico della città». Disegni loda al riguardo la decisione e lo slancio del sindaco Lagalla, ricordando che già al tempo in cui era rettore dell’Università di Palermo «decretò l’installazione a Palazzo Steri di una lapide in ricordo dei docenti ebrei cacciati nel 1938 dal fascismo; tra loro Emilio Segrè, vincitore nel 1959 del Premio Nobel per la Fisica».
Il protocollo è un nuovo capitolo di una lunga storia di persecuzione, rimozione e oggi riscoperta e prevede che sarà ora il Comune a provvedere «con proprie risorse e mezzi» a dar corso alla ristrutturazione e all’adeguamento funzionale dello spazio. Sempre il Comune consentirà gratuitamente alla sezione ebraica di Palermo «lo svolgimento delle proprie attività di religione e di culto e di quelle ad esse correlate», mentre la Comunità di Napoli, in raccordo con la sua sezione, «assumerà la custodia dell’edificio e di tutte le sue pertinenze e con essa ogni onere e responsabilità». Tutti e tre i soggetti insieme, Comune, Comunità e sezione locale, promuoveranno poi «iniziative culturali e formative in occasione di ricorrenze ebraiche, per la conoscenza della lingua e della cultura ebraica, per la lotta ad ogni forma di antisemitismo e la Memoria». a.s.
(moked, 6 dicembre 2024)
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L'IDF elimina sette terroristi che hanno partecipato all'attacco del 7 ottobre
Le forze di difesa israeliane hanno affermato questo martedì di aver ucciso sette terroristi palestinesi che hanno partecipato agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, nelle ultime due settimane nel centro della Striscia di Gaza.
"In attacchi selettivi, le truppe della Brigata 990 hanno eliminato numerosi terroristi, tra cui sette terroristi che hanno partecipato al massacro del 7 ottobre", indicano in un comunicato militare.
L'esercito ha identificato i membri di Hamas eliminati come Abd al Razzeq, Marzuk al Hur, Abd Abu Awad Yusri, Omar Abu Abdalah, Ahmed Zahid e Maad Abu Garboua.
Nei loro raid nella zona, le truppe hanno anche smantellato le infrastrutture “terroristiche” di Hamas, come strutture militari, posti di osservazione e postazioni di cecchini.
Il massacro di Hamas, costato la vita a 1.200 persone in territorio israeliano, ha dato origine alla controffensiva delle truppe israeliane contro la Striscia di Gaza che dura da più di un anno e che secondo Israele permette che le infrastrutture militari di Hamas e della Jihad islamica vengano distrutte.
Netanyahu ha anche giustificato la sua offensiva a Gaza garantendolo. Solo così potranno salvare le quasi cento persone – 35 le vittime accertate – che sono ancora sequestrate da Hamas, nonostante i parenti degli ostaggi gli chiedano da mesi di privilegiare i canali diplomatici.
Per ora, Hamas e il partito laico Fatah, antagonista da decenni, hanno concordato al Cairo i dettagli del comitato di professionisti indipendenti che governerà Gaza una volta finita la guerra, hanno confermato fonti palestinesi.
Durante i negoziati sull'accordo di cessate il fuoco a Gaza, Israele ha chiesto che Hamas non facesse parte del futuro governo dell'enclave dopo la guerra.
(Aurora Israel, 6 dicembre 2024)
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Tzahal allerta chi ha combattuto a Gaza
Dopo la decisione della Corte penale, viaggiare all’estero può essere rischioso
di Ludovica Iacovacci
Chi ha prestato servizio a Gaza dovrà scegliere le mete per la villeggiatura con più attenzione rispetto al passato. L’esercito israeliano ha detto di mettere in guardia decine di soldati dal viaggiare all’estero per potenziali accuse di crimini di guerra, in seguito al mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale contro il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il suo ex Ministro della Difesa Yoav Gallant. Le forze di difesa hanno scoperto che gruppi anti-israeliani hanno presentato denunce contro circa 30 soldati che hanno prestato servizio nella Striscia di Gaza per presunti crimini di guerra. A 8 soldati che hanno viaggiato all’estero è stato immediatamente detto di tornare in patria per paura di essere arrestati o interrogati dal Paese che stavano visitando, riferisce il sito di notizie Ynet. I soldati avevano viaggiato a Cipro, in Slovenia e nei Paesi Bassi. L’esercito israeliano non ha vietato ai soldati di viaggiare all’estero, ma conduce “valutazioni di rischio” su quanto sia sicuro che chi ha prestato servizio a Gaza si rechi in un determinato Paese. Per questo è consigliato ai riservisti che hanno recentemente combattuto di verificare mediante il Ministero degli Esteri il livello di pericolo di qualsiasi Stato desiderino visitare. I funzionari sono preoccupati che alcuni alti ufficiali potrebbero affrontare un’azione penale presso la Corte penale internazionale, che il mese scorso ha emesso mandati di arresto per il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della difesa Yoav Gallant per presunti crimini di guerra. A rafforzare l’allerta ci sono video e foto pubblicati dai soldati sulle piattaforme social che potrebbero essere usate come prova contro loro stessi. Tale contenuto online è servito da materiale per gruppi filo-palestinesi nel compilare “liste nere” di soldati. Gli attivisti anti-Israele stanno monitorando attentamente gli account sui social media dei soldati poiché nel caso in cui condividano anche immagini dei loro viaggi all’estero prevedono di presentare accuse locali contro di loro: è per questo si consiglia ai soldati che stanno pianificando di recarsi all’estero di non pubblicare immagini che rivelino la loro posizione. Nonostante gli esperti legali di Tzahal hanno valutato che la Corte penale internazionale non ricercherà gli ufficiali e i soldati di rango inferiore che stavano eseguendo gli ordini della leadership politica, i funzionari sono preoccupati che i comandanti anziani come i Capi di Comando nord e sud, o il Capo di Stato maggiore Herzi Halevi, possano essere presi di mira dalla CPI, ha detto il rapporto pubblicato mercoledì. Sebbene finora da parte della Corte non sono state monitorate tali azioni, il potenziale rischio è considerato una minaccia significativa. “I procedimenti individuali contro soldati e ufficiali minori che viaggiano all’estero potrebbero essere basati su sentenze della CPI”, ha detto Tzahal. “A qualsiasi soldato o ufficiale, se viene arrestato, convocato per l’interrogatorio o sente di essere seguito o fotografato mentre è all’estero, Israele fornirà assistenza legale immediata attraverso la sua ambasciata locale o la stanza della situazione del Ministero degli Esteri”. Un fattore chiave nella valutazione è vedere quali Paesi dicono che sosterranno i mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant. Ad esempio in Sudafrica, un soldato dell’esercito israeliano in possesso della cittadinanza sudafricana sarebbe probabilmente detenuto per essere interrogato dato che il ministro degli Esteri sudafricano Naledi Pandor ha detto che i soldati di Tzahal in possesso della doppia cittadinanza israeliano-sudafricana saranno soggetti a arresto immediato. Bisognerà monitorare nei vari Paesi i cambiamenti nella legislazione e nella giurisprudenza relativi ai funzionari israeliani e al personale militare: per questo Israele ha assunto esperti legali locali in dozzine di Stati.
(Bet Magazine Mosaico, 6 dicembre 2024)
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Conosciamo Abu Mohammed al-Golani, il Jihadista che sta conquistando la Siria
In qualità di comandante della divisione di al-Qaeda nella guerra civile siriana, Abu Mohammed al-Golani era una figura oscura che si è tenuta lontana dagli occhi dell’opinione pubblica, anche quando il suo gruppo è diventato la fazione più potente che combatteva il presidente Bashar al-Assad. Oggi è il ribelle più noto della Siria, salito gradualmente alla ribalta dopo aver reciso i legami con al-Qaeda nel 2016, rilanciando il suo gruppo e affermandosi di fatto come il capo della Siria nordoccidentale controllata dai ribelli. La trasformazione è stata messa in mostra da quando i ribelli guidati da Hayat Tahrir al-Sham (HTS) di Golani, precedentemente noti come Fronte al-Nusra, hanno conquistato Aleppo la scorsa settimana, con Golani in primo piano e che ha inviato messaggi volti a rassicurare le minoranze siriane che da tempo temono i jihadisti. Mentre i ribelli entravano ad Aleppo, la città più grande della Siria prima della guerra, un video lo mostrava in tenuta militare mentre impartiva ordini al telefono, ricordando ai combattenti le direttive per proteggere la popolazione e vietando loro di entrare nelle case. Mercoledì ha visitato la cittadella di Aleppo, accompagnato da un combattente che sventolava una bandiera della rivoluzione siriana, un tempo evitata da Nusra in quanto simbolo di apostasia, ma recentemente adottata da Golani, in omaggio all’opposizione più tradizionale in Siria. Fin dall’inizio dell’offensiva, ha rilasciato dichiarazioni utilizzando il suo vero nome, Ahmed al-Sharaa. “Golani è stato più intelligente di Assad. Si è riorganizzato, si è rimodellato, ha trovato nuovi alleati e ha lanciato la sua offensiva di fascino” verso le minoranze, ha affermato Joshua Landis, esperto di Siria e direttore del Center for Middle East Studies presso l’Università dell’Oklahoma. Aron Lund, membro del think-tank Century International, ha affermato che Golani e HTS sono chiaramente cambiati, pur sottolineando che sono rimasti “piuttosto intransigenti”. “È presto, ma il fatto che si stiano impegnando in questo sforzo dimostra che non sono più rigidi come una volta. La vecchia scuola di al Qaeda o lo Stato islamico non lo avrebbero mai fatto”, ha detto. Golani e il Fronte al-Nusra sono emersi come le più potenti tra le numerose fazioni ribelli nate nei primi giorni dell’insurrezione contro Assad, più di un decennio fa. Prima di fondare il Fronte al-Nusra, Golani aveva combattuto per al-Qaeda in Iraq, dove aveva trascorso cinque anni in una prigione statunitense. Tornò in Siria una volta iniziata la rivolta, inviato dal leader del gruppo dello Stato islamico in Iraq all’epoca – Abu Omar al-Baghdadi – per rafforzare la presenza di al-Qaeda. Gli Stati Uniti hanno definito Golani un terrorista nel 2013, affermando che al Qaeda in Iraq gli aveva affidato l’incarico di rovesciare il regime di Assad e di stabilire la legge islamica della sharia in Siria, e che Nusra aveva compiuto attacchi suicidi che avevano ucciso civili e sposato una violenta visione settaria. La Turchia, principale sostenitore straniero dell’opposizione siriana, ha definito HTS un gruppo terroristico, pur sostenendo alcune delle altre fazioni che combattono nel nord-ovest
• RAPIDA ESPANSIONE
Golani ha rilasciato la sua prima intervista ai media nel 2013, con il volto avvolto in una sciarpa scura e mostrando solo le spalle alla telecamera. Parlando ad Al Jazeera, ha chiesto che la Siria fosse governata secondo la legge della sharia. Circa otto anni dopo, si è seduto per un’intervista nel programma FRONTLINE dell’emittente pubblica statunitense, rivolto verso la telecamera e indossando una camicia e una giacca. Golani ha affermato che la definizione di terrorista era ingiusta e che si opponeva all’uccisione di persone innocenti. Ha raccontato nei dettagli come il Fronte al-Nusra sia cresciuto, passando dai sei uomini che lo avevano accompagnato dall’Iraq a 5.000 nel giro di un anno. Ma ha detto che il suo gruppo non ha mai rappresentato una minaccia per l’Occidente. “Ripeto: il nostro coinvolgimento con al Qaeda è terminato, e anche quando eravamo con al Qaeda eravamo contrari a svolgere operazioni al di fuori della Siria, ed è completamente contro la nostra politica svolgere azioni esterne”. Ha combattuto una guerra sanguinosa contro il suo vecchio alleato Baghdadi dopo che lo Stato islamico ha cercato di assorbire unilateralmente il Fronte al-Nusra nel 2013. Nonostante i suoi legami con al-Qaeda, il Fronte al-Nusra era considerato più tollerante e meno duro nei suoi rapporti con i civili e altri gruppi ribelli rispetto allo Stato islamico. Successivamente, lo Stato Islamico è stato sconfitto nei territori che controllava sia in Siria che in Iraq da una serie di avversari, tra cui un’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti. Mentre lo Stato Islamico stava crollando, Golani stava consolidando la presa di HTS nella provincia nordoccidentale siriana di Idlib, istituendo un’amministrazione civile chiamata Governo della Salvezza. Il governo di Assad considera HTS un gruppo terrorista, insieme al resto dei ribelli insorti contro Damasco. Con i ribelli musulmani sunniti ora in marcia, l’amministrazione HTS ha rilasciato diverse dichiarazioni volte a rassicurare gli alawiti sciiti e altre minoranze siriane. Una dichiarazione ha esortato gli alawiti a staccarsi dal governo di Assad e a far parte di una futura Siria che “non riconosce il settarismo”. In un messaggio inviato mercoledì ai residenti di una città cristiana a sud di Aleppo, Golani ha affermato che saranno protetti e che le loro proprietà saranno salvaguardate, esortandoli a rimanere nelle loro case e a respingere la “guerra psicologica” del governo siriano. “È davvero importante. Il principale leader ribelle in Siria, l’islamista più potente”, ha detto Lund. “Hanno adottato i simboli della più ampia rivolta siriana…, che ora usano e cercano di rivendicare l’eredità rivoluzionaria: ‘noi siamo parte del movimento del 2011, il popolo che si è ribellato ad Assad, e siamo anche islamisti'”.
(Rights Reporter, 6 dicembre 2024)
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Trito canovaccio
Il decino di credibilità di una organizzazione come Amnesty International, dura inarrestabile da anni e non mostra neanche lontanamente di volersi fermare, come attesta il suo recente report, per altro contestato dalla sua stessa filiale israeliana, secondo cui Israele starebbe perpetrando a Gaza un genocidio.
Ormai, l’accusa di genocidio è diventata una boutade, e riesce difficile capire come, dopo più di un anno, le genocide forze israeliane, con i mezzi di cui pur dispongono, non siano state in grado di eliminare nemmeno l’un per cento della popolazione della Striscia, (approssimativamente tra i due milioni e duecento mila abitanti), nulla a che vedere con la efficacissima macchina nazista, e ai nazisti, si sa, gli israeliani vengono paragonati dai loro demonizzatori dalla fine degli anni Sessanta.
Quando questa guerra sarà finita e la spessa coltre della propaganda contro Israele si sarà dissolta, i fatti appariranno nella loro evidenza, come accadde nel 2008 dopo l’Operazione Piombo Fuso a Gaza, quando, come da copione, Israele venne accusato di crimini contro l’umanità, venne istituita all’ONU (e dove, se no?), una apposita commissione che alla fine dei suoi lavori condannò lo Stato ebraico per crimini di guerra, per poi essere ricusata clamorosamente qualche anno dopo, dallo stesso giudice che l’aveva presieduta, o come era accaduto precedentemente con “l’assedio di Jenin” nel 2002, quando i soldati israeliani vennero accusati di avere ucciso migliaia di civili e i numeri veri rivelarono che si era trattato di non più di cinquanta morti.
Attendiamo fiduciosi.
Da anni Amnesty International confeziona requisitorie contro Israele fondate su dati forniti in loco da ONG di estrema sinistra finanziate da governi stranieri o da testimoni collusi con l’Autorità Palestinese, https://www.linformale.eu/la-esibita-parzialita-di-amnesty-international/.
Terzomondismo e antioccidentalismo sono i suoi traini ideologici principali. Tenendo alti i loro stendardi, un paese come Israele, visto come avamposto americano e imperialista in Medio Oriente, secondo la vulgata confezionata a Mosca e sempre attuale, ha un posto fisso nel banco degli imputati.
Non c’è da preoccuparsi troppo, fa tutto parte dell’offensiva propagandistica contro lo Stato ebraico iniziata subito dopo il 7 ottobre, e che ha mobilitato come mai prima d’ora, piazze, media, istituzioni sovranazionali, chiese, tribunali, il mondo glamour degli attori e dei registi “impegnati” e quello degli artisti e degli intellettuali più accorati per la difesa dei diritti umani selettivamente scelti.
Non c’è da preoccuparsi nel senso che alla fine, Israele, come sta facendo, e come si impegnerà a fare con ancora più lena dopo la vittoria di Donald Trump, sta vincendo questa guerra. Ha rotto l’anello di fuoco iraniano, colpendo Hezbollah gravemente e riducendo Hamas al fantasma di se stesso, mettendo l’Iran sul chi vive e contribuendo a fare crollare il suo argine siriano.
Non siamo ancora all’epilogo, ma i risultati iniziano a palesarsi chiari. Un antico proverbio arabo recita, “I cani abbaiano, la carovana prosegue il suo tragitto”.
(L'informale, 6 dicembre 2024)
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Gerusalemme, scoperta la più antica iscrizione cinese sul Monte Sion
di Jacqueline Sermoneta
“Per sempre custodiremo l’eterna primavera”. È quanto riportato sulla base di un frammento di una ciotola in porcellana cinese, risalente a 500 anni fa e rinvenuta durante uno scavo sul Monte Sion, a Gerusalemme. Si tratta della più antica iscrizione in lingua cinese conosciuta in Israele, nonché la prima prova archeologica del legame storico tra la Terra d’Israele e la Cina.
Il reperto è stato scoperto nell’ambito di un progetto, guidato dal Prof. Dieter Vieweger e coordinato dall’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) e dall’Istituto Protestante Tedesco di Archeologia (GPIA).
In Israele erano già stati rinvenuti antichi oggetti in porcellana cinese, ma questo è il primo a recare un’iscrizione. La maggior parte dei manufatti scoperti risalgono al periodo bizantino o, anche prima, al periodo del Secondo Tempio, ben oltre 1.500 anni fa. Tuttavia, secondo il ricercatore dell’Università ebraica di Gerusalemme, Jingchao Chen, questo frammento di vaso con l’iscrizione, da lui stesso decifrata, è più recente: è datato tra il 1520 e il 1570 e risale al periodo della dinastia Ming.
Alcuni documenti dimostrano, infatti, le strette relazioni commerciali fra l’Impero cinese e l’Impero ottomano, che governava in Terra d’Israele nel XVI secolo. Ciò spiega come il vaso cinese sia giunto a Gerusalemme. Tra il XV e il XVII secolo, secondo quanto riportato dagli annali della dinastia Ming, venti delegazioni ottomane visitarono la corte imperiale di Pechino. I rapporti commerciali tra questi due imperi sono descritti anche nei libri di viaggio dei mercanti di quel periodo. Per l’appunto, gli scritti dello studioso cinese Ma Li del 1541 raccontano la presenza di colonie di mercanti cinesi a Beirut e a Tripoli e citano anche altre importanti città come Gerusalemme, Il Cairo e Aleppo.
“Nella ricerca archeologica sono note testimonianze di relazioni di commercio, per esempio, di varie spezie, tra i mercanti della Terra d’Israele e l’Estremo Oriente già in epoche precedenti. – ha affermato il direttore dell’IAA, Eli Escusido, – Ma è affascinante incontrare prove di queste relazioni anche sotto forma di una vera e propria iscrizione, scritta in lingua cinese, e in un luogo inaspettato, sul Monte Sion a Gerusalemme”.
(Shalom, 6 dicembre 2024)
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Ricercatori israeliani scoprono il legame genetico tra la mutazione negli ebrei ashkenaziti e l'autismo
Un gruppo di scienziati del Rambam Medical Center di Haifa, guidati da Sharon Bratman-Morag e Karin Weiss, ha identificato una mutazione genetica nel gene TBCB (Tubulin Folding Cofactor B), molto comune negli ebrei azkenazi, che ha un legame con un tipo di disturbo dello spettro autistico (ASD).
Lo stesso studio ha rivelato che 1 ebreo ashkenazita su 80 è portatore della mutazione del gene TBCB e, se entrambi i genitori sono portatori, c'è una probabilità del 25% che il loro figlio o figlia erediti la mutazione e presenti i sintomi correlati.
La scoperta apre nuove possibilità per la diagnosi precoce e la gestione di questa condizione genetica. Sulla base di ciò, a novembre il Ministero della Salute israeliano ha incluso un test per individuare questa mutazione nel paniere sanitario nazionale, rendendolo accessibile a tutte le coppie che intendono avere figli.
Oltre ai sintomi dell’ASD, le persone con questa mutazione possono sviluppare paraparesi spastica ereditaria, un disturbo motorio che causa rigidità muscolare e rende difficile camminare e mantenere l’equilibrio.
(Aurora Israel, 5 dicembre 2024)
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Israele inizia a riaprire i parchi nazionali del nord
La graduale riapertura è un barlume di speranza per il nord, ma le cicatrici della guerra restano visibili.
L'Autorità israeliana per la natura e i parchi ha annunciato martedì la prima fase della riapertura dei parchi nazionali e delle riserve naturali nel nord di Israele, con la riapertura dei primi parchi prevista per mercoledì. La decisione arriva dopo mesi di chiusura a causa del conflitto in corso con il gruppo terroristico Hezbollah in Libano. Il ministro della Protezione ambientale Idit Silman ha salutato la riapertura come un “momento emozionante e pieno di speranza” dopo un anno di combattimenti che hanno devastato il nord di Israele.
L'opportunità di tornare a visitare i magnifici paesaggi del nord è un barlume di speranza per ricongiungerci alla nostra natura, alla nostra terra e al nostro patrimonio”, ha dichiarato. Nella prima fase saranno riaperte sette aree:
Tuttavia, sei aree rimangono chiuse per la riabilitazione, tra cui la Riserva Naturale di Ein Afek e la Riserva Naturale di Nahal Hermon (Banias). Raya Shoraki, amministratore delegato dell'Autorità israeliana per la natura e i parchi, ha dichiarato:
“Siamo lieti di riaprire al pubblico le aree settentrionali, alcune delle quali sono rimaste chiuse per più di un anno dall'inizio del conflitto. Il personale dell'Autorità sta lavorando diligentemente per preparare e allestire tutti i siti per dare il benvenuto ai visitatori negli amati luoghi che tutti abbiamo perso”.
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Cavalli selvaggi pascolano all'alba sulla Valle di Hula, vicino alla Strada 978 nelle Alture del Golan israeliano, 27 novembre 2024
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Sebbene questa riapertura porti un senso di rinnovamento, le cicatrici del conflitto nel nord di Israele sono ancora chiaramente visibili. Gli attacchi di Hezbollah hanno devastato il paesaggio della regione, bruciando oltre 57.000 ettari di terreno. Gli incendi non solo hanno distrutto gli habitat naturali, ma rappresentano anche una sfida importante per le comunità locali e la fauna selvatica.
Le foreste e i campi di Israele nel nord del Paese portano le cicatrici di numerosi incendi. La terra annerita e gli alberi carbonizzati ricordano il conflitto in corso. Il direttore esecutivo del Keren Kayemeth LeYisrael - Fondo Nazionale Ebraico Regione Nord, Shali Ben Yishai, ha descritto la guerra all'inizio di quest'anno come “il più grande disastro naturale dalla fondazione di Israele, e ci vorranno anni per rimediare”. In risposta a queste sfide, a settembre il KKL-JNF si è impegnato a sostenere il nord di Israele con circa 5 milioni di dollari (4,7 milioni di euro). Questi fondi saranno utilizzati per rafforzare la capacità della regione di combattere gli incendi e proteggere le sue risorse naturali. (JNS)
(Israel Heute, 5 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Roma, 120 anni del Tempio Maggiore
Fadlun: "Fieri di essere italiani ed ebrei"
"La vicinanza del presidente, oggi di nuovo, è per noi fonte di grande importanza, perché ci fa sentire solidarietà e chiarezza della nostra nazione. Siamo fieri di essere italiani e di essere ebrei, in un momento in cui antisemitismo e antisionismo si fondono. Perché l'antisionismo è questo, una forma di antisemitismo. La presenza del presidente ci rafforza nella nostra fede e nella certezza della nostra democrazia", lo ha detto Victor Fadlun, presidente della comunità ebraica di Roma, a margine delle celebrazioni per i 120 anni del Tempio Maggiore alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
In merito a quanto sta accadendo in Medio Oriente, Fadlun risponde: "Oggi purtroppo si parla addirittura in termini di ipotetico genocidio, ma sono termini che respingiamo e che sono fuori luogo. Il genocidio è quello che cercarono di compire i nazisti. La definizione di genocidio fu fatta dopo il nazismo, nelle conferenze in cui si cercava di capire cosa fosse il crimine commesso. Oggi Israele sta combattendo una guerra di sopravvivenza contro l'Iran e i proxy, che hanno come dichiarato intento la distruzione dello stato di Israele e il martirio di tutti gli ebrei. Quindi è una guerra di resistenza, in cui dovrebbe essere unito tutto l'occidente, di cui Israele è il baluardo nel mondo orientale".
Infine, anche un commento per i 100 ostaggi ancora nelle mani di Hamas dopo il 7 ottobre: "Questi 100 ostaggi sono rinchiusi in zone terribili perché sono ebrei. Questo è chiaramente antisemitismo puro e razzismo", conclude.
(LaPresse, 5 dicembre 2024)
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"Hamas in ebraico vuol dire violenza", il messaggio di Di Segni a Mattarella
"Con una sinistra evocazione, la parola violenza traduce il termine ebraico biblico che è hamàs, sì proprio hamàs". Lo ha detto il Rabbino Capo Riccardo Di Segni al Tempio Maggiore di Roma per la cerimonia di celebrazione dei 120 anni della Sinagoga.
IL TESTO INTEGRALE DEL MESSAGGIO DI SALUTO A MATTARELLA
"Siamo qui a celebrare i primi 120 anni di questa Sinagoga. La prima volta che compare nella Bibbia il numero 120, proprio collegato agli anni, è al sesto capitolo della Genesi in cui si formula un giudizio severo per l’uomo che si sta comportando male e si annuncia che i suoi giorni saranno 120 anni. Per qualche interprete sarebbe l’annuncio che da quel momento la durata della vita dell’uomo non avrebbe superato i 120 anni, ma per la maggioranza degli interpreti è l’annuncio di una proroga concessa all’umanità; non vi state comportando bene, sappiate che per questo rischiate l’estinzione, vi dò 120 anni per ravvedervi. L’annuncio non fu preso sul serio e alla fine arrivò il diluvio. In base a questi racconti, quale è la lezione e quale è la sfida per noi una volta arrivati al traguardo dei 120 anni? Coloro che edificarono questo Tempio non ebbero una proroga tanto lunga.
Le loro certezze e le loro speranze si infransero molto prima davanti alle tragedie che colpirono l’Europa e si accanirono contro questa comunità. Ma non ci furono solo eventi tristi. Ci furono gioie collettive come la liberazione, la Costituzione repubblicana, la nascita dello Stato d’Israele e le sue vittorie, la creazione di nuovi rapporti con la cristianità segnata dalle visite di tre pontefici. E insieme a questo le gioie dei singoli e delle famiglie, che festeggiano qui i figli che crescono, celebrano matrimoni e festeggiano persino le nozze di diamante. Sembra che dai tempi lontani del diluvio la dinamica non sia più quella della fine del mondo, preannunciata, e totale, ma che tutto avvenga in una dimensione più locale fatta di gioie e dolori ai quali dobbiamo prepararci. Resistere, sperare e costruire. La storia di questo edificio e della comunità che rappresenta serve a dimostrare che ce la possiamo fare, che non c’è limite alla misericordia divina ma che c’è da parte nostra il dovere di comportarci bene. Il diluvio arrivò perché, dice la Bibbia 'la terra si era corrotta e si era riempita di violenza' (Genesi 6:11 e 13). Con una sinistra evocazione, la parola violenza traduce il termine ebraico biblico che è hamàs, sì proprio hamàs. La sopravvivenza della nostra società sta nella convivenza pacifica di cittadini che rispettano le leggi e che condividono il dovere di costruire insieme un mondo migliore. E tutto questo non riguarda tempi eccezionali ma è l’obbligo della quotidianità.
Il rabbino Spagnoletto nel suo intervento spiegherà alcuni simboli di questo edificio che tra l’altro conserva la memoria della Sicilia da cui arrivarono gli esuli del 1492. Ogni dettaglio di questo Tempio tramanda una storia, che spesso è storia di sofferenze, ma anche di tenacia, di volontà di sopravvivere e vivere, di trasformare l’umiliazione in bellezza.
Dopo le turbolenze del secolo scorso basate su ideologie e nazionalismi, il primo quarto di questo secolo sta conoscendo altre forme di turbolenze sanguinose. Il mondo occidentale sembra quasi impotente a fronteggiare le nuove sfide. La piccola grande storia della nostra comunità e del Tempio che la rappresenta può dare un contributo positivo. Perché è un monito contro le derive violente, le espulsioni, le emarginazioni -il ghetto di Roma era proprio qui-, la privazione dei diritti. Ma è l’esempio virtuoso di come una comunità può rimanere fedele alle sue tradizioni e al contempo integrarsi virtuosamente, rappresentando una ricchezza per Roma e l’Italia.
Ogni società anche quella più solida, è a rischio, se non avverte i sintomi della crisi e non vi pone riparo per tempo. I nostri valori fondanti, che sono quelli stabiliti dalla Costituzione, vanno difesi e promossi. La costituzione, la carta fondamentale scritta dopo la fine della barbarie nazifascista, - aggiunge Di Segni - il documento che afferma il principio di uguaglianza dei cittadini, e che tra l’altro, porta la firma di un ebreo, Umberto Terracini. Per questo, Signor Presidente, in tempi difficili come questi, la nostra comunità guarda a Lei come il primo garante di quel testo e della stabilità del nostro Paese.
Anche se la storia e la attualità concentrano la nostra attenzione, non dobbiamo dimenticare il senso essenziale questo edificio. Quando il re Salomone costruì il primo Tempio di Gerusalemme si pose una domanda, parlando al Signore: 'Il cielo e la terra non Ti possono contenere e che cosa può pretendere questo edificio', benché grandioso? (1 Re 8:27). La risposta sta già nelle parole dell’Esodo, con cui il Signore ordina la costruzione del tabernacolo: 'mi faranno un santuario e abiterò in mezzo a loro' (Es. 25:8). Si nota subito che non è detto che abiterò nel santuario', ma abiterò in mezzo a loro. Ogni sinagoga è un piccolo santuario. Serve a portare il sacro in mezzo a noi, e ad avvicinare noi al sacro. Ad ognuno di noi, noi tutti, che siano per questo disponibili. E sacro, nell’ebraismo, è ciò che innalza l’umanità, che gli dà dignità, che riconosce l’immagine divina in ogni essere umano. Di questo abbiamo bisogno, tanto più in momenti come questi. Grazie signor Presidente".
(Adnkronos, 5 dicembre 2024)
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Hamas e gli ostaggi: sei uccisi nei tunnel, recuperato un corpo e le rivelazioni sulle direttive degli assassini
di Luca Spizzichino
A tre mesi dal ritrovamento dei corpi a Khan Younis, l’IDF ha confermato che sei ex ostaggi israeliani sono stati probabilmente giustiziati dai loro carcerieri durante un bombardamento aereo su un tunnel di Hamas avvenuto lo scorso febbraio.
Le vittime — Alex Dancyg (75 anni), Yagev Buchshtav (35 anni), Chaim Peri (79 anni), Yoram Metzger (80 anni), Nadav Popplewell (51 anni) e Avraham Munder (78 anni) — erano state rapite durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. I loro corpi sono stati recuperati dall’esercito israeliano il 20 agosto 2024 in un tunnel situato nel complesso residenziale di Hamad Town a Khan Younis.
Secondo l’indagine presentata alle famiglie delle vittime, gli ostaggi sono stati uccisi poco dopo un bombardamento aereo israeliano del 14 febbraio, che aveva colpito una rete di tunnel utilizzata da Hamas. Gli ostaggi erano trattenuti in condizioni estremamente precarie: un passaggio stretto lungo appena 100 metri, sigillato da sacchi di sabbia e da una porta metallica, senza alcuna possibilità di sopravvivenza a lungo termine. Il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha descritto il tunnel come “inadatto alla sopravvivenza umana” per le sue dimensioni anguste e l’assenza di condizioni vivibili.
Sempre ieri, l’IDF e lo Shin Bet hanno annunciato il recupero del corpo di Itay Svirsky, un ostaggio israeliano rapito il 7 ottobre 2024 da Hamas e assassinato durante la prigionia. Il corpo è stato recuperato nella Striscia di Gaza, a 14 mesi dalla cattura e quasi un anno dalla sua uccisione. Durante una conferenza stampa, Hagari ha spiegato che il recupero è avvenuto durante un’operazione “i cui dettagli non possono essere divulgati per motivi di sicurezza operativa.”
Svirsky, rapito durante l’attacco di Hamas nell’ottobre 2024, sarebbe stato assassinato circa quattro mesi dopo. Durante la prigionia, era stato detenuto insieme a Yossi Sharabi e Noa Argamani. L’IDF ha respinto la versione di Hamas, secondo cui Svirsky sarebbe morto in un bombardamento, confermando invece che l’uccisione è avvenuta giorni dopo l’attacco in cui perse la vita Sharabi.
Secondo quanto riportato da Reuters sempre nella giornata di ieri, i leader di Hamas hanno ordinato ai propri operativi di “neutralizzare gli ostaggi” in caso di operazioni di salvataggio da parte di Israele. L’informazione proviene da un presunto “documento interno” che dà le istruzioni sulla custodia degli ostaggi israeliani. Il documento, datato 22 novembre, sostiene che Hamas avrebbe ricevuto informazioni su un possibile piano israeliano per un’operazione di salvataggio, simile a quella condotta a giugno nel campo di Nuseirat, in cui furono liberati quattro ostaggi israeliani. Nonostante non vi siano indicazioni precise su quando potrebbe avvenire questa operazione o se Israele abbia informazioni sul luogo di detenzione degli ostaggi, il documento raccomanda agli operativi di “non considerare le possibili conseguenze” nell’eseguire gli ordini.
(Shalom, 5 dicembre 2024)
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Onu: decisa con la maggioranza una conferenza internazionale a giugno 2025 per creare lo Stato palestinese
di Ludovica Iacovacci
L’Assemblea Generale dell’Onu ha deciso che dal 2 al 4 giugno 2025 a New York sarà convocata una conferenza internazionale per cercare di dare il via a una soluzione a due Stati, preceduta da una riunione preparatoria che si terrà a maggio 2025. Rivolgendosi ai 193 membri dell’Assemblea, il Presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, il 77enne camerunense Philémon Yang, ha ribadito l’importanza della soluzione dei due Stati definendola “l’unica via per una pace duratura”. Yang ha aggiunto che tale soluzione, concepita per la prima volta nella risoluzione 181 del 1947 dell’Assemblea generale adottata 77 anni fa, resta ancora fuori portata e si è concentrato sulla “negazione dello Stato palestinese”. Preme precisare che 77 anni fa come oggi, è stata soltanto la parte araba a non aver mai accettato l’esistenza di una controparte. La “Conferenza internazionale di alto livello per la soluzione pacifica del Medio Oriente e l’attuazione della soluzione dei due Stati” sarà co-presieduta da Francia e Arabia Saudita. “Nei prossimi mesi, insieme moltiplicheremo e combineremo le nostre iniziative diplomatiche per portare tutti su questo percorso”, ha detto Macron citando l’AFP. La risoluzione ( A/79/L.23 ) è stata approvata con 157 voti favorevoli e 8 contrari (Argentina, Ungheria, Israele, Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea e Stati Uniti), con 7 astensioni (Camerun, Repubblica Ceca, Ecuador, Georgia, Paraguay, Ucraina e Uruguay). L’Italia ha votato a favore. La risoluzione ha anche chiesto la fine dell’”occupazione israeliana iniziata nel 1967”, inclusa “Gerusalemme Est”. L’Assemblea ha detto che i due Stati dovrebbero “vivere fianco a fianco in pace e sicurezza all’interno di confini riconosciuti, sulla base dei confini pre-1967”. Su questo punto, l’Australia per la prima volta dal 2001 ha cambiato il suo posizionamento politico votando a favore della misura che chiede a Israele di ritirarsi dalla Giudea e Samaria e da Gaza. Canberra ha rotto con la sua consolidata opposizione adottata per due decenni. Peter Dutton, leader dell’opposizione australiana, ha criticato il cambiamento di politica del governo accusando il primo ministro Anthony Albanese di aver “venduto” la comunità ebraica del Paese per conquistare i cuori degli elettori progressisti. Dopo il 7 ottobre, gli attacchi antiebraici in Australia sono quadruplicati, secondo il Consiglio esecutivo dell’ebraismo australiano (ECAJ) in un rapporto pubblicato domenica. Un totale di 2.062 incidenti sono stati registrati tra ottobre 2023 e settembre 2024, molto più dei 495 incidenti rilevati un anno prima. Il totale non include le dichiarazioni antisemite fatte sui social media. Infine, il testo della risoluzione invita le parti ad “agire in modo responsabile” per invertire “le tendenze negative, comprese tutte le misure adottate sul campo che contravvengono al diritto internazionale”. Più specificamente, l’Assemblea chiede ancora una volta che “i diritti inalienabili del popolo palestinese, primo fra tutti il diritto all’autodeterminazione e il diritto a creare uno Stato indipendente, siano realizzati”. Tolto Israele, solo 7 Stati su 193 sono contrari alla creazione dello Stato palestinese. Parallelamente ai vertici internazionali, si muovono anche i tavoli della diplomazia palestinese per il futuro della Striscia, luogo del mondo dove la gran parte dei gazawi non vede Israele come una forza liberatrice, bensì come un nemico da combattere ad ogni costo. Hamas e Fatah, il partito del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, hanno concordato di formare un comitato per l’amministrazione della Striscia di Gaza dopo la guerra: Hamas si riconferma, in tal modo, espressione di larghe fasce del popolo palestinese. Inoltre, nella stessa giornata l’Assemblea Generale ha votato per altre due risoluzioni. La prima è intitolata “Divisione del Segretariato per i diritti dei palestinesi ” (documento A/79/L.24). La votazione registrata ha avuto 101 voti a favore, 27 contrari e 42 astensioni. L’Assemblea ha chiesto al Segretario generale di continuare a fornire risorse e chiede di garantire che la Divisione continui a svolgere efficacemente il suo lavoro. La seconda risoluzione, adottata dall’Assemblea con 97 voti a favore, 8 contrari (Australia, Canada, Israele, Stati Federati di Micronesia, Palau, Papua Nuova Guinea, Regno Unito, Stati Uniti) e 64 astensioni, riguarda “Il Golan siriano” (documento A/79/L.19). Il documento dichiara che Israele non ha rispettato la risoluzione 497 (1981) del Consiglio di Sicurezza e stabilisce che la decisione di imporre la propria giurisdizione sul “Golan siriano occupato” è nulla e non valida. Si invita inoltre lo Stato ebraico a riprendere i colloqui sui binari siriani e libanesi e a ritirarsi da tutto il “Golan siriano occupato”. Insomma, una giornata di festa per Hamas e Bashar al-Assad nel rispetto del cosiddetto “diritto internazionale”.
(Bet Magazine Mosaico, 5 dicembre 2024)
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Il conflitto in Siria e la crisi della strategia iraniana
di Ugo Volli
• L’AVANZATA DEI RIBELLI FILOTURCHI
La situazione in Siria sembra essersi provvisoriamente stabilizzata. Le varie forze sunnite filoturche ma legate anche all’eredità dell’Isis e di Al Qaida, oggi riunite sotto la sigla HTS (Commissione per la salvezza della Siria), controllano un’ampia zona nel nord-ovest del paese, dai confini turchi alla seconda città del paese, Aleppo, a Idlib, fino a Hama, a metà strada con Damasco. Hanno conquistato aeroporti con aerei e elicotteri, fabbriche d’armi, impianti antimissile, grandi centri abitati, industrie; procedendo in direzione sud hanno anche tagliato i collegamenti terrestri est ovest fra il centro del paese e la costa, isolando le basi navali russe. Se raggiungeranno la prossima città del loro percorso, Homs, a meno di 50 km dalle posizioni attuali, bloccheranno l’imbocco orientale della valle della Bekaa, il principale accesso al Libano (e a Hezbollah) per l’Iran. Sono stati segnalati anche vari episodi di appoggio all’HTS nel sud del paese, nella capitale Damasco e ai confini con la Giordania. L’annunciata controffensiva delle forze governative, come l’intervento di reparti sciiti dall’Iraq e addirittura dell’esercito iraniano, per ora non si sono realizzate. Le forze curde, sostenute dagli Stati Uniti, si sono ritirate dalle zone di contatto. A contrastarli per ora sono solo i bombardamenti dell’aviazione russa. Il rallentamento della loro avanzata, all’inizio travolgente, deriva dalla necessità di consolidare le linee di rifornimento e di difesa, che si sono molto estese, e forse dalla pressione di Usa e Russia sulla Turchia.
• IL SIGNIFICATO STRATEGICO
L’irruzione dell’HTS costituisce uno sviluppo strategico importantissimo per tutto il Medio Oriente. L’incapacità del governo siriano, pur appoggiato dalla Russia e dall’Iran, di tenere la parte più ricca e popolosa del paese, mostra non solo il fallimento della sanguinaria dittatura di Assad, ma quello della grande strategia imperialista dell’Iran, concepita quindici anni fa dal generale Qasem Soleimani, cioè la realizzazione di un “ponte terrestre” fra l’altopiano persiano e il Mediterraneo, attraverso Iraq, Siria e Libano, e la conseguente accensione di un “anello di fuoco” intorno a Israele, capace di isolare e distruggere lo Stato ebraico. Proprio il tentativo di iniziare a sfruttare questo “anello” con il pogrom del 7 ottobre e gli attacchi missilistici di Hezbollah, con la conseguente reazione israeliana che ha decimato la forza dei terroristi libanesi, ha provocato le difficoltà attuali del regime siriano. Erano stati infatti proprio i mercenari di Hezbollah a evitare la caduta di Assad. La loro debolezza attuale lo mette di nuovo a rischio.
• I PRECEDENTI
La situazione attuale in Siria non è infatti una novità assoluta. Il regime di Assad non si era mai del tutto ripreso dalle conseguenze delle agitazioni del 2011 (che la stampa occidentale aveva descritto col nome molto inappropriato di “primavere arabe”). La rivolta integralista dei Fratelli Musulmani sunniti contro il regime alawita protetto dagli sciiti iraniani era stata repressa da Assad in maniera crudelissima, soprattutto perché Obama non aveva fatto rispettare la “linea rossa” da lui stesso proclamata contro le armi chimiche; si era affermato poi in parte della Siria lo “Stato Islamico” (ISIS). Dopo la sua sconfitta si era formato un equilibrio complicato: il governo controllava i grandi deserti al confine sudorientale con l’Iraq e la Giordania, il confine con Israele, la striscia fra Damasco e Aleppo fino alla costa; i curdi tenevano una zona a nordest, fra l’Iraq e la Turchia; i ribelli che oggi avanzano avevano già un loro territorio a Nordovest vicino al confine turco; c’erano basi russe sulla costa e anche sul Golan, dove erano insediate pure truppe di Hezbollah. Gli americani avevano una base a sudest, vicino alla Giordania. La spinta dell’Hts ha più che raddoppiato il loro territorio e rischia di far saltare questi precari equilibri.
• GLI INTERESSI DI ISRAELE
A Israele naturalmente la crisi della strategia imperialistica degli ayatollah e soprattutto il blocco delle vie di rifornimento delle armi iraniane a Hezbollah non possono che far piacere; anche le difficoltà di un nemico permanente come Assad non dispiace – anche se certi media hanno rilanciato la voce poco plausibile che il dittatore siriano avrebbe chiesto aiuto proprio allo Stato ebraico che in linea di principio non lo avrebbe rifiutato. Ma non vi è dubbio che i jihadisti dell’Hts con la loro ideologia integralista e i loro metodi terroristi siano dei nemici pericolosi per cui Israele non ha alcuna simpatia. Averli al confine del Golan aumenterebbe il rischio di avere un nuovo fronte attivo di offensiva terroristica. Del resto il loro grande protettore Erdogan non ha mancato occasione negli ultimi anni per esprimere odio per lo Stato ebraico e solidarietà per il terrorismo di Hamas. A Israele può dunque convenire che l’azione dei ribelli si estenda fino a Homs, rendendo più difficile l’accesso dell’Iran al Libano, ma non è auspicabile la loro conquista di Damasco e tantomeno del Golan siriano.
• LE PROSPETTIVE
È impossibile prevedere come si evolverà la situazione. Iran e Russia hanno certamente i mezzi per bloccare i ribelli, ma non è detto che si sentano di usarli, impegnati come sono su altri fronti. Gli Usa non sembrano avere deciso un intervento. Né il regime siriano né Hezbollah sembrano in grado da soli di respingere Hts; potrebbero intervenire milizie irachene, ma della loro capacità bellica si sa poco. La Turchia potrebbe negoziare su diversi fronti (Russia, Iran, la stessa Siria) dei vantaggi politici come prezzo per fermare i suoi protetti, che però sono divisi in gruppi autonomi, non tutti facilmente controllabili. E vi sono molti in Siria che attendono una vendetta per le stragi di massa di cui Assad si è reso responsabile nell’ultimo decennio. Insomma la situazione è aperta e incerta e potrebbe degenerare in una grande guerra. Ma dato che non è possibile attribuirne la responsabilità a Israele, pochi vi badano.
(Shalom, 4 dicembre 2024)
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La paura di Israele: jihadisti con i gas di Assad
Gerusalemme teme che, nel caos partito da Aleppo, le armi chimiche del regime possano finire nelle mani degli estremisti filo iraniani o filo turchi. Ribelli alle porte di Hama, la capitale degli alawiti, la componente religiosa più vicina al leader.
di Stefano Piazza
Prosegue senza sosta la marcia dei jihadisti siriani che ieri hanno conquistato quattro nuove città - Halfaya, Taybat Al Imam, Maardis e Soran. che si aggiungono alle altre sedici già sotto il loro controllo. La notizia della conquista di queste città è stata riferita dall'amministrazione delle operazioni militari dei jihadisti ed è stata confermata dall'Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdh), con sede nel Regno Unito. I ribelli hanno anche dichiarato di aver eliminato 50 soldati governativi durante le operazioni militari di ieri. Questo sviluppo rappresenta un'importante vittoria per il fronte anti-Assad, guidato dal gruppo jihadista salafita Hayat Tahrir Al Sham e dalle forze dell'opposizione sostenute dalla Turchia. Attualmente, i ribelli si trovano a meno di 10 chilometri da Hama, la quarta città più popolosa della Siria ed è evidente che tutto quanto accade in questi giorni ha avuto una minuziosa pianificazione durata mesi.
Hama è una città strategica nella Siria centrale, sulla strada che collega Aleppo alla capitale Damasco (obiettivo finale dei jihadisti) e secondo RamiAbdel Rahman, direttore dell'Osdh «l'avanzata dei ribelli su Hama minaccia la base popolare del regime», dato che i dintorni della città sono popolati da alawiti, la comunità da cui proviene il presidente Bashar Al Assad. Secondo quanto riportato dall'Osdh, «scontri violenti si stanno verificando nel Nord della provincia di Hama, mentre aerei russi e siriani stanno conducendo decine di raid sulle posizioni occupate dai ribelli», ma la sensazione è che anche Hama possa cadere nelle mani dei jihadisti. Nelle ultime ore il conflitto siriano ha visto una riaccensione del fronte orientale, dove si affrontano forze filo-Usa e filo-iraniane, ciascuna a sostegno di fazioni armate locali. Fonti sul terreno, in linea con quanto riportato dall'Osdh, indicano che le forze filo-Usa, composte dal Pkk curdo e da tribù arabe alleate con Washington, stanno tentando di prendere il controllo di sette località situate a Est del fiume Eufrate, attualmente occupate da milizie filoiraniane e da clan tribali affiliati a Teheran. I media siriani segnalano che gli insorti filo-turchi hanno preso il controllo di cinque aeroporti strategici attorno alla città di Aleppo, privando il governo centrale siriano, insieme ai suoi alleati Russia e Iran, di importanti infrastrutture militari e civili. Oltre all'aeroporto civile, gli insorti controllano ora anche quattro aeroporti militari: Nayrab, Kuw e iris, Menagh e Abu Dhuhur. Questi scali, considerati risorse strategiche di primaria importanza, erano utilizzati dal governo di Damasco e dai suoi alleati per operazioni militari e logistiche. In particolare, l'Iran si avvaleva degli aeroporti di Aleppo per rifornire regolarmente le linee degli Hezbollah libanesi, sfruttando il corridoio di Homs che collega la Siria centrale alla valle libanese di Bekaa. Mentre scriviamo gli scontri tra le due fazioni sono ancora in corso. Il gruppo armato iracheno Kataeb Hezbollah, alleato dell'Iran, ha sollecitato Baghdad a inviare truppe in Siria per sostenere il governo di Damasco. Un portavoce di Kataeb Hezbollah, parte dell’«asse della resistenza» sostenuto dall'Iran, ha dichiarato che il gruppo non ha ancora deciso di mobilitare i propri combattenti, ma ha invitato il governo iracheno ad agire. Kataeb Hezbollah ha già partecipato al conflitto siriano al fianco delle forze fedeli al presidente Assad. In Iraq, il gruppo è parte integrante di Hashed Al Shaabi, una coalizione di ex forze paramilitari ora integrate nelle forze armate regolari. Nel frattempo, Baghdad ha confermato di aver inviato veicoli blindati per rafforzare la sicurezza lungo il confine di 600 chilometri con la Siria.
E l'Iran principale sostenitore del regime siriano? Secondo alcune indiscrezioni potrebbe inviare truppe a combattere, tuttavia, alcuni analisti ritengono che «potrebbe non bastare arrivati a questo punto». In ogni caso il ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, in un estratto da un'intervista pubblicata sul suo canale ufficiale Telegram ha affermato: «Se il governo siriano ci chiede di inviare forze in Siria, studieremo la loro richiesta». Iran che ieri ha attaccato Ankara con le parole di Ali Akbar Velayati, consigliere della Guida suprema iraniana Khamenei: «Non avremmo mai immaginato che la Turchia, con una lunga storia islamica, potesse cadere in una trappola tesa dagli Stati Uniti e dai sionisti. Gli Stati Uniti, i sionisti e i Paesi della regione, sia arabi che non arabi, dovrebbero tenere a mente che la Repubblica islamica dell'Iran sosterrà il governo della Siria fino alla fine». Recep Tayyip Erdogan non ha commentato ma ha affermato che il governo di Assad «deve impegnarsi in un genuino processo politico per impedire che la situazione peggiori» che sembra un modo elegante per dire al presidente siriano di andarsene.
Israele segue con grande preoccupazione quanto accade in Siria e il timore principale è che i jihadisti di Hts o le milizie filoiraniane possano prendere il controllo dei laboratori militari dove sono custodite le armi chimiche siriane che verrebbero poi usate contro lo Stato ebraico. In tal senso secondo fonti della tv saudita Al Hadath ieri mattina gli israeliani hanno ucciso in un attacco sulla strada per l'aeroporto di Damasco Salman Jumaa, responsabile del collegamento tra Hezbollah e l'esercito siriano. Meglio prevenire che curare.
(La Verità, 4 dicembre 2024)
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Trump avverte Hamas che “ci sarà da pagare un inferno” per gli ostaggi di Gaza
Il Presidente entrante promette un'azione decisiva se gli ostaggi rimarranno prigionieri oltre il giorno dell'inaugurazione.
Lunedì il presidente eletto Donald Trump ha lanciato un severo avvertimento ad Hamas, chiedendo l'immediato rilascio di tutti gli ostaggi detenuti a Gaza. Scrivendo sulla sua piattaforma Truth Social, Trump ha dichiarato che se gli ostaggi non saranno liberati entro il suo insediamento, il 20 gennaio 2025, i responsabili dovranno affrontare conseguenze senza precedenti. “Vi prego di lasciare che questa VERITÀ serva a far capire che se gli ostaggi non saranno liberati prima del 20 gennaio 2025, data in cui assumerò con orgoglio l'incarico di Presidente degli Stati Uniti, ci sarà TUTTO L'INFERNO DA PAGARE in Medio Oriente”, ha scritto Trump. Ha promesso che i responsabili “saranno colpiti più duramente di quanto sia mai stato fatto nella lunga e storica storia degli Stati Uniti d'America”. La dichiarazione di Trump arriva sulla scia dell'attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele, durante il quale il soldato dell'IDF di origine statunitense, il capitano Omer Maxim Neutra, è stato ucciso e il suo corpo è stato portato a Gaza. Inoltre, un video di propaganda pubblicato sabato ha mostrato l'ostaggio americano Eden Alexander in cattività, intensificando ulteriormente gli appelli all'azione. Domenica Sara Netanyahu, moglie del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha incontrato Trump al suo Mar-a-Lago Golf Club in Florida. Durante la cena, Sara Netanyahu ha sottolineato la situazione degli ostaggi e l'importanza di combattere quello che ha definito “l'asse del male”. La promessa di Trump di ritenere Hamas responsabile sottolinea l'importanza degli ostaggi negli sforzi globali in corso per stabilizzare la regione. La sua dichiarazione amplifica l'urgenza del loro rilascio come condizione fondamentale per la sicurezza del Medio Oriente e segna un punto centrale per la sua imminente presidenza. Mentre la crisi degli ostaggi continua, la dichiarazione di Trump segnala un approccio duro nei confronti di Hamas e dei suoi sostenitori.
(Israfan, 4 dicembre 2024)
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Germania: cancellata lezione del noto storico israeliano Benny Morris all’Università di Lipsia
L’Università di Lipsia ha annullato una lezione prevista per la giornata di giovedì, che vedeva la presenza del famoso storico israeliano Benny Morris. In una dichiarazione, Gert Pickel e Yemima Hadad, docenti dell’ateneo, hanno detto che la cancellazione è dovuta alle proteste degli studenti per le considerazioni dello studioso (senza però specificare quali) “che potrebbero essere interpretate come offensive e persino razziste”. A riportare la notizia è il Jewish News Syndicate Inoltre, hanno aggiunto che le proteste erano “comprensibili, ma di natura spaventosa”. Quindi l’annullamento dell’intervento di Morris sarebbe dovuto anche a problemi di sicurezza. Noto per essere un esperto del conflitto arabo-israeliano, nella sua lezione avrebbe dovuto trattare “Il 1948 e la Jihad” all’interno di una serie di conferenze sull’antisemitismo. In seguito, i docenti avrebbero aggiunto: “Vogliamo esprimere la nostra preoccupazione per il doppio standard che viene applicato agli studiosi israeliani, che sono sempre più emarginati ed esclusi dagli eventi con il pretesto di divergenze di opinione politica, mentre ad altre voci viene dato libero accesso all’università”. Dopo l’accaduto il think tank MENA di Vienna ha condannato la decisione dell’università, mettendo in chiaro il ben noto curriculum di Morris, già definito dallo stesso The Guardian come “un radicale che ha costretto il suo Paese a confrontarsi con il suo ruolo nello sfollamento di centinaia di migliaia di palestinesi”. Morris è risaputo essere un oppositore dichiarato del controllo israeliano sulle zone della Giudea e della Samaria. Un oppositore le cui scoperte spesso non erano in linea con le affermazioni di diversi gruppi sostenitori di Israele. A maggior ragione, MENA ha scritto che l’opposizione a Morris “non fa che evidenziare ulteriormente il comportamento patetico dell’Università di Lipsia, che può essere giustamente considerato un grande successo da parte di coloro che odiano Israele”. Tra i vari gruppi che ne hanno chiesto l’annullamento compariva quello degli Studenti per la Palestina di Lipsia. In seguito, Morris, 75 anni, ha dichiarato al quotidiano israeliano Haaretz che la decisione di annullare la lezione è stato un gesto codardo: “vergognosa, soprattutto perché è il risultato della paura di una potenziale violenza da parte degli studenti.
(Bet Magazine Mosaico, 4 dicembre 2024)
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Il cuore della Sicilia che batte per Israele
di Angelica Calò Livnè
Dopo più di 400 giorni di guerra, con un’Israele ferita, sanguinante, divisa, che lotta strenuamente per mantenere il suo spirito e per continuare a sopravvivere siamo arrivati a Palermo. «Ti abbiamo sentita alla radio, parlavi di pace e di speranza mentre suonavano le sirene, mentre arrivavano i missili di Hezbollah sulla tua casa al confine con il Libano e abbiamo subito pensato che dovevi essere una delle premiate in ricordo di padre Pino Puglisi, il prete che combatté contro la mafia con coraggio e dedizione verso i suoi ragazzi, per dare dignità, amore e futuro alla gente del suo quartiere, Brancaccio a Palermo. Saremmo onorati se volessi accettare il nostro invito». Il primo pensiero è stato «Mi ani ki elech el paro’ – Chi sono io per andare dal Faraone?», poi di istinto, con gioia e profonda gratitudine, ho detto sì, certamente. «Sono io che devo ringraziarvi per la vostra fiducia e per il vostro coraggio di andare contro corrente in questo momento buio di solitudine per il mio Paese!».
Nel primo giorno del cessate il fuoco, immediatamente la speranza si è fatta largo tra la gente, si è insinuata nei cuori, ha accarezzato le spalle curve dal dolore e dal peso di una guerra senza fine, benedicendo le fronti.
Cosi è Israele: si abbarbica a ogni piccolo raggio di positività e ricomincia la sua lotta per la ricostruzione, per riempirsi dell’energia così urgente per non soccombere. E questo è stato il nostro viaggio in una Palermo effervescente, dove il profumo del pistacchio si mescola ai colori delle danze di strada per denunciare la violenza contro le donne, dove l’oro di Monreale brilla e ispira al Bene preti, vescovi e associazioni di periferia per strappare giovani e non dalla povertà, dalla droga, dall’ingiustizia e dalla disperazione. Gente nobile, che dedica la propria vita e si batte per una Sicilia sana, regina delle bellezze che ha ricevuto dalla natura e da tradizioni antiche.
• UN’ACCOGLIENZA CHE SCALDA IL CUORE
Sono partita con dolori in tutto il corpo, accompagnata da Yehuda, mio angelo custode, con una paura profonda di imbattermi in sorprese spiacevoli da parte di chi si alimenta delle notizie dei media. Ero preoccupata dall’antisemitismo dilagante, devastante che non lascia respiro. Avevo il cuore pesante per i nostri soldati che cadono ogni giorno a Gaza e nel sud del Libano, per i 101 ostaggi in procinto di affrontare un altro inverno in condizioni disastrose, e per il nostro kibbutz abbandonato.
L’accoglienza dei fedeli nella Chiesa diroccata di padre Antonio Garau di Borgo Nuovo direttamente dall’aeroporto Falcone e Borsellino è stata un diluvio di affetto, di empatia profonda verso le nostre storie dolorose del 7 ottobre, sulle donne stuprate, i bambini che hanno assistito all’assassinio dei loro genitori, le famiglie bruciate. Gemma Ocello – di nome e di fatto, un vero diamante grezzo, che splende e illumina al suo passaggio – mi scriveva ormai da mesi per prepararmi alla cerimonia. Saremmo stati in sette: padre Alex Zanotelli, sacerdote comboniano, Gino Cecchettin che con straordinaria forza interiore ha trasformato il dolore per la tragica perdita della figlia Giulia in un esempio luminoso di amore. Andrea Rinaldo, scienziato di fama mondiale e vincitore dello Stockholm Water Prize. Francesco Zavatteri, che ha trasformato il dolore per la perdita del figlio Giulio in un impegno concreto contro le dipendenze, Zenaida Boaventura che con La Casa di tutte le genti ha dato un’opportunità a tante mamme lavoratrici e ai loro figli, creando un luogo di accoglienza e integrazione. E io, messaggera di pace e di speranza in piena guerra.
«La presenza di personalità di tutto il mondo», ha commentato padre Garau, «che vivono la loro vita testimoniando il senso del rispetto e della dignità dell’uomo sono la nostra forza nel credere che le cose possano cambiare, come diceva padre Pino Puglisi».
Nel corso della settimana trascorsa sotto la protezione affettuosa di Gemma e della sua famiglia, ci sono stati momenti di grazia senza fine, di rispetto profondo per il nostro essere ebrei, israeliani e fratelli maggiori. Abbiamo ricevuto manifestazioni di affetto nel Liceo Mamiani di Palermo dove abbiamo presentato uno dei nostri laboratori di Educazione al dialogo attraverso le arti da palcoscenico per 120 ragazzi: «Voi siete la testimonianza vivente di ciò che accade veramente in Medio Oriente dovete raccontare a tutti la verità dietro le immagini che mostrano in televisione!», ha sottolineato Giovanni, professore di storia e filosofia. Uno dei carabinieri che ci ha accompagnato ci ha confidato la sua frustrazione, durante le manifestazioni propal, per chi prova a sostituire la bandiera italiana con quella palestinese. In più, quando affrontano il caos, le forze dell’ordine vengono demonizzate.
• CON UN GIOVANE LIBANESE A PALERMO
Concluderò con uno dei momenti più toccanti di questo viaggio: un testo scritto da Germana Porcasi che ha partecipato a un altro dei laboratori presentati in questi giorni a Palermo:
«Oggi abbiamo partecipato alla lezione di Angelica alla fondazione Fscire.
Angelica esordisce raccontando brevemente del suo kibbutz, degli sfollati, dei missili… A un certo punto prende la parola un ragazzo, si presenta “sono libanese” dice “di Beirut”… tutti trattengono il respiro, abbiamo anche pensato… speriamo non nasca una discussione. Angelica, pronta come sempre, con massima gioia e accoglienza. “Non sai quanto sono felice ed emozionata… il mio kibbutz è proprio davanti al confine con il Libano…”. Lui trattiene a fatica le lacrime raccontando con tanto dolore la paura e la sofferenza che continuano a infliggere ai libanesi. “Abbiamo paura, abbiamo paura… non possiamo dire nulla, ci chiamano sionisti… traditori, ci minacciano… siamo stanchi non ne possiamo più, noi siamo brave persone, non vogliamo il male di nessuno… ma loro… loro ci hanno catapultato 40 anni indietro”. E allora Angelica gli chiede: “Ma questi –«loro»– chi intendi Hezbollah?”. “Si”, dice lui “Hezbollah” e ancora trattiene le lacrime, la voce spezzata, un nodo in gola… Molti dei presenti si asciugano le lacrime che scendono irrefrenabili. Incredibile davvero questo incontro e lo sfogo liberatorio di questo ragazzo, consegnato proprio al cuore di Israele».
E con questo spirito, con queste immagini negli occhi, nell’anima e nel cuore torniamo a casa. Proprio a casa, e dopo più di un anno torniamo a dormire nella nostra stanza da letto con la sua finestra sul Monte Hermon. Ora non ci resta che aspettare con fiducia 60 giorni per rivedere il kibbutz pieno di bambini e Amen, gli abbracci delle madri e le famiglie da tutta Israele che accolgono i loro figli che tornano dall’inferno dei tunnel. Siamo nati per la luce e per la luce combatteremo fino in fondo!
(moked, 2 dicembre 2024)
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Il presidente della Siria chiede aiuto a Israele!
Questo è il titolo del sito ortodosso Kikar Hashabbat, e sembra semplicemente fantastico. Io dico la mia opinione apertamente e senza mezzi termini. Secondo il quotidiano saudita Elaph, il presidente siriano
Bashar al-Assad ha chiesto aiuto a Israele per respingere i ribelli sunniti che negli ultimi giorni hanno conquistato ampie zone del nord-ovest della Siria. Israele non ha immediatamente respinto la richiesta, ma ha posto delle condizioni. Fonti ufficiali non hanno ancora confermato la notizia. Per il portale ortodosso Kikar questo è un segno dell'arrivo del Messia. Il capo di Stato siriano chiede aiuto allo Stato di Israele? È qualcosa di anomalo nella politica regionale in cui viviamo. Ma l'intera regione è in una nuova fase che può esplodere o aprire nuove possibilità. Stiamo vivendo un periodo anomalo in cui ci saranno sicuramente molte sorprese. A.S.
di Aviel Schneider
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Ribelli siriani strappano un ritratto del presidente siriano Bashar al-Assad nel centro di Aleppo, Siria, 30 novembre 2024.
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GERUSALEMME - Elaph ha rivelato ieri che il Presidente Assad ha inviato un messaggio a un'agenzia di sicurezza israeliana attraverso uno dei suoi consiglieri in Europa. In questo messaggio, Assad avrebbe chiesto aiuto militare per sostenere il suo regime a Damasco contro i ribelli sunniti. Secondo il giornale saudita, Israele ha risposto ad Assad che gli sviluppi in Siria non rappresentano una minaccia immediata per Israele. Tuttavia, Israele non ha rifiutato categoricamente la richiesta. L’apparato di sicurezza israeliano aveva chiarito ad Assad che le milizie iraniane avrebbero dovuto lasciare la Siria prima che Israele potesse considerare una risposta positiva alla richiesta.
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Il presidente siriano Bashar Al-Assad (R) parla con il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi (L), a Damasco, in Siria, il 1° dicembre 2024
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Se questo rapporto è vero, cosa che ritengo abbastanza possibile, allora dimostra che il regime siriano di Assad è ai ferri corti con il regime degli ayatollah in Iran. Assad chiede aiuto al regime sionista di Gerusalemme? Il regime sionista di Gerusalemme è il diavolo che deve sparire dalla faccia della terra per i suoi alleati iraniani. C'è qualcosa di sbagliato in questa teoria, oppure spiega gran parte del successo delle eliminazioni di Israele in Libano, Iran e Siria. Da tempo circola la voce che Assad abbia aiutato Israele a eliminare una figura chiave dopo l'altra dall'asse del terrore sciita. Non è una novità nel mondo arabo in cui viviamo. Dietro le quinte, i governi arabi hanno spesso chiesto aiuto al loro nemico sionista a Gerusalemme. Il padre dell'attuale re giordano, re Hussein, durante il suo mandato ricevette da Israele la promessa che l'aviazione israeliana sarebbe intervenuta se la Siria avesse continuato a sognare una Grande Siria e avesse voluto conquistare parti della Giordania. All'epoca, il padre di Bashar al-Assad
, Hafez al-Assad, governava la Siria. Non è quindi una novità che gli arcinemici di Israele chiedano aiuto.
D'altra parte, ci sono anche notizie secondo cui Assad avrebbe chiesto aiuto all'Iran, il che ovviamente suona molto più logico. “È probabile che Assad riceva decine di migliaia di soldati iraniani per aiutarlo a combattere i ribelli, che negli ultimi giorni hanno fatto qualche passo avanti”. Commentando i combattimenti in Siria, il professor
Eyal Zisser, esperto di Medio Oriente e Siria, ha dichiarato:
"La cosa davvero sorprendente di questo evento è stato il rapido crollo dell'esercito siriano di fronte ai ribelli. Questo dimostra quanto l'esercito sia davvero debole e che non può sopravvivere senza il sostegno dei suoi amici e alleati. Da quando Iran e Russia sono intervenuti, la guerra in Siria è rimasta a un livello basso e Assad ha avuto il tempo di ricostruire e rafforzare il suo esercito. Si tratta di decine di migliaia di soldati e di attrezzature russe e iraniane. Questo esercito avrebbe dovuto essere molto più forte dei ribelli. Ma l'esercito siriano è semplicemente fuggito - non c'è stata nemmeno una battaglia”.
Il sito web saudita ha citato l'esperto israeliano di Medio Oriente Mordechai Kedar e lo ha ritratto mentre descriveva i ribelli siriani come “amici di Israele”. Kedar aveva detto che si sarebbe potuta aprire un'ambasciata israeliana a Damasco se i ribelli avessero preso il controllo della Siria e rovesciato il regime di Assad. Tuttavia, questo resoconto non corrisponde alle sue reali dichiarazioni. In un video clip, Kedar ha detto:
"Oggi sono a favore dei ribelli. Domani non lo so! Ma oggi i ribelli vogliono combattere le milizie sciite in Siria e liberarsi del regime di Assad. Oggi dovete sostenere i ribelli. Domani non lo so. Oggi combattono contro le milizie sciite e contro il regime di Assad. Se saranno amichevoli nei nostri confronti, continueremo a sostenerli. Se non lo saranno, non lo faremo”.
L'Iran è fortemente coinvolto negli sviluppi strategici in Siria perché vuole creare una “autostrada d'attacco” sciita da Teheran alle alture del Golan. Per il regime degli ayatollah, la Siria è solo un mezzo per raggiungere il fine di distruggere Israele. La conquista da parte dei ribelli sunniti vanifica questo piano e danneggia gli interessi nazionali dell'Iran, il che non preoccupa particolarmente Israele. Tuttavia, Israele teme che gruppi terroristici estremisti possano sfruttare il vuoto di potere nelle aree incontrollate del nord-ovest della Siria. È molto probabile che Assad capisca meglio l'intera situazione e veda la vera salvezza negli ebrei piuttosto che nei suoi soliti alleati. Ecco perché ci si chiede cosa stia accadendo intorno a noi, soprattutto nell'ultimo anno. Viviamo davvero in tempi messianici? Israele è stato colto di sorpresa il 7 ottobre 2023. Da allora c'è stata guerra. E ora, dopo che Israele ha eliminato alcuni dei suoi nemici più potenti, il presidente siriano Assad chiede aiuto? Fantastico!
(Israel Heute, 3 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele in allerta per arrivo Guardie Rivoluzionarie in Siria
In Israele temono che l'Iran approfitti della crisi in Siria per far entrare un elevato numero di Guardie Rivoluzionarie in Siria e minacciare così lo Stato Ebraico
di Haamid B. al-Mu’tasim
GERUSALEMME - Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto domenica sera una consultazione di sicurezza ad alto livello sugli sviluppi in Siria, in seguito all’attacco a sorpresa dei ribelli nella zona di Aleppo e Idlib.
Alti funzionari della sicurezza a Gerusalemme affermano che Israele teme che il presidente siriano Bashar Assad permetta all’Iran di introdurre forze delle Guardie Rivoluzionarie nel territorio siriano per aiutare l’esercito di Damasco a difendere il suo regime, e che tale mossa avvicinerà le Guardie Rivoluzionarie al confine con Israele.
Secondo le stesse fonti, Hezbollah avrebbe già inviato forze dal Libano nel nord della Siria per proteggere i beni dell’organizzazione e dell’Iran dai gruppi terroristici jihadisti.
Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è arrivato ieri a Damasco e ha incontrato il presidente Assad per coordinare le mosse tra Iran e Siria, con l’obiettivo di proteggere il regime siriano.
Secondo la stampa araba, l’Iran sta già pensando di inviare forze militari in Siria. Ieri sera ha messo in guardia gli Stati Uniti dall’approfittare della situazione in Siria e ha lanciato segnali sulla possibilità di inviare forze “consultive” delle “Guardie rivoluzionarie” nella città di Aleppo in Siria se gli sviluppi sul terreno lo richiedessero.
Fonti di stampa hanno riferito che il deputato iraniano Ismail Kavehtri, responsabile per gli affari militari presso la commissione per la sicurezza nazionale del parlamento, ha affermato ieri sera che esiste la possibilità che l’Iran invii forze “consultive” in Siria, ma secondo lui , “questo dipende dagli sviluppi sul terreno e dalle decisioni della leadership israeliana”.
Kavehtri ha affermato infatti che gli attacchi dei ribelli ad Aleppo avevano lo scopo di impedire gli aiuti iraniani a Hezbollah durante il cessate il fuoco di 60 giorni, secondo un piano americano-israeliano. Ha sottolineato che il numero dei consiglieri iraniani in Siria non è molto elevato e, se il loro numero fosse elevato, agirebbero immediatamente. Ha stimato che “il fronte della resistenza interverrà con forza in Siria per impedire il ritorno delle fazioni armate, al fine di contrastare il piano americano-israeliano”.
Le stesse fonti sostengono anche che il generale Hossein Dakiki, consigliere del comandante delle “Guardie rivoluzionarie”, ha affermato che “il nemico israeliano sta complottando in Siria e in Libano, ma in Siria gli verrà tagliata la mano in modo tale da passare2 per sempre alla storia.”
Secondo quanto riferisce la rete Farda in lingua persiana, migliaia di combattenti delle milizie sciite in Iraq si stanno dirigendo verso la città di Aleppo in Siria per partecipare ai combattimenti.
Israele sta monitorando attentamente ciò che sta accadendo in Siria, e fonti politiche dicono che Israele agirà se le forze iraniane o le milizie filo-iraniane tentano di avvicinarsi al confine con Israele, e che “Israele è pronto per qualsiasi scenario”.
(Rights Reporter, 2 dicembre 2024)
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Caos Siria, opportunità e rischi per Israele
Gli sviluppi in Siria, con i ribelli jihadisti filoturchi che hanno preso il controllo della città di Aleppo otto anni dopo la sua riconquista da parte dell’esercito siriano, stanno destando preoccupazione in Israele. Il regime di Bashar al-Assad, sostenuto da Iran, Russia e Hezbollah, appare sempre più debole nel nord, e il consolidamento di forze jihadiste sunnite vicino al confine israeliano rappresenta un rischio crescente per lo stato ebraico. Il premier Benjamin Netanyahu ha convocato una riunione straordinaria per discutere l’impatto di questi eventi: le autorità di sicurezza temono che armi pericolose – come quelle chimiche già usate da Assad in passato – cadano nelle mani dei ribelli. Anche l’aiuto di Teheran ad Assad è sotto osservazione. «Stiamo seguendo da vicino ciò che sta accadendo in Siria, abbiamo visto che il regime iraniano sta inviando rinforzi. Lavoreremo per impedire il contrabbando di armi verso il Libano e Hezbollah attraverso il territorio siriano», ha dichiarato il portavoce dell’esercito Daniel Hagari in un’intervista a Sky News.
L’attacco su Aleppo è stato guidato da Hayat Tahrir al-Sham (HTS), evoluzione di Jabhat al-Nusra, precedentemente affiliato ad al-Qaeda in Siria. A differenza dell’inizio della guerra civile nel 2011, quando il movimento ribelle era rappresentato dall’Esercito siriano libero, con posizioni anche laiche, oggi il conflitto vede protagoniste fazioni jihadiste. «Non è lo Stato Islamico, ma non è nemmeno così diverso,» spiega all’emittente N12 Carmit Valensi, ricercatrice senior dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale (INSS). «I prossimi giorni saranno cruciali per comprendere la portata di questo evento» aggiunge Valensi. «Se i ribelli jihadisti riusciranno a conquistare il potere in Siria, la loro ostilità verso Israele non sarà inferiore a quella di Assad e soprattutto degli iraniani che lo sostengono. Ma se nella rivolta la corrente più moderata riuscirà a integrarsi, prendere il controllo e tradurre i successi militari di Hayat Tahrir al-Sham in un cambiamento politico significativo, allora per noi potrebbe essere una notizia positiva».
L’emittente Kan ha raggiunto alcune delle voci più moderate di chi ad Aleppo e Idlib guida l’avanzata anti-Assad. «Ci accusano di collaborare con voi [Israele] perché siamo stati molto contenti quando avete attaccato Hezbollah e siamo felici che abbiate avuto successo», ha affermato un residente di Idlib alla radio israeliana. Secondo lui, molti siriani non considerano Israele un nemico «perché non è ostile verso chi non lo è nei suoi confronti. Non vi odiamo. Anzi». Kan ha raccolto un’altra testimonianza simile. «Il popolo siriano non era così felice da molto tempo. È la prima volta che proviamo un senso di gioia e vittoria, e con l’aiuto di Allah ci libereremo di Bashar al-Assad e dell’Iran», ha affermato un residente dell’area di Aleppo. «Forse non vi piacciamo e non ci volete liberi, ma noi vogliamo liberare il nostro paese. Non abbiamo problemi con nessuno stato vicino, con nessuno. Abbiamo solo un problema con l’Iran e il regime, questi criminali assassini».
Per Israel Shammai, analista del sito Makkor Rishon, la posizione d’Israele sul conflitto in corso in Siria ricorda quella di Menachem Begin sulla guerra tra Iran e Iraq del 1988. Quando gli fu chiesto per chi parteggiasse, Begin rispose: «Auguro successo a entrambe le parti».
Per Shammai in questa fase il conflitto interno in Siria sta giocando a favore di Gerusalemme. Tsahal continuerà a colpire i convogli di munizioni ed equipaggiamenti che l’Iran trasferisce a Hezbollah attraverso il corridoio siriano. «Le guerre interne renderanno molto difficile per Assad aprire un fronte contro Israele», scrive Shammai. Tuttavia, nel lungo termine, le organizzazioni islamiste più radicali, sottolinea l’analista, «possono rappresentare un pericolo maggiore del presidente siriano, nonostante i suoi ben noti difetti. Quindi, dopo aver augurato successo a entrambe le parti, speriamo che non siano proprio questi ribelli a uscirne vincitori». d.r.
(moked, 2 dicembre 2024)
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Israele, il primo impianto che produce energia dal movimento delle onde a Jaffa
di Jacqueline Sermoneta
Sarà inaugurato giovedì nel porto di Jaffa, in Israele, il primo impianto che sfrutta il movimento delle onde per produrre energia elettrica pulita. Il progetto, che coniuga innovazione e sostenibilità, è promosso congiuntamente dal comune di Tel Aviv-Yafo, dalla società municipale “Atarim”, dalla startup israeliana Eco Wave Power e da EDF Renewables Israel.
‘Una tecnologia pioneristica’, l’ha definita il Ministero dell’Energia e delle Infrastrutture israeliano, quella sviluppata da Eco Wave Power, che sfrutta dispositivi galleggianti istallati su moli, frangiflutti e pontili. “Questi galleggianti si alzano e si abbassano in base al movimento ascendente e discendente delle onde, alimentando un motore idraulico e un generatore, situati sulla terraferma. Inoltre, un sistema di automazione intelligente controlla e monitora l’intero processo, sollevando i galleggianti dall’acqua durante le tempeste per evitare danni”.
Attualmente l’azienda sta costruendo stazioni energetiche anche in altri Paesi: una nel porto di Los Angeles, in California, e un primo impianto elettrico su scala commerciale è in fase di progettazione finale in Portogallo.
La fondatrice e CEO di EcoWave Power, Inna Braverman, ha partecipato al programma “Donne per il clima”, una delle iniziative ambientali e di sostenibilità del comune di Tel Aviv-Yaffo, che permette alle “donne selezionate di ricevere una guida professionale e gli strumenti per portare avanti progetti innovativi che fanno progredire la sostenibilità urbana e affrontano il cambiamento climatico”.
Eco Wave Power ha ricevuto finanziamenti dal Fondo di sviluppo regionale dell’Unione europea, da Innovate UK e dal programma quadro Horizon 2020 della Commissione europea ed è stata insignita del Global Climate Action Award dalle Nazioni Unite.
(Shalom, 3 dicembre 2024)
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Antisemitismo neonazista a Vienna
Aggredito ultraortodosso mentre andava in sinagoga
di Roberto Zadik
Come ogni Shabbat stava recandosi alla preghiera pomeridiana, quando a Vienna il 30 novembre, un gruppo di neonazisti l’ha aggredito “rubandogli” il suo Shtreimel copricapo in pelliccia tipicamente Est Europeo e la kippà con cui era coperto il capo
Secondo i siti Ynetnews nell’articolo firmato da Itamar Eichner, il religioso si era imbattuto casualmente nella manifestazione a sostegno del partito di estrema destra, FPO, che lo scorso 29 settembre ha trionfato alle elezioni entrando nel governo austriaco ottenendo il ventinove percento dei voti, quando è stato attaccato da ignoti.
Ma chi può essere stato a compiere questo gesto così brutale e cosa è successo? Il presidio si preannunciava da giorni estremamente pericoloso tanto che l’FPO aveva fatto affiggere per le vie della capitale viennese dei cartelli che dicevano di “stare moto attenti perché nel centro di Vienna inizierà verso mezzogiorno un presidio neonazista a Heidenplatz”.
Attualmente la polizia viennese sta indagando sui possibili responsabili dell’aggressione al malcapitato ortodosso sessantaseienne e a questo proposito il Jerusalem Post fornisce alcuni interessanti dettagli sull’accaduto. Stando all’articolo, l’uomo è stato assalito nello storico quartiere ebraico viennese di Leopolstadt “famoso per il suo valore storico e culturale” come ha evidenziato il testo, mentre recandosi per la preghiera di Minchà, verso le 15.45 ha incrociato la manifestazione nel centro della città.
Secondo le prime ricostruzioni gli aggressori, membri del gruppo neonazista Vienna Dance Brigade gli hanno rubato lo Shtreimel per poi indossarlo come scherno sfilando per le strade. Successivamente però un testimone è riuscito a ritrovare il copricapo in un negozio di vestiti usati riportandolo al proprietario. A quanto pare i presunti colpevoli sarebbero due adolescenti, uno dei quali, un diciassettenne austriaco identificato come ideatore del gesto e accusato di “disturbo della quiete pubblica”. La polizia ha confermato che anche le unità antiterrorismo stanno indagando sul caso, come ha assicurato il portavoce delle forze dell’ordine viennesi Markus Dittrich “siamo decisi a andare fino in fondo su questo incidente con ulteriori investigazioni”.
(Bet Magazine Mosaico, 3 dicembre 2024)
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Joe Biden grazia il figlio. Ai buoni tutto è concesso
di Daniele Capezzone.
«La salita dell’inflazione? E' transitoria». «Il confine con il Messico? E' sicuro». «Grazierò mio figlio? No». Sono tre - scelte a caso tra le decine possibili - delle bugie raccontate negli ultimi anni da Joe Biden.
Balle spettacolari, paragonabili solo a quelle - ancora più vertiginose - dette su di lui da amici, collaboratori, sostenitori e media embedded: «Biden è lucidissimo», «Biden non sarà sostituito», e via mentendo e inseguendo le menzogne con nuove bugie ancora più luccicanti e fantasiose.
Provate a immaginare se il portavoce di Trump e Trump stesso, alla presidenza, avessero reiteratamente negato l’intenzione di graziare il figlio, e se poi invece la grazia fosse arrivata dopo una campagna elettorale, quindi alle spalle dei votanti.
Da ieri sui social circola una formidabile compilation di filmati, di clippini (tutti veri, ahinoi) in cui Biden sembrava escludere categoricamente questa eventualità («Non ci sono re in America, nessuno è al di sopra della legge»). E più volte il presidente uscente aveva inflitto agli americani discorsetti retorici sul suo assoluto rispetto della giustizia che gli avrebbe impedito di usare i poteri presidenziali per favorire il figlio.
« La sua portavoce, Karine Jean-Pierre, era apparsa addirittura sprezzante e infastidita verso i giornalisti che osavano ripetere la domanda («Ho già risposto», «Ho detto no», «$ ancora un no»).
• SOTTO ATTACCO
Ma si sa, gli autoproclamati “buoni” possono fare tutto. Vale anche per media e social. Oggi X di proprietà di Elon Musk è selvaggiamente sotto attacco (un paio di giorni fa è arrivata anche la reprimenda di padre Paolo Benanti, ascoltato pure a destra come un guru), nonostante che Musk abbia da tempo reso più trasparente l’algoritmo, con ciò aprendo una inedita pagina di chiarezza.
Quando invece, con la proprietà pre-Musk, negli ultimi giorni della campagna per le presidenziali 2020, il vecchio Twitter fece sparire la storia del laptop di Hunter Biden, arrivando perfino a bannare il profilo del giornale che l’aveva tirata fuori, il New York Post. Di fatto divenne impossibile condividere il link all’inchiesta, e furono pure limitati e bloccati sia il profilo dell’allora portavoce della Casa Bianca sia quello della campagna Trump.
Tutto questo accadde a un paio di settimane dal voto del 2020, e ovviamente va ricordato che il famigerato laptop del figlio di Biden custodiva informazioni scottanti sui suoi rapporti economici con società di paesi stranieri (Cina inclusa). Ecco, provate a immaginare se la metà di queste cose le avessero fatte Trump e Musk.
Curioso, eh? I detrattori di Donald Trump gli hanno spesso rimproverato (talora, ammettiamolo, a ragione), una propensione alla post-verità, a una post-truth manipolata e ricostruita a posteriori in base a esigenze di riadattamento propagandistico delle cose.
Peccato però che loro (i “buoni e giusti”) siano i campioni incontrastati della pre-truth, cioè di una verità preconfezionata a tavolino, in cui i torti e le ragioni non dipendono da ciò che si fa ma da ciò che si è. E se – per tua fortuna – sei nel perimetro del pensiero accettato, delle opinioni ammesse dal sinedrio progressista, allora puoi fare qualunque cosa. Se invece sei nel girone infernale dei reietti, fai orrore a prescindere.
Questi signori - i “buoni” hanno calcolato tutto. Gli è però sfuggito un “dettaglio”, chiamiamolo così, e cioè i cuori e le menti delle persone comuni.
E' la common people che ha scoperto il gioco, che ha smascherato l’inganno, e che ora non crede più ai trucchi e ai mediocri illusionismi di chi l’aveva fatta franca per troppo tempo.
Libero, 3 dicembre 2024)
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«Si sa, gli autoproclamati “buoni” possono fare tutto.» Questo è l’Occidente. Questo è il mondo dei buoni. Questo è l’impero americano. L’impero della menzogna, così l’ha definito una volta Putin, che si sa è un cattivo, quindi non può arrivare a capire il livello di bontà in cui si muovono i buoni. Sia chiaro, tutti i politici mentono, anche Putin, e Putin lo sa. Una volta però ha umilmente ammesso che nessuno può superare l’America in quella suprema arte della menzogna che è la propaganda. A che serve infatti la verità in politica? Al massimo può essere usata come una clava in testa all’avversario caduto davvero in un grave, innegabile peccato. Però, anche in questo caso, se a cadere è un “buono”, nell’impero dei buoni interverrà sempre un altro ancora più buono a rialzarlo, nel nome di un superiore livello di bontà presentata come misericordiosa virtù morale, corrispondente a un più elevato livello di menzogna. Viva l’America! M.C.
Libero, 3 dicembre 2024)
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Turismo e solidarietà: Israele non si ferma
Un piano da milioni di shekel per rinnovare le strutture ricettive e sostenere la comunità in tempi di crisi.
In un momento di profonda sfida, l’industria turistica israeliana si distingue per la sua straordinaria capacità di adattamento e resilienza. Negli ultimi mesi, oltre 90.000 sfollati sono stati accolti in strutture ricettive di ogni tipo, dagli hotel alle pensioni, fino alle case vacanza. Questo impegno collettivo sottolinea il ruolo cruciale del turismo non solo come forza trainante dell’economia, ma anche come elemento di coesione sociale, dimostrando una profonda sensibilità verso le esigenze della comunità. Per garantire una ripresa solida e sostenibile, il Ministero del Turismo, guidato da Haim Katz, ha presentato un piano di ristrutturazione completo, che si configura come una svolta strategica per il settore. Il programma prevede lo stanziamento di 175 milioni di shekel (ILS) destinati alla riabilitazione delle strutture ricettive. Gli operatori turistici, infatti, riceveranno supporto economico per migliorare le loro infrastrutture e renderle pronte a soddisfare le aspettative di un turismo moderno e internazionale. Parallelamente, ulteriori 10 milioni di shekel sono stati stanziati per promuovere il turismo domestico, incoraggiando i cittadini israeliani a riscoprire le meraviglie del proprio paese e sostenendo così l’intero ecosistema del settore. Il Ministro Haim Katz ha ribadito l’impegno del governo in questa direzione, sottolineando come gli hotel abbiano svolto un ruolo fondamentale nel fornire rifugio a migliaia di persone, trasformandosi temporaneamente in veri e propri centri di accoglienza. Ora, il compito è quello di restituire a queste strutture la loro vocazione originaria, preparandole a riaccogliere turisti da ogni parte del mondo. Questo approccio integrato, che combina il ripristino delle infrastrutture con la promozione del turismo interno, mira non solo a rilanciare il settore, ma anche a creare un impulso economico diffuso in grado di beneficiare tutta la nazione. Il piano del Ministero del Turismo riflette un impegno costante per l’innovazione e il rinnovamento, elementi indispensabili per mantenere il paese competitivo nel panorama globale del turismo. L’obiettivo è chiaro: garantire un’esperienza di ospitalità di altissimo livello, che sappia attrarre visitatori sia nazionali che internazionali, mostrando al mondo un Israele capace di trasformare le sfide in opportunità.
(AdvTraining, 2 dicembre 2024)
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Israele spera nel nuovo capo della politica estera dell'UE
Con Kaja Kallas, l'Unione Europea ha un nuovo rappresentante per gli affari esteri. Israele ritiene che le relazioni con l'associazione di Stati possano migliorare in qualche modo. Ma i dubbi sono giustificati.
di Sandro Serafin
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La premier estone Kaja Kallas
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Quando è stato annunciato che il capo del governo estone avrebbe sostituito lo spagnolo Josep Borrell come capo della politica estera dell'UE, i media israeliani si sono sentiti sollevati: “È una buona notizia per Israele”, ha detto ad esempio il quotidiano “Israel Hayom”. La gioia si spiega probabilmente più con il sollievo per la partenza di un feroce critico di Israele che con una reale conoscenza delle posizioni di Kallas sullo Stato ebraico. Perché finora non se ne sa molto.
Kallas, che è nata a Tallinn nel 1977 e ha studiato legge, ha già una notevole carriera politica. La figlia dell'ex primo ministro estone e commissario europeo Siim Kallas è diventata leader di un partito liberale co-fondato dal padre nel 2018. Meno di tre anni dopo, si è ritrovata nel ruolo di Primo Ministro dell'Estonia.
• IL GOVERNO KALLAS HA VOTATO A FAVORE DELLA “PALESTINA” In questo ruolo, Kallas ha dovuto anche rispondere all'attacco dei terroristi palestinesi al sud di Israele il 7 ottobre 2023. Si è comportata come molti suoi omologhi: poco dopo l'attacco, ha dichiarato che il suo Paese era “fermamente dalla parte di Israele”. Tuttavia, ha presto accompagnato la sua solidarietà con parole di avvertimento per Gerusalemme: “Israele ha il pieno diritto di difendersi. Ma deve farlo in modo da proteggere vite innocenti e rispettare le norme del diritto internazionale”.
Il suo governo ha agito chiaramente contro gli interessi di Israele nel maggio 2024: alle Nazioni Unite, l'Estonia ha votato a favore di una risoluzione che estendeva i diritti dello “Stato di Palestina” all'interno dell'ONU e raccomandava al Consiglio di Sicurezza di ammettere la “Palestina” come membro a pieno titolo. Israele ha descritto la risoluzione come una “decisione assurda” che ha rivelato ancora una volta la “strutturale unilateralità” delle Nazioni Unite nei confronti di Israele. Altri membri dell'UE, tra cui la Germania, si sono astenuti.huti• “PRONTI A SACRIFICARE GLI INTERESSI DI SICUREZZA DI ISRAELE” Il governo estone ha giustificato il suo comportamento di voto con la “situazione geopolitica intorno a noi”, che è cambiata: “È importante che il sostegno globale all'Ucraina aumenti e che non siamo accusati di usare due pesi e due misure”. L'Estonia alludeva al fatto che molti Paesi del Sud globale accusano i Paesi che sostengono sia Israele che l'Ucraina di applicare due pesi e due misure: vedono Israele nello stesso ruolo della Russia di Putin.
Kallas è ora un feroce critico della Russia. La formazione di un fronte anti-russo è per lei una priorità assoluta. “Per attirare l'attenzione del mondo sulla Russia, l'Estonia è pronta a sacrificare gli interessi di sicurezza di Israele”, ha criticato il giornalista conservatore israeliano Eldad Beck in un articolo per il portale ‘Mida’. Strano il comportamento di voto: Già nel novembre 2022, il ministro degli Esteri Kallas aveva dichiarato che in futuro avrebbe votato meno a favore delle risoluzioni critiche nei confronti di Israele all'ONU e si sarebbe allineato maggiormente ai voti degli Stati Uniti.
• KALLAS PROMETTE UNA “STRATEGIA GLOBALE PER IL MEDIO ORIENTE” Ciò che Kallas ha formulato finora sul tema del Medio Oriente in vista dell'assunzione della carica di Commissario agli Affari Esteri non è andato oltre i luoghi comuni: in un questionario di ottobre, ha dichiarato il suo sostegno alla “soluzione dei due Stati”. Inoltre, ha promesso di concentrare “tutti i miei sforzi” sulla promozione di una “strategia globale dell'UE per il Medio Oriente”.
In definitiva, anche quando entrerà in carica, è improbabile che il capo della politica estera dell'UE cambi radicalmente la sua posizione su Israele. Non dovrebbe essere difficile per lei apparire meno ossessiva nei confronti di Israele rispetto al suo predecessore. Ma anche se Kallas dovesse avere una posizione più filoisraeliana di Borrell, le cariche politiche spesso plasmano le opinioni individuali del politico che le ricopre. Non solo Borrell, ma anche i suoi predecessori erano fortemente critici nei confronti di Israele.
(Israel Heute, 2 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"Diventa un miliziano di Hamas". Un videogioco omaggia la strage del 7 ottobre
Bandito in Germania e Regno Unito, lo sparatutto "Fursan al-Aqsa: The Knights of the Al-Aqsa Mosque" è ancora disponibile in diversi Paesi
di Massimo Balsamo
Si rimpolpa l’elenco dei Paesi che hanno deciso di bandire “Fursan al-Aqsa: The Knights of the Al-Aqsa Mosque”, videogioco dal retrogusto antisemita. Già vietato in Australia e in Germania, il videogame è stato rimosso dalla piattaforma Steam anche in Gran Bretagna su richiesta dell’unità speciale antiterrorismo che si occupa di monitorare i contenuti estremisti su internet (la Counter Terrorism Internet Referral Unit, ndr). Rilasciato nel 2022, il videogioco consente ai giocatori di vestire i panni di un membro di Hamas che può sparare tra le strade di Gerusalemme al grido di “Allahu Akbar”. Ma non solo. Grazie all’aggiornamento dell’esperto brasiliano Nidal Nijm “Operation al-Aqsa Flood”, il videogame consente ai giocatori di rivivere la strage di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023. Nei panni di un miliziano con la fascia verde sul braccio, il giocatore approda nei pressi di una base israeliana in paracadute: l’obiettivo è sparare a distanza ravvicinata ai soldati israeliani disarmati. Sembrerebbe quasi una clip di propaganda dell’organizzazione terrorista, in realtà è semplicemente il trailer del videogioco. Le immagini che circolano in rete mostrano i soldati di Hamas mentre uccidono i militari israeliani in modo cruento. Gli sviluppatori hanno respinto le accuse di antisemitismo e di estremismo, sottolineando che sulle piattaforme di videogame sono presenti contenuti molto simili.“È triste sentirlo perché, come tutti sappiamo, il mio gioco non è troppo diverso da qualsiasi altro gioco sparatutto su Steam, come Call of Duty, per esempio”normal la versione del già citato Nijm riportata da Wired. Nonostante ciò, "Fursan al-Aqsa: The Knights of the Al-Aqsa Mosque" resta disponibile senza restrizioni nella maggior parte dei Paesi del mondo, inclusa la Francia. Secondo il sito web SteamDB, le vendite sono stimate tra 7.000 e 36.000 copie. Il numero dei giocatori rimane molto basso: il picco è stato raggiunto il 19 febbraio con solo 16 giocatori contemporaneamente.
(il Giornale, 2 dicembre 2024)
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Israele in allerta per arrivo Guardie Rivoluzionarie in Siria
In Israele temono che l'Iran approfitti della crisi in Siria per far entrare un elevato numero di Guardie Rivoluzionarie in Siria e minacciare così lo Stato Ebraico
di Haamid B. al-Mu’tasim
Gerusalemme, Israele (Rights Reporter) Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto ieri sera una consultazione di sicurezza ad alto livello sugli sviluppi in Siria, in seguito all’attacco a sorpresa dei ribelli nella zona di Aleppo e Idlib. Alti funzionari della sicurezza a Gerusalemme affermano che Israele teme che il presidente siriano Bashar Assad permetta all’Iran di introdurre forze delle Guardie Rivoluzionarie nel territorio siriano per aiutare l’esercito di Damasco a difendere il suo regime, e che tale mossa avvicinerà le Guardie Rivoluzionarie al confine con Israele. Secondo le stesse fonti, Hezbollah avrebbe già inviato forze dal Libano nel nord della Siria per proteggere i beni dell’organizzazione e dell’Iran dai gruppi terroristici jihadisti. Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è arrivato ieri a Damasco e ha incontrato il presidente Assad per coordinare le mosse tra Iran e Siria, con l’obiettivo di proteggere il regime siriano. Secondo la stampa araba, l’Iran sta già pensando di inviare forze militari in Siria. Ieri sera ha messo in guardia gli Stati Uniti dall’approfittare della situazione in Siria e ha lanciato segnali sulla possibilità di inviare forze “consultive” delle “Guardie rivoluzionarie” nella città di Aleppo in Siria se gli sviluppi sul terreno lo richiedessero. Fonti di stampa hanno riferito che il deputato iraniano Ismail Kavehtri, responsabile per gli affari militari presso la commissione per la sicurezza nazionale del parlamento, ha affermato ieri sera che esiste la possibilità che l’Iran invii forze “consultive” in Siria, ma secondo lui , “questo dipende dagli sviluppi sul terreno e dalle decisioni della leadership israeliana”. Kavehtri ha affermato infatti che gli attacchi dei ribelli ad Aleppo avevano lo scopo di impedire gli aiuti iraniani a Hezbollah durante il cessate il fuoco di 60 giorni, secondo un piano americano-israeliano. Ha sottolineato che il numero dei consiglieri iraniani in Siria non è molto elevato e, se il loro numero fosse elevato, agirebbero immediatamente. Ha stimato che “il fronte della resistenza interverrà con forza in Siria per impedire il ritorno delle fazioni armate, al fine di contrastare il piano americano-israeliano”. Le stesse fonti sostengono anche che il generale Hossein Dakiki, consigliere del comandante delle “Guardie rivoluzionarie”, ha affermato che “il nemico israeliano sta complottando in Siria e in Libano, ma in Siria gli verrà tagliata la mano in modo tale da passare per sempre alla storia.” Secondo quanto riferisce la rete Farda in lingua persiana, migliaia di combattenti delle milizie sciite in Iraq si stanno dirigendo verso la città di Aleppo in Siria per partecipare ai combattimenti. Israele sta monitorando attentamente ciò che sta accadendo in Siria, e fonti politiche dicono che Israele agirà se le forze iraniane o le milizie filo-iraniane tentano di avvicinarsi al confine con Israele, e che “Israele è pronto per qualsiasi scenario”.
(Rights Reporter, 2 dicembre 2024)
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Il 90° anniversario della Marina di Israele a Santa Marinella
di Nicole Nahum
C’è una storia poco conosciuta che lega un angolo di Italia, Santa Marinella, in provincia di Roma, alla nascita della Marina di Israele. Una storia che iniziò nel 1934, quando un gruppo di giovani ebrei, in fuga dalle persecuzioni naziste, arrivò in questo piccolo borgo del litorale laziale, per frequentare la Scuola Marittima di Civitavecchia. Lì, in quel luogo simbolico di speranza, questi ragazzi intrapresero un percorso che li avrebbe condotti a diventare i pionieri della futura Forza Navale israeliana. In occasione del 90° anniversario di questa nascita, il sindaco di Santa Marinella, Pietro Tidei, ha voluto rendere omaggio a tale evento, organizzando una celebrazione speciale, durante la quale il professor Livio Spinelli, da sempre legato a questa terra, ha tracciato il percorso di memoria che ha portato alla fondazione della Marina israeliana.
Santa Marinella, già conosciuta per le sue proprietà terapeutiche, aveva attirato in passato l’attenzione della famiglia reale, che l’aveva scelta come luogo di cura per la figlia del re, affetta da una grave malattia polmonare. Fu proprio il dottor Guido Aronne Mendes a fare di Santa Marinella un punto di riferimento per il trattamento delle malattie polmonari.
Nel contesto in cui in Europa si profilavano le tragiche ombre del nazismo e delle persecuzioni contro gli ebrei, nel 1934, su richiesta di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, capo del movimento sionista Bethar, il dottor Mendes si impegnò ad aiutare un gruppo di giovani ebrei provenienti da vari paesi europei, offrendo loro un’opportunità di istruzione e formazione. “Il generale e dottore Mendes, insieme all’aiuto dell’Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, ministro della Marina Italiana, si misero d’accordo per accogliere un primo gruppo di questi giovani”, racconta il professor Spinelli in un’intervista rilasciata a Shalom. Nasce così la Sezione Ebraica della Scuola Marittima di Civitavecchia, dove, il 28 novembre dello stesso anno, 28 cadetti provenienti da Polonia, Cecoslovacchia, Lituania, Lettonia, Austria e Italia intrapresero il loro percorso di formazione navale, segnando l’inizio della futura Marina israeliana.
Il simbolo di quel primo corso di formazione fu il veliero “Sara I”, un’imbarcazione a quattro alberi che, al termine del corso, venne regalata agli allievi. La cerimonia di consegna, che si svolse nel porto di Civitavecchia, rimase nel cuore di chi vi partecipò, come testimoniato nelle parole del professor Spinelli durante una video intervista con la signora Bonfiglioli, l’ultima testimone vivente di quell’evento.
Nel corso dei successivi anni, tra il 1934 e il 1938, la Sezione Ebraica formò oltre 300 cadetti, che avrebbero dato vita alla Marina Militare, Mercantile e Peschereccia di Israele. Questi giovani, spiega Spinelli, mostravano grande devozione, come testimonia un episodio emblematico: “Una volta misero accanto alla bandiera italiana quella con la stella di David. Il generale Fusco, impressionato e allo stesso tempo impaurito, disse loro di lasciarla, sperando che nessuno sollevasse obiezioni. Fu forse una delle prime volte nella storia che la bandiera italiana venne posta accanto a quella con la stella di David”. Durante questi anni, i giovani cadetti navigarono per tutto il Mediterraneo, toccando porti in Francia, Tunisia e Palestina. Utilizzando motopescherecci come Necha e Leah, i ragazzi praticavano la pesca al largo di Santa Marinella, vendendo il pescato al negoziante locale, il signor Varchetta.
Tuttavia, il clima politico dell’epoca stava volgendo al peggio per le sorti degli ebrei. Nel maggio del 1938, una visita congiunta di Mussolini, Hitler e del Re d’Italia Vittorio Emanuele III a Santa Marinella segnalò l’inizio della fine per la Sezione Ebraica della Scuola Marittima. Il regime fascista, influenzato dalle leggi razziali e dalla crescente pressione del nazismo, ordinò la chiusura della scuola, ponendo fine a un’esperienza che aveva dato speranza a molti giovani ebrei.
Un’altra testimonianza significativa legata a questo periodo e a questo luogo – spiega il prof. Spinelli – è quella di Franco Modigliani, economista e premio Nobel. Modigliani ricordò con affetto il gioco della “Repubblica di Caccia Riserva”, inventato durante le estati trascorse a Santa Marinella. Il gioco venne, purtroppo, interrotto dalla milizia fascista, che non tollerava l’uso del nome “Repubblica”.
Il 90° anniversario della nascita della Marina di Israele, celebrato a Santa Marinella, è un’occasione che va oltre la semplice commemorazione storica. È un momento per guardare indietro e riflettere su come un piccolo angolo d’Italia sia stato testimone di speranza e coraggio in un periodo buio della storia. In quel luogo, giovani ebrei, costretti a fuggire dalle persecuzioni naziste, hanno trovato un’opportunità per costruire un futuro che sembrava lontano e impossibile e che, nonostante tutto, continua a riguardarci. Guardando oggi a quelle storie, non possiamo fare a meno di sentirne l’umanità: il desiderio di riscatto, la forza di volontà, ma anche la bellezza di sogni condivisi che hanno trovato il loro porto sicuro proprio a Santa Marinella.
(Shalom, 2 dicembre 2024)
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Il sesto comandamento: Dio protegge la vita
di Marcello Cicchese
«Non uccidere (Esodo 20: 13).
Questo è forse l'unico comandamento di Dio contro il quale non sono sollevate obiezioni, neppure da parte di chi non crede né in Dio né nella validità della sua legge. In una forma o nell'altra, tutte le legislazioni civili contengono questo divieto. I motivi sono fin troppo evidenti: in una società in cui l'omicidio non costituisse un reato, ben presto ogni forma di umana convivenza diventerebbe impossibile.
Ma i motivi per cui Dio vieta di uccidere sono diversi dai nostri. Noi siamo interessati soprattutto a noi stessi, alla nostra tranquillità; vorremmo poter continuare a vivere facendo gli affari nostri senza correre mai il pericolo di incontrare qualcuno che ci tolga la vita: per questo accettiamo volentieri il divieto dell'omicidio. Se fosse possibile, anzi, estenderemmo questo divieto anche a Colui che ha il potere di pronunciare l'ultima e definitiva sentenza di morte. E così ci sentiamo più buoni di Dio: se noi rifiutiamo l'omicidio e condanniamo chi lo compie, perché allora Dio, che dovrebbe essere migliore di tutti noi, non si oppone alla morte delle sue creature?
Ma è proprio qui che viene fuori la differenza tra Dio e noi. La vita e la morte di ogni uomo sono nelle mani di Dio: la vita esprime il suo amore e la morte esprime il suo giudizio; a Lui, come creatore, compete il diritto di far morire e far vivere.
«L'Eterno fa morire e fa vivere; fa scendere nel soggiorno dei morti e ne fa risalire» (I Samuele 2:6).
Nel giardino d'Eden Dio aveva solennemente avvertito Adamo:
«... del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai» (Genesi 2:7).
Adamo disubbidì e la parola di Dio andò ad effetto: l'uomo, tratto dalla terra, tornò alla terra:
«... mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da dove fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai» (Genesi 3:19).
Dio, dunque, uccide. L'Iddio creatore è anche l'Iddio giudice della sua creatura caduta nel peccato. E proprio per il fatto che la morte dell'uomo esprime il giudizio insindacabile '' di Dio sull'uomo disubbidiente, tu, uomo, non hai alcun diritto di uccidere il tuo fratello. L'uccisione di un uomo costituisce un giudizio definitivo dato su quell'uomo, e tu, uomo, non hai alcun diritto di ergerti a giudice del tuo fratello. Il giudizio deve essere lasciato a Colui che può uccidere te e il tuo fratello, perché entrambi peccatori davanti a Lui.
Ogni uomo che vive si trova, per il solo fatto che vive, sotto la misericordia di Dio. Certamente è un peccatore; forse è un mio nemico; forse mi ha offeso e colpito in modo grave; forse sono tentato di castigarlo con la morte. Ma molto più che offendere me, egli ha offeso il suo Creatore; e tuttavia Egli manifesta pazienza verso di lui, lasciandolo ancora in vita. Mi ribellerò io alla bontà di Dio e usurperò il diritto di giudizio che gli compete, colpendo a morte il mio fratello contro il volere di Dio che lo lascia in vita per la sua misericordia?
Chi uccide un uomo fa risaltare la natura profonda del peccato, che consiste nel voler essere «come Dio» (Genesi 3:5). L'omicidio è dunque una sfida a Dio, un tentativo di scalzarlo dalla sua posizione di giudice.
Consideriamo infatti il primo omicidio avvenuto sulla faccia della terra: quello di Caino. E chiediamoci: quale fu il movente? Certamente non fu un contrasto tra i due fratelli: Abele e Caino non avevano litigato fra loro per questioni di pecore o di terreni. Il motivo dell'uccisione fu il giudizio di Dio su di loro. Caino non accettò né il giudizio su di sé, né quello su Abele, ma anzi «ne fu molto irritato, e il suo viso ne fu abbattuto» (Genesi 4:6). L'Eterno non aveva gradito l'offerta di Caino e aveva invece espresso un giudizio favorevole su Abele e la sua offerta. A questo giudizio di Dio Caino sovrappose il suo, e giudicò il fratello degno di morte.
In Caino posso ritrovare gli elementi fondamentali che mi spingono all'omicidio: il rifiuto del giudizio di Dio su di me e il rifiuto della sua misericordia verso l'altro.
Però, a voler essere sinceri, dobbiamo ammettere che Caino non manca di suscitare in noi una certa comprensione. In generale, bisogna dire che gli eletti di Dio ci appaiono spesso meno simpatici degli esclusi. Che cosa avevano di particolare figure come Abele, Giacobbe, Giuseppe rispetto alle altre persone che non furono scelte da Dio? Ma è proprio qui, in questo movimento di simpatia verso gli esclusi, che si manifesta la nostra tendenza a ribellarci ai giudizi di Dio. Noi vogliamo che Dio ci renda conto di quello che fa; vogliamo poter misurare il grado di giustizia delle sue azioni prima di decidere se è il caso di accettarle. E la nostra ribellione ai suoi giudizi trova sfogo nell'aggressività verso i nostri simili, proprio come nel caso di quegli impiegati che, non potendo esprimere il risentimento verso il capoufficio, si sfogano a casa con i familiari.
