L'Eterno degli eserciti ha un giorno
contro tutto ciò che è orgoglioso ed altero,
e contro chiunque s'innalza, per abbassarlo.
Isaia 2:12  
 

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Dio con noi
    MATTEO 1
  1. Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
  2. E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
  3. Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
  4. Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
  5. Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
  6. Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
    SALMO 145

  1. Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
  2. Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
  3. L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
  4. Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
  5. Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
    GENESI 2
  1. L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
  2. gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
    ISAIA 53
  1. Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
    GIOVANNI 20
  1. Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
  2. Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
    PROVERBI 8
  1. Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
  2. quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
  3. quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
  4. io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
  5. mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
    GENESI 2
  1. E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
    GIOVANNI 3
  1. Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
    1 CORINZI 15
  1. Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
    GENESI 3
  1. E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
    ISAIA 7
  1. Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
    GIOVANNI 12
  1. “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
    ESODO 3
  1. E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni; 
  2. e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
    ESODO 29
  1. Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
  2. E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
    GIOVANNI 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.

Marcello Cicchese
febbraio 2024

Una grande gioia

ATTI 2

  1. Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
  2. Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
  3. E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
  4. E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
  5. e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
  6. E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
  7. lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.

ATTI 4

  1. E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
  2. E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
  3. Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
  4. e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.

LUCA 2

  1. Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
  2. E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
  3. E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
  4. Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.

MATTEO 2

  1. Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.

ATTI 8

  1. Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
  2. E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
  3. Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
  4. E vi fu grande gioia in quella città.

ATTI 13

  1. Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
  2. Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
  3. E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
  4. E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
  5. Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
  6. Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
  7. E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

ROMANI 15

  1. Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
  2. affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
  3. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
  4. poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
  5. mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
  6. Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
  7. E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
  8. E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
  9. Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.


    Marcello Cicchese
    maggio 2016

L'interesse di Cristo
FILIPPESI, cap. 1

  1. Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, 
  2. per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. 
  3. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 
  4. sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.

FILIPPESI, cap. 2

  1. Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, 
  2. rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento
  3. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, 
  4. cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 
  5. Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 
  6. il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 
  7. ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 
  8. trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 
  9. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 
  10. affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 
  11. e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
  12. Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; 
  13. infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo. 
  14. Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute
  15. perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, 
  16. tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato. 
  17. Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi; 
  18. e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.


Marcello Cicchese
novembre 2006

Salmo 92
Salmo 92
    Canto per il giorno del sabato.
  1. Buona cosa è celebrare l'Eterno,
    e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
  2. proclamare la mattina la tua benignità,
    e la tua fedeltà ogni notte,
  3. sul decacordo e sul saltèro,
    con l'accordo solenne dell'arpa!
  4. Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
    io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
  5. Come son grandi le tue opere, o Eterno!
    I tuoi pensieri sono immensamente profondi.

  6. L'uomo insensato non conosce
    e il pazzo non intende questo:
  7. che gli empi germoglian come l'erba
    e gli operatori d'iniquità fioriscono, per esser distrutti in perpetuo.
  8. Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
  9. Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
    ecco, i tuoi nemici periranno,
    tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.

  10. Ma tu mi dai la forza del bufalo;
    io son unto d'olio fresco.
  11. L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
    le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi
    che si levano contro di me.
  12. Il giusto fiorirà come la palma,
    crescerà come il cedro sul Libano.
  13. Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
    fioriranno nei cortili del nostro Dio.
  14. Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
    saranno pieni di vigore e verdeggianti,
  15. per annunziare che l'Eterno è giusto;
    egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.

Marcello Cicchese
gennaio 2017

Saggezza che viene da Dio
PROVERBI 2
  1. Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti,
  2. prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all'intelligenza;
  3. sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all'intelligenza,
  4. se la cerchi come l'argento e ti dai a scavarla come un tesoro,
  5. allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio.
  6. Il Signore infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l'intelligenza.
  7. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell'integrità,
  8. allo scopo di proteggere i sentieri della giustizia e di custodire la via dei suoi fedeli.
  9. Allora comprenderai la giustizia, l'equità, la rettitudine, tutte le vie del bene.
  10. Perché la saggezza ti entrerà nel cuore, la scienza sarà la delizia dell'anima tua,
  11. la riflessione veglierà su di te, l'intelligenza ti proteggerà;
  12. essa ti scamperà così dalla via malvagia, dalla gente che parla di cose perverse,
  13. da quelli che lasciano i sentieri della rettitudine per camminare nelle vie delle tenebre,
  14. che godono a fare il male e si compiacciono delle perversità del malvagio,
  15. i cui sentieri sono contorti e percorrono vie tortuose.
  16. Ti salverà dalla donna adultera, dalla infedele che usa parole seducenti,
  17. che ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio.
  18. Infatti la sua casa pende verso la morte, e i suoi sentieri conducono ai defunti.
  19. Nessuno di quelli che vanno da lei ne ritorna, nessuno riprende i sentieri della vita.
  20. Così camminerai per la via dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti.
  21. Gli uomini retti infatti abiteranno la terra, quelli che sono integri vi rimarranno;
  22. ma gli empi saranno sterminati dalla terra, gli sleali ne saranno estirpati.

Marcello Cicchese
aprile 2009

Sovranità e grazia di Dio
ROMANI 8
  1. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
  1. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
  2. Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
  3. E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
  4. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
  1. Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
  2. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
  3. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
  4. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
  1. Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
  2. Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
  3. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
  4. Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
  5. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
  6. Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
  1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
  2. Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
  3. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
  1. Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Preghiera sacerdotale 1

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    ATTI 10

  1. Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: 
  2. vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui. 
  3. E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno. 
  4. Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse 
  5. non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.


Marcello Cicchese
agosto 2017

Preghiera sacerdotale 2

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.


Marcello Cicchese
ottobre 2017

Un sabato sacro
ESODO 31
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. 'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
  3. Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
  4. Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
  5. I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
  6. Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
  7. Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.

Marcello Cicchese
maggio 2017

Benedizione a domicilio?
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
  4. Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
  5. Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
  6. Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
  7. Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
  8. Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.

MARCO 10
  1. Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
  2. Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
  3. Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
  4. Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
  5. Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
  6. Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
  7. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
  8. I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
  9. È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
  10. Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
  11. Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
  12. Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
  13. Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
  14. il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
  15. Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

PROVERBI 10
  1. Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.

Marcello Cicchese
giugno 2006


Salmo 56
Salmo 56
  1. Abbi pietà di me, o Dio, poiché gli uomini anelano a divorarmi; mi tormentano con una guerra di tutti i giorni;
  2. i miei nemici anelano del continuo a divorarmi, poiché sono molti quelli che m'assalgono con superbia.
  3. Nel giorno in cui temerò, io confiderò in te.
  4. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
  5. Torcono del continuo le mie parole; tutti i lor pensieri son vòlti a farmi del male.
  6. Si radunano, stanno in agguato, spiano i miei passi, come gente che vuole la mia vita.
  7. Rendi loro secondo la loro iniquità! O Dio, abbatti i popoli nella tua ira!
  8. Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime negli otri tuoi; non sono esse nel tuo registro?
  9. Nel giorno che io griderò, i miei nemici indietreggeranno. Questo io so: che Dio è per me.
  10. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; con l'aiuto dell'Eterno celebrerò la sua parola.
  11. In Dio confido e non temerò; che mi può fare l'uomo?
  12. Tengo presenti i voti che t'ho fatti, o Dio; io t'offrirò sacrifizi di lode;
  13. poiché tu hai riscosso l'anima mia dalla morte, hai guardato i miei piedi da caduta, affinché io cammini, al cospetto di Dio, nella luce de' viventi.

Marcello Cicchese
agosto 2016

Una lampada al piede
Salmo 119
  1. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero.
  2. Ho giurato, e lo manterrò, di osservare i tuoi giusti giudizi.
  3. Io sono molto afflitto; Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
  4. Signore, gradisci le offerte volontarie delle mie labbra e insegnami i tuoi giudizi.
  5. La mia vita è sempre in pericolo, ma io non dimentico la tua legge.
  6. Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono allontanato dai tuoi precetti.
  7. Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, esse sono la gioia del mio cuore.
  8. Ho messo il mio impegno a praticare i tuoi statuti, sempre, sino alla fine.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Il peggiore dei profeti
MATTEO

Capitolo 12
  1. Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
  2. Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!

GIONA

Capitolo 1
  1. La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
  2. 'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
  3. Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
  9. Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
  11. E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
  13. Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
  14. Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'

Marcello Cicchese
febbraio 2015

Salmo 27
Salmo 27
  1. Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò?
    Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
  2. Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
  3. Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
  4. Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
  5. Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
  6. E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.

  7. O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
  8. Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!»
    Io cerco il tuo volto, o Signore.
  9. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
  10. Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
  11. O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
  12. Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
  13. Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
  14. Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!

Marcello Cicchese
dicembre 2007

Il Re dei Giudei
Il Re dei Giudei

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 2
  1. Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
  1. Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
  2. Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
  3. Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
  4. Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
  5. E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
  6. Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
  7. Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
  8. Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
  9. Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
  10. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
  11. Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
  12. Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
  13. Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Marcello Cicchese
ottobre 2019

Come cerva che assetata
Marcello Cicchese
gennaio 2008

Vanità delle vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità

Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006

La prova della fede
La prova della fede

Dalla Sacra Scrittura

GIACOMO 1
  1. Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
  2. Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
  3. sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
  4. E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
  5. Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
  6. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
  7. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
  8. perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
  9. Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
  10. e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
  11. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
  12. Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
Marcello Cicchese
1 ottobre 2006

L’enigma Gesù
L’enigma Gesù

Dalla Sacra Scrittura

MARCO 15
  1. E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
  2. E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
  3. E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
  4. E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
  5. E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
  1. Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
  2. venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
  3. Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
  4. e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
  5. E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
  1. Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
  2. fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
  3. Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.

  4. E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
  5. Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
  6. Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
  7. Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
  8. Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.

  9. E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
  10. E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
  11. Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.

  12. Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
  13. E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
  14. Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Marcello Cicchese
dicembre 2019

Salmi 124, 129
Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono
    contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi, quando l'ira loro
    ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso, il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
Marcello Cicchese
31 maggio 2015

Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Il corpo dell'umiliazione
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Una mente rinnovata
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015



Il “Qatar-Gate” scuote Israele: tra rischi per la sicurezza e intrighi politici

Itamar Eichner, corrispondente di Israel Heute, parla delle gravi accuse contro i confidenti del primo ministro, della presunta influenza del Qatar sulla politica israeliana e del fragile equilibrio tra magistratura e governo.

di Itamar Eichner

GERUSALEMME - La vicenda del “Qatar-gate”, scoperta di recente, sta provocando un'agitazione senza precedenti nella politica e nell'opinione pubblica israeliana. Le accuse rivolte ai consiglieri del primo ministro, Yonatan Urich e Eli Feldstein, sollevano domande esplosive: Come è stata effettivamente impostata la politica di comunicazione del governo e da dove provengono i messaggi trasmessi ai media israeliani e internazionali?
Al centro della vicenda c'è l'accusa che i due consiglieri abbiano diffuso contenuti mediatici che sarebbero stati originati da ambienti della sicurezza e della politica estera israeliana, ma che in realtà provenivano dal Qatar, uno Stato considerato un attore problematico in Israele, soprattutto per il suo sostegno ad Hamas e alla Fratellanza Musulmana.

Qatar: mediatore o Stato ostile?

FOTO
Israeliani protestano contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo governo vicino alla Knesset, il 31 marzo 2025

Sebbene il Qatar non sia ufficialmente uno Stato nemico, il suo comportamento da anni lascia pochi dubbi sulle sue intenzioni. Il canale d'informazione qatariota Al-Jazeera funge regolarmente da piattaforma di incitamento contro Israele e offre un ampio palcoscenico ai rappresentanti di Hamas e delle ideologie islamiste estremiste. Allo stesso tempo, il Qatar svolge un ruolo centrale come mediatore nella questione degli ostaggi e in processi politici delicati. Questo duplice ruolo solleva una questione cruciale: Il Qatar può essere considerato un mediatore equo o è un attore con un'agenda anti-israeliana che si nasconde dietro la maschera della neutralità?

Le accuse: informazioni segrete, influenza straniera e fughe di notizie mirate
   Al centro dell'indagine c'è il sospetto che Urich e Feldstein non abbiano agito in modo indipendente, ma abbiano invece agito come strumenti degli interessi del Qatar con l'obiettivo di influenzare il discorso pubblico in Israele. Secondo i risultati dell'indagine, hanno presentato i messaggi come dichiarazioni degli ambienti della sicurezza israeliana, mentre in realtà erano il risultato della manipolazione di attori vicini al Qatar. Secondo quanto emerso, si sospetta che persone all'interno dell'Ufficio del Primo Ministro siano collegate a uno Stato che ha un atteggiamento ostile nei confronti di Israele.
C'è anche il fondato sospetto che una società americana che rappresenta gli interessi del Qatar fosse in contatto con Urich. L'obiettivo della collaborazione era presentare il ruolo del Qatar nella questione degli ostaggi in una luce positiva e allo stesso tempo gettare l'Egitto in una luce negativa. E sembra che del denaro sia affluito a Feldstein.
Un aspetto particolarmente allarmante: si sospetta che Feldstein abbia passato informazioni segrete al Qatar, con l'obiettivo di minare la sicurezza di Israele. Se ciò risultasse vero, non si tratterebbe solo di un grave reato penale, ma di una minaccia diretta alla sicurezza nazionale.

Dimensione politica: Netanyahu contrattacca, la procura si difende
   Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha risposto con un attacco frontale alle autorità di polizia. Ha etichettato Urich e Feldstein come “ostaggi” di un'indagine politica che mira esclusivamente a far cadere il suo governo. A suo avviso, si tratta di una campagna contro la sua persona e le sue iniziative politiche: un prodotto della persecuzione politica.
Persone vicine a Netanyahu sostengono addirittura che la vicenda sia stata inventata dal capo del servizio segreto interno Shin Bet, Ronen Bar, per evitare il proprio imminente licenziamento. I rappresentanti dello Shin Bet ribattono che l'indagine era già iniziata prima dell'annuncio del licenziamento di Bar. Netanyahu, da parte sua, ha dichiarato di aver perso la fiducia in Bar il 7 ottobre - perché non aveva svegliato lui e altri decisori la notte dell'attacco di Hamas, cosa che avrebbe potuto prevenire o almeno ridurre i danni. Lo Shin Bet ribatte che Netanyahu ha elogiato pubblicamente Bar e i servizi segreti più volte dall'inizio della guerra - e che l'indagine sulla vicenda è iniziata prima dei piani per il suo licenziamento.
Nel frattempo, gli investigatori sottolineano che si tratta di un caso grave con implicazioni di vasta portata per la sicurezza di Israele e l'integrità della funzione pubblica.

Critiche all'operato della polizia
   Il giudice Menachem Mizrachi ha criticato aspramente l'operato della polizia. In particolare, ha criticato il fatto che non sia stato applicato l'ordine di bavaglio imposto, il che ha portato a ripetute fughe di notizie. Questa critica solleva la questione se le indagini siano puramente professionali o politicamente motivate.

È un caso di corruzione?
   Un altro punto controverso è la questione se Urich e Feldstein siano colpevoli di corruzione. La difesa sostiene che nessuno dei due è un pubblico ufficiale nel senso tradizionale del termine, il che significa che non esiste una base legale per questa accusa. I pubblici ministeri, invece, fanno riferimento a una sentenza della Corte Suprema, secondo la quale anche i consulenti esterni che supportano gli enti pubblici possono rientrare nella definizione di “pubblico ufficiale”.

Cosa succederà in seguito?
   La vicenda del Qatar-Gate solleva questioni profonde che vanno ben oltre i due consulenti arrestati. Rivela quanto gli interessi stranieri possano essere già penetrati nei centri decisionali israeliani e quanto facilmente il dibattito pubblico possa essere manipolato da attori esterni. Si tratta di un caso isolato o stiamo vedendo la punta di un iceberg?
In un clima politico in cui la fiducia dell'opinione pubblica nel governo e nella magistratura è già stata scossa, questa vicenda funge da acceleratore. Se le accuse contro Urich e Feldstein dovessero essere confermate, il sistema politico israeliano subirebbe una vera e propria scossa. Se invece le indagini si rivelassero inconsistenti, il “Qatar-Gate” potrebbe diventare il prossimo episodio dell'escalation di scontri tra l'esecutivo e le forze dell'ordine.
In ogni caso, questa vicenda terrà Israele occupato per molto tempo ancora - e potrebbe essere decisiva per il suo futuro politico.

(Israel Heute, 2 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Droni, basi e alleanze con il nuovo regime siriano: la nuova minaccia turca per Israele

di Luca Spizzichino

Le tensioni con la Turchia continuano a crescere. Ankara infatti sta rafforzando i legami con il nuovo governo siriano guidato da Ahmed al-Sharaa, ex leader di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), gruppo con forti connessioni con la Turchia. L’escalation è stata accompagnata da dichiarazioni senza precedenti del presidente Recep Tayyip Erdogan, che il 30 marzo ha invocato Allah affinché porti “distruzione su Israele sionista”. Questo segnale di aperta ostilità rafforza la convinzione che uno scontro militare diretto non sia più un’ipotesi remota.
  Questo sviluppo rappresenta una minaccia strategica per Israele, che negli ultimi mesi ha intensificato attacchi mirati contro installazioni militari e infrastrutture strategiche siriane, nel tentativo di impedire alla Turchia di consolidare la propria presenza nella regione.
  Dopo il colpo di Stato in Siria infatti, avvenuto con il sostegno turco nel dicembre 2024, Ankara è diventata il principale attore politico nel paese, controllando direttamente o indirettamente circa 8.000 km², da Idlib a Ras al-Ayn, pericolosamente vicino al confine israeliano.
  Il nuovo governo siriano, di orientamento islamista e ora apertamente alleato di Ankara, sta negoziando un patto di difesa che prevede la presenza permanente di truppe turche e l’installazione di avanzati sistemi di difesa aerea sul suolo siriano, un’evoluzione che modificherebbe radicalmente l’equilibrio strategico nell’area. Secondo diverse fonti d’intelligence, la Turchia sta già predisponendo basi aeree nel nord della Siria, in grado di lanciare operazioni con droni, ponendo una minaccia diretta allo spazio aereo israeliano e limitando la libertà operativa di Israele.
  In risposta a queste minacce, l’aviazione israeliana ha recentemente colpito la base aerea di T-4, nei pressi di Palmira, una struttura precedentemente utilizzata dall’Iran e dal regime siriano.
  Il rapporto del Comitato Nagel, pubblicato nel gennaio 2025, ha identificato il crescente radicamento militare turco in Siria come una minaccia “potenzialmente più pericolosa di quella iraniana”. Ad aggravare il quadro è il crescente sostegno turco ad Hamas, che opera sempre più liberamente all’interno del territorio turco. Operativi di alto livello, tra cui Saleh al-Arouri, coordinano operazioni terroristiche direttamente da Istanbul. Inoltre, rapporti d’intelligence del 2024 hanno sollevato allarme tra i legislatori statunitensi per la possibile espansione di Hamas a Cipro del Nord, sotto occupazione turca. Questa evoluzione alimenta i timori israeliani che la Turchia possa utilizzare i propri proxy per colpire Israele da nuove basi avanzate.
  I consiglieri più vicini a Erdogan hanno pubblicamente alimentato una retorica aggressiva contro Israele, arrivando a suggerire l’attivazione dei sistemi missilistici S-400 di fabbricazione russa, a conferma della postura sempre più ostile della Turchia.
  Parallelamente tuttavia, Erdogan si trova a gestire una crisi interna senza precedenti, con un’inflazione superiore al 44% e un clima politico turbolento, segnato dall’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu. Tradizionalmente, i leader in difficoltà hanno spesso sfruttato crisi internazionali per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica. Per questo motivo, gli analisti israeliani temono che Erdogan possa deliberatamente alimentare le tensioni con Israele per rafforzare il consenso interno e distogliere l’attenzione dai problemi interni.

(Shalom, 2 aprile 2025)

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Hamas falsa di nuovo il numero dei morti nei suoi report sulla guerra a Gaza

di Nina Prenda

Secondo The Telegraph, una nuova ricerca mostra che Hamas ha silenziosamente ricalcolato nei suoi database il numero delle vittime di Gaza, eliminando migliaia di morti dalle sue liste sulle vittime della guerra.
Salo Aizenberg, giornalista dell’organizzazione non-profit Honest Reporting, con sede negli Stati Uniti, che nella guerra in corso si è distinta per l’affidabilità della sua informazione, ha affermato che nell’aggiornamento delle vittime di Hamas di marzo 2025 l’organizzazione aveva rimosso migliaia di persone che in precedenza aveva elencato come uccise nel corso del 2024. Queste, improvvisamente, non ci sono più. “Il nuovo elenco delle vittime di marzo 2025 di Hamas elimina silenziosamente 3.400 morti completamente ‘identificati’ elencati nei suoi rapporti di agosto e ottobre 2024, tra cui 1.080 bambini. Queste ‘morti’ non sono mai avvenute. I numeri sono stati falsificati, di nuovo”, ha scritto Aizenberg.
Gli elenchi delle vittime vengono pubblicati in formato PDF dal cosiddetto “Ministero della salute” di Gaza, gestito da Hamas, che è stato citato dai media internazionali come fonte di dati sulle vittime nell’enclave dall’inizio della guerra.
A dicembre, un rapporto della Henry Jackson Society affermava che il numero di civili uccisi nel conflitto di Gaza era stato probabilmente aumentato da Hamas per dare l’impressione che Israele prendesse deliberatamente di mira persone innocenti. Andrew Fox, l’autore del rapporto, ha affermato che le ultime cancellazioni sono state condotte probabilmente per un tentativo di Hamas di mantenere una sorta di credibilità. “Sapevamo che c’erano una serie di errori nei loro resoconti – , ha affermato Fox. – C’è una spiegazione ragionevole nel fatto che i loro sistemi informatici abbiano avuto un collasso a novembre 2023, quindi è stato difficile per loro riferire in modo accurato, ma le liste sono così inaffidabili che i media mondiali non dovrebbero citarle come affidabili”. Inoltre Fox ha aggiunto: “L’Onu prende anche solo le cifre di Hamas e le pubblica con una nota che afferma che le cifre non sono confermate”. La stessa Organizzazione delle Nazioni Unite nel maggio del 2024 aveva in parte ritrattato alcuni numeri rilasciati dai terroristi riguardo ai morti in Gaza.
Le liste di Hamas contengono informazioni come nomi e numeri di identificazione e possono essere compilate da chiunque abbia un collegamento al modulo Google per il documento.
Hamas “avrà esaminato la lista, cercando di renderla il più convincente possibile. Hanno accettato nomi su quella lista senza alcuna prova -, ha spiegato Fox. – Quindi quello che immagino stiano cercando di fare è diradare i nomi che non possono affatto comprovare”.
Fox è un ex paracadutista britannico che ha lavorato con Aizenberg in ricerche precedenti. Ha detto che le loro squadre di lavoro usano i dati di Hamas disponibili al pubblico e li confrontano nome per nome. “La ricerca di Salo cercherebbe nomi che erano su liste precedenti ma che ora sono scomparsi – ha spiegato Fox. – Hamas pubblica gli elenchi in formato PDF, quindi è più difficile fare confronti, ma trasferiamo i nomi su un foglio Excel per fare un confronto di massa in questo modo”.
 
Le vittime citate da Hamas sono davvero civili?
Fox ha osservato che i dati all’interno delle liste di Hamas indeboliscono l’affermazione secondo cui la maggior parte delle vittime sono civili. “I dati demografici sono la cosa più importante in tutto questo. Abbiamo sentito affermazioni secondo cui circa il 70 percento dei decessi sono donne e bambini, e queste liste, specialmente le più recenti, dimostrano che è una totale assurdità”, ha affermato. Non è la prima fonte ad affermarlo. Il Jerusalem Post aveva riportato il riconteggio dell’Onu l’11 maggio 2024. Nel giornale veniva scritto: “Il 6 maggio, l’ONU ha pubblicato dati che mostrano che a Gaza sarebbero state uccise 34.735 persone, tra cui oltre 9.500 donne e oltre 14.500 bambini. L’8 maggio, le Nazioni Unite hanno pubblicato dati che mostrano che sarebbero state uccise 34.844 persone, tra cui 4.959 donne e 7.797 bambini”.
“Circa il 72% delle vittime di età compresa tra 13 e 55 anni sono uomini, che è la fascia di età approssimativa dei combattenti di Hamas”, ha affermato Fox. “Sappiamo che Hamas usa bambini soldato e queste statistiche mostrano chiaramente che Israele sta prendendo di mira uomini in età da combattimento”.
Nei precedenti conflitti, le cifre di Hamas sono state spesso corroborate da organizzazioni esterne, ha affermato Fox. Il rapporto di dicembre della Henry Jackson Society affermava: “Il ministero della salute, operando sotto Hamas, ha sistematicamente aumentato il numero delle vittime, non distinguendo tra morti civili e combattenti, sovrastimando i decessi tra donne e bambini e persino includendo individui deceduti prima dell’inizio del conflitto. Questo ha portato a una narrazione in cui le Forze di difesa israeliane sono descritte come persone che prendono di mira in modo sproporzionato i civili, mentre i numeri effettivi suggeriscono che una parte significativa dei morti sono combattenti”.
Hamas ha affermato che il numero di morti a Gaza dall’inizio della guerra al momento è superiore a 50.000. Tzahal, l’esercito israeliano, afferma di aver ucciso 20.000 combattenti di Hamas durante la guerra e afferma di fare tutto il possibile per ridurre le vittime civili.
“L’IDF compie grandi sforzi per stimare e considerare potenziali danni collaterali civili nei suoi attacchi. L’IDF non ha mai, e non prenderà mai, deliberatamente di mira i bambini”, ha affermato l’esercito israeliano in una dichiarazione.

(Bet Magazine Mosaico, 2 aprile 2025)

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Gaza: famiglie degli ostaggi “inorridite” dalla decisione di riprendere l’offensiva

Nella notte l'annuncio dell'allargamento delle operazioni di terra a Gaza. Per le famiglie degli ostaggi "la loro liberazione è stata relegata in fondo alle priorità ed è diventata semplicemente un obiettivo secondario" e "sacrificata per un mero guadagno territoriale”.

L’esercito israeliano ha annunciato questa notte che avrebbe espanso l’offensiva di terra nel sud della Striscia di Gaza
Secondo un comunicato diffuso dal ministro della Difesa Israel Katz, l’IDF espanderà le operazioni per bonificare le aree “da terroristi e infrastrutture e catturare un vasto territorio che verrà aggiunto alle aree di sicurezza dello Stato di Israele”.
Questa mattina, dopo una notte di pesanti bombardamenti, la 35esima Divisione è entrata in maniera ” massiccia” nella Striscia di Gaza nelle zone di Rafah e Khan Younis.

Famiglie degli ostaggi “inorridite”
   In risposta all’annuncio dell’allargamento dell’operazione militare a Rafah, l’Hostages and Missing Families Forum ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: “È stato deciso di sacrificare gli ostaggi per ottenere guadagni territoriali?”
Aggiunge: “Invece di garantire il rilascio degli ostaggi attraverso un accordo e porre fine alla guerra, il governo israeliano sta inviando più soldati a Gaza per combattere nelle stesse aree in cui le battaglie hanno già avuto luogo ripetutamente”.
Il Forum afferma che le famiglie “sono rimaste inorridite quando questa mattina si sono svegliate con l’annuncio del ministro della Difesa secondo cui l’operazione militare a Gaza sarebbe stata estesa allo scopo di conquistare un vasto territorio“.
“La responsabilità della liberazione dei 59 ostaggi tenuti da Hamas ricade sul governo israeliano. La nostra grave preoccupazione è che questa missione sia stata relegata in fondo alle sue priorità e sia diventata semplicemente un obiettivo secondario.”

(Rights Reporter, 2 aprile 2025)
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"La responsabilità della liberazione dei 59 ostaggi tenuti da Hamas ricade sul governo israeliano", hanno detto famiglie israeliane di ostaggi incatenati e torturati da Hamas. Ed è una frase che fa inorridire. M.C.

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Perché alcuni ebrei statunitensi abbandonano l’ortodossia? Un nuovo studio cerca di mappare le ragioni

Un sondaggio su 29 ebrei una volta osservanti condotto dall’Orthodox Union conclude che sinagoghe e scuole devono adottare mentalità più inclusive mentre i genitori dovrebbero fornire un chiaro sostegno

di Zev Stub

Un nuovo sondaggio degli ebrei americani che hanno abbandonato l’ebraismo ortodosso pone domande difficili alla comunità mentre descrive la complessa rete di fattori che spingono le persone ad abbandonare la comunità. Pubblicato dall’Orthodox Union (OU), una delle organizzazioni più importanti del mondo ortodosso, le conclusioni del sondaggio invitano sinagoghe e scuole ad adottare mentalità più inclusive, i rabbini a prendersi cura dei bambini ai margini e i genitori a stabilire aspettative chiare con amore e sostegno.
  Una delle più grandi sorprese dello studio è stata che molti degli individui intervistati che hanno lasciato l’ortodossia rimangono comunque connessi alla comunità.
  “Abbiamo scoperto che molte delle persone con cui abbiamo parlato non erano alienate o arrabbiate“, ha dichiarato il ricercatore principale dello studio, Moshe Krakowski, Direttore degli Studi Dottorali presso la Azrieli Graduate School of Jewish Education dell’Università Yeshiva, in un’intervista con The Times of Israel. “Spesso, le persone esprimevano un mix di sentimenti positivi e negativi. Questo ha importanti implicazioni perché molti mantengono ancora stretti legami all’interno della comunità ortodossa dopo averla lasciata e potrebbero voler continuare a partecipare in qualche modo“.
  Tra gli intervistati che hanno dichiarato di sentire poco o nessun legame con l’ortodossia, la maggior parte ha affermato che ciò era dovuto al fatto che si sentivano alienati dalle risposte della comunità ortodossa nei loro confronti dopo il cambiamento del loro stile di vita, ha notato il rapporto.
  Nella prima parte di uno studio in due fasi, il Center for Communal Research (CCR) dell’OU con sede a New York ha condotto nel 2023 interviste approfondite con 29 uomini e donne, di età compresa tra i 18 e i 43 anni, che avevano precedentemente abbandonato l’ortodossia. I partecipanti vivevano principalmente negli Stati Uniti e provenivano da background ebraici Modern Orthodox, Yeshivish, Chabad e Hassidici.
  Gli ebrei ortodossi costituiscono circa il nove percento dei 7,5 milioni di ebrei che si trovano negli Stati Uniti, o approssimativamente 700.000 persone, secondo un rapporto del Pew Research del 2020.
  Il CCR è un’ala dell’OU che cerca di “dare potere alla comunità ebraica con i dati” in modo che la comunità possa prendere decisioni informate. “Aiutiamo le organizzazioni ebraiche a tradurre le evidenze in azione“, afferma il suo sito web. Pertanto, il sondaggio ha incluso anche una chiara chiamata all’azione nonostante le dimensioni ridotte del campione.
  “Questo tipo di studio non può essere utilizzato per quantificare i dati di una popolazione, ma è uno strumento comune nelle scienze sociali per scoprire narrazioni chiave su come le persone sperimentano determinati processi“, ha spiegato Yossi David, responsabile del laboratorio per la Comunicazione e la Ricerca sui BIAS (Credenze, Ideologie, Affetti e Stereotipi) Sociali presso l’Università Ben-Gurion del Negev. “È un modo per approfondire un argomento e sondare nuove sfaccettature“.
  Un sondaggio di follow-up più ampio basato sui risultati cercherà di quantificare i dati e presentare un quadro generale delle sfide, ha notato Krakowski. I risultati forniscono informazioni sulle tendenze di abbandono in Nord America e, in misura minore, in Europa, ma non necessariamente in Israele, ha osservato Krakowski. “Ci sono così tanti fattori e relazioni diverse che operano lì”, ha detto.

Tendenze principali
   Il sondaggio ha identificato diversi fili conduttori comuni che apparivano frequentemente nelle interviste. Tendenze significativamente diverse erano discernibili tra quelli provenienti da comunità modern-Orthodox liberali rispetto alle persone provenienti da comunità religiose più rigide e di destra, ha notato Krakowski.
  “Ogni caso è diverso, ma nell’Ortodossia Moderna, i confini sono spesso in qualche modo labili“, ha detto Krakowski. “Spesso non c’è un grande controllo su come le persone agiscono, e questo significa che è più facile allontanarsi o scivolare via dall’impegno“.
  Un partecipante che non è più religioso ha descritto così parte del processo di allontanamento: “La prima cosa che è successa è stata che ero solito aspettare sei ore tra [il consumo di] carne e latte, e poi sei ore sono diventate tre, e tre sono diventate una, e [alla fine], mi sono semplicemente sciacquato la bocca con l’acqua“. Nel frattempo, nelle comunità più religiose, spesso si può vedere l’estremo opposto, ha detto. “Le persone dicono che le aspettative e le strutture rigide della comunità le fanno sentire confinate e costrette, e questo le spinge a voler andarsene“.
  C’è molta sovrapposizione tra diverse categorie, e molti soggetti provenienti da background Modern Orthodox hanno anche parlato di sentirsi costretti, ha notato Krakowski.
  I partecipanti provenienti da background Modern Orthodox e Chabad si sono lamentati del trattamento delle questioni femministe più di quelli cresciuti Yeshivish e Hasidic. Altri reclami includevano atteggiamenti di superiorità verso gli altri e il trattamento della comunità LGBTQ all’interno dell’ortodossia.
  Altri fattori di rischio includevano questioni di appartenenza e stabilità. “Per tutti quelli con cui abbiamo parlato, c’era un certo grado di non adattamento completo alle istituzioni comunitarie“, ha detto Krakowski. “Per esempio, andare in una scuola che è molto più religiosa della tua famiglia, o molto meno religiosa, o essere l’unico bambino Hasidico in una scuola non Hasidica. Questo tipo di disallineamento appariva ripetutamente“.
  “Questo non significa che chiunque vada in una scuola che non è allineata con loro abbandonerà l’ortodossia, ma è qualcosa che devi guardare e su cui riflettere in modo più profondo“, ha aggiunto Krakowski.
  L’incoerenza religiosa all’interno della famiglia è stato un altro fattore importante scoperto nel sondaggio.
  “Abbiamo visto molti casi in cui i genitori sono diventati religiosi quando prima non lo erano, o quelli che sono diventati molto di destra dopo essere stati inizialmente più liberali, o viceversa“, ha detto Krakowski. “A volte era persino un cambiamento avvenuto prima che il bambino potesse capire. Questo può far sembrare che l’ebraismo non sia stabile e può avere un impatto significativo, specialmente quando accade rapidamente“.
  Un intervistato con genitori provenienti da background non ortodossi ha detto: “Quando ci siamo trasferiti a [una città nel Midwest], all’improvviso ho capito che le persone pensavano che fossimo strani. E così penso che alla fine abbiamo finito per fare amicizia con altre famiglie che la comunità vedeva come strane“.
  Una donna ha ricordato un trauma vissuto in un liceo dove gli educatori mettevano le violazioni dei rigidi valori comunitari allo stesso livello dei peccati più gravi. “Il mio insegnante ha detto che se leggi Harry Potter, è come se avessi fatto avodah zarah [commesso idolatria], e io ero super ossessivo-compulsivo, quindi sono andato nella mia stanza per alcune ore e ho recitato un viduy [preghiere di confessione]“, ha detto.
  Si è scoperto che le figure religiose esercitano un’influenza sorprendente nella vita dei soggetti intervistati. “Non abbiamo chiesto esplicitamente di questo, ma molte persone hanno parlato dell’influenza dei rabbini e di altre figure di autorità religiosa“, ha detto Krakowski. “Una brutta esperienza con un’autorità rabbinica che in qualche modo rappresenta l’ebraismo per te può creare un vero senso di sconvolgimento che ti fa venire voglia di andartene. Alcuni hanno descritto un senso di disgusto quando hanno sperimentato qualcosa che sembrava ipocrita, come quando qualcuno ricco veniva trattato diversamente dagli altri“. D’altra parte, ha notato Krakowski, molti soggetti hanno anche parlato delle potenti impressioni lasciate dai rabbini che li hanno sostenuti o che hanno servito come modelli positivi.
  Infine, i traumi, come la morte di un amico o di una persona cara, o abusi fisici o sessuali possono giocare un fattore importante, ha notato Krakowski.

Approcci diversi alla cultura esterna
   Un fattore che non è emerso come fattore di rischio è stata l’esposizione alla cultura popolare e ai social media. Molti intervistati hanno espresso percezioni negative della società laica e del materialismo, ha scoperto il sondaggio. “Sorprendentemente, questo non è emerso nelle interviste nel modo in cui avremmo potuto pensare“, ha detto Krakowski. “Non è che i social media siano una sorta di forza che risucchia le persone in un mondo che le allontana dall’ortodossia. Ma potrebbero giocare un ruolo in un processo più ampio di allontanamento“.
  In questo senso, queste influenze agiscono più come facilitatori che come causa principale dell’abbandono per gli ebrei ortodossi negli Stati Uniti, ha detto Krakowski. “Non si possono confrontare questi risultati. Le comunità sono troppo diverse“, ha detto David.
  Nella società Haredi, ha detto David, “i dati mostrano che ci sono due forze principali che spingono le persone a lasciare le loro comunità — cose che ti spingono fuori e cose che ti attirano dentro“.
  A volte, le persone lasciano la società ultra-ortodossa a causa di un fattore che le costringe a cercare un cambiamento, come la mancanza di rispetto per le donne, problemi con l’accettazione dei convertiti e dei nuovi religiosi, o intolleranza tra diverse sette o etnie, ha detto David. In altri casi, gli ex Haredim sono attratti dalla società laica da un’esposizione alla cultura e al mondo moderno o dalla necessità di apprendere argomenti fondamentali non insegnati nei sistemi scolastici Haredi per formarsi per una professione, ha aggiunto. In queste comunità, l’accesso alla tecnologia è considerato un fattore più significativo per l’abbandono rispetto agli Stati Uniti, ha detto David.

Affrontare le sfide
   Molte delle sfide nell’educare i figli a seguire le pratiche religiose dei loro genitori sono universali, ha notato Krakowski. “Ricerche precedenti hanno scoperto che i genitori che stabiliscono chiare aspettative normative per i loro figli tendono a vederli seguire i loro percorsi più dei genitori che lasciano che i loro figli si orientino da soli“, ha detto Krakowski, attingendo a ricerche condotte dal National Study of Youth and Religion dell’Università di Notre Dame.
  La maggior parte dei partecipanti allo studio ha descritto forti connessioni con le tradizioni e le pratiche ortodosse, spesso perché avevano bei ricordi o perché rimanevano importanti per loro e le loro famiglie.
  Un intervistato ha detto: “Mi piace il lato culturale. Non ho problemi con esso. Sento che la maggior parte delle persone che smettono di essere religiose, di solito, lo fanno da un luogo di dolore o rabbia, e io non ho niente di tutto ciò“. “Mi piace il lato culturale. Non ho problemi con esso. Sento che la maggior parte delle persone che smettono di essere religiose, di solito, lo fanno da un luogo di dolore o rabbia, e io non ho niente di tutto ciò“
  L’OU ha raccomandato ai genitori di considerare come i loro figli sperimentano questi rituali e di lavorare per costruire associazioni positive. I genitori dovrebbero anche esprimere amore e sostegno per i loro figli, fornire un senso di stabilità indipendentemente dalle scelte di vita dei figli e lavorare per aiutare i bambini a sviluppare un sano senso di autonomia e fiducia in se stessi.
  Nel frattempo, si consiglia ai rabbini e ai leader della comunità di imparare a comprendere ed empatizzare con i membri della comunità e imparare a identificare i segnali di avvertimento e a impegnarsi con le persone che si interrogano il prima possibile.
  “La messa in dubbio dei valori inizia presto“, dice la Ricercatrice Principale del CCR Rachel Ginsberg. “Aspettare fino alla fine del liceo per valutare se gli studenti si stanno connettendo è troppo tardi. Ascoltare, validare le preoccupazioni e offrire spazio per l’esplorazione è fondamentale“.
  Lo studio ha raccomandato che sinagoghe e scuole adottino mentalità più inclusive e promuovano la tolleranza per le differenze degli altri, dando il benvenuto a coloro che se ne vanno e tenendo la porta aperta per il loro ritorno.
  Ha anche suggerito che il sostegno della comunità alle famiglie con disallineamenti religiosi, specialmente per i convertiti e i nuovi religiosi, può aiutare a prevenire l’abbandono. Identificare i modi appropriati per farlo richiederà una più ampia conversazione comunitaria, ha affermato.
  La sfida, ha detto il Vicepresidente Esecutivo dell’OU Rabbi Moshe Hauer, è se le persone all’interno della comunità ortodossa sono disposte a cambiare i loro comportamenti.
  “Se vogliamo veramente fare un cambiamento significativo e positivo riguardo all’abbandono ebraico ortodosso americano“, ha detto, “faremo bene tutti a leggere questo rapporto, a studiarlo e a guardarci a lungo e onestamente allo specchio“.

(Kolòt - Morashà, 2 aprile 2025)

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Hamas ammazza i palestinesi che protestano

Sette gazawi rapiti, torturati e uccisi per aver partecipato nella Striscia al corteo anti tagliagole. Intanto gli jihadisti invitano i loro sostenitori in tutto il mondo a imbracciare le armi contro il piano di Trump. Il premier israeliano: «La pressione militare funziona»

di Stefano Piazza

Dopo aver usato fino a oggi la popolazione di Gaza come scudo umano, dopo aver fatto saltare ogni accordo che comprendeva il rilascio degli ostaggi rapiti il 7 ottobre 2023 (oltre 1.200 morti e centinaia di feriti), aver rubato gli aiuti destinati alla popolazione di Gaza e dopo aver ingannato il mondo, ora Hamas i palestinesi li ammazza senza alcun problema e con tanto di dedica per i familiari.
  Come abbiamo raccontato più volte, per il gruppo jihadista mantenere il controllo nella Striscia di Gaza è sempre più difficile dopo che la popolazione, arrivata a 543 giorni di guerra, si sta sollevando contro i tagliagole. Le proteste degli scorsi giorni, alle quali hanno partecipato migliaia di persone, e il ritiro da parte dei clan del loro appoggio hanno mandato in cortocircuito quello che resta della leadership di Hamas a Gaza e, come era lecito attendersi, la risposta è stata violentissima. Durante le manifestazioni uomini a volto coperto si sono schierati per le strade della Striscia nel tentativo di far desistere i manifestanti senza intervenire a causa della presenze delle Idf, ma soprattutto per prendere nomi e cognomi dei leader della protesta. Una volta terminato l'Eid Al Fitr che segue l'ultimo giorno di Ramadan (la notte tra sabato 29 e domenica 30 marzo), si è saputo delle spedizioni punitive contro coloro che hanno animato le proteste. Sette giovani gazawi sarebbero stati uccisi e tra loro c'è Uday al-Rubai, 22 anni, residente nel quartiere Tel alHawa di Gaza City. E stato rapito dall'organizzazione terroristica dopo aver incitato alle manifestazioni e torturato brutalmente per quattro ore. È stato trascinato con una corda al collo nella città di Gaza, picchiato su tutto il corpo con mazze e spranghe di ferro davanti ai passanti e consegnato alla sua famiglia mentre stava morendo con un biglietto: «Questo è quello che succede a chi critica Hamas».
  Uno degli assassini è stato identificato in Saadi Kahlil, un agente delle Brigate al Qassam. Al funerale di al-Rubai, i presenti continuavano a gridare: «Fuori Hamas, fuori!» mentre il padre affermava che non sarebbe stata eretta alcuna tenda funebre per suo figlio finché l'assassino non fosse stato punito. Visto quanto accaduto, le manifestazioni, a cui hanno partecipato centinaia di palestinesi, si sono calmate e non si registrano più ulteriori inviti a protestare contro Hamas.
  Il gruppo terroristico ha anche rapito e picchiato Hussam al-Majdalawi, un residente di Gaza che aveva espresso critiche nei confronti del gruppo. Dopo avergli sparato alle gambe, lo hanno lasciato ferito in una piazza nei pressi del campo di Nuseirat. Che Hamas avrebbe reagito lo si era capito lo scorso 27 marzo, quando un'alleanza di gruppi armati con base a Gaza, tra cui Hamas, nota come «Fazioni di resistenza», ha diffuso questa dichiarazione: «Questi individui sospetti sono responsabili quanto l'occupazione dello spargimento di sangue del nostro popolo e saranno trattati di conseguenza», si legge nel comunicato. E così è stato, e questo dovrebbe rappresentare un campanello d'allarme per Israele: nonostante quasi 18 mesi di guerra, l'organizzazione terroristica sostenuta dall'Iran continua, seppur tra le difficoltà, a esercitare un controllo significativo sulla popolazione di Gaza.
  Ieri uno dei leader di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha invitato i sostenitori del movimento in tutto il mondo a imbracciare le armi e a combattere il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasferire più di due milioni di abitanti di Gaza in Paesi confinanti come Egitto e Giordania. A lui ha replicato Benjamin Netanyahu, aprendo la riunione di governo: «La pressione militare funziona. Funziona perché opera simultaneamente: da un lato, schiaccia le capacità militari e governative di Hamas e, dall'altro, crea le condizioni per il rilascio dei nostri ostaggi. Hamas deporrà le armi. Ai suoi leader sarà permesso di andarsene. Garantiremo la sicurezza generale nella Striscia di Gaza e permetteremo l'attuazione del piano Trump, il piano di immigrazione volontaria». Le Forze di Difesa israeliane (Idf) ieri hanno ordinato l'evacuazione dei palestinesi da tutta l'area di Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, annunciando che «l'esercito tornerà a combattere con forza per smantellare le capacità delle organizzazioni terroristiche presenti nella zona». In un post su X, il portavoce delle Idf per il pubblico arabo, il colonnello Avichay Adraee, ha condiviso una mappa delle aree interessate dall'evacuazione, esortando i residenti a spostarsi verso la zona costiera di al-Mawasi, nel sud della Striscia. Lo Shin Bet e la polizia israeliana hanno arrestato una cellula terroristica a Shechem che operava sotto la direzione e il finanziamento di Hamas in Turchia e pianificava attacchi in Israele.
  Capitolo ostaggi: Israele ha proposto ad Hamas la liberazione di 11 ostaggi il primo giorno e un cessate il fuoco di 40 giorni. Per contro Hamas sta offrendo un rilascio graduale in cambio di un cessate il fuoco di 50 giorni. Infine, si arroventa sempre di più il clima tra l'Iran e gli Usa dopo che Donald Trump ha affermato: «Se non troveranno un accordo sul nucleare, ci saranno bombardamenti, ma c'è la possibilità che, se non fanno un accordo, io imponga dazi secondari su di loro come ho fatto quattro anni fa». Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha dichiarato domenica che Teheran non intende tenere negoziati diretti con gli Stati Uniti. Ora però vedremo se cambierà idea.

(La Verità, 1 aprile 2025)

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Il 25 aprile di Gaza

E il silenzio degli antifascisti. La rivolta popolare contro Hamas e le ong così taciturne

di Giulio Meotti

ROMA - Le ong non hanno mai avuto molto a cuore la sorte degli ostaggi israeliani nel sottosuolo di Gaza. Keith Siegel, recentemente rilasciato, a “60 minutes” della Cbs rivela: “Ho assistito a una giovane donna torturata dal terrorista, intendo tortura letterale, non solo in senso figurato. Ho visto aggressioni sessuali su ostaggi donne”. I suoi rapitori gli hanno rasato la testa e le parti intime. “Forse li divertiva”. Certi occidentali sono disposti a combattere Israele non solo fino all’ultimo ostaggio, ma anche fino all’ultimo palestinese. Con l’uccisione dei dissidenti, Hamas ha iniziato l’opera di repressione dei palestinesi di Gaza che hanno partecipato alle proteste al grido di “Hamas arhabiyah” (terroristi)”. Tra le persone trucidate Odai al Rubai, che aveva promosso le manifestazioni e si era espresso contro Hamas sui social. Lo hanno sequestrato e torturato per ore, per restituirlo alla famiglia moribondo. Hussam al Majdalawi è stato “gambizzato” e abbandonato in piazza. Il mukhtar al Barrawi aveva chiesto a Hamas di liberare gli ostaggi: è morto a causa di un “infarto”.
  I famigliari di Rubai hanno rilasciato una dichiarazione in video in cui esortano “tutte le organizzazioni per i diritti umani a sostenere la popolazione di Gaza contro questi criminali”. Organizzazioni per i diritti umani? In questo caso, niente “occhi puntati su Rafah”.
  I gruppi vestiti di kefiah che riempiono le strade di Londra, Roma, Parigi e New York sventolando bandiere dell’Olp e denunciando Israele come “genocida” sono visibilmente silenziosi sugli arabi di Gaza che protestano non contro Israele, ma contro Hamas. Nulla da Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’Onu. Nulla da Amnesty International, che “ha sospeso la sua sezione locale israeliana a gennaio perché abbiamo reso evidenti i crimini di Hamas contro gli israeliani e i palestinesi”, come rivela su Haaretz Yariv Mohar. “Prima che la sospensione avesse luogo, io, come vicedirettore, ho riscontrato un modello preoccupante: una tendenza del movimento a minimizzare e sminuire le critiche legittime e importanti a Hamas. Ora siamo alla resa dei conti morale per il mondo dei diritti umani”.
  Racconta Mohar che “figure di spicco di Amnesty hanno chiesto che rimuovessimo un documento pubblicato sulla retorica disumanizzante verso gli israeliani e che glorifica Hamas utilizzata tra circoli progressisti in occidente. I membri di Amnesty hanno lasciato intendere che condannare troppo Hamas potrebbe rafforzare la narrazione israeliana”.
  L’Atlantic americano ha un’inchiesta sulle ong. Rasha Khoury, a capo del consiglio di Medici senza frontiere in America, “è l’incarnazione di questa nuova tendenza nell’establishment dei diritti umani”. Un mese dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, Khoury ha pubblicato un saggio sulla bacheca digitale dell’organizzazione, nota come Souk: “Dobbiamo decolonizzare le nostre menti”. Doug Sandok ha lavorato con Medici senza frontiere in Ruanda, Cecenia e Sri Lanka negli anni Novanta. “Sono andato a un incontro dell’intera organizzazione nel novembre 2023 e il discorso mi ha scioccato, tutto incentrato sul colonialismo antioccidentale e sul razzismo. Alcuni di noi hanno chiesto: ‘E’davvero scontato che Israele abbia commesso un genocidio?’”.
  Per Dan Balson, lavorare per Amnesty era un sogno. Lui e i suoi genitori sono usciti dall’Unione sovietica nel 1988 parte di un’ondata di emigrati ebrei. Amnesty ha avuto un ruolo chiave nel fare pressione su Mosca affinché liberasse famiglie come la sua. Balson è diventato il direttore dell’advocacy di Amnesty per l’Europa e l’Asia centrale, coprendo un territorio che va dalla Russia all’Afghanistan all’Ucraina. Ma quando ha visitato la sede globale di Amnesty a Londra ha percepito un’antipatia verso Israele e gli ebrei.
  La mattina del 7 ottobre, Balson aprì X e vide che la sua collega Rasha Abdul Rahim, direttrice dei servizi tecnici per Amnesty, scrisse: “Essere veramente antirazzisti e decoloniali significa riconoscere che la resistenza contro l’oppressione a volte è brutta”. Balson si è dimesso. Anche Roy Yellin è un attivista israeliana per i diritti umani che ha lavorato con i grandi gruppi internazionali in Europa e negli Stati Uniti. “Pensa che se si limitassero a urlare ‘genocidio’ e ‘apartheid’ forse torneremo in Europa. A volte mi sento come se fossi stato solo un utile idiota”. Lo era, ma a differenza degli altri, ha avuto almeno il coraggio di confessarlo.

Il Foglio, 1 aprile 2025)

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Netanyahu ritira la nomina di Sharvit a capo dello Shin Bet

Dopo le aspre critiche nazionali e internazionali, il Primo Ministro fa marcia indietro e abbandona la candidatura del generale a capo del servizio di sicurezza interno.

L'Ufficio del Primo Ministro israeliano ha reso noto che Benjamin Netanyahu ha incontrato ieri sera il generale Eli Sharvit per discutere della sua nomina a capo dello Shin Bet (Servizio di sicurezza interna). Il Primo Ministro ha ringraziato il generale Sharvit per la sua disponibilità a “rispondere alla chiamata del dovere”, ma lo ha informato che avrebbe preso in considerazione altri candidati per l'incarico.
  In una dichiarazione, il generale Eli Sharvit ha affermato: “Il Primo Ministro mi ha chiesto di assumere la posizione di direttore del Servizio e di continuare a servire lo Stato di Israele in questo momento difficile - cosa che ho accettato. Ho piena fiducia nella capacità del Servizio di Sicurezza Generale di affrontare le complesse sfide che si trova attualmente ad affrontare, e un'umile fiducia nelle mie capacità di guidarlo in questa missione.” “Il servizio dello Stato, la sua sicurezza e quella dei suoi cittadini rimarranno sempre la mia priorità assoluta”, ha aggiunto.
  La decisione arriva in un contesto di critiche internazionali. “Mentre non c'è dubbio che Israele rimanga il miglior amico dell'America, la nomina di Eli Sharvit come nuovo capo dello Shin Bet è più che problematica”, ha dichiarato il senatore repubblicano Lindsay Graham, presidente della Commissione Bilancio del Senato statunitense. A suo avviso, le passate dichiarazioni di Sharvit contro il presidente Donald Trump “creerebbero inutili pressioni in un momento critico”. Netanyahu ha dichiarato lunedì di non essere stato informato di “tutti i dettagli” del coinvolgimento di Sharvit nelle manifestazioni contro la riforma giudiziaria, che avrebbe contribuito al ritiro della sua candidatura di fronte alle pressioni della destra israeliana.

(i24, 1 aprile 2025)

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“Disposti a tutto pur di non dover lasciare le proprie case”: chi sono gli ultimi novemila ebrei residenti in Iran. 

Come si vive da ebrei nel Paese degli Ayatollah? Orgogliosi della propria cultura, affezionati a tradizioni millenarie, legati visceralmente a una terra che in tanti hanno lasciato ma che continua a tenerli stretti a sé. E chi ha scelto di restare in Iran continua a sperare in giorni felici. Così, per sopravvivere, gli ebrei vivono scissi fra due polarità: quella persiana e quella ebraica. Negando (pubblicamente) Israele. Tra mille contraddizioni e lacerazioni, tre voci raccontano come vivere e fuggire da Teheran

di David Zebuloni

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«Ho ancora un desiderio – mi ha sussurrato nell’orecchio mio nonno, non molto tempo fa -. Tornare a casa, visitare l’Iran un’ultima volta», ha poi aggiunto con gli occhi socchiusi e un tono nostalgico che decisamente non gli appartiene. Mio nonno, oggi novantenne, è nato nella città di Mashad, da cui è fuggito in circostanze non proprio felici, dopo anni bui di umiliazioni e persecuzioni. Quando ho cercato di capire il motivo di tanta nostalgia, lui mi ha sorriso e ha detto che ci sono cose che non posso capire. E ha ragione. L’ossessione che molti ebrei iraniani hanno della loro prima patria, è una cosa che fatico decisamente a capire. D’altronde, come si può amare un luogo che ti ha rigettato brutalmente? Come si può avere nostalgia della povertà? Della paura? Delle piccole e grandi mortificazioni quotidiane?
  Eppure, una cosa è certa e assolutamente innegabile: forse più di ogni altro ebreo fuggito da casa propria, talvolta verso ignota destinazione, l’ebreo iraniano è il più attaccato al luogo in cui è nato. È il più orgoglioso della sua cultura. Il più affezionato alle proprie usanze millenarie. Non a caso una delle comunità ebraiche più antiche e testarde del Medio Oriente risiede ancora lì, nel paese nemico per eccellenza di Israele. E non ha alcuna intenzione di andarsene.
  Per comprendere a fondo la nostalgia di mio nonno e per capire soprattutto i motivi per i quali molti ebrei sono disposti a tutto pur di continuare ad abitare in Iran, mi faccio aiutare da tre personaggi d’eccezione: Beni Sabti, uno dei massimi esperti del regime iraniano e ricercatore presso l’Istituto per la Sicurezza Nazionale (INSS); Maureen Nehedar, cantante iraniana di fama internazionale; e il giovane Gavriel Shem, trasferitosi dall’Iran in Israele appena un anno e mezzo fa. Le storie di Beni, Maureen e Gavriel si intrecciano perfettamente, creando insieme un puzzle affascinante che racconta l’unicità della comunità ebraica in Iran, che oggi conta circa 9.000 persone e innumerevoli contraddizioni.

Ingannati dalla rivoluzione
   Sabti, il più anziano del gruppo, è nato a Teheran nel 1972, cioè sette anni prima della rivoluzione islamica, e ricorda chiaramente come il suo paese amato sia cambiato da un giorno all’altro davanti ai suoi occhi. Suo padre lavorava come contabile in un ospedale e sua madre lavorava come direttrice presso un orfanotrofio. «Nei giorni turbolenti della rivoluzione, non uscivamo di casa – racconta -. Salivamo sui tetti e guardavamo le battaglie. Non capivamo esattamente chi fosse il buono e chi fosse il cattivo, ma l’idea che il debole potesse vincere il forte ci affascinava. Così, quando vedevamo i manifestanti sopraffare i soldati dello Scià, applaudivamo emozionati. Per noi bambini, tutto sembrava un film. Tuttavia, presto capimmo chi fosse il buono e chi invece il cattivo. I rivoluzionari, capeggiati da Khomeini, ci ingannarono. Promisero libertà e prosperità, e noi, come molti ingenui iraniani, abboccammo. Presto la realtà ci è esplosa in faccia».
  A differenza di decine di migliaia di ebrei che lasciarono l’Iran proprio nell’anno della rivoluzione, i genitori di Beni decisero di restare a Teheran poiché credevano che il loro rispettabile lavoro li avrebbe protetti. «Erano anni difficili e oscuri – ricorda con dolore -. Un giorno gli uomini di Khomeini mi fermarono e mi rasarono a zero in mezzo alla strada. Barba e capelli. Ridevano esilarati. Alcuni anni dopo, quando arrivai in Israele e vidi le immagini della Shoah, capii quanto fosse grave l’umiliazione che avevo subito. Non voglio fare paragoni, ma l’odio è odio. L’umiliazione è umiliazione». Solo nel 1987, otto anni dopo la rivoluzione, quando suo padre fu intenzionalmente investito da una jeep, solo perché ebreo, davanti all’ospedale dove lavorava, i genitori di Beni capirono che era ora di fuggire.

Salvi in Israele, nonostante le difficoltà
   La storia di Maureen è molto diversa. Nata nel settembre 1977, ovvero un anno prima della rivoluzione, venne portata in Israele non appena Khomeini salì al potere. A differenza dei genitori ottimisti di Sabti, i genitori di Nehedar capirono subito che in Iran non avrebbero potuto garantire un futuro sicuro ai loro figli. «La mia famiglia si è lasciata tutto alle spalle: i soldi, la casa, i gioielli. Siamo arrivati in Israele con due valigie piene di vestiti e alcune cassette – spiega la cantante con voce rotta -. L’inizio, in Israele, fu difficile. Vivevamo nella povertà. Tuttavia i miei genitori mi hanno insegnato a camminare a testa alta e a non incolpare nessuno delle mie mancanze. Dicevano sempre che chi lavora sodo, alla fine ottiene tutto».

Partire dall’Iran dopo il 7 ottobre
   La storia di Gavriel è forse la storia di tutta la comunità ebraica che ancora abita in Iran. Nato in Isfahan nel 2002, cullato dai racconti di un paese libero che non ha mai conosciuto, in cuor suo ha sempre sognato di lasciare l’Iran per trasferirsi in Israele. Così, l’8 ottobre, il giorno dopo la grande strage compiuta da Hamas, Gavriel e sua sorella hanno preso la decisione più cruciale della loro vita. «Guardavamo le immagini del massacro al telegiornale e ci siamo detti: o ce ne andiamo ora, o restiamo in Iran per sempre – racconta -. Così abbiamo deciso di partire. Abbiamo salutato tutti e siamo saliti sull’aereo diretto a Istanbul». Quattro giorni dopo sono arrivati per la prima volta in vita loro nella Terra Promessa: lo Stato d’Israele.
  «Oggi non posso più tornare in Iran, ed è una delle ragioni per le quali molti ebrei non vogliono lasciare la loro casa: sanno che se non si trovano bene in Israele, non hanno dove tornare. È una decisione irreversibile – sottolinea Gavriel -. I miei genitori non volevano che io e mia sorella partissimo. Loro sono rimasti là, intrappolati in quella triste realtà, mentre noi stiamo costruendo una nuova vita. Non è facile. È da un anno e mezzo ormai che non li vedo. Ho festeggiato il mio compleanno con loro al telefono, una situazione del tutto innaturale. Ancora oggi cerco di accettare il fatto che la mia mamma e il mio papà non saranno con me nei momenti importanti della mia vita».

L’Iran non ti lascia mai
    Su una cosa Beni, Maureen, Gavriel e persino mio nonno sono d’accordo: puoi lasciare l’Iran, ma l’Iran non ti lascia mai. «Gli ebrei che vivono là credono ancora che le cose presto cambieranno – spiega Gavriel con l’autorità di chi quella realtà l’ha vissuta in prima persona, e non sentita raccontare da terzi -. Posticipano il momento della loro partenza di un po’ e ancora un po’ perché dentro di loro sono erroneamente convinti che il regime stia per crollare e che presto torneranno i giorni felici che hanno preceduto la rivoluzione. Che a breve potranno continuare la loro vita interrotta dal punto esatto in cui l’hanno fermata quasi cinquant’anni fa».
  E non è tutto. «Alla fine, c’è qualcosa che accomuna tutti gli ebrei persiani. Tutti, compresi quelli che vivono in Israele da cinquant’anni e non vorrebbero abitare in nessun altro luogo al mondo – sottolinea Gavriel -. Ecco, tutti sentono la mancanza della casa in cui sono cresciuti. A tutti manca quel calore. Quelle usanze dalle radici così antiche. Quel folclore. Quella cultura ineguagliabile di ospitalità e di condivisione. Di dare agli altri anche quando non hai per te stesso».
  Per molti può sembrare un paradosso inseguire il luogo da cui si è fuggiti, ma per Maureen non vi è nulla di più naturale. «Ho sempre pensato che sarei diventata una cantare lirica e che mi sarei occupata di musica classica, ma poi la nostalgia ha cominciato a farsi sentire e ho deciso di ridare vita a quella musica persiana che mi scorre nelle vene – dice visibilmente emozionata -. La mia è la nostalgia per qualcosa che non conosco, per un mondo che appena ho vissuto, ma che è sempre con me – aggiunge dopo una breve pausa -. Ancora oggi non so se questa nostalgia sia per un luogo fisico, ovvero per l’Iran, o per un luogo ideale dove ti senti parte di un microcosmo che diventa casa e famiglia, ovvero la comunità ebraica nella quale sono nata. Forse ciò che mi manca è proprio la casa dei nonni. Le loro radici, che sono anche le mie. Una cosa è certa: più esploro il mio passato, e più questo si fa doloroso. Mi sembra di scavare una ferita aperta, ancora sanguinante. Tuttavia, non riesco a smettere. Non voglio smettere. Questo è il mio passato. Questa sono io».
  A differenza degli altri due, Sabti si mostra molto meno nostalgico e molto più critico nei confronti di quella comunità che accetta tutto pur di non lasciare la propria patria. «Gli ebrei dell’Iran sono ostaggi del regime a tutti gli effetti – dichiara intransigente -. Negli ultimi mesi stanno manifestando contro Israele, a favore di Hamas e di Hezbollah. Hanno anche scritto una lettera di ringraziamento a Nasrallah per aver bombardato Tel Aviv e un comunicato di condanna per l’uccisione di Ismail Haniyeh. So che è tutta una sceneggiata, che non possono fare altrimenti poiché verrebbero appesi in piazza, ma condannare Israele per continuare a vivere in Iran a mio avviso è un errore clamoroso».
  Proprio lui, Beni, l’unico del gruppo che ha vissuto gli anni felici che hanno preceduto la rivoluzione, si mostra più intransigente dei suoi connazionali. «Gli ebrei iraniani si aggrappano a un ricordo passato di un mondo che non esiste più. Io c’ero, e porto sempre nel cuore quel luogo meraviglioso in cui sono cresciuto, ma so che vi sono linee rosse che non vanno oltrepassate. Anche ai miei tempi ci veniva chiesto di dichiarare fedeltà al regime e di condannare Israele, ma sapevamo che vi erano alcune cose che, qualunque cosa accadesse, non avremmo mai detto o fatto. Sapevamo anche che potevamo prendere e fuggire, proprio come possono fare quegli ultimi novemila ebrei che abitano lì, ancora oggi».
  Le dure parole del ricercatore fanno riflettere, ma più che provare rancore o risentimento, mi strugge il dramma che sta vivendo questa piccola comunità lacerata tra due mondi. Da un lato il desiderio di non cancellare oltre duemila anni di storia ebraica-iraniana. Di non rinnegare le proprie origini per via di un regime sadico e dittatoriale. Dall’altro, il prezzo più caro che un ebreo possa pagare: la negazione di se stessi. D’altronde, anche se pubblicamente gli ebrei dell’Iran si mostrano entusiasti di sostenere il regime degli Ayatollah, da diverse testimonianze emerge che segretamente pregano per il benessere dello Stato di Israele e per la salute dei soldati israeliani feriti in guerra contro il terrorismo. Secondo queste testimonianze, la maggior parte degli ebrei iraniani sono profondamente sionisti, ma devono fingere di non esserlo per non andare incontro alla morte certa. Un prezzo che sono disposti a pagare pur di non rinunciare al luogo che hanno tanto amato, ma che oggi esiste solo nei loro ricordi.

(Bet Magazine Mosaico, 1 aprile 2025)

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Israele invia squadre di soccorso in Myanmar e Thailandia colpiti dal terremoto

Anche Israele si è attivato in soccorso delle vittime del devastante terremoto di magnitudo 7,7 che ha colpito il Sud-Est Asiatico. Una squadra di ingegneri e ufficiali del Comando del Fronte interno dell’Idf e del Ministero della Difesa è arrivata a Bangkok, in Thailandia, per assistere le autorità locali e supportare le operazioni di ricerca e soccorso.
  Il team, composto da 21 persone, è guidato dal colonnello Yossi Pinto, comandante dell’Unità nazionale di ricerca e soccorso di riserva delle Idf. Gli israeliani hanno iniziato la propria missione eseguendo una valutazione della situazione e condividendo competenze tecnologiche con le autorità thailandesi.
  Anche la ong israeliana SmartAid è già operativa nelle città di Mandalay, Naypyitaw e Sagaing, in Myanmar, coordinando gli sforzi con i partner governativi e non governativi locali.
  Il devastante terremoto di venerdì scorso, avvertito in tutto il Sud-Est asiatico, ha avuto come epicentro Sagaing, in Myanmar, seguìto pochi minuti dopo da una scossa di assestamento di magnitudo 6,4, causando finora oltre 2mila morti e 3.400 feriti. Anche la Thailandia continua a contare le proprie vittime: almeno 18, a causa del crollo di un grattacielo di 33 piani in costruzione a Bangkok.
  Vista l’entità dell’evento sismico, il capo del governo militare del Myanmar ha dichiarato lo stato di emergenza, chiedendo l’aiuto dei paesi vicini. Cina, Russia e India sono state tra le nazioni a rispondere alla richiesta.

(Shalom, 31 marzo 2025)

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Israele alla prova dell’“enigma Trump”

di Ugo Volli

Paese piccolo, con un’industria avanzata ma risorse limitate in termini di materie prime, mercato, territorio, circondato da nemici numerosi e accaniti, insidiato dal terrorismo, Israele non può permettersi di scegliere i suoi alleati. Il primo e spesso unico alleato dai tempi di Ben Gurion, sono gli USA, concretamente i loro presidenti. Alcuni erano sostenitori veri, come Truman e Reagan, altri scettici come Nixon, diffidenti e antipatizzanti come Carter e Obama, contraddittori come Biden. Oggi c’è Trump, cui Israele ha sempre riconosciuto appoggio e molti meriti, dal trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme e gli accordi di Abramo nel primo mandato fino ai rifornimenti di armi di queste settimane. Ma si può essere sicuri che questo appoggio continuerà? Non potrebbe finire anche Israele nella situazione di isolamento e ostilità che il presidente americano ha riservato per esempio a Zelenski e all’Ucraina?
  Di Trump non si può mai essere sicuri. L’incertezza su quel che farà, la sorpresa di alcune sue scelte, il carattere provocatorio e eccessivo delle sue dichiarazioni non sono casi isolati ma fanno parte del suo stile di governo e di comunicazione. Vi sono diverse ragioni per questo atteggiamento. La prima è che nella società dello spettacolo in cui viviamo per un leader è essenziale fare notizia e certamente le sue sparate lo mettono ogni giorno sui titoli di testa di quotidiani e telegiornali. La seconda è che in una trattativa chi, avendo una base di forza adeguata, fa pretese esagerate, può spesso concludere accordi migliori di quelli che avrebbe ottenuto con proposte accettabili. La terza ragione è, per così dire, ideologica. Trump è convinto di essere stato imbrogliato e sfruttato in maniera disonesta: lui personalmente con le elezioni del 2020 e i procedimenti giudiziari che ne sono seguiti; gli USA guidati da truffatori e da incapaci e circondati da alleati disonesti e ingrati che si sono approfittati della protezione americana. È necessario dunque, dal suo punto di vista, non solo riparare a queste ingiustizie, ma anche far vedere chi comanda, gridare, insultare, per ristabilire il giusto rapporto gerarchico fra USA e resto del mondo e naturalmente anche fra lui e il “deep State”. Sullo sfondo, vi è anche l’idea che la politica sia un gioco a somma zero, dove uno vince e gli altri perdono e bisogna a ogni costo essere vincitori.
  Questo modo di fare sorprende molto l’opinione pubblica europea, da generazioni abituata a non preoccuparsi della sua difesa perché sta sotto l’ombrello americano, a consumare la cultura popolare e i prodotti made in USA, ma dall’altro si riserva il diritto di snobbare la “primitiva” società americana e di contrastare quanto può la sua politica, anche in Medio Oriente.
  In Israele l’atteggiamento è diverso, non solo per la presenza massiccia di immigrati americani. Lo Stato ebraico, impegnato nella lotta quotidiana per la difesa da chi lo vuole distruggere, ha conosciuto pressioni e veri e propri ricatti da tutti i presidenti americani. Ci sono stati epici scontri fra Golda Meir e Nixon (o Kissinger che lo rappresentava), come fra Netanyahu e Obama e anche di recente con Biden. Israele sa insomma come discutere con un alleato essenziale e molto più potente e conosce i limiti della propria libertà d’azione, come si è visto negli ultimi tempi da certe decisioni come il ritardo nell’ingresso a Rafah o il recente cessate il fuoco. Di più, Israele sa di significare molto più per il popolo americano dell’Ucraina o dell’Unione Europea. Possiamo sperare che il mondo politico israeliano e in particolare Netanyahu, con la sua grande esperienza, continuerà a saper leggere l’“enigma Trump” e trovare con lui i necessari compromessi.