Ma se non sempre riusciamo a capire le ragioni dell'agire di Dio, ciò non significa che tali ragioni non ci siano. Dio non ci abbandona, anche quando ci giudica, e noi dobbiamo ascoltare le sue parole con cui ci invita a « non irritarci» e a «non abbatterci», a «rialzare il nostro volto facendo il bene» e a «dominare il peccato che sta spiandoci alla porta» (Genesi 4:7).
Dopo quanto detto, dovrebbe essere chiaro che il sesto comandamento non è un principio astratto e universale, per cui ogni forma di vita dovrebbe esser sempre e in ogni caso difesa. Il comandamento sottolinea piuttosto che tutte le questioni riguardanti la vita e la morte dell'uomo sono di competenza diretta di Dio. Dopo il peccato, Dio ha messo nelle mani degli uomini la vita di tutti gli animali della terra, del cielo e del mare (Genesi 9:1-4), ma ha solennemente avvertito che « chiederà conto della vita dell'uomo alla mano dell'uomo» (Genesi 9:5). E ha aggiunto:
«Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell'uomo sarà sparso dall'uomo, perché Dio ha fatto l'uomo a immagine sua» (Genesi 9:6).
Non c'è quindi da sorprendersi né da scandalizzarsi se la stessa legge che contiene il divieto di uccidere ordina poco dopo di mettere a morte l'omicida (Esodo 21:12). Chi uccide un uomo si scaglia contro l'immagine di Dio, e Dio ha il potere di eseguire quella sentenza di morte che è già stata pronunciata su ogni uomo peccatore. L'Iddio che dà la vita all'uomo e ne fa una sua immagine in mezzo al creato non può restare indifferente davanti al sangue sparso dall'uomo. L'uomo è stato tratto dalla terra e alla terra ritornerà a motivo del giudizio di Dio. Ma se la vita dell'uomo torna alla terra nella forma del sangue sparso da un altro uomo, allora la terra resta contaminata, e « la voce del sangue grida a Dio dalla terra» (Genesi 4:10). Secondo la legge di Mosè, nessun pagamento di riscatto poteva sostituire la morte di colui che aveva ucciso un uomo: la terra profanata dal sangue dell'ucciso poteva essere purificata soltanto dal sangue dell'uccisore:
« Non contaminerete il paese dove sarete, perché il sangue contamina il paese; e non si potrà fare per il paese alcuna espiazione del sangue che vi sarà stato sparso, se non mediante il sangue di colui che l'avrà sparso» (Numeri 35:33).
Il divieto di uccidere dunque non si estende a Dio, che attraverso gli uomini può punire con la morte il peccato di altri uomini. La «spada» che i magistrati civili portano, in qualità di autorità stabilite da Dio (Romani 13:4), fa capire che questo fatto resta valido anche nel Nuovo Patto. Non è qui il caso di discutere se sia opportuno o no, in una legislazione moderna, avere tra le pene anche la pena capitale; quello che si può dire è che non ci si può appellare al sesto comandamento per escluderla. Una conferma si può trovare anche nel verbo usato nel testo, che nell'originale ha un significato molto più limitato del nostro «uccidere», e sarebbe meglio tradotto con «assassinare».
Cadono invece tra le infrazioni al sesto comandamento l'aborto, l'eutanasia e il suicidio. E sono proprio queste particolari forme di uccisione che ci fanno capire la differenza che c'è tra i nostri motivi contro l'omicidio e quelli di Dio. Perché il suicidio non è un reato per la legge civile? Perché l'aborto e l'eutanasia possono essere, se non del tutto liberalizzati, almeno regolamentati, e quindi ammessi nella società? Il motivo è chiaro: questi fatti non sembrano disturbare la convivenza umana; anzi, si direbbe che in certi casi servano addirittura ad attenuare la gravità di alcuni problemi sociali. Perché dunque condannarli? Non è forse vero che con questi interventi si riesce a porre rimedio a molte sofferenze umane?
Ancora una volta, non è il caso di esaminare qui questi problemi nella loro dimensione sociale. Ma chi crede nel Dio della Bibbia non può lasciarsi guidare soltanto dal desiderio di raggiungere il piacere o di evitare la sofferenza. Quello che veramente conta è la volontà di Dio. E Dio riserva a sé il diritto di giudicare quando una vita è giunta al suo termine. Il comandamento deve porre fine alle nostre speculazioni: dobbiamo smettere di argomentare intorno a ciò che può essere più o meno conveniente per noi. Se ci sembra che il rispetto del comandamento di Dio porti ad accrescere le sofferenze umane sulla terra, dobbiamo ricordare che le sofferenze dell'uomo sono una conseguenza del peccato, e non un deplorevole incidente a cui porre rimedio in tutti i modi possibili. Il vero nemico dell'uomo non è la sofferenza, ma il peccato. Voler sempre e a tutti i costi ridurre le sofferenze conduce l'uomo a irrigidirsi nella sua rivolta contro Dio, e non garantisce affatto che, alla lunga, le sofferenze umane possano essere veramente diminuite. Chi trasgredisce gli ordini di Dio per evitare il dolore cade poi in preda a quelle sottili e indefinibili angosce da cui non ci si può difendere perché non si capisce da dove provengano, mentre in realtà sappiamo che provengono da quel mondo di tenebre che si oppone all' azione di salvezza di Dio. L'uomo che soffre può certamente cercare di lenire le sue sofferenze, ma deve ricordare che in questo ha dei limiti. La vita dell'uomo è uno di questi limiti. Ed è un limite che non si può superare senza trovarsi a fare i conti con Dio, perché «Dio chiederà conto della vita dell'uomo alla mano dell'uomo ... perché Dio ha fatto l'uomo a immagine sua» (Genesi 9:5-6).
Certo, non si può negare che qualche volta l'uomo può venire a trovarsi in circostanze angosciose in cui, pur volendo fare la volontà di Dio, si sente quasi costretto a scegliere tra due delitti. Tuttavia, l'esistenza di tali situazioni-limite non deve invogliare a discussioni teoriche o alla formazione di casistiche da cui possa dedursi che «in certi casi» all'uomo sia lecito uccidere. Non esistono «casi»: esistono solo specifiche, uniche situazioni nelle quali si deve appassionatamente ricercare la volontà di Dio, tenendo comunque sempre conto del fatto che il potere «di far morire e di far vivere» spetta soltanto a Dio. E se, per un qualunque motivo, a qualcuno dovesse capitare di togliere la vita ad un altro uomo, quali che siano le circostanze che hanno portato a quel fatto, chi ha ucciso non potrebbe che sentirsi obbligato a richiedere il perdono di Dio e a invocare la sua misericordia. Ma è bene vegliare e pregare il Signore di non condurci mai in simili situazioni di smarrimento e turbamento della coscienza.
Dal Nuovo Testamento sappiamo poi che Gesù ha radicalizzato anche il sesto comandamento, dicendo che non soltanto colui che uccide sarà giudicato, ma anche chi si adira contro il fratello e gli rivolge parole ingiuriose cadrà sotto il giudizio di Dio (Matteo 5:21-27). Con queste parole Gesù non sposta indebitamente l'attenzione dal fatto concreto dell'omicidio a quello psicologico dei moti dell'animo. Gesù continua a parlare dell'omicidio, anzi va alla radice di esso, sottolineando il fatto che, davanti a Dio, questo reato si compie molto prima di quando gli uomini sono in grado di riconoscerlo. «È dal di dentro, è dal cuore degli uomini - dice Gesù - che escono... gli omicidi» (Marco 7:21). E Giovanni aggiunge, con parole lapidarie:
L'odio ha a che fare con la morte, come l'amore ha a che fare con la vita. L'amore genera vita e l'odio genera morte. Quindi chi odia si trova già sulla china che conduce all'omicidio.
Giacomo è anche capace di indicare uno strumento con cui si può dare la morte: la lingua. Non sempre ci pensiamo, ma il sesto comandamento può essere infranto anche con la lingua, che sembra essere un mezzo capace di procurare la morte per avvelenamento:
« ... ma la lingua, nessun uomo la può domare; è un male continuo, è piena di veleno mortale» (Giacomo 3:8).
I movimenti che conducono all'omicidio possono dunque essere ordinati in questo modo: l'odio, l'ira, la parola che offende, l'azione che uccide. Se vogliamo rispettare il sesto comandamento dobbiamo esercitarci a contrastare questi movimenti seguendo un ordine inverso a quello indicato. Se sono capace di controllare le mie azioni e sono riuscito a «non colpire a morte» un uomo, allora devo imparare a non colpirlo con la lingua, a non demolirlo con giudizi offensivi, a non deturpare la sua immagine diffamandolo presso i suoi simili. Se ho imparato a controllare le mie parole, allora devo imparare a controllare i sentimenti di irritazione e di ira, perché con la mia ira vorrei imitare la giusta ira di Dio contro l'uomo peccatore; ma io non sono Dio, anzi, sono io stesso un peccatore che si trova sotto l'ira del Dio tre volte santo, e solo in Gesù Cristo posso essere perdonato e accolto.
«... che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira; perché l'ira dell'uomo non compie la giustizia di Dio» (Giacomo 1:19-20).
L'unica forma d'ira che devo avere non è contro il mio fratello, ma contro il male che tiene asserviti me e il mio fratello. E questo tipo di ira non si alimenta con l'odio e la violenza, ma con l'umiliazione e la preghiera.
Se poi ho imparato a tenere sotto controllo anche i sentimenti di ira, allora ho liberato l'anima mia da molti spiriti cattivi e la mia casa, come dice Gesù, è diventata «spazzata e adorna» (Luca 11:25). Se allora voglio evitare che altri spiriti cattivi, peggiori dei primi, tornino ad abitare in me e rendano la mia condizione «peggiore di prima» (Luca 11:26), l'unica cosa da fare è riempire l'anima di quell'amore che Gesù ha sparso nei nostri cuori e che tende a traboccare verso gli altri. L'odio che dà la morte viene sconfitto soltanto dall'amore che dà la vita. Non è possibile limitarsi a non uccidere e a non odiare; non ci sono zone intermedie: se non si vuole cadere nelle mani dell'odio bisogna consegnarsi interamente all'amore di Dio e diventare strumenti del suo amore verso tutti gli uomini.
«Da questo abbiamo conosciuto l'amore: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli» (1 Giovanni 3: 16).
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Gaza: Trump vuole un accordo prima del suo insediamento
Il senatore Lindsey Graham è stato particolarmente duro con l'estrema destra israeliana
Il senatore repubblicano statunitense Lindsey Graham, che questa settimana si è recato in Israele e ha incontrato alti funzionari tra cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha dichiarato venerdì che il Presidente eletto Donald Trump vuole vedere un accordo per il cessate il fuoco a Gaza prima di rientrare alla Casa Bianca a gennaio. Ha parlato mentre una delegazione di Hamas dovrebbe arrivare al Cairo sabato per colloqui con funzionari egiziani su un possibile cessate il fuoco. “Trump è più che mai determinato a far rilasciare gli ostaggi e sostiene un cessate il fuoco che, appunto, includa un accordo sugli ostaggi. Vuole che ciò avvenga subito”, ha dichiarato Graham, persona molto vicina al presidente entrante, al sito di notizie Axios. “Voglio che le persone in Israele e nella regione sappiano che Trump è concentrato sulla questione degli ostaggi. Vuole che le uccisioni si fermino e che i combattimenti finiscano”, ha detto. “Spero che il Presidente Trump e l’amministrazione Biden lavorino insieme durante il periodo di transizione per far rilasciare gli ostaggi e ottenere un cessate il fuoco”. Con il nuovo cessate il fuoco in Libano questa settimana, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha spostato l’attenzione su Gaza, lanciando una nuova spinta per porre fine ai 14 mesi di combattimenti con un accordo che preveda la restituzione di 101 ostaggi ancora trattenuti dai terroristi. I commenti di Graham sono in linea con quelli fatti da Trump a Netanyahu pochi giorni prima delle elezioni americane. Trump ha confermato di aver detto a Netanyahu che vuole che Israele vinca la guerra rapidamente, anche se non ha fornito pubblicamente una tempistica. A complicare le cose, la coalizione di Netanyahu comprende elementi di estrema destra che si sono opposti alle proposte di accordo sugli ostaggi condizionate a un cessate il fuoco permanente a Gaza e che hanno espresso il desiderio di rioccupare la Striscia in modo permanente e di ricostruire gli insediamenti ebraici. Graham ha respinto i commenti del ministro delle Finanze israeliano di estrema destra Bezalel Smotrich, secondo cui la vittoria elettorale di Trump offre l’opportunità di incoraggiare quella che ha definito “l’emigrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza, in modo da incoraggiare la metà dei 2,2 milioni di residenti della Striscia ad andarsene entro due anni. “Penso che dovrebbe parlare con Trump e sentire cosa vuole. Se non ha parlato con lui, non gli metterei le parole in bocca”, ha detto Graham, che ha anche espresso la sua opposizione alle richieste dell’estrema destra di occupare Gaza a tempo indeterminato. Il senatore statunitense ha anche incontrato il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman durante la sua recente visita in Medio Oriente e ha toccato il tema della normalizzazione con Israele, che secondo lui dovrebbe includere una “componente palestinese”. “La migliore polizza assicurativa contro Hamas non è una rioccupazione israeliana di Gaza, ma una riforma della società palestinese. Gli unici che possono farlo sono i Paesi arabi”, ha detto Graham. Il New York Times ha riferito giovedì che Hamas sta mostrando una maggiore flessibilità nei colloqui, da tempo bloccati, per un accordo e potrebbe accettare che le Forze di Difesa Israeliane rimangano temporaneamente al confine dell’enclave con l’Egitto. Citando anonimi funzionari statunitensi, il report ha affermato che il gruppo terroristico potrebbe rinunciare alle richieste principali e accettare un accordo di cessate il fuoco che Israele potrebbe sostenere. Secondo il quotidiano, anche prima che venisse raggiunto un cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele questa settimana, funzionari palestinesi e statunitensi avevano detto di ritenere che Hamas fosse pronto a rinunciare alla strategia professata dal leader ucciso Yahya Sinwar e a muoversi verso un accordo. Citando due persone che hanno familiarità con il gruppo terroristico, il rapporto ha affermato che i leader del gruppo terroristico hanno discusso di permettere a Israele di mantenere una presenza temporanea nel Corridoio di Filadelfia, l’area strategica di confine tra Egitto e Gaza da cui la leadership di Israele si è impegnata a non ritirarsi. Gerusalemme ha insistito sul fatto che le truppe rimangano a Gaza per impedire il contrabbando di armi dall’Egitto e afferma di essere disposta solo a un arresto temporaneo della sua campagna per distruggere Hamas. Giovedì Netanyahu ha dichiarato in un’intervista che sarebbe d’accordo con una pausa nei combattimenti a Gaza “quando pensiamo di poter ottenere il rilascio degli ostaggi”, ma non accetterebbe la fine della guerra. Secondo il New York Times, “la realtà ha iniziato ad affondare” per Hamas dopo la morte di Sinwar in ottobre, quando è diventato chiaro che l’Iran non intendeva aprire un conflitto diretto con Israele e che Hezbollah era stato duramente colpito dall’IDF. Hamas sperava che i suoi alleati nell’asse iraniano sarebbero rimasti in lotta e avrebbero costretto Israele ad accettare un cessate il fuoco alle condizioni di Hamas. Secondo il giornale, i leader di Hamas sono divisi sul ruolo che dovrebbe avere dopo la guerra e sui compromessi che dovrebbe accettare per raggiungere un cessate il fuoco. Secondo un articolo del Wall Street Journal di giovedì, i funzionari egiziani sono stati in contatto con lo staff di Trump per valutare se potesse fare progressi nell’ammorbidire le posizioni di Israele nei negoziati, in particolare per quanto riguarda il controllo del confine tra Gaza ed Egitto e la creazione di una zona cuscinetto tra Israele e la Striscia. Anche i funzionari egiziani hanno apparentemente cercato di ammorbidire la posizione di Hamas, ha riferito il giornale, comunicando al gruppo che la sua posizione negoziale si è indebolita dopo essere stata “isolata” dal cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah in Libano. Secondo il rapporto, i funzionari hanno detto al gruppo che difficilmente potrà continuare a insistere su un ritiro completo di Israele. I colloqui indiretti finalizzati a un accordo per la liberazione dei 101 ostaggi detenuti a Gaza e per porre fine a circa 14 mesi di combattimenti si sono arenati dall’estate, dopo che diversi cicli di negoziati mediati da Stati Uniti, Egitto e Qatar non sono riusciti a far convergere le parti. Hamas ha chiesto che qualsiasi accordo ponga fine alla guerra a Gaza e che Israele si ritiri completamente dall’enclave. Chiede inoltre il rilascio di un gran numero di prigionieri palestinesi in cambio degli ostaggi.
(Rights Reporter, 30 novembre 2024)
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La pace a tavola, Palestina e Israele unite in Italia dal potere della cucina
di Alessandro Zoppo
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La fortezza di Castel del Monte
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La pace è possibile tra Palestina e Israele, almeno seduti a un tavolo in cucina. Succede in Italia, a Castel del Monte, dove sei cuochi palestinesi e israeliani si ritrovano per l’evento La pace a tavola, un convivio unico nel suo genere: in una situazione di sangue, morte e sofferenza, lanciare un messaggio di luce, speranza e riconciliazione attraverso il cibo.
• PALESTINA E ISRAELE: LA PACE È A TAVOLA I sei chef sono Sarkis Yacoubian, Itshak Alhav, Ahmad Jaber, Amal Hana, Nisan Hai e Yousef Arbis. I cuochi portano ad Andria le loro storie, le loro ricette e il messaggio universale della cucina come ponte tra culture, come linguaggio in grado di superare e distruggere le barriere politiche e religiose. Proprio perché non c’è il minimo accordo tra i due governi, i maestri di cucina sono insieme in questo momento.
La scelta di Castel del Monte non è casuale. Fatta costruire nel 1240 dall’imperatore Federico II di Svevia, la fortezza è un capolavoro dell’architettura militare medievale e patrimonio dell’umanità Unesco. “Federico II fu l’unico a risolvere una crociata senza spargimenti di sangue, riunendo i popoli a tavola – spiega Vittorio Cavaliere, presidente dell’associazione promotrice, l’accademia Ricerca e Qualità –. Da quell’esperienza, trasse ispirazione per la creazione di Castel del Monte. Non poteva esserci luogo più simbolico per celebrare la possibilità di un mondo senza conflitti”.
“Federico II è stato un pioniere della tolleranza, unendo ebrei, cristiani e musulmani sotto il suo regno – aggiunge Giovanna Bruno, la sindaca di Andria –. Oggi più che mai, dobbiamo guardare a quel modello con urgenza e speranza, dimostrando che le differenze non sono un ostacolo ma una ricchezza”. Yacoubian e i colleghi sono protagonisti di una serie di iniziative benefiche e solidali al centro di La pace a tavola.
“I coltelli non sono solo strumenti di guerra, ma possono diventare strumenti di pace – dice lo chef armeno di nascita e rifugiato in Israele, fondatore e presidente di Taste of Peace a Giaffa –. Intorno alla tavola, le persone imparano a rispettarsi e a dialogare con amore e gioia”. Taste of Peace è un team culinario multietnico fermamente convinto che la pace inizi nello stomaco.
• LA PACE A TAVOLA: ANDRIA CENTRO DEL MONDO Oltre a mescolare sapori e ingredienti, i sei cuochi uniscono anche le loro culture e tradizioni nella speranza di costruire un futuro diverso. “La guerra non costruisce nulla, mentre la diplomazia è l’unica arma che può unire i popoli – sottolinea Cesareo Troia, assessore alle Radici di Andria –. Attraverso questo evento, vogliamo dimostrare che convivere è possibile. L’esempio dei cuochi israeliani e palestinesi che lavorano fianco a fianco è un monito per il mondo intero”.
“La cucina non ha confini – conclude Domenico Maggi, ambasciatore della World Chef Federation per una pace tutta da assaporare –. È un linguaggio che rispetta tutte le culture e unisce i popoli. Questo evento dimostra quanto il cibo possa essere un veicolo di pace e comprensione”.
(Leonardo.it, 30 novembre 2024)
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Scoperto al largo delle coste di Israele uno dei relitti più antichi del mondo
Il relitto è lungo tra i 12 e i 14 metri ed è stato affondato da una tempesta o da un attacco di pirati
di Paolo Ponga
Uno dei relitti più antichi del mondo è stato scoperto nel Mar Mediterraneo, a circa 90 chilometri dalla costa di Israele. Il rinvenimento è straordinario anche perché la nave contiene ancora centinaia di anfore intatte. Il relitto è stato trovato a 1.800 metri di profondità dalla compagnia petrolifera Energean durante un’indagine esplorativa condotta con un ROV nel 2023. Dopo la scoperta la società ha contattato l’Autorità per le antichità israeliana (IAA), spiegando di aver avvistato “un grande mucchio di brocche ammucchiate sul fondale marino”. Gli archeologi marini dell’IAA hanno così costituito con Energean un team di ricerca, che ha effettuato nel corso del 2024 diverse campagne di studio confermando la presenza di un grosso quantitativo di anfore di un’età compresa tra i 3.300 e i 3.400 anni. Le anfore sono state identificate come vasi di contenimento della tarda età del bronzo, risalenti al periodo cananeo, appartenenti ad un’antica civiltà che fiorì tra il 3.500 e il 1.150 a.C. in quelli che oggi sono i territori di Israele, Palestina, Libano, Giordania e Siria. La scoperta è notevole non solo per il rinvenimento dei reperti ma anche per la posizione del relitto, così lontano dalla terraferma, dove non c’è alcuna linea di vista della costa che possa aiutare nell’antica navigazione a vela. Il suo ritrovamento è stato davvero un colpo di fortuna senza eguali. Il relitto è lungo tra i 12 e i 14 metri ed è stato affondato da una tempesta o da un attacco di pirati, due eventi molto comuni all’epoca. Due anfore sono state sollevate dal fondo e recuperate utilizzando attrezzature appositamente progettate per farlo, ma sotto il sedimento limoso del fondale devono essere centinaia quelle presenti, insieme addirittura a resti del legno della struttura della nave. “Si tratta di una scoperta – ha affermato Jacob Sharvit, responsabile dell’unità marina dell’IAA – di livello mondiale che cambierà la storia e che ci rivela le capacità di navigazione degli antichi marinai. Da questo punto geografico solo l’orizzonte è visibile tutt’intorno. Per navigare usavano probabilmente i corpi celesti, osservando le posizioni del sole e delle stelle. Il tipo di imbarcazione identificato dal carico – ha continuato l’archeologo – era il mezzo più efficiente dell’epoca per trasportare prodotti relativamente economici come olio, vino e generi agricoli come la frutta. Il ritrovamento di una così grande quantità di anfore a bordo di un’unica nave testimonia gli importanti legami commerciali lungo le terre del Vicino Oriente che si affacciavano sulla costa del Mediterraneo”. Fino a questa scoperta gli archeologi avevano ipotizzato che le navi mercantili di quest’epoca così antica navigassero da un porto all’altro rimanendo in vista della costa ma il ritrovamento avvenuto così al largo implica che la capacità di navigazione degli antichi popoli marinari sia stata finora ampiamente sottovalutata. “La scoperta di questa barca – ha concluso Sharvit – cambia ora la nostra intera comprensione delle abilità degli antichi marinai. È la prima in assoluto ad essere stata trovata a una distanza così grande, senza alcuna linea di vista verso alcuna massa terrestre. Qui c’è un potenziale enorme per la ricerca. La nave si trova a una profondità così grande che per essa il tempo si è fermato al momento dell’affondamento. La sua struttura e il carico non sono stati disturbati da mani umane, né influenzati da onde e correnti che colpiscono i relitti in acque meno profonde”.
(Daily Nautica, 30 novembre 2024)
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Liliana Segre: «Perché non si può parlare di genocidio a Gaza, ma di crimini di guerra e contro l'umanità»
di Liliana Segre
Le parole, a volte, diventano clave. Negli ultimi mesi ho fatto appelli per il cessate il fuoco, ho condannato le violenze, ho espresso la più profonda partecipazione al dramma delle vittime innocenti palestinesi e israeliane, ho invocato un rispetto sacrale verso i bambini di ogni nazionalità, di ogni credo, di ogni religione, ho manifestato ripulsa verso lo spirito di vendetta. Eppure, o ti adegui e ti unisci alla campagna che tende ad imporre l’uso del termine «genocidio» per descrivere l’operato di Israele nella guerra in corso nella Striscia di Gaza, o finisci subito nel mirino come «agente sionista». Le cose in realtà sono più complesse e colpisce che alcuni tra i più infervorati nell’uso contundente della parola malata si trovino in ambienti solitamente dediti alla cura, talora maniacale, del politicamente corretto, del linguaggio sorvegliato che si fa carico di tutte le suscettibilità fin nelle nicchie più minute.
Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali — il Medz Yeghern degli armeni, l’Holodomor dei kulaki ucraini, la Shoah degli ebrei, il Porrajmos dei rom e sinti, la strage della borghesia cambogiana, lo sterminio dei tutsi in Ruanda — mentre sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano. I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due, uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra. Anche i genocidi commessi durante le due guerre mondiali (armeni, ebrei, rom e sinti) non ebbero la guerra né come causa né come scopo, anzi furono eseguiti sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico.
D’altronde, anche di fronte ad operazioni militari volte intenzionalmente a produrre vittime civili e che hanno causato morti innocenti nell’ordine di decine di migliaia (Dresda) o centinaia di migliaia in pochi giorni (Hiroshima e Nagasaki) o addirittura un milione (assedio di Leningrado), non si è mai parlato di genocidi. L’abuso della parola genocidio dovrebbe essere evitato con estrema cura per più di una ragione. In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro. Un complesso di colpa collettivo prodotto dalla storia si scioglie in un rabbioso sfregio liberatorio verso lo Stato ebraico di Israele, non solo equiparandolo ai nazisti ma rinfocolando tutti i più vieti stereotipi sugli ebrei vendicativi, suprematisti, assetati del sangue dei bambini non ebrei. L’impennata delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo, a livelli mai visti da decenni, dimostra l’effetto devastante delle tossine che sono tornate in circolo.
In secondo luogo, l’accusa strumentale del genocidio proietta sull’intero Stato di Israele e su tutto il popolo israeliano — non solo sul pessimo governo in carica — l’immagine del male assoluto. Una demonizzazione ingiusta, ma anche controproducente per le prospettive di pace e convivenza. Ogni riduzione dell’altro a mostro, ogni cancellazione manichea delle sue ragioni — vale per i sostenitori acritici dei palestinesi, ma vale specularmente anche per i sostenitori acritici del governo israeliano — serve solo a perpetuare la guerra, a rinsaldare la trappola dell’odio e ad allontanare il giorno in cui potrà, dovrà sorgere uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele.
In terzo luogo, la cultura antifascista e antitotalitaria ha avvertito da sempre le implicazioni velenose delle operazioni di negazionismo, riduzionismo, relativizzazione, distorsione o banalizzazione dei genocidi. Di lì passano inesorabilmente le rivalutazioni delle peggiori dittature e le campagne nostalgiche. Da lì parte il sistematico abbassamento degli anticorpi che sorreggono la coscienza democratica dei cittadini. Inquieta che anche alcuni di coloro che meritoriamente si dedicano alla tutela e alla trasmissione della Memoria sembrino non capire che lasciar passare oggi l’abuso del termine genocidio significa produrre una crepa in un argine. E se crolla quell’argine, domani, potrà passare ben altro.
(Corriere della Sera, 29 novembre 2024)
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Commento di Emanuel Segre Amar.
Moltissime sono state le reazioni all’articolo, a firma di Liliana Segre, oramai divenuta un’icona in Italia e che, quindi, non a caso, il quotidiano di proprietà di Cairo, proprietario anche di La7, il canale più anti israeliano di tutti, ha ospitato con gioia.
Chissà se la Senatrice a vita ha mai saputo che Leone Ginzburg, che dai fascisti fu trucidato, ripeteva sempre, nella cella che condivideva con mio Padre: “l’antifascismo non esiste, perché esiste il socialismo, il comunismo, il liberalismo”. Quella parola restò così bandita dal vocabolario di mio Padre per l’insegnamento ricevuto dal suo amico di tutta la gioventù. Spero che qualcuno glielo riferisca, potrebbe farne buon uso.
Ma andiamo per ordine nella lettura di questo articolo.
La Senatrice certamente è fulminata dai numeri e dalle scene che ogni giorno media e social pubblicano in quantità, ma è parimenti informata delle notizie pubblicate da un governo democratico, e che quindi dovrebbero avere maggior peso di quelle partite da un’organizzazione riconosciuta essere terrorista? Ha mai visto l’insegnamento all’uso delle armi impartito a bambini nella più tenera età? Ha mai visto la preparazione, in set cinematografici, di tante scene Pallywood che poi fanno il giro del mondo?
Si preoccupa, Liliana Segre, di essere etichettata come “agente sionista”; ma si ricorda che il Presidente Napolitano affermò che “l’anti-sionismo nega le ragioni della nascita, ieri, e della sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano alla guida di Israele”? E allora perché teme tale etichettatura?
Teme la Senatrice di cadere nell’accusa del “politicamente corretto”, e non si accorge di essere proprio lei “politicamente corretta” in questo Occidente che sta tradendo tutti i suoi valori?
Nega, per carità di patria, l’accusa di genocidio rivolta a Israele, ma perché non accusa di volontà genocidiaria Hamas, che aveva nel suo Statuto l’obbligo di uccidere tutti gli israeliani (volontà che aveva già Nasser, ma nel ‘67 lei non se ne interessava), e Hezbollah, il cui capo, Nasrallah, ringraziava l’esistenza dello Stato di Israele perché permetteva di uccidere tutti gli ebrei in una volta sola?
Non si accorge che proprio con questo articolo proprio lei aumenta “l’impennata delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo”?
Quali informazioni di prima mano ha la Senatrice per parlare di “pessimo governo in carica”, definito anche “controproducente per le prospettive di pace”? Ha mai letto le delibere del governo israeliano che sole contano, ben al di là delle parole del singolo ministro?
E ho volutamente lasciato per ultime le sue parole di “evidenti crimini di guerra e contro l’umanità”. Lo sa la Senatrice Liliana Segre che tutti i militari israeliani (solo quelli israeliani nel mondo), dai generali all’ultimo soldato di leva, hanno sempre, sul casco, una telecamera che registra tutte le loro azioni e tutte le loro parole, e che, se commettono degli sbagli, questi vengono immediatamente sanzionati dagli avvocati di un’inflessibile Corte Suprema che tutto controlla?
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Segre, ti venero. Ma su Israele stai sbagliando
Il "pessimo governo" di Israele, come lo chiama senza spiegare la Senatrice, che come si vede invece cerca subito la tregua, come ha fatto in Libano, appena può, ha cercato solo di salvare il proprio popolo.
di Fiamma Nirenstein
Non so farmi una ragione dell'articolo della senatrice Liliana Segre, che amo come ebrea e venero come sopravvissuta della Shoah, se non immaginando che nella sofferenza dell'attuale ondata di antisemitismo e di Israele in guerra, spinta dal desiderio di aiutare il mondo ebraico, sia inciampata in un suo legittimo sogno di pace e di equidistanza. Tuttavia, a mio parere, gli ebrei e il mondo civile in generale, non possono abbandonarsi a questo sogno: la verità è l'unica arma per vincere una battaglia, quando essa è per la vita. E questa lo è. L'intenzione della Senatrice è buona: quella di smontare l'accusa di genocidio. Ma nel farlo, Liliana Segre lascia aperto il campo all'accusa di crimini di guerra: tuttavia facendo questo, non fa un buon servizio alla verità fondamentale del diritto all'autodifesa da una forza invece razzista, genocida, e potentissima. Quella dell'Iran e dei suoi proxy, Hamas, Hezbollah, e altri. La Senatrice mette in campo la sua conoscenza giuridica e morale e anche la sua esperienza personale, per individuare giustamente il rovesciamento dell'accusa di nazismo sugli ebrei come pilastro dell'attuale antisemitismo: Robert Wistrich ci ha scritto dei volumi, e così è oggi.
Ma già dal primo incipit della sua riflessione, le carte che mostra sono quelle di una scelta di campo, quella del «cessate il fuoco» e dell'equiparazione delle forze in campo, palestinesi e israeliani. Ma non c'è equipollenza qui: si tratta di scegliere fra il bene e il male, la violenza e la pace, la dittatura e la democrazia. Non è virtuosa di per sé la preferenza per il «cessate il fuoco», quando la guerra è nata da un assalto senza precedenti da parte di una forza assassina che doveva e deve essere necessariamente fermata perché non prosegua o ripeta, forte della sua ideologia nazista, i mostruosi crimini compiuti. Di questo vive Hamas, mentre Israele vive di pace, come ogni democrazia, e va in guerra solo se è obbligata sin dal 1948. Allora, però, c'è un tempo per la pace e uno per la guerra: ed è sbagliato supporre in Israele, aggredita, un supposto spirito di vendetta. Non l'ho visto. Ho visto il sacrificio di una società stupefatta, eroica che è corsa a salvare la gente aggredita e poi a smontare il regime jihadista che ha ordinato di uccidere donne e bambini. Il «pessimo governo» di Israele, come lo chiama senza spiegare la Senatrice, che come si vede invece cerca subito la tregua, come ha fatto in Libano, appena può, ha cercato solo di salvare il proprio popolo.
Sono certa che la maggior parte degli ebrei del mondo è orgogliosa, certo offesa e furiosa per l'ondata di antisemitismo, condivide la guerra di salvezza di Israele, vede chiara la follia dei cortei che quando urlano «Intifada» tengono per un culto della morte in cui dissidenti, omosessuali, donne sono esclusi dalla civile convivenza. Non c'è stato crimine, né vendetta, ma una guerra combattuta sopra gallerie che per 800 chilometri hanno ospitato solo i miliziani di Hamas, gli scudi umani di Hamas, unico responsabile dei suoi cittadini, spesso volenterosa parte della nazificazione che ha nascosto in casa, nelle scuole e negli ospedali le armi e i terroristi. Israele dal primo giorno ha fornito cibo e acqua e elettricità, ha cercato con schiere di avvocati di definire la legittimità degli obiettivi, ha sparso milioni di volantini e telefonate per spostare la gente, mentre Hamas bloccava gli aiuti alimentari e gli scudi umani con i kalachnikov, perché si accusasse Israele di crimini contro l'umanità. Questo anche quando i numeri , anche quelli forniti dal fantomatico governo di Gaza, danno una percentuale di un caduto civile per un caduto «militare»; la più bassa di ogni conflitto dal 1945. Israele non ha compiuto crimini di guerra, ne ha solo subiti; le accuse delle corti di giustizia nell'Onu e sono l'emanazione della maggioranza automatica che copre lo Stato Ebraico di odio e si associa a quel mondo in cui non c'è né diritto né giustizia, ma solo lo scopo di distruggere gli ebrei, Israele, l'Occidente.
Il «pessimo governo» di Netanyahu è l'unico governo democratico mai stato giudicato colpevole; i ragazzi di Israele e i capifamiglia che lasciano tutto per andare nelle riserve, non hanno mai compiuto nessuna crudeltà paragonabile al 7 di ottobre. Questa è una guerra di sopravvivenza del popolo ebraico, una faticosa virtù che salva il mondo.
(il Giornale, 30 novembre 2024)
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Scandalosa equiparazione
“Sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano”. Così si presenta l'equiparazione di crimini fatta dalla senatrice a vita Liliana Segre nell’articolo sopra commentato. Hamas può esserne soddisfatto: essere accusato di crimine contro l’umanità da un ebreo è un vanto: vuol dire che è riuscito a colpire nel segno, e la reazione del colpito glielo conferma. Ma per un ebreo è accettabile dire che l’esercito dello Stato ebraico commette un crimine contro l’umanità perché si difende da chi vuole distruggerlo? Forse si dovrebbe cominciare a capire che l’incenso profuso dai media sull’icona della senatrice sopravvissuta alla Shoah può ottenebrare la vista e fare il gioco dei nemici di Israele. Come tante volte è avvenuto nella storia, gli odiatori degli ebrei cercano sempre di coinvolgere altri ebrei nel loro odio, per poter dire che quello loro non è odio, ma amore. Amore per qualcosaltro: la vera religione, la pura razza, la sacra patria, e di poter dire che anche altri ebrei sono della loro opinione. Oggi l’oggetto dell’amore è la santa democrazia: il bene eterno a cui si contrappone il male assoluto del fascismo in ogni sua manifestazione.
Hamas sa bene che il suo sentimento verso gli ebrei è odio, e non se ne vergogna; gli antifascisti invece pensano, o fanno finta di pensare, che il loro è un sentimento d’amore che va oltre gli ebrei: amore per la democrazia, dentro la quale anche gli ebrei possono partecipare insieme agli altri. Ma è un’illusione. Hamas ha espresso chiaramente, nei fatti e nelle parole, che il suo odio per gli ebrei ha come motivo il semplice fatto che gli ebrei vivono su quella terra e pretendono di esserne i legittimi abitatori e sovrani. Per Hamas dunque è perfettamente legittimo, anzi doveroso, dare pieno corso a questo odio, in qualsiasi forma si presenti possibile.
E’ bene ripeterlo: è odio. Puro sentimento di odio che si diffonde intorno e si propaga con estrema facilità. E contagia. Ma poiché sia il popolo, sia la nazione, sia la terra su cui Israele è destinato a vivere sono espressione diretta ed esplicita della volontà del Dio di Israele, che è l’unico vero Dio creatore del cielo e della terra, il proposito ricercato o soltanto desiderato di contrapporsi a questo progetto è destinato a fallire. E se non ora, un giorno sarà considerato un “crimine contro la divinità”. M.C.
(Notizie su Israele, 30 novembre 2024)
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Israele: resoconto delle operazioni IDF in Libano durante la guerra
Le Forze di difesa Israeliane o IDF hanno pubblicato un riassunto delle loro attività contro Hezbollah negli ultimi 14 mesi, mentre il cessate il fuoco tra Israele e il gruppo terroristico sembra reggere.
Secondo l’esercito, sono stati colpiti oltre 12.500 obiettivi di Hezbollah, tra cui 1.600 centri di comando e 1.000 depositi di armi.
Durante l’offensiva terrestre, hanno partecipato 14 task force a livello di brigata delle IDF e, separatamente, furono svolte oltre 100 operazioni speciali.
Le IDF affermano di aver confermato con elevato grado di sicurezza la morte di 2.500 militanti di Hezbollah, anche se stimano che il numero si aggiri intorno ai 3.500.
Tra le vittime ci sono l’ex leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e 13 membri del vertice del gruppo terroristico.
Tra i morti ci sono anche quattro comandanti di Hezbollah a livello di divisione, 24 comandanti di brigata, 27 comandanti di battaglione, 63 comandanti di compagnia e 22 comandanti di plotone.
Le IDF affermano di aver sequestrato circa 12.000 dispositivi esplosivi e droni; 13.000 razzi, lanciatori e sistemi missilistici anticarro e antiaerei; e 121.000 apparecchiature di comunicazione e computer.
(Rights Reporter, 29 novembre 2024)
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Cessate il fuoco israelo-libanese: successo diplomatico o errore tattico?
L'accordo è davvero un punto di svolta o è un altro tentativo di preservare il fragile status quo?
di Itamar Eichner*
L'accordo di cessate il fuoco tra Israele e Libano, firmato nel novembre 2024, ha fatto seguito a settimane di intensi combattimenti sul confine settentrionale innescati dal costante armamento di Hezbollah e dai suoi tentativi di sfidare la capacità di deterrenza di Israele. L'obiettivo dell'accordo, che si basa sulla Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, era quello di ripristinare la stabilità nella regione e prevenire un'escalation verso una guerra totale.
• PUNTI CHIAVE DELL'ACCORDO L'accordo di cessate il fuoco comprende diversi punti chiave volti ad affrontare le minacce alla sicurezza nella regione. Tra questi
- Il ridispiegamento dell'esercito libanese nel sud:
In base all'accordo, circa 10.000 soldati libanesi sono stati dispiegati per conquistare le posizioni di Hezbollah lungo il confine e distruggere le loro infrastrutture fino al confine con il Litani. Queste forze hanno ricevuto il sostegno occidentale per fermare il contrabbando di armi e rimuovere le infrastrutture illegali. Israele ha dato il via libera agli Stati occidentali per armare l'esercito libanese in modo che potesse far rispettare l'accordo.
- Ruolo delle truppe UNIFIL:
L'accordo rafforza il ruolo delle forze ONU nel monitoraggio del confine e introduce nuovi meccanismi di controllo internazionale guidati dagli Stati Uniti con la partecipazione di Regno Unito, Germania e Francia. A differenza della Risoluzione 1701, questa volta ci sarà una presenza fisica degli Stati Uniti per intervenire contro le violazioni. Un generale statunitense del comando CENTCOM è già arrivato in Israele per istituire il meccanismo di controllo. Gli americani hanno annunciato che, pur non essendoci soldati statunitensi sul terreno, ci sarà un intervento attivo americano in collaborazione con l'esercito libanese e l'UNIFIL per garantire che le violazioni siano affrontate in modo rapido ed efficace.
- Impegno a disarmare le armi illegali:
Il Libano dovrà imporre il disarmo dei depositi di armi e delle infrastrutture militari di Hezbollah nel sud del Paese e, in caso contrario, saranno minacciate sanzioni.
- Salvaguardia della libertà d'azione di Israele:
Israele si riserva il diritto di intervenire militarmente se Hezbollah violerà l'accordo e sottolinea che non permetterà il rafforzamento dell'organizzazione sul confine. Già il primo giorno dell'accordo si sono verificate significative violazioni quando i residenti del Libano meridionale sono tornati nei loro villaggi, sebbene l'accordo vieti il ritorno nei primi 60 giorni.
L'accordo prevede una nuova linea di confine - la cosiddetta “linea rossa” - alla quale i residenti non possono tornare durante questa fase. Ma i libanesi non hanno aspettato e hanno cercato di tornare alle loro case. Israele ha reagito prontamente e ha sparato colpi di avvertimento per respingere i residenti. Un drone israeliano ha sparato colpi di avvertimento contro un veicolo entrato nell'area riservata; per errore, gli occupanti sono rimasti feriti, anche se non c'era l'intenzione di colpirli. L'incidente più grave è stato il lancio di un missile da parte di un aereo da guerra israeliano contro una casa in cui erano entrati combattenti Hezbollah. A prima vista, l'accordo sembra pieno di buchi come un formaggio svizzero, ma a differenza della seconda guerra del Libano, quando Israele ignorò il contrabbando di armi fin dal primo giorno, questa volta Israele sembra aver imparato la lezione e ha stabilito nuove regole del gioco: Israele risponderà duramente a qualsiasi violazione dell'accordo, che si tratti di una minaccia imminente o della ricostruzione di infrastrutture terroristiche e del contrabbando di armi. A Gerusalemme si è riconosciuto che solo la forza e il fuoco possono ripristinare la deterrenza che si è completamente affievolita 18 anni dopo la Seconda guerra del Libano. Israele ha chiarito a Hezbollah che reagirà duramente a qualsiasi offesa e non tollererà alcuna provocazione da parte di Hezbollah. Partecipazione internazionale. A differenza degli accordi precedenti, questa volta la comunità internazionale, guidata dagli Stati Uniti, è attivamente coinvolta nel monitoraggio e nell'applicazione dell'accordo. Rafforzamento dell'esercito libanese:le forze armate libanesi hanno ricevuto sostegno finanziario e militare dall'Occidente, che potrebbe migliorare la loro capacità di agire contro Hezbollah. Israele vede in questo un'opportunità per il Libano di liberarsi dalle catene iraniane.
• PUNTI DEBOLI DELL'ACCORDO
- Capacità del Libano di affermarsi:
L'esercito libanese è ancora debole nonostante l'ampliamento dei suoi poteri e Hezbollah è stato in grado di manipolare il sistema in passato.
- Provocazioni di Hezbollah: i primi rapporti indicano che Hezbollah continua a costruire nuove infrastrutture e a ignorare le richieste di disarmo.
- Dipendenza dall'impegno internazionale:
Il successo di Israele dipende dal sostegno degli Stati occidentali, che può variare a seconda degli interessi regionali.
• ISRAELE HA IMPARATO DAGLI EVENTI DEL 2006? L'accordo attuale è simile per molti aspetti agli accordi presi all'epoca, ma contiene anche differenze significative:
- Israele chiede meccanismi di controllo più completi e un maggiore coinvolgimento militare del Libano nel sud.
- La libertà d'azione di Israele sarà preservata in misura maggiore, il che impedirà a Hezbollah di usare la calma per riarmarsi.
• SUCCESSO O FALLIMENTO? Dipende dall'analisi degli obiettivi a breve e a lungo termine. Nel breve termine, l'accordo previene ulteriori conflitti al confine e consente a Israele di mostrare un risultato diplomatico positivo. A lungo termine, tuttavia, il successo dipende dall'applicazione delle clausole sul disarmo di Hezbollah e dalla capacità del Libano di affrontare le sfide interne. La storia della regione dimostra che i cessate il fuoco sono spesso solo pause temporanee. Se l'accordo attuale regge, potrebbe creare un nuovo quadro di stabilità sul confine settentrionale. In caso contrario, Israele e Libano si ritroveranno ancora una volta nello stesso ciclo di conflitti, facendo precipitare la regione in una prolungata instabilità.
• LA POLITICA ISRAELIANA Sembra che la base politica di Netanyahu abbia difficoltà ad accettare l'accordo. Dopo aver giurato per oltre un anno che Israele non si sarebbe accontentato di nulla di meno di una “vittoria completa”, la destra israeliana si è svegliata e ha capito che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu è sceso a compromessi e ha raggiunto un accordo diplomatico. Nella cerchia di Netanyahu, sono tre le ragioni per cui ha deciso a favore dell'accordo:
- Evitare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Israele vuole evitare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza sia a nord che a sud senza il veto americano. Nei due mesi rimanenti di governo provvisorio negli Stati Uniti, Israele è consapevole della complessità e della delicatezza della situazione e vuole evitarla.
- Ripresa militare: la carenza di munizioni e la mancanza di attrezzature, come i 130 bulldozer trattenuti dagli Stati Uniti, rappresentano una sfida. Queste misure salvano la vita dei soldati. Inoltre, le truppe, soprattutto i riservisti che da più di un anno viaggiano tra il Libano e Gaza, devono essere ricostituite.
- Separazione dei teatri di guerra: Il cessate il fuoco taglia il collegamento tra Gaza e il Libano, cosa che Hamas non vuole. Questa separazione indebolisce Hamas, soprattutto a causa della maggiore pressione militare. Questo potrebbe anche aumentare le possibilità di liberazione degli ostaggi.
L'accordo in sé è solo un pezzo di carta. La cosa più importante per il primo ministro è assicurarsi un documento con il sostegno americano che dia a Israele la legittimità di agire quando necessario, Netanyahu:
Se vengono intraprese azioni contro di noi, se vengono costruite infrastrutture terroristiche, se vengono trasportati razzi e così via. E se vediamo qualcosa del genere, abbiamo il diritto di aprire il fuoco e rispondere a Hezbollah e al Libano, anche in una situazione in cui avanzano a sud del fiume Litani - apriremo il fuoco. Se ci sono tentativi di trasferire armi dalla Siria al Libano, apriremo il fuoco. E se sarà necessario, anche contro obiettivi del regime di Assad, come abbiamo già fatto diverse volte, apriremo il fuoco. L'importante è essere assertivi, e noi lo siamo. Il cessate il fuoco sarà verificato sul campo. Se il cessate il fuoco mantiene ciò che promette, la situazione rimarrà così com'è. Se non ci sarà il cessate il fuoco, attaccheremo Hezbollah. Va detto che il nostro interesse è quello di superare almeno i prossimi due mesi fino a quando non inizieremo a ricevere forniture di armi, poiché ci aspettiamo che l'amministrazione Trump elimini l'embargo e ci permetta maggiori forniture di armi e una maggiore legittimazione per le operazioni in Libano, qualora fosse necessario. Al momento, siamo limitati in alcuni modi e quindi preferiamo un cessate il fuoco. Allo stesso tempo, va detto che Hezbollah sarà un'organizzazione completamente diversa dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco rispetto al 6 ottobre. Abbiamo eliminato l'intera leadership di Hezbollah, compreso Nasrallah, che il Primo Ministro definisce “l'asse dell'asse”. Nasrallah non era solo uno strumento dell'Iran, ma talvolta l'Iran stesso. La sua influenza nel mondo religioso sciita era così grande che la sua rimozione ha conseguenze drammatiche. Abbiamo distrutto il 70% della capacità missilistica di Hezbollah. Abbiamo distrutto in gran parte le infrastrutture e i tunnel di Hezbollah. La distruzione degli edifici nel quartiere di Dahiya è superiore a quella della Seconda guerra del Libano. Abbiamo eliminato 3.500 militanti terroristi. Abbiamo eliminato la minaccia delle forze di Radwan al confine e abbiamo respinto Hezbollah a nord. Tutto questo, insieme all'opportunità e alla legittimità che abbiamo ricevuto dagli Stati Uniti per far rispettare il cessate il fuoco in Libano, rappresenta un cambiamento drammatico, almeno per ora. È importante sottolineare che si tratta di un cessate il fuoco e non della fine della guerra. Secondo l'accordo, ci saranno aggiustamenti di confine a favore di Israele. Non ci sarà la restituzione dei prigionieri di Hezbollah. L'accordo non lo prevede. Per quanto riguarda i residenti del nord, non chiediamo loro di tornare. Comprendiamo la complessità della situazione e la sua delicatezza. Così come non abbiamo chiesto ai residenti del sud di tornare, abbiamo dato tempo per determinare la realtà. Il fatto che la maggior parte dei meridionali sia tornata nonostante il nostro silenzio parla da sé. Ci aspettiamo che i nostri residenti tornino alle loro case con il tempo. Non abbiamo posto fine alla guerra, quindi diciamo che continueremo a sostenere la popolazione del Nord finché non potrà tornare a casa in sicurezza. Non ci arrenderemo con nessuno. Comprendiamo la situazione. Comprendiamo che questo cessate il fuoco potrebbe essere fragile e dichiariamo anche che non significa la fine della guerra ed è per questo che siamo molto cauti sul ritorno dei residenti. Anche dopo i 60 giorni, non chiederemo loro di tornare. Lasceremo che siano il tempo e la situazione sul campo a decidere. Siamo impegnati a continuare ad agire contro Hezbollah e contro qualsiasi minaccia.
• REAZIONI DAL NORD I leader delle comunità del nord hanno attaccato aspramente Netanyahu, accusandolo di averli abbandonati. Netanyahu sa di avere un problema con la sua base di destra. In questa situazione, cerca il sostegno dei media di cui si fida, come Canale 14. In un'intervista, Netanyahu ha cercato di presentare l'accordo come un successo e ha sottolineato che il pericolo di un'offensiva di terra è stato scongiurato. Ha assicurato che i residenti del nord non vivranno un nuovo scenario da “7 ottobre”. Netanyahu ha spiegato che l'IDF è pronto a una guerra intensiva nel caso di una massiccia violazione dell'accordo. Tuttavia, il cessate il fuoco rimane fragile e dipende dagli sviluppi sul campo. La stabilità a lungo termine dipende dal rispetto e dall'attuazione degli accordi. --- * Itamar Eichner è un importante giornalista e commentatore dei media israeliani
(Israel Heute, 29 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’israeliana Nofar Energy firma un accordo da 182 milioni per lo stoccaggio energetico nel Regno Unito
di David Fiorentini
L’azienda israeliana Nofar Energy ha annunciato di aver raggiunto un accordo di finanziamento da 152 milioni di sterline (182 milioni di euro) per lo sviluppo di uno dei maggiori progetti di stoccaggio energetico nel Regno Unito. Fondata nel 2012 e con sede a Kfar Saba, Nofar si è affermata come uno dei principali investitori mondiali nel settore delle energie rinnovabili, aprendo filiali in 10 paesi e assumendo oltre 200 dipendenti. Nello specifico, l’investimento multimilionario sarà destinato alla crescita dell’impianto di immagazzinamento Cellarhead, situato nei pressi della cittadina inglese di Stoke-on-Trent. Attualmente in costruzione, avrà una capacità di 624 megawattora e sarà gestito tramite Atlantic Green, la piattaforma di stoccaggio di Nofar nello UK. “Continuiamo a portare avanti il nostro piano di lavoro pluriennale”, ha annunciato il CEO Nadav Tenne, sottolineando i grandi passi in avanti dell’azienda per consolidare la sua leadership nei progetti di stoccaggio energetico rinnovabile in Europa. Con una capacità totale di circa 10 GWh distribuita tra Regno Unito, Germania, Stati Uniti, Italia, Polonia, Romania e Israele, di recente Nofar Energy ha annunciato il collegamento alla rete e l’operatività commerciale di un altro impianto, Buxton, anch’esso a Stoke-on-Trent, con una capacità di 60 MWh. “Siamo orgogliosi di annunciare un’altra importante linea di finanziamento, che porta a circa 4,2 miliardi di NIS il totale delle chiusure finanziarie firmate in Europa negli ultimi due anni”, ha continuato Tenne. Una grande soddisfazione, condivisa anche dall’ambasciatore UK in Israele, Simon Walters, secondo cui l’investimento “rafforza il solido rapporto commerciale bilaterale tra Regno Unito e Israele e si allinea con l’obiettivo britannico di decarbonizzare il proprio settore energetico entro il 2030”.
(Bet Magazine Mosaico, 29 novembre 2024)
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Israele, scoperto un amuleto egizio a forma di scarabeo di 3.500 anni fa
di Jacqueline Sermoneta
Stava facendo un’escursione con i genitori nel sito archeologico di Tel Qana, a Hod Hasharon, in Israele, quando il suo sguardo si è imbattuto su qualcosa che somigliava a una pietra. In realtà, Dafna Filshteiner, 12 anni, con non poco stupore, ha trovato un piccolo amuleto egizio di 3.500 anni fa. Il reperto, portato negli Archivi di Stato ospitati nel Jay and Jeanie Schottenstein National Campus for the Archaeology of Israel, è stato esaminato dagli esperti dell’Israel Antiquites Autority (IAA), che ne hanno accertato l’autenticità. Secondo gli studiosi, l’antico oggetto risale al periodo del Nuovo Regno d’Egitto, quando l’impero si era diffuso in quelli che oggi sono Israele, Siria e Libano. Sull’amuleto sono incisi due scorpioni, in posizione opposta, uno di testa l’altro di coda. “Il simbolo dello scorpione rappresentava la dea egizia Serket, che, fra l’altro, era considerata responsabile della protezione delle madri incinte. – ha spiegato Yitzhak Paz, esperto dell’Età del Bronzo presso l’IAA – Un’altra decorazione sull’amuleto è il simbolo ‘nefer’, che significa ‘buono’ o ‘scelto’. C’è anche un altro simbolo che sembra un bastone reale”.
“L’amuleto è a forma di scarabeo stercorario che allora era “considerato sacro”, “un simbolo di nuova vita” e “l’incarnazione del creatore divino. – hanno spiegato gli studiosi dell’IAA – Gli amuleti di questa forma rinvenuti in Israele, a volte usati come sigillo, sono la prova del dominio egizio nella nostra regione circa 3.500 anni fa e della sua influenza culturale”. L’amuleto “potrebbe essere stato lasciato cadere da una figura importante e autorevole di passaggio nella zona, oppure deliberatamente seppellito. Dal momento che il ritrovamento è avvenuto in superficie, è difficile conoscerne l’esatto contesto”, ha affermato Paz.
Tel Qana è un sito archeologico di grande importanza storica. Secondo Amit Dagan, ricercatore del Dipartimento di Studi e Archeologia della Terra d’Israele Martin (Szusz) della Bar-Ilan University, e Ayelet Dayan dell’IAA, “questa scoperta è emozionante quanto significativa. Lo scarabeo e le sue caratteristiche uniche, insieme ad altri reperti scoperti a Tel Qana con motivi simili, forniscono nuove intuizioni sulla natura dell’influenza egizia nella regione in generale e nell’area di Yarkon in particolare”.
(Shalom, 29 novembre 2024)
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Toledòt. Un accordo di pace vera
di Ishai Richetti
Nella Parashà di Toledot, in un episodio sorprendentemente simile a un evento accaduto ai tempi di Avraham, Yitzchak viene avvicinato da Avimelech, re dei Filistei, allo scopo di contrarre un patto di non belligeranza. Dopo aver organizzato una festa celebrativa, Yitzchak apparentemente accetta il patto e i due si separano in pace. Come possiamo spiegare il comportamento di Yitzchak? Confrontato con la richiesta di un trattato di pace con i Filistei, interrompe bruscamente la conversazione e organizza una festa che dura tutta la notte. Perché i Chachamim sono apertamente critici nei confronti del trattato di Avraham con Avimelech, ma stranamente silenziosi quando si tratta dell’accordo di Yitzchak con lo stesso re? È possibile che questi due episodi, che sembrano così simili, in realtà differiscano in modo significativo? Una lettura attenta del testo porta alla luce un dialogo subliminale tra Yitzchak e Avimelech, un dialogo che spiega il comportamento apparentemente strano di Yitzchak e ha una rilevanza enorme per i nostri tempi. Non appena Yitzchak vede Avimelech e il suo entourage avvicinarsi, solleva la seguente obiezione: “Perché siete venuti da me? [È ovvio che] mi odiate, poiché mi avete esiliato da voi” (Bereshit 26:27) Avimelech risponde insistendo sul fatto che è venuto per contrarre un patto: “Che non ci farete del male, proprio come noi non vi abbiamo fatto del male, e come abbiamo fatto solo del bene a voi, perché vi abbiamo lasciato andare in pace“..Rabbenu Bechaye analizza questo strano colloquio. Tramite le sue domande Yitzchak ricorda ad Avimelech e al suo capo di stato maggiore tre questioni. 1) “perché venite da me?” Si riferisce alla distanza tra Gherar e Beer Sheva dove ora viveva. 2) “Mi odiate”, invidiosi a causa del mio successo e del vasto numero di bovini e pecore che possiedo. 3) Mi avete scacciato via.” Si riferisce a Gherar dove si era stabilito in precedenza e Avimelech gli aveva detto “vattene via da noi perché sei troppo potente per noi” (Bereshit 26,16). Avimelech risponde a tutte e tre le domande: Per quanto riguarda la domanda sul perché fosse venuto, riconosce: “Abbiamo visto molto chiaramente che D-o è con voi”, sottintendendo così che il successo di Yitzchak nel portare un raccolto abbondante, e il fatto che trovava sempre acqua, erano una prova sufficiente che D-o era dalla sua parte. Come risultato di questa tardiva realizzazione, erano venuti per stipulare un patto con lui. Onkelos traduce la parola giuramento in modo da sottintendere che l’intenzione di Avimelech era di confermare un obbligo esistente ancora ai tempi di Avraham. È importante notare che non c’è disaccordo tra Yitzchak e Avimelech sui fatti. Entrambi riconoscono che durante la loro precedente interazione Yitzchak fu esiliato dal territorio dei Filistei. Ciò su cui non sono d’accordo è, in effetti, una questione molto più profonda. Stanno discutendo sulla definizione che danno al termine “pace”. Per parafrasare il dialogo che si svolge tra il patriarca e il re: Yitzchak apre la conversazione con la seguente obiezione: Come puoi suggerire anche solo la possibilità di poter promulgare un trattato di pace? Le tue intenzioni finora sono state tutt’altro che pacifiche. Non mi hai forse insultato ed esiliato dalla tua terra? Avimelech risponde: Come puoi dire che ti odiamo? Se ti odiassimo, ti avremmo ucciso. Le nostre intenzioni erano ovviamente pacifiche perché in definitiva tutto ciò che abbiamo fatto è stato mandarti via. Yitzchak e Avimelech vivono, in effetti, in due mondi diversi. Per Yitzchak la vera “pace” consiste in qualcosa di molto di più profondo. Perché esista una vera pace, devono esserci sia assenza di ostilità che uno sforzo verso la cooperazione. Tutto il resto potrebbe essere definito come coesistenza reciproca, ma non può essere considerato vera pace. Il comportamento assunto da Yitzchak a seguito di questo colloquio appare altrettanto strano. Invece di rispondere all’interpretazione di Avimelech, Yitzchak interrompe bruscamente la conversazione. Senza dire altro, all’improvviso, Yitzchak “ha organizzato per loro una festa, e hanno mangiato e bevuto” (Bereshit 26:30). Il Radak commenta che Yitzchak “per preservare l’atmosfera amichevole preparò per loro un banchetto e mangiarono e bevvero insieme”. Rav Reggio commenta lo stesso pasuk scrivendo che Yitzchak accetta in qualche modo le parole di Avimelech, anche eventualmente solo di facciata, e non serba rancore. Basandoci su questi commenti possiamo arrivare a capire il comportamento di Yitzchak in questo episodio e perché i Chachamim non abbiano da commentare su questo patto rispetto al patto stipulato da Avraham anni prima. Yitzchak organizza subitaneamente il banchetto a celebrazione del trattato di pace con Avimelech perché riconosce che un’ulteriore conversazione con Avimelech sarebbe stata inutile. Si può negoziare con qualcuno quando ci si trova in una realtà anche parzialmente condivisa e quando i termini usati sono reciprocamente compresi. Yitzchak e Avimelech sono separati da un abisso incolmabile. Quando parlano di “pace”, stanno parlando di due concetti molto diversi. Se non c’è accordo sulla definizione di pace, non è certamente possibile stipulare un trattato di pace. Per porre fine ad una conversazione che non porterebbe alcun frutto e che potenzialmente poteva durare all’infinito, Yitzchak non ha altro metodo che organizzare una festa celebrativa che dura tutta la notte.La mattina dopo, Yitzchak e Avimelech si scambiano promesse. Il testo, tuttavia, non menziona in modo evidente un berit, “patto”. A differenza di suo padre Avraham, Yitzchak non stipula un trattato completo con i Filistei. Riconosce che è possibile siglare solamente accordi temporanei con Avimelech, ma non è possibile stipulare un patto duraturo. Con estrema acutezza, infine, la Torà nota riporta il comportamento di Yitchak nel commiato con Avimelech: “Egli [Yitzchak] li mandò via; e se ne andarono da lui in pace” (Bereshit 26:31). Yitzchak in questo frangente riesce a capovolgere la situazione nel suo rapporto con Avimelech. Tramite le sue azioni afferma: Io mi comporterò con te in accordo con la tua definizione di pace. Proprio come tu mi hai mandato via “in pace” dal tuo territorio, ora ti mando via da dove risiedo “in pace”. Ma Yitchak fa di più. Il Radak commenta che il pasuk “si alzarono presto e prestarono giuramento l’uno con l’altro e lui li congedò e se ne andarono da lui in pace” (Bereshit 26:31)” sottintende che Yitzchak congedò Avimelech e il suo seguito dopo averli accompagnati per il tragitto previsto. Tramite il suo comportamento , facendo credere ad Avimelech di volerlo accompagnare come segno di non belligeranza e di onore nei suoi confronti, Yitchak vuole essere sicuro di stabilire una distanza consona, distanza stabilita sulla carta tramite il trattato stipulato con Avimelech, e fisicamente, tramite l’accompagnamento di Avimelech ad una certa distanza da dove risiedeva. Yitchak in questo modo dimostra di avere imparato dagli errori di suo padre. Mentre Avraham era a suo agio nel contrarre un patto completo con Avimelech e continuò a vivere nel territorio dei Filistei “per molti giorni”, Yitzchak comprende i pericoli di un tale accordo e insiste sulla separazione fisica. I Chachamim non criticano questo patto perché frutto e riconoscimento delle lezioni ben apprese da Yitchak, frutto appunto delle proprie esperienze e delle esperienze vissute da suo padre. Ancora una volta, il testo della Torà ci parla in modo inquietantemente rilevante e ci porta a riconoscere come l’esperienza umana non sia cambiata molto nel corso dei secoli. La definizione di pace, che era al centro dello scambio di Yitzchak con Avimelech, continua ad essere in discussione oggi mentre lo Stato di Israele lotta per vivere in armonia con i suoi vicini. In molte parti del mondo, Israele compreso, ci si riempie la bocca con la parola pace, che viene perlopiù intesa come assenza di belligeranza o sconfitta definitiva del nemico. Ma la vera pace, la pace completa, il shalom che deriva dalla parola shalem, completo, è tutt’altro e sembra essere oggi molto lontano dall’essere raggiunto. La vera pace, il connubio tra assenza di belligeranza e di cooperazione, dovrebbe essere la linea guida e la stella polare per tutti. Questa stella è offuscata da supposti interessi nazionali che sono spesso in realtà interessi personali o di piccole élite. Se la distanza dal shalom shalem, la vera pace, sembra essere oggi molto lontana è importante sapere che un ebreo si contraddistingue perché non si arrende e continua ad operare e a pregare per il vero shalom.
(Kolòt, 29 novembre 2024)
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Parashà della settimana: Toledot (Generazioni)
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Gli italkim e la tregua: “Un sollievo, ma è molto fragile”
di Daniel Reichel
Ci sono emozioni contrastanti tra gli italiani d’Israele, gli italkim, residenti nel nord del paese. Da un lato si tira un sospiro di sollievo per la tregua appena iniziata: due mesi di pausa nella guerra contro Hezbollah. Dall’altro nessuno si fa illusioni sulla fragilità del cessate il fuoco. «Siamo esausti, stremati mentalmente e fisicamente», spiega a Pagine Ebraiche Cesare Funaro, chef del kibbutz Sasa. Da un anno divide la sua vita tra il lavoro e il servizio di sicurezza del kibbutz. «Per metà della giornata sono in divisa da chef, per l’altra metà indosso il giubbotto antiproiettili».
Prima dell’intervista ha svolto un incontro con il team del servizio di sicurezza. «Abbiamo fatto una perlustrazione per tutto il kibbutz per vedere se non ci sono pezzi di missili o altro materiale bellico in giro. C’è una certa euforia per la tregua. Da padre di famiglia non posso che sperare in due mesi di tranquillità e pace». Uno dei suoi tre figli è appena tornato dal Libano in congedo. Il più piccolo invece è ancora in Libano. «Ha passato mesi a Gaza, poi è stato mandato al nord. Il 7 ottobre ha partecipato ai combattimenti al kibbutz Kfar Aza, dove è sopravvissuto per miracolo. Non è una vita facile, né per lui né per noi che lo aspettiamo». La speranza è che questa tregua regga e permetta al figlio e a tutti di rifiatare.
• DUE MESI PER HEZBOLLAH PER RIARMARSI
«Per la pace purtroppo bisognerà aspettare a lungo», commenta Guido Sasson, residente a Mitspe Netofa, a poca distanza dal lago di Tiberiade. «Non ci si può fidare dell’altra parte e non c’è molta fiducia nemmeno nel nostro governo. Uno dei miei figli è nell’esercito, lui non si pone molte domande, ma dice che in molti dentro Tsahal spingono per andare avanti con la guerra a Hezbollah». Un altro dei figli di Sasson è stato evacuato ormai più di un anno fa dal kibbutz Baram, 500 metri dal confine con il Libano, insieme alla moglie e i quattro figli. «Non credo ci tornerà più. Magari mi sbaglio, ma finché la sicurezza non sarà garantita al nord, non lo vedo ritornare. E ci vorranno anni per farlo».
Il problema, aggiunge a riguardo Luciano Assin, guida turistica e membro del kibbutz Sasa, è che «nessuno, a livello internazionale, vuole veramente prendersi la briga di fermare fisicamente Hezbollah. Fino ad allora rimarranno sempre una minaccia. Non sappiamo quanto durerà questa tregua, ma sappiamo che Hezbollah nel mentre cercherà di riorganizzarsi e riarmarsi con il sostegno dell’Iran». Assin analizza il contesto geopolitico della regione: «Il Libano è un paese costruito su basi artificiali, con equilibri vecchi di 50 anni che non esistono più. Oggi, con gli sciiti molto più influenti rispetto al passato, e una minoranza cristiana ridotta, finché non ci saranno regimi più stabili, la situazione resterà critica. Questa tregua è solo una questione di tempo, perché l’area è profondamente instabile». Dall’altro lato anche lui non nasconde di aver accolto positivamente la notizia del cessate il fuoco. «Ognuno di noi ha qualcuno impegnato al fronte per cui non si può non essere felici di una pausa nei combattimenti». Dei circa 400 residenti kibbutz, aggiunge Assin, circa una sessantina è rimasto a viverci nel periodo del conflitto. «Oggi però la mensa è strapiena, ci saranno almeno cento persone». Un segnale di un ritorno? «Non saprei. Nessuno si illude che sia finita. Io stesso non me la sento di dire a mia figlia, che viveva qui con i suoi bambini: ”Torna, è tutto tranquillo”. La qualità della vita nel kibbutz è alta, ma ogni famiglia deve fare i suoi conti, soprattutto con bambini piccoli. Alla fine, nemmeno Haifa è sicura: ha ricevuto più bombardamenti di noi».
• GLI OSTAGGI E IL RAPPORTO CON I VICINI ARABI
Il pensiero di tutti va però anche agli ostaggi. «Noi siamo stremati, ma chissà cosa stanno passando loro. Se sono ancora vivi» , commenta con amarezza Funaro. A Sasa, lo chef coordina un team eterogeneo, composto da ebrei, musulmani, cattolici e drusi. «Non ci sono attriti. Spieghiamo sempre ai nuovi lavoratori di non portare la politica sul lavoro. Qui siamo una famiglia: vogliamo tornare a casa sereni e lavorare in armonia. Anche durante la guerra, è stato così. Anzi devo dire che i miei collaboratori si sono tutti preoccupati per me e per i miei figli chiedendomi come stessero, di avvisarli se tornavano dall’esercito. C’è stata molta empatia». Racconta poi un episodio. «Una mia cuoca cattolica mi ha fatto vedere un video di alcuni soldati israeliani che hanno fatto delle cose stupide in una chiesa in Libano. Era molto offesa. Le ho spiegato che ha ragione, quel comportamento era totalmente sbagliato e sicuramente l’esercito l’avrebbe punito. Tsahal prende molto seriamente questi episodi e li condanna con severità».
Anche Assin conferma il clima pacifico con le comunità arabe circostanti. «Non ci sono mai stati problemi, nemmeno nei periodi più tesi, come durante la seconda Intifada. Qui ci si aiuta reciprocamente, e nel kibbutz, dalla raccolta nei campi alla cucina, lavorano molti arabi. Certo c’è un tacito accordo: non si parla di politica. È un gentlemen agreement che mantiene l’armonia».
• IL DESTINO DELLA GUERRA A GAZA
Se la tregua al nord possa portare a un accordo anche a Gaza è una domanda a cui nessuno sa rispondere. «Non mi pare al momento ci siano i presupposti», sottolinea Sasson. «Per siglare un’intesa devi avere un interlocutore, con chi parli ora a Gaza?». Per Assin anche a Gerusalemme c’è chi non ha interesse a chiudere il capitolo conflitto. «Un accordo significherebbe una resa dei conti politica in Israele. Sarebbe infatti istituita finalmente una commissione indipendente sui fallimenti del 7 ottobre. Ma nessuno al governo vuole affrontare le responsabilità per la débâcle. È tutto intrecciato, ed è difficile essere ottimisti».
(moked, 28 novembre 2024)
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Nel ventre molle d’Europa: paese mio, che cosa farai per me? E se non ora, quando?
Le misure da prendere. Le pressioni da attuare. Le strategie da rivedere. Come fermare l’escalation antiebraica, come agire dopo i fatti di Amsterdam? Gli ebrei di Francia e Germania, Belgio e Austria, Svizzera e Scandinavia si interrogano. I leader delle varie comunità ebraiche d’Europa dicono la loro.
di Marina Gersony
Che cosa è cambiato in Europa dopo i fatti di Amsterdam? Come hanno reagito le comunità ebraiche dopo la caccia all’uomo avvenuta nella notte del 8-9 novembre? Ricordiamo brevemente i fatti: quella che doveva essere una semplice partita di Europa League tra Ajax e Maccabi Tel Aviv si è trasformata in una notte da incubo. Parole pesanti, inseguimenti e insulti sono degenerati in risse e aggressioni mirate contro i tifosi israeliani. Le indagini hanno rivelato che gli attacchi provenivano da manifestanti filopalestinesi e simpatizzanti a volto coperto e sebbene siano state segnalate provocazioni iniziali da parte di qualche tifoso del Maccabi, nulla poteva giustificare simili attacchi sproporzionati e brutali. Secondo fonti accreditate, gli assalti di Amsterdam non sono stati episodi isolati, ma atti premeditati e coordinati, avvenuti proprio un giorno prima dell’anniversario della Notte dei Cristalli, il 9 e 10 novembre 1938. Come riporta la Jüdische Allgemeine, dalle chat esaminate dal britannico Telegraph, emerge che la violenza è stata pianificata. In un gruppo chiamato “Buurthuis” (centro comunitario di quartiere), i partecipanti si sono organizzati per avviare una vera “caccia agli ebrei”. Ma quali i numeri oggi di una preoccupante escalation? In Francia, gli episodi antisemiti sono triplicati; in Austria, quadruplicati; nei Paesi Bassi, sono otto volte più numerosi rispetto all’anno scorso. Stanchi di dover sempre chiedere protezione, i leader delle comunità ebraiche di tutta Europa alzano la voce: non bastano polizia e telecamere. Serve cambiare il linguaggio, spezzare la catena di ignoranza e pregiudizi che alimenta questo clima. «L’antisemitismo non si combatte solo con la sicurezza. Va combattuto nelle scuole, nelle famiglie, nei media -, ha detto un portavoce della comunità ebraica parigina. – Non possiamo accettare tutto questo in silenzio». L’Unione Europea nel frattempo ha capito l’urgenza. Lo scorso 14 ottobre, la Commissione ha pubblicato la prima relazione sullo stato di avanzamento della strategia Ue 2021-2030 per la lotta all’antisemitismo e la promozione della vita ebraica. Quasi tutti gli Stati membri hanno avviato piani d’azione specifici e 23 Paesi hanno già una strategia nazionale. Ma per chi vive questa realtà ogni giorno, non è abbastanza. Servono fatti, non solo progetti e parole. Mentre gli scontri scatenano proteste internazionali e rischiano di intensificare ulteriormente la polarizzazione tra comunità, sorgono domande cruciali: l’Europa può davvero proteggere le sue comunità ebraiche? C’è la volontà di intervenire concretamente? E come reagire all’apparato messo in piedi dagli antisemiti? Di seguito, i commenti, le riflessioni e le reazioni dei vari organismi ebraici nei Paesi dell’Europa occidentale e continentale agli eventi drammatici di Amsterdam (fa eccezione il Regno Unito, a cui dedicheremo un approfondimento più avanti).
• OLANDA: clima di paura «I miei genitori sono terrorizzati, io sono terrorizzato – ha urlato un uomo in olandese –. Ho una figlia piccola, cosa si farà, accidenti?». Un anziano ebreo avvolto in un cappotto invernale ha risposto con tono deciso: «Niente, assolutamente niente. Dal massacro del 7 ottobre in Israele, niente». Questi scambi, avvenuti dopo una notte da incubo, riflettono il clima di paura che ha pervaso la comunità ebraica di Amsterdam. Il venerdì successivo alla partita, i membri di questa comunità (che conta circa 15.000 iscritti) si sono confrontati con il vicesindaco della città, chiedendo risposte per non aver impedito i violenti attacchi ai tifosi israeliani. Nel frattempo, la Dutch Organization for Central Jewish Consultation (CJO) ha sollecitato l’adozione di misure urgenti per garantire la sicurezza degli ebrei nei Paesi Bassi e in tutta Europa. Hans Weijel, vicepresidente della CJO, ha affermato che «la comunità ebraica non può essere ritenuta responsabile per le azioni di Israele» e ha sottolineato come la guerra in Medio Oriente stia alimentando la crescente tensione ad Amsterdam, dove, fino all’escalation recente, le comunità ebraica e musulmana vivevano in relativa armonia. «La gente sta diventando sempre più spaventata, altre persone stanno diventando più aggressive e antimusulmane – ha affermato Weijel –. Il governo ha addirittura inviato più polizia nelle sinagoghe e nelle scuole ebraiche, perché la gente ha paura». Secondo un rapporto della Anti-Defamation League (ADL), tra ottobre e dicembre 2023 gli atti di antisemitismo nei Paesi Bassi sono aumentati dell’818% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, confermando una preoccupante tendenza globale. Come riportato da Euronews, Daniella Coronel, una volontaria ebrea olandese presso l’associazione sportiva ebraica Maccabi, ha espresso il suo timore per il crescente antisemitismo nel Paese: «È la prima volta nella mia vita che, come ebrei, sentiamo il bisogno di nascondere la nostra identità». Coronel, che è anche figlia di un membro storico del consiglio di amministrazione dell’Ajax Amsterdam, ha descritto la sua esperienza nell’aiutare i tifosi del Maccabi a trovare rifugio in centri e alberghi prima del loro ritorno in Israele. Tuttavia, non tutti sono d’accordo con l’uso del termine “pogrom” per descrivere gli attacchi. Jair Stranders, membro del consiglio di amministrazione dell’Associazione ebraica progressista di Amsterdam e consigliere comunale, ha osservato che tale terminologia è stata strumentalizzata da alcuni leader per polarizzare ulteriormente le comunità. «La polarizzazione fa parte della democrazia – , ha dichiarato Stranders, – ma i problemi sorgono quando diventa un’arma».
• BELGIO: incitamento all’odio «C’è un aumento importante dell’odio, dell’incitamento alla violenza e della violenza stessa. Un rischio che va preso molto sul serio perché nella società si sta sviluppando una polarizzazione estrema, con un’attività indefessa degli ambienti islamisti, che sono estremamente presenti, sempre più violenti, e che possono passare all’azione. E il fattore dell’emulazione non è da sottovalutare». Queste le parole rilasciate da Yves Oschinsky, presidente del CCOJB (Comitato di coordinamento Organizzazioni ebraiche del Belgio), Paese “cugino” dei Paesi Bassi, con cui confina, e nazione dove la grande presenza di musulmani estremisti è da anni al centro dell’attualità: basta ricordare che Mohammed Salah, uno degli attentatori del 13 novembre 2015 a Parigi, proveniva da Mollenbeek, comune della città di Bruxelles a maggioranza musulmana, e lì era stato trovato nascosto in casa di amici dopo mesi di ricerche. Non è un caso, del resto, che subito dopo i fatti di Amsterdam ad Anversa siano state arrestate cinque persone accusate di stare organizzando sui social una “caccia all’ebreo” come quella nei Paesi Bassi. «Ma anche a Bruxelles la situazione non è affatto tranquilla – ha spiegato Oschinsky in un’intervista a Radio Judaica (la radio ebraica del Belgio) -: qui l ’università Popolare, creata all’interno dell’ Università ULB l’anno scorso, ha pubblicato un comunicato di solidarietà ai loro ‘compagni’ olandesi in cui si dice che i sionisti non sono i benvenuti nelle strade di tutta l’Europa e proclamano il loro impegno nella mondializzazione dell’intifada e della Palestina “dal fiume al mare” (e non c’è alcun dubbio di cosa questo significhi detto da loro: l’eliminazione di Israele). E terminano con una frase choc: “no ai sionisti nei nostri quartieri, nessun quartiere per i sionisti”. Spero vivamente che verranno prese delle misure severe, sia dalla polizia che dalle stesse autorità accademiche, perché si tratta di volere riproporre a Bruxelles attacchi e linciaggi contro gli ebrei, a imitazione di Amsterdam».
• FRANCIA: ansia alle stelle All’indomani dell’attacco ad Amsterdam ai tifosi israeliani e la caccia all’ebreo, Yonathan Arfi, il Presidente del Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, ha denunciato il “linciaggio di massa”, ma anche espresso la sua “preoccupazione” per l’incontro di calcio a Parigi, la partita fra Francia e Israele disputata a metà novembre: un evento che ha visto la vendita ridotta di 20.000 posti allo stadio (sugli 80.000 disponibili) e che si è svolto in una città blindata, con 4.000 poliziotti dispiegati e quartieri della città bloccati. «Per principio rifiuto di cedere ai violenti – aveva dichiarato Arfi -. Che esempio daremmo se la partita fosse spostata o annullata? Ciò che conta è prevedere i dispositivi di sicurezza necessaria, anche nelle strade di Parigi. Il linciaggio di Amsterdam non è avvenuto solo davanti allo stadio, ma anche negli alberghi dei tifosi israeliani, che sono stati anche umiliati con dei video davvero biechi. Vengono presi di mira non solo per il conflitto a Gaza, ma anche perché sono ebrei. È l’antisemitismo più triviale che riemerge e che richiama alla mente altre immagini». La preoccupazione del mondo ebraico in Francia è alle stelle, dopo che l’antisemitismo è esploso dall’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023: nei primi sei mesi del 2024, sono stati registrati 887 atti antisemiti, pari ad un aumento del 192% rispetto allo stesso periodo del 2023. Stando ad una nota di ottobre della DNRT, la Direzione nazionale dei servizi di intelligence regionali, che era stata consultata da Le Figaro, il 2024 sarà “un anno record”. La stessa nota conferma che la tendenza “sembra inscriversi sul lungo termine”. Un’inchiesta di Le Monde a settembre aveva a sua volta rivelato che, malgrado la guerra, 1.660 ebrei francesi hanno deciso di fare l’aliyah, tra il 7 ottobre 2023 e il 30 agosto 2024: il 50% in più rispetto allo stesso periodo del 2022-23. Ma anche che sono sempre di più coloro che auspicano di partire: a fine agosto, 5.700 persone avevano aperto la pratica presso l’Agenzia ebraica in Francia, ovvero il 338% in più rispetto al 2023. Mentre al Salone dell’Alyah di Parigi del 17 novembre di quest’anno si sono registrate 2500 iscrizioni: un numero record, motivato dall’esplosione dell’antisemitismo in Europa e in Francia in particolare.
• GERMANIA: allarme violenza antisemita “La folla araba dà la caccia ai tifosi di calcio ad Amsterdam”; “Consiglio centrale inorridito dalle rivolte”; “È scoppiata di nuovo la caccia agli ebrei”: questi alcuni dei titoli comparsi sulle principali testate tedesche all’indomani delle rivolte antisemite nella capitale olandese. Da Charlotte Knobloch, presidente onoraria del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, a numerosi rabbini, intellettuali, opinionisti e scrittori ebrei tedeschi, non si contano le dichiarazioni preoccupate nonché l’indignazione per la crescente intolleranza e violenza contro gli ebrei. La Germania, un Paese che ha affrontato a lungo il peso della sua Storia legata alla Shoah, teme un ritorno dell’antisemitismo, soprattutto tra le nuove generazioni. Il Zentralrat der Juden in Deutschland – il Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, che opera a livello nazionale per promuovere il dialogo con il governo e garantire i diritti e la sicurezza della comunità ebraica – ha espresso il proprio sgomento per gli attacchi subiti dai tifosi israeliani ad Amsterdam. Il presidente del Consiglio, Josef Schuster, ha definito gli eventi “immagini da incubo” in una dichiarazione rilasciata sulla piattaforma X. Ha sottolineato che non si trattava di semplici disordini tra tifoserie, ma di una vera e propria “caccia agli ebrei”. Inoltre, ha avvertito che la violenza antisemita in Europa, soprattutto in occasione di eventi sportivi, sta raggiungendo livelli allarmanti. Schuster ha quindi esortato a prendere molto seriamente questo fenomeno, sottolineando come tutto sia accaduto proprio a ridosso del 9 novembre, anniversario della Kristallnacht (Notte dei Cristalli), giornata in cui si commemorano le violenze antiebraiche avvenute in Germania. A sua volta l’ambasciatore israeliano in Germania, Ron Prosor, ha descritto gli attacchi di Amsterdam come «un terribile pogrom contro ebrei e israeliani». In una dichiarazione rilasciata su X ha sottolineato come i fatti non fossero incidenti isolati ma parte di un’escalation di violenza. Prosor ha aggiunto che «in gran numero, le persone sul suolo europeo vengono violentemente attaccate dai rivoltosi musulmani e palestinesi semplicemente perché sono ebrei». Ha inoltre elogiato il Bundestag tedesco per la recente risoluzione contro l’antisemitismo, definendola un «impegno risoluto» per affrontare un «fenomeno disgustoso e preoccupante» e ribadendo che è giunto il momento per tutti i governi e parlamenti europei di assumere posizioni altrettanto ferme garantendo che il “Mai più!” sia «adesso!».
• AUSTRIA: in aumento le minacce online In Austria, attacchi antisemiti come ad Amsterdam non si sono ancora fortunatamente verificati. Tuttavia il clima sta cambiando. Dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, il numero di incidenti antiebraici è aumentato, riportando alla luce un risentimento che in Austria ha radici profonde nella Storia. Un risentimento che, sommato all’odio di matrice islamica, crea alleanze pericolose e un’atmosfera di crescente tensione. La Israelitische Kultusgemeinde Wien (IKG), principale organizzazione ebraica austriaca, ha lanciato un grido d’allarme: «La rabbia contro gli ebrei non è più un fenomeno di nicchia, ma sta permeando la società», avverte Benjamin Nägele, segretario generale. Il fenomeno più diffuso? L’antisemitismo legato a Israele, che Nägele definisce «disinibito». Le cifre parlano chiaro: nei primi sei mesi del 2024, gli attacchi fisici segnalati sono passati da 6 a 16, le minacce da 4 a 22. I danni a beni di proprietà ebraica sono raddoppiati, toccando quota 92. Soprattutto, le minacce online sono in costante aumento. Un’escalation che le autorità, pur avendo inasprito la legislazione contro i crimini d’odio, non sembrano riuscire a contenere. L’atmosfera è pesante: nei luoghi pubblici, nelle scuole e nei campus universitari gli episodi di antisemitismo si moltiplicano, creando un clima di paura, specie tra i giovani. Oskar Deutsch, presidente dell’IKG, lancia un monito: «Non possiamo permettere che l’antisemitismo diventi normalità. L’effetto di assuefazione è il pericolo più grande». E la percezione non mente. Uno sportello per le segnalazioni di atti antisemiti ha registrato un aumento di cinque volte rispetto al passato, mentre i discorsi d’odio si moltiplicano. Nel frattempo, un sondaggio IFES e Demox Research rivela che il 60% dei giovani austriaci condanna l’attacco di Hamas come «un atto di terrorismo spregevole», ma solo un terzo giudica giustificata la reazione di Israele. Come se non bastasse, tra negazionisti e banalizzatori, il solito refrain si fa strada: «Non è antisemitismo, è colpa degli israeliani». Una narrazione tossica che alimenta ulteriormente il ciclo dell’odio.
• SVIZZERA: polarizzazione pericolosa Anche la Svizzera, a lungo considerata un rifugio sicuro per le comunità ebraiche europee, non è più immune dall’onda crescente di antisemitismo che attraversa l’Europa. «La confusione tra antisemitismo e critiche alla politica israeliana è ormai un problema comune a molti paesi», aveva già sottolineato Micaela Goren Monti, presidente di una fondazione ebraica di Lugano. Narrazioni mediatiche sbilanciate, che spesso ignorano le sofferenze israeliane, stanno alimentando una polarizzazione pericolosa. Jonathan Kreutner, segretario generale della Federazione delle Comunità Israelite Svizzere (FCSI), ha dichiarato che anche in Svizzera si è registrato un aumento di aggressioni e minacce, seppur meno intense rispetto a episodi come quelli nei Paesi Bassi. «Le sinagoghe e le scuole sono sotto stretto controllo delle forze di polizia, ma il clima di paura nella comunità è palpabile», ha affermato un portavoce della FCSI. Secondo un rapporto della Federazione, gli attacchi antisemiti nel Paese sono aumentati significativamente, con un picco di 150 casi al mese dopo ottobre. Episodi gravi, come le vetrate infrante della sinagoga di La Chaux-de-Fonds o minacce dirette a istituzioni ebraiche, hanno costretto il governo a rafforzare la sicurezza, specialmente nelle grandi città come Zurigo e Ginevra. Tuttavia, il fenomeno non è solo fisico. La crescente ostilità online preoccupa profondamente: sui social media, messaggi di odio si diffondono senza controllo, contribuendo a un clima sempre più avvelenato. Secondo il Coordinamento intercomunitario contro l’antisemitismo, eventi come quelli di Amsterdam creano un effetto domino: l’odio si propaga e colpisce le comunità, ovunque si trovino. Anche le comunità ebraiche della Scandinavia – Danimarca, Svezia e Norvegia – sono sempre più preoccupate per l’inasprirsi dell’antisemitismo nell’era post-Amsterdam. Sebbene non siano emerse dichiarazioni ufficiali specifiche da parte delle autorità ebraiche, le reazioni generali evidenziano un clima di crescente allarme. L’antisemitismo sembra aver raggiunto livelli mai visti dalla Seconda guerra mondiale. I dati successivi al 7 ottobre 2023, aggravati dagli scontri di Amsterdam, dipingono un quadro fosco: la retorica antisemita si mescola con le tensioni geopolitiche del Medio Oriente, creando un terreno fertile per l’odio. Le comunità ebraiche hanno chiesto misure di sicurezza più rigide e un impegno politico più deciso per distinguere tra critica legittima a Israele e antisemitismo, evitando che i due ambiti vengano confusi. In Scandinavia vivono circa 30.000 ebrei, una minoranza esigua rispetto alla popolazione musulmana, che supera i 1,3 milioni. In Svezia, con 14.900 ebrei e circa 810.000 musulmani, il rapporto è di uno a 54; in Danimarca, dove gli ebrei sono 6.400 e i musulmani 320.000, uno a 50; in Norvegia, la seconda comunità ebraica più piccola della Scandinavia dopo l’Islanda, con circa 1.200 membri e 180.000 musulmani, il rapporto è uno a 150. Sebbene questi numeri non riflettano conflitti diretti, il quadro demografico evidenzia una coesistenza che nasconde tensioni profonde. Secondo stime di fonti come il Pew Research Center e l’European Jewish Congress, la relativa esiguità della popolazione ebraica, rispetto alla più ampia presenza musulmana nei tre Paesi, contribuisce a questa dinamica di tensione. In Norvegia, l’antisemitismo si manifesta principalmente in modo episodico, ma l’aumento dell’antisionismo ha spinto la comunità ebraica di Oslo a rafforzare la sicurezza, con sinagoghe protette e vigilanza costante. Il governo norvegese ha promesso maggiori fondi per combattere l’antisemitismo, inclusi finanziamenti per centri culturali ebraici e l’addestramento della polizia. In Svezia, episodi di antisemitismo sono frequenti, specialmente a Malmö, dove la comunità ebraica locale, già in declino, ha messo in guardia sul rischio di estinzione senza misure adeguate. È urgente garantire protezioni più forti e adottare azioni governative concrete per fermare la crescente ostilità. In Danimarca, personalità di spicco della comunità, come Martin Krasnik, direttore del quotidiano Weekendavisen, hanno denunciato la normalizzazione delle misure di protezione, come il filo spinato attorno a scuole e sinagoghe, come sintomo di un malessere sociale più profondo. Nonostante l’aumento della presenza della polizia, persiste la preoccupazione che l’odio stia diventando parte integrante della società.
(Bet Magazine Mosaico, 28 novembre 2024)
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“Noi veniamo al Quirinale, lei c’è?”: Mattarella sorprende gli alunni della “Vittorio Polacco”
di Luca Spizzichino
Quella che doveva essere una normale visita al Quirinale si è trasformata in un incontro speciale con il Presidente della Repubblica. Tutto è iniziato con Samuel, un alunno di Quinta della Scuola Ebraica Elementare “Vittorio Polacco”, che ha deciso, pochi giorni prima della visita, di scrivere direttamente al Presidente Sergio Mattarella tramite il sito ufficiale del Quirinale. “Gli ho scritto che il 27 saremmo andati al Quirinale con la classe e mi avrebbe fatto tanto piacere incontrarlo” ha raccontato Samuel. Inizialmente il bambino non pensava che avrebbe ricevuto risposta, ma non si è scoraggiato e, saputo che il Presidente era rientrato da un viaggio ufficiale in Cina, gli ha scritto nuovamente.
“Sapevamo che Samuel, di sua sponte, aveva scritto al Capo dello Stato. Non pensavamo realmente che avremmo avuto riscontro e invece poco prima della visita è arrivata la telefonata del Quirinale, in cui ci hanno detto che il Presidente ci avrebbe ricevuto” ha raccontato Roberta Spizzichino, direttrice della scuola.
“Ci hanno chiesto di posticipare l’orario della gita perché il Presidente aveva letto le email di Samuel e voleva incontrarlo” ha spiegato la morà Giordana Terracina, madre di Samuel e referente scolastica per le uscite. “Non ce lo aspettavamo. È stata una sorpresa meravigliosa”.
I bambini, ignari di tutto, hanno scoperto solo pochi minuti prima che avrebbero incontrato il Presidente in persona. “Non volevamo dirglielo subito, nel caso ci fossero stati imprevisti i bambini sarebbero rimasti delusi” ha aggiunto Roberta Spizzichino. Durante la visita, mentre percorrevano le magnifiche sale del Quirinale, la guida ha iniziato a ricevere aggiornamenti sul momento tanto atteso. Infine, i bambini sono stati fatti entrare in una lunga sala, disposti in fila e preparati all’arrivo del Presidente.
Quando Mattarella è entrato, si è subito rivolto a Samuel, riconoscendolo come l’autore delle email. “Sei tu Samuel che mi ha scritto la mail?”, gli ha chiesto stringendogli la mano. Dopo aver salutato tutti i bambini, Mattarella ha chiesto loro quali fossero le parti del Quirinale che avevano apprezzato di più. Alcuni hanno menzionato la Sala degli Specchi, altri la Sala del Ballo o i maestosi lampadari. Il Presidente ha poi posato per una foto di gruppo, regalando un ricordo che difficilmente dimenticheranno. Nonostante la brevità dell’incontro, il calore e la semplicità di Mattarella hanno conquistato tutti, bambini e adulti.
“È stato un momento molto bello. – ha commentato la direttrice – Il Presidente Mattarella ha stretto la mano a tutti, uno per uno, e ha parlato con loro. Li ha fatti sentire importanti, perché lo sono”. “È stato bellissimo vedere i bambini così emozionati e composti, questa esperienza la ricorderanno per sempre”.
Samuel, intanto, conserva gelosamente il ricordo del suo incontro: “Il Presidente mi ha stretto la mano e io questa mano non la lavo più!” ha detto con entusiasmo.
(Shalom, 28 novembre 2024)
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Dopo la tregua ipotesi immunità per Bibi. E Israele annuncia: ricorso contro la Cpi
Per Tajani l'ordine "inapplicabile" finché è in carica. Le indiscrezioni su uno scambio di favori con Parigi.
di Francesco De Remigis
Scattata la tregua sul campo, al tacer delle armi si scatena la giurisprudenza. E fioccano i distinguo sul «caso Bibi». Il premier israeliano colpito da mandato d'arresto internazionale emesso dalla Corte penale dell'Aia per presunti crimini di guerra a Gaza ieri è passato al contrattacco. «Emissione priva di qualsiasi base fattuale o legale», fa sapere il suo ufficio politico, annunciando sul filo di lana il ricorso per confutare sia il provvedimento che prende di mira il ministro della Difesa Gallant sia quello relativo al premier stesso.
Almeno finché è in carica, sostiene il ministro degli Esteri Tajani, per Netanyahu il mandato d'arresto è inapplicabile. Ieri al question time Tajani ha infatti chiarito che il governo italiano sta esaminando «in dettaglio» le motivazioni della sentenza. Pur riconoscendo l'autorità della Cpi, parla di «approfondimenti giuridici» in corso in relazione alla prevalenza del diritto internazionale generale sulle immunità. Uno stand-by di fatto che congela le certezze di chi in Europa avrebbe forse voluto vedere il leader israeliano già con le manette ai polsi, a partire dall'Alto rappresentante Ue Borrell, per cui ottemperare al mandato d'arresto «non è qualcosa che si può scegliere»; almeno non nei 124 Paesi che riconoscono l'autorità della Cpi.
Invece anche la Francia ieri ha rispedito al mittente il messaggio del «governo» uscente dell'Ue. Ricalibrando le iniziali aperture all'arresto, il ministro degli Esteri transalpino Barrot ha spiegato che ci sono «immunità» previste dal diritto internazionale riguardo a Stati «che non fanno parte della Corte». E visto che Israele non ha ratificato lo Statuto (come neppure gli Usa) «Bibi» potrebbe essere dunque esentato dall'esecuzione del provvedimento. Parigi coopera con la Cpi, ha detto Barrot, ma «per certi leader» la decisione spetta all'autorità giudiziaria nazionale.
Giravolta d'Oltralpe, che svela l'esito del confronto al G7 Esteri: a Fiuggi, su input italiano, è emerso che una cosa è onorare il Trattato di Roma, altro è dare la stura a odiatori e toghe che mettono sullo stesso piano la leadership terrorista di Hamas con quella democraticamente eletta di Israele. Tassello non secondario nel domino mediorientale è stata però la decisione di Netanyahu di accettare una tregua con Hezbollah e il graduale ritiro dal Libano del sud. Un passaggio che ha fatto girare la ruota della politica, in attesa che quella della giustizia faccia il suo corso. Per il quotidiano Haaretz, Israele avrebbe infatti condizionato il coinvolgimento della Francia nell'accordo di cessate il fuoco nel Paese dei Cedri proprio all'annuncio pubblico di Parigi sul salvacondotto per Bibi.
Pragmatismo e realpolitik, a cui si aggrappa anche Berlino. La richiesta di manette per Netanyahu, riassume Tajani, rischia di restare solamente «un messaggio politico», perché in un momento di estrema tensione a Gaza e in Libano «occorre perseguire obiettivi realistici che favoriscano dialogo e de-escalation».
L'enigma Bibi si innesta così in un puzzle in cui ogni nazione mette in campo sfaccettature diplomatiche per non essere spettatrice; con Parigi alla disperata ricerca di centralità, in una fase che dovrebbe congelare il conflitto tra Tel Aviv e i miliziani filo-iraniani fino all'insediamento di Trump alla Casa Bianca. Per la premier Meloni, che invita a lavorare alla stabilizzazione del confine israelo-libanese, la tregua è infatti solo «un punto di partenza».
(il Giornale, 28 novembre 2024)
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Il jihad giudiziale della CPI
di Davide Cavaliere
La Corte penale internazionale (CPI), una delle tante istituzioni multinazionali che compongono «l’ordine internazionale basato sulle regole», ha emesso mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, nonché per un leader di Hamas eliminato a luglio.
Questo atto di «solidarietà» verso la Palestina ci dimostra, ancora una volta, che l’idealismo inetto delle istituzioni «sovranazionali» dell’Occidente ha raggiunto la piena bancarotta morale e intellettuale.
La CPI esiste in virtù di un trattato multinazionale e ha giurisdizione solo sui rappresentanti degli Stati che vi partecipano. Pertanto, come fanno i membri di Hamas, un’organizzazione terroristica a cui Israele ha consegnato la Striscia di Gaza nel 2005, a rientrare nella giurisdizione della CPI o su uno Stato che non ha ratificato lo Statuto di Roma come Israele?
Inoltre, la CPI ha avviato il suo procedimento per conto di uno Stato inventato dalla Corte stessa, il cosiddetto «Stato di Palestina». Come spiega il Wall Street Journal, questo fatto implica che essa «ritiene che i confini dello Stato includano Gaza», che dal 2007 non è sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’unico organismo di autogoverno palestinese ufficialmente riconosciuto.
Poi, i crimini denunciati dalla Corte sono inesistenti. Israele non sta infliggendo un genocidio agli arabi-palestinesi, si tratta di una spudorata bugia, come non è credibile l’accusa secondo cui l’IDF starebbe «intenzionalmente dirigendo attacchi contro una popolazione civile». Nessun esercito nella storia, che combatta una guerriglia in una zona così densamente popolata, ha mai mostrato tanta preoccupazione per le vite dei civili come quello israeliano. Anzi, gli scrupoli umanitari dello Stato ebraico hanno rallentato le operazioni belliche.
Come ha sottolineato sempre il WSJ, a marzo, «Israele non ha bisogno di essere sollecitato a fornire aiuti umanitari o ad agire con cautela. Secondo il colonnello britannico in pensione Richard Kemp, il rapporto medio di morti tra combattenti e civili a Gaza è di circa 1 a 1,5. Ciò è sorprendente poiché, secondo le Nazioni Unite, il rapporto medio di morti tra combattenti e civili nella guerra urbana è stato di 1 a 9».
La CPI, come l’ONU e le sue numerose agenzie, è uno degli strumenti del jihad giuridico contro Israele, che abusa della sua giurisdizione per delegittimare e demonizzare lo Stato ebraico, tentando di porlo in una condizione di «apartheid» internazionale.
Un’altra sfacciata menzogna della Corte riguarda l’accusa secondo cui Israele stia deliberatamente usando la fame come arma. Un’accusa assurda. Israele ha facilitato il passaggio di oltre 57.000 camion per oltre 1,1 milioni di tonnellate di aiuti alimentari. Il tutto, nonostante i massicci furti operati da Hamas. I blocchi e i rallentamenti sono stati necessari per evitare che i terroristi si rifornissero mediante tali furti. Il diritto internazionale non prevede che un belligerante fornisca sostentamento all’altro.
Il mandato di cattura emesso contro Netanyahu e Gallant rappresenta però l’ultimo rantolo di un’istituzione moribonda. Con l’insediamento di Donald Trump, la CPI dovrà affrontare sanzioni ancora più punitive di quelle del 2020, annullate quasi immediatamente da Biden. L’idea è quella di tagliare fuori dal sistema bancario statunitense i funzionari della Corte. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha parlato di «sanzioni infernali».
Lo spregevole jihad giudiziale della CPI contro Israele dimostra, ancora una volta, il fallimento del magico «ordine internazionale basato sulle regole», che privilegia trattati, accordi, leggi, patti, diplomazia e trattati multinazionali, e i sogni febbrili dei globalisti che pretendono d’incarnarlo.
La politica estera ossessionata da «norme» e «regole» non solo non è stata in grado, come nel caso del conflitto russo-ucraino, di arrestare l’uso della forza da parte di coloro che non si fanno scrupoli a impiegarla, ma è diventata uno strumento in mano a organizzazioni terroristiche e Stati canaglia per ostacolare le democrazie in lotta per la loro sopravvivenza.
I tutori del «diritto internazionale» non trovano mai il tempo per indagare sui crimini e le violazioni compiute dalla Russia o dalla Turchia, dall’Iran o dalla Cina, preferendo concentrarsi ossessivamente su Israele e, talvolta, sugli Stati Uniti.
La convinzione che ci sia una «armonia di interessi» globale, una sorta di partecipazione collettiva a principi universali, che possano costituire la base per un solido diritto internazionale è, nella migliore delle ipotesi, ingenua, nella peggiore, demenziale. La politica interna ed estera è guidata da obiettivi politici, interessi nazionali e di sicurezza di ogni singolo Paese.
La giustizia, quindi, raramente se non mai, è un fattore determinante, nell’elaborazione delle politiche o delle sentenze, che funzionano come camuffamento per perseguire interessi particolari. La CPI non fa eccezione. Come ha scritto Robert Bork, ex Avvocato generale degli Stati Uniti, «il diritto internazionale non è diritto ma politica».
Istituzioni come la CPI illustrano il punto sottolineato da Bork. Il loro scopo non è garantire una qualche forma di giustizia, ma servire il «nuovo ordine mondiale» globalista che disprezza le nazioni gelose della loro sovranità come gli Stati Uniti, Israele o la Polonia, oltreché promuovere il revanscismo dei popoli arabo-musulmani contro l’Occidente.
È arrivato il momento di ripensare l’attuale ordinamento internazionale, con le sue Corti e le sue agenzie manipolate da fiancheggiatori del terrorismo. Imporre loro «sanzioni infernali» sarebbe già un buon punto di partenza.
(L'informale, 28 novembre 2024)
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La rabbia di Hamas per l’accordo tra Israele e Hezbollah
Irritati perché Hezbollah ha reciso il collegamento con la guerra a Gaza. Ma anche loro cercano un accordo.
di Sarah G. Frankl
I superstiti della leadership di Hamas nella Striscia di Gaza esprimono rabbia nei confronti di Hezbollah, che ha accettato di recidere il collegamento tra il fronte settentrionale e il fronte della Striscia di Gaza. Residenti nella Striscia di Gaza che hanno parlato con elementi di Hamas riportano di aver sentito che l’organizzazione è delusa dalla posizione di Sheikh Naim Qassem, segretario generale di Hezbollah e che – secondo Hamas – se Hassan Nasrallah fosse rimasto in vita, non avrebbe mai accettato la rottura del collegamento tra il Libano e la Striscia di Gaza. Un funzionario di Hamas ha detto ieri sera al quotidiano del Qatar “Al Arabi” che l’organizzazione rifiuta qualsiasi accordo che non includa le condizioni poste dalla resistenza, e che l’organizzazione non cederà alle pressioni per legittimare l’occupazione israeliana. Ha detto che l’accordo di cessate il fuoco in Libano non cambierà la posizione di Hamas, né la farà allontanare dalle condizioni fissate in passato. Il giornale ha anche riferito che una delegazione della sicurezza egiziana si recherà in Israele per discutere la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, nonché proposte per il “giorno dopo” la guerra nella Striscia di Gaza. L’agenzia francese AFP ha citato una fonte importante di Hamas che ha affermato: “Siamo pronti per un accordo a Gaza dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah”.
(Rights Reporter, 27 novembre 2024)
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L’accordo di tregua in Libano, le sue ragioni e le sue conseguenze
di Ugo Volli
• IL CESSATE IL FUOCO
Dopo un ultimo scambio di missili di Hezbollah contro il territorio israeliano e di bombardamenti israeliani sulle forze terroriste, è iniziata stamattina alle 4 la tregua sul fronte settentrionale della guerra, negoziata fra Israele e Libano con la mediazione (di più: la forte pressione) del governo americano. I termini del cessate il fuoco sono chiari: la tregua vale per 60 giorni, ma potrebbe essere rinnovata: Hezbollah ritirerà le armi e i combattenti che le restano al di là del fiume Litani, una dozzina di chilometri al nord del confine, già raggiunto dalle forze armate israeliane, con la proibizione di riportarle oltre il fiume; nello spazio fra questa linea e il confine internazionale l’esercito israeliano si ritirerà progressivamente e sarà sostituito da quello libanese e da Unifil (le forze dell’Onu) che avranno il mandato esplicito di impedire il ritorno dei terroristi e la ricostruzione delle strutture per l’attacco a Israele che vi avevano eretto; gli abitanti del nord di Israele e del sud del Libano, che erano stati costretti a sfollare torneranno alle loro case; in caso di violazione dell’accordo Israele avrà diritto all’autodifesa sul territorio libanese.
• I LIMITI DELL’ACCORDO
Sono clausole che soddisfano le richieste iniziali di Israele, cioè la cessazione degli attacchi missilistici di Hezbollah iniziati l’8 ottobre dell’anno scorso; l’applicazione della risoluzione Onu 1701 del 2006, che imponeva appunto lo sgombero dei terroristi fino alla linea del Litani; e il diritto israeliano di intervento in caso di violazione. Non comprendono però la distruzione totale di Hezbollah, che senza dubbio utilizzerà la tregua per riorganizzarsi dopo i durissimi colpi subiti. Per questa ragione gli accordi, almeno stando ai sondaggi, lasciano insoddisfatta la maggioranza degli israeliani, timorosa che prima o poi si riapra la possibilità di un attacco terrorista al nord. La deliberazione governativa svoltasi ieri notte sull’accettazione della tregua porta traccia di questo dissenso, perché in maniera inusuale non è stato unanime ma è finito 12 a 1 con il voto contrario di Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza ed esponente della destra.
• IL DISCORSO DI NETANYAHU
Con un energico discorso televisivo tenuto subito prima di questa votazione, il primo ministro Netanyahu ha rivendicato la decisione, dicendo che essa è un passo per la vittoria, che non conclude la guerra sugli altri fronti, che è una scelta giusta per Israele, che la sua realizzazione concreta dipende da quel che accade sul terreno: “Se Hezbollah cercherà di attaccarci, se si arma e ricostruisce infrastrutture vicino al confine, noi attaccheremo, se lanciano missili e scavano tunnel, noi attaccheremo” ha detto. Netanyahu ha presentato tre ragioni sul “perché della tregua” in Libano. La prima è di potersi “concentrare contro la minaccia iraniana”, che è la “testa della piovra” terrorista, che va tagliata impedendo l’armamento nucleare del regime degli ayatollah. La seconda è la necessità di “rinnovare” e “riarmare” le le formazioni militari, spiegando che “non è un segreto” che vi sono stati “grandi ritardi” nelle forniture di armi. “Presto – ha aggiunto – disporremo di armi sofisticate che ci aiuteranno a proteggere i nostri soldati e ci daranno ancora maggiore forza per completare la nostra missione”. Terza ragione, quella di isolare Hamas, rompendo il nesso fra Gaza e Libano che era il punto essenziale della guerra al nord: “Hamas contava su Hezbollah per combattere insieme ed una volta che Hezbollah è eliminato, Hamas resta solo. La nostra pressione su Hamas crescerà e questo ci aiuterà a portare a casa gli ostaggi”. Netanyahu ha ringraziato Biden per il suo “coinvolgimento” nell’accordo. Biden stesso è intervenuto dalla Casa Bianca vantando come un suo successo le “ buone notizie per il Medio Oriente” costituito dall’accordo “designato per essere una permanente cessazione delle ostilità”.
• LE PRESSIONI AMERICANE
E’ vero che questo accordo è un successo dell’amministrazione americana, che l’ha spinta in tutti i modi. Bisogna sottolineare che i 60 giorni di tregua coincidono con la durata rimanente dell’amministrazione democratica. Come ha spiegato in maniera più esplicita di tutti un altro ministro israeliano di destra, Bezalel Smotrich, si tratta di un periodo estremamente delicato, in cui Biden e i suoi uomini hanno ancora tutti i poteri ma in sostanza non devono rispondere all’elettorato delle loro azioni e possono essere tentati di compiere dei gesti pericolosi per Israele, come fece l’amministrazione Obama sconfitta dalla prima affermazione di Trump, lasciando passare all’Onu una mozione molto negativa per Israele. I primi punti della dichiarazione di Netanyahu corrispondono esattamente a questo problema: da qualche tempo il governo americano non permetteva più il rifornimento di armi e munizioni necessarie per la guerra e non aveva consentito al piano israeliano di eliminare le istallazioni nucleari iraniane. Vi è anche il fatto che l’Iran continua a minacciare Israele di una nuova ondata missilistico negli scambi di rappresaglie con Israele e, per minimizzare il pericolo sulla popolazione civile di Israele, la presenza di forze americane è molto importante; ma nelle ultime settimane, per la prima volta dall’inizio della guerra, gli Usa avevano tolto ogni portaerei con la relativa flotta dalle acque del Medio Oriente. E infine vi sono le votazioni al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove il governo israeliano temeva che Biden lasciasse passare senza veto una risoluzione che imponesse la fine della guerra anche a Gaza, senza la distruzione di Hamas e la liberazione degli ostaggi.
• UNA VITTORIA E LE SUE CONSEGUENZE
Insomma la decisione della tregua col Libano è stata presa tenendo conto dei rapporti con gli Usa, oltre che della situazione sul terreno; l’allontanamento di Hezbollah dal confine, l’impegno a non sparare più su Israele a pena della ripresa della guerra e la fine del legame fra fronte del Libano e fronte di Gaza sono senza dubbio una vittoria: questi erano gli impegni che i suoi dirigenti avevano rifiutato per tutta la durata della guerra e che Israele ha ottenuto non per regalo americano ma conquistandoli sul terreno, “grazie all’eroismo dei soldati e alla resistenza del fronte interno”, come ha detto Netanyahu. Ma soprattutto in questa maniera Israele ha acquistato il tempo necessario a entrare in posizione di vantaggio nel nuovo quadro strategico che sarà determinato dalla presidenza Trump. Ancora una volta Netanyahu ha mostrato di essere il solo leader israeliano capace di andare dove crede giusto per il paese, se è il caso contro la volontà degli americani (come nel caso dell’ingresso a Rafah) ma anche contro l’opinione prevalente nel suo elettorato, come questa volta, rischiando dunque il suo consenso personale per il bene di Israele. Ora restano da liberare i rapiti, da eliminare i residui di Hamas, ma resta soprattutto il problema dell’Iran, che ha perso i suoi principali appoggi contro Israele e vede in prospettiva minacciato il suo armamento atomico. Gli ayatollah prenderanno atto di aver perso la guerra o proveranno a intervenire direttamente?
(Shalom, 27 novembre 2024)
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Tregua fragile in attesa di Trump
La tregua raggiunta tra Israele e Hezbollah, entrata in vigore oggi e fortemente voluta dall’uscente Amministrazione Biden, in base alla quale le forze di Hezbollah si ritireranno completamente dal confine con Israele oltre il fiume Litani, consentendo ai sessantamila sfollati costretti a lasciare le loro abitazioni all’inizio della guerra, il 7 ottobre 2023, di ritornarvi progressivamente, fa perno su una garanzia fondamentale.
La garanzia consiste nella possibilità da parte di Israele di riprendere il conflitto qualora Hezbollah violi i termini della tregua, garanzia fornita dagli Stati Uniti, e senza la quale Netanyahu non avrebbe accettato alcuna tregua.
Come tutte le tregue, anche questa indica che il conflitto non è risolto ma solo momentaneamente sospeso, e la sua sospensione giunge in un momento in cui Israele si trova fortemente in vantaggio sul delegato iraniano in Libano a cui ha assestato una serie di colpi micidiali depotenziando drasticamente la sua capacità offensiva e decapitandone la leadership, eliminando soprattutto quello che per anni è stato il suo simbolo indiscusso, Hassan Nasrallah.
L’obiettivo di Israele non è mai stato, fin dal principio, quello di sradicare Hezbollah dal Libano, al contrario di ciò che si propone di fare a Gaza con Hamas, ma di diminuirne in modo drastico la minaccia, ovvero fiaccare in modo consistente uno dei tentacoli della piovra iraniana.
La tregua prevede che entro sessanta giorni l’esercito israeliano lasci la parte meridionale libanese e che Hezbollah, sotto la supervisione del governo in carica, ottemperi alla Risoluzione 1701, cosa che non ha mai fatto dal 2006 ad oggi.
È chiaro che si tratta di una tregua fragile, la quale, al momento, avvantaggia Hezbollah essendo quest ultimo, tra i due attori bellici, quello che ha sofferto maggiormente, ma ciò nonostante, due mesi sono un arco di tempo troppo breve per riparare anche minimamente ai danni provocati da Israele. Tra due mesi, inoltre, alla Casa Bianca si insedierà di nuovo Donald Trump e con la nuova amministrazione americana Netanyahu sa di potere avere le spalle molto più coperte. È infatti questo il motivo principale per il quale ha accttato la tregua, fare in modo che nel cosiddetto periodo dell'”anatra zoppa”, l’uscente amministrazione non gli assesti un colpo micidiale come fece Obama nel dicembre del 2016 quando non pose il veto americano alla Risoluzione 2334, una della più punitive contro lo Stato ebraico mai licenziate in sede ONU.
(L'informale, 27 novembre 2024)
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Forse Israele sta commettendo un altro errore
Con l'ultimo cessate il fuoco, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deluso soprattutto i suoi elettori.
di Aviel Schneider
Secondo diversi sondaggi diffusi dai media e da vari canali Telegram, la grande maggioranza della popolazione di destra del Paese è contraria al cessate il fuoco. Un commentatore dei media israeliani ha detto in poche parole: “Israele ha sconfitto Hezbollah in modo sanguinoso e ora sta ordinando un'ambulanza per portarli in un lussuoso centro di riabilitazione”. Nessuno dovrebbe concedere alle milizie terroristiche sciite del Libano questa cura e questo soccorso. Per questo molti qui credono che Israele e Benjamin Netanyahu stiano ancora una volta commettendo un errore tattico per soddisfare l'alleato americano. Un cessate il fuoco alla vigilia del KO è stupido, ma sembra che Israele sia stato costretto a farlo. Anche i politici cristiani in Libano sono scontenti e nelle ultime settimane hanno ripetutamente sottolineato che Hezbollah deve essere schiacciato. Gli stessi politici libanesi sono persino apertamente favorevoli alla pace con il vicino meridionale Israele. Ma la risposta è semplice: la massiccia pressione americana. La cosa triste è che il Libano era sull'orlo di una svolta politica strategica, ma gli Stati Uniti hanno perso questo passo per motivi egoistici. È vero che sono stati ottenuti grandi successi strategici sul fronte settentrionale, ma non bisogna dimenticare che c'è una differenza tra sicurezza e sensazione di sicurezza.
• IL GABINETTO APPROVA L'ACCORDO DI CESSATE IL FUOCO CON HEZBOLLAH Martedì sera, dopo settimane di negoziati, il Gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato l'accordo di cessate il fuoco con gli Hezbollah libanesi. La riunione si è svolta presso il quartier generale di Tel Aviv. Dieci ministri hanno votato a favore, mentre il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha votato contro. L'accordo è entrato in vigore alle 4 del mattino. Un comunicato dell'Ufficio del Primo Ministro ha dichiarato: "Il Gabinetto di Sicurezza ha approvato il cessate il fuoco in Libano proposto dagli Stati Uniti con una maggioranza di dieci a uno. Israele apprezza il ruolo degli Stati Uniti nel processo negoziale e si riserva il diritto di agire contro qualsiasi minaccia alla sua sicurezza”. Poco dopo, l'ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha rilasciato un'altra dichiarazione in cui si afferma che Netanyahu ha parlato con il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e lo ha ringraziato per il sostegno americano nel raggiungimento dell'accordo di cessate il fuoco. Ha sottolineato che “Israele mantiene la piena libertà di azione nell'attuazione dell'accordo”. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha espresso la sua disapprovazione in un messaggio sulla Piattaforma X:
“La decisione del gabinetto è un grave errore. Un cessate il fuoco in questo momento non riporterà la popolazione del nord alle proprie case, non scoraggerà Hezbollah e perderà un'opportunità storica per infliggergli un colpo decisivo e metterlo in ginocchio”.
Sono d'accordo con Ben-Gvir, cosa che non mi capita sempre. In un discorso al pubblico israeliano, Netanyahu ha spiegato che la durata del cessate il fuoco dipenderà da ciò che accadrà in Libano. Ha assicurato che Israele reagirà immediatamente se Hezbollah dovesse violare l'accordo: “In pieno coordinamento con gli Stati Uniti, manterremo la nostra libertà d'azione militare. Se Hezbollah viola l'accordo, si riarma, ricostruisce infrastrutture terroristiche vicino al confine o lancia razzi - allora attaccheremo”. Il ritorno dell'esercito libanese nel sud del Paese? Questo non è altro che un autoinganno. L'esercito libanese è sotto il controllo di un governo in cui Hezbollah è una parte centrale della coalizione. È lo stesso esercito che è rimasto inattivo a guardare Hezbollah armarsi e costruire un enorme arsenale di razzi che minacciano la popolazione civile israeliana. Un meccanismo di controllo internazionale? Ricorda troppo i precedenti accordi: impressionanti sulla carta, ma privi di effetti e spesso falliti dopo pochi mesi. Le minacce di Israele non vanno prese sul serio: “ Se Hezbollah rompe gli accordi, la terra brucerà nella terra dei cedri”. La storia dimostra che tutte le minacce di Israele non hanno portato a nulla. Come dopo la seconda guerra del Libano (2006), come dopo il ritiro delle truppe israeliane dal Libano (2000), come dopo il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza (2005) e come non accadrà nulla ora.
Ma per calmare le acque, soprattutto tra i suoi elettori, il primo ministro Netanyahu ha rilasciato ieri sera una dichiarazione stampa in cui ha spiegato le ragioni del cessate il fuoco con le milizie terroristiche sciite. Ha assicurato che l'esercito israeliano avrebbe attaccato di nuovo se l'accordo fosse stato violato. Netanyahu ha giustificato la sua decisione principalmente con il fatto che si sono verificati forti ritardi nella consegna di armi ed equipaggiamenti. “Questi ritardi saranno presto risolti e Israele si doterà di armi avanzate che proteggeranno la vita dei soldati e forniranno una potenza di fuoco aggiuntiva per svolgere le missioni”. Un altro punto è la separazione dei fronti di conflitto e l'isolamento di Hamas. “Dal secondo giorno di guerra, Hamas ha fatto affidamento su Hezbollah per combattere al suo fianco. Quando Hezbollah è fuori dai giochi, Hamas è da solo a combattere”, ha detto Netanyahu. L'aumento della pressione su Hamas contribuirà alla santa missione di liberare gli ostaggi”. Netanyahu ha sottolineato il danno che è già stato fatto a Hezbollah: “Hezbollah ci ha attaccato l'8 ottobre. Un anno dopo non è più la stessa organizzazione. L'abbiamo riportata indietro di decenni. Abbiamo eliminato Nasrallah, il cuore della sua leadership. Abbiamo ucciso i suoi comandanti di alto livello, distrutto la maggior parte dei suoi razzi e missili, eliminato migliaia di combattenti e distrutto l'infrastruttura sotterranea costruita negli anni al nostro confine. Sono stati colpiti obiettivi strategici in tutto il Libano e sono state distrutte decine di torri terroristiche a Dahieh. La terra a Beirut sta tremando”. Netanyahu ha sottolineato tutto questo per rassicurare i suoi elettori di destra, insoddisfatti del cessate il fuoco. Lui e il suo governo devono insistere su di esso:
- Una zona di sicurezza smilitarizzata (No Man's Land) nel sud del Libano. Diversi chilometri a nord del confine israeliano, senza alcuna presenza civile. In questo modo sarebbe chiaro che questo è il prezzo per l'aggressione di Hezbollah. Questa zona verrebbe fatta rispettare dall'aviazione israeliana per evitare che i villaggi vengano usati come nascondigli per i combattenti di Hezbollah - perché questi villaggi semplicemente non esistono più.
- Gli Hezbollah si ritirano a nord del fiume Litani e fuori dalla portata dei missili anticarro. La striscia del Litani da sola è troppo stretta. È necessario creare un ampio corridoio di sicurezza per evitare una minaccia permanente per Israele.
- Piena libertà d'azione per Israele. Israele deve mantenere il diritto di combattere qualsiasi minaccia in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, soprattutto se i meccanismi di controllo internazionali non sono in grado di prevenire il contrabbando di armi. In definitiva, Israele deve poter contare su se stesso.
- Sanzioni internazionali contro Hezbollah nel suo complesso, compreso il suo braccio politico. L'obiettivo è quello di prosciugare le fonti finanziarie dell'organizzazione. Si tratta di un prerequisito necessario per liberare il Libano dalla morsa dell'Iran e per far sì che, a lungo termine, il Paese torni a essere la “Svizzera del Medio Oriente”, anziché la “bocca dell'inferno del Medio Oriente” in cui Hezbollah e l'Iran lo hanno trasformato.
• DELUSIONE NEL NORD
Nel corso di una discussione con i rappresentanti delle comunità del nord, caratterizzata da litigi e discussioni ad alta voce, Netanyahu ha spiegato che al momento non esiste un piano per consentire ai residenti del nord di tornare alle loro case, poiché l'accordo è limitato a soli 60 giorni. “Sono tornato a casa molto pessimista”, ha detto uno dei leader della comunità che ha partecipato all'incontro con Netanyahu. I leader della comunità hanno criticato aspramente l'accordo e i toni sono stati tesi. Netanyahu, da parte sua, è rimasto calmo, anche se le parole sono state taglienti e sgradevoli. Moshe Davidovitz, presidente del Consiglio regionale di Mateh Asher, nel nord, e presidente del Frontline Forum, ha criticato Netanyahu: "Ci sembra di essere in un teatro dell'assurdo e che la partita a dadi sia già stata decisa. Non avevate alcuna intenzione di invitarci. Per fortuna ci sono il suo direttore generale e i ministri del suo governo che le hanno detto che noi rappresentiamo i residenti della Galilea. Non ci avete consultato, non avete avuto alcuna intenzione di spiegarci cosa stava realmente accadendo. I nostri residenti sono stati abbandonati. I nostri residenti non possono tornare alle loro case in sicurezza, come avete promesso ai media. Di quale 'sicurezza' state parlando?”.
(Israel Heute, 27 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’analista Jed Babbin: “L’ONU è l’ancella dei terroristi”
di Nathan Greppi
Dopo il 7 ottobre 2023, l’ostilità delle Nazioni Unite e di altri organismi internazionali nei confronti d’Israele è diventata sempre più evidente: l’hanno dimostrato prima le parole del segretario dell’ONU Antonio Guterres volte a giustificare gli eccidi compiuti da Hamas, poi lo scandalo sui dipendenti UNRWA che hanno preso parte agli attacchi, e più di recente il mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale nei confronti di Netanyahu e Gallant. Non tutti gli esperti sono rimasti sorpresi di fronte a questo scenario. Chi aveva già previsto in tempi non sospetti la deriva antisraeliana e antioccidentale che l’ONU avrebbe preso nel lungo periodo, e ha dedicato a questo tema il suo libro del 2004 Inside the Asylum, è l’analista americano Jed Babbin: avvocato ed ex-ufficiale dell’aeronautica, dal 1990 al 1991 è stato vice-sottosegretario alla difesa, sotto la presidenza di George H. W. Bush. Oggi scrive articoli sui temi della difesa e degli affari esteri per The Washington Times e The American Spectator.
- Già vent’anni fa, lei ha criticato l’atteggiamento delle Nazioni Unite verso il terrorismo e l’Occidente. Dopo quello che è successo dal 7 ottobre in avanti, come giudica l’operato dell’ONU nei confronti di Israele e Hamas? Come lei ha sottolineato, il comportamento dell’ONU e il ruolo dell’UNRWA nel sostenere il terrorismo sono notizie vecchie. Terroristi di vario genere vengono tollerati dall’ONU e assunti dall’UNRWA. Il comportamento di queste due organizzazioni le rende entrambe complici degli attacchi del 7 ottobre 2023, che hanno portato all’uccisione di più di 1.200 israeliani e cittadini di altre nazioni, tra cui 32 americani. L’ONU dovrebbe essere condannata fermamente per questo. Nel libro Inside the Asylum, ho anche dimostrato come l’ONU ha permesso a Hezbollah di sventolare la sua bandiera accanto alla propria in un avamposto sul confine israelo-libanese. L’ONU è l’ancella dei terroristi che minacciano Israele.
- Alcune delle recenti nomine di Donald Trump per la sua nuova amministrazione, come Mike Waltz ed Elise Stefanik, hanno aspramente criticato l’atteggiamento delle Nazioni Unite nei confronti di Israele. Come pensa che cambierà la politica degli Stati Uniti per quanto riguarda l’ONU dopo il 20 gennaio 2025? Spero che gli Stati Uniti esercitino pressioni molto dure sull’ONU affinché interrompa i suoi legami con i gruppi terroristici. Spero anche che ridurremo drasticamente i contributi americani all’ONU, che probabilmente superano i 7 miliardi di dollari all’anno. La cifra esatta è difficile da determinare, perché i contributi sono dispersi tra le varie quote, le missioni di pace e i contributi a vari comitati delle Nazioni Unite e ad altre operazioni. Ma in ogni caso, dovrebbero essere ridotti drasticamente.
- Lei ha fatto parte dell’amministrazione di Bush Sr. Negli ultimi decenni, quali sono stati i cambiamenti più significativi nelle amministrazioni repubblicane e democratiche per quanto riguarda Israele? Da parte repubblicana, non c’è stato un cambiamento significativo. I repubblicani, almeno fino ai Bush padre e figlio, sono sempre stati buoni alleati di Israele. Trump ha fatto un ulteriore passo in avanti, e probabilmente è stato il miglior alleato che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca negli ultimi cinquant’anni. Gli Accordi di Abramo sono stati un importante sviluppo verso la pace in Medio Oriente. E poi Biden ha mollato la presa. Sul versante democratico, il discorso di Obama al Cairo del 2009 ha allontanato i democratici da Israele, e li ha avvicinati al mondo arabo. Biden si è spinto anche oltre e ha placato l’Iran, Hamas e Hezbollah voltando le spalle a Israele. Peggio ancora, ha esercitato molta pressione per degli accordi di cessate il fuoco a Gaza e in Libano che avrebbero danneggiato gli israeliani e aiutato l’Iran.
- Dopo che Trump tornerà alla Casa Bianca, in che modo pensa che il suo approccio nei confronti dell’Iran sarà diverso da quello di Biden? Penso, e spero, che l’approccio di Trump verso l’Iran sarà molto diverso da quello di Biden. Quest’ultimo si è dimostrato assai debole nel complesso, revocando le sanzioni imposte da Trump, ignorando i proventi dell’Iran per le armi nucleari e l’acquisto di petrolio iraniano da parte della Cina. Trump, come ho scritto in un mio articolo sul Washington Times, quasi certamente reintrodurrà le sue sanzioni per esercitare la massima pressione sull’Iran. E se, come auspico, ordinerà alla CIA di fomentare la rivoluzione in Iran, potremmo essere in grado di rovesciare il regime degli ayatollah senza impegnarci in una guerra su larga scala.
- Dopo il 7 ottobre, diversi campus universitari statunitensi si sono trasformati in focolai dell’antisemitismo e del BDS. Cosa pensa che dovrebbe fare l’amministrazione Trump per risolvere questo problema? Penso che l’amministrazione Trump dovrebbe ritirare i finanziamenti federali da tutti i college e le università che hanno contribuito alle campagne che hanno alimentato l’antisemitismo e il BDS. Pam Bondi, recentemente scelta da Trump per il ruolo di procuratore generale, ha detto che i visti studenteschi di coloro che hanno preso parte a manifestazioni antisemite dovrebbero essere revocati. Già questa sarebbe un’ottima idea.
(Bet Magazine Mosaico, 27 novembre 2024)
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La pretesa universalità delle sentenze della Cpi è smontata dagli interessi degli Stati
di Boni Castellane
Il fatto che esista un tribunale sovrastatale che decide cosa sia o non sia un «crimine contro l'umanità» e che demandi l'esecutività delle sue sentenze ai vari Stati, mostra con chiarezza che è la forza che fonda il diritto. Le Corti internazionali di vario tipo, da quella penale dell'Aia alla Corte di Giustizia europea del Lussemburgo, sono frutto della concezione secondo cui alcuni legislatori, per forza di cose «illuminati», stabiliscono leggi in base alle quali gli uomini diventano colpevoli o innocenti.
I primi colonizzatori giudicavano le popolazioni originarie americane in base a leggi europee; un indigeno che adorava il sole era un pagano, e quindi doveva essere convertito o punito. Quella stessa mentalità teocratica si è trasmessa ai «tribunali internazionali» del Novecento passando attraverso la necessaria ripulitura illuminista: giacché Dio non esiste, viene a mancare la giustificazione universale del concetto di bene. Ma Kant ci ha insegnato che non è un problema: basta dire che il bene si fonda su sé stesso e che le leggi sono espressione dei «diritti universali dell'uomo e del cittadino» che alcuni francesi tre secoli fa hanno stabilito. Giacché senza Dio tutto è concesso, occorreva una fondazione «universale» per la giustizia umana e, sempre attraverso norme convenzionali, si è sviluppato il moderno diritto internazionale. Ma come l'Inquisizione aveva bisogno del «braccio secolare», i tribunali internazionali novecenteschi hanno sempre avuto bisogno di qualcuno che imponesse con la forza quelle sentenze che forse tanto indiscutibilmente «universali» non sono.
I problemi sono nati presto, e non è un caso se la nazione egemone, gli Stati Uniti, non riconosca la Corte dell'Aia. Di caso in caso, di sentenza in sentenza, l'esecutività di tali Corti si è mostrata inesorabile quando sussistevano determinate condizioni politiche e tergiversatrice quando se ne verificavano altre. Né ha giovato la diversità di trattamenti ai vari condannati, la velocità o la lentezza dei processi in base alle circostanze e la scarsa uniformità dei giudizi che di volta in volta si sono susseguiti.
Due recenti casi hanno mostrato i punti deboli della giustizia internazionale: la condanna di Putin per la guerra in Ucraina e quella di Netanyahu per l'invasione di Gaza. In entrambi i casi, giacché condannare «la guerra» in sé, come diceva il vecchio Céline, aprirebbe la vera ed irrisolvibile questione inerente l'umanità stessa, il punto sono stati i «crimini di guerra». Ma visto che gli accusati rigettano sempre le accuse e visto che non esiste una «polizia giudiziaria mondiale» che faccia rispettare le sentenze, la Cpi assume più la veste di censore morale mondiale che di organo di compiuto giudizio. Nascono così i distinguo in base alle posizioni politiche assunte di volta in volta: per alcuni Putin è un criminale e Netanyahu uno che risponde all'aggressione, per altri il contrario; e il risultato di tutto questo è la certificazione della pura convenzionalità delle sentenze, nonché della loro subordinazione al tono politico globale del momento.
Lo stesso discorso vale per la Corte di giustizia europea quando ritiene di dover sanzionare uno Stato membro, o stabilire a quali criteri le leggi di un Paese debbano subordinarsi: non si tratta mai di« giustizia» ma di opportunità politiche decise da un organo giudiziario che agisce in base a principi, leggi e giurisprudenze frutto di impostazioni politiche ben precise; i confini, ad esempio, possono passare dall’essere «sacri e inviolabili» all’ essere «limiti umanitari». Ha dunque ragione il vicepresidente eletto degli Stati Uniti, Vance, quando afferma che occorre superare la visione secondo la quale ogni aspetto globale sia controllabile. Forse con il primo presidente americano isolazionista dai tempi di Calvin Coolidge si potrà superare l'idea novecentesca e internazionalista di «organizzazione mondiale», idea nata quando la tecnologia non invadeva la vita degli Stati e delle persone sino al livello attuale, e quando la diplomazia non doveva nascondersi dietro il linguaggio globalista per affermare di perseguire i propri interessi. Anche perché gli «interessi universali» non sono altro che quelli di qualcuno che te li vuole vendere così.
(La Verità, 27 novembre 2024)
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Il ricordo degli ebrei cacciati da paesi arabi e Iran
Dieci anni fa il Parlamento israeliano ha deliberato l’istituzione della Giornata in ricordo degli ebrei cacciati dagli Stati arabi e dall’Iran, fissandola al 30 novembre. Tra il 1948 e il 1970 800.000 ebrei furono costretti ad abbandonare i loro paesi in Nord Africa, Medio Oriente e nella regione del Golfo, dove erano radicati da secoli e in alcuni casi da millenni, per via di persecuzioni e pogrom antiebraici. In decine di migliaia, tra 1979 e 1980, lasciarono anche l’Iran del nuovo corso degli ayatollah.
Il ricordo di «un esodo drammatico, che ha costretto migliaia di famiglie a lasciare le proprie abitazioni, sinagoghe e beni, spezzando quel profondo legame di appartenenza che le aveva unite per secoli alla loro terra d’origine» è stato al centro di un convegno svoltosi a Roma su iniziativa del senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri e ambasciatore italiano in Israele. Tra gli intervenuti l’ambasciatore israeliano in Italia, Jonathan Peled. Per lo psicoanalista David Gerbi, fuggito da Tripoli all’età di 12 anni e rappresentante della World Organization of Libyan Jews, «questo esodo di massa rappresenta una parte fondamentale della storia moderna». Tuttavia però, inspiegabilmente, «rimane poco conosciuto e raramente viene menzionato nei dibattiti sui conflitti in Medio Oriente».
(moked, 27 novembre 2024)
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Israele subdolamente costretto ad accettare il cessate il fuoco con Hezbollah
Israele ha deciso così perché non aveva altra scelta se non accettare un cessate il fuoco, in parte per paura che l'amministrazione statunitense potesse punire Israele con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU nelle sue ultime settimane.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu convocherà martedì sera a Tel Aviv il gabinetto di sicurezza di alto livello per approvare un cessate il fuoco di 60 giorni con il gruppo terroristico Hezbollah in Libano, dopo oltre un anno di guerra. Lo si apprende da una fonte vicina al governo. Allo stesso tempo, la fonte ha sottolineato che Israele accetta la cessazione delle ostilità, non la fine della guerra contro Hezbollah. “Non sappiamo quanto durerà”, ha detto la fonte riferendosi al cessate il fuoco. “Potrebbe durare un mese, potrebbe durare un anno”. Fonti libanesi hanno riferito lunedì che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il presidente francese Emmanuel Macron dovrebbero annunciare a breve un cessate il fuoco. A Washington, il portavoce per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato: “Ci siamo vicini”, ma “non si farà nulla finché non sarà tutto chiaro”. Dall’8 ottobre 2023, le forze guidate da Hezbollah hanno attaccato quasi quotidianamente le comunità e le postazioni militari israeliane lungo il confine, sostenendo che lo fanno per sostenere Gaza durante la guerra in corso. Circa 60.000 residenti sono stati evacuati dalle città settentrionali al confine con il Libano poco dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre, alla luce dei timori che Hezbollah avrebbe portato a termine un attacco simile e a causa del crescente lancio di razzi da parte del gruppo terroristico. Israele ha cercato di consentire il ritorno dei residenti, anche attraverso un’operazione di terra in corso. La libertà di Israele di agire in Libano dopo il cessate il fuoco è garantita da una lettera tra Israele e gli Stati Uniti, ha affermato il funzionario. Le Forze di difesa israeliane saranno in grado di operare non solo contro coloro che cercano di attaccare Israele, ma anche contro i tentativi di Hezbollah di rafforzare il proprio potere militare. “Agiremo”, ha promesso la fonte. Israele ha deciso così perché non aveva altra scelta se non accettare un cessate il fuoco, in parte per paura che l’amministrazione statunitense potesse punire Israele con una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nelle sue ultime settimane, ha affermato la fonte. Secondo il funzionario, Israele non riceverebbe dagli Stati Uniti le risorse di cui avrebbe bisogno. Nel frattempo, un funzionario libanese ha affermato che Washington aveva informato Beirut che un accordo avrebbe potuto essere annunciato “entro poche ore”. Prima ancora funzionari israeliani avevano affermato che un accordo per porre fine alla guerra si stava avvicinando, sebbene permanessero alcuni problemi, mentre due alti funzionari libanesi avevano espresso un cauto ottimismo, nonostante gli attacchi israeliani avessero colpito il Libano un giorno dopo che Hezbollah aveva lanciato oltre 250 razzi e missili contro Israele. Secondo quanto riportato dal notiziario del Canale 12, per far sì che il cessate il fuoco fallisca prima dell’incontro di martedì, dovrebbe accadere “qualcosa di drastico”. Martedì mattina Netanyahu terrà una riunione ristretta con i suoi più stretti collaboratori, tra cui il ministro per gli Affari strategici Ron Dermer e il ministro della Difesa Israel Katz, ha riferito l’agenzia di stampa. Il vicepresidente del parlamento libanese, Elias Bou Saab, ha dichiarato lunedì che non ci sono più “seri ostacoli” all’inizio dell’attuazione della tregua proposta dagli Stati Uniti. Ha affermato che un punto critico su chi monitorerà il cessate il fuoco è stato risolto nelle ultime 24 ore accettando di istituire un comitato composto da cinque paesi, tra cui la Francia, e presieduto dagli Stati Uniti. Israele aveva insistito affinché la Francia non facesse parte dell’accordo o non fosse membro del comitato internazionale che monitorerà l’attuazione di un accordo, a causa della sua ostilità manifestata nei confronti di Israele negli ultimi mesi, sotto il presidente Emanuel Macron. Macron ha recentemente chiesto ripetutamente un embargo sulle armi a Israele, definendolo come la strada per porre fine alla guerra, innescando una crisi diplomatica. Una volta che la Francia ha indicato venerdì che non si sarebbe impegnata ad arrestare il primo ministro Benjamin Netanyahu, in seguito ai mandati di arresto emessi contro di lui dalla Corte penale internazionale — solo che “prende nota” della decisione — Israele si è detto disposto ad accettare il coinvolgimento francese. Nonostante i tentativi di porre fine ai combattimenti, lunedì Israele e Hezbollah hanno continuato a scambiarsi colpi di arma da fuoco . Lunedì sera, il Comando del Fronte Interno delle IDF ha emanato nuove restrizioni in diverse aree del nord di Israele, dato il timore che Hezbollah intensifichi gli attacchi missilistici prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco. Se gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco dovessero fallire, ha affermato Channel 12, le IDF hanno in programma di espandere le loro operazioni in Libano. Lunedì mattina, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir aveva detto a Netanyahu di respingere la proposta di cessate il fuoco, definendola “un grave errore”, anche se, a differenza del passato, non aveva minacciato di far cadere il governo se fosse stata approvata. In un post su X, il leader del partito ultranazionalista Otzma Yehudit ha avvertito che accettare l’accordo di cessate il fuoco significherebbe perdere un’opportunità “storica” per distruggere il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran. Ha esortato Netanyahu ad “ascoltare i comandanti che combattono sul campo… proprio ora, quando Hezbollah è sconfitto e desidera ardentemente un cessate il fuoco, è proibito fermarsi”. Ben Gvir si è categoricamente opposto a qualsiasi accordo che preveda una cessazione delle ostilità, anche temporanea, sia a Gaza che in Libano, e ha minacciato più di una volta di ritirare il suo partito dalla coalizione nel caso in cui Israele firmasse un accordo di tregua. Il cessate il fuoco alla fine sarà approvato, ha detto la fonte: “Ci sono ministri che parlano alla loro base, e noi lo prendiamo in considerazione. Ma Ben Gvir ne capisce l’importanza. È nell’interesse di Israele”. La fonte ha inoltre sostenuto che un cessate il fuoco contribuirebbe a porre fine positivamente alla guerra a Gaza contro Hamas. “Ciò che Hamas voleva era il supporto di Hezbollah e di altri. Una volta che hai tagliato la connessione, hai la possibilità di raggiungere un accordo. È un risultato strategico”, ha detto la fonte. “Hamas è sola”.
(Rights Reporter, 26 novembre 2024)
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Iran e Qatar dietro al Sudafrica contro Israele all’Aia
Un rapporto sulla 'democrazia arcobaleno' usata dai regimi islamisti".
di Giulio Meotti
ROMA - L’emiro del Qatar e la Repubblica islamica dell’Iran, che ieri per bocca dell’ayatollah Ali Khamenei ha chiesto la pena di morte per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non avevano le carte in regola per montare un caso di “genocidio” contro Israele alla Corte dell’Aia. Avevano i soldi e la volontà, ma zero credibilità morale. Che fare? Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, alle “marce del ritorno” al confine fra Gaza e Israele faceva portare grandi ritratti di Nelson Mandela. Voleva far passare l’idea che i palestinesi sono come i neri sotto l’apartheid. Chi allora meglio della “democrazia arcobaleno” per inchiodare lo stato ebraico all’Aia? Con il titolo “Sudafrica, Hamas, Iran e Qatar: il dirottamento dell’African National Congress e della Corte internazionale di giustizia”, il think tank americano Institute for the Study of Global Antisemitism ha pubblicato un’inchiesta sulla decisione del Sudafrica di accusare Israele di genocidio presso la Corte di giustizia dell’Aia che ha spinto la Corte penale a emettere il mandato d’arresto contro Netanyahu. L’African National Congress (Anc), il partito al potere a Pretoria, era sull’orlo della bancarotta quando il Sudafrica ha annunciato il caso all’Aia contro Israele. La sola presentazione iniziale è costata 10,5 milioni di dollari e le spese legali in totale sono stimate in 79 milioni. Il ricorso dell’Anc alla Corte di giustizia contro Israele sarebbe dunque parte di una strategia più ampia volta a promuovere gli interessi e l’ideologia dei regimi islamisti. Il ministro degli Esteri sudafricano, Ronald Lamola, è andato a Teheran per partecipare al giuramento del presidente Massoud Pezeshkian a fine luglio. Lamola ha incontrato anche il ministro degli Esteri iraniano in carica Ali Bagheri. “Bagheri ha elogiato Lamola per il suo ruolo eccezionale di diplomatico impavido nel perseguire i crimini del regime sionista presso la Corte di giustizia”, recitava un comunicato iraniano. A novembre di un anno fa, l’African National Congress ha rilasciato una dichiarazione in onore del suo trentesimo anniversario delle relazioni diplomatiche con il Qatar e affermato che il commercio bilaterale tra i due paesi, da 300 milioni di dollari nel 2012, ha raggiunto un miliardo. Funzionari dell’African National Congress, tra cui il presidente Cyril Ramaphosa, si sono rifiutati di rivelare le origini della donazione che ha aiutato il partito a riprendersi da 30 milioni di debiti accumulati prima del caso all’Aia. Daniel Taub, ex ambasciatore di Israele nel Regno Unito, ha commentato: “Hamas non sarebbe in grado di portare avanti il grottesco capovolgimento dei fatti, per cui le azioni di Israele volte a difendersi vengono fatte passare come ‘genocidio’ mentre i suoi stessi atti di omicidio, stupro e rapimento vengono ignorati o celebrati, senza la complicità di partner compiacenti e il Sudafrica si è fatto avanti con entusiasmo”. Ripeti una menzogna mille volte e diventerà una verità: così lo stato ebraico è la nuova apartheid e chi sgozza e stupra è il nuovo Mandela che resiste al genocidio. Ora la menzogna è diventata verità grazie anche agli alti scranni dell’Aia. O per dirla con Aharon Barak, il giudice israeliano sopravvissuto alla Shoah che ha fatto parte del collegio della Corte di Giustizia nella causa sull’accusa di genocidio a Gaza, “hanno imputato ad Abele il delitto di Caino”.
Il Foglio, 26 novembre 2024)
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La guerra legale contro Israele: Intervista a David Elber
di Niram Ferretti
David Elber, storico e studioso, esperto di Diritto internazionale, è collaboratore abituale de L’Informale. Lo abbiamo voluto intervistare in merito alla recente decisione della Corte Penale Internazionale e sul tema generale della guerra legale contro lo Stato ebraico.
- L’ordine di arresto emesso nei confronti di Benjamin Netanyahu e di Yoav Gallant da parte della Corte Penale Internazionale era stato già annunciato e difficilmente sarebbe stato bloccato. Cosa puoi dire in merito? I mandati di arresto nei confronti di Netanyahu e di Gallant non hanno nessuna base giuridica ma sono una chiara manovra politica per delegittimare lo Stato di Israele. Si può riassumere, brevemente, come è andata “l’istruttoria”. Non appena Israele ha iniziato le operazioni militari a Gaza, per la Corte Penale, era già tutto chiaro: Israele era colpevole, a prescindere, di crimini di guerra. Infatti, il 30 ottobre (tre settimane dopo l’eccidio del 7 ottobre) il procuratore Khan, in una conferenza stampa al Cairo, dopo aver visitato il sud di Israele e l’area tra Egitto e Rafah aveva dichiarato che molte prove nei confronti di Hamas erano state raccolte e altre andavano trovate, mentre per la condotta militare di Israele a Gaza, era quest’ultimo che avrebbe dovuto fornire le prove che dimostrassero il rispetto delle leggi internazionali. Dunque per il procuratore del più importante tribunale penale era necessario raccogliere le prove dei crimini di un’organizzazione terroristica mentre uno Stato democratico e di diritto, vittima di un eccidio, avrebbe dovuto – lui – presentare prove che dimostrassero che le proprie azioni fossero nei termini di legge in modo da non essere indagato. Questo significa che per il procuratore Khan, Israele era colpevole a prescindere, tutt’al più avrebbe dovuto presentare le evidenze di non esserlo. Il resto è una logica conseguenza di questo teorema ad iniziare dalla composizione della Camera pre-processuale. Intendo dire che questo è un tribunale politico nel quale i giudici sono l’espressione dei governi nazionali che li nominano. Se diamo una occhiata, ai tre giudici che formano la Camera che ha deciso per il mandato d’arresto, vediamo che è formata da tre rappresentanti di Stati ostili ad Israele: Francia, uno dei paesi più ostili dall’eccidio del 7 ottobre, Benin, che ha scarse relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico e Slovenia. La Slovenia ha appena riconosciuto l’inesistente Stato di Palestina e il cui giudice ha da poche settimane sostituito la Romania (paese molto più amico di Israele) per imprecisati “motivi di salute”. Insomma la decisione è stata blindata.
- Ci troviamo al cospetto di un ulteriore atto di quella che si può definire lawfare, la guerra giuridico-legale contro lo Stato ebraico e che ha come epicentro l’ONU. Questa guerra legale mi sembra si possa fare risalire al 1967, cioè alla vittoria di Israele nella guerra dei Sei Giorni. Quali sono, a tuo avviso, le sue tappe più salienti? Si è proprio così. Dal 1967 è stato un crescendo. Inizialmente la delegittimazione di Israele era portata avanti dall’Urss e dai paesi islamici con poche eccezioni (Turchia e l’Iran dello Shah). Poi progressivamente, su pressione araba, ha fatto breccia nei paesi della CEE per giungere negli USA del presidente Carter a causa dell’ideologia terzomondista sempre più forte nelle accademie americane. Da questo momento è iniziata una vera è propria escalation: con il memorandum Hansell, con il quale l’amministrazione USA dichiarava illegale la presenza ebraica in Giudea e Samaria e Gerusalemme “est” (1978). Ancora più in là si spinse la CEE con la Dichiarazione di Venezia del 1980, nella quale si ribadiva, tra le altre cose, la legittimità dell’organizzazione terroristica OLP, la questione di Gerusalemme vista come non parte di Israele, e ribadiva l’illegalità dell”occupazione” israeliana dei “territori arabi” e le “colonie ebraiche come ostacolo alla pace”. Tutti concetti che si sono radicati così tanto da divenire dei veri e propri dogmi. È da sottolineare che all’epoca si parlava ancora di “territori arabi”. Nel corso degli anni novanta sono diventati magicamente “territori palestinesi occupati” senza che vi fosse una base giuridica che lo giustificasse. Questo cambiamento terminologico, solo all’apparenza privo di importanza, è stato decisivo per criminalizzare Israele: ormai tutti hanno la certezza che Israele abbia “occupato” in un imprecisato momento un mai esistito “Stato di Palestina”. Un ulteriore “salto di qualità” è iniziato con la Conferenza di Durban del 2001. Da questo momento in avanti, Israele, per tutte le ONG e il movimento autoproclamatosi “progressista” e “antirazzista”, è diventato il “male assoluto”. Questo delirio in un certo senso è l’unica cosa che è sopravvissuta dell’Urss dopo il suo crollo nel 1991.
- La Corte Penale Internazionale è una emanazione diretta dell’ONU, così come lo è l’UNESCO, che con delle risoluzioni recenti ha di fatto espropriato Israele di alcuni dei simboli storici dell’ebraismo come il Muro Occidentale e le tombe dei patriarchi a Hebron, ascrivendoli all’Islam. Nel suo ultimo discorso in sede ONU, Netanyahu lo ha definito “palude antisemita”. Ha forse esagerato? Bisogna precisare che la Corte Penale Internazionale non è una “emanazione diretta dell’ONU” però è figlia dello stesso processo degenerativo “culturale” che ha permeato l’ONU con la decolonizzazione: l’ONU, come la CPI, è “ostaggio” di paesi illiberali, non democratici e privi dei più elementari diritti umani. Quando dico che la CPI non è emanazione dell’ONU intendo dire che tecnicamente, per il diritto internazionale, sono due cose diverse: l’ONU con tutte le sue agenzie e organismi, compresa la Corte Internazionale di Giustizia, è figlia del Trattato di San Francisco del 1945, mentre la Corte Penale Internazionale è figlia di un altro trattato internazionale: il Trattato di Roma del 1998. Di quest’ultimo trattato non fanno parte, tra gli altri, USA, Russia, India, Cina, Turchia, Indonesia e Israele. In pratica i 3/4 della popolazione mondiale. Netanyahu non ha certo esagerato definire l’ONU come “palude antisemita” e l’UNESCO è sicuramente un emblema di questa situazione. Ormai anche l’UNESCO è diventato un formidabile “attrezzo politico” in mano agli odiatori di Israele per delegittimarlo in ogni sede internazionale oltre che per condizionare l’opinione pubblica. Qui bisogna sottolineare un aspetto pericolosissimo: l’UNESCO è diventato, nei confronti di Israele e del popolo ebraico, uno strumento di negazionismo storico-culturale che fa presa nell’opinione pubblica e atto a negare il “legame storico” tra la Terra di Israele e il popolo ebraico. Tale legame è la radice legale della nascita del moderno Stato di Israele come sancito dalla comunità internazionale negli anni ’20 del 1900. Il voler negare ogni legame tra il popolo ebraico e la Terra di Israele è il metodo più sofisticato, subdolo e apparentemente “apolitico” per delegittimare Israele nell’opinione pubblica. In pratica si viene a dire che Israele è illegittimo e gli ebrei non centrano nulla con la loro terra ma sono degli usurpatori. Il tutto ammantato di “credibilità” storico-scientifica. Tutto questo è semplicemente aberrante.
- Con la guerra a Gaza ancora in corso, la più lunga mai combattuta da Israele, abbiamo assistito e stiamo assistendo, ad una offensiva giuridico-legale massiccia, per non parlare di quella mediatica. Si tratta, alla fine, di armi spuntate o possono realmente causare ad Israele danni reali? È vero stiamo assistendo ad una offensiva giuridico-legale senza precedenti. Si è sdoganato un nuovo concetto giuridico: Netanyahu è colpevole fino a prova contraria e di conseguenza Israele. Mai si è assistito ad un attacco ad uno Stato con tale veemenza e senza nessuna base legale per farlo. Netanyahu (quindi Israele) è colpevole a prescindere. Tutto questo è, pienamente e acriticamente, avvalorato dai media. In pratica si sta portando avanti un’agenda politica ben precisa, ammantandola di princìpi giuridici inesistenti: Israele è un paese occupante, i palestinesi sono le vittime e quello che è accaduto il 7 ottobre è una conseguenza di questo. Quindi Israele deve ritirarsi dai “territori palestinesi occupati”. Anche questo è un ribaltamento della storia e dei fatti. Io temo che l’amministrazione Biden prima di cedere le consegne a quella di Trump possa usare il Consiglio di Sicurezza per far approvare una risoluzione che formalizzi questa visione politica del tutto priva di fondamento. Questo sarebbe un danno reale davvero grave, come lo fu la risoluzione 2334 voluta da Barak Obama. Altri danni sono già in corso: l’odio diffuso verso Israele e/o gli ebrei in Europa e negli Stati Uniti, ormai l’antisemitismo è talmente sdoganato a sinistra che non fa più notizia, anzi è colpa delle “malefatte” di Netanyahu se è riemerso. I mass media stanno giocando un ruolo di primaria importanza su questo, facendosi cassa di risonanza, a tutte le false notizie propagandate da Hamas e dai suoi fiancheggiatori all’ONU, nelle ONG e tra molti governi Occidentali.
- In questi anni tu ti sei soprattutto dedicato ad approfondire gli aspetti legati al diritto internazionale relativamente allo Stato ebraico. Oltre a numerosi articoli, molti dei quali pubblicati qui su “L’Informale”, hai scritto tre libri dedicati alla questione, di cui l’ultimo, “Il diritto di sovranità in terra di Israele”, da poco pubblicato. Da tutto ciò che hai scritto e scrivi, emerge chiaramente come si sia cercato e si cerchi in ogni modo di delegittimare i fondamenti giuridici dell’esistenza stessa dello Stato ebraico e la sua sovranità sui territori considerati occupati della Cisgiordania. E’ così?
Sì, come ho detto anche in precedenza la delegittimazione di Israele ha assunto forme diverse e trasversali. Una grave forma di delegittimazione è il negazionismo dell’UNESCO che tenta di cancellare la storia del popolo ebraico e dei luoghi sacri all’ebraismo. Un’altra forma di delegittimazione la stanno conducendo accademici, politici e semplici giornalisti che hanno inventato la leggenda di Israele nato “per decisione dell’ONU”. Come ha affermato di recente anche Macron. Purtroppo questa credenza, che ha assunto connotati religiosi e non discutibili, è in voga anche in molti ambienti ebraici. Ma non ha alcun fondamento giuridico né storico. In pratica in questo modo si sta portando avanti, consapevolmente o inconsapevolmente, una narrazione che vede Israele nato nel peccato: come riparazione ai delitti della Shoà e a danno del popolo palestinese. E se ci pensi bene questo è il principio utilizzato in tutte le trattative di pace che Israele ha fatto o deve fare: è sempre e unicamente Israele che deve cedere qualcosa, che subisce le pressioni internazionali affinché si arrivi ad un accordo. Questo perché Israele è visto come colpevole di qualche cosa, anche, se, è lui che è stato sempre attaccato e aggredito fin dalla sua nascita. Ma come si diceva è nato nella colpa di conseguenza in sede di trattative è messo in una posizione morale inferiore ai suoi avversari di conseguenza è lui che deve cedere sempre. È come se la Germania o il Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale anziché aver ceduto dei territori e obbligati ad uno spostamento coatto della popolazione avessero preteso indennizzi territoriali ed economici agli alleati. Assurdo solo a pensarlo. Ma questo principio è accettato per le aggressioni arabe: sono loro che aggrediscono ma chiedono compensazioni dopo le loro sconfitte: un vero e proprio ribaltamento legale oltre che morale ed etico, e l’Occidente è connivente.
- Israele “l’occupante”, Israele “il conculcante”. Oggi, in molti pensano che Israele occupi realmente in modo abusivo dei territori che sarebbero dei palestinesi. Quali sono, brevemente, i fatti decisivi per smontare questi falsi assunti? Purtroppo questi assunti sono così radicati che è difficile fare breccia tra coloro che ne sono convinti. Per prima cosa bisogna sottolineare che l’ONU con la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale (quella che suggeriva la spartizione del Mandato per la Palestina) non ha deciso nulla, semplicemente perché non ha mai avuto il potere di decidere nulla. Questo perché nessun organo dell’ONU è dotato di potere di sovranità, quindi non può decidere la nascita di Stati o sancire i loro confini. Chiarito questo punto, vediamo le tappe principali che hanno condotto alla legittimità della nascita del moderno Stato di Israele. Al popolo ebraico è stato riconosciuto il diritto di autodeterminazione – così come ad altre popolazioni arabe musulmane o cristiane – con la Conferenza di pace di Sanremo del 1920, con i trattati internazionali di Sévres, di Losanna e con il Mandato per la Palestina. In pratica il Mandato per la Palestina è stato lo strumento giuridico creato dalla comunità internazionale per far nascere lo Stato nazionale del popolo ebraico. Bisogna anche ricordare che i confini che furono stabiliti nel 1922 dagli inglesi, quando divisero il Mandato in due unità amministrative, una per il popolo ebraico e l’altra per il popolo arabo, furono i confini dai quali nacquero due Stati indipendenti: la Giordania nel 1946 e Israele nel 1948 con confini precisi e ben definiti. Questo, per il principio dell’uti possidetis iuris, con il quale la comunità internazionale riconosce i confini degli Stati nascenti. Per questo principio tutto il territorio che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo è sin dal 1922 territorio appartenente al popolo ebraico. Detto questo come può essere che il popolo ebraico “occupi illegalmente” ciò che era già suo? L’unica occupazione illegale che si è verificata, nel corso della storia, fu quella di Giordania ed Egitto quando occuparono Giudea, Samaria, parte di Gerusalemme e la Striscia di Gaza tra il 1948 e il 1967. Questo va detto per chiarire in modo inequivocabile che i “territori palestinesi” non sono mai esistiti a meno che non si intendano quelli mandatari che erano del popolo ebraico per realizzare la propria autodeterminazione.
- Durante il suo primo quadriennio di presidenza, Donald Trump ha fatto per Israele più di qualsiasi altro presidente americano: ha levato i fondi all’UNRWA, ha fatto uscire gli Stati Uniti dal Consiglio per i Diritti umani di Ginevra oggi presieduto dall’Iran, ha riconosciuto la legittimità della sovranità israeliana sulle alture del Golan, ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele spostandovi l’ambasciata americana, ha ridotto all’irrilevanza l’Autorità Palestinese e ha inaugurato gli Accordi di Abramo. Quali sono le tue aspettative in merito alla nuova amministrazione USA? Per prima cosa voglio esprimere il mio sollievo per il fatto che Kamala Harris e il partito democratico non abbiano vinto le elezioni. Per Israele sarebbe stato un disastro. È vero che Trump è imprevedibile e umorale, ma le persone designate per la sua amministrazione fanno ben sperare per Israele. Anche i primi riverberi della sua elezione sono molto positivi: Trump non si è ancora insediato e il Qatar ha, già, chiuso gli uffici di Hamas e smesso la farsa delle trattative sugli ostaggi, dove tutte le pressioni erano unicamente su Israele; l’Iran che minacciava fuoco e fiamme dopo la risposta israeliana del 26 ottobre non ha mosso un dito. Abu Mazen e i cleptocrati dell’Autorità palestinese sono letteralmente spariti dai media. Inoltre, se questa amministrazione darà seguito a quanto già fatto in passato e rafforzerà i dettami della legge Taylor Force Act, spariranno del tutto perché non avranno più i soldi per pagare gli stipendi degli assassini di ebrei. Con queste premesse sono convinto che cesseranno le ostilità a Gaza e in Libano con rassicurazioni reali per la sicurezza di Israele ben diverse dalla ridicola Risoluzione 1701 con cui si chiuse la seconda guerra del Libano e che è rimasta del tutto inefficace per 18 anni. Anche le prospettive di allargamento degli Accordi di Abramo potranno rafforzarsi. Rimane l’incognita rappresentata dall’Iran, ma anche su questo fronte l’Amministrazione di Trump sarà molto più allineata con Israele e i paesi arabi sunniti rispetto a quella che avrebbe nominato Kamala Harris che sarebbe stata totalmente allineata alla dottrina Obama che cercava l’appeasament con l’Iran a tutti i costi. Se dovesse scoppiare un confronto tra Iran e Israele/USA molto probabilmente il regime iraniano non sopravvivrà al confronto. Un altro fronte importante è l’ONU che, così, come si è trasformato negli ultimi decenni non ha senso di esistere: è più dannosa che utile. Solo uno come Trump può decidere di far uscire gli USA da questa organizzazione e sancirne la fine. Solo così si può sperare in una nuova organizzazione che ne prenda il posto nel pieno rispetto della democrazia, dei diritti umani, nella piena uguaglianza tra i suoi membri.
(L'informale, 26 novembre 2024)
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Cristiani coraggiosi
Lode a Gesù e preghiera per Israele regnano ad Amsterdam.
di Charles Gardner*
Ammiro il coraggio e la passione dei nostri amici cristiani olandesi che di nuovo adorano il Messia ebraico e pregano per Israele nelle strade di Amsterdam! Meno di due settimane dopo lo scioccante pogrom contro i tifosi di calcio israeliani, ho visto (su YouTube) come i musicisti e i cantanti di Presence Revival sono tornati sulla scena del crimine - il centro della città. Il leader del movimento, Wim Hoddenbagh, ha chiesto perdono agli ebrei per quanto accaduto e ha guidato le preghiere per la “santificazione” della piazza, con molti che si sono inginocchiati e hanno appoggiato le mani sul selciato di pietra. Il suo gesto mi ha ricordato l'eroina cristiana Corrie ten Boom, che durante la guerra rischiò la vita con la sua famiglia olandese per nascondere gli ebrei dai nazisti. Sullo sfondo delle luci natalizie, Wim ha ricordato al pubblico la profezia di Isaia: "È nato per noi un bambino ” (Isaia 9:2). Si riferiva alla nascita del Messia ebraico, che sarebbe stato una benedizione per il mondo intero. La pazienza di Dio con Israele (nel corso dei secoli) è una garanzia della sua pazienza con noi, ha detto, ricordando al mondo il suo patto d'amore con il suo “bene prezioso”, di cui si compiaceva, non perché fossero più numerosi di altri popoli, ma per il suo amore eterno verso di loro (cfr. Deuteronomio 7:6-9). “Per questo pregherò per Israele fino all'ultimo respiro... e pregherò perché il Messia si mostri al suo popolo”, ha dichiarato. Il gruppo, il primo a entrare in piazza dopo i brutali attacchi, è stato circondato da una grande folla che rappresentava molte nazioni. Le preghiere si sono svolte in numerose lingue dopo che Wim ha chiesto alle persone di alzare la mano se parlavano qualcosa di diverso dall'olandese o dall'inglese. Persone provenienti da Iran, Ghana, Brasile, Cina, Italia, Polonia, Germania, America Latina, Turchia e Tagikistan hanno pregato nelle loro lingue madri. Il culto è stato, come sempre, di struggente bellezza. I volti brillavano di gioia celeste ed esprimevano un'appassionata intimità con Gesù attraverso testi di canzoni che includevano parole come "Ti desidero con tutto il cuore, senza di te sono perso ”. Il pogrom del 7 novembre era scoppiato appena due giorni prima dell’ottantaseiesimo anniversario della Kristallnacht, la cosiddetta “Notte dei cristalli”, che segnò l'inizio dell'Olocausto. Come ho già detto in precedenza, ho avuto l’impressione che quel pogrom fosse una reazione di Satana al nuovo territorio conquistato da Gesù in un luogo in cui il diavolo ha portato tanto scompiglio nel corso degli anni. E mi è parso che la folla che si univa al culto ieri sera cresceva di molto e che più persone erano desiderose di partecipare. “Perché le nazioni si infuriano e i popoli tramano invano?”. Il Signore avrà l'ultima risata quando insedierà il suo Re su Sion, il suo monte santo. “Bacia il figlio, altrimenti si adirerà e la tua strada ti porterà alla distruzione...”. (vedi Salmo 2) Continuate a pregare per Israele. Chi benedice il paese sarà benedetto, ma chi lo maledice cadrà sotto il giudizio di Dio (Genesi 12:3, Deuteronomio 24:9).
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* Charles Gardner è autore di Israel the Chosen, disponibile su Amazon; Peace in Jerusalem, disponibile su olivepresspublisher.com; To the Jew First, A Nation Reborn e King of the Jews, tutti disponibili su Christian Publications International.
(Israel Heute, 26 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Gaza, carestia e prezzi impazziti: così Hamas sfrutta i mezzi nostri e guadagna sulla fame dei palestinesi
di Iuri Maria Prado
L’ultimo rapporto IPC (Integrated Food Security Phase Classification Evidence) sulla situazione della disponibilità di generi alimentari e di prima necessità nella Striscia di Gaza denuncia un forte aumento dei prezzi, il quale aggraverebbe il già problematico accesso della popolazione alla disponibilità di quei beni. Tra agosto e settembre 2024, dice quel rapporto, l’indice generale dei prezzi al consumo è aumentato dell’11%., mentre per i generi alimentari si registra un’impennata del 77%. Rispetto all’inizio del conflitto, l’aumento complessivo sarebbe del 283%, e addirittura del 312% per i generi alimentari. Si lamenta poi l’imperversare del mercato nero: gas da cucina +2.612%, gasolio +1.315%, legna +250%. Numeri impressionanti, in effetti. Il problema è che il rapporto, nella neutralità della propria freddezza statistica, non si occupa delle ragioni per cui quei prezzi salgono, né dell’identità di chi li fa salire. Ma non è che ci sia molto di oscuro in argomento. Poiché si tratta di aiuti (non di forniture commerciali), e poiché non risulta che a specularci sopra sia chi li fa arrivare (cioè Israele, cui si addebita di affamare Gaza non facendo arrivare gli aiuti), c’è almeno da ipotizzare che tra le indiscutibilmente nobili attività di Hamas ci sia anche quella, non del tutto commendevole, di inguattarsi quegli aiuti per poi rivenderli a prezzo iugulatorio alla popolazione bisognosa. Salvo credere, ovviamente, che il mercato nero di cui parla il rapporto sia gestito dai Savi Anziani di Sion o da agenti del Mossad travestiti da broker in kefiah che tirano su il prezzo della carne in scatola e delle taniche di carburante. Questa storia dei prezzi impazziti a Gaza va avanti da mesi senza che nessuno si faccia la domanda banale: e chi li fa salire, mia nonna? Ma soprattutto: questa storia va avanti da mesi senza che nessuno ne chieda conto alle organizzazioni della cooperazione internazionale, che sono lì a fare non si sa che cosa (a parte, naturalmente, denunciare il genocidio per fame di cui si renderebbe responsabile Israele). I cento camion di aiuti di cui, giusto l’altro giorno, l’Onu denunciava il sequestro da parte di uomini armati sono solo l’ultimo esempio dell’andazzo: sotto lo spensierato sguardo delle Nazioni Unite, quegli aiuti entrano a Gaza, Hamas se li prende, se ne rifocilla per quel che serve e per il resto ci fa i soldi sulla pelle dei poveracci. Si tratta semplicemente della guerra che Hamas continua anche con questi altri mezzi: mezzi che forniamo noi, e che Hamas usa per sfamare sé stessa e per guadagnare sulla fame dei palestinesi. Intanto dall’Aia chiediamo che gli israeliani siano arrestati perché impongono la carestia a Gaza.
(Il Riformista, 26 novembre 2024)
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"Vengono saccheggiati dai gangster". I camion di aiuti per Gaza nel mirino della malavita palestinese
Un racket per lucrare sugli aiuti umanitari che vengono sequestrati dopo aver attraversato i valichi di confine. È questo l'ultima atrocità che affligge la Striscia di Gaza
di Davide Bartoccini
Le rotte di aiuti umanitari diretti a Gaza sono soggette all'interdizione e alla razzia da parte di bande che pretendono di gestire il "traffico" degli aiuti diretti nell'exclave palestinese con quello che viene riportato come "tacito permesso dell'Esercito israeliano". Un ulteriore atto di violenza sconsiderata e spregiudicata che si aggiunge alla straziante condizione della Striscia di Gaza, dove la popolazione palestinese, perenne vittima collaterale delle ambizioni terroristiche di Hamas, è messa a durissima prova dall'operazione militare israeliana. Dietro la crisi umanitaria che sta affamando la popolazione della Striscia di Gaza ci sono molti volti; tra questi, quello di Yasser Abu Shabab, capo di uno dei gruppi criminali che saccheggiano gli aiuti destinati alla popolazione e hanno il potere di bloccare le strade percorse dai convogli umanitari. Secondo quanto si apprende, negli ultimi mesi gruppi criminali stanno sviluppando un "lucroso commercio" basato sul furto dei camion carichi di aiuti diretti nei territori palestinesi. Solo la scorsa settimana 97 dei 109 camion delle Nazioni Unite sono "andati persi". Considerato come il più noto "gangster" di questo settore della striscia di Gaza, Abu Shabab era stato dato per morto dopo un agguato lanciato contro il gruppo di saccheggiatori di un convoglio di camion carichi di aiuti delle Nazioni Unite, ma secondo quanto riportato dal Financial Times, il boss della criminalità palestinese di origini beduine sarebbe sopravvissuto.
• UN CRIMINE SOTTO GLI OCCHI DELL'IDF Funzionari umanitari e trasportatori palestinesi hanno affermato che i gruppi criminali in questione agiscono con il "tacito permesso dell'esercito israeliano", o meglio con quello che un promemoria delle Nazioni Unite definisce: "la benevolenza passiva, se non attiva" dell'Idf, dal momento che le azioni e depositi di aiuti rubati vengono "trascurati" dai droni di sorveglianza israeliani. Questi gruppi sono guidati da detenuti evasi e si basano sul concetto di clan familiare simile a quello di Cosa Nostra. Pesantemente armati, i gruppi criminali come quello guidato da Yasser Abu Shabab - che sta accentrando il suo potere nello schema di su questo meschino traffico - possono tranquillamente sfidare le autorità di Gaza. Dal momento che operano esclusivamente lungo il confine nella zona militare controllata dagli israeliani. Gli unici che potrebbero opporsi al traffico ma sembrano "disinteressarsene" secondo le fonti consultate dal Financial Times. L'aera interessata è sempre "oltre la portata della polizia rimanente di Gaza", nella "zona rossa" che è off-limits per la maggior parte dei palestinesi a causa della presenza delle truppe israeliane.
• LO SCHEMA CRIMINALE NEL MEZZO DI UNA GUERRA Il racket segue uno schema criminale abbastanza banale, e si basa sulla capacità di accumulare i beni saccheggiati - come farina, cibo in scatola, coperte e medicine - dai convogli che vengono intercettati subito dopo aver attraverso il valico di Kerem Shalom, per rivenderli a prezzi proibitivi alla popolazione attraverso degli intermediari. I camion invece vengono restituiti solo dopo il versamento di un riscatto. Ci troviamo di fronte a un'ulteriore piaga che si abbatte sulla già disperata condizione dei palestinesi, che hanno assistito al crollo del flusso di aiuti dopo l'invasione di Rafah da parte delle forze di difesa israeliane, ancora impegnate a rastrellare il settore meridionale della Striscia per eliminare ciò che resta di Hamas. Lasciando tuttavia nel totale impasse la crisi degli ostaggi, che non trova una risoluzione né ha assistito negli ultimi mesi a operazioni decisive che hanno condotto alla loro "liberazione". Secondo Israele dietro questo traffico si celano sempre e comunque la responsabilità e gli interessi di Hamas. Altre entità sottolineano come i saccheggi ai convogli abbiano "messo i gruppi armati in contrasto con il gruppo militante". Quale che sia la verità, queste azioni criminose ai danni dei convogli umanitari rimangono uno strumento di pressione che ha come vittime i civili palestinesi.
(il Giornale, 25 novembre 2024)
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UNWRA, emergono nuovi legami con Hamas e Jihad Islamica
di Olga Flori
Il direttore generale dell’ICRC (Comitato Internazionale della Croce Rossa) Pierre Krahenbuhl durante il suo mandato da Commissario generale di UNWRA tra il 2014 e il 2019 avrebbe incontrato leader di organizzazioni terroristiche palestinesi, secondo quanto rivelato in un nuovo rapporto di UN Watch.
L’ONG con sede a Ginevra spiega che nel febbraio del 2017, durante un meeting a Beirut, Krahenbuhl incontrò Ali Baraka (responsabile degli affari esteri di Hamas) e Abu Imad al-Rifai (leader in Libano del Movimento per la Jihad Islamica palestinese).
Baraka gestiva per conto di Hamas i legami con l’Iran, la Siria e l’Iraq. Pochi giorni dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, secondo il rapporto UN Watch, Baraka ha dichiarato che “gli abbiamo fatto pensare che Hamas era occupato a governare Gaza e che voleva concentrarsi sui 2.5 milioni di palestinesi lì presenti, e che aveva abbandonato la resistenza. Nel frattempo, di nascosto, Hamas stava invece preparando questo grande attacco”.
UN Watch precisa inoltre che Abu Imad al-Rifai, si era vantato di aver inviato nel 2003 un’ondata di attentatori suicidi a Baghdad per colpire le truppe statunitensi e britanniche.
Krahenbuhl, secondo il rapporto di UN Watch, avrebbe “ enfatizzato lo spirito di collaborazione tra UNWRA ed i gruppi terroristici” e sarebbe stato consapevole della necessità di mantenere l’incontro riservato per evitare di “mettere in dubbio la credibilità (di UNWRA) e di far perdere la fiducia dei paesi donatori in UNWRA” per evitare di perdere i finanziamenti.
Krahenbuhl, oggi a capo della Croce Rossa Internazionale, secondo il rapporto di UN Watch, avrebbe inoltre “preso atto del fatto che il ruolo di UNWRA non è principalmente quello di provvedere alla distribuzione di aiuti” e avrebbe sottolineato “lo spirito di collaborazione” con coloro che erano presenti all’incontro.
Dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre il ruolo di UNWRA e dei suoi dipendenti è stato fortemente criticato e messo in discussione da Israele, soprattutto dopo aver dimostrato la partecipazione di alcuni dipendenti all’attacco dello scorso autunno nel sud di Israele.
(Shalom, 25 novembre 2024)
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Israele accetta il cessate il fuoco con Hezbollah
Secondo diversi resoconti di domenica sera, dopo che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto consultazioni ad alto livello sulla questione, Israele ha accettato in linea di principio un cessate il fuoco con Hezbollah sostenuto dagli Stati Uniti e il primo ministro Benjamin sta ora lavorando su come presentarlo al pubblico. L’incontro si è svolto mentre Israele era stato colpito per tutto il giorno da ondate di razzi provenienti dal Libano e l’Aeronautica militare aveva effettuato ripetuti attacchi contro i siti di Hezbollah a Beirut. I resoconti su Kan, Ynet e Haaretz, che citavano funzionari di Gerusalemme, Washington e Beirut, hanno tutti notato che l’approvazione della proposta non era definitiva e che diverse questioni dovevano ancora essere risolte, ma che Gerusalemme aveva approvato i principi fondamentali della proposta. Secondo Ynet, questo era stato trasmesso al Libano. Il leader di Hezbollah, Naim Qassem, ha dichiarato la scorsa settimana che il gruppo terroristico aveva esaminato la proposta di tregua e presentato una risposta, e che la palla era nel campo di Israele. Secondo quanto riportato da Haaretz, la proposta comprenderà tre fasi: una tregua seguita dal ritiro delle truppe di Hezbollah a nord del fiume Litani; il ritiro di Israele dal Libano meridionale e, infine, i negoziati israelo-libanesi sulla demarcazione delle aree di confine contese. Ha affermato che un organismo internazionale guidato dagli Stati Uniti avrà il compito di monitorare il cessate il fuoco e che Israele si aspetta di ricevere una lettera da Washington che affermi il suo diritto di agire militarmente qualora Hezbollah violasse i termini del cessate il fuoco in assenza di azioni da parte delle forze militari e internazionali del Libano. Kan, riguardo al piano di Netanyahu di vendere l’accordo al pubblico, ha affermato che l’obiettivo è quello di presentare la tregua non come un compromesso, ma come vantaggiosa per Israele. La consultazione si è tenuta con alcuni ministri di alto rango e funzionari della sicurezza e, secondo Kan, si è concentrata anche sulla libertà di Israele di operare ai confini con Libano e Siria dopo la conclusione dell’accordo. Secondo quanto riportato da numerosi media ebraici, Hochstein ha dichiarato nel fine settimana ai funzionari israeliani che questa era la loro ultima possibilità di andare avanti con l’accordo e che se non lo avessero accettato, avrebbe rinunciato ai suoi sforzi e Israele e Hezbollah avrebbero dovuto aspettare che il presidente entrante Donald Trump entrasse in carica a gennaio prima che gli sforzi di mediazione americani riprendessero. La scorsa settimana Hochstein ha visitato Beirut e Gerusalemme per sollecitare un accordo sostenuto dagli Stati Uniti, che vedrebbe il graduale ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani e l’esercito libanese riprendere la responsabilità del Libano meridionale. In base a un eventuale cessate il fuoco, l’esercito libanese avrebbe il compito di impedire a Hezbollah di ristabilirsi nel Libano meridionale. Come parte degli sforzi per far sì che l’accordo venga firmato questa settimana, l’ex ambasciatore statunitense in Israele Dan Shapiro dovrebbe arrivare in Israele lunedì per agevolare la definizione degli ultimi dettagli dell’accordo, ha riferito Channel 12. Mentre i colloqui proseguivano domenica, Hezbollah ha intensificato i suoi attacchi contro Israele, lanciando più di 250 razzi e droni verso il nord e il centro di Israele nel corso della giornata, ferendo diverse persone. L’intensità degli attacchi dell’organizzazione terroristica contro Israele di domenica non è stata ritenuta sorprendente dalle autorità israeliane, secondo quanto riportato da Channel 12, che domenica sera ha riferito che Israele si aspettava che gli attacchi di Hezbollah sarebbero aumentati man mano che le parti si fossero avvicinate alla conclusione di un accordo. L’obiettivo del gruppo, secondo quanto riportato dal canale, era dimostrare di avere ancora la capacità di attaccare Israele e cercare di dissuaderlo dall’attaccare Beirut. Hezbollah ha anche pubblicato domenica una foto apparentemente generata dall’intelligenza artificiale che mostra i danni a un’autostrada causati da un attacco missilistico, con una didascalia che minaccia che “il destino di Tel Aviv sarebbe il destino di Beirut” se Israele continuasse ad attaccare la capitale libanese. Hezbollah cerca da tempo di imporre un equilibrio di potere nel tentativo di scoraggiare Israele. Tuttavia, Ynet ha riferito che Israele intendeva anche intensificare gli attacchi contro gli obiettivi di Hezbollah a Beirut per danneggiare il più possibile le sue capacità prima che un accordo fosse finalizzato. Negli ultimi giorni sono continuati pesanti combattimenti terrestri tra le IDF e Hezbollah nel Libano meridionale, con le truppe israeliane che si sono allontanate sempre di più dal confine.
(Rights Reporter, 25 novembre 2024)
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Arrestati i tre sospettati dell’omicidio del rabbino Chabad Zvi Kogan
di Luca Spizzichino e Michelle Zarfati
Le autorità degli Emirati Arabi Uniti hanno arrestato tre persone sospettate dell’omicidio del rabbino israelo-moldavo Zvi Kogan. Si tratta di tre cittadini uzbeki: Olimpi Toirovich (28 anni), Makhmudjon Abdurakhim (28 anni) e Azizbek Kamlovich (33 anni).
Le autorità degli Emirati Arabi Uniti hanno sottolineato “la determinazione delle autorità di sicurezza competenti ad adottare rapidamente le misure necessarie per scoprire i dettagli dell’incidente, le sue circostanze e i suoi moventi”. Hanno inoltre evidenziato come siano state sfruttate le loro competenze umane e professionali, insieme alle avanzate capacità tecniche, per arrivare rapidamente all’arresto dei responsabili.
Il ministero dell’interno emiratino ha dichiarato che utilizzerà “tutti i poteri legali per rispondere in modo deciso e senza clemenza a qualsiasi azione o tentativo che minacci la stabilità della società”.
Zvi Kogan, 28 anni, era un emissario del movimento Chabad-Lubavitch e lavorava negli Emirati Arabi Uniti dal 2020, anno della normalizzazione delle relazioni tra Israele e il Paese del Golfo grazie agli Accordi di Abramo. Kogan collaborava con il rabbino capo Levi Yitzchak Duchman per promuovere la vita ebraica negli Emirati, assicurando la disponibilità di cibo kosher e l’apertura del primo centro educativo ebraico nel Paese. Inoltre, gestiva il Rimon Market, un negozio di alimentari kosher a Dubai, già bersaglio di proteste da parte di manifestanti filo-palestinesi e anti-israeliani.
Il rabbino era scomparso giovedì a Dubai. Il suo corpo è stato ritrovato successivamente nella città di Al Ain, al confine con l’Oman, a circa 150 chilometri da Abu Dhabi. Le autorità israeliane hanno confermato il ritrovamento domenica, sottolineando che sul veicolo di Kogan erano visibili segni di colluttazione. Israele ha definito l’omicidio un attacco terroristico di matrice antisemita.
L’ambasciatore emiratino negli Stati Uniti, Yousef Al Otaiba, ha espresso cordoglio sui social, definendo l’uccisione “un crimine contro i valori degli Emirati”. Ha aggiunto che si è trattato di “un attacco alla nostra patria, ai nostri valori e alla nostra visione”. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha condannato l’omicidio e ringraziato le autorità degli Emirati per la rapidità nelle indagini e negli arresti, esprimendo fiducia nel fatto che i responsabili saranno assicurati alla giustizia. La Casa Bianca ha descritto l’omicidio come “un crimine orribile contro la pace, la tolleranza e la coesistenza”. Il portavoce della sicurezza nazionale statunitense, Sean Savett, ha elogiato gli Emirati per la rapidità degli arresti e ha garantito il pieno supporto degli Stati Uniti nelle indagini. Il movimento Chabad-Lubavitch, in un messaggio sui social, ha definito Kogan “una vittima di terrorismo” e ha espresso fiducia nel fatto che gli Emirati lavoreranno con altri Paesi della regione per perseguire i responsabili.
Da parte sua, Teheran ha negato qualsiasi coinvolgimento nell’omicidio attraverso una dichiarazione dell’ambasciata iraniana ad Abu Dhabi, definendo le accuse “categoricamente infondate”.
Le indagini sono ancora in corso, mentre il corpo di Zvi Kogan sarà rimpatriato in Israele nelle prossime ore per i funerali.
(Bet Magazine Mosaico, 25 novembre 2024)
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L’essenza dell’ebraismo non è l’Esilio
di Davide Cavaliere
È sconcertante, per malafede e grossolanità teorica, il recente scritto di Giorgio Agamben su Giudaismo ed esilio. Nel breve testo, programmaticamente intitolato La fine del Giudaismo, il filosofo propone un’interpretazione discutibile del Sionismo e del suo rapporto con l’Ebraismo.
Secondo quanto scritto da Agamben, il Sionismo costituirebbe una «negazione» dell’identità ebraica e della Galut, ossia dell’esilio. Il filosofo parla di «doppia negazione» ma, a ben vedere, si tratta di una sola, dato che l’ebraicità e l’esilio sono presentati come elementi simbiotici, ed è proprio questo l’errore fondamentale che inficia tutto il suo discorso.
Se la Diaspora ha certamente segnato il destino del popolo ebraico, a cui ogni stabilità è stata a lungo preclusa, l’ebraismo non ha mai implicato «l’accettazione senza riserve dell’esilio» né questo può essere definito, come fa il filosofo, «la forma stessa dell’esistenza degli ebrei sulla terra». L’esilio da Eretz Israel è sempre stato vissuto come una condizione di doloroso sradicamento.
Gli Ebrei, salvo quelli che hanno resistito come ostinata minoranza nella loro terra d’origine, non smisero mai di rivolgersi costantemente verso il Monte del Tempio di Gerusalemme, pregando e sperando di tornare, promettendosi l’un l’altro: «l’anno prossimo a Gerusalemme» e ammonendosi con il verso «se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra».
Proprio tra gli Ebrei dell’Europa centro-orientale, costretti a mantenersi in equilibrio fra confini mutevoli e governanti ostili, il Sionismo attecchì maggiormente e in profondità. Theodor Herzl veniva accolto come un nuovo Mosè nei ghetti dell’Ucraina e della Polonia. Il Sionismo ha rappresentato per gli ebrei diasporici la speranza di un’esistenza pienamente ebraica, lo stesso Herzl, pur da uomo laico, nel suo discorso d’apertura al primo Congresso, dichiarò: «Sionismo significa ritorno al giudaismo prima che ritorno al Paese degli ebrei».
Uno dei più importanti pensatori ebrei del secolo scorso, Gershom Scholem, a differenza di Agamben, non ritenne mai il Sionismo un «tradimento» dell’essenza del Giudaismo, ma vide nell’Israele Stato nazionale il luogo di un rinvigorimento dell’Ebraismo: «Con la realizzazione del sionismo sono sgorgate le fonti della grande profondità del nostro essere storico, liberando nuove forze dentro di noi», e ancora: «Per quanto concerne l’ebraismo nello Stato d’Israele, esso è la forza vivente del popolo di Israele».
Agamben concettualizza l’esilio e ne fa la cifra dell’Ebraismo, impiegando in modo scorretto e fuorviante alcuni concetti della Kabbalah lurianica. Come Lévinas e Derrida blandisce il presunto cosmopolitismo ebraico. In modo involontario, ripropone lo stereotipo antisemita dell’Ebreo errante, del luftmensch privo di ancoraggio al suolo. Il filosofo celebra quello che, un tempo, l’antisemita esecrava: l’inappartenenza, la mancanza di fondamento nazionale, e lo fa soprattutto ora, alla luce nera del Sionismo realizzato, del ritorno degli Ebrei alla loro patria storica.
Giorgio Agamben, come George Steiner o Enzo Traverso, esprime quella forma specifica di antisemitismo «progressista», dagli accenti marcioniti, che raffigura come demoniaca la «carne» della forma-stato. Gli Ebrei avrebbero rinunciato al privilegio della volatilità chagalliana, pertanto, a causa di questo «tradimento», si ha di nuovo il permesso di odiarli, non più come «razza» ma come «Stato».
Gli Israeliti dovrebbero abitare solo lo spazio della testualità e della morale. Erranza senza fine. A casa ovunque perché non c’è nessun dove. Non diversi dalle statuette di hassidim vendute come souvenir nel rynek di Cracovia. Essi hanno la colpa di aver reintrodotto in un mondo pensato in marcia verso l’universalismo lo Stato nazionale. Gli intellettuali come Agamben hanno eletto Israele a capro espiatorio del peccato supremo, quello della statualità.
Questo tentativo di recidere il legame dell’Ebraismo con la terra di Israele serve a legittimare e normalizzare la colonizzazione arabo-musulmana della Palestina, interrotta fattivamente dalla nascita del moderno Stato ebraico, ma ripresa simbolicamente dall’UNESCO, che da anni tenta di negare ogni collegamento tra Gerusalemme, gli Ebrei e la loro terra ancestrale.
Il tutto procede, parallelamente e senza apparente contraddizione, con l’insistenza sulla necessità morale e politica di uno Stato palestinese, non importa quanto teocratica e identitaria potrà essere tale entità.
L’interpretazione distorta fornita da Agamben ha il solo pregio di essere genuina. Egli afferma una verità che i critici contemporanei di Israele raramente osano menzionare (almeno in pubblico): sarebbe stato meglio per gli Ebrei morire tutti nelle camere a gas di Auschwitz piuttosto che fondare uno Stato.
Eric Voegelin invitava lo storico delle idee a «esplorare lo sviluppo dei sentimenti che si cristallizza nelle idee, e mostrare la relazione tra le idee e la matrice dei sentimenti in cui sono radicate». Le idee di Agamben affondano in un sentimento preciso: il desiderio di un mondo dove il Giudaismo abbia perso ogni connotato specifico, un mondo senza Ebrei. Judenfrei.
(L'informale, 25 novembre 2024)
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Prima ancora di riferirsi a Gershom Scholem (1897-1982), all'antisemitismo universalistico di Giorgio Agamben, secondo cui «l'accettazione senza riserve dell'esilio è la forma stessa dell'esistenza degli ebrei sulla terra», si può contrapporre il sionismo antelitteram di Leon Pinsker (1821-1891), che nel suo famoso "Autoemancipazione" sostiene l'esatto contrario, cioè che l'accettazione senza riseve dell'esilio è per gli ebrei una malattia mortale di cui la maggior parte di loro è inconsapevole:
«Per un ammalato, non sentire il bisogno di mangiare e di bere, è un sintomo molto grave. E se anche l'appetito ritorna, è sempre dubbio che il malato possa assimilare il nutrimento, ancorché lo desideri. Gli ebrei si trovano nella dolorosa condizione di un malato simile. Questo punto, che è il più importante di tutti, va energicamente sottolineato. Dobbiamo dimostrare che la cattiva sorte degli ebrei è dovuta anzitutto al fatto che manca loro il senso del bisogno dell'indipendenza nazionale; che questo desiderio deve esser in loro ridestato e ravvivato per tempo, se non vogliono essere esposti per sempre ad un'esistenza disonorevole; in una parola, è necessario che essi diventino una nazione». M.C.
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Noè fu uomo giusto
di Marcello Cicchese
Noè fu uomo giusto, integro, ai suoi tempi; Noè camminò con Dio. E Noè generò tre figli: Sem, Cam e Iafet. Ora la terra era corrotta davanti a Dio; la terra era piena di violenza. Dio guardò la terra; ed ecco, era corrotta, poiché ogni carne aveva corrotto la sua via sulla terra. E Dio disse a Noè: “Nei miei decreti, la fine di ogni essere vivente è giunta; poiché la terra è piena di violenza a causa degli uomini; ecco, io li distruggerò, insieme con la terra. Fatti un'arca di legno di gofer; falla a stanze, e spalmala di pece, dentro e fuori. […] E Noè fece così; fece tutto quello che Dio gli aveva comandato (Genesi 6:9-14,22)
Per la prima volta nella Bibbia compare qui l'aggettivo "giusto". Che vuol dire? Nessuno può rispondere, se non Dio stesso, perché a dire questo è stato Lui, non un altro.
"Egli (Abramo) credette all'Eterno, che gli contò questo come giustizia" (Genesi 15:6).
Per la prima volta nella Bibbia compare qui il sostantivo "giustizia". Che vuol dire? Stessa risposta di prima: nessuno può rispondere, se non Dio stesso, perché è Lui che dice queste parole e, come fanno tutti i giudici in tribunale, pronuncia la sentenza in base alla nozione di giustizia stabilita dall'autorità superiore, e non in base all'opinione personale di chi deve essere giudicato.
Qui però si dice qualcosa di più sul criterio di giustizia usato dal Giudice: per la prima volta nella Bibbia compare il verbo "credere". Abramo "credette all'Eterno, che gli contò questo come giustizia". E poiché è Dio la fonte del diritto, nessuno può sollevare obiezioni contrapponendo una sua propria idea di giustizia.
Il peccato di Adamo è consistito nel non aver creduto, per superbia, a quello che Dio aveva minacciato e promesso; adesso allora il Signore decide di "giustificare", cioè considerare giusto, colui che umilmente crede a quello che Egli annuncia e promette.
• GIUSTIFICATO PER FEDE Nel mondo ebraico la dottrina della "giustificazione per fede" è vista come una caratteristica della "religione cristiana" che la allontana radicalmente dal modo di credere e di vivere dell'ebraismo.
Il primo a presentare questa dottrina è stato però un ebreo doc: Paolo di Tarso. Nel capitolo 4 della sua lettera ai Romani, Paolo inizia dicendo: "Che diremo dunque che il nostro antenato Abramo abbia ottenuto secondo la carne?" (v. 1). Parla di "nostro antenato", dunque si rivolge innanzi tutto ad altri ebrei come lui. E continua:
"Poiché se Abramo fosse stato giustificato per le opere, egli avrebbe di che vantarsi; ma non davanti a Dio; infatti, che dice la Scrittura? «Abramo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto di giustizia». Ora a chi opera, il salario non è messo in conto di grazia, ma di debito; mentre a chi non opera ma crede in colui che giustifica l'empio, la sua fede è messa in conto di giustizia" (vv. 2-5).
Si può non essere d'accordo con questa spiegazione della Scrittura, come accade spesso anche tra ebrei, ma non si può negare che l'apostolo Paolo qui non sta inventando una nuova dottrina per una nuova religione, ma presenta quello che secondo lui è il significato vero e profondo di quel testo della Torah. Continua infatti la sua argomentazione citando il Salmo 32:
"Così pure Davide proclama la beatitudine dell'uomo al quale Dio mette in conto la giustizia senza opere, dicendo: «Beati coloro le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti. Beato l'uomo al quale il Signore non addebita il peccato»" (vv. 5-7).
Il Re Davide aveva commesso gravissimi peccati, come adulterio ed omicidio, e secondo la Torah doveva essere messo a morte. Paolo, come rigoroso ebreo osservante, lo sapeva benissimo, e tuttavia, con un modo di argomentare di stile ebraico, sostiene che la giustizia messa in conto ad Abramo ha come conseguenza che con una fede simile alla sua il debito dell'uomo peccatore con Dio è saldato. Beati dunque coloro "le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti", proprio come è accaduto al Re Davide.
• SOLTANTO PER I CIRCONCISI? Qui Paolo fa una domanda interessante: "Questa beatitudine è soltanto per i circoncisi oppure anche per gl'incirconcisi?" (v. 9). Bella domanda! "Infatti - continua Paolo - noi diciamo che la fede fu messa in conto ad Abramo come giustizia" (v. 9). Ma Abramo è un circonciso - dirà forse qualcuno - quindi questa promessa di giustizia per fede riguarda soltanto gli ebrei.
Abituato com'era al pilpul ebraico (il rabbinico stile di studio per dibattito dei testi sacri), Paolo previene il suo ipotetico interlocutore con una domanda: "In che modo dunque gli fu messa in conto? Quand'era circonciso, o quand'era incirconciso?" (v. 10). E immediatamente si dà la risposta:
"Non quando era circonciso, ma quando era incirconciso; poi ricevette il segno della circoncisione, quale sigillo della giustizia ottenuta per la fede che aveva quando era incirconciso, affinché fosse padre di tutti gl'incirconcisi che credono, in modo che anche a loro fosse messa in conto la giustizia e fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo sono circoncisi ma seguono anche le orme della fede del nostro padre Abramo quand'era ancora incirconciso" (vv. 10-12).
Potrà sorprendere, ma le più grandi promesse di benedizione, tra cui quella fondamentale della giustizia ottenuta attraverso la fede, sono state fatte ad Abramo prima di essere circonciso. Anche la prima chiamata, Lech Lechà, è stata rivolta a un gentile, non ad un ebreo, per il semplice fatto che allora gli ebrei non c'erano ancora. Soltanto in seguito, in risposta alla fede di Abramo, Dio si è formato attraverso di lui un popolo storico che avesse la circoncisione come segno della fede del capostipite.
Ciò non toglie che il popolo ebraico abbia ricevuto anche delle specifiche, esclusive promesse che riguardano soltanto lui, ma si può dire che esse cominciano a delinearsi soltanto dopo che Dio ha ordinato ad Abramo la circoncisione, con la nascita di Isacco e poi di Giacobbe.
La giustizia donata da Dio sulla base della fede nella Sua Parola comincia con Abramo, e dopo di lui riguarda tutti coloro che hanno una fede simile alla sua. Senza distinzione tra ebrei e non ebrei.
(da "Sta scritto")
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«La corte imparziale»
di Giulio Meotti
ROMA - “Un infelice compleanno a te. 48 anni di occupazione”. La dedica è rivolta a Israele e a firmarla è Nawaf Salam. E’ il giugno 2015 e, mentre posta sui social il suo augurio, Salam è in carica come rappresentante del Libano alle Nazioni Unite. Ora è il presidente della Corte penale dell’Aia che emette mandati d’arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ormai ex ministro della Difesa, Yoav Gallant. Bastava il procuratore della Corte penale dell’Aia, il musulmano britannico Karim Khan che a settembre ha incontrato il presidente della Turchia Erdogan e quello dell’Autorità nazionale palestinese Abbas, per capire che la Corte ha un problema di pregiudizio quando si tratta di Israele.
Il libanese Salam è stato eletto a capo della Corte dell’Aia nel febbraio scorso. Quando fu nominato presidente arrivò la lettera di alcuni legislatori (democratici e repubblicani) americani al segretario di stato Antony Blinken: “Il chiaro e ben documentato curriculum di pregiudizi contro lo stato ebraico del giudice Salam e le persistenti violazioni dello statuto della Corte internazionale di giustizia rendono abbondantemente chiaro che non sarà un arbitro imparziale”.
Un rapporto di UN Watch, l’organizzazione di monitoraggio con sede a Ginevra, ha analizzato il curriculum di Salam come ambasciatore all’Onu. Durante il suo mandato come rappresentante libanese presso le Nazioni Unite, Salam ha votato per condannare Israele 210 volte. Denunce unilaterali di Israele e carta bianca a Hamas. Nei suoi discorsi all’Onu, Salam ha accusato “organizzazioni ebraiche terroristiche”, ha detto che la “suprema leadership sionista” persegue un piano di “pulizia etnica” e che “per troppo tempo i criminali di guerra di Israele hanno beneficiato dell’impunità”. Il 18 giugno 2014, Salam si oppose alla candidatura di Israele alla vicepresidenza del Quarto Comitato dell’Assemblea generale. Salam ha anche ripetutamente attaccato Israele sui social. Nel 2015, su Twitter ha definito Israele un “trionfo di palesi scelte razziste e colonialiste”. Salam si è costantemente schierato con la Repubblica islamica dell’Iran. Ha votato contro tutte le undici risoluzioni dell’Assemblea generale che condannavano le violazioni del regime iraniano contro il suo popolo. Salam ha votato contro una risoluzione che chiedeva il rilascio dei prigionieri politici in Bielorussia, unendosi a Cina, Russia, Cuba, Iran, Siria e Corea del nord. Mentre scoppiava la guerra civile in Siria nell’aprile 2011, Salam usava il suo seggio nel Consiglio di sicurezza per bloccare una dichiarazione che avrebbe condannato il regime siriano per aver attaccato i civili. Salam ha anche pubblicato sui social le sue lodi per Fidel Castro, definendolo “icona di ribellione e resistenza”. “La Corte dell’Aia è stata un fallimento” ha scritto sul Wall Street Journal il giurista dell’Università di Chicago, Eric Posner. “Con uno staff di settecento persone e un budget annuale di cento milioni di dollari, la Corte ha finora completato solo un processo, quello a Thomas Lubanga, comandante nella guerra civile in Congo”. Ora può riprovarci con il primo ministro dell’unica democrazia in un arco che va da Marrakech a Mumbai impegnata a non soccombere alla piovra del terrorismo islamico.
Il Foglio, 23 novembre 2024)
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Ingiustizia è fatta – I mandati d’arresto internazionali contro Netanyahu e Gallant
di Ugo Volli
• IL COMUNICATO DELLA CORTE PENALE
La Corte penale internazionale (CPI) dell’Aja (da non confondere con la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), presso cui è in discussione una denuncia del Sudafrica contro Israele per “genocidio”) ha emesso mandati di arresto contro il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa, Yoav Gallant. In un comunicato, la CPI ha spiegato di avere “la ragionevole convinzione che Netanyahu e Gallant abbiano commesso crimini di guerra”. Essi, secondo la CPI, “hanno la responsabilità penale, inclusa la partecipazione condivisa ad atti commessi con altri, per il crimine di usare la fame come metodo di guerra e altri crimini contro l’umanità, inclusi omicidi, persecuzioni e altri atti disumani”. Inoltre essi, in quanto vertici civili delle forze armate, sarebbero “responsabili per il crimine di guerra di attacco intenzionale contro una popolazione civile”. I mandati di arresto naturalmente non avranno influenza nel funzionamento interno del governo israeliano, che li rifiuta, ma renderanno impossibile a Netanyahu e Gallant di recarsi all’estero, salvo i paesi che non aderiscono alla CPI, come gli Usa.
• LA REAZIONE DI ISRAELE
“La decisione antisemita della Corte penale internazionale equivale a un moderno processo Dreyfus, e finirà allo stesso modo”, ha dichiarato l’ufficio del Primo ministro. “Israele respinge con veemenza le azioni e le accuse assurde e false contro di essa da parte della Corte penale internazionale, un organismo politico di parte e discriminatorio”. Nel comunicato si afferma anche che la decisione è stata sollecitata da “un procuratore capo corrotto che ha tentato di salvarsi da gravi accuse di molestie sessuali e da giudici di parte spinti dall’odio antisemita verso Israele”. Dichiarazioni di sostegno a Netanyahu e Gallant sono arrivate anche da tutti i principali ministri, dal presidente di Israele Herzog, dall’ex primo ministro Bennett e altri leader dell’opposizione. Vi sono state anche forti espressioni di solidarietà internazionali, soprattutto da parte americana. Al Congresso Usa pende una proposta di legge per sanzioni contro le azioni antisemite dei giudici della CPI, che sono tutti di nomina politica.
• IL CONTESTO
Il mandato d’arresto contro Netanyahu, Gallant e due capi terroristi nel frattempo eliminati (Sinwar e Deif – un accostamento di per sé odioso e assurdo) era stato chiesto dal procuratore presso la CPI Karim Khan già il 20 maggio scorso e poi era rimasto in sospeso sia per motivi di diritto che per il fatto che Khan era stato a sua volta indagato per il sospetto di molestie sessuali a carico di sue collaboratrici. Sul piano del diritto, per statuto la CPI è competente solo per i paesi che hanno aderito al suo trattato istitutivo (e Israele non lo è, come non lo sono gli Usa); inoltre perché essa possa intervenire è necessario che non vi sia un sistema giudiziario nel paese interessato che ha l’autorità di occuparsi dei crimini sospettati. Il primo argomento di incompetenza è stato aggirato accettando l’adesione dello “Stato di Palestina” e dicendo che i “crimini” si sono svolti sul suo territorio; alla seconda, per quel che si sa, non è stata data risposta. Alla fine la “Camera preliminare” della CPI ha emesso il mandato di cattura, proprio il giorno dopo a quello in cui gli Stati Uniti avevano dovuto opporre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, approvata da tutti i quattordici altri membri, che voleva imporre a Israele il cessate il fuoco (senza parlare degli ostaggi e senza poterlo fare con Hamas e Hezbollah, che non sono vincolati alle decisioni dell’Onu perché non sono stati membri); a quello in cui all’ex ministro della giustizia di Israele Ayelet Shaked era stato negato l’ingresso in Australia dal locale governo laburista perché contraria alla “soluzione dei due stati”; pochi giorni dopo che il “ministro degli esteri” uscente dell’Unione Europea, il socialista spagnolo Josep Borrell aveva proposto, per fortuna senza successo, di interrompere tutti i rapporti dell’Unione Europea con Israele.
• L’OTTAVO FRONTE
In realtà, al di là degli aspetti giuridici e politici della decisione della CPI, quel che risulta chiaro è che le relazioni internazionali diplomatiche e giudiziarie sono l’ottavo fronte della guerra contro Israele. Lo stato ebraico sta vincendo sul terreno a Gaza e in Libano, ha inferto colpi molto duri ai suoi nemici in Yemen e in Iraq, ha bombardato l’Iran tanto efficacemente da indurlo a non provare a replicare, ha duramente colpito l’organizzazione terroristica in Giudea e Samaria, ha bloccato i tentativi di coinvolgere nel terrorismo la Giordania. Insomma sta nettamente prevalendo sui sette fronti della guerra e attende l’ingresso in carica di Trump per poter usare appieno i suoi mezzi contro l’Iran senza i vincoli imposti dall’amministrazione Biden, in modo da poterne eliminare del tutto la minaccia. Ma resta il fronte esterno, quello delle piazze e delle università europee e americane invase da antisemiti violenti. E soprattutto resta quello della diplomazia e della giustizia, l’ottavo fronte, dove l’offensiva contro Israele non ha soste.
• IL SENSO POLITICO DI UNA DECISONE CONTRO LA GIUSTIZIA
Il provvedimento della CPI va pensato così, come parte di questa offensiva, che mira a paralizzare la solidarietà contro Israele, a impedire allo Stato ebraico di ottenere rifornimenti delle armi e munizioni necessarie, a preservare la dirigenza e la capacità offensiva dei terroristi che oggi colpiscono Israele e in futuro assalirebbero l’Occidente. Non solo dunque la delibera della CPI non ha nulla a che fare con la giustizia, anzi si può sintetizzare col motto “Ingiustizia è fatta”. Quel che deve essere chiaro è che si tratta di un atto di guerra, di un’azione pienamente allineata con Hamas, Hezbollah e l’Iran, che naturalmente hanno salutato con giubilo i mandati di arresto. Una delle tragedie del nostro tempo è che istituzioni concepite per portare giustizia e pace nel mondo, come l’Onu e la CPI, siano diventate strumenti del terrorismo e della distruzione.
(Shalom, 22 novembre 2024)
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L’Italia garantista del diritto internazionale da destra a sinistra
Eccetto la Lega di Matteo Salvini
di Ludovica Iacovacci
Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha definito il mandato d’arresto della CPI per il premier israeliano Beniamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant “sbagliato” ma ha precisato che l’Italia, aderendo allo Statuto di Roma, è obbligata ad applicarlo. “Io ritengo che la sentenza della Corte penale internazionale sia sbagliata” ma se Benyamin Netanyahu e Yoav Gallant “venissero in Italia dovremmo arrestarli perché noi rispettiamo il diritto internazionale”, ha affermato Guido Crosetto durante la puntata di Porta a Porta in onda su Raiuno. Anche il Partito Democratico concorda con il Ministro della Difesa di Fratelli d’Italia nell’attenersi alla decisione della Corte. “È partito l’attacco alla Corte Penale Internazionale, per il mandato di arresto a Netanyahu. La CPI è un’acquisizione fondamentale della giustizia internazionale, fondata sullo Statuto di Roma. L’Italia ha il dovere di rispettarla ma anche quello di adeguarsi alle sue decisioni” scrive su Peppe Provenzano, responsabile Esteri nella segreteria nazionale del PD. Così Fratoianni e Bonelli, leader di Avs, che definiscono la notizia del mandato d’arresto come “enorme” e chiedono il rispetto della decisione della Corte. Il Movimento5Stelle rincara la dose chiedendo un embargo di armi contro Israele. L’unica voce fuori dal coro è quella di Matteo Salvini, leader della Lega: “Conto di incontrare presto esponenti del governo israeliano e se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto. I criminali di guerra sono altri”, ha detto il vicepremier a margine dell’assemblea Anci.
- L’Europa si adegua alla Corte Josep Borrell, capo della diplomazia europea, ribadisce che «tutte le nazioni dell’Unione sono obbligate a rispettare la decisione». L’Olanda ha subito aderito ed è stata la prima a farlo: «Siamo pronti ad eseguire i fermi». Il Belgio ha sottolineato l’importanza della lotta all’impunità, dichiarando pieno sostegno alla Corte, così ha fatto anche la Svezia, che ha confermato il “supporto all’organo e alla sua indipendenza”, e la Slovenia, che ha dichiarato che si “adeguerà pienamente” alla decisione della Corte. “Sosteniamo i tribunali internazionali e applichiamo i loro mandati”, ha detto il capo del governo dell’Irlanda. La Francia “prende atto” dei mandati di arresto emessi dalla CPI contro Benjamin Netanyahu, ma al momento non pervengono dichiarazioni ufficiali riguardo all’intenzione di arrestare Netanyahu in caso di visita. Idem per il Regno Unito. Quanto alla Germania: “Le forniture di armi a Israele sono sempre soggette a una valutazione caso per caso, e questo rimane il caso attuale. Il nostro atteggiamento nei confronti di Israele rimane invariato”, ha affermato un portavoce venerdì mattina. Ieri, in concomitanza della comunicazione ufficiale del mandato d’arresto da parte della CPI per i leader israeliani e il terrorista palestinese Deif, il presidente spagnolo Pedro Sanchez inaugurava il primo incontro intergovernamentale tra Spagna e Palestina, ricevendo il capo dell’ANP Mahmud Abbas. “Questo incontro è il simbolo del compromesso che la Spagna ha con la Palestina: con il suo presente e con il suo futuro”, scriveva il leader spagnolo. Per quanto riguarda la posizione del suo governo, il tema del mandato d’arresto internazionale dalla stampa locale non sembra ancora essere toccato, ma la Spagna è l’unico Paese europeo ad essersi unito nella causa per genocidio che il Sudafrica sta portando avanti contro Israele dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia. Il sostegno dell’Ungheria di Viktor Orban a Israele: “Netanyahu venga a Budapest, non rispettiamo CPI” “Oggi inviterò il primo ministro israeliano Netanyahu a visitare l’Ungheria, dove gli garantirò, se verrà, che la sentenza della Corte penale internazionale non avrà alcun effetto in Ungheria e che non ne rispetteremo i termini”, ha detto il primo ministro ungherese e presidente di turno della Ue, Viktor Orban, alla radio di stato ungherese.
- Stati Uniti: il muro in sostegno di Israele Gli Stati Uniti si sono opposti fermamente al mandato d’arresto contro i leader israeliani. Il presidente Joe Biden ha definito la decisione “scandalosa” e ha riaffermato il supporto incondizionato a Israele, dichiarando: “Non c’è equivalenza tra Israele e Hamas”. Secondo fonti della Casa Bianca, la futura amministrazione Trump starebbe valutando di imporre sanzioni contro la Corte. Le fonti hanno parlato di sanzioni personali contro il procuratore capo Karim Khan e contro i giudici che hanno emesso i mandati. Mike Waltz, candidato dal presidente eletto Donald Trump alla carica di Consigliere per la sicurezza nazionale, ha scritto: “A gennaio ci si può aspettare una forte risposta al pregiudizio antisemita della Cpi e dell’Onu”. Di avviso contrario è il Primo Ministro canadese Justin Trudeau, il quale afferma che “sosterrà il diritto internazionale” per quanto riguarda i mandati di arresto della CPI nei confronti dei leader israeliani Netanyahu e Gallant.
- Russia: “Decisioni CPI insignificanti” Netto disprezzo da parte di Mosca per le decisioni della Cpi, lo stesso organo che lo scorso anno ha emesso un mandato d’arresto per il presidente Vladimir Putin, il quale, recatosi fisicamente in Mongolia – Paese che ha ratificato lo Statuto di Roma – non è stato arrestato dalle autorità locali, evento che di fatto ha delegittimato la recente Corte stessa. Per la Russia le decisioni della Corte penale internazionale sono “insignificanti” e quindi “non c’è motivo di commentarle”, ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, come riferisce l’agenzia di stampa Ria Novosti.
- La Cina, alleata solo di sé stessa, parla a tutti senza parlare a nessuno “Ci auguriamo che la Corte penale internazionale mantenga una posizione obiettiva ed equa, eserciti il suo potere in conformità con la legge e interpreti e applichi lo Statuto di Roma e il diritto internazionale generale in modo completo e in buona fede secondo standard uniformi”, ha affermato Lin Jian, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, secondo quanto riporta il tabloid in lingua inglese del Quotidiano del Popolo.
- Per l’Iran il mandato d’arresto è “la morte politica di Israele” Il capo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, il generale Hossein Salami, ha definito il mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Gallant come la “fine e la morte politica” di Israele. “Questo significa la fine e la morte politica del regime sionista, un regime che oggi vive in un assoluto isolamento politico nel mondo e i suoi funzionari non possono più viaggiare in altri Paesi”, ha detto Salami in un discorso trasmesso dalla TV di Stato.
- Altri Paesi Dall’America Latina, il presidente argentino Javier Milei ha duramente criticato la Cpi, accusandola di ignorare il diritto di Israele all’autodifesa contro Hamas e Hezbollah. Dello stesso avviso è il Paraguay, che parla di «strumentalizzazione politica» e ritiene compromessa «la legittimità della Corte». Il Sudafrica, Paese promotore dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) della causa contro Israele per genocidio, ha appoggiato con forza la decisione della Corte Penale Internazionale (CPI) definendola un passo significativo verso la giustizia per i crimini di guerra. Al momento non si registrano significative prese di posizione da parte degli altri Paesi (per lo più latinoamericani, ma non solo) che si sono uniti al Sudafrica nella causa al tribunale dell’Aja.
- Le Nazioni Unite “pacifiste per i diritti umani”… Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha ribadito il rispetto per l’indipendenza della Cpi, mentre Francesca Albanese, “relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina”, ha definito il mandato un “momento di euforia” per “le vittime di Gaza”.
- …si sposano con il “no comment” della Chiesa cattolica “Sulla cattura di Netanyahu? Nessun commento da parte della Santa Sede. Abbiamo preso nota di quanto è avvenuto. A noi quello che preoccupa e quello che interessa è che al più presto si ponga fine alla guerra che è in corso”. Così il Segretario della Santa Sede, card. Pietro Parolin parlando a margine di un evento all’università Lumsa di Roma in merito al mandato d’arresto emesso dalla Cpi per il presidente israeliano Benjamin Netanyahu.
(Bet Magazine Mosaico, 22 novembre 2024)
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Milei intende firmare un memorandum “contro il terrorismo e le dittature” con Israele
Il presidente dell'Argentina, Javier Milei, ha affermato che il suo governo sta lavorando per firmare un memorandum con Israele "contro il terrorismo e le dittature".
“Stiamo portando avanti un memorandum storico con il governo israeliano, un’alleanza bilaterale tra due nazioni sorelle, un memorandum in difesa della libertà e della democrazia, nella lotta contro il terrorismo e le dittature”, ha rivelato Milei parlando giovedì sera al Congresso Argentina. Israele Business Meeting tenutosi a Buenos Aires. Milei ha espresso il suo desiderio che “questa alleanza tra Argentina e Israele diventi un modello affinché anche altre nazioni del mondo libero scelgano la vita e la libertà, condannando fermamente e apertamente il terrorismo”. Il presidente argentino, che non ha fornito ulteriori dettagli sull'accordo al quale si sta lavorando, ha ricordato gli attacchi subiti dall'Argentina, quello dell'ambasciata israeliana a Buenos Aires, nel 1992, che causò 22 morti, e l'esplosione della sede della Mutua Associazione Israeliana Argentina (AMIA), nel 1994 con 85 morti. Ha parlato anche della “barbarie commessa dal gruppo terroristico Hamas il 7 ottobre 2023” in Israele e dei 101 ostaggi che rimangono sequestrati nella Striscia di Gaza, tra cui otto argentini, come precisato dal presidente. Milei ha affermato che Israele è sotto “la costante minaccia di essere distrutto dai nemici del mondo libero” e ha confermato che quel paese e gli Stati Uniti sono i “partner geopolitici più importanti” per l’Argentina. “Abbiamo la vocazione di rafforzare l’amicizia che storicamente esiste tra Israele e Argentina ed è per questo che stiamo portando le relazioni bilaterali tra le nostre nazioni ad un livello mai raggiunto prima, perché questa unione nasce dalla profondità in cui due nazioni possono collaborare. "Da un lato i valori della libertà e della democrazia, dall'altro la lotta al terrorismo e alle dittature", ha assicurato.