(Shalom, 31 marzo 2025)

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“Dobbiamo imparare dagli errori”: l’IDF mostra al pubblico i risultati dell’indagine sul massacro al Nova Festival

I famigliari delle vittime e dei superstiti sono stati invitati a delle presentazioni della ricerca dal 30 marzo al 3 aprile. L’indagine sul Nova Music Festival rappresenta la 41esima analisi condotta e pubblicata dall’IDF sugli scontri del 7 ottobre e ha seguito le dimissioni del colonnello Haim Cohen, responsabile della sicurezza dell’area, avvenute il 25 marzo.

di Pietro Baragiola

All’inizio della prossima settimana le Forze di Difesa Israeliane inizieranno a presentare i risultati dell’indagine militare incentrata sul massacro al Nova Music Festival alle famiglie dei partecipanti uccisi e a coloro che sono sopravvissuti.
Questi risultati verranno presentati accuratamente dal capo della squadra investigativa del Nova, il generale di brigata Ido Mizrahi e dal generale maggiore Dan Goldfus.
“L’obiettivo di questa indagine sarà trarre conclusioni operative ottimali per imparare dagli errori e dai tempi di risposta dell’esercito israeliano durante il 7 ottobre” afferma il comunicato rilasciato dall’IDF. “L’analisi si concentrerà su diversi punti: le modalità di approvazione del festival; i preparativi militari; l’inizio del massacro; una panoramica completa degli eventi del 7 ottobre; la condotta delle truppe israeliane nel parcheggio di Re’im”.
Secondo quanto riportato dai portavoce dell’IDF, l’indagine non coprirà gli attacchi che si sono verificati al di fuori dell’area diretta di Nova, del suo parcheggio e del primo tratto dell’autostrada Route 232. Non verranno presi in considerazione neanche gli eventi e omicidi che si sono verificati su strade vicine, rifugi o in altre aree del sud di Israele in quanto sono oggetto di indagini di alto livello separate.

Le presentazioni dell’indagine
   Mercoledì 26 marzo i famigliari delle vittime e dei superstiti hanno ricevuto una comunicazione con le istruzioni su come iscriversi ad una delle presentazioni in cui verranno divulgati i risultati dell’indagine.
Questi incontri si svolgeranno dal 30 marzo al 3 aprile presso il palazzo dell’Expo di Tel Aviv e, secondo le comunicazioni ufficiali, si divideranno nel seguente modo: un incontro per le famiglie dei 344 civili uccisi durante l’attacco al Nova Music Festival; uno per i famigliari dei 16 soldati e dei 2 operatori dello Shin Bet caduti; uno per i parenti dei 40 partecipanti presi in ostaggio (compresi quelli che sono tornati a casa). L’ultimo incontro, che si terrà il 3 aprile, sarà dedicato ai sopravvissuti all’attacco e vedrà la partecipazione di consulenti e terapeuti esperti.
A ciascun gruppo verranno riservate le informazioni più rilevanti alla propria categoria e saranno dedicati due slot di appuntamenti in modo da permettere a tutti i famigliari di partecipare.
L’indagine sul Nova Music Festival rappresenta la 41esima analisi condotta e pubblicata dall’IDF sugli scontri del 7 ottobre e ha seguito le dimissioni del colonnello Haim Cohen, responsabile della sicurezza dell’area.

Le dimissioni del colonnello Cohen
   Martedì  25 marzo il colonnello Haim Cohen, comandante della Brigata Nord dell’IDF ha infatti annunciato le sue dimissioni per il suo ruolo nei fallimenti dell’esercito israeliano.
“Il 7 ottobre la brigata sotto il mio comando non ha compiuto la sua missione di proteggere i residenti dell’area” ha dichiarato Cohen nella sua lettera di dimissioni. “Come dimostrano i risultati dell’indagine, ho fallito!”
La divisione dell’IDF schierata lungo il confine con la Striscia di Gaza è composta da tre brigate: Nord, Centro e Sud. Cohen e la sua brigata erano incaricati della supervisione dell’area che racchiude il festival di Nova, il Kibbutz Be’eri e Nahal Oz.
Secondo quanto emerso dall’indagine interna dell’IDF, Cohen ha dimostrato ‘una cattiva gestione operativa dalla base di Nahal Oz e non ha rappresentato accuratamente la situazione sul campo durante l’attacco di Hamas’.
“Non dimenticherò mai i campi pieni di civili innocenti che giacevano nel loro stesso sangue né l’inferno vissuto o l’eroismo mostrato dalle poche forze sotto il mio comando. Tutti riservisti e civili coraggiosi, figli della luce contro un barbaro esercito terrorista” ha scritto Cohen. “Non dimenticherò mai il profondo senso di delusione per la totale sorpresa e le prime ore in cui abbiamo combattuto da soli. L’odore di morte e le urla alla radio non lasceranno mai la mia memoria.”
Cohen ha concluso la sua lettera incoraggiando il nuovo Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir a “condurre l’esercito ad una vittoria completa”: “la missione non è finita! Dobbiamo urgentemente riportare indietro i nostri fratelli che languono in cattività e dare una degna sepoltura ai nostri caduti! Sono certo che lei condurrà l’esercito a una vittoria completa sui codardi. Porgo un saluto i miei fratelli e sorelle caduti in armi, con i migliori auguri di guarigione ai feriti e con la preghiera per la restituzione degli ostaggi.”

(Bet Magazine Mosaico, 31 marzo 2025)

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Chi è Eli Sharvit, nominato da Netanyahu a capo dello Shin Bet

Non conosce l'arabo e non si è mai occupato di questioni palestinesi. Ha partecipato in passato alle proteste contro i piani di revisione giudiziaria del governo.

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Eli Sharvit

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha deciso di nominare l’ex comandante della Marina, il viceammiraglio (ris.) Eli Sharvit, come prossimo capo dello Shin Bet, ha annunciato l’Ufficio del primo ministro.
Sharvit sostituisce Ronen Bar, che il Gabinetto ha votato per il licenziamento formale all’inizio del mese.
Bar rimane al suo posto, con un’ingiunzione temporanea imposta al suo licenziamento dall’Alta Corte di Giustizia. Mentre la Corte ha congelato il licenziamento di Bar, ha permesso a Netanyahu di intervistare i candidati per sostituirlo.
Netanyahu ha intervistato sette candidati, secondo il PMO. La candidatura di Sharvit sarà ora esaminata dal comitato di controllo prima che la decisione arrivi al gabinetto.
Il viceammiraglio Eli Sharvit ha partecipato in passato alle proteste contro i piani di revisione giudiziaria del governo.
Secondo un rapporto di Ynet del marzo 2023, Sharvit si è unito a una protesta nella via Kaplan di Tel Aviv, insieme ad altri ex ufficiali militari. Non ha lanciato un appello a rifiutarsi di presentarsi in servizio, come hanno fatto altri riservisti, ma ha solo espresso preoccupazione per la legislazione prevista, secondo il rapporto.
Secondo quanto riferito, Sharvit non conosce l’arabo e non si è mai occupato di questioni palestinesi. Anche se questo non sarebbe un fatto inedito per un capo dello Shin Bet.
Ha iniziato il suo servizio in Marina nel 1985, diventando ufficiale. Nel corso degli anni ha comandato diverse navi missilistiche e ha ricoperto altri ruoli di rilievo.
Nel 2006, Sharvit è stato il vice comandante della flotta di navi missilistiche della Marina e, durante la Seconda guerra del Libano, ha comandato una delle sue squadriglie.
Tra il 2007 e il 2009 è stato capo dipartimento della Direzione delle operazioni dell’IDF, l’unico ruolo che ha ricoperto al di fuori della Marina.
Sharvit è poi tornato a comandare la flotta di navi missilistiche fino al 2011. Successivamente è stato nominato al comando della base navale di Haifa, dove ha prestato servizio fino al 2014.
Tra il 2014 e il 2016 ha ricoperto il ruolo di capo di stato maggiore della Marina, prima di essere promosso al grado di viceammiraglio e diventare comandante della Marina.
Sharvit ha comandato la Marina fino al 2021, anche durante il conflitto con Hamas del maggio 2021.
Da quando è uscito dall’esercito, ha ricoperto diversi ruoli di primo piano in aziende civili.
All’inizio di questo mese, Sharvit è stato nominato dal Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Ten. Gen. Eyal Zamir, membro di un gruppo di ex ufficiali che dovrà esaminare e valutare le indagini militari del 7 ottobre.
Sharvit non sarebbe il primo capo dello Shin Bet che viene dall’esterno dell’organizzazione e non ha familiarità con il suo funzionamento, con l’arabo e con gli affari palestinesi. Nel 1996, Ami Ayalon, anch’egli ex comandante della Marina, fu nominato a capo dello Shin Bet dopo l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin.

(Rights Reporter, 31 marzo 2025)

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L’Islam radicale – non il sionismo – vuole trascinare e colonizzare il mondo in una nuova guerra

di Rav Scialom Bahbout

La narrazione secondo la quale il ritorno degli ebrei in terra di Israele sarebbe una sorta di nuova colonizzazione simile a quella fatta dai paesi europei in Africa, in Asia eccetera, è assolutamente inconsistente e dimostra di non conoscere né la storia, né la cultura, né i riti che caratterizzano la vita ebraica. Spieghiamo perché: se gli ebrei avessero voluto colonizzare un paese qualsiasi avrebbero accettato la proposta di creare uno Stato in Uganda o in Argentina. Questa era una proposta inaccettabile perché gli ebrei in tutto il periodo in cui sono stati in Esilio hanno desiderato sempre di voler tornare solo a Sion (questo dicono gli ebrei nelle preghiere di tutti i giorni …. ). Inoltre il ritorno degli ebrei in terra d’Israele non è iniziato con il congresso di Basilea del 1897. Molti anni prima, gli ebrei, da quando sono stati cacciati dalla terra di Israele, chiamata provocatoriamente Palestina da Adriano per cancellare l’identità ebraica collegata con la terra, hanno cercato di tornare in terra di Israele. Basta leggere le storie dei gruppi e dei singoli che decidono di tornare in Erez Israel.
Questo è avvenuto nel corso dei secoli, ci sono esempi che chiunque può andarsi a leggere nei libri di storia di Israele. A parte questo, ci fu un tentativo di costituire un nucleo di stato ebraico non soggetto alle decisioni dei re o dei dittatori di turno era stato già tentato in periodo non coloniale: L’artefice di questo progetto fu Donna Grazia Mendes che, dopo essere stata costretta a vagare per l’Europa perché non riusciva a stare tranquilla da nessuna parte a causa delle persecuzioni cristiane, decise che era arrivato il momento di tornare alla terra di Israele e cercare un rifugio per il popolo ebraico. Si rivolse quindi al Sultano di Istanbul che accolse con favore la richiesta di Donna Grazia: è evidente che lui riteneva che la Terra d’Israele è il luogo destinato agli ebrei (come risulta dal Corano che lui conosceva molto bene).
L’unico rifugio possibile era la madre patria, e cioè la terra di Israele. Questo ha cercato di fare Donna Grazia Mendes, con il consenso del sultano. Questo accade nel 1550: la morte di Donna Gracia e altri motivi non permisero la realizzazione del progetto., ma dettero la spinta per creare nuove attività nella Galilea portarono all’immigrazione di molti arabi musulmani residenti al nord (Siria, Libano). La crisi che seguì il fallimento del movimento di Shabbetai Zevi, (che era assistito da Natan di Gaza)  fece il resto. Quindi gli ebrei erano a Gaza fin dal XVII secolo e anche prima: ebrei rimasti in quelle terre ci furono e questo è testimoniato dai testi. 
Come scrive Mark Twain, nel suo reportage sul suo pellegrinaggio assieme a un gruppo di protestanti in terra di Israele, la terra era desolata. C’erano abitanti quasi esclusivamente nelle città sante, le città che sono ricordate nella Bibbia, come in Gerusalemme, Jaffa, Hebron, Safed. Sono città nelle quali gli ebrei hanno continuato ad abitare come comunità e non come singoli, anche nei territori conquistati dai musulmani.
La verità è che il mondo islamico, sotto la spinta di Maometto e dei suoi successori, ha cercato di conquistare e colonizzare quanti più paesi possibili. Si è espanso in tutto il Mediterraneo e ha cercato anche di occupare l’Europa, ma non ci riuscì e fu costretto a interrompere la sua espansione. La narrazione di storici privi delle conoscenze storiche e culturali del popolo ebraico è contraria alla verità. L’Islam e i suoi seguaci colonizzarono la terra d’Israele. Non è irrealistico pensare che la causa palestinese possa divenire lo strumento che l’Islam potrebbe oggi usare per conquistare l’Europa.
Non è questa una narrazione inventata. Di fatto ci sono molti paesi in Europa in cui la presenza islamica oggi è molto consistente. Quindi il processo di colonizzazione da parte dell’Islam non è finito, è stato interrotto solo per alcuni secoli.
Ci sono naturalmente anche delle persone moderate nel mondo islamico, ma purtroppo le persone moderate sono irrilevanti perché sovrastate da minoranze che stabiliscono la narrazione e il progetto. da maggioranze da un punto di vista storico. Perché le maggiori rivoluzioni, i maggiori cambiamenti sono state fatte da piccoli gruppi che hanno poi trascinati gli altri volenti o nolenti. Semplicemente perché sono sempre le minoranze che fanno la storia, non la maggioranza.
E così è anche oggi per quanto riguarda gli arabi di Palestina. Perché quello che è accaduto è che Hamas non aveva certamente la maggioranza, ha preso il potere per tornare ad occupare quelle terre e a cacciare gli ebrei.
Quindi bisogna guardare alla realtà con una visione prospettica e non limitata semplicemente a quello che accade in questo momento. C’è un processo in corso e in questo processo l’Islam sta cercando di eliminare coloro che ritiene siano gli infedeli. Non tutti sanno che secondo gli sciiti (quindi Iran)i veri ebrei sarebbero i mussulmani.
Quindi hanno cancellato gli ebrei storici e hanno cercato di prendere il loro posto. E in un certo senso il processo che ha fatto la Chiesa per molto tempo stabilendo che la Chiesa è il vero Israel: noi siamo il vero Israel dicono gli Sciiti dopo aver cancellato quello storico. 
Come abbiamo dimostrato nel corso della storia gli ebrei hanno continuato a desiderare di tornare a Gerusalemme ogni anno, almeno in due occasioni. Tutti hanno detto l’anno prossimo a Gerusalemme e questo sia nel giorno della sera di Pasqua che poi nel giorno di Kippur alla fine del digiuno. Questo è il desiderio: quindi il sionismo, quello che qualcuno vuole tacciare di colonialismo, non è mai stato colonialista, ma legato alla tradizione ebraica “L’anno prossimo a Gerusalemme”
Anche i sionisti tornati nell’Ottocento in terra di Israele, lo hanno fatto solo in quanto legati alla tradizione. L’unico gruppo che ha vissuto in terra di Israele lungo tutta la storia, anche se non sempre in grandi quantità proprio perché deportati e massacrati sono stati gli ebrei. Quindi nessuna colonizzazione ebraica. La colonizzazione vera è stata quella islamica fatta dagli arabi musulmani: la storia non può essere riscritta.
Concludo ricordando la storia della mia famiglia: cacciata dalla Spagna nel 1492 (con lingua madre lo spagnolo), si è spostata in Marocco, dove è rimasta per oltre 200 anni, fino a quando a causa del pogrom di Marrakesh (1864 – 1880) e il mio bisnonno, decise di muoversi per andare in Erez Israele. Lui, con la famiglia e con molti altri ebrei abbandonarono il Marocco sotto la pressione del pogrom di Marrakesh, e agli altri pogrom.  Quindi il ritorno era previsto: è stata semplicemente una questione di tempo e di opportunità. 
Comunque per completare il quadro, nel 1948 i soldati arabi della Giordania invasero Gerusalemme Vecchia e la mia famiglia fu costretta ad abbandonare la città. Una foto di mia nonna sui gradini di casa con un soldato giordano che la controllava è stata anche pubblicata su Life. 
La stessa sorte subirono tutti gli ebrei che abitavano nel quartiere ebraico di Gerusalemme; le tombe del Monte degli ulivi furono profanate e le lapidi usate per scopi abitativi e financo per latrine; i sopravvissuti riuscirono a trasferirsi nella città nuova, portando con sé i sacri rotoli della legge. I rotoli ritorneranno in sinagoghe improvvisate dopo la tregua firmata a Rodi nel 1949 e definitivamente solo dopo la guerra dei sei giorni, scatenata dalla Giordania.
Di fronte a questo panorama che sembra non dare alcuna speranza, cosa bisogna fare se si vuole arrivare alla pace?
I palestinesi – Hamas e non – devono cancellare dagli statuti e dal loro progetto quello di volere distruggere e cancellare Israele e gli ebrei.
I palestinesi (e gli arabi di molti paesi in cui gli ebrei hanno vissuto) devono pentirsi di aver massacrato gli ebrei nel corso della Storia e chiedere perdono per tutti i pogrom e le uccisioni fatte
I palestinesi devono educare i propri figli ad amare e non a odiare gli ebreiper questo obiettivo avranno bisogno di essere aiutati.
Una Commissione che controllerà per un periodo di tempo congruo che questi principi verranno osservati.  Solo al termine di questo periodo si potrà aspirare a una pace.

(Kolòt - Morashà, 31 marzo 2025)

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Venerdì la maratona di Gerusalemme: «Corriamo per la speranza»

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A tredici anni un giovane ebreo diventa bar mitzvah, entrando nel mondo dei grandi attraverso un rito di passaggio. Anche la maratona di Gerusalemme ha affrontato lo scorso anno una prova di maturità, nella sua 13esima edizione: la più complessa da organizzare a livello emotivo per via della presenza in gara e sulle strade della capitale d’Israele di ex ostaggi, loro familiari, amici e gruppi di sostegno, soldati feriti.
  Si annuncia dello stesso tenore la quattordicesima, al via venerdì mattina con partenza dall’esterno del Museo d’Israele e arrivo nel parco Sacher dopo 42 chilometri e 195 metri tra i più movimentati del circuito internazionale. Se l’anno scorso i partenti raggiunsero la cifra record di 40mila unità, quest’anno il dato dovrebbe attestarsi attorno ai 35mila podisti complessivi, in gara nella corsa principale e su varie distanze. Tra le quali gli 800 metri della Community Race nata alcuni anni fa su proposta di Shalva, centro locale di assistenza per l’infanzia con disabilità fisico-psichica.
  «Per la comunità dei podisti, tutto passa attraverso le gambe. Vogliamo dimostrare che andiamo avanti a testa alta, perché non abbiamo altra scelta», ha spiegato al Jerusalem Post la responsabile del dipartimento sportivo della municipalità di Gerusalemme, Ariella Rajuan. «Corriamo per dare un messaggio di speranza a Israele, per i soldati a cui diciamo “grazie” ogni mattina, per i feriti e per gli ostaggi, affinché possano tornare a casa sani e salvi al più presto». La corsa si svolgerà quasi tutta nei quartieri moderni fatta eccezione per un passaggio di alcune centinaia di metri nella Città Vecchia, tra le porte di Giaffa e Sion. «Correremo attraverso il cuore di Gerusalemme per dichiarare che questa città rappresenta l’intero paese», ha dichiarato Rajuan. Secondo la dirigente dell’amministrazione comunale, non esiste città al mondo con l’eterogeneità di Gerusalemme. La sua conclusione è che «la convivenza è possibile e con questo senso di unità andiamo avanti». a.s.

(moked, 31 marzo 2025)

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La verità in tempi di menzogna - una prospettiva biblica

Tra fake news, ideologia e fede: perché oggi è più importante che mai aggrapparsi alla verità divina.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Ai nostri giorni, la verità è diventata qualcosa di commerciale e malleabile. Nell'era della tecnologia avanzata e della conoscenza accessibile, è difficile distinguere tra fatti, opinioni, notizie vere e fake news. L'influenza dei social media rafforza ancora di più questa sensazione. Sui social network le bugie vengono spacciate come verità.
Già nel passato, in tempi privi di Instagram, i profeti criticavano il fatto che “la menzogna è diventata più forte della verità”. Geremia diceva: “Gli uni ingannano gli altri e non dicono la verità”.
Oggi si tende a dire che non esiste una verità assoluta, ma che ognuno comprende la realtà e gli eventi a partire dalla propria visione del mondo. Verità personale o verità di Dio? La verità si confonde con gli interessi politici o ideologici. Non è facile distinguere tra verità e menzogna, ma anche ai tempi della Bibbia era difficile.
Nel contesto della Bibbia ebraica, ci sono connessioni interessanti. Nella Bibbia, la verità è chiamata emet (אמת). Emet deriva dalla radice A-M-N (א-מ-נ), così come Emuna - fede (אמונה) e “credo” - Amen (אמן). Concludete le vostre preghiere con la parola ebraica “Io credo” - la vostra verità. Fede e verità derivano dalla stessa parola Amen (אמן). In questo senso, anche la parola ebraica che indica la formazione Imun (אמון) deriva da Amen. Per mantenere la fede e la verità, bisogna abituare il cuore a seguire Dio e la verità, e a rimanergli fedeli. La mia fede determina la mia o la verità in senso biblico.
Emet אמת è composto dalla prima (א), media (מ) e ultima (ת) lettera dell'alfabeto ebraico. Questo indica la loro assoluta portata e perfezione, l'inizio e la fine. “Il Signore Dio è verità”, disse il profeta Geremia (10). La verità è collegata alla divinità. Nel Nuovo Testamento, Gesù ha detto: “Io sono l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine”.
Nella Bibbia, la verità appare in relazione a Dio, alla moralità e alla retta via. Anche le parole del salmista “grazia e verità si incontrano” indicano la qualità di Dio. Nella Bibbia la verità è sinonimo di stabilità, fede, giustizia e santità. È un attributo di Dio, la base per una società giusta e parte essenziale dell'alleanza con Dio. Per questo motivo, Dio deve costantemente formare, educare il suo popolo affinché mantenga la fede e la verità. Questo vale anche per noi. Per rimanere fedeli a Dio e alla verità, non dobbiamo lasciarci distrarre da altre “verità”.
Per il profeta Zaccaria, anche la Città Santa di Gerusalemme, in alto sul monte, è la “città della verità”. Agli occhi del profeta, Gerusalemme è il centro della rettitudine e della giustizia. Gerusalemme è la dimora di Dio, dove è stata stabilita la casa di Dio. “Così dice il Signore: Tornerò su Sion e abiterò di nuovo in mezzo a Gerusalemme, e Gerusalemme sarà chiamata la città della verità (עיר אמת, ir emet)”. Poi dice: “Di' la verità al tuo prossimo, giudica con giustizia e pace nelle tue porte”. E infine: “ma ama la verità e la pace”. E queste due cose spesso non vanno d'accordo. Cos'è più santo, la pace o la verità? Questa tensione tra verità e pace continua a commuovere gli uomini ancora oggi. Nessuno, sia a destra che a sinistra, vuole scendere a compromessi e rinunciare ai propri valori: la pace o la verità.
In un'epoca di fake news e disinformazione, la ricerca della verità è più importante che mai. Come nella Bibbia, anche oggi la verità è legata all'autenticità, alla fedele adesione a valori e convinzioni. Come nella Bibbia, la verità rimane un'ancora di stabilità in un mondo caotico. E in questa frenesia mediatica, noi di Israel Heute vogliamo essere una voce chiara, forte e vera per le nazioni da Gerusalemme.

(Israel Heute, 31 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Una parashah di generosità, devozione e fede

Il Tabernacolo era molto più di un centro spirituale: era un segno visibile della riconciliazione e della vicinanza di Dio.

di Ariel Winkler

Il 1° marzo 2025, 1° Adar 5785, nelle sinagoghe si è letta la parashah “Terumah”. Questa parashah è incentrata sulle istruzioni che Dio dà a Mosè per la costruzione del Tabernacolo e dei suoi utensili. Vengono descritte le donazioni necessarie da parte del popolo per la costruzione, tra cui oro, argento, rame, tessuti preziosi e legno di acacia. Inoltre, vengono spiegati in dettaglio gli utensili centrali del tabernacolo: l'arca dell'alleanza, la tavola dei pani, il lampadario, l'altare dell'incenso e il cortile che circondava il tabernacolo. Queste istruzioni dettagliate sottolineano la grande importanza che Dio attribuisce al tabernacolo come luogo di incontro con il suo popolo. Simboleggiano la santità e l'ordine richiesti per l'adorazione di Dio.
  Il tabernacolo è stato costruito secondo un progetto che Dio ha mostrato a Mosè in cielo: “Secondo tutto ciò che ti mostro, il modello del tabernacolo e il modello di tutti i suoi utensili, così lo farai” (Esodo 25,9). Questo chiarisce che il tabernacolo non era solo un edificio fisico, ma aveva un significato spirituale più profondo. Il suo scopo era quello di essere il luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: “Mi faranno un santuario, perché io abiti in mezzo a loro” (Esodo 25,8). Il tabernacolo incarna il piano di Dio per superare la separazione causata dal peccato di Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden (Genesi 3). Era molto più di un centro spirituale: era un segno visibile della riconciliazione e della vicinanza di Dio.
  La parashah inizia con la descrizione di come il popolo d'Israele lavori con gioia ed entusiasmo alla costruzione del tabernacolo. Essi portano donazioni volontarie di oro, argento, rame, tessuti preziosi, pietre preziose e altri materiali. La loro generosità finisce per superare il bisogno, così Mosè deve interrompere le donazioni (Esodo 36,5-7). Questo comportamento mostra la profonda gratitudine e devozione del popolo verso Dio e il suo desiderio di esprimere il proprio amore e la propria fede attraverso una gioiosa donazione.
  Nel Nuovo Testamento, anche noi credenti siamo chiamati a mostrare generosità e a investire nell'edificazione della Chiesa. In Efesini 2:21-22 si legge: “Nel quale tutto l'edificio, unito insieme, cresce fino a diventare un tempio santo nel Signore, nel quale anche voi venite edificati per formare una dimora di Dio nello Spirito”. Proprio come il popolo d'Israele ha dato al tabernacolo, anche noi siamo chiamati a essere generosi e a contribuire con tempo, risorse e talenti a rafforzare il corpo di Cristo. La nostra generosità dimostra le nostre priorità, la nostra unità di credenti e il nostro desiderio di sostenere l'opera di Dio nel mondo.
  Dio ha provveduto in anticipo a fare doni agli israeliti per costruire il tabernacolo, anche se sono usciti dall'Egitto come schiavi. Quando lasciarono l'Egitto, Dio ordinò loro di chiedere agli egiziani oggetti d'argento e d'oro e vestiti (Esodo 12,35-36), e gli egiziani diedero loro molto. In questo modo, Dio non solo preparò materialmente il popolo per il viaggio attraverso il deserto, ma anche per la costruzione del tabernacolo. Questa cura dimostra che Dio è la fonte di ogni abbondanza. E ciò che diamo è in definitiva un privilegio, in quanto gli restituiamo ciò che ci ha dato.
  Come cristiani, crediamo che Dio si prenda cura di noi anche oggi e conosca i nostri bisogni. Come si legge in Filippesi 4:19: “Ma il mio Dio provvederà a tutte le vostre necessità secondo le sue ricchezze nella gloria, per mezzo di Cristo Gesù”. La sua cura non è solo per i nostri bisogni fisici, ma anche per la nostra preparazione a fare la sua volontà. Così come si è preso cura del popolo d'Israele nel deserto, ci dà i mezzi per servirlo e costruire il suo regno nel mondo.
  Paolo invita le chiese del Nuovo Testamento a mostrare generosità e sostegno reciproco. In 2 Corinzi 8, ricorda alle chiese che la loro abbondanza non è solo per il loro uso personale, ma anche per condividerla con i bisognosi, specialmente con i fratelli e le sorelle di Gerusalemme che soffrivano di difficoltà economiche (Romani 15:26).
  Questo sostegno è un'espressione dell'unità del corpo di Cristo e un ringraziamento a Dio, da cui provengono tutte le benedizioni.
  Durante la guerra delle “Spade di ferro”, i credenti di tutto il mondo hanno mostrato solidarietà alle congregazioni messianiche in Israele e al popolo ebraico. Questo sostegno si è manifestato attraverso preghiere, donazioni finanziarie e aiuto pratico. Riflette la responsabilità reciproca nel corpo di Cristo e dimostra l'amore di Cristo attraverso l'unità e l'azione.
  La parashah “Terumah” ci insegna la generosità, la devozione e la fede. Il tabernacolo non era solo una struttura fisica, ma un simbolo della presenza di Dio tra il suo popolo. Allo stesso modo, anche noi siamo chiamati ad applicare questi principi nella costruzione della Chiesa, che è il tempio di Dio. Come Israele nel deserto, anche noi possiamo sperimentare come Dio provveda a tutte le nostre necessità e ci inviti a far parte del suo piano. La generosità, il sostegno reciproco e l'unità sono testimonianze vive della nostra fede in Cristo, attraverso le quali possiamo portare luce e benedizione in questo mondo.

(Nachrichten aus Israel, marzo 2025/5785 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Sondaggio Israele: il 70% degli israeliani non si fida del Governo Netanyahu

di Sarah G. Frankl

TEL AVIV – Secondo un sondaggio andato in onda su Channel 12, alla domanda se gli israeliani si fidano dell’attuale governo Netanyahu, il 70% degli intervistati ha risposto di no, rispetto al 27% che ha detto di sì. Anche tra gli elettori della coalizione, solo il 51% ha detto di fidarsi del governo, rispetto al 36% che ha detto di non fidarsi.
Alla domanda su quale impatto avrà il bilancio approvato questa settimana dalla coalizione sulle tasche degli israeliani, il 54% degli intervistati ha risposto che danneggerà la loro situazione finanziaria personale, il 20% ha detto che non avrà un impatto e solo il 7% ha detto che migliorerà la loro posizione.
Alla domanda su chi sia più interessato al governo – gli israeliani ultraortodossi e altri settori affiliati alla coalizione o l’intera opinione pubblica – solo il 24% degli intervistati ha risposto la seconda, mentre il 66% dell’opinione pubblica ha risposto i primi gruppi.
Alla domanda sulla legge di revisione del sistema giudiziario che il governo sta avanzando, solo il 34% degli intervistati ha detto di sostenerla, rispetto al 50% che ha detto di non volerla e al 16% che ha detto di non essere sicuro.
Alla domanda su chi sia più adatto a ricoprire il ruolo di primo ministro, il 35% degli intervistati ha risposto Benjamin Netanyahu, contro il 26% che ha indicato il presidente dell’opposizione Yair Lapid mentre il 33% ha indicato nessuno dei due.
Quando Netanyahu è stato messo a confronto con il presidente di Unità Nazionale Benny Gantz, il primo ha ricevuto il 34%, rispetto al secondo, che ha ricevuto il 26% – una cifra particolarmente bassa per Gantz, che da tempo è in vantaggio su Lapid. Il 35% degli intervistati ha dichiarato che né Netanyahu né Gantz sono adatti a ricoprire il ruolo di premier.
Il numero due di Unità Nazionale, Gadi Eisenkot, è andato leggermente meglio contro Netanyahu, ricevendo il 29% e facendo scendere la categoria “nessuno dei due” al 29%.
Se confrontato con il capo dei Democratici di sinistra Yair Golan, Netanyahu ha ricevuto il 37%, rispetto al 21% del primo, mentre il 37% non ha detto nessuno dei due.
L’ex primo ministro Naftali Bennett è l’unico politico che ha ottenuto risultati migliori di Netanyahu in un testa a testa, ricevendo il 38%, rispetto al 31% dell’attuale premier, mentre il 24% degli intervistati ha detto che nessuno dei due è adatto a governare.

(Rights Reporter, 29 marzo 2025)

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“Se rifiutate la mano tesa, la risposta sarà ferma”: svelata la lettera di Trump a Khamenei

"È giunto il momento di lasciarci alle spalle l'ostilità e di aprire una nuova pagina di cooperazione e di rispetto reciproco. Oggi abbiamo davanti a noi un'opportunità storica”.
 
  La lettera inviata dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Guida Suprema iraniana Ali Khamenei è stata rivelata per la prima volta sabato mattina da Sky News Arabia. Nella missiva, Trump esprime il desiderio di avviare negoziati, formulando però un chiaro avvertimento: “Se rifiutate la mano tesa e scegliete la strada dell'escalation e del sostegno alle organizzazioni terroristiche, vi avverto di una risposta rapida e determinata”.
  Il Presidente degli Stati Uniti inizia la sua lettera con un appello alla comprensione tra le due nazioni: “Scrivo questa lettera con l'obiettivo di aprire nuovi orizzonti per le nostre relazioni, lontano dagli anni di conflitti, incomprensioni e inutili scontri a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni”.
  “È giunto il momento di lasciarci alle spalle l'ostilità e di aprire una nuova pagina di cooperazione e di rispetto reciproco. Oggi abbiamo un'opportunità storica davanti a noi”, ha proseguito, prima di chiarire che gli Stati Uniti ‘non resteranno inerti di fronte alle minacce del vostro regime contro il nostro popolo o i nostri alleati’.
  Trump ha sottolineato la sua disponibilità ad avviare negoziati: “Se siete pronti a negoziare, lo siamo anche noi. Ma se continuerete a ignorare le richieste del mondo, la storia testimonierà che avete perso un'eccellente opportunità”.
  La lettera è stata inviata dalla Casa Bianca circa tre settimane fa, in un contesto di crescenti tensioni con l'Iran. Teheran ha risposto formalmente all'inizio di questa settimana, secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi.
  Il Presidente degli Stati Uniti ha ribadito ieri la sua posizione in una dichiarazione sulla questione del nucleare iraniano. “La mia preferenza è quella di andare d'accordo con l'Iran, ma se non lo facciamo, accadranno cose molto brutte”, ha avvertito.
  In questo contesto di tensione, recenti immagini satellitari confermano che gli Stati Uniti hanno schierato bombardieri stealth dell'Aeronautica Militare nell'Oceano Indiano, vicino all'Iran e allo Yemen. La presenza di queste armi nella regione di Diego Garcia segnala un potenziale cambiamento nella postura militare statunitense nell'area indo-pacifica.

(i24, 29 marzo 2025)

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Israele e il paradosso della felicità: perché è tra i Paesi più felici al mondo?

Il segreto? Resilienza e comunità. Se c’è una cosa che gli israeliani sanno fare bene, è adattarsi e non perdere mai la speranza. Vivere in un contesto complesso ha sviluppato in loro una capacità unica di affrontare le difficoltà. E non solo sopravvivere, ma trovare momenti di gioia anche nei periodi peggiori. Non è un caso che Israele sia al quinto posto al mondo per supporto sociale. Qui, se hai un problema, non sei mai davvero solo. Dopo ogni crisi, la solidarietà cresce.

di Marina Gersony

Israele è uno dei Paesi più felici del pianeta. Da non credere, vero? Eppure, nonostante il conflitto in corso, le tensioni politiche, un contesto geopolitico complicato e le tragedie che hanno colpito le famiglie, gli israeliani sorridono decisamente più di tanti europei e americani. Tanto da classificarsi come ottava nazione più felice nel sondaggio globale, in netta controtendenza rispetto agli Stati Uniti che sono al 24° posto. Ma com’è possibile che un Paese costantemente sotto pressione riesca a essere così in alto nella classifica? Come si misura la felicità?  Le risposte sono meno ovvie di quanto sembra.
  Il  World Happiness Report 2025, che ogni anno misura il benessere delle nazioni, non si basa su semplici interviste a persone di buon umore. Il livello di felicità viene calcolato tenendo conto di sei fattori: reddito (più soldi, più serenità… almeno fino a un certo punto); salute e aspettativa di vita; supporto sociale e fiducia (avere qualcuno su cui contare); libertà personale; assenza di corruzione; generosità (sì, aiutare gli altri rende più felici).
  Ora, osservando questi parametri, è chiaro che Israele ha qualcosa di speciale. Il 2022, prima dell’attacco di Hamas, è stato l’anno migliore per Israele, classificandosi al secondo posto. Nel 2023 era al 21° posto (un calo drammatico dovuto alla controversia interna derivante dalla riforma giudiziaria promossa dall’attuale governo israeliano, alla guerra scatenata da Hamas e alle dimensioni assunte dal conflitto armato); nel 2024 è salito al 7°, nel 2025 è previsto all’8°. Un’ascesa notevole, soprattutto considerando le sfide che il Paese affronta.
  Ma cosa c’è dietro questa felicità? Il segreto? Resilienza e comunità. Se c’è una cosa che gli israeliani sanno fare bene, è adattarsi e non perdere mai la speranza. Definiti come noto “sabras” o fichi d’india, nessun altra espressione riflette il carattere tipico degli israeliani nati in Eretz Israel: possono sembrare diretti, schietti e talvolta bruschi, ma sono anche calorosi, leali e generosi.
  Vivere in un contesto complesso ha sviluppato in loro una capacità unica di affrontare le difficoltà. E non solo sopravvivere, ma trovare momenti di gioia anche nei periodi peggiori. Non è un caso che Israele sia al quinto posto al mondo per supporto sociale. Qui, se hai un problema, non sei mai davvero solo. Dopo ogni crisi, la solidarietà cresce: le persone si aiutano tra loro, il volontariato aumenta, le donazioni fioccano. C’è un senso di appartenenza che in molti altri Paesi si è perso. Lo si è visto dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023, con migliaia di persone in fila per donare il sangue o volontari che preparavano pasti per i soldati, pacchi per gli sfollati o andavano a lavorare nei kibbutzim colpiti.
  Secondo uno studio dell’Università di Tel Aviv, nei momenti difficili l’empatia sociale in Israele sale alle stelle. Come hanno sottolineato in modi diversi numerosi pensatori e filosofi, le difficoltà comuni rafforzano i legami all’interno della comunità, favorendo la solidarietà e il benessere collettivo, dove famiglia e tradizione rappresentano i veri pilastri di questo equilibrio. Se chiedi a un israeliano qual è la cosa più importante nella sua vita, quasi sempre ti risponderà: la mishpacha, la famiglia. Mentre in molti Paesi occidentali si parla di crisi dei rapporti familiari, in Israele i legami restano forti e profondi. Un modo per ritrovare equilibrio, rafforzare i legami e sentirsi parte di qualcosa di più grande.
  Non a caso, secondo il Jerusalem Institute for Policy Research, il 78% degli israeliani considera la famiglia la principale fonte di felicità. Ma la felicità, qui, ha un significato diverso rispetto ad altre parti del mondo. Non è l’assenza di problemi, ma la capacità di affrontarli. Il concetto di Tikun Olam – di “riparare il mondo” – è profondamente radicato nella cultura israeliana. L’idea di fondo è semplice: anche nei momenti più difficili, c’è sempre qualcosa che si può fare per migliorare la propria vita e quella della comunità.
  E poi c’è il servizio militare. Anche se può sembrare un’esperienza dura, crea legami fortissimi tra i giovani. «Nel momento in cui sai di poter contare sugli altri, affronti la vita in modo diverso», spiega la sociologa Anat Fanti dell’Università Bar-Ilan.
  Felici nonostante tutto, Israele ci insegna che la felicità non è solo una questione di comfort o stabilità. È la forza di un gruppo, il supporto degli amici e della famiglia, la resilienza che nasce dalle difficoltà. In molti Paesi, la felicità è vista come qualcosa da raggiungere individualmente. In Israele, è un’esperienza collettiva.
  In termini di libertà, tuttavia, gli israeliani hanno classificato il loro paese all’87° posto su circa 130 paesi studiati, mentre in termini di corruzione è visto solo come il 32° posto più corrotto. In termini di disuguaglianza, ha ottenuto il 15° punteggio più alto, dove un punteggio più alto significa meno disuguaglianza.

(Bet Magazine Mosaico, 28 marzo 2025)

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Bufera su Conte: lo sdegno della comunità ebraica e della politica per le sue dichiarazioni

di Luca Spizzichino

Le recenti dichiarazioni di Giuseppe Conte, in cui chiede agli ebrei di dissociarsi da Israele, hanno suscitato un’ondata di polemiche e indignazione, in particolare da parte delle comunità ebraiche di Roma e Milano e di numerosi esponenti politici, che hanno definito le affermazioni del leader del M5S discriminatorie e potenzialmente antisemite.
  Già nei giorni scorsi la dichiarazione di Conte era stata definita “oscena” dal direttore di ‘Shalom’ Ariela Piattelli, che in un editoriale ha ricordato come richieste simili in passato abbiano contribuito ad alimentare un clima antisemita.
  Il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Victor Fadlun, ha reagito con fermezza in una lettera indirizzata al direttore de ‘Il Foglio’: “Non siamo qui per dissociarci da Israele. Israele è la nostra carne, la nostra storia, il nostro respiro. Non ci dissociamo, non ci discolpiamo, non ci nascondiamo. Non siamo colpevoli in quanto ebrei”. Fadlun ha poi ricordato l’appello di Conte sia una “replica inquietante di quel ‘Davide, discolpati’ che Rosellina Balbi denunciava su ‘Repubblica’ nel luglio 1982, dopo che un corteo sindacale scaraventò una bara davanti alla sinagoga di Roma per protestare contro le azioni del governo Begin in Libano. Pochi mesi dopo, il Tempio Maggiore fu teatro di un attentato terroristico, in cui perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché. “Allora il dito era puntato su Israele. Oggi è quello di Conte, che abusa del termine ‘sterminio’, lo scandisce e lo cuce alla bandiera di Israele davanti alle telecamere.”
  Sul medesimo tono si è espresso Walker Meghnagi, presidente della Comunità Ebraica di Milano, dichiarandosi “esterrefatto” dalle parole di Conte e definendole “razziste e anticostituzionali”. Meghnagi ha inoltre lanciato un appello al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, affinché intervenga ufficialmente sulla questione.
  Anche dal mondo politico si sono levate dure critiche. Il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Lucio Malan, ha accusato Conte di aver compiuto “un atto di razzismo”, ricordando che la definizione di antisemitismo adottata dal governo Conte stesso stabilisce che attribuire agli ebrei la responsabilità per le azioni di Israele costituisce una forma di antisemitismo. Maria Stella Gelmini, esponente di Noi Moderati, ha messo in guardia contro il rischio che la manifestazione pacifista del 5 aprile si trasformi in un “raduno antisemita”. Ivan Scalfarotto, di Italia Viva, ha criticato aspramente Conte con un post su X: “Ci si chiede cosa sia l’antisemitismo. Per esempio, pensare che tutti gli ebrei italiani siano prima di tutto ebrei, una categoria. Poi, forse, eventualmente, anche degli italiani”.

(Shalom, 28 marzo 2025)


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Il cretinismo antisemita contagia Conte, l’appello agli “amici ebrei” del politico neopacifista assetato di voti

Manipolazione e negazione della verità

di Michele Magno

Il conflitto in Medio Oriente è ormai diventato – non solo in Italia – una specie di porto delle nebbie, in cui i figli delle vittime della Shoah sono ritenuti responsabili del massacro di un altro popolo. La semplice comparazione è ignobile, ma la sua percezione è diffusa. Da ultimo, ci ha pensato Giuseppe Conte ad accodarsi al “cretinismo antisemita” (spero a sua insaputa), con l’appello agli “amici ebrei” affinché condannino lo “sterminio” dei palestinesi.
La verità è che almeno dal 1982 – anno dell’invasione del Libano – la memoria dell’Olocausto si è scontrata con difficoltà crescenti. Anche perché, nell’antropologia del sacrificio, la vittima deve sempre apparire innocente. Lo Stato israeliano non è innocente, l’ebreo di Israele non è innocente, perché hanno osato difendersi e combattere per la loro sopravvivenza. E fin qui, per fortuna, con successo.
Ma dal 7 ottobre 2023 il proprio diritto a esistere è stato di nuovo messo in discussione, questa volta dai macellai di Hamas e dai suoi burattinai, a cui forse non dispiace che Gaza venga rasa al suolo per proclamare la “guerra santa” contro gli infedeli. Chi non ha perso il senno sa che da oltre mezzo secolo la questione israelo-palestinese provoca non una critica (lecita) delle politiche dei suoi governi, bensì la sua delegittimazione come Stato. Come se non bastasse, l’identificazione di sempre più ampi settori della diaspora con Israele ha steso il tappeto a un nuovo antiebraismo, non riconducibile né alla tradizione antigiudaica cristiana né all’antisemitismo razziale.
Manipolazione e negazione della verità, cioè di fatti accertati e provati, sono procedure caratteristiche della propaganda contro gli ebrei. La contrapposizione tra l’Europa cristiano-ariana e l’ebraismo rappresentava il centro della storia del mondo e giustificava la “funzione di salvezza” della missione del Führer. Per i negazionisti della sinistra radicale, eredi delle derive ideologiche dell’antimperialismo occidentale, tutti i regimi politici del Novecento (dalla democrazia liberale al fascismo) sono stati varianti di un unico dominio totalitario. E non da ora questo verdetto aberrante viene emesso contro l’unica democrazia che esiste nel Medio Oriente. Oggi ne possiamo vedere tutte le tragiche conseguenze culturali e morali, appunto, anche nelle dichiarazioni di un leader politico neopacifista assetato di voti.

(Il Riformista, 29 marzo 2025)

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Razzi dal Libano sul nord di Israele. Immediata risposta di Gerusalemme

di Sarah G. Frankl

Questa mattina presto almeno due razzi sono stati lanciati dal Libano meridionale verso il nord di Israele. Secondo l’IDF uno dei razzi è stato intercettato dal sistema Iron Dome in quanto potenzialmente diretto su un centro abitato, mentre l’altro è caduto in uno spazio aperto.
Questo è il secondo attacco dal Libano nell’ultima settimana, dopo i tre razzi lanciati su Metula il 22 marzo.
Quasi immediata la risposta israeliana. Caccia dell’aviazione di Gerusalemme hanno bombardato nella zona di Nabatieh, nel Libano meridionale. Più nello specifico hanno colpito le aree di periferia di Qaaqaait al-Jisr e la città di Khiam.
In un commento di pochi minuti fa il ministro della Difesa israeliano Israel Katz avverte che “il destino di Kiryat Shmona è lo stesso di Beirut”, in un’apparente minaccia alla capitale libanese.
Afferma che senza la pace nelle comunità del confine settentrionale di Israele, “non ci sarà pace nemmeno a Beirut”.
“Il governo libanese ha la responsabilità diretta di qualsiasi attacco alla Galilea”, accusa. “Garantiremo la sicurezza dei residenti della Galilea e agiremo con forza contro qualsiasi minaccia”.

(Rights Reporter, 28 marzo 2025)

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A Gaza terzo giorno di rivolta palestinese. «Hamas vada via, qui c’è l’inferno».

I jihadisti reprimono le proteste, Israele valuta la tregua offerta tramite l'Egitto. Un volo Ita devia la rotta per i missili degli Huthi

di Stefano Piazza

Ieri a Gaza, per il terzo giorno consecutivo, centinaia di palestinesi anti Hamas hanno nuovamente manifestato contro il gruppo jihadista. Stavolta hanno anche lanciato un messaggio alle persone in tutto il mondo che sostengono Hamas invece che loro. In uno dei tanti video che circolano in rete si vede un uomo disperato che grida davanti alle telecamere: «Vieni a vivere l'inferno che stiamo sopportando, poi potrai parlare». Le proteste di ieri sono state interrotte dall'inizio di un intenso bombardamento, del quale i manifestanti sono stati avvisati per tempo. Tra coloro che si sentono in sintonia con Hamas, oltre ai tanti pro Pal, sembra esserci anche il deputato Riccardo Ricciardi (Mss), che ha letto in Parlamento le ultime volontà di Hossam Shabat, un terrorista di Hamas che ha preso parte al massacro del 7 ottobre 2023; l'onorevole lo ha fatto come se parlasse del Mahatma Gandhi.
Tornando alle proteste nella Striscia di Gaza, Hamas sta facendo di tutto per soffocarle; mercoledì i miliziani sono intervenuti per disperdere una manifestazione nei pressi dell'ospedale indonesiano a Beit Lahia e alcuni manifestati sono stati picchiati. Ora si attende la vendetta sugli organizzatori delle proteste. Come vi abbiamo raccontato ieri, tutto avviene senza che l'emittente qatarina al-Jazeera dedichi un solo servizio alle proteste contro Hamas, perché ciò disturberebbe la Fratellanza musulmana, della quale Hamas è il braccio armato. Sui canali Telegram e gli altri social, Hamas sta provando a screditare le proteste, affermando che i manifestanti sarebbero «degli attori pagati dal Mossad. Chi c'è davvero dietro i tumulti? Prima di tutto, la disperazione di una popolazione portata allo stremo da Hamas, che ha rifiutato ogni accordo e che continua a tenere i 59 ostaggi israeliani (tra vivi e morti) nei tunnel usando la popolazione civile come scudo. Poi c'è sicuramente l'Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas, che da mesi chiede ad Hamas di lasciare il potere, ma su questo nessuno si illude più. Ieri, i clan delle province meridionali di Gaza hanno annunciato il ritiro del loro sostegno all'organizzazione islamista, intimandole di non reprimere le proteste pacifiche.
La guerra intanto prosegue: ieri mattina Hamas ha annunciato che il suo portavoce, Abdul Latif al-Qanou, è stato eliminato in un attacco israeliano a Jabalia, nella Striscia di Gaza settentrionale. AI-Qanou è colui che la notte del 18 ottobre 2023 divulgò la notizia secondo la quale, alle 18.59 di quella sera, Israele aveva bombardato l'ospedale al-Ahli di Gaza «facendo oltre 500 morti". Da qual momento iniziò quella campagna d'odio che dura ancora oggi contro Israele. Giorni dopo le prove mostrarono che invece si trattava di un missile difettoso lanciato dalla Jihad islamica, che fece 20 morti, ma il danno, in termini di immagine, è stato enorme, al punto che ancora oggi c'è chi ha il coraggio di parlare di «vicenda controversa».
Sempre nella giornata di ieri, secondo quanto riportato dal quotidiano libanese L'Orìent - Le Jour, tre appartenenti a Hezbollah sono stati inceneriti da un drone israeliano mentre si trovavano su un auto nell'area di Yohmor el-Chakìf nella regione di Nabatiye, nel Sud del Libano.
Nonostante le recenti operazioni militari condotte dagli Stati Uniti in Yemen - al centro dell'ormai noto chatgate» - gli Huthi continuano a ostacolare la sicurezza di rotte aeree e marittime nel Medio Oriente, tanto che, ieri, il volo Ita Airways AZ806, partito da Roma Fiumicino e diretto a Tel Aviv, ha dovuto deviare la rotta verso il mare a causa del lancio di due missili balistici provenienti dallo Yemen. Il velivolo è poi atterrato «in tutta sicurezza». Nel primo pomeriggio, le sirene d'allarme hanno risuonato in tutto l'aeroporto di Tel Aviv e in altre zone del Paese, in seguito al lancio di un missile partito dallo Yemen. L'esercito ha fatto sapere che entrambi i missili sono stati intercettati prima che potessero oltrepassare il confine israeliano. «Due missili lanciati dallo Yemen sono stati intercettati prima di entrare nel nostro spazio aereo. Le sirene sono scattate in linea con le procedure previste», ha reso noto l'Idf.
A fronte della situazione in Medio Oriente, le sigle sindacali Filt Cgil, Uiltrasporti e Anpac hanno inviato una richiesta formale alla Airways per un confronto immediato «in merito alla direttrice Tel Aviv e alla possibilità di una sospensione temporanea delle operazioni su quella tratta».
Infine, fonti della sicurezza hanno riferito a Reuters che Israele avrebbe dato segnali favorevoli a una nuova proposta per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza avanzata dall'Egitto, uno dei principali mediatori nei colloqui. Il piano includerebbe una fase di transizione, e - secondo alcune fonti - prevederebbe il rilascio da parte di Hamas di cinque ostaggi israeliani a cadenza settimanale.

(La Verità, 28 marzo 2025)


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Le proteste anti-Hamas a Gaza

di Seth Mandel

I palestinesi di Gaza stanno imparando a proprie spese che non hanno nemico più grande sulla scena mondiale degli antisionisti occidentali.
Beh, forse il Qatar. Chiamiamolo pareggio.
L’altro ieri, un palestinese trentaduenne di nome Ibrahim è andato a fare la spesa nel centro di Beit Lahiya, nel nord di Gaza, e si è imbattuto in una scena straordinaria: centinaia di abitanti di Gaza stavano marciando per protestare contro Hamas. Così si è unito a loro. Il messaggio dei manifestanti a Hamas era semplice: andatevene da Gaza e non tornate più. I
l New York Times riporta con adorabile onestà: “I gazani, almeno pubblicamente, tendono a incolpare Israele per gran parte della morte, della distruzione e della fame che la guerra ha portato. Ma almeno alcuni ritengono anche Hamas responsabile per avere iniziato il conflitto guidando l’attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele, rapendo 251 persone a Gaza e continuando a combattere piuttosto che rinunciare al proprio potere in cambio di un cessate il fuoco”.
Per quanto possa essere difficile da credere, è vero: i cittadini di Gaza non sono stati completamente onesti in pubblico. C’è una ragione per questo. Per fare un solo esempio, Amin Abed è stato quasi picchiato a morte con dei martelli per aver criticato Hamas. Abed è stato salvato dagli astanti, quindi presumibilmente, l’intenzione era quella di finirlo. Durante il cessate il fuoco, i membri di Hamas si sono vantati di avere giustiziato dei “collaboratori” e si sono filmati mentre sparavano ai civili.
Ecco cosa rende le proteste ancora più significative. Protestare contro Hamas in pubblico significa mettere a repentaglio la propria vita. Ciò è particolarmente vero perché le proteste erano destinate a essere filmate, per fare arrivare il messaggio al mondo. Il motivo per cui il mondo ha bisogno di sentire quel messaggio è che gli occidentali sono stati gli strumenti di propaganda volontari di Hamas. Le proteste nei campus non sono “pro-palestinesi”, sono pro-Hamas, e la gente di Gaza è vittima di Hamas. Ciò significa che il movimento di protesta antisionista in tutto il mondo si schiera oggettivamente contro le vittime e i civili di Gaza.
È vero ciò che dicono: i sinistrorsi occidentali sono disposti a combattere Israele fino all’ultimo palestinese. Gli attivisti agiati di Morningside Heights invocano la “resistenza” perché non attribuiscono alcun valore alle vite di ebrei o arabi, israeliani o palestinesi. Si illudono anche di credere a cose che i cittadini di Gaza non possono permettersi di credere, ad esempio che Israele distrugga in modo sconsiderato gli edifici residenziali perché gli piace farlo. In realtà, i cittadini di Gaza sanno che Hamas costruisce ingressi ai tunnel del terrore nelle case dei civili perché è stato fatto nelle loro abitazioni. Non è l’IDF a nascondere le bombe all’interno degli animali di peluche nelle camerette dei bambini palestinesi insieme a una telecamera per sapere quando fare esplodere quell’orsacchiotto del terrore. I cittadini di Gaza sanno che le loro case sarebbero ancora in piedi se non ci fosse Hamas; è davvero così semplice.
Ecco perché i cittadini di Gaza stanno dicendo esattamente la stessa cosa che hanno detto il governo israeliano e il governo degli Stati Uniti. Nelle parole di un uomo di Beit Lahiya: “Se Hamas non se ne va, la prossima guerra sarà solo questione di tempo”.
Il punto chiave non è esplicitato: anche i cittadini di Gaza sanno che non è Israele a desiderare la guerra, ma Hamas. Se i palestinesi di Gaza non cadono nell’equivalenza morale tra Hamas e Israele, che scusa hanno gli americani?
La risposta è nessuna. Nessuno, da nessuna parte, ha una scusa per tentare di equiparare Hamas e Israele. E nell’istante in cui un palestinese a Gaza ha la minima possibilità di essere onesto, lo dice chiaramente. L’esistenza di Israele non necessita della guerra; quella di Hamas sì.
Durante le proteste ci sono state anche lamentele in merito ad al Jazeera, la televisione di propaganda del Qatar. Il Qatar sponsorizza Hamas e veste i terroristi con gilet da giornalisti rendendo quasi impossibile distinguere Hamas da chiunque altro. I cittadini di Gaza non lo apprezzano, e non apprezzano le bugie diffuse in tutto il mondo dalla piattaforma di al Jazeera. Quelle bugie, dopotutto, condannano a morte i cittadini di Gaza di tutti i giorni. (Forse Steve Witkoff può parlare con i suoi amici qatarioti, che ha subissato di elogi per il loro presunto desiderio di pace.)
Chiunque affermi di lamentarsi delle tragiche condizioni di Gaza e tuttavia sostenga la continua esistenza di Hamas sta contribuendo e aggravando la miseria palestinese nella Striscia di Gaza. Questo è un raro punto di accordo tra israeliani e palestinesi. La connessione tra Hamas e la devastante guerra a Gaza è la stessa della connessione tra gravità e caduta di oggetti. La differenza è che nel caso di Hamas, il problema può essere risolto.

(L'informale, 28 marzo 2025)

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Un documentario mostra il puro odio verso Israele nelle università d'élite

Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, gli studenti americani sono esplosi in un puro odio verso Israele. Un documentario fa capire che il gruppo terroristico ha lavorato per molti anni al fine di manipolare l'immagine di Israele in Occidente.

di Jörn Schumacher

Il documentario “8 ottobre” è proiettato nei cinema degli Stati Uniti dal 14 marzo. Il documentario fa luce sull'aumento dell'antisemitismo nelle università statunitensi, nei social media e nelle strade dopo l'attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023. Una richiesta di Israelnetz di ottenere una copia del film per una recensione non ha avuto risposta. Non si sa se il film sarà mai tradotto in tedesco.
La regista del film, Wendy Sachs, ha intervistato quasi due dozzine di persone sugli indicibili disordini negli Stati Uniti. Tra gli intervistati figurano leader ebrei, analisti politici, accademici, autori, attori e studenti.
Nel documentario sono presenti, tra gli altri, il deputato democratico statunitense Ritchie Torres, l'attrice israeliana Noa Tishby, l'attrice americana Debra Messing e il regista Michael Rapaport. Parleranno di antisemitismo anche Mosab Hassan Yousef, figlio di uno dei membri fondatori di Hamas, la politica statunitense Kirsten Gillibrand e Shai Davidai, assistente israeliano di amministrazione aziendale alla Columbia Business School. Quest'ultimo è diventato famoso per la sua difesa a favore di Israele e contro le occupazioni pro-palestinesi del campus della Columbia University di New York nel 2024.
Si può vedere anche Sheryl Sandberg, l'ex co-CEO di “Meta” (ex Facebook). Nel giugno 2022 ha annunciato che in autunno si sarebbe dimessa dal ruolo di co-CEO per dedicare più tempo alla sua fondazione. L'anno scorso, la Sandberg ha realizzato “Screams Before Silence”, un documentario sulla violenza sessuale perpetrata da Hamas il 7 ottobre.

Indignazione per le vittime che si ribellano
   Le immagini degli accampamenti di protesta davanti agli edifici universitari hanno fatto il giro del mondo. Erano manifestazioni a sostegno dei palestinesi durante il conflitto tra Israele e l'islamico palestinese Hamas. Il limite dell’aperto antisemitismo è stato superato più volte.
Subito dopo il massacro, queste manifestazioni studentesche sono state organizzate per opporsi a Israele, anche se non se ne sapeva molto. Nelle prime ore dell'8 ottobre, 34 gruppi studenteschi dell'Università di Harvard hanno firmato una dichiarazione in cui ritenevano “il regime israeliano responsabile di tutte le violenze”.
Dan Senor, autore di “Start-Up Nation” e conduttore di podcast, riassume la situazione nel filmato come segue: “I terroristi di Hamas erano ancora nelle comunità del sud di Israele. Si combatteva ancora. Israele continuava a contare il numero di morti, mutilati, stuprati e rapiti. E c'era una protesta contro Israele a Times Square. L'indignazione non era contro coloro che massacravano gli ebrei, ma contro gli ebrei che resistevano al massacro”.
Gli studenti ebrei hanno denunciato molestie in diversi college e i professori della Ivy League hanno espresso gioia per l'uccisione degli ebrei il 7 ottobre. Lorenzo Vidino, direttore del programma sull'estremismo della George Washington University, afferma: “Abbiamo assistito a proteste che esaltavano le azioni della ‘resistenza’, che è una specie di parola in codice per Hamas. È stato chiaro fin dall'inizio che c'era un gruppo di persone a livello nazionale che promuoveva una narrativa a favore di Hamas”.
Vidino presenta le prove di una riunione del 1993 di 25 leader di Hamas a Filadelfia, registrata dall'FBI. I partecipanti hanno delineato un piano per “infiltrarsi nei media, nelle università e nei centri di ricerca americani”. Secondo Vidino, “hanno discusso principalmente su come ritrarre le attività di Hamas e renderle appetibili agli americani”.

“Il mondo intero ha perso la testa”
   Come riporta l'“Hollywood Reporter”, Sachs ha iniziato a progettare il suo film un anno dopo gli attacchi nel sud di Israele, ma nessun partner di distribuzione voleva finanziarlo. Gli studios a cui si è rivolta le hanno detto che il film piaceva, ma che non vedevano grandi opportunità di guadagno. La Sachs ha quindi finanziato il film con donazioni. È stato raccolto un budget di 2 milioni di dollari USA.
La regista ha dichiarato all'Hollywood Reporter che quando ha visto le proteste contro Israele nelle università americane d'élite ha pensato: “Il mondo intero ha perso la testa”. Le è sembrata “la versione moderna della Notte dei cristalli”. È rimasta scioccata dal fatto che il Congresso, i gruppi per i diritti delle donne e l'intera Hollywood siano rimasti in silenzio. La regista sottolinea: “Ci sono molte cose che la gente non sa su Israele, soprattutto i giovani. Su Israele, sulla storia ebraica”.
Nell'intervista, Noa Tishby racconta di aver vissuto in America per 20 anni, ma di essere accolta con grande diffidenza quando dice di provenire da Israele. Negli ultimi anni, l'Occidente è stato inondato da una massiccia ondata di propaganda su Israele.
Il “Jerusalem Post” definisce il film “completo, ben strutturato e convincente”. “Il documentario mostra in modo esauriente quanto sia diffuso l'antisemitismo e come sia stato promosso da Hamas”.
Giudizio della  rivista “Variety”: “Questo film informativo attira l'attenzione su una questione importante”. Tuttavia, il recensore sottolinea che l'argomento del film è “unilaterale”: “La reazione di Israele agli attacchi è menzionata solo di sfuggita”. Tuttavia, il film “vale la pena di essere visto, se non altro per capire cos'è l'antisemitismo, quali sono i limiti della libertà di espressione, perché la retorica contro gli ebrei è così odiosa e perché i presidenti delle università d'élite si sono dimessi o sono stati licenziati dopo le proteste pro-palestinesi”.

(Israelnetz, 28 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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In Usa, un quarto degli adulti cresciuti ebrei non si identificano più come ebrei

Il rapporto si concentra sul fenomeno del “cambiare religione” in tutto il mondo e si basa su dati ottenuti da quasi 37.000 americani e oltre 41.000 individui in altri 35 Paesi, tra cui Israele. Negli Stati Uniti, solo il 76% degli intervistati che hanno affermato di essere cresciuti ebrei si identificano ancora come tali. Del restante 24%, il 17% ora si descrive come non affiliato, il 2% come cristiano e l’1% come musulmano.

di Nina Prenda

Secondo un recente studio dell’istituto di ricerca Pew Reserch Center, quasi un adulto statunitense su quattro che è stato cresciuto come ebreo non si identifica più come tale, ha dimostrato un rapporto pubblicato mercoledì 26 marzo 2025.
Il rapporto si concentra sul fenomeno del “cambiare religione” in tutto il mondo e si basa su dati ottenuti da quasi 37.000 americani e oltre 41.000 individui in altri 35 Paesi, tra cui Israele. Lo studio offre informazioni significative sull’identità religiosa e l’affiliazione nel XXI secolo.
“Il motivo per cui abbiamo scelto il termine ‘cambio religioso’ invece di ‘conversione’ è perché il cambiamento può avvenire in più direzioni”, ha detto Kirsten Lesage, autrice principale del rapporto, al Times of Israel in un’intervista telefonica. “Una persona può passare da un gruppo religioso a un altro, come dal cristianesimo al buddismo, ma potrebbe anche significare passare da una religione a nessuna religione, e questo include chiunque si identifichi come ateo, agnostico o niente in particolare”.
Lo studio ha dedicato un capitolo al passaggio religioso dentro e fuori dall’ebraismo, attingendo ai dati raccolti negli Stati Uniti e in Israele, dove, secondo il rapporto, circa l’80% degli ebrei del mondo vive. “Ci sono due motivi per cui abbiamo incluso un intero capitolo sull’ebraismo”, ha detto l’autrice Kirsten Lesage. “In primo luogo, avevamo un Paese, Israele, dove la maggioranza della popolazione è di religione ebraica. In secondo luogo, eravamo davvero interessati a guardare al cambio religioso in alcune delle principali religioni mondiali. Abbiamo intenzionalmente cercato di coprirne il maggior numero possibile. Siamo stati in grado di includere il cristianesimo, l’islam, l’induismo, il buddismo, l’ebraismo e i religiosi non affiliati”.
Nel complesso, Lesage ha evidenziato che l’ebraismo come gruppo religioso ha un alto tasso di ritenzione (significa che di tutte le persone che affermano di essere cresciute in un particolare gruppo religioso, la percentuale si descrive ancora come appartenenti a quel determinato gruppo religioso dove è cresciuta). Il cristianesimo, al contrario, è descritto nel rapporto come il gruppo con il più alto rapporto tra le persone che lasciano e quelle che si uniscono, nella maggior parte dei Paesi toccati dall’intervista.
Per quanto concerne l’ebraismo, le situazioni negli Stati Uniti e in Israele sono emerse come significativamente diverse.
Negli Stati Uniti, solo il 76% degli intervistati che hanno affermato di essere cresciuti ebrei si identificano ancora come tali. Del restante 24%, il 17% ora si descrive come non affiliato, il 2% come cristiano e l’1% come musulmano.
Le domande chiave poste agli intervistati erano quale fosse la loro religione attuale (se presente) e se pensavano a quando erano bambini in quale religione fossero cresciuti (e se ancora presente).
“Le persone potrebbero identificarsi solo come culturalmente ebraiche o etnicamente ebraiche”, ha detto l’autrice del rapporto. In Israele, il 100% degli intervistati – 591 adulti intervistati faccia a faccia nella primavera del 2024 – ha dichiarato di essere stati cresciuti e ancora identificati come ebrei. “Naturalmente, del 100%, stiamo arrotondando all’intero più vicino”, ha detto Lesage. “Non significa necessariamente che ogni singola persona in Israele che è stata cresciuta come ebrea si consideri ancora ebrea oggi”.
Di tutti gli intervistati che si sono identificati come attualmente ebrei, solo l’1% in Israele ha dichiarato di non essere cresciuto come tale. Negli Stati Uniti, il 14% della popolazione ebraica è convertito, tra cui il 7% che è stato cresciuto come cristiano e il 6% che è stato cresciuto religiosamente non affiliato.
I ricercatori hanno anche documentato l’affiliazione della popolazione ebraica israeliana a diversi gruppi ebraici, in particolare Haredim (ultra-ortodossi), datiim leumim (religiosi nazionalisti), masortim (tradizionalisti) e hilonim (secolarizzati). Oltre un ebreo israeliano su cinque – circa il 22% – ha dichiarato di essere cresciuto in un gruppo ebraico diverso da quello con cui si identificano oggi. Inoltre, gli israeliani più anziani (dai 50 anni in su) avevano maggiori probabilità rispetto agli individui sotto i 35 anni di aver cambiato gruppo religioso (33% contro 8%).
Complessivamente, oltre 9 israeliani su 10 cresciuti laici continuano a identificarsi come tali in età adulta. Al contrario, solo il 60% di coloro che sono cresciuti come Datiim Leumi o Masortim hanno mantenuto la loro identità infantile (a causa delle limitazioni delle dimensioni del campione, i ricercatori non hanno potuto analizzare i tassi di ritenzione per coloro che hanno allevato Haredi separatamente).
In futuro, l’istituto di ricerca Pew rilascerà ulteriori risultati relativi alle pratiche religiose che hanno indagato mentre conducevano il sondaggio in Israele. “Abbiamo posto ulteriori domande su diverse credenze e pratiche religiose, e in realtà stiamo lavorando su altri rapporti esaminando le risposte a quelle domande”, ha detto l’autrice della ricerca Lesage.

Similitudini tra ebraismo ed Islam
   Ci sono risultati simili tra ebrei e musulmani intervistati. L’istituto Pew ha anche intervistato la popolazione musulmana in Israele e negli Stati Uniti. Simile alla controparte ebraica, praticamente nessuno che sia cresciuto come musulmano in Israele è successivamente passato a un gruppo religioso diverso.
Questo era coerente con le ricerche sugli individui musulmani in altri Paesi. Secondo il rapporto, 13 dei 36 Paesi analizzati avevano campioni di musulmani di dimensioni sufficienti per consentire l’analisi del passaggio religioso dentro e fuori dall’Islam, compresi gli Stati Uniti, dove circa l’1% della popolazione si identifica come musulmana. Nel complesso, i ricercatori hanno documentato che solo una piccola frazione della popolazione adulta aveva lasciato o si era unita all’Islam nella maggior parte dei Paesi, mentre il 20% della popolazione musulmana negli Stati Uniti è convertita.