(Aurora Israel, 22 novembre 2024)
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BASKET – Olympia vince su Maccabi «in una bella serata di sport»
«È stata una bella serata di sport. Non ci sono stati cori contro il Maccabi Tel Aviv e noi abbiamo portato diverse bandiere israeliane». Lo racconta Milo Hasbani, vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Insieme al consiglio della Comunità ebraica milanese, Hasbani ha organizzato la partecipazione di un gruppo di giovani e dei loro genitori alla partita di basket, giovedì sera al Forum di Assago, tra Olympia Milano e Maccabi Tel Aviv. «In particolare abbiamo invitato i nostri volontari del servizio di sicurezza».
Sul campo, la sfida valida per il torneo Eurolega è stata a tratti molto combattuta: il Maccabi nel primo quarto è riuscito a portarsi avanti, poi il quintetto milanese del coach Ettore Messina ha ribaltato il risultato nel secondo quarto. E sono rimasti avanti fino alla fine della partita, terminata 98-86 per i padroni di casa.
La politica, a differenza di altre occasioni, è rimasta fuori dal palazzetto. Uno striscione con scritto «Stop the war» è stato bloccato e, per protesta, un gruppo di tifosi dell’Olympia è entrato solo dopo il primo quarto. «C’era qualche volantino contro Israele, qualche scritta, ma tutto è stato gestito in grande sicurezza. C’era un importante dispiegamento di forze dell’ordine, che ringraziamo. Dispiace che sia necessario, ma questa purtroppo è la normalità», sottolinea Hasbani.
(moked, 22 novembre 2024)
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L’Aia vuole far arrestare Bibi: «Crimini contro l’umanità». No Usa, esultano Pd e Conte
La Corte penale internazionale accusa Netanyahu e Gallant. Crosetto: «Non condivido ma se arrivano in Italia vanno fermati». Borrell: «Mandati vincolanti per l'intera Ue»
di Stefano Piazza
Ieri pomeriggio la Corte penale internazionale (Cpi) dell'Aia ha emesso i mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell'ex ministro della Difesa, Yoav Gallant. La Cpi ha spiegato che «vi è ragionevole convinzione che Netanyahu e Gallant abbiano commesso crimini di guerra». Nella dichiarazione si legge che i due «hanno la responsabilità penale per i crimini, tra cui la partecipazione condivisa ad atti commessi con altri: crimini di guerra come la fame com e metodo di guerra e crimini contro l'umanità, tra cui omicidio, persecuzione e altri atti disumani». Inoltre, «Netanyahu e Gallant hanno ciascuno la responsabilità penale individuale in quanto superiori civili per il crimine di guerra di attacco intenzionale contro una popolazione civile».
Per rendere tutto ancora più grottesco, L'Aia ha emesso un mandato di cattura anche per il terrorista di Hamas Mohammed Deif, ridotto in polvere da un drone israeliano a Khan Yunis il 13 luglio 2024. Ora che succederà? Come conseguenza diretta, i 124 Stati che aderiscono alla Cpi, tra i quali troviamo l'Italia, avrebbero la facoltà di eseguire i mandati di arresto sul loro territorio, qualora Netanyahu o Gallant si recassero in questi Paesi, rendendo di fatto quasi impossibile per loro viaggiare all'estero.
A proposito del nostro Paese, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, durante un punto stampa a Parigi, ha affermato: «L'Italia sostiene la Corte penale internazionale ricordando sempre che svolge un ruolo giuridico e non politico. Hamas è un'organizzazione terroristica e bisogna separare le due cose e valuteremo insieme ai nostri alleati come valutare questa decisione e come affrontare questa vicenda». Quello che però sfugge è come si possa farlo se la premessa è: «L'Italia sostiene la Corte penale internazionale». A Porta a porta il ministro della Difesa Guido Crosetto ha detto che, se il premier israeliano venisse in Italia, «dovremmo arrestarlo, siamo tenuti ad applicare la sentenza della Cpi. Io posso ritenere che la sentenza sia sbagliata e per me lo è, perché mette sullo stesso piano il presidente israeliano e il capo degli attentatori di Hamas. Sono due cose completamente diverse. Tuttavia, aderendo noi alla Corte penale internazionale, dobbiamo applicare le sue disposizioni. Non si tratta di una scelta politica, dobbiamo applicare questa sentenza, come ogni Stato che aderisce. L'unico modo per non applicarla sarebbe uscire dal trattato».
Sempre per restare all'Italia, su Facebook il leader del M5s, Giuseppe Conte, oltre a citare i numeri delle vittime forniti da Hamas «circa 44.000 vittime, la metà donne e bambini», ha chiesto «sanzioni ed embargo delle armi a Israele», mentre Peppe Provenzano, responsabile Esteri nella segreteria nazionale del Pd, scrive su X: « L'Italia rispetti la Cpi e si adegui alle sue decisioni». Per la Lega si tratta di una «richiesta assurda, una sentenza politica filo-islamica, che allontana una pace necessaria».
Il ministro degli Esteri olandese, Caspar Veldkamp, ha affermato che i Paesi Bassi «eseguiranno il mandato d'arresto della Corte penale internazionale contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu, Yoav Gallante Mohammed Deif». L'Alto rappresentante dell'Unione europea per la Politica estera, Josep Borrell, ha affermato: «I mandati d'arresto emessi dalla Corte penale internazionale contro Netanyahu e Gallant sono vincolanti e per tanto tutti i membri della Ue devono garantirne l'applicazione».
La pensano diversamente gli Stati Uniti con il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca che ha subito reagito alla notizia: «Rimaniamo profondamente preoccupati dall'impazienza del procuratore Karim Khan nel richiedere i mandati d'arresto e dai preoccupanti errori nel processo che ha portato a questa decisione e ribadiamo che la Cpi non ha alcuna giurisdizione legale in questa materia». Il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Mike Waltz, su X scrive: « La Cpi non ha credibilità e queste accuse sono state confutate dal governo degli Stati Uniti. Israele ha difeso legalmente il suo popolo e i suoi confini dai terroristi genocidi. Potete aspettarvi una forte risposta al pregiudizio antisemita della Cpi e dell' Onu a gennaio»,
Unanime lo sdegno in Israele e la solidarietà a Netanyahu che ha così commentato: «La decisione antisemita della Corte penale internazionale equivale al moderno processo Dreyfus e finirà così. Israele respinge con disgusto le azioni e le accuse assurde e false contro di lui da parte della Corte penale internazionale, che è un organismo politico parziale e discriminatorio». Durissimo il commento del presidente israeliano, Isaac Herzog, che su X scrive: «Questo è un giorno buio per la giustizia. Un giorno buio per l'umanità. Presa in malafede, l'oltraggiosa decisione della Corte penale internazionale ha trasformato la giustizia universale in uno zimbello universale. Si fa beffe del sacrificio di tutti coloro che lottano per la giustizia, dalla vittoria degli Alleati sui nazisti a oggi» .
Dato che siamo di fronte ad una farsa ,non poteva mancare il commento del segretario generale di Amnesty International, Agnes Callamard: «Gli Stati membri della Cpi e l'intera comunità internazionale non devono fermarsi davanti a nulla finché questi individui non saranno processati dai giudici indipendenti e imparziali della Cpi», Esulta anche la Turchia con il ministro degli Esteri, Hakan Fidan, che ha dichiarato: «Questa decisione è un passo fondamentale per portare dinanzi a un tribunale i responsabili di crimini di guerra, i colpevoli del genocidio dei palestinesi. Il mandato di arresto è una fonte di speranza per la giustizia».
(La Verità, 22 novembre 2024)
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Israele spiega a Greta e agli apocalittici green come si fa ambientalismo
di Giulio Meotti
Lo stato ebraico è leader mondiale nell’utilizzo dell’energia solare e nella conservazione dell’acqua e lo dimostrano le start up israeliane alla conferenza dell’Onu. Bella lezione a chi urla “nessuna giustizia climatica in Palestina” Nel suo romanzo “Idromania” (Giuntina), lo scrittore israeliano Assaf Gavron immagina un futuro (il 2067) in cui i nuovi equilibri geopolitici sono legati al dominio sull’acqua che scarseggia. Uno scenario apocalittico alla Greta Thunberg che però contiene un fondo di verità: Israele, che ha abbondanza di deserto e penuria di acqua, da anni ha investito per evitare di sprecarne anche una sola goccia. Così, alla Cop29 sul clima in corso a Baku, Israele ha presentato una delle sue start-up, H2oll, sviluppata presso il Technion-Israel Institute of Technology boicottato dalle università occidentali che si pasciono nell’ecologismo, e in grado di estrarre acqua dall’aria rarefatta nel deserto. Gideon Behar, “inviato speciale per il cambiamento climatico e la sostenibilità” d’Israele, guida la delegazione di Gerusalemme alla 29a Conferenza dell’Onu sul clima a Baku, in Azerbaigian. “A causa della nostra storia, Israele è una superpotenza globale nell’innovazione climatica”, racconta Behar. “Israele può davvero rendere il pianeta un posto migliore”. Bella lezione agli ecologisti occidentali alla Greta che urlano “nessuna giustizia climatica in Palestina”. Israele è leader mondiale nell’utilizzo dell’energia solare e nella conservazione dell’acqua (oggi la desalinizzazione fornisce più dell’80 per cento dell’acqua che bevono gli israeliani). Israele tratta l’86 per cento delle sue acque reflue domestiche e le ricicla per uso agricolo. Al secondo posto la Spagna con il 17 per cento (gli Stati Uniti riciclano solo l’un per cento). Un’altra start up israeliana presentata all’Onu è BlueGreen, con cui Israele elimina le fioriture di alghe tossiche, ripristinando l’equilibrio ecologico naturale nei laghi e nei bacini idrici. Una manna per i paesi africani e mediorientali. Innovazione, pionierismo e genio ebraico: così Israele è diventata più green di tutti i soloni ambientalisti occidentali che annunciano l’apocalisse, tirano zuppe sui dipinti e urlano “dal fiume al mare”.
Il Foglio, 22 novembre 2024)
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Hamas attacca i convogli umanitari? L’Onu incolpa Israele
di Iuri Maria Prado
Da mesi e mesi a questa parte non c’è un provvedimento della Corte Internazionale di Giustizia né un ricorso che ne reclami l’emissione, non c’è un rapporto o una risoluzione dell’Onu, non c’è una dichiarazione del procuratore della Corte Penale Internazionale, non c’è un appello di qualche sigla della cooperazione internazionale in cui non si denunci – imputandone la responsabilità a Israele – l’aggravarsi della situazione umanitaria a Gaza. Sul presunto “uso della fame come arma di guerra” si affastellano, da ormai più di un anno, le requisitorie secondo cui Israele sarebbe colpevole di crimini di guerra, di sterminio e di genocidio riducendo appunto alla fame, e in condizioni di carestia, la popolazione di Gaza. In particolare, Israele si abbandonerebbe alla commissione di quei crimini ostacolando il flusso degli aiuti e deliberatamente attaccando il personale e i convogli umanitari. È successo – non frequentemente – che nel corso di azioni belliche nella Striscia siano stati coinvolti operatori della cooperazione internazionale. A volte – raramente – per colpevole avventatezza delle forze israeliane; altre volte – banalmente quanto tragicamente – perché si tratta di uno scenario di guerriglia urbana in cui simili incidenti possono succedere con facilità. Ciò che invece non è successo – mai – è che Israele abbia programmato e messo in atto la campagna di assedio e sterminio per fame di cui si straparla e che – dopo un anno e passa di guerra, e se davvero avesse avuto luogo – avrebbe annichilito gran parte della popolazione di Gaza. L’altro giorno l’Unrwa (l’agenzia Onu per il sussidio dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente) denunciava che cento camion di aiuti erano stati attaccati da uomini armati, dunque sequestrati e finiti chissà dove. Una denuncia molto circostanziata salvo che per il trascurabile dettaglio relativo all’identità degli aggressori: non discutendosi di sterminatori israeliani, ma di miliziani palestinesi, era inutile esercitarsi in troppe precisazioni. Ma non era inutile, per il rappresentante dell’Onu incaricato di raccontare la vicenda, spiegare che Israele, in quanto forza occupante, dovrebbe garantire l’incolumità del personale umanitario. Come? Scortando i convogli? No, ha risposto, perché in tal modo quegli operatori diventerebbero un bersaglio della controparte. A quel punto gli hanno domandato: scusi, prima dice che l’esercito deve difendervi, poi dice che l’esercito dovrebbe stare lontano dai vostri convogli. Non c’è qualche contraddizione? Il signore dell’Onu l’ha sciolta così: “La migliore protezione è che la guerra finisca”. Bellissimo. Il guaio è che la guerra che non finisce è anche, anzi prima di tutto, la guerra che Hamas (il nome che l’Onu fatica a pronunciare) conduce invocando il martirio della propria popolazione, trasformando in bunker gli edifici dell’Onu, non liberando gli ostaggi, attaccando i convogli umanitari, inguattando gli aiuti e rivendendoli a strozzo alla povera gente. Ma non è materia per le indignazioni delle Nazioni Unite.
(Il Riformista, 21 novembre 2024)
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L'Aia inaugura la caccia allo stato ebraico
di Giulio Meotti
La Corte penale internazionale emette mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant per conto dello “stato di Palestina” governato da Hamas. Un attacco alla legittimità di Israele e una minaccia per tutto il mondo libero
La Corte Penale Internazionale dell’Aia ha emesso mandati d’arresto a carico di Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, e Yoav Gallant, ministro della difesa. Accomunare i leader israeliani democraticamente eletti agli autori del peggiore attacco contro gli ebrei dalla Seconda guerra mondiale aveva già mostrato quanto la Corte fosse una farsa pericolosa. Poi Israele ha eliminato tutti i leader di Hamas inseriti dal procuratore dell’Aia, Karim Khan, togliendo ai soloni della Corte anche la foglia di fico dell’equivalenza fra Hamas e Israele. Così sono rimasti Netanyahu e Gallant.
L’espediente dell’Aia consiste nel dichiarare che sta perseguendo questi mandati per conto dello “stato di Palestina”. Ma chi governa quello stato? A Gaza è Hamas dal 2007, due anni dopo che gli israeliani hanno ritirato tutti gli ebrei, civili e militari, e persino le tombe ebraiche. La Corte dell’Aia sta dunque aiutando una delle organizzazioni terroristiche più odiose del mondo a mantenere il proprio potere e persistere nelle sue politiche, queste sì, genocide. È un po’ come se un tribunale internazionale avesse emesso un mandato d’arresto contro Winston Churchill per i bombardamenti su Dresda e Amburgo. Contro l’Aia c’è bisogno di una mobilitazione internazionale, sia degli ebrei che dei non ebrei, perché dare la caccia a colui che si difende intimidito da mandati d’arresto non è una minaccia solo per Israele, ma per tutto il mondo libero che non vuole finire nella morsa del terrorismo e del sopruso.
Ora c’è da capire come potrà Israele evitare di essere trasformato in uno stato paria. La Corte ha giurisdizione solo nei paesi che hanno firmato un trattato del 1998 noto come Statuto di Roma. Israele non l’ha firmato. E nemmeno gli Stati Uniti. Ma l’Europa l’ha firmato e, se domani Netanyahu e Gallant mettessero piede in un paese europeo, questo sarebbe legalmente tenuto ad arrestarli. I leader israeliani sono di fatti banditi da 120 paesi firmatari dello Statuto.
L’Aia sorge non lontano da Amsterdam, dove due settimane fa è andata in scena la caccia all’ebreo. I giudici hanno appena dato il via alla caccia allo stato ebraico.
Il Foglio, 21 novembre 2024)
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Come liberarsi dal giogo di Hezbollah?
di Sarit Zehavi
Nel nord di Israele, la vita quotidiana si è fermata, sconvolta dall’incessante minaccia di attacchi missilistici e droni lanciati da Hezbollah. Nelle aree vicino al confine, le scuole sono chiuse, le strade non sono sicure e le famiglie, compresa la mia, vivono ai margini, con solo 15 secondi per raggiungere un rifugio quando suona l’allarme. L'obiettivo di Israele nella guerra è chiaro: un ritorno alla normalità, non limitato da deboli cessate il fuoco, ma sostenuto da un accordo di sicurezza duraturo. Tuttavia, per raggiungere questa stabilità è necessario affrontare il nocciolo della lotta del Libano: la sua incapacità di prendere decisioni nazionali senza l’approvazione di Hezbollah, sia politicamente che militarmente. Finché Hezbollah manterrà la sua roccaforte nel governo libanese, un cessate il fuoco stabile e duraturo rimarrà sfuggente, non solo per gli israeliani ma anche per il popolo libanese. Israele si trova di fronte a tre opzioni strategiche nella ricerca di una soluzione. La prima opzione, molto impegnativa, è quella di stabilire una zona di sicurezza fisica nel Libano meridionale per limitare la capacità di Hezbollah di lanciare attacchi, con l'esercito israeliano di stanza nel Libano meridionale. Tuttavia, questa zona di sicurezza avrebbe un costo elevato, ricordando i dolorosi precedenti interventi militari in Libano negli anni ’1980 e ’1990, con soldati di stanza in territorio ostile che rischiavano quotidianamente la vita. Questo approccio non è attraente dopo decenni di amare esperienze che Israele non vorrà ripetere. La seconda opzione, spesso discussa dai media israeliani durante gli attuali negoziati di tregua, prevede un’intensa e costante applicazione della legge da parte delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per frenare le attività di Hezbollah nel sud del Libano. Tuttavia, questo approccio solleva anche interrogativi. Un’applicazione militare prolungata potrebbe prevenire disordini quotidiani, ma potrebbe provocare ulteriori attacchi di ritorsione da parte di Hezbollah, perpetuando l’instabilità nel nord di Israele. Le comunità israeliane rimarrebbero vulnerabili agli attacchi e la vita normale rimarrebbe fuori portata nella zona. La terza e più praticabile opzione è l’istituzione di un cessate il fuoco globale e di un accordo di sicurezza solido e applicabile. Un simile accordo non deve solo limitare la libertà d'azione di Hezbollah, ma anche ridefinire completamente il rapporto del Libano con l'organizzazione terroristica sostenuta dall'Iran. Per raggiungere questo obiettivo, Israele e la comunità internazionale devono adottare un approccio strategico che enfatizzi sia gli incentivi che la responsabilità da parte del Libano, spingendolo a recidere i legami ufficiali con Hezbollah e a considerarlo per quello che è: un’organizzazione terroristica. Per raggiungere un accordo di sicurezza sostenibile, dobbiamo prima esaminare la natura del rapporto di Hezbollah con il Libano. L'organizzazione è più di un'entità terroristica pesantemente armata: è parte integrante della struttura politica del Libano e i suoi membri ricoprono posizioni di alto livello all'interno del governo libanese. Questa non è un'affiliazione casuale; Hezbollah ha un posto riconosciuto al tavolo, esercitando influenza sulla politica nazionale libanese e approfittando della sua posizione per rafforzare le sue operazioni. Ad esempio, la presenza di Hezbollah si estende anche ai punti critici di ingresso in Libano, come l’aeroporto di Beirut e i valichi di frontiera con la Siria, che rimangono sotto il controllo parziale di Hezbollah. Ciò è dovuto al fatto che il ministro ad interim responsabile dei punti di entrata e di uscita dal Libano è il ministro dei trasporti e dei lavori pubblici Ali Hamie, affiliato a Hezbollah. Ciò consente a Hezbollah di contrabbandare armi e risorse attraverso i confini, rafforzando ulteriormente le sue capacità militari ed erodendo la sovranità libanese. Non è ragionevole aspettarsi che il Libano applichi un accordo di tregua se Hezbollah rimane radicato nel suo governo. Anche se i funzionari libanesi possono offrire garanzie, la realtà è che hanno le mani legate finché l'influenza di Hezbollah non viene messa in discussione. Una negazione chiara e pubblica di Hezbollah è essenziale affinché il Libano riconquisti il suo status di nazione sovrana e diventi un partner credibile nel garantire la pace. Affinché il Libano possa liberarsi dall'influenza di Hezbollah è necessario che la comunità internazionale intervenga con incentivi e pressioni. Questo approccio ha un precedente nella risoluzione 1559 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che chiede lo scioglimento di tutte le forze armate non governative illegali in Libano. Tuttavia, fino ad ora, questa risoluzione è stata un gesto in gran parte simbolico, non attuato e largamente ignorato. Gli Stati Uniti, le Nazioni Unite e le principali nazioni occidentali devono svolgere un ruolo attivo nel sostenere il governo libanese affinché rimanga indipendente dall’influenza di Hezbollah. Gli aiuti finanziari, il sostegno militare e la legittimità internazionale devono essere subordinati all’adozione da parte del Libano di misure misurabili per tagliare i legami con Hezbollah. È contraddittorio inviare aiuti alle forze armate libanesi mentre Hezbollah, di fatto uno Stato nello Stato, mina la sicurezza stessa del Libano. Al di là delle implicazioni sulla sicurezza per Israele, il potere incontrollato di Hezbollah ha conseguenze devastanti per lo stesso Libano. Il popolo libanese si trova ad affrontare difficoltà economiche, instabilità politica e la costante minaccia di diventare un danno collaterale nelle campagne terroristiche di Hezbollah contro Israele. Il coinvolgimento di Hezbollah nella guerra civile siriana, per volere dell'Iran, ha spinto il Libano in conflitti regionali che non hanno fatto altro che esacerbare le turbolenze interne e le difficoltà economiche. Il Libano non può prosperare se rimane incatenato all’agenda di Hezbollah e dell’Iran, un’agenda che dà priorità agli interessi stranieri e alle guerre religiose rispetto alla prosperità libanese. Ci sono persone in Libano che si oppongono a Hezbollah e sostengono un Libano sovrano che possa prosperare in modo indipendente. Tuttavia, senza uno sforzo concertato da parte della comunità internazionale per esercitare pressioni sul governo libanese, queste voci sono troppo deboli e rischiano di essere soffocate. La comunità internazionale deve chiarire che il futuro del Libano come nazione pacifica e prospera dipende dalla sua volontà di affrontare la presenza destabilizzante di Hezbollah. Come cittadino israeliano che vive nel nord, capisco profondamente il desiderio di calma e sicurezza. Ma questa calma non può essere superficiale né può essere raggiunta attraverso false soluzioni. Israele adotterà le misure necessarie per proteggere i suoi cittadini, ma dobbiamo anche esortare il Libano a riconoscere che Hezbollah costituisce un ostacolo alla propria stabilità e al proprio futuro. Hezbollah deve essere privato della sua legittimità politica. Solo allora il Libano potrà riconquistare la propria sovranità, e solo allora Israele e il Libano potranno cercare un futuro più sicuro.
(Aurora Israel , 20 novembre 2024)
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Cosa cambia per Israele con il ritorno di Trump
di Nathan Greppi
Il risultato delle elezioni americane del 5 novembre ha aperto diversi possibili scenari su come cambierà l’atteggiamento di Washington nei confronti di Israele e della guerra in corso quando, il 20 gennaio 2025, Donald Trump rientrerà alla Casa Bianca. In molti pensano che sosterrà le decisioni del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu molto più di quanto non facesse Joe Biden.
Tuttavia, non mancano gli episodi che fanno pensare ad una rotta diversa rispetto al suo primo mandato; ad esempio, il fatto che personaggi fortemente filoisraeliani come Mike Pompeo e Nikki Haley non faranno parte del nuovo governo. In compenso, la scelta per l’Ambasciatrice americana all’ONU è caduta su una figura altrettanto vicina a Israele, la deputata Elise Stefanik, nota per aver condotto nel dicembre 2023 l’interrogazione sull’antisemitismo nelle università della Ivy League.
• GIUDIZI SU BIDEN Sull’operato del presidente uscente in merito alla guerra in corso tra Israele da una parte e Hamas e Hezbollah dall’altra, “l’opinione pubblica israeliana è divisa”, spiega a Mosaico la giornalista israeliana Ruthie Blum, nata a New York e che in passato ha lavorato come consigliere nell’ufficio del Primo Ministro Netanyahu. “All’inizio della guerra, molti israeliani erano convinti che Biden fosse sincero nel sostenerli dopo il 7 ottobre. Ma prima ancora che Israele iniziasse l’operazione di terra a Gaza, il Dipartimento di Stato americano aveva già cercato di scoraggiarli dall’entrare nella Striscia”.
Questo posizionamento, secondo la Blum, non ha stupito gli israeliani, in quanto “nel corso degli anni, il Partito Democratico si è spostato sempre più a sinistra, ed è diventato sempre più critico nei confronti d’Israele. E questa amministrazione, in particolare, si è rivelata una copia dell’Amministrazione Obama”, che aveva pessimi rapporti con Netanyahu.
• LA REAZIONE DEI PAESI ARABI Israele non è l’unico Stato del Medio Oriente ad aver seguito le elezioni americane con il fiato sospeso: anche i paesi arabi hanno i loro interessi da difendere, che possono risentire positivamente o negativamente della politica estera statunitense.
“Trump è più rispettato nel mondo arabo che nell’Europa occidentale”, spiega a Mosaico l’ex-diplomatico americano Alberto Miguel Fernandez, con una lunga esperienza di lavoro nelle ambasciate USA nei paesi islamici e oggi vicepresidente del MEMRI (Middle East Media Research Institute). “È visto come una figura forte e nazionalista, una visione del mondo che gli arabi comprendono, riconoscono e più o meno rispettano. Essere nazionalisti non è visto in modo negativo nella regione. Egli è anche percepito come un politico pragmatico, il che è un sollievo per molti se paragonato a pericolosi ideologi come George W. Bush, che invadono e distruggono le nazioni”.
Fernandez aggiunge che “molti arabi musulmani sunniti, che sono la maggioranza della popolazione nella regione, hanno anche apprezzato il fatto che Trump abbia eliminato una figura come il generale iraniano Qassem Soleimani, visto come un famigerato macellaio che ha fatto strage di arabi sunniti in Siria e altrove. Distribuivano dolci per le strade quando “Abu Ivanka” (padre di Ivanka in arabo) ha fatto fuori Soleimani. Gli occidentali vedono solo cose come il “Muslim Ban”, e pensano che danneggi il rapporto di Trump con i musulmani: tuttavia, gli stessi paesi musulmani controllano rigorosamente l’immigrazione e chi può diventare un loro cittadino”.
• EBREI AMERICANI E ISRAELIANI A CONFRONTO Nonostante Trump abbia sottratto ai democratici numerosi voti tra le minoranze, e in particolare tra i neri e i latinos, tra gli ebrei americani le cose sono andate diversamente: secondo la NBC, il 78% degli elettori ebrei ha votato per la Harris. Ma se a livello nazionale gli ebrei americani sono rimasti ancorati al Partito Democratico, a New York le cose sono andate diversamente: qui, circa il 45% dell’elettorato ebraico ha votato Trump, mentre nel 2020 aveva preso solo il 30% tra gli ebrei newyorkesi.
Se durante le elezioni gli ebrei americani erano in larga parte schierati contro Trump, tra gli ebrei israeliani invece il 72% riteneva che Trump fosse il candidato migliore per Israele, secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute (salendo al 90% tra i giovani nella fascia d’età 18-34 anni). Solo l’11% degli ebrei israeliani pensava che la Harris fosse l’opzione migliore per Israele.
La ragione di questa divergenza è dovuta al fatto che “gli ebrei americani sono tradizionalmente democratici”, spiega Ruthie Blum. “Sono rimasti fermi ai tempi in cui il Partito Democratico era il più accogliente nei confronti degli ebrei, mentre i repubblicani erano il partito dell’alta società WASP (White Anglo-Saxon Protestant). Ma tutto questo è cambiato molto tempo fa: oggi il Partito Repubblicano rappresenta la classe operaia, mentre i democratici sono il partito delle élite”.
Ha aggiunto che gli Stati Uniti non sono più quelli di una volta: “Crescendo in America, non ho mai subito antisemitismo. Ma dopo il 7 ottobre è esploso, il che ha scosso molti ebrei. Ma anche se sono rimasti scossi da questi rigurgiti di antisemitismo a sinistra, molti di loro hanno scelto di non votare comunque Trump, e il giorno delle elezioni hanno preferito non andare a votare e restare a casa”. In compenso, se tra gli ebrei ortodossi il voto repubblicano è superiore alla media, secondo la Blum ciò non è dovuto solo al fatto che sono più conservatori: “Gli ebrei non praticanti in America non sono facilmente riconoscibili. Mentre gli ortodossi, con i cappelli neri, le kippot e le peot, sono più facili da riconoscere, e questo li rende anche più esposti ad aggressioni fisiche per le strade”.
Secondo lei un altro motivo riguarda il fatto che, mentre gli israeliani devono sempre fare il servizio militare perché storicamente circondati da nemici, gli ebrei americani invece tendono ad essere molto più pacifisti: “Anche quando l’America era in guerra, ad esempio in Vietnam, la maggior parte degli ebrei cercò di evitare l’arruolamento, ad esempio andando all’università. Gli ebrei che vivono in Israele, invece, non possono permettersi questo lusso”.
• LA COMUNITÀ ARABA NEGLI STATI UNITI Un altro fenomeno da prendere in considerazione è la comunità araba americana, che soprattutto in Michigan ha scelto di penalizzare Biden e la Harris per via del loro operato relativo a Israele e a Gaza: per fare un esempio, nella città di Dearborn, situata in Michigan e che ospita una delle più grandi comunità arabe negli Stati Uniti, la Harris ha preso solo il 36% dei voti. Una fetta consistente di quelli che ha perso è andata alla candidata presidente del Partito Verde Jill Stein, ferocemente antisionista e che a Dearborn ha preso il 18% dei voti, quando a livello nazionale ha preso solo lo 0,4%.
Secondo Alberto Fernandez, gli elettori arabi e musulmani “vedono la Harris, e più in generale l’Amministrazione Biden-Harris, come se avesse le mani sporche di sangue, dato il bilancio delle vittime a Gaza e in Medio Oriente. I democratici hanno trovato un modo creativo per far arrabbiare sia gli ebrei che gli arabi. Trump ha ottenuto tra le comunità musulmane e arabe del Michigan un consenso senza precedenti, ma anche a livello nazionale si è presentato come il candidato della pace. Qualcosa che molti americani, almeno in queste elezioni, hanno giudicato positivamente”.
• LE PROSPETTIVE CON TRUMP
Alla luce di tutti questi fattori, occorre chiedersi cosa accadrà quando Trump tornerà ad essere presidente: le sue politiche saranno le stesse del periodo 2017-2021? O ci saranno delle differenze?
A questo proposito, la Blum fa notare che il tycoon “è circondato da certe figure, come il conduttore Tucker Carlson, che sono fortemente isolazioniste. E lo stesso Trump ha detto chiaramente ‘Io pongo fine alle guerre, non le comincio’. Questo rende nervose molte persone, le quali temono che Trump non permetterà ad Israele di vincere la guerra. Ma mentre Biden ha continuato a parlare di cessate il fuoco, Trump ha detto che Israele deve finire in fretta la guerra, ma nel senso che deve vincerla in fretta. E non è la stessa cosa”.
Anche Fernandez è più o meno dello stesso avviso: “Trump sarà prevedibilmente un forte sostenitore di Israele, e non limiterà la vendita di armi a Gerusalemme. In generale, sarà molto più favorevole a Israele di quanto non lo fosse Biden. Ma anche se è contro il regime di Teheran, non vuole vedere gli Stati Uniti venire coinvolti in avventure militari all’estero, nemmeno per sostenere Israele. Quindi sarà politicamente contro il regime iraniano, e probabilmente aumenterà le sanzioni contro l’Iran allo stesso livello di quelle imposte durante la sua prima amministrazione, ma al tempo stesso traccerà una linea per evitare un coinvolgimento in qualsiasi conflitto diretto con l’Iran”.
(Bet Magazine Mosaico, 21 novembre 2024)
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“Trump è in una posizione unica per stabilizzare il Medio Oriente”
“Trump si è strategicamente circondato di una squadra di leader esperti che hanno una profonda comprensione delle complesse dinamiche del Medio Oriente”.
di Etgar Lefkovits
Il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump e la sua nuova amministrazione sono “in una posizione unica” per stabilizzare il Medio Oriente, ha dichiarato mercoledì il vice ministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel. “Il Presidente Trump si è strategicamente circondato di una squadra di leader esperti che hanno una profonda comprensione delle complesse dinamiche del Medio Oriente e della grave minaccia posta a Israele dai suoi nemici”, ha dichiarato Haskel a JNS. “Sostenuto da questa squadra di alto livello, il Presidente Trump si trova in una posizione unica per stabilizzare la regione e garantire un futuro migliore e più prospero - un futuro che serve non solo alla sicurezza di Israele, ma anche agli interessi strategici degli Stati Uniti e delle democrazie di tutto il mondo”, ha aggiunto. La partnership tra Israele e gli Stati Uniti si basa su valori condivisi, principi democratici e interessi comuni, ha dichiarato Haskel. “Insieme, affrontiamo molte sfide, ma abbiamo anche incredibili opportunità per promuovere la pace e la stabilità nella regione”. Tra i candidati di Trump figurano il senatore Marco Rubio, amico convinto dello Stato ebraico e noto per la sua politica estera energica, l'ex governatore dell'Arkansas Mike Huckabee, pastore e convinto sostenitore di Israele, e la rappresentante Elise Stefanik, che ha acquisito notorietà a livello nazionale e internazionale per aver denunciato i presidenti delle università d'élite per antisemitismo nei campus statunitensi; Pete Hegseth, conduttore televisivo americano ed ex ufficiale della Guardia Nazionale dell'Esercito, che ha criticato apertamente l'Iran, e Steve Witkoff, investitore immobiliare ebreo americano e sostenitore di Israele. Il genero di Trump , Jared Kushner, che ha guidato gli storici accordi di Abraham del 2020, dovrebbe essere un consulente esterno del governo statunitense. Sarà sicuramente un pilastro della politica mediorientale di Trump, che spinge per un accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita. “Le nomine del gabinetto sono motivo di festa e saranno molto positive sia per Israele che per gli Stati Uniti”, ha dichiarato a JNS il ministro israeliano per gli Affari della Diaspora Amichai Chikli. Chikli ha poi affermato di aspettarsi “grandi cambiamenti” per il Medio Oriente e oltre con la nuova amministrazione statunitense, sottolineando la “chiarezza morale, la visione e la vera amicizia” con Israele dei candidati. Il ministro, responsabile della lotta all'antisemitismo, ha osservato che la nomina di Stefanik ad ambasciatore alle Nazioni Unite è una “cattiva notizia” per organizzazioni come l'UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione della Palestina nel Vicino Oriente). La nuova amministrazione statunitense è una cattiva notizia anche per l'Iran. “È chiaro a tutti i membri della squadra di Trump che l'Iran sventola la bandiera del dispotismo e della tirannia, mentre Israele sventola la bandiera della libertà”, ha affermato. Il ministro israeliano dell'Innovazione e della Scienza, Gila Gamliel, che, come il viceministro degli Esteri Haskel, presiede il Christian Allies Caucus alla Knesset, è d'accordo con lui. “Sono fiduciosa che il Presidente Trump e la sua squadra di alti membri del gabinetto e di consiglieri, che conoscono a fondo le sfide di sicurezza di Israele e il suo ruolo unico di leader nella lotta contro l'estremismo islamico, possano fare la storia con una storica pace regionale in Medio Oriente”, ha detto Gila Gamliel, che ha aggiunto: ‘Questo aprirà la strada a un cambiamento fondamentale nella regione per le generazioni a venire’.
(The Times of Israel, 21 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La verità nelle dichiarazioni di Tajani su Unifil
di Ugo Volli
• GLI SPARI CONTRO L’ONU
Come hanno riportato tutti i giornali (ma con pochissima evidenza) l’altro giorno sei missili sparati da Hezbollah hanno colpito una base delle forze Onu nel Libano meridionale, ferendo alcuni militari del Ghana. Dato che questa è un’aggressione diretta, si tratta di un episodio ben più grave delle azioni che l’esercito israeliano aveva compiuto qualche settimana fa non contro i militari dell’Onu ma contro i loro apparati elettronici e fisici di sorveglianza (torrette, telecamere, un cancello). La ragione di questo episodio è il fatto ampiamente documentato che le attrezzature dell’Onu erano sfruttate dai terroristi di Hezbollah, i quali avevano costruito caserme, punti di tiro, depositi d’armi e addirittura campi di addestramento a pochi passi dalle postazioni dell’Onu e sotto i loro occhi. Ma mentre in quel caso l’episodio era finito nei titoli di testa di tutti i giornali, vi erano state dichiarazioni durissime del ministro della Difesa Crosetto e anche del Presidente della Repubblica Mattarella, questa volta l’attacco di Hezbollah è passato praticamente inosservato. Crosetto ha di nuovo accusato l’esercito israeliano, senza nessuna giustificazione concreta; il Ministro degli Esteri Tajani l’ha corretto con una dichiarazione piuttosto sconcertante, che merita di essere attentamente meditata: “È inammissibile che si spari contro il contingente Unifil. Non hanno alcun diritto di farlo, sono truppe che hanno garantito anche la sicurezza di Hezbollah. Se è stato un errore, imparino a utilizzare meglio le armi”. È una considerazione che non può non lasciare molto perplessi: le truppe Onu, cui l’Italia contribuisce più di ogni altro Paese, servono dunque a garantire i terroristi? E uno stato democratico può invitarli a “sparare meglio”, cioè non contro l’Onu ma contro Israele? È questo forse il compito dell’Onu? Per capirlo bisogna fare un passo indietro.
• CHE COSA FANNO LE FORZE DELL’ONU IN LIBANO?
Uno dei fatti importanti della guerra difensiva che Israele sta sostenendo è che in Libano esiste una forza armata dell’ONU, che viene chiamata con la sigla UNIFIL. È una presenza che dura dal 1978 e che oggi è regolata dalla risoluzione 1701 dell’11 agosto 2006, più volte prorogata. La risoluzione formalizzava l’accordo per la conclusione della “seconda guerra del Libano”: l’esercito israeliano si ritirava dal territorio libanese, si costituiva una zona smilitarizzata in Libano fra il confine con Israele e il fiume Litani una ventina di chilometri più al nord (è il territorio dove si combatte oggi). La risoluzione impegnava il Governo libanese “a sorvegliare i propri confini in modo da impedire l’ingresso illegale in Libano di armamenti e materiali connessi”, e tutti gli Stati ad adoperarsi affinché armamenti, materiali bellici e assistenza tecnico-militare siano forniti “solo su autorizzazione del Governo libanese o dell’UNIFIL”. Tra i compiti di UNIFIL era stabilito anche quello di monitorare l’effettiva cessazione delle ostilità, di “mettere in atto i provvedimenti che impongono il disarmo dei gruppi armati in Libano”.
• LA VERITÀ NELLE PAROLE DI TAJANI
Queste sono le parole della risoluzione e dell’accordo che ha messo fine alla guerra del 2006. In realtà il comportamento di Unifil è stato assai diverso: non ha fatto nulla per disarmare Hezbollah; ha accettato senza reagire che i villaggi al confine con Israele diventassero fortificazioni, caserme, rampe di lancio missilistiche; non ha reagito al fatto che esse fossero massicciamente usate nell’ultimo anno (dal Libano sono stati sparati su Israele circa 15.000 missili, la maggior parte da località sotto il controllo di Unifil). In diverse circostanze i militari dell’Onu hanno clamorosamente accettato il dominio terrorista sul loro territorio, lasciandosi addirittura più volte arrestare e disarmare da loro. E non hanno mai impedito e neppure segnalato la costruzione di basi militari a ridosso delle loro installazioni. In sostanza dunque hanno interpretato il loro ruolo come ha detto Tajani: hanno protetto la sicurezza di Hezbollah, magari aiutando i terroristi a “sparare bene”, contro Israele. In sostanza, quel che emerge dalla sincera dichiarazione di Tajani è che, come ha più volte detto il presidente Cossiga, nel Libano meridionale vige una sorta di “Lodo Moro”: libertà d’azione per i terroristi in cambio dell’incolumità (neppure sempre garantita, come si vede in quest’ultimo episodio) per i militari dell’Onu. Un arrangiamento che mostra come le forze internazionali in un conflitto come quello fra i terroristi e Israele, è peggio che inutile: programmaticamente dannoso.
(Shalom, 21 novembre 2024)
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Fallisce il tentativo di Bernie Sanders di bloccare le armi americane per Israele
Ci è difficile capire il motivo per cui questi estremisti vengono chiamati "progressisti". Come fanno ad essere progressisti i sostenitori di Hamas?
di Sarah G. Frankl
Poco più di un terzo dei senatori democratici ha votato a favore di un tentativo fallito di bloccare la vendita di proiettili per carri armati a Israele, una misura che ha messo alla prova la forza dell’ala progressista del partito, che ha spinto per una linea più dura nei confronti dello Stato ebraico per la sua prosecuzione della guerra contro Hamas a Gaza. Diciotto legislatori, tutti democratici, hanno votato a favore della misura proposta dal senatore Bernie Sanders insieme a tre colleghi estremisti, mentre 79 legislatori di entrambi i partiti l’hanno respinta. È stata la prima delle tre risoluzioni congiunte di disapprovazione (JRD) presentate dagli estremisti guidati da Sanders, con le ultime misure volte a bloccare la vendita di colpi di mortaio e munizioni congiunte di attacco diretto (JDAM). I tre trasferimenti di armi ammontano a oltre 10 miliardi di dollari in assistenza alla sicurezza. La maggioranza dei senatori democratici ha respinto lo sforzo, che si sapeva già da tempo essere un fallimento. Tuttavia, il numero di democratici a disagio con la campagna militare di Israele a Gaza è apparentemente aumentato. Una risoluzione di Sanders del gennaio scorso volta a congelare gli aiuti statunitensi a Israele se il Dipartimento di Stato non avesse prodotto entro 30 giorni un rapporto sulle presunte violazioni dei diritti umani da parte di Israele a Gaza ha ottenuto solo 10 voti democratici. È improbabile che il voto di oggi soddisfi pienamente entrambe le parti del dibattito all’interno del Partito Democratico, dato che i membri più pro-Israele hanno mantenuto la maggioranza, mentre gli estremisti hanno aggiunto diversi membri di spicco. Entrambi i senatori Jon Ossoff e Raphael Warnock della Georgia hanno votato per bloccare la vendita di armi insieme al democratico n. 2 al Senato Dick Durbin e al membro di rango entrante del Comitato per le relazioni estere del Senato Jeanne Shaheen. Nessuno di questi quattro ha votato a favore della risoluzione guidata da Sanders a gennaio. Altri democratici che hanno votato a favore sono stati i senatori Martin Heinrich, Mazie Hirono, Tim Kaine, Angus King, Ed Markey, Jeff Merkley, Brian Schatz, Tina Smith, Elizabeth Warren, Peter Welch, Chris Van Hollen, Ben Ray Lujan e Chris Murphy. Una democratica, la senatrice del Wisconsin Tammy Baldwin, ha votato “presente”. Nel portare la misura al voto, Sanders ha descritto in dettaglio la spirale della crisi umanitaria a Gaza, evidenziando le decine di migliaia di civili uccisi e le condizioni sempre più disastrose di coloro che sono riusciti a sopravvivere. Ha citato testimonianze delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie che affermano che Israele sta bloccando gli aiuti umanitari affinché raggiungano i civili. Israele afferma di adottare misure per evitare di danneggiare i civili, mentre Hamas combatte tra loro, e ha respinto le affermazioni secondo cui sta bloccando gli aiuti ai palestinesi. Ieri, alcuni funzionari statunitensi hanno rivelato che l’amministrazione Biden ha fatto pressioni sui democratici affinché non sostenessero la misura , sostenendo che negare a Israele tali armi avrebbe incoraggiato gli avversari di Israele, non avrebbe affrontato la crisi umanitaria e avrebbe privato Israele di ciò di cui ha bisogno per difendersi.
(Rights Reporter, 21 novembre 2024)
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Israele ha ucciso due comandanti Hezbollah incaricati di lanciare missili
Le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno annunciato questo mercoledì la morte, diversi giorni fa, di due comandanti dell'organizzazione terroristica sciita libanese Hezbollah, responsabile del lancio di razzi contro il nord di Israele.
"L'aeronautica israeliana ha eliminato (domenica 17) i comandanti dei missili anticarro e delle unità operative di Hezbollah nel settore costiero", ha riferito in un comunicato l'organismo militare.
Secondo il testo, i due uomini, i cui nomi e luogo di morte non sono stati rivelati, erano responsabili di "attacchi missilistici contro comunità civili nella regione della Galilea occidentale e nella pianura costiera di Israele".
Le truppe israeliane hanno riferito che lo stesso giorno in cui i comandanti sono stati eliminati, hanno attaccato più di 100 obiettivi in Libano, tra cui lanciatori, depositi di armi e centri di comando.
Da parte sua, il capo del Comando Nord, generale Ori Gordin, che dirige le operazioni contro Hezbollah in Libano, ha sottolineato oggi che i soldati stanno ottenendo “buoni risultati”, nel quadro dell’obiettivo generale che si sono prefissati, che è quello di “creare le condizioni per il ritorno sicuro dei residenti del nord alle loro case”. Goldin ha aggiunto che le capacità di Hezbollah di attaccare Israele sono state "drasticamente ridotte".
Da parte israeliana, 77 persone sono state uccise in attacchi lanciati dal Libano, di cui 46 civili (di cui 6 stranieri). Inoltre, 43 soldati sono caduti in combattimento nel sud del paese vicino.
(Aurora, 20 novembre 2024)
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La Conferenza dei Rabbini Europei risponde a Papa Francesco
“Le affermazioni del Papa sono propaganda subdola”
di Luca Spizzichino
Il dibattito sulle parole di Papa Francesco riguardo alla guerra tra Israele e Hamas si accende ulteriormente, con la Conferenza dei Rabbini Europei (CER) che esprime preoccupazione per le dichiarazioni del pontefice. In una nota del suo Comitato Permanente ha dichiarato di essere “profondamente turbata” da questa affermazione. Citando la definizione di genocidio secondo la Convenzione Internazionale per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio, che include “atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso,” i rabbini hanno sottolineato come Israele stia conducendo una guerra difensiva.
“Mentre l’efficacia della guerra di Israele contro Hamas può essere oggetto di dibattito, essa rimane una risposta militare agli attacchi terroristici del 7 ottobre e alla minaccia esplicita di Hamas di replicare tali massacri indiscriminati. Israele è impegnato nel rispetto del diritto umanitario internazionale, mentre Hamas viola sistematicamente ogni norma di tale diritto”, afferma la Conferenza dei Rabbini Europei.
Particolarmente dura è stata la critica all’uso del termine “genocidio,” considerato una “propaganda subdola” che sposta la responsabilità dai perpetratori alle vittime, trasformando lo Stato di Israele in un simbolo di colpa. “Hamas, al contrario, ha manifestato chiaramente, nei suoi atti e nei suoi documenti fondanti, un’intenzione genocida nei confronti del popolo ebraico”, continua la nota.
“La Torah insegna che ‘la vita e la morte sono nelle mani della lingua’ e l’esperienza storica, segnata da un crescente antisemitismo, conferma che ogni parola emessa da una figura di spicco ha immense conseguenze”, si legge infine nella nota.
Anche l’Assemblea Rabbinica Italiana (ARI) si è espressa con fermezza, descrivendo le dichiarazioni del Papa come “apparentemente prudenti”, ma che in realtà “rischiano di essere molto pericolose”. In un comunicato, i rabbini italiani hanno sottolineato che “le parole sono importanti e bisogna stare molto attenti a come usarle, soprattutto se si svolge un ruolo di guida religiosa”. L’ARI ha ricordato come, nel corso della storia, gli ebrei siano stati accusati di crimini infamanti, come il deicidio o l’omicidio rituale, con conseguenze devastanti. Alla luce di questo, hanno avvertito che “considerare le colpe in modo unilaterale e trasformare gli aggrediti in aggressori” è il modo peggiore per perseguire la pace.
(Shalom, 20 novembre 2024)
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“Città libera da ebrei”
Adesivi nelle strade di Apeldoorn, in Olanda, dove neanche la statua di Anne Frank è al sicuro.
di Giulio Meotti
ROMA - Dei 1.549 ebrei di Apeldoorn, in Olanda, deportati dai nazisti tornarono in 150. Sopravvissuti alla Shoah e loro famigliari questa settimana si sono svegliati con degli strani adesivi affissi nelle strade: “Apeldoorn Joden vrij”. Apeldoorn libera dagli ebrei. Donald de Leeuw, uno dei capi della piccola comunità ebraica di Apeldoorn, dice al Telegraaf: “49 membri della famiglia non sono sopravvissuti. Non ho cugini. Ora posso immaginare cosa provassero. Non indosso più la kippah fuori”.
I pazienti dell’ospedale ebraico di Apeldoorn il 21 gennaio 1943 furono caricati dai nazisti sui treni per Auschwitz. Il trasporto di 921 pazienti, tra cui bambini e personale medico, arrivò a Birkenau il 24 gennaio. 869 di loro furono subito mandati subito a morire nelle camere a gas.
Intanto neanche la statua di una delle figlie più famose e tragiche di Amsterdam, Anne Frank, è al sicuro. In una nazione un tempo rinomata per la sua tolleranza e il suo liberalismo, la statua di Anne Frank in un parco pubblico deve ora essere sorvegliata 24 ore su 24 con telecamere intelligenti e luci di sicurezza: si teme che venga nuovamente vandalizzata di vernice rossa e deturpata con le parole “Liberate Gaza”. Intanto Femke Halsema, sindaco di sinistra di Amsterdam, torna indietro sull’uso della parola “pogrom” usata per la notte dell’attacco ai tifosi israeliani del Maccabi. In questo nuovo clima culturale gli ebrei hanno paura. “La gente ha paura: possiamo noi ebrei camminare per strada con una kippah o una stella di David senza essere attaccati? Senza che ci venga chiesto il passaporto, senza che venga gridato ‘caccia agli ebrei’?”, ha detto Menno ten Brink, un rabbino liberale di Amsterdam.
Hanno iniziato con le città “Zionist frei”. Come Leicester, la decima città più grande del Regno Unito. La prima a mettere al bando tutti i prodotti “made in Israel”. Nella città irlandese di Kinvara i negozi, i ristoranti e persino le farmacie non vendono più prodotti israeliani, nemmeno gli antibiotici della Teva, leader israeliana dell’industria farmaceutica. Ora sono passati allo Jüdenfrei.
Il presidente fondatore dell’Associazione ebraica europea, Menachem Margolin, lunedì ha chiesto all’Unione europea di dichiarare un periodo di emergenza di sei mesi per attuare misure speciali per affrontare la minaccia dell’antisemitismo, aumentando sicurezza e fondi per i siti ebraici. Menachem Margolin ha detto da Cracovia: “La situazione del popolo ebraico in Europa oggi è la peggiore dalla Kristallnacht”.
E intanto il capo della polizia di Berlino sembra riportarci ai tempi del nazismo. Barbara Slowik, capo della polizia berlinese, ha detto alla Berliner Zeitung: “Ci sono aree – e dobbiamo essere così onesti a questo punto – dove consiglierei alle persone che indossano la kippah o sono apertamente gay o lesbiche di essere più attente. Ci sono alcuni quartieri in cui vivono persone di origine araba, che hanno anche simpatie per i gruppi terroristici. L’ostilità aperta si articola lì contro le persone di fede e origine ebraica”. Abe Foxman, nato in Polonia nel 1940, sopravvissuto alla Shoah e che ha trascorso mezzo secolo a dirigere l’Anti-Defamation League americana, ha appena detto a Forward: “Penso che l’Europa sarà Jüdenrein”.
Il Foglio, 20 novembre 2024)
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Autorità Palestinese condannata a risarcire le vittime dell’attacco al ristorante Sbarro nel 2001
di David Fiorentini
Il 9 agosto 2001, un attentatore suicida si fece esplodere dentro al ristorante Sbarro a Gerusalemme, ferendo 130 civili e uccidendone 16, di cui 4 bambini. A più di un decennio di distanza, il Tribunale distrettuale di Gerusalemme ha condannato l’Autorità Palestinese (PA) e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a risarcire le famiglie delle vittime dell’attacco con una somma pari a 10 milioni di shekel israeliani, circa 2,5 milioni di euro, per ogni vittima. La storica decisione riprende una sentenza della Corte Suprema israeliana del 2022, secondo cui l’Autorità Palestinese è da ritenere corresponsabile di tutti gli attentati terroristici perpetrati da palestinesi in Israele, a causa delle sue politiche assistenzialistiche nei confronti degli attentatori e delle loro famiglie. Oltre alla conclusione di un percorso legale annoso, la sentenza assume una rilevanza particolare poiché potrebbe diventare un precedente a cui le vittime del massacro del 7 ottobre 2023 potrebbero appellarsi per richiedere risarcimenti alla PA. Proprio nel marzo 2024, la Knesset ha promulgato una legge che impone alle organizzazioni sostenitrici del terrorismo una sanzione di 2,7 milioni di dollari per ogni persona uccisa e di 1,35 milioni di dollari per ogni ferito. Tuttavia, fino ad oggi non erano ancora mai state emesse sentenze basate su questa legge, considerata incostituzionale e nulla dalla PA. Per la prima volta, il giudice Arnon Darel del Tribunale di Gerusalemme ha applicato la nuova normativa, disponendo un ulteriore risarcimento per danni, inclusi dolore e sofferenza, ridotta aspettativa di vita e mancati guadagni, per un totale aggiuntivo di 5,4 milioni di dollari. L’intera ammenda sarà trattenuta dalle entrate fiscali che Israele raccoglie mensilmente per conto della PA dal 2018. “I palestinesi non potranno sostenere le conseguenze finanziarie,” ha affermato Meir Schijveschuurder, avvocato delle vittime, tra cui compaiono i suoi genitori e tre fratelli. La delibera, auspica, “porterà sollievo alle famiglie delle vittime e ridurrà significativamente il terrorismo”.
(Bet Magazine Mosaico, 20 novembre 2024)
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Netanyahu: Hamas non governerà mai più la Striscia di Gaza
Circa la metà dei 101 ostaggi detenuti dai terroristi sono ancora vivi, ha dichiarato il Primo Ministro ai parlamentari.
Hamas continua a ostacolare i negoziati in corso per uno scambio di ostaggi in cambio di un cessate il fuoco, nella speranza di porre fine alla guerra e riconquistare il potere a Gaza, ha dichiarato lunedì il Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset.
“L'unica cosa che Hamas vuole è un accordo che ponga fine alla guerra e il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza per tornare al potere”, ha detto il primo ministro, secondo Walla. “In nessun modo sono disposto a permettere che questo accada”.
Netanyahu ha detto ai parlamentari che il gruppo terroristico palestinese “vede la pressione” esercitata sul suo governo sia a livello nazionale che internazionale e crede di poter ostacolare i colloqui per raggiungere condizioni migliori.
Durante l'incontro a porte chiuse, il Primo Ministro ha affermato di ritenere che circa 50 dei 101 ostaggi detenuti da Hamas siano ancora vivi.
Ha detto ai membri del comitato che, sebbene non vi sia alcuna proposta concreta al momento, negli ultimi giorni sono “emerse diverse idee”.
Il quotidiano Al-Araby Al-Jadeed, con sede in Qatar, ha citato una fonte di Hamas all'inizio della settimana, affermando che la leadership dell'organizzazione islamista aveva interrotto ogni contatto con le persone che detengono effettivamente gli ostaggi a causa delle “strette misure di sicurezza per proteggere l'importante carta negoziale”.
La fonte ha aggiunto che Hamas si è rifiutato di fornire informazioni sul luogo e sullo status degli ostaggi, in particolare di quelli con cittadinanza statunitense, perché non gli è stato offerto un “compenso” dai mediatori.
Secondo Channel 12, Netanyahu ha osservato lunedì che mentre l'operazione delle Forze di Difesa israeliane a Gaza ha distrutto la maggior parte delle infrastrutture “militari” di Hamas, le sue capacità di governo sono rimaste in gran parte intatte.
Secondo quanto riferito, Netanyahu avrebbe incaricato i funzionari di redigere un piano entro il 21 novembre per sostituire Hamas nella distribuzione degli aiuti umanitari.
Sempre lunedì, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che guida il partito del Sionismo religioso, ha dichiarato ai giornalisti che le forze israeliane dovrebbero occupare l'intera parte settentrionale della Striscia fino al rilascio degli ostaggi.
Gerusalemme deve “far capire ad Hamas che se gli ostaggi non tornano, eserciteremo la nostra sovranità e resteremo lì per sempre”, ha detto, aggiungendo: “Allora Hamas avrà la motivazione per lasciarli vivere”.
Il 7 ottobre 2023, circa 1.200 ebrei israeliani sono stati uccisi da Hamas, altre migliaia sono stati feriti e altri 251 sono stati rapiti nella Striscia di Gaza. I colloqui indiretti tra Israele e Hamas, in cui Stati Uniti, Egitto e Qatar agiscono come mediatori, si trascinano da mesi.
La restituzione degli ostaggi, che sono ancora trattenuti dai terroristi di Hamas dopo 409 giorni, rimane “l'obiettivo più importante” nella guerra in corso, ha ribadito il Ministro della Difesa Israel Katz in una dichiarazione di domenica. (JNS)
(Israel Heute, 19 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Se Hezbollah bombarda l’Unifil è l’ora di sloggiare
di Dmitri Buffa
Il presidente argentino Javier Milei, che è il vero rappresentante di una destra liberista e libertaria, senza appesantimenti ideologici nazionalisti o post fascisti, l’antifona l’ha già capita: dal Libano per l’Unifil è l’ora di sloggiare. Si dirà: per lui è facile, aveva solo tre funzionari militari di numero e avevano le valigie già pronte. Ma se Hezbollah, in una mossa disperata e con l’intento di fare ricadere la colpa su Israele, continuasse a bombardare le strutture Onu, che difesa ci sarebbe da parte di questi soldati e soldatini, un po’ raccomandati e super stipendiati che per anni sono stati lì a fare le belle statuine mentre gli sciiti di Teheran si armavano fino ai denti? La risposta è semplice: nessuna difesa. Bisognerebbe estendere loro il sistema Iron Dome che nell’Alta Galilea e in Samaria sta salvando il salvabile all’interno dello Stato ebraico. Ma la cosa sembra altamente improbabile. Nel frattempo il contingente italiano in loco, tanto voluto a suo tempo da Massimo D’Alema come risoluzione propagandistica alle tensioni di quella Regione, comincia a capire cosa provano gli abitanti israeliani delle su menzionate aree ogni giorno che Dio manda in terra. La verità è che Hezbollah, se volesse, in pochi giorni massacrerebbe l’intero schieramento Unifil che non ha né armi né altre chance per difendersi. Nella guerra vera, quella seria non quella delle teorie delle accademie militari, i caschi blu dell’Onu sono sempre stati i primi a darsela a gambe: è successo ad esempio anche all’epoca dei massacri fra tutsi e hutu nella cosiddetta guerra dei grandi laghi nel centro dell’Africa. E se finora questo inutile se non dannoso contingente Unifil a trazione italiana aveva resistito senza perdite era perché, in nome e per conto del famigerato “lodo Moro” e delle sue estensioni all’estero, aveva fatto finta di niente voltandosi dall’altra parte quando vedeva gli Hezbollah piazzare i lanciamissili spesso a poche decine di metri dal fortino in cui è asserragliato. Si tratta allora di prendere una decisione pragmatica, da destra alla Milei e alla Donald Trump, non da missini sull’orlo di una crisi di nervi: andarsene subito dal Libano prima che il morto (o i morti) italiano ci scappi per davvero.
(l'Opinione, 20 novembre 2024)
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Aiuti umanitari per Gaza: saccheggiati 97 camion su 109
L'Institute for the Study of War sostiene che gli uomini armati appartenevano apparentemente a gruppi criminali organizzati che hanno sostituito le forze di polizia di Hamas in gran parte della Striscia di Gaza.
Secondo una dichiarazione dell’UNRWA, il 16 novembre gruppi di uomini armati hanno saccheggiato 97 dei 109 camion di aiuti umanitari entrati nel sud della Striscia di Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom. L’agenzia di stampa Reuters ha citato le parole di Louise Wateridge, rappresentante dell’UNRWA, la quale ha affermato che il convoglio trasportava cibo fornito dalle agenzie delle Nazioni Unite e che aveva ricevuto istruzioni da Israele di partire con breve preavviso per un percorso sconosciuto dal valico di frontiera di Kerem Shalom. Il convoglio è stato poi saccheggiato e alcuni trasportatori sono rimasti feriti durante l’incidente. In uno studio pubblicato dall’Institute for the Study of War (ISW) con sede a Washington, si sostiene che “non è chiaro se questi gruppi armati appartengano a qualche milizia palestinese, ma a quanto pare i gruppi armati facevano parte di gruppi criminali organizzati che hanno sostituito le forze di polizia di Hamas in gran parte della Striscia”. Il canale televisivo di Hamas Al-Aqsa ha affermato che dopo il saccheggio l’organizzazione terroristica ha condotto un’operazione congiunta con i clan locali, nella quale Hamas e i clan hanno ucciso 20 persone coinvolte nel saccheggio dei camion. Fonti del Ministero degli Interni di Hamas hanno detto a Sky News in arabo che “questa operazione non sarà l’ultima. Questo è l’inizio di un’operazione di sicurezza estesa che è stata pianificata da molto tempo e si espanderà per includere tutti coloro coinvolti nel furto dei camion degli aiuti”. Il War Research Institute ha osservato che “il fatto che Hamas sia stato costretto a cooperare con questi gruppi locali (per prendere il controllo dei saccheggiatori n.d.r.) indica che il controllo di Hamas sulla Striscia rimane debole”, e ha aggiunto che Hamas ha combattuto gruppi locali clan e gruppi criminali organizzati tenendoli al guinzaglio per molto tempo. L’Istituto ha citato le parole di un portavoce dell’UNRWA, il quale ha spiegato che ai convogli umanitari non è consentito avere guardie armate e che di solito cercano di viaggiare velocemente per evitare imboscate da parte di gruppi armati. L’analisi dell’Istituto ha rilevato che l’IDF ha recentemente adottato diverse misure per aumentare il flusso di aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza, compresi i piani per riaprire i valichi di frontiera e facilitare il passaggio dei camion degli aiuti verso il nord della Striscia di Gaza, anche se non accompagnano i convogli.
(Rights Reporter, 19 novembre 2024)
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Kibbutz Sasa colpito da Hezbollah, Angelica Calò Livne: Rimaniamo qui
di Daniel Reichel
Dal nord fino al centro d’Israele i razzi di Hezbollah continuano a provocare vittime e danni. Ieri sera a Shfaram, a est di Haifa, una donna di 50 anni, Safa Awwad, è stata uccisa dai missili dei terroristi libanesi. Nello stesso attacco una decina di persone sono rimaste ferite. Poco dopo a Ramat Gan, parte dell’area metropolitana di Tel Aviv, un edificio è stato distrutto. Questa mattina ancora razzi e allarmi al nord. A farne le spese, tra gli altri, il kibbutz Sasa, dove i razzi di Hezbollah hanno danneggiato la biblioteca, una parte del liceo e l’Auditorium. «Per fortuna non ci sono state vittime o feriti. Mio marito Yehuda è lì, io sono rimasta a dormire fuori, ma tra poco torno», racconta a Pagine Ebraiche Angelica Edna Calò Livne.
Sasa è quasi deserto perché la maggior parte dei residenti è stata evacuata. Angelica e Yehuda, responsabile della sicurezza, sono tra i pochi rimasti nel kibbutz. «Tutti vorrebbero tornare, ma devono esserci le condizioni. Deve essere garantita la sicurezza. Si sta parlando di un accordo imminente con il Libano e Hezbollah. Israele ha dato le sue indicazioni e il punto di partenza è la demilitarizzazione della zona a sud del fiume Litani (prossima al confine con Israele, ndr). Si parla di una presenza nell’area delle forze americane, può essere una soluzione, ma per noi è difficile fidarci».
Non c’è rassegnazione nel tono di Calò Livne. «Quella mai. Non lasceremo il campo alla malvagità e alla prepotenza dei terroristi». Ma ammette di porsi molti interrogativi sul futuro. «Noi stiamo a Sasa e ci rimarremo. Però mi chiedo: inviterò qui ancora i miei nipotini?». Racconta di aver ascoltato la notte prima la testimonianza di un 35enne che il 7 ottobre era a Nahal Oz, kibbutz al confine con Gaza e tra i più colpiti dalle stragi di Hamas. «Ha ricordato come il 6 ottobre fosse tutto pronto per festeggiare il giorno seguente il 70esimo anniversario dalla fondazione del kibbutz. Ha sottolineato come molti siano venuti da fuori per festeggiare insieme Simchat Torah e poi l’anniversario. Una cosa comune in tutti i kibbutz». Sarà ancora possibile? La domanda rimane strozzata in gola. «Finché non sarà tutto smilitarizzato è difficile immaginarlo. Hezbollah pensava di compiere un altro 7 ottobre al nord. Vogliamo essere sicuri che questo non possa mai accadere».
Intanto il conflitto continua. «È una situazione insopportabile, ogni giorno ci sono morti civili o tra i nostri soldati e gli ostaggi sono ancora lì, prigionieri a Gaza. Il governo deve fare di tutto per riportarli a casa, non possono passare lì un altro inverno. Non sopravviveranno. Devono essere la nostra priorità».
Dal kibbutz Sasa Calò Livne si sposta di frequente per tenere le sue lezioni in sviluppo del pensiero umanistico attraverso le arti del palcoscenico. «Sono otto ore di lezioni frontali a cui non rinuncio. Voglio che i miei studenti, soprattutto ora, escano con un po’ di respiro. Li vedo e leggo la loro difficoltà nel sopportare questa guerra. Tutti hanno un fratello, un parente, un amico, ucciso, rapito o che rischia la vita nell’esercito». Lavorare con loro è una gratificazione e permette di guardare avanti. Anche i riconoscimenti dall’estero aiutano a sentirsi utili. «La prossima settimana andremo con Yehuda in Sicilia perché mi hanno conferito il premio Pino Puglisi, prete che ha combattuto contro la mafia. Con tutte le notizie contro Israele, è bello sapere che c’è chi riconosce i tuoi sforzi. Io mi sono sempre impegnata per la pace e, nonostante tutto, continuerò a farlo».
(moked, 19 novembre 2024)
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Una sopravvissuta agli attacchi di Hamas si confronta con un attivista a Los Angeles
In un video recentemente pubblicato, l'ostaggio liberato Moran Stela Yanai racconta la sua storia e si confronta con un attivista filo-palestinese.
di Dov Eilon
Durante un dibattito a Los Angeles, nel giugno di quest'anno, Moran Stela Yanai, sopravvissuta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, ha raccontato le sue esperienze di prigionia e si è confrontata con l'attivista filopalestinese Aidan Dewolf, che aveva organizzato un campo di protesta all'UCLA (Università della California). All'evento hanno partecipato anche Mosab Hassan Yousef (“Il Principe Verde”) e il Prof. Dov Waxman, direttore del Centro di Studi su Israele Y&S Nazarian dell'UCLA. Il racconto di Moran Yanai, ripreso in un video recentemente pubblicato, ha fornito una visione della brutalità dell'organizzazione terroristica e ha portato a un intenso dibattito sulla giustificazione di tale violenza. Moran Stela Yanai, una designer di gioielli israeliana di 40 anni, è stata una dei tanti partecipanti al festival rapiti durante l'attacco al Nova festival vicino al Kibbutz Re'im. Durante la prigionia, i terroristi l'hanno scambiata per un soldato a causa del suo abbigliamento verde oliva. Ha riferito di essere stata trattata in modo particolarmente brutale a causa di questa supposizione. La sua famiglia è venuta a conoscenza del suo rapimento attraverso un video pubblicato dagli autori su TikTok, che mostrava Yanai come ostaggio. La nipote dodicenne l'ha riconosciuta dal video e ha informato la famiglia. Yanai ha trascorso 54 giorni di prigionia nella Striscia di Gaza prima di essere rilasciata il 29 novembre 2023 nell'ambito di un cessate il fuoco temporaneo tra Israele e Hamas. Durante la prigionia, ha appreso dai suoi rapitori il vero piano dell'attacco del 7 ottobre. Secondo questo, Hamas aveva pianificato attacchi su larga scala contro città israeliane come Be'er Sheva, Tel Aviv e Haifa. L'obiettivo era quello di uccidere il maggior numero possibile di civili e di provocare il caos. All'inizio dell'attacco, i terroristi non avrebbero saputo del festival musicale di Nova, che contava circa 3.000 visitatori. Durante il dibattito, Yanai si è rivolta direttamente ad Aidan Dewolf chiedendogli come potesse giustificare le azioni di Hamas alla luce del suo racconto. Dewolf è stato visibilmente messo sotto pressione dalle sue descrizioni dettagliate ed emotive. Ha eluso le domande e ha cercato di indirizzare la discussione verso questioni politiche più generali. Il video dell'evento mostra come abbia reagito in modo visibilmente imbarazzato, evitando di rispondere alle accuse specifiche contro Hamas. Il video dell'evento, che è diventato rapidamente virale sui social media, mostra le tensioni che possono sorgere tra i destini individuali delle vittime come Yanai e le posizioni politiche di attivisti come Dewolf. Mentre Yanai ha descritto le sue esperienze in modo chiaro e oggettivo, Dewolf ha cercato di spostare la discussione su un piano più ampio, che molti osservatori hanno trovato evasivo. La reazione al dibattito è stata enorme. I racconti di Yanai sono stati ampiamente elogiati per aver messo in luce le conseguenze umane della violenza di Hamas. Le reazioni di Dewolf, invece, sono state controverse e sia la sua posizione che le sue argomentazioni sono state messe in discussione. La partecipazione di Yanai al dibattito e le sue testimonianze dirette hanno fornito una visione potente dell'impatto personale del conflitto e delle sfide che sia le vittime della violenza sia gli attivisti politici devono affrontare nel dibattito pubblico. Dopo il suo rilascio e un lungo processo di riabilitazione, Moran Yanai è tornata nella sua città natale, Beersheva.
(Israel Heute, 19 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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I ministri degli esteri europei rifiutano di interrompere il dialogo politico con Israele
di Anna Coen
Lunedì 18 novembre i ministri degli Esteri dell’Unione Europea non hanno appoggiato la proposta del capo della politica estera uscente del blocco di sospendere il dialogo politico regolare con Israele in risposta alla campagna militare in corso dello Stato ebraico contro il gruppo terroristico palestinese Hamas a Gaza. Come riporta il sito Algemeiner, la scorsa settimana il diplomatico di punta dell’UE Josep Borrell aveva proposto la sospensione del dialogo in una lettera ai ministri degli Esteri del blocco in vista della loro riunione di lunedì a Bruxelles, citando “serie preoccupazioni per le possibili violazioni del diritto umanitario internazionale a Gaza”, l’enclave palestinese governata da Hamas. Ha anche scritto: “Finora, queste preoccupazioni non sono state sufficientemente affrontate da Israele”. La proposta è stata accolta da un’ampia resistenza, con diversi ministri che hanno espresso il loro sostegno alla posizione di Israele o hanno sostenuto che interrompere il dialogo con lo Stato ebraico sarebbe controproducente. “Sappiamo che ci sono eventi tragici a Gaza, enormi vittime civili, ma non dimentichiamo chi ha iniziato l’attuale ciclo di violenza”, ha dichiarato il ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski ai giornalisti dopo l’incontro di lunedì a Bruxelles, riferendosi al fatto che Hamas ha iniziato il conflitto con l’invasione del sud di Israele lo scorso 7 ottobre. “E posso dirvi che non c’è stato alcun accordo sull’idea di sospendere i negoziati con Israele”. I dialoghi regolari che Borrell ha cercato di interrompere sono stati sanciti da un accordo più ampio sulle relazioni tra l’UE e Israele, che comprende anche ampi legami commerciali, attuato nel 2000. “Alla luce di queste considerazioni, presenterò una proposta che prevede che l’UE invochi la clausola sui diritti umani per sospendere il dialogo politico con Israele”, ha scritto Borrell la scorsa settimana. Una sospensione richiede l’approvazione di tutti i 27 Paesi dell’UE, un risultato improbabile fin dall’inizio. Il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock ha respinto pubblicamente la proposta giovedì scorso. “Siamo sempre favorevoli a mantenere aperti i canali di dialogo. Naturalmente, questo vale anche per Israele”, ha dichiarato il Ministero degli Esteri tedesco in merito ai piani di Borrell. Il Ministero degli Esteri ha aggiunto che, mentre le conversazioni politiche nell’ambito del Consiglio di Associazione UE-Israele forniscono un’opportunità regolare per rafforzare le relazioni e, negli ultimi mesi, discutere la fornitura di aiuti umanitari a Gaza, interrompere questo meccanismo avrebbe poco senso. “L’interruzione del dialogo, tuttavia, non aiuterà nessuno, né le persone che soffrono a Gaza, né gli ostaggi che sono ancora trattenuti da Hamas, né tutti coloro che in Israele sono impegnati nel dialogo”, ha continuato la dichiarazione. Anche il ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp ha dichiarato di non essere d’accordo con la proposta e che l’UE deve continuare il dialogo diplomatico con Israele. “A quanto pare, l’alto rappresentante [Borrell] fa una svolta di 180 gradi. Non riesco a comprenderlo appieno”, ha dichiarato Veldkamp ai giornalisti a Bruxelles. “Secondo i Paesi Bassi, questa porta dovrebbe essere mantenuta aperta e dovremmo avviare una discussione con i ministri israeliani. Presto ci sarà un nuovo alto rappresentante. Sfruttiamo queste opportunità per avviare un dialogo, perché c’è molto da discutere, compresa la catastrofica situazione umanitaria della Striscia di Gaza”. Borrel, il cui titolo formale è Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, lascerà presto la sua posizione, poiché il suo mandato quinquennale come capo della politica estera dell’UE scadrà il mese prossimo. Il suo successore è l’ex primo ministro estone Kaja Kallas.
• L’UE E LA GUERRA A GAZA L’UE è stata divisa su come affrontare la guerra a Gaza. Mentre alcuni Paesi membri, come la Spagna e l’Irlanda, hanno criticato aspramente Israele dallo scoppio del conflitto, chiedendo al blocco di rivedere e persino sospendere l’accordo di libero scambio con Israele, altri sono stati più favorevoli. Per esempio, l’Ungheria, l’Austria e la Repubblica Ceca hanno finora sostenuto ampiamente gli sforzi militari di Israele. “La maggior parte degli Stati membri ha ritenuto che fosse molto meglio continuare ad avere relazioni diplomatiche e politiche con Israele”, ha dichiarato Borrell in una conferenza stampa dopo l’incontro di lunedì -. Ma almeno ho messo sul tavolo tutte le informazioni prodotte dalle organizzazioni delle Nazioni Unite e da tutte le organizzazioni internazionali che lavorano a Gaza e in Cisgiordania e in Libano per giudicare il modo in cui la guerra viene condotta”, ha aggiunto. In precedenza, Borrell aveva detto di non avere “più parole” per descrivere la situazione in Medio Oriente, prima di presiedere la sua ultima riunione programmata dei ministri degli Esteri del blocco. Israele afferma di aver compiuto sforzi senza precedenti per cercare di evitare vittime tra i civili, sottolineando i suoi sforzi per evacuare le aree prima di prenderle di mira e per avvertire i residenti delle imminenti operazioni militari con volantini, messaggi di testo e altre forme di comunicazione. Tuttavia, in molti casi Hamas ha impedito alla popolazione di andarsene, secondo i militari israeliani. Un’altra sfida per Israele è la strategia militare di Hamas, ampiamente riconosciuta, che consiste nel radicare i suoi terroristi all’interno della popolazione civile di Gaza e nel requisire strutture civili come ospedali, scuole e moschee per condurre operazioni, dirigere attacchi e conservare armi. L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Danny Danon ha dichiarato il mese scorso che Israele ha consegnato a Gaza oltre 1 milione di tonnellate di aiuti, tra cui 700.000 tonnellate di cibo, da quando ha lanciato la sua operazione militare un anno fa. Ha anche osservato che i terroristi di Hamas spesso dirottano e rubano le spedizioni di aiuti mentre i palestinesi soffrono. Nelle ultime settimane, il governo israeliano ha aumentato la fornitura di aiuti umanitari a Gaza su pressione degli Stati Uniti, che hanno espresso preoccupazione per le condizioni dei civili nell’enclave devastata dalla guerra. Tuttavia, Borrell ha dichiarato, prima dell’incontro, che la sua proposta intendeva esercitare pressioni sul governo israeliano dopo che questo, a suo avviso, aveva ignorato diversi appelli ad aderire al diritto internazionale nella guerra di Gaza. “Molte persone hanno cercato di fermare la guerra a Gaza… questo non è ancora successo. E non vedo la speranza che ciò accada. Ecco perché dobbiamo fare pressione sul governo israeliano e anche, ovviamente, sulla parte di Hamas”, ha detto Borrell, senza menzionare il rifiuto di Hamas alle recenti proposte di cessate il fuoco.
• BORRELL IL PIÙ INFLESSIBILE CONTRO ISRAELE Nell’ultimo anno Borrell è stato uno dei critici più espliciti dell’UE nei confronti di Israele. Solo sei settimane dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, parlando al Parlamento europeo ha tracciato un’equivalenza morale tra Israele e il gruppo terroristico, accusando entrambi di aver compiuto “massacri” e insistendo sul fatto che è possibile criticare le azioni israeliane “senza essere accusati di non amare gli ebrei”. Il discorso di Borrell ha fatto seguito alla visita in Medio Oriente della settimana precedente. Mentre si trovava in Israele, ha pronunciato quello che il quotidiano spagnolo El Pais ha descritto come il “messaggio più critico ascoltato finora da un rappresentante dell’Unione Europea riguardo alla risposta di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre”. “Non lontano da qui c’è Gaza. Un orrore non ne giustifica un altro”, ha detto Borrell in una conferenza stampa congiunta con l’allora ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen. “Capisco la vostra rabbia. Ma permettetemi di chiedervi di non lasciarvi consumare dalla rabbia. Credo che questo sia ciò che i migliori amici di Israele possono dirvi, perché ciò che fa la differenza tra una società civile e un gruppo terroristico è il rispetto per la vita umana. Tutte le vite umane hanno lo stesso valore”. Mesi dopo, nel marzo di quest’anno, Borrell ha affermato che Israele stava imponendo una carestia ai civili palestinesi di Gaza e che usava la fame come arma di guerra. I suoi commenti sono arrivati pochi mesi prima che il Comitato di revisione della carestia delle Nazioni Unite (FRC), un gruppo di esperti in sicurezza alimentare e nutrizione internazionale, respingesse l’affermazione che il nord di Gaza stesse vivendo una carestia, citando una mancanza di prove. I commenti di Borrell hanno suscitato l’indignazione di Israele. In agosto, Borrell ha spinto gli Stati membri dell’UE a imporre sanzioni ad alcuni ministri israeliani. Lunedì, oltre alla sua spinta a sospendere il dialogo UE-Israele, Borrell ha anche cercato di introdurre un divieto sull’importazione di prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani nei “territori palestinesi occupati secondo le regole della Corte internazionale di giustizia”. Per queste posizioni, nel giugno di quest’anno, i leader dell’ebraismo europeo hanno accusato Borrell di aggravare il problema dell’antisemitismo criticando eccessivamente Israele.
(Bet Magazine Mosaico, 19 novembre 2024)
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Il Papa e il “genocidio”, un pregiudizio cristiano
di Ugo Volli
Il mondo ebraico è stato profondamente colpito e deluso dalla frase dell’ultimo libro di Papa Francesco anticipata dalla Stampa per cui bisognerebbe «indagare» se l’azione militare israeliana a Gaza costituisca un «genocidio». Non si tratta di un’accusa diretta bensì di un interrogativo; ma l’accostamento fra Israele e genocidio per bocca di una autorità spirituale come quella del Papa e non solo degli estremisti filoterroristi e antisemiti suscita indignazione e sconcerto. «Genocidio» è il concetto proposto dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin per definire il tentativo nazista di eliminare il popolo ebraico. Vedersi ribaltare addosso questa accusa da chi governa oggi un’istituzione, la Chiesa, che ha dovuto riconoscere di aver ingiustamente perseguitato gli ebrei per molti secoli e la cui azione durante il genocidio nazista è ancora oggetto di dubbi e polemiche storiche, aumenta ancora la delusione ebraica: come se gli ultimi decenni di dialogo fossero cancellati e tornasse in azione l’antico antigiudaismo cristiano. Nel merito l’accusa è del tutto infondata: Per genocidio, secondo la definizione dell’Onu, si intendono «gli atti commessi con l’intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Che vi sia da parte di Israele «l’intenzione di distruggere» i palestinesi è un’affermazione insensata. La popolazione palestinese residente, secondo le dichiarazioni dello «Stato di Palestina» era nel 2023 di 5. 483. 000 persone, di cui circa 1, 8 milioni a Gaza con una crescita annua intorno al 3, 3% (180. 000 persone), che non è diminuita quest’anno. Secondo i numeri di Hamas in tredici mesi di guerra sono morte 43. 000 persone (ma Israele contesta queste cifre e l’Onu dice di averne potuto accertare solo 8. 500). Si tratterebbe comunque di meno dell’un per cento della popolazione, un quarto della crescita demografica annuale. Sono numeri che dimostrano in maniera chiarissima che Israele, lungi dal voler «distruggere» la popolazione civile, ha cercato come poteva di tutelarla, annunciando in anticipo e dettagliatamente le zone sottoposte ad offensiva, indicando vie di fuga e luoghi sicuri, introducendo centinaia di camion di rifornimenti al giorno, anche con la consapevolezza che i terroristi si sarebbero impadroniti della maggior parte di questi aiuti per usarli a loro vantaggio. Non è mai esistita nella storia una guerra in cui un esercito si facesse carico in maniera simile della necessità di salvaguardare nei limiti del possibile la popolazione civile. Il fatto è che questa è una guerra, e di tipo asimmetrico che rende difficilissima l’azione militare: i terroristi si mimetizzano fra la popolazione civile, non portano uniformi e hanno costruito le fortificazioni da cui sparano sotto ospedali, scuole e moschee. È una guerra che Israele non desiderava e che l’ha colto di sorpresa e chiaramente impreparato: il 7 ottobre 2023, quando i terroristi irruppero nel territorio israeliano, uccidendo più di 1200 persone, rapendone più di 200, violentando, bruciando vivi vecchi e bambini, sparando 5000 missili sulle città, le difese intorno a Gaza erano deboli, perché Israele non credeva a una guerra. Essa invece era stata preparata e progettata per anni dall’Iran e dai suoi satelliti, accumulando quantità enormi di armi offensive. Finora su Israele sono piovuti circa 40 mila missili, partiti da Gaza, Siria, Libano, Yemen, Iraq, Iran. Hanno fatto un numero limitato di vittime, perché Israele ha investito molte risorse nella difesa dei civili, con rifugi e sistemi antimissile. Parlare di genocidio o anche solo di sproporzione militare significa ignorare che vi è una volontà esplicita e dichiarata di Hamas, Hezbollah, ma anche dell’Iran, di distruggere lo Stato ebraico e di sterminare i suoi cittadini. Di fronte a questa minaccia non solo proclamata, ma portata all’azione concreta da sette fronti, lo Stato di Israele ha il dovere di difendere l’incolumità dei suoi cittadini eliminando la forza militare e l’organizzazione politica dei terroristi. Un modo per fermare i combattimenti e le morti c’è ed è facile: basterebbe che i terroristi restituissero le persone che hanno rapito, consegnassero le armi e si arrendessero. Israele ha garantito di recente vie d’uscita sicure a chi lo facesse. Ma non ha ricevuto risposta. Se si continua a morire a Gaza, la responsabilità è di Hamas e dell’Iran.
(La Stampa, 19 novembre 2024)
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Che il mondo ebraico sia “profondamente colpito” da quello che ha detto Bergoglio è comprensibile, ma che sia anche “deluso” dovrebbe sorprendere. Ma che cosa speravano gli ebrei dalla CCR (Chiesa Cattolica Romana)? e in particolare da quel personaggio che all’interno stesso della CCR viene considerato espressione della cosiddetta “mafia di Sangallo”. L’istituzione papale, che nel passato ha perseguitato non solo gli ebrei ma anche tanti cristiani classificati come “eretici”, oggi si sta accartocciando su se stessa, in preda a furiose convulsioni interne. Non vale la pena di prenderla seriamente in considerazione. Quanto ai
rapporti di Bergoglio con gli ebrei...
M.C.
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Gal Gadot in giro per Londra per un nuovo film
La superstar israeliana del cinema Gal Gadot sta per assumere il ruolo di protagonista in un nuovo thriller d'azione per Amazon. I precedenti cast dell'attrice israeliana hanno spesso causato proteste in passato.
di Jörn Schumacher
Gal Gadot si sta muovendo: La superstar israeliana di Hollywood avrà il ruolo principale nel nuovo thriller d'azione “The Runner”. Come riporta la testata americana “Deadline”, nel film la Gadot interpreta un avvocato di alto profilo che deve correre per Londra seguendo gli ordini criptici di un misterioso interlocutore mentre lotta contro il tempo per salvare il figlio rapito. Il film è prodotto da Amazon. Gadot è diventata famosa a livello internazionale per il suo ruolo di protagonista di “Wonder Woman” e per la sua partecipazione alla serie “Fast & Furious”. I suoi film più recenti includono “Red Notice” e “Heart of Stone” di Netflix. Gadot sarà nelle sale tedesche dal 20 marzo 2025 nel ruolo della regina cattiva nel film live-action della Disney “Biancaneve”. La madre, sposata con quattro figlie, è cintura nera di karate e pratica arti marziali come il Krav Maga. Pochi giorni prima dell'annuncio, l'attrice ha postato sul suo account Instagram un video che la mostra mentre inizia a correre con un allenatore. Presumibilmente si sta mettendo in forma per il suo nuovo ruolo. Gadot ha ammesso che la corsa è l'unico esercizio che non le piace.
• L’ISRAELIANA GADOT È SPESSO DIVENTATA UN FATTO POLITICO
Gadot è diventata una star internazionale come “Wonder Woman” e allo stesso tempo una sorta di ambasciatrice di Israele nel mondo. Lei stessa ha dichiarato: “Voglio che la gente abbia una buona impressione di Israele. Non mi sento un'ambasciatrice del mio Paese, ma parlo molto di Israele: sono felice di dire alla gente da dove vengo”. All'età di 20 anni, Gadot è stata arruolata nelle Forze di Difesa israeliane come istruttrice di combattimento. L'attraente ex “Miss Israele” è nata nello Stato ebraico ed è nipote di sopravvissuti all'Olocausto. Suo nonno è sopravvissuto dopo essere stato imprigionato nel campo di concentramento di Auschwitz, mentre sua nonna è riuscita a fuggire dall'Europa prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Nel 2017, Gadot è stata eletta attrice più popolare dell'anno dalla rivista “The Hollywood Reporter”, sulla base dei commenti degli spettatori sui social network. Nel giugno 2023, la Camera di Commercio di Hollywood ha annunciato che Gadot riceverà una stella sulla Hollywood Walk of Fame. Questo la rende la prima persona di origine israeliana a ricevere questo onore. Il fatto che Gadot sia israeliana ed ebrea ha spesso portato a controversie politiche e proteste; l'attrice stessa ha anche regolarmente reso pubbliche le sue opinioni su questioni politiche e sociali. Quando Gadot avrebbe dovuto sostituire Elizabeth Taylor nel ruolo di Cleopatra sul grande schermo, molte persone sui social media hanno reagito con derisione: una donna ebrea “bianca” non avrebbe dovuto interpretare un'egiziana. In seguito ai brutali attacchi contro Israele da parte del gruppo terroristico Hamas, l'attrice israeliana ha chiesto di sostenere lo Stato ebraico nel 2023: “Io sto dalla parte di Israele, e anche voi dovreste farlo”, ha scritto su Instagram. Poiché l'attrice israeliana recita nel film Disney “Biancaneve”, sono state lanciate richieste di boicottaggio preventivo: La “Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele” (PACBI), che fa parte del movimento “Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” (BDS), ha invitato a boicottare il film il giorno X.
• REGISTA CON ANTENATI EBREI Kevin Macdonalds dirigerà il suo nuovo film “The Runner”. È nipote del regista ebreo Emeric Pressburger, che ha realizzato classici del cinema come “Vita e morte del colonnello Blimp”, “L'errore nell'aldilà” e “Le scarpe rosse”. Il regista di origine scozzese non è solo autore di lungometraggi di successo come “L'ultimo re di Scozia”, ma in passato si è anche dedicato alla realizzazione di documentari. Nel 2000, ad esempio, ha vinto l'Oscar per il film “One Day in September” nella categoria “Miglior documentario”. Il film tratta della presa in ostaggio degli atleti israeliani alle Olimpiadi estive del 1972 a Monaco da parte del gruppo terroristico palestinese “Settembre Nero”. Nel suo documentario “The Making of an Englishman” (1995), Macdonalds è andato alla ricerca di indizi e si è concentrato su suo nonno, lo sceneggiatore premio Oscar Emeric Pressburger. Pressburger, che era ebreo, lavorò per gli studi UFA di Berlino, ma fuggì a Parigi quando i nazisti presero il potere. Nel 2007, Macdonalds ha realizzato un documentario sul criminale di guerra nazista Klaus Barbie, capo della Gestapo di Lione e noto come il “Macellaio di Lione”. Nel 2018, lo scozzese ha realizzato il documentario “Whitney” sulla cantante Whitney Houston.
(Israelnetz, 18 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Operatori sociali ultraortodossi curano i traumi della guerra
“Il mio compito è garantire che non ci sia una seconda generazione che soffra per le conseguenze del 7 ottobre”, afferma Pinchas Weiss, direttore fondatore di una ONG che inizialmente si rivolgeva agli ultraortodossi.
di Etgar Lefkovits
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Pinchas Weiss, fondatore e direttore della ONG Mivtach di Gerusalemme
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Tre giorni dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, una donna israeliana il cui fratello era stato ucciso nell'attacco terroristico transfrontaliero a sorpresa parlò con un'assistente sociale di come poterne parlare con i suoi genitori.
Alla fine della conversazione, la donna chiese casualmente all'assistente sociale da dove venisse.
La sua risposta la sorprese: Beitar Illit, una comunità ultraortodossa a sud-ovest di Gerusalemme, nel Gush Etzion.
“Non è una città ultraortodossa?”, ha chiesto, ammettendo che per lei, che proviene da un ambiente molto liberale, le possibilità di conversare con un ultraortodosso - per non parlare di ricevere aiuto da lui - erano “vicine allo zero”.
D'altra parte, non capita tutti i giorni che una ONG creata esclusivamente per il settore ultraortodosso faccia un'inversione di rotta e decida di concentrarsi sull'aiuto al grande pubblico, a volte anche gratuitamente.
Ma questo è esattamente ciò che Pinchas Weiss, il 35enne direttore fondatore di Mivtach con sede a Gerusalemme, ha deciso di fare dopo il massacro del 7 ottobre. Per lui, la mossa è stata più di un semplice superamento di un soffitto di vetro; è stato il suo modo di chiudere un capitolo familiare personale e un trauma derivante dall'Olocausto.
• UN PAESE TRAUMATIZZATO
“Il 7 ottobre ha innescato qualcosa che dimostra la necessità di creare unità e coesione come nazione, sia in Israele che nella diaspora”, ha spiegato Weiss in un'intervista rilasciata al JNS presso gli uffici dell'organizzazione a Gerusalemme la scorsa settimana.
“Non c'è dubbio che per anni avremo a che fare con decine di migliaia di persone che avranno bisogno di essere curate per i traumi diretti e indiretti causati dalla guerra”, ha detto Weiss. “Credo che continueremo ad essere un Paese traumatizzato per diversi anni dopo la fine della guerra”.
Nell'ultimo anno, Weiss e il suo staff di 12 persone hanno fornito consulenza a persone direttamente traumatizzate, compresi i familiari in lutto e le famiglie dei sopravvissuti, nonché ai bambini indirettamente traumatizzati che hanno paura di uscire a causa della guerra.
Alcune cicatrici sono molto profonde.
Un diciannovenne che è stato aggredito sessualmente durante l'attacco e che Weiss aveva chiesto di curare per volere dei genitori del giovane, ha tentato il suicidio ed è ora ricoverato in un ospedale psichiatrico. Il mese scorso, una 22enne sopravvissuta al massacro al festival musicale Nova, vicino al Kibbutz Re'im, si è suicidata dopo una battaglia di un anno contro il disturbo da stress post-traumatico.
“Ci sarà lavoro per gli anni a venire”, ha detto Shraga Weiss, 31 anni, assistente sociale di Gerusalemme. "In fin dei conti, questa è una ONG Haredi [ultraortodossa], ma il nostro obiettivo è la professionalità. Ogni persona viene con i suoi problemi e noi la aiutiamo a risolverli, indipendentemente da chi sia”.
• “QUALCOSA CHE DEVE ESSERE FATTO”
L'ufficiale di polizia israeliano Shmuel Ashkenazi, che ha prestato servizio nelle riserve per quasi quattro mesi dopo l'inizio della guerra e ha diretto il centro che ha cercato i corpi di 1600 terroristi, ha detto a JNS di essere entrato in contatto con Pinchas quando si è reso conto, dopo circa un mese di servizio nella riserva, di essere facilmente agitato e stressato.
“Mi ha fatto capire che era qualcosa che andava affrontato e che non dovevo metterlo da parte”, ha detto Ashkenazi.
Alla fine gli è stata diagnosticata la sindrome da stress post-traumatico (PTSD) ed è stato indirizzato a un trattamento.
“Il 7 ottobre ha dimostrato a questa ONG che non esiste una cosa come ‘solo gli ultraortodossi’”, dice Ashkenazi.
Mivtach, il cui bilancio è finanziato da donazioni dall'estero, prevede di aprire quest'inverno un corso che combina EMDR (Eye Movement Desensitisation and Reprocessing) e terapia di gruppo per altri 50 operatori sociali.
• LA STORIA DELLA FAMIGLIA
La decisione di Pinchas di impegnarsi nel lavoro sociale ha a che fare con la sua storia personale.
Una decina di anni e mezzo fa, dopo essersi consultato e con la benedizione del suo rabbino, abbandonò gli studi di ingegneria elettronica e si iscrisse all'Università Bar-Ilan per studiare lavoro sociale, trasferendosi poi all'Università di Haifa (“sarà un bene per te e per il popolo di Israele”, aveva detto il rabbino). In un corso gestito dall'organizzazione umanitaria ebraica The Joint , era l'unico ultraortodosso della classe, racconta.
Da allora, si è abituato alla sorpresa che alcune persone in Israele mostrano quando incontrano un assistente sociale ultraortodosso.
“Mi rattrista che sia stata la morte a farci incontrare”, ha detto del suo incontro con la donna poco dopo il 7 ottobre.
I nonni di Weiss erano dei sopravvissuti all'Olocausto provenienti dall'Ungheria, le cui intere famiglie sono state uccise dai nazisti.
“Sono stati in grado di costruire una nuova generazione, ma l'unica cosa per cui non sono mai stati curati è il loro trauma, che hanno trasmesso alla generazione successiva”, ha spiegato Weiss. “Il mio lavoro consiste nel fare in modo che non ci sia una seconda generazione che subisca le conseguenze del 7 ottobre”.
(Israel Heute, 18 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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«Occupazione, l’elefante nella stanza di Israele»
Il recente libro di Anna Foa, “Il suicidio di Israele”, potrebbe essere accostato a un altro libro di una ventina d’anni fa dal titolo simile: “La fine di Israele”, di Furio Colombo, ex direttore nei primi anni duemila del giornale “l’Unità”. Stessa provenienza politica degli autori: ebraismo di sinistra; stesso sguardo pessimistico sul futuro di Israele causato dalla politica dei suoi governanti. Due giorni fa su “La Stampa” è uscita quella che Emanuel Segre Amar definisce “un’ orribile recensione dell’altrettanto orribile libro di Anna Foa, a firma di Bruno Montesano” . Riportiamo la recensione di Montesano e il commento che ha voluto trasmetterci Segre Amar. NsI
di Bruno Montesano
Anna Foa si colloca in una posizione scomoda ma comune a diversi ebrei critici, spesso isolati dalle proprie comunità e visti con sospetto da parte della sinistra più intransigente. Ne Il suicidio di Israele, pubblicato da Laterza, Foa, oltre a denunciare i crimini contro l’umanità a Gaza e del 7 ottobre, compie degli affondi anche sulla dubbia amicizia tra destra postfascista ed ebrei: se ad El Alamein gli italiani non fossero stati sconfitti, gli ebrei in Palestina sarebbero stati massacrati. Il governo Meloni cade quindi in “contraddizione” quando celebra i coraggiosi di El Alamein e mostra amicizia al popolo ebraico.
Foa affronta poi i luoghi comuni più diffusi e scarta rispetto all’ingiunzione per cui «Israele non si critica, si ama». Prima del 7 ottobre Israele era attraversata da imponenti manifestazioni contro l’ulteriore torsione autoritaria di Netanyahu. Ma c’era un “elefante nella stanza”: la mancata richiesta della fine dell’illiberale occupazione della Cisgiordania. Con l’inizio della guerra, Israele è ulteriormente scivolata a destra, verso il suicidio. E mentre l’antisemitismo – che pure non è affatto paragonabile a quello degli anni ’30 - andava montando, la diaspora ha taciuto.
Nella via stretta tra le violenze di Hamas e Netanyahu, bisogna quindi tornare, ancora una volta, sulla storia di quel piccolo lembo di terra che alcuni chiamano Palestina e altri Israele e sgomberare il campo da pregiudizi e semplificazioni, ad esempio sul sionismo.
«Il sionismo non è né una risposta all’emancipazione né una risposta al suo rifiuto. È molte ideologie insieme, molti progetti diversi». Il luogo dove insediare gli ebrei era infatti oggetto di dibattito tra territorialisti – che proposero l’Argentina prima e l’Uganda poi – e culturalisti – che vedevano nella Palestina il territorio dove rinnovare la vita spirituale degli ebrei. La tesi della “terra senza popolo per un popolo senza terra” era meno diffusa di quanto si pensi. Inoltre, fino a metà anni ’30 molti sionisti volevano uno stato binazionale. In questo senso, un'altra falsità che spesso si sente anche tra persone progressiste è che i palestinesi, prima del sionismo, non avessero ancora un’identità nazionale definita.
Tuttavia, il rapporto tra ebrei e palestinesi, da pacifico che era, a inizio ‘900, assunse presto la forma dello “scontro culturale”: da un lato i palestinesi erano ostili a modi di vita “altri” rispetto ai propri, dall’altro gli ebrei socialisti dei kibbutzim espulsero i lavoratori arabi.
Rispetto alla dibattuta questione su se il sionismo sia un movimento nazionalista o coloniale, Foa scrive che, fino al ’48, rispetto ad altri casi di settler colonialism, colonialismo d’insediamento, l’assenza di uno stato nazione dietro al movimento e la mancata colonizzazione in armi della Palestina costituiscano delle differenze inaggirabili. C’era però un’idea di superiorità culturale europea. Ad ogni modo, dopo la Nakba, secondo Foa, il sionismo cambia e Israele scivola più compiutamente verso il colonialismo di insediamento. Che subisce un’ulteriore torsione con la guerra del ’67. Dopo quella data, infatti, anche i laburisti favorirono la colonizzazione della Cisgiordania. E, oggi, il governo e l’esercito appoggiano pogrom contro i palestinesi.
Si potrebbe qui obiettare a Foa che molte colonizzazioni di insediamento siano passate per la coercizione economica: l’imposizione dei diritti di proprietà su una terra altrui regolata da un diritto diverso. Inoltre, sul problema dell’apartheid, e sulla dimensione giuridica della discriminazione contro i palestinesi, a cui Foa accenna brevemente, è molto utile la ricerca di Enrico Campelli, Prove di convivenza (Giuntina 2022).
Ad ogni modo, Foa chiude questo magistrale saggio abbracciando la prospettiva post-sionista: Israele ha svolto il suo compito e deve diventare qualcos’altro. Il superamento del dilemma tra stato ebraico e stato democratico sta nel fatto che i cittadini vengano, finalmente, riconosciuti come “liberi e uguali nella loro diversità”. E, se è vero che il sionismo prima del ’48 non era esclusivamente un movimento razzista, bisogna comunque riconoscere la sofferenza che da allora ha inflitto ai palestinesi. Solo così, uniti da trauma, esilio e sofferenza, ebrei e palestinesi potrebbero convivere.
(La Stampa, 16 novembre 2024)
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Commento di Emanuel Segre Amar:
Tra le gravità di questo articolo, uno dei tanti scritti a pubblicizzare al massimo l’ultimo libro di una persona che odia lo Stato di Israele (basterebbe il titolo, anche se è scritto in modo nascosto, a comprenderlo), sottolineo, nell’ordine:
- “Nella via stretta tra le violenze di Hamas e di Netanyahu” Montesano paragona un feroce terrorista ad un primo ministro eletto di una nazione democratica.
- Per l’autore sarebbe “una falsità che i palestinesi, prima del sionismo, non avessero ancora un’identità nazionale definita”, ma si guarda bene dallo spiegarlo, non potendo farlo.
“Il rapporto tra ebrei e palestinesi, da pacifico che era, a inizio ‘900…”; evidentemente Montesano non conosce la storia dei pogrom che afflissero gli ebrei di Hebron nel 1775 e di Safed nel 1799, 1834 e 1838, e potrei continuare.
“Imposizione dei diritti di proprietà su una terra altrui”: era tradizionalmente terra di proprietà di latifondisti turchi e siriani che vendettero regolarmente ad acquirenti ebrei secondo il diritto ottomano
Il peggio sta però in: “se è vero che il sionismo, prima del ‘48 non era esclusivamente un movimento razzista…”; qui Foa e Montesano, oltre a dimenticare le parole del Presidente Napolitano che affermò che l’anti-sionismo nega le ragioni della nascita, ieri, e della sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano alla guida di Israele”, girano attorno alla Risoluzione dell’ONU 3379 che definì il sionismo una forma di razzismo, Risoluzione poi annullata nel 1991.
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Per la prima volta le soldatesse dell’IDF entrano in Libano
di Michelle Zarfati
Per la prima volta nella storia militare di Israele, le donne soldato sono entrate in Libano come parte di una missione operativa. Il capo del Comando Nord, il magg. Ori Gordin ha approvato il dispiegamento di una squadra del battaglione di intelligence da combattimento nel sud del Libano diverse settimane fa.
Dall’inizio della guerra, la squadra di intelligence da combattimento, composta da soldatesse, era stata di stanza vicino al confine siriano e nella regione del Monte Dov. I loro compiti includevano la raccolta di informazioni, l’identificazione di agenti terroristici, la creazione di elenchi di obiettivi e la direzione del fuoco da parte delle forze di terra e aeree per neutralizzare le minacce e smantellare le infrastrutture terroristiche. Il caporale Tehila, 21 anni, una soldatessa del Battaglione “Aquila”, ha descritto la sua esperienza in diverse operazioni, tra cui l’identificazione di individui legati ad attività terroristiche. “Libano meridionale? Siamo entrati a piedi. Quanto peso abbiamo trasportato? Troppo”, ha detto sorridendo. “Circa il 40% del nostro peso corporeo. Ci stavamo preparando per una lunga imboscata”.
Il caporale Shani, 20 anni, ha spiegato la logistica della missione: “Abbiamo camminato per circa 1,5 chilometri in Libano, stabilito una posizione sul campo, mantenuto il camuffamento e iniziato la raccolta di informazioni utilizzando strumenti di osservazione. Operativamente, siamo entrati in aree non toccate dalle forze israeliane dalla seconda guerra del Libano”. I soldati hanno rivelato che la missione ha scoperto preziose informazioni sui siti dei missili anticarro, sugli edifici utilizzati da Hezbollah e sulle posizioni precise degli obiettivi – ha spiegato la soldatessa – In un caso, abbiamo guidato il fuoco dei carri armati in base alle nostre fotografie. Le immagini che abbiamo catturato incriminavano direttamente Hezbollah, mostrando le loro armi all’interno di case e villaggi. Più tardi, gli elicotteri d’attacco hanno colpito quegli obiettivi”, ha detto il caporale Shani.
La squadra inizialmente aveva pianificato di rimanere dietro le linee nemiche per oltre 24 ore vicino a un villaggio con note attività di Hezbollah. Tuttavia, un incendio inaspettato è scoppiato nella zona, costringendoli all’evacuazione dopo 12 ore. “La ritirata attraverso una fitta vegetazione è stata molto impegnativa”, hanno osservato. Riflettendo sulla missione, le soldatesse hanno detto che il loro obiettivo era interamente quello di nascondere la loro posizione e raccogliere informazioni. Solo al ritorno in Israele hanno pienamente compreso la gravità della loro operazione. “Siamo la prima squadra di combattimento femminile ad entrare in Libano. Dirlo alla mia famiglia è stato emozionante: mia madre era sconvolta, ma mio padre era orgoglioso. Non c’è paura in questo momento, solo adrenalina. Ti concentri interamente sulla missione” ha detto il caporale Shani. “Alle ragazze che si uniscono alle unità di combattimento viene spesso detto che non avranno missioni significative, ma questo dimostra il contrario. Se ti spingi oltre ed eccelli, ti aspettano opportunità incredibili” ha concluso il caporale Tehila.
(Shalom, 18 novembre 2024)
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L’ex capo di stato maggiore Camporini: Israele opera nel rispetto delle regole
«Le procedure, gli atti compiuti, i provvedimenti correttivi e la gestione degli incidenti da parte dell’esercito israeliano a Gaza rispondono a criteri condivisibili, tipici delle democrazie occidentali. Se fossero sanzionati, provocherebbero un danno alle forze armate dell’Occidente».
Parola di Vincenzo Camporini, l’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e della Difesa. Ospite della Federazione delle Associazioni Italia-Israele a Roma, Camporini ha affrontato varie questioni collegate alle guerre di Israele contro il terrorismo. Tra le altre, il ruolo di Unifil nel sud del Libano come forza di interposizione con Hezbollah. «Il suo intervento è stato utile, ma non ha conseguito il risultato perché non è stata messa nelle condizioni di conseguirlo», ha sostenuto il generale. Per Camporini, in ogni caso, «Unifil deve rimanere, perché con Unifil sul terreno potrà riprendere il dialogo». Al tavolo, moderati da Ruben Della Rocca, c’erano anche due altri ex generali di alto livello: Paolo Capitini e Giuseppe Morabito. Per il primo, oggi docente presso la Scuola sottufficiali dell’esercito, l’anomalia di questa guerra combattuta anche nei tunnel presenta «un nuovo ambiente operativo, con nuove tecniche di combattimento e una particolare natura del nemico: le incomprensioni verificatesi non rientrano nel campo della “cattiveria”, ma possono accadere in un contesto di esperienze militari così diverse dal consueto». Dal suo canto Morabito, attuale membro del Nato Defense College, ha affermato: «Il rispetto delle regole, da parte di Israele, è sancito: non c’è scritto da nessuna parte che un esercito debba avvisare dove colpirà, però Israele lo fa». Morabito non è sorpreso che Israele sia sotto accusa per genocidio all’Aja: «I magistrati sono avulsi dal contesto? Ragioniamo sull’ambiente in cui vivono e sulle pressioni che ricevono».
(moked, 18 novembre 2024)
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Il collettore di Hamas in Italia e l’intervento di Washington
di Giovanni Giacalone
Hannoun non è nuovo a tali vicissitudini visto che nel 2021, dopo diverse segnalazioni all’Antiriciclaggio, l’Unicredit sospese l’operatività sui conti dell’ABSPP per una serie di anomalie: dalla mancata iscrizione al registro dell’Agenzia delle Entrate alla massiccia movimentazione di contante, in alcuni casi a soggetti iscritti nelle black list dei database europei. Nel dicembre 2023 anche Poste Italiane aveva chiuso il proprio rapporto con l’associazione. Subito dopo erano stati PayPal ed altri operatori tra cui Visa, Mastercard e American Express a bloccare le transazioni intestate alla sua associazione. Le autorità israeliane avevano inoltre chiesto a quelle italiane di provvedere con il sequestro dei fondi di Hannoun in quanto indicati come ricompensa per le famiglie degli attentatori suicidi di Hamas.