(Bet Magazine Mosaico, 28 marzo 2025)

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I soldi degli evangelici americani per portare gli ebrei in Israele. Così la terra promessa diventa un prodotto Usa

L'invito di Tel Aviv agli "olim" è quello di abitare le regioni di periferia - a nord e sud - in Cisgiordania. Un obiettivo sostenuto anche da gruppi di protestanti americani.

di Estefano Tamburrini

Tel Aviv potrebbe accogliere un milione di olim, ovvero di ebrei che da diverse parti del mondo emigrano in Israele, anche fra pochi anni. Il loro eventuale arrivo farebbe lievitare la popolazione israeliana di circa il 10%. La stima è stata data dal presidente dell’Agenzia ebraica Doron Almog, che tra le cause sottolinea l’aumento dell’antisemitismo a livello globale e la crescita della società israeliana nonostante la guerra su più fronti. L’Agenzia offre tutela, orientamento e reti di appoggio agli aspiranti olim. Ha facilitato il rientro di oltre 260mila persone dal 2010. Loro, i “nuovi arrivati”, discendono da madre ebrea o sono persone convertite all’ebraismo. Soltanto nel 2024 ne sono arrivati 32mila, di cui 11mila solo dagli Stati Uniti. Godono di uno status speciale una volta arrivati a destinazione: alloggio durante i primi mesi, assistenza sanitaria, sussidi, sconti fiscali e altri benefici. Elementi che rientrano nella cornice della Legge del ritorno approvata dal 1950 e che alcuni settori della Knesset vorrebbero riformare.
  “Stiamo tornando a casa”, dice Benjamin Goldberg al fatto.it contestando il termine “trasferimento” per rivendicare una continuità “genealogica con il territorio israeliano”. A 27 anni ha abbandonato gli Usa nel nome dell’aliyah, cioè il rientro degli ebrei alla terra madre (che comprende anche i territori palestinesi). Ma a dire il vero l’aliyah, che ha origini settecentesche, ora si presenta come prodotto a stelle e strisce. E il suo main sponsor sono le Chiese evangeliche, anziché le diaspore (sempre più laiche, plurali, critiche). Basta citare il contributo di personalità come Yechiel Eckstein, dell’International Fellowship of Christian and Jews, che ogni anno dona 170 milioni per il ritorno degli olim. C’è poi una rete che si estende all’International Christian Embassy Jerusalem (Icej) parla di “nuova ondata” e promette di assistere “il maggior numero possibile di nuovi migranti in Israele“. Quello dell’ultradestra evangelica è quindi un sostegno “appassionato e inequivocabile”, per dirla con le parole di Ron Dermer, ministro degli affari strategici di Tel Aviv.
Gli evangelici sono stati anche il primo gruppo incontrato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu durante la sua ultima visita in Usa, lo scorso febbraio. “Che il nostro meeting si svolga prima di quello con il presidente Trump e altre cariche è segno dell’amicizia storica che esiste tra Israele e i cristiani d’America”, ha allora commentato il pastore Jentezen Franklin.
  Era presente anche John Hagee, fondatore di Cristiani uniti per Israele (Cui). L’organizzazione vanta dieci milioni di iscritti. “Il gigante del sionismo cristiano è sveglio”, ha commentato Hagee in vista del summit per il ventesimo anniversario che si terrà quest’estate a Washington, proprio a Capitol Hill. Parlando di “ordine divino”, Hagee dice di sostenere Israele perché “la Bibbia dice: benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà”. Già in passato lo stesso pastore si è riferito ad Adolf Hitler come “mandato da Dio” affinché il popolo ebreo raggiungesse la terra promessa. Gruppi come quello di Hagee sostengono la continuità tra l’antico Israele e l’attuale Stato nazione, che è il destinatario delle Scritture. L’aliyah è quindi il presupposto per la venuta del Messia. Tesi sostenuta anche dal controverso pastore Benny Hinn, tra i primi sponsor del turismo in Israele, che parla di Israele riferendosi anche a Gaza e Cisgiordania. Non mancano poi le piattaforme online dedicate a facilitare il ritorno delle comunità ebree: Return ministries e la rete Keren Hayesod supportano anche economicamente “il popolo eletto” affinché “possa rivedere la terra promessa“.
  Oltre al sostegno finanziario, le piattaforme offrono corsi di formazione culturale e religiosa e consigli pratici per la vita quotidiana in terre israelo-palestinesi. L’invito di Tel Aviv agli olim è quello di abitare le regioni di periferia – a nord e sud – in Cisgiordania. A tale scopo i ministri per l’aliyah e l’integrazione Olif Sofer e per le finanze Bezalel Smotrich hanno varato, a metà febbraio, un piano finanziario da 19 milioni di dollari per le famiglie destinatarie. Nelle stesse settimane, la National Religious Broadcaster Convention e altri membri della Camera hanno sostenuto di opporsi “all’uso erroneo del termine West Bank per descrivere la terra biblica al cuore dell’Israele biblico” e ha chiesto all’amministrazione Usa di ribattezzare la regione “Giudea e Samaria”. Pretesa non più folle, dopo che Trump ha deciso di rinominare Golfo d’America in Golfo del Messico. Ma anche a seguito della revoca delle sanzioni applicate dal suo predecessore Joe Biden ai coloni in Cisgiordania, che sono oltre 500mila. L’ultradestra cristiana sostiene anche di “difendere l’integrità dello Stato ebraico e offrire assoluto supporto alla sovranità israeliana su Giudea e Samaria”. E il traguardo è quasi raggiunto. Basti pensare che nel 2024 Tel Aviv ha confiscato 23 chilometri quadrati di terra in Cisgiordania e demolito quasi 2mila unità abitative appartenenti a cittadini palestinesi per “assenza di permessi”, causando 4.527 sfollati e 612 vittime. I permessi non sono poi facili da ottenere, come testimonia il fondatore di Tent of Nations, Daoud Nassar, a ilfatto.it, che da quasi trentaquattro anni mantiene una battaglia legale “per evitare la confisca delle terre” da parte dell’amministrazione israeliana. Per Nassar l’alternativa è quella di “resistere, incanalare il dolore e trasformarlo in proposte positive”. E ancora: “Non bisogna sedersi a piangere, né abbonare. E nemmeno cedere alla violenza”.
  Dall’ottobre 2023 a oggi nei territori occupati sono state costruite 20mila unità abitative ed è stata approvata la costruzione di altre 10mila. “La linea che distingue la violenza dei coloni da quella dello Stato si sta sbiadendo e prima o poi scomparirà”, ha detto l’alto commissario Onu per i diritti umani Volker Türk denunciando l’impunità che dilaga in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. L’Onu ritiene che il trasferimento della popolazione civile israeliana nei territori occupati equivalga a un crimine di guerra. Ma per Washington il volume dei sermoni è più alto della flebile voce del Palazzo di vetro. Almeno in termini di voti e soldi.

(il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2025)

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Israele elimina leader di Hamas e Hezbollah in due operazioni mirate

di Luca Spizzichino

Israele ha intensificato le operazioni nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale, colpendo diverse figure chiave di Hamas e Hezbollah, indebolendo ulteriormente la loro struttura di comando.
  Mercoledì notte, un attacco aereo israeliano a Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza, ha ucciso Abdel Latif al-Qanou, definito uno dei portavoce di Hamas. La notizia è stata inizialmente riportata dall’agenzia di stampa Shehab, affiliata ad Hamas, e successivamente confermata dalla stessa organizzazione terroristica giovedì mattina.
  Questo attacco rientra in una serie di operazioni mirate contro i vertici di Hamas, che hanno visto anche l’eliminazione di Ismail Barhoum e Salah al-Bardaweel, membri del consiglio politico del gruppo. Secondo fonti interne ad Hamas, su 20 membri dell’ufficio politico, 11 sarebbero stati uccisi dall’inizio del conflitto nel 2023.
  Parallelamente, Israele ha colpito obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano. In un attacco con droni avvenuto nelle prime ore di giovedì, l’IDF ha eliminato Ahmed Adnan Bajija, comandante di battaglione delle forze d’élite Radwan. Bajija era responsabile di numerosi attacchi contro Israele e, anche durante il cessate il fuoco, avrebbe continuato a pianificare operazioni contro obiettivi israeliani. L’attacco, avvenuto nel villaggio di Derdghaiya, nel distretto di Tiro, ha distrutto completamente il veicolo del comandante, come documentato dalle immagini diffuse dall’IDF.
  Sempre giovedì mattina, un altro raid aereo israeliano ha colpito un gruppo di operativi di Hezbollah nella zona di Yohmor, mentre stavano trasportando armi.

(Shalom, 27 marzo 2025)

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Manifestazioni a Gaza: Hamas evita la repressione diretta ma manovra per soffocare la rivolta

Hamas lancia razzi dalle zone in cui sono previste manifestazioni, nella speranza di provocare attacchi israeliani che disperderebbero i raduni.

Di fronte alle manifestazioni che si moltiplicano in Gaza, Hamas sta impiegando una serie di tattiche per contenere quelle che un funzionario israeliano ha definito “le più significative manifestazioni dall'inizio della guerra”. Il gruppo terroristico, visibilmente preoccupato, ha finora evitato la repressione diretta dei contestatori, temendo che una reazione violenta amplifichi il movimento di rivolta. Secondo fonti locali, Hamas ricorre piuttosto a metodi indiretti per soffocare la protesta.
Tra queste strategie vi è il coordinamento con il Jihad islamico per lanciare razzi dalle zone in cui sono previste manifestazioni, nella speranza di provocare attacchi israeliani che disperderebbero i raduni. Hamas mobilita anche i suoi “agenti di sicurezza” per intimidire i manifestanti e sollecita il sostegno dei capi dei clan influenti per delegittimare il movimento e reindirizzare la rabbia popolare contro Israele.
La tensione è aumentata di un livello all'ospedale Amal, dove è scoppiato uno scontro fisico tra la direzione della struttura e membri di Hamas, che minacciano rappresaglie contro coloro che tentano di allontanarli.
Le proteste, che coinvolgono diverse roccaforti tradizionali del movimento come Sajayia, Jabalia e Khan Younès, esprimono l'esasperazione per l'impennata dei prezzi, la carenza d'acqua e la mancanza di servizi essenziali. I manifestanti denunciano anche la catena Al-Jazeera, accusata di non presentare i loro raduni e di sostenere attivamente Hamas. Questa contestazione rappresenta una sfida senza precedenti per l'autorità del gruppo terroristico, la cui gestione della crisi è ora apertamente messa in discussione da una parte della popolazione di Gaza.

(i24, 27 marzo 2025)

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Gli ebrei norvegesi nascondono la loro identità per ricevere cure mediche

In una lettera alle autorità sanitarie, i rappresentanti ebrei mettono in guardia da una tendenza estremamente preoccupante che non si verificava “dalla seconda guerra mondiale”.

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La sinagoga di Oslo. La Norvegia è ancora sicura per gli ebrei?

In Norvegia si sta verificando una tendenza estremamente preoccupante: i membri della comunità ebraica temono di ricorrere all'assistenza medica a causa del crescente sentimento anti-israeliano tra gli operatori sanitari. In una lettera senza precedenti alle autorità sanitarie, i leader ebraici avvertono che i membri della comunità nascondono la propria identità nelle strutture mediche, una situazione che non si verificava “dalla seconda guerra mondiale”.
La lettera firmata da Marius Gaarder, presidente della comunità ebraica di Oslo, e John Arne Moen, della comunità ebraica di Trondheim, è motivo di grande preoccupazione.
“Poco dopo il 7 ottobre 2023, diversi membri della comunità ebraica hanno espresso la loro preoccupazione per il fatto che si sentirebbero a disagio nel ricevere cure mediche e temono che non riceverebbero cure ottimali se si identificassero come ebrei, data la crescente mobilitazione anti israeliana in alcune parti del personale sanitario, delle strutture sanitarie e della comunità medica”, si legge nella lettera. ‘Questa è una situazione che non abbiamo vissuto dalla seconda guerra mondiale’, continua.
Il dottor Rolf Kirschner, un medico ebreo con 45 anni di esperienza nel sistema sanitario pubblico norvegese e membro dell'Ordine dei medici norvegese, ha definito questo fenomeno senza precedenti. “Le persone non osano indossare simboli ebraici come la stella di David durante gli esami e i pazienti ebrei temono che i loro nomi vengano pronunciati ad alta voce nelle sale d'attesa, preoccupati che il personale sanitario o altre persone possano scoprire che sono ebrei”, ha spiegato.
La situazione è peggiorata perché i pazienti si trovano di fronte a contesti politicamente carichi. “Alcuni pazienti ebrei si sono sentiti a disagio quando hanno trovato manifesti e opuscoli politici di professionisti medici che esprimevano il loro sostegno ai palestinesi, e hanno paura di lamentarsi per paura di reazioni negative da parte del personale medico da cui dipende la loro salute”, ha aggiunto Kirschner.
Pur riconoscendo il diritto alla libertà di espressione in Norvegia, Kirschner ritiene che certe manifestazioni politiche dovrebbero rimanere fuori dalle strutture mediche: “La lettera chiede ai servizi sanitari, alle organizzazioni competenti e al governo di garantire che gli ebrei si sentano a proprio agio negli ospedali e non abbiano paura di cercare assistenza medica o di nascondere la propria identità negli ospedali”.
La popolazione ebraica della Norvegia è piccola: a livello nazionale sono registrati circa 1.500 ebrei, 800 dei quali vivono a Oslo. Questa vulnerabilità è ulteriormente aggravata dalla forte posizione filopalestinese del governo norvegese. Kirschner riferisce che i membri della comunità hanno espresso il timore di ricevere cure di qualità inferiore a causa della solidarietà di varie associazioni professionali mediche con le cause palestinesi e gli appelli al boicottaggio di Israele.
Kirschner ha citato solo cinque o sei casi documentati in cui i pazienti hanno espresso queste preoccupazioni ai leader della comunità, ma ritiene che indichino un modello più ampio. Questi timori sono aumentati dopo la diffusione virale di un video in cui il personale ospedaliero australiano descrive come maltratta i pazienti israeliani. In risposta, Kirschner ha esortato le associazioni professionali ad agire: “I sindacati dovrebbero informare i propri membri che gli operatori sanitari devono rimanere neutrali sul posto di lavoro e non devono ostentare simboli politici. Dovrebbero chiarire che ai membri del sindacato è vietato partecipare a manifestazioni politiche sul posto di lavoro”.
Il ministro della Salute norvegese, Jan Christian Vestre, ha risposto alle preoccupazioni dicendo: “Tutti i pazienti dovrebbero sentirsi al sicuro quando vengono curati nel nostro sistema sanitario pubblico. Nessuno dovrebbe sentirsi a disagio o preoccupato quando riceve assistenza sanitaria e mi aspetto che tutti siano trattati con dignità”. Ha sottolineato che la creazione di ambienti inclusivi è ancora “una responsabilità locale delle istituzioni mediche”, che le autorità dovrebbero “prendere sul serio”. Anche il capo dell'associazione infermieristica ha riconosciuto queste preoccupazioni e ha promesso di affrontarle.
On Alpeleg, che vive in Israele e Norvegia da oltre trent'anni, colloca queste preoccupazioni in un contesto storico preoccupante: “Il sistema sanitario norvegese ha un passato e un presente problematici, senza dubbio influenzati dall'influenza politica. La Norvegia ha sostenuto i nazisti nella deportazione degli ebrei nei campi di sterminio ed è oggi l'unico paese occidentale che rifiuta di riconoscere l'organizzazione omicida Hamas come organizzazione terroristica. Come cittadino ebreo della Norvegia, sono profondamente preoccupato per l'influenza della politica sull'etica e la professionalità del sistema sanitario”.
(da Israel Hayom)

(Israel Heute, 27 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Per i giovani israeliani il servizio militare è una cosa ovvia

HANNOVER/BERLINO – Per Inbar (nome modificato) la questione del servizio militare, attualmente oggetto di accese discussioni in Germania, è sempre stata chiara: “Tutti quelli che mi circondano hanno svolto il servizio militare”, racconta l'israeliano di 24 anni. “Mia madre, mio padre, i miei nonni, zii, zie, proprio tutti. Per me non c'era dubbio che avrei fatto lo stesso”, dice lo studente di ingegneria elettrica che vive vicino a Tel Aviv. ‘Volevo restituire qualcosa al mio paese’.
  Inbar non solo ha prestato servizio militare per due anni e mezzo nelle forze di difesa israeliane, ma si è anche impegnato per altri due anni. Oggi è tenente della riserva attiva e continua a prestare servizio. “Ciò significa che, anche se studio, devo partecipare più volte a esercitazioni durante il semestre ed essere costantemente pronto per un'operazione”, racconta. Inbar è quindi uno dei circa 470.000 riservisti dell'esercito israeliano. A questi si aggiungono circa 180.000 soldati attivi.
  Lo studente considera il servizio militare come un contributo necessario alla protezione del suo paese. “Voglio proteggere il mio paese e i suoi valori. In caso di attacco da parte di un altro paese o di un'organizzazione terroristica, nessuno ci aiuterà se non noi stessi”.
  Il giovane atletico ha trovato l'addestramento nell'esercito molto duro. “Mi ha portato ai miei limiti, sia mentalmente che fisicamente”. Ma l'esercito lo ha anche fatto maturare, trasmettendogli valori come la fiducia, l'umanità e la responsabilità. “Ho ricevuto molto, molto di più di quanto abbia investito”.

Alto valore nella società
   Rispetto ad altri Paesi, l'esercito ha un'importanza molto elevata nella società israeliana, afferma l'esperto di Medio Oriente Peter Lintl della Stiftung Wissenschaft und Politik di Berlino. Ciò è dovuto al fatto che Israele è un Paese piccolo e circondato da nemici potenziali o reali. “Esiste una sorta di contratto sociale secondo il quale l'esercito protegge gli israeliani e in cambio le famiglie mandano i loro figli al servizio militare”, spiega Lintl.
  Tuttavia, in Israele solo il 50% circa dei giovani adulti viene arruolato per il servizio militare al termine della scuola: le donne per due anni, gli uomini dalla fine del 2024 per tre anni. Sono esclusi gli ebrei ultraortodossi e gli arabi israeliani. Secondo il politologo, questi ultimi sono molto critici nei confronti dell'esercito. Il servizio militare obbligatorio recentemente introdotto per gli ultraortodossi non viene di fatto applicato.
  Inoltre, secondo Lintl, circa il 10% di una classe di età non presta servizio militare per motivi psicologici. Non esiste un servizio civile generale. Secondo Amnesty International, gli obiettori di coscienza rischiano la reclusione. Chi si rifiuta di prestare servizio per motivi pacifisti può essere esentato.
  Inbar vede gli obiettori di coscienza in modo critico. Anche chi non vuole combattere può trovare molti compiti nell'esercito, ad esempio nella logistica o nell'assistenza sanitaria. Secondo il tenente, gli obiettori dovrebbero almeno adempiere a una sorta di obbligo di servizio civile.

Crescere tra minacce e guerre
   Per suo cugino Lasse (nome modificato), che è cresciuto e vive in Bassa Sassonia, il tema della coscrizione obbligatoria è lontano, nonostante la possibile minaccia della Russia. Il ventunenne studia relazioni pubbliche. Non ritiene che la coscrizione obbligatoria abbia senso in Germania. Piuttosto, la Bundeswehr dovrebbe diventare più attraente per i volontari.
  La situazione in Israele è completamente diversa: “Gli israeliani crescono con la minaccia e la guerra”. Ecco perché il servizio militare obbligatorio è giusto e importante. Da giovane, ha anche pensato per un attimo di prestare servizio volontario nell'esercito israeliano. “So da Inbar e da altri che, per quanto strano possa sembrare ad alcuni, si sono divertiti nell'esercito”.
  Il cugino Inbar è consapevole che anche lui, come soldato, rischia la vita. Ora, durante la guerra di Gaza, ci pensa più spesso: “Non voglio morire, non voglio vedere morire i miei futuri figli”. Ma in caso di emergenza, sacrificherebbe la sua vita per difendere Israele e i suoi cittadini, dice con enfasi: “Devi essere pronto a proteggere ciò che ami”.

(Israelnetz, 27 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il rifiuto degli ebrei di sinistra lo certifica: l'antisemitismo ha soprattutto un colore

Alla Conferenza del governo israeliano partecipano leader europei di destra. Gli avversari la snobbano

di Fiamma Nirenstein

Israele, ovvero il ministro per la Diaspora Amichai Chikli, ha invitato i rappresentanti politici e culturali di tutto il mondo a una Conferenza internazionale per combattere l'antisemitismo. È fondamentale per Israele essere alla testa di questa battaglia: da anni ormai l'odio antisemita è la base della vasta congrega woke in cui gli «oppressi» combattono gli «oppressori» ovvero: vogliono distruggere Israele. L'odio più antico si è trasformato in piazza e nelle università in moderna contestazione di tutti i valori giudaico-cristiani dell'Occidente. L'antisemitismo politico di massa è stata la sorpresa seguita alla strage del 7 ottobre, ogni ebreo del mondo è minacciato. Israele invita sia i rappresentanti della sinistra che denunciano giustamente gli eredi dei nazifascisti sia quelli della destra che indicano anche nell'islamismo radicale una delle centrali più attive dell'antisemitismo. È sbagliato? Certo che no: tutti gli attacchi, i numeri, gli studi, indicano che la strada è quella di affrontare il fronte dell'odio per Israele nelle università e nelle piazze.
  Ma una parte degli invitati, pochi giorni prima di oggi, giorno dell'incontro, si è tirata indietro. Il rifiuto viene da chi sostiene che gli antisemiti veri siano i rappresentanti della politica europea di destra, che gli invitati dunque siano odiosi antisemiti. Ma allora, si sarebbe dovuto discutere, accusare, chiedere. L'antisemitismo è una malattia professata, altrimenti non ha senso. Gli inviti a Gerusalemme sono stati larghi, se qualcuno voleva contestare la destra europea, non andando l'ha invece evitata compiendo un gesto di delegittimazione verso l'ospite, Israele. Perché mai? Fra gli invitati compaiono Jordan Bardella, presidente del Rn francese, successore di Marine Le Pen, a sua volta succeduta al padre Jean Marie, lui sì antisemita. Ma Marine ha ripetuto di rifiutare l'antisemitismo del vecchio fascista: fu lei a dire che «la Shoah è il maggiore scempio della storia». E il 29enne Bardella, che del fascismo ha sentito parlare dai nonni, ha detto che la sua scelta «è quella di impegno totale nella lotta contro l'antisemitismo». Ma la sua riabilitazione come quella di Vox, dei Democratici Svedesi, del partito olandese per la Libertà, hanno allontanato molti ebrei: il presidente dell'European Jewish Congress Ariel Muzicant, l'Unione delle Comunità italiane e di quelle francesi, il capo rabbino d'Inghilterra e altre organizzazioni. Dato che la loro accusa è una presunzione di colpevolezza retroattiva, si manifesta nel presente soltanto contro Netanyahu.
  Quando sulla Stampa una storica scrive che l'estrema destra e gli evangelici si sono avvicinati «all'Israele dei governi razzisti e antidemocratici come quello di Netanyahu» e per questo dice che a quella conferenza non si vuole riconoscere il vero antisemitismo ma «il presunto antisemitismo dell'Onu e delle Corti di Giustizia», le sue osservazioni non consentono neppure una risposta sensata, sono vuote. La democrazia in Israele splende. Alla Conferenza non è andato nemmeno Bernard Henry Levy: descrive le sue ragioni in un pezzo così autoreferenziato, da risultare un'autoaccusa a carattere psicoanalitico. Creda gentile professore, la nobiltà del sionismo consiste proprio nella battaglia per cui cerca di salvare la nazione ebraica in una dolorosa guerra di sopravvivenza.
  «Kill the jews» nelle piazze americane e europee l'hanno gridato soprattutto schiere di propal di sinistra, tutta la costruzione di un'Israele immaginata come colonialista, razzista, genocida. Il terrorismo ha accompagnato l'antisemitismo. Questa è la storia. Con cautela Israele è arrivata a capire che a destra ormai ci sono anche molti amici. Anche Bardella.

(La Stampa, 27 marzo 2025)

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Le proteste palestinesi faranno cadere Hamas?

Le proteste contro il brutale regime di Hamas nel nord della Striscia di Gaza sono in aumento, segnalando un nuovo punto di svolta nella Striscia.

di Aviel Schneider

Oggi è un giorno cruciale. Ieri, numerosi video dalla Striscia di Gaza sono diventati virali sui social network e sui media, rivelando una svolta nella popolazione civile palestinese: I palestinesi protestano ad alta voce e apertamente davanti alle telecamere in funzione contro il loro stesso regime, Hamas.
Centinaia di residenti di Beit Lahia sono scesi in strada al tramonto e altre proteste sono state segnalate dopo il tramonto nel campo profughi di Jabalia e a Khan Yunis. Nella maggior parte dei video, i palestinesi gridano “Barra Hamas, Barra Hamas - Hamas fuori”. I palestinesi affermano davanti alle telecamere che Hamas ha rovinato la Striscia di Gaza e che vogliono vivere. Non gli importa chi li governa, sudanesi o altri, ma non Hamas.
Gli abitanti di Gaza, che almeno pubblicamente tendono ad accusare Israele per la morte, la distruzione e la fame che la guerra ha portato, hanno manifestato per la prima volta in una rara protesta contro Hamas. Dopo 17 mesi di guerra, il mondo si è abituato a raccontare le manifestazioni pro-palestinesi e i media internazionali di solito incolpano Israele per le conseguenze della guerra a Gaza. Ma dopo che ieri centinaia di palestinesi hanno manifestato per la prima volta contro Hamas, non sono mancate le reazioni internazionali. Le proteste sono state riportate anche nel mondo arabo e il giornale saudita Asharq Al-Awsat, pubblicato a Londra, ha persino dedicato la prima pagina alla questione. Il titolo recitava: “Gaza: le manifestazioni contro Hamas chiedono la fine della guerra”, con immagini delle proteste di ieri in basso.
L'emittente saudita Al-Hadath Al-Arabiya ha pubblicato nuovi filmati da Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, in cui i palestinesi gridano esplicitamente: “Hamas Barra, Hamas Barra, Hamas fuori, Hamas fuori”. I palestinesi alzano anche la bandiera bianca, segno di rinuncia.
In altri video si sentono i palestinesi dire che non vogliono più l'emittente qatariota Al-Jazeera nella Striscia di Gaza. Anche i palestinesi della Striscia di Gaza hanno capito che Al-Jazeera, che è vicina ad Hamas, non fa altro che aggiungere benzina al fuoco e non riporta la verità. Le reti e i media sauditi hanno riportato le proteste palestinesi contro Hamas, mentre l'emittente del Qatar non lo ha fatto.
Diversi canali arabi hanno anche pubblicato video delle proteste, diffusi da palestinesi della Striscia di Gaza. Un alto rappresentante palestinese è stato citato ieri dall'emittente saudita Al-Hadath per dire che le proteste si sarebbero probabilmente diffuse. Il giornalista egiziano Ahmed Moussa ha dichiarato nel suo programma sul canale egiziano Sada El-Balad che “le richieste dei residenti della Striscia di Gaza riflettono la sofferenza quotidiana del popolo palestinese di fronte alla crescente crisi”. Ha invitato Hamas ad ascoltare le voci del popolo e a cessare il fuoco per “salvare ciò che resta della Striscia di Gaza”.
La BBC, che ha assunto una linea chiaramente anti-Israele sin dallo scoppio della guerra, ha riferito della “più grande protesta contro Hamas dall'inizio della guerra, con centinaia di persone scese in strada per chiedere all'organizzazione di abbandonare il potere”. L'emittente britannica, che non descrive Hamas come un'organizzazione terroristica, ha poi riferito: “Combattenti di Hamas armati e mascherati, alcuni con pistole, altri con manganelli, hanno violentemente interrotto la manifestazione e attaccato alcuni dei manifestanti”.
L'agenzia di stampa di Gaza Shehab, legata ad Hamas, sta cercando di spingere una campagna online per etichettare chiunque pubblichi contenuti critici nei confronti del governo come parte della “rete mediatica del portavoce dell'esercito israeliano in arabo Avichay Adraee”. Shehab ha completamente ignorato le proteste di ieri nel nord della Striscia di Gaza e non ne ha dato notizia. Ora, però, l'agenzia sta cercando di prendere provvedimenti contro le proteste - senza nemmeno menzionare che hanno avuto luogo.
Cosa succederà ora? L'aspetto più notevole delle proteste finora è stato il loro semplice verificarsi - e il fatto che le grida contro Hamas sono state fatte apertamente e con grande coraggio, e a volto scoperto, è una novità. Ora dobbiamo vedere se le proteste pubbliche sono state solo un episodio isolato o se continueranno anche oggi. Le proteste prenderanno slancio e coinvolgeranno sempre più persone nella Striscia di Gaza? Quanti gazesi sono davvero abbastanza coraggiosi da prendere una posizione pubblica contro Hamas? Altre regioni della Striscia di Gaza si uniranno alle proteste? Hamas riuscirà a reprimere violentemente le manifestazioni - e sa esattamente come? I manifestanti riusciranno a mantenere il movimento?
Come l’esperienza dimostra, le probabilità di successo delle manifestazioni nella Striscia di Gaza sono molto basse. È possibile che Hamas intraprenda un'azione brutale contro le prossime proteste, e brutale significa sparare ai propri fratelli e sorelle. In che misura Fatah sarà coinvolta nel rovesciamento del regime di Hamas?
L'inizio delle proteste è stato senza dubbio un buon indicatore dell'efficacia della pressione israeliana sulla Striscia di Gaza, ma è ancora troppo presto per parlare di una “primavera araba a Gaza” che potrebbe portare al tanto atteso rovesciamento di Hamas. La pressione militare di Israele sulla Striscia di Gaza deve continuare con tutte le sue forze. In nessun caso Israele dovrebbe abbracciare o sostenere apertamente le proteste palestinesi a Gaza. Naturalmente, Hamas sta cercando di minare la legittimità delle proteste presentandole come una cooperazione con Israele.

(Israel Heute, 26 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Palestinesi contro Hamas: “vogliamo mangiare”

di Eugenio Vittorio

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Le proteste continuano. Un evento più unico che raro, quello che ieri ha visto scendere in piazza diversi palestinesi per protestare contro il regime di Hamas. Come una miccia esplosa per autocombustione, così anche oggi decine di residenti del quartiere Shejaiya di Gaza city stanno partecipando a una protesta contro il governo dei terroristi, che da quasi 20 anni è al potere nella Striscia. I dimostranti hanno bruciato pneumatici e gridato Hamas fuori, stop guerra. Ieri le proteste si sono tenute nel campo profughi di Jabalia e a Khan Yunis. In passato (e ancora oggi) manifestazioni di questo tipo sono state estremamente rare.
  Ma gli sfollati di Gaza non ce la fanno più, mai prima d’ora hanno patito una guerra così lunga e le successive privazioni, il freddo, la fame e il buio. La rabbia si è consolidata (e direi quasi autogestita) una settimana dopo la ripresa dei combattimenti nelle proteste scoppiate ieri. Decine di video postati sui social da account palestinesi hanno mostrato i cittadini di Gaza che urlano e chiedono la pace una volta per tutte. O almeno, la fine della guerra. Su Telegram e X ha preso a diffondersi fin dalla mattina di ieri l’appello alla protesta in un messaggio: “Tutta la popolazione di Gaza si rivolga ai propri anziani, ai notabili affinché tutti scendano in piazza domani per chiedere la fine della guerra e del governo della milizia di Hamas”. “Non so chi abbia organizzato la protesta”, ha detto all’Afp Mohammed, un manifestante che ha rifiutato di fornire il suo cognome per paura di rappresaglie, “ho partecipato per mandare un messaggio a nome del popolo: basta con la guerra”. Mohammed – il nome arabo del profeta Maometto, per chi volesse fare qualche parallelo – ha anche riferito di aver visto membri delle forze di sicurezza di Hamas in abiti civili interrompere la protesta. Come del resto mostrano i filmati postati nel pomeriggio da Beit Lahia, dove i manifestanti sono stati dispersi e inseguiti dai miliziani. Majdi, un altro ragazzo che ha preso parte alle proteste ha commentato che “la gente è stanca. Se Hamas lascia il potere a Gaza è la soluzione, perché Hamas non lascia il potere per proteggere il suo popolo?”, ha chiesto.
  Il grido arrivato dal campo profughi di Jabalia, lascia poco all’immaginazione: “vogliamo mangiare”. Tra pneumatici bruciati, arrivano messaggi come “Risorgi, popolo, rompi la barriera della paura e dell’oppressione. Rivoltati”, ha scritto Mohammed su X, accusando duramente al Jazeera di essersi rifiutata di riprendere la rivolta. “La popolazione di Gaza smaschera i mercenari”, ha poi aggiunto. Nel frattempo i media della Striscia, legati a Hamas, stanno ignorando le manifestazioni, di cui non offrono alcuna copertura. L’inedita ondata di scontento degli sfollati invece non è passata inosservata in Cisgiordania, a Ramallah.
  “Le manifestazioni nella Striscia di Gaza sono un grido dei residenti contro le politiche di Hamas”, ha dichiarato il consigliere del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, Mahmoud Al-Habash, alla tivù saudita al Hadath. Il leader palestinese ha precisato che la soluzione è ripristinare il controllo dell’Anp sulla Striscia. Ma probabilmente non è proprio questo che i manifestanti avrebbero in mente. “Dobbiamo concentrarci sulla rimozione di Hamas dal potere. Suggerisco all’organizzazione di ascoltare il popolo palestinese a Gaza”, ha sottolineato Habash, guardando al futuro dell’enclave, ma soprattutto, del suo partito.

(l'Opinione, 26 marzo 2025)

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Il mistero della ‘piramide’ rinvenuta nel deserto della Giudea

di Jacqueline Sermoneta

“Potrebbe essere una torre di guardia che sorvegliava un’importante rotta commerciale? Oppure un monumento funebre o commemorativo?”. Resta ancora un mistero per gli archeologi dell’Autorità israeliana per le Antichità (IAA) la funzione della monumentale struttura piramidale di 2.200 anni fa, rinvenuta a nord di Nahal Zohar, nel deserto della Giudea. Costruita durante il periodo ellenistico, sotto il dominio tolemaico, la struttura sorge su una più antica stazione di sosta.
Il sito ha già restituito una eccezionale serie di reperti storici: papiri scritti in greco, monete di bronzo dei Tolomei e di Antioco IV, armi, utensili in legno e tessuti conservati in modo ottimale grazie al clima desertico. Per questo è considerato “uno degli scavi archeologici più ricchi e intriganti mai scoperti nel deserto della Giudea. – hanno affermato i direttori degli scavi Matan Toledano, Eitan Klein e Amir Ganor – La struttura piramidale è enorme. Alta circa 6 metri, è costruita con pietre tagliate a mano, ciascuna del peso di centinaia di chili. Questo è un sito davvero sorprendente: ogni momento vengono fatte nuove scoperte”.
  Il lavoro di scavo fa parte di un progetto più ampio, avviato otto anni fa dall’Autorità israeliana per le Antichità allo scopo di preservare i reperti archeologici dai saccheggi. Il team ha esplorato ben 180 chilometri di scogliere nel deserto, scoprendo circa 900 grotte e migliaia di reperti rari – rotoli, monete, utensili e papiri.
  “Contrariamente alle precedenti ipotesi che facevano risalire questa struttura al periodo del Primo Tempio – hanno affermato i ricercatori – ora si pensa che sia stata costruita più tardi, durante il periodo ellenistico, quando la terra di Israele era sotto il dominio tolemaico. Non sappiamo ancora con certezza quale fosse lo scopo per il quale fu eretta. È un avvincente mistero storico”.
  “L’indagine del deserto della Giudea è una delle operazioni archeologiche più importanti mai intraprese nella storia dello Stato di Israele – ha detto Eli Escusido, Direttore dell’IAA, invitando il pubblico a partecipare allo scavo – Le scoperte sono entusiasmanti ed emozionanti e il loro significato per la ricerca archeologica e storica è enorme”.
  Lo scavo è un’iniziativa congiunta dell’Autorità per le Antichità di Israele e del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, finanziata da diversi dipartimenti governativi.

(Shalom, 26 marzo 2025)



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Israele – La maggioranza approva il bilancio 2025

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In una seduta tesa, il parlamento israeliano ha approvato in via definitiva la Legge di Bilancio per il 2025 con 66 voti favorevoli e 52 contrari. La manovra, da 755 miliardi di shekel (circa 189 miliardi di euro), assicura la sopravvivenza del governo di Benjamin Netanyahu, che sarebbe caduto senza il voto favorevole entro la scadenza del 31 marzo. La coalizione ha celebrato il via libera parlando di «vittoria responsabile», l’opposizione denuncia scelte miopi e tagli che colpiscono i cittadini più vulnerabili.
  Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha difeso la legge, definendola «un bilancio di guerra e, con l’aiuto di Dio, il bilancio della vittoria». Secondo Smotrich, la manovra rappresenta una risposta necessaria all’emergenza nazionale, con misure che puntano a sostenere la Difesa, aiutare i riservisti e le loro famiglie, e garantire risorse alle imprese danneggiate dal conflitto. Il budget del ministero della Difesa per il 2025 è stato portato a circa 110 miliardi di shekel, rispetto ai 64 miliardi previsti per il 2024. Il secondo capitolo di spesa più rilevante è quello dell’Istruzione, con circa 92 miliardi di shekel.
  Per il Financial Times, dietro l’apparente consolidamento del potere da parte di Netanyahu con l’approvazione del bilancio si cela una realtà più fragile: l’economia israeliana rimane sotto pressione a causa della guerra in corso e di una crisi istituzionale sempre più profonda. Il settore tecnologico, i sindacati e le amministrazioni locali hanno minacciato scioperi nel caso in cui il governo prosegua con il piano di rimuovere il capo dello Shin Bet e il procuratore generale, sfidando la Corte suprema. Le prossime settimane saranno cruciali, spiega il quotidiano economico, anche perché non è chiaro se l’esecutivo rispetterà le sentenze attese dal massimo organo giudiziario del Paese.
  Anche il governatore della Banca di Israele, Amir Yaron, ha espresso perplessità sulla manovra, sottolineando come esista «spazio per ridurre spese che non contribuiscono a sufficienza al potenziale di crescita futura dell’economia». I critici sottolineano la decisione della coalizione di escludere dal bilancio i fondi previsti dalla cosiddetta “Legge Tkumah” per la ricostruzione delle comunità vicino a Gaza devastate il 7 ottobre, così come gli aiuti agli sfollati del nord.
  Il leader dell’opposizione Yair Lapid ha accusato il governo di disprezzare la classe media e di aver trasformato il budget in uno strumento di ricompensa politica. Nel suo intervento ha denunciato un sistema che toglie risorse a lavoratori e riservisti per finanziare settori che non contribuiscono né all’economia né alla sicurezza.
  Critiche a cui il ministro delle Finanze ha replicato, dichiarando di aver elaborato il bilancio in collaborazione con le autorità locali, i sindacati e il settore imprenditoriale, e che si tratta di provvedimento volto «a rafforzare la crescita e mantenere la resilienza economica».
  La coalizione si prepara a concentrare gli sforzi sulla discussa riforma giudiziaria. Un’iniziativa che promette nuove tensioni politiche, mentre la legge sulla leva militare, centrale per i partiti religiosi e al centro di un altro acceso dibattito, è ferma in Commissione Affari Esteri e Difesa, senza segnali di avanzamento.

(Bet Magazine Mosaico, 25 marzo 2025)

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A Torino, un Purim internazionale per i giovani ebrei

È stato molto intenso l’International Purim Shabbaton tenutosi a Torino da venerdì 21 a domenica 23 marzo, e che ha radunato circa 170 giovani ebrei nella fascia d’età 18-35 anni, sia ebrei italiani o studenti stranieri residenti in Italia, ma anche ragazzi giunti apposta dall’estero, per un totale di oltre venti nazionalità diverse.

di Nathan Greppi

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Entrando nei locali della comunità ebraica torinese, si capiva fin da subito che non era uno Shabbaton come gli altri: a confrontare le rispettive esperienze dell’ultimo periodo non erano solo ebrei italiani o studenti stranieri residenti in Italia, ma anche ragazzi giunti apposta dall’estero, per un totale di oltre venti nazionalità diverse, che hanno dato un tocco cosmopolita a tutto l’evento, e permesso che vi fosse una maggiore eterogeneità di esperienze da condividere per scambiare opinioni.
In sintesi, è stato molto intenso l’International Purim Shabbaton tenutosi a Torino da venerdì 21 a domenica 23 marzo, e che ha radunato circa 170 giovani ebrei nella fascia d’età 18-35 anni. Organizzato dall’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia), l’evento ha visto come partner anche l’Unione degli Studenti Ebrei di Germania (JSUD), l’EUJS (European Union of Jewish Students), la NUIS (National Union of Israeli Students), l’Agenzia Ebraica, l’AJC (American Jewish Committee) e la Moishe House.

Rompere il ghiaccio
   Per dare inizio alle danze, venerdì pomeriggio la Moishe House ha organizzato un incontro dove i ragazzi potevano presentarsi e parlare un po’ di sé e delle loro vite, oltre a partecipare ad un quiz sulla storia degli ebrei in Italia. Dopo le prime attività ricreative, ci si è riuniti per accendere le candele di Shabbat, e dopo le preghiere di Minchà, Kabbalat Shabbat e Arvit i ragazzi hanno cenato tutti insieme nei locali della comunità. Più in generale, nel corso dell’evento chi voleva pregare ha sempre avuto un’occasione per farlo, sia per Shacharit la mattina che per Minchà e Arvit la sera.

Dibattiti sull’attualità
   Coloro che incarnano il futuro delle comunità ebraiche hanno avuto modo di confrontarsi sui temi più caldi del presente e puntare anche lo sguardo al passato, attraverso diversi dibattiti tenutisi in contemporanea sabato pomeriggio: Baruch Lampronti ha condotto una visita guidata della Sinagoga di Torino, illustrandone la storia e le peculiarità. Mentre la psicologa Ruth Mussi ha raccontato come si è evoluto, nel corso della storia, il ruolo della donna nell’ebraismo.
Passando dalla storia all’attualità, il rabbino capo di Torino Rav Ariel Finzi ha trattato la prospettiva ebraica sul rilascio degli ostaggi, sicuramente il tema che più di ogni altro oggi rappresenta una ferita aperta per gli ebrei in tutto il mondo. Più leggero, ma comunque di una certa importanza, il dibattito che ha visto confrontarsi tre esponenti del giornalismo ebraico giovanile, che hanno parlato del lavoro delle rispettive testate: David Di Segni per HaTikwa, organo di stampa dell’UGEI, Alexandra Krioukov per EDA, periodico della JSUD, e Ariela di Gioacchino per The Bridge, rivista in lingua inglese dell’EUJS. Un tema sentito è stato in particolare come queste realtà hanno reagito al 7 ottobre.

Tra attivismo e divertimento
   Siccome l’evento è stato organizzato per Purim, dopo la fine di Shabbat e la cena non poteva mancare la festa in maschera, dal titolo The enigma of Turin: Between Shadows and Wonders, tenutasi nella suggestiva cornice di Villa Sanquirico, nel cuore del capoluogo piemontese. Alla festa, oltre ad indossare i costumi e le maschere più svariate, i ragazzi hanno potuto ballare al ritmo dei grandi successi della musica italiana, israeliana e internazionale.
La mattina dopo, ancora stanchi dalla festa ma comunque reattivi, i ragazzi hanno fatto un giro a piedi alla scoperta di Torino e della sua storia. Al termine del tour, ognuno ha ripreso la strada di casa, portando con sé il ricordo di un fine settimana felice e carico di emozioni.
“Più di 170 ragazzi e ragazze da tutta Europa, e non solo, si sono incontrati in una delle città più suggestive del Bel Paese e che incarnava a pieno il tema scelto per le attività dello Shabbaton: ‘Tra Emancipazione e Liberazione’”, dichiara a Mosaico il presidente UGEI Luca Spizzichino. “Le discussioni di questi giorni ci hanno portato a una riflessione profonda su chi siamo oggi e sul nostro ruolo nella società civile come giovani ebrei italiani ed europei”.

(Bet Magazine Mosaico, 25 marzo 2025)

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Calcio – Italia e Israele ancora di fronte, come nel 2024

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Abbraccio a fine gara tra Luciano Spalletti e Ran Ben Shimon, allenatori rispettivamente di Italia e Israele

Le strade calcistiche di Italia e Israele si sono incrociate l’ultima volta lo scorso anno, in Nations League. Nel primo incontro in campo neutro, nella gara “casalinga” d’Israele disputata il 6 settembre a Budapest, gli azzurri vinsero per 2 a 1. Imponendosi una seconda volta il 14 ottobre, allo stadio Friuli di Udine, con un più netto 4 a 1. Curiosamente, torneranno a incontrarsi con uno schema quasi identico nel 2025: l’8 settembre in Israele, il 14 ottobre in Italia. A prevederlo è il calendario del gruppo I di qualificazione al Mondiale del 2026, il girone al quale l’Italia è stata assegnata dopo l’eliminazione per mano della Germania nei quarti di finale di Nations League. Prima di incontrare Israele — dovesse essere ancora in corso la guerra, il match dell’8 settembre sarà verosimilmente giocato in campo neutro — l’Italia debutterà il 6 giugno in casa della Norvegia, forse l’unica reale antagonista per la conquista del primo posto che vale l’accesso diretto al Mondiale (dove l’Italia manca dal 2014). Poche sulla carta le possibilità per Israele che stasera, nell’ungherese Debrecen, sfiderà proprio la Norvegia. Entrambe le squadre hanno vinto all’esordio. Israele ha battuto 2 a 1 l’Estonia, mentre la Norvegia ha avuto la meglio della Moldavia per 5 a 0.
  Negli scorsi mesi la federazione calcistica norvegese ha sostenuto l’istanza presentata da quella palestinese per sospendere Israele dalla Fifa, istanza ancora oggetto di approfondimento ai vertici del calcio mondiale. La presidente della federazione di Oslo, Lise Klaveness, in alcune dichiarazioni alla vigilia dell’incontro ha affermato: «Dobbiamo giocare, ma questo non significa che non sosteniamo i palestinesi, anzi. Sosteniamo la loro denuncia alla Fifa, ma boicottare la partita non è la mossa giusta». Alcuni calciatori norvegesi hanno rivolto critiche molto dure a Israele per il conflitto a Gaza. Erling Haaland, la star del team scandinavo, non si è invece espresso: «Non credo, come calciatore, di dovere dire la mia su questo argomento».

(moked, 25 marzo 2025)

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Il memoriale del Nova Festival attrae 7mila visitatori al giorno

di Michelle Zarfati 

Il sito commemorativo per le vittime del Nova Festival creato dal KKL-JNF è diventato il luogo più visitato in Israele negli ultimi sei mesi, attirando circa 7mila visitatori al giorno che vogliono commemorare le vittime di quel terribile 7 ottobre 2023. Il sito presenta pilastri nel terreno che espongono le fotografie delle vittime insieme alle bandiere israeliane.
  Meir Zohar, che ha perso la figlia Bar nel massacro, ha raccontato: “Come padre che ha perso la figlia durante il massacro del Nova, questo posto non è solo un luogo commemorativo per me e le altre famiglie in lutto, ma uno spazio in cui sentiamo che il nostro dolore è visto e ascoltato”. Il KKL-JNF ha intrapreso una missione davvero significativa: preservare la memoria delle vittime, rendere il sito accessibile e fornire alle famiglie un luogo dignitoso in cui entrare in contatto con i propri cari scomparsi. “Sono profondamente grato a tutti coloro che lavorano per garantire che questo posto rimanga così com’è, accessibile e degno, in modo che la storia delle vittime non venga mai dimenticata”, ha aggiunto Zohar.
  Nelle discussioni con le famiglie e con l’obiettivo di rendere il sito più accessibile preservando al contempo la memoria delle vittime, il Keren Kayemeth LeIsrael Jewish National Fund (KKL-JNF) ha stanziato 4 milioni di shekel per migliorare il parcheggio di Re’im . I miglioramenti includono la costruzione di percorsi accessibili, servizi igienici, segnaletica durevole e appropriata, spazi educativi, un boschetto commemorativo e altro ancora. Yaniv Maimon, Direttore della Regione Meridionale del KKL-JNF e leader di questa iniziativa, ha aggiunto: “Siamo orgogliosi di svolgere un ruolo significativo in uno dei siti più visitati in Israele oggi. Questo luogo ha una grande importanza nazionale. Inoltre, molti membri del team Southern Region del KKL-JNF, responsabili della manutenzione del sito, sono stati personalmente colpiti dagli eventi del 7 ottobre, aggiungendo dunque le vicende personali al loro profondo impegno personale ed emotivo verso questo luogo”.
  Ifat Ovadia-Luski, presidente del KKL-JNF, ha affermato che il Keren Kayemeth LeIsrael Jewish National Fund è stato al fianco delle famiglie colpite dal lutto fin dall’inizio, “migliorando e rendendo questo sito accessibile al pubblico, garantendo al contempo la dignitosa e rispettosa preservazione della memoria delle vittime: è per noi una missione morale e nazionale”.
  L’organizzazione ha creato un luogo commemorativo aperto, ha piantato un boschetto insieme alle famiglie e ha ricostruito elementi chiave del festival, come il palco, il posto di comando, l’ambulanza e il container giallo: “Questo luogo non è solo un ricordo di ciò che è stato, è una testimonianza vivente della resilienza, dell’unione e del dolore dell’intera società israeliana”. Decine di migliaia di visitatori giungono al sito ogni settimana. La presidente sottolinea l’importanza del profondo bisogno del pubblico di ricordare e non dimenticare mai e che “questo non fa che rafforzare il nostro impegno a continuare a mantenere questo sito con l’onore che merita”.

(Shalom, 25 marzo 2025)


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Un altro Yad Vashem?

Quella mattina del 7 ottobre, i terroristi di Hamas che fecero irruzione in Israele piombarono nel mezzo di un rave, che non è un gioioso radunamento giovanile, ma un’organizzata collettiva eccitazione di massa ottenuta con stimoli musicali e allucinogeni di vario genere.
  Quel giorno era in corso il 'Supernova Festival', festa religiosa di una comunità intercontinentale dal nome “Universo Paralello” [sic, in portoghese] che si celebra nel mondo ogni due anni  e per la prima volta avveniva in Israele.
  Nell'area del festival era stata gonfiata ed eretta un'enorme statua di Budda, intorno alla quale festeggiava il "Tribe of Nova Presents", la Tribù del Nuovo Presente. Nell’invito diffuso in precedenza dagli organizzatori si diceva: «Insieme a questa enorme comunità, costruita in 23 anni, che ha ispirato persone a livello globale in tutti i continenti, la forza trainante centrale è un insieme di fondamentali e importanti valori umani: libero amore e spirito,  conservazione dell'ambiente, apprezzamento dei rari valori naturali che il festival incarna».
  E si annunciava che «il più potente e significativo festival di musica psy trance di una delle nazioni psy trance più riconosciute e attive, sta facendo il suo ingresso qui», sottolineando con fierezza che «uno dei più grandi, influenti e venerati festival del mondo arriverà in Israele» e proprio «durante l'imminente festività di Sukkot».
  Si spiegava poi che «la parola 'Supernova' si riferisce all’esplosione di una gigantesca stella che provoca un immenso scoppio di luce in termini galattici». E accostando questi effetti galattici con la festività ebraica in corso, nell'invito si poneva una domanda retorica: "Che cosa si può immaginare che accada quando questi concetti si combinano con la festa di Sukkot?" E se ne dava anche la risposta: "Crediamo che possiate già immaginare il risultato...". No, quel risultato proprio non potevano immaginarselo.
  Secondo uno studio condotto in seguito su 650 sopravvissuti alla strage, due terzi erano sotto l'effetto di droghe  tra cui MDMA, LSD, marijuana o psilocibina.
  No, il memoriale di Nova Festival non sarà mai un altro Yad Vashem. M.C.

(Notizie su Israele, 25 marzo 2025)

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Quando la menzogna si fa sistema

L’odio per gli ebrei è l’impalcatura ideologica con cui intere civiltà giustificano i propri fallimenti, condannandosi all’autodistruzione.

di Levi Meir Clancy

L’odio per gli ebrei non è solo un pregiudizio delle persone. È un fallimento strutturale delle società.
Una società che crede che gli ebrei siano coloro che controllano le banche non costruirà mai un’economia stabile. Una società che crede che gli ebrei manipolino i media non svilupperà mai il libero pensiero. Una società che crede che gli ebrei stiano costantemente orchestrando tutte le guerre non comprenderà mai le vere dinamiche della guerra e della pace. Una società che crede che gli ebrei siano il nemico supremo non sfuggirà mai alla propria autodistruzione.
Questa non è solo una teoria. È uno schema coerente e verificabile.
La Germania nazista incanalò tutte le sue ansie economiche nell’odio per gli ebrei, finendo col precipitare nella propria rovina finanziaria e nella distruzione totale.
La Russia stalinista epurò i suoi intellettuali e leader ebrei, lasciando ai posteri un’eredità fatta di disfunzione e paranoia.
Il mondo arabo ha espulso le sue secolari comunità ebraiche ed è sprofondato nella sconfitta, nella discordia, nella dittatura.
Ora, nella nostra epoca attuale, in America alt-left e alt-right (sinistra e destra alternative, alias estremiste ndr) smerciano odio per gli ebrei attraverso selettività e disinformazione, col risultato di garantire che i loro movimenti rimangano intrappolati nelle allucinazioni anziché confrontarsi con la realtà.
L’odio per gli ebrei diventa l’impalcatura mediante cui intere civiltà giustificano i propri fallimenti. È così che acquisisce la sua intensità, la sua irrazionalità e la capacità di rimodellarsi per sopravvivere attraverso le generazioni.
Ovunque prenda piede, l’ossessione per il “controllo ebraico” non danneggia solo gli ebrei. Paralizza intere civiltà intente a riscrivere il passato, il presente e il futuro per adeguarsi alla menzogna.
Ecco perché i nazionalisti arabi insegnano che gli ebrei non hanno mai esercitato sovranità in Terra d’Israele, nonostante le schiaccianti prove del contrario.
Ecco perché americani frustrati ignorano i profughi ebrei dalle terre islamiche, mentre elevano gli arabi palestinesi al ruolo di vittime uniche e straordinarie.
Ecco perché persino la Shoah, meticolosamente documentata, viene ora distorta oltre ogni misura per descrivere, in sostanza, gli ebrei di oggi come aggressori anziché sopravvissuti.
Ciò che inizia come un pensiero cospirazionista diventa il fondamento di una visione politica del mondo. La menzogna si fa sistema.
Una società che vede gli ebrei come padroni dell’economia non si assumerà mai la responsabilità della propria crescita economica. La convinzione che gli ebrei manipolino la finanza globale consente a leader corrotti di sviare le accuse per i loro fallimenti. Epurano i loro cittadini più istruiti, limitano i commerci e giustificano politiche fallimentari dando la colpa a immaginari complotti ebraici.
Accusano lo stato ebraico di essere la fonte di ogni sofferenza, il che permette loro di non fare mai i conti con la corruzione, la dittatura e il settarismo nelle loro società.
Non è un caso se gli stati arabi che hanno espulso nel XX secolo oltre il novantanove percento dei loro cittadini ebrei, poi hanno subìto uno sbalorditivo declino economico e tecnologico.
Non è un caso se i paesi che oggi abbracciano sistematicamente l’odio per gli ebrei, dalla Repubblica Islamica dell’Iran alla Repubblica bolivariana del Venezuela, stanno collassando, mentre quelli che stabiliscono legami con lo stato di Israele, come gli Emirati Arabi Uniti, prosperano.
L’odio per gli ebrei non è solo una bancarotta morale. È un veleno. Un movimento che incolpa gli ebrei per i problemi globali non creerà mai nulla.
Una società che si impegna a distruggere gli ebrei, in tutto o in parte, si impegna inevitabilmente a distruggere se stessa.
La Germania nazista avrebbe potuto imporsi come un impero europeo. Invece, dedicò gran parte del suo sforzo bellico allo sterminio degli ebrei, anche quando ciò avveniva a costo di perdite militari. Risorse cruciali vennero sottratte allo sforzo bellico per mantenere i campi di sterminio. Pilastri dell’economia vennero sacrificati all’odio per gli ebrei, accelerando la sconfitta dell’Asse grazie alla tecnologia sviluppata dagli stessi ebrei che aveva esiliato.
Vediamo lo stesso schema in Egitto, dove proprietà  e attività ebraiche esistono solo come ricordi fantasmatici di una comunità che esisteva solo pochi decenni fa.
E vediamo la Repubblica Islamica dell’Iran, un tempo una delle nazioni islamiche più avanzate, sperperare decine di miliardi di dollari in Siria al solo scopo di picchiare ai confini dello stato ebraico.
L’odio per gli ebrei non si limita a frustrare coloro che lo coltivano. Li distrugge attivamente dall’interno.
Quando la Germania nazista cadde, non fu solo una sconfitta militare. Fu un crollo ideologico totale.
Quando l’Unione Sovietica è crollata, non ha solo perso la guerra fredda. Ha anche distrutto la credibilità di decenni di propaganda.
Quando diversi stati arabi iniziarono a normalizzare i rapporti con Israele, non si trattò solo di diplomazia. Fu il riconoscimento del fatto che l’ossessione pluridecennale per la distruzione degli ebrei non aveva portato da nessuna parte.
La domanda è: chi apprende dalla storia e chi si condanna a ripeterla?
L’odio per gli ebrei è suicida. Le società che lo rifiutano prosperano. Le società che lo abbracciano appassiscono.
Per secoli si è messo in conto che gli ebrei accettassero in silenzio la loro oppressione come vittime, collaboratori o spettatori passivi.
Ogni poche generazioni, i loro sforzi per l’autodifesa, l’autorappresentazione e l’autodeterminazione arrivavano quasi a ribaltare l’equazione. Quasi.
Poi finalmente il movimento sionista ha spinto questi sforzi oltre il punto di non ritorno.
La resilienza degli ebrei frantuma ogni predizione sulla loro fine. La sovranità ebraica contrasta ogni tentativo di distruzione. La sopravvivenza degli ebrei smaschera tutti i fallimenti di coloro che scommettono contro di loro.
Improvvisamente, noi ebrei non siamo più oggetti in balìa della storia: ne siamo gli attori, sostenuti anche dalla forza.
Non siamo una nota a piè di pagina: siamo la nostra stessa storia, sostenuti dalla verità.
(da Times of Israel, 15.3.25)

(israelnet.it, 24 marzo 2025)

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Ecco come nasce la recita delle quarte

di Anna Coen Di Segni

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Giovanissima, appena diplomata, fui accompagnata da mia madre alla Scuola Polacco per “prendere confidenza con l’ambiente”. Erano i primi anni Sessanta, la scuola era nella “nuova sede” di Lungotevere Sanzio; mi pare che mia madre conoscesse la direttrice, l’anziana austera signora Ravenna, e qualche insegnante veterana: Emma Dell’Ariccia, Franca Nacamulli, Elisa Ascarelli. Io ero poco più di una bambina; non avevo ancora diciassette anni. La scuola mi sembrò subito bellissima: spazi grandi, aperti, terrazze su tutti i piani, un ambiente desueto rispetto alle scuole che avevo frequentato. Entrai per fare “tirocinio” all’inizio dell’anno scolastico, più incuriosita che intimidita. Respirai subito un’aria familiare; l’ambiente ebraico che frequentavo pochissimo e mi attraeva poiché ero in piena ricerca della mia identità si respirava in maniera inequivocabile; tutti si conoscevano ed erano imparentati, le custodi venivano chiamate dai bambini “zie”, la maestra “morà”; prima di iniziare la lezione i bambini recitavano lo Shemà con naturalezza e devozione. Non avevo mai frequentato altro che scuole comunali dove, durante la preghiera del mattino, mi riconoscevo solamente nell’amen finale che, sebbene pronunciato con un accento diverso, era l’unica parola che corrispondeva alle preghiere che sentivo al Tempio durante le feste. Sentire lo Shemà, che tutte le sere con mamma ripetevo nel mio letto, mi provocò subito una gioiosa sensazione di appartenenza. Ho imparato tanto nella mia carriera di insegnante alla Scuola Polacco: ho conquistato la mia agognata identità ebraica, completata con la frequenza assidua al Seminario Almagià, ho cominciato a capire un po’ del giudaico romanesco e, come tutti gli insegnanti, ho imparato tantissimo dai numerosi alunni ai quali ho cercato di insegnare in quaranta anni di servizio.
  Ma la cosa più rilevante che ricordo è la storica irrinunciabile recita di Purim. Tutti gli anni, immancabilmente, la morà Enrica Dell’Ariccia e il morè Eliseo cominciavano a confabulare già dal mese di dicembre per scegliere l’argomento da prendere come spunto per far recitare i ragazzi delle quinte che raccontavano la storia della regina Ester, attualizzata e messa in scena imitando gli spettacoli del momento: una serie televisiva, un film per ragazzi, che servivano per trasformare in personaggi attuali, gli eroi protagonisti della nostra storia. La recita comprendeva sempre canti e cori con le musiche conosciute a cui venivano sostituite le parole e, il giorno di Purim, dopo aver adibito il salone con scenari costruiti dalle morot e dai ragazzi, scelti e creati sfondi e costumi, si andava in scena con grandissima emozione non solo dei protagonisti e degli insegnanti ma anche di genitori, zii, nonni e conoscenti che si assiepavano nel salone battendo le mani, commuovendosi e complimentandosi. Era sempre presente il Rabbino Capo che, oltre ad apprezzare quanto la recita servisse per approfondire e assimilare valori e messaggi della storia ebraica, mostrava di divertirsi anche lui. Il giorno successivo, Purim Shushan era la giornata di riposo più agognata dalle morot impegnate nella recita e sicuramente la più meritata dopo tanta fatica. Negli anni, quando per un breve periodo mi fu dato l’incarico di coordinatrice didattica, stabilimmo che la recita venisse fatta dalle classi quarte (tutte insieme) poiché la preparazione portava via molto tempo e le quinte classi dovevano affrontare l’esame finale del ciclo elementare. La cosa più difficile era sempre riuscire a coinvolgere tutti i bambini dando a tutti la sensazione di essere protagonisti, cosa non facile perché spesso le quarte comprendevano un totale di più di cento bambini. Quindi trovammo l’escamotage di far ricoprire lo stesso personaggio in scene diverse a bambini diversi delle varie classi in modo che ci fossero almeno quattro regine Vashtì, quattro Ester, quattro Mordechai e così via. Le altre classi poi non si esimevano certo dal fare la loro parte con una recita di classe ed assistevano alla recita ufficiale. I più piccoli con ammirazione per i compagni “grandi”, le quinte col rimpianto dell’anno precedente in cui erano state protagoniste, le terze con la certezza che l’anno prossimo sarebbe toccato a loro. Una tradizione che si è consolidata nel tempo e che resta tutt’ora punto cardine del percorso scolastico della Vittorio Polacco.

(Shalom, 18 marzo 2025)

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Regno Unito: il Parlamento pubblica un report completo e sconvolgente sulle atrocità del 7 ottobre

di Maia Principe

Un gruppo di legislatori britannici ha pubblicato un nuovo ed esauriente rapporto che documenta le atrocità dell’invasione del sud di Israele da parte dell’organizzazione terroristica palestinese Hamas, avvenuta il 7 ottobre 2023, per stabilire una documentazione storica inconfutabile del massacro. La notizia, uscita sui media ebraici già settimana scorsa, è stata di fatto ignorata dai media occidentali.
“Lo scopo di commissionare il nostro rapporto è stato quello di descrivere gli eventi del 7 ottobre con chiarezza e meticolosa precisione, per garantire che non vengano mai dimenticati”, ha dichiarato Lord Andrew Roberts, un importante storico che ha presieduto lo studio di 318 pagine.
“La negazione dell’Olocausto ha impiegato alcuni anni per attecchire in alcune sacche della società, ma il 7 ottobre 2023 sono bastate poche ore per affermare che i massacri nel sud di Israele non hanno avuto luogo”, ha scritto Roberts nella prefazione del rapporto. “Hamas e i suoi alleati, sia in Medio Oriente che, altrettanto vergognosamente, in Occidente, hanno cercato di negare le atrocità, nonostante il fatto ironico che molte delle prove dei massacri derivino da filmati di telecamere portate dagli stessi terroristi”.
“Il presente rapporto è stato redatto per contrastare tali opinioni perniciose e per fornire prove inconfutabili – per ora e per gli anni a venire – che quasi 1.200 persone innocenti sono state effettivamente uccise da Hamas e dai suoi alleati, molto spesso in scene di sadica barbarie che non si vedevano nella storia del mondo dal ratto di Nanchino del 1937”, ha continuato.
L’importante rapporto è stato prodotto dal Gruppo parlamentare All-Party per il Regno Unito-Israele, un’alleanza informale di legislatori sia della Camera dei Comuni che della Camera dei Lord, attraverso un anno di ricerca e scrittura.
Tra le altre scoperte, il rapporto ha rivelato che durante l’assalto del 7 ottobre guidato da Hamas sono stati uccisi più cittadini britannici (18) che in qualsiasi altro attacco terroristico straniero da quando Al Qaeda ha colpito gli Stati Uniti l’11 settembre 2001.
Il rapporto ha anche fornito dettagli sulla più giovane vittima del massacro, Naama Abu Rashed, che è stata colpita da un proiettile mentre era ancora nel grembo della madre e ha vissuto solo 14 ore dopo la nascita.
In totale, secondo il rapporto, il 7 ottobre 2023 circa 7.000 terroristi palestinesi guidati da Hamas hanno ucciso 1.182 persone, ne hanno ferite più di 4.000 e hanno rapito 251 ostaggi – 210 vivi e 41 morti al momento del rapimento.
“È stato il più grande massacro di ebrei dai tempi dell’Olocausto e il più letale attacco terroristico pro capite, con poco più di un israeliano su 10.000 ucciso e il terzo attacco terroristico più letale al mondo”, conclude lo studio.
Altri capitoli dello studio descrivono in dettaglio la pianificazione di Hamas, le armi utilizzate e la violenza che si è verificata in ogni luogo, compresi i dettagli crudi di rapimenti, violenze sessuali, torture e profanazione di cadaveri.
“Le dichiarazioni dei testimoni oculari hanno confermato numerosi episodi di stupro e di stupro di gruppo, nonché lo stupro di cadaveri di donne. I testimoni oculari hanno anche raccontato l’abuso di vittime femminili che sono state passate tra più aggressori”, si legge nel rapporto. “Mentre le vittime fuggivano dal fuoco dei missili e dagli attacchi, i militanti inseguivano e davano attivamente la caccia alle vittime. Le vittime sono state trovate nude dalla vita in giù o completamente nude, molte con le mani legate dietro la schiena o legate ad alberi o pali intorno al sito del festival [Nova]. Altre hanno riportato ferite da arma da fuoco alla nuca”.
Lo studio descrive anche come l’idea dell’attacco del 7 ottobre abbia cominciato a formarsi già nel 2014, con una preparazione ufficiale iniziata nel 2021.
Il rapporto identifica gli uomini maggiormente responsabili della decisione dell’attacco come “ Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Mohammed Sinwar (fratello di Yahya), Rawhi Mushtaha (membro fondatore di Hamas, anch’egli vicino a Sinwar) e Ayman Nofal, uno dei più stretti collaboratori di Deif ed ex capo dell’intelligence di Qassam, comandante della Brigata Centrale delle Brigate e capo della sala operativa congiunta per la resistenza”. Il rapporto ha anche tracciato un profilo dei gruppi che hanno aiutato Hamas negli attacchi, in particolare la Jihad islamica palestinese (PIJ), il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (PFLP), il Fronte democratico per la liberazione della Palestina (DFLP), le Brigate dei martiri di Al-Aqsa, il Movimento dei mujaheddin palestinesi, i Comitati di resistenza popolare (PRC) e Al-Ahrar.
“Il gruppo parlamentare del Regno Unito ha riconosciuto l’importanza di stabilire il resoconto storico del 7 ottobre, proprio come il generale Dwight D. Eisenhower ha riconosciuto l’importanza di documentare gli orrori dell’Olocausto – ha dichiarato David May, Research Manager e Senior Research Analyst -. I negazionisti delle atrocità cercano di scagionare i colpevoli, negare alle vittime il loro diritto all’autodifesa, giustificare le azioni che negano siano avvenute e desiderarne altre in futuro. Sebbene questi obiettivi siano contraddittori, i negazionisti del 7 ottobre esistono al di fuori della realtà, in un mondo di teorie cospirative e disprezzo per la verità”.
“Questo rapporto è il resoconto più completo finora sulle atrocità commesse da Hamas e dai suoi alleati il 7 ottobre – Ben Cohen, FDD Senior Analyst e Rapid Response Director -. Non lascia dubbi sul fatto che Hamas abbia lanciato un pogrom contro i civili, nonostante la sua ingannevole insistenza sul fatto che ciò a cui il mondo ha assistito quel giorno fosse un’operazione militare. Non lascia dubbi nemmeno sulla natura selvaggia del nemico che Israele deve affrontare e sul suo implacabile desiderio di cancellare violentemente Israele dalla mappa”.
Il report completo

(Bet Magazine Mosaico, 24 marzo 2025)

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Simbolo di prosperità e segno del prossimo futuro

L'albero di fico fruttifica più volte all'anno. Nella Bibbia simboleggia, tra l'altro, un segno di una nuova era imminente.

di Gundula Madeleine 

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Albero di fico in Israele

Il fico è uno dei sette frutti della terra d'Israele, insieme a datteri, melograni, olive, uva, orzo e grano. Oltre ai suoi frutti deliziosi, le persone hanno apprezzato le grandi foglie del fico come fonte di ombra fin dall'inizio dei tempi.
Giovanni 1:48-50 dice: “ Natanaele gli disse: ”Come mi conosci? Gesù rispose e gli disse: “Prima che Filippo ti chiamasse, mentre eri sotto il fico, ti ho visto”. Natanaele rispose e disse: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele”. Gesù rispose e gli disse: “Perché ti ho detto: ‘Ti ho visto sotto l'albero di fichi’, credi?
La Bibbia di Elberfelder riporta la seguente nota: “Secondo alcuni esegeti biblici, non si tratta di una domanda ma di una proposizione: Perché vi ho detto... voi credete. Vedrete cose più grandi di queste”.
Nello Shir HaShirim, il Cantico dei Cantici, al capitolo 2, il versetto 13 elogia il fico: “ Il fico arrossisce i suoi fichi, e le viti in fiore danno profumo. Alzati, amico mio, mia bellezza, e vieni!

Fichi precoci particolarmente ricercati
   Il fico, tə'enāh in ebraico, fruttifica più volte all'anno. Va notato che i frutti precedenti, i paggîm, non sono commestibili. I fichi precoci, i bikkûrîm, sono particolarmente ricercati a partire dalla fine di maggio e in giugno (Osea 9:10; Michea 7:1, cfr. Cantico dei Cantici 2:13).
I fichi tardivi, i tə'enîm, si raccolgono alla fine di agosto e a settembre. I fichi secchi erano utilizzati come provviste durante i viaggi; sono stati apprezzati fin dai tempi biblici anche quando venivano pressati e trasformati in una torta.
In 1 Cronache 12, 40-41 si legge: “ Rimasero con Davide tre giorni, mangiando e bevendo, perché i loro fratelli avevano provveduto a tutto per loro”. Quelli che abitavano vicino a loro, fino a Issacar, Zabulon e Neftali, portarono cibo su asini, cammelli, muli e buoi: piatti di farina, dolci di fichi e dolci di uva sultanina, vino e olio, buoi e pecore in abbondanza, perché c'era gioia in Israele.

Fonte rapida di energia
   I fichi sono considerati una rapida fonte di energia; i fichi freschi contengono il 15% di fruttosio. In 1 Samuele 30:12 si legge: L'Amalecita che riferì a Davide della morte del re Saul mangiò una parte di una torta di fichi pressati e due torte di uva sultanina e “tornò in vita”. Gli diedero anche un pezzo di torta di fichi e due torte di uva passa. E quando ebbe mangiato, tornò in sé, perché non aveva mangiato pane e bevuto acqua per tre giorni e tre notti.
Quando si mangiano i fichi secchi, è importante notare che sono ricchi di carboidrati e hanno un alto carico glicemico, in quanto il contenuto di zucchero sale al 60%, quindi le persone con glicemia alta dovrebbero evitarli.
La Bibbia cita spesso il fico insieme alla vite. Il motivo potrebbe essere che alle persone piaceva far arrampicare la vite sull'albero di fico. Sedersi sotto la vite e il fico simboleggia la prosperità e la pace, come si legge in 1 Re 5,5: Giuda e Israele abitarono al sicuro, ognuno sotto la sua vite e sotto il suo fico, da Dan fino a Beer-Sceba, per tutto il tempo di Salomone.

Impacco curativo di fichi per Ezechia
   Il fico è molto apprezzato anche come pianta medicinale. In Isaia 38:21-22, viene menzionato come cataplasma per il re Ezechia, che a quanto pare stava morendo a causa di una pustola infiammata: “ E Isaia disse che bisognava prendere una torta di fichi - fatta di frutti di fico - e spalmarla sulla pustola perché guarisse. Allora Ezechia disse: “Qual è il segno che io salirò alla casa del Signore?
Alcuni botanici ritengono che il fico sia originario della penisola arabica e la Bibbia lo cita già nella caduta dell'uomo: nel giardino dell'Eden, Adamo ed Eva si coprirono con foglie di fico.
Il suo nome botanico è Ficus carica, il fico appartiene alla famiglia dei gelsi (moraceae). Cresce come piccolo albero o come grande arbusto. Le forme selvatiche del fico si trovano in tutta la regione mediterranea. Come pianta coltivata, il fico è documentato fin dall'VIII millennio a.C..
In Israele, i frutti secchi sono stati ritrovati nel kibbutz Gezer, situato nel centro del Paese, nella valle di Ajalon. Gli scienziati li hanno datati al 5000 a.C. circa. Gezer era una delle tre grandi città che sorvegliavano la Via Maris. La città si trovava in un punto strategicamente importante, dove la principale via commerciale conduceva verso l'interno per evitare le zone paludose lungo la costa. Oggi Tel Gezer è uno dei più grandi tumuli archeologici antichi di Israele.
Documenti egiziani del 2700 circa e del III secolo a.C. menzionano il fico come un frutto importato in Egitto dalla Terra Santa insieme a olive, noci, miele e melograni. Lo storico romano Plinio il Vecchio (23/24 - 79 d.C.) riferisce di un fico minuscolo chiamato cottana - la radice della parola è ritenuta da alcuni essere nella parola ebraica katan, che significa piccolo. Era importato dalla Siria, una denominazione geografica che durante l'Impero Romano comprendeva anche l'odierno Israele.

Prospera su terreni sassosi
   Gli alberi di fico prosperano con poca irrigazione e anche su terreni sassosi. Le sue foglie sono ditate e ruvide. Vengono eliminate all'inizio dell'inverno e rispuntano all'inizio della primavera. Un albero di fico può vivere fino a 40 anni e impiega circa sei anni per dare il primo frutto.
In natura, l'impollinazione incrociata è necessaria per la formazione dei frutti. Esistono alberi maschi e femmine. Si mangiano solo i fichi delle piante femmine. Il fico e i suoi frutti sono molto popolari anche nell'odierno Israele, dove si trovano sia allo stato selvatico che coltivati.
Il fico dà il nome a due villaggi sul Monte degli Ulivi, dove pare che i frutti crescessero particolarmente abbondanti: Betfage o Beit Pagi, la “casa dei fichi acerbi”, e Betania - Beit Te'ena, la “casa del fico”.
Nei pressi di Betania, Gesù maledisse il fico che aveva foglie ma non frutti. Marco 11,12-14: E quando il giorno dopo furono partiti da Betania, egli ebbe fame.E, vedendo da lontano un fico che aveva delle foglie, andò a vedere se vi trovasse qualcosa; e quando vi giunse, non trovò altro che foglie, perché non era la stagione dei fichi.E cominciò a dirgli: “Nessuno mangerà più frutti da te”. E i suoi discepoli lo udirono.
Altrove leggiamo in Marco 11,20-26: “ Passando di buon mattino, videro il fico appassito dalle radici. E Pietro si ricordò e gli disse: “Rabbì, ecco, il fico che hai maledetto è appassito”. E Gesù, rispondendo, disse loro: “Abbiate fede in Dio!Abbiate fede in Dio!In verità vi dico: Chiunque dirà a questo monte: Sollevati e gettati nel mare, e non dubiterà in cuor suo, ma crederà che ciò che dice avverrà, sarà fatto per lui. Perciò vi dico: Qualunque cosa preghiate e chiediate, credete che l'avete ricevuta e vi sarà fatta. E quando pregate, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni i vostri debiti.

Visioni di cesti pieni di fichi
   I profeti Geremia e Osea, l'unico dei profeti della Scrittura a provenire dal regno settentrionale di Israele, ebbero le seguenti visioni di cesti pieni di fichi: I “fichi buoni” - l'élite della nazione - sarebbero stati deportati a Babilonia, mentre i “fichi cattivi”, il re Zedekia, i suoi funzionari e la gente comune, sarebbero rimasti a Gerusalemme. Osea 9:10 vedeva la giovane nazione di Israele come “i primi frutti del fico”. La distruzione degli alberi di fico del paese era un simbolo profetico della distruzione della terra (Geremia 5:17; 8:13) e di Osea (2:12).

Geremia 24:1-10
   L'Eterno mi fece vedere - ed ecco che due ceste di fichi erano poste davanti al tempio dell'Eterno - dopo che Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva fatto prigioniero Geconia figlio di Jehoiakim, re di Giuda, i principi di Giuda, i fabbri e gli operai metallurgici di Gerusalemme e li aveva portati a Babilonia. Una cesta conteneva fichi molto buoni, come i fichi primaticci, e l'altra cesta conteneva fichi molto cattivi, che non potevano essere mangiati a causa della loro malvagità.Il Signore mi disse: “Che cosa vedi, Geremia? Io dissi: “Fichi; i fichi buoni sono molto buoni e i fichi cattivi sono molto cattivi, tanto che non si possono mangiare a causa della loro malvagità”.Allora mi giunse la parola dell'Eterno: “Così dice l'Eterno, il Dio d'Israele: ”Come questi fichi buoni, io guardo ai partenti di Giuda per il bene, che ho mandato via da questo luogo nel paese dei Caldei. Li tengo d'occhio per il bene e li riconduco in questo paese. Li edifico e non li abbatto; li pianto e non li sradico.E darò loro un cuore per conoscere me, che sono il Signore. Saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, perché torneranno a me con tutto il cuore. - Ma come i fichi cattivi che non si possono mangiare per la malvagità - sì, così dice il Signore - così farò di Zedekia, re di Giuda, dei suoi capi e del resto di Gerusalemme, di quelli che sono rimasti in questo paese e di quelli che si sono stabiliti nel paese d'Egitto.E farò di loro un terrore, una calamità per tutti i regni della terra, un rimprovero e un proverbio, uno scherno e una maledizione in ogni luogo dove li scaccerò.10 E manderò in mezzo a loro la spada, la carestia e la peste, finché non saranno eliminati dal paese che ho dato a loro e ai loro padri.
Nahum paragona le fortezze di Ninive, destinate alla distruzione, a fichi che cadono facilmente quando l'albero viene scosso (3,12-13): Tutte le tue fortezze sono alberi di fico con fichi precoci: Quando vengono scossi, cadono in bocca a chi li mangia.Ecco i tuoi guerrieri sono donne in mezzo a te! Le porte del tuo paese sono spalancate ai tuoi nemici; il fuoco consuma le tue sbarre.
Anche il fico che non ha dato frutti per tre anni, ma a cui viene data la possibilità di dare frutti prima di essere tagliato, è una parabola biblica. Essa dice che a noi uomini è data la possibilità di pentirci, ma che il periodo di tempo per farlo è limitato (Luca 13:6-9).
Ma egli raccontò questa parabola: Un tale aveva un fico piantato nella sua vigna; venne a cercarne i frutti e non ne trovò. Ma disse al vignaiolo: “Guarda, sono tre anni che cerco frutti su questo fico e non ne ho trovati. Taglialo! Perché rende inutile la terra?Ma lui risponde e gli dice: “Signore, lascialo per quest'anno, finché non ci scavi intorno e non ci metta del concime.E se in futuro porterà frutto, bene, ma se non lo farà, potrai tagliarlo”.

Riferimento all'estate che si avvicina
   L'Apocalisse (6:13) paragona la caduta delle stelle del cielo sulla terra all'apertura del sesto sigillo ai fichi tardivi scossi dal fico da un forte vento. Questo fa tremare la terra, il sole diventa nero, la luna diventa come sangue e le stelle cadono sulla terra (6:12-17): E le stelle del cielo caddero sulla terra, come un fico, scosso da un forte vento, getta i suoi fichi invernali.
Anche Marco 13:28-31 parla di un tempo vicino ma ancora sconosciuto: “ Ma imparate la parabola dal fico: Quando il suo ramo è già tenero e mette le foglie, saprete che l'estate è vicina.Così anche voi, quando vedrete accadere questo, riconoscerete che è vicino.In verità vi dico: Questa generazione non passerà finché tutte queste cose non avranno luogo.I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Ma di quel giorno o di quell'ora nessuno sa, neppure gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre.
In Luca 21 si legge (29-31): E disse loro una parabola: “Guardate il fico e tutti gli alberi!Se stanno già germogliando, lo saprete da voi stessi quando vedrete che l'estate è vicina.Così anche voi, quando vedrete questo, capirete che il regno di Dio è vicino”.
Anche Matteo 24 parla di un tempo vicino ma sconosciuto (32-33). Gesù insegnò ai suoi discepoli a interpretare i segni dei tempi: Ma imparate la parabola del fico: Quando il suo ramo è già tenero e mette le foglie, sapete che l'estate è vicina.Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, saprete che è vicina la porta.

(Israelnetz, 24 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Aggredito un rabbino a Orléans

di Michelle Zarfati

Il rabbino Arié Engelberg di Orléans, in Francia, è stato violentemente attaccato davanti a suo figlio mentre tornava dalla sinagoga sabato, lo hanno riferito i notiziari francesi France 3 e France Bleu. Secondo i rapporti, il rabbino Engelberg stava tornando dalla sinagoga alle 13:30 – accompagnato da suo figlio di nove anni – quando è stato preso a calci e a pugni, morso alla spalla e insultato. Ha subito anche ferite alla testa. Un testimone dell’incidente ha condiviso filmati con la radio France Bleu Orléans. Secondo quanto riportato dalla fonte locale, un passante è intervenuto e l’aggressore ha lasciato la scena del crimine poco dopo.
  Engelberg ha immediatamente presentato una denuncia alla stazione di polizia di Orléans. “Siamo inorriditi, indignati”, ha detto Joëlle Gellert, presidente della Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo a Loiret (LICRA). “Il razzismo non è un’opinione ma un crimine”. Il presidente del CRIF per la regione centrale della Francia, Eliane Klein, ha definito l’incidente “spaventoso”.
  “Attualmente c’è un’atmosfera velenosa e chiaramente antisemita in Francia, ma non pensavo che avrebbe contaminato Orléans, che è una città pacifica. Fino ad ora, abbiamo notato graffiti di tanto in tanto, al massimo. Speravo che questa cancrena non si diffondesse a Orléans. Ecco perché è ancora più scioccante”, ha detto Klein. Yonathan Arfi, il capo del CRIF, ha prontamente inviato il suo sostegno al rabbino, definendo l’incidente un “attacco codardo e violento di fronte a suo figlio di nove anni”. Pascal Tebibel, vicepresidente dell’area metropolitana di Orléans, ha detto di essere stato “profondamente scioccato dall’attacco antisemita al rabbino Arié Engelberg a Orléans”.
  “L’odio non ha posto nella nostra società. Siamo solidali con la comunità ebraica e non rimarremo in silenzio di fronte all’intollerabile”, ha scritto su X/Twitter il procuratore di Orléans che ha confermato a France 3 Centre-Val de Loire di aver aperto un’indagine sulla “violenza intenzionale commessa a causa della vera o presunta affiliazione religiosa della vittima”.
  “Questo è un atto vile e intollerabile. La rinascita dell’antisemitismo in Francia e in tutta Europa non è solo allarmante, è un campanello d’allarme per i governi europei, i leader e la società civile. L’antisemitismo è pericoloso e richiede una risposta senza compromessi. Ci deve essere tolleranza zero per l’antisemitismo, e deve essere combattuto con incrollabile determinazione”, ha aggiunto Il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar. Anche il presidente francese Emmanuel Macron ha commentato l’incidente in un post domenica. “L’assalto al rabbino Arié Engelberg a Orléans ci sconvolge tutti. Estendo il mio pieno sostegno, così come quello della Nazione, a lui, a suo figlio e a tutti i nostri concittadini di fede ebraica”, ha scritto.
  “L’antisemitismo è un veleno. Non cederemo al silenzio o all’inazione”, ha aggiunto.
  La comunità di Orléans conta circa 400 persone. Engelberg è una figura di spicco all’interno della realtà comunitaria, avendo vissuto lì dal 2018, secondo un’intervista del 2020 con Hassidout. Il rabbino di Chabad-Lubavitch aveva raccontato a Hassidout dei numerosi elementi della vita ebraica sostenute nella comunità, tra cui lo studio della Torah, la carne kosher, una sinagoga, la preparazione del bar mitzvah e l’accensione pubblica delle candele durante Hanukkah. Il rabbino ha anche un canale YouTube, dove pubblica video sulla parte settimanale della Torah, sulla vita ebraica e sulla comunità di Orléans.

(Shalom, 24 marzo 2025)

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Cosa c’è di ebraico nel manifesto di Ventotene

di Ugo Volli

Gli autori del Manifesto
   Si è discusso molto nell’ultima settimana del cosiddetto “Manifesto di Ventotene”, che in realtà aveva come titolo originale “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”. Senza entrare in queste polemiche, vale certamente la pena di chiedersi se in esso vi sia una radice ebraica. La domanda è giustificata dall’identità degli autori. Il più noto dei tre antifascisti confinati nell’isola di Ventotene che lo scrissero nel 1941 (e due anni dopo furono fra i fondatori del Movimento Federalista Europeo) era Altiero Spinelli, anche perché fece una notevole carriera politica: fu deputato fra gli “indipendenti di sinistra” eletti nelle liste del PCI, poi deputato europeo, sempre col PCI, e anche membro della Commissione Europea. Ci sono testimonianze di un suo violento atteggiamento anti-israeliano, proseguito peraltro dalla figlia Barbara, anche lei politica di estrema sinistra. Il secondo firmatario del manifesto è Ernesto Rossi, giornalista, economista, polemista anticlericale e anche lui esponente politico nelle liste prima del Partito d’Azione e poi del Partito Radicale.

Eugenio Colorni, ebreo medaglia d’Oro della Resistenza
   Quel che ci interessa, perché era ebreo, è invece Eugenio Colorni, forse il meno noto dei tre, se non altro perché non sopravvisse alla guerra, essendo stato ucciso dai tedeschi durante un’azione partigiana in Via Livorno a Roma poco prima della liberazione della città, il 30 maggio 1944. Gli fu assegnata per la sua attività partigiana la medaglia d’oro per il valore militare alla memoria. Colorni non poté dunque partecipare all’attività politica dell’Italia libera e non sappiamo se e come l’avrebbe fatto; la sua attività fu innanzitutto un gesto morale di resistenza al fascismo e poi all’occupazione nazista, ma la sua vocazione principale era diretta al pensiero filosofico; il suo precoce talento in questo campo era stato riconosciuto dai grandi filosofi italiani del tempo, Croce e Gentile. Vale la pena di usare questa occasione per ricordarne la bellissima figura. Nato a Milano nel 1909, secondogenito di Alessandro, industriale ebreo mantovano, e della pisana Clara Pontecorvo, fu fortemente influenzato in gioventù dal cugino Enzo Sereni, fervente sionista che immigrò in Israele nel 1927 e morì poi a Dachau ucciso dai nazisti dopo essersi paracadutato nel 1944 nell’Italia occupata. Colorni probabilmente pensò anche lui ad andare in Israele, sappiamo che da liceale si dedicò allo studio dell’ebraico, ma poi si iscrisse alla facoltà di filosofia a Milano, si laureò nel 1930 con Martinetti con una tesi su Leibniz. Frequentava nel frattempo circoli antifascisti, scrisse i primi articoli, poi un libro su Croce; fece un periodo da lettore di italiano all’Università di Marburgo dove ebbe occasione di vedere i nazisti in azione; tornò in Italia quando essi presero il potere. Nel 1934 ottenne una cattedra in un istituto magistrale a Trieste, dove rimase fino all’arresto del settembre 1938. A Trieste frequentò Eugenio Curiel, altro ebreo medaglia d’oro della Resistenza, Umberto Saba, Bruno Pincherle. Assolto in tribunale per insufficienza di prove dall’accusa di attività sovversiva, fu comunque messo al confino nel 1939 a Ventotene e poi spostato nel 1942 a Melfi, dove incontrò Ludovico Geymonat e insieme a lui abbandonò le posizioni idealiste per avvicinarsi alla filosofia della scienza. Nel frattempo era passato dagli ambienti del Partito d’Azione alla militanza nel Partito Socialista. Evaso dal confino, si diede tutto all’attività della Resistenza. Pubblicò allora per la prima volta il Manifesto di Ventotene, diresse l’edizione clandestina dell’”Avanti” e partecipò alla lotta armata antinazista, fino alla sua tragica fine.

Le critiche
   Torniamo al “Manifesto”. Nonostante le polemiche, è evidente a chi lo legga che le critiche di Meloni al testo sono difficilmente confutabili. L’idea di Europa che ne esce è “socialista”, con uno spazio solo residuale per proprietà privata e iniziativa individuale; la federazione europea dev’essere costituita da un “partito d’avanguardia” che agisca di forza senza badare all’opinione dei cittadini, le varie nazioni d’Europa possono avere delle specificità, ma devono obbedire alle scelte del centro europeo, anche perché costrette da un esercito la cui funzione principale è proprio questa. C’è una profonda sfiducia nel popolo e quindi nella democrazia, un atteggiamento elitario e dirigista, pochissima disponibilità per il pluralismo e il dissenso. Insomma, anche se nessuno dei tre firmatari era membro del partito comunista (Spinelli lo era stato per molti anni fino al 1937, quando fu espulso per “trotzkismo”), il modello è quello dell’Urss e del colpo di stato con cui Lenin prese il potere nella “rivoluzione d’ottobre”. Non ha senso giustificare queste idee autoritarie per il fatto che i tre erano confinati; certamente tutti conoscevano anche il pensiero liberale e democratico, avevano letto Croce, Calogero, Gobetti e tanti altri autori. Il punto è che scelsero una posizione di concorrenza all’Urss (che in quel momento era sostanzialmente alleata al nazismo, bisogna ricordare) ma restando sullo stesso terreno “rivoluzionario” e in sostanza autoritario. Un atteggiamento forse comprensibile allora. Che questo sia un modello per l’Europa di oggi invece preoccupa molto.

C’è stata un’influenza ebraica sul “Manifesto”?
   È chiaro che questo quadro mentale è profondamente lontano non solo da quello realizzato dal socialismo sionista in Israele, il solo esperimento veramente democratico di collettivismo democratico; ma anche da tutta la tradizione ebraica che almeno dalla diaspora è sempre stata fondata sulla dialettica delle idee e su organizzazioni comunitarie partecipative. Va aggiunto che la condanna degli stati nazionali, che è il fondamento del “Manifesto”, dell’attività successiva soprattutto di Spinelli e anche oggi di molti atteggiamenti europeisti, è il contrario della speranza sionista. Sul rapporto fra ebraismo ed Europa ci sarebbe molto da dire; è chiaro che nei venti secoli e passa di presenza ebraica sul continente i tempi di persecuzione e discriminazione sono stati lunghissimi e terribili; comunque che anche quando non vi era violenza, per esempio nell’Europa liberale fra rivoluzione francese e nazifascismo, la spinta all’assimilazione e alla riduzione dell’ebraismo da cultura di un popolo a religione privata è stata assolutamente dominante. Ed è chiaro anche che da quando c’è Israele l’Europa politica ha avuto in genere più simpatia per i suoi nemici che per lo Stato ebraico. Sul manifesto di Ventotene e sull’Europa insomma si può discutere; ma difficilmente si può attribuire loro un carattere ebraico.

(Shalom, 23 marzo 2025)

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Le illusioni e la realtà

di Niram Ferretti

In una recente intervista con Tucker Carlson, tra i giornalisti preferiti di Donald Trump, Steven Witkoff, l’inviato speciale per il Medio Oriente con delega speciale anche per il dossier Russia-Ucraina (è l’unico membro dell’Amministrazione Trump che nelle ultime settimane ha incontrato Vladimir Putin per due volte), ha affermato che ritiene che Hamas non sia così estremista come viene dipinto e che se accetterà di disarmarsi potrà avere un ruolo politico a Gaza in futuro. Questo dopo avere premesso che Hamas non potrà continuare a governare la Striscia.
L’ignoranza di Witkoff relativamente a cosa sia Hamas, alla sua storia, al jihadismo in senso stretto, nonché la sua totale inesperienza diplomatica e politica relativa al Medio Oriente, lo ha messo in pole position per il ruolo che gli è stato assegnato. Witkoff, infatti, è un immobiliarista, un coriaceo negoziatore del Bronx, e per Trump questo è quello che è sufficiente.
L’approccio trumpiano a problemi di natura politica e geopolitica è strettamente negoziale, è quindi del tutto irrilevante se non controproducente essere esperti relativamente alla cultura, alla storia e alla filosofia politica di un Paese, o di una entità con la quale si negozia, conta solo il fatto nudo e crudo della transazione, il do ut des.
Pensare che, soprattutto dopo il 7 ottobre, con Hamas sia possibile accordarsi, che Hamas possa disarmarsi, che Hamas possa dismettere i panni del radicalismo islamico per indossare quelli pragmatici di un attore negoziale, significa rimuovere dal tavolo il ruolo fondante e fondamentale delle idee e dell’ideologia.
Il pragmatismo transazionale può funzionare alla grande se ci si siede al tavolo per la compravendita di un immobile a New York, ma è assai diverso se dall’altra parte del tavolo siedono i talebani (con cui, prima della disastrosa uscita di scena dall’Afghanistan messa in atto da Joe Biden, l’allora Segretario di Stato Mike Pompeo concordò per conto di Donald Trump i termini dell’abbandono americano del Paese), o Hamas.
Witkoff, il cui Hotel Park Lane a New York venne rilevato nel 2023 dal Qatar per 623 milioni di dollari, ha, sempre nella stessa intervista, speso parole di grande apprezzamento per l’Emirato, grande sponsor di Hamas e del radicalismo islamico. I qatarioti sono alleati degli Stati Unti, ha detto, “Persone per bene animate da ottime intenzioni…Sono un piccolo Paese che desidera essere riconosciuto come un facitore di pace…la gente li accusa di avere altri motivi, è insensato”. Sì, hanno peccato di radicalismo nel passato ma ora si sono moderati, e di loro ci si può fidare.
Come ha evidenziato Daniel Pipes in un articolo dedicato al ruolo del Qatar :
    “L’influenza del Qatar è forse più evidente nel sostegno fornito a gruppi jihadisti in luoghi così diversi come l’Iraq (al-Qaeda), la Siria (Ahrar al-Sham, Jabhat al-Nusra), Gaza (Hamas) e la Libia (Brigate di Difesa di Bengasi). Inoltre, il Qatar sostiene importanti reti islamiste in tutto il mondo – tra cui i Fratelli Musulmani in Egitto, l’AKP in Turchia e Jamaat-e-Islami in Bangladesh…In Occidente, il potere del Qatar adotta più cautele e prospera incontrastato. Ad esempio, finanzia le moschee e altre istituzioni islamiche, che esprimono la loro gratitudine protestando all’esterno delle ambasciate dell’Arabia Saudita, a Londra e a Washington…Doha cerca anche di influenzare le istituzioni educative occidentali. La Qatar Foundation controllata dal regime elargisce decine di migliaia di dollari a scuole, college e ad altri istituti d’istruzione in Europa e nel Nord America. In effetti, il Qatar è ora il più grande donatore straniero alle università americane. I suoi finanziamenti sovvenzionano i costi per l’insegnamento della lingua araba e delle lezioni sulla cultura mediorientale e la loro inclinazione ideologica è talvolta sfacciatamente evidente, come nel modulo didattico delle scuole americane intitolato “Esprimi la tua fedeltà al Qatar”.
Witkoff non è il primo né l’ultimo funzionario americano che sul Medio Oriente e sulla natura del radicalismo islamico prende delle cantonate, lo hanno fatto molti altri prima di lui, e con curriculum assai più consistenti.
L’idea che la Fratellanza Musulmana fosse un interlocutore rispettabile è stata al centro della diplomazia mediorientale di Barack Obama, mentre la convinzione che ci si potesse fidare di Arafat e dell’Autorità Palestinese, ha informato trent’anni di politica americana in Medio Oriente. Questa ottica distorta è purtroppo stata fatta propria anche da una parte rilevante dell’establishment politico israeliano a cominciare con gli Accordi di Oslo del 1993. L’approccio transazionale che è il fulcro ideologico dell’Amministrazione Trump, e di cui Witkoff è una emanazione, contro il radicalismo islamico non ha funzionato mai.
Con Hamas non si può negoziare niente, se non una resa, come con i talebani. C’è un solo modo per risolvere il problema Hamas a Gaza ed è quello della sua sconfitta sul terreno con conseguente occupazione transitoria del territorio da parte di Israele, ma certamente non è quello che vuole il Qatar che nell’arco di quasi vent’anni ha fornito alla formazione jihadista miliardi di dollari, di cui una parte cospicua è servita per la costruzione di un reticolo lungo 800 chilometri di tunnel sotterranei.
Il Qatar, che ne dicano Witkoff, suo diretto beneficiario e Trump anche esso elogiativo dell’emiro Al Tahani, definito “uomo di pace”, quando, nel settembre del 2024, andò a trovarlo in Florida, è un attore infido e subdolo che sul palcoscenico interpreta vari ruoli, tra cui “alleato” degli Stati Uniti e sostenitore del jihad.
La guerra non ancora vinta da Israele, e di cui Hamas è un tassello, è una guerra contro il jihad. Forse qualcuno dovrebbe spiegarlo a Witkoff.

(L'informale, 22 marzo 2025)

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Desideriamo ardentemente il ritorno del Signore?

di David R. Reagan

Molti insegnanti biblici pensano che una delle prime preghiere della chiesa sia stata «Maranata!» (1 Corinzi 16:22). La parola è un'espressione in aramaico che significa: «Vieni Signore!» Questa preghiera esprime ciò che viene ribadito in numerosi altri passi biblici, ossia che la chiesa del primo secolo desiderava profondamente che il Signore Gesù ritornasse presto.
  La chiesa del XXI sec. pare aver perso questa brama. Il cristiano medio di oggi non prega «Maranata!» e la maggior parte dei credenti non desidera che il Signore ritorni. Invece dello struggimento nell'attesa prevale la noia: un fenomeno molto triste, visto che la Bibbia afferma che il ritorno del Signore è la nostra «beata speranza» (Tito 2:13).
  Le Scritture ci esortano ripetutamente ad aspettare il ritorno del Signore e a essere pronti. Gesù stesso disse: «I vostri fianchi siano cinti, e le vostre lampade accese» (Luca 12:35).
  Esistono almeno sei motivi per cui ogni cristiano dovrebbe desiderare ardentemente che il Signore Gesù ritorni.

  1. Gloria del Signore Gesù. Quando Gesù Cristo ritornerà, riceverà ciò che gli spetta: onore, gloria e potere. Nella storia passata è stato umiliato, in quella futura sarà confermato e glorificato. Sarà incoronato Re dei re e Signore dei signori e governerà il mondo intero sul Monte Sion a Gerusalemme (Isaia 24:21-23).
  2. Sconfitta di Satana. Quando Gesù Cristo ritornerà, Satana riceverà quel che merita: sconfitta, disonore e umiliazione. Il destino di Satana è stato suggellato sulla croce, ma le sue azioni malvagie non finiranno prima che il Signore ritornerà. Allora Satana sarà schiacciato (Romani 16:20; Apocalisse 20:1-3).
  3. Ristoro per la terra. Quando Gesù Cristo ritornerà, il creato riceverà ciò che gli è stato promesso: restaurazione. La terra sarà rinnovata dopo essere stata scossa da terremoti e da fenomeni soprannaturali nel cielo. Il risultato sarà una terra più bella. Le forze distruttive della natura saranno vinte. I deserti fioriranno. La flora e la fauna saranno riscattate. Piante e animali velenosi non saranno più tali. Tutta la natura smetterà di combattere contro se stessa e coopererà invece in armonia per l'utile dell'umanità e per la gloria di Dio (Isaia 11:6-9; 35:1-10; 65:17-25; Atti 3:19-21; Romani 8:18-23).
  4. Pace per le nazioni. Quando Gesù Cristo ritornerà, le nazioni riceveranno ciò che è stato loro promesso: pace, diritto e giustizia (Isaia 9:6-7; 11:3-5; Michea 4:1-7).
  5. Posizione di privilegio per gli ebrei. Quando Gesù Cristo ritornerà, gli ebrei riceveranno ciò che è loro stato promesso: la redenzione e una posizione di privilegio. Verso la fine della tribolazione, un residuo degli ebrei accetterà Gesù come suo Messia. Tale residuo sarà riunito e Israele sarà stabilito come primo popolo della terra (Osea 2:14-20; Isaia 60-62; Romani 9-11).
  6. Benedizione per la Chiesa. Quando il Gesù Cristo ritornerà, i santi riceveranno ciò che è loro stato promesso: un corpo glorioso, una terra redenta, il dominio sui popoli e l'essere nuovamente riuniti con le persone amate che sono già andate con il Signore (Filippesi 3:20-21; Matteo 5:5; Apocalisse 2:26-27; 1 Tessalonicesi 4:14).

Queste sono sei ragioni per cui ogni cristiano dovrebbe provare un forte desiderio del ritorno del Signore. Invece nella realtà prevale l'indifferenza. Perché?
  A mio parere, le cause della diffusa indifferenza nei confronti del ritorno del Signore fra i cristiani sono quattro:

  1. mancanza di fede,
  2. ignoranza,
  3. paura,
  4. carnalità.

Molti credenti professanti non credono che il Signore Gesù ritornerà. La maggior parte di loro ha un approccio liberale alla Bibbia e interpreta il significato del ritorno in modo figurato e spirituale, come chi dà un'interpretazione puramente rappresentativa alla nascita di Gesù da una vergine e ai suoi miracoli.
  Tuttavia, la maggior parte dei cristiani probabilmente è solo ignorante per quanto riguarda gli avvenimenti che accompagnano il ritorno del Signore. Di conseguenza non può nutrire alcun entusiasmo per cose che conosce appena. Per trent'anni io stesso facevo parte di questo gruppo di cristiani. Nonostante frequentassi regolarmente le riunioni della mia assemblea, non ero informato perché la mia comunità trascurava l'insegnamento e la predicazione della parola profetica. Alcuni cristiani hanno paura del ritorno del Signore Gesù e cercano di rimuovere il pensiero che lui possa tornare dal cielo da un momento all'altro. Temono che possa ritornare in uno dei loro momenti «brutti» o quando un «peccato ignoto» pesa sulla loro coscienza. Queste persone sono prigioniere della convinzione che le buone opere conferiscano un qualche diritto o merito davanti a Dio. Non capiscono che sono salvate per grazia e che non c'è «più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù» (Romani 8:1).
  Ci sono inoltre numerosi cristiani carnali che non nutrono alcun entusiasmo per il ritorno del Signore perché amano il mondo. Con un piede sono nella chiesa e con l'altro nel mondo. Desiderano che il Signore ritorni ma, se possibile, non prima che abbiano compiuto gli
  ottant'anni e gustato tutto ciò che il mondo ha da offrire. In altre parole: desiderano che lui ritorni ma non vogliono che scombussoli la loro esistenza. Il messaggio del prossimo ritorno di Gesù Cristo è una spada a due tagli. Essa riguarda tanto i credenti quanto gli increduli. Per chi non crede, il messaggio consiste in: «Sfuggite l'ira futura (cfr. Matteo 3:7) e correte fra le braccia tese di Gesù (Matteo 11:28-30)!» Il messaggio per i credenti è: «Smettete di fare soltanto finta di essere una chiesa e prendete sul serio la dedizione a Cristo vivendo una vita santificata (1 Pietro 1:13-16)!»

Permettetemi la domanda:
  Continuate a essere indifferenti? Se sì, perché? Se non dipende dalla paura o dall'ignoranza, dipende allora dalla mancanza di fede o dalla carnalità?
  Vi invito a esporre i vostri cuori alla luce dei riflettori dello Spirito Santo per scoprire la ragione di qualsiasi indifferenza che possiate nutrire nei confronti dell'imminente ritorno del Signore.
  Se ciò che vi frena nei confronti della profezia biblica è la mancanza di fede, mi appello a voi perché accettiate la validità di tutta la Parola di Dio per fede, e non solo la verità dell'evangelo (2 Timoteo 3:16-17). Riflettete sul fatto che, se mettete in dubbio una parte della Parola di Dio, ne mettete in discussione la validità nel suo complesso. Non sta a noi scegliere ciò che vogliamo credere della Parola di Dio e cosa preferiamo rifiutare. Siamo chiamati ad accettare per fede ogni sua affermazione (Romani 1:17).
  Se il vostro problema è la carnalità, perché siete scesi a compromessi con il mondo, allora vi invito a impegnarvi a vivere una vita santa, permettendo al Signore Gesù di regnare su ogni aspetto della vostra esistenza (Romani 13:12-14). Fate un inventario della vostra vita e chiedetevi: Il Signore Gesù è il Signore dei film che guardo? È il Signore del mio televisore? Come stanno le cose riguardo alla musica che ascolto e a ciò che leggo? È il Signore del mio lavoro? Del mio matrimonio? Del mio tempo libero? Di qualsiasi aspetto della mia vita? Mi viene in mente un'altra preoccupazione che può sorgere riguardo al ritorno del Signore Gesù e che potrebbe provocare un atteggiamento indifferente o esitante da parte vostra. Forse vi dite: «Vorrei che il Signore venga, ma vorrei che prima alcuni membri della mia famiglia e alcuni amici affidino la loro vita al Signore Gesù.»
  Se questa è la vostra preoccupazione, non avete motivo di rimproverarvi perché si tratta di un atteggiamento spiritualmente corretto. È giusto preoccuparsi del destino eterno dei nostri familiari e amici. Considerate però che il Signore ritornerà esattamente al momento giusto; affidate quindi a lui la vostra preoccupazione per gli amici e i familiari e lasciate che se ne occupi lui. Egli desidera che il vostro cuore sia colmo di un desiderio incondizionato del suo imminente ritorno (2 Timoteo 4:7-8).
  Ho esposto solo alcuni motivi per cui ogni cristiano dovrebbe nutrire un profondo desiderio del prossimo ritorno del Signore Gesù, ma vorrei aggiungere anche alcuni miei motivi personali. Desidero che Gesù ritorni perché
   vorrei stare con lui,
   vorrei gioire della presenza del suo amore e della sua santità,
   vorrei vedere la gloria di Dio faccia a faccia,
   vorrei baciare le mani forate e dire:
«Grazie
   che sei morto per me,
   che mi hai perdonato,
   che mi hai trasformato,
   che mi hai guidato,
   che mi hai consolato,
   che non mi hai mai abbandonato,
   che hai dato un senso e uno scopo alla mia vita.»
Inoltre vorrei cantare con i santi e le miriadi celesti: «Degno è l'Agnello.» - Maranata!

(Chiamata di Mezzanotte, sett/ott 2021)



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Il capo dell'IDF: la guerra contro Hamas include anche Giudea e Samaria

Il ministro del governo afferma che le operazioni militari devono essere accompagnate da un'espansione degli “insediamenti” che porti alla sovranità sul cuore biblico.

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Carri armati israeliani durante un'operazione militare nella città di Jenin, nella Samaria settentrionale, 19 febbraio 2025

L'attenzione rimane concentrata su Gaza, soprattutto sulla scena internazionale, ma Hamas deve essere sconfitto anche nel cuore biblico della Giudea e della Samaria, ha sottolineato il nuovo Capo di Stato Maggiore dell'IDF, generale Eyal Zamir.
A Gaza abbiamo lanciato un'operazione sorprendente e potente, con la restituzione di tutti gli ostaggi come priorità assoluta, per la quale siamo impegnati in ogni azione”, ha detto Zamir durante una valutazione della sicurezza nella cosiddetta ‘Cisgiordania’.
“Quando parliamo di sconfiggere Hamas, significa sconfiggere Hamas ovunque, anche qui in Giudea e Samaria. Continuiamo le operazioni antiterrorismo in corso insieme a una difesa solida”, ha aggiunto.
Le forze israeliane hanno operato in silenzio (almeno per quanto riguarda la copertura mediatica internazionale) in Giudea e soprattutto in Samaria dallo scoppio della guerra il 7 ottobre 2023, concentrandosi sulla roccaforte del terrorismo di Jenin, nel nord della Samaria.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu questa settimana ha visitato le unità della Polizia di frontiera sotto copertura che svolgono molte delle operazioni antiterrorismo in Giudea e Samaria, descrivendo il loro lavoro come “un lavoro sacro per lo Stato di Israele”.
“Mentre stiamo conducendo un'intensa guerra contro Hamas a Gaza, siamo consapevoli della possibilità che un fronte più ampio e più intenso possa aprirsi qui in Giudea e Samaria”, ha sottolineato Netanyahu.
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Netanyahu con forze di polizia di frontiera sotto copertura in Samaria

Secondo i dati diffusi dall'ONG “Hatzalah Judea e Samaria” (Soccorritori senza frontiere), il 17 febbraio, i terroristi palestinesi hanno attaccato gli ebrei in Giudea e Samaria almeno 6.343 volte nel 2024. Secondo il rapporto, 27 israeliani sono stati uccisi in Giudea e Samaria e oltre 300 altri sono stati feriti.

Spinta alla sovranità
   Il ministro dell'Economia e dell'Industria Nir Barkat insiste sul fatto che la soluzione a lungo termine del problema in Giudea e Samaria è che Israele ripristini la sua sovranità sull'antico cuore biblico.
“Ora è il momento della sovranità; è il momento di piantare i paletti nel terreno e sfruttare la finestra di opportunità che abbiamo ora”, ha dichiarato Barkat durante una visita alla zona industriale di Barkan, nella Samaria centrale.
Il ministro ha invitato il governo a espandere le comunità israeliane in Giudea e Samaria e a “consolidare la nostra presenza in tutte le parti della Terra d'Israele”.
“Più agiamo e applichiamo la sovranità nelle aree di Giudea e Samaria, più determiniamo il futuro dello Stato di Israele per generazioni”, ha aggiunto Barkat, membro del partito Likud al governo.
Il capo del Consiglio regionale della Samaria, Yossi Dagan, ha ringraziato Barkat e ha detto: “La vittoria è la terra, la vittoria è assicurare la nostra presa qui in Samaria, la vittoria è la sovranità - e la sovranità è la vittoria”.
Il leader della Samaria ha anche invitato il governo di Gerusalemme a “non perdere l'opportunità storica di applicare la sovranità nella regione”.
All'inizio del mese, Dagan ha visitato Washington e ha consegnato a Paula White, consigliere senior della Fede, una mezuzah da appendere alla Casa Bianca - un atto che molti hanno visto come un'enfatizzazione della posizione positiva dell'amministrazione Trump sulla sovranità ebraica in Giudea e Samaria.
A febbraio è stato chiesto al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump se fosse favorevole all'annessione ufficiale della Giudea e della Samaria. In quell'occasione ha risposto che la questione era ancora in fase di discussione e ha suggerito che Israele aveva esposto bene le sue ragioni.
Nello stesso periodo, il presidente della Knesset Amir Ohana (Likud) ha fatto una dichiarazione simile, sottolineando che il pieno controllo israeliano su Giudea e Samaria è l'unico modo per raggiungere una vera pace:
“Queste parti bibliche e originali della nostra terra, che raccontano la storia del nostro popolo nella Bibbia, sono destinate a noi, al popolo di Israele. Devono essere nel territorio dello Stato di Israele, sotto la proprietà israeliana, sotto la piena sovranità israeliana. Oggi questo è più chiaro che mai”.
I sondaggi mostrano costantemente che la maggioranza degli israeliani sostiene la sovranità israeliana in Giudea e Samaria e rifiuta i piani per la creazione di uno Stato arabo palestinese indipendente.

(Israel Heute, 22 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Trump vuole instaurare un «clima di fiducia» con l’Iran

Trump è un uomo di pace, per questo ha dato ulteriori due mesi agli Ayatollah, tante volte non avessero abbastanza tempo per sistemare le cose.

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L’inviato di Donald Trump in Medio Oriente, Steve Witkoff, ha dichiarato che il Presidente degli Stati Uniti sta cercando di evitare un conflitto armato con l’Iran costruendo un rapporto di fiducia con Teheran.
In un’intervista con il conduttore di news online Tucker Carlson pubblicata su X, Witkoff afferma che la recente lettera di Trump alla Repubblica islamica non era intesa come una minaccia.
Witkoff, difendendo l’approccio di Trump, dice a Carlson che Trump ha il sopravvento militare e sarebbe più naturale per gli iraniani spingere per una soluzione diplomatica. “Invece è lui a farlo”, dice a proposito della lettera.
“Diceva grossomodo: ‘Sono un presidente di pace. Questo è ciò che voglio. Non c’è motivo di agire militarmente. Dovremmo parlare”, dice Witkoff.
“Dovremmo creare un programma di verifica in modo che nessuno si preoccupi di armare il vostro materiale nucleare… perché l’alternativa non è molto buona”. Witkoff afferma che le discussioni degli Stati Uniti con l’Iran continuano attraverso “canali secondari, attraverso più Paesi e più canali”. Trump, afferma, è “aperto all’opportunità di ripulire tutto con l’Iran, in modo che torni al mondo e sia di nuovo una grande nazione… Vuole costruire la fiducia con loro”.

(Rights Reporter, 22 marzo 2025)

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“Il 7 ottobre ha definitivamente seppellito l'illusione di una soluzione a due Stati”

Il dottor Ido Netanyahu (fratello del Primo Ministro) espone la sua visione del futuro di Israele e critica aspramente il sistema giudiziario.

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Ido Netanyahu, fratello del Primo Ministro

“La giornata del 7 ottobre ha cambiato la nostra percezione e quella del mondo intero”. Con queste parole il dottor Ido Netanyahu, fratello del Primo Ministro israeliano, ha aperto il suo discorso al forum culturale “Shabatarbout” di Beer Sheva questo sabato. In un discorso dalle forti sfumature politiche, il medico di formazione ha analizzato la situazione in Israele e le lezioni da trarre dall'attacco terroristico che ha scosso il Paese.
  “La stragrande maggioranza degli israeliani si è scrollata di dosso l'illusione che due Stati per due popoli possano portare la pace”, ha detto a un pubblico attento. “Solo una minoranza ne parla ancora. La gente ha finalmente capito cosa vogliono davvero i nostri nemici: la nostra distruzione, la nostra eliminazione”. Il fratello del capo del governo non ha nascosto la sua incomprensione per quella che considera una presa di coscienza tardiva: “Non so perché questa realtà non fosse evidente durante l'Intifada, dopo gli accordi di Oslo o dopo il disimpegno da Gaza. Oggi i nostri avversari dicono apertamente che Israele non ha diritto di esistere, il loro vero volto è finalmente svelato”. In questo contesto, Ido Netanyahu è stato categorico sulla necessità di mantenere il controllo israeliano: “Non dobbiamo rinunciare alla nostra presa minima tra il mare e il Giordano, compreso il controllo militare su Gaza finché vi risiede una popolazione ostile”.

Un'indagine sistemica piuttosto che personale
   Passando alla delicata questione di una commissione d'inchiesta sugli eventi del 7 ottobre, Netanyahu ha sostenuto la necessità di un approccio incentrato sulle disfunzioni istituzionali piuttosto che sulle responsabilità individuali. “Dobbiamo indagare, naturalmente, ma questa indagine non deve essere personale, nemmeno contro il Capo di Stato Maggiore”, ha sottolineato. L'obiettivo deve essere quello di evitare che simili disastri si ripetano, non di puntare il dito contro le colpe”. Per il fratello del Primo Ministro, la colpa principale risiede in un “malinteso generale” che prevaleva prima dell'attacco. “Dobbiamo trasformare i nostri sistemi in modo che funzionino correttamente, in modo che non ci sia un'unica concezione dominante. Potrebbe essere necessario rafforzare la cooperazione tra lo Shin Bet e l'esercito, che era chiaramente insufficiente”.

Lo “Stato profondo” di Israele sotto tiro
   Ido Netanyahu ha attaccato frontalmente quello che percepisce come uno “Stato profondo” che opera all'interno delle istituzioni israeliane. “Lo Stato profondo è questa burocrazia che ha accumulato troppo potere e non obbedisce più ai rappresentanti eletti dal popolo”, ha denunciato. “Questi funzionari pubblici pensano di sapere meglio di chiunque altro, perché si considerano più intelligenti e più istruiti dei cittadini comuni”. La sua critica più aspra è stata rivolta alla magistratura: “La Corte Suprema e la Procura lavorano fianco a fianco. Si considerano i saggi, i buoni, quelli che devono impedire a questi 'barbari' di governare il Paese. È una concezione elitaria direttamente collegata alla visione di [ex presidente della Corte Suprema] Aharon Barak di una 'democrazia sostanziale' in cui sono gli 'illuminati' a governare”.

Posizioni forti su questioni di attualità
   Sulla questione del recente licenziamento del capo dello Shin Bet, Netanyahu ha difeso fermamente la decisione del governo: “È diritto e persino dovere del governo decidere chi dirige gli organi di sicurezza dello Stato”. Ha inoltre criticato i ricorsi presentati alla Corte Suprema contro la decisione, affermando che avrebbero dovuto essere “respinti ad ogni livello”. Nonostante le attuali tensioni sociali e politiche in Israele, Ido Netanyahu si è detto fiducioso che il Paese non scenderà in una guerra civile, “perché la maggioranza del popolo non appoggia un simile scenario”. Queste dichiarazioni del fratello del Primo Ministro arrivano in un momento critico in cui la società israeliana è profondamente divisa, tra coloro che sostengono la politica del governo e coloro che manifestano regolarmente contro alcune decisioni, in particolare la riforma giudiziaria e il recente licenziamento del capo dello Shin Bet. Alla domanda del conduttore sui suoi legami con il fratello Primo Ministro, Ido Netanyahu ha risposto semplicemente che stava esprimendo le sue opinioni personali, frutto delle sue riflessioni di cittadino israeliano, senza pretendere di parlare a nome del governo.

(i24, 22 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’ostaggio all’Onu

di Giulio Meotti

ROMA -“Mi chiamo Eli Sharabi. Ho 53 anni. Sono tornato dall’inferno. Sono tornato per raccontare la mia storia”.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu non l’aveva mai sentito un discorso simile. Lo ha pronunciato uno degli ostaggi israeliani liberati il mese scorso dalla prigionia da Gaza, sfinito, si reggeva appena in piedi, senza più la moglie e le figlie, uccise da Hamas.
“Il 7 ottobre il mio paradiso si è trasformato in inferno. Per 491 giorni, sono stato tenuto sotto terra nei tunnel del terrore di Hamas, incatenato, affamato, picchiato e umiliato. Sono sopravvissuto con avanzi di cibo, senza cure mediche e senza pietà”.
Quando è stato rilasciato, Eli pesava 44 chili. Ne aveva persi 30, la metà del suo peso corporeo.
“Ho sognato di rivedere la mia famiglia e solo quando sono tornato a casa, ho scoperto la verità”, ha detto Sharabi al Consiglio di sicurezza dell’Onu. La moglie e le figlie massacrate dai terroristi di Hamas. Il corpo di suo fratello Yossi, assassinato durante la prigionia, è ancora in ostaggio.
“Mentre mi trascinavano fuori, ho gridato alle mie figlie: ‘Tornerò’. Ma quella è stata l’ultima volta che le ho viste. Ho visto più di cento terroristi filmarsi mentre festeggiavano, ridevano, facevano festa nei nostri giardini mentre massacravano i miei amici e vicini”.
Quando è arrivato a Gaza, una folla di civili ha cercato di linciarlo.
“Mi hanno tirato fuori dall’auto, ma i terroristi mi hanno portato via di corsa in una moschea. Ero il loro trofeo”.
Per i primi 52 giorni, Eli è stato tenuto in un appartamento. Era legato con delle corde.
“Le mie braccia e le mie gambe erano legate così strettamente che le corde mi laceravano la carne. Non mi hanno dato quasi niente da mangiare, niente acqua e non riuscivo a dormire. Il dolore era insopportabile”.
Poi Hamas lo ha portato in un tunnel. A cinquanta metri sotto terra. Le catene non gliele hanno mai tolte.
“Quelle catene mi hanno lacerato fino al giorno in cui sono stato rilasciato. Ogni passo che facevo non era più lungo di dieci centimetri. Ogni passeggiata verso il bagno richiedeva un’eternità. Non riesco nemmeno a descrivere l’agonia. Era un inferno”.
Gli davano da mangiare un pezzo di pita al giorno. La fame consumava tutto. 
“Mi picchiavano. Mi rompevano le costole. Non me ne importava. Volevo solo un pezzo di pane. Non c’era mai abbastanza cibo. A volte, se imploravamo abbastanza, ottenevamo qualcosa in più. Dovevamo scegliere: un pezzo di pita in più o una tazza di tè. A volte ci lanciavano datteri secchi, e sembrava il regalo più bello del mondo. Dovevamo implorare cibo, implorare di andare in bagno”.
L’implorazione era la sua esistenza. Un giorno Eli si è tagliato con un rasoio per fargli credere che era ferito.
“Sono crollato mentre andavo in bagno così avrebbero pensato che ero troppo debole e li avrebbero incoraggiati a darci altro cibo. Ha funzionato. Ci hanno dato altro cibo. Siamo sopravvissuti grazie a quelle piccole vittorie”.
Ha fatto solo un bagno al mese, con mezzo secchio di acqua. Un giorno, un terrorista ha sfogato la sua rabbia su Eli. Gli ha rotto le costole.
“Non sono riuscito a respirare correttamente per un mese”.
L’8 febbraio Eli è stato rilasciato. Pesava 44 chili.
“Meno del peso corporeo della mia figlia più piccola, Yahel. Ero un guscio di me stesso. Lo sono ancora”.
Una rappresentante della Croce Rossa gli ha detto: “Ora sei al sicuro”.
“Dov’era stata la Croce Rossa negli ultimi 491 giorni?”, ha detto ancora Eli all’Onu.
“Dov’erano le Nazioni Unite?”
A redigere rapporti in cui Sharabi è ritratto come il colpevole del proprio rapimento e dell’uccisione dei suoi famigliari, ecco dov’era.

Il Foglio, 22 marzo 2025)
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Il pogrom è tuttora in corso d'opera. Esseri umani sono rinchiusi, incatenati, seviziati, torturati e tenuti sul mercato come merce di scambio a condizioni vantaggiose per i torturatori. Il mondo lo sa, ed è indignato non per quello che fanno i torturatori, ma per come reagisce Israele. M.C.

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Il governo vota all’unanimità per porre fine al mandato del capo dello Shin Bet Ronen Bar

di Luca Spizzichino

Il governo israeliano ha votato all’unanimità per porre fine al mandato di Ronen Bar come capo dello Shin Bet, secondo quanto annunciato dall’Ufficio del Primo Ministro nelle prime ore di venerdì mattina. Bar lascerà l’incarico il 10 aprile o quando verrà nominato un nuovo capo dello Shin Bet, a seconda di quale evento si verificherà per primo. La decisione di licenziarlo è stata avanzata dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che domenica sera aveva annunciato la sua intenzione di proporre la rimozione del capo dello Shin Bet con 18 mesi di anticipo sulla scadenza naturale del mandato. Netanyahu ha motivato la sua decisione affermando di aver perso fiducia in Bar dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele. Secondo il Primo Ministro, Bar sarebbe stato “troppo morbido” e “non la persona giusta per riabilitare l’organizzazione”. Ha inoltre sostenuto che la sua rimozione dalla squadra negoziale abbia ridotto significativamente le fughe di informazioni e migliorato le trattative per il rilascio degli ostaggi. Tuttavia, Bar ha replicato con una lettera inviata ai ministri del governo, in cui ha criticato le accuse mosse contro di lui definendole “pretestuose e basate su motivazioni estranee alla sicurezza nazionale”. Ha anche affermato che la decisione del governo rischia di indebolire il paese “sia internamente che nei confronti dei suoi nemici”. Alla riunione di governo ha partecipato anche il Procuratore Generale Gali Baharav-Miara, mentre Bar non era presente. Nel frattempo, centinaia di israeliani si sono radunati fuori dall’ufficio del Primo Ministro a Gerusalemme per protestare contro la decisione dell’esecutivo di destituire il capo dello Shin Bet.

(Shalom, 21 marzo 2025)

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Quanto è indipendente Israele?

Quanto è indipendente il sistema politico e militare dalle potenze straniere?

di Aviel Schneider

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Il nuovo Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, Eyal Zamir, all'inizio di marzo al Muro del Pianto di Gerusalemme

GERUSALEMME - Israele può davvero decidere tutto da solo? Probabilmente no. Da tempo nel Paese si discute se la leadership dell'esercito, in particolare dello Stato Maggiore, sia caratterizzata da un'ideologia di sinistra e se i suoi concetti strategici nel Paese siano irrealistici. Queste critiche provengono principalmente dai circoli conservatori nazionali, che accusano i vertici militari israeliani di non intraprendere azioni sufficientemente decisive contro i nemici di Israele e di essere troppo attenti alla politica. Anche il governo israeliano guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu è accusato di essere controllato dall'estero. Lui e la sua coalizione religiosa di destra si trovano sempre più spesso di fronte all'accusa che la politica bellica di Israele sia determinata da Washington.
I critici sostengono che molti ufficiali e generali delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno una visione del mondo piuttosto liberale o di sinistra. In particolare, si sottolinea che gli ufficiali spesso entrano in politica dopo la carriera militare e si posizionano a sinistra, come Benny Gantz, Ehud Barak o Moshe Yaalon. Di conseguenza, Israele mostra un'eccessiva indulgenza nei confronti dei suoi nemici, è l'accusa.

La politica militare di Israele
   Non sono solo i politici di destra, come i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ad accusare da anni i generali. L'intero panel del canale televisivo conservatore 14 è dello stesso parere. Essi sostengono che la tolleranza porta a una politica militare cauta, spesso contenuta, che indebolisce la deterrenza di Israele.
Israele non è un esercito aggressivo e questo è di per sé un punto debole in Medio Oriente. L'esercito israeliano è semplicemente troppo misericordioso per gli standard arabi e non si possono vincere le guerre con un colpo di mano in una regione islamica. Basti pensare alle azioni di Israele nell'attuale guerra a Gaza. L'opinione maggioritaria nel Paese è che dovrebbe tagliare le forniture di elettricità e acqua ai suoi nemici a Gaza e sospendere tutte le consegne di aiuti umanitari finché gli ostaggi israeliani sono tenuti nei tunnel del terrore.
Voci conservatrici, tra cui politici e commentatori, accusano i militari di aggrapparsi a concetti falliti come la strategia della concessione in cambio della pace. Le critiche sono state particolarmente forti dopo il ritiro dalla Striscia di Gaza nel 2005 e la falsa convinzione che le concessioni territoriali potessero portare sicurezza. Dopo l'attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, ci sono state accuse massicce contro i militari per aver valutato male la minaccia proveniente dalla Striscia di Gaza.

L’influenza di Washington
   Un'accusa frequente è che Washington influenzi indirettamente la leadership militare di Israele. Si sostiene che gli Stati Uniti esercitino pressioni per moderare le azioni di Israele nei conflitti. Alcuni critici ritengono addirittura che i generali di alto rango vengano promossi per il loro allineamento con gli interessi americani.
La controargomentazione è che i processi decisionali militari sono spesso complessi e le strategie si basano su analisi di sicurezza piuttosto che sulla semplice ideologia politica. L'esercito israeliano agisce spesso con la mano pesante quando è necessario, il che non si concilia con una posizione di sinistra. Le buone relazioni con gli Stati Uniti sono fondamentali, poiché la dipendenza militare ed economica dagli USA rende inevitabile il coordinamento con Washington. Questa discussione rimane parte integrante della politica israeliana ed è stata sottolineata più volte, soprattutto dopo il 7 ottobre.
L'accusa dei politici di destra, che accusano i vertici dell'esercito di essere l'America a determinare la strategia e i generali di Israele, vale quindi anche per il governo. Da quando Donald Trump è tornato presidente degli Stati Uniti, in Israele si sono moltiplicate le critiche al fatto che Benjamin Netanyahu sia sottoposto a pressioni da parte di Washington, questa volta da parte di un'amministrazione repubblicana. Netanyahu si è spesso scontrato in passato con i rappresentanti delle amministrazioni democratiche statunitensi, come Barack Obama o Joe Biden, ma ora si sta piegando ai desideri di Trump per quanto riguarda l'accordo sugli ostaggi e il cessate il fuoco con Hamas, si dice.
I critici sostengono che Netanyahu abbia ammorbidito la sua dura posizione su un possibile accordo con Hamas perché Trump glielo chiede. Trump potrebbe essere interessato a garantire che il conflitto in Medio Oriente non si inasprisca ulteriormente, dal momento che ha annunciato di essere venuto per portare la pace, sia nel conflitto tra Russia e Ucraina che in Israele. Gli Stati Uniti sono coinvolti nei negoziati per il rilascio degli ostaggi israeliani e si ipotizza che l'amministrazione Trump stia usando pressioni o incentivi per convincere Israele a scendere a compromessi.
Si dice che Trump abbia esortato Netanyahu a limitare le operazioni militari nella Striscia di Gaza o ad accettare un cessate il fuoco temporaneo. Il motivo potrebbe essere che Trump non vuole mettere Israele in una situazione di guerra regionale di massa con l'Iran e gli altri suoi scagnozzi, che sarebbe problematica anche per gli Stati Uniti.

Non abbastanza coerente
   Le critiche del campo della destra rimproverano quindi a Netanyahu di non aver agito con sufficiente coerenza contro Hamas e di essersi lasciato guidare dagli americani. Netanyahu si trova in una posizione difficile. Da un lato, vuole presentarsi come un leader forte che non si lascia imporre nulla dagli Stati Uniti. Dall'altro lato, Israele dipende dagli Stati Uniti dal punto di vista economico, diplomatico e militare. Alcune voci conservatrici - cioè della sua base elettorale - lo accusano di essersi subordinato a Trump, mentre i critici di sinistra e centristi dicono che sta giocando sul tempo e che sfrutterebbe ogni opportunità per rimanere al potere. Netanyahu ha sottolineato pubblicamente che Israele prende le proprie decisioni, ma gli addetti ai lavori vedono Washington giocare un ruolo importante nei negoziati.
Netanyahu è noto per la sua resilienza di fronte alle pressioni degli Stati Uniti. In passato, ha sfidato Obama e Biden sulla politica iraniana e sulla costruzione degli insediamenti. Ma Trump è di un altro livello. Non vuole mettersi contro di lui perché Trump e Netanyahu hanno tradizionalmente mantenuto stretti rapporti. Come controargomento, è più probabile che i due abbiano interessi simili su molti punti piuttosto che Trump stia “dando istruzioni a Netanyahu”.
Le accuse a Netanyahu di essere “dettato” da Trump provengono principalmente dagli integralisti di destra che non vogliono un compromesso con Hamas, oltre che dai critici di sinistra che vedono Netanyahu come tatticamente opportunista - ancora una volta, gli stessi ministri sopra citati e il canale televisivo 14. Sebbene sia ovvio che gli Stati Uniti stiano giocando un ruolo importante nel cessate il fuoco e nella questione degli ostaggi, rimane il dubbio se Netanyahu stia davvero agendo direttamente su istruzioni di Trump - o se semplicemente ritenga politicamente prudente lavorare con l'amministrazione Trump.
La politica fa parte della vita, allora come oggi. Ma la Bibbia sottolinea ripetutamente che Israele deve dipendere dal suo Dio prima che le potenze straniere possano interferire con la vita in Israele.

(Israel Heute, 21 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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È tempo di invadere Gaza e concludere con Hamas

di Giovanni Giacalone

Il 29 gennaio 2024 scrissi un breve articolo per il Washington Outsider intitolato “Limitazioni di tempo, negoziati e cessate il fuoco non vanno d’accordo con l’obiettivo di sradicare Hamas”, in cui criticavo la pressione esercitata dall’ex amministrazione statunitense su Israele per porre fine frettolosamente alla guerra a Gaza e negoziare con Hamas. Tra le altre cose, scrivevo che era assurdo anche solo pensare che sarebbe stato possibile sradicare 17 anni di governo di Hamas in un paio di mesi; che non si trattava solo di una guerra tra Hamas e Israele, ma di un conflitto regionale più ampio che coinvolgeva l’Iran e i suoi altri delegati, gli Houthi e Hezbollah.
  Per quanto riguarda i negoziati sugli ostaggi, scrivevo che era altresì impossibile sradicare Hamas e allo stesso tempo cercare di concludere un accordo con essa, poiché, in quanto organizzazione terroristica e genocida, non è affidabile. Ma, cosa più importante, chiarivo che gli ostaggi sono l’unica assicurazione che  possiede Hamas contro il suo sradicamento da Gaza. È quindi da ingenui credere che tutti gli ostaggi saranno rilasciati.
  Siamo nel marzo 2025 e Hamas è ancora a Gaza, così come vi si trovano 59 ostaggi (24 indicati come ancora vivi e il resto presumibilmente morto, secondo le ultime informazioni). Hamas non ha rispettato l’accordo, rifiutandosi di liberare altri ostaggi e incolpando Israele, come sempre.
  Lo ripeto ancora una volta, Hamas non libererà tutti gli ostaggi. Non c’è assolutamente alcun interesse da parte del gruppo terroristico a farlo. I leader di Hamas punteranno a trascinare il processo di rilascio per mesi, forse anni e, nel frattempo, Hamas chiederà garanzie sulla sua permanenza e sul suo ruolo politico a Gaza, mentre si riorganizza e si riarma.
  Inoltre, l’intero meccanismo di rilascio di alcuni ostaggi al momento non avvantaggia nessuno, tranne Hamas (e chiunque altro desideri mantenere la situazione attuale). Gli ostaggi rimasti ancora vivi non sopravviveranno a lungo nei campi di concentramento sotterranei di Hamas. Inoltre, è ingiusto che alcuni vengano rilasciati e altri no. Meritano tutti di essere liberati immediatamente.
  Il meccanismo del “pochi per volta” non fa che prolungare la problematica questione israeliana interna relativa alle manifestazioni a favore di un “accordo” che implicherebbe la resa a Hamas e al terrorismo transnazionale. Naturalmente, le famiglie degli ostaggi desiderano credere che accettare le richieste di Hamas sarebbe la soluzione, e ciò è comprensibile data la situazione drammatica in cui si trovano. Tuttavia, non viviamo nel Paese delle Meraviglie di Alice e la realtà spesso differisce da ciò che desideriamo.
  Hamas deve essere sottoposta a una pressione tale da non avere altra scelta che quella di rilasciare gli ostaggi. Anche il Qatar, in quanto sostenitore di lunga data di Hamas, nonostante il suo presunto ruolo di “mediatore”, dovrebbe essere sottoposto a pressioni, e gli Stati Uniti hanno tutti gli strumenti per poterlo fare. Come ho scritto più volte, stringere accordi con i terroristi è sbagliato, non solo sotto un profilo  etico, ma anche pratico.
  1. I negoziati e gli accordi incoraggiano i terroristi a ripetere le atrocità già commesse, perché sanno che alla fine del gioco le loro richieste saranno soddisfatte. Negoziare con i terroristi significa mettere a rischio la vita di più cittadini, perché diventeranno bersagli di più azioni terroristiche, dentro e fuori i confini. (Hamas ha riconfermato che perpetrerà altri attacchi, e lo farà, forse attraverso le mani di coloro che vengono rilasciati da Israele. Inoltre, è emerso di recente che Hamas stava pianificando un nuovo attacco in stile 7 ottobre da Gaza). Non dimentichiamo inoltre che l’eccidio del 7 ottobre è stato il risultato di precedenti negoziati.
  2. I negoziati forniscono legittimità politica all’organizzazione terroristica, elevandola a interlocutore legittimo, quando invece andrebbe emarginata e sottoposta a forti pressioni con tutti i mezzi a disposizione.
  3. I negoziati e i possibili accordi permettono ai terroristi di potenziare la loro propaganda, presentando i risultati ottenuti come una “grande vittoria della resistenza”. È esattamente ciò che è accaduto durante la liberazione degli ostaggi, con Hamas che ha allestito un palcoscenico per dimostrare di essere ancora al potere, mentre umiliava gli ostaggi liberati.
  4. I terroristi e i loro sostenitori tendono a chiedere che il livello del conflitto venga innalzato quando sono in preda all’esaltazione. Ciò è chiaro e ovvio, perché quando i terroristi percepiscono la negoziazione come una “vittoria della resistenza” o una “resa del nemico”, mirano a persistere nella lotta con maggiore intensità.
L’unico modo per sradicare Hamas da Gaza è invadere la Striscia, occuparla militarmente e soffocare l’organizzazione terroristica fino alla sua resa completa. Il nemico deve essere accerchiato e totalmente isolato per evitare la possibilità di rifornirsi di armi, carburante e qualsiasi altro bene. Tutti i suoi leader devono essere braccati, ovunque si nascondano.
  Questo è ciò che la coalizione guidata dagli USA ha fatto a Mosul contro l’ISIS; questo è ciò che l’esercito russo ha fatto in Cecenia durante la seconda guerra cecena. I ceceni hanno utilizzato tunnel e nascondigli sotterranei per evitare le truppe russe, ma questo espediente non li ha aiutati nel medio-lungo termine. Sarebbe stato ipotizzabile che gli USA o la Russia avrebbero concesso “aiuti umanitari” e carburante al loro nemico nel corso dell’assedio?
  È arrivato il momento di entrare in azione e completare il lavoro. Contrariamente a quanto alcuni leader europei e arabi vorrebbero credere, l’unico ostacolo alla pace è Hamas, non l’attività militare israeliana, e il conflitto non può finire finché l’organizzazione terroristica non sarà stata sradicata.

(L'informale, 21 marzo 2025 - trad. Niram Ferretti)

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Israele è all’ottavo posto nella classifica dei Paesi più felici al mondo

di Jacqueline Sermoneta 

Sebbene stia vivendo uno dei periodi più difficili della sua storia, Israele resta nella top ten dei Paesi più felici al mondo. Lo Stato ebraico si posiziona all’ottavo posto, secondo la classifica del World Happiness Report 2025, la pubblicazione annuale delle Nazioni Unite. Il rapporto valuta, attraverso un sondaggio di auto-valutazione, il benessere globale della vita da parte dei cittadini e si basa su fattori quali reddito, supporto sociale, livello di istruzione, salute pubblica, livello di corruzione, libertà di stampa e fiducia nelle istituzioni.
Israele, nonostante sia sceso di tre posizioni rispetto all’anno precedente, continua a eccellere nella qualità delle relazioni sociali, anche se si rileva una minore aspettativa di vita e un calo della fiducia nelle istituzioni governative.
  Le nazioni nordiche dominano la classifica. La Finlandia è al primo posto per l’ottavo anno consecutivo, seguita da Danimarca e Islanda, poi da Svezia e Paesi Bassi per chiudere la top five. Costa Rica e Norvegia precedono Israele che è seguito da Lussemburgo e Messico. L’Australia si è classificata all’11esimo posto, mentre gli Stati Uniti, mai stati così infelici, scendono al 24esimo, posizione attribuita soprattutto alla solitudine e ai problemi economici che hanno i giovani americani.
  Israele detiene il primo posto fra i Paesi più felici in Medio Oriente. Il Libano è quasi in fondo alla classifica con il 145esimo posto, lo Yemen è al 140 e l’Iran al 99. L’Afghanistan è ancora una volta all’ultimo posto (il 147), preceduto da Sierra Leone, Libano, Malawi e Zimbabwe. L’Italia è salita di una posizione rispetto all’anno precedente, collocandosi al 40esimo posto.
  Il World Happiness Report è realizzato grazie alla partnership tra la multinazionale di statistica Gallup, il Centro di Ricerca Wellbeing di Oxford, il Network delle Soluzioni per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.

(Shalom, 21 marzo 2025)

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Parashà della settimana: Va'Jakel - Pecudè (Convocò - Inventario)

Esodo 35:1-38:20, 38:21-40:38

 - Le due parashot Va-jakel (convocò l'assemblea) e Pecudè (inventario del Santuario) che chiudono il libro dell'Esodo, sono consacrate alla realizzazione del Tabernacolo. Dopo aver dato il programma per la sua costruzione nelle parashot di Terumà e Tezavè, la Torah ritorna sui dettagli per completarne l'opera. Bisogna notare che tra queste parashot si inserisce la parashà di Ki-Tissà con l'episodio del vitello d'oro. Per riparare questo peccato di idolatria, secondo Rashì, D-o ordina a Moshè di continuare la costruzione del Santuario e di osservare il giorno del sabato. "Per sei giorni lavorerai, ma il settimo giorno sarà per voi giorno di riposo, sabato consacrato al Signore" (Es. 35.2).
Quale è il legame tra il Tabernacolo e il sabato? Il primo è la santificazione dello spazio mentre il secondo è la santificazione del tempo. Le due dimensioni della Creazione a cui si aggiunge quella dell'Essere, che tramite la sua opera, malgrado la sua caduta per il peccato, può continuare nella realizzazione del processo di Redenzione mediante l'osservanza del sabato. Rabbi Eliezer sostiene che per merito dello shabat ogni peccatore viene salvato dal gheinnom (inferno). Il Bet Halevì sostiene che il ricordo e l'osservanza del sabato permettono la teshuvà (pentimento) e il perdono. Il tempo sacro del sabato deve essere usato dall'uomo per conoscere l'amore di D-o verso le sue creature come scritto: "Signore misericordioso, tardivo nella collera, pieno di bontà e di verità" (Es. 34.6).
Da questa ottica la costruzione del Santuario può essere considerata come la costruzione della casa "nuziale" dove i novelli sposi sono uniti con amore e fedeltà. Ma dopo il peccato di idolatria, la sposa adultera è terrorizzata dal pensiero che lo sposo possa abbandonarla, cosa questa che non accade. Lo sposo le offre la possibilità di riparare con il dono del sabato che più di ogni altro giorno, esprime il perdono Divino.

La costruzione del Tabernacolo
"Tutti gli uomini saggi di cuore tra di voi, verranno e faranno quello che il Signore ha ordinato" (Es. 35.10). L'espressione "saggi di cuore" è ripetuta per ben quattro volte nella nostra parashà. Quale è il significato di questa ripetizione? L'opinione comune è che la saggezza risieda nella mente dell'uomo e non sia legata al suo cuore che invece ne determina il suo comportamento. Difatti un uomo può essere un grande saggio, ma nella realtà si comporta senza etica. La Torah con questo vuole insegnarci che colui che costruisce la Casa di D-o deve essere un uomo saggio di cuore nel senso che non vi sia contrasto tra la sua saggezza e il suo comportamento.

Le offerte
"I principi delle tribù recano pietre d'onice e pietre da incastonare per il dorsale e il pettorale del gran Sacerdote" (Es. 35.27). Un commento alla Torah (il kelì yacar) fa notare che la parola "principi" è scritta senza la lettera Yod ed interpreta questa omissione come una punizione per costoro. Difatti i principi delle tribù dicono: "Aspettiamo che il popolo abbia finito di offrire e poi quello che manca verrà offerto da noi". Questo atteggiamento di orgoglio nell'ostentare la propria ricchezza, è stato punito dal Signore, togliendo il suo Nome (lettera Yod) dal contesto.
Con le ultime parashot sulla costruzione del Tabernacolo si chiude il libro dell'Esodo. A questo punto un ebreo, osservante della Torah, deve domandarsi: "Cosa vengono ad insegnarci e in come possono cambiare la nostra vita?" In Pecudè è scritto: "Questi sono gli inventari del Tabernacolo, il Tabernacolo della testimonianza" (Es. 38.21). Perché la parola Tabernacolo è ripetuta due volte? La Torah, spiegano i nostri Saggi, fa allusione ai due Santuari che in Gerusalemme verranno distrutti. Questa profezia sembra contraddire i fondamenti della morale sulla libertà dell'uomo nelle sue scelte. In realtà gli avvenimenti previsti nella Storia dalla profezia, sono inevitabili, ma saranno gli uomini a determinarne i processi con le loro azioni.
Il libro dell'Esodo, per terminare, è il libro della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù d'Egitto e si chiude con la parashà di Pecudè. La storia del popolo ebraico, fatta di ombre e di luce, ha inizio per raggiungere la sua meta finale (Redenzione) con la costruzione del terzo Tempio in Gerusalemme, che sarà una "Casa di preghiera per tutti i popoli della terra" (Isaia 56.7). F.C.