Nella mappa delle ramificazioni internazionali di Hamas non poteva mancare l’Europa, dove l’organizzazione terroristica gode di rappresentanze più o meno mascherate in Germania, Austria e Italia.
Un recente rapporto del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, redatto il 7 ottobre del 2024, a un anno esatto dall’eccidio compiuto da Hamas in Israele, ha identificato nell’architetto arabo di origine giordana, Mohammad Hannoun, residente a Genova, il collettore di Hamas per l’Italia.
Secondo il Dipartimento di Stato, Hannoun, dietro il paravento di una ONG da lui fondata, “L’Associazione Benefica di Solidarietà per il Popolo Palestinese” avrebbe raccolto nell’arco di dieci anni 4 milioni di dollari destinati all’ala militare dell’organizzazione jihadista .
Hannoun, il quale considera i trucidatori di israeliani del 7 ottobre, “resistenti”, si è presentato sabato scorso a Milano ad una manifestazione propalestinese dove ha lodato i perpetratori della caccia all’ebreo avvenuta ad Amsterdam, esibendo una foto di Yahya Sinwar, il pianificatore dell’eccidio.
A causa di ciò, Hannoun ha ricevuto la notifica del foglio di via dalla Procura di Milano per “istigazione all’odio e alla violenza”, ma ciò non lo ha demotivato. Oggi, durante l’ennesimo corteo propalestinese che si è svolto nella capitale lombarda si è fatto sentire da Torino dove ha partecipato a una manifestazione analoga, affermando che quanto è accaduto non fermerà la sua lotta per la “resistenza” palestinese, ovvero il suo supporto al jihadismo, approfittandone per scagliarsi contro i “giornalisti corrotti, bastardi e figli di puttana che hanno preso una parte del mio discorso di sabato scorso”, cioè che avrebbero falsificato il suo messaggio improntato alla pace e alla concordia.
La domanda che sorge spontanea è, come è possibile che un soggetto indicato dal Dipartimento di Stato americano quale collettore di una organizzazione che anche l’Italia considera terroristica, possa liberamente continuare la sua attività di megafono dello jihadismo e di apologeta dell’antisemitismo.
Ci si augura che le autorità competenti prestino l’attenzione dovuta alla segnalazione arrivata da oltreoceano, la quale non perderà di rilievo quando la nuova amministrazione americana guidata da Donald Trump si insedierà il 20 gennaio prossimo.
(L'informale, 18 novembre 2024)
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Israele, le nazioni e i credenti in Gesù
Riportiamo gli ultimi due paragrafi della prima edizione del libro “Dio ha scelto Israele”, scritto circa vent’anni fa. Nella seconda edizione fu aggiunto un altro capitolo dal titolo ”Un interrogativo inquietante: sparirà Israele?” che voleva essere anche un inserimento nella discussione sollevata in quel momento da un libro dal titolo significativo: “La fine di Israele”, di Furio Colombo.
“La fine di Israele è cominciata - si dice in un passaggio di quel libro -. Si sono incrinati i pilastri che finora hanno sostenuto questo paese persino al di là di persuasioni, intenzioni, dissensi, e giudizi negativi. Quei pilastri erano l’opinione pubblica dell’Occidente, il cambiamento del mondo islamico, il sostegno americano, l’imminenza - o almeno la realistica speranza - di una qualche forma di pace o di convivenza con la Palestina.”
Anche in risposta a questa azzardata affermazione di Colombo, la seconda edizione del libro “Dio ha scelto Israele” finisce con una frase netta: “E Israele non sparirà”. Ma il finale della prima edizione, che qui riportiamo, costituisce già un’implicita risposta.
di Marcello Cicchese
Lo Stato d’Israele è ormai una realtà da più di cinquant’anni [oggi sono diventati più di settanta]. Come questo sia potuto accadere, nonostante le enormi difficoltà e il freddo odio di nemici determinati a distruggerlo, non è facilmente spiegabile con categorie puramente umane. Possiamo ricordare le parole con cui lo storico Benny Morris conclude il suo poderoso trattato sul conflitto arabo-israeliano “Vittime”:
“Fin qui, i sionisti hanno potuto considerarsi i vincitori dello scontro. Ogni vittoria può essere spiegata alla luce di fattori concreti e specifici, ma nell’insieme il successo dell’impresa sionista appare quasi miracoloso. Come descrivere altrimenti il radicarsi, in un paese inospitale, in un impero non amico e in una popolazione ostile, di una piccola e mal equipaggiata comunità di qualche decina di migliaia di ebrei russi? Come descrivere lo sviluppo di quella comunità, sia pure all’ombra delle baionette britanniche, nonostante la crescente opposizione e violenza arabe? E la vittoria contro la coalizione araba del 1948? La nascita di un paese solido e vitale? Le vittorie in altri quattro conflitti?”
L’autore dice: “Fin qui...”, e naturalmente non può essere sicuro che i sionisti continueranno ad essere i vincitori dello scontro. Ma di quale scontro si tratta?
Nel libro del profeta Isaia si parla del “giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Lo scontro vero che si sta preparando è tra il Dio che ha scelto Israele e le nazioni che sono spinte da Satana a muoversi contro il popolo eletto. Sarà un giorno di vendetta “poiché il Signore è indignato contro tutte le nazioni, è adirato contro tutti i loro eserciti; egli le vota allo sterminio, le dà in balia alla strage” (Isaia 34:2). L’indignazione è causata dal vedere come le nazioni trattano il Suo popolo: con odio e violenza, con ingiustizia e menzogna. Questo trattamento assumerà forme tragiche e spaventose negli ultimissimi tempi che precedono il ritorno in gloria del Signore Gesù, ma i suoi caratteri sono riconoscibili anche adesso. Non dovrebbe questo fatto provocare anche nei credenti sentimenti di indignazione per il comportamento ingiusto e ipocrita delle nazioni verso Israele, pur sapendo che a Dio soltanto spetta la vendetta? E la mancanza di questi sentimenti non potrebbe essere un segnale preoccupante di un intorpidimento spirituale che impedisce di riconoscere le manovre dell’Avversario?
Oggi è chiaro a tutti che attraverso la Germania di Hitler l’Avversario ha operato un tentativo storico di opporsi al piano di Dio, e lo ha fatto spingendo le autorità di un popolo a tentare di sterminare gli ebrei. Ma i credenti di quel periodo e di quella nazione seppero riconoscere per tempo la diabolicità di quello che stava avvenendo? Con umiliazione bisogna rispondere: “No”. La maggior parte dei cristiani evangelici, anche quelli più rigorosamente attaccati alla Bibbia, anche quelli che conoscevano e insegnavano le profezie bibliche, si sono lasciati sedurre e fuorviare.
Un fratello tedesco che nella seconda guerra mondiale ha combattuto in Russia come ufficiale della Wehrmacht, negli ultimi anni della sua vita si è interessato molto di Israele, e in un suo libro sull'argomento (Ernst Schrupp, Israel in der Endzeit, Wuppertal, 1991) onestamente confessa:
“In Germania non pochi cristiani, tra cui anche chi scrive, hanno visto nel Nazionalsocialismo la salvezza del popolo. Abbiamo accolto con favore l’espulsione degli ebrei dalla nazione tedesca. Fin dal 1933 il “Täuferbote”, giornale delle Chiese Battiste austriache, scrisse che “Dio, attraverso la Rivoluzione nazionale in Germania, ha imposto agli ebrei un potente alt”. Su “Die Botschaft” e “Die Tenne”, giornali delle Assemblee dei Fratelli, il primo per le chiese, il secondo per i giovani, si può trovare una sconsiderata approvazione della epurazione della Germania dai nemici dello Stato, e in particolare dagli ebrei immigrati. Di fronte alla forzata emigrazione, alla brutalità delle SS, alle crudeli sofferenze che si abbattevano sugli ebrei, sembrava possibile, anche nei nostri ambienti, spiegare alla luce della Bibbia, senza problemi, la persecuzione e l’espulsione degli ebrei con la maledizione che incombeva su Israele. In questo modo tranquillizzavamo la nostra coscienza e ci sembrava che anche un “antisemitismo evangelico” fosse giustificato.”
Quando poi si cominciò a capire come stavano veramente le cose, all’entusiasmo subentrò la paura, e le varie chiese furono talmente occupate a risolvere il problema dei loro rapporti con lo Stato totalitario da non avere più né il tempo, né la forza, né lo spirito di martirio per impegnarsi a favore degli ebrei.
I tempi politici si stanno affrettando e non si può escludere che fatti inaspettati pongano ciascuno di noi davanti a difficili scelte di ubbidienza a Dio. E’ preoccupante vedere come si stanno ricreando, in una cornice “globalizzata”, le condizioni spirituali per una giustificazione, o quanto meno una “umana comprensione”, dell’odio contro gli ebrei. Le coscienze si stanno ottundendo, i pensieri si stanno contorcendo intorno alla questione di Israele. Le mostruosità diaboliche di giovani educati all’odio e spinti a uccidere sé stessi insieme a uomini, donne e bambini colpevoli soltanto di essere ebrei non sollevano indignazione, non fanno quasi più notizia. I pacifisti, i sognatori di una pace universale raggiunta con sforzi umani si lasciano ingannare dall’anelito di giustizia con cui si presenta la “lotta di liberazione” della Palestina dagli ebrei “usurpatori”. Come tutte le persone imbrogliate, cercheranno di rinviare il più possibile il momento in cui dovranno ammettere di essersi lasciati ingannare; e quando non potranno più farlo, saranno occupati a risolvere il problema della loro paura.
• Il residuo d’Israele è di nuovo visibile sulla terra promessa
La lampada della Parola di Dio espressa nelle profezie deve essere fatta risplendere per capire quello che il Signore ha voluto rivelare del Suo piano; e alla luce di questa lampada devono essere esaminati i fatti che stanno avvenendo nel popolo di Israele, per avere pensieri corretti e prendere decisioni giuste.
Tra questi fatti deve essere data particolare importanza alla novità assoluta degli ebrei “messianici”. Il residuo d’Israele oggi è diventato visibile all’interno dello Stato ebraico, tornando a sollevare una serie di questioni che erano presenti agli albori della chiesa cristiana. Qualcosa accomuna i primi e gli ultimi tempi di questo periodo della storia della salvezza: si può dire che prima della distruzione di Gerusalemme Israele era ancora presente quando la Chiesa era già presente; dopo la Dichiarazione d’indipendenza del 14 maggio 1948 si può dire che la Chiesa è ancora presente quando Israele è già di nuovo presente. Forse siamo in molti a non essere ben preparati alla particolarità di questa situazione. Ma il tempo urge, e oltre alla necessità di intensificare l’opera di predicazione del vangelo in tutto il mondo, è necessario tenere gli occhi aperti e la mente attenta su tutto quello che riguarda Israele, senza lasciarsi fuorviare da chi dice che tutto questo non è importante perché lo Stato ebraico di oggi non crede ancora in Gesù.
Un ebreo educato fin da piccolo all’osservanza delle tradizioni ebraiche, un giorno ha scoperto che Gesù non è un personaggio che riguarda il Papa e il Vaticano, ma è il Messia promesso a Israele. E ha creduto in Lui. In una sua predicazione ha detto che se esiste un velo su Israele che gli impedisce ancora di riconoscere in Gesù il Suo Messia, esiste anche un velo su gran parte della Chiesa, un velo che le impedisce di riconoscere quello che Dio sta operando nel Suo popolo di Israele. Chi scrive riconosce di non essere stato cosciente, per molto tempo, dell’esistenza di questo velo.
E’ compito dei credenti in Cristo pregare ed operare affinché questo secondo velo sia rimosso dai loro occhi, sapendo che sarà il Signore stesso, quando il tempo sarà giunto, a togliere il primo velo dagli occhi di Israele.
(da Dio ha scelto Israele)
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Israele ha distrutto un sito di ricerca sulle armi nucleari in Iran il mese scorso
L'attacco ha distrutto un complesso di ricerca per componenti essenziali alla costruzione di un ordigno atomico, componenti che l'Iran non riuscirà a reperire con facilità.
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FOTO
Questa foto satellitare di Planet Labs PBC mostra edifici danneggiati nella base militare iraniana di Parchin, fuori Teheran, Iran, 27 ottobre 2024. Le strutture danneggiate si trovano nell’angolo in basso a destra e in basso al centro dell’immagine.
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Gli attacchi aerei israeliani in Iran compiuti il mese scorso hanno distrutto un centro di ricerca sulle armi nucleari attivo a Parchin. Lo ha riferito venerdì il sito di notizie Axios, citando tre funzionari statunitensi, un attuale funzionario israeliano e un ex funzionario israeliano.
Secondo Axios, un attacco israeliano su Parchin, parte di un’operazione durata ore il 26 ottobre, ha distrutto le sofisticate apparecchiature utilizzate per progettare gli esplosivi in grado di circondare l’uranio in un dispositivo nucleare, danneggiando in modo significativo gli sforzi dell’Iran per riprendere la ricerca sulle armi nucleari.
L’attacco israeliano “renderà molto più difficile per l’Iran sviluppare un ordigno esplosivo nucleare se sceglierà di farlo”, hanno detto due funzionari israeliani.
L’Iran avrebbe bisogno di “sostituire l’equipaggiamento che è stato distrutto” se volesse produrre armi nucleari, secondo quanto affermato nel rapporto dai funzionari israeliani, “e se l’Iran cercasse di procurarselo, credono di poterlo rintracciare”.
Era già noto che il complesso “Taleghan 2” era stato preso di mira negli attacchi, come testimoniato dalle immagini satellitari, ed era già stato riconosciuto come sito del precedente programma nucleare iraniano, ufficialmente interrotto nel 2003.
Secondo quanto riferito, all’inizio di quest’anno i servizi segreti statunitensi e israeliani hanno iniziato a rilevare nuove attività sul sito, tra cui modellizzazione computerizzata, metallurgia e ricerca sugli esplosivi, che potrebbero essere rilevanti per la creazione di un ordigno nucleare.
“Hanno condotto un’attività scientifica che avrebbe potuto gettare le basi per la produzione di un’arma. Era una cosa top secret. Una piccola parte del governo iraniano ne era a conoscenza, ma la maggior parte del governo iraniano no”, ha detto un funzionario statunitense ad Axios.
La conoscenza delle ricerche condotte a Taleghan 2 avrebbe spinto il Direttore dell’intelligence nazionale statunitense a modificare la sua valutazione ufficiale del programma nucleare iraniano ad agosto, che in precedenza aveva osservato che l’Iran “non stava attualmente intraprendendo le attività necessarie per produrre un dispositivo nucleare testabile”.
Non risulta che Israele abbia colpito altri siti nucleari negli attacchi aerei del 26 ottobre, quando decine di aerei israeliani hanno distrutto siti di produzione e lancio di droni e missili balistici, nonché batterie di difesa aerea.
Gli Stati Uniti hanno esortato Israele ad astenersi dal colpire siti nucleari nell’attacco, per evitare di innescare una grave escalation con l’Iran, pur avendo approvato la mossa di Israele in risposta all’attacco dell’Iran contro Israele del 1° ottobre, quando la Repubblica islamica ha lanciato 181 missili balistici contro Israele, il suo secondo attacco diretto di questo tipo da aprile.
Israele ha fatto però una eccezione per Taleghan 2, perché il sito non faceva parte del programma nucleare dichiarato dall’Iran, che la Repubblica islamica nega abbia una componente militare, ma riconosce come un’impresa presumibilmente civile.
Se l’Iran avesse riconosciuto la portata dell’attacco, avrebbe ammesso anche la violazione del trattato di non proliferazione nucleare.
“L’attacco è stato un messaggio non troppo sottile che gli israeliani hanno una conoscenza significativa del sistema iraniano, anche quando si tratta di cose che erano tenute top secret e note a un gruppo molto ristretto di persone nel governo iraniano”, ha detto un funzionario statunitense ad Axios.
Il sito di notizie ha anche citato funzionari israeliani, i quali hanno affermato che l’attacco renderebbe molto più difficile per Teheran sviluppare un’arma nucleare se decidesse di farlo.
“Questa attrezzatura è un collo di bottiglia. Senza di essa gli iraniani sono bloccati”, ha detto un alto funzionario israeliano.
“Si tratta di un equipaggiamento di cui gli iraniani avrebbero bisogno in futuro se volessero fare progressi verso una bomba nucleare. Ora non ce l’hanno più e non è una cosa da poco. Dovranno trovare un’altra soluzione e la vedremo”, ha aggiunto il funzionario.
• ISPEZIONI NUCLEARI
Il rapporto è stato pubblicato lo stesso giorno in cui il responsabile dell’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite ha visitato due siti nucleari iraniani nell’ambito di una visita in Iran.
Durante la visita, il ministro degli Esteri iraniano ha dichiarato al capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi, che Teheran è disposta a risolvere le controversie in sospeso sul suo programma nucleare, ma non cederà alle pressioni.
Secondo quanto riportato dai media statali, senza però fornire dettagli, Grossi ha visitato la centrale nucleare di Natanz e il sito di arricchimento di Fordow, scavato in una montagna a circa 100 km a sud della capitale Teheran.
I rapporti tra Teheran e l’AIEA si sono inaspriti a causa di diverse annose questioni, tra cui l’esclusione dal paese degli esperti di arricchimento dell’uranio dell’agenzia e la mancata spiegazione delle tracce di uranio trovate in siti non dichiarati.
“La palla è nel campo UE/E3”, ha scritto il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi su X dopo i colloqui a Teheran con Grossi giovedì, riferendosi a tre paesi europei – Francia, Gran Bretagna e Germania – che rappresentano l’Occidente insieme agli Stati Uniti nei colloqui sul nucleare.
“Disposti a negoziare sulla base del nostro interesse nazionale e dei diritti inalienabili, ma non pronti a negoziare sotto pressione e intimidazione”, ha affermato Araqchi.
Il portavoce del ministero degli Esteri francese ha detto ai giornalisti che le tre potenze europee attenderanno di vedere i risultati della visita di Grossi prima di decidere come rispondere.
“Siamo pienamente mobilitati con i nostri partner E3 e gli Stati Uniti per portare l’Iran alla piena attuazione dei suoi obblighi e impegni internazionali, nonché alla cooperazione in buona fede con l’agenzia”, ha affermato.
“Questa mobilitazione avviene in diversi modi, anche attraverso risoluzioni… quindi ci aspettiamo che questi messaggi vengano trasmessi durante la visita di Rafael Grossi e adatteremo di conseguenza la nostra reazione”.
Il ritorno di Trump alla presidenza degli Stati Uniti a gennaio sconvolge la diplomazia relativa alla questione nucleare con l’Iran, che era rimasta in stallo sotto l’amministrazione uscente di Joe Biden dopo mesi di colloqui indiretti.
Durante il precedente mandato di Trump, Washington ha abbandonato l’accordo nucleare del 2015 tra l’Iran e sei potenze mondiali, che limitava l’attività nucleare di Teheran in cambio dell’allentamento delle sanzioni internazionali.
Trump non ha ancora spiegato in dettaglio se riprenderà la sua politica di “massima pressione” sull’Iran quando entrerà in carica.
(Rights Reporter, 16 novembre 2024)
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“Trump presidente proteggerà Israele”
di Alessandra Mori
In questa nuova puntata di “Pop economia-Rumore”, la nostra rubrica condotta da Alessandra Mori, l’ambasciatore Stefano Stefanini e l’assessore ai rapporti internazionali della comunità ebraica di Roma Yohanna Arbib parlano degli scenari internazionali dopo l’elezione di Donald Trump, in particolare sui riflessi che potranno avere su Israele e sul conflitto nel Medio Oriente, e dei retroscena sui fatti di Amsterdam.
Yohanna Arbib, sulla vittoria di Donald Trump: “Sono contenta che abbia vinto l’amministrazione Trump, parliamo di persone che conoscono bene la politica internazionale e porteranno una grandissima chiarezza. Netanyahu ha detto molto nitidamente alle Nazioni Unite: i soldati israeliani sono quelli che stanno morendo sul territorio: aiutateci a mettere fine a due organizzazioni terroristiche che stanno controllando il Libano nel nord e Gaza nel sud. Questo chiede Israele e io sono convinta che questa nuova amministrazione Trump porterà questo in politica estera”.
Riguardo ai fatti di Amsterdam, di concerto con l’ambasciatore Stefanini: “È stata una seconda notte dei cristalli, proprio una caccia all’ebreo e potrebbe essere l’inizio. Israele è in prima linea alla difesa dei valori occidentali. Dopo la caccia agli ebrei verranno gli altri. Sulla scia dell’antisemitismo ci sarà l’attacco alle minoranze, alla democrazia”.
“È stato allucinante quello che è successo dopo. La reazione della polizia è stata totalmente sottotono, in alcuni casi si è addirittura rifiutata di proteggere i turisti israeliani. Questo in Italia non succede e dobbiamo ringraziare le forze dell’ordine perché proteggono noi ebrei, 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana. La seconda riflessione è sulla reazione di alcuni giornalisti. Se non ci fossero state le registrazioni sui social, qualcuno avrebbe detto che quella manifestazione era il risultato di una reazione ad alcuni israeliani che hanno manifestato contro il popolo palestinese. E l’informazione errata, la diseducazione dei nostri cittadini, crea quello che è successo il giovedì notte”.
Stefanini, sul Medio Oriente: “Trump sul Medio Oriente ha seguito tre linee abbastanza costanti. La prima è l’appoggio quasi incondizionato a Israele, al punto di prendere decisioni che nessun altro aveva preso, per esempio il riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan e il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. E ha riconosciuto la non illegalità delle colonie che Israele ha stabilito in Cisgiordania. La seconda costante è quella di spingere molto per il ravvicinamento di Israele agli Stati Arabi del Golfo, in particolare all’Arabia Saudita, che è l’antagonista principale dell’Iran. Trump è appunto l’artefice degli accordi di Abramo, accordi fra gli Emirati e Israele che aspettano l’adesione dell’Arabia Saudita. Tutto questo è stato complicato ed è tuttora reso molto più complicato dal dopo 7 ottobre. La terza costante, legata alle altre due, è l’essere anti-Iran”.
“Gli accordi di Abramo sono praticamente fermi, ma nessun Paese arabo ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele. L’Arabia Saudita indica di essere pronta a riprendere quel percorso qualora Israele offrisse una prospettiva di Stato palestinese, ma questo Netanyahu non l’ha fatto. Il secondo sviluppo è il fatto che Israele e Iran sono passati da una guerra per procura, che l’Iran conduceva tramite le varie milizie contro Israele, a una guerra attiva che ha avuto già due scambi diretti”.
Su Donald Trump: “Trump si pone come l’uomo che mette fine alle guerre e che anche perché nella sua filosofia gli Stati Uniti hanno speso troppe risorse in guerre in cui non è in gioco il loro interesse nazionale”. Ha promesso di chiudere la guerra in Ucraina in 24 ore potrebbero essere le prime in cui Trump sarà presidente il 20 gennaio, precedute però da quello che sta facendo adesso, cioè creare le condizioni per arrivare alla cessazione dell’ostilità”.
Sugli eventi di Amsterdam: “C’è stata una pianificazione e non un’esplosione di antisemitismo olandese che colava sotto le ceneri, che è solo una componente. È stata una manifestazione organizzata da sostenitori di Hamas, cioè l’organizzatore della strage del 7 ottobre”.
(Radio Libertà, 16 novembre 2024)
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L’albergatore che rifiuta gli ebrei è una vergogna fuori dalla storia
Una struttura di Selva di Cadore chiude le porte ai clienti israeliani, in quanto «responsabili di un genocidio». Come se le eventuali colpe dei governi ricadessero sulle persone. La Regione si dissocia, poi arrivano le scuse.
di Paolo Del Debbio
Una volta, sulla porta di alcuni ristoranti e anche di alcuni alberghi, c'erano dei cartelli raffiguranti un cane con scritto «Io non sono gradito». Chissà se questo albergatore di questa struttura di Selva di Cadore, sulle Dolomiti, in particolare il titolare dell'Hotel Garni Ongaro, metterà la stella di David e delle foto rappresentanti degli ebrei sulla porta e sui suoi social scrivendo «Io non sono gradito». Questo signore si è reso responsabile di un gesto indegno perché, a pochi giorni dall'arrivo di due ospiti ebrei da Tel Aviv, ha scritto un messaggio su Booking che dice così: «In quanto responsabili di genocidio, non siete clienti bene accetti». L'antisemitismo alberghiero non lo avevamo ancora conosciuto, conoscevamo quello animale ma, evidentemente, questo «signore» non fa distinzione. Ciò che lo caratterizza è un'ignoranza talmente grossa che non meriterebbe neanche di spendere parole per commentarla. Cosa c'entrano gli israeliani e gli ebrei con il genocidio di cui parla questo tale? Forse tutto il popolo ebreo israeliano è responsabile delle politiche (pur non condivisibili) del premier israeliano, Benjamin Netanyahu? Cosa vuol dire «responsabili del genocidio»? Vuol dire che ogni ebreo israeliano è responsabile in prima persona di quello che fa il governo del suo Paese? E poi, non una parola su quello che il 7 ottobre dell'anno passato ha fatto Hamas nei confronti di Israele? Sarebbero ben venuti i terroristi di Hamas nell'albergo del «signor» Ongaro? Una bella colonia di terroristi palestinesi, ospitati nel suo albergo a Selva di Cadore, rappresenterebbe un segno di progressismo e rivoluzione culturale contro gli indegni ebrei a favore dei paladini terroristi di Hamas? Se da questo tipetto arrivassero un gruppo di iraniani li ospiterebbe o no e se venissero dalla Corea del Nord? E se venissero dalla Cina, dove non proprio tutti i diritti umani sono rispettati? Forse si sognerebbe di attribuire a due turisti cinesi o coreani o iraniani la responsabilità complessiva di quello che avviene nel loro Paese?
Qualcuno fornisca in fretta a questo scellerato un manuale di storia e uno di geografia contemporanea, o anche semplicemente l'annuario edito ogni anno da De Agostìni, così potrà studiare tutti i regimi di tutti i Paesi, vedere dove ci sono delle violazioni dei diritti umani e respingere tutti i cittadini di Stati dove i governi abusano del loro potere. Strano modo di concepire la democrazia: punire i cittadini per educare i governanti, non accogliere i due israeliani per colpire Netanyahu.
Per fortuna i suoi colleghi albergatori si sono dissociati dal suo comportamento e così ha fatto anche il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia. D'altra parte, il caso è talmente assurdo e l'antisemitismo è talmente evidente che sarebbe stato difficile non pronunciarsi contro le follie di questo albergatore, che infatti ieri in serata è stato costretto a scusarsi.
Mentre scrivo «follie» mi viene alla mente che, purtroppo, questo albergatore, in oltraggio a qualsiasi tipo di libertà religiosa e di diritto alla libertà di professione religiosa, è uno che magari ci ha anche ragionato, a suo modo. Certo, la decisione è folle ma più grave è il ragionamento che ci sta dietro. Gli ebrei, in quanto tali, sono comunque persone da rigettare, da escludere, da mettere all'angolo, anche ove siano due pacifici turisti che vogliono godere delle bellezze del Veneto per qualche giorno.
No, niente accesso all'albergo ideologico (nuova forma di albergo che non rigetta chi non paga ma chi è ritenuto indegno dal titolare da un punto di vista religioso e ideologico, razzismo alberghiero, ci mancava pure questo).
Ora voi capite bene che la questione e gravissima, non solo per gli aspetti simbolici, cioè di una struttura ricettiva che di per sé deve essere aperta a tutti, fuorché a soggetti che non rispettino i regolamenti e le leggi che tutelano gli alberghi stessi. Ma si tratta di una questione sostanziale perché, se nella civilissima Italia, un albergo si permette di discriminare potenziali clienti sulla base delle strampalate e irricevibili convinzioni del gestore dell'albergo, di che tipo di turismo stiamo parlando? Abbiamo parlato tanto male, e giustamente, in Italia, del turismo sessuale nei Paesi dell'Est, anche da parte degli italiani che andavano là per poter usufruire del corpo di bambine o bambini minorenni. Non dovremmo forse indignarci per questa specie di turismo razziale di questo, che non so definire, che ha proibito l'ingresso a due israeliani perché responsabili del genocidio? Ignoranza, non conoscenza del diritto, della storia di un popolo, di come funziona normalmente la ricezione turistica. Insomma, un accumulo di macerie di ignoranza e di insensibilità che fanno paura e non rendono ragione agli albergatori del Veneto e agli operatori turistici che fanno, di quella regione, una regione accogliente, come del resto altre regioni italiane, nei confronti di tutti, a prescindere da tutto, fatta eccezione per il rispetto della legge. Che schifo.
(La Verità, 16 novembre 2024)
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«La decisione è folle ma più grave è il ragionamento che ci sta dietro». Proprio così, perché lo stesso ragionamento si trova certamente nella mente di tanti altri criptoantisemiti che hanno soltanto l'accortezza di non scivolare in un'uscita stupida come quella dell'albergatore di Selva di Cadore. M.C.
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Nella soffitta di Anne Frank. Gli ebrei di Amsterdam ci raccontano la fine dell’illusione multiculturale
“Questa non è più la nostra città”
di Giulio Meotti
Jodenjacht, “caccia agli ebrei”. Un’espressione olandese che nel 1944 ha segnato la storia di Amsterdam al numero 263 di Prinsengracht, dove c’è la casa di Anne Frank, e di nuovo quella del 2024, durante una settimana in cui gli olandesi commemoravano la Kristallnacht. Una chat di gruppo WhatsApp filopalestinese aveva chiesto una “caccia ai cani ebrei” la sera prima della partita tra Ajax e Maccabi. Sapevano dove alloggiavano gli israeliani. Sapevano quali hotel, quale strada avrebbero preso al termine della partita. Era tutto organizzato. Tassisti, autisti di uber, motociclisti.
In un anno, l’Olanda ha registrato la metà degli attacchi antisemiti che si sono verificati in Francia. Ma rispetto al numero degli abitanti, il dato è molto più preoccupante, perché la popolazione olandese è tre volte e mezzo inferiore a quella francese e la sua comunità ebraica è molto più piccola per tragiche ragioni storiche (il 75 per cento è stata uccisa durante la Seconda guerra mondiale, rispetto al 30 per cento in Francia).
“Nessun ebreo che conosco salirà più su un Uber o su un taxi ad Amsterdam senza prima controllare che la stella di David che indossa sia ben nascosta”, ha scritto il romanziere olandese Leon de Winter. Nella notte in cui centinaia di tifosi di calcio hanno temuto per la propria vita, la comunità ebraica è entrata in azione. Hanno aiutato gli israeliani braccati fornendo riparo per la notte e un passaggio per l’aeroporto di Schiphol, dove avrebbero atteso i voli speciali della El Al israeliana arrivati da Tel Aviv.
Quattro giorni dopo le autorità di Amsterdam accusano le vittime di essersela cercata. Nel suo primo rapporto sulle aggressioni di massa ai tifosi di calcio israeliani ad Amsterdam, il comune della città a guida di sinistra li ha accusati di aver intonato “canzoni odiose e razziste contro gli arabi”. Un cambiamento di 180 gradi rispetto alla retorica dei funzionari della città finora, inclusa la dichiarazione del sindaco Femke Halsema secondo cui “non ci sono scuse” per le aggressioni. Jazie Veldhuyzen, membro del consiglio comunale di sinistra di Amsterdam, è tra i manifestanti arrestati e rilasciati. Poi la sindaca è andata a incontrare un gruppo di manifestanti: alcuni avevano il passamontagna e la fascia verde dell’ala militare di Hamas.
Amsterdam è una delle città più cosmopolite del mondo, con residenti provenienti da 180 paesi. Gli olandesi non sono la maggioranza, né lo sono quelli di origine europea. Quindici anni fa, gli olandesi costituivano il 50 per cento della popolazione, oggi sono scesi al 44 per cento. Il gruppo più numeroso dopo gli olandesi sono i marocchini, seguiti dagli immigrati dal Suriname, 63 mila, e dalla Turchia, 45 mila. Amsterdam avrebbe dovuto essere come Berlino, Londra e Parigi: un rifugio per gli oppositori degli stati nazionali e i sostenitori delle frontiere aperte e del multiculturalismo. Un modello di città libera e aperta, ma non avevamo bisogno del Maccabi Tel Aviv per sapere che era un’illusione.
Vista da davanti, la sinagoga dell’Aia non è riconoscibile, due spesse porte verdi presentano una facciata chiusa sulla strada. Ad Amsterdam, la scuola elementare ebraica ha livelli di protezione ancora più distopici, nascosti dietro diversi strati di metallo e recinzioni. Dall’esterno, la vista della scuola è completamente chiusa. Molte famiglie hanno tolto dagli stipiti della porta di ingresso la mezuzah, che li avrebbe resi identificabili come ebrei.
Amsterdam era già stata teatro di proteste pro palestinesi, tra cui una avvenuta a marzo davanti al Museo della Shoah, quando il presidente israeliano Isaac Herzog ha partecipato alla sua inaugurazione.
In una cerimonia ad Auschwitz lo scorso gennaio, a cui hanno partecipato ex presidenti, primi ministri e leader parlamentari di vari paesi (dall’Italia Matteo Renzi), Bianca Sirdzinka, studentessa ebrea dell’Università di Groningen nei Paesi Bassi, ha raccontato: “La situazione per gli studenti ebrei è terribile! E’ spaventoso camminare per le strade. Studenti del Memoriale dell’Olocausto sono stati presi di mira con il lancio di pietre. Rivelare la propria origine è rischioso; bisogna nascondersi. La nostra sicurezza è compromessa e l’antisemitismo è dilagante”.
Intanto anche la celebrazione ebraica di Hanukkah nella città olandese di Enschede prendeva una piega strana, dopo che il sindaco ha rifiutato di farsi vedere vicino all’ambasciatore israeliano. La sinagoga di Enschede aveva invitato il sindaco Roelof Bleker alla celebrazione di Hanukkah e gli aveva riservato un posto accanto all’ambasciatore israeliano, Modi Ephraim. Ma poche ore prima, la sinagoga ha ricevuto una telefonata da Bleker. “Il sindaco non vuole sedersi accanto all’ambasciatore e non vuole stringergli la mano”. La piccola comunità ebraica di Enschede – 45 ebrei in totale – era già frustrata dal primo cittadino, che ha respinto le loro richieste di maggiore sicurezza dopo il 7 ottobre, nonostante un’ondata di attacchi antisemiti.
Al Foglio, lo scrittore ebreo Leon de Winter non nasconde il suo pessimismo: “Da molti anni gli ebrei ad Amsterdam non vogliono farsi riconoscere come ebrei. In una-due generazioni, se ne saranno andati dall’Europa”. All’Aia una scuola ebraica ha rimosso la targa in onore dei sopravvissuti alla Shoah nel timore di atti di vandalismo. La polizia non ha permesso a una famiglia di esporre la sukkah fuori dalla casa.
“L’impatto della notte dell’attacco è molto significativo, siamo ancora troppo vicini a quanto successo, ma le persone sono molto impaurite, abbiamo perso la fiducia nel governo e nella polizia”, ci racconta Elliott Hollander, ebreo olandese tornato ad Amsterdam da Israele per lavorare per un’azienda di servizi. “Dal 7 ottobre c’è stata una accelerazione. Da qui a dieci anni, temo sia finita. Io me ne andrò. Mi piaceva tornare nel mio paese, ma il 7 ottobre come ebreo mi ha messo in una posizione diversa. Prima l’apertura del museo della Shoah, dedicato alla memoria degli ebrei gasati in Germania. Sopravvissuti e famigliari erano presenti: il sindaco con il capo della polizia hanno accettato che una manifestazione palestinese si tenesse di fronte al museo. Gli ebrei sono dovuto passare davanti a questa gente, tra urla, sputi, accuse che eravamo ‘assassini di bambini’. Il 7 ottobre poi abbiamo tenuto una commemorazione dei morti israeliani. E quel giorno hanno manifestato nuovamente in Piazza Dam, davanti a noi. E ora l’attacco durante la partita. Dalla stazione al mio ufficio è come camminare per Teheran: se portassi una kippah non arriverei senza danni al lavoro. E tutto è accettato per politicamente corretto, paura e ideologia. Gli ebrei, amici ebrei, rimuovono la kippah e tolgono la mezuzah. Evitano certi quartieri di Amsterdam. Ai miei figli ho detto di non parlare ebraico in centro. Ma gli olandesi, persone con cui lavoro, se ne fregano. Io me ne andrò, ma l’Europa sarà completamente fottuta. Anche se ho un po’ di ottimismo: vedo le persone stanche di come sta tutto precipitando”.
Qualche anno fa, un gruppo di ragazzine ebree della stessa età di Anne Frank dichiarava al quotidiano Het Parool che non sarebbe più uscita di casa con al collo la stella di David: erano state picchiate per strada da una banda di immigrati. Lo aveva previsto l’ex eurocommissario sotto Romano Prodi, Frits Bolkestein, il guru dei liberali che lanciò un invito choc: “Gli ebrei non hanno futuro qui e dovrebbero emigrare negli Stati Uniti o in Israele”. La denuncia di Bolkestein era contenuta in un libro, “Het Herval”, scritto da Manfred Gerstenfeld. Fra i primi leader politici a reagire alla “proposta” di Bolkestein ci fu proprio Femke Halsema, allora deputata ecologista e oggi sindaco di Amsterdam, la quale si chiese se l’ex commissario europeo non si fosse “kierewiet”, rimbambito. Il ministero della Giustizia dell’Aia è ricorso anche a metodi a dir poco fuori dal comune. Poliziotti vestiti con gli abiti della tradizione ebraica ortodossa che si fingono ebrei. Esche per le strade.
I suggerimenti di Bolkestein sono stati fatti propri anche da un’eminente rappresentante della comunità ebraica di Amsterdam, Bloeme Evers-Emden. Sopravvissuta ad Auschwitz, professoressa dell’università della città, la donna afferma di aver detto a figli e nipoti di lasciare il paese e che una sola direzione si offre loro: Israele. “I problemi non toccheranno me fintanto che sarò viva, ma consiglio fortemente ai miei figli di andarsene dall’Olanda”. La secolare sinagoga di Weesp è diventata la prima che in Europa, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha cancellato i servizi di Shabbat a causa delle minacce alla sicurezza dei fedeli.
Ayaan Hirsi Ali, che è stata una deputata liberale olandese e la collaboratrice di Theo van Gogh per il film “Submission”, racconta che c’è un problema di infiltrazione islamica nella polizia. “Conosco bene Amsterdam. Per molti anni ho vissuto nei Paesi Bassi. Vent’anni fa è stato implementato un piano ben intenzionato per incoraggiare la partecipazione delle minoranze etniche in tutte le aree in cui sono sottorappresentate. La polizia e le agenzie di sicurezza erano considerate ‘troppo bianche’. Gli islamisti (Fratellanza musulmana) hanno adottato la strategia dell’islamizzazione attraverso la partecipazione. Quindi l’impazienza dell’establishment di sinistra di accelerare il processo di partecipazione ha portato all’abbassamento degli standard per le minoranze. I controlli sono diventati sempre meno rigorosi. Ricordo bene quando facevo affidamento sulla protezione della polizia olandese per assicurarmi di non subire la stessa sorte del mio amico Theo van Gogh, che era stato accoltellato a morte da un jihadista nelle strade di Amsterdam. Un giorno, uno degli agenti assegnati alla mia scorta di sicurezza si è rivelato di origine turca. Mi sentii a disagio quando iniziò a criticarmi per il mio lavoro con van Gogh su ‘Submission’. Quando espressi le mie preoccupazioni, il suo superiore mi disse che non spettava a me, a lui era stato affidato il compito di proteggermi. Dovevo imparare un nuovo tipo di sottomissione. Oggi, gran parte della forza di polizia di Amsterdam è composta da migranti di seconda generazione provenienti dal Nord Africa e dal medio oriente”. Dal 7 ottobre, alcuni ufficiali si sono già rifiutati di sorvegliare luoghi ebraici come il Museo dell’Olocausto.
“Per anni l’antisemitismo è cresciuto e nessuno voleva sentire”, ci racconta il rabbino capo d’Olanda, Binjamin Jacobs. “E cresce ogni giorno. I nuovi olandesi, i musulmani, stanno crescendo in numero. Non mi hanno meravigliato le scene di Amsterdam. Va avanti da cinquant’anni. La polizia non vuole che prendere i mezzi pubblici. Qualche settimana fa c’è stato un mega evento alla sinagoga portoghese: mai visti tanti poliziotti, incredibile”. Tutti i sette figli del rabbino capo Jacobs, tranne due, hanno lasciato l’Olanda per Israele e altrove. “Sono arrivato in Olanda nel 1975 e capii subito che sarebbe successo. Rimarremo in numeri sempre più piccoli. Ho un figlio in Olanda, uno a Londra e uno a New York. Poi le figlie: una in Olanda, una a Montreal e un’altra a Londra. Sono come il capitano in servizio su una nave che affonda”.
Qualche mese fa, l’unica scuola ebraica ortodossa dei Paesi Bassi ha chiuso a causa dei rischi per la sicurezza. La scuola Cheider di Amsterdam ha deciso di fornire lezioni online agli alunni. La comunità ebraica di Groningen ha smesso di pubblicare online gli orari delle preghiere. Un gruppo di volontari manda messaggi agli amici via WhatsApp.
“Dopo l’attacco, le persone hanno tre emozioni”, dice al Foglio Esther Voet, direttrice del settimanale ebraico olandese, il Nieuw Israëlietisch Weekblad. “Le persone hanno paura. Sono molto tristi, specie la generazione più anziana. I giovani sono arrabbiati”. Voet ha offerto la sua casa a persone che cercavano rifugio dalle strade del centro. Unendo le forze con un collega che guidava per Amsterdam raccogliendo israeliani spaventati all’idea di uscire, Voet ha ospitato dieci persone nella sua casa tra l’una di notte e l’una di pomeriggio di venerdì. “E’ stato un movimento organizzato a Amsterdam, dove dopo il 7 ottobre ci sono state molte dimostrazioni violente. Vivo a duecento metri dalla casa di Anne Frank. Le autorità non intervenivano. Speravano che passasse. Il 10 marzo di quest’anno c’è stata l’apertura del museo della Shoah. Ed è stato orribile, le autorità hanno consentito ai manifestanti di urlare fuori dalla famosa sinagoga portoghese, mentre il re parlava all’interno. Il sindaco ha dato a questi gruppi il diritto di avvicinarsi a questa cerimonia. Da allora, altre manifestazioni hanno avuto luogo, specie all’università, che hanno distrutto facendo quattro milioni di danni. Poi una commemorazione il 7 ottobre a Piazza Dam e ancora il sindaco ha consentito ai filopalestinesi di arrivare vicino alla commemorazione. Sapevamo che prima o poi sarebbe diventata fisica”. E’ stata organizzata, erano pronti. “E ora molti ebrei si nasconderanno. Questa non è più la mia città. Gli ebrei sanno che per loro non c’è più Mokum, come chiamano Amsterdam. Non posso neanche andare al negozio vicino casa senza vedere una bandiera palestinese alle finestre. Ma non vedrai mai una bandiera israeliana, è troppo pericoloso. Non andrà meglio, soltanto peggio. Questo è il paese dove gli ebrei non avevano mai avuto un ghetto in Europa. Ma è tutto finito. E ora non mi interessano più le parole delle autorità, che in molte zone di Amsterdam hanno persino paura a entrare”.
Macabra, ma giusta, l’ironia di un sito americano: “Questa settimana il museo Anne Frank di Amsterdam rimarrà chiuso: ci sono cento ebrei nascosti nella soffitta”. Mokum è diventata la Mecca sul fiume Amstel.
Il Foglio, 16 novembre 2024)
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In Europa è caccia al cristiano: oltre 2.400 aggressioni in un anno
Boom di attacchi e profanazioni in Francia, Germania, Inghilterra, E il dato è al ribasso
di Giuliano Guzzo
Oltre 2.400 crimini d'odio anticristiani in Europa in un anno, sei e più al giorno. È lo sconvolgente quadro che filtra dalle 55 pagine di Intolerance and discrimination report 2024, l'ultimo rapporto - relativo allo scorso anno - redatto dall'Osservatorio sull'intolleranza e la discriminazione dei cristiani di Vienna (Oidac), una realtà che dal 2010 monitora costantemente la situazione europea classificando e fornendo dati oggettivi, affidabili e comparabili sulla cristianofobia. Guidato dall'austriaca Anja Hoffmann, 31 anni, che ne è direttrice esecutiva, questo Osservatorio redige annualmente dei rapporti che, per descrivere l'intolleranza dei cristiani in Europa, si servono di dati raccolti con una varietà di metodi e fonti, per garantire accuratezza e completezza.
Nell'ultimo di tali documenti, diffuso ieri, si certifica come nel 2023 Oidac abbia conteggiato 793 episodi - inclusi casi di furto - , 501 dei quali sono stati classificati quali crimini d'odio anticristiani. Questi dati sono stati incrociati con i 2.111 crimini d'odio anticristiani registrati dalle polizie europee e, scartando quelli già registrati da Oidac, si è giunti a un numero complessivo di 2.444 crimini d'odio in 35 Paesi. Un numero, con ogni probabilità, che è pure una sottostima. Sono infatti appena cinque i Paesi le cui forze dell'ordine classificano gli atti di violenza come anticristiani: Austria, Finlandia, Francia, Germania e Regno Unito (Inghilterra e Galles). Posto quindi che la già allarmante cifra di 2.444 crimini d'odio anticristiani è con ogni probabilità una stima al ribasso, Oidac segnala come quasi il 10% di essi - 232, per l'esattezza - riguardi attacchi personali contro i cristiani: molestie, minacce, violenza fisica, anche un tentato omicidio.
Per Oidac i Paesi dove la situazione è più grave sono tre. Il primo è la Francia, dove nel 2023 gli atti d'odio anticristiani sono stati quasi 1.000, il 10% dei quali contro cimiteri e chiese ma con anche 84 casi di aggressioni ai danni di persone fisiche; come il caso di due suore che, nel marzo dello scorso anno, hanno deciso di lasciare la città di Nantes dopo essere state «sottoposte a percosse, sputi e insulti», Per non parlare degli incendi dolosi ai luoghi di culto, tutt'ora in aumento se si pensa che, se ci furono otto casi confermati nel 2023, nei primi dieci mesi del 2024 sono saliti a 14.
La situazione non è più rosea nel Regno Unito, secondo Paese attraversato dall'odio anticristiano e dove, nel 2023, ci sono stati 702 casi di cristianofobia, il 15% rispetto all'anno precedente. Un aumento ancor più consistente si è verificato in Germania, dove gli atti d'odio anticristiani dal 2022 al 2023 hanno fatto segnare un'impennata del 105% .
E da noi? Per la nostra Penisola, come in realtà pure per altre nazioni, Oidac fa affidamento solo al proprio database e segnala comunque come, lo scorso anno, gli atti d'odio anticristiano in Italia siano stati numerosi. Quanti? Sessantacinque, ben più di quelli di Paesi come la Spagna (54) e l'Austria (23). Benché non se ne parli quasi mai sui mass media, dove si preferisce liquidare le profanazioni di chiese e cimiteri nonché le distruzioni di presepi come meri atti di vandalismo - quando non come ragazzate - , anche nel nostro Paese l'odio anticristiano si fa insomma sentire. Ma è tutta l'Europa dei «nuovi diritti» e che si focalizza quasi esclusivamente sulle discriminazioni solo verso le minoranze a sottovalutare un'ondata di violenza che anno dopo anno appare sempre più minacciosa.
(La Verità, 16 novembre 2024)
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Intesa sul Libano prima dell’insediamento di Trump?
L’esercito israeliano sta per raggiungere alcuni obiettivi fissati per l’operazione nel sud del Libano: eliminare dall’area a ridosso del confine la minaccia dei missili anticarro e il rischio di invasioni via terra dei terroristi libanesi. Lo spiega il giornalista Nir Dvori dell’emittente N12, raccontando dei progressi militari nella guerra a Hezbollah. Un conflitto difficile, come dimostrano le ultime notizie dal fronte: sei soldati israeliani sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con i terroristi in un edificio nel Libano meridionale. Un altro soldato è stato ferito e portato in ospedale per le cure mediche.
Lo scontro è avvenuto mentre le truppe si stavano spostando verso nord, verso la seconda linea di villaggi al di là del confine. Da qui, riferisce Dvori, partono la maggior parte dei razzi e droni lanciati contro Israele in questi mesi. Per il momento nell’area le operazioni militari sono limitate, ma il Comando del Nord ha previsto di ampliarle a breve. «Lo scopo dell’espansione della manovra è quello di inviare un messaggio a Hezbollah: se non ci sarà a breve un accordo, Israele aumenterà la pressione e il fuoco per spingere il gruppo a negoziare e accettare le sue condizioni».
Secondo il Washington Post, il governo di Benjamin Netanyahu vorrebbe arrivare a un’intesa per il cessate il fuoco in Libano prima dell’insediamento di Donald Trump alla presidenza Usa. La scorsa settimana Ron Dermer, ministro israeliano degli Affari strategici, ha incontrato a Mar-a-Lago l’entourage del presidente eletto. Fonti israeliane del Washington Post sostengono che «a gennaio ci sarà un’intesa sul Libano».
I termini dell’accordo per un cessate il fuoco, spiegano i funzionari israeliani, richiedono ai terroristi di Hezbollah di ritirarsi oltre il fiume Litani, ovvero oltre il confine settentrionale dell’area cuscinetto monitorata dalle Nazioni Unite, istituita dopo il conflitto del 2006 tra Israele e Hezbollah.
(moked, 14 novembre 2024)
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La pace dell’avversario
di Micol Flammini
Guerra in Libano. Tregua in vista? Trattative sono in corso e Israele potrebbe portare a termine il conflitto prima dell'insediamento di Donald Trump. Ma a quali condizioni? Il rispetto della risoluzione 1701, con Hezbollah fuori dal Libano meridionale.
Mentre alcuni ministri del governo di Israele rilasciavano dichiarazioni per dire che un cessate il fuoco con Hezbollah si sta materializzando, il ministro dei ministri, l’uomo a cui Benjamin Netanyahu affida le questioni importanti del suo governo, Ron Dermer, viaggiava in segretezza completa o parziale per curare i dettagli. Dermer per Netanyahu non è soltanto un collaboratore stretto, è la persona a cui ha affidato, soprattutto negli ultimi due governi, mediazioni, negoziati, incontri segreti. Oggi è ministro degli Affari strategici, fino al 2021 è stato ambasciatore negli Stati Uniti, è nato a Miami, e da lui passano le comunicazioni importanti con gli americani – fu lui, infatti, assieme al genero di Trump Jared Kushner a dare forma e sostanza agli Accordi di Abramo. Secondo un’esclusiva del Washington Post, Dermer sarebbe al centro di un nuovo ciclo di negoziati per mettere fine alla guerra in Libano.
Secondo le fonti del quotidiano americano, Israele sarebbe pronto ad accogliere il nuovo presidente americano con la fine di una delle guerre che combatte dal 7 ottobre e a parere di qualcuno, nella tempistica, ci sarebbe anche uno sgarbo a Joe Biden: la chiusura di un accordo per gennaio sarebbe un omaggio al repubblicano, dopo mesi in cui l’attuale Amministrazione si è spesa in viaggi continui in medio oriente tra diplomazia, intelligence e aiuti militari. L’accordo su cui sta lavorando Israele prevede il ritiro dei miliziani di Hezbollah oltre il fiume Leonte, come previsto dalla risoluzione 1701 delle Nazioni Unite del 2006, quindi l’istituzione di una zona cuscinetto tra il fiume e il confine israeliano controllata dall’esercito regolare libanese sotto la supervisione degli Stati Uniti e del Regno Unito, infine la possibilità per Tsahal di operare oltre la frontiera nel caso di violazioni. Una fonte del quotidiano ha detto che la proposta non è ancora stata sottoposta a Hezbollah, il gruppo potrebbe accettare il ritiro ma difficilmente sarebbe a favore, come lo stesso governo libanese, di lasciare che i soldati israeliani operino nel territorio di Beirut quando lo ritengano necessario. Nabih Berri, il presidente del Parlamento del Libano – carica che detiene da oltre vent’anni – e leader del miglior alleato politico di Hezbollah, il partito sciita Amal, ha detto: “C’è una persona sana di mente che crede accetteremo un accordo… a spese della sovranità del Libano?”. Israele ci crede ed è pronto ad aumentare la pressione militare per ottenere un’intesa che renda sicuro il suo confine settentrionale, reso invivibile e di fatto disabitato dai continui attacchi di Hezbollah. Una parte importante dell’accordo ideale per Israele sta però nel rendere il gruppo armato incapace di riarmarsi di nuovo.
Da settembre, Tsahal ha incrementato la sua campagna contro Hezbollah con azioni mirate, bombardamenti e una campagna di terra con l’obiettivo di distruggere i tunnel del gruppo, i depositi di armi ed eliminare le truppe Radwan, addestrate per penetrare nel territorio israeliano. Hezbollah è rimasto senza catena di comando, adesso il leader del gruppo è un religioso che trema e suda durante i discorsi che dovrebbero essere incendiari, però il suo arsenale è ancora cospicuo: gli attacchi contro Israele non sono diminuiti e i droni lanciati riescono ancora a essere precisi, tanto da aver colpito la casa del primo ministro a Cesarea. I lanci degli ultimi giorni hanno causato vittime tra i civili (in tutto, dall’inizio della guerra, quarantacinque) e tra i soldati impegnati dentro al Libano ne sono morti più di quaranta. Hezbollah è depotenziato ma è ancora in grado di far male, il suo canale con la Repubblica islamica dell’Iran è aperto e per il futuro, la preoccupazione di Israele è renderlo il più sigillato possibile. E’ qui che Dermer è entrato ancora una volta in azione, triangolando con i russi, che in Siria – la porta delle armi iraniane verso il Libano – hanno il controllo sul regime di Bashar el Assad. Israele sta colpendo in Siria per distruggere strutture di Hezbollah e rompere la catena di approvvigionamento, ma mancano un accordo e una capacità di controllo che ancora una volta rendono i russi utili agli occhi degli israeliani.
La proposta di pace che Israele vorrebbe presentare richiede a Mosca di precludere a Hezbollah e all’Iran le rotte siriane, i russi dovrebbero impedire che Damasco, rimasta quieta in questi mesi nonostante i bombardamenti sul suo territorio, permetta a Teheran di mandare armi ai miliziani libanesi. La parte più importante dell’esclusiva del Washington Post sta tutta nella triangolazione fra Russia, Israele e Stati Uniti, di cui Dermer è il tessitore assieme a Kushner, che nella nuova Amministrazione Trump non avrà incarichi ufficiali. Dermer sarebbe andato a Mosca in segreto e alcuni funzionari russi avrebbero visitato Israele a fine ottobre. Fonti del Foglio hanno raccontato di una possibile tentazione americana: legare i conflitti in medio oriente e in Ucraina a soluzioni parallele.
Il Foglio, 15 novembre 2024)
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Hotel rifiuta turisti di Tel Aviv. “Qui non siete ospiti graditi”
di Enrico Ferro
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L'Hotel Garni Ongaro di Selva di Cadore
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L’odio a tre stelle. “In quanto responsabili di genocidio, non siete clienti ben accetti”. Un nuovo rigurgito di antisemitismo, stavolta nel nord Italia. Il titolare dell’hotel Garni Ongaro di Selva di Cadore ha risposto così a un gruppo di turisti israeliani che chiedevano disponibilità di stanze per una vacanza sulle montagne del Cadore. E’ il frutto avvelenato delle stragi compiute a Gaza, dopo il pogrom organizzato da Hamas il 7 ottobre dell’anno scorso. “Cancellate la vostra prenotazione, saremo felici di offrirvi la cancellazione gratuita”, è l’invito che Patrik Ongaro ha rivolto alla comitiva, dopo aver eretto il suo personale muro ideologico.
La vicenda è deflagrata grazie ai media della comunità ebraica e già ci sono le prime conseguenze, ma non è escluso che ce ne saranno altre. Tanto per cominciare Booking ha bannato la struttura dal portale ma l’aspetto più serio è che del caso si sta interessando anche Dror Idar, l’ambasciatore israeliano a Roma. Avrebbe già contattato membri del governo italiano per chiedere che ci siano delle sanzioni concrete.
• IL POST
Ma l’albergatore rilancia, denunciando sul suo profilo Facebook minacce e ritorsioni. “Sono appena stato minacciato da un ente israeliano non ben definito, dopo essermi rifiutato di accogliere nel mio albergo clienti israeliani a causa del genocidio in atto”, scrive. “La cosa non mi spaventa, anzi dimostra che se tutti facciamo qualcosa nel nostro piccolo possiamo fare la differenza. Detto ciò, se mi accadesse qualcosa sapete il perché”.
• IL BOICOTTAGGIO
Dopodiché ha staccato il telefono e cancellato il post, ma ormai si è scatenata una ridda di reazioni sul web, con inviti al boicottaggio e insulti. L’associazione degli albergatori del Bellunese ha preso ufficialmente le distanze. “Ci dissociamo completamente”, dice Walter De Cassan, il presidente. “Sicuramente ne discuteremo con Federalberghi Veneto ma è il caso che se ne parli anche a livello nazionale. Questo non è il modo di fare ospitalità”. “Il Veneto non è questo”, gli fa eco il presidente della Regione Luca Zaia. Ma per Andrea Martella, senatore e segretario veneto del Pd, non ci sono dubbi: “Questo è razzismo”. La comunità ebraica osserva con preoccupazione l'evoluzione della situazione, con l'ondata di antisemitismo che travolge l'Italia e l'Europa. “Provo una tristezza infinita per l’ignoranza che dimostra certa gente”, commenta Dario Calimani, il presidente della comunità ebraica di Venezia. “Quando non si è d’accordo con ciò che fa Israele si sparge odio contro tutti gli israeliani. Non succede con nessun altro popolo, tantomeno con la Russia. E’ la generalizzazione del disaccordo che diventa odio”.
• I PRECEDENTI
Questa non è la prima volta che, dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, albergatori italiani alzano muri. Lo scorso mese di aprile è successo a Bergamo, all'hotel "Le Funi". "Gesù gli ebrei l'hanno ucciso, come stanno facendo con i bambini di Gaza. Io li ho banditi dal mio albergo, gli ho bloccato le prenotazioni", aveva scritto il titolare. Pochi mesi dopo, nei primi giorni di luglio, sempre sulle Dolomiti ma in quel caso a San Vito di Cadore, era circolata la notizia di una nuova esclusione da un appartamento del circuito Airbnb. Il caso venne poi smentito dal diretto interessato, che si era difeso parlando di un grande malinteso. “L’Italia rischia di essere terreno di scontro e di terrorismo”, avverte Calimani dal ghetto veneziano.
(la Repubblica, 14 novembre 2024)
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Parashat Vayerà. L’amore tra le generazioni, un pilastro dell’ebraismo
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
C’è un’immagine che ci perseguita attraverso i millenni, carica di emozioni. È l’immagine di un uomo e di suo figlio che camminano fianco a fianco in un paesaggio solitario di valli ombrose e colline brulle. Il figlio non ha idea di dove stia andando e perché. L’uomo, al contrario, è in un vortice di emozioni. Sa esattamente dove sta andando e perché, ma non riesce a trovare un senso. L’uomo si chiama Abramo. È devoto al suo Dio, che gli ha dato un figlio e che ora gli dice di sacrificarlo. Da un lato, l’uomo è pieno di paura: perderò davvero l’unica cosa che dà senso alla mia vita, il figlio per cui ho pregato per tutti questi anni? Dall’altro lato, una parte di lui dice: questo figlio era impossibile averlo – io ero vecchio e mia moglie era troppo anziana – eppure eccolo qui. Per questo, anche se sembra impossibile, so che Dio non me lo porterà via. Questo non sarebbe il Dio che conosco e che amo. Non mi avrebbe mai detto di chiamare questo bambino Isacco, che significa “riderà”, se avesse voluto far piangere lui e me. Il padre si trova in uno stato di assoluta dissonanza cognitiva, eppure – pur non riuscendo a trovare un senso – si fida di Dio e non tradisce alcun segno di emozione nei confronti del figlio. Vayelchu shenehem yachdav. I due camminavano insieme. C’è solo un momento di conversazione tra loro: Isacco parlò e disse a suo padre Abramo: “Padre?”. “Sì, figlio mio?” Abramo rispose. “Il fuoco e la legna sono qui”, disse Isacco, “ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”. Abramo rispose: “Dio stesso provvederà all’agnello per l’olocausto, figlio mio”. (Genesi 22:7-8) Quali mondi di pensieri non dichiarati e di emozioni non espresse si celano dietro queste semplici parole. Eppure, come a sottolineare la fiducia tra padre e figlio, e tra entrambi e Dio, il testo ripete: Vayelchu shenehem yachdav. I due camminavano insieme. Mentre leggo queste parole, mi ritrovo a viaggiare indietro nel tempo, e nell’occhio della mia mente vedo mio padre e me che torniamo a casa dalla sinagoga durante lo Shabbat. All’epoca avevo quattro o cinque anni e credo di aver capito, anche se non riuscivo a dirlo a parole, che c’era qualcosa di sacro in quel momento. Durante la settimana vedevo la preoccupazione sul volto di mio padre che cercava di guadagnarsi da vivere in tempi difficili. Ma di Shabbat tutte quelle apprensioni erano altrove. Vayelchu shenehem yachdav. Camminavamo insieme nella pace e nella bellezza del giorno santo. Mio padre non era più un uomo d’affari in difficoltà. In quei giorni era un ebreo che respirava l’aria di Dio, godeva delle Sue benedizioni e camminava a testa alta. Prima di ogni Shabbat mia madre preparava il cibo che dava alla casa il suo speciale profumo di Shabbat: la zuppa, il kugel, il lockshen. Mentre accendeva le candele, era la sposa, la regina, della quale cantavamo in Lecha Dodi e Eshet Chayil. Già allora avevo la sensazione che questo fosse un momento sacro, in cui eravamo in presenza di qualcosa di più grande di noi, che abbracciava altri ebrei in altre terre e in altri tempi, qualcosa che più tardi ho imparato a chiamare la Shechinah, la Presenza Divina. Abbiamo camminato insieme, i miei genitori, i miei fratelli e io. Le due generazioni erano così diverse. Mio padre veniva dalla Polonia. Io e i miei fratelli eravamo “veri inglesi”. Sapevamo che saremmo andati dappertutto, che avremmo imparato cose e intrapreso carriere che loro non avrebbero avuto. Ma camminavamo insieme, due generazioni, senza doverci dire che ci amavamo. Non eravamo una famiglia dimostrativa, ma sapevamo dei sacrifici fatti dai nostri genitori per noi e dell’orgoglio che speravamo di portare loro. Appartenevamo a tempi e mondi diversi, avevamo aspirazioni diverse, ma camminavamo insieme. Poi la mia immaginazione torna all’agosto di quest’anno (2011), a quelle scene indimenticabili in Gran Bretagna – a Tottenham, Manchester, Bristol – di giovani che si scatenavano per le strade, saccheggiando negozi, spaccando vetrine, incendiando auto, rapinando, rubando, aggredendo persone. Tutti si sono chiesti perché. Non c’erano motivazioni politiche. Non si trattava di uno scontro razziale. Non c’erano sfumature religiose. Naturalmente la risposta era chiara come il sole, ma nessuno voleva dirlo. Nell’arco di non più di due generazioni, gran parte della Gran Bretagna ha silenziosamente abbandonato la famiglia e ha deciso che il matrimonio è solo un pezzo di carta. La Gran Bretagna è diventata il Paese con il più alto tasso di madri adolescenti, il più alto tasso di famiglie monoparentali e il più alto tasso al mondo – 46% nel 2009 – di nascite al di fuori del matrimonio. Matrimonio e convivenza non sono la stessa cosa, anche se è politicamente scorretto dirlo. La durata media di una convivenza è inferiore ai due anni. Il risultato è che molti bambini crescono senza il loro padre biologico, e in molti casi non sanno nemmeno chi sia il loro padre. Nel migliore dei casi vivono con una successione di patrigni. È un fatto poco noto ma spaventoso, che il tasso di violenza tra patrigni e i figliastri è 80 volte superiore a quello tra padri naturali e figli. Il risultato è che nel 2007 un rapporto dell’UNICEF ha dimostrato che i bambini britannici sono i più infelici del mondo sviluppato, in fondo a una classifica di 26 Paesi. Il 13 settembre 2011, un altro rapporto dell’UNICEF ha messo a confronto i genitori britannici con le loro controparti in Svezia e Spagna. Il rapporto ha evidenziato che i genitori britannici cercano di comprare l’amore dei propri figli regalando loro vestiti costosi e gadget elettronici – un “consumismo compulsivo”. Non riescono a dare ai loro figli ciò che desiderano di più e che non costa nulla: il loro tempo. Il divario tra i valori ebraici e quelli secolari è oggi più evidente che in questo caso. Viviamo in un mondo secolare che ha accumulato più conoscenze di tutte le generazioni precedenti messe insieme, dal vasto cosmo alla struttura del DNA, dalla teoria delle superstringhe ai percorsi neurali del cervello, eppure ha dimenticato la semplice verità che una civiltà è forte quanto l’amore e il rispetto tra genitori e figli – Vayelchu shenehem yachdav, la capacità delle generazioni di camminare insieme. Gli ebrei sono un popolo formidabilmente intellettuale. Abbiamo i nostri fisici, chimici, medici e teorici dei giochi che hanno vinto il premio Nobel. Tuttavia, finché ci sarà un legame vivo tra gli ebrei e la nostra eredità, non dimenticheremo mai che non c’è nulla di più importante della casa, del sacro legame del matrimonio e di quello altrettanto sacro tra genitori e figli. Vayelchu shenehem yachdav. E se ci chiediamo perché gli ebrei hanno così spesso successo, e nel successo donano così spesso il loro denaro e il loro tempo agli altri, e così spesso hanno un impatto che va oltre il loro numero: non c’è nessuna magia, nessun mistero, nessun miracolo. È semplicemente che dedichiamo le nostre energie più preziose all’educazione dei nostri figli. Mai come durante lo Shabbat, quando non possiamo comprare ai nostri figli vestiti costosi o gadget elettronici, ma possiamo solo dare loro ciò che più desiderano e di cui hanno bisogno: il nostro tempo. Gli ebrei sapevano, sanno e sapranno sempre ciò che le classi chiacchierone di oggi negano, ossia che una civiltà è forte quanto il legame tra le generazioni. Questa è l’immagine duratura della parashà di questa settimana: il primo genitore ebreo, Abramo, e il primo figlio ebreo, Isacco, che camminano insieme verso un futuro sconosciuto, con le loro paure fermate dalla loro fede. Se perdiamo la famiglia, finiremo per perdere tutto il resto. Santificando la famiglia, avremo qualcosa di più prezioso della ricchezza, del potere o del successo: l’amore tra le generazioni, che è il dono più grande che Dio ci fa quando ce lo doniamo l’un l’altro.
(Bet Magazine Mosaico, 15 novembre 2024)
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Parashà della settimana: Va-erà (Apparve)
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I palestinesi sono meno euforici
Dopo la rielezione di Donald Trump, i palestinesi sono meno euforici degli israeliani.
di Ariel Schneider
GERUSALEMME - Le voci ufficiali palestinesi hanno inizialmente reagito con cautela alla vittoria elettorale di Trump. La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi è stata accolta con delusione dai politici palestinesi e dai loro media. Cosa potevano dire? Il vecchio compagno del loro arcinemico Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni statunitensi e ora sta lavorando a un dream team politico per Israele. Il futuro ambasciatore statunitense a Gerusalemme è un pastore battista devoto che vede un Grande Israele biblico sulla mappa del mondo, senza spazio per la Palestina. Per Mike Huckabee, il cuore biblico della Giudea e della Samaria è la promessa di Dio al popolo ebraico. Punto e basta. Per i palestinesi è più che altro un incubo. Israele è euforico, i palestinesi no. In una dichiarazione, il Presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, si è congratulato con il Presidente Trump per la sua vittoria elettorale e gli ha augurato ogni successo. Ha dichiarato di essere impaziente di lavorare con lui per promuovere la pace e la sicurezza nella regione. Abbas ha concluso dicendo: “Siamo fedeli al nostro impegno per la pace e siamo fiduciosi che gli Stati Uniti, sotto la sua guida, sosterranno le legittime aspirazioni del popolo palestinese”. Questo può essere vero, ma Abbas certamente ricorda bene che Donald Trump ha quasi fatto passare l'accordo del secolo nel cuore biblico della Giudea e Samaria durante il suo primo mandato. E questo accordo è ora di nuovo sul tavolo. Al contrario, il quotidiano palestinese Al-Quds ha riportato la vittoria elettorale di Trump con un editoriale in prima pagina dal titolo “Il ritorno di Trump” e ha pubblicato numerosi articoli e commenti in cui si prevedeva che Trump avrebbe appoggiato incondizionatamente Israele e adottato misure estreme e pericolose che avrebbero danneggiato i palestinesi. In un editoriale, il giornale ha scritto: “Trump sarà più israeliano degli stessi israeliani e darà loro più tempo per continuare il loro ruolo diabolico nella regione”. E continua: “Se qualcuno ha creduto che Netanyahu potesse porre fine alla guerra a Gaza all'inizio del mandato di Trump, è stato solo per fare un favore a Trump e dare al nuovo presidente una rapida vittoria diplomatica. Tuttavia, ciò richiederebbe che Israele e gli Stati Uniti mantengano congiuntamente i canali per un ulteriore coordinamento riguardo a ulteriori complotti contro la causa palestinese in particolare e il futuro del Medio Oriente in generale”.
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Secondo la vignetta la rielezione di Trump affogherà il mondo nel sangue
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Secondo un'analisi del Middle East Media Research Institute (MEMRI), Ahmad Majdalani, membro del Comitato esecutivo dell'OLP, ha dichiarato: “Rispettiamo la volontà dei popoli di eleggere i loro presidenti, e non abbiamo alcun problema con qualsiasi presidente in qualsiasi parte del mondo, purché venga rispettata la volontà del popolo palestinese di realizzare il proprio diritto all'autodeterminazione, di creare un proprio Stato indipendente e di rimuovere l'occupazione dalla loro terra”. Ha invitato l'amministrazione Trump a “trattare seriamente la questione palestinese”, aggiungendo che “la precedente amministrazione statunitense è passata dal sostegno unilaterale a Israele a collaborare con l'occupazione nella sua aggressione contro il popolo palestinese”. Sabri Saidam, vice segretario generale del Comitato centrale di Fatah, ha spiegato le aspettative della leadership palestinese sul secondo mandato di Trump. In un'intervista al quotidiano palestinese Al-Quds, ha sottolineato: “Noi tutti speriamo in un Trump diverso, che sia in grado di prendere atto della mutata realtà in Palestina e nella regione”. Saidam ha espresso la speranza che Trump non si concentri solo sulla normalizzazione tra Israele e gli Stati arabi, ignorando i palestinesi, ma che affronti anche le radici del conflitto palestinese-israeliano. Ha invitato Trump a “porre fine alla guerra in Palestina”, come aveva promesso ai suoi elettori arabi, e ad adottare misure di buona volontà nei confronti dei palestinesi per riequilibrare le relazioni e dimostrare che gli Stati Uniti rispettano i loro obblighi internazionali. Secondo l'analisi del MEMRI, alcuni media palestinesi hanno mostrato indifferenza per la vittoria elettorale di Trump e hanno trasmesso il messaggio che la politica statunitense nei confronti della Palestina non sarebbe cambiata sotto la sua guida. I quotidiani Al-Hayat Al-Jadida e Al-Ayyam non hanno nemmeno menzionato la vittoria elettorale di Trump nelle loro prime pagine. Talal Okal, editorialista di Al-Ayyam, ha scritto: “In pratica, non c'è molta differenza tra Trump e Harris. Finora l'amministrazione Biden è stata complice del genocidio di Gaza. Trump è il padre dell'accordo del secolo quando ha detto che la terra di Israele è troppo piccola e deve essere allargata. Non fermerà la guerra perché il suo partner Netanyahu è al potere e vuole andare fino in fondo”. I palestinesi hanno paura del duo Benjamin Netanyahu e Donald Trump. E a ragione. Sanno dal passato che Trump ha spostato l'ambasciata americana a Gerusalemme e che non è scoppiata la terza guerra mondiale che i palestinesi avevano minacciato all'epoca. Israele ha anche firmato trattati di pace con i Paesi arabi e non è scoppiata nessuna guerra mondiale. Ora temono di poter fare di nuovo ciò che vogliono e che nessuno li fermi. Può essere vero, ma oggi Israele, il Medio Oriente e il mondo intero si trovano in una situazione nuova ed esplosiva. L'accordo del secolo è sul tavolo e i palestinesi temono che la Giudea e la Samaria vengano annesse da Israele con il sostegno americano.
(Israel Heute, 14 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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È Marco Rubio il Segretario di Stato nominato da Donald Trump
Si aspettava solo la conferma della nomina di Marco Rubio a Segretario di Stato americano. Per Israele una ottima notizia
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Donald Trump e Marco Rubio
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Ieri sera il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato la nomina del deputato Marco Rubio a segretario di Stato americano. Trump ha scritto in una dichiarazione sulla sua nomina: “Marco è un leader molto rispettato e una voce potente a favore della libertà. Sarà un forte rappresentante per la nostra nazione, un vero amico per i nostri alleati e un guerriero senza paura che non si tirerà indietro di fronte ai nostri avversari. Non vedo l’ora di lavorare con Marco per rendere l’America e il mondo di nuovo grandi e sicuri”. Rubio, 53 anni, ha iniziato la sua carriera politica come membro repubblicano della Camera dei rappresentanti della Florida e successivamente è stato eletto al Senato degli Stati Uniti. Nel 2016 si è candidato alle primarie del Partito Repubblicano contro Trump. Come membro della commissione per le relazioni estere del Senato, Rubio si è occupato molto della minaccia cinese per gli Stati Uniti. Ha anche mostrato un atteggiamento duro nei confronti di Russia, Corea del Nord e Iran e ha espresso posizioni chiaramente filo-israeliane. Il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, si è congratulato con Rubio per la nomina: “Sei un vero difensore dei nostri valori condivisi e un grande amico di Israele. Non vedo l’ora di lavorare con te mentre affrontiamo sfide significative per la nostra regione e il mondo.” Trump ha annunciato anche che Matt Gates sarebbe stato nominato procuratore generale. “Matt è un avvocato talentuoso e determinato, che ha frequentato il College of William and Mary Law School, e si è distinto al Congresso nei suoi sforzi per realizzare una riforma critica del Dipartimento di Giustizia. Non c’è questione più importante che fermare lo sfruttamento del diritto e del sistema legale per scopi politici. Matt lavorerà per porre fine all’uso del governo come strumento politico, proteggere i nostri confini, smantellare le organizzazioni criminali e ripristinare la fiducia nel sistema giudiziario americano”, ha scritto Trump.
(Rights Reporter, 14 novembre 2024)
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“La gente non si ascolta a vicenda e i media incitano alla divisione”
Un movimento di base emergente chiede di sanare le fratture sociali mentre Israele entra nel suo quarto quarto di secolo. Intenzionata a costruire un movimento di massa per il cambiamento, HaRiv'on HaRevi'i esorta gli israeliani di tutti i settori a immaginare - e agire per - un futuro unito.
di Sue Surkes
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Israeliani di diverse estrazioni sociali si incontrano al Centro Congressi Internazionale di Gerusalemme sotto l'egida di Rivon4
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Diverse centinaia di sconosciuti sedevano in una sala con la moquette nel Centro Congressi Internazionale di Gerusalemme il 31 ottobre, chiedendosi cosa sarebbe successo. "Cercate qualcuno vicino a voi che sembri diverso e presentatevi", ha detto Ella Ringel, co-fondatrice e CEO di HaRiv'on HaRevi'i (Il “Quarto-quarto di secolo”). I miei occhi si sono posati su una giovane donna di corporatura minuta vestita con abiti stereotipati da colona della Cisgiordania - un foulard grande come un turbante, gonna fluente e stivali Blundstone. Shachar, 26 anni, mi ha raccontato di essere cresciuta nel quartiere sud-occidentale di Gerusalemme di Kiryat Menachem e di vivere ora in una fattoria su una collina vicino a Duma, nel nord della Cisgiordania, dove suo marito da quattro anni alleva capre. "Parlate delle cose che vi fanno stare bene", ha indicato Ringel. Shachar ha detto: "I miei figli e il fatto che stiamo sconfiggendo i nostri nemici." Tornati ai nostri posti, Ringel ha chiesto al pubblico cosa li preoccupasse di più. "La gente non si ascolta a vicenda", si è offerto Yaakov. "I media, che incoraggiano la divisione", ha detto Noam, 31 anni. Ron, di Tel Aviv, ha detto che temeva che le persone che condividevano i suoi valori stessero scomparendo e che vivere insieme sarebbe diventato "insopportabile". Una donna ha detto che il governo era disconnesso dal popolo e che si trovava in un "deserto ideologico dove i valori sono andati in frantumi." Stavamo partecipando a una delle tante conferenze HaRiv'on HaRevi'i organizzate in tutto il paese per convincere gli israeliani di ogni estrazione che, in un momento di profonde fratture politiche e sociali, può esserci un futuro costruito sul consenso. Fondata due anni fa, l'organizzazione dice di avere già 150.000 persone nelle sue mailing list, di cui 25.000 regolarmente attive in gruppi basati sulla posizione geografica in tutto il paese. Afferma che il suo obiettivo non è né far cadere il governo - come ha sostenuto (in ebraico) la deputata di estrema destra del partito Sionismo Religioso di Bezalel Smotrich, Orit Strock - né sostenere il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Sicurezza Nazionale di estrema destra Itamar Ben-Gvir, come ha suggerito il giornale di sinistra Haaretz. Invece, il collettivo di base dice di mirare a stabilire un governo di unità e generare proposte politiche basate su un ampio consenso pubblico; sostituire l'ethos dominante "noi o loro" con uno di speranze e valori condivisi; e far uscire le persone dalle loro camere d'eco alimentate dai social media per ascoltare veramente i concittadini con opinioni diverse. L'approccio conciliante di HaRiv'on HaRevi'i ha sottolineato la sua risposta al drammatico e controverso licenziamento del Ministro della Difesa Yoav Gallant da parte di Netanyahu all'inizio di questo mese, che ha generato aspre condanne da parte dei suoi sostenitori (principalmente del centro e della sinistra politica) e rumorose espressioni di sostegno a destra. Invece di esprimere un'opinione, HaRiv'on HaRevi'i ha posto delle domande. Il suo post su Facebook recitava: "È permesso licenziare un ministro della difesa in guerra? Sì. Ma un passo così drammatico, mentre gli occhi di tutti i nostri nemici aspettano di vedere se ci stiamo indebolendo dall'interno, deve essere condotto in modo da creare fiducia e mantenere il fronte interno forte e coeso." "Ecco perché i cittadini di Israele devono ricevere una spiegazione trasparente, convincente e vera della mossa: Come farà il licenziamento del ministro della difesa durante la guerra a far avanzare la vittoria a Gaza e in Libano? Come promuove il licenziamento la nostra preparazione per l'attacco iraniano, per il nuovo presidente negli USA, per affrontare la pressione internazionale? E soprattutto, come promuove il ritorno dei rapiti in Israele? E non meno significativo, una mossa il cui sfondo è la pubblicazione di un ordine di coscrizione per migliaia di ultra-ortodossi ferisce lo spirito dei combattenti al fronte. Come ripristineremo la fiducia che è stata spezzata nei soldati e nelle famiglie dei riservisti?"
• DAVID BEN-GURION COME PROFETA
HaRiv'on HaRevi'i è stata fondata durante il breve mandato di Naftali Bennett come primo ministro nel 2021-2022. I suoi co-fondatori sono Yoav Heller, un consulente strategico e storico specializzato nell'Olocausto e nella società israeliana; Ella Ringel, una psicologa organizzativa che ha lavorato per anni con il comando superiore dell'IDF; Eitan Zeliger, proprietario di una società di PR e pubblicità; e Ori Herman, il cui background è nella tecnologia, nella società civile e nel governo. Il suo nome si riferisce al quarto quarto di secolo dell'esistenza dello Stato di Israele e riecheggia il test per il sionismo che HaRiv'on HaRevi'i aveva predetto per quando lo stato avrebbe compiuto 75 anni (l'anno scorso). "Per allora, i bambini nati non incontreranno più i sopravvissuti all'Olocausto, né conosceranno la generazione fondatrice," disse il primo primo ministro del paese. "La nostra fede nella giustizia della nostra causa richiederà una ridefinizione rinnovata, non basata su ciò che è stato ma piuttosto su ciò che sarà." HaRiv'on HaRevi'i organizza incontri di massa per presentare alla società civile le sue idee - seminari, circa 100 incontri mensili nei saloni di case private, e incontri, alcuni online, dove i partecipanti possono incontrare "l'altro", affinare le loro capacità di ascolto e discussione civile e fare suggerimenti. L'evento introduttivo del 31 ottobre a Gerusalemme è stato raffinato e strettamente coreografato, un mix di terapia di gruppo, motivazione aziendale e zelo evangelico. È iniziato con un discorso ispiratore di Ringel, che ha detto che l'incontro mirava a presentare HaRiv'on HaRevi'i e a far incontrare i partecipanti con persone che la pensavano diversamente da loro. "Il primo passo che ha aiutato i paesi a uscire da una crisi è stato l'accordo generale sul problema," ha detto Ringel, citando Jared Diamond, l'accademico e commentatore sociale statunitense autore di "Upheaval: How Nations Cope with Crisis and Change." Ha citato il defunto rabbino britannico Jonathan Sacks, che distingueva tra ottimismo - "un sentimento" che va e viene - e speranza. "La speranza richiede la capacità di sognare, di avere obiettivi chiari e di agire," ha detto. Il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy dimostrò una visione per il futuro nel 1961 quando fissò l'obiettivo di far atterrare un uomo sulla luna entro un decennio, ha continuato Ringel. Dov'era il Kennedy di oggi? "Meritiamo di più," ha detto. "Non può essere che non osiamo immaginare." Le democrazie in tutto il mondo erano "bloccate", ha continuato, "e siamo tutti parte del problema." Avendo specificato i nostri orientamenti religiosi durante la registrazione alla conferenza, siamo stati tutti diretti a grandi tavoli rotondi dove la maggior parte delle persone era o laica o religiosa nazionale. A moderare un tavolo c'era Nora Muller, una dottoressa in pensione di Kfar Saba, originaria dell'ex Unione Sovietica. Cosa ci ha portato tutti qui, ha chiesto? Hani, una giovane madre il cui grado di osservanza religiosa era difficile da valutare, ha detto che temeva per il futuro dei suoi quattro figli. Questa reporter era seduta con un rabbino nato in Algeria ed educato ultraortodosso ("Ora sono sionista religioso") che aveva guidato incontri interreligiosi in Svizzera, un signore con la kippà all'uncinetto che era immigrato dalla Francia 50 anni fa, e una nonna dalla città cisgiordana di Ma'ale Adumim, vicino a Gerusalemme. Muller ci ha diviso in gruppi di quattro e ci ha detto cosa discutere e per quanti minuti. A cosa ci relazionavamo durante l'evento? Cosa ci preoccupava? Avevamo sentito un concetto che ci aveva colpito? In che modo ognuno di noi era parte del problema? Alla fine, ha distribuito carte con suggerimenti sull'ascolto empatico. Il nostro quartetto era unito nel timore dell'effetto che il mondo chiuso degli ultraortodossi stava avendo sull'unità del paese alla luce dell'opposizione della leadership rabbinica al servizio militare dei membri della loro comunità in un momento in cui i soldati riservisti che combattevano a Gaza e in Libano si stavano esaurendo.
• UNITI, NELLA PAURA
Durante la pausa panini, le persone hanno continuato a parlare in piccoli gruppi. Uno dei pochi uomini identificabili come ultraortodossi, probabilmente sulla trentina, è stato praticamente assalito da un gruppo di donne religiose nazionali e laiche che volevano le sue opinioni su una serie di questioni. Il giovane ha detto di aver servito nell'esercito, il che lo rendeva meno rappresentativo del mondo Haredi. L'evento conclusivo è stata una conferenza di Yoav Heller. Ha sviluppato la teoria del Quarto-Quarto di secolo, ispirato da accademici come il Prof. John Haldon della Princeton University, il Prof. David Passig della Bar-Ilan University, e libri come "The Fourth Turning". Quest'ultimo, concentrandosi sulla storia americana, mostrava come la storia moderna procedesse in cicli di 80-100 anni, ciascuno composto da quattro "svolte". Secondo la teoria che Heller e i suoi colleghi di HaRiv'on HaRevi'i presentano al pubblico, il primo quarto di secolo di Israele è stato speso nel ritorno a Sion e nella difesa dei confini. Il secondo quarto di secolo si è concentrato sulla creazione delle infrastrutture dello stato. Il terzo quarto di secolo ha visto crescere la ricchezza e il potere militare, ma i cittadini hanno iniziato ad allontanarsi dalla storia fondante. Credendo di non essere più minacciati dall'esterno, hanno iniziato a combattersi l'un l'altro all'interno. Molti gruppi insistevano che il paese dovesse apparire esattamente come volevano loro, scatenando fratture interne che i suoi nemici potevano sfruttare il 7 ottobre dell'anno scorso. Quel giorno, i terroristi di Hamas hanno attraversato il confine di Gaza, ucciso circa 1.200 persone e rapito 251 persone nell'enclave palestinese. Heller ha affrontato domande difficili dal pubblico. "Vuoi uno stato democratico o ebraico?" ha chiesto Dean da Jaffa vicino a Tel Aviv. Una donna del Kibbutz Ramat Rachel a Gerusalemme ha chiesto se ci fossero posizioni ideologiche inaccettabili. Diverse persone hanno notato che il pubblico era principalmente istruito e soprattutto laico o religioso sionista e, quindi, non veramente rappresentativo della società israeliana. Carismatico e divertente, Heller ha cercato di ribaltare le domande. Ha detto quanto fosse meraviglioso che così tante persone fossero venute, aggiungendo che l'organizzazione, con cui 150.000 persone hanno già condiviso i loro dati, stava "creando qualcosa di molto grande." Ha detto che HaRiv'on HaRevi'i stimava che tra i suoi membri più attivi, il 40% fosse laico, il 35% religioso sionista, il 21% tradizionale, il 4% ultraortodosso, e solo l'1% arabo. Riteneva che il 55% fosse sullo spettro politico di destra, con il 45% al centro e a sinistra. Finora, il movimento ha condotto una campagna nazionale per un governo di unità, prodotto una proposta per integrare gli uomini ultraortodossi nell'IDF, e redatto un "documento fondamentale" chiamato La Storia Israeliana. Quest'ultimo è il risultato di un anno di discussioni che hanno coinvolto circa 1.000 persone e ha ricevuto quasi 10.000 commenti. Mirato a definire cosa sia Israele, comprende 10 principi. Tra questi ci sono: Lo Stato di Israele è lo stato nazionale del popolo ebraico e realizza l'idea sionista; Israele è uno stato ebraico, con caratteristiche ebraiche nello spazio pubblico, ed è una casa naturale per il mondo della Torà e della fede; Israele è una democrazia liberale nei suoi valori e sistema di governo; i cittadini arabi di Israele sono partner a pieno titolo e hanno uguali diritti; e la pace è un ideale, e Israele si sforza per la pace con i suoi vicini. Hadas Lahav, responsabile delle politiche di HaRiv'on HaRevi'i, ha successivamente detto al Times of Israel che attivisti ed esperti stavano lavorando su otto quadri di riferimento in materie che includono religione e stato, i sistemi educativi (Israele ne ha quattro: statale religioso, laico, ultraortodosso e arabo, con poca sovrapposizione tra loro), sicurezza, economia, reti sociali, e come bilanciare al meglio le diverse istituzioni dello stato per minimizzare gli attriti e incoraggiare una maggiore responsabilità. Lahav ha detto che attivisti con competenze in ogni materia stavano guidando diversi team. Le bozze dei quadri venivano poi condivise per commenti nei seminari di idee, nei gruppi regionali, o su una piattaforma digitale pilota nel caso di religione e stato. Ha detto che le proposte includevano "idee molto concrete" pur riflettendo il compromesso. Ha continuato: "Non siamo lobbisti. Creiamo progetti faro e speriamo che il pubblico venga a dire che questo è il luogo da cui ci aspettiamo che i politici portino avanti questo paese. L'idea è creare un discorso pubblico perché, alla fine della giornata, i politici vogliono compiacere il pubblico, e il pubblico ha dimenticato di avere una voce." Lahav ha aggiunto: "Ci sono estremisti da entrambe le parti. È un loro diritto. Ma ci sono abbastanza persone nel mezzo che non vogliono cadere nel buco di essere pro o contro. La maggior parte delle persone sono sionisti moderati, e non hanno una casa."
(da The Times of Israele, 12/11/2024)
(Kolòt, 14 novembre 2024)
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Sposarsi all’ombra di una guerra: Yarden e Liel sotto i razzi durante il giorno del loro matrimonio
di Michelle Zarfati
I futuri sposi Yarden Salem e Liel Madmon, di Kadima, hanno vissuto un momento emozionante durante il servizio fotografico del loro matrimonio, svoltosi martedì nel giardino ecologico di Hod Hasharon. Nel bel mezzo del momento delle foto, poche ore prima della cerimonia nuziale, è suonata nuovamente la sirena, costringendo la coppia a rifugiarsi a terra per mettersi in sicurezza, il tutto vestiti con gli abiti nuziali.
“Non c’era un rifugio nelle vicinanze”, ha detto Ilan Lorentzky, il fotografo che, insieme al collega Arnon Cohen, ha immortalato su pellicola l’emozionante giornata della coppia. “Ci siamo spostati sul fianco di una collina, ci siamo accovacciati e ci siamo coperti la testa. Le intercettazioni dell’Iron Dome erano proprio sopra di noi e potevamo sentire le esplosioni. Questa è la nostra realtà, ma continueremo a festeggiare stasera: dobbiamo trovare la gioia”.
Liel, la sposa, ha raccontato: “Mentre eravamo accovacciati, abbiamo iniziato a cantare ‘Am Yisrael Chai’ e abbiamo pregato per la sicurezza dei soldati e degli ostaggi. Anche con la sirena in sottofondo, abbiamo mantenuto alto il morale”. Yarden, lo sposo, ha aggiunto: “Eravamo sempre preoccupati che qualcosa potesse andare storto. Sposarsi in tempi come questi è una follia. Ma come ha detto la mia saggia sposa, Dio veglia su di noi”.
(Shalom, 13 novembre 2024)
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La lunga notte antiebraica
Più oscura si fa questa notte, notte d’orrore.
di Antonio Cardellicchio
Amsterdam: aggressione sanguinaria, caccia sistematica agli ebrei di Israele, una Gaza nei nostri territori, esplosione di odio smisurato e incontenibile. Ogni limite è stato superato. Eccoli gli effetti della universale intifada di demonizzazione-deumanizzazione degli ebrei, in una replica dell’hitlerismo aggravata dall’esibizione ostentata delle azioni dei carnefici. L’indignazione civile, quando c’è stata, è del tutto insoddisfacente davanti all’entità criminale di una violenza militarizzata, furibonda. Alimentata da una ideologia genocida. Le bande nazi-islamiche sono state padrone di Amsterdam nelle ore decisive, hanno colpito a sangue gli ebrei e terrorizzato la città. L’intervento tardivo della polizia olandese non è stato una semplice manifestazione di inefficienza, ma si è rivelato l’effetto di una prassi multiculturalista che ha alimentato la cultura dell’odio e dell’agguato mortale. Ayaan Hirsi Ali ha ampiamente documentato che la polizia olandese contiene al suo interno ampie quote di immigrati islamici, che avevano espresso posizioni anti-israeliane e si erano rifiutate di fare controlli sui sospetti. Il multiculturalismo rivela il suo vero volto di incubatore di odio razziale, di pulizia etnica, mostra in pieno quello che si sapeva essere, cioè l’opposto diametrale del pluralismo e della vita liberale democratica. Così i Paesi Bassi che hanno una grande tradizione di civiltà plurale, federale, di libertà (l’eccellenza della Repubblica delle Province Unite nel Seicento, dove il termine provincia ha un significato opposto a quello periferico prefettizio della storia francese e italiana), perché nella storia olandese la provincia era invece un potere originario che delegava a un centro coordinato, in una tipica democrazia federale. Tutto questo è stato devastato dalla criminalità violenta del fanatismo islamico. Infranta la patria di Spinoza e Anna Frank. Ricordiamo che la famiglia Frank venne denunciata e deportata nei lager dai nazisti occupanti affiancati da collaborazionisti olandesi. Il Primo Ministro del Regno dei Paesi Bassi ha espresso la sua vergogna, il Re Guglielmo Alessandro ha comunicato al presidente Herzog: “Con gli ebrei abbiamo fallito con la Shoah, abbiamo fallito ora.” L’Olanda è oggi il paese delle chiese vuote, di chiese chiuse trasformate in supermercati, di sinagoghe a rischio di assalto, di moschee che si diffondono come centri della guerra psicologica del nazi-islamismo anti-ebraico, anti-cristiano, anti-occidentale. La violenza antiebraica di Amsterdam è più grave di quanto sembri, perché rappresenta una punta del pericoloso progetto Eurabia, rivolto a indebolire, dividere, colonizzare l’Europa attraverso il potere violento delle enclave islamiche nell’Unione Europea. Molti degli aggressori degli israeliani sono di terza o anche quarta generazione, una misura questa del disastro multiculturalista. Ecco che significa aver dato la cittadinanza olandese ad anti-olandesi, antisemiti, anti-europei. Questa dinamica criminale antisemita, anti-occidentale non si arresta ma si espande senza maschera, senza vergogna. Diverse manifestazioni di massa, ad esempio a Milano, esaltano l’attacco di Amsterdam, inneggiano a Yahya Sinwar, del quale inalberano i ritratti. In questo modo osceno si esaurisce la finzione della retorica “filo-palestinese”, e in modo scoperto e arrogante si comportano come un organo di Hamas, Hezbollah e Iran. La glorificazione dei carnefici incita a nuove carneficine. Sarebbe come fare una manifestazione di massa che inneggia a Hitler, Stalin, Mussolini, Mao, Pol Pot, Bin Laden, i peggiori capimafia e boss del narcotraffico. Come dire: vogliamo la legalizzazione del crimine e la criminalizzazione della sfera umana e civile. Le folle della violenza verbale e fisica antiebraica esercitano un vero ricatto verso una democrazia debole e indifesa fanno valere, oltre la violenza, il peso di una tirannia della maggioranza in termini di consenso e calcolo elettorale. Gli ebrei in Italia sono una minoranza pacifica, senza voce, trattata da sempre come un capro espiatorio. Trascurata per la sua marginalità, quasi insignificanza elettorale. Ma quando la democrazia formale si riduce a statistica quantitativa perde la qualità di una democrazia fondata su principi inviolabili, con un suo ethos. Perché l’antisemitismo non è solo persecuzione e morte per gli ebrei, ma è un potente tossico per la dissoluzione della democrazia. Terribile a dirsi, ma è come se questa realtà incontrastata del nuovo nazismo islamico, per certi aspetti selvaggi, sadici, apocalittici, anche peggiore dello storico nazionalsocialismo tedesco, si stesse espandendo senza una barriera antifascista o con una opposizione solo marginale. Lo aveva compreso, e ne scriveva profeticamente, Oriana Fallaci:
“Continua la fandonia dell’Islam ‘moderato’, la commedia della tolleranza, la bugia dell’integrazione, la farsa del pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un’esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in Paesi lontani. Be’, il nemico non è affatto un’esigua minoranza. E ce l’abbiamo in casa. Ed è un nemico che a colpo d’occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all’occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente-inserito- nel-nostro-sistema-sociale. Cioè col permesso di soggiorno […] È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Un nemico che in nome dell’ umanitarismo e dell’asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i centri di accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della ‘necessità’ (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?), invitiamo anche attraverso l’Olimpo costituzionale. ‘Venire cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi.’ Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all’imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l’Eurabia, sicchè per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l’esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca.”
Questo scriveva a suo tempo. Oggi, che direbbe? Solo un risveglio, una rivolta delle coscienze, potrà difendere gli ebrei, rompere la loro de-umanizzazione, e creare una spinta per un’Europa che superi l’inganno multiculturalista, e diventi dunque un’Europa pluralista.
(L'informale, 13 novembre 2024)
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Cosa ha detto Netanyahu agli iraniani
Il primo ministro Binyamin Netanyahu ha pubblicato ieri sera una dichiarazione registrata in inglese in cui ha cercato di fare appello al popolo iraniano.
“Qualche settimana fa mi sono rivolto direttamente al popolo iraniano […] Dall’ultima volta che abbiamo parlato, il regime Khamenei ha lanciato centinaia di missili balistici contro il mio Paese. Mi chiedo, vi ha detto quanto è costato questo attacco? Beh, non sto indovinando: l’importo è di 2,3 miliardi di dollari. Questo è l’importo che hanno sprecato del tuo prezioso denaro in attacchi inutili”.
“I missili hanno causato danni marginali a Israele, ma che danni hanno causato a voi? Questa cifra avrebbe potuto aggiungere miliardi al vostro budget per i trasporti. Questa cifra avrebbe potuto aggiungere miliardi al budget per il sistema educativo iraniano. Invece, il regime di Khamenei ha preferito la brutalità dei missili e ha fatto rivoltare il mondo contro il tuo Paese, ti ha derubato del denaro che avrebbe dovuto essere tuo.”
Più avanti nel suo discorso, Netanyahu ha fatto riferimento ad un “Iran libero”: “Voglio che immaginiate come la vostra vita potrebbe apparire diversa se l’Iran fosse libero. Potete esprimere la vostra opinione senza paura. Potete raccontare una barzelletta senza chiedervi se sarete portati nella prigione di Evin (una prigione situata nel nord-ovest di Teheran, e destinata a prigionieri pericolosi e prigionieri politici, Kz7). Chiudi gli occhi e immagina i volti dei tuoi figli: anime belle e pure. Pensate alle infinite potenzialità che avrebbero potuto avere con tutta la vita davanti a loro.
“Immagina come sarebbe la vita dei tuoi figli se miliardi di dollari fossero investiti in loro, invece di guerre inutili che non possono essere vinte. Riceverebbero un’istruzione di livello mondiale. Avresti bellissime strade, ospedali avanzati, acqua pulita. Israele ha i sistemi di desalinizzazione dell’acqua più avanzati al mondo E sarebbe felice di aiutare a ricostruire le infrastrutture idriche al collasso dell’Iran”.
Netanyahu ha continuato: “Questa e tante altre cose sono cose che potresti accettare. Ma questo è ciò che il regime di Khamenei ti impedisce ogni giorno. Sono ossessionati dalla distruzione di Israele, invece che dalla costruzione dell’Iran. Che vergogna.
“Un altro attacco contro Israele sarà molto dannoso per l’economia iraniana. Vi deruberà di molti altri miliardi di dollari. So che molti di voi non vogliono questa guerra. Neanche io voglio questa guerra. Il popolo di Israele non vuole questa guerra. C’è una forza che mette in pericolo la tua famiglia: i dittatori di Teheran”.
Netanyahu ha anche detto: “Ci sono anche buone notizie. Ogni giorno questo regime si indebolisce. Ogni giorno Israele diventa più forte. Il mondo ha visto solo una frazione della nostra forza. Eppure, c’è una cosa che spaventa il regime di Khamenei più di Israele. Sai di cosa si tratta? Questo sei tu: il popolo iraniano. Ecco perché spendono così tanto tempo e denaro cercando di schiacciare le tue speranze e frenare i tuoi sogni.
“Bene, ti dico questo: non lasciare che i tuoi sogni muoiano. Sento i sussurri: donne, vita, libertà. Non perdere la speranza. E sappi che Israele e altri nel mondo libero sono al tuo fianco. Il regime vuole distruggere il vostro futuro nel suo tentativo di distruggere il nostro Paese. Non permetteremo che ciò accada.”
Alla fine, Netanyahu ha detto: “Non ho dubbi che arriverà il giorno in un Iran libero in cui israeliani e iraniani costruiranno un futuro di prosperità e pace. Questo è il futuro che Israele merita. Questo è il futuro che merita l’Iran. Insieme trasformiamo questo bellissimo sogno in realtà”.
(Rights Reporter, 13 novembre 2024)
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Massima allerta per la partita Francia-Israele, richiamati 4000 agenti
di David Fiorentini
Continuano a spuntare i video agghiaccianti della “caccia all’ebreo” di Amsterdam. A giorni di distanza le acque non si sono ancora calmate, anzi, fioccano messaggi di incitamento ai fratelli e sorelle musulmani a continuare le violenze nella prossima città ad ospitare una squadra israeliana: Parigi. Giovedì sera, 14 novembre, allo Stade de France scenderanno in campo le nazionali di calcio di Francia e Israele in un incontro valevole per la Nations League. Il ministro dell’interno Bruno Retailleau ha indetto uno stato di massima allerta, ordinando un dispiegamento straordinario di forze dell’ordine con circa 4000 agenti. Un poliziotto ogni cinque tifosi, un rapporto inimmaginabile per una partita di questo livello, facilitato però dalla vendita di soli 20 mila biglietti, sugli 80 mila disponibili.“C’è un contesto di tensione che rende questa partita un evento ad alto rischio per noi,” ha spiegato il capo della polizia di Parigi, Laurent Nuñez, alla televisione francese BFM TV, precisando che le autorità “non tollereranno” alcun episodio di violenza. “Ci sarà un perimetro di sicurezza anti-terrorismo attorno allo stadio,” ha aggiunto Nuñez, con controlli rafforzati, incluse perquisizioni e ispezioni di borse per garantire un monitoraggio capillare degli accessi. Tra l’altro, il clima parigino si era già scaldato prima delle sommosse di Amsterdam, quando attivisti propal avevano occupato la sede della Federazione calcistica francese, chiedendo l’annullamento della partita. Per questo motivo, nella settimana precedente alla partita, si è aperto bruscamente il dibattito sulla possibilità di spostare la partita fuori Parigi, emulando la scelta italiana di ospitare la nazionale israeliana in una città più periferica come Udine. Da un lato, il deputato lepenista Julien Odoul ha proposto di giocare in Corsica dove a quanto pare “non c’è antisemitismo”, mentre il deputato della sinistra radicale (la France Insoumise) Louis Boyard ha chiesto direttamente l’annullamento dell’incontro e, come fatto per la Russia, l’esclusione di Israele dalla UEFA. Tuttavia, il presidente Emmanuel Macron, che sarà presente in tribuna, ha voluto mantenere l’evento a Parigi come segno di resilienza e fermezza contro l’antisemitismo.
• ISRAELE AI CONCITTADINI: “NON ANDATE ALLE MANIFESTAZIONI SPORTIVE” Dal lato israeliano invece, il Consiglio per la Sicurezza Nazionale ha immediatamente avvertito i propri cittadini a non recarsi alle manifestazioni sportive successive alla partita Ajax – Maccabi Tel Aviv, riferendosi in particolare all’incontro cestistico Virtus Bologna – Maccabi Tel Aviv della sera successiva. In un comunicato, ha sottolineato la crescente minaccia contro gli ebrei e gli israeliani all’estero, osservando che “negli ultimi giorni sono stati identificati vari appelli da parte di gruppi pro-palestinesi e sostenitori di organizzazioni terroristiche per colpire israeliani ed ebrei durante proteste e manifestazioni”. Il Consiglio ha inoltre consigliato ai viaggiatori israeliani di evitare di identificarsi come tali e di informarsi accuratamente sulle condizioni di sicurezza dei paesi di destinazione Dunque, con una Parigi blindata e lo Stade de France trasformato in una vera e propria fortezza, Francia-Israele sarà un importante banco di prova per le autorità francesi, decise di non cedere alle intimidazioni e di dimostrare di poter garantire la sicurezza di tutti i partecipanti.
(Bet Magazine Mosaico, 13 novembre 2024)
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Un rapporto del Ministero della Diaspora di Israele denuncia la crescita dell’antisemitismo in Europa
di Ugo Volli
• LA DILATAZIONE SPAVENTOSA DELL’ANTISEMITISMO
A partire dalle stragi del 7 ottobre dell’anno scorso l’antisemitismo nel mondo e anche nel nostro Paese è cresciuto in maniera esplosiva. Basta scorrere i media, guardare la televisione, frequentare le città per rendersene conto. Non vi sono solo i pogrom come ad Amsterdam, vi sono state le manifestazioni piene di slogan minacciosi, le occupazioni di scuole e università sotto le bandiere genocide di Hamas, i discorsi insinuanti di politici, influencer e giornalisti e talvolta anche le violenze verbali di autonominati opinion leader o persone qualunque sui social media. Sono state pubblicate liste di proscrizione degli “agenti sionisti”, vi sono state minacce ad associazioni, scritte insultanti vicino alle sinagoghe, gesti d’odio di tutti i tipi. Si è sdoganata l’idea perversa che “gli ebrei fanno ai palestinesi qual che i nazisti avevano fatto loro”, cioè il “genocidio di Gaza” che ormai è un luogo comune, come la calunnia medievale per cui “gli ebrei ammazzano i bambini”. In Italia, per fortuna, non sono state realizzate violenze fisiche dirette, grazie alla vigilanza delle forze dell’ordine.
• IL LEGAME IDEOLOGICO
Come ha mostrato già un anno fa in maniera scientifica una ricerca dell’Istituto Cattaneo diretta dal prof. Asher Colombo dell’Università di Bologna condotta sugli studenti di tre università del Nord, questa crescita esplosiva dell’antisemitismo è partita immediatamente dopo il pogrom del 7 ottobre, ben prima che l’esercito israeliano iniziasse i combattimenti a Gaza. Come ha spiegato lo stesso Colombo, la miccia dell’esplosione è stata la percezione della debolezza di Israele dovuta alle stragi, che ha attizzato un odio implicito nell’ideologia “anti-imperalista” soprattutto fra gli studenti che si definivano di sinistra. In seguito, il fatto che Israele si difendesse e fosse in grado di colpire i terroristi, anche se con danni collaterali che peraltro sono i meno gravi di tutte le guerre del passato, ha fatto aumentare ancora quest’odio. Tutte le calunnie propagandistiche dei terroristi sono state accettate come verità sacrosanta e chi ha osato smentirle è stato colpito in tutti i modi.
• UN RAPPORTO IMPORTANTE
È passato più di un anno da questa esplosione antisemita e l’odio contro gli ebrei e Israele non si è affatto acquietato. Lo mostra un’impressionante analisi appena pubblicata dal Ministero per la diaspora e la lotta all’antisemitismo di Israele, intitolato “Antisemitismo e antisionismo in Europa dopo il 7 ottobre”. Sono quaranta pagine di dati freddi e concreti, attentamente limitati ai fatti, senza concedere nulla all’indignazione o all’orrore. Vi si trova che la frequenza degli atti antisemiti nel nostro continente, senza considerare la Russia e la Turchia, è aumentata in quest’anno del 400% rispetto al periodo precedente, che per esempio i post antisemiti su X (già Twitter), scelto come caso di studio, si è mantenuto costantemente intorno al livello dei 20 mila al giorno (con punte di 60 mila), raggiungendo totali di milioni in paesi come Gran Bretagna (2,5 milioni), Francia (1,3 milioni), Spagna (1,1 milioni) e oltre 250 mila in Italia; che anche prima di Amsterdam vi sono state centinaia di “incidenti antisemiti” cioè gravi attacchi fisici in grado di mettere in difficoltà individui e gruppi o addirittura di minacciare la loro vita (44 in Gran Bretagna, 39 in Germania, 34 in Francia, 13 in Italia nell’ultimo anno). Dall’analisi israeliana emerge quello che chiunque poteva intuire, ma che qui è dettagliatamente documentato: non si tratta di un’ondata spontanea dell’opinione pubblica, ma di una campagna organizzata, che ha autori ben precisi, i cui principali sono elencati nel documento. Da un lato agiscono “influencer”, a partire da politici di primo piano come il leader dell’estrema sinistra francese Melanchon e l’ex segretario dei laburisti inglesi Corbyn – come del resto i loro pari italiani. Ma vi sono anche coloro senza cariche ufficiali si mobilitano nella campagna contro Israele e gli ebrei, come il pregiudicato cuoco Gabriele Rubini, il solo italiano citato nel rapporto. E poi vi è una galassia ben finanziata di organizzazioni, gruppi, associazioni, che agiscono sia nella diffamazione sul web che nell’aggressione fisica.
• COME REAGIRE?