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 - Riprendiamo il commento da dove siamo rimasti la volta scorsa.
La terribile crisi del Sinai
Con il suo intervento Mosè è riuscito a far recedere Dio dal suo proposito di sterminare il popolo. Ma la questione resta ancora tutta aperta. Adesso Mosè ha capito la gravità di quanto è accaduto, che non è una semplice disubbidienza, ma la rottura di un patto solennemente concluso poco prima. Al popolo dice: "... ora salirò all'Eterno; forse potrò fare espiazione (cafar, כפר) per il vostro peccato" (Es. 32:30, Nuova Diodati). Molte traduzioni usano qui il verbo "perdonare", ma espiare non è la stessa cosa di perdonare, quindi è meglio tradurre alla lettera.
E' importante il termine "forse", da cui si capisce che in questo momento è ancora tutto in gioco. Mosè adesso deve intraprendere un difficile tentativo di riconciliazione con Dio. Secondo alcune traduzioni, Mosè dice al Signore: "... nondimeno, perdona ora il loro peccato" (Es. 32:32), ma anche questo non è esatto. Mosè non chiede in modo diretto di perdonare, ma presenta al Signore due "se": "SE tu perdoni (lett. sopporti) il loro peccato... (sottinteso: bene), SE NO, cancellami dal tuo libro" . La cosa insomma è messa in forma di aut aut. Il Signore naturalmente lo capisce, ma non si sottopone al dilemma. La sua risposta comunque è enigmatica, aperta a molte interpretazioni. Non cancella Mosè dal libro della vita, perché non è lui che ha peccato, ma quanto al popolo si riserva di decidere quando sarà il momento di punirlo per il suo peccato. In che modo? Non è detto, ma certamente non si può pensare che sia lo sterminio dei tremila idolatri gozzovigliatori avvenuto poco prima: quello è soltanto un segno dell'ira di Dio che incombe su tutto il popolo.

"Andate pure, ma io non vengo"
Nel drammatico confronto fra Dio e Mosè che ha come posta in gioco il destino di Israele, Mosè adesso assume decisamente la parte del popolo. Parte pericolosa, perché un errore nella scelta delle parole potrebbe renderlo complice del popolo, e quindi partecipe della relativa condanna.
Il Signore potrebbe aver detto a Mosè qualcosa del genere: "Tu mi hai ricordato che ho promesso ad Abramo di dare alla sua progenie un paese; va bene, allora va', prendi il popolo che hai tratto dal paese d'Egitto e conducilo nel paese che ho promesso di dargli. Non ti preoccupare, manderò davanti a te un angelo come guida e sconfiggerò i nemici che ti verranno contro, ma io non salirò in mezzo a te". E dicendo "te", il Signore identifica Mosè con il popolo.
Il resto delle parole potrebbe essere immaginato così: "Quindi puoi anche risparmiarti la fatica di costruire il tabernacolo, che doveva servire a far sì che Io potessi abitare in mezzo a te, perché tanto non ci verrò". Dio dunque non cancella il popolo, come Mosè gli aveva chiesto, ma cancella tutto quello che aveva detto a Mosè in quei quaranta giorni e quaranta notti. Tabula rasa. Si riparte da zero.
Mosè riferisce queste parole al popolo e intorno a lui si spande il terrore. L'Eterno però non si commuove, anzi insiste, e incarica Mosè di dire ancora una volta al popolo che è di collo duro, e che devono essere contenti se Lui non va' con loro, perché se lo facesse, dovrebbe distruggerli.
Ma allora, adesso, che succederà? E' certamente il pensiero del popolo. Il Signore risponde con una frase sibillina: "Conosco io quello che ti farò" (Es. 33:59). Parole certamente non rassicuranti.
La situazione è tesissima, drammatica, col rischio di finire in tragedia. Mosè però non molla. Non vuole lasciare così le cose. Vuole tentare il tutto per tutto; vuole verificare, come si direbbe oggi, se esiste ancora "uno spazio per il dialogo". Allora, visto che il Signore non vuole avvicinarsi al popolo e non vuole che il popolo si avvicini a Lui, di sua propria iniziativa monta una tenda fuori dell'accampamento e la chiama "Tenda d'incontro". Incontro tra Dio e Mosè, naturalmente, perché in questo momento il popolo è completamente tagliato fuori. Il Signore accetta il dialogo, e in quella tenda s'intrattiene con Mosè parlando con lui "faccia a faccia", come si fa tra uomini. Il popolo osserva in silenzio, timoroso. A distanza segue le severe istruzioni ricevute: alzarsi in piedi quando vedono Mosè andare verso il luogo d'incontro, seguirlo con lo sguardo e non avvicinarsi mai alla tenda. Non è riportato quello che i due si sono detti in quella tenda, ma tutti capiscono che è dall'esito di quei colloqui che dipende la salvezza del popolo.

I secondi quaranta giorni e quaranta notti
Sappiamo dal resoconto del Deuteronomio che Mosè passò altri quaranta giorni e quaranta notti sul monte Sinai, a digiuno, a parlare animatamente col Signore. E' in questo tempo che probabilmente si svolse il colloquio riportato sinteticamente in Esodo 33:12-16. E' un colloquio d'importanza eccezionale: si può dire che proprio qui avviene la svolta decisiva che determinerà il futuro d'Israele.
All'inizio della vicenda storica d'Israele, quando il popolo si trovava ancora sotto il giogo del Faraone, si vede Dio che chiama Mosè dal roveto ardente e fa pressioni su di lui affinché accetti di tornare in Egitto per liberare il suo popolo dalla schiavitù e portarglielo al Sinai, dove stringerà con lui un patto di unione. Adesso invece è Mosè che fa pressioni su Dio, cercando argomenti per convincerlo a non staccarsi da quel popolo che ora si trova davanti a Lui.
L’incipit del suo discorso è straordinario. "Vedi, - inizia Mosè con il tono affettuoso di chi vuole portare qualcuno, con grande pazienza, a rendersi conto di quello che in fondo già conosce - tu mi dici: Fa' salire questo popolo". Magistralmente Mosè conduce l'attenzione del Signore non sul popolo, non su se stesso, non su qualche principio di morale universale, ma su quello che Dio stesso ha detto. Questo è di importanza fondamentale nel rapporto dell'uomo con il Dio vivente e vero; con gli idoli invece è tutto un altro discorso. Quando Dio aveva manifestato la volontà distruggere Israele, Mosè gli aveva ricordato quello che aveva detto ad Abramo; adesso, quando Dio minaccia di non voler salire in mezzo al popolo, Mosè gli ricorda quello che ha detto a lui.
In tutto il suo argomentare le parole chiave sono due: "conoscere" (yada, ידע) e "grazia" (khen, חן), che in soli cinque versetti compaiono entrambe quattro volte. Fino a questo momento, il Signore, come diremmo noi oggi, "non aveva ancora scoperto le sue carte". Con l'ermetica frase: "Conosco io quello che ti farò", si era riservato di procedere a modo suo su tutta la faccenda. L’obiettivo di Mosè adesso è di arrivare a conoscere quello che Dio vorrà, e naturalmente di indirizzarlo verso quello che desidera. Cerchiamo allora di immaginare quello che Mosè può aver detto a Dio.
"Tu dici che mi conosci per nome, ma non mi fai conoscere chi verrà con me". La domanda inespressa è: verrai o non verrai? Poi aggiunge: "Tu dici che mi conosci per nome e che ho trovato grazia agli occhi tuoi, ma come farò io a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi se tu non mi fai conoscere le tue intenzioni". E aggiunge: "E considera che questa nazione è popolo tuo".
Dio gli risponde come se pensasse che Mosè sia preoccupato del suo destino personale e gli dice di stare tranquillo: "La mia presenza (lett. faccia) verrà, e io ti darò riposo". La frase non è chiara: Mosè può pensare che Dio voglia rassicurarlo personalmente, senza sbilanciarsi su quello che farà del popolo. Allora si fa ardito e lo mette un'altra volta davanti a una specie di aut aut, in cui accosta sempre "io" e "il tuo popolo":
"Mosè gli disse: «Se la tua presenza non viene, non ci far partire di qui. Perché come si farà a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi, io e il tuo popolo, se tu non vieni con noi? Questo fatto distinguerà me e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra» (Es. 33:15-16).

Un segno di pace
Il Signore acconsente alla richiesta fattagli, con una motivazione che è sempre e soltanto legata alla persona di Mosè: "... perché tu hai trovato grazia agli occhi miei e ti conosco per nome" (Es. 33:17).
A questo punto Mosè diventa ancora più ardito e chiede a Dio di dargli un segno di pace, qualcosa che lo possa rassicurare, che gli dia la certezza che tutto è tornato come prima: gli chiede di farsi vedere nella sua gloria, come era accaduto quando si trovavano gioiosamente insieme con i settanta anziani sul monte Sinai, dopo la firma del patto. Lo chiede umilmente, con timore. Nel testo infatti compare l’interiezione na (נא) che alcune traduzioni tralasciano, altre rendono con un “ti prego”, altre ancora con un antiquato ma più espressivo “Deh!” Una traduzione efficace potrebbe essere: “Su, fammi vedere la tua gloria!” che Mosè pronuncia in tono di supplica, perché questa volta teme di non poter essere esaudito. Ed è così. Il Signore risponde che nella stessa forma di prima non è possibile: adesso, dopo quello che è accaduto, neppure Mosè può vedere la faccia di Dio e vivere: la morte è entrata nella storia del popolo. E tuttavia, per dare un segnale che Dio stesso si incaricherà di risolvere il problema di vita o di morte presente nel popolo, acconsente a farsi vedere da dietro.
Questo però non avverrà subito: prima Dio dovrà dare a Mosè nuove istruzioni.

Le nuove tavole
Dio ordina a Mosè di tagliare due tavole di pietra, come quelle di prima, e di portargliele sul monte il giorno dopo, di buon mattino, assolutamente solo (Es. 34:1-4). Su queste tavole Dio scriverà le stesse dieci parole che aveva scritto nelle prime, ma è chiaro che la situazione ora è diversa. Adesso c'è la mano dell'uomo. Questo è qualcosa di meno, rispetto alla volontà originaria di Dio espressa nelle prime tavole, ma è qualcosa di più, rispetto al peccato del popolo, il quale, se non fosse stato per l'opera mediatrice di quell'uomo che ha tagliato le tavole, sarebbe scomparso dalla faccia della terra.
Dopo averle prese in mano, il Signore acconsente alla richiesta di Mosè e si fa vedere da dietro nella sua gloria (Es. 34:5-9). Quello che Mosè sente sono parole di misericordia, benignità, fedeltà di Dio, ma anche di peccato, iniquità, trasgressioni del popolo. E minacce e punizioni. Non è lo stesso linguaggio del primo patto.
Subito dopo Mosè s'inchina a terra, adora e chiede a Dio tre cose: 1) "Venga il Signore in mezzo a noi; 2) "Perdona la nostra iniquità e il nostro peccato"; 3) "Prendici come tua eredità" (Es. 34:8-9).
Possiamo ritenere che il Signore abbia esaudito tutte queste richieste, ma il compimento di questi esaudimenti avverrà lungo un decorso storico secolare. Si discute sui tempi e sui modi in cui questi esaudimenti sono avvenuti o devono ancora avvenire, ma in ogni caso continua ad essere presente nei secoli il segno indiscutibile di un fatto che Mosè è riuscito ad ottenere da Dio: il popolo d'Israele vive.

Un altro patto
"L'Eterno rispose: 'Ecco, io faccio un patto: farò dinanzi a tutto il tuo popolo meraviglie..." (Es. 34:10). Prima di questo versetto, alcune Bibbie scrivono come soprattitolo: "Il patto rinnovato (o confermato)". Questo secondo patto però non è un rinnovo o una conferma del primo, così come il patto con Noè non è un rinnovo o una conferma del patto con Adamo. Questo secondo patto, come il patto con Noè, è conseguenza della rottura di un patto precedente. In entrambi i casi si può parlare di un patto di conservazione dell'esistente in vista di una redenzione futura. In questo "esistente" ci sono segni visibili del peccato avvenuto, ma solo per allusioni e accenni si possono intravedere segni della futura redenzione.
Se si fosse trattato di un rinnovo, non ci sarebbe stato bisogno di riscriverlo; invece, dopo aver ripetuto in forma diversa solo alcune disposizioni del precedente patto, Dio dice a Mosè: "Scrivi queste parole, perché sul fondamento di queste parole, io ho contratto alleanza con te e con Israele" (Es. 34:27). Il popolo qui non parla, a lui non si chiede di prendere impegni, a lui non si chiede neppure di formulare una chiara richiesta di perdono; qui è solo Dio che parla, in risposta alla preghiera di Mosè, sentendosi impegnato soltanto dalla Sua sovrana volontà. Resta dunque valido quello che Dio aveva annunciato al popolo subito dopo la sua rovinosa caduta: "Conosco io quello che ti farò" (Es. 33:5). Anche il popolo lo conoscerà, ma solo dopo che Dio avrà fatto tutto quello che aveva deciso di fare.

La storia continua
Dopo la mediazione di Mosè, il rapporto tra Dio e il popolo si ristabilisce, ma il passato non si cancella e non smette di pesare sulle sorti di Israele. Il tabernacolo sarà ricostruito e Dio verrà ad abitarci, ma sarà un'abitazione sempre pericolante, sempre a rischio di crollare da un momento all'altro, come poi è accaduto. La violazione di quel patto di sangue che richiedeva la morte del trasgressore ha fatto gravare sul popolo un debito di sangue che il Signore non ha cancellato immediatamente, ma di cui ha rinviato il momento in cui potrà essere estinto. Questo momento arriverà alla venuta del Messia. Anzi, è già arrivato. M.C.

(Notizie su Israele, 23 marzo 2017)


“Ho molta paura per il mio Paese”

di Alisa Ashkenasi
Alisa Ashkenasi, fotografa che scrive su Israel Heute

Un'ombra pesante grava sul nostro amato Paese.Il governo sta agendo in vari modi - alcuni direbbero illegali - per garantire la propria sopravvivenza. Le famiglie degli ostaggi, i caduti e il popolo nel suo complesso chiedono una commissione d'inchiesta governativa. Una commissione che indaghi su tutto ciò che è accaduto in quel giorno maledetto, il 7 ottobre 2023, e prima. Ma il governo e il suo presidente la respingono con varie scuse. Tutti i responsabili dei servizi militari e di intelligence si sono già assunti la responsabilità e hanno annunciato che lasceranno i loro incarichi non appena i combattimenti saranno terminati. Ma questo non è sufficiente per il governo, e così vengono sacrificati uno ad uno. Il primo ad essere licenziato è stato il Ministro della Difesa dello Stato di Israele, Yoav Galant. Nel bel mezzo di una guerra!
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Israeliani protestano a Gerusalemme il 19 marzo 2025 contro la decisione di Netanyahu di licenziare il capo dello Shin Bet, Ronen Bar

Qualche settimana fa tutti i movimenti di protesta hanno iniziato a mobilitarsi con lo slogan “Preparatevi al giorno X”. In questo giorno, volevano marciare verso Gerusalemme per manifestare. Originariamente era stato scelto il 24 marzo, ma quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di licenziare il capo dello Shin Bet Ronen Bar e successivamente il procuratore generale Gali Baharav-Miara, la data è stata immediatamente anticipata al 19 marzo. Di conseguenza, 100.000 cittadini si sono trovati ieri in marcia verso Gerusalemme. Tutti i movimenti di protesta e le famiglie degli ostaggi si sono uniti in un'azione comune.
I leader della protesta hanno trascorso la notte nei pressi della città, si sono alzati al mattino e hanno iniziato la marcia verso la Città Santa, accompagnati da migliaia di cittadini. Altre migliaia erano già in attesa all'ingresso della città per unirsi alla marcia verso la Knesset.
Anch’io mi sono recata direttamente al complesso della Knesset e lo spettacolo è stato travolgente. Ammetto di essermi commossa. Una delle sensazioni peggiori è quella di sentirsi soli e pensare che solo tu hai paura di ciò che sta accadendo. Folle di persone che portavano bandiere blu e bianche di Israele e degli ostaggi, arrivavano da ogni dove. Alcuni sono arrivati in treno, altri in veicoli privati o in autobus organizzati. I leader della protesta hanno pianificato di manifestare prima davanti alla Knesset e poi di marciare insieme verso Azza Street, dove si trovano sia la casa privata del Primo Ministro che la residenza ufficiale attualmente in ricostruzione, entrambe diventate simbolo del potere. Ironia della sorte, questa strada si chiama Gaza.
Nello stesso momento, la “Guardia 101” era seduta in Piazza Francia, alla fine di Azza Street. Qualche parola su questo gruppo: “Guardia 101” è stata fondata da donne appartenenti a famiglie di ostaggi che temevano per la sorte dei loro cari. È stata fondata quando gli ostaggi nella Striscia di Gaza erano ancora 101; oggi sono 59, di cui 24 ancora vivi. Continuano a partecipare anche le famiglie degli ostaggi che sono già tornati e quelle dei loro cari assassinati, come Carmel Gat, uccisa durante la prigionia. Ai partecipanti viene chiesto di venire vestiti di bianco e di sedersi in silenzio sull'asfalto. Niente discorsi, niente parole: solo silenzio condiviso.
Ieri, 19 marzo, i cittadini hanno protestato davanti alla Knesset contro la politica del governo, la ripresa dei combattimenti nella Striscia di Gaza, il fatto che gli ostaggi non siano ancora stati liberati e l'imminente licenziamento di Bar e Baharav-Miara. Allo stesso tempo, donne e uomini sedevano in silenzio in bianco per strada.
Inoltre, gruppi di manifestanti sono entrati in città in auto e si sono divisi in gruppi più piccoli. A ogni gruppo è stata assegnata una destinazione diversa a Gerusalemme. Ogni colonna era composta da circa 30 veicoli che percorrevano lentamente diverse strade per rallentare il traffico. Ad alcuni incroci, i conducenti sono scesi improvvisamente, hanno chiuso le loro auto e sono scomparsi. Questo ha paralizzato il traffico in tutta la città, creando enormi ingorghi e bloccando i trasporti pubblici per diverse ore. La città era bloccata.
Come cittadina preoccupata, partecipo personalmente a tutti i raduni, le marce e le azioni per la restituzione degli ostaggi - soprattutto a Gerusalemme, occasionalmente anche a Tel Aviv. Per me è importante perché voglio essere convinta di aver fatto tutto il possibile per fare la differenza. Per me, rimanere semplicemente a casa non è un'opzione. Le madri, le sorelle, le zie e le cugine hanno bisogno di sentire che non sono sole e che ricevono un sostegno completo. Spesso mi ritrovo a piangere quando riconosco qualcuno e penso ai suoi cari, a quello che stanno passando nei tunnel. Partecipo anche alla veglia delle madri almeno una volta alla settimana. La polizia di solito accompagna queste azioni con comprensione e pazienza. È solo durante le manifestazioni del sabato che gli incontri con la polizia finiscono spesso in modo violento.
Ieri la polizia è stata a lungo tollerante, fino a quando non è arrivato un carro attrezzi per rimuovere una delle auto all'incrocio. I manifestanti hanno cercato di impedirlo, sedendosi sul carro attrezzi e bloccandolo. All'improvviso, un folto gruppo di agenti di polizia e di polizia di frontiera si è unito, gettando i manifestanti sull'asfalto in modo estremamente brutale.
L'operazione è stata tremendamente dura, una donna ha dovuto ricevere cure mediche ed essere portata in ospedale. L'ufficiale di polizia incaricato, uno dei più alti ufficiali sulla scena, non ha mostrato alcuna emozione.
Ora sono seduta a casa e sto cercando di riprendermi da queste scene terribili. Ma fuori ci sono ancora molte persone che non vogliono arrendersi. Alcuni passeranno la notte in tenda. E domani? Domani si andrà avanti..

(Israel Heute, 20 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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USA: si attiva l'unione dei cristiani sostenitori di Israele

WASHINGTON - La rielezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti ha dato slancio alle organizzazioni filo-israeliane. Già in precedenza, nel settembre 2024, diversi gruppi cristiani si erano uniti a Washington, D.C. per dare più peso al loro voto.
  Secondo Luke Moon, uno dei co-fondatori della “Conferenza dei presidenti delle organizzazioni cristiane a sostegno di Israele”, era già chiaro allora che “misure concrete” sarebbero state prese solo dopo le elezioni americane. Allora “la situazione politica sarebbe stata molto più chiara”. Ora si è tenuto un incontro inaugurale a Gerusalemme.

La “CoP”
    Tra i fondatori della “Conferenza dei Presidenti” (CoP) figurano Mario Bramnick, presidente della Coalizione Latina per Israele, Tony Perkins, presidente del Consiglio per la Ricerca Familiare, l'ex membro del Congresso Michele Bachmann e Luke Moon, direttore del Progetto Philos. All'inizio di marzo 2025 si sono incontrati con i presidenti di altre organizzazioni al Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme.
  Bachmann ha spiegato che sostenere Israele dopo il 7 ottobre è un dovere speciale per la comunità cristiana. “Ci troviamo in un momento molto speciale, in cui ho visto più fiorire la comunità cristiana e quella ebraica che mai nella mia vita”, ha detto.
  “I nemici dell'Occidente sanno come unirsi”, ha spiegato Bramnick, riferendosi alle alleanze tra la sinistra e gli islamisti negli Stati Uniti e in Europa. Per questo motivo, è un imperativo del momento che i cristiani evangelici si uniscano. ‘Crediamo che una voce comune sarà una voce forte nei confronti dell'amministrazione Trump, sia a livello legislativo che statale’.
  Moon ha spiegato la sua motivazione per il progetto con i suoi sforzi dopo il massacro di Hamas: “Ho davvero desiderato spesso di non dover visitare ogni singola organizzazione che conosco e dire: ‘Affrontiamo questo insieme’.”

Il modello ebraico
   I cristiani prendono a modello un'altra “conferenza dei presidenti”, quella delle organizzazioni ebraiche. La “Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations”, guidata da William Daroff, è spesso abbreviata in “CoP”. Bramnick ha viaggiato diverse volte in Israele con il predecessore di Daroff, Malcolm Hoenlein. Dalle conversazioni è nata l'idea della “CoP” cristiana.
  “La comunità ebraica rappresenta circa il 2% della popolazione americana”, spiega Bramnick. ‘La comunità cristiana rappresenta circa il 30%. Il potenziale di una tale organizzazione per sostenere con forza uno Stato di Israele sicuro e sovrano è enorme’. Il suo compagno di lotta Moon vede un altro punto a favore della coalizione cristiana rispetto a quella ebraica: “Probabilmente ci sono meno conflitti interni”, dice. Questo perché l'organizzazione ebraica ombrello unisce gruppi politicamente e ideologicamente molto eterogenei, alcuni dei quali hanno una visione critica di Israele.

Gli obiettivi
   La Conferenza cristiana dei presidenti vuole esercitare un'influenza sulla politica statunitense a livello esecutivo, legislativo e statale a favore di Israele. In questo contesto, sottolineano che l'obiettivo non è da ultimo la sovranità israeliana sulla Cisgiordania. Perché tutti gli altri approcci sono falliti. Secondo Bramnick, l'organizzazione vuole “sostenere pienamente tutte le misure” che Israele deve adottare “per bandire il terrorismo dai suoi confini”.
  Inoltre, la “CoP” vuole combattere l'antisemitismo negli Stati Uniti. “Il nostro obiettivo è essere un polo opposto alla Columbia University e a tutte queste università d'élite”, dice Bachmann in riferimento alle proteste anti-israeliane che si svolgono lì. “Vogliamo lavorare con scuole e chiese laiche, ebraiche e cristiane e creare una base informativa su Israele, il popolo ebraico e il diritto alla terra”.

Influenza sul governo Trump
    I cristiani evangelici negli Stati Uniti vedono nel presidente Trump uno strumento di Dio a sostegno di Israele. “Ho letteralmente la sensazione che Dio stia dando a Israele un assegno in bianco su cui può scrivere e sognare di nuovo”, dice Bramnick. “La mano di Dio è su Israele!”
  Con questo atteggiamento, i cristiani evangelici sono stati un importante blocco di elettori per “il presidente più filoisraeliano di tutti i tempi”. Questo sostegno sarà ora ricambiato dai repubblicani. La “CoP” vuole sfruttare questa finestra di opportunità per fornire a Israele tutto l'aiuto possibile.

(Israelnetz, 20 marzo 2025)

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Gerusalemme: due nuove mostre esplorano la storia, l'arte e il misticismo ebraico

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Il Bible Lands Museum di Gerusalemme

Fin dalla sua fondazione nel 1992, il Bible Lands Museum di Gerusalemme ha esplorato la cultura dei popoli menzionati nella Bibbia, tra cui gli antichi Egizi, i Cananei, i Filistei, gli Aramei, gli Ittiti, gli Elamiti, i Fenici e i Persiani, con l'obiettivo di collocare questi popoli nel loro contesto storico.
Di recente, il museo di Givat Ram ha inaugurato due nuove mostre che uniscono storia, arte e misticismo ebraico: “Kuma”, che rende omaggio a un artista che fu anche uno dei soldati israeliani uccisi in combattimento a Gaza, e “Lettere che fluttuano nell’aria”, che esplora il profondo simbolismo dell’alfabeto ebraico nella tradizione ebraica.
Kuma presenta un rotolo illustrato lungo tre metri, creato da Eitan Rosenzweig, un soldato israeliano morto in combattimento il 22 novembre 2023 a Gaza. 
Prima di essere chiamato al servizio militare, Rosenzweig studiò arte in una yeshiva. Ha creato questo rotolo durante la pandemia di COVID-19, combinando simboli, citazioni e figure della Bibbia, del Talmud e della Cabala con riferimenti alla storia ebraica e alla cultura israeliana contemporanea. L'opera è divisa in tre sezioni: la storia biblica antica, l'Olocausto e Israele moderno.
Il nome deriva dalla frase ebraica "Kuma, Mei-Afatzim Vekankantum", che si riferisce agli ingredienti utilizzati per produrre l'inchiostro nei testi sacri. 
La seconda mostra, “Lettere fluttuanti nell’aria”, è stata inaugurata nel febbraio 2025 ed esplora il significato esoterico delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, considerate nella tradizione ebraica i mattoni fondamentali della creazione.
Create dagli artisti russo-israeliani Sergey Bunkov e Tenno Pent Sooster, insieme all'artista digitale Maxim Bunkov, i visitatori possono utilizzare l'app Artivive per vedere le lettere prendere vita nello spazio digitale, un'attrazione particolare per il pubblico più giovane.

(Aurora Israel, 20 marzo 2025)

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Il gioco di scacchi Israele-Siria si muove tra curdi e drusi

di Nina Prenda

Israele in Medio Oriente non ha amici. Al massimo, si può parlare di vicini di casa che non disturbano. Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti negli ultimi anni stanno sembrando tali, ovvero le élite che governano questi Paesi arabi si stanno dimostrando tali. Quanto ai popoli che vi abitano, invece, spesso l’odio contro lo Stato ebraico è diffuso e il malcontento popolare si fa sentire riguardo alla bussola della politica estera; ma poiché non è sempre il popolo a scegliere chi governa bensì la faccenda è in mano a pochi, al momento questo delicato equilibrio sembra reggere. La questione palestinese e la guerra in corso a Gaza – ripresa nella sera del 17 marzo dopo il cessate il fuoco precariamente durevole dal 19 gennaio 2025 e un integrale scambio tra ostaggi e prigionieri fallito – si è rivelata un’ottima miccia per consentire agli animi e alle voci arabe ostili ad Israele di tornare in piazza e farsi sentire, spesso animate da bambini recitanti slogan inneggianti alla morte del nemico.
In questo frammentato e intricato scenario chiamato Medio Oriente, una regione che vive d’incastri politici spesso fortuiti e molti giochi di specchi, un’area di mondo dove niente è come sembra e tutto è il suo contrario, si colloca la Siria di Abu Muhammad al-Jolani. Il Paese esce da un momento estremamente delicato per la sua storia: dopo quasi tre decenni, il dittatore Bashar Al-Assad è caduto al grido di vendetta di Hay’at Tahrir al-Sham (in arabo: Organizzazione della Liberazione del Levante dove per “Levante”, per il momento, si intende l’attuale Stato della Siria). HTS è una formazione armata islamica siriana di orientamento salafita, derivante da una costola di Al-Qaeda insieme alla quale sono confluiti altri gruppi islamici, attiva e coinvolta nella guerra civile siriana, al cui capo c’è Abu Muhammad al-Jolani.
Il cartello islamico è così animato e mai sopito che, dal 2 dicembre 2024, ha iniziato la sua scalata al potere dell’intero Paese marciando verso Aleppo, Hama, Homs, fino alla conquista della capitale Damasco, facendo cadere Bashar al-Assad l’8 dicembre 2024. Al-Jolani è riuscito a far capitolare l’intero Stato – fino a quel momento nelle mani di Assad solo nella forma, giacché importanti erano e rimangono le sacche dell’opposizione – e a conquistare il potere. HTS  non si era ufficialmente presentato al mondo come un nuovo ISIS bensì puntava a proporsi come una nuova organizzazione politica inclusiva e perfino rispettosa delle minoranze. Ma  appena due mesi dopo la nomina a Presidente di Al-Jolani (che da leader ha cambiato nome e ora si fa chiamare Ahmed Al-Sharaa) gli scontri all’interno della Siria tra il nuovo governo e le minoranze sono ferocissimi. Tra gli alawiti e i curdi si contano già migliaia di morti. 

La Siria di Al-Jolani su Israele
   Il giorno dopo la presa di Damasco, il 9 dicembre 2024, la CNN riferiva che Al Jolani aveva voluto rassicurare Stati Uniti e Israele che “la nuova Siria comprende i loro interessi”. L’emittente televisiva sottolineava come, negli anni, Al-Jolani avesse avuto molto tempo a disposizione per affinare la propria strategia comunicativa: per il suo primo discorso a Damasco non a caso ha scelto la Grande moschea degli Omayyadi (non uno studio televisivo né il palazzo presidenziale da cui era fuggito l’oramai ex presidente siriano Assad). 
Il 17 dicembre 2024, in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Times, Abu Mohammad Al-Jolani sottolineava che la Siria “non verrà utilizzata” come base per attacchi contro Israele o qualsiasi altro Stato, tornando a chiedere la fine agli attacchi aerei israeliani sul territorio siriano. “La giustificazione di Israele era la presenza di Hezbollah e delle milizie iraniane – diceva Al Jolani – e quella giustificazione è venuta meno”.Tutt’oggi continuano gli scontri tra jihadisti sciiti di Hezbollah in Libano e jihadisti sunniti di HTS in Siria. 

Israele, curdi e drusi
   La “politica periferica dello Stato ebraico”, ovvero la posizione in politica estera di Israele nella regione che si basa sul guardare oltre il cerchio dei vicini ostili per cercare amici, vede nei drusi e nei curdi alcune risposte. Secondo il Times Of Israel il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar presenta una visione di alleanze con le comunità curde e druse in Medio Oriente, dicendo che le minoranze della regione dovranno stare insieme, nella cerimonia del passaggio di consegne con il ministro uscente Israel Katz. “Il popolo curdo è una grande nazione, una delle grandi nazioni senza indipendenza politica – ha detto Sa’ar. – Sono i nostri alleati naturali”. Chiamando i curdi “vittime dell’oppressione iraniana e turca”, Sa’ar dice che Israele “deve raggiungere e rafforzare i nostri legami con loro”. La regione autonoma del Kurdistan in Iraq è strategicamente situata lungo i confini dell’Iran e della Turchia, il che la rende un potenziale alleato strategicamente potente per Israele.
Per quanto concerne i drusi, la situazione è complessa e coinvolge lo Stato ebraico da vicino poiché questo gruppo etnico-religioso che deriva dall’Islam sciita, abita soprattutto le Alture del Golan (è diffuso tra Israele, Siria, Giordania e Libano). In Israele, i drusi sono circa 150mila e godono della cittadinanza israeliana a pieno titolo, partecipano alla società e, contrariamente alla maggior parte degli arabi con passaporto israeliano, sono soggetti alla leva militare obbligatoria, servendo nell’esercito (Tzahal, IDF) con un forte senso di lealtà verso lo Stato ebraico. È bene sottolineare però che proprio nel Golan, molti drusi non hanno accettato la cittadinanza israeliana e si identificano ancora come siriani. La loro identità è un mix unico formato da una forte appartenenza alla regione araba. Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha recentemente ordinato la consegna di pacchi alimentari contenenti aiuti umanitari per assistere i drusi in Siria. In un’operazione condotta nelle scorse settimane, sono stati consegnati 10mila pacchi di aiuti umanitari ai drusi siriani nelle zone di combattimento. L’operazione è stata condotta in coordinamento e cooperazione con il capo della comunità drusa, lo sceicco Tarif, e in collaborazione con il Consiglio religioso druso, l’esercito israeliano e altri elementi della zona. 
I rapporti tra Israele e Siria sono una partita a scacchi che si gioca su più livelli. La tolleranza che prova la nuova Siria può essere definita settaria. Il rapporto che lega il Paese ad Israele, altrettanto. E molto dipenderà dalla leadership al comando dello Stato ebraico e dal rapporto con le minoranze contese che legano i due Stati.

(Bet Magazine Mosaico, 20 marzo 2025)

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Hamas aveva pianificato una nuova invasione di Israele

Il Ministro della Difesa Israel Katz ha recentemente confermato che Hamas si sta “preparando costantemente” per una nuova invasione di Israele.

Secondo un rapporto di Channel 12 News, Hamas sta radunando le forze e preparando piani per un'invasione di terra delle comunità israeliane durante il cessate il fuoco.
Il gabinetto di sicurezza israeliano ha recentemente tenuto una riunione d'emergenza per discutere le indicazioni secondo cui Hamas starebbe pianificando un altro attacco in stile 7 ottobre, che vedrebbe i terroristi infiltrarsi in Israele.
Il rapporto non dettaglia l'intelligence ottenuta da Israele, ma sottolinea che le osservazioni sono abbastanza significative da causare preoccupazione tra i servizi di sicurezza.
Il ministro della Difesa Israel Katz ha recentemente confermato a un gruppo di residenti delle comunità vicine a Gaza che Hamas si sta “ costantemente preparando” a compiere un'invasione.
Katz ha sottolineato che l'esercito israeliano “ deve colpirli e finire il lavoro completamente in attacco e in difesa” per prevenire un'altra incursione.
Secondo fonti arabe, Hamas ha passato gli ultimi due mesi a riorganizzarsi, in particolare estendendo la sua rete di tunnel, reclutando nuovi agenti per sostituire i terroristi uccisi e consolidando i suoi depositi di armi.
Secondo le stime di Channel 12, Hamas dispone di circa 25.000 uomini armati con un certo livello di addestramento.
L'esercito israeliano ha anche registrato un aumento dei tentativi di attacco alle sue truppe a Gaza da parte di membri di Hamas, suggerendo che potrebbero prepararsi per un altro attacco in stile 7 ottobre.
In una dichiarazione rilasciata martedì, Hamas ha negato di pianificare un attacco contro il sud di Israele e di prendere sempre più di mira i soldati dell'IDF a Gaza.
Le “ affermazioni di Israele secondo cui la resistenza si sarebbe preparata ad attaccare le sue truppe sono pretesti infondati e falsi per giustificare il ritorno alla guerra e l'escalation della sua sanguinosa aggressione”, ha dichiarato Hamas.
Quando Hamas offre un solo soldato, Edan Alexander, in cambio di un cessate il fuoco di 50 giorni, è chiaro che ha un ottimo senso di stabilità e che Israele non lo sta minacciando", ha dichiarato a Channel 12 il dottor Harel Horev, ricercatore dell'Università di Tel Aviv.
Dobbiamo rompere e minare questa situazione, anche se vogliamo un accordo sugli ostaggi”, ha aggiunto.

(World Israel News, 19 marzo 2025)

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Gal Gadot è la prima attrice israeliana a ricevere una stella sulla Walk of Fame

di Michelle Zarfati

Da Rosh Ha’ayin alla Walk of Fame di Hollywood: Gal Gadot ha consolidato il suo posto nella storia come prima attrice israeliana a ricevere una stella sull’iconica Walk of Fame. “Per me è surreale e mi sento la donna più fortunata del mondo in questo momento”, ha detto Gadot durante la cerimonia, avvenuta ieri. “Sono solo una ragazza di una piccola città israeliana non avrei mai potuto immaginare un momento del genere”.
  Combattendo contro l’emozione del momento, Gadot ha riflettuto sul significato di questo traguardo: “Per me, vale più di qualsiasi altro premio perché possiamo condividerlo con il mondo. La stella mi ricorderà che con duro lavoro, passione e un po’ di fede, tutto è possibile. Non ho raggiunto questo momento da sola, ho così tante persone incredibili da ringraziare, che mi hanno sollevato lungo il cammino. Gadot si è poi rivolta al co-protagonista di Fast & Furious, Vin Diesel, e lo ha ringraziato. “Vin, mi hai accolta con amore nella famiglia di Fast & Furious – ha detto – È stato il mio primo film e la tua fiducia mi ha cambiato completamente la vita. Grazie mille per quello che hai fatto per me, grazie saremo per sempre una famiglia”.
  Durante la cerimonia l’attrice si è anche presa un momento per ringraziare i suoi fan, suo marito Jaron, la sua famiglia e le sue figlie, inclusa la più grande, Alma, che ha festeggiato il suo compleanno proprio quel giorno. “Vi amo tutti, siete nel mio cuore”, ha aggiunto in ebraico. Alla cerimonia hanno partecipato membri del team di produzione del prossimo film di Gadot, Snow White, tra cui il regista Marc Webb. Tuttavia, la protagonista Rachel Zegler non era tra i presenti. Tra gli ospiti anche l’attrice israeliana Shira Haas e la regista di Wonder Woman Patty Jenkins.
  Diesel ha aperto l’evento, ricordando il momento in cui ha capito che l’attrice sarebbe stata perfetta per il ruolo di Gisele nella saga di successo. “Ho guardato Gal e ho capito: era quella giusta”, ha detto Diesel. “È volata subito a Los Angeles e il resto è storia”. Mentre si svolgeva la cerimonia a Hollywood, nelle vicinanze si è svolta una piccola protesta pro-palestinese, che ha attirato solo una manciata di dimostranti.

(Shalom, 19 marzo 2025)

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Antisemitismo – La Conferenza a Gerusalemme tra rinunce e conferme

Una nuova defezione si è aggiunta alla lista di ospiti che non parteciperanno alla Conferenza internazionale sulla lotta all’antisemitismo a Gerusalemme, promossa dal ministero israeliano della Diaspora. Dopo il rabbino capo di Gran Bretagna, Ephraim Mirvis, il presidente dello European Jewish Congress, Ariel Muzicant, anche il direttore dell’americana Anti-Defamation League (Adl), Jonathan Greenblatt, ha annunciato che non ci sarà al forum organizzato per il 26 e 27 marzo.
  La decisione di Greenblatt arriva come forma di protesta per la partecipazione di esponenti dell’estrema destra europea. Un portavoce dell’Adl ha spiegato: «Alla luce di alcuni dei partecipanti recentemente annunciati alla conferenza del governo israeliano sull’antisemitismo, Greenblatt ha deciso di non partecipare più all’evento». Una scelta per sottolineare l’imbarazzo, condiviso da diversi leader ebraici internazionali, per l’apertura della Conferenza a partiti populisti e nazionalisti europei, alcuni dei quali in passato hanno espresso posizioni controverse sull’antisemitismo e la Shoah.
  Muzicant, presidente dell’European Jewish Congress, è stato tra i più critici dell’iniziativa del governo israeliano. Anche Jonathan Arfi, presidente del Crif (Conseil Représentatif des Institutions Juives de France), ha espresso la sua preoccupazione. «C’è chi immagina che in questo modo si possa alleggerire l’isolamento politico e diplomatico di Israele. Ma in pratica il risultato sarà l’opposto: si intensificherà la demonizzazione di Israele e degli ebrei nel mondo, senza contare che questa scelta è in totale contraddizione con la politica delle organizzazioni ebraiche nei confronti dei partiti populisti europei».
  La lista degli ospiti contestati include Jordan Bardella, presidente di Rassemblement National (RN), distaccatosi dalle posizioni di Jean-Marie Le Pen, il politico francese negazionista e antisemita che fondò il Front National, poi trasformatosi in RN, partito più votato in Francia alle ultime elezioni; Marion Maréchal, eurodeputata francese del partito di estrema destra Identity–Liberties e nipote di Le Pen; Hermann Tertsch, eurodeputato spagnolo del partito nazionalista Vox; Charlie Weimers, del partito svedese di estrema destra Democratici Svedesi, parte della coalizione al governo a Stoccolma, e Kinga Gál, del partito ungherese Fidesz, del premier Viktor Orbán.
  Per Natan Sharansky, ex dissidente sovietico e statista israeliano, le critiche sono comprensibili, ma è necessario andare oltre. «È importante per la lotta contro l’antisemitismo includere tutti gli schieramenti politici, da sinistra a destra. Coloro che continuano a sostenere posizioni antisemite ovviamente non hanno posto nelle conferenze contro l’antisemitismo. Tuttavia, chi afferma di aver cambiato idea nei confronti degli ebrei merita di essere ascoltato», ha spiegato Sharansky, tra i relatori della Conferenza a Gerusalemme. La due giorni prevede interventi del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, del presidente israeliano Isaac Herzog, del ministro Chikli e del presidente argentino Javier Milei.

(moked, 19 marzo 2025)

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La guerra d’Israele

Parla Mordechai Kedar: “Hamas vuole tenersi per sempre alcuni ostaggi ed è pronta a sacrificare tutta Gaza per la sua guerra”. La realtà di Gaza è nel ricatto del gruppo terroristico che, vistosi con le spalle al muro, si comporta esattamente come la Germania nazista: sacrifica tutto quello che ha piuttosto che dichiarare la sconfitta. Israele, per vincere, deve fare una sola cosa: obbligarli alla resa totale.

di Giulio Meotti

ROMA - Nella prima ondata di attacchi dall’inizio del cessate il fuoco il 19 gennaio, martedì mattina Israele ha iniziato a condurre una serie di raid aerei su vasta scala a Gaza contro comandanti di Hamas e alti dirigenti politici del movimento islamico. Ucciso il capo del comitato amministrativo di Gaza, Issam al Da’alis, e altri leader del movimento islamista, così come il portavoce del Jihad islamico, Abu Hamza. Il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, ha detto: “Nelle ultime due settimane e mezza, abbiamo raggiunto un punto morto: senza nostri attacchi né ritorno degli ostaggi, e questa è una cosa che Israele non può accettare. Il ritorno ai combattimenti è una continuazione del nostro impegno per raggiungere gli obiettivi della guerra”.
  Hamas ha preso tempo dal primo marzo, quando è terminata la prima fase della tregua, continuando a riarmarsi senza restituire un solo ostaggio, né in vita né deceduto (su 59 ostaggi rimasti a Gaza, si ritiene che 22 siano ancora vivi). Hamas si è rifiutata di rilasciare altri ostaggi il primo marzo, l’8 marzo e di nuovo il 15 (a oggi avrebbe dovuto rilasciarne nove). Nel frattempo, Hamas ha rifiutato le proposte dell’inviato statunitense Steve Witkoff, accettate invece da Israele. L’Hostages and Missing Families Forum accusa il governo di “aver scelto di rinunciare alla vita degli ostaggi”. “La più grande paura delle famiglie, degli ostaggi e dei cittadini israeliani si è realizzata”. Molti kibbutz al confine con Gaza sono di nuovo in corso di evacuazione preventiva.
  Gli attacchi aerei sono progettati non solo per spingere Hamas a cedere gli ostaggi, ma anche per degradare le sue capacità militari, dopo che è uscita la stima dell’intelligence secondo cui il gruppo terroristico è tornato a una forza di 25 mila uomini e il Jihad islamico a cinquemila. Elementi noti alle Forze di Difesa israeliane. Ma finché c’era la speranza di arrivare a un accordo sugli ostaggi, Israele si era astenuto da attacchi. Ora la situazione è cambiata. E al governo torna la destra di Itamar Ben-Gvir, che aveva posto come condizione la ripresa della guerra.
  Hamas ha riferito di quattrocento morti nei raid, sebbene non c’è modo di verificare i numeri o di distinguere tra terroristi e civili dall’inizio della guerra. L’attacco è stato coordinato con gli Stati Uniti e sincronizzato con gli attacchi aerei americani contro gli houthi dello Yemen. “Siamo tornati a combattere a Gaza alla luce del rifiuto di Hamas di rilasciare i rapiti e delle minacce a soldati e comunità israeliane”, ha detto il ministro della Difesa Israel Katz. “La decisione di attaccare è un accordo tra l’Amministrazione Trump e il governo di Benjamin Netanyahu per sbarazzarsi dei tentacoli della piovra iraniana”, dice al Foglio Mordechai Kedar, accademico, tra i massimi esperti di geopolitica mediorientale e a lungo nelle Forze armate (è ancora colonnello della Riserva). “Gli americani attaccano in Yemen e Israele a Gaza”.
  Secondo Kedar, “quando l’Iran sarà privato dei suoi proxies, come in Iraq, Siria e Libano, sarà più facile piegarlo anche nelle sue ambizioni nucleari. Il messaggio da Gaza è rivolto all’Iran: questo accadrà a voi se non vi arrenderete. Israele capisce che Hamas vuole solo prendere tempo per riprendersi dal 7 ottobre e farlo di nuovo. Israele sa che Hamas non può rimanere al potere”. Cosa succederà ora dipende da Hamas: “Se rilascia gli ostaggi, la guerra si ferma di nuovo. Ma non consentiremo a Hamas, che è come al Qaida e Isis, di vivere accanto a noi. Fanno parte della stessa guerra jihadista. Usano la popolazione per proteggere se stessi e non hanno alcuna cura del loro popolo. Tutti quelli di Gaza possono essere uccisi nella guerra a Israele. In occidente non capite che dall’inizio della guerra, Hamas non ha mai dato una lista degli ostaggi, chi è vivo e chi no. Tutti i numeri che girano sono israeliani. La ragione è che Hamas vuole tenere alcuni ostaggi con sé per sempre, in modo che la guerra non riprenderà mai. Si prendono un vantaggio sulla psicologia israeliana, che conoscono molto bene. Lo slogan ‘rilasciate tutti gli ostaggi’ è senza significato. Nessuno qui sa chi sono, se sono vivi o morti”. In occidente però la guerra di Israele è orfana nell’opinione pubblica. “All’occidente dico: quello che succede a Gaza fa parte delle atrocità nel mondo arabo”, conclude Kedar. “Guardate il massacro in Siria con gli alawiti, in Yemen, in Sudan, in Libano, in Iraq. Hamas non ha alcun interesse su Gaza, è la cultura del mondo arabo islamico, ma gli europei non lo capiscono. L’Europa pensa tutto attraverso lenti europee, ovvero diritti e vita umana. Ma qui in medio oriente, diritti e vita sono al fondo delle società e dei loro capi. Sacrificheranno sempre il loro popolo per i loro obiettivi: gli sciiti vogliono dominare il mondo islamico come era fino al VII secolo e i sunniti il resto del mondo. E Israele è un ostacolo sul loro cammino. E se dovesse cadere Israele, l’Europa sarebbe la prossima. Ricordatevelo bene”.

Il Foglio, 19 marzo 2025)

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Arriva la primavera in Israele

E con essa il fiore Italia Valeriana sulle colline di Gerusalemme

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La valeriana è un genere di piante da fiore della famiglia delle Caprifoliaceae, i cui membri sono comunemente noti come valeriane. Sono piante erbacee perenni con radici legnose e fiori a forma di cupola.
La valeriana italiana è una specie di questa famiglia, che cresce in Israele ma anche in tutta la regione del Mediterraneo orientale, in Turchia, Bulgaria e Grecia.
Oltre al suo caratteristico stelo singolo e ai fiori rosa, che per la loro forma ricordano a molti i fuochi d'artificio, ciò che davvero contraddistingue questo fiore è il suo profumo.
Sebbene il suo profumo sia intenso e caratteristico, molti lo descrivono come sgradevole. Il suo forte aroma, infatti, ha proprietà stimolanti e, in passato, veniva utilizzato in campo medico: i paramedici erano soliti portare con sé piccole boccette con questo profumo per rianimare le persone svenute, poiché il suo forte profumo le faceva reagire rapidamente e riprendere conoscenza.
Nonostante l'odore, la valeriana italiana ha proprietà medicinali ed è coltivata in Europa per scopi terapeutici.
In Israele la sua presenza si estende a diverse regioni, in particolare sul Monte Carmelo, sul Monte Gilboa, in Galilea e sulle colline di Gerusalemme, dove contribuisce alla diversità floreale della regione.
Con l'arrivo della primavera, uno spettacolo floreale si prepara a stupire chi viaggia attraverso queste regioni nei mesi da febbraio ad aprile.

(Aurora Israel, 19 marzo 2025)

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Benvenuti a Utopia – lo stato ebraico immaginato dal giudice Aharon Barak

23 anni dopo aver posto le basi per un regime in cui viene stabilita la supremazia dei giudici sugli eletti, Aharon Barak può finalmente sorridere. La Corte Suprema, il Procuratore Generale, lo Shin Bet e i vertici dell’IDF hanno creato lo stato che aveva previsto nella sua visione.

di Irit Linur

Nel marzo 2002, nel pieno della seconda Intifada, il presidente della Corte Suprema Aharon Barak tenne un discorso alla Knesset, per commemorare i 30 anni dell’Ufficio del Difensore Civico. Nel suo breve discorso delineò la sua utopia. Riconobbe il terrorismo dilagante ma chiarì: “Spesso la democrazia ha combattuto con una delle sue mani legate dietro la schiena“, e questo è anche il suo consiglio per affrontare l’ondata attuale. Riconobbe che la democrazia è il governo della maggioranza ma si preoccupò di bilanciare: “Non c’è democrazia senza il governo della maggioranza e non c’è democrazia senza diritti per la minoranza e per l’individuo“. Barak si rammaricò del fatto che non abbiamo una costituzione, poiché “non è appropriato che una semplice maggioranza dei membri della Knesset possa introdurre un cambiamento sostanziale nella struttura del nostro sistema di governo“.
Per questo ci sono i tribunali, che devono esercitare il controllo giudiziario sulla legislazione (cioè, approvare, modificare o invalidare le leggi), e spiegò ulteriormente: “Si deve presumere che parte delle controversie pubbliche che ci divideranno nei prossimi anni troveranno la loro strada nei tribunali. Come accade nelle democrazie. Sempre più problemi politici si spogliano della loro forma politica e assumono una forma legale e vengono portati alla decisione dei tribunali“, o in breve: tutto è giudicabile, il tribunale è l’arbitro finale su ogni questione, sia essa legale o che si sia spogliata (o sia stata spogliata) del suo abito politico – cioè, sottratta al pubblico attraverso i suoi rappresentanti eletti e trasferita nelle mani dei giudici.
Perché si dovrebbe espropriare il diritto della maggioranza democratica di decidere su questioni che devono essere rivestite di veste giuridica? La supremazia dei giudici, ovviamente: “In effetti, la magistratura non è un lavoro, è uno stile di vita. Uno stile di vita che non prevede la ricerca di ricchezza materiale, e non c’è ricerca di pubblicità e relazioni pubbliche. È uno stile di vita basato sulla ricchezza spirituale; uno stile di vita che include una ricerca obiettiva e neutrale della verità. (…) Non una decisione secondo le correnti passeggere (diciamo, le elezioni), ma un percorso coerente basato su concezioni profonde e valori fondamentali“. In totale contrasto con i rappresentanti eletti del pubblico, che purtroppo assomigliano al pubblico – cioè, privi di concezioni profonde e valori fondamentali.
La visione utopica di Barak ha tardato a realizzarsi, ma siamo stati fortunati e si è concretizzata. Al controllo giudiziario sulla democrazia – cioè, il diritto all’ultima parola – si è aggiunto anche il controllo militare, il controllo dello Shin Bet, e naturalmente il controllo del Procuratore Generale – che non è un giudice, ma Barak stesso ha conferito a questo ruolo le qualità speciali del giudice.
Ci si sarebbe potuti aspettare che nel corso dei decenni in cui si è consolidata qui l’utopia di Barak, essa avrebbe funzionato senza inutili attriti. La supervisione dello stato affidata a una specie superumana come i giudici dovrebbe garantire ordine, prosperità, democrazia e vittoria in guerra anche con una mano legata dietro la schiena. Purtroppo, i risultati sono un po’ preoccupanti. Soprattutto quando altre istituzioni governative, non elette, hanno seguito la strada di Barak e si sono autonominate al di sopra dei rappresentanti eletti, al di sopra di ciò che viene disgustosamente chiamato “considerazioni politiche”. Gli esempi si accumulano uno dopo l’altro:
Suleiman Maswadeh, reporter della televisione di stato (anche questo non è un lavoro, ma uno stile di vita), ha riferito questa settimana di un “sospetto nel gabinetto: il ministro Smotrich sta utilizzando una talpa all’interno dell’IDF. Fonti di sicurezza e politiche hanno testimoniato che il ministro era solito arrivare alle riunioni con informazioni non precedentemente riportate nel gabinetto“. Il rapporto ha ricevuto reazioni scioccate dai cittadini dell’utopia, come se Smotrich fosse un agente straniero e non uno dei responsabili della gestione dei combattimenti che cerca di svolgere il suo lavoro nel miglior modo possibile, non accontentandosi di dosi misurate di informazioni preparate per lui dall’esercito. È possibile che il ministro abbia saltato le procedure convenzionali (o forse è uno stile di vita che semplicemente conosce persone che servono nell’esercito e ci parla a volte), ma è sorprendente che questo fatto sia molto più scioccante del sospetto non del tutto infondato che l’esercito stia nascondendo informazioni rilevanti al governo.
Anche lo Shin Bet gode della protezione della torre d’avorio della Corte Suprema. Ma non temete, nel suo discorso Barak ha chiarito che “il giudice si trova a volte in una torre d’avorio, ma è una torre nelle montagne di Gerusalemme e non sull’Olimpo greco“. Forse è per questo che sia il reporter di Canale 12 Yaron Avraham che Sima Kadmon di “Yedioth Ahronoth” hanno elogiato il capo dello Shin Bet Ronen Bar per essersi astenuto dal pubblicare informazioni imbarazzanti sul Primo Ministro e sulla sua famiglia. Anche se potrebbe essere che a un certo punto la pazienza di Bar si esaurisca. “Netanyahu“, ha scritto Kadmon, “sta conducendo una campagna molto infame contro Ronen Bar, ma farebbe bene a pensarci due volte prima di rompere i ponti e sollevare contro di lui i capi dello Shin Bet di tutte le generazioni. Dopo tutto, si tratta di persone che sanno una cosa o due su di lui, sul suo sostegno vitale e sul figlio che gli è caro. Queste informazioni personali sensibili sono conservate in una cassaforte virtuale, il che aumenta la probabilità di un equilibrio del terrore nucleare“. Il vice capo dello Shin Bet ed ex membro della Knesset Israel Hasson ha sottolineato il punto: “Ascolti, signor Primo Ministro, lo Shin Bet conosce tutti i suoi segreti. Una parola è trapelata? Se ci fosse stata una giunta, sarebbe rimasto un secondo sulla sua sedia?“. La risposta è “se il governo esiste per grazia del sistema di sicurezza – allora si tratta di una Junta“.
Il Primo Ministro ha l’autorità legale di licenziare il capo dello Shin Bet. Bar, a quanto pare, non è d’accordo. Vuole determinare la data del suo pensionamento (dopo il ritorno dell’ultimo ostaggio) e anche nominare il suo successore. È stato nominato per svolgere un certo lavoro (e ha fallito in questo), e non grazie a informazioni imbarazzanti che lo Shin Bet ha raccolto sul Primo Ministro e sui suoi familiari. E se il Primo Ministro decidesse di licenziarlo – l’ufficio del Procuratore Generale è già pronto a impedire all’abominio che Barak ha chiamato “maggioranza semplice” di realizzare il piano.
In risposta alla richiesta dell’attivista di sinistra Gilad Sher, il vice procuratore generale Gil Limon ha scritto: “Se si considererà tale procedura, il livello politico dovrà sottoporre la questione a un esame preliminare del consulente legale del governo, prima della sua attuazione“. E se il Primo Ministro insistesse per licenziare Bar – si può presumere che la Corte Suprema sia già pronta con un’ordinanza condizionale. È chiaro perché: in un’utopia governata da giudici e non dal pubblico attraverso i suoi rappresentanti eletti – si devono garantire libertà extra anche allo Shin Bet per mantenere il suo potere. Qualcuno deve tenere tutto sotto controllo. Anche la più bella delle utopie ha bisogno di un braccio esecutivo forte.
(da Israel Hayom, 12/3/2025)

(Kolòt - Morashà, 19 marzo 2025)

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Israele riprende gli attacchi a Gaza

Israele ha ripreso i bombardamenti mentre le famiglie dei rapiti accusano il Governo di aver scelto di abbandonare i loro cari

Il fragile cessate il fuoco tra Israele e Hamas è crollato martedì mattina dopo circa due mesi, quando l’IDF ha lanciato decine di attacchi in tutta Gaza dopo aver ricevuto l’ordine dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “agire con la forza” contro il gruppo terroristico a causa di quello che il premier ha definito il suo ripetuto rifiuto di rilasciare gli ostaggi israeliani.
L’ufficio di Netanyahu ha affermato che la decisione di riprendere gli attacchi poco dopo la mezzanotte di martedì “è seguita al ripetuto rifiuto di Hamas di rilasciare i nostri ostaggi, nonché al rifiuto di tutte le proposte ricevute dall’inviato speciale degli Stati Uniti presso l’inviato per il Medio Oriente Steve Witkoff e dai mediatori”.
Hamas ha insistito per attenersi ai termini originali dell’accordo, che avrebbe dovuto entrare nella sua seconda fase all’inizio del mese. Quella fase prevedeva che Israele si ritirasse completamente da Gaza e accettasse di porre fine definitivamente alla guerra in cambio del rilascio degli ostaggi ancora in vita. Mentre Israele ha firmato l’accordo, Netanyahu ha a lungo insistito sul fatto che Israele non porrà fine alla guerra finché le capacità di governo e militari di Hamas non saranno state distrutte.
Di conseguenza, Israele si è rifiutato persino di tenere colloqui sui termini della fase due, che avrebbe dovuto iniziare il 3 febbraio.
Ciononostante, il cessate il fuoco è rimasto in vigore per circa due settimane e mezza dopo la conclusione della prima fase, mentre i mediatori lavoravano per concordare nuove condizioni per l’estensione della tregua.
Accettando l’avversione di Israele alla fase due, Witkoff ha presentato la scorsa settimana una proposta ponte che avrebbe visto la fase uno estesa per diverse settimane durante le quali sarebbero stati rilasciati cinque ostaggi viventi. L’inviato degli Stati Uniti ha affermato domenica che la risposta di Hamas all’offerta era un “non-starter” e ha avvertito delle conseguenze imminenti se il gruppo terroristico non avesse cambiato il suo approccio.
La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha dichiarato a Fox News che Israele si è consultato con l’amministrazione Trump prima di lanciare gli attacchi di martedì.

Lo sgomento del forum degli ostaggi
   L’Hostages and Missing Families Forum rilascia una dichiarazione in seguito alla ripresa degli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, accusando il governo di “aver scelto di rinunciare alla vita degli ostaggi”.
“La più grande paura delle famiglie, degli ostaggi e dei cittadini israeliani si è realizzata”, si legge. “Siamo inorriditi, furiosi e spaventati dall’intenzionale interruzione del processo di ritorno dei nostri cari dalla terribile prigionia di Hamas”.
“Il ritorno ai combattimenti prima del ritorno dell’ultimo ostaggio ci costerà i 59 ostaggi che sono ancora a Gaza e che possono ancora essere salvati e riportati indietro”, afferma il forum, aggiungendo che una dichiarazione secondo cui la mossa mira a riportare indietro gli ostaggi è “un completo depistaggio” poiché “la pressione militare mette in pericolo ostaggi e soldati”.
Dei 59, si ritiene che solo 24 siano ancora vivi. Le famiglie degli altri stanno cercando di far tornare i loro cari per poterli salutare e seppellire come si deve.
“Il cessate il fuoco deve essere ripreso. Molte vite sono in gioco”, conclude il forum, chiedendo al presidente degli Stati Uniti Donald Trump di continuare a lavorare per la liberazione di tutti i rapiti. “Non ci sarà sicurezza, nessuna vittoria e nessuna redenzione finché l’ultimo ostaggio non tornerà a casa”.

(Rights Reporter, 18 marzo 2025)

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Benvenuti all'inferno?

L'attacco aereo israeliano ha colpito la Striscia di Gaza all'improvviso, nel bel mezzo del Ramadan.

di Aviel Schneider

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Fumo innalzato dopo un attacco aereo israeliano a Gaza City, 18 marzo 2025.

GERUSALEMME - L'aviazione israeliana sta effettuando attacchi massicci in tutta la Striscia di Gaza. I vertici della sicurezza sottolineano che si tratta di un'operazione aerea su larga scala, pianificata in anticipo e approvata dai vertici militari e politici. Allo stesso tempo, le truppe di terra sono pronte per un'eventuale operazione. Nella Striscia di Gaza sono stati attaccati numerosi obiettivi, tra cui comandanti di alto livello di Hamas, attivisti dell'organizzazione terroristica, sistemi di tunnel e depositi di armi. L'operazione è complessa e progettata per colpire il maggior numero possibile di obiettivi strategici contemporaneamente, al fine di indebolire l'efficacia di Hamas. Secondo i resoconti palestinesi, più di 300 persone sono state uccise finora dagli attacchi dell'IDF. Nelle reti e nei media palestinesi, Trump è accusato di aver “aperto le porte dell'inferno”. Un palestinese in fuga dalle bombe israeliane ha commentato: “Avrebbe dovuto almeno aspettare fino a dopo il Ramadan”.
Il cessate il fuoco è finito. I palestinesi stanno fuggendo dalle aree contese. Le Forze di Difesa israeliane hanno emesso un ordine di evacuazione urgente per i residenti del nord della Striscia di Gaza per cercare sicurezza dagli attacchi mirati. L'evacuazione dell'area lungo il confine con Israele indica una possibile espansione della zona di sicurezza (zona rossa) che Israele sta pianificando nella Striscia di Gaza. Il valico di Rafah verso il confine egiziano è stato chiuso all'uscita di malati e feriti dopo essere stato aperto per circa 40 giorni. Ciò significa che i palestinesi stanno perdendo la presunta pace del Ramadan - un risultato diretto della politica di Hamas.
Il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha dichiarato all'emittente araba Al-Arabi: “Israele ha ripreso la guerra di annientamento e questo avrà grandi conseguenze. Non solleviamo il governo degli Stati Uniti dalle sue responsabilità e crediamo che il presidente americano Donald Trump sia personalmente coinvolto nell'escalation - soprattutto dopo la dichiarazione ufficiale della Casa Bianca secondo cui ci sono state consultazioni sugli attacchi a Gaza in precedenza”. Hamas ha anche minacciato di giustiziare gli ostaggi israeliani se Israele avesse continuato ad attaccare la Striscia di Gaza.
L'inaspettato attacco alla Striscia di Gaza ha lasciato le famiglie degli ostaggi in preda alla paura. I loro cari sono ancora detenuti a Gaza e il massiccio bombardamento potrebbe mettere a repentaglio le loro vite. Le famiglie temono che le possibilità di restituire tutti i 59 ostaggi, vivi e morti, detenuti a Gaza da 529 giorni, stiano diminuendo. Un post emotivo di Lishi Miran-Lavi, moglie del rapito Omri Miran, su X (ex Twitter) ha fatto scalpore: Ha condiviso un'emoji con il cuore spezzato in risposta a un post del fratello Moshe Emilio Lavi, che aveva usato lo stesso segno. Le famiglie stanno ora cercando disperatamente un dialogo con la leadership politica di Gerusalemme. La situazione è insopportabile per loro e per i loro parenti in cattività.
Il ministro della Difesa Israel Katz ha sottolineato che:
"Se Hamas non rilascerà tutti gli ostaggi, le porte dell'inferno si apriranno sulla Striscia di Gaza e gli assassini e gli stupratori di Hamas si troveranno ad affrontare una potenza di fuoco mai vista prima. Non smetteremo di combattere finché non saranno restituiti tutti gli ostaggi e non saranno raggiunti tutti gli obiettivi di guerra”.
Tuttavia, parole così concise rischiano di suscitare aspettative che potrebbero non essere soddisfatte.
Gli ambienti della sicurezza hanno annunciato che i nuovi attacchi alla Striscia di Gaza non sono limitati nel tempo. “D'ora in poi Israele agirà contro Hamas con una forza militare sempre maggiore”, hanno dichiarato gli ambienti governativi. La ripresa dell'offensiva coincide con gli attacchi militari statunitensi contro obiettivi Houthi in Yemen. Tra l'altro, gli Houthi sono responsabili del terzo attacco a una portaerei americana. Questo avviene nonostante le minacce di Trump. Ignorando gli avvertimenti pubblici del Presidente Trump e del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, gli Houthi affermano apertamente di aver colpito la USS Harry S. Truman con due missili e due droni come rappresaglia per gli attacchi statunitensi a Sanaa. Hanno anche attaccato un cacciatorpediniere americano con un missile da crociera e quattro droni.
Israele si sta preparando a possibili attacchi degli Houthi con missili balistici e droni, soprattutto dopo la ripresa degli attacchi aerei alle postazioni di Hamas. La palla è ora nel campo di Trump: ha annunciato che sarà l'Iran a pagarne le conseguenze se gli Houthi continueranno a colpire obiettivi israeliani e americani. Come sappiamo, le minacce di Trump non sono parole vuote e questo potrebbe essere un segnale importante anche per Israele.
L'ultima escalation ha spinto anche il Segretario di Stato americano Marco Rubio a lanciare un chiaro avvertimento: “Gli Houthi esistono nello Yemen e controllano parti del Paese. Sostengono di essere il governo legittimo, ma non lo sono. Negli ultimi 18 mesi, gli Houthi hanno compiuto 174 attacchi a navi militari. Non sarebbero in grado di farlo senza il sostegno dell'Iran. L'Iran fornisce agli Houthi tecnologia sofisticata per i droni e sostegno finanziario. Senza l'aiuto di Teheran, non sarebbero una seria minaccia. L'Iran ha creato questo mostro e ora deve assumersene la responsabilità”.
L'intensificarsi delle minacce del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump contro l'Iran e il dispiegamento di forze navali americane in Medio Oriente stanno causando disordini a livello internazionale, soprattutto a Teheran. “Nessuno deve essere ingannato: Qualsiasi ulteriore attacco da parte degli Huthi sarà accolto con grande violenza, e non c'è alcuna garanzia che questa violenza si fermi”, ha avvertito Trump in una dichiarazione tagliente sulla sua piattaforma Truth Social.
L'esperto di Iran Benny Sabti dell'Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (INSS) ha spiegato ai media israeliani: “Gli iraniani sono sorpresi dalla velocità con cui Trump sta agendo. Si aspettavano minacce, ma non l'immediato dispiegamento di truppe e pattuglie di droni sulle coste iraniane. Se questo sviluppo continua, potrebbe cambiare in modo permanente il Medio Oriente”.

(Israel Heute, 18 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Fine dello stallo?

Il raid aereo compiuto dall’IDF stanotte a Gaza dopo circa due mesi di tregua, sigla la sua fine e certifica ciò che era palese fin da prima; che Hamas è ancora pienamente operativo all’interno della Striscia e in grado di controllare il territorio nonostante quindici mesi di guerra. Con la tregua finalizzata alla liberazione degli ostaggi ancora detenuti ha acquisito solo tempo per ricompattarsi.
  Certifica ulteriormente che la strategia di guerra condotta fino ad oggi non ha raggiunto lo scopo prefissato e molteplici volte dichiarato da Netanyahu, lo smantellamento operativo dell’organizzazione terroristica e dei suoi addentellati.
  A gennaio, Steven Witkoff, l’inviato per il Medio Oriente scelto da Donald Trump, aveva sostanzialmente imposto a Netanyahu di accettare un accordo con Hamas finalizzato alla liberazione degli ostaggi. Quell’accordo, che ha fruttato il rilascio di altri ostaggi liberati nel contesto di orrendi spettacoli inscenati da Hamas, non ha e non poteva che lasciare accantonato il problema principale, la presenza di quest’ultimo a Gaza e il futuro dell’enclave.
  Appare chiaro che non esistono soluzioni che possano conciliare la liberazione di tutti gli ostaggi rapiti da Hamas durante l’eccidio del 7 ottobre 2023 e la sua eliminazione.
  Fin dal principio Hamas ha utilizzato gli ostaggi come sua principale salvaguardia e arma di ricatto nei confronti di Israele. Se la priorità del governo israeliano e dell’appartato militare è quella di sconfiggere Hamas, non resta che prendere atto, come è stato evidente fin dal principio, che la sorte degli ostaggi, dolorosamente, diventa secondaria, altresì, la situazione non può che perdurare in questo modo.
  I fatti ci dicono che la guerra contro Hamas cominciata nell’ottobre del 2023, Israele non l’ha ancora vinta. Hamas non ha alcuna intenzione di lasciare Gaza, e il suoi effettivi, pur essendo stati fortemente diminuiti, si sono rimpinguati. Secondo i Servizi americani le nuove reclute di Hamas ammonterebbero tra i dieci e i quindicimila effettivi.
  Per vincere la guerra Israele ha bisogno dell’appoggio fermo e risoluto dell’Amministrazione Trump. In questo senso la dichiarazione del portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, Brian Hughes, secondo il quale “Hamas avrebbe potuto rilasciare gli ostaggi per estendere il cessate il fuoco, invece ha scelto il rifiuto e la guerra”, va nella direzione giusta. Bisognerà, tuttavia, vedere fino a che punto Washington sarà disposta ad appoggiare Israele e fino a che punto Israele vorrà andare avanti, modificare la propria strategia, dandosi come obiettivo definitivo la sconfitta di Hamas, se no, nel secondo anniversario del 7 ottobre, ci troveremo ancora in uno stallo.

(L'informale, 18 marzo 2025)

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Un pericoloso braccio di ferro nella politica israeliana – Bar contro Bibi

di Ugo Volli

La guerra continua
   Anche se al momento non si combattono grandi battaglie, Israele si trova sempre in guerra, con pericoli gravi provenienti da tutte le direzioni. Le trattative per prolungare la tregua sono fallite (parola di Hamas) e il momento della ripresa della guerra a Gaza sembra sempre più vicino; gli Houti ricominciano a cercare di bombardare Israele dallo Yemen; il caos infuria fra Siria e Libano; l’Iran corre verso l’armamento atomico; in Giudea e Samaria i terroristi cercano di riorganizzarsi e sono necessarie continue operazioni militari per evitare che si impadroniscano del territorio.

Una crisi politica paradossale
   Ma la politica israeliana non riesce a tenere l’unità nazionale necessaria per la guerra e rischia seriamente di piombare in una nuova crisi paragonabile a quella provocata nell’anno precedente al 7 ottobre dall’opposizione violenta e senza compromessi alla riforma giudiziaria: una spaccatura verticale della società così profonda da paralizzare l’istinto di sopravvivenza. L’occasione dello scontro è molto paradossale: l’opposizione politica e sociale si sta mobilitando con manifestazioni di piazza, ricorsi alla corte suprema, scioperi dei rettori delle università, scuole chiuse dai presidi per favorire le manifestazioni, per impedire al governo di licenziare Ronen Bar, il direttore del servizio segreto interno, lo Shin Bet (o Shabak come vocalizzano la sigla gli israeliani). Bisogna dire che lo Shin Bet è del tutto diverso dal Mossad che ha invece competenza sulle operazioni all’estero e che non ha responsabilità per il 7 ottobre, ma anzi è stato fondamentale in questa guerra, eliminando i quadri di Hezbollah e Hamas con i cercapersone esplosivi o direttamente.