L’apparato messo in piedi dagli antisemiti difficilmente sparirà presto. È probabile dunque che la situazione denunciata dalla ricerca israeliana continuerà probabilmente anche al di là della fine della guerra. Per fronteggiarlo bisogna innanzitutto essere molto fermi nello spiegare che non vi è differenza fra antisionismo e antisemitismo; che il primo è la forma contemporanea più ipocrita del secondo. Bisogna poi sapere e far sapere che Israele difende tutto il popolo ebraico, sia quello che risiede in Israele sia quello che si trova altrove. Questa è una garanzia fondamentale per la vita di tutto l’ebraismo. Infine bisogna capire che non vi è solo l’antisemitismo evidente e rabbioso di chi cerca di colpire gli ebrei fisicamente o sul piano comunicativo, che dà la caccia ai sostenitori delle squadre di calcio israeliano e se la prende coi murales che rappresentano testimoni della Shoah come Liliana Segre, ma anche quello di chi in maniera più ipocrita attacca Israele in nome della “risposta sproporzionata” se non del “genocidio” di Gaza. Bisogna imparare a difendersi da entrambi e denunciare non solo la violenza, ma anche la falsità e l’ipocrisia contro Israele.
(Shalom, 13 novembre 2024)
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Hezbollah colpisce asilo nel nord, sirene mute
Un drone di Hezbollah si è schiantato nei pressi di un asilo di Nesher, città nel nord d’Israele, danneggiandone muri e finestre. Al momento dell’impatto, nell’asilo erano presenti sei bambini e tre educatori. «Abbiamo assistito a un vero miracolo. Stavamo iniziando il nostro incontro mattutino con i bambini. Abbiamo solo sentito un allarme lontano e abbiamo pensato non fosse il caso di correre rischi. In pochi secondi eravamo tutti nel rifugio. Solo quando siamo usciti con i bambini abbiamo realizzato quanto siamo stati fortunati. Il punto dell’impatto del drone era esattamente nella stanza in cui eravamo poco prima», ha raccontato ai media israeliani Sarah Yassour, educatrice dell’asilo colpito. Secondo le ricostruzioni il drone si è schiantato contro un albero e poi alcuni frammenti hanno colpito la struttura dove si trovavano i bambini. Nell’area non è però scattato l’allarme e le autorità stanno indagando il motivo.
«Stiamo parlando con il Comando del fronte interno per capire perché le sirene non si sono attivate», ha spiegato Roi Levy, sindaco di Nesher, cittadina del distretto di Haifa. «Grazie a Dio non ci sono stati feriti. Abbiamo contattato i genitori dei bambini della struttura colpita, stanno tutti bene e sono stati trasferiti in un altro asilo».
(moked, 12 novembre 2024)
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Hannoun, sanzionato dagli USA, applaude il pogrom di Amsterdam dal palco di Milano
di Giovanni Giacalone
“Per cominciare mandiamo un applauso ai giovani di Amsterdam. Un applauso a tutti i giovani, ragazzi e ragazze, che hanno dato una lezione”. E’ così che sabato 9 novembre, a Milano, Mohammad Hannoun, a capo dell’Associazione Palestinesi in Italia si è rivolto ai suoi seguaci che sventolavano bandiere palestinesi e mostravano una foto di Yahya Sinwar, leader di Hamas ucciso a inizio ottobre dall’IDF a Gaza. Gli applausi invocati da Hannoun sono chiaramente nei confronti dei delinquenti che giovedì 7 novembre, dopo la partita Ajax-Maccabi Tel Aviv, hanno teso delle imboscate ai tifosi del Maccabi in varie parti della città. I tifosi israeliani sono stati aggrediti, inseguiti, alcuni gettati nei canali, picchiati, accoltellati e investiti con le auto; i loro cellulari e passaporti sono stati rubati e le loro informazioni personali diffuse sul web. Si sente addirittura uno dei tifosi aggrediti urlare: “Non sono ebreo, non sono ebreo”, nel tentativo di salvarsi dai teppisti islamo-nazisti. Una scena agghiacciante che ricorda i tempi più oscuri e drammatici del 20° secolo. Aggressioni pianificate, coordinate nelle chat e con la complicità di alcuni tassisti che hanno condotto a tradimento i tifosi nelle mani dei violenti, fornendo anche informazioni sugli spostamenti degli israeliani e su dove pernottavano. Tutto ciò per Hannoun sarebbe “una lezione data”. Chi lo conosce non può certo stupirsi, visto che da lungo tempo il soggetto in questione utilizza i propri account di Facebook per glorificare terroristi di Hamas come Yahya Ayyash e Saleh al-Arouri. A Hannoun piace invocare applausi dal palco nei confronti di violenti e facinorosi, e infatti nel marzo del 2024, durante una manifestazione in stazione Centrale a Milano, aveva affermato: “Concludo, con un applauso al popolo giordano, ai ribelli in Giordania che hanno obbligato il sistema di chiudere l’ambasciata israeliana. Invitiamo tutti i popoli arabi di fare lo stesso per cacciare via tutte le ambasciate israeliane, di chiudere e di trasformarle in centri per la resistenza. Un applauso alla resistenza dello Yemen, un applauso alla resistenza del Libano, dell’Iraq…”. La “resistenza” invocata da Hannoun include Hezbollah, le milizie sciite iraniane in Iraq e gli Houthi. Il 13 ottobre 2023, Hannoun aveva utilizzato il pulpito del Centro Islamico di Genova per attaccare i paesi che sostengono Israele, tra cui l’Italia. Appena tre giorni dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023, durante una manifestazione pro-palestinese nei pressi di Piazza Duomo a Milano, Hannoun aveva dichiarato ai microfoni di Rai3 che l’attacco di Hamas era “legittima difesa”. A questo punto molti si chiederanno come mai a Hannoun sia ancora permesso di tenere comizi, viste le sue esternazioni. La faccenda è in realtà ben più grave, perché a inizio ottobre 2024 il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha sanzionato Hannoun indicandolo come membro e finanziatore di Hamas. Nel comunicato del Dipartimento del Tesoro si legge: “Mohammad Hannoun (Hannoun) è un membro di Hamas con sede in Italia che ha fondato la Charity Association of Solidarity with the Palestinian People, o Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), un ente di beneficenza fittizio situato in Italia che apparentemente raccoglie fondi per scopi umanitari, ma in realtà aiuta a finanziare l’ala militare di Hamas. Come dirigente dell’ABSPP, Hannoun ha inviato denaro a organizzazioni controllate da Hamas almeno dal 2018. Ha sollecitato finanziamenti per Hamas con alti funzionari di Hamas e ha inviato almeno 4 milioni di dollari ad Hamas in un periodo di 10 anni…Hannoun e ABSPP sono stati designati per aver materialmente assistito, sponsorizzato o fornito supporto finanziario, materiale o tecnologico, oppure beni o servizi a sostegno di Hamas”. Sempre ad ottobre 2024, la European Leadership Network (Elnet) ha pubblicato un dossier su Hamas in Europa dedicando la parte italiana proprio a Hannoun e soci (tra cui Suleiman Hijazi, Raed Dawoud e Raed al Salahat). Nel 2021, dopo diverse segnalazioni all’Antiriciclaggio, l’Unicredit sospese l’operatività sui conti dell’ABSPP per una serie di anomalie: dalla mancata iscrizione al registro dell’Agenzia delle Entrate alla massiccia movimentazione di contante, in alcuni casi a soggetti iscritti nelle black list dei database europei. Nel dicembre 2023 anche Poste Italiane aveva chiuso il proprio rapporto con l’associazione. Subito dopo erano stati PayPal ed altri operatori tra cui Visa, Mastercard e American Express a bloccarne le transazioni. In seguito alla chiusura dei conti bancari, Hannoun aveva chiesto ai suoi sostenitori di consegnare direttamente denaro contante presso le rispettive sedi della sua associazione. Nel febbraio del 2024, Hannoun aveva poi lanciato una nuova iniziativa per un “convoglio umanitario per Gaza” usufruendo di un IBAN intestato a Modestino Preziosi (testimonial dell’iniziativa), ex maratoneta, guardia privata CPO e che appare anche come “analista” assieme ad altri italiani sul sito di un’università somala con sede a Baidoa, la South West State University. E’ tra l’altro risultato molto difficile avere informazioni su tale università che sembrerebbe non più attiva e che ben pochi a Baidoa sembrano conoscerne presenza e attività. Nel contempo è anche nata una nuova associazione benefica onlus pubblicizzata da Hannoun sui social e denominata “Cupola d’Oro”, con un nuovo IBAN. Va puntualizzato che le autorità israeliane hanno chiesto in più occasioni a quelle italiane di intervenire sulle attività di Hannoun. In seguito alle sanzioni del Dipartimento di Stato USA, la Procura di Genova ha reso noto che potrebbe aprire una nuova inchiesta su Mohammad Hannoun se dagli Stati Uniti dovesse pervenire documentazione utile per ulteriori accertamenti. Ben venga. Alcune domande sorgono però spontanee: in primis, se Hannoun opera in Italia, per quale motivo si è dovuto muovere il Dipartimento del Tesoro americano? Perché sono gli USA a dover fornire documentazione utile? Attenzione, ben venga il coinvolgimento di Washington, è di fondamentale importanza, ma qualche perplessità è lecita. In secondo luogo, per quale motivo a Hannoun è ancora permesso di tenere comizi dai contenuti più che evidenti, quando le autorità italiane sono invece intervenute repentinamente su predicatori e internauti che diffondevano contenuti filo-jihadisti? Individui che avevano tra l’altro meno seguito e ruoli certamente non di primo piano in ambito di attivismo, come nel caso di Hannoun? Il soggetto in questione ha “applaudito” i responsabili delle aggressioni di Amsterdam. C’è da augurarsi che nessuno possa essere ispirato da ciò per possibili emulazioni.
(L'informale, 12 novembre 2024)
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Hamas deve essere sconfitto, non legittimato
Un gruppo terroristico dedito alla distruzione di Israele non dovrebbe avere un ruolo in nessun governo palestinese - non nella cosiddetta “Cisgiordania” e certamente non nella Striscia di Gaza.
di Khaled Abu Toameh
GERUSALEMME - Ottobre 2023, l'Autorità Palestinese continua a considerare il movimento islamista sostenuto dall'Iran come un partner legittimo. La scorsa settimana, i rappresentanti della fazione di Fatah al governo dell'Autorità Palestinese (guidata dal presidente Mahmoud Abbas) e di Hamas si sono incontrati per un colloquio nella capitale egiziana Il Cairo per discutere la creazione di un governo congiunto per la Striscia di Gaza. Una fonte egiziana ha confermato che i colloqui tra Fatah e Hamas mirano a istituire un comitato per l'amministrazione della Striscia di Gaza e a proseguire gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco. Un'altra fonte della sicurezza egiziana ha affermato che i colloqui mirano a “unire i ranghi palestinesi e ad alleviare le sofferenze del popolo palestinese”. Secondo la fonte, i negoziatori di Fatah e Hamas si sono dimostrati “più flessibili e favorevoli alla creazione di un comitato per gestire gli affari della Striscia di Gaza”. Tayseer Nasrallah, un alto funzionario di Fatah che ha preso parte ai colloqui con Hamas, ha dichiarato di essere “ottimista” sul fatto che essi porteranno alla formazione di un comitato per la ricostruzione della Striscia di Gaza. I colloqui, ha detto Nasrallah, avevano lo scopo di unificare “le visioni per la ricostruzione di Gaza” dopo la guerra scoppiata in seguito all'attacco del 7 ottobre che ha ucciso 1.200 israeliani e ne ha feriti migliaia. Durante l'attacco, molti israeliani sono stati decapitati, violentati, torturati e bruciati vivi. Inoltre, più di 240 persone sono state rapite nella Striscia di Gaza, dove 101 di loro - vivi e morti - sono ancora prigionieri. Hamas, da parte sua, ha dichiarato: “Abbiamo tenuto un incontro con i nostri fratelli della fazione di Fatah e l'atmosfera dell'incontro è stata positiva e aperta”. Il gruppo terroristico ha aggiunto che le due parti “hanno discusso la formazione di un organismo per seguire gli affari e le necessità della Striscia di Gaza” e ha dichiarato che gli incontri con Fatah continueranno. Il mese scorso, i rappresentanti di Fatah e Hamas hanno tenuto colloqui simili al Cairo per discutere i modi per porre fine alla rivalità tra i due partiti e formare un governo di unità palestinese. L'alto funzionario di Hamas Taher a-Nunu ha dichiarato che i colloqui erano finalizzati a “raggiungere l'unità nazionale palestinese e a rafforzare la sicurezza e il coordinamento politico tra le due parti”. Alcuni rappresentanti di Fatah, senza nome , hanno dichiarato che la loro fazione ha accettato la formazione di un comitato congiunto per gestire gli affari di Gaza. Negoziando con Hamas sul futuro di Gaza, Abbas sta legittimando il gruppo terroristico sostenuto dall'Iran e sta inviando un messaggio ai palestinesi e al resto del mondo: non vede alcun problema nel cooperare con assassini e terroristi che hanno commesso i crimini più orribili contro gli ebrei dopo l'Olocausto. Come abbiamo visto di recente con il Partito Comunista Cinese (ad esempio qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui), con l'Iran e con l'Afghanistan, semplicemente non funziona negoziare con i terroristi e con i loro simili. Abbas dovrebbe invece condannare Hamas e prendere le distanze dal gruppo terroristico, invece di mandare i suoi funzionari ad abbracciare e baciare i loro rappresentanti al Cairo. Dovrebbe ritenere Hamas pienamente responsabile della distruzione della Striscia di Gaza come risultato della guerra iniziata dal gruppo terroristico. Abbas dovrebbe anche chiedere ad Hamas di cedere il controllo della Striscia di Gaza, invece di implorarlo di accettare la formazione di un comitato congiunto Fatah-Hamas per gestire gli affari dell'enclave costiera. Ad Hamas non dovrebbe essere permesso di svolgere alcun ruolo a Gaza dopo la guerra. Ciò consentirebbe al gruppo terroristico di riarmarsi, riorganizzarsi e prepararsi per un altro attacco a Israele in stile 7 ottobre. Da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza nel 2007, migliaia di palestinesi sono stati uccisi nelle guerre che ha scatenato con Israele. Con l'aiuto dell'Europa, del Qatar e dell'Iran, Hamas ha trasformato la Striscia di Gaza, dove vivono due milioni di palestinesi, in una delle più grandi basi del terrorismo islamico in Medio Oriente. Tutti e tre hanno investito centinaia di milioni di dollari nella costruzione di una vasta rete di tunnel e nella produzione e contrabbando di armi, compresi razzi e droni. L'ipotesi che Hamas rinunci volontariamente al controllo di Gaza a causa di un accordo con Abbas è semplicemente ridicola. Gli sforzi di Abbas per raggiungere un accordo con Hamas non faranno altro che rafforzare e riattivare il gruppo terroristico, incoraggiandolo a continuare la sua jihad contro Israele. Questi sforzi inviano un messaggio ad Hamas che, nonostante i crimini commessi contro gli israeliani il 7 ottobre e la Nakba (catastrofe) che ha portato sui palestinesi di Gaza, può continuare a svolgere un ruolo chiave a Gaza dopo la guerra. Dal 2007, Hamas ha dimostrato di non preoccuparsi del benessere dei palestinesi che vivono sotto il suo governo. L'unica cosa che conta per Hamas è rimanere al potere e continuare la lotta contro Israele per soddisfare i suoi patroni in Iran. L'amministrazione statunitense guidata da Biden non ha preso in considerazione gli sforzi di Abbas per legittimare Hamas. Gli Stati Uniti gli hanno offerto un'ancora di salvezza. Un gruppo terroristico dedito alla distruzione di Israele non dovrebbe avere alcun ruolo in nessun governo palestinese, né in Cisgiordania né tanto meno a Gaza. Un gruppo del genere dovrebbe essere completamente distrutto militarmente e politicamente e non dovrebbe essere invitato in nessun governo palestinese. Dall'inizio della guerra, Israele ha distrutto la maggior parte delle capacità militari di Hamas e ucciso molti dei suoi leader, tra cui l'arci-terrorista Yahya Sinwar, la mente delle atrocità del 7 ottobre. Gli Stati Uniti e il resto del mondo dovrebbero incoraggiare Israele a continuare i suoi sforzi per sradicare Hamas. Dovrebbero anche chiedere ad Abbas e alla leadership dell'Autorità Palestinese di interrompere immediatamente tutti i contatti con il gruppo terroristico. Non c'è alternativa a una vittoria totale su Hamas e anche sugli altri terroristi proxy dell'Iran e, in ultima analisi, sul velenoso regime islamista iraniano. Finché il regime iraniano resterà al potere e torturerà il suo stesso popolo e altri - fino all'Argentina - purtroppo non ci sarà pace. Questo è l'unico modo per assicurare un futuro veramente pacifico, non solo per gli israeliani, ma anche per i palestinesi e per il mondo libero.
(Israel Heute, 12 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israel Katz: “è il momento buono per colpire il nucleare iraniano”
Ora ci troviamo ... in una situazione in cui l’Iran è oggi più esposto che mai, praticamente e mentalmente al danno, e la consapevolezza non è meno importante qui,
di Darya Nasifi
Il Ministro della Difesa di Israele, Israel Katz, ha incontrato oggi per la prima volta il Forum dello Stato Maggiore Generale, presieduto dal Capo di Stato Maggiore, Generale Herzi Halevi. Durante l’incontro, Katz ha affermato che “l’ordine di priorità che questo governo vede molto chiaramente è la questione dell’Iran: impedire all’Iran di avere armi nucleari. Ora ci troviamo, a causa dei duri colpi che abbiamo inflitto a Hezbollah e del colpo devastante che abbiamo inflitto all’Iran, in una situazione in cui l’Iran è oggi più esposto che mai, praticamente e mentalmente al danno, e la consapevolezza non è meno importante qui”. Katz ha anche affermato: “Oggi c’è un ampio consenso sistemico a livello nazionale sul fatto che il programma nucleare iraniano dovrebbe essere contrastato, e c’è anche la consapevolezza che ciò è fattibile, non solo sotto l’aspetto della sicurezza, ma anche sotto l’aspetto politico. Oggi esiste la possibilità di contrastare e rimuovere la minaccia di annientamento sullo Stato di Israele”. “Abbiamo un’opportunità e bisogna sfruttare la capacità assoluta per realizzarla, e credo e sono sicuro che saprete anche come farlo, in modo che potremo portarla a compimento. Inoltre, freneremo l’aggressione iraniana contro Israele direttamente e attraverso le sue organizzazioni terroristiche per procura, dobbiamo ridurre questa capacità.” Katz ha fatto riferimento alla possibilità di una soluzione politica in Libano e ha affermato che “in Libano non ci sarà alcun cessate il fuoco e non ci sarà tregua. Continueremo a colpire Hezbollah con tutta la forza finché gli obiettivi della guerra non saranno raggiunti. Israele non accetterà alcun accordo che non garantisca il diritto di Israele di imporre e prevenire il terrorismo da solo e di raggiungere gli obiettivi della guerra in Libano, il disarmo di Hezbollah, il suo ritiro oltre il fiume Litani e il ritorno sicuro dei residenti del nord alle loro case.” Katz ha anche fatto riferimento agli sforzi per restituire i rapiti e ai combattimenti a Gaza e ha detto: “Per quanto riguarda Gaza, prima di tutto la questione dei rapiti, come ho detto anche come ministro degli Esteri quando ho assunto l’incarico, questo è l’obiettivo di valore più importante del sistema di sicurezza. Faremo di tutto per riportarli a casa e garantire la sconfitta di Hamas”.
(Rights Reporter, 12 novembre 2024)
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Belgio, ragazzo ebreo aggredito da musulmani in un quartiere ebraico
di Michelle Zarfati
Dopo l’attacco ai tifosi del Maccabi Tel Aviv ad Amsterdam in seguito alla partita contro l’Ajax, i sostenitori pro-palestinesi hanno condiviso, nel corso della giornata di ieri, il video di un’aggressione a un ragazzo ultra-ortodosso, avvenuto presumibilmente due settimane fa. Nel filmato il giovane 14enne viene attaccato da rivoltosi musulmani nel quartiere ebraico di Anversa. La famiglia del ragazzo non aveva inizialmente sporto denuncia alla polizia, in quanto attacchi del genere, secondo quanto rivelato dalla Comunità locale, accadono occasionalmente contro gli ebrei della città. Tuttavia, questa volta i video dell’aggressione sono stati pubblicati sui social dal gruppo di arabi. La pubblicazione dei filmati da parte degli aggressori ha spinto i familiari della vittima a sporgere denuncia alla polizia.
Questi video sono stati pubblicati casualmente in concomitanza con gli annunci della polizia di Anversa, che aveva dichiarato che sei giovani musulmani stavano pianificando una serie di attacchi agli ebrei della città. Gli aggressori sono stati arrestati lunedì e rilasciati dopo alcune ore. I sei avevano pianificato di attaccare gli appartenenti alla Comunità Ebraica in segno di solidarietà con gli aggressori di Amsterdam.
Il parlamentare Michael Freilich, anch’egli eletto di recente al Consiglio comunale di Anversa, ha rivelato ai media locali che chiederà un aumento delle forze di polizia. Secondo alcune fonti, Freilich avrebbe parlato già con il sindaco della città chiedendo rinforzi di soldati per proteggere i residenti ebrei. Il membro del parlamento ha confermato l’incremento di attacchi contro gli ebrei di recente. Nel frattempo, la polizia sta attuando grandi sforzi per affrontare il problema e oltre 100 poliziotti aggiuntivi sono stati predisposti nei quartieri ebraici.
(Shalom, 12 novembre 2024)
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Il pogrom di Amsterdam coordinato da un ex dipendente dell’UNRWA
Lo rivela una nuova indagine
Le violenze contro i tifosi israeliani ad Amsterdam la scorsa settimana sono state un attacco premeditato e coordinato, orchestrato da reti estremiste legate a un ex dipendente della controversa agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), ha dichiarato lunedì a The Algemeiner un gruppo che traccia la disinformazione online. L’analisi dell’Istituto di ricerca sul contagio di rete (Network Contagion Research Institute) delle fonti aperte e dei social media ha inoltre “rivelato che le proteste intorno alla partita del Maccabi Tel Aviv ad Amsterdam non erano isolate, ma facevano parte di uno sforzo più ampio e coordinato”, ha dichiarato il cofondatore del gruppo, Joel Finkelstein. Ayman Nejmeh, residente ad Amsterdam, che si è identificato sui social media come un ex dipendente dell’UNRWA, “è emerso come un organizzatore chiave, che ha coordinato le azioni di protesta contro obiettivi ebraici”, ha aggiunto Finkelstein. Centinaia di tifosi del Maccabi Tel Aviv, in visita nella capitale olandese per una partita contro la squadra locale dell’Ajax, sono stati attaccati da folle arabe e musulmane giovedì sera, con diversi ricoveri in ospedale. Si è trattato del più grande incidente antisemita di massa nei Paesi Bassi dai tempi dell’Olocausto: gli aggressori hanno lanciato petardi e granate stordenti, invocando la “caccia all’ebreo” e costringendo gli israeliani a dire “Palestina libera” prima di picchiarli. In precedenza, i tifosi del Maccabi Tel Aviv erano stati registrati mentre scandivano slogan anti-arabi e rimuovevano una bandiera palestinese, spingendo alcuni organi di informazione a inquadrare la violenza che ne è seguita come una risposta. Ma Israele aveva avvertito i servizi di sicurezza olandesi, prima della partita, che la violenza sarebbe stata probabile dopo che i gruppi islamici sembravano coordinare un attacco su più fronti sui social media. Secondo Finkelstein, il numero di telefono del siriano Nejmeh era indicato come amministratore di un gruppo WhatsApp utilizzato dal gruppo della diaspora palestinese PGNL. Nejmeh è subentrato nel gruppo al cittadino palestinese-olandese Amin Abou Rashed, arrestato l’anno scorso con il sospetto di aver convogliato fondi al gruppo terroristico palestinese Hamas. In passato il PGNL aveva ospitato in un evento online il defunto capo di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran all’inizio dell’anno. Il gruppo, il cui nome in olandese sta per “Comunità palestinese nei Paesi Bassi”, è stato anche coinvolto nell’organizzazione di una protesta anti-Israele in piazza Dam domenica 10 novembre, sfidando il divieto temporaneo imposto dopo le violenze di giovedì sera e provocando decine di arresti. Il coordinamento dietro questi eventi riflette una strategia ben affinata da parte dei gruppi radicali di utilizzare gli incontri pubblici per incitare e far crescere la violenza, ha detto Finkelstein, avvertendo che l’odio organizzato sta superando di gran lunga la capacità di risposta delle autorità. Il “contagio del pogrom” che si sta diffondendo in Europa non è un caso: attori legati al terrorismo stanno deliberatamente usando le armi dei raduni e dei social media per accelerare la diffusione della violenza contro le comunità ebraiche”, ha dichiarato Finkelstein a The Algemeiner. “Questa infrastruttura dell’odio si sta evolvendo più velocemente delle difese democratiche e, se non controllata, queste minacce si moltiplicheranno attraverso i confini e le etnie”. Il profilo Facebook di Nejmeh, che conteneva almeno un post che esaltava un agente di Hamas per l’ala militare Al Qassam del gruppo terroristico, è stato negli ultimi giorni ripulito da qualsiasi riferimento ai suoi legami con l’UNRWA. “Se Nejmeh sta ripulendo i suoi social media da queste affiliazioni passate, questo solleva domande significative sul perché”, ha detto Finkelstein. Il mese scorso, il parlamento israeliano ha approvato una legge che vieta all’UNRWA di operare in Israele e impedisce alle autorità israeliane di collaborare con l’organizzazione, citando i legami dell’agenzia ONU con Hamas e ciò che i critici hanno descritto come la sua “influenza velenosa” in Medio Oriente. Marcus Sheff, capo di IMPACT-se, un istituto di ricerca che monitora l’UNRWA, ha affermato che i risultati sono un’ulteriore prova della corruzione dell’agenzia per i rifugiati.
(Bet Magazine Mosaico, 12 novembre 2024)
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"L’Occidente si difende sotto le mura di Israele"
Volli, il filosofo temuto dalle tv: “Oggi essere antisemiti è tornato di moda. Troppa solidarietà con Hamas, la magistratura agevola l’arrivo della base sociale del terrorismo”.
di Aldo Torchiaro
Filosofo e semiologo, Ugo Volli è il prosecutore ideale del lavoro di Umberto Eco, con cui ha iniziato a collaborare nel 1971 per la rivista Versus – Quaderni di studi semiotici. Oggi è tra i più prolifici filosofi del linguaggio con oltre trenta saggi pubblicati. Insegna all’Università di San Marino, tenendosi le mani libere anche nelle prese di posizione pubblica, mai banali. Per anni è stato presidente della sinagoga riformata Lev Chadash a Milano. Di recente ospite di “PiazzaPulita” su La7, mantiene la sua proverbiale calma serafica anche quando viene circondato dal fuoco incrociato delle grida. Ha tenuto in particolare a smentire la fake news dei 40mila morti a Gaza e a denunciare tra i primi quanti siano invece i palestinesi – omosessuali, tra i primi – ad essere stati torturati e uccisi da Hamas. Temi che però purtroppo alle televisioni interessano poco.
- Professore, sono tornati i pogrom. In Europa, in Olanda. Che tempi stiamo attraversando? «È un momento molto difficile. Capisco ora i racconti dei miei genitori e nonni: in particolare quel che non avevo mai compreso, cioè come il fascismo avesse potuto buttarli fuori da scuola, dal lavoro, dalle associazioni sportive e culturali cui erano iscritti, senza che nessuno intorno a loro protestasse. Oggi essere ebrei è di nuovo problematico».
- Il sette ottobre ha sfidato la civiltà occidentale. La colpisce che tanti fingano di non vedere, di non capire? «Peggio che non capire, molti solidarizzano. Il terrorismo islamico piace alla sinistra (non solo quella più estrema purtroppo) perché sfida la civiltà occidentale, si oppone al capitalismo, al liberalismo economico, alla democrazia politica, all’America: perché è ‘rivoluzionario’. All’inverso, come diceva Spadolini, «la civiltà occidentale si difende sotto le mura di Gerusalemme».
- E i media non stanno esattamente aiutando… «Il sistema dei media ha abbandonato da tempo la missione di informare il proprio pubblico, di riferire i fatti, belli o brutti che siano. Cerca invece di educarlo alle “idee giuste” secondo un modello sovietico o fascista, che ormai è quasi totalitario anche in Europa e negli Usa. Questo totalitarismo pedagogico è in larghissima parte di sinistra, quindi purtroppo nemico di Israele. È difficilissimo spiegare sui giornali o in TV anche le cose più elementari, come il fatto che Israele agisce per autodifesa contro un nemico che non è “il popolo palestinese” ma i terroristi armati e diretti dall’Iran; che ha fatto sforzi mai compiuti da altri per salvaguardare la popolazione civile, che non vi è nessun genocidio a Gaza, che anche ammettendo le cifre montate della propaganda di Hamas, 40 mila morti in un anno sarebbero l’1% della popolazione, molto meno dei costi di guerre come il Vietnam o l’Ucraina».
- Lei da ebreo si sente sicuro? «Io sì, mi sento sicuro. Ho fiducia nelle forze dell’ordine. Francamente meno nella magistratura, che sta agevolando l’importazione in Italia di persone che finiranno con essere la base sociale del terrorismo, se non i suoi operativi. Sarei meno sicuro se dovessi ancora lavorare nella mia università, dove agli estremisti di sinistra dei centri sociali è concesso di impedire l’accesso, la parola e il pensiero di tutti coloro che non la pensano come loro».
- Israele nasce per difendere gli ebrei dalla persecuzione. Oggi crescono quelli che lo considerano un fastidio della storia. Il mondo ha esaurito lo shock per Auschwitz, ha dimenticato l’orrore nazista? «Israele nasce per realizzare il diritto del popolo ebraico a uno stato nazionale. Ha l’obbligo, come tutti gli stati, di difendere il suo popolo: è un fastidio solo per chi li vuole di nuovo sterminare. L’Europa non si è quasi accorta di Auschwitz prima del processo Eichmann, nel ‘61. Primo Levi, subito dopo la guerra si è visto rifiutare due volte “Se questo è un uomo” da Einaudi, perché “il tema non interessava”. Molti ex fascisti e razzisti sono diventati predicatori democratici. Giorgio Bocca ha firmato il “Manifesto della Razza”, prolifici e premiati ex fascisti come Scalfari e Calvino sono diventati maestri di democrazia, il presidente del “tribunale della razza”, Azzariti, ha finito la carriera come presidente della Corte Costituzionale».
- C’è chi distingue tra antisemitismo e antisionismo. Due facce, invece, della stessa medaglia? «L’antisionismo è l’antisemitismo di oggi. Dopo quello religioso, economico, razziale, da settant’anni si è diffuso un antisemitismo statale, l’antisionismo. Il sionismo è il patriottismo del popolo ebraico, un movimento analogo al Risorgimento italiano. Chi nega al popolo ebraico il diritto alla sua espressione nazionale, non lo fa perché non gli piace il movimento, ma perché non vuole che gli ebrei siano liberi e sicuri».
- Il sionismo di Teodor Herzl nacque come risposta al caso Dreyfus. Oggi quelle premesse – e quell’esigenza di autodifesa – sembrano rafforzate… «Dreyfus era un leale ufficiale francese, l’espressione di un patriottismo statale che c’è stato moltissimo anche in Italia, in Germania, in tutt’Europa. I nostri nonni e bisnonni si illudevano di poter essere cittadini come gli altri, solo con un’altra religione. Le leggi razziste e poi la Shoah li hanno duramente delusi. La mia generazione si è illusa che il problema fossero solo le dittature fasciste, dunque che fosse sparito. Il presente mostra che l’accettazione degli ebrei è di nuovo assai precaria, soprattutto a sinistra. La differenza oggi è che se qualcuno cercasse di nuovo di sterminarci, avremmo una difesa nello stato di Israele. È questa è la ragione vera per cui tanti lo odiano: non solo è l’ebreo degli stati, ma lo stato capace di difendere gli ebrei».
- Il movimento sionista socialista fu molto importante. Ben Gurion era uno dei suoi esponenti. E poi Golda Meir. Da dove nasce questo testacoda nella storia della politica, con la sinistra che si fregia di essere antisionista? «Il sionismo maggioritario era socialista. Dal ‘48 alla crisi economica degli anni ‘90 Israele è stato il solo stato democratico davvero socialista. I kibbutz, istituzioni collettiviste, erano la spina dorsale politica e sociale, non solo economica dello stato. Ma l’appoggio della sinistra cadde quando Stalin si accorse che Israele non era disposto a entrare nel suo blocco, voleva essere libero. Dal 1956 il PCUS cambiò cavallo e si mise ad appoggiare contro Israele i regimi arabi più infami e reazionari, dall’Egitto alla Siria. Tutta la sinistra si allineò e ha mantenuto questo orientamento. L’invenzione di un popolo “palestinese” (che non c’era, fino a quegli anni si definivano siriani meridionali o immigrati arabi o egiziani) avviene a Mosca negli anni ‘60. Per fare solo un esempio, il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen si forma all’università per stranieri di Mosca e si laurea lì con una tesi negazionista della Shoah».
- Vede una soluzione possibile? «La premessa di ogni soluzione è che Israele vinca e che avvenga un cambiamento di regime in Iran, liberando le donne e i giovani dall’orrida dittatura clericale degli ayatollah. Così potranno svilupparsi di nuovo quegli accordi di Abramo che i terroristi hanno cercato di distruggere».
- E in Italia cosa si può fare? «Quanto all’Italia e all’Occidente, è necessaria una grande battaglia culturale non solo contro l’antisemitismo, ma contro il suo brodo di cultura woke, politicamente corretto, “intersezionale”. Per difendere Israele bisogna anche capire i meriti della cultura europea, della libertà, della democrazia, in genere dei valori della nostra tradizione. Credo che questa battaglia oggi sia aperta. Il paradosso è che non sono i cosiddetti “progressisti” o i “democratici” di tutte le nazionalità a difendere questi valori che hanno lasciato cadere, ma la destra».
(Il Riformista, 12 novembre 2024)
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La cosa peggiore di questo articolo è il titolo con cui si presenta Israele come una città sotto le cui mura”si difende l’Occidente”. Quale occidente? Anche Volli, che indubbiamente dice cose molto giuste, fa riferimento in ultimo a “una grande battaglia culturale”. Ma contro chi? Sotto quale bandiera? Quella dell’Occidente? Ma il brodo di cultura woke e “intersezionale” che ha spinto il diritto all’omosessualità dichiarata e sbandierata fino agli estremi confini della scelta arbitraria e stagionale del sesso, che difende il diritto all’aborto fino ai limiti ormai prossimi dell’infanticidio, che discute seriamente della possibilità di gestire uteri in affitto e parla di libertà di suicidio assistito, non è forse brodo occidentale? Brodo andato a male, dirà qualcuno, ma pur tuttavia brodo di autentica fattura occidentale. E’ questo che Israele dovrebbe difendere a nome della società occidentale? E’ sotto questa bandiera che dovrebbe combattere? Fa parte della tradizione biblica e storica di Israele? Ha qualcosa a che vedere non solo con il Tanach, patrimonio biblico degli ebrei, ma anche con la tradizione ebraica giunta a noi fino all’altro ieri? Non fa piacere, ma forse il sionismo rigidamente e coerentemente laico è davvero finito. M.C.
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Varese, 1979: l'inizio di una triste storia
Lettera a "Il Foglio"
Pochi lo ricordano ma è stata proprio la stessa squadra del Maccabi di Tel Aviv a subire per prima slogan inneggianti al genocidio a Varese nel lontano 1979 durante la partita di basket con la squadra locale Emerson Varese. I tifosi varesini avevano esposto uno striscione con scritto "Hitler lo ha insegnato, uccidere l'ebreo non è reato" e scandito slogan come "Ebrei saponette saponette". Quelli individuati erano stati condannati in base alla legge n. 962 del 1967 contro il genocidio e la sua apologia per la prima volta applicata in Italia. Il Presidente della Corte d'assise che aveva emesso la sentenza era Francesco Saverio Borrelli, allora giudice prima di diventare il procuratore capo di Mani pulite.
Ora, dopo i fatti di Amsterdam, le gesta dei tifosi varesini, nazistoidi che avevano allora l'esclusiva dell'odio contro gli ebrei, sembrano solo squallido teppismo da stadio. E la diga a difesa delle vittime dell'Olocausto è ormai crollata. In Olanda intorno allo stadio non c'erano solo striscioni ma ronde armate. In tutta Europa e anche in Italia aspettiamoci il peggio.
Guido Salvini
ex magistrato
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Perché parliamo oggi di pogrom
di Ugo Volli
• CHE COS’È UN POGROM?
L’orribile strage del 7 ottobre 2023 nei villaggi israeliani al confine di Gaza è stato definito un pogrom. Anche la caccia all’ebreo che si è svolta giovedì sera ad Amsterdam era un pogrom. E così tanti episodi del passato più o meno recente, dalla “Notte dei Cristalli” del 1938 al “Farhud”, il massacro degli ebrei di Baghdad del 1° giugno 1941, organizzata da quello stesso Al Husseini, muftì di Gerusalemme, che aveva diretto e promosso i pogrom di Hebron, Zfat, Gerusalemme nei vent’anni precedenti. Vi furono molti episodi analoghi: nel 1948 in Egitto, Siria, Libano, Yemen Libia e poi di nuovo in Libia nel 1967. Ma cos’è esattamente un pogrom?
• “DISTRUZIONE”
Iniziamo dal significato della parola. Come “antisemitismo”, anche “pogrom” è un vocabolo recente, nato circa 150 anni fa, ma che descrive fenomeni analoghi anche molto precedenti. Il termine ha avuto origine dal nome russo погром (pogrom) che deriva dal verbo громи́ть (gromit), che significa “distruggere, provocare il caos, demolire violentemente” e si è diffuso dopo il 1881 in tutto il mondo, passando per la parola yiddish פאָגראָם. Dunque pogrom significa “distruzione”, “catastrofe”: un significato che corrisponde all’ebraico “Shoah” che oggi usiamo solo per il genocidio nazista.
• I POGROM DELL’EST EUROPA
Le stragi di Odessa durante la settimana pasquale del 1871 furono le prime persecuzioni ad essere ampiamente definite “pogrom”; gli eventi del 1881-82 introdussero il termine nell’uso comune in tutto il mondo. Si tratta dei massacri che seguirono l’assassinio dello zar Alessandro II nel 1881. Sebbene l’assassino non fosse ebreo, la propaganda zarista incolpò gli ebrei, inducendo attacchi in più di duecento città con centinaia di vittime. Questi torbidi si ripeterono con frequenza variabile negli anni successivi. Il culmine fu il pogrom di Kishinev in Moldavia (allora parte della Russia) nell’aprile 1903. Per due giorni migliaia di teppisti, ispirati dai leader locali che agivano con il supporto governativo, uccisero, saccheggiarono e distrussero senza alcuna resistenza della polizia o dei soldati. Quando finalmente arrivarono le truppe furono e la folla si disperse, oltre quarantacinque ebrei erano stati uccisi, quasi seicento erano stati feriti e 1.500 case ebraiche erano state saccheggiate. I responsabili e gli istigatori non furono puniti. Dopo la prima guerra mondiale, fra il 1918 e il 1921, vi fu un’ondata terribile di pogrom nel territorio dell’attuale Ucraina: vi furono centinaia di stragi di ebrei, compiute soprattutto dalle truppe “bianche” controrivoluzionarie e dai nazionalisti ucraini; ma anche i polacchi e l’Armata Rossa commisero crimini analoghi. I morti alla fine si contarono in centinaia di migliaia. E vi furono alcuni terribili pogrom in Polonia dopo la Shoah ai danni degli ebrei che cercavano di tornare a casa. I più noti avvennero nelle città di Jedwabne e Kielce.
• NELLA STORIA
In sostanza un pogrom è un’ondata di violenza omicida, di saccheggi, di stupri, di omicidi e ferimenti compiuta ai danni di una minoranza da folle apparentemente spontanee e non inquadrate militarmente, anche se la loro azione è spesso il frutto di un incitamento organizzato o quantomeno è tollerato da parte delle autorità. Furono pogrom dunque anche quelli voluti da Maometto a Medina fra il 625 e il 628, quello ancora musulmano di Granada nel 1066, le persecuzioni della prima crociata nel 1097, la rivolta di Chmel’nyc’kyj in Polonia e Ucraina nel 1648 (forse il più terribile di tutti, con 100 mila uccisi) e tantissimi altri episodi della storia ebraica. Probabilmente gli assalti e i saccheggi “spontanei” delle popolazioni e soprattutto quelli promossi da autorità intermedie (vescovi, nobili locali, predicatori religiosi) produssero più vittime e danni delle persecuzioni ufficiali dei papi e dei sovrani, presso cui talvolta le comunità ebraiche cercavano rifugio. Questa terribile continuità delle stragi “popolari” di ebrei è un tratto caratteristico della storia ebraica. Per questa ragione è inappropriato estendere il termine, come talvolta si usa fare, ad agitazioni analoghe che di tanto in tanto hanno colpito anche altre popolazioni, soprattutto in regioni contese fra diversi stati.
(Shalom, 11 novembre 2024)
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Sono un’orgogliosa ebrea e sionista - Perché sono odiata?
Una volta pensavo che l'Olocausto sarebbe dovuto bastare al mondo per giustificare il diritto all'esistenza di Israele. Ora penso che il mondo non sia mai stato particolarmente interessato. di Oriel Moran
GERUSALEMME - Ho trascorso la mia infanzia in Texas. Ho sempre saputo che l'essere ebreo comportava dei pericoli. Lo riconoscevo nei racconti biblici, come quando il Faraone fece gettare nel Nilo tutti i neonati maschi ebrei o quando la regina Ester chiese di annullare il decreto di annientamento di tutti gli ebrei. Questi eventi non sono stati episodi isolati, ma si sono susseguiti all'infinito e non sono terminati il 7 ottobre 2023. Cosa ho fatto per essere odiata così tanto? • EMIGRATA IN ISRAELE
Come ragazza ebrea dagli occhi azzurri in mezzo a cristiani texani favorevoli a Israele, non riuscivo a capire perché qualcuno potesse avere un motivo per non andare d'accordo con la mia famiglia. Quando arrivammo in Israele, il risveglio fu brusco e deludente. I tempi erano piuttosto tesi durante la Seconda Intifada. Ricordo che in autobus mi mancava il fiato, perché mi aspettavo che salisse un attentatore suicida. E ricordo che mi sentivo triste per il muro di protezione, anche se era necessario per proteggerci dagli attacchi. Tuttavia, non riuscivo a capire perché l'odio dei palestinesi fosse tanto profondo da volermi morta. Ma come ebrea si impara presto a mantenere un profilo basso quando è necessario. Quando viaggiavo all'estero, riuscivo a passare gli aeroporti con il mio passaporto americano senza problemi. Ma il passaporto israeliano desta sospetti. Se dico da qualche parte che vengo da Israele, mi aspetto sempre una reazione poco amichevole. Molti israeliani che viaggiano all'estero dicono di venire da Malta. Evitano di parlare in ebraico. Gli uomini nascondono la kippah sotto un copricapo. • ANTISEMITISMO È codardia? Forse è soltanto prudenza. Dato l'aumento dell'antisemitismo, c’è una buona probabilità che gli israeliani non tornino a casa indenni. L'Università di Tel Aviv riferisce che a New York, la città con la più grande popolazione ebraica al mondo, la polizia ha registrato 325 crimini di odio anti-ebraico nel 2023. 261 nel 2022, rispetto ai 165-86 di Los Angeles e ai 50-39 di Chicago. L'ADL ha registrato 7.523 incidenti nel 2023 rispetto ai 3.697 del 2022 (e, secondo una definizione più ampia, 8.873); il numero di aggressioni è aumentato da 111 nel 2022 a 161 nel 2023 e il numero di episodi di vandalismo è passato da 1.288 a 2.106. L'antisemitismo non è limitato a singoli luoghi, come la Columbus University di New York o le manifestazioni anti-Israele sul London Bridge. L'odio per gli ebrei, mascherato da “antisionismo”, si è diffuso ovunque. • “IN ALTO LE MANI SE SEI SIONISTA!”. Una scena particolarmente inquietante si è verificata di recente nella metropolitana di New York. Gli antisemiti, con il volto e la testa avvolti in sciarpe palestinesi bianche e nere, sono saliti a bordo di un vagone della metropolitana mentre il “leader” gridava: “Alza la mano se sei sionista!”, al che gli altri manifestanti hanno ripetuto: ‘Alza la mano se sei sionista!’. Poi: “Questa è la tua occasione per uscire!” e l'eco: “Questa è la tua occasione per uscire!”. - “Ok, niente sionisti qui”. I passeggeri sono rimasti in silenzio, paralizzati dalla paura della folla mascherata. Chissà quanti ebrei o “sionisti” erano bloccati in quella metropolitana - dopo tutto, ci sono 1,6 milioni di ebrei a New York. Quando ho visto questo video, sono rimasta profondamente turbata e francamente spaventata. Cosa farei se mi trovassi di fronte a una situazione del genere? Mi allontanerei per evitare il caos? Resterei in silenzio? Aprirei la bocca? Confessare le mie convinzioni sioniste difficilmente avrebbe giovato a me o alla mia famiglia se fossi stata picchiata fino a perdere i sensi o riportata indietro in un sacco per cadaveri. Gli ebrei hanno affrontato lo stesso dilemma durante l'Olocausto, prima di essere saccheggiati, perseguitati e infine portati con la forza nei campi di sterminio. Chi avrebbe protetto un ebreo negli anni '30? • VIVERE IN SICUREZZA In Israele gli ebrei possono vivere in sicurezza senza nascondere la loro etnia e, se sono minacciati, c'è un protettore che viene in loro aiuto. Ma (quasi) ovunque nel mondo non c'è garanzia che le autorità proteggano un ebreo. Ironia della sorte, sebbene Israele viva fianco a fianco con i suoi nemici e ne sia circondato, c'è un solo luogo sicuro per gli ebrei nel mondo: Israele. Altri dati, elaborati dall'Università di Tel Aviv: in Francia, il numero di incidenti è passato da 436 nel 2022 a 1.676 nel 2023 (il numero di attacchi fisici è salito da 43 a 85); nel Regno Unito da 1.662 a 4.103 (attacchi fisici da 136 a 266); in Argentina da 427 a 598; in Germania da 2.639 a 3.614; in Brasile da 432 a 1.774; in Sudafrica da 68 a 207; in Messico da 21 a 78; nei Paesi Bassi da 69 a 154; in Italia da 241 a 454; in Austria da 719 a 1.147. In Australia, nei mesi di ottobre e novembre 2023 sono stati registrati 622 incidenti antisemiti, rispetto ai 79 dello stesso periodo del 2022. • HAMAS contro ESTHER Come persona di fede, ritengo che la mia identità di “Regno” sia più importante della mia nazionalità o identità culturale. E non equiparo la domanda se sono sionista con quella se credo in Yeshua. Ma forse dovrebbe essere la seconda domanda quella più importante. Prima dell'attuale guerra, quando sentivo la parola “sionista” ero infastidita, anche se non sapevo perché. Forse la associavo a fanatici e radicali, o forse avevo un pregiudizio inconscio; e questo dimostra quanto facilmente gli ebrei non istruiti (come la sottoscritta) possano cadere in ideologie autodistruttive. Tuttavia, se mi chiedessero se ritengo che noi ebrei abbiamo diritto alla nostra patria, risponderei che su quel monte sarei stata disposto a morire. Oggi “sionista” è un insulto, alla pari di “nazista”, “comunista” o “terrorista”. Gli ignoranti si appropriano dei termini e ne modificano le definizioni per protestare in nome della “giustizia”. E non ci è voluto molto per galvanizzare milioni di persone in un movimento basato sull'odio e sullo sterminio degli ebrei. Questo è il potere dell'antisemitismo: un Haman amareggiato che convince Assuero e intere nazioni che tutti gli ebrei sono malvagi e devono essere uccisi. Mentre la mano di ferro della morte si stringe attorno al collo del popolo ebraico, cerco di ricordare come Mardocheo ammonì Ester con parole a cui gli ebrei si sono aggrappati nei momenti di pericolo da allora: “Se ora taci, la liberazione e la salvezza per gli ebrei verranno da un'altra parte, ma tu e la casa di tuo padre perirete. E chi sa se non sei arrivata alla regalità proprio per un momento come questo?” (Ester 4:14) Sono ebrea e orgogliosamente sionista. Israele è la mia patria, e tale rimane.
(Israel Heute, 11 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Difendere Israele sui media, tra like e complessità
di Nathan Greppi
In un’epoca in cui i mezzi di comunicazione mutano e si evolvono costantemente, molte persone fanno fatica a stare al passo e a tenersi aggiornate. In un periodo come quello attuale, in cui oltre alla guerra vera e propria Israele deve subire anche una guerra mediatica, restare indietro significa lasciare che i nemici dello Stato Ebraico impongano la loro narrazione.
Per capire quali sono le tattiche per poter contrastare la disinformazione che circola nei media e sui social, giovedì 7 novembre si è tenuto presso la Sala Segre della Scuola Ebraica di Via Sally Mayer un incontro curato dai responsabili del sito Progetto Dreyfus assieme all’Adei Wizo e alla Comunità Ebraica di Milano, dal titolo Tra like e complessità. Istruzioni per la difesa di Israele sui media.
• RAV ALFONSO ARBIB: IL PACIFISMO HA SOSTITUITO L’ETICA DELLA GUERRA Nell’introdurre la serata, il Rabbino Capo di Milano Rav Alfonso Arbib ha sottolineato che, sebbene non esista una formula magica per risolvere i problemi che stiamo affrontando, “esistono alcune cose a cui non possiamo rinunciare. Per prima cosa, non possiamo rinunciare a ragionare”, ha spiegato, rimarcando il fatto che gran parte dell’odio a cui assistiamo è il frutto di pregiudizi, non di ragionamenti, “ed è difficile affrontare l’odio, perché siamo davanti ad un sentimento”. Ma è comunque indispensabile farlo, per convincere non tanto chi ci odia, quanto quella maggioranza di persone che non ha un’opinione consolidata sull’argomento.
Un altro aspetto assai trattato nel dibattito pubblico è il concetto di “crimini di guerra”. A tal proposito, Rav Arbib ha rimarcato il fatto che “la definizione di ‘crimini di guerra’ non è così scontata”. Paradossalmente, la nostra è la prima epoca in cui nessuno si occupa più di “etica della guerra”, perché oggi “il discorso che si fa è un discorso pacifista, che ti dice che la guerra è essa stessa un crimine. I discorsi che si facevano nei secoli passati dicevano ‘le guerre ci sono, bisogna stabilire cosa è permesso e cosa è vietato in una guerra’”.
• ROBERTA VITAL: L’ODIO NEI CONFRONTI D’ISRAELE HA RADICI PROFONDE Dopo i saluti istituzionali di Ilan Boni, Vicepresidente della Comunità Ebraica di Milano, il quale ha sottolineato come occorra interfacciarsi con quelle persone che credono in buona fede alla disinformazione su Israele ma alle quali si possono spiegare le nostre ragioni, la prima relatrice a parlare è stata Roberta Vital, Vicepresidente dell’Adei Wizo di Milano.
La Vital ha ricordato che la guerra diplomatica che si è abbattuta su Israele dopo il 7 ottobre “affonda radici lontane. Possiamo individuare nel 1975 l’inizio della delegittimazione dello Stato d’Israele in quanto Stato Ebraico: quell’anno ci fu la famosa risoluzione dell’ONU, votata in blocco dai paesi arabi e sovietici, in cui si equiparò il sionismo al razzismo. Una risoluzione che rimase in essere per un po’ di anni, poi fu abolita ma trovò la sua massima espressione durante la Conferenza di Durban, nel 2001. Una conferenza che, sotto l’egida dell’ONU, avrebbe dovuto trattare temi importanti come la lotta al razzismo e la difesa dei diritti umani, ma che invece si trasformò in un’arena di antisionismo”.
• ALEX ZARFATI: COME DIFENDERE ISRAELE ATTRAVERSO LA COMUNICAZIONE Per combattere la disinformazione online, fare rete tra più persone anziché lavorare da soli è fondamentale. A tal proposito Alex Zarfati, responsabile di Progetto Dreyfus e consigliere UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), ha spiegato quali sono, secondo lui, i capisaldi “per organizzare una qualsiasi difesa nei confronti d’Israele”.
Innanzitutto, ha messo in risalto il fattore generazionale: dai più anziani non ci si aspetta che sappiano utilizzare al meglio i nuovi social, ma allo stesso tempo i giovani hanno una memoria storica limitata: “Sono nati che Israele era già forte, non riescono neanche a concepire un Israele debole. Chi è più grande, invece, lo sa che Israele è stata sotto scacco diverse volte nella sua storia”. Pertanto, Zarfati ha suggerito che i più anziani non dovrebbero esporsi in prima linea su social che non sanno maneggiare bene, correndo il rischio di esporre anche i loro cari, ma dovrebbero fornire ai loro nipoti contenuti e testimonianze che questi saprebbero riportare nel giusto formato per i loro contenuti.
Ha spiegato che nella Scuola Ebraica di Roma, “noi abbiamo ragazzini che sono vittime da stress post-traumatico come quelli che vanno in guerra”. Questo perché i video dei massacri del 7 ottobre, “che hanno viaggiato sui telefonini, hanno avuto degli effetti devastanti, e non ce ne rendiamo nemmeno conto. E gli adulti non sanno come gestire quel tipo di informazione”. In genere, i genitori tolgono il telefono ai figli o si deresponsabilizzano lasciando loro fare quello che vogliono. “Invece, una educazione corretta all’uso del telefono è fondamentale”.
Zarfati ha inoltre messo in evidenza la questione della “psychological warfare”, un metodo non convenzionale di fare la guerra, per le quale “le menti degli occidentali sono territorio di conquista da parte di una certa parte del mondo”. Il modo in cui vengono realizzati determinati video e contenuti online è mirato al preciso scopo di dipingere Israele come la causa di tutti i mali del mondo.
• STEFANO FIANO: INTERNET HA CAMBIATO IL NOSTRO CERVELLO Oggi, la diffusione dell’informazione non avviene più attraverso gli stessi canali di una volta: la crescente preponderanza del web e degli influencer ha fatto sì che, per fare un confronto, un personaggio fortemente antisionista come Alessandro Di Battista può contare oltre 1,6 milioni di follower, mentre programmi televisivi come Piazzapulita possono contare in media 900.000 spettatori.
Stefano Fiano, esperto di strategie di comunicazione, ha spiegato che la connessione perenne in particolare dei ragazzi ha “cambiato il modo di pensare, ma non solo: abbiamo cambiato il nostro cervello, perché siamo connessi, qualcosa che vent’anni fa non c’era”. E secondo lui, “oggi siamo andati un passo ancora più avanti: l’intelligenza artificiale si forma su quello che c’è già in rete. Questo vuol dire che tra un po’ non andrò più nemmeno su Google, ma crederò a quello che ha detto l’intelligenza artificiale, cioè la media di tutti noi. Nel nostro caso, la media di quello che pensano su Israele nel mondo, quando ci sono due terzi del mondo che a prescindere non pensa bene d’Israele”.
Un ulteriore problema è che i giornalisti stanno imparando a scrivere con l’IA, anche se “teoricamente il giornalista dovrebbe essere quello che intermedia e si informa. Ma se la sua fonte sarà l’intelligenza artificiale o, peggio, la percezione che la società ha di quell’argomento, invece di fare informazione va verso la massa per prendere i like”. Ha inoltre spiegato che, anche se la maggior parte degli anziani in sala non possedeva TikTok, in realtà già adesso essi ne sono influenzati senza saperlo: questo perché, per frenare l’emorragia di lettori, i giornali tendono sempre di più ad imitare lo stile semplice e sensazionalistico dei contenuti di questa piattaforma.
(Bet Magazine Mosaico, 11 novembre 2024)
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Come hanno reagito i palestinesi alla vittoria di Trump
La vittoria di Trump alle elezioni presidenziali americane è stata accolta con reazioni relativamente moderate da parte degli alti funzionari palestinesi e dei media palestinesi.
In una dichiarazione pubblicata dal presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, si è congratulato con Donald Trump per la sua vittoria e gli ha augurato successo, ha aggiunto che “attende con impazienza la cooperazione con il presidente Trump per promuovere la pace e la sicurezza nella regione” e ha concluso dicendo: “Rimarremo fermi nel nostro impegno per la pace e siamo fiduciosi che tale impegno persisterà anche sotto la vostra guida, e che sosterrete le legittime aspirazioni del popolo palestinese”.
Secondo uno studio del Memri Institute for Middle East Media Research, Ahmed Majdalani, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha dichiarato: “Rispettiamo la volontà dei popoli nella scelta dei loro presidenti e non abbiamo problemi con nessun presidente al mondo, purché vi sia rispetto per la volontà del popolo palestinese di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione, di stabilire il proprio Stato indipendente e di rimuovere l’occupazione dalla sua terra”. Majdalani ha invitato l’amministrazione Trump a “trattare seriamente la questione palestinese in quanto” – aggiunge – “la precedente amministrazione americana è passata da un pregiudizio a favore di Israele al sostegno e alla collaborazione con l’occupazione nella sua aggressione contro il nostro popolo nella guerra di annientamento”.
Sabri Seidam, vicesegretario del Comitato Centrale di Fatah, ha chiarito le aspettative della leadership palestinese rispetto al secondo mandato di Trump. Ha dichiarato al quotidiano “Al-Quds” che “noi tutti speriamo di vedere un Trump diverso da quello che conoscevamo, che sarà. in grado di affrontare i cambiamenti nella realtà palestinese e regionale”.
Seidam ha espresso la speranza che Trump non si concentrerà solo sulla normalizzazione tra Israele e i paesi arabi ignorando i palestinesi, ma affronterà le radici del conflitto. Inoltre ha invitato Trump a “fermare la guerra contro la Palestina”, come aveva promesso ai suoi elettori arabi, e a compiere gesti di buona volontà nei confronti dei palestinesi per “ristabilire l’equilibrio nelle relazioni e fare chiarezza. che gli Stati Uniti rispettino i loro obblighi internazionali”.
Secondo l’analisi di Memri, alcuni media palestinesi hanno espresso indifferenza per la vittoria di Trump e hanno trasmesso il messaggio che la politica americana nei confronti della “Palestina” non cambierà probabilmente sotto la sua guida.
(Rights Reporter, 11 novembre 2024)
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A Milano in Piazza San Babila manifestazione contro le violenze antisemite di Amsterdam
“Avete ragione”, ha detto il rabbino capo Alfonso Arbib rivolgendosi agli studenti universitari della Statale che erano appena intervenuti in solidarietà in piazza San Babila, dove almeno 300 persone, secondo gli organizzatori, hanno partecipato alla manifestazione – blindata da un impressionante numero di poliziotti – in risposta alle violenze antisemite di Amsterdam avvenute tre giorni prima in seguito alla partita tra Ajax e Maccabi Tel Aviv. “Avete ragione, antisemiti e antisionisti sono una minoranza rumorosa. Avete ragione, ma io chiedo alla maggioranza silenziosa di iniziare a farsi sentire”. “Gli scontri”, ha sottolineato Alessandro Litta Modignani, segretario dell’Associazione milanese Pro Israele, “non sono avvenuti ‘tra ultras del calcio’, questo è un tentativo di certa stampa e di alcuni esponenti politici di sminuire quanto successo”. Lungo i canali della città olandese è andata in scena una vera caccia all’ebreo, il riferimento al titolo del recente volume scritto da Pierluigi Battista, e distribuito nella nostra scuola, non è casuale. Come affrontare e prevenire questa violenza ed evitare che si manifesti anche nel nostro Paese? “Non servono leggi speciali, basta applicare le leggi esistenti”, ha detto Franco Modigliani dell’associazione Sette Ottobre e animatore dell’evento. Molti rappresentanti delle diverse aree politiche hanno preso la parola. Lia Quartapelle, parlamentare del Partito Democratico ed esponente della Sinistra Per Israele, ha parlato della necessità di essere uniti contro l’odio antisemita. Le ha risposto Daniele Nahum, consigliere comunale e fuoriuscito proprio dal PD, che ha parlato della tolleranza che alcuni partiti hanno verso propri esponenti che partecipano alle manifestazioni milanesi Pro Pal del sabato, dove si è inneggiato alla violenza contro gli ebrei e si è applaudito ai fatti di Amsterdam. Dal palco hanno parlato anche la senatrice Gelmini già in Azione e ora in area centrodestra, Alessandro Colucci di Noi con l’Italia e Gianmaria Radice di Italia viva. Per Davide Romano, direttore del Museo della Brigata Ebraica e animatore dell’associazione Ponte Atlantico, dopo aver pensato negli anni passati di poter esportare la democrazia in Medio Oriente, ci ritroviamo col rischio di importare il fondamentalismo islamico e dovremmo allora riunirci sotto lo slogan “Free Europe from Hamas”. A margine della manifestazione, lo storico David Bidussa commentava che la violenza si subisce, ancor prima dei calci e dei pugni, già quando devi per paura cambiare il tuo stile di vita e limitarti. “Anche negli anni Trenta c’era chi diceva che gli ebrei stessero esagerando con la paura”, ammoniva dal microfono rav Arbib. “Noi vogliamo solo continuare a vivere”, ha detto il professor Ugo Volli ed Eyal Mizrachi, dell’Associazione Amici di Israele, ha dunque intonato Am Israel Hai.
(Bet Magazine Mosaico, 10 novembre 2024)
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Bibi sceglie Leiter per l'ambasciata Usa
In una fase cruciale di grandi cambiamenti negli Stati Uniti, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato chi ricoprirà il delicato ruolo di ambasciatore d’Israele negli Usa. Sarà Yechiel Leiter, 65 anni, in passato vice direttore generale del ministero dell’Istruzione, capo staff dell’allora ministro delle Finanze Netanyahu e presidente ad interim dell’Autorità dei porti. Nato negli Stati Uniti, Leiter a novembre ha perso il figlio, il maggiore Moshe Leiter, 39 anni, ucciso in un combattimento nel nord di Gaza.
«Yechiel Leiter è un diplomatico di grande talento, un oratore eloquente e ha una profonda conoscenza della cultura e della politica americana», ha dichiarato Netanyahu. «Sono convinto che rappresenterà Israele nel miglior modo possibile e gli auguro di avere successo nel suo ruolo».
Padre di otto figli, Leiter vive oggi nell’insediamento israeliano di Alon Shvut, in Cisgiordania. È nato a Scranton, in Pennsylvania, in una famiglia sionista religiosa. Ha raccontato di essere stato influenzato dal libro La rivolta di Menachem Begin nella sua scelta di compiere nel 1978 l’aliyah (l’immigrazione in Israele). In Israele studiato in una scuola religiosa di Kiryat Arba ed è stato ordinato rabbino. Nel 1986 ha fondato la Fondazione Hebron e tra il 1989 e il 1992 è stato presidente del comitato per gli insediamenti ebraici a Hebron. È stato inoltre nel 2001 tra i fondato dell’organizzazione One Jerusalem, riporta ynet, contraria agli accordi di Oslo. Nel 2004 è stato nominato capo dello staff di Netanyahu, allora ministro delle Finanze, incarico che ha ricoperto fino al 2005.
Attualmente è docente di filosofia presso l’Ono Academic College, ricercatore presso lo Shalem Center e consulente strategico di diverse organizzazioni, tra cui l’Ancient Shiloh.
La nomina di Leiter, commenta ynet, «può essere considerata una benedizione per Netanyahu, perché è l’uomo giusto al momento giusto: ha ampie conoscenze nel Partito Repubblicano e riceverà un orecchio attento alla Casa Bianca». L’incarico di ambasciatore negli Stati Uniti al momento è affidato a Mike Herzog, fratello del presidente d’Israele Isaac. Il passaggio di testimone con Leiter, scrive Maariv, avverrà poco prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca.
(moked, 8 novembre 2024)
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10 NOVEMBRE - ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI LUTERO
Ricorre oggi il 541° anniversario della nascita di Martin Lutero. Riportiamo due citazioni delle sue parole, fatte in contesti e tempi diversi.
«Oh volesse Iddio che le mie interpretazioni e quelle di tutti i maestri andassero perdute, purché ogni cristiano conservi sempre dinanzi agli occhi la sola Scrittura e la divina Parola! Tu vedi dal mio parlare come la Parola divina sia immensamente diversa da ogni parola umana e come nessun uomo, nonostante tutte le sue parole, sia in grado di raggiungere o dichiarare un solo detto divino.
A chi riuscisse di penetrarvi senza interpretazione umana, il mio commento o quello di chiunque altro sarebbero inutili, anzi d'ostacolo. Perciò, leggete, leggete la Sacra Scrittura, cristiani cari, e considerate sia la mia che qualsiasi altra interpretazione come un 'impalcatura di legname dell'edificio stesso, affinché noi possiamo comprendere e gustare la pura e semplice Parola divina e ad essa attenerci».
«Perciò sappi, caro cristiano, e non avere dubbi a riguardo, che, subito dopo il diavolo, tu non hai nemico più acre, più velenoso, più acceso, di un vero ebreo, il quale voglia seriamente essere un ebreo. Tra loro ci possono forse essere anche quelli che credono in ciò in cui crede una mucca, o un’oca, tuttavia la stirpe e la circoncisione gravano su tutti loro. Perciò nelle storie si dà spesso a loro la colpa, di aver avvelenato i pozzi, di aver rapito e seviziato bambini […]. Essi negano decisamente. Però – che sia vero o no – io so bene che, se potessero realmente farlo, di nascosto o apertamente, a loro non ne mancherebbe la completa, piena e pronta volontà».
Come si vede, l'accostamento è davvero sgradevole. Non per tutti, certamente: non lo sarà per un incallito antisemita cristiano che vede confermata la sua ripulsa "teologica" degli ebrei; non lo sarà forse neppure per un convinto ebreo che vedrà confermata in quelle parole la sua diffidenza verso tutto ciò che si presenta come cristiano.
Per un convinto cristiano non cattolico, che proprio per la sua fede evangelica avverte una spinta d'amore verso gli ebrei come popolo eletto da cui proviene Gesù, l'accostamento di queste due parole provoca una tensione dolorosa, perché approva fermamente la prima dichiarazione e rigetta totalmente la seconda. Chi scrive dichiara con chiarezza che considera la prima ispirata da Dio e la seconda ispirata dal Diavolo; considera Lutero un potente strumento di Dio che proprio per la sua importanza è stato attaccato dal Nemico in un punto importante della fede che era rimasto spiritualmente scoperto. Per avvertire i fratelli in Cristo del rischio che si corre a trattare con leggerezza un tema scottante come Israele, quindici anni fa abbiamo pubblicato nel sito una documentazione sul collegamento Lutero-Hitler che adesso ripresentiamo in un nuovo formato.
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Hitler e Lutero, un accostamento sgradevole
a cura di Marcello Cicchese
GERMANIA 1933 - Hitler è al potere da qualche mese, ma il suo governo deve ancora ottenere stabilità all'interno e riconoscimento internazionale. Lo storico Joachim Fest, nel suo libro "Hitler. Una biografia", presenta un quadro dei rapporti della Germania con le altre nazioni in quel momento.
«Hitler optò dapprima per una politica di gesti concilianti, e fece di tutto per sottolineare la continuità con la moderata politica di revisione della repubblica di Weimar. [...] Per almeno sei anni, affermò in presenza di uno dei suoi intimi, con le potenze europee doveva mantenere una sorta di "buon vicinato", soggiungendo che le grida guerresche dei circoli nazionalistici erano quindi fuori posto. Culmine della sua politica di sincere offerte di intesa fu il grande "Friedensrede", il "discorso della pace" del 17 maggio 1933, ancorché Hitler non rinunciasse certo all'occasione di protestare contro l'illimitato mantenimento di una discriminazione tra vinti e vincitori, minacciando perfino di ritirarsi dalla conferenza per il disarmo e addirittura dalla Lega delle Nazioni, qualora alla Germania si continuasse a negare la effettiva parità di diritti. [...]
Il 14 ottobre, poco dopo che il ministro degli esteri britannico, Sir John Simon, gli aveva reso note le nuove posizioni degli alleati, ed era ormai evidente la loro decisione di imporre alla Germania, ove fosse necessario, il quadriennio di prova al tavolo stesso delle trattative, Hitler rese noto il proprio proposito di abbandonare la Conferenza per il disarmo, in pari tempo annunciando il ritiro della Germania dalla Lega delle Nazioni. [...]
Significativamente, Hitler collegò subito l'uscita dalla Lega delle Nazioni con una nuova iniziativa, mediante la quale si spinse ben oltre i moventi iniziali: sottopose la propria decisione al primo plebiscito plenario, inscenato tra grandi rumori propagandistici, facendone dipendere anche la rielezione del Reichstag, costituito il 5 marzo e che in parte era ancora anacronisticamente determinato dalla struttura partitica dell'epoca di Weimar.
Hitler in persona inaugurò la campagna il 24 ottobre, con un grande discorso al Palazzo dello Sport di Berlino; le votazioni erano fissate per il 12 novembre, giorno successivo al quindicesimo anniversario dell'armistizio del 1918. [...]
Anche questa volta, come l'anno prima, venne scatenata una furiosa "guerra dei manifesti" sotto la parola d'ordine "vogliamo onore e uguali diritti!" A Berlino, a Monaco, a Francoforte, furono fatti sfilare, sulle loro carrozzelle, mutilati di guerra recanti cartelli che dicevano: "I caduti della Germania vogliono il tuo voto!" Ampia diffusione in Germania trovavano anche, significativamente, frasi pronunciate dal ministro della difesa britannico Lloyd George: «Il diritto è dalla parte della Germania» e «per quanto tempo l'Inghilterra tollererebbe una simile umiliazione?».
Il 95% dei votanti approvarono la decisione del governo, e, pur ammettendo che il risultato fosse manipolato e ottenuto mediante il ricorso a misure terroristiche, non si può negare che desse voce in maniera abbastanza esatta allo stato d'animo del pubblico. Nelle concomitanti elezioni per il Reichstag, dei quarantacinque milioni di cittadini aventi diritto di voto, trentanove milioni lo diedero alla lista unica nazionalsocialista.»1
In data 29 ottobre 1933, cioè dopo l'uscita della Germania dalla Lega delle Nazioni e prima dell'annunciato plebiscito, compare un commento a questi avvenimenti su "Zeitspiegel" (Specchio dei tempi), allegato di un settimanale evangelico dal titolo "Heilig dem Herrn" (Santo al Signore). Il responsabile dell'allegato, Wilhelm Goebel, è un anziano cristiano evangelico (63 anni), con buone conoscenze di storia e letteratura e ben informato sui fatti politici in corso. E' uno dei tanti evangelici di quel tempo che, pur avendo buone conoscenze bibliche, non soltanto non intuì che nella persona e nel movimento di Hitler ci poteva essere qualcosa che non andava, ma anzi rimase catturato e addirittura affascinato dalla figura del Führer, individuando in lui un autentico salvatore della Germania donato dalla misericordia di Dio al popolo tedesco. E, cosa degna di riflessione, il fascino per Hitler e la repulsione per gli ebrei sono elementi che nei suoi pensieri si sostengono e si confermano a vicenda. Riportiamo qualche estratto dai suoi commenti.
«L'uscita dalla Conferenza del disarmo e dalla Società delle Nazioni non è stata fatta in modo affrettato, avventato e arrogante, ma soltanto dopo aver usato tutta la pazienza necessaria. Hitler e i suoi consiglieri sono certamente ben consapevoli delle conseguenze che ci possono essere anche nel caso peggiore.
Di quello che adesso è avvenuto dobbiamo ringraziare soprattutto gli ebrei e gli amici degli ebrei. Io intendo gli ebrei che dalla loro cattiva coscienza sono fuggiti per paura all'estero quando la Germania si è risvegliata. Adesso siedono all'estero, pieni di veleno e di bile e aizzano con la satanica abilità e mancanza di scrupoli che appartiene alla parte degenerata di questo popolo. Naturalmente dispongono anche di ricchi mezzi finanziari e di ottime relazioni. I loro compagni di popolo e di sentimenti occupano all'estero le posizioni più influenti. Una cosa ci deve essere ben chiara: che questi ebrei vogliono aizzare il mondo in una guerra di sterminio contro la Germania. Per gli ebrei la vittoria del nazionalsocialismo in Germania è un terribile colpo che deve essere neutralizzato. Nel suo discorso Hitler ha detto giustamente:
"Decine di migliaia di americani, inglesi e francesi sono stati in questi mesi in Germania e hanno potuto constatare con i loro occhi che non esiste paese al mondo in cui c'è più calma e ordine che nell'odierna Germania, che in nessun paese al mondo la persona e la proprietà vengono più rispettate che in Germania, e inoltre che forse in nessun altro paese al mondo viene condotta una lotta più accanita contro quegli elementi criminali che credono di poter lasciare libero sfogo ai loro più bassi istinti a danno dei loro simili. Sono queste persone, e i loro aiutanti e amici degli aiutanti comunisti, che oggi come emigranti (profughi) fanno di tutto per aizzare uno contro l'altro gli onesti e rispettabili popoli. Il popolo tedesco non ha alcun motivo di invidiare il resto del mondo per questo guadagno. Noi siamo convinti che pochi anni basteranno per aprire bene gli occhi agli onesti membri degli altri popoli sul vero valore di quegli onorati elementi che sotto la bandiera dei profughi politici hanno ripulito le zone della loro più o meno grande mancanza di scrupoli economica."
Nel frattempo ho ascoltato già due volte il grande discorso di Hitler. Una volta dalla sua bocca, una volta dal disco e se potessi ascoltarlo una terza volta, non sarebbe certo tempo perso. Questo discorso rimarrà di imperitura importanza storica, comunque andranno a finire le cose. Questo discorso al mondo stabilisce fondamenti del tutto nuovi per i rapporti dei popoli fra di loro. Non sarà più l'intrigante e totalmente falsa diplomazia, i cui fili sono sempre tirati da persone cattive, false ed egoiste, a decidere su guerra e pace, ma sarà il proprio popolo e i popoli della terra che dovranno essere appellati. E questo oggi è possibile attraverso il miracolo tecnico della radio. Il nostro Führer e Cancelliere del popolo ha fatto quello che poteva e continuerà a fare quello che può. Il discorso mi ha toccato fin nel mio più intimo, anche se non conteneva niente che non sapessi già e che non mi fossi già detto più volte. E come a me, questo sarà accaduto a molti, molti altri. Ma il modo in cui è stato espresso ha toccato l'anima tedesca nel più profondo. Quando Hitler ha finito, abbiamo fatto quello che certamente anche molti altri hanno fatto nella stessa ora: abbiamo pregato e lodato Dio.
Quale meravigliosa forza di schiettezza, di verità, di assennatezza, di riconoscimento e giustizia nei confronti di altri popoli, di disponibilità alla pace e nello stesso tempo di irremovibile volontà di non lasciarsi sospingere mai e da nessuno oltre il limite sopportabile per l'onore e il bene del popolo tedesco!
[risalto nell'originale]
In cuor mio l'ho lodato ancora una volta, ma adesso voglio farlo anche qui, pubblicamente, davanti alle decine di migliaia che leggono questo articolo:
A favore di quest'uomo [
Hitler
] inviatoci da Dio io mi pongo in modo fermo e irremovibile. A lui va la mia incondizionata fiducia e niente mi potrà confondere, nessuna paurosa, meschina o perfino maligna critica, ma anche nessuna umana imperfezione, nessun errore o avventatezza, sì neppure evidenti peccati come si trovano nel grande movimento nazionalsocialista. Fino a quando Hitler camminerà sulla via su cui finora ha camminato, io camminerò con lui con la più profonda e intima convinzione, e parteggerò per lui ovunque e come io potrò. E facendo questo sono convinto di compiere un servizio secondo la volontà di Dio e nel senso migliore per il bene del mio popolo e della mia patria. Ma so anche che su questa via Dio sarà con lui, anche se la via dovesse passare attraverso gravi difficoltà
[risalto nell'originale]
.
Questo è il mio voto [Gelöbnis], e non m'importa se alcuni diranno che è "cieca soggezione".»
Segue un invito accorato a votare Hitler nel prossimo plebiscito del 12 novembre e a sostenerlo in preghiera:
«Ma ora invito tutti i miei lettori e lettrici a fare la stessa cosa. Basta adesso con tutte le perplessità! Basta con tutte le paure! Basta con tutto questo meschino rimaner attaccati a piccolezze e a singoli fatti accaduti! Basta con questo star a sentire critici e disfattisti che affossano la fiducia di cui adesso il Cancelliere del popolo ha più che mai bisogno e che procurano sconforto al cuore del popolo!
[risalto nell'originale]
E se non fosse presente un istinto più elevato, almeno l'istinto di conservazione dovrebbe indurre ciascuno a mettersi dietro a Hitler in modo fermo e deciso. La Germania adesso in effetti è legata a lui nella buona e nella cattiva sorte. Ricordo la frase del Kaiser Guglielmo II: «Adolf Hitler è l'unico uomo che può salvare la Germania.» E hanno anche riferito che quel monarca così duramente provato prega ogni giorno per colui che adesso istituzionalmente occupa il suo posto. E questo non significa una svalutazione del grande, venerando Hindenburg. Anche il Kaiser appartiene dunque alle "SA oranti", e io invito coloro che appartengono alla schiera dei nostri lettori a fare altrettanto:
insistete nella preghiera!
[risalto nell'originale]. Adesso si deve formare una catena di preghiera per il Cancelliere. Che immane peso di responsabilità grava su di lui, che alla fin dei conti è soltanto un uomo! Di quale incalcolabile portata è ogni sua parola, ogni sua decisione! Pregate anche per i suoi collaboratori e consiglieri. Un loro intervento sbagliato, una precipitazione, un ritardo occasionale, un'errata valutazione della situazione può provocare un danno che forse neanche Hitler potrebbe rimediare. Pregate anche per la sua guardia del corpo! Avete pensato a quanti piani di omicidio contro di lui saranno già stati preparati? Quel tipo di persone che hanno incendiato il Reichstag non indietreggia certo davanti a simili progetti diabolici. Anche la migliore protezione non può bastare se Dio non tiene la mano sulla sua vita. E ancora una volta invito a fare qualcosa di totalmente naturale!
Il 12 novembre ciascuno deve sostenere Hitler davanti al mondo con il suo voto SI! Ciascuno deve anche fare pressioni affinché tutte le persone a lui accessibili facciano la stessa cosa. Perché se c'è una cosa che può fare ancora fare impressione sui popoli intorno a noi è la ferma compattezza del popolo tedesco
[risalto nell'originale].»2
Il 10 novembre 1933, giorno in cui la Germania celebrava il 450esimo anniversario dalla nascita di Martin Lutero, il direttore di Zeitspiegel ascolta un discorso propagandistico fatto da Hitler alle maestranze tedesche e in un successivo numero del suo settimanale ne riporta l'impressione ricevuta:
Tutti i membri di famiglia e i collaboratori che non avevano la possibilità di ascoltare a casa il discorso ci siamo seduti intorno alla scatola delle meraviglie marrone [la radio]. Ancora una volta, che discorso è stato! Quel fervido lottare con l'impiego di tutta la forza dell'anima per la conquista dell'anima dei lavoratori e di tutto il popolo! Tutti li vuole conquistare, il Führer, per la Germania, per la grande comunità di popolo tedesca. Così si dovrebbe lottare dai pulpiti, dalle cattedre e nella cura pastorale per la conquista delle anime per il Regno celeste! E' stata una lotta per la verità, per il diritto, per la libertà e per l'onore. Ciascuno, anche se udiva soltanto la voce dell'oratore, si rendeva conto di quanto [l'oratore] prendesse la cosa sul serio. Veramente, è stato un lottare dell'anima per una grande cosa che Dio ha messo su di lei e in lei. Quest'uomo non può agire diversamente. Andrebbe a fondo, non solo internamente ma anche esternamente, se non facesse quello che gli è stato comandato. Un tale uomo si trova sotto una sacra interna costrizione contro la quale non è possibile alcuna ribellione (Geremia 20:8-9, 1 Corinzi 9:16). Questo è stato ciò che ha spinto Gesù quando ha gridato a Zaccheo: «Oggi devo entrare in casa tua», Gesù, che qui poteva dire: «O Dio, compio volentieri la tua volontà». Questo sacro imperativo dell'ubbidienza l'ha portato nel Getsemani in un'ora tremenda. Così fu costretto Paolo, così fu costretto Lutero, di cui oggi, mentre scrivo queste righe, si celebra il 450esimo anniversario dalla nascita. Anche se potrei essere frainteso, dico questo: il discorso di Hitler è stato per me un discorso di Lutero, anche se il nome di questo grande non è stato nominato e neppure poteva esserlo in questa occasione. Non ci posso fare niente: se ascolto Hitler o leggo qualcosa di lui, senza volerlo si presenta davanti a me Lutero, e se leggo qualcosa di Lutero, automaticamente devo pensare a Hitler. Sono così diversi, questi due grandi tedeschi, così diversi nel loro essere, nei loro compiti, e tuttavia così uguali, così simili. Tutto ciò che è veramente grande è sempre simile a se stesso, anche se a una superficiale osservazione può apparire molto diverso. Lo stesso ardore dell'anima. In entrambi brucia come un fuoco che non si può spegnere, che li consuma e che tuttavia li rende così forti e così felici anche in mezzo a pene e dolori.»3
Riportiamo un piccolo saggio di questo "memorabile" discorso:
«La lotta tra i popoli e l'odio fra di loro sono alimentati da precise parti interessate. E' una piccola, sradicata clique internazionale che aizza l'uno contro l'altro i popoli e non vuole che arrivino alla pace. Sono gente che sono a casa dappertutto e in nessun luogo, che non hanno un suolo su cui sono cresciuti ma oggi vivono a Berlino, domani a Bruxelles e il giorno dopo a Parigi, e dappertutto si sentono a casa [una voce dal fondo grida: Jude!]. Loro sono i soli a cui internazionalmente ci si può rivolgere, perché in ogni posto possono fare i loro affari, ma il popolo non può seguirli.»
audio
L'"anima tedesca" fu conquistata e nel plebiscito del 12 novembre il governo nazista ottenne il 95% dei voti.
Due uomini come Lutero e Hitler sono stati avvicinati. Riportiamo allora qualche stralcio dei loro scritti da cui si potrà riconoscere come "in entrambi brucia come un fuoco che non si può spegnere, che li consuma e che tuttavia li rende così forti e così felici."
QUELLO CHE HA DETTO ADOLF HITLER
«Il fatto che egli [l'ebreo] ogni tanto abbandoni il suo territorio non dipende dalla sua volontà, ma è la conseguenza di sfratti che di tempo in tempo lo cacciano via per avere abusato degli ospiti. E quel suo dilagare è un tipico fenomeno parassitario; egli cerca sempre nuove possibilità di nutrimento per la sua razza.
Ciò naturalmente non ha niente a che vedere col nomadismo, dato che l'ebreo non pensa affatto di abbandonare il territorio che ha occupato, ma rimane dove si è stanziato, e così saldamente che non lo si può più cacciar via se non per mezzo della violenza. Il suo diffondersi in nuovi Paesi avviene soltanto se e in quanto vi possa trovare migliori condizioni per l'esistenza, senza le quali egli, come il nomade, non muterebbe la sua attuale residenza. Egli è e rimane il tipico parassita, uno scroccone, che si spande alla maniera di bacilli dannosi, purché trovi un terreno favorevole. E anche gli effetti del suo sopraggiungere somigliano a quelli degli scrocconi: dove penetra, dopo un tempo più o meno breve, l'indigeno muore ...
In questo modo l'ebreo visse negli Stati altrui e vi formò il suo proprio, mascherato per lungo tempo col nome di "comunità religiosa", fino a quando le circostanze esteriori non gli consigliarono di svelare la sua vera natura. Non appena si credette tanto forte da non avere più bisogno di tale velo, egli lo lasciò cadere e si manifestò proprio quello che gli altri non avevano voluto o potuto vedere: l'ebreo.
Nell'esistenza dell'ebreo quale parassita del corpo di altri popoli, si fonda una caratteristica che indusse Schopenhauer a pronunciare la sua famosa frase: l'ebreo è un gran maestro di menzogne. È il suo genere di esistenza che spinge l'ebreo alla menzogna; e proprio a una menzogna eterna, come gli abitanti del nord sono obbligati a indossare sempre un vestito pesante. La sua esistenza in mezzo agli altri popoli può durare a lungo soltanto se gli riesce di far nascere l'opinione che non si tratti già di un popolo speciale, ma di una collettività religiosa - questa è la prima grande bugia.
Infatti, per poter continuare la sua vita di parassita dei popoli, gli tocca rinnegare la sua profonda natura. Quanto più intelligente è il singolo ebreo, tanto più facile gli riuscirà tale imbroglio. [...]
Il popolo ebreo fu sempre dotato di caratteristiche razziali e mai di una confessione religiosa; ma le necessità vitali l'obbligarono presto a cercare un mezzo che potesse distogliere l'attenzione da lui e dai suoi aderenti. Il mezzo più adatto e inoffensivo apparve subito l'introduzione del concetto di "comunità religiosa". Ma anche qui tutto è preso a prestito, o meglio rubato - infatti dalla sua natura fondamentale l'ebreo non poteva trarre istituzioni religiose, ché gli manca completamente ogni forma di idealismo, e perciò ogni fede nell'aldilà. E dal punto di vista ariano, noi non riusciamo a raffigurarci una religione che sia priva di qualsiasi fede in una immortalità dopo la morte. Neanche il Talmud è un libro che prepari all'aldilà, ma soltanto a una pratica e redditizia vita quaggiù.
La dottrina religiosa ebraica è in primo luogo un metodo per mantenere puro il sangue del giudaismo, e un codice che regola i rapporti degli ebrei fra di loro e ancor più col resto del mondo, cioè coi non ebrei. Ma anche qui non si tratta affatto di problemi etici, bensì solo di precisi problemi economici. Sul valore morale dell'insegnamento religioso ebraico, ci sono molti studi penetranti (non certo da parte ebraica, ché le interpretazioni degli ebrei sono naturalmente rivolte a uno scopo preciso), i quali ci fanno apparire un simile tipo di religione assolutamente assurdo, secondo i nostri concetti ariani. Ma la miglior dimostrazione di ciò è il prodotto di tale educazione semita, cioè l'ebreo stesso. La sua vita è talmente lontana dal nostro mondo, e il suo spirito dal cristianesimo, come lo era duemila anni fa nei confronti del fondatore della nuova dottrina. Anche costui non nascose la sua opinione al popolo ebraico, e afferrò perfino la frusta per cacciare dal tempio del Signore questi negatori dell'umanità, i quali già allora vedevano nella religione un mezzo per fare ottimi commerci. Perciò Cristo venne inchiodato alla croce, mentre il nostro cristianesimo politico si abbassa oggi a elemosinare i voti dagli ebrei, e cerca di accordarsi coi partiti ebraici per sconclusionate avventure politiche, magari contro il proprio popolo.»4
Il 30 gennaio 1939, in un discorso tenuto al Reichstag in occasione del sesto anniversario della sua ascesa al potere, Hitler manifestò la sua coerente determinazione nei confronti degli ebrei con una "profezia" che in seguito ripeterà più volte:
«In vita mia molto spesso sono stato profeta, e il più delle volte mi hanno riso in faccia. Quando lottavo per ascendere al potere, e predicevo che prima o poi avrei afferrato le redini dello stato e dell'intero popolo tedesco e quindi, tra le altre cose, avrei anche risolto il problema giudaico, erano proprio gli ebrei i primi a ridere delle mie parole. Ho motivo di credere che nel frattempo questa vuota risata del giudaismo tedesco gli sia morta in gola. Oggi voglio essere profeta ancora una volta: se il capitale giudaico internazionale dentro e fuori l'Europa riuscirà nuovamente a precipitare le nazioni in una guerra mondiale, il risultato non sarà la bolscevizzazione della terra e dunque la vittoria del giudeo, ma l'annientamento (Vernichtung) della razza ebraica in Europa!»
audio
QUELLO CHE HA DETTO MARTIN LUTERO
«A Gerusalemme, sotto Davide e Salomone, essi [gli ebrei] non avrebbero potuto godere di giorni tanto felici nelle loro proprietà, come ora nelle nostre, che ogni giorno derubano e rapinano; e tuttavia si lamentano che noi li teniamo prigionieri! Ebbene sì: li abbiamo presi e li teniamo prigionieri, come io tengo prigioniero il mio calcolo, le mie ulcere, e tutte le altre malattie e malanni, dei quali devo prendermi cura, come un povero servo, con denaro e beni e con tutto ciò che posseggo. Oh, vorrei tanto che quelli fossero a Gerusalemme, con gli ebrei, e con chiunque altro volessero!
E visto che ora è certo che noi non li teniamo prigionieri, come mai, allora, questi nobili, grandi santi, ci sono tanto ostili? [...]
E invece, malgrado i loro assassini, maledizioni, ingiurie, menzogne, infamie, li lasciamo vivere liberi presso di noi; proteggiamo e difendiamo le loro sinagoghe, le loro case, le loro persone e i loro beni, e cosi li rendiamo pigri e sicuri, e li aiutiamo a succhiarci, tranquilli, il nostro denaro e i nostri beni, mentre - per di più - ci maledicono e ci sputano addosso, e chissà che alla fine non potranno sopraffarci, e per questo grande peccato ammazzarci tutti, prendersi tutti i nostri averi, come ogni giorno si augurano nelle loro preghiere e sperano. Dimmi tu, ora, se non hanno tutte le ragioni per essere ostili a noi, dannati goijm [non ebrei, ndr], per maledirci e cercare la nostra ultima, radicale ed eterna rovina!
Da tutto questo noi cristiani vediamo (perché gli ebrei non possono vedere) quale terribile ira di Dio si sia abbattuta su questo popolo e continui ad abbattersi su di esso senza sosta; quale fuoco e quale vampa bruci lì, e cosa ottengano quelli nel maledire Cristo e i suoi cristiani e nell'essere loro nemici. [...]
Cosa vogliamo fare ora noi cristiani con questo abietto, dannato popolo degli ebrei? Dal momento che essi vivono presso di noi, e conosciamo queste loro menzogne, ingiurie e maledizioni, noi non possiamo più tollerarli, per non essere partecipi di tutte le loro menzogne, maledizioni e ingiurie.5
Io voglio dare il mio sincero consiglio.
In primo luogo bisogna dare fuoco alle loro sinagoghe o scuole; e ciò che non vuole bruciare deve essere ricoperto di terra e sepolto, in modo che nessuno possa mai più vederne un sasso o un resto. [...]
Secondo: bisogna allo stesso modo distruggere e smantellare anche le loro case, perché essi vi praticano le stesse cose che fanno nelle loro sinagoghe. Perciò li si metta sotto una tettoia o una stalla, come gli zingari, perché sappiano che non sono signori del nostro Paese, come invece si vantano di essere, ma sono in esilio e prigionieri, come essi dicono incessantemente davanti a Dio strillando e lamentandosi di noi. [...]
Terzo: bisogna portare via a loro tutti i libri di preghiere e i testi talmudici, nei quali vengono insegnate siffatte idolatrie, menzogne, maledizioni e bestemmie. [...]
Quarto: bisogna proibire ai loro rabbini - pena la morte - di continuare a insegnare, perché essi hanno perduto il diritto di esercitare questo ufficio. [...]
Quinto: bisogna abolire completamente per gli ebrei il salvacondotto per le strade, perché essi non hanno niente da fare in campagna, visto che non sono né signori, né funzionari, né mercanti, o simili. [...]
Sesto: bisogna proibire loro l'usura, confiscare tutto ciò che possiedono in contante e i gioielli d'argento e d'oro, e tenerlo da parte in custodia. E il motivo è questo: tutto quello che hanno (come sopra si è detto), lo hanno rubato e rapinato a noi attraverso l'usura, perché, diversamente, non hanno altri mezzi di sostentamento. [...]
Settimo: a ebrei ed ebree giovani e forti, si diano in mano trebbia, ascia, zappa, vanga, conocchia, fuso, in modo che guadagnino il loro pane col sudore della fronte, come fu imposto ai figli di Adamo, al terzo capitolo della Genesi. Poiché non è giusto che essi vogliano far lavorare noi, maledetti goijm nel sudore della nostra fronte, e che essi, la santa gente, vogliano consumare pigre giornate dietro la stufa, a ingrassare e scorreggiare, vantandosi in questo modo blasfemo di essere signori dei cristiani, grazie al nostro sudore. A loro bisognerebbe invece scacciare l'osso marcio da furfanti dalla schiena!6
[...]
Insomma, cari principi e signori, che avete ebrei sotto di voi, se il mio consiglio non vi aggrada, allora trovatene uno migliore, cosicché voi e noi tutti, possiamo essere liberati dall'insopportabile, diabolico peso degli ebrei e non ci rendìamo colpevoIi davanti a Dio di essere complici di tutte le menzogne, bestemmie, calunnie, maledizioni, che i furiosi ebrei scagliano tanto liberamente e gratuitamente contro la persona del nostro Signore Gesù Cristo, della Sua cara madre, di tutti i cristiani, delle autorità e di noi stessi. Fate sì che non abbiano alcuna protezione né difesa, alcun salvacondotto, né vita comune con noi, e che il denaro e i beni, vostri e dei vostri sudditi, ottenuti attraverso l'usura, non servano loro a questo e non siano loro di alcuna utilità. Noi abbiamo comunque già abbastanza peccati su di noi, ancora dai tempi del Papato, e ogni giorno ne aggiungiamo molti altri per la nostra ingratitudine e il nostro disprezzo della Sua parola e di tutta la Sua grazia, e dunque non è necessario che prendiamo su di noi anche di questi estranei e turpi vizi degli ebrei e che, per di più, diamo loro denaro e averi. Dobbiamo considerare che noi ora combattiamo ogni giorno contro i turchi, e per questo abbiamo bisogno di alleggerire i nostri peccati e condurre una vita migliore. lo voglio avere la coscienza pulita e libera dalla colpa, dal momento che vi ho sinceramente ammoniti e messi in guardia. [...]
E voi, miei cari signori e amici, che siete pastori e predicatori: io voglio avervi qui ricordato, del tutto sinceramente, il vostro compito cosicché anche voi mettiate in guardia - come sapete fare bene - i vostri parrocchiani dalla loro eterna rovina: che cioè si guardino dagli ebrei, e li evitino quando possono. [...]
Si lasci che l'autorità agisca nei loro confronti, come ho appena indicato. Ma che l'autorità lo faccia o no, quanto meno ciascuno si comporti secondo coscienza, e si faccia una tale idea o immagine di un ebreo.»7
Il libello di Lutero contro gli ebrei, Degli ebrei e delle loro menzogne, da cui sono tratte queste citazioni, naturalmente è ben noto agli storici, ma non al grande pubblico. Qualche cristiano poco informato, una volta venuto a conoscenza di simili scritti potrebbe rimanere scandalizzato e chiedersi come mai non siano stati sufficientemente divulgati e adeguatamente discussi dagli storici protestanti. La domanda è pertinente e la risposta potrebbe essere molto semplice: perché l'antisemitismo palese e sanguigno di Lutero è sostanzialmente condiviso, anche se in forma dissimulata e teologicamente fredda, da molti cristiani, teologi e non. Anche il direttore di Zeitspiegel, persona di una certa cultura, conosceva e aveva letto il libello di Lutero, ma non ne era rimasto scandalizzato. Anzi, gli sembrò di riconoscere nelle parole veementi e appassionate del suo ammirato Führer la sanguigna focosità del Riformatore.
Qualche anno fa è stata tradotta in italiano una poderosa opera di un profondo studioso della Riforma protestante8. Nell'ultima pagina di copertina si dice tra l'altro:
«Lutero non ha inteso insegnare dottrine nuove ma - come Giosuè - ha guidato il popolo di Dio alla scoperta del nuovo mondo della teologia biblica, dopo averlo liberato dalla schiavitù della scolastica. E' un teologo troppo grande per poter essere rinchiuso nei limiti confessionali; in realtà egli appartiene a tutta l'ecumene cristiana: egli addita Cristo e l'Evangelo.»
Nel libro dunque Lutero viene presentato come qualcuno che "addita Cristo e l'Evangelo", e poiché nella Bibbia sta scritto che l'Evangelo è "potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco" (Romani 1.16), da un libro di oltre 400 pagine sulla figura di questo personaggio ci si sarebbe aspettati che l'autore avvertisse l'obbligo di affrontare con impegno lo scandalo della presentazione di un Evangelo che invece di provocare "gelosia" (Romani 11.14) negli ebrei al fine di attirarli alla salvezza, provoca in loro un senso di disgusto che li respinge. L'autore invece sbriga la cosa con una mezza paginetta che può essere riportata per intero:
«In questo stesso periodo si evidenzia anche un'altra ombra nel pensiero di Lutero: le sue polemiche contro gli ebrei. Lutero viveva in una società fortemente antisemita, periodicamente agitata da ondate d'odio antiebraico e da spettacolari cacciate di ebrei con distruzioni di sinagoghe ecc.; egli non riuscì mai a liberarsi completamente dai pregiudizi antiebraici correnti al suo tempo. Aveva sperato che, all'ascolto del vero Evangelo, si sarebbero convertiti; fu quindi molto deluso dalla loro «durezza di cuore». Gli venne riferito che, in certe zone, particolarmente in Moravia, gli ebrei stavano tramando per attirare i cristiani dall'Evangelo al giudaismo, e che avrebbero pronunciato sanguinosi insulti e bestemmie contro Cristo. Quest'ultima accusa sconvolse profondamente Lutero: il mondo intero avrebbe potuto dire tutto quel che voleva contro di lui senza riuscire a provocare una sua reazione, ma attaccare la sua teologia, criticare l'Evangelo o denigrare il suo Signore e Maestro Gesù Cristo, significava provocar tutte le invettive della sua fierissima penna. Si lasciò così trascinare a fare alcune osservazioni spiacevoli sugli ebrei, che egli vedeva sempre implicati nell'usura, e dichiarò esplicitamente che, se non avessero compiuto un onesto e duro lavoro quotidiano come qualsiasi altro tedesco, sarebbero stati cacciati dal paese.
È vero che l'attacco di Lutero fu essenzialmente teologico - per lui l'«ebreo» era innanzitutto un concetto teologico (il difensore ad oltranza della «Legge») più che razziale - ma su questo punto non è certo esente da critiche pienamente giustificate. Nel suo libro sugli ebrei e le loro menzogne si impegnò in particolare a dimostrare la follia della superbia razziale e religiosa ebraica e l'assurdità della loro attesa messianica.»9
Tutto qui. L'antisemitismo di Lutero sarebbe dunque poco più che un antiestetico neo, una nota leggermente stonata in una sublime sinfonia. Ma forse per l'autore non si tratta neppure di antisemitismo, perché per Lutero l'ebreo era innanzitutto un "concetto teologico". Un concetto teologico? Riportiamo allora un'altra frase del libello luterano:
«
questa melma torbida, questa rancida feccia, questa schiuma secca, questo fondo ammuffito, questa limacciosa palude dell'ebraismo, dovrebbe meritare, in virtù della sua penitenza e della sua giustizia, il regno del mondo intero, cioè il Messia e il compimento delle profezie, ora che non hanno niente delle suddette cose, e non sono altro che la putrida, maleodorante, abietta feccia della stirpe dei loro padri?»10
Non sembra dunque che l'unico aspetto degli ebrei colpito sia quello teologico.
La teologia comunque c'entra, perché Lutero nel suo discorso fa intervenire anche il Diavolo:
«Perciò sappi, caro cristiano, e non avere dubbi a riguardo, che, subito dopo il diavolo, tu non hai nemico più acre, più velenoso, più acceso, di un vero ebreo, il quale voglia seriamente essere un ebreo. Tra loro ci possono forse essere anche quelli che credono in ciò in cui crede una mucca, o un'oca, tuttavia la stirpe e la circoncisione gravano su tutti loro. Perciò nelle storie si dà spesso a loro la colpa, di aver avvelenato i pozzi, di aver rapito e seviziato bambini [
]. Essi negano decisamente. Però - che sia vero o no - io so bene che, se potessero realmente farlo, di nascosto o apertamente, a loro non ne mancherebbe la completa, piena e pronta volontà"»11
Con questa frase Lutero si assume la tremenda responsabilità di avallare con la sua autorità le più maligne dicerie popolari sulle presunte atrocità commesse dai giudei, e lo fa nel modo più ambiguo e nocivo che ci possa essere: non si interessa della veridicità delle voci che riportano quelle efferatezze, ma afferma apoditticamente che se gli ebrei potessero, certamente le commetterebbero. Un atteggiamento simile tenne secoli dopo anche Adolf Hitler, che davanti al falso storico "I Protocolli dei Savi anziani di Sion", secondo cui gli ebrei complottano per arrivare a dominare il mondo, sostenne appunto che non era importante accertare se i fatti riportati fossero veri, perché certamente erano verosimili, cioè era certo il fatto che gli ebrei avevano quelle intenzioni e tramavano per metterle in pratica.
«Tutta l'esistenza di questo popolo poggia su una continua menzogna, come appare nei famosi Protocolli dei Savi anziani di Sion. Essi si fondano su una falsificazione, lamenta piagnucolando la "Frankfurter Allgemeine", e in questo sta la miglior prova che sono veri. Ciò che molti ebrei vorrebbero inconsciamente fare, qui è consapevolmente dichiarato. Ed è quello che conta. Non importa invece sapere da quale cranio giudaico siano uscite tali rivelazioni; è essenziale però il fatto che essi rivelino con orrenda sicurezza la natura e l'attività del popolo ebraico, e li espongano nei loro rapporti interni e nei loro scopi finali.»12
A ragione quindi Hitler avrebbe potuto dire che lui aveva imparato da Lutero, l'ammirato eroe religioso della nazione germanica che aveva saputo mettere in guardia i suoi connazionali dagli ebrei con parole come queste:
«Certo, se potessero fare a noi ciò che noi possiamo fare a loro, non rimarremmo in vita neanche un'ora. Infatti, pur non potendolo fare apertamente, essi rimangono nei loro cuori i nostri quotidiani assassini e sanguinari nemici. Lo provano le loro preghiere e maledizioni e le tante storie di bambini uccisi da loro, e di malefatte di ogni genere da loro commesse e le tante storie di bambini uccisi, per le quali spesso furono bruciati e cacciati. Perciò io sono fermamente convinto che in segreto essi dicano e facciano cose ben peggiori di quelle che le storie e altri scritti attribuiscono loro, e che però facciano affidamento sul loro diniego e sul loro denaro. [...] Solo le maledizioni possono convincerli, cosicché bisogna credere a tutte le cose cattive che si scrivono sugli ebrei: essi fanno sicuramente di più e di peggio di quanto noi non sappiamo e non veniamo a sapere!»13
Qualunque malvagità si dica sugli ebrei deve dunque essere creduta, perché in ogni caso loro sono certamente peggiori di quel che si dice. Questo è l'insegnamento luterano, il quale trova il suo culmine in queste parole:
«Noi non accoltelliamo i loro bambini, non avveleniamo le loro acque, non siamo assetati del loro sangue, perché dunque, ci attiriamo una tanto atroce ira, invidia e odio, da parte di questi grandi e santi figli di Dio? Non c'è altra spiegazione, se non ciò che abbiamo detto prima citando Mosè: cioè che Dio li ha colpiti con la follia, la cecità, il delirio del cuore. E così anche noi siamo colpevoli: per non aver vendicato il sangue innocente del nostro Signore e dei cristiani, che essi hanno versato per trecento anni dopo la distruzione di Gerusalemme, e il sangue dei bambini versato fino a ora (come appare ancora dai loro occhi e dalla loro pelle). Siamo colpevoli di non averli uccisi.»14
Ci penserà Hitler, quattrocento anni dopo, a tentare di rimediare a questa "colpa" dei cristiani con la costruzione delle camere a gas. Non c'è da sorprendersi se i più feroci antisemiti del regime nazista abbiano considerato Lutero uno dei più grandi tedeschi della storia mondiale.
Ma peggiore ancora dell'ammirazione degli antisemiti per Lutero è il tentativo di certi studiosi cristiani di attenuare il suo antisemitismo proponendone una contestualizzazione storica e teologica:
«Come la storiografia più recente ha sottolineato, l'antigiudaismo di Lutero deve sempre essere collocato nel contesto storico e culturale del XVI secolo e in una prospettiva che è, e rimane, essenzialmente teologica anche quando le conseguenze delle posizioni del riformatore assumono una valenza più propriamente politica, come nel caso di questa terza parte del trattato. Da qui la necessità di leggere l'elenco delle durissime misure che Lutero suggerisce ai governanti e ai pastori, sempre in relazione alle parti del trattato nelle quali egli espone le proprie posizioni su basi teologico-scritturali.»15
Si pensa evidentemente che attribuendo il truculento linguaggio antisemita di Lutero alla sua impostazione teologica se ne attenui la gravità. E' vero il contrario: il fatto di essere un antisemitismo teologico ne accentua la gravità perché introduce il bacillo dell'odio antiebraico nella spiritualità cristiana legittimandolo con argomenti dottrinali. E se i suoi ammiratori non se ne accorgono molto probabilmente è perché anche loro sono infettati senza accorgersene dallo stesso bacillo.
Gli ebrei invece se ne accorgono, anche e soprattutto quelli che arrivano alla fede in Gesù come Messia d'Israele e Figlio di Dio. Un periodico che da alcuni anni viene pubblicato in Germania da "ebrei messianici", ha affrontato sulle sue pagine anche il tema di Lutero in un articolo che ha come titolo "Teologo dell'Olocausto". Di seguito alcuni estratti.
«Lutero odiava gli ebrei della Bibbia come gli ebrei del suo tempo. La sua teologia ha legittimato e addirittura provocato l'Olocausto. "Teologo dell'Olocausto" è una qualifica che Lutero si è assolutamente meritata.
Nell'ultima parte dell'undicesimo capitolo della lettera ai Romani Paolo afferma che la cecità di una parte di Israele per la buona notizia è soltanto temporanea. E' un mezzo per aprire la porta della salvezza anche ai gentili. Dio porrà una fine a questa cecità, perché "Per quanto concerne il vangelo, essi sono nemici per causa vostra; ma per quanto concerne l'elezione, sono amati a causa dei loro padri" (v.28). Lutero commenta dicendo che la parola "nemici" si deve intendere qui in modo passivo, nel senso cioè che essi meritano di essere odiati. Dio li disprezza, e loro vengono odiati anche dagli apostoli e da tutti quelli che appartengono a Dio. »
Segue nello stesso articolo un giudizio complessivo molto duro su Lutero e la sua teologia:
«Se dagli scritti di Lutero si elimina la deformazione fatta del testo biblico, la sua ripugnanza e il suo odio per gli ebrei, la sua teologia crolla. La teologia di Lutero è indissolubilmente intrecciata con il suo antisemitismo. Alcuni ammiratori di Lutero minimizzano il suo antisemitismo come un errore su cui si può chiudere un occhio. Stimano che il suo ruolo nella Riforma e le sue prestazioni teologiche siano più importanti dei suoi peccati.»
Anche se si può non condividere una stroncatura così radicale del riformatore tedesco, resta il fatto che il suo antisemitismo può essere minimizzato soltanto da chi in sostanza lo condivide, anche se prende le distanze dalle sue espressioni più pesanti e volgari.
Tre volte, in quella lettera ai Romani il cui commentario ha contribuito alla fama di Lutero, l'ebreo Paolo fa riferimento alla superbia rivolgendosi al generico cristiano non ebreo: "... non insuperbirti contro i rami; ma, se t'insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te... non insuperbirti, ma temi" (Romani 11:18-20). Ed invece è proprio questo il peccato in cui Lutero è caduto, e con lui cadono anche oggi molti cristiani gentili che rifiutano di considerarsi antisemiti: la superbia di fronte agli ebrei. Una superbia che si manifesta anche nella sussiegosa condiscendenza con cui vengono osservati. "Non insuperbirti, ma temi", ammonisce la Scrittura. Temi, perché la superbia è un atteggiamento diabolico e non una semplice debolezza umana. E il Diavolo, quando si vede imitato nella sua originaria superbia entra in azione e soffia sul fuoco. Soffia fino ad ottenere risultati che all'inizio non erano previsti e forse non si volevano, ma che poi avvengono. E quando sono avvenuti appaiono mostruosi e inspiegabili.
Qualcosa del genere deve essere avvenuto con Lutero. Il collegamento Lutero-Hitler non può quindi essere lasciato cadere con un'alzata di spalle: soprattutto gli evangelici, tra cui anche il curatore di queste note si pone, devono farne oggetto di riflessione e umiliazione. Come mostra in modo agghiacciante l'esempio del direttore di "Zeitspiegel", la superbia di cui parla l'apostolo Paolo è quasi sempre irriconoscibile. E l'antisemitismo, soprattutto fra coloro che dicendosi cristiani vorrebbero sentirsi ed essere riconosciuti come "buoni", assume forme insidiose e nomi sempre diversi. Ma il nome biblico più adatto è sempre lo stesso: superbia.
NOTE
- Joachim Fest, Hitler. Una biografia, Garzanti, 2005, pp. 533-538.
- Zeitspiegel n. 44, 29 ottobre 1933.
- Zeitspiegel n. 48, 29 novembre 1933.
- A cura di Giorgio Galli , Il Mein Kampf di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista, Kaos, 2002, pp. 277-278.
- Martin Lutero, Degli ebrei e delle loro menzogne, Einaudi, 2000, pp.185-187.
- Martin Lutero, ivi, pp.188-195.
- Martin Lutero, ivi, pp.197-199.
- James Atkinson, Lutero, la parola scatenata, Claudiana, 1983.
- James Atkinson, ivi, p.385.
- Martin Lutero, ivi, p.149.
- Martin Lutero, ivi, p.115.
- A cura di Giorgio Galli, Il Mein Kampf di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista, p. 279.
- Martin Lutero, ivi, p.216.
- Martin Lutero, ivi, p.186.
- Martin Lutero, ivi, p.189 (nota del curatore del libro).
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Un moderato, equilibrato, "evangelico" antisemitismo
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Un Messia che delude
di Marcello Cicchese
A ciascuno dei dodici apostoli Gesù aveva detto: “Seguimi”. Non era una proposta, era un ordine. Perché i dodici hanno ubbidito senza fiatare, anzi molto volentieri? Perché erano convinti che Gesù era il Messia, il Re d’Israele: dunque aveva autorità, e per loro era un onore essere stati scelti per seguirlo e servirlo. Da Lui evidentemente si aspettavano quello che era stato promesso dai profeti: l’instaurazione del regno messianico. Gesù stesso del resto ne aveva dato un solenne annuncio fin dall’inizio del suo ministero:
“Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»” (Matteo 4:17).
Le cose però cominciarono ben presto a mettersi male: gli scribi facevano obiezioni teologiche, i farisei erano infastiditi per la perdita di autorità che subivano presso il popolo, i sadducei temevano che un possibile sollevamento del popolo sull’onda dell’entusiasmo messianico provocasse una violenta reazione romana. Giuda a un certo punto capì che le cose andavano a finire male, e anche Tommaso forse temeva che qualcosa di brutto si stesse preparando perché vedendo Gesù che si avviava deciso verso Gerusalemme disse agli altri: “Andiamo a morire con lui” (Giovanni 11:16). A parte questi due, tutti gli altri erano convinti che Gesù avrebbe lasciato agire gli avversari fino all’ultimo momento per fare in modo che tutti si scoprissero e venisse fuori chi aveva veramente creduto in lui fino alla fine e chi no. Pietro dunque era sincero quando disse convinto: «Quand’anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò» (Matteo 26:35). Non era una sbruffonata: poco prima aveva visto Gesù risuscitare Lazzaro. Quindi - avrà pensato - se Gesù vuole vedere chi è disposto a farsi uccidere per lui, io sono pronto. E quando nel giardino di Getsemani vide avvicinarsi una folla di centinaia di persone armate di spade e bastoni avrà pensato: questo è il momento. Erano lì per pregare, ma lui si era portato dietro una spada. Chiese a Gesù se dovevano colpire, ma come al solito non aspettò nemmeno la risposta e mirò alla testa di uno che stava davanti a lui. In seguito si scoprì che era il servo del Sommo Sacerdote. Gli staccò un orecchio, ma solo perché quell’altro fece in tempo a scansarsi. E’ certo che Pietro non voleva colpire di fino: lui voleva spaccare la testa. E davanti alla forza preponderante di una folla armata e minacciosa, questo significava per lui morte sicura. Aveva mantenuto la sua promessa: aveva dimostrato di essere pronto anche a morire per Gesù. Aveva compiuto un atto di coraggio e di fede.
Ma qui arriva la sorpresa: Gesù non lo loda. Ma neppure lo sgrida: sapeva fin dall’inizio che sarebbe andata a finire così. Semplicemente rifiuta l’atto di fede di Pietro. Gli dice: «Rimetti la spada nel fodero» (Giovanni 18:11). E aggiunge: «Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d’angeli?» (Matteo 26:53). Appunto, proprio questo probabilmente si aspettava Pietro. Ricordava bene l’esperienza dei cinquemila nel deserto che avevano fame e non si sapeva come fare. Gesù aveva chiesto che gli portassero i pani e i pesci che avevano a disposizione e li aveva miracolosamente moltiplicati. Anche adesso - qualcuno di loro avrà pensato - occorre che qualcuno metta a disposizione quel poco che ha. Questa volta i discepoli non aspettarono che Gesù facesse la richiesta: ormai avevano capito la lezione e si fecero avanti per primi: “Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade!»” (Luca 22:38), e aspettarono che Gesù moltiplicasse le spade come aveva fatto con i pani. Ma se Gesù moltiplica le spade e le fa diventare migliaia, poi chi le brandisce? Con il riferimento alla legione di angeli probabilmente Gesù aveva toccato nel vivo il pensiero di Pietro, proprio quello su cui aveva fondato la sua fede. Non è detto che Pietro si aspettasse precisamente la venuta della legione di angeli, ma per lui poteva essere sufficiente appoggiarsi sul fatto che Gesù se vuole può fare così. Gesù ha confermato questo pensiero; in sostanza ha detto: se volessi, potrei fare così. Ma ha aggiunto: non lo voglio e non lo faccio. A questo punto ai discepoli sono venuti a mancare tutti i puntelli della loro fede e sono scappati. E’ importante sottolinearlo: non sono le armi e i bastoni che hanno fatto scappare i discepoli, ma le parole di Gesù.
Dopo aver annullato, con il riferimento alla legione di angeli, le aspettative dei discepoli, Gesù dà la vera spiegazione del suo comportamento davanti alla folla minacciosa: «Non berrò forse il calice che il Padre mi ha dato?» (Giovanni 18:11). Quello che Gesù vuole è fare la volontà del Padre, perché la volontà di Dio compiuta sulla terra in Israele è la salvezza di Israele e di tutto il mondo.
Ma fino all’ultimo la popolazione di Gerusalemme è rimasta col fiato sospeso nella speranza, o nel timore, che qualche fatto prodigioso avvenisse a conferma della messianità di Gesù. Perfino quando sulla croce gridò: «Elì, Elì, lamà sabactàni», alcuni dissero: «Lascia, vediamo se Elia viene a salvarlo» (Matteo 27:49).
Ma Gesù non scese giù di croce e la delusione dei discepoli fu grande. Il loro cupo stato d’animo è ben espresso dall’episodio dei discepoli sulla via di Emmaus:
“Due di loro se ne andavano in quello stesso giorno a un villaggio di nome Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi; e parlavano tra di loro di tutte le cose che erano accadute. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù stesso si avvicinò e cominciò a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti a tal punto che non lo riconoscevano. Egli domandò loro: «Di che discorrete fra di voi lungo il cammino?» Ed essi si fermarono tutti tristi. Uno dei due, che si chiamava Cleopa, gli rispose: «Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?» Egli disse loro: «Quali?» Essi gli risposero: «Il fatto di Gesù Nazareno, che era un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e i nostri magistrati lo hanno fatto condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose. E’ vero che certe donne tra di noi ci hanno fatto stupire; andate la mattina di buon’ora al sepolcro, non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate dicendo di aver avuto anche una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato tutto come avevano detto le donne; ma lui non lo hanno visto»” (Luca 24:13-24).
“Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele”, sospirano sconfortati i due discepoli. Viene in mente il rimprovero rivolto da Mosè a Dio: “... tu non hai affatto liberato il tuo popolo” (Esodo 5:23) . E’ illuminante la risposta di Gesù, che i discepoli considerano ancora come uno sconosciuto forestiero:
“Allora Gesù disse loro: «O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! Non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?» E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano” (Luca 24:25-27)
Gesù non rimprovera il materialismo dei discepoli, non dice che hanno sbagliato ad aspettarsi un regno politico terreno perché il suo regno è puramente spirituale; non li avverte dicendo che ormai il vecchio Israele sarà abbandonato da Dio e quindi adesso loro entreranno a far parte di un nuovo Israele che si chiamerà “Chiesa”. Gesù li tratta male, in un certo senso li insulta anche, ma non per contrapporre al loro materialismo terrestre il suo spiritualismo celeste.
• QUELLO CHE I CONTEMPORANEI DI GESÙ NON AVEVANO CAPITO
Ancora oggi molti sostengono che gli ebrei hanno rifiutato Gesù perché si aspettavano un regno politico terrestre, e non avevano capito che il regno di Dio è invece di natura puramente spirituale. C’è un brano famoso del Vangelo di Luca chiamato “cantico di Zaccaria”:
“Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetizzò, dicendo:«Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo, e ci ha suscitato un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo, come aveva promesso da tempo per bocca dei suoi profeti; uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto, del giuramento che fece ad Abraamo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita»” (Luca 1:67-75).
Un esegeta protestante dell’inizio del secolo scorso commenta così queste parole:
“Le vedute di Zaccaria intorno a questo avere «Iddio visitato e riscattato il suo popolo» dovevano essere molto indistinte e imperfette. E’ probabile che partecipasse alle idee prevalenti tra i suoi compatrioti intorno al regno terreno del Messia, e alla liberazione dai loro nemici con la spada e con la lancia; ma nel mentre le parole messegli in bocca dallo Spirito di Dio, avrebbero potuto naturalmente risvegliare tali immagini terrene nella mente d’un Giudeo dominato da siffatti pregiudizi, erano egualmente adatte ad esprimere i concetti più spirituali della redenzione che è in Cristo Gesù. Tale è il senso che noi dobbiamo dare al linguaggio di Zaccaria, sebbene possa darsi che egli non comprendesse appieno il significato delle parole che gli dettava lo Spirito Santo.“
E per quanto riguarda i nemici di Israele, il commentatore dà questa spiegazione:
“Che Zaccaria avesse, come pensano alcuni, o non avesse, in vista nemici temporali, quali erano stati in passato i Macedoni sotto Antioco, ed erano ai suoi giorni i Romani, è certo che lo Spirito d’ispirazione ci insegna in questi versetti che la principale benedizione contemplata nel patto con Abraamo non era il potere o lo splendore temporale dei suoi discendenti secondo la carne, ma, come si è detto, la liberazione della sua progenie da tutti i nemici spirituali; la salvazione dal peccato e dalla sua potenza.
Questa contrapposizione tra supposto materialismo giudaico e cosiddetto spiritualismo cristiano, oltre ad essere una falsificazione del messaggio evangelico che non cessa di essere tale per il fatto di essere molto diffusa, costituisce il presupposto ideologico di un latente antisemitismo tanto più pericoloso quanto più inconsapevole. Molto facilmente un certo tipo di spiritualismo cristiano si allea con qualche forma di idealismo pagano e si pone in lotta con il cosiddetto materialismo ebraico. Nel suo Mein Kampf Hitler si esprime così riguardo agli ebrei:
“No, l’ebreo non possiede nessuna forza creativa, poiché egli è privo di quell’idealismo senza il quale non è possibile uno sviluppo dell’umanità verso l’alto […] per la sua natura fondamentale l’ebreo non poteva trarre istituzioni religiose, perché gli manca completamente ogni forma di idealismo, e perciò ogni fede nell’aldilà”.
Tornando all’episodio dei discepoli sulla via di Emmaus, si può notare che Gesù non li accusa di essere poco spirituali, ma di non aver capito quello che i profeti di Israele hanno detto: cioè che il Messia doveva soffrire e così entrare nella sua gloria. Gesù non comunica nulla di nuovo ai discepoli: il suo discorso si muove tutto all’interno del mondo ebraico. Uno sconosciuto ebreo, come fino a quel momento Gesù era considerato dai discepoli, rimprovera ad altri ebrei di non aver capito che il Messia prima di entrare nella sua gloria doveva soffrire, morire e risuscitare. E cerca di convincerli di tutto questo spiegando loro le Scritture ebraiche, cominciando da Mosè.
Non si tratta dunque di un contrasto tra Israele e Chiesa, o tra materialismo giudaico e idealismo ariano, ma di un contrasto tutto interno al messaggio ebraico veterotestamentario. Ad esso si collega una fondamentale domanda: il Messia promesso a Israele si presenterà come un mansueto agnello che si lascia immolare, o come un potente leone che sbaraglia i nemici del suo popolo?
La difficoltà di armonizzare, nelle profezie bibliche, la figura di un Messia sofferente con quella di un Messia trionfante è ben nota nella tradizione rabbinica. Un’interpretazione molto diffusa nel passato (non è noto a chi scrive quanto lo sia ancora nel presente) è che si tratti di due personaggi: il Maschiach Ben Yoseph, Messia sofferente, figlio di Giuseppe, e il Maschiach Ben David, Messia trionfante, figlio di Davide. Il Nuovo Testamento sostiene invece che queste due figure si identificano in un’unica persona che compare sulla scena in due momenti storici diversi.
(da "Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo")
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Trump vuole che Israele sconfigga Hamas, Hezbollah e Iran entro il 20 gennaio
Il presidente eletto degli Stati Uniti crede che questo sia l'inizio di un nuovo Medio Oriente, spiega a Israel Heute il consigliere evangelico Mike Evans.
di Itamar Eichner
Donald Trump vuole che Israele faccia il suo lavoro da qui al 20 gennaio, che elimini i due proxy dell'Iran in Libano e a Gaza e che ponga fine alla guerra. Penso anche che voglia che Israele si occupi dell'Iran entro il 20 gennaio. Israele non può attaccare gli impianti nucleari iraniani perché sono nascosti nel sottosuolo, quindi dovrebbe colpire gli impianti petroliferi iraniani e mandare così l'Iran in bancarotta. Se Israele attaccasse le raffinerie iraniane su un'unica isola, manderebbe in bancarotta l'Iran”.
È quanto ha dichiarato il pastore evangelico americano Mike Evans in un'intervista a Israel Heute. Evans fa parte di un piccolo gruppo di importanti leader cristiani pro-israeliani che hanno consigliato Trump durante la sua prima presidenza.
Evans ha sottolineato che la vittoria elettorale di Trump è un dono di Dio a Israele: “Trump ha una chiarezza morale. Vede le cose in modo semplice. Il bene contro il male. Per lui, Israele è il bene e i suoi nemici sono il male. Sotto Biden era il contrario. Vedevano i nemici di Israele come vittime e Israele come aggressore. Hanno continuato a spingere per ottenere concessioni e compromessi. Trump non tollererà nulla di tutto ciò”.
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Israel Today: I leader evangelici pro-Israele avranno meno influenza su Trump nel suo secondo (e ultimo) mandato da presidente rispetto al primo? Evans: Non credo che Trump abbandonerà gli evangelici. Sa che lo abbiamo rimesso in carica.
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Cosa può aspettarsi Israele da Trump? Trump ha detto di non voler iniziare una guerra. Non vuole essere un presidente in cui scoppiano guerre durante il suo mandato, vuole concentrarsi sulle questioni interne. Quindi la domanda è cosa si aspetta da Israele da qui al 20 gennaio. Vuole che Israele porti a termine il lavoro, che ponga fine alla guerra con i due proxy dell'Iran, che li elimini e ponga fine alla guerra.
Credo anche che voglia che Israele si occupi della guerra più ampia con l'Iran prima del 20 gennaio. Si aspetta che ciò avvenga nello stesso modo in cui ha fatto lui, attraverso le sanzioni. Israele non può attaccare le strutture nucleari iraniane perché sono sotterranee, ma può mandare in bancarotta gli ayatollah attaccando gli impianti petroliferi, che si trovano su un'isola. L'Iran precipiterà in una crisi economica. Se il petrolio viene colpito, sono finiti. Oltre l'80% degli iraniani odia gli ayatollah.
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Perché tutto questo deve accadere prima dell'insediamento di Trump? Dopo si creerebbero onde d'urto economiche che si ripercuoterebbero sull'economia globale: non si può fare una cosa del genere con Trump. Si può fare adesso. La finestra è aperta. Credo che Trump voglia che Israele lo faccia prima del 20 gennaio. Poi il piano di Trump sarà quello di aiutare a costruire, costruire, costruire.
Credo che l'anno prossimo porterà la pace tra Israele e l'Arabia Saudita e l'intero mondo sunnita. Sarà l'epoca d'oro degli accordi di Abramo. Cambierà tutto perché se l'Arabia Saudita farà la pace, porterà a una coalizione araba per risolvere il dilemma di Gaza. Il problema di Gaza non può essere risolto con una soluzione a due Stati, ma solo con un piano graduale - a partire dal prosciugamento della palude del terrore per eliminare gli assassini e rieducare la gente all'odio per gli ebrei. Ci vorrà tempo - Trump è uno che fa. Jared Kushner si è preparato bene e il futuro potrebbe essere luminoso per Israele se coglierà l'opportunità da qui al 20 gennaio.
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Biden impedirà a Israele di farlo nei suoi ultimi mesi? Joe Biden ha già tentato di tutto e i media americani hanno dato l'impressione che le vittime siano Hamas e l'aggressore Israele. Eppure Israele e le sue magnifiche forze di difesa e i suoi soldati, che hanno sacrificato tanto, hanno agito con coraggio e fatto la cosa giusta nonostante il trauma.
Penso che Biden sia un'anatra zoppa. Era un'anatra zoppa quando ha consegnato la presidenza a Kamala Harris, che nessuno ha votato - non aveva alcuna possibilità di vincere. Biden non vuole essere ricordato come qualcuno che ha cercato di danneggiare lo Stato di Israele.
Nessuno verserà una lacrima se l'Iran andrà in bancarotta. Nessuno piangerà e non ci sarà nessuna guerra mondiale. Credo che se Israele manderà in bancarotta l'Iran, il popolo rovescerà il regime e il gioco sarà fatto. A quel punto i proxy che hanno creato saranno finiti. Sarà scacco matto. Questo darà a Trump l'opportunità di aiutare Israele a costruire una straordinaria coalizione con gli Stati sunniti che non mostrano alcuna tolleranza per l'antisemitismo.
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Si teme che Trump pretenda di più da Israele nel suo secondo mandato. Non avete mai avuto un confronto con Trump. Era dalla vostra parte. Nessun presidente ha fatto tanto per Israele quanto Trump, e sarà così anche questa volta. Trump non verserà una lacrima quando si tratterà di eliminare i terroristi che vogliono uccidere gli ebrei.
C'è una persona che può certamente influenzare la presidenza di Trump ed è Bibi Netanyahu. Per via della guerra. La guerra che Biden voleva terminare, e poiché Bibi non si sarebbe tirato indietro, i media americani hanno cercato di dipingere Israele come l'aggressore e Hamas come la vittima. Questo ha colpito duramente Harris. Bibi è rimasto fermo e ha agito con chiarezza morale, e Trump lo sa - Bibi è stato un grande alleato. Credo che Trump voglia che Israele sia tutto pronto entro il 20 gennaio, in modo da poter essere il costruttore di Israele. Aiuterà Israele in modi sorprendenti e la prima cosa che farà sarà la pace con l'Arabia Saudita.
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Trump permetterà a Israele di annettere il cuore biblico di Giudea e Samaria? L'intera questione dell'annessione si basava su una soluzione a due Stati, e Trump non crede che una soluzione a due Stati sia possibile. Penso che Bibi sarà così felice che i sauditi faranno pace con Israele e le guerre cesseranno che non ci sarà bisogno di annessioni. Non credo che Trump farà pressione su Israele per questioni di territorio. Israele deve concentrarsi su Teheran. Terra in cambio di pace non è più un tema.
(Israel Heute, 9 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Caccia all’ebreo: prove di Intifada in Europa
Notte di aggressioni antisemite ad Amsterdam al termine di Ajax-Maccabi Tel Aviv. Tifosi israeliani bastonati, accoltellati e buttati nei canali, mentre la polizia chiude un occhio. Gerusalemme: «L'attacco dei gruppi islamici era premeditato».
di Stefano Piazza
Dopo aver seminato odio per più di un anno i propagandisti antisemiti europei ieri sera ad Amsterdam sono finalmente riusciti a portare la guerra contro gli israeliani nel Vecchio continente. Fino a oggi i pro Hamas si erano limitati a organizzare manifestazioni non autorizzate (spesso violente) e l'occupazione degli atenei, ma quanto accaduto in Olanda giovedì sera è il segnale che l'Intifada è arrivata nella città europee. E così è stato perché ad Amsterdam centinaia di tifosi della squadra di calcio del Maccabi Tel Aviv stati aggrediti e picchiati dopo la partita di Europa league del Maccabi Tel Aviv contro l'Ajax (che oltretutto è la squadra degli ebrei olandesi). Non si è quindi trattato di una rissa tra ultras ma di una vera aggressione preparata in ogni minimo dettaglio con diversi tassisti che hanno collaborato comunicando ai terroristi dove erano alloggiati gli israeliani. Mercoledì i supporter del Maccabi hanno levato alcune bandiere palestinesi appese alle finestre delle case e si sono scontrati con alcuni tassisti che li hanno insultati ed è stato il preludio di quello che è poi successo il giorno dopo. Gli aggressori - tutti arabi - con i volti coperti, si sono suddivisi in gruppi, nascondendosi nei vicoli, agli ingressi delle stazioni e nei pressi degli hotel che ospitavano gli israeliani. Sapevano dove aspettarli e li hanno attaccati, inseguiti, armati di coltelli e bastoni per oltre un'ora, poi li hanno inseguiti con le auto, arrivando persino a investirli senza alcun intervento da parte delle forze dell'ordine che non hanno scortato i tifosi israeliani verso gli hotel. I video che circolano sul Web e sui social mostrano i tifosi violentemente aggrediti, picchiati e investiti. Alcuni tifosi israeliani sono stati costretti a dire «Palestina libera» prima di essere lasciati andare, mentre altri tifosi si sono barricati nei negozi e in altri luoghi della città. Un tifoso del Maccabi è stato obbligato a cantare «Free Palestine» una volta gettato in un canale. Il ministero degli Esteri israeliano ha dichiarato che almeno 20 tifosi sono rimasti feriti mentre è stata smentita la notizia che i terroristi avevano preso degli ostaggi, tanto che nel primo pomeriggio di ieri sono stati rintracciati tutti i tifosi del Maccabi. Un portavoce della polizia di Amsterdam ha dichiarato che 62 sospettati sono stati arrestati durante gli incidenti, ma non ha potuto confermare se le persone fermate siano tifosi di calcio. L'ufficio del premier israeliano ha dichiarato: «Il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato informato dei dettagli riguardanti il violentissimo incidente contro i cittadini israeliani ad Amsterdam, ha svolto una valutazione con il suo segretario militare e il ministro degli Affari esteri e sta ricevendo aggiornamenti regolari. Il premier ha ordinato che due aerei di soccorso vengano inviati immediatamente per assistere i nostri cittadini. Le immagini crude dell'assalto ai nostri cittadini ad Amsterdam non saranno ignorate». L'unità del portavoce delle Forze di difesa israeliane (Idf) ha dichiarato: «A seguito dei gravi e violenti incidenti contro gli israeliani ad Amsterdam, con la direzione del livello politico e in conformità con una valutazione della situazione, le Idf si stanno preparando a dispiegare immediatamente una missione di salvataggio con il coordinamento del governo olandese». Fin qui la cronaca della notte dell'odio antisemita arabo nel cuore dell'Europa, ma quanto accaduto lascia sgomenti anche per gli incredibili errori da parte delle autorità olandesi e dell'Uefa. Far giocare una partita come quella di ieri in una città ostile agli ebrei come Amsterdam, dove il 10% della popolazione è di origine araba, oltretutto in un momento come questo, senza prevedere straordinarie misure di sicurezza è dilettantismo puro anche perché gli israeliani avevano avvisato le autorità locali del pericolo. Altri aspetti non certo secondari sono quelli che ci dicono che da anni l'Olanda ha un problema enorme con il fondamentalismo islamico, tanto che l'allerta terrorismo è sempre ai massimi livelli. Inoltre, ad Amsterdam, così come in al tre città olandesi (e in Belgio), operano decine di gang criminali sotto il controllo della Macro Maffia (la mafia marocchina). Ma l'aspetto peggiore di tutta questa storia è l'atteggiamento di una parte degli appartenenti alle forze dell'ordine in Olanda che da mesi si sta rifiutando di proteggere eventi o oggetti ebraici, citando «dilemmi etico morali». Oggi, gran parte della forza di polizia di Amsterdam è composta da migranti di seconda generazione provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Ma il peggio è che un portavoce della polizia ha confermato che «ci può essere comprensione per coloro che sollevano obiezioni morali». Quindi se anche la polizia lascia passare il supporto pro Hamas che serpeggia all'interno dei suoi ranghi che ne sarà degli ebrei olandesi e domani di quelli europei? Geert Wilders, leader del Partito per la libertà che ha vinto le elezioni nei Paesi Bassi l'anno scorso e che è un fedele alleato di Israele, ha reagito a un video che mostra un tifoso del Maccabi circondato da diversi uomini: «Sembra un pogrom nelle strade di Amsterdam. Arrestate ed espellete la feccia multiculturale che ha attaccato i sostenitori del Maccabi Tel Aviv nelle nostre strade. Mi vergogno che questo possa accadere nei Paesi Bassi. Totalmente inaccettabile. Siamo diventati la Gaza d'Europa. Musulmani con bandiere palestinesi che danno la caccia agli ebrei, non lo accetterò mai. Le autorità saranno ritenute responsabili per l'incapacità di proteggere gli israeliani».
(La Verità, 9 novembre 2024)
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Soffia intenso il vento dell’antisemitismo in Europa
di Niram Ferretti
Secondo i dati forniti dal Consiglio delle Istituzioni ebraiche di Francia, il numero di incidenti di natura antisemita avvenuti nei tre mesi successivi al 7 ottobre sono stati equivalenti a quello complessivo di incidenti analoghi avvenuti nel corso dei tre anni precedenti. Si tratta solo di un indicatore tra i molti. Ma non solo in Francia, questi episodi si sono moltiplicati altrove, in Belgio, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Olanda, giusto per restare alla sola Europa.
L’episodio che si è verificato ieri sera ad Amsterdam, dove dopo la partita disputata tra la squadra di calcio israeliana del Maccabi Tel Aviv e quella olandese dell’Ajax, numerosi tifosi israeliani sono stati minacciati e aggrediti da apposite ronde islamiche che si erano già preparate giorni prima e, con la connivenza dei taxisti musulmani della città, erano state informate su dove erano ospitati gli israeliani, in che zone si trovavano. E' il più grave episodio di caccia collettiva all’ebreo che si è verificato su suolo europeo dal dopoguerra ad oggi, il più grave fino ad ora.
La prima constatazione da fare è che gli aggressori sono tutti musulmani, la seconda constatazione è che nonostante da Israele fossero giunti avvisi e raccomandazioni per tutelare la sicurezza dei propri concittadini in trasferta, questo non è accaduto.
Queste due considerazioni ci portano ad altre due considerazioni conseguenti, la prima è che oggi la forma di antisemitismo più violenta e pericolosa, quella potenzialmente omicida, è di matrice islamica, cosa già nota e di cui l’episodio di Amsterdam fornisce solo una conferma, basti pensare alla sola Francia, dove gli ebrei vengono ancora uccisi in quanto ebrei e dove gli assassini di Ilan Halimi, Sarah Halimi, Mirelle Knoll, le vittime della strage di Tolosa, quelli dell’Hyper Kosher, sono tutti musulmani. La seconda è che in Europa il problema è non solo sottovalutato ma, per lungo tempo e ancora adesso, negato.
La seconda riguarda la sicurezza e la protezione degli ebrei in Europa e la determinazione di garantirle. Quello che è successo ad Amsterdam, dove, fortunatamente, le aggressioni subite non hanno provocato morti ci dice che non è più possibile esserne certi.
La costante propaganda anti-israeliana che si è attivata immediatamente a seguito del 7 ottobre e che in Europa gode di un consenso forte, è la benzina che continuamente viene gettata sul fuoco dell’antisemitismo, venendo alimentata anche da chi si trova ai vertici delle istituzioni europee, basti pensare a Joseph Borrell, l’Alto rappresentante per la politica estera della UE, il quale non mai ha perso una occasione per attaccare Israele dall’inizio della guerra a Gaza e immediatamente dopo quella cominciata in Libano.
L’ambivalenza dell’Europa relativamente alla guerra a Gaza, quando non la sua aperta ostilità, espressa plasticamente da paesi quali la Spagna, la Norvegia, l’Irlanda e la Slovenia, tutti uniti nel riconoscere l’inesistente Stato palestinese, ci dice ancora una volta che essere ebrei in Europa sta diventando sempre di più un fatto scomodo.
(L'informale, 8 novembre 2024)
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Amsterdam, pogrom 2.0: gli esercizi di memoria alla prova dei fatti
di Ariela Piattelli
Quando nelle piazze della nostra città, subito dopo il 7 ottobre, abbiamo iniziato ad ascoltare slogan come “Intifada pure qua”, “Dal fiume al mare” ed altri ancora, in diverse situazioni ci siamo interrogati su quali sarebbero state le ricadute di quelle minacce. Il tempo, tristemente, ha risposto a tutte le nostre domande, tranne a quella sull’angosciante coltre che incombe sulle prospettive future dell’ebraismo della diaspora, su tutto l’Occidente e sui dilemmi che in queste ore gli ebrei tornano ad affrontare. Nessuno sa cosa accadrà domani, se non chi riesce a progettare e a tessere le trame dell’odio antisemita, senza essere fermato, aggredendo ebrei nelle strade, con armi, coltelli, calci e insulti proprio come avveniva nelle città di questo continente durante le notti più buie del secolo scorso. Ma possiamo prendere atto di quello che gli eventi a cui assistiamo dal 7 ottobre esprimono oggi.
La globalizzazione dell’intifada si è manifestata in tutta la sua evidenza anche ad Amsterdam alle prime ore del mattino di venerdì, in un evento che nell’Europa del ventunesimo secolo non ha precedenti e che ha innegabilmente il cromosoma del pogrom. Orde di islamisti, cittadini di questa Europa, hanno aggredito gruppi di ebrei venuti da Israele per assistere ad una partita di calcio. Una violenza inaudita che ha visto esultare persino alcuni tassisti dei Paesi Bassi in un canale Telegram.
I leader del mondo civile hanno sempre denunciato gli assalti, gli attacchi, gli atti antisemiti: le istituzioni di tanti Paesi hanno risposto, anche prontamente, condannando con parole importanti questo rigurgito odioso di un male che non è mai sopito. Dichiarazioni che non lasciano mai spazio a fraintendimenti o margini di interpretazioni e che condannano in modo netto, “senza se e senza ma”, l’odio antisemita. Parole di fuoco, certo, ma pur sempre solo parole.
Anche stavolta sono arrivate le reazioni indignate per l’aggressione di Amsterdam, avvenuto, come in molti hanno ricordato, proprio alla vigilia dall’anniversario della Notte dei cristalli. Proprio in una città simbolo della memoria. Una memoria che è da sempre la foglia di fico di chi fa distinzioni tra antisemitismo e antisionismo, di chi dal 7 ottobre continua ad avvelenare l’opinione pubblica con le sue bugie ed accusa Israele di genocidio mentre ad ogni anniversario porta puntuale le corone sulle lapidi in ricordo delle vittime della Shoah. Come se bastasse arroccare le parole di condanna attorno ai simboli del ricordo per prendere le distanze dall’antisemitismo. È così che l’anima ipocrita dell’Occidente continua a voltarsi dall’altra parte e a volte si nasconde dietro a parole che forse non bastano più.
(Shalom, 8 novembre 2024)
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«... l’anima ipocrita dell’Occidente» si manifesta proprio in chi dice di ammirare Israele come baluardo della difesa dell'Occidente libero. E' il colore della "libertà occidentale" che si ammira, un primordiale istinto di sopravvivenza individuale e sociale che non ammette limiti, non Israele. Agli occidentali, cominciando da quelli più colti e continuando in qualche misura anche dentro Israele, l'esistenza di uno stato ebraico apparirà sempre di più come un fastidioso limite alla propria libertà. E aumenterà il numero di quelli che si chiedono chi riuscirà ad abbatterlo. M.C.
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Amsterdam: aggressioni programmate contro i tifosi del Maccabi Tel Aviv
Oltre 10 feriti, 7 dispersi
di Nathan Greppi
In occasione della partita di calcio tra la squadra olandese Ajax e l’israeliana Maccabi Tel Aviv, tenutasi ad Amsterdam la sera di giovedì 7 novembre, si sono registrati violenti attacchi e aggressioni contro i tifosi israeliani da parte di manifestanti filopalestinesi.
• I FATTI 10-20 israeliani sarebbero rimasti feriti, di cui cinque sono stati localizzati negli ospedali, mentre altri sette sono tuttora dati per dispersi. Tra questi, vi è il trentatreenne israelo-bulgaro Guy Avidor, che ha viaggiato da Londra apposta per vedere la partita. L’ultimo contatto che la sua famiglia ha avuto con lui è stato un post sui social prima della partita e da allora, secondo il sito israeliano Walla, non hanno più avuto sue notizie. Si teme che possano esserci ostaggi.
Nelle ultime ore la situazione sembra essersi calmata, e agli israeliani è stato ordinato dalle autorità olandesi di nascondersi. Un portavoce della polizia di Amsterdam ha dichiarato che sono state arrestate almeno 57 persone per le aggressioni.
I filmati che circolano sui social mostrano i tifosi israeliani venire picchiati, inseguiti da persone armate di coltelli e bastoni e veicoli che stavano per investirli. Alcuni israeliani sono stati visti saltare nei canali pur di sfuggire agli inseguitori. Un video mostra un uomo steso a terra e preso a calci, mentre urla ai suoi aggressori “Non sono ebreo”.
Secondo il quotidiano Maariv, c’è stato almeno un tentativo di rapire un israeliano e molti si sono barricati in negozi e altri edifici. L’Ambasciata israeliana nei Paesi Bassi si è mobilitata per trasferire gli israeliani in un luogo sicuro.
• LA REAZIONE DELLE ISTITUZIONI
Una volta informato dell’accaduto, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha inviato due aerei di soccorso per aiutare i cittadini israeliani sul posto con l’ausilio dello squadrone Hercules dell’IDF e squadre mediche di pronto soccorso. Inoltre, sia il rabbino capo ashkenazita che il rabbino capo sefardita d’Israele hanno autorizzato la compagnia aerea El Al a volare di Shabbat per andare a fornire la propria assistenza.
Il portavoce di El-Al ha dichiarato che la compagnia opererà voli di soccorso dalla destinazione a Tel Aviv con breve preavviso. I voli saranno gratuiti, il primo decollerà da Amsterdam alle 14:00 (ora locale) e dovrebbe atterrare a Tel Aviv oggi. I posti in tutte le classi di servizio (turistica, premium e business) saranno forniti gratuitamente a tutti i passeggeri in possesso di un biglietto aereo con El Al o con un’altra compagnia aerea. È necessario registrarsi per i voli attraverso la hotline del servizio clienti al numero designato per i clienti situato ad Amsterdam, al tel. 03-9404040. Oltre al volo di soccorso, ci sono due voli diretti ad Amsterdam, che torneranno in Israele oggi, con circa 350 israeliani a bordo. Sottolineiamo che questi voli sono stati pianificati in anticipo, indipendentemente dai difficili eventi.
Non sono mancate reazioni da parte delle istituzioni: l’ufficio di Netanyahu ha comunicato di tenere in considerazione l’accaduto “con la massima gravità”, e ha invitato il governo olandese e le forze dell’ordine a intraprendere “un’azione rapida e vigorosa contro i rivoltosi”. Dall’altro lato, il Primo Ministro olandese Dick Schoof ha scritto su X/Twitter che “gli attacchi antisemiti contro gli israeliani sono del tutto inaccettabili”.
Il Ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, ha annunciato una visita in Olanda per incontrare la sua controparte olandese Caspar Veldkamp ed esponenti della comunità ebraica olandese, per discutere di come contrastare questo e altri episodi d’odio. Mentre il leader politico olandese Geert Wilders ha denunciato la “caccia all’ebreo per le vie di Amsterdam”.
• LA RESPONSABILITÀ DELLA POLIZIA Dalle ricostruzioni fatte in seguito, le aggressioni sarebbero state accuratamente pianificate. Diversi testimoni hanno puntato il dito anche contro la polizia, che prima dell’accaduto non ha scortato i tifosi israeliani in albergo e non li ha protetti come avrebbe dovuto, nonostante l’intelligence israeliana avesse avvisato con largo anticipo le autorità olandesi del fatto che c’erano i segnali di una manifestazione violenta.
Loay Alshareef, influencer di Abu Dhabi impegnato per la coesistenza tra arabi ed ebrei, ha twittato: “Se le autorità olandesi falliscono nel prendere provvedimenti severi contro i delinquenti terroristi che hanno attaccato i tifosi del Maccabi Tel Aviv, allora i Paesi Bassi si stanno di fatto arrendendo agli islamisti radicali che vorrebbero distruggerli”.
(Bet Magazine Mosaico, 8 novembre 2024)
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Il primo ministro olandese: ad Amsterdam attacco “inaccettabile e antisemita.”
Il primo ministro olandese Dick Schoof ha condannato il pogrom avvenuto ad Amsterdam, in cui i tifosi di calcio israeliani sono stati aggrediti durante la notte. Il premier ha definito l’assalto ‘inaccettabile’: “Ho seguito le notizie da Amsterdam con disgusto”, ha affermato in un post su X. Schoof ha detto di aver parlato con il primo ministro Benjamin Netanyahu e di avergli assicurato che gli autori degli attacchi saranno perseguiti.
Netanyahu ha sottolineato in una nota quanto sia importante che il governo olandese garantisca la sicurezza di tutti gli israeliani che si trovano nei Paesi Bassi. Il premier israeliano ha detto di considerare l’evento come complotto antisemita contro i cittadini di Israele e ha chiesto maggiore sicurezza per la comunità ebraica nei Paesi Bassi.
Il consiglio di sicurezza israeliano, allo scoppio delle violenze, ha consigliato agli israeliani in visita ad Amsterdam di rimanere nei loro hotel e, se si fossero avventurati all’esterno, di evitare di indossare segni che potessero identificarli come israeliani o ebrei, consigliandogli di tornare in Israele il prima possibile.
(Shalom, 8 novembre 2024)
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L’antisemitismo, ormai pane quotidiano
L’aggressione perpetrata ieri sera ad Amsterdam, da gruppi di facinorosi arabi contro i sostenitori israeliani del Maccabi, dopo la partita con l’Ajax, ci riporta ad anni bui, e ci ricorda che Amsterdam è la città dove, nel novembre del 2004, il regista Theo van Gogh venne sgozzato da un giovane marocchino che cercò poi di decapitarlo a causa del suo controverso documentario Submission in cui l’Islam veniva criticato aspramente.
Le forze dell’ordine olandesi erano state da tempo avvertite dalle autorità israeliane del rischio di possibili incidenti ma hanno ignorato gli avvisi.
Vedere nel 2024, arabi che inseguono ebrei israeliani aggredendoli è solo una delle conseguenze dell’ondata di odio antisemita senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale che si è riattivato dopo l’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre del 2023 e che ha costretto Israele a una risposta militare a Gaza, ancora in corso.
Dalle marce in cui i manifestanti scandivano lo slogan genocida, “Palestina libera dal fiume al mare”, al “campo libero dai sionisti” della Columbia University di New York, alle stelle di Davide dipinte in Francia su diverse abitazioni per marcarvi la presenza di residenti ebrei, a molti altri episodi, abbiamo assistito, stiamo assistendo, a una drammatica regressione civile e culturale che ha, oltretutto, nei giustificazionisti, i loro solerti fiancheggiatori. Affermare che la violenza nei confronti degli ebrei è causata da loro, è un immarcescibile tropo antisemita, ed è uno dei più consunti paraventi del canagliume.
Gert Wilders, da sempre acceso sostenitore di Israele e in prima fila nel denunciare il radicalismo islamico ha condannato senza mezzi termini l’accaduto affermando che è necessario “arrestare e deportare la feccia che ha attaccato i supporter del Maccabi nelle nostre strade”.
Douglas Murray, da tempo anche lui in prima linea nella difesa di Israele, riferendosi agli episodi di intolleranza avvenuti nel Regno Unito, cominciati subito dopo l’eccidio del 7 ottobre con la rimozione dei volantini che effegiavano gli ostaggi israeliani a Gaza e poi culminata nelle marce oceaniche contro Israele a cui abbiamo assistito soprattutto a Londra, ha dichiarato che la deportazione, ovvero la rimozione e il rimpatrio nei paesi di origine dei musulmani che sono palesemente a sostegno del terrorismo jihadista, dovrebbe essere la prassi. Prassi che ad esempio il Pakistan sta attuando da mesi senza provocare scandalo alcuno nei riguardi di immigrati musulmani provenienti dall’Afghanistan e ritenuti pericolosi per la sicurezza dello Stato.
Oggi assistiamo al paradosso che è nelle capitali occidentali che maggiormente si sprigiona l’odio antisemita mentre in Medio Oriente, i principali paesi sunniti, con in testa l’Arabia Saudita, e con l’eccezione del Qatar, attendono pazienti che Israele faccia per loro il lavoro sporco che non possono fare, eliminare Hamas da Gaza, neutralizzare Hezbollah in Libano e mettere l’Iran in condizione di non nuocere.
(L'informale, 8 novembre 2024)
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Con Trump rispunta il «piano del secolo» che fece infuriare i palestinesi
In una intervista alla CNN, Brian Hook, inviato speciale di Donald Trump per l'Iran durante il primo mandato del presidente eletto, spiega quale sarà la politica di Trump su palestinesi e Iran.
di Franco Londei
In un Medio Oriente sull’orlo di un conflitto su larga scala tra Iran e Israele, torna prepotentemente in auge il vecchio progetto ideato da Jared Kushner, genero del Presidente eletto Donald Trump, che dovrebbe mettere fine all’annosa questione palestinese. Secondo Brian Hook, inviato speciale di Donald Trump per l’Iran durante il primo mandato del presidente eletto, uno dei progetti di Trump per il Medio Oriente sarebbe proprio il cosiddetto «piano del secolo», quel progetto cioè che secondo le indiscrezioni dell’epoca verterebbe su nove punti:
- controllo permanente della Valle del Giordano da parte del IDF
- la sicurezza di Giudea e Samaria affidata permanentemente a Israele
- scambi di terra non basati sulle linee armistiziali del 1967
- nessuna evacuazione degli insediamenti già esistenti
- Gerusalemme capitale di Israele che avrà il compito di garantire a tutte le religioni l’accesso ai luoghi santi
- capitale della Palestina situata ad Abu Dis, una città della West Bank che si trova alla periferia di Gerusalemme
- diritto al ritorno per i cosiddetti “profughi palestinesi” affidato a una “giusta soluzione” che comunque non prevede in alcun caso una loro collocazione in Israele
- annessione del 10% della Cisgiordania da parte di Israele
- riconoscimento da parte dei Paesi arabi di Israele quale “casa nazionale del popolo ebraico” e contestuale riconoscimento da parte israeliana dello Stato palestinese quale “casa nazionale del popolo palestinese”
All’epoca il piano fece infuriare i palestinesi ma non dispiacque ai sauditi, ora come allora principali sponsor di uno Stato palestinese. In una intervista alla CNN proprio Brian Hook, che dovrebbe guidare la transizione al Dipartimento di Stato, oltre ad anticipare quale sarà la politica di Trump verso l’Iran, sulla quale ci torneremo, ha puntualizzato che dopo tutto questo tempo la creazione di uno Stato Palestinese è «meno appetibile» di quanto non lo fosse quattro anni fa. Quindi il piano del secolo versione 2025 potrebbe essere addirittura più «generoso» verso Israele della versione originale. Tuttavia Hook ha ammesso che in questo momento gli israeliani non sono «dell’umore giusto» per discutere di uno Stato Palestinese e che hanno altre «priorità» come per esempio l’Iran. Ed è proprio parlando di Iran nell’intervista alla CNN che Brian Hook anticipa quella che probabilmente sarà la politica di Trump verso l’Iran. Per farlo attacca l’Amministrazione Biden. Hook ha accusato Biden di «aumentare la distanza tra i partner dell’America, definendo i paesi dei paria e facendo loro prediche su come dovrebbero vivere». «Il presidente Trump capisce che il principale motore dell’instabilità nell’attuale Medio Oriente è il regime iraniano», ha affermato Hook. Al contrario, l’amministrazione Biden «ha adottato una politica di appeasement e di accomodamento con l’Iran, che ha portato a un fallimento della deterrenza, perché nessuno crede più ad una minaccia credibile dell’uso della forza militare». Ora, Israele ha in mano il pallino per rovesciare questo modello. Fino ad oggi Gerusalemme aveva il freno a mano tirato da Biden e non sapendo chi avrebbe vinto le presidenziali americane non osava fare un passo più lungo di quello imposto da Washington. Ma ora il discorso cambia. Non so quanto l’ex ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, contribuisse a frenare la voglia di colpire pesantemente l’Iran, voglia peraltro bipartisan. Lo vedremo i prossimi giorni, forse addirittura le prossime ore. So che questo è il momento giusto e che difficilmente ricapiterà. Insomma, è ora di chiudere la partita con Teheran. Riguardo ai palestinesi, concordo sul fatto che non è il momento di parlare di «Stato palestinese», ma penso che su una cosa Gallant avesse ragione: è ora di pensare al disimpegno da Gaza e di concentrare tutte le forze sull’Iran e sui suoi proxy. Lasciamo la questione palestinese alla «diplomazia di Trump» e, speriamo, in quella di Jared Kushner, confidando che torni a fare il consigliere di Trump
(Rights Reporter, 8 novembre 2024)
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Chi non ha capito nulla ora ci spiega che cosa è successo
Spuntano ovunque gli esperti del giorno dopo
di Maurizio Belpietro
Che meraviglia gli articoli di quelli che ti spiegano le cose che non hanno capito. Il giorno dopo la sconfitta di Kamala Harris e il trionfo di Donald Trump è tutto un fiorire di analisi che raccontano gli errori della candidata democratica e descrivono i cambiamenti dell'America profonda. Peccato che le stesse persone che oggi ci illustrano che cosa non ha funzionato nella campagna della vicepresidente degli Stati Uniti siano quelle che fino all'altro ieri assicuravano la sua rimonta e davano per quasi certa la débàcle di colui che era descritto come un pagliaccio sul viale del tramonto. Fino all'ultimo ci hanno assicurato che la Harris era in testa e aveva scavalcato Trump. Da Gianni Riotta a Maurizio Molinari, da David Parenzo a Massimo Giannini: tutti i nostri disinformati speciali si dimostravano certi che la «ragazzaccia di Oakland» (copyright Giannini) ce l'avrebbe fatta perché, come a metà agosto scrisse Massimo Gaggi, editorialista dagli States per il Corriere della Sera, «Donald annaspa, disorientato dal cambiamento radicale della corsa ... incapace di prendere le misure e contenere il tandem Harris-Walz. Da leone ferito a leone in gabbia ... Furibondo per il successo della sua avversaria ... finisce per cadere nel ridicolo». Così, senza accorgersi che erano proprio loro, gli «esperti» di cose americane, a ripetere pari pari gli stessi errori fatti nel 2016, quando davano per spacciato il tycoon, descrivendolo come un fenomeno da baraccone. Non contenti di aver toppato, il giorno dopo la sconfitta di Kamala Harris, e dell'establishment democratico dei clan Obama, Clinton e Pelosi, hanno preso carta e penna e hanno cominciato a spiegare le ragioni della sconfitta. «Per comprendere da dove viene l'onda popolare che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca bisogna entrare dentro le ferite dell'America: dai centri per senzatetto alle drogherie, dai campus universitari ai quartieri più insicuri delle aree urbane», era l'incipit di un reportage da New York dell'ex direttore di Repubblica, Maurizio Molinari. E vai con qualche centinaio di righe per spiegare i disagi degli Stati Uniti d'America. L'inflazione che flagella gli stipendi e fa salire i prezzi di uova, carne, pollo, frutta, verdura e snack. La criminalità che rende le città insicure dopo che il movimento Black lives matter ha indotto sindaci e governatori a tagliare i fondi alla polizia. L'immigrazione fuori controllo che nel solo 2020 ha portato a dover accogliere, a spese dell'amministrazione di New York , 120.000 persone. Le università invase dalle manifestazioni pro Palestina e dalla cultura «woke», Tutto vero, certo. Queste sono alcune delle ragioni che hanno spinto gli americani a votare Trump. Ma forse sarebbe stato interessante leggere queste argomentazioni prima e non dopo. E invece, fino al 5 novembre la stampa italiana e anche quella internazionale le motivazioni alla base del consenso di Trump le hanno ignorate, facendo finta di credere che gli elettori del tycoon fossero persone rozze, che credevano alle balle di un imbroglione, di un pallone gonfiato dai milioni accumulati evadendo le tasse. Molti fra coloro che oggi ci spiegano che cosa è accaduto, fino a qualche settimana fa ridevano dei discorsi di Trump, dei suoi riferimenti al prezzo delle uova. E nessuno di loro ha dichiarato apertamente guerra, con editoriali o inchieste, alle stupidaggini della cultura che ritiene ogni uomo bianco eterosessuale colpevole di discriminazioni contro le minoranze nere e contro i gay. Neppure mi pare di aver letto inchieste per smontare le accuse di razzismo nei confronti di coloro che si lamentano dell' aumento della criminalità come conseguenza di un incremento dell'immigrazione illegale. Anzi, fino a ieri proprio gli stessi giornali che ora scoprono le ferite d'America «che hanno spinto un popolo impaurito fra le braccia di Trump», lamentavano l'aggressività di quel popolo e accusavano l'ex presidente di fomentare l'odio, e anzi, quando è finito nel mirino di un fucile semiautomatico, quasi hanno scritto che la colpa era sua, per aver creato un clima infuocato. Leggere i commenti al voto di quelli che hanno capito tutto, ma il giorno dopo, è in effetti uno spasso. Soprattutto perché gli autori delle profonde analisi sono gli stessi che poi, in Patria, non riescono a comprendere perché Giorgia Meloni abbia tanto credito. Anni di governi della sinistra hanno impoverito i salari, ma loro se ne sono accorti solo ora. Decenni di politiche dell'accoglienza favorite dai compagni hanno creato una situazione di insicurezza nelle città che secondo loro è solo figlia della percezione e della propaganda delle destre. Fosse per loro la cultura woke, quella che vede razzisti e fascisti in ogni dove, sarebbe pure legge, grazie al famoso ddl Zan. E però continuano a pensare che la vittoria «dell'underdog della Garbatella» (copyright Giannini) sia un incidente della storia a cui presto, loro e i loro compagni, porranno rimedio. Magari con l'aiuto di qualche amico giudice. Infatti, mentre a sorpresa si sono accorti delle ferite dell'America, ancora non hanno aperto gli occhi su quelle dell'Italia (e dell'Europa).
(La Verità, 8 novembre 2024)
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Israele - Scoperto un insediamento di 5.000 anni fa
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L'antico insediamento si trovava nelle vicinanze di Beit Shemesh
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BEIT SHEMESH - L'Autorità israeliana per le antichità ha recentemente scoperto un insediamento di 5.000 anni fa vicino alla città di Beit Shemesh, nel distretto di Gerusalemme, durante degli scavi. Il sito di Hurvat Husham nascondeva uno dei più antichi insediamenti mai trovati in Israele. Lo riferisce il portale di notizie “Arutz Sheva”. L'Autorità per le Antichità ha scoperto l'antico sito per la prima volta nel 2021. “Il sito scoperto a Hurvat Husham è eccezionale non solo per le sue dimensioni, ma anche perché ci rivela alcune delle prime caratteristiche del passaggio dalla vita di villaggio alla vita di città”, hanno spiegato i responsabili degli scavi Ariel Shatil, Ma'ajan Hamed e Danny Benajun. • SCOPERTA LA PIÙ ANTICA CASA DI PREGHIERA
Durante lo scavo dell'antico insediamento, gli archeologi hanno scoperto, tra le altre cose, un edificio particolare. “Le dimensioni dell'edificio che abbiamo portato alla luce, le sue ampie pareti, le panche all'interno e altri fattori indicano che si trattava di un edificio con una funzione pubblica, forse una casa di preghiera”, hanno commentato i responsabili degli scavi. L'edificio potrebbe essere stato utilizzato per attività rituali. In una stanza dell'edificio si trovano anche molti vasi intatti. Secondo i responsabili degli scavi, è riconoscibile che le persone abbiano collocato qui questi vasi prima di lasciare definitivamente il sito. “Non si sa cosa sia successo in seguito in questa stanza, ma ci sono segni di combustione e di vasi che cadono l'uno sull'altro”, hanno detto. Con l'aiuto di test di laboratorio, si potrà scoprire quale contenuto, come olio, acqua o grano, era presente nei vasi. Non conosciamo quasi nessun edificio pubblico del periodo antico in Israele”, hanno detto i ricercatori. Inoltre, l'edificio è una delle prime case di preghiera mai scoperte in Israele. • INDIZI DELLO SVILUPPO URBANO DI ISRAELE Grazie alla natura e alla posizione geografica di Israele, il paese è stato un terreno fertile per lo sviluppo di antiche civiltà, ha spiegato Eli Escusido, direttore dell'Autorità israeliana per le antichità. “L'insediamento scoperto di Hurvat Husham rivela un altro importante tassello nel puzzle dello sviluppo urbano della nostra regione”. La scoperta è stata presentata la scorsa settimana al “National Campus for the Archaeology of Israel” intitolato a Jay e Jeanie Schottenstein. Il contesto era la conferenza “Scoperte nell'archeologia di Gerusalemme e dintorni”.
(Israelnetz, 8 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Parashà di Lekh Lekhà: Il patriarca Avraham, maestro di monoteismo e generale dell’esercito
di Donato Grosser
Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Mishnè Torà (Hilkhòt Avodàt Kokhavìm, cap. 1) descrive come il patriarca Avraham iniziò la sua missione di diffondere il monoteismo con queste parole: “Quando [a Ur Casdìm] vinse [gli idolatri] con la forza dei suoi argomenti, il re lo volle uccidere. Fu salvato tramite un miracolo e partì per Charan. [Lì,] cominciò a chiamare a gran voce tutte le persone e a informarle che c’è un solo Dio nel mondo intero ed è giusto servirLo. Andava e chiamava e radunava il popolo, da città a città e da uno stato all’altro, finché giunse alla terra di Canaan, proclamando [l’esistenza di Dio per tutto il tempo], come è detto [Bereshìt, 21:33]: «E chiamò lì nel nome del Signore, l’eterno Dio». Quando le persone si radunavano attorno a lui e chiedevano spiegazioni delle sue parole, le spiegava a ciascuno di loro secondo la sua comprensione, finché non lo faceva tornare sulla via della verità. Alla fine, migliaia e miriadi si radunarono attorno a lui. Questi sono gli uomini della casa di Avraham”. Arrivato nella terra di Canaan, Avraham si stabilì a Chevron con i suoi discepoli. Il nipote Lot, che era venuto con lui da Charan, attratto dalla ricchezza del luogo, andò a vivere a Sodoma, allontanandosi dallo zio Avraham e dai suoi insegnamenti, nonostante la nota perversità imperante in quella città. Tuttavia, quando arrivò la notizia che i quattro re della Mesopotamia avevano preso Lot prigioniero, con tutti gli abitanti di Sodoma, Avraham dovette cambiare ruolo, da maestro di monoteismo a generale dell’esercito. In questo passo della Torà è scritto:
“E [i vincitori] presero tutte le ricchezze di Sodoma e di Gomorra e tutti i loro viveri, e se ne andarono. Presero anche Lot, figlio del fratello di Avraham, che abitava a Sodoma, e tutti i suoi averi e se ne andarono. E uno degli scampati venne a dirlo ad Avraham l’ebreo, che abitava alle querce di Mamre l’amoreo, fratello di Eshcol e fratello di Aner, i quali avevano fatto alleanza con Avraham. E quando Avraham sentì che suo nipote era stato fatto prigioniero, armò trecentodiciotto suoi discepoli, nati in casa sua, ed inseguì [i re] fino a Dan. E, divisa la sua schiera per assalirli di notte, egli coi suoi servi li sconfisse e l’inseguì fino a Chovà, che è a nord di Damasco. E riportò indietro il bottino, e anche Lot suo nipote con i suoi averi e anche le donne e il popolo” (Bereshìt, 14:11-16).
- Naftali Zvi Yehuda Berlin (Belarus, 1816-1893, Varsavia) in Ha’amèk Davàr (Bereshìt, 14:14) commenta che a Dan i quattro re si fermarono per riposare non pensando che Avraham li avrebbe attaccati di notte. Invece Avraham fece proprio così e li sorprese mentre dormivano. I sopravvissuti fuggirono verso il nord oltre a Damasco. Fino a Dan fu Avraham che condusse le truppe. Da Dan, che è al confine di Eretz Israel, a Damasco, lo fece Eli’ezer. Per questo Eli’ezer fu chiamato “uomo di Damasco”.
Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) commenta che Avraham, con l’aiuto divino, riuscì a raggiungere i quattro re della Mesopotamia, andando a marce forzate, compiendo in una sola giornata una distanza di più giorni. Nel Yalkut Me’am Lo’ez l’autore osserva che è strabiliante il fatto che Avraham si mise in un tale pericolo andando a combattere contro quattro re con truppe più numerose delle sue. Tanto più che nella parashà di Noach, aveva scritto che una persona non deve mettersi in pericolo sperando nel miracolo. Per rispondere a questa sua domanda egli cita lo Zòhar (Bereshìt, 14:15) dove è scritto che Avraham non pensava che sarebbe stato necessario combattere. Riteneva di poter riscattare Lot come ostaggio, pagando la somma che gli avrebbero domandato. Ma durante l’inseguimento egli vide che la Presenza divina gli dava luce ed era accompagnato da angeli e pertanto si fece forza e decise di combattere.
- Hershel Schachter (Scranton, 1941-) in Insights and Attitudes (p. 17) commenta che Avraham sapeva che aveva l’obbligo morale di andare in guerra e aveva il coraggio di farlo anche con un piccolo esercito. Né lui né la sua immediata famiglia erano in pericolo, ma sapeva che era la cosa giusta da fare.
(Shalom, 8 novembre 2024)
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Parashà della settimana: Lech Lechà (Va')
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Raffica di missili di Hezbollah contro Tel Aviv: colpire Israele per parlare all’America
di Ludovica Iacovacci
Nel giorno della vittoria del 47° inquilino della Casa Bianca, il Presidente Donald Trump, i missili dei terroristi di Hezbollah – o ciò che ne rimane durante la loro intercettazione in cielo da parte dei sistemi di difesa israeliani – raggiungono Tel Aviv. Colpire in questa significativa data la città, uno dei cuori pulsanti del Paese, è un messaggio politico di non arrendevolezza da parte dell’organizzazione terroristica di Hezbollah, sulla cui coscienza pesa il sangue sia di vittime israeliane sia americane.
Le sirene d’allarme hanno iniziato a suonare dalle 11:21, ora locale, per poi continuare durante il pomeriggio. Le forze di difesa israeliane hanno detto che la maggior parte dei 10 proiettili nella raffica mattutina è stata intercettata. Hezbollah ha dichiarato di aver lanciato missili contro una base militare (quella di Tzrifin) vicino all’aeroporto Ben Gurion, la principale porta internazionale di Israele. I media israeliani hanno riferito che un razzo ha colpito un’area vicina all’aeroporto, senza causare vittime ma creando una profonda voragine nell’asfalto. L’autorità aeroportuale ha dichiarato che la struttura continua a funzionare come di consueto: “L’aeroporto è aperto e funziona normalmente per arrivi e partenze” è stato riferito, seppur il tema degli scambi aerei da e per lo Stato ebraico stia suscitando non pochi problemi a causa della guerra.
• L’ECONOMIA DI GUERRA SI SCRIVE NEI CIELI… I rappresentanti delle compagnie aeree straniere in Israele hanno inviato una lettera al consulente legale del Comitato per gli affari economici della Knesset chiedendo una modifica alla legge sui servizi aeronautici. L’obiettivo dell’emendamento è rendere meno ingenti i danni subiti dalle compagnie aeree straniere a causa dalle interruzioni causate dalla guerra. Le compagnie aeree includono vettori low-cost e compagnie aeree legacy (tra cui firme come EasyJet, Wizz Air, Delta e British Airways). La legge attuale richiede alle compagnie aeree di risarcire i passeggeri per cancellazioni e modifiche dei voli e, se necessario, di trovare e pagare voli alternativi. Le compagnie lamentano che la legge sia inadatta per un tempo di guerra con emergenze prolungate. I requisiti normativi comportano che le compagnie aeree straniere sono costrette a cancellare voli, subire perdite significative e far fronte alle richieste dei passeggeri e in una situazione come quella attuale ciò si traduce in attività in Israele finanziariamente non redditizie. Le compagnie vogliono che la clausola di compensazione della legge sia sospesa: il pensiero alla base è che se più compagnie aeree volano in Israele, seppur erodendo i diritti secondo la Aviation Services Law, ciò ripagherà perché sarà possibile volare.
• …E SI SCRIVE PER TERRA Mercoledì 6 novembre un altro teatro di detriti è stato Ra’anana, a nord di Tel Aviv. In mattinata, il resto di un missile ha letteralmente centrato in un’automobile parcheggiata, frantumandone il parabrezza. “Questa è l’ennesima prova che Hezbollah spara intenzionalmente e ciecamente contro la popolazione civile israeliana”, scrive l’ambasciata di Israele in Italia sul profilo ufficiale di Instagram. Le sirene hanno suonato di nuovo anche poco dopo le 16:00 a est di Tel Aviv. L’IDF ha detto che erano causate da un singolo razzo che è stato intercettato.
Nella giornata l’allarme ha suonato nelle aree di Gush Dan e Sharon, tra cui Holon, Rishon Lezion, Hertzliya, Petah Tikva, Ramat Gan e Netanya, nell’Alta Galilea, a Rosh Pina, Hatzor Haglilit e Safed, tra le altre località. Nell’Alta Galilea, sono stati individuati circa 50 proiettili provenienti dal Libano. Alcuni sono stati intercettati e quelli caduti sono stati identificati. Verso le ore 16, quattro persone sono state ferite in un attacco missilistico a Moshav Avivim, nel nord di Israele.
Sivan Sadeh, un contadino di 18 anni di Kfar Masaryk, è stato ferito a morte mercoledì sera dalle schegge di un razzo sparato dal Libano. Il suo corpo è stato scoperto in un campo agricolo vicino al cimitero della città da un altro contadino. Secondo i servizi di emergenza del Magen David Adom (MDA), la vittima stava cercando riparo in un fosso quando uno dei 25 razzi lanciati da Hezbollah è esploso a pochi metri da lui. Il giovane è deceduto per le gravi ferite causate dalle schegge.
• ATTENTATO TERRORISTICO A SILOH, BINYAMIN Sempre nel pomeriggio di mercoledì 6 novembre, una donna di 26 anni e un ragazzo di 16 anni sono stati leggermente feriti in un attacco di speronamento a Shiloh Junction nella regione di Binyamin. Il terrorista, sceso dal suo veicolo, ha tentato di pugnalare i civili con un cacciavite. È stato neutralizzato. Le forze di sicurezza si sono precipitate sulla scena. Gli EMT e i paramedici del MDA hanno curato le due vittime e le hanno portate all’ospedale Hadassah di Gerusalemme. L’esercito israeliano ha successivamente aggiornato: “A seguito del rapporto iniziale, un terrorista ha tentato di speronare i civili allo Shiloh Junction. Poi è uscito dal veicolo e ha tentato di condurre un accoltellamento. Il terrorista è stato eliminato. I soldati dell’IDF stanno attualmente operando nell’area”.
(Bet Magazine Mosaico, 7 novembre 2024)
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Gallant ha pagato la sua ambiguità sul futuro di Gaza senza Hamas: la verità sugli ostaggi e i timori di ‘Bibi’ su inchiesta 7 ottobre
Netanyahu evoca le esigenze di guerra mal governabili in un rapporto fiduciario compromesso e l’ex ministro snocciola i tre punti del dissidio sui quali la sua testa sarebbe caduta. Ma la verità passa per gli ostaggi.
di Iuri Maria Prado
È innegabile che la popolarità di Yoav Gallant fosse un’insidia per il potere cui è ferocemente avvinghiato Benjamin Netanyahu, ma è altrettanto vero che l’ormai silurato ministro della Difesa era interessato a contenderglielo più che a contestarlo. Non mirava alla destituzione di Bibi, ma a sostituirlo. Sui motivi per cui Gallant è stato fatto fuori si sa forse più di quel che hanno detto i due protagonisti, Bibi che evoca le esigenze di guerra mal governabili in un rapporto fiduciario compromesso e l’altro, Gallant, che snocciola i tre punti del dissidio su cui la sua testa sarebbe caduta. È vero che il consenso dei fondamentalisti avversi all’arruolamento degli ultra-ortodossi costituisce un patrimonio preziosissimo per Netanyahu, ed è vero che l’argomento è risentito molto fortemente in Israele: ma è a dir poco improbabile che il primo ministro abbia deciso di assumere una iniziativa così grave, e che così gravemente lo espone a tanta protesta, per quel motivo abbastanza ancillare in un momento tanto delicato.
• L’INCHIESTA SUL 7 OTTOBRE CHE BIBI VUOLE RIMANDARE È vero, ancora, che la richiesta di Gallant rivolta a ottenere una commissione di inchiesta sul disastro di inefficienza e impreparazione di cui il sistema ha dato prova il 7 ottobre è pericolosissima per il primo ministro, il pavido che non ha chiesto scusa, che non è andato a visitare la gente e i luoghi più devastati del Sabato Nero, e che ha addirittura difeso l’azione degli apparati sottoposti al suo governo giusto per difendere sé stesso. Ma licenziare Gallant non sarebbe servito, e non servirà, a evitare che quell’inchiesta abbia corso e che i responsabili, Bibi in testa, ne siano lambiti.
• LA QUESTIONE OSTAGGI E LA GUERRA AD HAMAS E poi il terzo punto: gli ostaggi e la guerra per liberare loro e smantellare Hamas. È su questo, verosimilmente, che insiste la verità supplementare – evidente ma sottaciuta dai due – del dissidio e della sorte dimissionaria del soccombente Gallant. Aveva detto, in una conferenza stampa immediatamente successiva alla comunicazione del licenziamento, che la liberazione degli ostaggi era imperativa per la stessa sussistenza morale di Israele, e che sarebbe stata e sarebbe possibile a patto di accettare compromessi pesanti. Di quali compromessi dovesse trattarsi, Gallant, in pubblico, nulla ha detto. Ma non è casuale che ancora ieri circolassero notizie secondo cui quei compromessi dovessero implicare la permanenza al potere di Hamas a Gaza, insomma che il recupero degli ostaggi valesse un atteggiamento recessivo di Israele a fronte della pretesa mai dismessa dagli autori e dai mandanti dei massacri di un anno fa: cioè di continuare a esercitare il proprio potere sulla Striscia.
• HAMAS NON VUOLE NEGOZIARE Se questo fosse il quadro vero della vicenda, e il vero motivo dell’allontanamento di Yoav Gallant, allora l’avventatezza attribuita alla decisione di Netanyahu cederebbe il posto a una spiegazione molto più implicante e assai meno provvisoria. Perché l’ultimo rifiuto opposto da Hamas a un’ipotesi di accordo (è dell’altro giorno), la quale prevedeva una decina di giorni di cessate il fuoco e la liberazione di quattro ostaggi contro quella di 100 terroristi, ha reso chiaro a tutti che quel che rimane delle dirigenze e dell’esercito di Hamas non ha nessuna intenzione di arrendersi, nessuna intenzione di rendersi disponibile a uno scenario sgombro della propria presenza. E questa è una consapevolezza ormai diffusa, anche presso i tanti che contestano Netanyahu da mesi e anche tra quelli che l’altra sera, alla notizia del siluramento di Gallant, riempivano rumorosamente le strade accusando il primo ministro dell’ultimo, oltraggioso sproposito. C’è caso che anche quei contestatori – che con ottime ragioni non hanno mai avuto e continuano a non avere fiducia in Netanyahu, che lo ritengono inadatto e che sentono come un insulto la sua permanenza al potere – capiscano che la guerra, che deve finire, non può finire senza la definitiva distruzione di Hamas.
(Il Riformista, 7 novembre 2024)
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Israele acquista 25 caccia F-15 di nuova generazione
di Luca Spizzichino

Il Ministero della Difesa israeliano ha annunciato l’acquisto di 25 nuovi caccia F-15IA, una versione avanzata e potenziata dell’iconico F-15, firmando un accordo con Boeing dal valore complessivo di 5,2 miliardi di dollari. Il finanziamento dell’operazione è stato reso possibile grazie al pacchetto di aiuti militari approvato dall’amministrazione e dal Congresso degli Stati Uniti all’inizio di quest’anno, e l’accordo prevede un’opzione per l’acquisto di ulteriori 25 velivoli in futuro.
L’introduzione degli F-15IA rappresenta un rilevante potenziamento per l’aeronautica israeliana, migliorando la sua capacità strategica nel rispondere alle sfide attuali e future della regione. Questi caccia saranno dotati di sistemi d’arma avanzati integrati con tecnologia israeliana, una maggiore capacità di carico e un’autonomia di volo estesa, offrendo a Israele una maggiore flessibilità operativa in contesti complessi, tra cui potenziali minacce come quella iraniana.
“La consegna dei primi F-15IA è prevista per il 2031, con una fornitura annuale di 4-6 unità,” ha dichiarato il Ministero della Difesa, aggiungendo che questa nuova flotta si unirà alla terza squadriglia di F-35 recentemente acquisita. “Questo potenziamento rappresenta un avanzamento significativo per la nostra forza aerea e la capacità strategica del Paese, qualità rivelatesi cruciali durante il conflitto recente” ha affermato Eyal Zamir, Direttore Generale del Ministero della Difesa.
L’accordo con Boeing consolida ulteriormente la storica collaborazione tra Israele e l’azienda statunitense, che dura da oltre sette decenni. “Boeing è orgogliosa della lunga partnership con Israele, iniziata sin dai primi anni della fondazione dello Stato,” ha commentato Ido Nehushtan, presidente di Boeing Israel ed ex generale dell’aeronautica israeliana.
Nel corso dell’attuale conflitto, Israele ha effettuato numerosi investimenti per rafforzare la prontezza operativa e la capacità difensiva delle proprie forze armate, firmando contratti per un valore complessivo di circa 40 miliardi di dollari (circa 150 miliardi di shekel). “Oltre agli avanzamenti già fatti in munizioni e armamenti, stiamo continuando a sviluppare programmi di lungo termine per il rafforzamento delle capacità difensive in tutti i settori: aereo, marittimo, terrestre e di intelligence” ha aggiunto Zamir.
(Shalom, 7 novembre 2024)
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L’ambasciatore Peled incontra la Comunità ebraica di Napoli
Per la sua prima visita di una città italiana fuori da Roma, l’ambasciatore designato d’Israele in Italia Jonathan Peled ha scelto Napoli.
La guerra su più fronti che sta impegnando Israele da oltre un anno, i rapporti internazionali alla luce del conflitto e la crescita dell’antisemitismo in molti paesi sono i principali temi affrontati dall’ambasciatore nel corso di un incontro svoltosi stamane nella sinagoga napoletana di via Cappella Vecchia, dove Peled ha incontrato rappresentanti della Comunità ebraica, della sezione locale dell’associazione Italia-Israele e dell’associazione culturale Bezalel. Ad accogliere il diplomatico, introdotto dal consigliere nazionale di Italia-Israele Giuseppe Crimaldi, c’erano tra gli altri il vicepresidente della Comunità ebraica partenopea Sandro Temin e il rabbino capo Cesare Moscati. A seguire il responsabile della comunicazione della Comunità Daniele Coppin ha moderato un dibattito tra il pubblico e l’ambasciatore
(moked, 7 novembre 2024)
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Limmud Firenze. Tutti possono imparare e possono insegnare
di Rav Scialom Banbout
Si è svolto a Firenze dal 1° al 3 novembre un convegno – seminario, organizzato dell’Associazione Limmud Italia. Abbiamo fatto alcune domande a Sandro Servi, presidente, dell’Associazione.
- Lei ha diretto o collaborato a diversi progetti ebraici, tra questi il Progetto Famiglia Ebraica e il progetto Reshet per adolescenti del DAC, è redattore capo del progetto di traduzione del Talmud, vuole spiegarci cosa è questo progetto “Limmud Italia”? È un progetto finanziato da enti comunitari, nazionali o sovranazionali, cui gli organizzatori devono fare riferimento? Il movimento “Limmud” nel mondo ha già una lunga storia alle spalle: fondato nel 1980 nel Regno Unito da quattro amici con lo scopo di offrire un’occasione culturale educativa nuova e stimolante, ha avuto una crescita straordinaria, diventando un movimento globale che conta annualmente molte decine di eventi in 42 paesi nei 6 continenti. L’evento principale rimane quello inglese, che si chiamava inizialmente Limmud Conference e si chiama ora Limmud Festival, dura una settimana, e rappresenta con le sue migliaia di partecipanti, le sue centinaia di sessioni, l’evento ebraico più importante in Europa. Il modello Limmud è stato adottato in tutto il mondo, come il veicolo ideale per raggiungere tutti i tipi di ebrei, per avvicinare soggetti diversi e creare esperienze di scambio tra comunità diverse e generazioni diverse. Limmud non è legato a nessuna organizzazione ebraica. Ogni associazione Limmud è indipendente, ma si ispira ai “Valori di Limmud”. Ogni associazione Limmud cerca e a volte ottiene finanziamenti da enti ebraici (e non) e da privati. Per vari anni abbiamo chiesto e ottenuto un piccolo contributo dai fondi dell’Ottoxmille dell’UCEI, alcune Comunità ebraiche hanno ospitato gratuitamente i nostri eventi, di cui noi copriamo tutte le spese vive.
- Quando è nato il progetto in Italia e in quali Comunità ebraiche si è svolto? Quali sono i problemi che gli organizzatori devono affrontare? l piccolo team di volontari composto da un gruppo di ebrei italiani che, dopo aver partecipato al Limmud Conference 2012 a Londra avevano deciso di costituire a inizio 2014 l’associazione LimmudItalia, ha finora organizzato cinque eventi nazionali a Firenze (nel 2014, 2015, 2016, 2017 e 2023), due nel 2018, uno a Venezia e uno a Gerusalemme per la comunità degli israeliani di lingua italiana, e uno a Parma nel 2019. Dopo il Covid abbiamo ripreso le attività l’anno scorso. I problemi sono organizzativi (si tratta di un multi-seminario residenziale in cui tutto va organizzato da zero), e soprattutto di comunicazione (è molto difficile promuovere le nostre iniziative perché non sempre riusciamo a ottenere collaborazione). In ogni caso la maggioranza dei partecipanti non sono ebrei locali, ma vengono da altre città.
- Esistono delle regole generali cui i partecipanti (relatori o pubblico) devono attenersi? Più che altro è interessante conoscere quali sono le caratteristiche peculiari degli eventi Limmud. 1. Tutti i partecipanti possono essere insegnanti e studenti; 2. Le presentazioni si svolgono in contemporanea; 3. Quindi c’è sempre un programma molto ricco in cui ogni partecipante può costruire il proprio itinerario personale. Le regole sono quelle dettate dai “Valori di Limmud”, per es. tutto è basato sul volontariato; non sono permessi attacchi personali nel materiale proposto nelle varie sessioni di studio; Shabbath e kesheruth sono osservati in tutte le aree comuni; Limmud non si presta a legittimare o delegittimare le varie posizioni religiose o politiche presenti nel mondo ebraico; crediamo che discussioni “le-shem Shamàim” possano dare un contributo positivo per promuovere l’educazione e la comprensione di tutti. Tutto questo contribuisce a creare un ambiente culturale piacevole e tollerante, che incoraggia le persone a superare gli stereotipi sugli altri, questo in genere piace molto, ma non a tutti, cosa del tutto naturale. Limmud è aperto e interessato al contributo di tutti, specie di coloro che svolgono funzioni didattiche e culturali.
- Quest’anno l’evento Limmud Italia Days Firenze 2024 è stato aperto con una tavola rotonda dedicata a ricordare il Centenario del Convegno giovanile di Livorno del 1924. Come è stato affrontato? In che modo si relaziona con la situazione delle Comunità ebraiche italiane oggi? Abbiamo organizzato una sessione in plenaria in due parti. Nella prima quattro illustri relatori (Stefano Levi Della Torre, Scialom Bahbout, Donato Grosser e Sira Fatucci) hanno rappresentato il pensiero di altrettanti protagonisti del Convegno del 1924 (Nello Rosselli, Dante Lattes, Alfonso Pacifici e Enzo Sereni), permettendo ai presenti di immergersi nel contesto storico e nelle idee che animarono quel momento cruciale per la comunità ebraica italiana. Nella seconda parte si è svolto un dibattito focalizzato su dove siamo arrivati oggi, a cento anni di distanza da quelle premesse.
- A parte la rievocazione del Centenario del Convegno di Livorno, quali argomenti sono stati affrontati nel vostro convegno? Prenderebbe troppo spazio riferire in dettaglio tutti i titoli, ma ci sono state oltre 30 presentazioni, lezioni workshop su storia, filosofia, Torà, etica, attualità, arte, musica, cucina e molto altro, con la partecipazione di relatori di varia origine e orientamento (nel nostro website www.limmud-italia.it sono consultabili tutte le Guide all’evento degli anni passati che contengono tutti i titoli e a giorni verrà inserita anche quella di quest’anno). Alcune sono state veramente interessanti e da molti è stato elogiato l’alto livello qualitativo degli interventi. C’è stato poi un Concerto dell’Ensemble Salomone Rossi (Fiori musicali del barocco ebraico) con brani su testi in ebraico di Avraham Caceres, Salomone Rossi, Benedetto Marcello, Giuseppe C. Lidarti, aperto a tutta la Comunità e anche alla cittadinanza fiorentina. Infine la Mostra “Due rare mappe antiche di Gerusalemme” in cui erano esposte una ventina di piante antiche della città. Benché a Limmud valga il principio “non si viene a Limmud per mangiare” abbiamo sempre dedicato molte risorse ai 5 pasti e ai coffee break, con risultati molto apprezzati. Durante lo Shabbàt si è creata un’atmosfera veramente speciale, con i canti di Shalom Alechem e Eshet Chail, il Qiddush, la Birkat haMazon cantata, all’italiana, da tutti. Per compensare il fatto che ormai prevale in Italia la versione ashkenazita, abbiamo cantato anche Bendigamos. Due signore hanno tenuto alla fine dei due pasti sabbatici due brevi Devar Torà. Per me, che ho partecipato all’ultimo corso biblico tenuto da Nehama Leibowitz (la studiosa che ha rivoluzionato il modo di leggere e studiare la Torà), questo era quasi un dovere.
- Il Convegno di Livorno era destinato ai giovani del tempo: quello svoltosi a Firenze ha visto la partecipazione di persone adulte e non proprio giovani. Nel tempo in cui prevale la comunicazione attraverso i “social”, come pensa si possa rilanciare il progetto oggi per arrivare ai giovani? Ha ragione, il nostro è un pubblico adulto. Abbiamo cercato varie volte di coinvolgere i più giovani, sia come singoli che come movimenti. Non è nostra intenzione sovrapporsi ai movimenti e alle strutture organizzate già esistenti, è nostra intenzione lasciare loro grande autonomia, purtroppo il pubblico giovanile in Italia pare molto restio a partecipare a manifestazioni con i più adulti, e questa non mi pare una scelta saggia. Forse riusciremo in futuro a avvicinare i più giovani utilizzando maggiormente i social, ma finora, con le nostre risorse non siamo riusciti. D’altra parte pare a me che lo stesso problema affligga tutte le attività di tutte le Comunità, non solo ebraiche.
(Kolòt, 7 novembre 2024)
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Auguri trasversali a Donald Trump, «vero amico di Israele»
Diversi leader del mondo, ancor prima della notizia ufficiale, si sono congratulati con Donald Trump per la sua vittoria nelle elezioni americane e il suo imminente ritorno alla presidenza degli Stati Uniti. Tra i primi a mandare un messaggio di auguri è stato il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu. «Congratulazioni per il più grande ritorno della storia!», ha commentato su X il primo ministro, rivolgendosi a Trump. «Il tuo storico ritorno alla Casa Bianca offre un nuovo inizio per l’America e una potente riaffermazione della grande alleanza tra Israele e Stati Uniti». Dopo di lui hanno inviato un messaggio anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron. Sempre da Gerusalemme poi sono arrivate le congratulazioni del presidente d’Israele Isaac Herzog. Anche lui ha definito «storico» il ritorno di Trump alla Casa Bianca. «Sei un vero e caro amico di Israele e un campione della pace e della cooperazione nella nostra regione», ha aggiunto Herzog. «Non vedo l’ora di lavorare con te per rafforzare il legame di ferro tra i nostri popoli, per costruire un futuro di pace e sicurezza per il Medio Oriente e per sostenere i nostri valori condivisi. A nome dello Stato ebraico e democratico di Israele e di tutto il nostro popolo, ti auguro un grande successo».
Affidata alla piattaforma X anche la reazione degli alleati di governo di Netanyahu, ministri dell’estrema destra Itamar Ben-Gvir (Pubblica sicurezza) e Bezalel Smotrich (Finanze). Il primo ha esultato con un «Yesssss, Dio benedica Trump». Il secondo ha commentato con «Dio benedica Israele, Dio benedica l’America». Per salutare il nuovo presidente Usa, il ministro per gli Affari di Gerusalemme Meir Porush, del partito religioso Agudat Israel, ha citato un passo della Bibbia (Proverbi): «Il cuore di un re è nella mano di Dio».
Dalle opposizioni in Israele a congratularsi con il nuovo presidente Usa è stato il leader del partito centrista Kachol Lavan (Blu Bianco) Benny Gantz. «Trump è un vero amico di Israele, e lo dimostra non solo con le parole ma anche con le azioni. Nel corso del suo precedente mandato ha mediato gli accordi di Abramo, ha riconosciuto ufficialmente le alture del Golan come parte di Israele e ha spostato l’ambasciata statunitense a Gerusalemme», ha ricordato Gantz nel suo messaggio. «Sullo sfondo di un’aggressione iraniana sempre più forte nella regione, della sua corsa verso le capacità nucleari e degli sforzi fondamentali per riportare a casa gli ostaggi, la leadership del presidente Trump non solo assicurerà che gli Stati Uniti continuino a essere un amico e un alleato speciale per lo Stato di Israele, ma anche un faro vitale di chiarezza morale per il Medio Oriente e il mondo». Gantz è stato anche l’unico a ringraziare il presidente uscente Joe Biden per il suo sostegno allo stato ebraico. Nel salutarlo, ha espresso la propria gratitudine a Biden «per la sua profonda dedizione personale a Israele, il suo storico abbraccio morale al sionismo e il suo importante sostegno a Israele, in particolare dopo il 7 ottobre e nella lotta contro Hamas e l’asse del male dell’Iran».
Anche il leader dell’opposizione e del partito Yesh Atid Yair Lapid, nel congratularsi con Trump, lo ha definito un «vero amico d’Israele». «Sono tempi difficili per Israele, ma con il ferreo sostegno degli Stati Uniti e una forte leadership possiamo superarli», ha affermato Lapid. Parlando del conflitto, il leader di Yesh Atid ha indicato la priorità in agenda: «Per il popolo di Israele non c’è compito più urgente che riportare a casa i nostri ostaggi da Gaza».
(moked, 6 novembre 2024)
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La vittoria di Trump e il suo significato per Israele
di Niram Ferretti
La vittoria netta di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane non è, in primis, una buona notizia per l’Iran e per i suoi delegati in Medio Oriente, ma lo è invece in modo lampante per Israele e anche, collateralmente, per l’Arabia Saudita e per gli Emirati del Golfo.
Alla notizia della vittoria di Trump il rial iraniano è sceso al minimo storico. Dai 32,000 necessari per un dollaro del 2015 quando venne siglato l’accordo sul nucleare si è arrivati ai 703,000 al dollaro di oggi.
Trump è stato l’unico presidente americano che dal 1979 ha posto sull’Iran sanzioni massicce che ne hanno fortemente compromesso la tenuta economica, così come è stato l’unico presidente in carica ad assestare al regime un colpo durissimo con l’uccisione in Iraq nel gennaio del 2020 di Qasem Soleimani, una delle sue figure più di spicco e il regista della strategia del terrore che per decenni l’Iran ha articolato a livello regionale.
Si tratta dunque per Khamenei e per i suoi accoliti di un antagonista vero e pericoloso, lontano mille miglia dalla mano vellutata che gli porse Obama durante la sua presidenza e che ha continuato a porgergli l’Amministrazione Biden.
Inutile sottolineare come, dalla sua vittoria, il governo Netanyahu esca fortemente rafforzato e che Benjamin Netanyahu possa tirare un sospiro di sollievo relativamente alle intenzioni programmatiche dell’Amministrazione Biden di fare nascere in Cisgiordania uno Stato palestinese retto da Fatah che non si è mai dissociata dall’eccidio del 7 ottobre.
Con la seconda presidenza Trump questa prospettiva è tramontata, come era già accaduto durante il suo primo quadriennio. Si rafforzano invece gli Accordi di Abramo, rimasti sospesi nel loro esito ulteriore e di maggiore rilievo, l’intesa diplomatica tra Israele e Arabia Saudita annunciata da Netanyahu come prossima nel settembre 2023 all’ONU e mandata a gambe all’aria dall’aggressione di Hamas.
Per quanto riguarda Gaza, dove Hamas è stato sostanzialmente disarticolato, ma dove sono prigionieri ancora 101 ostaggi, Netanyahu potrà avere ancora più mano libera per fare ciò che Trump lo esortava a fare pochi mesi fa, “finish the job”, concludere il lavoro, il che, in termini concreti, può solo preludere a una presenza protratta di Israele all’interno della Striscia che metta fine definitivamente al regime terrorista dell’organizzazione jihadista salafita. Lo stesso vale per il Libano, dove l’esigenza di Israele non è quella di occupare il paese ma di neutralizzare la minaccia di Hezbollah al di là del fiume Litani, consentendo ai circa ottantamila sfollati israeliani che dal 8 ottobre hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni, di potervi tornare in sicurezza. Anche qui, è prevedibile che Trump si attivi affinché questo obiettivo essenziale venga raggiunto.
Tornando all’Iran e alla sua minaccia, esso si trova adesso ulteriormente indebolito e fortemente esposto a un ulteriore intervento militare israeliano che, come lo stesso Trump aveva esortato a fare, colpisca i pozzi petroliferi e i siti nucleari, neutralizzando di fatto la minaccia nucleare che pende sullo Stato ebraico.
Si tratta al momento di possibili esiti prossimi. L’Amministrazione Biden resterà ancora in carica per circa tre mesi, periodo insidioso, durante il quale non è da escludere che in attesa dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca il 20 di gennaio, venga confezionata per Israele qualche polpetta avvelenata.
(L'informale, 6 novembre 2024)
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Netanyahu licenzia Yoav Gallant, Katz nominato nuovo ministro della Difesa
di Luca Spizzichino
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha destituito ieri sera il Ministro della Difesa Yoav Gallant, motivando la decisione con una “crisi di fiducia” che ha descritto come “profonda e irreparabile”. Gallant sarà sostituito dal Ministro degli Esteri Israel Katz. Netanyahu ha spiegato la scelta affermando che, “nel pieno di un conflitto, è essenziale avere una fiducia totale tra il Primo Ministro e il Ministro della Difesa”. Negli ultimi mesi, tuttavia, tale fiducia “si è incrinata” a causa di divergenze sulla gestione della guerra e di dichiarazioni pubbliche di Gallant, considerate lesive dell’unità nazionale”. Gallant ha risposto su X ribadendo il suo impegno per la sicurezza di Israele: “La sicurezza dello Stato di Israele è e resterà sempre la missione della mia vita”.
Durante una conferenza stampa Gallant ha chiarito i motivi delle recenti fratture con Netanyahu: l’ostilità verso il piano per un’inchiesta sugli eventi del 7 ottobre 2023, il disaccordo sulla gestione dei prigionieri di Hamas e, soprattutto, il dissenso sull’esenzione dal servizio militare per gli ultra-ortodossi. Gallant si è opposto fermamente, ritenendo tale esenzione una minaccia alla coesione sociale e alla sicurezza nazionale. “Tutti devono servire nell’IDF e difendere Israele”, ha dichiarato, sottolineando che “nessuno dovrebbe essere esentato per motivi politici”.
Il nuovo Ministro della Difesa, Israel Katz, ha ringraziato Netanyahu per la fiducia e ha promesso di lavorare per la sicurezza di Israele e per il ritorno “incolume” di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas. Katz ha delineato le sue priorità, dichiarando: “La distruzione di Hamas a Gaza, la sconfitta di Hezbollah in Libano e il contenimento dell’aggressione iraniana”.
Il Presidente israeliano Isaac Herzog ha commentato il licenziamento di Gallant su X, lanciando un appello all’unità del paese: “L’ultima cosa di cui Israele ha bisogno in questo momento è uno sconvolgimento e una spaccatura nel mezzo della guerra. La sicurezza di Israele deve essere al di sopra di ogni considerazione”. Herzog ha avvertito che una disgregazione interna potrebbe minare l’efficacia della risposta militare del paese: “I nemici di Israele aspettano solo un segno di debolezza, disintegrazione o divisione tra noi”.
La decisione di licenziare Gallant ha immediatamente provocato una reazione violenta, con migliaia di manifestanti scesi in piazza a Tel Aviv, Gerusalemme e in altre città. Gli scontri con la polizia hanno portato all’arresto di circa cinquanta persone. Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, ha invitato i cittadini a mobilitarsi, mentre Yair Golan, leader del partito democratico, ha richiesto uno sciopero generale e la chiusura di università e aziende, accusando Netanyahu di “distruggere Israele”. A lui si è unito Benny Gantz, presidente di Unità Nazionale, che ha definito la mossa “un atto politico pericoloso a scapito della sicurezza nazionale”.
Dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti è arrivato un messaggio di sostegno al nuovo Ministro della Difesa e l’impegno a continuare la stretta collaborazione con Israele. In una nota, il Pentagono ha elogiato Gallant per il ruolo fondamentale svolto nella difesa del paese e ha sottolineato che “gli Stati Uniti continueranno a collaborare con il prossimo Ministro della Difesa”.
(Shalom, 6 novembre 2024)
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Netanyahu licenzia Galant e nomina Israel Katz ministro della Difesa
“In piena guerra, la piena fiducia tra il Primo Ministro e il Ministro della Difesa è più che mai necessaria”, ha dichiarato Netanyahu.
di Akiva van Koningsveld e Alex Traiman
GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato martedì di aver licenziato Yoav Galant come ministro della Difesa e di aver nominato Israel Katz, ministro degli Esteri israeliano, come nuovo capo del ministero della Difesa.
L'annuncio è arrivato poche ore prima della chiusura dei seggi negli Stati Uniti per l'Election Day, una delle notizie internazionali più importanti durante le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Netanyahu ha dichiarato che Gideon Sa'ar, ministro senza portafoglio, sostituirà Katz come massimo diplomatico di Gerusalemme.
“Nel bel mezzo della guerra, la piena fiducia tra il primo ministro e il ministro della Difesa è più che mai necessaria”, ha dichiarato Netanyahu. “Anche se questa fiducia era presente nei primi mesi della campagna militare e abbiamo avuto una cooperazione molto produttiva, questa fiducia tra me e il Ministro della Difesa ha purtroppo iniziato a sgretolarsi negli ultimi mesi”.
Galant e Netanyahu “hanno avuto disaccordi significativi sulla gestione della campagna militare, disaccordi che sono stati accompagnati da dichiarazioni pubbliche e azioni che andavano contro le decisioni del governo e del gabinetto di sicurezza”, ha spiegato il primo ministro israeliano.
“Ho cercato più volte di chiarire questi disaccordi, ma continuavano a crescere”, ha detto Netanyahu. “Sono stati anche portati all'attenzione dell'opinione pubblica in modo inappropriato e, quel che è peggio, sono arrivati all'attenzione del nemico; i nostri nemici hanno tratto piacere da questi disaccordi e ne hanno tratto grande vantaggio”.
Un alto funzionario del governo israeliano vicino a Netanyahu ha dichiarato a JNS che “con la partenza di Galant, le fughe di notizie nel gabinetto molto probabilmente diminuiranno e i successi aumenteranno”.
Netanyahu ha spiegato che Katz “ha dimostrato le sue capacità e ha contribuito alla sicurezza nazionale come ministro degli Esteri, delle Finanze, dell'Intelligence per cinque anni e, cosa altrettanto importante, come membro di lunga data del Gabinetto di Sicurezza dello Stato”.
“Israel Katz porta con sé un'impressionante combinazione di ricca esperienza e qualità di leadership”, ha dichiarato Netanyahu. “È conosciuto come un uomo d'azione che combina la responsabilità con una determinazione contenuta - tutte qualità importanti per guidare una campagna militare”.
Netanyahu ha aggiunto che la nomina di Katz e Sa'ar ai loro nuovi ruoli “rafforzerà il governo e il gabinetto di sicurezza e li trasformerà in organi che lavorano in modo cooperativo e armonioso per la sicurezza dello Stato di Israele, per i cittadini di Israele e per la nostra vittoria”.
In una lettera pubblicata da Channel 12, il Primo Ministro Galant ha detto che il suo licenziamento avrebbe avuto effetto 48 ore dopo la consegna della lettera. “Vorrei ringraziarla per il suo lavoro come ministro della Difesa”, ha scritto Netanyahu. L'incontro tra i due sarebbe durato tre minuti.
Secondo il rapporto di Channel 12, Netanyahu e Katz dovrebbero cercare di sostituire il capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, il tenente generale Herzi Halevi, e altri alti funzionari della sicurezza israeliana.
Netanyahu ha dichiarato in un comunicato stampa che “le notizie secondo cui il Primo Ministro intende licenziare alti funzionari dei servizi di sicurezza sono false e mirano a seminare discordia e spaccature”.
“Questo vale anche per le notizie mendaci secondo cui i ministri ultraortodossi erano al corrente della questione”, ha spiegato. “Ne sono venuti a conoscenza dai media”.
In risposta al suo licenziamento, Galant ha scritto in ebraico che “la sicurezza dello Stato di Israele è stata e sarà sempre il lavoro della mia vita”.
Katz ha ringraziato Netanyahu per avergli affidato il comando e ha giurato di guidare l'esercito israeliano “alla vittoria sui nostri nemici e al raggiungimento degli obiettivi della guerra”: La restituzione di tutti gli ostaggi come missione più importante, la distruzione di Hamas a Gaza, la sconfitta di Hezbollah in Libano, il contenimento dell'aggressione iraniana e il ritorno sicuro dei residenti del nord e del sud alle loro case”.
Netanyahu e Galant erano in disaccordo fin dalla crisi della riforma giudiziaria del 2023. Nel maggio 2023, mentre Netanyahu si trovava all'estero, Galant convocò una conferenza stampa e chiese al Primo Ministro di fermare il disegno di legge sulla riforma giudiziaria, che portò a massicce proteste di piazza in tutto Israele.
Circa 24 ore dopo, Netanyahu ha annunciato l'intenzione di licenziare Galant. Le proteste a livello nazionale contro la riforma giudiziaria del governo, ormai accantonata, si sono intensificate e il Primo Ministro ha fatto marcia indietro.
Sei mesi fa, Netanyahu e altri membri della sua coalizione avevano criticato aspramente Galant dopo che questi aveva chiesto che Gerusalemme si impegnasse a mantenere il controllo palestinese della Striscia di Gaza dopo la guerra con Hamas.
A settembre, dopo che è stato rivelato che le forze israeliane avevano trovato i corpi di sei ostaggi in un tunnel di Hamas nel sud della Striscia di Gaza, Galant ha chiesto a Netanyahu di fare marcia indietro sulla sua decisione di mantenere le truppe dell'IDF al confine dell'enclave con l'Egitto, noto come Corridoio di Filadelfia.
Galant si scusò per evitare il suo licenziamento, ha riferito Maariv nel mese successivo, citando conversazioni vicine al capo del governo.
Secondo un sondaggio JNS/Direct Polls condotto a luglio, la maggioranza degli elettori del partito Likud ha perso la fiducia in Galant e vorrebbe vederlo licenziato.
Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir ha elogiato la mossa di martedì, scrivendo sui social media in ebraico: “Mi congratulo con il Primo Ministro per la sua decisione di licenziare Galant”.
Ha aggiunto che Galant era ancora “profondamente intrappolato nel concetto di sicurezza precedente al 7 ottobre 2023” e che “non è possibile ottenere una vittoria assoluta”. Netanyahu ha “fatto bene a rimuoverlo dal suo incarico”, ha scritto Ben-Gvir.
Il leader dell'opposizione Yair Lapid del partito Yesh Atid ha definito il licenziamento un “atto di follia” e ha invitato i suoi sostenitori a scendere in piazza.
Dopo l'annuncio del licenziamento di Galant, i manifestanti hanno bloccato l'autostrada Ayalon a Tel Aviv e hanno acceso fuochi in strada. La polizia ha eretto barriere davanti alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme.
“La polizia israeliana è dispiegata in gran numero nei punti caldi della protesta in tutto il Paese per mantenere la sicurezza e l'ordine pubblico e per consentire un equilibrio tra la libertà di protestare legittimamente e la libertà di movimento”, ha dichiarato la polizia.
(Israel Heute, 6 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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“Nel bel mezzo della guerra, la piena fiducia tra il primo ministro e il ministro della Difesa è più che mai necessaria”. Esatto. In altri tempi e con altri eserciti Galant sarebbe stato fatto passare per le armi. Insieme a Yair Lapid. M.C.
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Report, due ore di menzogne su Israele
Tutti gli errori del programma di Sigfrido Ranucci sul Medio Oriente, la Striscia di Gaza e il 7 ottobre.
di Michael Sfaradi
Vivendo in Israele mi è oggettivamente impossibile seguire tutte le televisioni italiane in tempo reale, per cui certi programmi, soprattutto quelli che mi vengono segnalati, li vedo a distanza di qualche ora o a volte di qualche giorno. Sulla puntata di Report, prima di criticare quello che è stato riportato, perché va criticato e sputtanato, su questo non c’è dubbio per come ha riportato notizie e approfondimenti, vista la quantità di falsità e di completa mancanza di contraddittorio sugli argomenti trattati, mi sono servite alcune ore per scegliere su cosa focalizzare questo mio intervento. Per me, che generalmente rispondo di getto, il fatto stesso che ci siano volute delle ore e che abbia dovuto scegliere in quel mare nostrum di volgare giornalismo, se di giornalismo si tratta, la dice lunga. In ogni modo gli italiani che hanno visto Report su Rai3 hanno assistito a due ore di menzogne su Israele, sulla storia del Medio Oriente, sul 7 ottobre e sulla guerra. Sembrava di trovarsi davanti a un programma megafono della propaganda dei terroristi. Programma completamente mancante di etica dell’informazione che ha fatto tra l’altro passare per scoop la sintesi degli argomenti che i terroristi e gli antisionisti non antisemiti urlano da anni sui complici organi di informazione occidentali. In quelle due ore della messa in onda sono state quasi del tutto dimenticate le donne stuprate, mutilate e uccise il 7 ottobre. Sono state dimenticate famiglie intere cancellate dalla furia terroristica di Hamas. Sono stati dimenticati i bambini israeliani massacrati nelle loro case e alcuni addirittura bruciati vivi nei forni delle cucine. Ma non è tutto. Il 7 ottobre 2023 non solo è stato in massima parte nascosto alla pubblica opinione, ma a tratti addirittura giustificato come atto di resistenza a 70 anni di un’occupazione inesistente. Ricordiamo a chi ha ancora la voglia di conoscere la verità che dal 2005 non c’erano più israeliani nella Striscia di Gaza e che migliaia di lavoratori frontalieri, gli stessi che hanno fornito ai terroristi le mappe dei kibbutz, i nomi delle famiglie, le case dove abitavano e anche se c’erano bambini e animali, che venivano in Israele a lavorare. Sì, se dobbiamo dirla vale la pena dirla tutta, coloro che venivano in Israele a guadagnarsi da vivere con stipendi che nella Striscia di Gaza erano solamente dei sogni, sono gli stessi che hanno fornito le informazioni per meglio colpire i civili israeliani in quel maledetto 7 ottobre 2023. Ma Ranucci questo chiaramente lo ha sorvolato. Nella trasmissione sono stati riproposti come unica fonte i numeri del “Ministero della Sanità di Gaza“, entità sconosciuta, più volte smentita e agli ordini di Hamas, cioè dei terroristi. Lo stato di Israele è stato descritto come laboratorio dell’estrema destra mondiale, una follia considerando che per mesi le sinistre israeliane hanno liberamente protestato contro il governo in carica e democraticamente eletto. Magari Ranucci dovrebbe mandare i suoi in Iran, per chiedere come sta Ahou Daryaei che ha trovato i suoi cinque minuti di vera libertà passeggiando in mutande davanti all’entrata dell’università. Ecco, questo sarebbe un vero scoop ma per una trasmissione del genere è davvero chiedere troppo. Torniamo a noi, in quelle due ore di propaganda antisraeliana è stato cancellato il rifiuto dei palestinesi all’esistenza dello Stato di Israele, sono stati cancellati migliaia di missili lanciati su Israele da 20 anni, gli attentati terroristici contro gli israeliani e contro gli ebrei in tutto il mondo. C’è davvero da chiedersi come la Rai, la più importante televisione italiana, la tv dello Stato finanziata dai soldi dei contribuenti che dovrebbe avere una linea editoriale basata sull’etica dell’informazione possa aver accettato di mandare in onda un programma di questo tipo. Fermo restando la libertà di stampa e rispetto per ogni opinione legittima, la ricerca della verità e l’etica base del giornalismo democratico pretendono la verifica delle fonti e soprattutto il contraddittorio su temi controversi. Tutti coloro che la verità l’hanno a cuore non possono non aver capito che tutto questo è mancato, volutamente e magistralmente nascosto. Ranucci, facendo intervistare dal suo inviato Ilan Pappé, storico molto discusso, è riuscito pure a fare negazionismo della Shoah e revisionismo storico arrivando addirittura a fargli dire in tv che l’allora Muftì di Gerusalemme, auto-esiliatosi in una casa di lusso a Berlino preparata per lui dagli amici nazisti e intimo di Himmler, avrebbe incontrato Hitler per soli 4 minuti e che in questi 4 minuti non avrebbe avuto modo di parlare nemmeno di ebrei e del loro sterminio. La realtà è che il Muftì ebbe diversi incontri e accordi con molti gerarchi nazisti tra cui Hitler, altrimenti non avrebbe potuto fondare di una intera divisione di SS musulmane. Ma il culmine dell’ignoranza è arrivato quando Ilan Pappè, uno dei pochi ebrei che Cecilia Parodi salverebbe, a sostegno della sua tesi ha affermato che quando il Muftì incontrò Hitler, nel 1941, la Shoah era stata già pianificata. A Sigfrido Ranucci sarebbe bastato sbirciare su Wikipedia per sapere che la conferenza di Wannsee, dove i gerarchi nazisti riuniti decisero per la “soluzione finale del problema ebraico” vale a dire lo sterminio degli ebrei, si tenne nel 1942. La conferenza di Wannsee (in tedesco Wannseekonferenz) si svolse il 20 gennaio 1942 a villa Marlier, una villa sulla riva del lago Großer Wannsee nella periferia a sud di Berlino. Coinvolse quindici personaggi di primo piano del regime nazionalsocialista, del partito e delle Schutzstaffel (tra cui quattro segretari di Stato, due funzionari pubblici di grado equivalente e un sottosegretario) che, su invito dell’SS-Obergruppenführer Reinhard Heydrich, capo del Reichssicherheitshauptamt (RSHA), si riunirono per definire la cosiddetta «soluzione finale della questione ebraica» (Endlösung der Judenfrage). Considerando che il Muftì incontrò Hitler il 28 novembre del 1941, quindi prima di questa conferenza, si capisce che tutto quello che ha detto Pappè è solo muffa che si è aggiunta a un programma che oltre ad aver fatto male alla Rai, la brutta figura rimarrà per sempre come una delle pagine più buie della televisione italiana, non ha aiutato a capire il tema dello scontro e le responsabilità delle parti, di tutte le parti, sulla problematica mediorientale. Ma, soprattutto non ha fatto bene al giornalismo che, soprattutto quando si toccano certi argomenti, deve essere al di sopra delle parti e ben informato. Il programma Report non si è dimostrato al di sopra delle parti, anzi, non è proprio giornalismo è altro. È dell’altro, qualcosa che un tempo, in maniera dispregiativa, veniva chiamata propaganda.