Il fallimento e le dimissioni
   Il paradosso sta nel fatto che non solo la legge che regola il servizio preveda esplicitamente la possibilità che il governo sfiduci il suo capo, ma che lo stesso Shabak in un’inchiesta interna resa pubblica nei giorni scorsi, ha ammesso il suo gravissimo fallimento fra le cause immediate dell’incapacità di Israele di prevedere l’attacco terrorista del 7 ottobre e di difendersene subito, ma che lo stesso Bar ha annunciato l’intenzione di dare le dimissioni per questa sua pesantissima responsabilità. Sennonché poi ha posto pubbliche condizioni a queste sue dimissioni. Per andarsene Bar vuole scegliere lui stesso il suo successore (cosa che nessun funzionario pubblico al mondo ha mai potuto fare, figuriamoci il responsabile fallito di un servizio segreto), Vuole inoltre che per accertare le responsabilità del 7 ottobre, oltre all’inchiesta del controllore pubblico, che in Israele è una figura importante e rispettata, a quella della sua commissione e a quelle di altri corpi militari, che nelle ultime settimane hanno portato alle dimissioni di ufficiali molto meno responsabili di lui, dal capo di stato maggiore delle forze armate al capo della sua divisione meridionale, a quello dei servizi militari fino al portavoce dell’esercito, ci sia un’indagine complessiva (che naturalmente contestualizzerebbe la sua responsabilità fra i tanti errori che hanno reso possibile l’attacco terrorista). È ovviamente una richiesta giusta, anche se non si vede perché si permetta di farlo uno dei principali responsabili del disastro.

L’attacco al governo
   Bar pretende però che si nomini non una commissione parlamentare come propone il governo, neutrale perché costituita con membri scelti da maggioranza e opposizione, ma una “commissione di Stato” una formula di inchiesta usata qualche volta in passato, i cui membri sono tradizionalmente scelti dal presidente della Corte Suprema. Ora si dà il caso che questo presidente, Isaac Amit, sia stato appena nominato con un colpo di mano contro il parere del governo, che lo riteneva improponibile in quanto portatore di un conflitto di interessi e di comportamenti scorretti, tanto che Netanyahu e il ministro della Giustizia Levin hanno rifiutato di partecipare alla cerimonia della sua presa di servizio. Volerlo rendere arbitro di una commissione di inchiesta significa invitarlo a vendicarsi, cioè cercare di scaricare tutte le responsabilità sul governo. Del resto un intero paragrafo della relazione preparata da Bar sulle responsabilità del suo istituto non riguardava l’indagine di quel che era successo nei giorni e nelle ore precedenti all’attacco terrorista. Esso cercava di attribuire le responsabilità del disastro non ai fallimenti informativi, all’impreparazione dell’esercito, alla lentezza delle reazioni militari, alla censura sugli indizi dell’operazione terroristica denunciati invano anche da molti dipendenti di Bar, ma di scaricarli sulle politiche generali da lungo tempo attuate da Israele (e condivise dal governo attuale ma anche da quello precedente gestito dall’attuale opposizione, oltre che dai servizi di informazione e dalle forze armate) che certamente avevano sottovalutato il pericolo di Hamas ed erano cadute nella finzione buonista dei terroristi.

Le reazioni di Bar
   Insomma, il capo dei servizi segreti competenti per il territorio di Israele e per Gaza, quando la guerra era ancora aperta, sembrava dedicarsi più che al tentativo di individuare i rapiti e di eliminare i terroristi, alla caccia ai suoi nemici interni ad Israele, in sostanza il governo e Netanyahu. Bisogna aggiungere una serie di soffiate provenienti dallo Shabak per esempio sulle trattative con i mediatori, che in diverse occasioni hanno messo in difficoltà il governo. O altre che nelle ultime settimane, quando Bar era già in odor di licenziamento, insinuavano alla stampa che lo Shabak stesse indagando su innominati “collaboratori del primo ministro”, bizzarramente sospettati di aver ricevuto doni addirittura dal Qatar. Quando Bar era rimasto l’unico dei responsabili prossimi del fallimento del 7 ottobre in servizio, Netanyahu gli ha chiesto formalmente di dimettersi, di fronte al suo rifiuto (di nuovo reso pubblico con un attacco politico al governo), ha annunciato di aver iniziato la procedure per licenziarlo, che dovrebbe concludersi con un voto del gabinetto, mercoledì.

Il fronte contro il governo
   A questo punto è partito uno strano coro di soccorsi a Bar. Si è fatto intervistare in TV il suo predecessore Nadav Argaman minacciando di “ rivelare tutto quel che sa e che finora ha tenuto per sé” sui rapporti con Netanyahu; un avvertimento che lo stesso Netanyahu ha qualificato come “mafioso” arrivando a denunciare Argaman alla polizia. Ha parlato naturalmente anche il capo dell’opposizione Lapid, che nell’ultimo anno e mezzo ha rifiutato costantemente la politica di unità nazionale che è nella tradizione di Israele durante la guerra. Si è pronunciata anche con una lettera formale il procuratore generale e consulente legale del governo Gali Baharav-Miara, cercando di proibire a Netanyahu di procedere al licenziamento. Ma anche lei si trova in conflitto di interessi, non solo perché a sua volta soggetta a una procedura di impeachment parlamentare essendo in conflitto costante ed esplicito con la linea politica del governo, ma anche per il fatto di essere, lei e soprattutto suo marito, stretti amici di Bar. E mercoledì in tutto Israele vi saranno manifestazioni organizzate secondo il modello e l’ideologia delle agitazioni contro la riforma della giustizia, compreso un assedio programmato alla sede del governo e alla residenza di Netanyahu, in concomitanza con la votazione del governo su Bar.

(Shalom, 18 marzo 2025)

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Etica in tempo di guerra, voci a confronto

di Adam Smulevich

Viene prima la vittoria contro Hamas o la liberazione degli ostaggi?
  L’interrogativo attraversa la società israeliana da mesi e si è riaffacciato con forza in queste ore con la fine della tregua a Gaza. «È il dilemma etico forse più lacerante di questo periodo storico», conferma Michael Ascoli, rabbino e ingegnere nato a Roma ma residente ad Haifa dal 2010. La sera di mercoledì 19 marzo ne parlerà a partire dalle 20 al Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma, dove è in programma un incontro su “etica ebraica in tempo di guerra”. Al suo fianco ci saranno Yonathan Bassi del kibbutz Maale Gilboa e il giornalista Massimo Lomonaco, ex corrispondente dell’Ansa da Israele. L’iniziativa è parte del ciclo di conferenze “I tanti volti di Israele” promosso dal Pitigliani insieme all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e risponde, secondo Ascoli, «al bisogno molto forte che c’è oggi di ascoltare, intervenire e confrontarsi su temi che investono non soltanto Israele in modo diretto ma anche la diaspora in senso ampio; anche perché l’ebreo diasporico si sente in qualche modo un rappresentante d’Israele verso il mondo esterno e tiene talvolta a questo compito molto più di quanto facciano le istituzioni israeliane».

La scelta del rabbino Mirvis
   Temi sui quali discutere certo non mancano. «È di ieri», sottolinea Ascoli, «la notizia che il rabbino capo del Regno Unito Ephraim Mirvis non parteciperà a una conferenza sull’antisemitismo organizzata dal governo israeliano per via della presenza di alcuni politici di estrema destra tra i relatori». Per Ascoli questa presa di posizione «molto forte» da parte del rabbino Mirvis è «un ottimo esempio delle titubanze proprie di una parte dell’ebraismo europeo a rivolgersi verso quel tipo di destra, anche per via del ricordo della Shoah». Altro tema etico sensibile riguarda le modalità di svolgimento della guerra. «La tradizione ebraica afferma dei principi alti, anche nel rapporto con il nemico, principi però non sempre semplici da applicare dal punto di vista sia emotivo che pratico». Secondo Ascoli, «l’esercito israeliano si è finora distinto per esserci riuscito piuttosto bene». Allo stesso tempo «i massacri del 7 ottobre e il tremendo appoggio internazionale di cui Hamas ha goduto hanno fatto sì che, anche in Israele, guadagnasse consenso la posizione di chi vuole scrollarsi di dosso il “fardello” di essere sempre bravi e morali». Chi si fa latore di questa istanza, prosegue il rav, «interpreta un sentimento istintivo e ha gioco facile in una società sottoposta a un trauma prolungato». E così l’idea «fa breccia, rompendo anche i muri dell’elettorato tradizionale di questi politici; lo si vede ad esempio sul tema della possibile espulsione dei gazawi per la ricostruzione della Striscia; un tema che gode di ampio consenso, malgrado i problemi etici molto grandi che pone».

(moked, 18 marzo 2025)

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Hamas, Iran e Hezbollah. I piani segreti per una guerra totale contro Israele rivelati da documenti trafugati

I documenti evidenziano comunicazioni tra Yahya Sinwar, leader di Hamas, e figure di spicco in Iran e Hezbollah, mirate a coordinare un attacco su più fronti con il sostegno di forze filo-iraniane. Il Centro di informazione sull’Intelligence e il terrorismo Meir Amit, noto anche come ITIC, è un gruppo di ricerca con sede in Israele e ha stretti legami con le Forze di difesa israeliane.

di Nina Deutsch

Immaginate un mosaico di documenti segreti, frammenti di un piano oscuro, scoperti tra le macerie di Gaza. Questi documenti, rinvenuti dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF), rivelano una strategia meticolosamente orchestrata da Hamas per infliggere un colpo devastante al cuore di Israele. Come riferisce il Centro di informazione sull’Intelligence e il terrorismo Meir Amit, emergono sempre nuovi dettagli su attacchi su larga scala pianificati da anni per una guerra totale contro lo Stato ebraico.
I documenti evidenziano comunicazioni tra Yahya Sinwar, leader di Hamas, e figure di spicco in Iran e Hezbollah, mirate a coordinare un attacco su più fronti con il sostegno di forze filo-iraniane. Il Centro di informazione sull’Intelligence e il terrorismo Meir Amit, noto anche come ITIC, è un gruppo di ricerca con sede in Israele e ha stretti legami con le Forze di difesa israeliane.
Dopo la campagna della Spada di Al-Quds (Operazione “Guardiano dei muri”) nel maggio 2021, è iniziato un cambiamento nell’approccio di Hamas, poiché ha preso forma il riconoscimento che la distruzione di Israele era diventata un obiettivo raggiungibile nel breve termine. Il cambiamento è evidente anche in una serie di dichiarazioni pubbliche dei leader di Hamas, che secondo i documenti rinvenuti, avrebbero potuto essere percepite dalla parte israeliana (ed è probabile che siano state percepite in questo modo) come false vanterie.
Già negli anni scorsi sono emerse notizie su queste strategie mirate alla distruzione dello Stato ebraico, ossia di carte che rivelano che Yahya Sinwar, leader di Hamas, aveva delineato tre scenari per annientare Israele, coinvolgendo Hezbollah e milizie provenienti da Iraq, Yemen e Siria. L’obiettivo era un attacco sincronizzato su più fronti, sfruttando momenti di vulnerabilità come le festività ebraiche, considerate detonatori di tensione nella regione. In una lettera del giugno 2022, Sinwar descriveva dettagliatamente questi piani, evidenziando una collaborazione strategica con le forze filo-iraniane, come riportato dal Wall Street Journal.
Un documento del luglio 2022 indica che Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, aveva approvato la strategia, sollecitando ulteriori discussioni con i vertici iraniani. Comunicazioni intercettate nell’aprile 2023 tra Sinwar e un comandante di Hezbollah confermano che Hamas percepiva l’esercito israeliano come «esausto» e incapace di rispondere con forza a un’offensiva improvvisa, secondo quanto riportato sempre dal Wall Street Journal.
Ma le ambizioni di Hamas non si fermavano qui. Come rivelato dal giornale tedesco Die Welt, il gruppo aveva pianificato attacchi su larga scala, tra cui l’occupazione di edifici governativi a Gerusalemme e grattacieli a Tel Aviv, nel tentativo di provocare un collasso interno di Israele.
Inoltre, secondo quanto rivelato da The Sun, Hamas avrebbe addirittura progettato un attacco in stile 11 settembre, con l’obiettivo di far esplodere grattacieli israeliani.
È inquietante pensare come, mentre la vita quotidiana scorreva apparentemente tranquilla, nelle ombre si tessessero trame così minacciose. Questi piani, se attuati tutti quanti, avrebbero potuto portare a una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, con un bilancio di vittime e una destabilizzazione regionale senza precedenti.
Il documento integrale

(Bet Magazine Mosaico, 17 marzo 2025)

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La “Conceptzia”: un difetto fatale di pensiero che continua a vivere

Alla luce dei passi falsi del 7 ottobre, l'approccio del nuovo Capo di Stato Maggiore dell'IDF dovrebbe essere accolto con favore. Ma il coro degli opinionisti si rifiuta di cambiare tono.

di Ruthie Blum

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Attivisti israeliani di sinistra protestano contro la guerra, la crisi umanitaria a Gaza
e le operazioni dell'IDF in Giudea e Samaria, Gerusalemme, 12 marzo 2025
                      
La reazione del movimento di protesta e dei suoi rappresentanti nello Stato ombra alla nomina del tenente generale Eyal Zamir a comandante in capo delle Forze di difesa israeliane era prevedibile. Chiunque sia stato approvato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu per sostituire Herzi Halevi è stato screditato fin dall'inizio - come una scelta politicamente motivata - indipendentemente dalle sue eccellenti qualifiche professionali.
Questo fa parte della campagna riflessiva contro il governo in generale e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu in particolare, che tiene in vita l'élite d'opinione di sinistra - così come alcuni ex funzionari della sicurezza. E non solo in senso figurato. Purtroppo, gli orrori del 7 ottobre 2023 non hanno rallentato le ruote della macchina della disinformazione. Al contrario.
Tuttavia, l'atteggiamento nei confronti di Zamir non solo non sorprende, ma è anche allarmante se si guarda al quadro generale. Invece di sostenere la missione dichiarata del nuovo Capo di Stato Maggiore dell'IDF - rivedere l'indagine finora inadeguata sulla serie di errori incomprensibili commessi in quel giorno mortale e servire come arma di attacco contro qualsiasi nemico che si sollevi contro Israele - i critici accusano ogni sua parola di essere una macchia.
Data la portata del fallimento di Israele nel prevedere e prevenire il massacro di Hamas di oltre 17 mesi fa, l'approccio di Zamire dovrebbe essere accolto con favore, se non a braccia aperte. Ma il coro degli opinionisti si rifiuta di cambiare tono.
Il che ci porta alla cosiddetta “ conceptzia”. La corruzione ebraica del termine inglese conception è meglio traducibile come pregiudizio di conferma.
Questo fenomeno psicologico è stato descritto da varie fonti nel corso della storia, tra cui il filosofo e scienziato inglese Francis Bacon.
La comprensione umana, quando si è formata un'opinione“, scrisse nel 1620, ”dispone tutto il resto in modo da sostenerla e concordare con essa. E anche quando sono presenti un maggior numero e peso di prove contrarie, queste vengono ignorate, disprezzate o in qualche modo messe da parte o respinte”.
Questa è una descrizione perfetta della cecità israeliana che ha permesso ad Hamas di pianificare ed eseguire le peggiori atrocità contro gli ebrei dai tempi della Shoah. E questo in uno Stato ebraico sovrano, con un esercito ammirato in lungo e in largo.
Riconoscere questo triste fatto è necessario per correggerlo. Ma purtroppo non basta.
Un'intervista approfondita con Ofer Grosbard, ex capo del dipartimento di ricerca dell'IDF Intelligence Directorate (Aman), pubblicata sulla rivista N12 nel fine settimana, è rivelatrice. Grosbard, psicologo con un dottorato in analisi e risoluzione dei conflitti conseguito presso la George Mason University in Virginia, ha assunto l'incarico nell'agosto del 2021.
Sei mesi dopo è stato licenziato perché ha osato esprimere opinioni in contrasto con Conceptzia. Naturalmente, all'epoca nessuno chiamava così l'opinione consolidata di Aman. Ma era presente in tutto il suo arrogante splendore.
Ironia della sorte, Grosbard era stato assunto proprio per le competenze per le quali è stato poi licenziato: dopo l'operazione militare “Guardians of the Walls” contro Hamas, avrebbe dovuto fornire “una prospettiva originale sulla mentalità del nemico”.
“L'Aman, come l'intero esercito, è strutturato gerarchicamente in modo da limitare il pensiero aperto, critico e creativo”, ha dichiarato a N12. “I comandanti vogliono salire nei ranghi, quindi non si permettono di esprimere liberamente le proprie opinioni. Questi elementi sono particolarmente critici nel lavoro di intelligence, che dovrebbe essere il cervello dell'esercito e dello Stato”.
Un esempio lampante è la percezione che la comunità di intelligence ha del leader di Hamas Yahya Sinwar.
“Ho incontrato persone che hanno osservato da vicino il comportamento di Sinwar per anni e lo hanno studiato nei dettagli”, ha riferito. “Ho chiesto loro di esprimere i loro sentimenti su di lui. Alcuni hanno detto di rispettarlo; uno era dispiaciuto per lui; un altro lo vedeva come un padre caloroso; un altro ancora ha ammesso di odiarlo”.
Grosbard ha riconosciuto che le sue raccomandazioni, sebbene razionali, erano fortemente influenzate dalle emozioni: coloro che vedevano Sinwar come una “figura paterna” erano meno propensi a suggerirlo come obiettivo per l'assassinio. Chi lo odiava era favorevole alla sua eliminazione.
“Prendono un paio di psicologi clinici e dicono loro: “Scrivi una relazione su Sinwar”. Dal loro punto di vista, Sinwar è fondamentalmente 'ashkenazita'”, ha detto Grosbard. “Escono dai loro uffici, tracciano un profilo e concludono che è uno psicopatico. Ma non si può etichettare un'intera cultura come psicopatica. Anche nel DSM, il nostro manuale diagnostico dell'Associazione Psichiatrica Americana, è chiaro che un comportamento deviante può essere considerato patologico solo se si verifica in una certa percentuale della popolazione - non in tutti i residenti di Gaza o in tutti i terroristi di Nukhba”.
E ha continuato: “Questo è un ottimo modo per evitare di capire come pensa l'altra parte. Se si definisce Sinwar come uno psicopatico, ci si assolve dalla necessità di capirlo. Ma se si dice che ha un pensiero messianico, combinato con una comprovata capacità di eseguire i suoi piani per anni, e che intende ogni parola che dice, allora la questione è completamente diversa”.
Ha anche ricordato una conversazione con l'assistente dell'allora direttore dell'Aman Aharon Haliva, che giustamente si è dimesso in disgrazia l'anno scorso. Il vice di Haliva, ha detto Grosbard, “ha respinto ogni possibilità di generalizzare sulle culture, sostenendo che si trattava di sciocchezze - tutti la pensavamo allo stesso modo”.
Grosbard ha esteso la sua critica allo Stato di Israele nel suo complesso.
“Senza un'introspezione emotiva, siamo sulla strada della distruzione”, ha sottolineato. “Stiamo parlando di due fonti di errore: Una è l'incapacità di comprendere il modo di pensare del nemico, l'altra è la nostra stessa repressione - la repressione di un'intera nazione”.
E ha continuato: “C'è qualcosa di incredibilmente potente nella repressione collettiva. Gli esseri umani tendono a reprimere i pericoli, soprattutto quando esistono per lungo tempo. Non siamo progettati per essere in uno stato costante di alta tensione. A un certo punto ci si stanca, si desidera la pace e si reprime il pericolo”.
Questa dinamica, ha aggiunto, non è tipica solo di Israele.
“L'Occidente è così narcisista nella sua percezione culturale che trova difficile capire che qualcuno gli sta mentendo”, ha detto.
Speriamo che Eyal Zamir riesca a colmare questo divario.

(Israel Heute, 17 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Netanyahu vuole licenziare il capo dello Shabak

Il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha annunciato l'intenzione di licenziare il capo dell'intelligence interna Ronen Bar. Il motivo è la mancanza di fiducia.

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu intende licenziare il capo del servizio di intelligence nazionale Shabak, Ronen Bar. Il leader del Likud ha dato l'annuncio domenica in un discorso video. In esso ha spiegato di non avere più fiducia nel suo capo dello Shabak. La sua sfiducia nei confronti di Bar ha continuato a crescere negli ultimi mesi. Questa situazione è inaccettabile in vista della guerra. Con il licenziamento di Bar, Netanyahu ha detto di voler anche evitare un nuovo 7 ottobre. Questo perché Netanyahu incolpa ampiamente lo Shabak per il massacro terroristico di Hamas.
  Come riporta il quotidiano online “Times of Israel”, Netanyahu ha convocato il capo dei servizi segreti nel suo ufficio domenica e lo ha informato della sua decisione. Netanyahu aveva recentemente rimosso Bar dalla squadra di negoziatori per il rilascio degli ostaggi israeliani.
  Appena quindici giorni fa, lo Shabak, responsabile del monitoraggio dei terroristi palestinesi, ha ammesso di aver commesso gravi mancanze nel corso dell'attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023. Quando quindici giorni fa è stato pubblicato il relativo rapporto investigativo, Bar ha dichiarato: “Se lo Shabak avesse agito diversamente (...), il massacro avrebbe potuto essere evitato”. Allo stesso tempo, il rapporto attribuisce parte della colpa alla politica israeliana. La “politica della calma” ha permesso ad Hamas di costruire il suo arsenale di armi. Il rapporto critica anche i pagamenti del Qatar ad Hamas autorizzati dal governo israeliano.
  L'esercito aveva precedentemente ammesso il suo “completo fallimento”. Subito dopo la pubblicazione del rapporto dello Shabak, l'ufficio di Netanyahu ha criticato duramente i risultati dell'indagine. Questo perché Netanyahu vede l'esercito e le autorità di sicurezza come responsabili del 7 ottobre, non i politici.

Dimissioni sì, ma...
   Secondo i media israeliani, il gabinetto deciderà su Bar in una riunione speciale mercoledì. Tuttavia, al momento non è chiaro se ciò avverrà. Il procuratore generale Gali Baharav-Miara ha dichiarato domenica sera che non è possibile avviare alcuna procedura di licenziamento nei confronti di Bar fino a quando non sarà stata esaminata la “base fattuale e legale”, al fine di escludere la possibilità che l'azione sia stata influenzata da conflitti di interesse. Ha inoltre affermato che “la posizione di capo dello Shabak non è una posizione di fiducia personale al servizio del primo ministro”.
  Lo stesso Bar ha annunciato che si dimetterà 'anno prossimo, prima della fine del suo mandato avuto nel 2021. Ha citato come motivo il suo fallimento nel prevenire l'attacco di Hamas. Tuttavia, non ha voluto dimettersi immediatamente, ma sarebbe rimasto in carica fino a quando non fossero stati compiuti progressi sul rilascio degli ostaggi israeliani. Vuole inoltre portare avanti le indagini sulle presunte relazioni illegali tra i confidenti di Netanyahu e il Qatar. L'accusa: i confidenti avrebbero ricevuto denaro dal Qatar per migliorare l'immagine dell'emirato. A causa della natura esplosiva e della portata della questione, è lo Shabak e non la polizia a indagare sulla vicenda.
  I media israeliani ipotizzano che queste indagini si basino su un conflitto di interessi che rende giuridicamente difficile per Netanyahu licenziare Bar. L'ex primo ministro Yair Lapid (Yesh Atid) ritiene che questo sia il motivo del previsto licenziamento. Il ministro della Giustizia, Yariv Levin (Likud), e il ministro delle Finanze, Bezalel Smotritsch (Sionismo religioso), hanno invece accolto l'annuncio di Netanyahu come un “passo necessario”.

(Israelnetz, 17 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Valsesia, la “Terra Promessa” in provincia di Vercelli, è la nuova casa degli israeliani in fuga dal conflitto

In un territorio a rischio di desertificazione demografica, un ebreo italiano residente in Israele ha sviluppato il progetto Baita per accogliere i tanti israeliani che stanno lasciando il Paese. Nel 2024 più di 80 famiglie si sono trasferite e 400 di loro sono soci del Progetto. Un esempio di iniziativa e integrazione con la gente della zona, che apprezza questa novità.

di Pietro Baragiola

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L’incertezza e la tensione generate dal conflitto in Medio Oriente ha spinto sempre più israeliani a lasciare le proprie dimore in cerca di una nuova casa.
Per rispondere a questa esigenza è nato il Progetto Baita, l’associazione senza scopi di lucro che intende proporre come meta prescelta l’area verdeggiante di Valsesia, incastonata nel cuore delle alpi.
“Tutti si innamorano della Valsesia, affascinati dalla bellezza del suo paesaggio e dall’accoglienza dei suoi abitanti” ha affermato Ugo Luzzati, fondatore del progetto, nella sua intervista rilasciata a La Stampa. “Vediamo arrivare sempre più famiglie che decidono di trasferirsi e investire nel nostro territorio in cerca di una vita tranquilla e serena, lontana dai pericoli della guerra.”

La creazione del Progetto Baita
   Originario di Genova, Ugo Luzzati ha vissuto gran parte della sua vita in Israele, dove si è sposato ed ha avuto cinque figli.
“Durante le vacanze la mia famiglia ed io venivamo spesso in Valsesia, ma ad un certo punto ho iniziato a trascorrerci sempre più tempo fino a decidere di trasferirmici definitivamente” ha raccontato Luzzati. “Israele sta cambiando, sento che si è rotto qualcosa.”
L’idea di aprire l’invito a tutti gli israeliani è nata da una conversazione con una maestra del comune di Valsesia che si lamentava di continuo con lui di come le scuole fossero quasi sempre vuote in quanto c’erano sempre meno studenti.
“È stata quella conversazione a darmi un’illuminazione: portiamo le famiglie israeliane in Valsesia” ha affermato Luzzati che nel 2022 ha ufficialmente fondato Progetto Baita con l’obiettivo di seguire passo dopo passo gli immigrati israeliani per aiutarli ad inserirsi e ad ambientarsi nella nuova realtà.
Il nome dell’associazione deriva dalla parola ebraica “bait” che significa “casa”.
Oggi a causa della guerra con Hamas sempre più cittadini israeliani si sono trasferiti nel comune della zona che si estende da Borgosesia passando per Varallo, Cravagliana, Civiasco, Balmuccia e Scopello, fino a Rimasco.
“Dal 7 ottobre in poi la nostra associazione ha avuto un ruolo fondamentale” ha affermato Luzzati, spiegando che entro la fine del 2024 più di 80 famiglie si sono trasferite nell’area e 400 di loro sono soci del Progetto Baita.

Gli israeliani della Valsesia
   Come precisato da Luzzati, quasi tutti i nuovi arrivati sono laureati e ricoprono posizioni di rilievo: medici, ingegneri, informatici e farmacisti.
“Durante gli ultimi convegni sulla sanità si è iniziato a parlare della possibilità di coinvolgere questi professionisti nelle strutture locali” ha raccontato il fondatore di Progetto Baita.
In modo da agevolare la propria transizione molti israeliani hanno scelto di frequentare corsi di lingua italiana prima dell’arrivo a Valsesia e chi ha già dimostrato dimestichezza con il nuovo idioma si è inserito velocemente trovando subito lavoro.
Come affermato su Il Foglio da Gianni Tognotti, ex sindaco di Rimasco e vicepresidente del Progetto Baita, i nuovi arrivati prediligono terreni e case indipendenti in pietra, tipiche della zona, ‘comode e sicure ma con la possibilità di dotarsi di collegamenti a internet’.
“È ammirevole la volontà di queste persone di integrarsi a pieno nel territorio. Molti in età pensionabile hanno chiesto di poter aiutare le associazioni locali come volontari” ha spiegato l’ex sindaco sottolineando che persino le scuole hanno raggiunto un indice di produttività e presenza che non si vedeva dagli anni ’60.
A Varallo la pronipote del premio Nobel per la letteratura Shmuel Yosef Agnon ha aperto un corso di ebraico riservato a classi di 30 italiani per agevolare la comunicazione con i nuovi arrivati. Questa cultura di integrazione è stata molto apprezzata anche sui social, aggiudicandosi diversi commenti di approvazione.
“Prima del loro arrivo il nostro era un territorio a rischio di desertificazione demografica. Oggi siamo rinati e, insieme, possiamo rendere ancora più bella la nostra comunità” ha concluso Tognotti.

(Bet Magazine Mosaico, 16 marzo 2025)

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Il Messia è il reale scopo della Torà?

Gesù Cristo dice che Mosè ha scritto di Lui. È proprio così? Nel Pentateuco, si fa solo qualche accenno al Redentore che deve venire. Un'indagine critica.

di Seth D. Postell, Eitan Bar, Erez Soref

Quanti versetti della Torà si riferiscono al Messia e quanti alla Legge? La suddivisione in percentuale è davvero sorprendente. Nella Torà si riescono a trovare appena nove versetti chiaramente riconoscibili che molti considerano come profezie messianiche (Genesi 3,15; 49,8-12; Numeri 24,17-19; Deuteronomio 18,15), su un totale di 5845 versetti, il che costituisce meno dello 0,15%. D'altronde circa 3 605 versetti riguardano comandamenti dati al popolo di Israele. Si tratta di quasi il 62% di tutti i versetti della Torà. Se consideriamo esclusivamente le percentuali, dovremmo dire che la Legge è più importante del Messia. Pertanto la Legge dovrebbe essere lo scopo della Torà! Prima di trarre conclusioni affrettate sul fine della Torà, vogliamo considerare un importante principio nella letteratura narrativa. Il principio dice: la qualità viene prima della quantità.
Se ci chiedessimo chi è il protagonista del classico romanzo "Le cronache di Narnia" di C. S. Lewis, la maggior parte di voi risponderebbe, senza esitare, Aslan. Ma perché il leone Aslan è il protagonista? Compare solo alla fine del libro ed il principale filo del racconto s'intreccia intorno a quattro bambini. Se si considera lo spazio nel racconto che C. S. Lewis dedica a Peter, Edmund, Susan e Lucy, Aslan è solo una figura secondaria. Da dove quindi traiamo che Aslan è il protagonista? Egli è il protagonista del racconto poiché vale il principio che la qualità viene prima della quantità. Il nostro paragone non si basa solo su quante volte ma anche su quali passaggi nella storia trattano della comparsa di Aslan e di come egli sciolga i nodi della trama. Egli non compare soltanto in punti strategicamente importanti ma il suo carattere fornisce anche la soluzione per lo sviluppo della trama.
Crediamo quindi che i riferimenti al Messia nella Torà dovrebbero essere giudicati in base alla loro qualità anziché alla loro quantità. È vero che la Legge costituisce il 62% degli scritti ma, come abbiamo visto, viene già profetizzato che Israele violerà la Legge e, pertanto, il patto sinaitico. Un ostacolo fondamentale nella trama della Torà è rappresentato sia dalla disobbedienza della Legge divina sia dalle conseguenze della maledizione, che la disobbedienza porta con sé (esilio e morte). Notiamo questo problema sia all'inizio che alla fine della Torà (Genesi 3; v). Ma Dio intende benedire Israele e l'intera umanità, un altro tema che compare al principio e alla fine della Torà (Genesi 1,28; Deuteronomio 33). Se la disobbedienza alla Legge è l'ostacolo alla ricezione della benedizione di Dio, quale mezzo di salvezza la Torà mette a disposizione?
La Torà contiene riferimenti a tale mezzo di salvezza, cioè al mezzo col quale Dio intende raggiungere i suoi scopi verso ed attraverso Israele: la venuta del Messia e Re negli ultimi giorni. Per Mosè «gli ultimi giorni» sono così importanti che egli utilizza quattro volte nella Torà questa espressione e ogni volta ha un significato strutturale. Per tre volte essa compare all'inizio di grandi discorsi profetici:

  1. alla fine del racconto dei patriarchi (Genesi 49,1);
  2. quando Balaam cerca invano di maledire Israele durante il passaggio dalla vecchia alla nuova generazione di Israeliti nel deserto (Numeri 24,14);
  3. alla fine della Torà come prologo del canto di Mosè (Deuteronomio 31,29). La quarta volta troviamo il concetto in connessione con una profezia, quando Mosè chiama come testimoni il cielo e la terra (Deuteronomio 31,28; 32,1): Israele verrà condotto fuori dalla Terra promessa in esilio a causa della sua disubbidienza, ma si convertirà al Signore in mezzo alla sua tribolazione degli ultimi giorni (Deuteronomio 4,25-31).
    «Poi Giacobbe chiamò i suoi figli e disse: Radunatevi perché io vi annunci ciò che vi accadrà nei giorni a venire (o ultimi giorni)!» (Genesi 49,1) .
    «Ed ecco, ora ritornerò al mio popolo; vieni, io ti annunzierò ciò che questo popolo farà al tuo popolo negli ultimi giorni» (Numeri 24,14).
    «Quando ti troverai nell'angoscia e ti saranno avvenute tutte queste cose, negli ultimi tempi, tornerai all'Eterno, il tuo DIO, e darai ascolto alla sua voce» (Deuteronomio 4,30).
    «Poiché io so che, dopo la mia morte, vi corromperete interamente e devierete dalla via che vi ho comandato, e negli ultimi giorni vi colpirà la sventura, perché farete ciò che è male agli occhi dell'Eterno, provocandolo a sdegno con l'opera delle vostre mani» (Deuteronomio 31,29).

In ogni caso, l'espressione compare in punti nodali così importanti nello svolgimento della trama della Torà che il Messia/Re, analogamente al tema della fede, deve essere considerato come la chiave per la comprensione degli intenti teologici della Torà nel suo complesso. Un ulteriore riferimento al significato degli ultimi giorni sono le parole di inizio della Torà: «In principio» - un'espressione che in ebraico presuppone una «fine». La parola ebraica «ultimi» nell'espressione «gli ultimi giorni» viene utilizzata nella Bibbia ebraica (Tanak) come l'opposto di «principio» (Numeri 24,20; Deuteronomio 11,12). La Torà inizia con la storia della creazione e della caduta di Adamo «all'inizio dei giorni». La storia introduttiva della Torà serve come prologo al piano di Dio, per risolvere il più grande problema dell'umanità: la nostra separazione da Dio, che è causata da incredulità e disobbedienza. Questa soluzione non passa attraverso la Legge, anzi nonostante la ripetuta disubbidienza di Israele alla Legge. «Negli ultimi giorni» Dio pone nel Messia e nel Re l'unico mezzo di salvezza efficace contro il peccato (vedi Genesi 49, 1.8-12; Numeri 24,14.17-19).
In conclusione, vediamo quanto è importante il Messia nella trama della Torà.
Il fatto che la Torà inizi con un racconto e non con i comandamenti costituiva un problema irrisolvibile per i rabbini del Medio Evo. Rashi, il più famoso dei commentatori biblici ebrei, inizia il suo commento della Torà con le parole: «Il rabbino Isacco diceva: ‘La Torà sarebbe dovuta iniziare con le parole: ‘Questo mese sarà per voi’ (Esodo 12,2), poiché questo è il primo comandamento che è stato dato ad Israele per essere osservato.: Pertanto, per quale ragione [La Torà] inizia con «In principio?».
Rashi spiega poi che la Torà inizia con la storia dalla creazione fino all'esodo (Genesi-Esodo 12), per giustificare la cacciata dei Cananei dalla Terra promessa ad opera di Israele. Se le nazioni del mondo avessero incolpato Israele di aver sottratto la terra ai sette popoli cananei, la difesa di Israele sarebbe stata la STORIA: «Tutto il mondo appartiene al Santo; Egli sia benedetto. L'ha creato e lo ha dato a chi ha voluto Lui» La storia è l' «alibi» di Israele, il documento che prova la sua proprietà e la giustificazione della conquista del Paese.
Sebbene la storia possa fornire una giustificazione divina per la pretesa di Israele alla terra promessa, si tratta di un'intenzione subordinata rispetto ad un'altra molto più grande e universale. Noi affermiamo che l'intenzione della storia - di una storia che va al di là dell'Esodo e comprende il resto della Torà come i primi profeti (Giosuè, Giudici, 1.-2. Samuele, 1.-2. Re) - consiste nel fornire un «alibi» biblico alla speranza messianica e all'escatologia della Bibbia ebraica nel suo complesso.
Vogliamo sostenere questa assai ardita affermazione mediante alcuni pensieri sulla struttura e natura di questa storia.

  1. La Bibbia ebraica o Tanak (Legge, Profeti e Scritti) inizia con un'unica ininterrotta narrazione storica, che incomincia con la creazione del mondo e termina con l'innalzamento di [ehoiakìn, discendente di Davide, durante l'esilio babilonese (2Re 25,27-30). Questo racconto comprende quasi la metà di tutte le parole contenute nell'intera Bibbia ebraica.
  2. La conclusione di questa storia è prevedibile dal lettore, poiché la sua trama viene già accennata nell'introduzione (Genesi 1-11 ). Nella letteratura rabbinica questo fenomeno ricade nella categoria ma'asei avot, siman l'banim (le azioni dei padri sono un segno per i figli). In altre parole, i precedenti capitoli di questa storia, in particolare della storia di ciò che avvenne ad Adamo ed Eva, non deve soltanto comunicarci ciò che è successo ad Adamo in passato ma ciò che succederà anche ad Israele in futuro. La storia di Adamo in Genesi 1-3 diventa, nei libri da Giosuè a prima e seconda Re, la storia di Israele (il dono del giardino/del Paese; la ricezione dei comandamenti; il fallimento nel resistere alle tentazioni degli abitanti del giardino/ del Paese; disobbedienza ed esilio in Oriente).
  3. L'essenza profetica dell'introduzione della Torà viene rafforzata ulteriormente dalla predizione di Mosè alla fine della Torà:
    «E l'Eterno disse a Mosè: «Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri; e questo popolo si leverà e si prostituirà, andando dietro agli dèi stranieri del paese, in mezzo ai quali sta per andare; e mi abbandonerà e violerà il mio patto che io ho stabilito con lui. In quel giorno, la mia ira si accenderà contro di loro; io li abbandonerò e nasconderò loro la mia faccia, e saranno divorati. Molti mali e molte calamità cadranno loro addosso; e in quel giorno diranno: "Questi mali non ci sono, forse caduti addosso perché il nostro DIO non è in mezzo a noi?". In quel giorno io nasconderò certamente la mia faccia a motivo di tutto il male che hanno fatto, rivolgendosi ad altri dèi. Ora scrivete per voi questo cantico e insegnatelo ai figli d'Israele; mettetelo sulla loro bocca, affinché questo cantico mi sia un testimone contro i figli d'Israele. Quando li avrò introdotti nel paese, che promisi ai padri loro con giuramento dove scorre latte e miele, ed essi avranno mangiato, si saranno saziati e ingrassati, allora essi si rivolgeranno ad altri dèi per servirli, e disprezzeranno me e violeranno il mio patto. Allora avverrà che quando molti mali e molte calamità saranno cadute loro addosso, questo cantico testimonierà contro di loro, perché esso non sarà dimenticato e rimarrà sulle labbra dei loro discendenti; io conosco infatti i disegni che essi concepiscono, prima ancora di averli introdotti nel paese che ho promesso con giuramento» (Deuteronomio 31, 16-21 ).

Mosè, il più grande di tutti i profeti della Bibbia ebraica, dichiara con parole molto chiare che Israele entrerà nel Paese come suo padre Adamo, mangerà del frutto del Paese, violerà i comandamenti del patto sinaitico e sarà condotto in esilio (v. Deuteronomio 4,25-28; 30,1).
Se esaminiamo questi tre punti - la storia della disubbidienza di Israele e del conseguente esilio, l'anticipazione di un tema nella disubbidienza di Adamo e nel suo conseguente esilio, le profezie esplicite di Mosè sulla disubbidienza di Israele ed il suo successivo esilio - sorge necessaria la domanda: che scopo ha la storia dal momento che Mosè previde la disubbidienza e l'esilio di Israele nella Torà? Poiché Mosè sapeva in anticipo che Israele avrebbe violato il patto del Sinai e sarebbe andato in esilio, e la stessa cosa avvenne per i primi profeti, lo scopo della storia non è quello di incoraggiare Israele all'obbedienza.
Qual è lo scopo della Torà e dell'intera Bibbia ebraica, se la disubbidienza e l'esilio di Israele sono comunque certi? Crediamo che la migliore risposta a questa domanda sia riassunta in un'unica parola: messianismo. Come vedremo, lo scopo della storia è il Messia ed il Messia dalla storia della Torà diventa il fulcro delle successive sacre Scritture di Israele (i successivi profeti e gli altri scritti).
Secondo alcuni studiosi della Bibbia, il messianismo è un tema piuttosto marginale nella Bibbia ebraica. Il numero apparentemente limitato di profezie messianiche palesi nella Bibbia ebraica, soprattutto nella Torà, potrebbe condurre a incongruenze rispetto alle chiare affermazioni del Nuovo Testamento sull'importanza centrale del Messia nella Tanak. Così Jeshua afferma ad esempio sulla Torà:

    «Non pensate che io vi accusi presso il Padre, c'è chi vi accusa, Mosé, nel quale avete riposto la vostra speranza; infatti se voi credeste a Mosé, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come crederete alle mie parole?» (Giovanni 5,45-47).

Altre dichiarazioni del Nuovo Testamento affermano, senza restrizioni, che il Messia è un tema centrale se non il tema centrale di Mosè e dei Profeti.
Come seguaci di Jeshua, che accettiamo l'autorità e l'attendibilità del Nuovo Testamento, onoriamo le dichiarazioni di Jeshua sulla Torà, anche se alcune difficoltà sorgono quando si cerca di difenderle di fronte al bema (tribunale) soltanto con la Torà in mano. Noi affermiamo che il messianismo è uno dei temi principali della Torà e costituisce la sorgente da cui sgorga il messianismo nel resto della Bibbia ebraica. Rispetto al fatto che i concetti di «messianismo» e «Messia» non compaiono nella Torà - e solo di rado nella restante Bibbia ebraica - vogliamo definirli qui per descrivere ciò di cui tratta questo capitolo. L'espressione «Messia» (maschiach, «unto») compare nella Tanak 39 volte, e occasionalmente, seppure raramente, compare come concetto specifico riferito alla persona che, dagli scrittori successivi della Bibbia, viene chiamata «Re Messia» (ad es. Salmo 2,2; Daniele 9,25-26). In modo non specifico, il concetto si riferisce a sommo sacerdote (Levitico 4,3), re (1Samuele 24,6), profeta (Salmo 105,15) e a Ciro (Isaia 45, 1 ). Qui utilizziamo «Messia» come concetto onnicomprensivo per la persona, mediante la quale Dio negli ultimi giorni realizzerà le sue originarie intenzioni rispetto alla creazione. Di tanto in tanto, questa persona complessa viene rappresentata come re, altre volte come profeta ed in alcuni passi come sacerdote. In alcuni brani, Egli viene descritto come Signore dei Signori, in altri come essere disprezzato e rigettato. Ma in tutti i casi, egli è il perno del piano di Dio per ristabilire la Sua benedetta signoria su una creazione prevalentemente gravata dalla maledizione. «Messia» si riferisce al protagonista di questa storia e con l'espressione «messianismo» vengono evidenziate le caratteristiche rilevanti della Sua storia.
(dal libro Leggere Mosè, vedere Gesù)


NOTA DEGLI AUTORI

I biblisti ebrei messianici Seth D. Postell, Eitan Bar e Erez Soref hanno scritto il loro libro “Reading Moses, seeing Jesus” con un preciso scopo in mente, riferendosi al loro particolare retroterra israelitico.

“Ci siamo decisi a scrivere questo breve libro, poiché il rapporto del credente con la Torà (i 5 libri di Mosè o Pentateuco) ed i suoi comandamenti (la Legge) fa parte delle 5 domande più frequenti nella lista di ONE FOR ISRAEL. Siccome Gesù osservò la legge, sono tenuti anche i credenti (ebrei e non) ad osservare la Legge o almeno alcune sue parti (come ad esempio il sabato, le norme alimentari, ecc.)?
Che ne è della legge trasmessa oralmente (le tradizioni rabbiniche)? In che misura la Torà accenna al Messia? Come applicare oggi la legge mosaica? Sebbene questo libro si basi su almeno un decennio di ricerche accademiche, nel redigerlo abbiamo pensato a lettori non accademici. Il nostro scopo è dare risposte facilmente comprensibili a domande sulla Torà e questo in un modo che sia radicato in una approfondita interpretazione del testo biblico.
Come autori di quest'opera siamo stati influenzati dal nostro ambiente, eredità e cultura ebraiche. Questo ci ha portati ad utilizzare concetti che non sono famigliari ad alcuni dei nostri lettori. Non vogliamo escludere né urtare nessuno ma semplicemente utilizzare soltanto i criteri linguistici che hanno senso nell'ambito di ciò che siamo e pensiamo. Quest'opera si concentra sulle libertà delle parole ebraiche utilizzate nella Scrittura, accenni a dotti ebrei della storia ed ai loro scritti (non necessariamente tratti dalla storia biblica) e su un generale appello a leggere il libro con gli occhi di ebrei, mentre mettiamo in luce collegamenti nel testo nella speranza di farvi maggiormente comprendere il significato della storia narrata nella Torà.
Abbiamo cercato di utilizzare i concetti di «Torà» e «Legge» in modo omogeneo. Per «Torà» intendiamo i cinque libri di Mosè nel loro complesso (Pentateuco). Utilizzando la parola «Legge», ci riferiamo specificamente ai comandamenti dati a Israele.“



(Chiamata di Mezzanotte, nov/dic 2019)


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Israele festeggia Purim nonostante la guerra: tra gioia e tributi agli ostaggi

Un misto di gioia e solennità contraddistingue i festeggiamenti in tutto il Paese in tempi di conflitto

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Approfittando delle temperature miti, migliaia di israeliani sono usciti venerdì per partecipare ai festeggiamenti di Purim, organizzati anche quest'anno sullo sfondo del conflitto in corso. Parate colorate e intrattenimenti vari hanno animato le strade di molte città, mentre si ricordavano i 59 ostaggi ancora trattenuti da Hamas a Gaza. A Holon, i festeggiamenti sono iniziati in piazza Mediateq, vicino alla casa di Agam Berger, l'ostaggio recentemente liberato. A Tel Aviv si è ballato in via Nahalat Binyamin, mentre a Netanya migliaia di persone hanno partecipato a un evento a tema “supereroi”.
  “Abbiamo organizzato i festeggiamenti di Purim sotto il tema dei supereroi perché, in questi giorni complessi che il popolo di Israele sta attraversando, abbiamo scoperto la forza interiore di ognuno di noi e abbiamo capito che siamo un popolo di supereroi”, hanno sottolineato gli organizzatori a Netanya.
  A Petah Tikva, il “carnevale dei sogni” è stato caratterizzato da installazioni artistiche, acrobati e spettacoli di strada. Il sindaco Rami Greenberg si è vestito da Batman in omaggio a Shiri Bibas e ai suoi figli Ariel e Kfir, uccisi in cattività a Gaza. “Nonostante la gioia, non abbiamo dimenticato nemmeno per un momento i nostri fratelli ostaggi, le famiglie in lutto e i nostri eroici soldati che ci proteggono ai confini del Paese”, ha dichiarato Greenberg, che ha aggiunto al suo costume una foto dei tre membri deceduti della famiglia Bibas.

(i24, 14 marzo 2025)

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L'Ambasciatore Prosor ospite alla Conferenza dei Primi Ministri

Nel 60° anno delle relazioni tra Germania e Israele, l'ambasciatore israeliano Prosor riceve un onore speciale: è invitato alla Conferenza dei Primi Ministri.

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Per l'ambasciatore israeliano Prosor la Germania è un alleato importante: ora è stato ospite della Conferenza dei Primi Ministri

DRESDA - Ron Prosor è stato il primo ambasciatore israeliano a partecipare a una riunione della Conferenza dei primi ministri tedeschi, mercoledì scorso. L'israeliano ha ricevuto l'invito a Dresda in occasione del 60° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Germania e Israele.
  Dopo l'incontro, Prosor ha scritto su X che l'anniversario è “una pietra miliare storica”. L'invito del primo ministro della Sassonia Michael Kretschmer (CDU) è stato “un forte segno di solidarietà e dell'incrollabile legame tra i nostri Paesi”.
  L'ambasciatore ha descritto la Germania come il più importante alleato di Israele in Europa. “In tempi come questi, abbiamo più che mai bisogno di veri amici. Dopo il 7 ottobre, una cosa è chiara: la comunità internazionale deve restare unita contro il terrore e l'antisemitismo!”.

Kretschmer: le questioni del futuro ci uniscono
   Nel suo discorso, l'ospite Kretschmer ha parlato di un'unica espressione di identificazione con Israele da parte di tutti i 16 Stati tedeschi. Su X ha scritto: “Vogliamo rafforzare ulteriormente la nostra cooperazione e lavorare insieme in futuro per garantire che Israele e la Germania siano partner stretti. Scienza, cultura e affari sono solo alcuni dei temi futuri che ci uniscono. Dipende da noi come questa partnership si svilupperà nei prossimi decenni”.
  Prosor, nel frattempo, ha esteso l'invito: “Stiamo inviando un chiaro segnale: Ogni Stato federale è invitato a recarsi in Israele con dieci giovani talenti - per un incontro diretto, uno scambio autentico e un futuro forte tra i nostri Paesi!”.
  La Repubblica Federale di Germania e lo Stato di Israele hanno ufficialmente stabilito relazioni diplomatiche il 12 maggio 1965.



(Israelnetz, 14 marzo 2025)

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Si può odiare gli ebrei. C’è odio e odio

“Vorrei accoltellare alla gola ogni ebreo che incontro”. E i giudici assolvono lo scrittore.

di Giulio Meotti

ROMA - “Vorrei conficcare un coltello appuntito direttamente nella gola di ogni nero che incontro”. Difficile immaginare un giudice in Europa prosciogliere un giornalista o scrittore che pubblicasse queste parole. Invece puoi scrivere “vorrei conficcare un coltello direttamente nella gola di ogni ebreo che incontro” e farla franca in tribunale. E’ il caso di Herman Brusselmans, noto scrittore fiammingo.
  “Non tutti gli ebrei sono bastardi assassini, immagino un anziano ebreo con una camicia scolorita, pantaloni di cotone e vecchi sandali. Mi dispiace per lui e quasi mi vengono le lacrime agli occhi, ma un attimo dopo gli auguro di andare all’inferno”, aveva scritto ancora Brusselmans sulla rivista Humo.
  Nello stesso articolo incriminato, Brusselmans aveva descritto il primo ministro israeliano come “un piccolo, tozzo e calvo ebreo, che porta il sinistro nome di Bibi Netanyahu”. Il celebre scrittore olandese Arnon Grunberg, che aveva collaborato con Humo per venticinque anni, annunciò, in segno di protesta contro Brusselmans, che non avrebbe più scritto per la rivista.
  Il tribunale di Gent martedì ha assolto Brusselmans, perché a detta del giudice, non vi sarebbero state da parte sua violazioni della legislazione vigente in Belgio in materia di contrasto all’odio e al razzismo.
  Secondo il giudice, Brusselmans si sarebbe mosso nella sfera garantita dalla libertà di espressione e nel suo testo non emergerebbe una reale volontà “di incitare all’odio o alla violenza contro la comunità ebraica”. Yohan Benizri, presidente del Coordinating Committee of Jewish Organizations in Belgium, il principale organo rappresentativo degli ebrei belgi, aveva paragonato l’articolo alla propaganda nazista. “E’ esattamente allo stesso livello di Der Stürmer: è la demonizzazione di un intero popolo”, aveva detto Benizri alla Cnn.
  Ieri il presidente dell’Associazione ebraica europea che aveva trascinato lo scrittore in tribunale, il rabbino Menachem Margolin, ha condannato la decisione della corte, definendola “un messaggio profondamente allarmante sullo stato della lotta contro l’antisemitismo in Belgio e in Europa. Oggi, il sistema giudiziario belga ha stabilito un grave precedente: le leggi sui crimini d’odio sono flessibili e, quando si tratta di ebrei, diventano improvvisamente malleabili”.
  Secondo Margolin, la sentenza “stabilisce un precedente inaccettabile: legittima di fatto una persona, letta da centinaia di migliaia di persone, a chiedere apertamente l’omicidio di ebrei senza affrontare alcuna conseguenza legale. Ritiene ammissibile pubblicare su un organo di stampa nazionale il desiderio di ‘pugnalare alla gola ogni ebreo’, tutto con il pretesto della rabbia per la situazione a Gaza. Emettendo un simile verdetto, la magistratura belga invia un messaggio pericoloso: l’incitamento all’omicidio e all’odio può essere reinterpretato, scusato e in ultima analisi legittimato, almeno quando gli obiettivi sono gli ebrei”.
  Brusselmans il 13 dicembre 2023 aveva già pubblicato un altro articolo antisemita intitolato “Israele usa gli stessi metodi dei tedeschi per distruggere un’intera razza”, che iniziava con queste mostruose parole: “Non è inconcepibile che qualcuno possa diventare antisemita contro la propria natura”.
  Domenica 3 marzo 2019 fu chiaro a tutti cosa stava diventando il Belgio per gli ebrei (il paese dove c’è stato un attentato mortale al Museo ebraico di Bruxelles). Nella città di Aalst, durante i festeggiamenti per il carnevale, per le strade sfilò un carro che raffigurava due ebrei ortodossi vestiti di rosa e uno dei due, con un topo sulla spalla destra, tendeva una mano con un sorriso sinistro come per chiedere soldi. Entrambi avevano ai piedi borse piene di banconote e monete d’oro. L’antisemitismo è tornato a essere una linfa di molte società europee.

Il Foglio, 14 marzo 2025)

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Il suono del silenzio

Come Dietrich Bonhoeffer si oppose all'indifferenza dei cristiani.

di Charles Gardner

Quando gli ebrei dell'antica Persia furono minacciati di genocidio, furono misericordiosamente salvati da uno di loro.
Il coraggio della regina Ester, tuttavia, fu ispirato dal suo tutore Mardocheo, la cui esortazione fu diretta e severa:
"Se rimarrai in silenzio in questo momento, l'aiuto e la salvezza arriveranno agli ebrei da altre parti, ma tu e la famiglia di tuo padre perirete. E chi sa se non sei arrivata alla tua posizione regale proprio per un momento come questo?” (Ester 4:14).
Fortunatamente, Ester non si lasciò scoraggiare e la festa di Purim di questa settimana celebra giustamente questa grande liberazione.
La Persia (Iran) di oggi, tuttavia, rappresenta ancora una seria minaccia per il popolo eletto di Dio. E, come sappiamo fin troppo bene, l'antisemitismo globale perseguita la nazione ebraica come un'ombra oscura e demoniaca.
Ma il tempismo di Dio è perfetto, come dimostra il nuovo film Bonhoeffer che sfida coloro, soprattutto i cristiani, che in questo momento tacciono sulla patata bollente di Israele. E opportunamente, Sound of Silence di Simon e Garfunkel è stata usata come sigla per il trailer del film.
Quando centinaia di sinagoghe furono bruciate e gli ebrei furono deportati nei campi di concentramento in vagoni bestiame sovraffollati, il silenzio prevalse tra i cristiani - a parte alcuni, tra cui il pastore Dietrich Bonhoeffer.
La Chiesa tedesca nel suo complesso - fortemente influenzata dal riformatore Martin Lutero - reagì a tali crimini con un silenzio assordante. Una chiesa che si supponeva fosse stata “riformata” dai vecchi costumi di un'istituzione che negava la sola fede come chiave di salvezza.
Naturalmente, da un punto di vista umano, i credenti avevano motivo di temere la reazione dei brutali nazisti se avessero osato chiedere pietà per gli ebrei, proprio coloro che avevano dato loro Gesù e la Bibbia.
Ma Gesù insegnò chiaramente ai suoi seguaci che dovevano prendere la propria croce, in altre parole, che dovevano essere pronti a morire per lui. Ma essi fallirono miseramente e tradirono il loro Salvatore. Il popolo eletto di Dio fu mandato al macello come un agnello, e a malapena si levò un sussurro di protesta da parte di coloro che ne avevano beneficiato così abbondantemente!
Ad eccezione di persone come Bonhoeffer, che per questo pagò il prezzo più alto  e fu giustiziato sulla forca solo un mese prima della fine della guerra. Un film coinvolgente e profondamente impegnativo che ogni cristiano dovrebbe vedere. Dopo aver coraggiosamente denunciato i nazisti dal pulpito, la sua venerata madre - orgogliosa del suo grande coraggio - disse: “Sul tuo petto hai dipinto un bersaglio che diventa più grande a ogni parola che pronunci”.
Ester si trovò di fronte a una decisione difficile. Se fosse rimasta in silenzio, l'aiuto per Israele sarebbe arrivato da un'altra parte, ma lei e la sua famiglia sarebbero morte. Questa idea viene ripresa anche a livello nazionale dal profeta che scrive:
“Perché la nazione o il regno che non ti servirà [Israele] perirà...”. (Isaia 60:12)
Ma oggi stiamo facendo meglio della Chiesa tedesca, che "passò dall'altra parte della strada ” come il sacerdote nella parabola del Buon Samaritano?
No. I pastori britannici di oggi hanno deluso gli ebrei rimanendo in gran parte in silenzio di fronte al virulento antisemitismo che scoppia intorno a noi. Nei nostri pulpiti si parla raramente, se non mai, della pericolosa situazione in cui si trovano oggi gli ebrei - e non mi riferisco solo a Israele.
Un nuovo scioccante sondaggio ha rivelato che una percentuale significativa di giovani cristiani britannici ha opinioni antisemite.
Poiché il cristianesimo è fondamentalmente ebraico e praticamente l'intera Bibbia è stata scritta da autori ebrei, tale indifferenza non ha senso. È una vile evasione dalla nostra vocazione di discepoli del Messia ebraico e deve cessare, altrimenti la nostra terra subirà il giudizio di coloro che hanno maledetto Israele invece di benedirlo (Genesi 12:3, Numeri 24:9, Gioele 3:2).
Bonhoeffer trascorse un periodo a New York e a Londra negli anni '30 e avrebbe potuto sfuggire alle conseguenze delle sue convinzioni, ma disse: “Non avrò il diritto di partecipare alla ricostruzione della vita cristiana in Germania dopo la guerra se non condivido le prove di questo tempo con il mio popolo”.
Si arrese alla chiamata del suo Salvatore all'età di soli 39 anni, con le parole enfatiche: “Sono pronto ad andare incontro al mio destino”. Chi di noi è pronto a seguirlo e a percorrere la sua strada?
Riflettiamo - dopotutto Purim è un momento di gioia, e come gli ebrei un tempo furono salvati da un re timorato di Dio, così saranno presto salvati dal Re dei Re, Yeshua HaMashiach.

(Israel Heute, 14 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Stati Uniti e Israele contattano tre paesi poveri per trasferire i palestinesi di Gaza

Gli Stati Uniti e Israele hanno contattato i funzionari di tre governi dell’Africa orientale per discutere l’utilizzo dei loro territori come potenziali destinazioni per il reinsediamento dei palestinesi sradicati dalla Striscia di Gaza nell’ambito del piano post-bellico proposto dal presidente Donald Trump, affermano funzionari americani e israeliani.
I contatti con il Sudan, la Somalia e la regione separatista della Somalia nota come Somaliland riflettono la determinazione degli Stati Uniti e di Israele a portare avanti un piano che è stato ampiamente condannato e ha sollevato gravi questioni legali e morali.
Dato che tutti e tre i luoghi sono poveri e, in alcuni casi, devastati dalla violenza, la proposta mette in dubbio anche l’obiettivo dichiarato da Trump di reinsediare i palestinesi di Gaza in una “bella zona”.
I funzionari del Sudan hanno dichiarato di aver rifiutato le proposte degli Stati Uniti, mentre quelli della Somalia e del Somaliland hanno dichiarato all’Associated Press di non essere a conoscenza di alcun contatto.
Secondo il piano di Trump, gli oltre 2 milioni di abitanti di Gaza verrebbero inviati permanentemente altrove. Egli ha proposto che gli Stati Uniti assumano la proprietà del territorio, supervisionino un lungo processo di bonifica e lo sviluppino come progetto immobiliare.

(Rights Reporter, 14 marzo 2025)

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Quando l’antifascismo esclude: il caso del rabbino Jun e il paradosso progressista

Difensore dei diritti umani e critico di Israele, ma non abbastanza per essere accolto nella lotta contro la supremazia bianca, il rabbino si è visto annullare l’intervento a una manifestazione contro i neonazisti per il suo sostegno a Israele.

di Nina Deutsch

Quando il rabbino Ari Jun ha appreso che i leader religiosi erano stati invitati a parlare a una manifestazione a Cincinnati, prevista per domenica scorsa, contro i neonazisti e la supremazia bianca, ha immediatamente confermato la sua partecipazione. Ex direttore del consiglio per le relazioni della comunità ebraica locale e nuovo leader di una sinagoga riformata progressista, Jun ha una consolidata esperienza nella lotta all’antisemitismo e una profonda passione per la giustizia sociale.
Tuttavia, una settimana dopo la sua adesione, gli organizzatori dell’evento lo hanno informato che non sarebbe più stato tra gli oratori previsti. La motivazione? Il suo sostegno a Israele. «Alcuni dei tuoi valori non sono realmente in linea con quelli che questa protesta sta cercando di rappresentare», ha comunicato Laini Smith, una delle organizzatrici della manifestazione tenutasi al Washington Park della città, tramite un messaggio di testo. (Una versione di questa storia è apparsa originariamente su CincyJewfolk, un sito indipendente di giornalismo per la comunità ebraica di Cincinnati).
Billie Pittman, un’altra organizzatrice del gruppo progressista Queen City United, è stata ancora più esplicita: «Il rabbino Ari Jun è un noto sionista e, sebbene questo evento abbia lo scopo di opporsi ai nazisti e alla supremazia bianca, consentire ai sionisti di partecipare mina l’obiettivo originale della manifestazione». (cincyjewfolk.com).
Questo episodio mette in luce una tensione crescente all’interno delle comunità progressiste negli Stati Uniti, dove gli ebrei progressisti si trovano spesso a dover bilanciare il loro sostegno a Israele con le aspettative dei movimenti politici a cui appartengono. Dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas il 7 ottobre 2023, molti ebrei progressisti hanno riferito di sentirsi esclusi da spazi politici che richiedono loro di denunciare l’esistenza stessa di Israele per essere accolti.
Il caso del rabbino Jun è emblematico di queste dinamiche. Laureato presso l’Hebrew Union College del movimento riformista, quando ha assunto il ruolo di rabbino senior al Temple Sholom a gennaio, era ansioso di ricostruire le relazioni interreligiose e continuare la lunga tradizione di giustizia sociale della sinagoga. È stato anche un critico del governo israeliano e dei suoi sostenitori di destra negli Stati Uniti, sfidando persino alcune ortodossie centriste subito dopo l’attacco di Hamas a Israele. «Se la nostra empatia si estende solo agli israeliani e agli ebrei… facciamo il gioco di Hamas», ha scritto sul suo blog nel novembre 2023, in vista del raduno della comunità ebraica a Washington, DC, che ha attirato circa 300.000 persone. Il mese scorso, ha scritto in un editoriale sul Cincinnati Enquirer che il piano di Gaza del presidente Donald Trump è «nient’altro che la definizione di pulizia etnica del dizionario».
Inoltre, in un post sulla sua pagina ufficiale di Facebook, nei giorni scorsi il rabbino ha scritto il seguente post: «Aspiranti alleati progressisti, i vostri pari ebrei hanno bisogno che sentiate questo: la maggior parte degli ebrei sono sionisti, la maggior parte degli ebrei vuole vedere sicurezza e giustizia per i palestinesi, la maggior parte degli ebrei vuole lavorare contro la supremazia bianca e il nazismo e la maggior parte degli ebrei vuole essere vostro partner. Tuttavia, se viene chiarito più volte che non siamo benvenuti, scoprirete che molti di noi smetteranno di presentarsi al tavolo, e questo è un grave rischio per tutti noi. Una comunità può sentirsi dire che non è desiderata solo così tante volte prima che smetta di dire che la sua esclusione è un colpo di fortuna o un’aberrazione e inizi invece a credere che sia una realtà sistemica. Per favore, unitevi a noi. La nave non è ancora salpata, ma le sue vele sono state issate»
Questi atteggiamenti lo collocano nel mainstream ebraico americano. Secondo uno studio del Pew Research del 2021, l’80% degli ebrei statunitensi afferma che interessarsi a Israele è una parte essenziale o importante di ciò che significa per loro essere ebrei. Quasi il 60% ha affermato di provare personalmente un attaccamento emotivo a Israele. L’anno scorso, l’American Jewish Committee Survey of American Jewish Opinion, ha scoperto che l’85% degli ebrei statunitensi pensa che sia importante per gli Stati Uniti sostenere Israele dopo il 7 ottobre.
«Mi definirei un sionista liberale», ha detto Jun. «Sono attaccato dalle persone alla mia destra nella comunità ebraica perché non sono abbastanza fedele a Israele, e sono attaccato dai progressisti perché ho qualche associazione con Israele. Non considero tutto l’antisionismo come antisemitismo, ma so che c’è una sovrapposizione drammatica tra i due».
Gli organizzatori del raduno non hanno annunciato pubblicamente di aver “disinvitato” Jun. Quando la notizia è emersa nei giorni scorsi, sia i critici che i sostenitori della sua esclusione hanno pubblicato una valanga di commenti sulla pagina Facebook dell’evento. «Questa è una marcia vergognosa che è una bugia totale. Io sono un progressista, ma i progressisti non possono sostenere l’uguaglianza quando si escludono gli ebrei», ha scritto indignato il rabbino Sammy Kanter, direttore dell’apprendimento ebraico presso il JCC locale. «Escludere un gruppo minoritario non è una manifestazione contro l’odio, ma piuttosto ne genera altro!».
Mohammad Ahmad, che guida un gruppo filo-palestinese nel Kentucky settentrionale, appena oltre il fiume Ohio rispetto a Cincinnati, ha elogiato la decisione di revocare l’invito a Jun. «Come palestinese, voglio ringraziare i coraggiosi organizzatori di questo evento per aver preso una posizione chiara contro il sionismo e tutte le forme di supremazia bianca nell’area dei tre stati. Bravo e ben fatto», ha scritto. «Il sionismo è inequivocabilmente razzismo e il sionismo è, senza ombra di dubbio, un’ideologia etno-suprematista ultranazionalista, fascista ed estrema destra che ha inflitto così tanto danno non solo ai palestinesi in Palestina, ma a così tanti altri gruppi emarginati, incluso proprio qui a Cincinnati».
Il dibattito rimane aperto.

(Bet Magazine Mosaico, 14 marzo 2025)

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Tanti piccoli Batman ricordano Ariel Bibas a Purim

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Ariel Bibas sognava di essere Batman e aiutare le persone «intrappolate nel buio». Quando il 7 ottobre del 2023 il buio è calato su di lui nessuno è riuscito a salvarlo, a riportarlo indietro dai tunnel di Gaza dove Hamas l’ha tenuto prigioniero insieme al fratellino Kfir, alla madre Shiri e al padre Yarden, l’unico a uscire vivo da quell’inferno.
Per le strade d’Israele, in occasione della festa di Purim, molti bambini hanno ricordato il piccolo Ariel indossando in suo onore una maschera di Batman, il travestimento con cui aveva celebrato il suo ultimo Purim di libertà. Anche nei giorni precedenti, in molte scuole del paese, sono state organizzate iniziative a tema. «Il cuore ha perso un battito due volte oggi», ha commentato la famiglia. La prima «quando ci siamo svegliati senza nuove foto di Ariel e Kfir mascherati per Purim». La seconda nel prendere atto «degli incredibili gesti» di solidarietà compiuti in loro memoria.

(moked, 14 marzo 2025)

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Università da denuncia

Il prof. Ugo Volli: “L’ateneo di Torino vìola diritti e libertà. Intervenga la magistratura”

di Luca Roberto

ROMA - “Quello che è successo all’Università di Torino è una forma gravissima di censura. Il segnale che oramai all’interno dell’ateneo si è persa qualsiasi libertà accademica. Ed è ancora più grave perché l’evento non era pro Israele, ma per il diritto allo studio. Serve mettere in discussione il principio medievale per cui le forze dell’ordine possono intervenire nelle università solo quando lo richiedono i rettori”.
Il filosofo e semiologo Ugo Volli parla dell’Università in cui ha insegnato per decenni. E che ora, dall’esterno, osserva con un misto di sdegno e preoccupazione. Martedì alle associazioni che sostengono il Manifesto per il diritto allo studio è stato impedito di parlare, all’interno del Campus Einaudi. Sebbene la loro autorizzazione fosse stata concessa e formalizzata da quasi un mese. A “Studenti per Israele” e alle altre associazioni l’università ha preferito i collettivi pro Pal, che non avevano un’autorizzazione e hanno manifestato perché l’evento non avesse luogo.
“Esiste oramai questa tendenza quasi irreversibile a impedire ogni forma di dissenso. A censurare ogni cosa non corrisponda a questa ideologia sfoggiata da gruppi minoritari ed estremisti, che peraltro alle elezioni studentesche sono davvero poco rappresentativi e prendono solo pochi voti”, analizza Volli col Foglio. Non sono immagini nuove, anzi. Dal 7 ottobre in poi se n’è avuta un’evidenza sempre maggiore.
“Oramai esiste una rete stabile negli atenei di tutta Italia coordinata per impedire qualunque evento che non segua la vulgata anti-israeliana e antisemita”, dice ancora il semiologo. “L’abbiamo visto nei casi degli eventi a cui avrebbero dovuto partecipare i giornalisti Maurizio Molinari e David Parenzo. Ma anche nello stesso evento sul diritto allo studio alla Statale di Milano. Gli organizzatori l’hanno potuto tenere solo scortati dalla Digos. Per questo io credo che ci debba essere molta più reattività da parte delle istituzioni e delle stesse forze dell’ordine per impedire che la violenza abbia luogo e che si riesca a mantenere l’ordine pubblico. Questo perché dobbiamo ricordarci sempre che le università sono un luogo pubblico”.
La conversazione col professor Volli verte soprattutto sul caso specifico di Torino, uno dei contesti universitari in cui i collettivi pro Pal hanno avuto maggior spazio di manovra nell’imporre i propri desiderata, nel corso dell’ultimo anno e mezzo.
“Il caso di Torino è molto più grave degli altri perché tira in ballo una complicità delle autorità accademiche e cittadine”, ragiona Volli. “Il sindaco ha tenuto in vita un’associazione come Askatasuna, che ha sede in uno spazio pubblico che il comune non rivendica. Ma il rettore Stefano Geuna, per fortuna arrivato a scadenza di mandato, ha fatto molto peggio: ha tollerato gli imbrattamenti, le occupazioni, la presenza violenta di gruppi eversivi all’interno del Senato accademico che hanno portato all’accoglimento di richieste di boicottaggio nei confronti delle università israeliane. Si può dire senza timore di smentita che oramai l’Università di Torino è un luogo dove i diritti e la libertà non sono affatto tutelati”.
Secondo Volli, peraltro, l’ateneo torinese deve la sua ambiguità a una specie di tradizione storica. “Non c’è soltanto il rettore. Un certo ceto intellettuale torinese è come se avesse sempre coltivato forme di ambiguità e tolleranza verso la violenza. Un atteggiamento che affonda nell’epoca del terrorismo degli anni 70. Io credo poi che in molti preferiscano non avere seccature. E che così si finisca per dare un sacco di spazio ai cosiddetti cattivi maestri che popolano le cattedre dell’ateneo”.
La situazione è talmente preoccupante che la deriva dell’ateneo torinese dovrebbe portare, secondo Volli, a reazioni drastiche. Con l’obiettivo di ristabilire un minimo di credibilità accademica, scalfita da quanto visto nel corso degli ultimi mesi.
“Io credo che a questo punto ci sia bisogno di un’indagine da parte della magistratura. O come minimo di un’ispezione da parte del ministero dell’Università. Perché immagini come quelle cui abbiamo assistito l’altro giorno, con dei ragazzi che vogliono poter parlare di diritto allo studio e si vedono nella pratica negare proprio questo diritto, richiedono un intervento rapido”.