(nicolaporro.it, 5 novembre 2024)
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Blinken ricatta ancora Israele: “più aiuti a Gaza o taglio delle forniture di armi americane”
Prima della guerra ogni giorno entravano a Gaza circa 500 camion di aiuti che sono serviti ad Hamas per costruire centinaia di Km di tunnel
Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha parlato telefonicamente lunedì con il Ministro della Difesa Yoav Gallant per esaminare i passi compiuti da Israele per migliorare la situazione umanitaria a Gaza, ha dichiarato il Dipartimento di Stato americano, mentre si avvicina il termine ultimo entro il quale Israele deve soddisfare alcuni requisiti stabiliti dagli Stati Uniti, o rischiare potenziali restrizioni sull’assistenza militare offensiva. La telefonata è avvenuta tre giorni dopo che Blinken ha avuto un colloquio simile con il ministro degli Affari strategici Ron Dermer, e mentre gli Stati Uniti hanno intensificato le loro critiche per quello che hanno definito un tentativo insufficiente di porre rimedio alla crisi umanitaria nell’enclave palestinese. Blinken e il Segretario alla Difesa Lloyd Austin hanno inviato una lettera a Gallant e Dermer il 13 ottobre, avvertendo che la mancata risoluzione della crisi umanitaria entro 30 giorni potrebbe avere implicazioni legali per la continuazione delle spedizioni di armi offensive statunitensi a Israele, poiché i beneficiari di tali aiuti non possono legalmente bloccare l’assistenza umanitaria. Tra le altre condizioni, la lettera di Austin e Blinken di metà ottobre diceva che Israele doveva consentire l’ingresso di un minimo di 350 camion al giorno che trasportassero cibo e altri rifornimenti. Tuttavia, l’Associated Press ha riferito venerdì scorso che una revisione dei dati delle Nazioni Unite e di Israele ha rilevato che il numero medio di camion che entrano a Gaza ogni giorno rimane ben al di sotto di tale numero. Lunedì il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha dato a Israele un voto “negativo” in termini di rispetto delle condizioni per un miglioramento delle consegne di aiuti e ha affermato che, sebbene manchino ancora circa nove giorni alla scadenza del termine, i limitati progressi compiuti finora sono stati insufficienti. “Ad oggi, la situazione non è cambiata in modo significativo”, ha dichiarato Miller ai giornalisti. “Abbiamo visto un aumento di alcune misure. Ma se si considerano le raccomandazioni previste dalla lettera, queste non sono state rispettate”. Prima che Hamas, il governo di Gaza, iniziasse la guerra con il suo attacco terroristico al sud di Israele nell’ottobre 2023, una media di 500 camion al giorno portavano aiuti nella Striscia. I gruppi di soccorso hanno affermato che si tratta del minimo necessario per i 2,3 milioni di abitanti di Gaza, la maggior parte dei quali da allora è stata sradicata dalle proprie case, spesso più volte. Dall’inizio dei combattimenti, non c’è mai stato un mese in cui Israele si sia avvicinato a questa cifra, che ha raggiunto un picco di 225 camion al giorno in aprile, secondo i dati del governo israeliano. Quando Blinken e Austin hanno inviato la loro lettera, stavano aumentando i timori che le restrizioni agli aiuti stessero affamando i civili. Il numero di camion di aiuti che Israele ha permesso di entrare a Gaza è crollato dalla primavera e dall’estate scorsa, scendendo a una media giornaliera di soli 13 al giorno all’inizio di ottobre, secondo i dati delle Nazioni Unite. Alla fine del mese, il numero è salito a una media di 71 camion al giorno, secondo i dati delle Nazioni Unite. Una volta che i rifornimenti arrivano a Gaza, i gruppi incontrano ancora ostacoli nel distribuire gli aiuti ai magazzini e poi alle persone bisognose, hanno detto la settimana scorsa le organizzazioni e il Dipartimento di Stato. Tra questi vi sono la lentezza delle procedure israeliane, le restrizioni israeliane sulle spedizioni, l’illegalità e altri ostacoli, hanno dichiarato i gruppi di aiuto. La riduzione delle consegne di aiuti a Gaza si è fatta sentire maggiormente nel nord dell’enclave, dove il mese scorso Israele ha lanciato una nuova operazione volta a contrastare la rinascita di Hamas. Durante le prime due settimane dell’offensiva, nessun aiuto è entrato nel nord di Gaza, suscitando l’indignazione dei gruppi umanitari e degli alleati di Israele, compresi gli Stati Uniti. Le due settimane di blocco degli aiuti nel nord di Gaza hanno fatto pensare che Israele stesse mettendo in atto il cosiddetto “Piano dei generali” per bloccare gli aiuti umanitari al nord nel tentativo di affamare i terroristi di Hamas. Se attuato, il piano altamente controverso potrebbe intrappolare senza cibo né acqua centinaia di migliaia di palestinesi che non vogliono o non possono lasciare le loro case dopo l’ordine di fuga dell’IDF. L’IDF ha negato di aver messo in atto un simile piano, anche se i funzionari del governo, compreso il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, non hanno ancora fatto lo stesso a livello ufficiale. I dati del COGAT, l’organismo militare israeliano responsabile degli aiuti umanitari a Gaza, mostrano che gli aiuti sono scesi a meno di un terzo dei livelli di settembre e agosto. A settembre, 87.446 tonnellate di aiuti sono entrate nella Striscia di Gaza. A ottobre sono entrate 26.399 tonnellate. “I risultati non sono abbastanza buoni oggi”, ha detto Miller. “Di certo non hanno il lasciapassare. Non sono riusciti a mettere in atto tutte le cose che abbiamo raccomandato. Detto questo, non siamo alla fine del periodo di 30 giorni”. Alla domanda su cosa faranno gli Stati Uniti alla scadenza della prossima settimana, non ha voluto dire nulla, ma solo che “seguiremo la legge”. Anche Austin ha ribadito “quanto sia importante garantire che l’assistenza umanitaria possa fluire e affluire più velocemente a Gaza” nelle telefonate con Gallant, ha dichiarato il Magg. Gen. Pat Ryder, addetto stampa del Pentagono. Lunedì il COGAT ha dichiarato di aver evacuato 72 pazienti dagli ospedali del nord di Gaza verso altre strutture mediche e di aver portato forniture mediche, oltre a carburante, cibo, acqua e unità di sangue. Miller ha anche detto che gli Stati Uniti stanno esaminando la decisione del governo israeliano di ritirarsi dall’accordo del 1967 che riconosce l’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA, dopo che la Knesset ha approvato una legge che limita fortemente le operazioni dell’agenzia in Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza. La decisione di tagliare i ponti con l’UNRWA è stata contrastata da Blinken e Austin nella loro lettera. Sebbene Israele abbia da tempo un rapporto conflittuale con l’UNRWA, la rabbia ha raggiunto l’apice dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, al quale hanno partecipato diversi membri del personale dell’UNRWA, anche rapendo e uccidendo israeliani. Israele ha affermato che il 10% del personale dell’agenzia ONU ha legami con Hamas – un’accusa che l’agenzia ha negato. Prima dell’approvazione della legge, l’UNRWA ha confermato che un comandante di Hamas ucciso in un attacco israeliano, il quale aveva guidato l’uccisione e il rapimento di israeliani da un rifugio anti-bombe vicino al Kibbutz Re’im il 7 ottobre dello scorso anno, era stato impiegato dall’agenzia dal luglio 2022. In questo contesto, le due proposte di legge sono state rapidamente approvate dalla Knesset, con il patrocinio di legislatori della coalizione e dell’opposizione.
(Rights Reporter, 5 novembre 2024)
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Il volto d’Israele e le parole di Idit
di Angelica Edna Calò Livne
Da mesi sentivo il richiamo potente, le grida che arrivavano dal profondo della terra bruciata, martoriata e intrisa di sangue innocente. Da mesi non mi davo pace, al di là delle sirene, dei tuoni dei cannoni e della vita reclusa alla mia camera blindata sul confine Nord. Mi dicevo “Che hai da lamentarti? Voi siete al sicuro, un sobbalzo ogni tanto non è nulla a confronto di una vita, di migliaia di vite recise in poche ore, senza un segno premonitore, nel giorno di Festa, nel pieno di un percorso di pace, nell’attesa di una risposta a tanti sforzi per il dialogo. Dovevo andare, per capire, guardare negli occhi di quei volti che potevano ancora vedermi e di quelli che non potevano vedere più. E il momento è giunto: Ti invitiamo a un tour speciale ispirato al libro “L’individuo nell’insieme” al quale hai preso parte con il tuo contributo, che esplora l’esperienza dell’individuo e l’esperienza di inclusione dei diversi gruppi identitari. Durante il tour presenteremo il libro e ci concentreremo su vari casi di inclusione sociale e sui suoi effetti sull’individuo e sul collettivo. Il viaggio sarà accompagnato dai curatori del libro Dr. Orna Shemer e Dr. Manolo Topel che hanno scelto di condurre il tour nei centri abitati del Negev occidentale, lungo la Striscia di Gaza, e di presentare questioni attuali e innovative di solidarietà e inclusività che corrispondono ai temi del libro. È stato un pellegrinaggio come quando andammo a Majdanek, a Treblinka, a Birkenau in Polonia, con lo stesso peso sul cuore. Un viaggio come sospesi su una funivia vacillante che ondeggiava di emozione in emozione. Il primo incontro a Ruchama,un kibbutz che si prepara ad accogliere un altro kibbutz – Kfar Azza – da ricostruire dalle radici, è stato un momento di ispirazione. Si dovranno creare rapporti tra vicini rispettandone l’identità, il DNA di ognuno dei due. Creare un legame all’ombra del trauma individuale e collettivo, una resilienza per sostenersi reciprocamente. Ori Levi, figlio di italiani, primi pionieri dell’Hashomer Hatzair, è il promotore di questo progetto coraggioso come rappresentante di Ruchama, insieme a uno staff di assistenti sociali. Il video che ha mostrato al pubblico dove le case per i membri di Kfar Azza sorgono in pochissimo tempo su quello che era il campo da calcio e in altre zone adiacenti ha il sapore di un miracolo e quando Idit Etinger, una dei sopravvissuti di Kfar Azza, racconta la sua esperienza del 7 ottobre dove è rimasta per 19 ore stesa a bocconi con la sua famiglia, nella stanza blindata, senza muoversi mentre intorno imperversava il male e la morte, quando dice che per non soccombere ha ripetuto centinaia di volte a se stessa tutte le gioie della sua vita e l’amore che è la sua risorsa più grande… non ho resistito più e ho sentito che il nodo alla gola che mi attanagliava dall’alba, quando siamo partiti da Sasa, si scioglieva lentamente in un fiume di lacrime. L’ho abbracciata e mi sono riempita del suo sorriso. Abbiamo proseguito per Sderot, dove accanto a ogni casa sorge un piccolo rifugio di cemento, testimonial di un Red Alert infinito che dura da anni, da quando Israele era a Gaza per impedire il lancio dei missili e da quando Israele è uscita da Gaza e di quei missili che non hanno mai smesso di arrivare sui bambini nelle scuole, nelle case, nei giardini. I bambini e i civili noi li proteggiamo in quei rifugi e sotto non ci nascondiamo arsenali di armi. A Sdeot abbiamo ascoltato le storie di giovani che hanno ricevuto le forze per affrontare il lutto insostenibile di amici caduti nella guerra, trucidati al festival, tornati in sacchi bianchi dai tunnel della morte. Per superare tanto dolore si incontrano per esprimere la paura, la nostalgia, semplicemente per piangere, sfogarsi e abbracciarsi insieme, per restare uniti e non darla vinta a chi ci vuole disperati, senza più voglia di vivere. Al Kibbutz Mefalsim abbiamo incontrato le famiglie che sono tornate nelle loro case, dopo un anno, con coraggio, con determinazione nonostante il rombo dei mortai non si sia mai interrotto. E di nuovo un attimo di speranza, fra poco anche al mio kibbutz risuoneranno le voci dei bambini, le note che si librano nelle lezioni di musica, il fischio dell’allenatore di basket. Era già il tramonto, ma non potevamo tornare nel Nord senza fondere la nostra anima con quella dei ragazzi e le ragazze del Nova, i figli di tutto il popolo d’Israele. Non potevamo lasciare quei luoghi senza percorrere quella lunga strada dove sono stati braccati, inseguiti, violati, violentati e giustiziati senza che nessuno potesse aiutarli. E giunti nello spiazzo, quella distesa di disperazione senza fine, ho camminato in silenzio tra le immagini di quei volti. Come è possibile che fossero tutti e tutte così belle, così dolci, così solari? Come si può contenere un tale dolore? Penso alle madri, ai padri, alle notti insonni, senza risposta. Penso all’antisemitismo incalzante, alle donne che hanno volto lo sguardo altrove, a chi dice che Hitler doveva terminare la sua opera. E mentre torniamo a casa echeggiano nel cuore, nella testa e in tutta me stessa le parole di Idit, viva per miracolo, dopo 19 ore stesa ad aspettare la salvezza che risponde alla mia domanda da dove trae la forza per ergersi di nuovo e ricominciare da capo: “Noi siamo amore Angelica, è l’amore che ci ha tenuti vivi nel corso dei secoli e questo amore non ce lo toglierà mai nessuno. Non esiste odio che possa annullare quest’amore cosi grande del popolo d’Israele!”. E con un dito leggero sul mio cuore e uno sguardo penetrante aggiunge “Non te lo far rubare mai questo amore! Da nessuno!”.
(Shalom, 5 novembre 2024)
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L'esercito israeliano istituisce la prima brigata da combattimento ultraortodossa
Si apre una base di addestramento in concomitanza con l'aumento del reclutamento di ebrei Haredim.
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Soldati religiosi partecipano alla cerimonia di giuramento per entrare a far parte del Battaglione ortodosso Netzah Yehuda presso l'Ammunition Hill di Gerusalemme.
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La formazione di una nuova brigata di fanteria ultraortodossa sta procedendo, nonostante le tensioni legate alla legge che esenta gli ebrei ultraortodossi (Haredim) dal servizio di leva e le continue manifestazioni di manifestanti ultraortodossi davanti all'ufficio di reclutamento di Gerusalemme. La prima ondata di reclute dovrebbe arrivare nella nuova base di addestramento della brigata a dicembre, ha riferito lunedì Israel Hayom. La base di addestramento di Tavetz, nella Valle del Giordano, è stata ristrutturata al costo di 46 milioni di dollari, con quattro nuove sinagoghe e infrastrutture personalizzate per soddisfare i requisiti religiosi. La struttura servirà come centro di addestramento per il primo gruppo di soldati ultraortodossi che faranno parte di una brigata di fanteria standard. La struttura della brigata sarà diretta dal colonnello Avinoam Emunah, che riferisce al maggior generale David Zini, capo del comando di addestramento. Il primo battaglione di fanteria ultraortodossa dovrebbe essere operativo entro il novembre 2025 e si unirà alle unità religiose esistenti. Questa iniziativa è la prima creazione “da zero” di una brigata di fanteria regolare dagli anni Ottanta. La struttura di comando è già pronta e sono stati nominati, tra gli altri, un comandante di battaglione, un comandante di staff di brigata, comandanti di compagnia e di plotone. L'addestramento del personale è in corso e si prevede che la brigata funzionerà come unità autosufficiente, operando in modo indipendente e non richiedendo il supporto di altre unità. La maggiore attenzione delle Forze di Difesa israeliane al reclutamento degli ultraortodossi deriva da una necessità operativa. Una brigata regolare può sostituire efficacemente molti battaglioni di riserva in compiti operativi, riducendo così in modo significativo il carico sulle forze di riserva. Parallelamente, all'interno dell'Aeronautica Militare sono state istituite una compagnia di polizia di frontiera ultraortodossa e una divisione per la manutenzione degli aerei, entrambe strutturate in modo da soddisfare le esigenze religiose. L'iniziativa di reclutamento sta ricevendo molta attenzione e il Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, il tenente generale Herzi Halevi, presenta relazioni mensili sui progressi compiuti. Alti ufficiali militari hanno tenuto un dialogo con importanti rabbini e leader religiosi ortodossi.
L'esercito ha adottato un nuovo approccio e non si considera più un “educatore” della comunità ultraortodossa. L'obiettivo è invece quello di dimostrare che la pratica religiosa e il servizio militare possono coesistere. La strategia si concentra sulla costruzione di un ampio sostegno per il reclutamento. Giovedì scorso si è concluso il primo periodo dell'attuale anno di reclutamento, in cui è stato fissato l'ambizioso obiettivo di 4.800 reclute ultraortodosse - un aumento significativo rispetto alle 1.800 reclute dello scorso anno. Israel Hayom aveva precedentemente riferito che mentre le notifiche di arruolamento erano state inviate a circa 3.000 uomini ultraortodossi, meno del 10% di loro si era presentato agli uffici di reclutamento. È prevista l'apertura di uno speciale centro di reclutamento ultraortodosso entro luglio, con personale esclusivamente maschile per venire incontro alle sensibilità religiose. Tuttavia, la IDF ha ridimensionato le sue aspettative riguardo a questo approccio, riconoscendo che l'emissione di 3.000 avvisi di arruolamento non è una garanzia di reclutamento. In risposta, l'esercito ha spostato la sua attenzione sulla promozione attiva delle opportunità di servizio all'interno della comunità religiosa. Nonostante il successo limitato degli avvisi di arruolamento, ci sono segnali incoraggianti di reclutamento: si stima che il numero di reclute sia aumentato di diversi punti percentuali rispetto allo stesso mandato dell'anno scorso (una media di circa 600 reclute per mandato). Vale la pena notare che la maggior parte delle reclute è stata reclutata attraverso canali diversi dal bando di arruolamento. Pur riconoscendo che molti non si presentano agli uffici di reclutamento, l'esercito mantiene la sua strategia di applicazione. Coloro che non si presentano riceveranno ulteriori convocazioni seguendo lo stesso protocollo della popolazione generale, dove sono comuni più richiami prima di rispettare la convocazione. Ad oggi, sono stati emessi 720 mandati di arresto per gli ultraortodossi che non si sono presentati. Tuttavia, invece dell'arresto immediato in questi casi, il diritto di lasciare il Paese viene solitamente limitato, in modo simile alle misure di applicazione nel settore generale. L'avversione della comunità ultraortodossa al servizio militare è dovuta a una serie di fattori, tra cui la mancanza di volontà di apportare cambiamenti nella propria comunità e la diffusa convinzione che il servizio militare sia contrario all'osservanza religiosa. L'attuale strategia delle Forze di Difesa Israeliane si concentra sul superamento di queste percezioni attraverso il dialogo con i leader religiosi e la creazione di condizioni che rendano il servizio militare più accettabile per la popolazione ultraortodossa.
(Israel Heute, 5 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Kemi Badenoch, la nuova guida pro-Israele dei conservatori inglesi
di David Fiorentini
I Tories hanno eletto il loro prossimo leader: in una svolta storica, prende in mano i conservatori inglesi Kemi Badenoch, la prima donna di colore a guidare un partito nel Regno Unito, riferisce JNS.
Ingegnere informatico di 44 anni e figlia di immigrati nigeriani, Badenoch subentra all’ex primo ministro Rishi Sunak, dopo un mandato turbolento concluso con una pesante sconfitta elettorale, che ha posto fine a un dominio politico durato 14 anni. Ritrovatosi all’opposizione, lo storico partito si trova di fronte alla necessità di ridefinirsi e recuperare la fiducia dell’elettorato.
“La sfida che ci attende è ardua ma chiara”, ha dichiarato Badenoch subito dopo la nomina. “Il nostro primo compito è quello di monitorare il governo laburista. Il secondo, altrettanto importante, è prepararci per governare, sviluppando un insieme di proposte conservatrici che possano convincere il popolo britannico e dotandoci di un piano preciso su come realizzarle. Il nostro obiettivo è cambiare questo paese, trasformando il funzionamento del governo”.
Tra le varie posizioni per cui Badenoch è nota, spicca il suo fermo sostegno a Israele, che non ha mancato di ribadire anche in un momento in cui vari leader internazionali hanno assunto toni più critici o neutrali verso Gerusalemme. Dopo il 7 ottobre ha subito dichiarato: “Israele non può permettersi di abbassare la guardia e deve fare ciò che è necessario per difendersi e, in fin dei conti, sopravvivere”.
Mentre in merito alle recenti manifestazioni pro-Palestina nel Regno Unito, ha prontamente espresso una forte critica: “Abbiamo visto le nostre strade riempirsi di persone festanti, non sconvolte dagli atti di terrore e senza interesse a chiedere giustizia per le vittime, bensì intente a manifestare contro gli ebrei, mascherando il tutto come un attacco a Israele”.
Del resto, la sua vicinanza allo Stato ebraico ha radici importanti. Nella fattispecie, durante il suo incarico come Segretaria per il Commercio Internazionale, Badenoch ha rifiutato di sospendere le licenze di esportazione di armi verso Israele, nonostante le forti pressioni ricevute. Decisione che fu invece intrapresa dal governo laburista pochi mesi dall’inizio del mandato.
Nel complesso, un personaggio che rassicura l’ambiente ebraico conservatore, a partire dal gruppo Conservative Friends of Israel (CFI), il quale ha accolto calorosamente la sua elezione: “Kemi ha dimostrato il suo forte sostegno a Israele e alla comunità ebraica del Regno Unito durante il suo mandato e per tutta la campagna di leadership. Siamo ansiosi di collaborare con lei per rafforzare ulteriormente i legami tra il Regno Unito e Israele e per contrastare le politiche dannose del governo laburista su Israele”.
L’elezione è stata accolta favorevolmente anche dai leader israeliani, incluso il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha scritto su X: “Invio i miei più sentiti auguri a Kemi Badenoch. Sono certo che continuerà la grande tradizione di partenariato e amicizia tra Israele e Regno Unito”.
(Bet Magazine Mosaico, 5 novembre 2024)
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Idf eliminano un capo di Hezbollah, la tregua è lontana
di Zaccaria Trevi
L’ennesimo vertice di Hezbollah è stato neutralizzato. Le Forze di difesa israeliane hanno annunciato l’eliminazione di Abu Ali Rida, il comandante delle forze sciite responsabile della formazione di Baraachit, nel sud del Paese dei cedri. In un comunicato ufficiale dell’esercito di Tel Aviv, pubblicato sul proprio canale Telegram, viene spiegato che il dirigente del gruppo paramilitare era coinvolto nella pianificazione e nell’esecuzione di attacchi contro Israele, oltre a coordinare le operazioni terroristiche di Hezbollah al di là della linea blu. Nel frattempo, in mattinata, i combattimenti tra l’esercito dello Stato ebraico e il Partito di Dio hanno subito un’escalation, soprattutto dalla parte sciita del conflitto. I terroristi, infatti, avrebbero perpetrato almeno 60 attacchi missilistici, dal Libano verso l’Alta Galilea e la Galilea occidentale. Molti di questi razzi sono stati intercettati dall’Iron dome, e i restanti sarebbero caduti in aree disabitate. Hezbollah, inoltre, avrebbe rivendicato un altro attacco missilistico, stavolta verso Safed, una città nel nord di Israele al confine con il Paese dei cedri.
E nel giorno in cui Israele ha ratificato alle Nazioni unite la fine del suo rapporto con l’Urnwa, un tribunale di Rishion Le Zion ha confermato la detenzione di un portavoce di Benjamin Netanyahu. Il membro dell’ufficio del primo ministro è stato accusato di aver diffuso delle carte top secret. Le autorità dello Stato ebraico, di concerto con lo Shin Bet – società di intelligence che insieme al Mossad e ad Aman forma la trinità dei servizi segreti israeliani – stanno infatti lavorando su un caso di “violazione della sicurezza nazionale”. Nel fascicolo, su cui stanno indagando anche le forze armate, sarebbero presenti la fuga di documenti riservati, l’accesso non autorizzato di un consigliere a riunioni e uffici non di sua competenza, la cattiva gestione di informazioni riservate e il presunto uso di documenti per influenzare l’opinione pubblica sui negoziati per una tregua a Gaza.
Ed è proprio sul fronte della diplomazia che è tornato a parlare David Barnea, il principale negoziatore di Tel Aviv nonché presidente del Mossad. Per l’uomo, la prospettiva di un accordo per il rilascio degli ostaggi ancora trattenuti da Hamas – secondo fonti affidabili sarebbero 51 i detenuti – è attualmente “bassa”. In un colloquio con Channel 12, il capo dell’intelligence ha riferito che le proposte per un cessate il fuoco e per il ritorno a casa dei prigionieri – inviate ai terroristi tramite Egitto e Qatar – non hanno ricevuto risposta da Hamas. L’organizzazione che opera nella Striscia di Gaza punta a istituire un cessate il fuoco totale come condizione preliminare allo scambio tra ostaggi e prigionieri. Sebbene i colloqui siano ricominciati dopo la morte di Yahya Sinwar, la luce in fondo al tunnel della guerra è ancora molto lontana.
(l'Opinione, 4 novembre 2024)
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Polizia e Klaus Davi attaccati violentemente davanti alla moschea di viale Jenner
di Ludovica Iacovacci
MILANO - L’ennesima manifestazione d’odio e violenza perpetrata dagli arabo-islamici si è registrata dinnanzi alla moschea di viale Jenner, a Milano, ai danni del giornalista Klaus Davi e della Digos.
“Mi sono recato al centro culturale islamico per fare domande riguardo all’orientamento dell’opinione pubblica musulmana sulle elezioni americane”, ha detto a Bet Magazine il massmediologo Klaus Davi raccontando delle vicissitudini legate alle interviste al mondo arabo presente nel capoluogo lombardo. “Mi hanno accerchiato, spintonato e tentato di sottrarre qualcosa. Erano una cinquantina, erano armati. Gli aggressori sono stati mandati, erano minorenni e questo è un classico: se succede qualcosa di grave, le pene per i minori sono attenuate. Credevo che dopo l’aggressione che ho subito a giugno, un evento del genere non si ripetesse”, afferma il giornalista in soccorso del quale "è arrivata la polizia senza che io la chiamassi, qualcuno deve averli avvertiti” racconta Klaus Davi, che in quel momento era impegnato a cavarsela da solo, accerchiato prima per strada e poi in un bar dove si era rifugiato. “Ho chiesto al barista di chiamarmi un taxi ma lui non mi ha aiutato”.
Successivamente, è intervenuta la Digos per prelevare il giornalista, farlo salire in macchina e portarlo via. “Gli aggressori hanno preso di mira la macchina della Polizia, vi si sono scagliati contro. Si sono accaniti verso gli agenti, è un comportamento mafioso. È sconcertante, un grave segnale di illegalità. Dove si andrà a finire non lo so, ma in queste periferie di Milano stiamo assistendo alle dinamiche della Francia” ha detto il massmediologo. Quando gli agenti hanno fatto salire il giornalista in macchina, la vettura è stata presa a calci e pugni dagli arabi che l’hanno inseguita una volta in moto. “Fai veloce, chiudi, vai vai vai!” dice un agente all’altro intimandogli di sbrigarsi nel richiudere lo sportello dell’auto e ripartire, mentre i colpi degli arabi venivano incassati dalla fiancata e dai vetri. “Stamattina mi è arrivata una lettera, un italiano mi ha scritto che gli arabi ce l’avevano proprio con me”, confessa a fine intervista il giornalista che, fortemente preoccupato per il proliferare di violenza che vige in alcune zone di Milano a causa dei comportamenti degli arabi, sottolinea l’importanza di porre tali dinamiche all’attenzione delle istituzioni.
(Bet Magazine Mosaico, 4 novembre 2024)
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Un nuovo patrimonio per la storia degli ebrei di Libia: l’archivio di Mordechai Ha-Cohen catalogato in Israele
di Olga Flori
La storia degli ebrei di Libia potrà essere esaminata sotto una nuova luce grazie alla catalogazione effettuata dalla Biblioteca Nazionale d’Israele dell’archivio del rabbino Mordechai Ben Yehuda Ha-Cohen di Tripoli, considerato dagli studiosi il più importante storico dell’ebraismo di quest’area geografica.
Mordehai Ha-Cohen nacque a Tripoli nel 1856 da una famiglia di origini italiane. Rimasto orfano di padre in giovane età, Ha-Cohen iniziò presto a lavorare, dedicandosi a molteplici attività. Oltre ad insegnare in un Talmud Torah, imparò a riparare orologi e lavorò come venditore ambulante, mestiere che gli permise di viaggiare e di conoscere meglio le comunità ebraiche nei villaggi delle zone più rurali della Tripolitania.
Studioso autodidatta e dotato di numerosi interessi, Ha-Cohen si dedicò all’antropologia, all’etnografia, all’etnologia, esplorando anche temi molto diversi tra loro come la medicina, la magia e l’astronomia. La sua prima importante opera, Higgid Mordechai, fu dedicata alla storia della Libia e degli ebrei libici, analizzando usi e costumi con particolare attenzione alle istituzioni ebraiche locali e al rapporto tra il mondo arabo e quello ebraico. In quest’opera Ha-Cohen mostra interesse anche per le comunità ebraiche dei villaggi rurali e per la comunità di Bengasi, a cui dedica una sezione speciale. Infatti, nel 1919 Ha-Cohen era diventato dayan (giudice della corte rabbinica) della comunità ebraica di Bengasi, carica che ricoprì fino alla sua morte nel 1929. L’ufficio coloniale italiano in Libia mostrò grande interesse per l’opera di Ha-Cohen, soprattutto per la sezione dedicata alle istituzioni e ai costumi, che fu tradotta da Marino Mario Moreno.
Ha Cohen fu molto prolifico e scrisse anche numerosi articoli, soprattutto per i quotidiani Ha-Herut e Ha-Yehudi. Un momento importante della vita di Ha-Cohen fu l’incontro con Nahum Slouschz, studioso delle comunità ebraiche orientali. Slouschz rimase favorevolmente impressionato dalle conoscenze di Ha-Cohen, tanto da invitarlo ad unirsi a lui nei suoi viaggi come guida. La collaborazione tra i due studiosi proseguì anche dopo che Slouschz lasciò la Libia.
Mordechai Ha-Cohen morì nel 1929. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la sua famiglia affidò i manoscritti delle sue opere allo storico e professore Ephraim Elimelech Urbach, che prestava servizio nell’esercito britannico. Urbach fece arrivare i testi alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme. In seguito, alcuni famigliari di Ha-Cohen emigrarono in Israele portando con sé molti documenti personali di Ha-Cohen, anch’essi donati alla Biblioteca Nazionale.
L’opera di Mordechai Ha-Cohen è stata studiata con passione dal professor Harvey E. Goldberg, ricercatore dell’ebraismo libico, che ha curato l’edizione dell’opera “Higgid Mordechai”.
Tra i documenti di Ha-Cohen conservati presso la Biblioteca nazionale vi sono articoli, copie di lettere e numerosi manoscritti. Grazie alla donazione della Samis Foundation di Seattle, dedicata alla memoria di Samuel Israel, l’archivio del rabbino tripolino è stato catalogato ed è ora consultabile alla National Library of Israel. Questo archivio rappresenta un tesoro culturale per approfondire la comprensione e l’analisi storica e culturale degli ebrei libici.
(Shalom, 4 novembre 2024)
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Israele comunica all’ONU il ritiro dall’accordo sulla UNRWA
di Sarah G. Frankl
Il Ministero degli Esteri ha informato ufficialmente l’ONU che Israele si ritirerà dall’accordo del 1967 che riconosce l’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA, dopo che la Knesset ha approvato una legge volta a limitare severamente le operazioni dell’agenzia in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Il direttore generale del Ministero degli Esteri Jacob Blitshtein ha inviato la lettera al presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite Philemon Yang del Camerun, informandolo che “Israele continuerà a lavorare con i partner internazionali, tra cui altre agenzie delle Nazioni Unite, per garantire la facilitazione degli aiuti umanitari ai civili a Gaza in un modo che non comprometta la sicurezza di Israele. Israele si aspetta che le Nazioni Unite contribuiscano e cooperino a questo sforzo”. La scorsa settimana, la Knesset ha approvato una legge che proibisce all’UNRWA di operare dal territorio israeliano e proibisce alle agenzie governative israeliane di collaborare con l’UNRWA. La legge entrerà in vigore tra tre mesi. “L’UNRWA, l’organizzazione i cui dipendenti hanno partecipato al massacro del 7 ottobre e molti dei cui dipendenti sono operativi di Hamas, è parte del problema nella Striscia di Gaza e non parte della soluzione”, afferma il ministro degli Esteri Israel Katz. “All’ONU sono state presentate infinite prove sugli operativi di Hamas che lavoravano all’UNRWA e sull’uso delle strutture dell’UNRWA per scopi terroristici e non è stato fatto nulla al riguardo”. Katz nota inoltre che attualmente solo il 13% degli aiuti a Gaza passa attraverso l’UNRWA e sostiene che l’idea che non ci siano alternative all’UNRWA è una finzione. L’ambasciatore presso le Nazioni Unite Danny Danon accoglie con favore la ritrattazione da parte di Israele di un accordo del 1967 che costituiva la base delle relazioni di Israele con l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi e i loro discendenti. “Nonostante le prove schiaccianti che abbiamo presentato all’ONU a sostegno dell’infiltrazione di Hamas nell’UNRWA, l’ONU non ha fatto nulla per rettificare la situazione”, afferma Danon in un tweet. “Lo Stato di Israele continuerà a collaborare con le organizzazioni umanitarie, ma non con quelle che promuovono il terrorismo contro di noi”, aggiunge.
(Rights Reporter, 4 novembre 2024)
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Mille scrittori dichiarano di boicottare Israele. E parte la contro-petizione
di Nathan Greppi
Oltre 1.000 scrittori hanno recentemente firmato un appello in cui dichiarano di non voler collaborare in alcun modo con le istituzioni letterarie israeliane e di non volere che i loro libri vengano pubblicati in Israele. Tra gli scrittori che hanno aderito all’appello, lanciato in occasione del Palestine Festival of Literature, figurano l’irlandese Sally Rooney, gli americani Percival Everett e Jhumpa Lahiri e l’indiana Arundhaty Roy.
Gli autori, che hanno accusato Israele di genocidio, hanno affermato che “non coopereremo con istituzioni israeliane tra cui editori, festival, agenzie letterarie e pubblicazioni” se “sono complici nella violazione dei diritti dei palestinesi” o “non hanno mai riconosciuto pubblicamente i diritti inalienabili del popolo palestinese sanciti dal diritto internazionale”.
Molti degli autori che hanno firmato l’appello al boicottaggio avevano già espresso in precedenza posizioni ostili nei confronti d’Israele. Prima del 7 ottobre, la Rooney aveva già dichiarato nel 2021 che non avrebbe fatto tradurre i suoi libri in ebraico da una casa editrice israeliana, in quanto sostenitrice del BDS.
• LA REAZIONE In risposta al boicottaggio, più di 1.000 scrittori, accademici ed esponenti del mondo dello spettacolo hanno firmato un contro-appello, promosso dall’organizzazione no profit Creative Community for Peace. Tra i firmatari, spiccano ad esempio il filosofo Bernard Henri-Lévy, l’autore di romanzi thriller Lee Child, le autrici Premio Nobel per la Letteratura Herta Müller ed Elfriede Jelinek, lo storico Simon Schama, l’attrice Mayim Bialik e i musicisti Ozzy Osbourne e Gene Simmons.
“Noi sottoscritti scrittori, autori e professionisti dell’industria dell’intrattenimento respingiamo gli appelli a boicottare scrittori, editori, autori, festival del libro e agenzie letterarie israeliane ed ebraiche”, si legge nell’appello. “Continuiamo a essere scioccati e delusi nel vedere i membri della comunità letteraria molestare e ostracizzare i loro colleghi perché non condividono una narrazione unilaterale in risposta al più grande massacro di ebrei dai tempi della Shoah”.
“Israele sta combattendo guerre esistenziali contro Hamas e Hezbollah, designati come gruppi terroristici dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Unione Europea”, affermano. “L’esclusione di chiunque non condanni unilateralmente Israele è un’inversione della moralità e un offuscamento della realtà”.
• I PRECEDENTI Nell’ultimo periodo, a causa dei crescenti boicottaggi, è capitato persino che degli scrittori si rifiutassero di partecipare ad un convegno solo perché la moderatrice sarebbe stata filoisraeliana: è quello che è successo all’autrice ebrea americana Elisa Albert, che nel settembre 2024 avrebbe dovuto moderare un incontro presso la fiera del libro della città di Albany, nello Stato di New York. Tuttavia, prima dell’incontro ha ricevuto una mail da un organizzatore del festival che la informava che l’evento era stato annullato: il motivo? Due dei tre relatori, le autrici Lisa Ko e Aisha Abdel Gawad, non volevano sedersi con la Albert perché non volevano apparire in pubblico con una “sionista”.
Ci sono stati anche autori di origini ebraiche che sono stati presi di mira pur non avendo mai preso posizione sul conflitto a Gaza: è il caso di Gabrielle Zevin, autrice americana di padre ebreo e madre coreana. Il suo romanzo Tomorrow, and Tomorrow, and Tomorrow, a lungo un bestseller negli Stati Uniti, nel luglio 2024 è stato rimosso dagli scaffali di una libreria di Chicago perché etichettata come “sionista”, in quanto nel febbraio 2023 aveva partecipato ad un evento organizzato dall’associazione femminile sionista Hadassah.
(Bet Magazine Mosaico, 4 novembre 2024)
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Intellettuali allo sbaraglio
Rav Roberto Della Rocca
Si può siamo liberi come l’aria….. …..Si può contestare e parlare male …..si può fare critiche dall’esterno …..viene la voglia un po’ anormale di inventare una morale Utopia trrr Utopia trrr utopia pia pia trrrr
"Si può” è una famosa canzone di Giorgio Gaber degli anni ‘70
nella quale si enfatizza un certo approccio anarchico e vorace del concetto della libertà. Sono parole molto attuali e indicative di come sembra ormai possa dirsi tutto e il contrario di tutto ignorando quei paletti e quelle distinzioni che ci aiutano a mettere a fuoco, a selezionare e ad affrontare la vita e i problemi con onestà e responsabilità. In nome di un invocato e malinteso pluralismo e di una sedicente libertà di pensiero si legittimano mistificazioni e capovolgimento dei valori, per cui non esistono più verità, ma solo post-verità manipolate e manipolabili. Si è giunti addirittura a mettere sullo stesso piano un eroe dell’antica Grecia come Ettore, che ha dato la sua stessa vita per difendere il suo popolo, e un impenitente terrorista come Yahya Sinwar che ha ucciso tante vite, tra cui quelle del suo popolo, per difendere il suo delirio di odio e la sua sete di sangue ebraico.
Negli ultimi mesi ci domandiamo con amarezza quanto sia utile continuare a spiegare le ragioni di Israele, dato che molti maître à penser, intrappolati in una visione unilaterale e distorta, sembrano ormai privi della volontà di ascoltare e di condurre un’analisi seria e onesta su una realtà complessa e articolata.
C’è però una novità sconcertante in questa nuova e virulenta ondata di antisemitismo. L’abuso spregiudicato e oramai sdoganato di temi religiosi, di alcuni insegnamenti biblici e della cultura ebraica, che vengono impiegati con superficialità da molti intellettuali, soprattutto della cosiddetta sinistra liberale, per sostenere alcune demagogiche argomentazioni. Si fanno riferimenti al libro del Levitico, ad esempio: la condanna della vendetta è interpretata in modo da riproporre pregiudizi notoriamente legati a teorie antigiudaiche, in perfetto stile “cattocomunista”, ignorando che è proprio il Levitico, soprattutto nel capitolo 19, che sottolinea invece i principi etici fondamentali dell’ebraismo, come per esempio: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, “Non vendicarti e non serbare rancore”, “Ama lo straniero” e così via, valori che l’ebraismo ha insegnato all’umanità. Ignorando tali principi, che da sempre contraddistinguono la cultura ebraica, si trasforma un testo sacro in un presunto manifesto di odio, usando con disinvoltura infelici dichiarazioni isolate di politici israeliani, come se queste rappresentassero la visione del popolo ebraico tout court. C’è un ritorno a quel consueto cliché paolino e marcioniano, ripreso ormai anche da certa sinistra che si dichiara – sempre più impropriamente – laica e progressista, che considera il “Vecchio Testamento” solo una fonte di legalismo e vendetta, superato da una nuova alleanza di amore e universalismo di cui si ritiene priva la Bibbia ebraica.
Che questi pregiudizi persistano in contesti reazionari cattolici e islamici non ci stupisce oltremodo, ma vederlo riaffermato da coloro che rappresentavano per buona parte dell’opinione pubblica il cotè intellettuale del nostro paese, incapace di andare oltre una lettura superficiale, è disarmante. Assistiamo a reiterati attacchi alla tradizione ebraica, che sembrano aderire a una “religione dell’antireligione” piuttosto che a un’analisi illuminata: un vero intellettuale laico dovrebbe, infatti, incoraggiare i lettori ad approfondire, a cercare i testi, a studiare la storia ebraica e, come per tutte le culture, a cercare maestri e punti di riferimento validi. Così facendo, aiuterebbero davvero a “scoprire” la cultura ebraica nella sua autenticità. Ancora una volta ci si appella a esempi riduttivi e stereotipati, che ritraggono il Dio ebraico come promotore di una legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente” – Esodo 21, 24 e Levitico 24, 17-22), ignorando che la “cultura ebraica” implica un dialogo con le fonti talmudiche, scritte dai tanto “deprecati” Farisei, che sostituiscono la vendetta con il risarcimento. Secoli prima della moderna e “civile” (?) Europa, il Talmud introduceva concetti quali il lucro cessante e il danno emergente, stabilendo il principio di proporzionalità e spostando la punizione in una sfera giuridica pubblica. Tutte le storie della Bibbia ebraica esaltano quell’amore misericordioso che caratterizza la Tradizione di Israele e di cui, ancora oggi, si ritrova traccia nell’odierno Stato ebraico, i cui ospedali si prendono cura di tante vittime del fronte opposto, e di tanti altri esempi di grande umanità che molte “anime belle e caritatevoli” preferiscono continuare a ignorare.
Si incensano esclusivamente – elevandoli come modelli esemplari del popolo ebraico – quegli ebrei “democratici” che promuovono il valore del “pluralismo” , predicato molte volte a senso unico e proprio da chi con granitiche certezze esclude a priori tutto ciò che è “diverso” da sé. Un sedicente pluralismo strumentalizzato per giustificare comportamenti irresponsabili, che finiscono per delegittimare i principi su cui si fonda la stessa sopravvivenza della Comunità.
Non è chiaro su quali basi si attribuisca questa patente di “democratico”, ma dalle loro esternazioni pare evidente che il criterio sia la volontà di dissociarsi da Israele. Come se la titolarità di “democratico illuminato” appartenesse esclusivamente a chi dimostra di scagliarsi contro Israele. Non risparmiano parole di sussiego e disprezzo verso quegli ebrei che quotidianamente interpretano proattivamente la loro cultura di minoranza e che lottano affinché ci siano sempre culture di minoranza. Una posizione semplicistica e dannosa, abbracciata anche da alcuni nostri correligionari, irretiti da questa logica manichea che vede le “anime buone”, gli ebrei secolarizzati e figli dell’Illuminismo da un lato, e dal lato opposto gli “ignoranti e bellicosi”.
Ci si lancia in solenni appelli e proclami sull’onda della manipolazione mediatica, strumentalizzati a ogni piè sospinto da opinionisti della peggior specie, trascurando la sofferenza e il rischio a cui altri membri del nostro popolo sono esposti ogni giorno, in prima linea per difendere il popolo ebraico tutto. E come se non bastasse, denunciano il timore di essere messi alla gogna, invocando alla bisogna interventi di rabbini dei cui insegnamenti nella loro vita quotidiana ignorano sfacciatamente la maggior parte. Sia chiaro: ognuno ha il diritto di essere ciò che crede sulla base di scelte esistenziali consapevoli e meditate. E nessuno deve permettersi di offendere, minacciare altri solo perché non la pensano come lui. Mi interrogo tuttavia sul perché di tanto sussiego intellettuale, di tanto atteggiamento sprezzante verso chi magari non esibisce quarti di nobiltà culturale o ancora verso chi non ha potuto o voluto darsi una preparazione all’altezza. Intellettuali incapaci di scendere dal proprio Aventino e mescolarsi, condividere con gli altri, con la loro comunità, momenti di gioia e di dolore. Un atteggiamento provocatorio, che si trincera spesso dietro a un vittimistico e piagnucoloso complesso di emarginazione.
A chi oggi rivendica la patente di “ebreo progressista e illuminato”, a chi oggi non riesce neppure a riconoscere un testo della cultura ebraica nella sua basica divisione, a chi invoca e mette in mostra strumentalmente lo spirito dialettico del Talmud senza sapere neppure decifrarne una misera lettera, io dico che sarebbe giunto il tempo di scendere dal piedistallo per mettere al servizio di altri ebrei – più umili e semplici – competenze e cultura, senza snobismi, senza arroganza. E forse insegnare. Ma anche imparare tante cose. Di fronte ai pericoli di oggi, agli interrogativi inquietanti che agitano le nostre Comunità, non possiamo permetterci divisioni interne. A un ebraismo italiano che conta solo 25 mila anime (!), l’antisemitismo che si accompagna alla santificazione retorica della Shoah, il timore per la sopravvivenza fisica di Israele, la minaccia del terrorismo globale che ci vede consapevolmente obiettivi sensibili, tutto questo ci chiama e ci scuote, ci tira per la giacchetta e ci strattona. Ecco allora che una strategia possibile può diventare quella di serrare le fila e riappropriarsi della possibilità di costruire un domani a partire da quel nobile insegnamento dei Profeti – forse un po’ meno trendy di quelli richiamati negli interventi dei nostri intellettuali – “…. betòkh ammì anokhì yoshàvet”, “in mezzo al mio popolo io me ne stò…” (2 RE, 4; 13), sempre e comunque.
(moked, 4 novembre 2024)
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Le parole di Gesù su Gerusalemme dimostrano la restaurazione di Israele
Una confutazione dell'insegnamento secondo cui la Chiesa ha sostituito Israele, e un esame dei passi biblici che contrastano questa posizione del cosiddetto supersessionismo (chiamato anche teologia della sostituzione).
di Michael Vlach
Matteo 23:37-39 e Luca 13:34-35 sono una prova che Gesù si aspettava una futura restaurazione di Israele. Matteo 23:37-39 riporta le parole di Gesù agli abitanti di Gerusalemme:
Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Poiché vi dico che d'ora in avanti non mi vedrete più, finché diciate: 'Benedetto colui che viene nel nome del Signore!'”.
Il passo parallelo in Luca 13:34-35 recita in modo simile:
Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Io vi dico che non mi vedrete più, finché venga il giorno che diciate: 'Benedetto colui che viene nel nome del Signore!'”.
In questi due testi paralleli, Gesù avverte dell'imminente distruzione di Gerusalemme e del tempio, avvenuta perché gli abitanti ebrei lo hanno rifiutato. Gesù ha anche predetto che gli abitanti di Gerusalemme lo vedranno solo nel giorno in cui diranno: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”.
La predizione che gli ebrei si riferiranno un giorno a Gesù come il “Benedetto” è chiara, ma il modo in cui ciò avverrà è controverso. È questa la confessione degli ebrei disobbedienti su cui si abbatterà il giudizio escatologico, o la proclamazione di un Israele pentito in occasione della sua restaurazione? Noi propendiamo per la seconda ipotesi. Blomberg osserva che la “fede genuina” di Israele traspare dalle parole di Gesù in Matteo 23,39. Gesù sarà chiamato “Benedetto” da una nazione pentita al momento della sua restaurazione. Gundry sostiene che Matteo 23:37-39 “descrive la restaurazione di Israele nel regno del Figlio dell'uomo”. E aggiunge: “La limitazione delle profezie agli scribi e ai farisei (versetti 13-36) elimina la contraddizione tra queste profezie e la prevista conversione di Israele”.
Matteo 23:37-39 parla sia di giudizio che di speranza. La generazione di Israele in quel momento stava affrontando il giudizio, ma allo stesso tempo c'era la speranza di una futura restaurazione. Keener afferma che:
“Questo passo ci ricorda che Dio non dimentica ciò che ha promesso al suo popolo. Matteo lo cita nel contesto delle profezie sull'imminente giudizio, trasformandolo in un messaggio di speranza. La restaurazione di Israele era uno dei temi principali dei profeti biblici ed è menzionata almeno occasionalmente anche nel cristianesimo primitivo (Romani 11:26), anche se l'attenzione dell'apologetica cristiana primitiva si è spostata sempre più sulla missionarizzazione dei gentili”.
Anche Luca 13:34-35 proclama la speranza della restaurazione di Israele. Riferendosi a Luca 13:35, Tannehill spiega: “Il lamento di Gesù su Gerusalemme risuona con la speranza di salvezza per la Gerusalemme restaurata”. Evans ritiene che l'accoglienza favorevole di Gesù da parte dei Giudei, descritta in Luca 13:35, sia legata alla parousia: “Questa parola si riferisce quindi probabilmente alla parousia - a quel momento in cui il regno sarà finalmente restaurato a Israele (Atti 1:6,11). Allora Gerusalemme, dal collo rigido, loderà finalmente il suo Messia, e solo allora i suoi abitanti saranno riuniti sotto l'ala protettiva e premurosa del Messia. L'aspettativa è che la nazione ebraica, anche se non adesso, un giorno riceverà il suo Messia e sarà riconciliata con lui”.
Koenig collega anche la gioiosa accoglienza di Gesù da parte degli ebrei con la parousia e la restaurazione di Israele: “Ma questo significa che la profezia in Luca 13,35 si riferisce a un altro evento futuro. Quest'altro evento è molto probabilmente la parousia - l'arrivo di Gesù a Gerusalemme come Messia e Figlio dell'uomo nel regno di Dio (Luca 21:27; Atti 1:11). In quel giorno, gli abitanti di Gerusalemme si pentiranno della loro cecità e accoglieranno Gesù con parole di lode. Dopodiché, potrà aver luogo la restaurazione finale di Israele”.
Bock sottolinea che la speranza di una futura restaurazione di Israele in Luca 13:35 è confermata in altri passaggi del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli:
“È discutibile se Luca stia parlando di speranza per il futuro di Israele in questo passo. Tuttavia, Luca 21:24 e il sermone degli Atti 3 dimostrano che Gesù e la Chiesa mantenevano questa speranza. Credevano che alla fine Dio avrebbe restaurato il suo popolo. Il Nuovo Testamento mostra addirittura che questo evento precederà il ritorno di Cristo, ed è per questo che Luca si riferisce al presente come al “tempo delle nazioni””.
Se vogliamo comprendere correttamente la frase “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”, allora dobbiamo tenere presente che si tratta dell'esclamazione gioiosa di un popolo pentito che sperimenterà una restaurazione e non del grido di un popolo condannato che sarà sottoposto al giudizio. Questo grido, citato in Matteo 23:39 e Luca 13:35, proviene dal Salmo 118:26. Il Salmo 118 è una preghiera di ringraziamento per la bontà salvifica di Dio. Evans afferma: “I rabbini hanno inteso il Salmo 118:26 come un riferimento al giorno della redenzione”.
Il tono gioioso del Salmo 118 suggerisce che anche la citazione in Matteo 23:39 e Luca 13:35 si riferisce a un'occasione gioiosa - la liberazione di un popolo restaurato. In relazione alla sua osservazione che gli ebrei consideravano il Salmo 118 come un salmo messianico di lode, Saucy spiega: “È molto più probabile che questa affermazione, che segue l'annuncio del giudizio, debba essere intesa come una promessa di una gioiosa accoglienza del Messia da parte degli abitanti di Gerusalemme”. Secondo Helyer, “è ovvio che si tratta della futura conversione di Israele (cfr. Romani 11,25-26). L'idea che l'esclamazione sia una confessione forzata della sovranità del Signore non è molto credibile, soprattutto se consideriamo il contesto della citazione del Salmo 118,26”.
Anche Bock contraddice l'idea che l'esclamazione degli ebrei esprima una confessione forzata di Gesù: “Un'altra spiegazione errata è che gli ebrei saranno costretti a riconoscerlo al ritorno di Gesù. La citazione del Salmo 118 è positiva e non si basa su una confessione forzata, ma convinta, di Gesù”. Matteo 23:39 e Luca 13:35 possono quindi essere considerati una prova della restaurazione del popolo d'Israele.
I teologi della sostituzione hanno criticato le interpretazioni di questi passi. Secondo France, ci sono “due fattori” che contrastano con l'idea che Gesù abbia predetto una salvezza nazionale di Israele. In primo luogo, France sostiene che le parole “finché non dicano” in Matteo 23:39 “non esprimono un fatto concreto in greco, ma una possibilità indefinita”. È “la condizione da cui dipende se lo vedranno di nuovo; ma non c'è alcuna certezza che questa condizione si realizzi”. In secondo luogo, France ritiene che, alla luce dell'annuncio del giudizio in Matteo 23 e 24, sia impossibile che Gesù abbia parlato di una speranza futura per il popolo di Israele nello stesso contesto:
“La predizione di una futura conversione non solo sarebbe in contraddizione con il fulcro dei capitoli 23 (di cui questi versetti sono il culmine) e 24, che riguardano il giudizio imminente, ma anche con il messaggio complessivo del Vangelo, che parla più volte dell'ultima possibilità di Israele e di un nuovo, internazionale popolo di Dio (8,11-12; 12,38-45; 21,40-43; 22,7; 23,32-36; ecc.)”.
Secondo i supersessionisti, il contesto del giudizio in Matteo 23:39 dimostra che Gesù non stava parlando di una futura salvezza o restaurazione di Israele in questo passo. Noi sosteniamo invece che in linea di principio non c'è contraddizione logica tra questo giudizio e la speranza per Israele dopo il tempo del giudizio. Goppelt scrive: “Matteo 23:39 potrebbe riferirsi a un incontro salvifico di Israele con il Signore che ritorna alla parousia”.
Anche Lange ritiene che Matteo 23:39 “contenga l'allusione a una futura conversione”.
Anche in mezzo al sobrio annuncio del giudizio, c'è quindi un barlume di speranza. Matteo 23,37-39 e il passo parallelo in Luca 13,35 predicono un giorno in cui gli abitanti di Gerusalemme accoglieranno con gioia il loro re. Senior osserva: “Secondo il Vangelo di Matteo, il rifiuto di Gesù da parte delle autorità è effettivamente un grave peccato che porterà al giudizio divino, ma la storia del rapporto di Dio con Israele non finisce qui. Verrà il giorno in cui Gerusalemme accoglierà di nuovo il suo Messia con grida di lode”. Ladd considera correttamente anche Matteo 23:37-39 come una prova che “Israele sarà salvato”. Il passo è anche una prova che l'offesa di Israele non è definitiva: “Questo rigetto [di Israele] non è definitivo e irrevocabile; verrà il giorno in cui Israele dirà: ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore’ (versetti 37-39). Il regno di Dio non sarà tolto ai Giudei nel senso che saranno scacciati per sempre, ma «tutto Israele» sarà salvato e incluso nel piano redentivo di Dio”.
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Estratto da Hat die Gemeinde Israel ersetzt?
(Nachrichten aus Israele, novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Usa in campo per una tregua elettorale, Hamas e Iran dicono no
È un accordo che dev’essere assolutamente trovato prima delle elezioni americane. Brett McGurk e Amos Hochstein, il primo come coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente e il Nord Africa, il secondo in qualità d'inviato di Washington, stanno facendo la spola tra Beirut e Gerusalemme. Obiettivo: concordare una proposta per porre fine alle ostilità tra Israele ed Hezbollah. Anche il capo della Cia, William Burns, e il comandante del Centcom (Comando delle forze armate Usa), il generale Michael Kurilla, sono impegnati in incontri e colloqui per far cessare il fuoco. È intenzione del presidente americano, Joe Biden, anche se i tempi stringono, portare a casa un risultato negoziale utile per l'attuale vicepresidente e candidata alle presidenziali, Kamala Harris. Secondo alcune indiscrezioni trapelate, il piano prevederebbe un cessate il fuoco di sessanta giorni, un tempo sufficiente per far applicare la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, risalente, tra l’altro, all’agosto 2006 e che prevede nel Libano meridionale il dispiegamento congiunto di forze libanesi e Unifil, in vista di una cessazione completa delle ostilità tra Israele ed Hezbollah. In sostanza nulla di nuovo. Risoluzione, che non è mai stata attuata, e che la mancata attuazione ha favorito il recente attacco israeliano contro Hezbollah, l’organizzazione politico-militare, sostenuta dall'Iran e particolarmente attiva nel sud del Libano, al confine con lo Stato ebraico. «Si sta facendo il possibile per trovare una soluzione diplomatica che faccia applicare in modo definitivo la risoluzione 1701 e consenta ai cittadini, sia israeliani che libanesi, di tornare alle loro case», ha affermato Sama Habib, portavoce dell'ambasciata statunitense a Beirut. Nella bozza dell’eventuale accordo è previsto, nei dettagli, il ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani, distante venticinque chilometri dalla frontiera israeliana, il posizionamento dell'esercito libanese lungo il confine e una forza di interposizione internazionale che faccia rispettare la tregua. Ma c'è un altro punto controverso: Israele pretende la libertà di azione ogni qualvolta lo riterrà utile e si sentirà minacciato. Le condizioni sono state messe nero su bianco. Il premier libanese, Najib Miqati, è ottimista, possibilista il nuovo leader di Hezbollah, Naim Qassem, che nel corso del suo primo intervento pubblico, oltre a sottolineare la continuazione con l'opera del suo predecessore, compresa la lotta contro Israele, ha anche dichiarato che non chiederà un cessate il fuoco, ma «se Israele decide di fermare l’aggressione, Hezbollah potrebbe accettare, alle condizioni che ritiene appropriate». Qassem ha anche negato che il gruppo stia «combattendo per conto di qualcun altro», aggiungendo che l’aiuto dell'Iran non prevede nulla in cambio. Non la pensa allo stesso modo Hamas che respinge qualsiasi proposta di sospensione temporanea. Con un post sui social, Taher al-Nunu, alto dirigente del gruppo terroristico ha scritto che «l’idea di una pausa momentanea nella guerra, per poi ricominciare, è qualcosa su cui abbiamo già espresso la nostra posizione. Hamas sostiene la fine permanente delle ostilità, non una temporanea». Nella proposta della bozza, non ancora consegnata ad Hamas, in discussione a Doha, tra il capo del Mossad, David Barnea, il direttore della Cia, Bill Burns, e il primo ministro del Qatar, è previsto lo scambio degli ostaggi israeliani con palestinesi prigionieri nelle carceri d’Israele e il ripristino duraturo degli aiuti a Gaza. Si ritiene che 97 dei 251 ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre 2023 siano ancora vivi, mentre circa trenta siano i corpi dei prigionieri uccisi da riportare in territorio israeliano. Vanno aggiunti anche due civili israeliani, entrati nella Striscia nel 2014 e nel 2015, e i corpi di due soldati dell’Idf uccisi nello stesso periodo. Nonostante si stiano alimentando delle aspettative di tregua, la guerra non si è mai fermata, infatti il cammino dei mediatori è in forte salita. Da Teheran, nel frattempo, arriva una doccia fredda: secondo fonti del Mossad, l’Iran si sta preparando ad attaccare Israele prima delle consultazioni presidenziali americane. La guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, ha dato l’ordine di predisporre una rappresaglia contro Israele. L'attacco dovrebbe avvenire tramite milizie filoiraniane presenti in Iraq, per evitare che Israele indirizzi nuovamente la risposta sulle basi iraniane già colpite duramente dalla precedente offensiva. Nel nord d’Israele, cinque persone sono state uccise e una è rimasta gravemente ferita da un razzo lanciato dal Libano e caduto in un terreno agricolo, nelle vicinanze della città di Metula. Le vittime erano braccianti impegnati in un frutteto di mele. Si tratta di un cittadino israeliano e di quattro stranieri. Altre due persone sono rimaste uccise, dalle schegge di un drone, mentre si trovavano in un uliveto fuori dal sobborgo di Kiryat Ata, nel distretto di Haifa. Il bilancio, in un solo giorno, è stato tra i più alti, da quando Hezbollah ha iniziato a lanciare razzi e droni nel nord di Israele. È il secondo, dopo l'uccisione di dodici bambini in un parco nella città drusa di Majdal Shams. Ma anche l'esercito israeliano continua a mietere vittime. In Libano, sono state uccise quasi cento persone negli attacchi contro la città orientale di Baalbek e in quella meridionale di Nabatiyeh, nella valle della Bekaa. L'attacco israeliano è avvenuto in concomitanza con il primo discorso del nuovo leader di Hezbollah, Naim Qassem, nel ruolo di segretario generale del movimento sciita filoiraniano. «È stato il giorno più duro per Baalbeck dall’inizio dell'attacco di Israele», ha dichiarato Bachir Kheder, governatore della regione. La Striscia è ridotta ad uno spettacolo spettrale, terrificante. L'ottanta per cento delle abitazioni è stato raso al suolo, la popolazione non ha più né viveri, né di che nutrirsi, ma soprattutto scarseggiano i medicinali. Mentre i bambini, i più indifesi, risultano essere la maggioranza delle vittime. Ieri mattina, le bombe sganciate dai droni israeliani hanno colpito un mercato nella zona di Sheikh Radwan, a Gaza City, provocando molti feriti. Almeno venticinque i morti a Deir el-Balah, nel campo profughi di Nuseirat e nella zona di az-Zawayda. Dal 7 ottobre 2023, il bilancio registra il decesso di 43.163 persone e il ferimento di altre 101.510. Anche l'esercito israeliano ha subito pesanti perdite. Secondo l’Idf, i soldati uccisi dall’inizio delle ostilità sono oltre 900.
(Daily Compass, 2 novembre 2024)
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Lo sbarco notturno e l'irruzione nello chalet: blitz dei commando israeliani in Libano
Le forze speciali di Israele hanno fatto irruzione in uno chalet sulla costa di Batroun e hanno catturato una persona. Si tratterebbe di Imad Amhaz, un alto funzionario libanese di Hezbollah
di Federico Giuliani
L'irruzione improvvisa, la cattura del bersaglio, la fuga. I commando della Marina israeliana hanno completato con successo un blitz chirurgico nel nord del Libano arrestando Imad Amhaz, un alto funzionario libanese di Hezbollah. Le forze speciali dell'esercito di Tel Aviv sono entrati in uno chalet situato sulla costa di Batroun, a sud di Tripoli, e sono usciti portando con sé una persona. L'unità è quindi tornata in mare abbandonando la zona a bordo di motoscafi al termine di una mossa improvvisa e senza precedenti. Secondo quanto riferiscono i media arabi, un gruppo formato da circa 25 soldati armati ha effettuato uno sbarco navale e catturato un uomo. Il ministro dei Lavori e dei Trasporti di Beirut, Ali Hamiyah, ha negato "che il suo ministero abbia rilasciato commenti o dichiarazioni su quanto circolato sullo sbarco a Batroun", e spiegato che la ricostruzione di quanto avvenuto "spetta ai servizi di sicurezza e alle autorità competenti".
• IL BLITZ DI ISRAELE IN LIBANO: CHE COSA È SUCCESSO La vicenda è avvenuta all'alba di venerdì. Le agenzie di stampa libanesi parlano di un rapimento andato in scena a Batroun e scrivono che le indagini sono in corso. Una fonte citata dall'Orient Today ha negato la notizia diffusa sui social network secondo cui l'obiettivo della cattura israeliana coincidesse con un presunto capitano delle forze navale libanesi. Al contrario, l'uomo misterioso prelevato dal commando di Tel Aviv sarebbe una persona legata ad Hezbollah. La nebbia è però ancora fitta e ci sono pochissimi particolari disponibili. Le riprese catturate dalle telecamere di sorveglianza dell'area mostrano circa quindici soldati armati che prendono con forza quello che sembrerebbe essere un civile.
La National News Agency, l'agenzia stampa ufficiale del governo libanese, ha confermato che è stata aperta un'indagine. Ha anche citato testimonianze locali su un'"operazione di forze armate non identificate" sulla spiaggia di Batroun. Questi uomini sarebbero entrati in uno "chalet", uno studio sul mare, per rapire "un cittadino libanese" prima di lasciare la zona in motoscafo. Fonti della sicurezza hanno riferito a LBCI, la rete televisiva libanese, che l'individuo preso di mira è identificato dalle iniziali IA e hanno suggerito che il rapimento potrebbe coinvolgere le forze navali israeliane. Al Jazeera ha invece menzionato una "incursione marittima da parte di commando israeliani". I media israeliani sostengono che la persona coinvolta, come detto, sarebbe Imad Amhaz, e cioè un alto funzionario di Hezbollah.
• HEZBOLLAH NEL MIRINO DELLE IDF In attesa di capire cosa è accaduto a Batroun, le Forze di difesa israeliane (Idf) continuano ad eliminare i membri di Hezbollah. L'esercito israeliano ha riferito di aver ucciso due comandanti del gruppo filo iraniano nell'attacco sferrato ieri nella zona di Tiro in Libano. Si tratta di Moein Musa Izz al-Din, il comandante dell'unità regionale costiera di Hezbollah, e Hassan Majed Diab, il comandante dello schieramento di artiglieria dell'unità. Secondo l'Idf, Diab era responsabile di un lancio di razzi sulla zona della baia di Haifa giovedì, che ha ucciso una madre e un figlio, e del lancio di più di 400 altri razzi nell'ultimo mese.
In precedenza, Tel Aviv aveva dichiarato di aver colpito depositi di armi e basi del gruppo in Siria. L'aviazione israeliana, nello specifico, ha spiegato di aver colpito obiettivi vicino a Qusair, una città nella Siria occidentale al confine con il Libano. L'esercito sostiene che Hezbollah ha recentemente iniziato a immagazzinare armi lungo il confine siro-libanese nel tentativo di contrabbandare dispositivi bellici nel Paese dei cedri.
Dall'inizio dell'invasione di terra di Israele in Libano, l'esercito ha colpito più volte i valichi di frontiera fra Libano e Siria, sostenendo che servivano come vie per il contrabbando di armi.
Secondo i gruppi umanitari, gli attacchi hanno intensificato una crisi già grave, bloccando le vie principali per i rifornimenti e impedendo l'accesso alle persone in fuga. Tre dei sei valichi di frontiera ufficiali fra i due Paesi sono stati chiusi a causa degli attacchi aerei, costringendo le persone in fuga dal Libano a lunghe deviazioni o a muoversi a piedi.
(il Giornale, 2 novembre 2024)
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Bill Clinton: “Hamas non ha interesse a uno Stato palestinese. Arafat non mi ha detto la verità”.
In occasione di un comizio elettorale per Kamala Harris in Michigan, l'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha descritto la realtà del conflitto tra Israele e i palestinesi e ha puntato il dito contro l'Autorità palestinese e Hamas.
L'ex presidente democratico ha detto a un pubblico in gran parte filo-palestinese: “Lasciate che vi parli dell'argomento più difficile qui in Michigan: il Medio Oriente. Penso che dovremo ricominciare il processo di pace da capo. Capisco perché i giovani palestinesi e arabo-americani del Michigan pensano che troppe persone abbiano perso la vita da allora. Ma le persone che vivevano in quei kibbutzim, proprio accanto a Gaza, erano le più favorevoli all'amicizia con i palestinesi, le più favorevoli alla soluzione dei due Stati di tutta l'opinione pubblica israeliana. E Hamas li ha massacrati”.
Ha poi difeso la posizione di Israele dal 7 ottobre, evidenziando il cinismo di Hamas: “Le persone che criticano Israele dicono ‘sì, ma guardate quante persone sono state uccise in cambio’. Ma cosa avreste fatto se fosse stata la vostra famiglia ad essere massacrata? Se foste sempre stati a favore di una patria palestinese e un giorno venissero a massacrare la gente del vostro villaggio? Hamas usa i civili per proteggersi. Ti costringono a uccidere i civili se vuoi difenderti”.
Il Presidente Clinton ha ripercorso gli anni trascorsi alla Casa Bianca e il ruolo di mediatore che ha cercato di svolgere nel 2000 tra Ehud Barak, allora Primo Ministro israeliano, e Yasser Arafat, durante i colloqui di Camp David: “Ho lavorato duramente. L'unica volta che Yasser Arafat non mi disse la verità fu quando mi promise che avrebbe accettato l'accordo. Questo accordo dava ai palestinesi uno Stato sul 96% della Cisgiordania e avrebbero deciso dove sarebbe stato il 4% per Israele. I palestinesi ottennero anche Gerusalemme Est come capitale, due dei quattro quartieri della Città Vecchia e il controllo delle torri di sicurezza di Israele in Cisgiordania. Tutto questo era stato approvato dal primo ministro israeliano Ehud Barak e dal suo gabinetto. E loro (i palestinesi) hanno detto no”.
E ha aggiunto: “Penso che tutto questo sia dovuto al fatto che Hamas non si preoccupa di una patria per i palestinesi, ma vuole solo uccidere gli israeliani e rendere Israele inabitabile”. Beh, ho una notizia per voi: gli ebrei erano lì prima, prima che la loro nazione esistesse. Erano lì al tempo del re Davide in Giudea-Samaria”.
Rivolgendosi agli elettori del Michigan: “Quando sento elettori del Michigan che non vogliono votare per i Democratici a causa del loro impegno per impedire la distruzione di Israele, penso che sia un errore. Penso che dobbiamo sempre cercare un modo per condividere un futuro comune. Non abbiamo il diritto di distruggere la via d'uscita da questo conflitto, nessuna delle due parti ha questo diritto. Non fraintendetemi, abbiamo l'Iran, un Paese sciita, Hezbollah, una setta sciita, gli Houthi, una setta sciita e ora anche Hamas, sunnita, che sono uniti nel pensare che l'unica cosa da fare sia espellere tutti gli ebrei da Israele. Mi dispiace, ma sono contrario. Penso che sia sbagliato. È in contraddizione con tutto ciò che sosteniamo e alla fine sarà un male per il popolo palestinese. Non dimenticherò mai Arafat quando mi disse che avrebbe accettato questo accordo. Gli dissi: “Pensi che mi importi dei bambini palestinesi?” e lui rispose: “Molto più di quanto importi agli arabi”. Mi disse che gli arabi si preoccupavano dei palestinesi solo quando potevano incolpare gli Stati Uniti e Israele per la rabbia nelle loro strade. L'argomento è molto più complesso di quanto non sappiate. Vi chiedo di mantenere una mente aperta. Kamala Harris ha detto di voler porre fine alla violenza e alle morti e di voler avviare un nuovo processo di pace, e questo dovrebbe essere sufficiente”.
(LPH INFO, 2 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dobbiamo imparare ad essere pazienti
Gli israeliani sono spesso impazienti. Vogliono tutto “qui e ora”.
di Aviel Schneider
Gli israeliani vogliono la pace “qui e ora” - Pace adesso. Gli israeliani vogliono il Messia “qui e ora” - Messia adesso. Gli israeliani vogliono gli ostaggi “qui e ora” - Ostaggi adesso. Gli israeliani vogliono un insediamento ebraico nella Striscia di Gaza “qui e ora” - Gaza adesso. Gli israeliani vogliono che la guerra finisca “qui e ora” - Vittoria adesso.
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Adesso! Gli israeliani chiedono il rilascio degli israeliani tenuti in ostaggio dai terroristi di Hamas nella Striscia di Gaza durante una manifestazione in “Piazza degli ostaggi” a Tel Aviv il 26 ottobre 2024.
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GERUSALEMME - Questo siamo noi e tutti rientrano in qualche gruppo. Gli israeliani non vogliono perdere tempo, a nessun costo. Il tempo è costoso, il tempo è denaro. Gli arabi fanno esattamente il contrario, giocano con il tempo. Non c'è nulla di affrettato. Gli israeliani non hanno pazienza per la “pazienza strategica”. Credo sia giunto il momento di imparare a essere più pazienti. “Rallegratevi nella speranza, siate pazienti nella tribolazione, perseverate nella preghiera”, dice San Paolo nel Nuovo Testamento [Romani 12:12, ndt]. È vero, ma non sempre è facile da mettere in pratica. Per decenni, gli iraniani hanno perseguito una politica di “pazienza strategica”, giocando a scacchi in Medio Oriente. Su alcune questioni, i persiani deliberatamente non agiscono subito. per ottenere vantaggi a lungo termine. Pazienza strategica significa usare il tempo per consolidare le posizioni e non reagire alle pressioni dell'opinione pubblica che chiede soluzioni rapide. Credo che il 7 ottobre abbia scosso molti israeliani dalla loro mentalità “qui e ora”. Il trauma di questo evento ci ha fatto capire che se vogliamo garantire la nostra esistenza in questa regione pericolosa, è necessario un profondo cambiamento strategico in Medio Oriente. Questo richiederà tempo e perseveranza. Quando all'inizio della guerra si parlava di una durata di uno o due anni, la gente non l'aveva interiorizzato perché eravamo abituati a guerre brevi. Questo è stato un concetto di guerra fin dalla fondazione dello Stato di Israele. Perché Israele non poteva permettersi guerre lunghe. Colpo su colpo. Abbiamo tutti continuato a pensare in termini di brevi round militari che duravano solo un mese o due. Chi nel Paese chiedeva a gran voce soluzioni rapide, accusava il Primo Ministro Benjamin Netanyahu di avere motivazioni politiche. Ma la pazienza ha pagato. Ci è voluta fino a quando le forze di terra sono avanzate nel nord della Striscia di Gaza, fino a quando abbiamo preso Rafah e riconquistato l'intero corridoio di confine di Philadelphia, fino a quando abbiamo sconfitto Hezbollah in Libano. E probabilmente ci vorranno ancora molti mesi prima che ci siano le condizioni per colpire la “testa del serpente iraniano”, cioè per attaccare e distruggere gli impianti nucleari in Iran - e quindi rovesciare il regime del Paese. Un altro obiettivo della guerra è la liberazione degli ostaggi israeliani nella Striscia di Gaza. Anche questo richiede una “pazienza strategica”, che è probabilmente la pazienza più crudele di tutte. A causa del fallimento del governo israeliano, dobbiamo esigere da noi stessi una pazienza strategica per poter liberare i nostri ostaggi in qualche modo e a un certo punto. E gran parte della popolazione israeliana non può sopportarlo. Da un lato, si può comprendere la situazione dei parenti che scendono in strada per chiedere aiuto per i loro cari. Ciò che è meno comprensibile è quando queste o alcune famiglie vengono strumentalizzate da organizzazioni politiche per attaccare il governo nelle strade. Hamas ha osservato le nostre proteste dai tunnel sotterranei del Paese per più di un anno e si sta sfregando le mani per la gioia. Gli israeliani sono impazienti e stanno servendo l'obiettivo tattico di Hamas. In ogni caso, credevano che questa pressione avrebbe messo all'angolo il primo ministro israeliano, che avrebbe accettato ulteriori compromessi. Ma ciò non è accaduto. Dai documenti di Yahya Sinwar a Gaza, rivelati dal Wall Street Journal, emerge chiaramente che la spinta per una soluzione rapida ha portato Sinwar a credere che il tempo giocasse a suo favore, poiché le proteste e le spaccature nella coalizione avrebbero costretto il governo a porre fine alla guerra prima che i suoi obiettivi fossero raggiunti. Questa mentalità del “qui e ora” influisce sulla capacità di riportare indietro gli ostaggi. Questo sarà possibile da una posizione di forza e di chiara vittoria solo se i nostri nemici capiranno che stiamo pensando a lungo termine e non ci faremo influenzare dalle loro manipolazioni emotive. Non è facile chiedere una pazienza strategica agli ostaggi e alle loro famiglie. Vivere 24 ore su 24 per più di un anno con la consapevolezza e il pensiero che i loro cari sono nell'inferno di Gaza è inimmaginabile. Sono l'ultima persona a criticare queste famiglie, anche se il loro comportamento fa il gioco dei nostri nemici. “Dalla conoscenza di Dio deriva l'autocontrollo. Dall'autocontrollo deriva la pazienza, e dalla pazienza deriva una vita di fede e di fiducia in Dio” [2Pietro 1:5-6, ndt]. La storia di Giobbe è probabilmente la più nota storia di pazienza della Bibbia. Nonostante tutto quello che Giobbe dovette affrontare, rimase paziente e confidò in Dio, il che in definitiva fu una “pazienza strategica”. Giobbe ha perso molto, ma ha guadagnato ancora di più. Il “qui e ora” è una reazione infantile che non è appropriata nella regione pericolosa in cui viviamo. La “pazienza strategica”, invece, è il comportamento di una nazione matura e responsabile che pensa a lungo termine. Ma questo non è il comportamento della società israeliana. Vogliamo davvero risolvere tutto “qui e ora” - e questo non funziona nella nostra realtà come vorremmo.
(Israel Heute, 2 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Kfar Aza, ricostruire il paradiso perduto
«A più di un anno dal massacro del 7 ottobre, dalla distruzione e dall’incendio, nelle ultime due settimane nel kibbutz Kfar Aza si sentono i rumori di lavori e speranza, non solo il boato dei cannoni e razzi», racconta Or Heller, corrispondente militare dell’emittente Reshet 13. Dal 15 ottobre la desolazione di Kfar Aza, tra le comunità più colpite dall’attacco di Hamas, si è trasformata in un via vai di volontari. Decine di persone hanno aderito a un progetto per ricostruire 16 unità abitative di uno dei quartieri del kibbutz. «La risposta delle persone da tutto il paese è straordinaria. Tutti vogliono unirsi, contribuire e dare qualcosa per la riqualificazione dell’area», ha spiegato ai media israeliani Omri Ronen, uno dei promotori del progetto.
I suoi nonni, Akiva e Nira, erano tra i fondatori nel 1951 di Kfar Aza. Rimasta vedova, Nira aveva continuato a vivere nel kibbutz, aiutata dalla sua badante, Angelyn Aguirre. Il 7 ottobre le due donne sono state assassinate dai terroristi palestinesi. «Avevo parlato con mia nonna quella mattina», ha ricordato in aprile Ronen in un’intervista a ynet. «Lei aveva sentito degli spari fuori dalla porta. L’avevo tranquillizzata. Ero certo che qualcuno sarebbe venuto ad aiutarla, ma non è arrivato nessuno. Che razza di animali uccidono una donna di 86 anni e la sua badante?». Tornato per la prima volta in aprile a Kfar Aza, Ronen ha scoperto un macabro messaggio lasciato dai terroristi in un taccuino della nonna. «Le Brigate Izz ad-Din al-Qassam sono passate di qui e hanno rimosso gli occupanti sionisti. Morirete e non resterete qui».
«Se pensano di intimidirci si sbagliano. Questo luogo è dei miei nonni, è mio, è nostro», ha replicato Ronen, soldato in una delle unità di élite di Tsahal. «Dobbiamo ricostruire tutte le comunità del sud, espanderle e svilupparle il più rapidamente possibile». E così, qualche mese dopo ha preso piede il progetto di riqualificazione di una parte di Kfar Aza. Oltre alla dirigenza del kibbutz, nel lavoro è coinvolta l’associazione Brothers and Sisters in Arms ed è stata avviata una raccolta fondi per sostenere l’iniziativa. «Questa è diventata la missione della mia vita», ha scritto Ronen in un appello pubblico. «Cerchiamo volontari con competenze professionali, aziende che vogliano donare attrezzature, e persone di buon cuore pronte a contribuire. Venite a posare mattonelle di speranza e a far tornare il kibbutz Kfar Aza il paradiso che era». In poche settimane, decine di persone hanno risposto e i lavori di ristrutturazione sono iniziati.
(moked, 2 novembre 2024)
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“Cari amici di Israele”
Editoriale di “Nachrichten aus Israel”
di Fredi Winkler
HAIFA - La guerra di Israele contro il Libano è iniziata in un modo completamente diverso da quello che la maggior parte delle persone avrebbe immaginato. In Israele il governo è stato accusato da più parti di non avere un piano d'azione. Tuttavia, questa accusa era fuori luogo, soprattutto perché il governo israeliano non avrebbe mai illustrato i suoi piani ai media per dare al nemico un preavviso. Al contrario, i media sono un mezzo per ingannare il nemico. I dirigenti di Hezbollah pensavano che i loro telefoni cellulari non fossero sicuri perché Israele poteva localizzarli con questi dispositivi. Erano convinti che i cercapersone sarebbero stati più sicuri e così Hezbollah si è rifornito di cercapersone. Come Israele sia riuscito a preparare questi cercapersone con esplosivi e a distribuirli tra i sostenitori di Hezbollah rimarrà probabilmente un mistero per molto tempo. Ma tutto ciò dimostra quanto Israele sia riuscito a infiltrare Hezbollah. Hezbollah ha molti nemici in patria e Israele ha ucciso diversi suoi leader. Quando i cercapersone hanno iniziato a esplodere, la situazione è diventata sempre più minacciosa per il suo leader Hassan Nasrallah. Ma nemmeno il bunker più profondo, con il suo cemento spesso un metro, è riuscito a salvarlo. Il modo in cui Israele lo ha localizzato e poi ucciso è stato un capolavoro militare. La prima parte della leadership di Hezbollah è ora morta e Hezbollah ha vissuto lo shock della sua vita. Ora Israele ha iniziato a invadere il Libano per distruggere le strutture sotterranee. Sarà una battaglia in salita per stanare e scacciare Hezbollah. Un leader religioso iraniano ha affermato pubblicamente che il motivo per cui Israele ha così tanto successo e per cui è riuscito a liquidare Nasrallah è che gli spiriti demoniaci lo stanno aiutando. Gli ebrei hanno sempre avuto accesso agli spiriti demoniaci. Questa affermazione dimostra che i leader religiosi in Iran hanno capito che qualcosa non sta andando normalmente in questa guerra contro Israele. Quanti miliardi hanno investito per distruggere il piccolo Israele, ma non ci stanno riuscendo. Sembra che abbiano capito che dietro Israele c'è un potere contro il quale non possono fare nulla. Tutto ciò che è accaduto al popolo d'Israele in passato e che sta accadendo oggi, sta accadendo perché Dio vuole rendere grande, santo e conosciuto il suo nome, come si legge in Ezechiele 38:23: “Io mi farò grande e santo e mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, ed esse sapranno che io sono il Signore!”. E ancora nel capitolo 39:21-22: “Mostrerò la mia gloria tra le nazioni e tutte le nazioni vedranno il mio giudizio che ho eseguito e la mia mano che ho steso su di loro. E la casa d'Israele saprà che io, il Signore, sono il loro Dio da oggi e per sempre”. Dio non solo vuole dimostrarsi grande e santo davanti a tutte le nazioni, ma anche davanti al suo popolo, Israele. Molti in Israele si sono allontanati da colui che li ha guidati attraverso il deserto in una colonna di nube e di fuoco. Ma lui vuole ricondurli a sé.
(Nachrichten aus Israel, novembre 2024)
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«Se uniti contro il terrorismo, arabi e israeliani saranno invincibili»
Da anni si dedica al dialogo tra arabi (musulmani e cristiani) ed ebrei nello Stato di Israele. Dopo il 7 ottobre il suo impegno si è rafforzato. Perché, spiega, «la minaccia terroristica ci ha ricordato ancora una volta quanto siamo fortunati a vivere in un Paese democratico e libero»
di David Zebuloni
In molti non lo sanno, ma su dieci milioni di cittadini israeliani, due milioni sono arabi. Proprio così. Camminando per le vie dello Stato ebraico, si ha la probabilità di incontrare un arabo, musulmano o cristiano, ogni cinque passanti. Una statistica importante per uno Stato continuamente accusato di apartheid. Gli arabi israeliani esistono, esistono eccome, e dal 7 ottobre vivono una crisi identitaria che mette in dubbio il loro io più interiore. “Chi sono? A chi appartengo? In cosa credo?” si domandano e, spesso, non trovano una risposta. A sciogliere i loro (e i nostri) dubbi è Yoseph Haddad, un giornalista e attivista arabo-israeliano che dal 2018 si prodiga a favore del dialogo tra i due popoli, esprimendosi apertamente, con grande coraggio, contro il regime totalitario di Hamas e condannando ogni forma di terrorismo di matrice islamica in Israele. Così, nell’ultimo anno, Yoseph è diventato uno dei volti più amati e conosciuti in Israele: colui che riesce a mettere d’accordo tutti pur non assecondando mai nessuno, se non se stesso e la sua integrità morale e intellettuale.
Da un anno a questa parte, infatti, Yoseph impiega le sue piattaforme sociali, con centinaia di migliaia di followers, a favore della causa israeliana, raccontando lo Stato ebraico così come nessun altro è riuscito a fare prima e dopo di lui. Forse, anche perché considerato obiettivo rispetto alla causa, non essendo ebreo. Il suo volto è presto diventato noto in tutto il mondo. Yoseph è apparso sugli schermi di Sky News, Fox News, CNN, BBC, difendendo sempre il diritto di Israele a esistere e creandosi così molti amici, e anche una bella dose di nemici.
Nessuna paura: nonostante riceva decine e decine di minacce di morte al giorno, nulla e nessuno può fermare Yoseph Haddad. Lo incontro a Tel Aviv per intervistarlo e scoprire i conflitti interni che affliggono gli arabi israeliani, ma scopro invece che parlare con lui è pressappoco impossibile. Ogni cinque minuti, qualcuno ci interrompe. Le parole pronunciate dai suoi ammiratori, poi, sono sempre le stesse. Come se leggessero tutti dallo stesso copione. “Sei il mio eroe Yoseph. Grazie di tutto quello che fai per Israele. Mi dai speranza per il futuro. Possiamo farci un selfie?”, sento ripetere una dozzina di volte in un’ora. All’inizio sbuffo infastidito, poi mi commuovo anch’io. Sentendolo parlare, non riesco proprio a trattenere le lacrime.
Dopo un anno privo di speranza, Yoseph riesce a convincermi che andrà tutto bene. E per un qualche inspiegabile motivo, nonostante non sia un politico, o un esperto militare, o un’autorità spirituale, io gli credo. Gli credo davvero. Quando finiamo l’intervista, ci casco anch’io: lo abbraccio, lo ringrazio, gli chiedo un selfie proprio come hanno fatto tutti i suoi ammiratori estasiati e inopportuni prima di me. Lui mi abbraccia, mi ringrazia a sua volta, sorride al selfie. Tuttavia, quando pronuncio la parola “coesistenza”, Yoseph mi ammonisce come se avessi detto una parolaccia. “Non parlare mai di coesistenza”, mi spiega con fervore. “Siamo seduti al bar da un’ora, già coesistiamo perfettamente. Ora dobbiamo solo imparare a dialogare e a fidarci l’uno dell’altro. Tutto qui”.
- Yoseph, quanto è difficile essere sia arabo che israeliano? La dissonanza fa parte della mia vita da sempre. Pensa: ho tre identità io. Sono arabo, sono cristiano e sono israeliano. Non è facile conciliare tre mondi a tratti contrastanti, eppure ci sono riuscito. Ci riesco ogni giorno. Un tempo pensavo che le mie identità si indebolissero a vicenda. Oggi invece so che si danno forza l’un l’altra.
- Perché oggi sei adulto e consapevole, trovi una risposta a ogni domanda, ma mi immagino il Yoseph bambino. Chi rispondeva alle sue domande? Quando ero bambino mi ponevo meno domande. Andavo a giocare a calcio a Haifa con gli amici e tutto ciò che mi interessava era fare gol. Poco importava se il portiere fosse arabo o israeliano. Eravamo una squadra. Amici. Fratelli. A volte discutevamo, certo, ma eravamo sempre d’accordo su un punto fondamentale: Israele è casa nostra. Di tutti noi. Una casa che ospitava tante culture diverse. A tredici anni conoscevo alla perfezione tutte le tradizioni ebraiche e i miei amici conoscevano alla perfezione tutte le tradizioni cristiane e la cultura araba dalla quale provengo. Io andavo a casa loro a fare il Seder di Pesach e loro venivano a casa mia a festeggiare il Natale. Loro erano fieri di essere ebrei, io ero fiero di essere arabo e cristiano. Tutti eravamo orgogliosi di essere israeliani.
- Descrivi un mondo ideale, in cui tutto avviene in modo naturale, facile, spontaneo. Nella realtà, tutto è difficile. Ti sbagli. Gli estremisti da entrambe le parti ci fanno credere che tutto sia difficile, nella realtà arabi e israeliani desiderano vivere insieme. Su una questione sono d’accordo con te: potremmo essere molto più uniti. Siamo ancora troppo distanti. Gli israeliani non conoscono abbastanza bene l’arabo e gli arabi non conoscono abbastanza bene l’ebraico. Abitiamo in quartieri lontani. Quando ci incontriamo per la prima volta? All’università, in maggiore età, quando ormai è troppo tardi per unirsi attorno a un pallone e dimenticarsi di appartenere a culture diverse.
- Eppure anche tu hai iniziato la tua carriera di attivista quando ormai eri un uomo, e non più un ragazzino. È vero, e sai perché? Perché avevo paura. Questa è la verità, avevo paura. Non è facile esporsi. Sapevo che gli arabi estremisti mi sarebbero venuti contro. E così è stato. Fino ad oggi vivo sotto minacce. Aggrediscono me e la mia famiglia. Hanno rotto a mia madre il braccio. Ma credimi, sono solo la minoranza. Fanno tanto baccano perché faticano ad accettare che Israele è la loro casa, che l’ebraico è la loro lingua, ma non rappresentano altro che la minoranza.
- E questa maggioranza di cui parli, dov’è? Perché non la vedo? La vedi eccome, vive attorno a te, ma non la senti. Gli arabi israeliani hanno paura di farsi sentire, perché non vogliono pagarne le conseguenze. Perché non vogliono subire ciò che ho subito io. Segretamente, però, in silenzio, desiderano vivere in Israele più di quanto lo desideri tu stesso. Se girassi per gli ospedali del paese, non crederesti ai tuoi occhi. Medici arabi che curano pazienti israeliani e medici israeliani che curano pazienti arabi, tutto in perfetta armonia. Lancio un appello a tutti quelli che parlano di apartheid: venite qui e visitate il paese. Se scoprite una realtà diversa da quella che descrivo, mi ritiro dalle mie attività per sempre.
- Io ti credo. La realtà che descrivi, l’unione e la solidarietà, l’ho vista e l’ho vissuta anch’io. Tuttavia, fatico a ignorare l’odio e la violenza di cui sono ancora testimone. Ti pongo una domanda e rispondimi sinceramente. Il 7 ottobre, hai temuto una rivolta da parte degli arabi israeliani? Hai temuto che si unissero a Hamas e compissero anche loro una strage nel cuore di Israele?
- Sì. Io no. Ero convinto del contrario, e avevo ragione. Il 7 ottobre ha solo accentuato la differenza tra gli arabi che vivono in Israele e quelli che vivono a Gaza. La strage di Hamas ha confermato agli arabi d’Israele quanto convenga loro vivere in uno Stato ebraico e democratico, e non sotto la dittatura islamica che vige in tutto il Medio Oriente. Credi davvero che gli arabi israeliani vogliano avere come loro leader tipi come Sinwar o Nasrallah? Certo che no. Nessuno teme e ripudia il regime islamico più di noi.
- Mi stai dicendo che il 7 ottobre ci ha avvicinati? Sì, è esattamente quello che sto dicendo. So che suona paradossale, ma un sondaggio dell’Università di Tel Aviv ha mostrato che, dopo la strage di Hamas, il 33,2% degli arabi in Israele si sono definiti israeliani e solo l’8,2% si sono definiti palestinesi.
- Nonostante ciò, il 90% di loro votano quei partiti arabi che si rifiutano di condannare il 7 ottobre e il terrorismo di Hamas. Hai ragione, ma solo perché non esiste ad oggi un’alternativa degna a questi partiti. Perché non esiste una leadership araba dichiaratamente sionista che renda giustizia alla popolazione araba locale. Perché è nell’interesse di questi politici ambigui continuare a definirsi vittime del sistema piuttosto che assumersi la responsabilità del loro destino. Tuttavia, su 120 parlamentari, sai chi è il politico con l’ufficio più grande di tutta la Knesset? Ahmad Tibi, un parlamentare arabo e musulmano. Il suo ufficio è secondo di grandezza solo a quello di Netanyahu. Ti rendi conto? Altro che apartheid.
- Il fatto che tu sia cristiano, credi che influisca sulla visione che hai dell’Islam? Sapevo che me lo avresti chiesto, me lo chiedono sempre tutti. La risposta è no, ma se non mi credi, lasciamo stare Yospeh Haddad e parliamo di Awad Daraushe, il paramedico musulmano che si è sacrificato soccorrendo le vittime del Nova. Ecco, Hamas lo ha ammazzato nonostante fosse musulmano. Parliamo di Yusuf Azayadli, anche lui israeliano e musulmano, che ha salvato più di trenta persone il giorno della strage. Quando lo hanno intervistato alla televisione, Yusuf ha detto: “Cosa importa se io sono musulmano e loro sono ebrei? Siamo tutti israeliani, tutti essere umani”. Il giovane soldato Yosef Hieb, rimasto ucciso da un drone di Hezbollah, appartiene a un’antica famiglia musulmana che ha combattuto già nella Guerra d’Indipendenza a favore della fondazione di uno Stato ebraico. Non sono casi isolati, ci sono centinaia di storie simili dal 1948 a oggi.
- Scusa se insisto Yoseph, ma un arabo può sentirsi davvero a casa in Israele? Può avvolgersi nella bandiera con la Stella di David e sentirsi sinceramente di appartenere? Può cantare l’inno dell’Hatikvah e provare orgoglio? Certo che sì, così come tu ti senti italiano nonostante tu sia ebreo. Tuttavia, io preferisco parlare di fatti e non di sensazioni. Il direttore della Banca Leumi, la banca più grande d’Israele, era arabo e musulmano. Il giudice della Corte suprema che ha mandato in carcere non uno, ma ben due presidenti israeliani, Ehud Olmert e Moshe Katzav, era arabo e musulmano. Smettiamola di far credere che gli arabi israeliani siano cittadini di serie B, sottomessi e privati di ogni diritto. Al contrario: la maggior parte di loro è fiera di vivere nello Stato ebraico, ovvero nell’unico Stato democratico del Medio Oriente.
- Eppure gli arabi in Israele e gli arabi a Gaza condividono le stesse radici. Alcuni di loro sono cugini di sangue. Sì, cugini che hanno provato ad ammazzarci il 7 ottobre. I missili di Hamas, d’altronde, non distinguono gli arabi dagli israeliani. Agli occhi dei terroristi, siamo tutti uguali. Nessun antenato comune ci rende immuni alla loro violenza.
- La guerra a Gaza, dunque, non suscita negli arabi israeliani alcun sentimento di antagonismo nei confronti dello Stato ebraico? Antagonismo? Suscita piuttosto un profondo senso di imbarazzo. Nell’ultimo anno, infatti, ho ricevuto innumerevoli messaggi da parte di arabi israeliani mortificati che mi chiedevano di condannare ciò che stava facendo Hamas anche in loro nome. “Come si può stuprare, ammazzare bambini, tenere degli innocenti in ostaggio in nome di Allah? Questo non è il nostro Dio. Questa non è la nostra religione. Questo non è ciò in cui crediamo”, mi hanno scritto in migliaia.
- Come uscirà Israele da questa guerra? Più forte di prima. Se c’è una cosa che ho imparato vivendo con voi, è che il popolo ebraico è indistruttibile. Non so di cosa siete fatti, ma so che non smettete mai di combattere per la vostra sopravvivenza e di vincere sempre. Nessun altro paese al mondo poteva sopportare un 7 ottobre e rialzarsi all’indomani. Questa volta, però, non siete soli. Ci siamo noi con voi. Insieme, siamo invincibili.
- Come fai ad esserne così certo? Semplice. Non so se ricordi, ma l’8 di ottobre l’esercito israeliano ha dichiarato di aver arruolato il 130% dei suoi riservisti. Molti più di quanti ne avesse effettivamente bisogno. Tutti volontari. Ebrei, cristiani, musulmani, drusi. Tutti uniti con un solo obiettivo: difendere la loro casa.
- Credi che rimarremo così uniti anche dopo la guerra? Ne sono convinto. Dimentichi che nel 2020 Michael Ben Zirki, ebreo e israeliano, è morto annegato per salvare tre bambini arabi e musulmani che non riuscivano a tornare a riva. Dimentichi che durante il covid il medico arabo Meir Ibrahim si è seduto accanto al letto di Rebbe Shlomo durante i suoi ultimi istanti di vita, gli ha stretto la mano e ha recitato insieme a lui lo Shemà Israel, poiché la sua famiglia non poteva assisterlo. Eravamo uniti prima della guerra, e dopo la guerra continueremo ad esserlo.
Prima del 7 ottobre sognavi una società priva di estremisti, basata sul dialogo e sulla tolleranza. Il tuo sogno è cambiato nell’ultimo anno? Il mio sogno è sempre lo stesso, non cambia mai. Anzi, s’intensifica. Questa guerra ci ha mostrato chi sono i nostri veri nemici e contro chi dobbiamo davvero combattere. La minaccia terroristica ci ha ricordato ancora una volta quanto siamo fortunati a vivere in Israele, in uno Stato ebraico e democratico, ma ha anche ribadito l’importanza del dialogo. Dobbiamo continuare a conoscerci a vicenda, a fidarci l’uno dell’altro. Israele è un paradiso, certo non privo di difetti, ma un paradiso. Il nostro paradiso. E nessuno ce lo porterà via.
(Bet Magazine Mosaico, 1 novembre 2024)
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Israele a un bivio: attaccare subito l’Iran o aspettare le mosse di Teheran?
Possibile che la storia dell'attacco iraniano diffusa da NYT e Axios sia vera, oppure che sia una trappola per spingere Israele a colpire per primo. In ogni caso, perché non farlo?
di Franco Londei
Secondo il New York Times gli Ayatollah iraniani starebbero pensando di portare un nuovo attacco a Israele in risposta a quello israeliano di sabato scorso.
Anche Axios suggerisce che a Teheran starebbero pensando di colpire nuovamente Israele anche se il piano sarebbe quello di usare anche i Proxy, soprattutto quelli iracheni.
È in questo contesto minaccioso che in Israele si è fatta avanti l’idea di colpire l’Iran con un attacco preventivo a sorpresa, per di più potendo godere dei risultati dell’attacco di sabato scorso che in pratica ha messo fuori uso tutte le difese iraniane.
L’attacco preventivo fa parte della dottrina militare israeliana. L’IDF lo ha usato anche di recente contro Hezbollah sventando un grande attacco e distruggendo buona parte dell’arsenale balistico dei terroristi libanesi. Quindi funziona.
Ma allora, perché Israele non sfrutta questo momento unico e irripetibile per “finire” l’avversario una volta per tutte e tagliare la testa della piovra iraniana? Qui il problema diventa serio perché entra in campo la politica, soprattutto quella di Biden (e della Harris).
L’attuale Amministrazione americana, in scadenza di mandato, punta su una de-escalation in tutto il Medio Oriente. Un attacco preventivo israeliano, invece, porterebbe a una escalation i cui risultati potrebbero essere molto dannosi per i democratici a pochi giorni dalle votazioni. Ci sarebbe un inevitabile innalzamento del prezzo del petrolio e del gas. Se poi le Guardie della Rivoluzione (IRGC) chiudessero lo Stretto di Hormuz e contemporaneamente gli Houthi chiudessero quello di Bab al-Mandab impedendo l’ingresso nel Mar Rosso, avremmo davvero una situazione fuori controllo.
A onor del vero bisognerebbe dire che il quadro descritto poco sopra potrebbe palesarsi anche se Israele non attaccasse preventivamente l’Iran ma lo facesse solo dopo essere stato attaccato come riferiscono il Times e Axios. Oppure anche se l’Iran attaccasse Israele e Gerusalemme, per ragioni fantascientifiche, non rispondesse. Quello della chiusura dei due stretti più strategici del mondo è l’unico vero deterrente che rimane a Teheran.
Ora, di questo ne sono convinti anche gli Ayatollah e i loro cagnolini da guardia, i pasdaran, e su questo contano per far pressione su Washington affinché a loro volta gli americani facciano pressione su Gerusalemme al fine di evitare la contro-risposta israeliana.
È un po’ come camminare sulla lama di un rasoio, i margini di errore sono ristrettissimi. E non si capisce dove finisce il bluff e dove cominci la realtà. Mi spiego meglio. Non è detta che quando gli Ayatollah fanno sapere che lanceranno un attacco contro Israele dicano la verità, anzi, è possibile che mentano. Il motivo? Spingere Israele a un attacco preventivo per poi dare tutta la colpa a Gerusalemme per le conseguenze di cui abbiamo parlato sopra.
Per di più sarebbe anche un buon metodo per evitare la figuraccia, che potrebbe essere letale per il regime, di veder fallire l’ennesimo attacco a Israele.
E se l’idea di un attacco fosse vera?
C’è un’altra ipotesi che circola tra l’intelligence di Israele: gli Ayatollah starebbero mettendo insieme quello che rimane degli arsenali di Hezbollah, Houthi dello Yemen e varie sigle terroristiche irachene per un attacco coordinato con missili e droni al fine di saturare le difese israeliane e poi colpire lo Stato Ebraico con i missili balistici lanciati dall’Iran. Questa ipotesi è molto verosimile ed è presa molto in considerazione a Gerusalemme.
Per il regime iraniano sarebbe una specie di “prendere o lasciare” o, per usare un termine derivato dal poker, un all-in con il quale mettere sul tavolo tutte le chips (o fiches che dir si voglia) sperando che l’altro abbia carte peggiori.
La scommessa iraniana si basa tutta sul fatto che a quel punto sarebbe Israele ad essere tra due fuochi: contrattaccare sapendo che l’Iran potrebbe bloccare completamente il mercato del petrolio, oppure cedere alle pressioni americane e ingoiare il rospo.
Per una operazione del genere a livello militare il momento giusto sarebbe adesso che Washington è in fase di transizione, ma a livello politico rischia di favorire Trump il che vorrebbe dire totale mano libera a Israele. È un bel dilemma.
Ricapitolando, per l’Iran un attacco preventivo da parte di Israele sarebbe la migliore delle ipotesi per i motivi che abbiamo spiegato sopra, soprattutto perché permetterebbe a Teheran di incolpare Israele di tutte le conseguenze che ne deriverebbero, situazione che potrebbe portare all’isolamento completo di Israele, che poi è anche uno degli obiettivi degli Ayatollah (e non solo).
Quindi, trappola o verità? Se le voci provenienti da diverse fonti che parlano di “impazienza” da parte di una parte del governo israeliano in merito ad un attacco preventivo sono vere, probabilmente lo vedremo nelle prossime ore. Personalmente avrei già attaccato, anzi, avrei finito il lavoro immediatamente dopo il primo attacco.
È una trappola? Possibilissimo, gli iraniani sono scaltri, quasi raffinati. Vale la pena cadere nella trappola iraniana? Secondo me sì. Se non ora quando?
(Rights Reporter, 1 novembre 2024)
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Parashà di Noach: Perché le donne sono esenti dalla prima mitzvà della Torà
di Donato Grosser
Nella parashà di Bereshìt nel racconto della creazione dell’uomo è scritto: “Dio creò l’uomo a Sua immagine (be-tzalmò)…”(Bereshìt, 1:27). R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) spiega che tzèlem è l’intelligenza che il Creatore diede all’uomo, a differenza delle altre creature.
Nel versetto seguente è scritto: “Dio li benedisse e Dio disse loro: crescete e moltiplicatevi…”. Questa è una delle tre mitzvòt che appaiono nel libro di Bereshìt. Le altre due sono quella di fare la milà (circoncisione) ai figli maschi e la proibizione di mangiare il nervo sciatico degli animali dopo la shechità (macellazione).
L’autore catalano del Sefer Ha-Chinùkh (Barcellona, XIII sec. E.V.), scrive che la “radice”, ovvero il motivo della mitzvà, è per far sì che il mondo sia abitato, come è scritto “… non l’ha creata perché rimanesse deserta, ma l’ha formata perché fosse abitata… (Isaia, 45:18). Ed è una grande mitzvà perché grazie ad essa possono essere osservate tutte le mitzvòt del mondo…”.
Le parole “Crescete e moltiplicatevi” appaiono due volte nella parashà di Noach, e sono rivolte a Noach e ai suoi figli, Sem, Cham e Yefet, quando il mondo doveva essere ripopolato dopo la distruzione del Diluvio.
Il fatto che queste parole furono rivolte solo ai figli di Noach, fa sì che r. Meir Simcha Hakohen (Lituania, 1843-1926, Riga-Lettonia) rav di Dvinsk, nella sua opera Meshekh Chokhmà, apra il suo commento a questa parte della parashà scrivendo che non è irragionevole affermare che il motivo per cui la Torà ha esentato le donne dalla mitzvà di crescere e moltiplicare e l’ha imposta solo agli uomini, è che la Torà non vuole imporre agli israeliti delle cose che sono fisicamente poco tollerabili.
Questo è anche il motivo per cui la Torà impone solo un giorno di digiuno, il Kippur; e ci ha obbligato a mangiare il giorno che precede il digiuno. Pertanto la Torà non ha imposto alle donne la mitzvà di avere figli, perché la gravidanza e il parto le mettono in pericolo. Per questo alla donna è permesso usare metodi anticoncezionali, come è raccontato nel Talmud (Yevamòt, 65b) nell’episodio di Yehudit, moglie di r. Chiyà, che soffriva di grandi pene durante il parto, e alla quale il marito permise di prendere una pozione per renderla infertile.
Dalla Torà impariamo che il desiderio delle donne di avere figli è superiore a quello degli uomini. Questo è dimostrato da Rachel, moglie di Ya’akòv che, essendo sterile, gli disse: “Dammi dei figli se no io muoio” (Bereshìt, 30:1). Questo desiderio viene solo per assicurare la continuazione della specie umana. Con tutto ciò è dimostrato che le donne sono esenti dalla mitzvà di avere figli dal fatto che quando l’Eterno apparve al patriarca Ya’akòv al suo ritorno dalla Mesopotamia gli disse: “Cresci e moltiplicati”, al singolare (Bereshìt, 35:11).
E se qualcuno domandasse perché l’Eterno diede sia ad Adamo che a Eva la benedizione “Crescete e moltiplicatevi”, si può rispondere che questo venne detto prima che essi commettessero il peccato di mangiare il frutto proibito. Prima del peccato la donna non avrebbe avuto nessuna sofferenza nell’avere figli. Dopo il peccato l’uomo fu punito a faticare per poter usufruire dei frutti della terra, mentre la donna fu punita con sofferenze nella gravidanza e con le doglie del parto (Bereshìt, 3:16-17).
Per questo l’ordine di crescere e moltiplicare fu dato solo a Noach e ai suoi figli maschi e poi solo al patriarca Ya’akòv.
(Shalom, 1 novembre 2024)
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Parashà della settimana: Noach (Noè)
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I piloti raccontano l’operazione “Giorni di pentimento”: “Ci siamo resi conto che stavamo facendo la storia”
di Luca Spizzichino
Nella notte del 26 ottobre, l’aviazione israeliana ha bombardato diversi obiettivi militari in Iran come rappresaglia per gli attacchi missilistici subiti tre settimane prima. Con oltre un centinaio di aerei, tra cui F-16 e F-35, le forze israeliane hanno condotto tre ondate di bombardamenti su infrastrutture strategiche iraniane. I Maggiori N. e S., rispettivamente un navigatore di combattimento e un pilota di caccia, hanno raccontato a Ynet le loro esperienze e le emozioni vissute durante questa storica operazione.
“Una volta in volo, ci siamo resi conto che stavamo facendo la storia, qualcosa che non era mai stato fatto prima,” ha dichiarato il Maggiore N. “Dopo l’atterraggio, ho avuto bisogno di un momento per comprendere l’impatto di ciò che avevo fatto. Gaza è vicina, il Libano è a una certa distanza, ma l’Iran è lontano, e non siamo abituati a essere lì”.
Padre di cinque figli, il Maggiore N. non ha condiviso i dettagli della missione con la sua famiglia, ma sua moglie e i suoi bambini comprendono il tipo di operazioni che svolge per l’aeronautica. “La mia famiglia sa già abbastanza. I bambini sono felici e orgogliosi,” ha aggiunto.
Per anni, l’aeronautica israeliana si è preparata per operazioni nel fronte orientale. Alla base di Ramon, il personale del 119° squadrone ha trascorso giorni a prepararsi a scenari di guerra, studiando il terreno e il comportamento dei caccia in situazioni di emergenza. Il Maggiore Anael, addetta alla torre di controllo della base, ha raccontato come il personale abbia lavorato per mantenere unita la squadra, anche per via della presenza di amici e colleghi rapiti durante il conflitto. “Se un anno fa mi avessero detto che sarei stato qui oggi, non ci avrei creduto. Alcuni scenari che avevamo previsto sono stati superati dalla realtà,” ha rivelato il Maggiore R., capo della divisione munizioni, spiegando come la fine di una missione sia immediatamente seguita dalla preparazione per la successiva.
Il Maggiore S., pilota di caccia di origine straniera e lone soldier in Israele, ha confermato che l’operazione si è svolta come da piano. La missione ha richiesto un’attenzione estrema ai dettagli, e nei giorni precedenti l’attacco, l’equipaggio ha studiato vari scenari, elaborando risposte e strategie. “In volo, la concentrazione è totale. C’è un’enorme quantità di dati da gestire, e sapere di fare parte di un evento storico è un grande privilegio”. Il Maggiore S. ha descritto la missione come un’esperienza unica, ma piena di pericoli. “Siamo stati addestrati per raggiungere paesi lontani e superare numerose minacce; ed è per questo che siamo stati assegnati a questa missione. Non è solo l’obiettivo specifico che conta, ma il fatto stesso di esserci arrivati, dimostrando le nostre capacità”.
(Bet Magazine Mosaico, 1 novembre 2024)
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Dall'inizio della guerra: 12.000 soldati feriti
GERUSALEMME - Il Dipartimento di Riabilitazione del Ministero della Difesa ha ricevuto 12.000 soldati feriti dall'inizio delle ostilità dopo l'attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre scorso. Il 93% dei feriti sono uomini. Tra i nuovi ricoveri, circa 1.500 sono stati feriti due volte durante il conflitto in corso.
L'anno scorso, il numero di feriti di età inferiore ai 30 anni è triplicato: Il 51% dei feriti ha un'età compresa tra i 18 e i 30 anni.
Il ministero ha anche annunciato che 377 delle persone trattate hanno riportato ferite alla testa, tra cui 23 con gravi lesioni al cranio che hanno richiesto una sostituzione del cranio stampata in 3D. Altre 308 persone sono state ferite agli occhi, dodici delle quali hanno perso la vista. Inoltre, 104 persone hanno riportato lesioni alla colonna vertebrale e circa 60 hanno avuto bisogno di protesi immediate.
• DISTURBI DA ANSIA E STRESS
Le statistiche militari riguardano anche le conseguenze psicologiche della guerra: il 43% delle persone (5.200) ha sviluppato vari problemi psicologici. Tra questi, ansia, depressione, difficoltà di adattamento e disturbo da stress post-traumatico.
In risposta al crescente numero di giovani vittime, il Ministero vuole adattare i servizi di riabilitazione e concentrarsi sul rapido reinserimento delle persone colpite nel sistema scolastico, nella formazione professionale o nell'occupazione. All'insegna del motto “La riabilitazione prima della burocrazia”, il dipartimento di riabilitazione offre un immediato supporto medico e psicologico, oltre all'assistenza finanziaria.
Secondo il Ministero della Difesa, il costo medio annuo per il trattamento di una vittima di guerra equivale a circa 37.000 euro. Si ipotizza che entro il 2030 ci saranno circa 100.000 veterani con disabilità e che il 50% dovrà probabilmente lottare con problemi psicologici.
(Israelnetz, 1 novembre 2024)
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