Il Foglio, 14 marzo 2025)

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Israele respinge le accuse dell’ultimo rapporto ONU: “Una delle peggiori ‘blood libel’ della storia” - Shalom

di Luca Spizzichino

Il governo israeliano ha risposto con fermezza al nuovo rapporto delle Nazioni Unite che accusa Israele di aver commesso “atti genocidi” durante la guerra a Gaza, inclusa la distruzione intenzionale di strutture sanitarie per le donne e l’uso della violenza sessuale come arma di guerra.
  La missione permanente di Israele presso le Nazioni Unite a Ginevra ha definito il rapporto “infondato, fazioso e privo di credibilità”, sottolineando che l’IDF ha direttive chiare che proibiscono categoricamente tali comportamenti, in conformità con gli standard internazionali.
  “Anziché concentrarsi sui crimini contro l’umanità e i crimini di guerra perpetrati da Hamas nel peggior massacro contro il popolo ebraico dalla Shoah, l’ONU sceglie ancora una volta di attaccare Israele con accuse false e infondate, comprese quelle di violenza sessuale. Questo non è un Consiglio per i Diritti Umani, è un Consiglio per i Diritti del Sangue”, ha dichiarato Netanyahu, che lo ha definito anche “un circo anti-israeliano” e “un’organizzazione corrotta e irrilevante che sostiene il terrorismo”. Netanyahu ha ricordato inoltre che Israele ha deciso di ritirarsi dal Consiglio circa un mese fa.
  Il portavoce del Ministero degli Esteri, Oren Marmorstein, ha dichiarato: “Si tratta di uno dei peggiori casi di ‘blood libel’ che il mondo abbia mai visto. Accusa le vittime dei crimini commessi contro di loro. Hamas è l’organizzazione che ha perpetrato atrocità sessuali orribili contro gli israeliani. Questo è un documento malato, che solo un’organizzazione antisemita come l’ONU poteva produrre”.
  Anche il leader del Partito dell’Unità Nazionale, Benny Gantz, ha espresso sdegno per il rapporto. “Questo è un abisso morale e una cecità imperdonabile. – ha affermato – Chi ha scritto e firmato questo rapporto non solo mente, ma danneggia la sicurezza globale e sostiene il terrorismo, l’antisemitismo e le calunnie di sangue”.
  La Dott.ssa Cochav Elkayam-Levy, presidente della Commissione Civile sui Crimini di Hamas contro Donne e Bambini del 7 ottobre, ha denunciato il rapporto come parte di una narrazione distorta. “Da quel giorno, assistiamo a tentativi di equiparare moralmente Israele e Hamas. È una comparazione falsa e dolorosa che danneggia le vittime e la giustizia”, ha sottolineato.
  Il Ministero degli Esteri ha concluso ribadendo: “Questo rapporto è una vergogna storica e chiunque creda nella verità e nella giustizia deve rifiutarlo.”

(Shalom, 13 marzo 2025)

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Ministri degli Esteri arabi discutono il piano del Cairo per Gaza con Witkoff

I colloqui a Doha, a cui avrebbe partecipato il funzionario dell'Autorità Palestinese Hussein al-Sheikh, hanno riguardato anche la creazione di un comitato di gestione per amministrare l'enclave costiera.

di Joshua Marks

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L'inviato degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff (C) parla ai media alla Casa Bianca a Washington, DC, USA, 06 marzo 2025

I ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Giordania ed Egitto si sono incontrati mercoledì a Doha, in Qatar, con l'inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente Steve Witkoff per discutere del piano egiziano per la ricostruzione della Striscia di Gaza.
I colloqui hanno riguardato anche l'istituzione di un comitato amministrativo per la gestione della Striscia di Gaza.
Secondo quanto riportato dai media sauditi Al Arabiya e Al Hadath, all'incontro ha partecipato anche Hussein al-Sheikh, segretario generale del Comitato esecutivo dell'OLP.
I partecipanti hanno concordato di continuare le consultazioni e il coordinamento con gli Stati Uniti in merito all'iniziativa egiziana, adottata ufficialmente durante il vertice arabo del Cairo del 4 marzo.
In una dichiarazione rilasciata dopo l'incontro, i ministri hanno sottolineato il loro impegno per il consolidamento del cessate il fuoco a Gaza e gli sforzi per raggiungere una pace globale basata sulla soluzione dei due Stati. I colloqui si sono concentrati anche sulla mobilitazione dei fondi per la ricostruzione della Striscia di Gaza, in particolare in vista della conferenza internazionale dei donatori prevista dall'Egitto, organizzata in collaborazione con le Nazioni Unite e il governo palestinese.
Il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdel Aty ha incontrato separatamente il suo omologo del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, per discutere di ulteriori passi per attuare il piano di ricostruzione e rafforzare il cessate il fuoco.
L'iniziativa di ricostruzione del Cairo è stata proposta come alternativa al piano presentato dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasferire la popolazione di Gaza trasformando l'enclave costiera devastata dalla guerra in un centro economico globale - un'idea fermamente respinta dal Cairo, da Amman e da altre potenze regionali.
Nel frattempo, l'Egitto e il Qatar, insieme agli Stati Uniti, stanno continuando i loro sforzi di mediazione tra Hamas e Israele.
L'inviato speciale degli Stati Uniti per i negoziati sugli ostaggi, Adam Boehler, ha recentemente avuto colloqui diretti con Hamas per liberare gli ostaggi rimasti a Gaza, sebbene gli Stati Uniti siano da tempo contrari ai negoziati con i terroristi.
La delegazione negoziale israeliana ha prolungato la sua permanenza a Doha questa settimana, su richiesta di Witkoff, per facilitare ulteriori colloqui, e il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato gli alti membri della coalizione e i capi della sicurezza per una valutazione della sicurezza, ha riferito mercoledì Ynet.
Secondo il rapporto, il Primo Ministro è stato raggiunto dal Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), il Tenente Generale Eyal Zamir, dal capo dell'agenzia di intelligence interna di Israele (Shin Bet), Ronen Bar, dal Direttore del Mossad, David Barnea, dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Tzachi Hanegbi, dal Ministro degli Affari Strategici , Ron Dermer, dal Ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, dal Ministro della Difesa, Israel Katz, e dal Ministro degli Affari Esteri, Gideon Sa'ar.
Israele e gli Stati Uniti hanno inizialmente respinto il piano di ricostruzione egiziano per Gaza, mentre il gruppo terroristico Hamas ha accolto con favore la proposta.
Il Ministero degli Esteri israeliano ha criticato aspramente la dichiarazione rilasciata al Vertice arabo straordinario, accusandola di ignorare la realtà sul campo dopo il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.
La dichiarazione è ancora radicata in percezioni obsolete”, ha dichiarato il ministero, aggiungendo che ‘non menziona il brutale attacco terroristico di Hamas che ha provocato migliaia di morti da parte israeliana e centinaia di rapimenti’. Israele ha anche condannato il vertice per non aver condannato esplicitamente Hamas.
Il ministero ha anche criticato il continuo affidamento all'Autorità Palestinese e all'Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), organizzazioni che ha accusato di corruzione, di sostenere il terrorismo e di non riuscire a risolvere il lungo conflitto.
“Per 77 anni, gli Stati arabi hanno usato i palestinesi come pedine contro Israele e li hanno condannati allo status di rifugiati eterni”, si legge nella dichiarazione.
Israele ha anche fatto riferimento a recenti proposte che potrebbero offrire ai residenti di Gaza un nuovo futuro, tra cui l'idea promossa da Trump. “I residenti di Gaza hanno l'opportunità di fare una scelta libera basata sul loro libero arbitrio. Questo dovrebbe essere incoraggiato!”, ha dichiarato il ministero. Invece, ha accusato gli Stati arabi di rifiutare completamente questa opzione e di continuare a lanciare “accuse infondate” contro Israele.
La dichiarazione ha avvertito che le azioni di Hamas hanno destabilizzato la regione e che permettere al gruppo di rimanere al potere distruggerebbe qualsiasi possibilità di sicurezza duratura. “Per il bene della pace e della stabilità, Hamas non deve rimanere al potere”, ha dichiarato il ministero.
“Invitiamo gli Stati della regione a lavorare insieme per costruire un futuro di stabilità e sicurezza nella regione”, ha concluso la dichiarazione.
La Casa Bianca ha sottolineato che il piano del Cairo per Gaza non tiene conto della dura realtà attuale sul terreno.
“L'attuale proposta non affronta il fatto che Gaza è inabitabile e i suoi residenti non possono viverci dignitosamente quando è disseminata di macerie e ordigni inesplosi”, ha dichiarato Brian Hughes, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale.
Hughes ha anche ribadito la posizione di Trump sul futuro di Gaza, affermando: “Il presidente Trump sostiene la sua visione di ricostruire Gaza senza Hamas”. Nonostante il rifiuto del piano, ha sottolineato che gli Stati Uniti rimangono aperti a “colloqui in corso” sulla questione.
Le Forze di Difesa israeliane hanno confermato che 35 degli ostaggi ancora a Gaza sono morti. L'intelligence israeliana ritiene che 22 siano vivi, mentre lo status di altri due è ancora incerto. Tra i prigionieri ci sono cinque americani, tra cui Edan Alexander, 21 anni, che si ritiene sia vivo.
Hamas ha condotto un'invasione terroristica del sud di Israele il 7 ottobre 2023, uccidendo circa 1.200 persone, ferendone altre migliaia e sequestrandone 251 a Gaza, scatenando una guerra regionale.

(Israelnetz, 13 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Trump fa marcia indietro su Gaza

In un apparente ammorbidimento della sua proposta di prendere il controllo della Striscia di Gaza, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha affermato mercoledì che il piano non prevede l’espulsione dei palestinesi.
Durante un incontro con il Primo Ministro irlandese Michael Martin nello Studio Ovale, un giornalista ha chiesto al leader irlandese del piano di Trump di “espellere i palestinesi da Gaza”.
“Nessuno espellerà nessun palestinese”, ha risposto Trump.
Quando Trump ha presentato l’idea all’inizio di febbraio, durante la visita del Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, ha detto che la popolazione della Striscia, circa 2 milioni di persone, sarebbe stata trasferita “permanentemente”.
Quando gli è stato chiesto se questo sarebbe stato fatto con la forza, Trump ha insistito sul fatto che nessun gazawo vuole effettivamente rimanere nella Striscia devastata dalla guerra.
Il rifiuto di Trump, nell’ultimo mese, di chiarire che il trasferimento dei gazawi sarebbe stato volontario lo ha posto alla destra del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e dei suoi alleati della linea dura, che hanno insistito sul fatto che i palestinesi non sarebbero stati costretti ad andarsene e che coloro che erano interessati a farlo sarebbero stati sostenuti.
Il portavoce di Hamas, Hazem Qassem, ha accolto con favore quella che ha considerato una ritirata di Trump dalla sua posizione sul trasferimento dei gazawi, invitandolo ad astenersi dall’allinearsi alla visione dell’“estrema destra sionista”.
Sebbene Trump abbia sostenuto il suo piano in generale, il lavoro per attuarlo è stato limitato e molti dei suoi principali consiglieri hanno insistito sul fatto che l’obiettivo era in gran parte quello di spingere gli alleati arabi degli Stati Uniti a presentare una propria proposta per la gestione post-bellica di Gaza.
La settimana scorsa l’Egitto ha presentato il suo piano, che è stato approvato dalla Lega Araba durante un vertice al Cairo.
Il piano prevede che un comitato temporaneo di tecnocrati palestinesi indipendenti gestisca Gaza per sei mesi prima di cedere il controllo dell’enclave all’Autorità Palestinese.
La proposta prevede il dispiegamento di truppe di pace internazionali a Gaza attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel frattempo, l’Egitto e la Giordania addestrerebbero gli ufficiali di polizia dell’Autorità Palestinese, in modo che possano essere inviati a mantenere la legge e l’ordine a Gaza.
Il piano divide Gaza in sette zone diverse e prevede che ognuna di esse venga ricostruita consecutivamente in modo da permettere a tutti i palestinesi di rimanere nella Striscia durante il processo. Questo fa il paio con i commenti di Trump e di altri funzionari statunitensi che insistono sul fatto che Gaza non sarà sicura per i palestinesi durante i 10-15 anni di ricostruzione.
Il piano non affronta Hamas per nome, sostenendo invece che la questione e il destino dei gruppi armati a Gaza possono essere affrontati pienamente solo attraverso un processo politico che stabilisca uno Stato palestinese.
Tuttavia, la Lega Araba, in una dichiarazione di approvazione del piano egiziano, ha affermato che la sicurezza di Gaza “rimane una responsabilità esclusiva delle legittime istituzioni palestinesi, in conformità con il principio di una sola legge e di una sola arma legittima” – indicando che la presenza di gruppi armati diversi dalle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese non sarebbe stata accettata.
La mancanza di una menzione esplicita di Hamas e del disarmo ha frustrato l’amministrazione Trump, che considera la rimozione del gruppo terroristico dal potere come essenziale per assicurare che Gaza possa essere ricostruita ed evitare di tornare al ciclo di guerra che ha afflitto l’enclave per anni.
I partner arabi di Washington si oppongono in varia misura ad Hamas, ma hanno preferito adottare un approccio meno pubblico all’allontanamento graduale dell’organizzazione terroristica da Gaza, sostenendo che il disarmo di Hamas non sarà possibile senza una più ampia iniziativa politica per la creazione di uno Stato palestinese.

(Rights Reporter, 13 marzo 2025)

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Nuovo spirito nei rapporti tra Israele e Libano

di Orna Mizrahiù

Gli accordi raggiunti nel corso dell'incontro quadrilaterale tenutosi a Naqoura, a cui hanno partecipato rappresentanti di Libano, Israele, Stati Uniti e Francia, riflettono un nuovo spirito nelle relazioni tra Israele e Libano.
Ciò segue il cambiamento politico avvenuto in Libano con la nomina del presidente Joseph Aoun e la formazione del nuovo governo sotto la guida del primo ministro Nawaf Salam.
Al termine dell'incontro è stato annunciato che saranno istituiti tre gruppi di lavoro congiunti per discutere:
  1. il ritiro delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) dai cinque punti che ancora controllano lungo il confine;
  2. il rilascio dei prigionieri libanesi catturati dalle IDF durante la guerra; e
  3. i punti controversi riguardanti la demarcazione permanente del confine (la Linea Blu stabilita nel 2000).
Dopo l'incontro, Israele ha accettato di rilasciare cinque degli undici detenuti libanesi sotto la sua custodia, come gesto di buona volontà nei confronti del presidente Aoun.
Le questioni da discutere sono essenzialmente le stesse che Hezbollah cita come giustificazioni chiave per la sua esistenza come milizia militare indipendente, sostenendo che è necessaria per la difesa del Libano e la sua liberazione dalla minaccia israeliana.
Dopo il cessate il fuoco, Hezbollah ha concentrato tutti i suoi sforzi nel ripristino delle sue capacità militari.
L'organizzazione ha permesso con riluttanza allo Stato libanese di impegnarsi per raggiungere questi obiettivi, pur diffondendo una velata minaccia che, se dovesse fallire, Hezbollah riprenderà le operazioni quando e come riterrà opportuno.
I nuovi leader di Israele e Libano condividono l'interesse comune nel mantenere il cessate il fuoco e impedire la rinascita di Hezbollah, sia militarmente che all'interno del sistema politico interno del Libano.
Pertanto, ottenere concessioni da parte di Israele su queste questioni avvantaggia la leadership libanese nella sua lotta interna contro Hezbollah.
Tuttavia, dal punto di vista di Israele, è fondamentale non sottovalutare i limiti dello Stato libanese, che finora ha evitato scontri violenti con Hezbollah, nonché la limitata efficacia dell'esercito libanese nel prevenire la presenza militare di Hezbollah nel Libano meridionale.
Date queste circostanze, è essenziale che Israele concentri le discussioni all'interno dei gruppi di lavoro sulle questioni territoriali, assicurando che le sue esigenze di sicurezza abbiano la priorità.
Ciò richiede di distinguere tra il ritiro delle posizioni assunte durante la guerra, fattibile nel breve termine, e la questione più complessa della demarcazione permanente del confine terrestre.
In questo contesto, Israele deve:
Subordinare il ritiro delle IDF dai cinque punti strategici conquistati durante la guerra al completamento del dispiegamento dell'esercito libanese nella regione e alla dimostrazione della sua capacità e volontà di eliminare ogni ulteriore presenza militare nel Libano meridionale.
Tale obiettivo dovrebbe essere rafforzato garantendo la continua libertà d'azione delle IDF contro le minacce esistenti ed emergenti di Hezbollah.
Insistere sul fatto che la demarcazione permanente del confine terrestre, che comporta concessioni da parte di Israele sui punti contesi, deve essere parte di un accordo globale tra Israele e Libano.
Un simile accordo dovrebbe includere, prima di tutto, la richiesta del completo disarmo di Hezbollah, nonché cambiamenti nelle relazioni ufficiali tra Israele e Libano.

(Aurora Israel, 13 marzo 2025)

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‘From the river to the sea – Jewish women will be free’: il discorso di May Golan all’ONU

Il ministro israeliano per l’emancipazione femminile May Golan è intervenuta all’evento delle Nazioni Unite per i 30 anni dalla Dichiarazione di Pechino condannando l’ONU per l’assordante silenzio di fronte alle violenze contro le donne in Israele e in tutto il mondo, accusando l’Organizzazione di ipocrisia e di “cecità selettiva”.

di Michelle Zarfati

“Ci riuniamo qui oggi per celebrare i 30 anni dalla Dichiarazione di Pechino, una pietra miliare di speranza, un momento inciso nella storia. Trent’anni fa, il mondo si è riunito e si è impegnato a “prevenire ed eliminare tutte le forme di violenza contro donne e ragazze”. Era una nobile promessa, un impegno commovente che riecheggiava attraverso le sale di quella conferenza. O almeno così dicevano – ha detto il Ministro – Sono qui davanti a voi oggi non solo come voce per il mio popolo, ma come voce per ogni ragazza i cui sogni sono stati schiacciati dalla violenza, ogni donna la cui dignità è stata strappata via, ogni madre il cui ultimo respiro è stato un pianto per il suo bambino. Sono qui per le vittime che avete ignorato, quelle la cui sofferenza avete giustificato perché non si adattava alla vostra narrazione”. Golan ha condannato duramente l’Organizzazione delle Nazioni Unite per non aver riconosciuto la violenza sessuale commessa da Hamas contro le donne israeliane durante il massacro del 7 ottobre . Il suo intervento è avvenuto durante una riunione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile, presieduta da UN Women.
  “Sembra che alcuni siano stati esclusi da quel promemoria. A quanto pare Hamas non era tra i gruppi terroristici da condannare. Questi terroristi, subumani nella loro crudeltà, erano in qualche modo esenti dai vostri giudizi. E onestamente, non mi aspetto umanità da quei mostri, le mie aspettative erano altrove. La mia rabbia è per voi , l’ONU, con le vostre risoluzioni vuote e la cecità selettiva. Per il modo in cui avete abbandonato le ragazze cristiane, le donne ebree e i bambini musulmani – che osano sognare oltre l’oppressione. I funzionari delle Nazioni Unite – hanno spiegato che questi stupri non sono avvenuti senza contesto, difendendo i terroristi e giustificando gli stupri” ha continuato la donna. “Permettetemi di riportarvi indietro a un anno e mezzo fa. Uno sciame di vili creature ha invaso Israele. Hanno scatenato una sistematica campagna di stupri: ragazze, adolescenti, donne – violati nei modi più inimmaginabili. Le donne sono state trovate con dozzine di chiodi conficcati nei genitali, i seni tagliati, stuprate in gruppo mentre erano circondate dalle risate – pugnalate e violate mentre i bambini si nascondevano negli armadi per 14 ore – come durante la Shoah. Madri stuprate in gruppo davanti ai loro figli urlanti, i loro corpi profanati ancora e ancora. Bambini piangenti, che hanno implorato gli assassini di smettere di torturare le loro madri. Avete ancora il coraggio di difendere queste bestie umane? Il mio popolo conosce il vostro silenzio, il vostro tradimento. Non imploreremo l’aiuto dei vostri inutili consigli. Sapete cosa si prova a vedere che il mondo si volta dall’altra parte? Noi si, lo sappiamo. E non imploreremo la vostra compassione. Ci proteggeremo da soli”.
  “Da questo palco, desidero salutare il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ci insegna quali sono i veri valori. Il suo impegno a riportare indietro gli ostaggi e le donne tra loro è ciò che riguarda la vera leadership con morale e principi. Perciò oggi vi chiedo: onorerete la promessa che avete fatto 30 anni fa? Prometto a tutti voi: dal fiume al mare, le donne ebree saranno libere!” ha concluso.

(Bet Magazine Mosaico, 12 marzo 2025)

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Purim – Il precetto comandato della Memoria

di Micol Nahon   

  A Purim ricordiamo la persecuzione persiana nel periodo tra il primo e il secondo Tempio. L’odio parte dal ministro Aman che cerca di corrompere il re Achashverosh per sterminare il popolo ebraico. Il conflitto inizia quando Mordechai, guida degli ebrei al tempo, si rifiuta di inchinarsi davanti al ministro. Secondo il commento questi non voleva piegarsi in quanto l’antagonista portava intenzionalmente al collo un idolo. L’odio in principio si rivolge a Mordechai ma, e questo è interessante, si estende poi a tutto il popolo ebraico.
  Appare chiaro che «kol Israel arevim ze baze», «tutto Israel è responsabile uno per l’altro»: il nostro comportamento deve essere ineccepibile non solo per noi stessi, le nostre azioni possono condizionare la situazione e la stabilità dell’altro. Grazie all’intercessione della regina Ester il re Achashverosh concederà agli ebrei il diritto di difendersi dal precedente editto di distruzione – una salvezza miracolosa vestita da tutti i giorni. L’intervento di D-o nella storia di Purim è nascosto, così come la regina stessa nasconde le sue origini all’inizio, così come è celato anche ai nostri giorni; sta a noi alzare un po’ più lo sguardo e arrivare ad esserne consapevoli. E da dove viene Aman? Aman è discendente di Amalek, il nemico per eccellenza del popolo di Israele, che attacca gli ebrei nel deserto appena usciti dall’Egitto. Amalek è discendente di Essav che, nonostante la apparente riconciliazione con Yaakov dopo l’inganno per la primogenitura, è rimasto ai ferri corti con il fratello trasmettendo questa disarmonia ai discendenti. È raccontato nella parasha di Beshallach che appena il popolo si dimostra debole e sembra avere poca fede, arriva il nemico che lo attacca alle spalle e, riporta Rashi, «è come se raffreddasse l’acqua», aprendo la strada a tutti gli attacchi successivi. Dopo i miracoli durante e dopo l’uscita dall’Egitto, nessun popolo avrebbe osato colpire Israel: erano impauriti e immobilizzati. Il valore numerico del termine “Amalek” è lo stesso di “safek”, dubbio. Ogni volta che gli ebrei hanno un dubbio sulla vicinanza del Signore, ecco che lasciano spazio al nemico. Amalek dunque è fuori e dentro di noi, è sia un nemico esterno sia uno interno. E infatti la battaglia nel deserto viene vinta, come dice Moshe, guardando le sue mani rivolte verso il cielo: ogni volta che il popolo guarda le sue braccia alzate, vince in battaglia. «Le sue mani erano emuna fino al tramonto del sole» (Shemot 17.12). «Le sue mani erano fede». Con la fede si vincono le guerre, così sembra dire il testo. E con l’aiuto degli uomini che combattono in basso sotto la guida di Yehoshua.
  Di nuovo nel Tanach troviamo Amalek, al tempo di Shaul: Hashem ordina al re di eradicare il nemico, estirparlo fino in fondo. Shaul non riesce nel suo intento, forse per pietà o per non essere criticato. Per questo perderà il regno. Lo Shabbat prima di Purim è detto “Shabbat Zakhor”, lo “Shabbat del Ricordo”. È obbligo andare a sentire la lettura aggiuntiva in cui viene detto: «Ricorda quello che ti ha fatto Amalek quando uscivate dall’Egitto, quando ti è capitato per la strada e ha colpito tutti i più deboli dietro di te e tu eri stanco e non temevi il Signore» (Devarim 25.17). Dobbiamo ricordare quello che ci hanno fatto i nostri nemici, i vari Amalek della nostra storia, che hanno preso forme e bandiere diverse ma che avevano in comune un odio atavico. Dice Rashi commentando la parashà di Vaishlach che è una halakhah, intesa come una condizione necessaria, che Essav (dal quale viene proprio Amalek) odi Yaakov: con questo dobbiamo fare i conti, è un qualcosa con cui convivere e un ostacolo da superare. Dobbiamo ricordare quello che ci hanno fatto i nostri nemici, per non farlo più riaccadere e per rispetto di quelli di noi che sono caduti. Un “Giorno della memoria” per noi, questa volta, come precetto comandato.
  Continua il testo: «E avverrà quando il Signore tuo Dio ti darà riposo da tutti i tuoi nemici intorno, nella terra che il Signore tuo Dio ti dà come eredità, cancellerai il ricordo di Amalek da sotto al cielo, non dimenticare» (Devarim 25. 19). Adesso dobbiamo ricordare, ma verrà un tempo in cui non ci saranno più nemici e non avremo più la necessità di farlo, presto ai nostri giorni.

(moked, 12 marzo 2025)

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Israele entra nel board del ciclismo europeo

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Per usare una formula cara agli sportivi locali, è in arrivata in questi giorni una nuova conferma del fatto che Israele è “sulla mappa” del ciclismo. All’organizzazione di una storica partenza del Giro d’Italia da Gerusalemme nel 2018 e alla partecipazione alle principali corse a tappe di una squadra professionistica che punta a riconquistare la licenza del World Tour, si è aggiunta in questi giorni la notizia che per prima volta dalla sua fondazione, avvenuta nel 1990 a Zurigo, l’Unione europea di ciclismo (Uec) avrà all’interno del proprio board un rappresentante della federazione israeliana.
  Il Congresso dell’organismo di riferimento dell’Europa che pedala si è riunito negli scorsi giorni a Bratislava e oltre a confermare l’italiano Enrico Della Casa quale proprio presidente per un secondo mandato ha ratificato l’ingresso nel board, tra gli altri, di Dafna Lang. Presidente della federazione israeliana, una delle 48 che hanno nella Uec la propria casa comune, Lang si è presentata al voto del Congresso rivendicando gli investimenti effettuati per potenziare il coinvolgimento di tutte le componenti sociali del paese attorno a questo sport, con progetti mirati rivolti in particolare alla comunità araba e ai giovani talenti di alcuni villaggi beduini. «Rappresentare Israele nella Uec è un grande onore», ha commentato Lang. «Credo che la mia elezione contribuirà allo sviluppo del ciclismo in Israele, rafforzando il suo peso a livello internazionale», ha poi aggiunto la neo consigliera Uec. La sua candidatura è stata sponsorizzata da Sylvan Adams, il proprietario della Israel Premier-Tech. A suo dire, «il ciclismo è il miglior ambasciatore d’Israele». Il suo team proverà a dimostrarlo anche quest’anno, anche sulle strade “rosa” del Giro d’Italia.

(moked, 12 marzo 2025)

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16 mesi dopo - La storia di Israele alla luce di Giuseppe

Perché la prospettiva biblica ci aiuta a riclassificare gli eventi dal 7 ottobre in poi.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Sono passati sedici mesi dal 7 ottobre. Mi rendo sempre più conto che stiamo vivendo un momento davvero storico. Ma bisogna vedere il quadro generale. Se si sta troppo vicini a questo quadro, lo si perde. Spesso si riesce a capire il cammino percorso solo a posteriori. La storia biblica di Giuseppe me lo ha fatto capire ancora una volta. Non solo è la classica figura del Messia nella Bibbia e un riferimento al Salvatore (ho spesso citato paralleli tra Giuseppe e Gesù), ma la sua storia ci ricorda di ripensare e vedere il quadro generale. La rivelazione di Giuseppe ai suoi fratelli in Egitto è uno degli eventi più drammatici del primo libro della Bibbia. “Io sono Giuseppe. Mio padre è ancora vivo?”. I suoi fratelli, che lo hanno venduto e cacciato, scoprono improvvisamente che il loro fratellino Giuseppe è il braccio destro del Faraone. La paura li attanaglia. Il fratello è ora in una posizione di potere e potrebbe vendicarsi in qualsiasi momento. Sono tormentati dal rimorso, da terribili sensi di colpa, quasi non osano respirare. Ma Giuseppe intuisce i sensi di colpa dei fratelli e si rivela subito in tutto il suo splendore e il suo amore.
    “Non siate tristi e non vi arrabbiate, perché mi avete venduto per vivere, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi”.
Cosa fa Giuseppe? Dà all'incidente una svolta diversa. Giuseppe dice loro: Aspettate un attimo, dipende da noi come vogliamo raccontare la nostra storia come famiglia. Certo, non avete fatto bene, ma fermatevi e guardate il quadro generale. Il mio arrivo in Egitto faceva parte di un piano più grande e, grazie al vostro terribile gesto, ora posso salvare tutti noi dalla fame. Incredibile! Giuseppe non si vendica, ma perdona. La sua mentalità non solo salva la sua famiglia, ma salva la famiglia di Giacobbe da qualcosa di molto più profondo. Li salva da una battaglia infinita tra tribù e fratelli che alla fine non ci avrebbe permesso di diventare un unico popolo. Così facendo, Giuseppe “mantiene viva l'alleanza e la promessa di Dio a suo nonno Abramo”. Giuseppe dà loro una prospettiva diversa. Guarda al quadro generale. Ma qual è l'inghippo? Noi lettori sappiamo come finisce la storia e vediamo il quadro generale della Bibbia. Sappiamo che anche Giuseppe in questo momento vede solo un pezzo del puzzle del quadro, una piccola parte di una storia più grande. Se torniamo indietro di circa 200 anni fino all'alleanza di Dio con Abramo (ברית בין הבתרים), vediamo che ad Abramo viene dato un'anticipazione del futuro. Genesi 15 descrive che gli vengono promessi discendenti e terra - con un grande ma:
    "Sappi che la tua discendenza sarà straniera in un paese, e che li renderanno schiavi e li tormenteranno per 400 anni. Ma dopo di che se ne andranno con grandi beni”.
Dio dice espressamente ad Abramo: prima che i tuoi discendenti ricevano la terra d'Israele, devono passare attraverso la diaspora egiziana. E questa storia più ampia è la spiegazione ancora più profonda di tutto ciò che sta accadendo. Nessuno dei principali attori era a conoscenza del proprio ruolo nel film di Dio. Guardate, questo è esattamente ciò che si sta svolgendo oggi sotto i nostri occhi. Stiamo vedendo il quadro generale? Un anno e mezzo fa siamo stati colpiti duramente nel Paese. Oltre 1.700 morti. La gente ha subito un trauma. In quei giorni non riuscivamo a respirare, non vedevamo nulla se non il dolore immediato. Sedici mesi dopo, capiamo che questo catastrofico e misterioso attacco nel sud ha salvato Israele da una catastrofe peggiore e da una guerra più grande. I piani di sterminio dei nostri nemici erano una vera minaccia esistenziale per lo Stato di Israele e sono stati cancellati dalla terra per il momento. Anche se questo non allevia il dolore delle vittime e degli ostaggi, ci sono sicuramente ulteriori prospettive nella nostra realtà: la storia di Israele si sta scrivendo in questi giorni. Questo mantiene viva la promessa di redenzione nel piano di Dio, così come il comportamento di Giuseppe nei confronti dei suoi fratelli ha mantenuto viva la promessa di Dio ad Abramo. Non dobbiamo perdere di vista la realtà. Dobbiamo guardare al quadro generale con una certa distanza. Come nella storia di Giuseppe.

(Israel Heute, 12 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Si sente che Aviel Schneider, direttore di Israel Heute, è cresciuto in una famiglia in cui la Bibbia e il nome di Gesù sono familiari. A conferma di ciò riportiamo un piccolo saggio in cui suo padre, Ludwig Schneider, risponde a "100 domande su Israele - Quello che avreste sempre voluto sapere". La risposta che qui riportiamo è la numero 32, e si ricollega alla persona del biblico Giuseppe.


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“Gli ebrei possono essere salvati senza Gesù?”

di Ludwig Schneider

Il Nuovo Testamento afferma inequivocabilmente che “Gesù (in ebraico: Yeshua) è diventato la pietra angolare e la salvezza non si trova in nessun altro, “perché non c'è altro nome sotto il cielo dato agli uomini per mezzo del quale possiamo essere salvati” (Atti 4:11-12). La validità di questa affermazione non può essere contestata. Gesù stesso dice: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6). Questo ricorda la storia di Giuseppe (Genesi, capitoli 37-50), in cui Giuseppe funge da prototipo del Messia. I fratelli di Giuseppe sono stati salvati da Giuseppe molto prima che lo riconoscessero come loro fratello. La consapevolezza che lo “straniero” fosse in realtà Giuseppe, il loro fratello, arrivò solo in seguito. Allo stesso modo, la consapevolezza che Yeshua è il Messia arriverà solo dopo, quando “guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zaccaria 12:10). Gli ebrei pregano da tempo nella loro benedizione settimanale della Hawdala: “L'Eterno è diventato Yeshua (salvezza) per me. Attingerete acqua con gioia dalle sorgenti di Yeshua (salvezza). Alzo la coppa di Yeshua (salvezza) e invoco il nome dell'Eterno”. Yeshua, ancora non riconosciuto dagli ebrei, provvede già ai suoi fratelli? Così come c'è una grazia che segue, c'è forse anche una grazia che precede? “Signore, tu lo sai!

(“100 Fragen an Israel", Hänssler Verlag, 1996 - trad. www.ilvangelo-israele.it )

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La Palestina in tensione: l’Autorità Nazionale Condanna Hamas per le Trattative con gli Usa su Gaza

L’Autorità Nazionale Palestinese critica Hamas per i colloqui con gli Stati Uniti, temendo che possano compromettere l’unità palestinese e il piano egiziano per la ricostruzione di Gaza.

di Sofia Greco

L’Autorità Nazionale Palestinese ha espresso il suo disappunto nei confronti di Hamas per l’inizio di colloqui con gli Stati Uniti riguardo al futuro della Striscia di Gaza. Questo sviluppo solleva preoccupazioni non solo per l’unità nazionale palestinese, ma anche per il rispetto delle normative interne che vietano contatti con enti stranieri. Il contesto della situazione è complesso, con una continua lotta di potere tra le fazioni palestinesi e pressioni internazionali che rendono la questione ancora più delicata.

La posizione dell’Autorità Nazionale Palestinese
   In una dichiarazione ufficiale rilasciata all’agenzia di stampa Wafa, il portavoce del presidente Mahmoud Abbas ha sottolineato come i colloqui avviati da Hamas con gli Stati Uniti possano minare l’unità palestinese. Secondo il portavoce, tali azioni non solo rappresentano una violazione delle leggi interne, ma mettono anche a rischio il consenso arabo attorno al piano elaborato dall’Egitto per la ricostruzione di Gaza. Questo piano, secondo l’ANP, mira a garantire una soluzione condivisa e duratura per la regione, e l’atteggiamento di Hamas rischia di compromettere tali sforzi.
L’ANP ha tipicamente sostenuto che l’unità tra le varie fazioni palestinesi è indispensabile per affrontare le sfide politiche e sociali che il popolo palestinese deve fronteggiare. La divisione tra Hamas e l’ANP, che governa la Cisgiordania, ha creato una lacuna nella leadership palestinese, complicando ulteriormente il processo di pace e la possibilità di realizzare un futuro stabile per Gaza

Critiche e appelli per l’unità palestinese
   Il portavoce di Abbas ha fatto anche un appello diretto a Hamas, invitando il gruppo a porre fine alla divisione interna e a restituire il controllo della Striscia di Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese. La richiesta è chiara: è fondamentale che tutte le fazioni lavorino insieme per il bene del popolo palestinese, superando le differenze politiche e ideologiche. La divisione e il conflitto interno non fanno altro che rallentare i progressi verso una soluzione pacifica e alimentano le tensioni con l’occupazione israeliana
Questo appello riflette un sentimento diffuso tra molti cittadini palestinesi, che aspirano a unire le forze per affrontare le sfide comuni. Mentre i colloqui tra Hamas e gli Stati Uniti prendono piede, c’è una crescente necessità di trovare un terreno comune per ridurre le divisioni e creare una strategia condivisa che possa rafforzare la posizione palestinese sia a livello locale che internazionale.
Il futuro della Striscia di Gaza rimane incerto, con molteplici fattori che influenzano la situazione. Le trattative tra Hamas e gli Stati Uniti potrebbero portare a sviluppi significativi, ma il rischio di una maggiore divisione tra le fazioni palestinesi rimane alto. L’Autorità Nazionale Palestinese si trova ora sulla difensiva, mentre cerca di preservare la propria legittimità e il proprio ruolo di guida tra i palestinesi.
In questo clima di tensione, la comunità internazionale osserva con attenzione. Gli Stati Uniti e altri attori regionali potrebbero svolgere un ruolo cruciale nel facilitare il dialogo tra le fazioni palestinesi. La situazione richiede approcci diplomatici e collaborazioni pratiche, al fine di costruire un futuro sereno per tutti i palestinesi. Un possibile rinnovo degli impegni con il piano egiziano sarebbe una via percorribile, sempre che tutte le parti coinvolte siano pronte a mettere da parte i litigi e a lavorare per un obiettivo comune.
La lotta per Gaza non è solamente una questione di terreno, ma una battaglia per la dignità, l’identità e la speranza di un popolo intero. Con le giuste azioni, la via verso la pace potrebbe finalmente apparire all’orizzonte.

(Gaeta, 12 marzo 2025)

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Scenario caotico, drammatico e farsesco

La prima minacciosa dichiarazione da parte di Donald Trump dello scatenamento dell’inferno in Medio Oriente se la situazione non fosse mutata, risale a dicembre. Di seguito, prima di insediarsi alla Casa Bianca con pieni poteri il 20 gennaio, Trump inviò Steve Witkoff a Gerusalemme. Witkoff convinse Netanyahu che era opportuno che si accordasse con Hamas perché questo era quello che desiderava il neo-eletto presidente.
Da allora ad oggi si sono susseguite altre dichiarazioni di scatenamenti di inferni imminenti, specificatamente rivolte a Hamas.
Dopo un mese e mezzo di orrendi teatrini del gruppo jihadista allestiti per la liberazione degli ostaggi, ultimatum, andirivieni tra Doha, Cairo e Gerusalemme, si è giunti alla trattativa americana sottobanco con Hamas per la liberazione di un ostaggio americano e la restituzione dei corpi degli ostaggi americani uccisi.
Sulla scena ha fatto il suo esordio Adam Boehler, imprenditore in ambito medico e scelto come negoziatore, il quale ha creato non poco scompiglio con dichiarazioni surreali, facendo sapere che i trucidatori del 7 ottobre sono “bravi ragazzi”, che i terroristi nelle carceri israeliane sono “ostaggi”, che gli Stati Uniti non sono “un agente di Israele”, per poi, a seguito delle reazioni sconcertate che si sono avute in Israele, fare marcia indietro a 180 gradi scrivendo un comunicato in cui afferma incondizionatamente la malvagità di Hamas.
La parentesi fantozziana di Boehler ha avuto come coda le affermazioni di Witkoff, il quale ha elogiato il ruolo “eccezionale” da negoziatore svolto dal Qatar, principale sponsor di Hamas, e attore dalle molti parti, a cui, sicuramente, deve grande riconoscenza personale per averlo salvato dalla bancarotta. Witkoff ha poi aggiunto che Hamas non ha alternative se non quella di disarmarsi e lasciare Gaza, e che se lo farà allora sul tavolo ci saranno “tante cose per una pace negoziata”, però, prima che questo avvenga, si cercherà di estendere la tregua di due mesi ottenendo in cambio la liberazione di altri dieci ostaggi, quindi assai meno di quelli già rilasciati nel frattempo.
Hamas ringrazia per l’ossigeno e dichiara magnanimo di essere “flessibile”.
Mentre Hamas dovrebbe preparare le valigie e trasferirsi non si sa dove, mentre su Gaza incombe il trasferimento della sua popolazione, anche qui non si sa dove, mentre si annunciano futuri inferni, si otterrebbe, con il contagocce in virtù della sua flessibilità, il rilascio di soli dieci ostaggi sui ventiquattro ancora detenuti, senza contare le trentacinque salme che detiene.
In contrasto con la prospettiva posta da Witkoff, della partenza di Hamas da Gaza con salvacondotto, c’è la volontà di quest’ultimo di entrare nella seconda fase dei negoziati che prevede la fine della guerra e l’abbandono definitivo dell’IDF della Striscia. In questo scenario caotico, drammatico e farsesco, l’unica certezza è che la guerra di Israele contro Hamas, dopo quindici mesi, non è stata ancora vinta.

(L'informale, 12 marzo 2025)

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Colui che distingue tra sacro e mondano

Il tabernacolo porta Dio dal cielo alla terra. Egli abita in mezzo a noi. Questo è così significativo che la Torah descrive meticolosamente tutti i comandamenti per la costruzione della Tenda Santa. Perché?

di Anat Schneider

GERUSALEMME - È bene ricordare che la Tenda Santa, chiamata in ebraico Mishkan, era solo un santuario temporaneo utilizzato dagli israeliti durante le loro peregrinazioni nel deserto. Fu poi sostituita dal Tempio. (Ora che questo non esiste più, la tradizione ebraica ha dichiarato che la sinagoga è il “piccolo tempio”).
Perché la Torah dedica così tanto spazio al Mishkan (tabernacolo), anche se era stato concepito solo come un santuario centrale temporaneo, cioè per la durata delle peregrinazioni nel deserto?

Paralleli
  Per rispondere a questa domanda, dobbiamo esaminare alcuni fatti. In primo luogo, ci sono dei parallelismi tra i versetti che descrivono il completamento della creazione del mondo nella Genesi e i versetti che descrivono il completamento della costruzione del tabernacolo nella Genesi:

“E Dio guardò tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono”
“E Mosè vide tutta l'opera, ed ecco che l'avevano fatta come Dio aveva ordinato”
“E il cielo e tutto il suo esercito furono terminati”
“E tutto il lavoro della tenda di riunione fu terminato”
“E il settimo giorno Dio terminò l'opera che aveva fatto”
“E Mosè terminò l'opera”
“E Dio benedisse...”
“E Mosè la benedisse”
“E lo santificò...”
“E lo santificherete e tutti i suoi utensili”.

Le Sacre Scritture collegano evidentemente la costruzione del Mishkan con la creazione del mondo. La prima parola di Genesi 2 si collega a Esodo 1: “E questi sono i nomi...”. La Torah vuole che consideriamo i due libri come una sequenza coerente. In questo modo, comprendiamo che i due libri sono parti di un'unica grande storia.
Nella Genesi, Dio ha creato i cieli e la terra. Ha creato la terra come “casa” per l'uomo.
Il secondo libro di Mosè si conclude con il popolo (israelita) che crea una “casa” per Dio.

Spazio
  C'è un altro significato che si riferisce alla differenza tra sacro e profano. La parola “profano” (in ebraico: hol) deriva dalla radice H.L.L., che è anche la radice di spazio/luogo/stanza. Ciò significa che i giorni della settimana sono lo spazio che Dio ha creato per gli uomini quando ha creato il mondo fisico. E il sacro ne è l'immagine speculare: è lo spazio e il tempo che le persone mettono da parte per avvertire la presenza di Dio in mezzo a loro.
I dettagli della Genesi vogliono mostrare che ogni aspetto del tabernacolo non è un'invenzione umana, ma un comandamento divino. Dio vuole abitare in mezzo agli uomini. Il Dio infinito e onnipotente, che riempie l'intero universo, ha “nascosto” una parte di sé per creare uno spazio per gli uomini. Cioè, Dio si è ridotto per creare un mondo e dare agli uomini uno spazio vitale - i giorni della settimana che noi chiamiamo i giorni di routine della settimana, i sei giorni lavorativi.
Il santo è il luogo (il tabernacolo) che l'uomo ha creato per Dio. Il settimo giorno della creazione è il giorno dedicato a questo. E ciò avviene trascorrendo del tempo in relazione con Dio e dedicandosi al lavoro santo (chiamato anche culto), che è essenzialmente diverso dal lavoro della settimana. Pertanto, la creazione del mondo e la costruzione del tabernacolo non sono solo racconti di creazione e costruzione, ma raccontano anche il rapporto tra il sacro e il mondano.
In primo luogo, c'è lo “spazio” normale e quotidiano che Dio libera per noi, ma anche il sacro che noi “liberiamo” per Dio.
La riduzione può aiutare a creare relazioni normali e sane tra noi e Dio, ma anche tra noi e i nostri simili. Ecco perché è importante imparare da questa idea e applicarla in diversi ambiti della nostra vita.
Nel matrimonio, ad esempio, impariamo a fare un passo indietro per il bene dell'altro e a lasciare al nostro partner lo spazio per essere se stesso. I grandi leader lasciano spazio ai cittadini per vivere una vita confortevole. Gli insegnanti sanno che i loro studenti possono svilupparsi in modo sano solo se danno loro spazio per lo sviluppo personale, dove possono esprimere le loro opinioni e idee, anche se diverse da quelle dell'insegnante. E i genitori che gettano le basi per uno sviluppo sano del bambino sanno quanto sia importante comprendere anche il carattere e la personalità unica di ogni bambino.
“Educa un bambino secondo la sua specie” (Proverbi 22:6).
La riduzione permette a una persona di crescere e svilupparsi in uno spazio sano. È sorprendente che si tratti di una riduzione a scopo di espansione e di sviluppo. Dio si è “ridotto” perché le persone avessero spazio per vivere e svilupparsi.
Yeshua ha agito allo stesso modo venendo nel mondo come uomo di carne e sangue, e questo per portare uno spazio di redenzione e speranza al mondo. Questo è lo stretto legame tra l'uomo e Dio. E la parola “Mishkan” (tabernacolo, letteralmente: dimora) descrive con assoluta precisione la relazione dell'uno con l'altro. In altre parole, Dio abita in mezzo a noi. Un legame eterno e un “vicinato” eterno tra Dio e l'uomo.

(Israel Heute, 11 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Riflessione molto, molto stimolante. C’è da riflettere per tutti: ebrei e cristiani. Si possono chiedere spiegazioni, proporre aggiunte, sollevare obiezioni, ma in ogni caso esse servirebbero a smuovere zone nei due campi rimaste per troppo tempo statiche, e forse anche stantie. M.C.

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Assisi – Il coraggio di Lina la “Giusta”

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Lina Berellini era una bambinaia originaria di Assisi, assunta in servizio dalla famiglia ebraica Calef a Perugia. Con la promulgazione delle leggi razziste nell’autunno del 1938 decise di non abbandonare i suoi datori di lavoro e fu al loro fianco anche quando la persecuzione si estese dai diritti alle vite, mettendo a rischio la sua stessa esistenza per offrire soccorso in particolare ai fratelli Fiorella e Sergio, i piccoli di casa Calef.
  Atti di coraggio che le sono valsi l’inserimento nell’elenco degli oltre 700 “Giusti tra le Nazioni” italiani riconosciuti dallo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme. «In quella terribile oscurità ci furono alcuni barlumi di speranza: uomini e donne non ebrei che si sono opposti al muro di indifferenza, persone che hanno deciso di agire contro una terribile realtà, di andare controcorrente», ha dichiarato l’ambasciatore israeliano Jonathan Peled, intervenendo alla cerimonia del conferimento dell’onorificenza in memoria al Museo della Memoria di Assisi. Secondo il rappresentante dello Stato ebraico, «la loro storia dimostra che la fede nella solidarietà umana esiste ancora». Ha tra gli altri portato un saluto anche Valter Stoppini, il sindaco di Assisi: «Lina ha protetto e salvato due fratelli, Fiorella e Sergio Calef, impedendo la loro deportazione. Lo ha fatto semplicemente attraverso la propria umanità, scegliendo valori come solidarietà, pace, giustizia, contro odio, conflitti, divisioni».

(moked, 11 marzo 2025)

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La Jerusalem Winner Marathon onora gli eroi d’Israele

di Jacqueline Sermoneta

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Sarà dedicata ai soldati dell’Idf, alle forze di sicurezza e di soccorso l’International Jerusalem Winner Marathon di quest’anno. Il prestigioso evento sportivo, arrivato alla 14esima edizione, si svolgerà il prossimo 14 aprile. Sono attesi migliaia di partecipanti da tutto il mondo.
  Durante la cerimonia di lancio, che si è tenuta di recente presso il nuovo stadio di atletica di Givat Ram, il sindaco di Gerusalemme, Moshe Lion, ha consegnato due targhe onorarie: una a Or Elmakias, sopravvissuta all’attacco al festival musicale Nova, e l’altra a Orr Sheizaf, veterano di guerra e allenatore di corsa, gravemente ferito durante una missione operativa a Gaza.
  “Or e Orr incarnano la resilienza, la determinazione e il trionfo dello spirito umano – ha affermato Lion – Entrambi hanno sopportato sfide inimmaginabili, ma hanno trovato la forza di riprendersi, correre e andare avanti”.
  Orr Sheizaf ha in programma di correre il percorso di 5 km per la prima volta dopo la sua guarigione, proprio a simboleggiare il suo ritorno alla vita ma anche in pista. Anche Or Elmakias, da appassionata maratoneta, parteciperà al giro dei 5 km. Oltre al recupero fisico, la ragazza sta affrontando psicologicamente la perdita di dieci amici assassinati al festival Nova. Dopo l’attacco, si è dedicata alla sensibilizzazione globale, determinata a condividere la sua storia, onorare i suoi amici e sostenere il ritorno di tutti gli ostaggi.
  Un’altra targa è stata conferita a Efrat Avraham, madre di quattro figli, che è stata costretta nell’ultimo anno e mezzo a trasferirsi da Shlomi, una cittadina del nord d’Israele, a Gerusalemme, dove ha trovato conforto in un gruppo di corsa, che l’ha supportata. Ora, tornata al nord, sta creando gruppi di corsa per donne sia religiose che laiche, realizzando uno spazio di connessione, resilienza e comunità.
  L’International Jerusalem Winner Marathon è riconosciuta come una delle maratone più impegnative e belle al mondo. Il percorso, infatti, si snoda attraverso i monumenti più iconici della città, fra i quali il Museo d’Israele, il Parlamento (la Knesset), la Città Vecchia, il quartiere armeno, la Torre di David e la Piscina del Sultano. La gara di quest’anno offre sei percorsi: la gara completa (42,2 km), la mezza maratona (21,1 km), i 10 km, i 5 km, la Family Run (1,7 km) e la Community Run (800 metri).
  “Questa maratona è una celebrazione della forza, dell’unità, dello spirito di Gerusalemme e della speranza duratura che caratterizza il popolo di Israele” ha detto il sindaco Lion. “
  Nonostante tutte le sfide che abbiamo dovuto affrontare come Paese, la maratona rimane un simbolo di perseveranza, ottimismo e rinnovamento – ha affermato. Meir Bardugo, CEO della TOTO Winner Organization – Quest’anno, più che mai, rappresenta l’indistruttibile spirito israeliano e di Gerusalemme. È anche un’opportunità per salutare ed esprimere gratitudine alle IDF, alle forze di sicurezza e di soccorso per la loro dedizione nell’ultimo anno”.
  Oltre a essere un evento sportivo, la Jerusalem Marathon è anche la più importante gara di sensibilizzazione sociale d’Israele, con migliaia di partecipanti che corrono per sostenere organizzazioni benefiche come Shalva, ADI, l’Israel Cancer Association e il Michael Levin Lone Soldier Center.

(Shalom, 11 marzo 2025)

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Giocando d’azzardo con Hamas alle spalle di Israele

di Giovanni Giacalone

I colloqui diretti tra l’amministrazione Trump e Hamas non hanno nulla a che fare con il “non essere un agente di Israele”, come affermato dall’inviato statunitense Adam Boehler nel tentativo di giustificare la mossa e contrastare le critiche israeliane e, sono piuttosto una mossa assai sbagliata che conferisce legittimità politica e riconoscimento a una feroce organizzazione terroristica che avrebbe dovuto invece essere marginalizzata subito dopo l’eccidio del 7 ottobre. Hamas dovrebbe essere sulla buona strada per essere sradicato ma, sfortunatamente, a causa di discutibili decisioni politiche e strategiche da parte di entrambi, il governo israeliano e le due amministrazioni statunitensi, sta ancora gestendo Gaza.
Il principale benefattore di Hamas e suo agente politico in Medio Oriente, il Qatar, non avrebbe mai dovuto essere autorizzato a svolgere il ruolo di mediatore principale, e non avrebbe dovuto esserci alcuna mediazione in primo luogo, ma a Washington la vedono diversamente. Non è una coincidenza che Trump abbia immediatamente inviato Steven Witkoff a Doha e abbia fatto pressione su Israele affinché concludesse un “accordo” con Hamas.
Tuttavia, avendo colloqui diretti con Hamas, l’Amministrazione Trump ha oltrepassato una linea di non ritorno e, cosa ancora peggiore, lo ha fatto alle spalle di Israele, poiché a Washington erano ben consapevoli dell’opposizione di Israele a una mossa del genere.

Gli Stati Uniti stanno elevando la posizione politica di Hamas
   Non si tratta di una posizione ideologica da parte di Israele, ma piuttosto pragmatica. I colloqui tra Boehler e Hamas hanno infranto una politica decennale di Washington contro la negoziazione con le organizzazioni terroristiche. In effetti, Trump ha difeso la decisione della sua amministrazione di avere colloqui diretti:
“Non stiamo facendo nulla nei termini di Hamas. Non stiamo dando  loro soldi”, ha continuato. “Bisogna negoziare. C’è una differenza tra negoziare e pagare. Vogliamo liberare queste persone”.
Tuttavia, queste affermazioni indicano una mancanza di comprensione riguardo al fattore terroristico. Il fenomeno del terrorismo non può essere misurato in termini di denaro, come se fosse un affare immobiliare o qualcosa di analogo.
Le negoziazioni incentivano i terroristi a ripetere le atrocità commesse, magari alzando la posta in gioco, consapevoli che la strategia è funzionale ai loro obiettivi e alla loro causa. Inoltre, negoziare consente all’organizzazione terroristica di acquisire legittimità politica, elevandola a legittimo interlocutore, sia a livello nazionale che internazionale.
Sfortunatamente, l’Amministrazione Trump sembra essere confusa su cosa sia realmente Hamas, mentre Boehler sembra incapace di abbracciare la terminologia corretta, riferendosi agli ostaggi israeliani come “prigionieri” e usando il termine “ostaggi” per descrivere i terroristi palestinesi incarcerati in Israele, adottando quindi una retorica comune a Hamas.
Boehler è andato addirittura oltre e ha affermato di volersi identificare con gli “elementi umani di queste persone (Hamas)”, e ha persino fatto riferimento ai funzionari dell’organizzazione terroristica come: “Ragazzi come noi. Sono dei bravi ragazzi”, come riportato dal Times of Israel il 9 marzo.
Non dimentichiamo che Hamas è un’organizzazione terroristica che ha perpetrato il peggior pogrom contro il popolo ebraico dai tempi dell’Olocausto.
Non si può chiedere a Hamas “Qual è l’esito ultimo che vuoi ottenere?”, perché farlo implica legittimare il terrorismo, dargli una scelta. Sfortunatamente, queste affermazioni sono state fatte davvero.

“Prima l’America, prima Trump”
   Boehler si è contraddetto dicendo che l’Amministrazione Trump sta lavorando per il rilascio di tutti gli ostaggi, compresi gli israeliani, e che il pubblico israeliano non dovrebbe temere che gli Stati Uniti si dimentichino di loro, mentre allo stesso tempo ha affermato che gli Stati Uniti “non sono un agente di Israele” e che “Noi (gli Stati Uniti) abbiamo interessi specifici in gioco e abbiamo comunicato ripetutamente (con Hamas)”.
È più che evidente che tali incontri erano principalmente volti a garantire la liberazione dell’ostaggio americano-israeliano Edan Alexander, insieme alla restituzione dei corpi degli ostaggi americano-israeliani Omer Neutra, Itay Chen, Gadi Haggai e Judith Weinstein.
L’obiettivo è stato confermato da Steven Witkoff: “Edan Alexander è molto importante per noi, come tutti gli ostaggi, ma Edan Alexander è americano ed è ferito, quindi, per noi, rappresenta una priorità assoluta”.
Boehler ha cercato di spiegare che si trattava solo di discussioni iniziali con Hamas e che nulla sarebbe stato finalizzato senza l’approvazione di Israele, ma allo stesso tempo ha anche affermato che non gli importava dell’opposizione di Dermer ai colloqui diretti tra Stati Uniti e Hamas alle spalle di Israele, aggiungendo che rispettava e comprendeva la sua posizione, ma “anche noi abbiamo i nostri interessi negli Stati Uniti”.
Dopotutto, l’Amministrazione Trump non ha nascosto i negoziati alla parte israeliana? Quindi, perché gli israeliani dovrebbero credere a Boehler in primo luogo?
Una situazione del genere non può non sollevare una questione di fiducia tra Israele e l’Amministrazione Trump, poiché l’obiettivo di quest’ultima sembra chiaro: ottenere la liberazione dell’ostaggio americano ancora vivo a Gaza e dei corpi dei quattro deceduti.
Trump vuole rafforzare la sua immagine a livello nazionale e ottenere la loro liberazione lo aiuterebbe in questo senso. Non dimentichiamo che quando Trump è entrato in carica, ha immediatamente fatto pressione sul governo israeliano affinché accettasse un accordo deleterio che, oltre all'”obiettivo umanitario” di ottenere la liberazione di alcuni ostaggi, aveva anche lo scopo di presentare il neoeletto presidente degli Stati Uniti come in grado di ottenere ciò che il suo predecessore, Joe Biden, non era riuscito a fare.
Ha avviato colloqui con l’Iran e la Russia nel tentativo di presentarsi come “il pacificatore” che fa “accordi” con tutti, come se il mondo fosse una sorta di mercato commerciale.
Gli interessi dell’America e quelli di Trump vengono prima, non importa a spese di chi: Israele, Ucraina o i dissidenti iraniani.

Un risultato potenzialmente disastroso
   Come se non bastasse, il possibile esito delineato da Boehler è ancora più preoccupante delle sue dichiarazioni: una tregua con Israele di cinque-dieci anni, durante la quale il gruppo terroristico si disarmerebbe e rinuncerebbe al potere politico a Gaza:
“Hamas ha suggerito di scambiare tutti i prigionieri e una tregua di cinque o dieci anni in cui Hamas deporrebbe tutte le armi e in cui gli Stati Uniti, così come altri paesi, garantirebbero che non ci fossero tunnel, che non ci fosse nulla di acquisito sul militare e che Hamas non sia coinvolta nella politica in futuro”. Boehler ha persino definito la proposta “una prima offerta non cattiva”.
Perché Boehler possa anche solo lontanamente pensare di potersi fidare di Hamas resta un mistero.
Il 10 marzo, il ministro delle finanze israeliano, Bezalel Smotrich, ha duramente criticato l’inviato statunitense:
“Boehler “ha agito di sua spontanea volontà” per liberare il soldato prigioniero Idan Alexander, che è un cittadino statunitense. Boehler stava agendo “ingenuamente”, e il piano che ha proposto in nome di Hamas, in base al quale l’organizzazione accettava di disarmare e restituire tutti gli ostaggi in cambio di un cessate il fuoco di 5-10 anni, era “una totale assurdità”, come riportato dal Jerusalem Post.
Vale anche la pena sottolineare che Boehler ha detto alla CNN che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva firmato i suoi colloqui con Hamas in anticipo, ma poi è sembrato ritrattare l’affermazione, chiarendo che la pre-approvazione proveniva da “un gruppo di persone” alla Casa Bianca. Sarebbe interessante sapere chi sono queste “persone”.
Da quanto emerso finora, è chiaro che gli interessi di Israele in merito alla propria sicurezza e quelli dell’Amministrazione Trump sono sempre più divergenti. A questo punto, Israele deve pensare da solo a come risolvere la questione e l’obiettivo primario non può che essere uno: costringere i terroristi a liberare tutti gli ostaggi in una volta sola e sradicare Hamas da Gaza una volta per tutte.
Hamas non ha alcun interesse a liberare tutti gli ostaggi, perché sono l’unica leva che l’organizzazione terroristica ha contro Israele, la sua assicurazione sulla vita. Il processo di rilascio andrà avanti per mesi, forse anni e, nel frattempo, Hamas chiederà garanzie sulla sua permanenza e sul suo ruolo politico a Gaza. Nonostante quello che potrebbero dire all’Amministrazione Trump, la sopravvivenza è in gioco e Hamas farà di tutto per ottenerla. Infatti, a Washington, ne sono ben consapevoli.

(L'informale, 11 marzo 2025)
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Ma gli americani, ci sono o ci fanno? In ogni caso, sembra proprio che su questo piano per Israele le cose si mettano molto male. M.C.

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Antisemitismo da record nei campus americani ma le università cominciano a rispondere. mentre Trump taglia i fondi alla Columbia

Degli 85 istituti già censiti un anno fa, circa il 45% ha apportato cambiamenti significativi alle policy per affrontare le attività antisemite nei campus. Quasi tutte le scuole hanno rivisto le loro direttive riguardo alle manifestazioni, a seguito delle proteste anti-israeliane che sono scoppiate nei campus di tutto il paese l’anno scorso.

di Francesco Paolo La Bionda

L’Anti-Defamation League (ADL) ha pubblicato per il secondo anno il suo Campus Antisemitism Report Card™, un tool che analizza lo stato attuale dell’antisemitismo nei campus statunitensi e la risposta delle università e dei college al fenomeno. I risultati dello studio dipingono un quadro preoccupante di crescente antisemitismo nei campus universitari, sulla scia del conflitto tra Israele e Hamas, con numerose segnalazioni di molestie, atti vandalici contro simboli ebraici e casi di discriminazione contro studenti ebrei. Mentre alcune università hanno iniziato ad adottare misure per migliorare la loro risposta all’antisemitismo, molte stanno ancora faticando nel riuscire ad affrontare efficacemente il problema.

Antisemitismo in crescita, ma le istituzioni universitarie iniziano a muoversi
  Questa edizione del Campus Antisemitism Report Card ha valutato 135 università americane sulla base di 30 criteri, suddivisi in tre categorie: “Politiche amministrative”, “Vita ebraica nel campus” e “Condotta nel campus e problemi di clima”. Tra i singoli fattori presi in considerazione, ci sono le policy formali per affrontare le discriminazioni, le procedure attuate per identificare e indagare sugli incidenti antisemiti, l’attuazione di iniziative educative per sensibilizzare sull’antisemitismo e il clima generale del campus vissuto dagli studenti ebrei.
Degli 85 istituti già censiti un anno fa, circa il 45% ha apportato cambiamenti significativi alle policy per affrontare le attività antisemite nei campus. Quasi tutte le scuole hanno rivisto le loro direttive riguardo alle manifestazioni, a seguito delle proteste anti-israeliane che sono scoppiate nei campus di tutto il paese l’anno scorso, disturbando le attività accademiche e spesso generando segnalazioni da parte degli studenti ebrei che non si sentivano più al sicuro.
Nel complesso, tra tutte le 135 università esaminate nel rapporto, 49, ovvero il 36%, hanno ricevuto un voto di A (il massimo) o B, in aumento rispetto al 23,5% del 2024. Altre 41, ossia il 31%, hanno ricevuto una D o una F, in calo rispetto al 44% della passata edizione, anche se va notato come l’ADL avesse rivisito i risultati passati a giugno 2024, assegnando a 12 università dei voti migliori.
“Ogni singolo campus dovrebbe ottenere una A. Non si tratta di un’asticella alta, questo dovrebbe essere lo standard”, ha commentato il CEO dell’ADL Jonathan Greenblatt. “Mentre molti campus sono migliorati in modo incoraggiante e lodevole, gli studenti ebrei non si sentono ancora sicuri o inclusi in troppi altri. I progressi che abbiamo visto sono la prova che il cambiamento è possibile: tutti i dirigenti universitari dovrebbero concentrarsi sull’affrontare queste sfide reali con azioni concrete”.

Gli studenti ebrei negli Stati Uniti si sentono sempre meno sicuri
  A gennaio, un sondaggio dell’ADL ha rilevato che l’83% degli studenti universitari ebrei ha sperimentato o assistito a episodi di antisemitismo dopo gli attacchi di Hamas contro Israele del 7 Ottobre, e che il 66% non ha fiducia nella capacità della propria università di prevenire tali incidenti. Sempre secondo l’ente americano, nell’anno accademico 2023-2024 si sono verificati più di 1.400 episodi di antisemitismo nei campus americani, un record storico senza precedenti e probabilmente una cifra largamente sottostimata per via di coloro che hanno scelto di non segnalare gli attacchi subiti o testimoniati.

Trump taglia 400 milioni di dollari alla Columbia University
  Intanto, è di venerdì 7 marzo la notizia che  l’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump ha annunciato un taglio di circa 400 milioni di dollari di fondi federali destinati alla Columbia University , una delle università più prestigiose degli Stati Uniti, al centro delle polemiche per le proteste filo-palestinesi e l’antisemitismo esploso dal 7 ottobre.

(Bet Magazine Mosaico, 10 marzo 2025)

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Eurovision. Israele svela la canzone in gara: “New Day Will Rise”, un messaggio di speranza

di Luca Spizzichino

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Yuval Raphael

Israele ha presentato ufficialmente la canzone che Yuval Raphael interpreterà all’Eurovision Song Contest 2025, che quest’anno si terrà a Basilea, in Svizzera. Si tratta di “New Day Will Rise”, una ballata potente che trasmette un messaggio di speranza e resilienza. 
Il videoclip ufficiale mostra Raphael circondata da un gruppo di giovani che cantano, ballano e si abbracciano in una distesa erbosa. Le immagini evocano il tragico ricordo del festival Nova, uno dei teatri del massacro del 7 ottobre 2023, quando 364 israeliani furono brutalmente uccisi da terroristi di Hamas. Raphael stessa è sopravvissuta nascondendosi sotto i corpi delle vittime in un rifugio nei pressi del Kibbutz Be’eri, dove è rimasta per otto ore prima di essere salvata.
Uno dei versi in ebraico della canzone proviene dal Cantico dei Cantici: “Le molte acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo”. Keren Peles, autrice del brano, ha sottolineato il significato simbolico di queste parole: “Non importa quanto fuoco ci lancino contro, la nostra acqua è più forte, il nostro amore è più forte. Non possono spegnerci, non possono bruciarci”.
Yuval Raphael ha descritto la canzone come un inno alla guarigione e alla speranza, particolarmente evidente nel suo ritornello: “New day will rise / Life will go on / Everyone cries / Don’t cry alone / Darkness will fade / All the pain will go by / But we will stay”.
“Per me, questa canzone rappresenta la rinascita di cui tutti abbiamo bisogno, l’ottimismo per i giorni a venire – ha affermato all’emittente israeliana Kan – Parla della nostra forza, della speranza condivisa e dell’amore che ci unisce.” La cantante, che ha vissuto a Ginevra da bambina, ha scelto di includere il francese nel testo per rendere omaggio alla sua esperienza personale.
Israele gareggerà nella seconda semifinale del 15 maggio 2025, con l’obiettivo di conquistare un posto nella finale del 17 maggio. Come accaduto nell’edizione precedente, l’artista israeliana dovrà probabilmente affrontare proteste e tentativi di boicottaggio, ma l’EBU ha confermato la sua partecipazione al concorso, ignorando le pressioni politiche.

(Shalom, 10 marzo 2025)

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Israele invia negoziatori a Doha; Trump spinge il dialogo diretto con Hamas

Il crescente ruolo degli Stati Uniti nei negoziati con Hamas creerà tensioni tra Gerusalemme e Washington

di Itamar Eichner

A seguito di intense consultazioni guidate dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, Israele ha deciso ieri sera di inviare lunedì a Doha una delegazione negoziale per discutere il Piano Witkoff. La delegazione è guidata dal capo del servizio segreto interno Shin Bet e comprende, tra gli altri, Gal Hirsch, Ofir Falak, oltre a membri del Mossad e dello Shin Bet. L'inviato speciale della Casa Bianca, Steve Witkoff, si unirà alla delegazione a Doha martedì.
Fonti israeliane che hanno parlato con i consiglieri di Trump negli ultimi giorni hanno avuto l'impressione che l'amministrazione statunitense sia convinta che il canale di comunicazione diretto con Hamas possa ottenere risultati positivi per gli ostaggi nella Striscia di Gaza e che sia determinata a sfruttare pienamente questo canale. Le stesse fonti ritengono che l'annuncio di Hamas di segnali positivi di avanzamento nei negoziati sulla seconda fase sia corretto e che si stiano effettivamente facendo progressi. Ciò contrasta con le dichiarazioni degli ambienti politici israeliani secondo cui questo canale non ha prodotto risultati e in Israele “non si conoscono progressi nei colloqui sulla fase B”.
Un alto funzionario statunitense ha ammesso che “il governo israeliano non gradisce che si parli direttamente con Hamas”, ma Israele non può affermare di non saperne nulla. I colloqui tra gli americani e Hamas avvengono dal mese scorso e si protraggono ormai da oltre tre settimane. Israele si è sentito snobbato perché il Presidente americano Donald Trump ha parlato di Hamas senza coinvolgerlo - e teme soprattutto di perdere il controllo sugli eventi.
Fonti israeliane che hanno parlato con alti rappresentanti della Casa Bianca hanno avuto l'impressione che la risoluzione della crisi degli ostaggi sia per Trump una pietra miliare sulla strada dell'espansione degli Accordi di Abraham e che non permetteranno a Netanyahu di ostacolare i loro piani. “Questa amministrazione vuole fare tutto il possibile per raggiungere gli obiettivi che si è prefissata. Non appena si renderanno conto che Bibi è un ostacolo, gli andranno contro”. Trump ha in programma un viaggio in Arabia Saudita entro un mese e mezzo - e non lo farà finché la questione degli ostaggi non sarà risolta. Alla Casa Bianca si pensa che Trump non può perdere e non permetterà a nessuno di metterlo in una situazione simile”.
Witkoff ha chiesto esplicitamente a Israele di non riprendere i combattimenti finché i negoziati sono in corso, mettendo Gerusalemme in una posizione difficile. Israele aveva dichiarato che non ci sarebbe stato alcun cessate il fuoco senza il rilascio degli ostaggi - e ora è già passata una settimana dalla fine del cessate il fuoco senza che sia stato rilasciato alcun ostaggio.
Gli americani stanno negoziando con Hamas una versione annacquata del Piano Witkoff: non il rilascio di tutti gli ostaggi in due fasi, ma inizialmente un numero minore per estendere il cessate il fuoco fino alla fine del Ramadan e della Pasqua. Uno dei rapporti parla del rilascio di dieci ostaggi in cambio di un cessate il fuoco di 60 giorni. Gli americani vogliono assicurarsi che gli ostaggi americani vengano rilasciati - Idan Alexander ha la priorità assoluta, ma anche gli americani considerati morti. Tuttavia, un funzionario israeliano ha dichiarato che gli ostaggi americani non sono considerati in modo isolato, ma fanno parte dell'accordo generale che gli americani stanno portando avanti.
Sebbene Israele si stia coordinando con gli americani e riceva aggiornamenti, si teme che questo canale operi alle spalle di Israele. Israele non gradisce questa situazione, soprattutto per paura di trovarsi di fronte al fatto compiuto.
Israele si sta preparando alla ripresa dei combattimenti, ma è chiaro che ciò sarebbe contrario alla volontà degli americani, finché i loro colloqui con Hamas continueranno. Un rappresentante politico ha dichiarato: “Witkoff arriverà nella regione solo quando ci saranno dettagli finali da chiarire. Al momento non si conosce alcun progresso. Gli egiziani hanno riferito di progressi nella fase B, ma non ce ne sono”. Per quanto riguarda i colloqui diretti degli americani con Hamas, essi vogliono liberare i loro cittadini. Questo è un bonus no-deal - dovrebbero rilasciarli. Siamo molto soddisfatti delle pressioni e delle minacce di Trump e speriamo che questo ottenga più delle nostre pressioni attraverso l'impedimento degli aiuti umanitari. Finché Hamas si rifiuterà, continueremo a imporre sanzioni e altre misure punitive su Hamas”.
Per quanto riguarda la ripresa dei combattimenti, il rappresentante politico ha affermato che: “Innanzitutto, vogliamo esaurire ogni possibilità di riportare indietro il maggior numero possibile di ostaggi prima che riprendano i combattimenti - perché quando iniziano i combattimenti, tutto va fuori controllo e nessuno sa cosa succederà. Succederà in modo diverso da prima, ed è per questo che stiamo facendo ogni sforzo per riportare indietro quanti più ostaggi possibile prima che ciò accada. Ecco perché stiamo dando ai mediatori e agli americani la possibilità di far scendere Hamas dalla sua posizione e di raggiungere un qualche tipo di compromesso o di accordo - magari un accordo sul piano di mediazione di Witkoff. Qualsiasi cosa che permetta il ritorno degli ostaggi. Quello che è certo è che non continueremo un cessate il fuoco senza la restituzione dei nostri ostaggi”.
Fonti a conoscenza della vicenda affermano che gli ostaggi sopravvissuti sono riusciti a creare un legame emotivo molto forte con Trump. Le persone che hanno parlato con i rappresentanti della Casa Bianca hanno avuto l'impressione che Trump intenda fornire il massimo delle risorse per questo problema.
Per quanto riguarda i colloqui che gli americani stanno conducendo con la leadership di Hamas, risulta che Adam Boehler, l'inviato di Trump per gli affari degli ostaggi, stia parlando con la leadership di Hamas già da tre settimane. Il test cruciale sarà se ci sarà una seconda fase dell'accordo - o almeno un gesto da parte di Hamas riguardo a Idan Alexander e alla restituzione dei quattro ostaggi americani deceduti. Finora non è chiaro.
Fonti a conoscenza della questione affermano: “C'è una dinamica che Netanyahu non conosce e non controlla. Non esiste uno scenario in cui l'America possa liberare i suoi cittadini senza liberare anche gli altri ostaggi. Israele ha cercato di affermare che non c'è una seconda fase e che non è pronto ad avviare negoziati con Hamas, ma ora c'è un'amministrazione statunitense che dice: “Parleremo direttamente con Hamas e cercheremo di far avanzare i negoziati”.
Fonti legate al governo affermano: “Questa amministrazione non lavora in modo convenzionale. Lavora in modo molto creativo e infrange tutte le regole. Non sono vincolati da considerazioni tradizionali. Ciò richiede una mentalità flessibile per coloro che conducono i negoziati - e loro hanno questa flessibilità. Il team di Witkoff è molto forte e attivo. Molte cose stanno accadendo sotto la superficie”.
Fonti a conoscenza con l'argomento affermano che Witkoff verrà nella regione solo quando vedrà che entrambe le parti mostrano una seria volontà di negoziare.

(Israel Heute, 9 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Francia – Ebrei di sinistra scrivono a Le Monde: Abbandonati dalla nostra parte politica

Il 1° marzo Le Monde ha pubblicato un articolo che segna un punto di svolta nel dibattito sull’antisemitismo: un gruppo di intellettuali, ebrei francesi che si definiscono, «tutti figli della famiglia della sinistra» ha denunciato il silenzio, l’indifferenza o addirittura la negazione messa in atto dalla stessa sinistra di fronte alla recrudescenza di un fenomeno mai veramente scomparso. La testimonianza non è solo un atto di accusa, ma anche il sintomo di un disagio profondo che scuote alla base il patto repubblicano francese. Negli ultimi anni gli atti di antisemitismo si sono moltiplicati: dagli insulti nelle scuole alle minacce sui luoghi di lavoro, dalle svastiche sulle vetrine a graffiti infami sulle cassette postali. «Dall’omicidio di Ilan Halimi nel 2006 e dei bambini della scuola Ozar Hatorah di Tolosa nel 2012, sappiamo che l’antisemitismo uccide in Francia». Eppure, sostengono i firmatari dell’appello, chi dovrebbe insorgere in difesa della giustizia e dell’uguaglianza sembra sempre pronto a voltarsi dall’altra parte.
  La sinistra, tradizionalmente impegnata nelle battaglie contro ogni forma di discriminazione, sembra sorda ogni volta che l’odio colpisce gli ebrei. Non si tratta, sostengono, di un’assenza di consapevolezza, ma di una precisa volontà di minimizzare, relativizzare o addirittura negare il problema. Questo atteggiamento si radica in una confusione pericolosa tra antisionismo e antisemitismo in cui le critiche alle politiche dello Stato di Israele, legittime in un dibattito democratico, spesso degenerano in un atteggiamento ostile verso gli ebrei tout court. Slittamento che non è nuovo ma oggi assume contorni allarmanti: la retorica militante dell’estrema sinistra sembra incapace di distinguere tra opposizione a un governo e pregiudizio contro un intero popolo.
  Il caso della sinistra radicale francese è esemplare: già nel 2024 figure autorevoli come Serge Klarsfeld avevano denunciato un pericoloso clima di ambiguità, al punto di dichiarare che avrebbero votato per il Rassemblement National pur di arginare l’antisemitismo presente nell’orbita di Jean-Luc Mélenchon. Sebbene sia una scelta che ha sollevato polemiche, ha anche messo in luce una contraddizione evidente: la sinistra, che da sempre si fa paladina dei diritti delle minoranze, trascura la comunità ebraica quando questa si trova sotto attacco.
  Il collettivo Tsedek ha a sua volta sollevato una questione speculare e altrettanto complessa: c’è il rischio che la denuncia di antisemitismo venga strumentalizzata per delegittimare la sinistra. Se è vero che l’antisemitismo non deve diventare un’arma politica, è altrettanto vero che non si può eluderlo per ragioni ideologiche. Tacere di fronte a un simile fenomeno significa di fatto accettare di abbandonare una parte della cittadinanza a un senso di isolamento e paura. L’appello pubblicato su Le Monde non può essere archiviato con superficialità: ignorarlo significa tradire quei principi di universalità e solidarietà che dovrebbero guidare ogni battaglia per i diritti. Nessuna lotta per l’uguaglianza può essere credibile se lascia indietro gli ebrei di Francia. 

(moked, 9 marzo 2025)

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Cambiano i vertici delle forze armate di Israele

di Ugo Volli

Zamir al posto di Halevi
   Dopo quasi un anno e mezzo di guerra, approfittando della tregua in corso e che forse sta per finire, le forze armate israeliane e i servizi di informazione stanno cambiando i quadri dirigenti più importanti, i loro uomini-immagine e anche probabilmente l’approccio strategico, per prendere atto non solo dei tragici errori commessi prima e durante l’attacco del 7 ottobre, ma pure dal corso della guerra, che è stato ricco di risultati ma anche per certi versi incompleto e difficoltoso. Il cambiamento più importante è stato la sostituzione del capo di stato maggiore Herzi Halevi, che comandava le forze israeliane dal gennaio 2023 e si è dimesso a gennaio. È stato rimpiazzato il 5 marzo da Eyal Zamir. Zamir era stato già nella lista dei tre possibili candidati per questo ruolo in concorrenza con Halevi anche nel turno precedente, quando era stato scelto Gadi Eisenkot, di cui era stato poi il vice. Non si tratta dunque di una nomina che rivoluziona lo stato maggiore, anche se alcuni hanno letto la sua nomina come la sostituzione di un ufficiale dei paracadutisti (com’era Halevi) o di un uomo dei reparti speciali della brigata Golani (Eisenkot) con un carrista come Eyal Zamir, e quindi con uno sguardo più attento agli schieramenti terrestri e all’occupazione del territorio. Certamente Zamir nei momenti del 7 ottobre prestava servizio come direttore generale del Ministero della Difesa, con compiti logistici e di organizzazione delle armi e non porta responsabilità per quel che è accaduto. Gli si attribuisce inoltre un approccio più aggressivo di quello di Halevi e una maggiore vicinanza al primo ministro Netanyahu, di cui era stato segretario militare fra il 2012 e il 2015.

La “conceptzia”
   Solo il tempo potrà dire se Eyal Zamir sarà capace di determinare quel mutamento di mentalità nello Stato Maggiore che molti in Israele ritengono necessario: l’abbandono dell’illusione che la prevalenza tecnologica possa risolvere tutti i problemi e soprattutto dell’idea che i movimenti terroristici palestinesi siano interessati al benessere della popolazione che amministrano e dunque possano essere ridotti alla calma con un misto di esibizioni di forza e di concessioni economiche, come si è tentato di fare a Gaza (ma anche in Giudea e Samaria) negli ultimi vent’anni prima del 7 ottobre. Questa è quella che nel gergo politico israeliano viene chiamata “conceptzia”, cioè il pregiudizio che ha impedito ai vertici militari e politici di vedere il pericolo in arrivo, anche al di là degli errori dei vertici dei servizi di sicurezza.

I cambiamenti nei comandi principali
   Il nuovo capo di stato maggiore sta comunque agendo molto velocemente per cambiare il vertice delle Forze armate. Sono in via di sostituzione il dimissionario capo del Comando Meridionale, Yaron Finkelman con Yaniv Asor, anche lui estraneo agli eventi del 7 ottobre. Sarà sostituito anche Uri Gordin, capo del Comando Settentrionale ma non dimissionario, anzi in genere considerato fra coloro che hanno lavorato meglio nella guerra e forse destinato a diventare il vice di Zamir. Non si sa ancora chi prenderà il suo posto. Cambia anche il capo della Direzione delle operazioni, Oded Basiuk, pure lui dimissionario per il ruolo tenuto nel ritardo della risposta all’attacco di Hamas. Al suo posto andrà Itzik Cohen, che comandava la Divisione 162, che ha sostenuto la parte più pesante dei combattimenti a Gaza nello scorso anno e mezzo. Ha annunciato la dimissione dal ruolo e l’uscita dalle forze armate l’ammiraglio Daniel Hagari, un volto diventato popolare come responsabile delle informazioni dell’esercito per la stampa internazionale, che durante quest’anno ha svolto un lavoro convincente e documentato, ma in un paio di occasioni, per sua stessa ammissione, è uscito dai limiti del suo compito e anche dal ruolo costituzionale delle forze armate prendendo posizioni politiche sulle trattative con Hamas in polemica col governo. A quanto pare Hagari sarà sostituito da un altro carrista.

I servizi
   È destinato infine a essere sostituito il responsabile del servizio di informazione militare (Aman), Aharon Haliva, che aveva annunciato le proprie dimissioni alcuni mesi fa. Dalle inchieste compiute autonomamente dai vari corpi militari sul 7 ottobre che sono state ampliamente commentate sui giornali israeliani risulta che le responsabilità prossime della risposta inadeguata all’attacco terroristico vanno divise fra chi aveva il compito della vigilanza del confine di Gaza e non l’ha fatto adeguatamente e i responsabili dei servizi di informazione, che non hanno utilizzato adeguatamente gli indizi di cui disponevano e gli allarmi veri e propri che arrivavano dai subordinati. In Israele i servizi principali sono tre: quello per le operazioni all’estero (il Mossad, che non ha competenza su Gaza e in questa guerra ha agito in maniera efficacissima, riuscendo a eliminare la minaccia più preoccupante, quella di Hezbollah e anche a neutralizzare all’estero diversi capi terroristi), quello militare (Aman), che conta soprattutto su mezzi tecnologici, e quello civile, competente per il territorio dello stato e le zone dell’Autorità Palestinese (lo Shin Bet, che nella stampa internazionale è chiamato spesso ASI). La responsabilità più pesante è probabilmente di quest’ultimo organismo, che non ha raccolto i segnali d’allarme che gli arrivavano e anche durante la guerra è riuscito solo in parte a penetrare i segreti di Hamas. Il capo dello Shin Bet rifiuta però di dimettersi, o meglio ha annunciato le sue dimissioni ma, in maniera molto irrituale, le ha pubblicamente condizionate alla possibilità di indicare il successore e comunque ha fatto sapere che intende darle solo dopo che sarà costituita una commissione d’inchiesta di Stato, sfidando il licenziamento chiesto da alcuni nel governo.

L’inchiesta che verrà e la ripresa della guerra
   La democrazia israeliana ha sempre reagito alle difficoltà militari cercando di chiarire pubblicamente con commissioni indipendenti gli errori e le insufficienze, cambiando i responsabili e cercando di imparare dai problemi incontrati. È accaduto così dopo le due guerre del Libano e anche dopo quella del Kippur, con inchieste che a tempo debito hanno investito i quadri militari e anche il governo. Senza dubbio accadrà così anche questa volta alla fine della guerra. I cambiamenti in corso non vanno certamente intesi come un sostituto dell’inchiesta, ma come premessa di un cambio di passo e di un’intensificazione strategica se e quando (forse presto) riprenderà la guerra a Gaza, o si accenderà in Siria, o arriverà alla testa della piovra terroristica, cioè all’Iran e al suo armamento nucleare.

(Shalom, 9 marzo 2025)

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Il gioco perverso di Hamas, continua a tenere in ostaggio gli abitanti di Gaza mentre l’opinione pubblica dimentica crimini atroci

di Tiziana della Rocca

Hamas continua il suo gioco perverso. Ha rifiutato la proposta israeliana di estendere la tregua, e continua a tenere in ostaggio non solo i civili israeliani (i vivi e i morti), ma anche i due milioni di abitanti di Gaza. L’ultimatum del movimento terrorista è semplice: non ce ne andremo da Gaza. Quindi, o gli viene permesso di restare al potere oppure accetterà senza battere ciglio l’opzione della ripresa dei combattimenti da parte d’Israele: in poche parole, la stessa politica perseguita dal loro defunto leader Yahya Sinwar.

Hamas tiene in ostaggio gli innocenti di Gaza
   I nuovi dirigenti di Hamas non negoziano seriamente, ma ricattano il mondo, e da vigliacchi quali sono trascinano gli ostaggi israeliani e la gente innocente di Gaza in un incubo senza fine. La loro codardia, così come la loro bramosia di potere, non è mutata. Hamas, nonostante le minacce degli Usa e d’Israele, aveva già formato un nuovo governo per amministrare Gaza, prima ancora che l’Egitto presentasse la sua proposta che includeva la ricostruzione della Striscia senza sfollare i suoi cittadini e senza Hamas al potere. Tanto per essere chiari: parliamo dell’Egitto, che ha chiesto soldi alla popolazione di Gaza per permetterle di fuggire dalla guerra. E che poi ha finto indignazione per lo sfollamento dei palestinesi nella Striscia.

La memoria corta sugli orrori di Hamas
   E visto poi che ieri era l’8 marzo, la giornata internazionale della donna, è importante riportare le testimonianze di Hadar Sharvit e Yuval Tapuchi, due ragazze israeliane sopravvissute al massacro del Nova Festival, che hanno vissuto, in prima persona, la malvagità e la vigliaccheria di Hamas. Il 7 ottobre i suoi militanti si sono scagliati in particolare contro le donne, stuprate, brutalizzate e soggette a violenze inenarrabili. Le due ragazze sono state invitate per la manifestazione organizzata a Roma dall’Associazione Setteottobre al Campidoglio. Ecco una sintesi del racconto dell’israeliana Hadar Sharvit, 28 anni.
  “Siamo la voce di quelli che non possono più parlare. Ho visto le persone colpite dai terroristi di Hamas, che urlavano Allah u Akbar. Ho visto persone che sanguinavano e queste immagini le continuo a portare dentro ogni notte – ha ricordato – Ho assistito agli abusi, alle violenze, agli stupri. Ho sentito le grida degli uomini e delle donne che erano ancora vive e poi il silenzio. È stato un inferno. Sento e provo dentro di me la brutalità di Hamas contro quelle donne. Provo vergogna per l’umanità”. Ora, com’è possibile che quelle violenze siano state cancellate così in fretta dal dibattito pubblico?

(Il Riformista, 9 marzo 2025)

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Israele al lavoro per attuare il Piano Trump per l'esodo da Gaza

Discussioni in corso con Washington sul piano di migrazione volontaria e sul possibile ritiro del paese dall'Oms.

di Veronique Viriglio

Il governo israeliano è al lavoro per istituire una "amministrazione per la migrazione" per supervisionare l'esodo della popolazione da Gaza. Lo ha dichiarato il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, rivolgendosi al Caucus Terra d'Israele della Knesset. Nel suo intervento Smotrich ha sottolineato che la questione del bilancio per creare questa apposita amministrazione "non sarà un ostacolo" alla realizzazione del compito, che il ministro ha definito come logisticamente "complesso".
  Secondo il sito di notizie Ynet, il ministro degli Insediamenti e dei Progetti nazionali Orit Strock, membro del partito di estrema destra Sionismo Religioso di Smotrich, ha affermato che la rimozione della minaccia alla sicurezza da Gaza non può essere raggiunta "se non attraverso un piano di migrazione volontaria".
  In un'intervista rilasciata il mese scorso a "Meet the Press" sul Canale 12, Smotrich aveva dichiarato che Israele è attivamente in contatto con Washington per discutere l'attuazione del piano del presidente statunitense Donald Trump di trasferire all'estero i residenti della Striscia di Gaza, circa 2,2 milioni di abitanti.

Al vaglio il ritiro dall'OMS giudicata "antisemita"
   Israele potrebbe ritirarsi dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), seguendo le orme degli Stati Uniti dopo il provvedimento varato dal presidente Donald Trump. Secondo il sito web della Knesset, domani il Comitato per la salute della Knesset terrà un dibattito speciale sul "ritiro di Israele dall'Organizzazione mondiale della sanità". Lo riferisce il quotidiano Times of Israel. Il sito di notizie Walla ha precisato che il dibattito si terrà su richiesta dei membri del Likud del premier Benjamin Netanyahu e dei deputati dei partiti di estrema destra, Sionismo religioso e Otzma Yehudit.
  "La politica dell'organizzazione è spesso contaminata dall'antisemitismo e da una chiara discriminazione nei confronti di Israele, e costituisce una grave violazione della legittimità dello Stato di Israele come Stato sovrano", sostengono i legislatori di Walla. L'organizzazione è stata molto critica nei confronti delle operazioni armate israeliane a Gaza, in particolare degli attacchi dell'Idf agli ospedali. Israele ha motivato tali interventi argomentando che Hamas e altri gruppi terroristici di Gaza stavano usando gli ospedali come basi per compiere attacchi.

(AGI, 9 marzo 2025)

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Il piano arabo per Gaza è «credibile» per l’Europa e piace anche ad Hamas perché non è americano" 

Vertice arabo al Cairo per la ricostruzione di Gaza. Piace all'UE, ma viene respinto sia da Trump che da Netanyahu. Perché di fatto garantirebbe la permanenza al potere di Hamas, una minaccia esistenziale per Israele che l'Europa vuole ignorare.

di Matteo Legnani

Ci hanno messo quattro giorni per esprimersi ufficialmente, perché (e questo potrebbe essere il motto del Vecchio Continente) la prudenza non è mai troppa. Finché ieri, i ministri degli Esteri di Francia, Germania, Italia e Regno Unito hanno definito «realistico» il piano architettato dai 22 Paesi appartenenti alla Lega Araba che era stato illustrato martedì al Cairo in un vertice convocato d’urgenza dal presidente egiziano Mohammed Fattah el-Sisi.
  I quattro più importanti Paesi europei si sono anche detti pronti a sostenere, diplomaticamente e con l’eventuale invio di forze di pace nella Striscia, il progetto illustrato al Cairo, che è il controcanto di quello della “Middle East Riviera” annunciato un paio di settimane fa dall’amministrazione americana guidata da Donald Trump e illustrato dallo stesso presidente Usa con tanto di rendering.

Basta un quinquennio
   In una dichiarazione congiunta, gli europei hanno affermato che la proposta araba renderebbe possibile «un miglioramento rapido e sostenibile delle catastrofiche condizioni di vita dei palestinesi di Gaza nel giro di soli cinque anni» il cui costo, 53 miliardi di dollari, sarebbe interamente finanziato dagli stessi Paesi arabi.
  Sul tema si profila dunque l’ennesimo scontro tra Stati Uniti ed Europa, visto che mercoledì Washington (in accordo con Israele) aveva bocciato il piano arabo perla ricostruzione della Striscia, ritenendolo «non realistico» ossia esprimendo un giudizio opposto rispetto a quello formulato ieri da Italia, Francia, Germania e Regno Unito.
  La differenza sostanziale tra i due piani sta nel fatto che mentre quello soprannominato “Middle East Riviera” prevede la delocalizzazione presso i Paesi arabi vicini (Egitto e Giordania in primis) della maggior parte dei 2,1 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia, quello arabo non prevede che la popolazione locale debba essere allontanata durante la fase di ricostruzione.
  Ma le riserve americane, condivise appieno da Israele e, almeno in parte anche da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, erano e sono molteplici. Innanzitutto, aveva riferito il National Security Council, «i residenti non potrebbero continuare a vivere in un territorio che è un cumulo di macerie e che è disseminato di ordigni inesplosi».
  Poi c’era la questione di chi avrebbe in mano le chiavi della Striscia: il piano arabo prevede che in una prima fase sia un consiglio di tecnocrati di diversi Paesi a sovrintendere alla ricostruzione, con la collaborazione di una forza di pace internazionale posizionata sul territorio. E che successivamente a questo consiglio subentri progressivamente la guida dell’Autorità palestinese.

Soldi ai terroristi
   Infine, gli Stati Uniti hanno sollevato la questione del ruolo di Hamas, alla quale il piano arabo non impone né la resa, né il disarmo. Al punto che il gruppo terroristico che da vent’anni spadroneggia su Gaza ha dato il suo immediato e ufficiale sostegno al progetto, ben sapendo tra l’altro che una parte di quei 53 miliardi di dollari finirebbe, in un modo o nell’altro, nelle sue casse. Le minacce di Trump, fra l’altro, stanno producendo risultati: nella serata di ieri il gruppo terrorista ha accettato di rilasciare altri ostaggi in cambio di una dilazione della tregua.
  Certo, la dichiarazione rilasciata ieri dagli europei pone esplicitamente agli arabi la condizione che «Hamas non deve più governare Gaza, né costituire una minaccia per Israele» e supporta «il ruolo centrale che l’Autorità palestinese dovrà avere e l’implementazione delle sue riforme». Tuttavia, è lecito pensare che il piano arabo possa non far altro che ricreare le condizioni per le quali Israele e Gaza sono in guerra da anni.

Libero, 9 marzo 2025)

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Sequela e croce

di Dietrich Bonhoeffer

    "E cominciò a insegnare loro: «E necessario che il Figlio dell'uomo patisca molte cose, che sia respinto dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, che venga ucciso e che dopo tre giorni risusciti». E diceva questo apertamente. Allora Pietro, presolo in disparte, cominciò a rimproverarlo. Ma egli, giratosi e vedendo i suoi discepoli, rimproverò Pietro e dice: «Allontanati da me, Satana … perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». E dopo aver convocato la folla insieme ai suoi discepoli, dice loro: «Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita la perderà, ma chi perderà la sua vita per me e per il vangelo la salverà. Che giova infatti all'uomo guadagnare tutto il mondo se perde la sua vita? Perché, qual cosa darà l'uomo in cambio della sua vita? lnfatti chi si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Marco 8,31-38).

L'invito a seguire Gesù è congiunto, in questo passo, con l'annunzio della passione di Gesù. Gesù Cristo deve patire ed essere respinto. È la necessità della promessa di Dio, affinché le Scritture si adempiano. Patire ed essere respinti non è lo stesso. Gesù - anche nella passione poteva ancora essere il Cristo festeggiato. La passione poteva essere ancora causa di profonda compassione e ammirazione da parte del mondo. La passione nella sua tragicità potrebbe ancora avere un valore intrinseco, una gloria e dignità intrinseche. Ma Gesù è il Cristo respinto nella passione. Il fatto di essere respinto toglie alla passione ogni dignità e gloria. Deve essere una passione infame. Patire ed essere respinto è l'espressione che riassume la croce di Gesù. Morire sulla croce significa patire e morire essendo respinto, espulso. Gesù deve patire ed essere respinto per necessità divina. Ogni tentativo di impedire ciò che deve accadere è diabolico, anche e proprio se proviene dalla cerchia dei discepoli, perché non vuole permettere che Cristo sia il Cristo. Il fatto che proprio Pietro, la roccia della Chiesa, si renda colpevole immediatamente dopo la confessione di fede in Gesù Cristo e dopo la sua consacrazione da parte di questo, indica che la Chiesa stessa, fin dall'inizio, si è scandalizzata del Cristo sofferente. Non vuole un Signore simile, e come Chiesa di Cristo non vuole lasciarsi imporre la legge della passione. La protesta di Pietro deriva dal suo rifiuto di accettare il dolore. E così Satana è penetrato nella Chiesa; vuole strapparla dalla croce del suo Signore.
  Perciò Gesù deve ora riferire la necessità della passione chiaramente e inequivocabilmente anche ai suoi discepoli. Come Cristo è il Cristo solo se patisce ed è respinto, così il discepolo è discepolo solo se patisce ed è respinto, se viene crocifisso con il suo Signore. Seguire Gesù, cioè essere legato alla persona di Gesù Cristo, vuol dire, per chi lo segue, essere posto sotto la legge di Cristo, cioè sotto la croce.
  L'annuncio, ai discepoli, di questa verità inalienabile incomincia stranamente con la concessione della piena libertà. Gesù dice: «Se uno vuol venire dietro di me» ... Non è cosa ovvia nemmeno per i discepoli. Nessuno può essere costretto; anzi, veramente non lo si può nemmeno aspettare da qualcuno; «Se uno», malgrado tutte le altre offerte che gli vengono fatte, vuole seguire Gesù ... Ancora una volta tutto dipende dalla decisione; mentre i discepoli si trovano già al seguito di Gesù, ancora una volta tutto è interrotto, tutto resta aperto, non ci si attende nulla, non si impone nulla; tanto radicale è ciò che ora sarà detto. Dunque, ancora una volta, prima che venga annunziata la legge dell'obbedienza, i discepoli devono riavere la loro piena libertà.
  «Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso». Come Pietro, quando rinnegò Cristo, disse: «lo non conosco quest'uomo», così, chi vuol seguire Cristo, deve parlare a se stesso. Il rinnegamento di se stessi non può mai esprimersi in una quantità, per quanto grande, di singoli atti di martirio autoimposto o di esercizi ascetici; non si tratta di suicidio, perché anche in questo potrebbe prevalere ancora l'egocentrismo dell'uomo. Rinnegare se stesso vuol dire conoscere solo Cristo, non più se stessi, vedere solo lui che precede, e non più la via che è troppo difficile per noi.
  Rinnegare se stessi significa: egli precede, tienti stretto a lui.
  « ... e prenda la sua croce su di sé». Gesù, per grazia, ha preparato i suoi discepoli a questa parola mediante le parole del rinnegamento di se stessi. Solo se ci siamo realmente e completamente dimenticati di noi, se non conosciamo più noi stessi, possiamo essere pronti a portare la sua croce per amore di lui. Se conosciamo solo lui, allora non conosciamo più le sofferenze della nostra croce, perché non vediamo che lui. Se Gesù non ci avesse così benevolmente preparati a questa parola, noi non potremmo sopportarla. Così invece ci ha messi in grado di sentire anche questa dura parola come grazia. Ci raggiunge mentre lo seguiamo con gioia e ci conferma in questo cammino.
  La croce non è disagio e duro destino, ma il dolore che ci colpisce solo a causa del nostro attaccamento a Gesù Cristo. La croce non è un dolore casuale, ma è necessario. La croce non è il dolore insito nella nostra normale esistenza, ma dolore che dipende dal fatto di essere cristiani. La croce in genere non è solo essenzialmente dolore, ma soffrire ed essere respinti; e anche qui nel vero senso di essere respinti per Gesù Cristo, non per un qualche altro comportamento o un'altra fede. Una cristianità che non prendeva più sul serio l'impegno di seguire Gesù, che aveva fatto dell'Evangelo solo una consolazione a buon prezzo, e per la quale, del resto, la vita naturale e quella cristiana coincidevano senza alcuna differenza, doveva vedere nella croce il disagio quotidiano, la difficoltà e l'angoscia della nostra vita naturale. Si era dimenticato che la croce significa sempre allo stesso tempo essere respinti, che l'onta del dolore è parte della croce. Una cristianità che non sa distinguere vita civile da vita cristiana, non può più comprendere il segno essenziale del dolore della croce, cioè l'essere nel dolore espulsi, abbandonati dagli uomini, come il salmista lamenta senza fine.
  Croce significa soffrire con Cristo, passione di Cristo. Solo chi è legato a Cristo, come accade per chi lo segue, si trova sul serio sotto la croce.
  « ... prenda la sua croce» ... essa è già pronta, sin dall'inizio, basta prenderla. Perché nessuno pensi di doversi cercare da sé una croce, Gesù dice che per ognuno è pronta la sua croce, quella a lui destinata e commisurata da Dio. Ognuno porti la misura di dolore e di abiezione a lui destinata. La misura è diversa per ognuno. Dio stima uno degno di grandi dolori, gli dona la grazia del martirio; mentre non permette che un altro venga tentato al di là delle sue forze. Ma è sempre quell'unica croce. Viene imposta ad ogni cristiano. Il primo dolore per amore di Cristo che ognuno deve sperimentare è la chiamata che ci invita ad uscire dai legami di questo mondo. È la morte del vecchio Adamo nell'incontro con Gesù Cristo. Chi si incammina con Cristo si dà alla morte di Gesù, pone la sua vita nella morte; è così sin dall'inizio; la croce non è la terribile fine di una felice vita religiosa, ma sta all'inizio della comunione con Gesù Cristo. Ogni chiamata di Cristo conduce alla morte. Sia che, per seguirlo, dobbiamo lasciare, come i primi discepoli, casa e professione, sia che dobbiamo, come Lutero, uscire dal convento e dedicarci ad una professione laica, in ambedue i casi ci attende una morte, la morte per Gesù Cristo, la morte del nostro vecchio Adamo a causa della chiamata di Gesù. Dato che la chiamata di Gesù rivolta al giovane ricco gli porta la morte, perché egli può  seguire Gesù solo se la sua propria volontà è spezzata, dato che ogni comandamento di Gesù ci fa morire con tutti i nostri desideri e le nostre passioni, e dato che non possiamo volere la nostra morte, perciò Gesù Cristo dev'essere nella sua Parola la nostra morte e la nostra vita.
  La chiamata a seguire Gesù, il battesimo nel nome di Gesù, è morte e vita. La chiamata di Cristo, il battesimo, pone il cristiano nella lotta quotidiana contro il peccato e il diavolo. Perciò ogni giorno, con la tentazione a cui il discepolo è esposto per via della carne e del mondo, reca al discepolo nuovi dolori in Gesù Cristo. Le ferite che vengono inferte, e le cicatrici che restano al cristiano dopo questo combattimento sono segni viventi della partecipazione alla croce di Gesù. Ma c'è un altro dolore, un'altra onta che nessun cristiano può evitare. La sola passione di Cristo stesso è passione per la riconciliazione; tuttavia, poiché Cristo ha sofferto per il peccato del mondo, poiché tutto il peso del peccato si è riversato su di lui, e poiché Gesù Cristo aggiudica il frutto della sua passione a chi lo segue, la tentazione e il peccato ricade anche sul discepolo, lo copre di vergogna e lo caccia come capro espiatorio fuori dalle porte della città. E così il cristiano porta peccati e colpe di altri uomini. Crollerebbe sotto il peso, se non fosse egli stesso sostenuto da colui che portò tutti i peccati; così, invece, egli, sostenuto dalla forza della passione di Cristo, può, perdonando, vincere i peccati che cadono su di lui. Il cristiano diviene portatore di pesi. .. «Portate i pesi gli uni degli altri» (Galati 6,2). Come Cristo portò il nostro peso, così noi dobbiamo portare il peso dei fratelli; la legge di Cristo che dev'essere adempiuta, è il portare la croce. Il peso del fratello che io devo portare non è solo il suo destino esteriore, il suo atteggiamento e il suo carattere, ma è nel vero senso della parola il suo peccato. Non posso portarlo altrimenti che perdonandogli, sostenuto dalla forza della croce di Cristo di cui sono partecipe. Così la chiamata di Gesù a portare la croce pone quelli che lo seguono nella comunione del perdono dei peccati. Perdonare i peccati è soffrire per Cristo, com'è comandato al discepolo. E imposto a tutti i cristiani.
  Ma come può il cristiano sapere qual è la sua croce? Gli sarà dato quando si incamminerà dietro al Signore nella sua passione; nella comunione con Gesù riconoscerà la sua croce.
  Così il dolore diviene segno di riconoscimento di chi segue Gesù. Il discepolo non è maggiore del Maestro. Seguire Gesù è «passio passiva», dover patire. Lutero così ha potuto indicare tra i segni di riconoscimento della vera Chiesa il dolore. Uno dei suoi collaboratori che prepararono la «Confessio augustana» ha definito la Chiesa come comunità di coloro «che sono perseguitati e martoriati a causa dell'Evangelo», Chi non vuole prendere su di sé la sua croce, chi non vuol dare la sua vita perché soffra e sia respinta dagli uomini, perde la comunione con Cristo, non è suo seguace. Chi invece, al seguito di Cristo portando la croce perde la sua vita, la ritroverà proprio seguendo Cristo e nella comunione della sua croce. Il contrario del seguire Gesù è il vergognarsi di Gesù, vergognarsi della croce, scandalizzarsi della croce.
  Seguire vuol dire legarsi al Cristo nella sua passione. Perciò il dolore dei cristiani non è nulla di sorprendente; è, anzi, grazia e letizia perfetta. Gli atti dei primi martiri della Chiesa attestano che Cristo trasfigura nei suoi seguaci il momento del massimo dolore, dando loro l'incredibile certezza della sua vicinanza e comunione. Così, in mezzo alle più terribili torture che sopportavano per amore del loro Signore, essi ebbero la grandissima gioia e beatitudine della comunione con lui. Il portare 1a croce si mostrò loro come l'unico mezzo per vincere il dolore. Ma questo è vero per tutti coloro che seguono Cristo, perché era vero per Cristo stesso.

    «E, avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra, pregando e dicendo: 'Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. Però non come voglio io, ma come vuoi tu' ... Di nuovo per la seconda volta se ne andò e pregò dicendo: 'Padre mio, se questo calice non può passare senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà'» (Matteo 26,39 e 42).

Gesù prega il Padre perché il calice passi da lui, e il Padre esaudisce la preghiera del Figlio. Il calice della passione passerà da Gesù, ma proprio essendo bevuto. Quando Gesù nel Getsemani si inginocchia per la seconda volta, egli sa che il dolore passerà se egli lo sopporterà. Solo portandolo egli supererà e vincerà il dolore. La sua croce è la sua stessa vittoria.
  Soffrire è lontananza da Dio. Perciò chi è in comunione con Dio non può soffrire. Gesù ha accettato questa affermazione dell'Antico Testamento. Appunto perciò egli prende su di sé il dolore di tutto il mondo e così lo vince. Egli porta tutta la lontananza da Dio. E appunto perché egli beve il calice, esso passa. Gesù vuole vincere il dolore di tutto il mondo, perciò deve gustarlo fino in fondo. Perciò il dolore resta lontananza da Dio; tuttavia nella comunione con la passione di Gesù Cristo il dolore è stato vinto nella stessa disponibilità a subirlo, e proprio nel soffrire viene donata la comunione con Dio.
  Si deve portare il dolore perché passi. O lo deve portare il mondo e crollare sotto il suo peso, o ricade su Cristo e viene vinto in lui. Cristo così soffre al posto del mondo. Ma la sua passione è passione redentrice. Anche la comunità ora sa che il dolore del mondo cerca chi lo porti. Perciò il dolore ricade su di essa quando essa segue Cristo; ed essa lo porta essendo essa stessa portata dal Cristo. La comunità di Gesù Cristo, seguendo Gesù nella croce, sta davanti a Dio al posto del mondo.
  Dio è un dio del 'portare'. Il Figlio di Dio portò la nostra carne, portò, perciò, la croce, portò tutti i nostri peccati e, portandoli, effettuò la riconciliazione. Perciò anche chi lo segue è chiamato a portare. L'essere cristiani consiste nel portare. Come Cristo mantenne la comunione con il Padre portando i pesi del mondo, così, portando i pesi, chi segue Gesù è in comunione con lui. L'uomo può scrollarsi di dosso il peso impostogli. Ma non si libera, in questo modo, del peso in genere, anzi, porta ora un peso molto maggiore, più insopportabile, per sua propria volontà porta il peso, scelto da lui, della sua persona. Gesù ha chiamato tutti coloro che sono caricati di vari dolori e pesi, perché buttino i loro pesi e prendano su di sé il giogo di Gesù, che è mite, il suo peso che è leggero. Il suo giogo, il suo peso è la croce. Camminare sotto questa croce non è miseria e disperazione, ma ristoro e pace per l'anima, è massima gioia. Non camminiamo più sotto i pesi e le leggi fatte da uomini, ma sotto il giogo di colui che ci conosce e che cammina lui stesso sotto la croce assieme a noi. Sotto il suo giogo noi siamo certi della sua vicinanza e della sua comunione. Chi lo segue trova Gesù stesso, se prende su di sé la sua croce.
  «Le cose non devono andare secondo la tua ragione, ma al di là della tua ragione; sprofondati nella mancanza di senno ed io ti darò il mio senno. Mancanza di senno è il vero senno; non sapere dove vai, è sapere bene dove vai. Il mio senno toglie il senno a te. Abramo uscì dalla sua patria senza sapere dove andava. Egli si abbandonò alla mia sapienza e lasciò la propria sapienza, e giunse per la via buona ad un buon fine. Ecco, questa è la via della croce, che tu non puoi trovare da te; devo guidarti io come un cieco; perciò non puoi insegnare tu la via che devi percorrere, e non lo può nessun altro uomo né altra creatura; io; io stesso voglio indicarti il cammino con il mio Spirito e la mia Parola. Non seguire l'opera che scegli tu, ma ciò che ti accade contro ogni tua scelta, contro il tuo pensiero, contro i tuoi desideri. Io ti chiamo, impara; è tempo; il tuo maestro è venuto per questa via» (Lutero).

(da "Sequela" di Dietrich Bonhoeffer)


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Gaza, Italia con Francia, Germania e Gb: "Bene iniziativa araba"

I capi delle diplomazie dei quattro Paesi: "Ribadiamo con chiarezza che Hamas non deve più governare Gaza né essere una minaccia per Israele"

"Noi, ministri degli Esteri di Francia, Germania, Italia e Regno Unito, accogliamo con favore l'iniziativa araba di un piano di ripresa e ricostruzione per Gaza. Il piano indica un percorso realistico per la ricostruzione di Gaza e promette - se attuato - un miglioramento rapido e sostenibile delle catastrofiche condizioni di vita dei palestinesi che vivono a Gaza". E' quanto si legge in una dichiarazione congiunta dei capi delle diplomazie dei quattro Paesi europei, tra cui il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in cui si sottolinea che "gli sforzi di ripresa e ricostruzione devono basarsi su un solido quadro politico e di sicurezza accettabile sia per gli israeliani che per i palestinesi, che garantisca pace e sicurezza a lungo termine".
"Ribadiamo con chiarezza che Hamas non deve più governare Gaza né essere una minaccia per Israele. Sosteniamo esplicitamente il ruolo centrale dell'Autorità palestinese e l'attuazione del suo programma di riforme", proseguono i quattro ministri degli Esteri, che lodano "i seri sforzi di tutte le parti coinvolte" e apprezzano "l'importante segnale che gli Stati arabi hanno inviato sviluppando congiuntamente questo piano di ripresa e ricostruzione".
"Ci impegniamo a lavorare a sostegno dell'iniziativa araba, dei palestinesi e di Israele per affrontare insieme tali questioni, incluse la sicurezza e la governance. Esortiamo tutte le parti a lavorare partendo dai punti di merito del piano come punto di partenza", concludono.

Il piano arabo per ricostruire Gaza
   Prevede due fasi e un investimento di 53 miliardi di dollari il piano per la ricostruzione della Striscia di Gaza presentato durante il summit di emergenza della Lega Araba al Cairo e alternativo a quello ipotizzato dal presidente americano Donald Trump. Lo riportano i media arabi sottolineando che, per i leader arabi, la ricostruzione di Gaza dovrebbe durare almeno quattro anni e mezzo. Iniziando con un cessate il fuoco temporaneo durante il quale verranno ''adottate misure per rafforzare la fiducia'' e mentre Egitto e la Giordania forniranno addestramento alla polizia palestinese in preparazione del suo dispiegamento nella Striscia di Gaza.
Secondo i dettagli della bozza del piano egiziano resi noti dal canale qatariota Al-Arabi, oltre allo stanziamento di 53 miliardi di dollari per la ricostruzione della Striscia di Gaza è prevista l'istituzione di un comitato temporaneo per la gestione dell'enclave per un periodo di sei mesi. Una fase transitoria, appunto, in preparazione del ritorno dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) a Gaza. Durante il cessate il fuoco temporaneo inizieranno i negoziati diretti tra Israele e palestinesi in vista di una soluzione a due Stati. Il piano arabo afferma infatti che i palestinesi hanno diritto a uno Stato indipendente che coesista accanto allo Stato di Israele. "La soluzione dei due Stati aprirà le porte alle relazioni tra i paesi della regione e Israele", si legge.
Il piano arabo apre anche alla possibilità che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite valuti l'invio di forze internazionali a Gaza. Secondo le anticipazioni, il comitato nella Striscia di Gaza sarebbe composto da personalità indipendenti, escluderà membri di organizzazioni terroristiche palestinesi e opererà sotto l'autorità del governo dell'Autorità Nazionale palestinese di Ramallah. Inoltre, in sette aree nella Striscia di Gaza verrebbero forniti alloggi temporanei per 1,5 milioni di palestinesi, in contrasto con il piano di sfollamento in massa immaginato da Trump.
L'emittente Al-Arabiya ha spiegato che la prima fase della ricostruzione della Striscia di Gaza dovrebbe durare due anni, per un costo di circa 20 miliardi di dollari. La seconda fase durerebbe invece due anni e mezzo e avrebbe un costo di circa 30 miliardi di dollari. La maggior parte del denaro è necessaria per ristrutturare le case dei residenti, precisa l'emittente. Il comitato temporaneo lavorerà per raccogliere il sostegno e il denaro necessari per la ricostruzione e sarà istituito un fondo fiduciario supervisionato a livello internazionale al quale saranno trasferiti i fondi, scrivono i media arabi.

(Adnkronos, 8 marzo 2025)

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Il portavoce delle Idf, Hagari, lascia a sorpresa

Secondo la stampa israeliana si tratta di una rimozione “politica”

Per due anni il contrammiraglio Daniel Hagari ha avuto il delicato compito di rappresentare le Forze di sicurezza israeliane davanti all’opinione pubblica e alla stampa. Ha fatto fronte alle tante domande sulla debacle del 7 ottobre e sulla successiva guerra a Gaza. Ha svolto il suo ruolo di portavoce militare «in modo professionale e scrupoloso», rende noto l’esercito, ma nelle prossime settimane lascerà in anticipo l’incarico e le Idf. L’annuncio è arrivato oggi inaspettato e ha generato un ampio dibattito in Israele.
  Nella nota, l’Idf parla di una decisione «concordata» da Hagari con il nuovo capo delle forze armate, il tenente generale Eyal Zamir. Diversi media israeliani, tra cui ynet e Kan, interpretano la scelta come un licenziamento, dettato da pressioni politiche piuttosto che da una rotazione della carica, anche perché Hagari era in attesa di una promozione. L’ex portavoce però è rimasto coinvolto in diversi scontri con il governo negli ultimi mesi e alcuni rappresentanti della maggioranza ne hanno chiesto il licenziamento. Fonti vicine ai vertici militari, scrive ynet, ritengono che in particolare il ministro della Difesa, Israel Katz, abbia giocato un ruolo chiave nel bloccarne la promozione e portarlo a lasciare le Idf.
  Zamir sembra ora orientato a scegliere un ufficiale proveniente dalle forze di terra come nuovo portavoce. Tra i candidati più quotati figura il colonnello Benny Aharon, ex comandante della 401a Brigata Corazzata, che ha guidato le sue truppe durante le operazioni a Gaza.
  Nel suo messaggio di commiato, Hagari ha parlato dell’onore di aver servito nell’esercito per trent’anni, ribadendo la sua dedizione per la sicurezza nazionale.
  La rapidità con cui Zamir ha deciso la fine dell’incarico di Hagari solleva alcune preoccupazioni, spiega ynet: altri comandanti, direttamente coinvolti nel fallimento del 7 ottobre, non sono stati rimossi con la stessa celerità. Questo lascia intendere, prosegue il quotidiano israeliano, «che il caso di Hagari sia stato fortemente influenzato da dinamiche politiche piuttosto che esclusivamente operative o militari».

(moked, 7 marzo 2025)

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Francia: indagine choc fra gli studenti, aumento vertiginoso dell’antisemitismo

Nelle scuole francesi sono in crescita esponenziale atti contro gli allievi ebrei. Più della metà vittima di insulti e attacchi.

di Roberto Zadik

Ormai, a quanto pare, l’antisemitismo in Francia si “impara” sui banchi di scuola. Secondo un recente sondaggio pubblicato giovedì 6 marzo sul sito del Crif, Consiglio Rappresentativo degli Ebrei francesi (CRIF) su un campione di duemila liceali ebrei francesi, più della metà sarebbe stato “bullizzato” con  insulti e commenti antiebraici da parte dei loro coetanei.
Come raccontano sia il sito del Crif sia un articolo di I24news, solamente nel primo trimestre di quest’anno si sono verificati 477 atti di antisemitismo.
Insultati e vessati in quanto ebrei, ma quali sono le offese più ricorrenti ? Ovviamente il solito  “sporco ebreo”, “non fare l’ebreo” alludendo al luogo comune dell’avarizia e dell'”ebreo ricco” oltre alla frase “gli ebrei li si riconosce”, o la frase peggiore “Hitler non ha completato il lavoro” che ormai in molte scuole sono diventati, come evidenzia l’articolo di i24news, “la normalità per molti allievi”.
La ricerca mette in luce anche i problemi derivanti dal conflitto in Israele, con il 16% degli interpellati che dichiara di “non voler avere alcun tipo di rapporto, amichevole o sentimentale coi coetanei ebrei” e il 37% esprime ostilità verso chiunque appoggi Israele così come ricorrente anche l’offesa “lurido sionista”.
Altro dato inquietante è che molti allievi ebrei adottano astute strategie per “evitare di essere bersagliati, come occultare le proprie origini ebraiche” cosi come il 14% degli studenti afferma che i loro coetanei ebrei  abbandonano gli studi perché “si sentono in pericolo”.
Come ha fatto sapere il Crif, la ricerca verrà presentata a breve, durante il convegno “La scuola della Repubblica di fronte all’aumento dell’antisemitismo” organizzato, oltre che dal Crif, dalla Fondazione Jean Jaures e il senatore Laurent Lafon, presidente della commissione Cultura, educazione e sport.
L’importante ricerca del Crif fa parte del terribile contesto dell’antisemitismo francese, aumentato a dismisura dopo il 7 ottobre 2023, con l’attacco di Hamas, e dall’inizio dell’anno scolastico 2024-2025  l’ostilità anti-ebraica appare “quattro volte peggiore di quella dell’anno precedente”, come dice l’articolo del Crif. Perciò il Governo francese intende aumentare l’impegno nella lotta contro l’antisemitismo evidenziando l’importanza di elaborare un programma di educazione e di “sensibilizzazione delle giovani generazioni” come dice il Crif.
La ricerca è stata effettuata interpellando ragazzi ebrei, dagli otto ai quindici anni, che vanno nelle scuole pubbliche o in scuole private non ebraiche.
 

(Bet Magazine Mosaico, 7 marzo 2025)

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“Abbiamo imparato a rialzarci più forti di prima”

Le soldatesse dell’IDF parlano della riabilitazione dopo il 7 ottobre

di Michelle Zarfati

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Karina Drachev e Michelle Rukovitzin si sono arruolate nell’IDF senza immaginare quello che avrebbero dovuto vivere. Le gravi ferite riportate il 7 ottobre le hanno costrette ad affrontare una realtà che non avrebbero mai immaginato. In vista della Giornata internazionale della donna, le loro storie sono esempi di forte ispirazione per tutte le donne tra difficoltà e resilienza.
  Quando a Karina Drachev vennero offerte le opzioni per il servizio nell’IDF, sapeva esattamente cosa volesse. “Volevo essere una combattente più di ogni altra cosa – ha raccontato in un’intervista a Ynet – Non riuscivo ad immaginare altro. Mi sono arruolata nel battaglione Karakal. Il 7 ottobre ero alla base per il weekend. Il 1° novembre sono uscita per un giro di pattuglia e, otto ore dopo, il mezzo in cui mi trovavo si è ribaltato. La mia gamba era completamente schiacciata. Quando mi sono svegliata dall’anestesia, il medico mi ha detto che era una ferita grave e che non potevano salvarmi la gamba”.
  Anche Michelle Rukovitzin ha raccontato a Ynet la sua storia. “Ero un tecnico di sistemi di intelligence sul campo, riparavo telecamere e radar e amavo il mio lavoro. Ho fatto il servizio obbligatorio in Libano, e ho deciso di rimanere per cominciare la carriera militare. Poi mi sono trasferita per prestare servizio a Gaza – racconta Michelle – Il giorno prima del 7 ottobre, abbiamo dovuto gestire un malfunzionamento fino alle 4 del mattino. Siamo tornati alla base, ho dormito per due ore, e poi mi sono svegliata con il suono degli allarmi provenienti dalla sala operativa”. Così Michelle ricorda il giorno orribile in cui è rimasta ferita. “Sono corsa al rifugio, ed è stato allora che è stata lanciata la prima granata: mi hanno colpita alla gamba e sono svenuta. Hanno lanciato un ordigno esplosivo, sparato in tutte le direzioni… Solo alle 22:00 i ragazzi di Egoz – un’unità d’élite delle IDF – mi hanno trovata a terra quando sono venuti a sgomberare la base”.
  La soldatessa riportava sul corpo ferite molto profonde. “Sono stata colpita al piede, due volte alla schiena, due volte tra l’anca e la gamba, una volta alla lingua e avevo schegge persino in testa: questa è solo una parte della lista. Non potevo parlare, non potevo mangiare ed ero paralizzata in tutti e quattro gli arti. Oggi posso parlare, mangiare quello che voglio e camminare con l’aiuto di qualcuno. La mia mano sinistra non si muove ancora. I dottori hanno detto alla mia famiglia che non sapevano se mi sarei mai svegliata e, se lo avessi fatto, non sapevano se avrei continuato ad essere la me stessa di sempre. Ma eccomi qui, più me stessa che mai”.
  Ferite profonde, non solo fisiche ma anche psicologiche che hanno cambiato radicalmente la vita e il futuro di entrambe. “Sognavo di restare nell’esercito, sposarmi e costruire una famiglia. Ora, vivo alla giornata. La vecchia Michelle non tornerà, e quindi anche i miei sogni sono cambiati. Oggi, il mio sogno è di poter ballare al mio matrimonio. Faccio discorsi e racconto la mia storia: le persone si commuovono, mi dicono che le ispiro. Abbiamo imparato a risorgere più forti di prima” ha raccontato Michelle. “Avevo un percorso chiaro: mi sarei congedata ad aprile. Mi restavano quattro mesi nell’esercito e avevo in programma di riposarmi e iniziare a studiare. Proprio la settimana scorsa, sono stata finalmente dimessa dall’ospedale, ed era la cosa che desideravo di più. Quando ti rendi conto che stai per morire, vedi tutto da una prospettiva diversa. Vuoi vedere di più, sperimentare di più, apprezzare di più tutto. Capisci che la vita può finire in un istante. I piani che avevo prima erano importanti, ma ora voglio solo godermi la vita. Me lo merito” ha commentato invece Karina.
  Una giornata internazionale per celebrare la donna: “Sono una soldatessa combattente e lo sarò sempre. Abbiamo bisogno di questa giornata per onorare le donne forti. Sono orgogliosa di aver combattuto e di essere stata ferita mentre difendevo la mia patria” ha condiviso Karina. “È importante usare questa giornata per mostrare quanto sono forti le donne così da essere d’ispirazione per le altre donne” ha concluso Michelle.

(Shalom, 7 marzo 2025)

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Lo studio: «Così l'MDMA può aver protetto i sopravvissuti del Nova Festival dal trauma dell'attacco di Hamas»

I risultati di uno studio dell'Università di Haifa condotto su 650 soggetti, due terzi dei quali erano sotto l'effetto di droghe - tra cui l'ecstasy - quando Hamas ha sferrato l'attacco il 7 ottobre. 

di Marta Serafini

GERUSALEMME – Aver assunto MDMA prima di essere vittime dell’attacco di Hamas del 7 ottobre potrebbe avere aiutato i sopravvissuti a proteggersi, almeno in parte, dal trauma. 
Uccisioni, stupri, rapimenti. Quell’alba in cui oltre 3000 giovani erano radunati a pochi passi dalla Striscia per ballare al Nova Festival ha visto morire per mano dei miliziani jihadisti 360 persone. Molte di loro, come accade ai rave di tutto il mondo, avevano assunto droghe illegali come metanfetamina o allucinogeni, Lsd in testa.
Non necessariamente un male, secondo uno studio clinico dell’Università israeliana di Haifa.  In particolare, sarebbe l’MDMA (la 3,4-metilenediossimetanfetamina, più comunemente nota come ecstasy) ad aver aiutato maggiormente le vittime contro il PTSD (sindrome da stress post traumatico). Con il risultato di aver permesso ai giovani che l’avevano assunta di avere meno ripercussioni psicologiche sia nell'immediatezza degli eventi  sia nei mesi successivi, come racconta questo reportage di Paolo Giordano pubblicato su La Lettura del Corriere della Sera
I risultati dello studio - condotto su 650 sopravvissuti, due terzi dei quali sotto l'effetto di droghe  tra cui MDMA, LSD, marijuana o psilocibina, prima che si verificassero gli attacchi – sono preliminari e devono essere ancora pubblicati, come sottolinea la Bbc. Ma è  la prima volta che gli scienziati possono studiare un evento traumatico di massa in cui un gran numero di persone era sotto l'effetto di droghe psicotrope: e quei dati possono dunque facilmente contribuire alla ricerca scientifica.
La domanda da cui sono partiti  ad Haifa è tutt’altro che semplice. «Abbiamo visto persone nascondersi sotto i corpi dei loro amici per ore mentre erano sotto l'effetto di LSD o MDMA. Si dice che molte di queste sostanze creino plasticità nel cervello, quindi il cervello è più aperto al cambiamento. Ma cosa succede se si sopporta questa plasticità in una situazione così terribile: sarà peggio o meglio?», ha spiegato alla Bbc il professor Roy Salomon, uno dei responsabili della ricerca. La risposta è che la sostanza illegale «migliore» sarebbe l’MDMA. E il risultato è collegato al post trauma. 
Nei cinque mesi successivi all’evento i soggetti dello studio «dormivano meglio, avevano meno problemi mentali e stavano meglio rispetto alle persone che non assumevano sostanze», è la teoria di Salomon. Ad avere effetti benefici sui sopravvissuti, gli ormoni attivati dalla sostanza, come l'ossitocina, che aiuta a promuovere i legami, a ridurre la paura e ad aumentare il senso di cameratismo. E, dato ancora più importante, sembra che i soggetti dello studio, una volta tornati a casa al sicuro, siano stati più ricettivi rispetto al sostegno emotivo delle famiglie e degli amici.
Chiaramente, la ricerca è limitata ai sopravvissuti agli attacchi, il che rende difficile stabilire con certezza se determinati farmaci abbiano aiutato o ostacolato le possibilità di fuga delle vittime. 
Ma c’è chi crede fermamente che l’MDMA gli abbia salvato la vita. «Ero così fatta che ho potuto sopportare la vista di cose che un essere umano normale non può vedere, perché non sono normali», ha spiegato Michal Ohana alla Bbc.
L’uso dell’MDMA per la cura del disturbo da stress post traumatico non è una novità. In Australia è già stato approvato l’utilizzo della sostanza per certi tipi di cure psichiatriche. Vietato invece negli gli Stati Uniti, dove la Food and Drug Administration ha espresso preoccupazioni in merito alla progettazione degli studi e al fatto che il trattamento potrebbe non offrire benefici duraturi e al potenziale rischio di problemi cardiaci, lesioni e dipendenze. In Israele, dove l'MDMA è illegale, gli psicologi possono utilizzarla solo per curare i pazienti a scopo di ricerca sperimentale. In Italia nemmeno in quel campo ma si discute da tempo e si parla dell'utilizzo di sostanze illegali nel trattamento dei disturbi psicologici per i pazienti terminali, oltre alla cannabis legale per scopi terapeutici dal 2006.
Tuttavia, che si abbia assunto droghe o meno, «guarire» da un attacco terroristico così traumatico e su larga scala è particolarmente complicato, come dimostrano anche le testimonianze dei veterani di guerra ucraini, per lo più vittime della sindrome del sopravvissuto. 
La stessa Michal Ohana spiega: «Mi sveglio con questo, e vado a dormire con questo, e la gente non capisce. Viviamo questa situazione ogni giorno. Sento che il Paese ci ha sostenuto nei primi mesi, ma ora, dopo un anno, pensano: Ok, dovete tornare al lavoro, tornare alla vita. Ma non possiamo».

(Corriere della Sera, 8 marzo 2025)


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«Il momento magico del rave»

Riportiamo alcuni estratti da un articolo del Corriere della Sera del 17 dicembre 2023 sul Supernova Festival del 7 ottobre 2023:

    «L’alba è il momento magico del rave. La vittoria della luce sulle tenebre. O, per i meno mistici, il punto in cui le droghe unite alla stanchezza raggiungono il loro climax. È all’alba che i razzi si sono levati sopra il deserto, a est dell’area di sosta di Reim. Nel telefono di Yoni c’è un video di quegli istanti: le scie di fumo si aprono a raggiera contro la fascia rosata del cielo, precedute da bagliori. L’ora: le 6.58.
    Maytal (esperta di psichedelia) cerca di operare una distinzione di massima sul modo in cui i partecipanti al rave, quelli sotto l’effetto di droghe, devono aver percepito distorta l’esperienza dell’attacco: «Chi aveva preso Lsd si sentiva in connessione con tutto ciò che gli accadeva intorno, anche mentre diventava l’inferno». Due sopravvissuti le hanno raccontato di aver compiuto scelte inaspettate e salvifiche grazie alla creatività fornita loro dall’acido lisergico. Ma con gli acidi la mente regredisce anche a uno stadio infantile, ipersensibile. «Immagina com’è stato vivere tutto quello che hanno vissuto enormemente amplificato, come se fossero bambini».
    Alcuni di quelli che avevano assunto Mdma si sono sentiti ottimisti nonostante tutto.
    La Dmt — una molecola dall’effetto rapido e potente, che si trova anche nell’ayahuasca e qui in Israele sembra andare di gran moda — li ha invece resi più energici e concentrati, probabilmente anche nella fuga.
    Una ragazza aveva mangiato dei funghi e ascoltando le voci dei terroristi mentre era nascosta ha attraversato «un’esperienza molto profonda di accettazione della morte».
    Ma il peggio dev’essere capitato con la ketamina, perché con la ketamina mente e corpo si dissociano: quei ragazzi e quelle ragazze sono rimasti paralizzati a farsi trucidare.
    È quasi insopportabile leggere oggi la presentazione del festival che viene fatta sul sito:
    La parola «Supernova» si riferisce all’esplosione di una stella massiva, che causa uno scoppio immenso di luce in termini galattici. Cosa si può immaginare che accada quando questi concetti si combinano con la festa di Sukkot? Crediamo che possiate già immaginare il risultato... (O forse no?).»

Sì, dev'essere andata proprio così: i concetti diabolici di “luce in termini galattici” combinati con gli ordinamenti della “festa di Sukkot” istituita da Dio hanno provocato “l’esplosione di una stella massiva” che ha costituito “il momento magico del rave”. Di magia in effetti si trattava: magia nera. E' prevedibile che di simili "feste" in Israele non se ne vedranno più. E anche questo sarebbe un risultato. M.C.

(Notizie su Israele, 8 marzo 2025)

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Perché nessuno ringrazia Netanyahu?

Come mai gli ostaggi liberati ignorano Netanyahu e ringraziano qualcun altro?

di Aviel Schneider

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Un manifesto sull'autostrada Ayalon-Tel Aviv mostra il sostegno al Presidente Donald Trump e lo ringrazia, 5 febbraio 2025

GERUSALEMME - Ieri alcuni ostaggi israeliani sono stati ricevuti da Donald Trump alla Casa Bianca: Eli Sharabi, Keith e Aviva Siegel, Naama Levi, Doron Steinbrecher, Yair Horn, Omer Shem Tov e Noa Argamani. Ognuno di loro ha presentato brevemente la sua terribile storia. Tutti hanno dichiarato a Trump che sono stati rilasciati grazie ai suoi sforzi. Come ha detto Omer Shem Tov: “Io e la mia famiglia siamo sicuri che lei è stato mandato da Dio per liberare gli ostaggi israeliani dalla Striscia di Gaza”.

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l Presidente degli Stati Uniti Donald Trump incontra gli ostaggi liberati nello Studio Ovale della Casa Bianca il 5 marzo 2025

Trump ha promesso loro che avrebbe fatto lo stesso per gli altri ostaggi finché non fossero stati liberati dall'inferno. È sorprendente che il Presidente degli Stati Uniti Trump si stia schierando a favore degli ostaggi israeliani, più del governo di Gerusalemme. Nel Paese si ha l’impressione che Trump sia più interessato a salvare gli ostaggi di Benjamin Netanyahu. E' Trump che viene elogiato per il salvataggio degli ostaggi, non Netanyahu. Se questo sia giusto oppure no non è facile dirlo, perché d'altra parte Netanyahu deve anche garantire e combattere per la strategia di deterrenza di Israele. Cosa è più importante, la sicurezza nazionale o la sicurezza individuale degli ostaggi? Un arduo dilemma che si trova nelle mani del governo.
E qui bisogna capire il motivo per cui gli ostaggi ringraziano qualcuno seduto dall'altra parte del mondo e non il loro governo a Sion. 
Miriam Adelson (80), miliardaria israelo-americana e sostenitrice di lunga data di Donald Trump, ha svolto un ruolo cruciale nel convincere il presidente eletto a fare pressione su Hamas affinché accettasse un accordo sugli ostaggi. La notizia è stata pubblicata settimane fa dal giornalista israeliano Ben Caspit, anche se ne avevamo sentito parlare dietro le quinte mesi prima. Ma si trattava di voci.

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Buoni amici - Miriam Adelson, vedova del donatore repubblicano Sheldon Adelson, e Donald Trump

Miriam Adelson è considerata l'israeliana e l'ebrea più influente e ricca del mondo. La miliardaria, che ha perso il marito, il magnate dei casinò Sheldon Adelson, quattro anni fa, è una delle più strette confidenti del presidente Trump. Ha sostenuto l'attuale campagna elettorale di Trump con la somma astronomica di 100 milioni di dollari. E la ricompensa sarebbe stata l'approvazione dell'ultimo accordo sugli ostaggi, per il quale Trump ha fatto pressioni. Si racconta che la donna abbia detto a Trump che avrebbe donato denaro al suo partito in cambio della promessa di costringere Hamas e Netanyahu a un accordo sugli ostaggi. Per il suo ottenimento sono stati promessi 100 milioni di dollari. Miriam si occupò anche di informare le famiglie degli ostaggi sugli sviluppi dell'accordo e di parlare con loro.
È stato l’impegno di Adelson a spingere Trump a lanciare un severo avvertimento pubblico ad Hamas lo scorso dicembre, chiedendo l'immediato rilascio degli ostaggi. Trump si era recentemente espresso sui social media affermando: “Gli ostaggi sono tenuti in modo brutale, disumano e contro la loro volontà. I responsabili sono stati colpiti più duramente di chiunque altro nella lunga storia degli Stati Uniti d'America. Rilasciate subito gli ostaggi!” Le fonti hanno riferito che Trump ha fatto pressione su entrambe le parti - sia Netanyahu che i mediatori - per portare avanti l'accordo. Soprattutto, però, la pressione era necessaria da parte israeliana per ottenere progressi. Le famiglie israeliane hanno dichiarato: “Abbiamo avuto l'impressione che non sarebbe accaduto senza Miriam. È molto vicina a Trump”.
È stata lei che ha sollecitato Trump a far firmare un accordo sugli ostaggi prima del suo insediamento il 20 gennaio. Nelle ultime settimane, Miriam Adelson ha incontrato le famiglie degli ostaggi e ha raccontato loro cosa sta accadendo dietro le quinte e quali sono i piani del Presidente Trump per il futuro. L'influenza di Adelson su Trump risale alla sua campagna presidenziale del 2016, quando anche in quel caso lei e il suo defunto marito, Sheldon Adelson, donarono milioni di dollari. Gli Adelson hanno svolto un ruolo cruciale nel plasmare le politiche pro-Israele di Trump durante il suo primo mandato, come il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan e lo spostamento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme. Nel 2007, lei e suo marito hanno fondato il quotidiano israeliano gratuito Israel HaYom, sul modello di USA Today. Nei primi dieci anni il giornale ha sostenuto Netanyahu e il suo governo di destra, fino a che, a un certo punto, la famiglia Netanyahu e Adelson non hanno litigato.
Le famiglie degli ostaggi israeliani hanno capito che Miriam Adelson è stata una figura chiave nel salvataggio dei loro cari dalla prigionia nella Striscia di Gaza. Gli innumerevoli incontri con i rappresentanti del governo israeliano non hanno portato a molto dal loro punto di vista. È stato ripetutamente promesso loro che Israele e l'esercito avrebbero fatto tutto il possibile per liberare gli ostaggi. Tuttavia, le famiglie si sono anche rese conto che il governo è principalmente interessato a una vittoria tattica su Hamas nella Striscia di Gaza. Altri ritengono che Netanyahu stia ritardando la guerra per motivi di sopravvivenza politica e che quindi non voglia un cessate il fuoco. Ma questo è difficile da valutare e dipende dalla posizione politica che si ha in mezzo al popolo.
Tra la vittoria totale e la liberazione degli ostaggi, il governo di Netanyahu ha privilegiato la prima opzione fino a quando Trump non ha dato un ultimatum a entrambe le parti. I promotori e Miriam Adelson hanno capito di avere una maggiore possibilità di ottenere il rilascio degli ostaggi esercitando una forte pressione sul presidente degli Stati Uniti Donald Trump e scavalcando il primo ministro Benjamin Netanyahu.
"Miriam Adelson ha usato il suo potere e la sua influenza in modo chiaro e diretto quasi esclusivamente per un unico obiettivo: il ritorno a casa dei nostri ostaggi. Si parlerà molto del suo peso e della sua forza, ma una cosa voglio dirla subito: un enorme grazie dal profondo del mio cuore, dottoressa Miriam Adelson”, ha detto il giornalista Guy Lerer.
Adelson ha mostrato di avere compassione per le famiglie degli ostaggi, e  tre giorni fa ha dichiarato  ai media israeliani:
"Dico sempre che se fossi un ostaggio - sono già vecchia, ho già vissuto la mia vita, non mi importerebbe, nessun soldato dovrebbe morire per me. Ma se mio figlio o mio nipote fosse un ostaggio, smuoverei le montagne. Capisco loro e il loro dolore. Quando mi chiedono come sto, rispondo: “Bene, però - e questo ‘però’ pesa su tutti noi”.

(Israel Heute, 7 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Trump difende i colloqui segreti con Hamas, ma in Israele mugugnano

A Gerusalemme non è andata giù che Washington li abbia aggirati. Per di più dà precedenza agli ostaggi americani

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha difeso giovedì i negoziati diretti senza precedenti della sua amministrazione con Hamas, affermando che sono stati condotti a beneficio di Israele e per garantire il rilascio di ostaggi israeliani.
“Stiamo aiutando Israele in queste discussioni perché stiamo parlando di ostaggi israeliani”, ha detto Trump ai giornalisti mentre firmava ordini esecutivi nello Studio Ovale.
“Non stiamo facendo nulla in termini di Hamas. Non stiamo dando contanti”, ha continuato. “Bisogna negoziare. C’è una differenza tra negoziare e pagare. Vogliamo far uscire queste persone”.
Riflettendo sui suoi incontri con un gruppo di otto ostaggi liberati, Trump ha detto di non riuscire a credere ai loro racconti su come sono stati trattati male in prigionia.
Secondo Channel 13 news, Trump ha chiesto ripetutamente agli ex prigionieri se l’opinione pubblica israeliana è favorevole a proseguire l’accordo sugli ostaggi oltre la prima fase. I sondaggi indicano che la maggioranza è favorevole, anche se il sostegno alla seconda fase è più basso tra gli elettori della coalizione.
Parlando giovedì, Trump ha detto che gli ostaggi lo hanno esortato a continuare con l’accordo.
“Ne sono rimasti 59 – di cui 24 vivi [e] hanno detto che sono in pessime condizioni… [ma gli ostaggi liberati] vogliono sapere se possiamo continuare” con il rilascio dei restanti israeliani ancora a Gaza, ha detto Trump.
“Ho rilasciato una dichiarazione che si spiega da sola”, ha continuato, riferendosi all’ultimatum che ha emesso dopo l’incontro di mercoledì con i prigionieri liberati, chiedendo ad Hamas di rilasciare immediatamente gli altri ostaggi o di affrontare la distruzione. “Qualcuno dovrà essere molto più duro di quello che sta ricevendo. È un peccato”.

Fuga di notizie sui colloqui per farli deragliare
   Gerusalemme, tuttavia, non è contenta dei colloqui diretti tra Stati Uniti e Hamas, ha dichiarato un funzionario governativo a condizione di anonimato. Di conseguenza, Israele è dietro la fuga di notizie di mercoledì sull’esistenza dei negoziati, ha detto il funzionario, confermando quanto riportato dal sito di notizie Ynet.
Mentre la Casa Bianca ha affermato di essersi consultata con Israele sulla questione, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha saputo dei colloqui degli Stati Uniti con Hamas solo dopo il fatto, ha detto il funzionario.
Gli Stati Uniti hanno deciso di non informare Israele del recente incontro di Adam Boehler, inviato di Trump per gli ostaggi, con Hamas, perché quando Washington lo ha fatto prima di un incontro precedentemente pianificato, è stata costretta a cancellarlo dopo che Gerusalemme ha espresso una forte opposizione all’idea, ha riferito Ynet.
Boehler ha deciso di andare avanti con l’incontro, che ha utilizzato in gran parte per cercare di ottenere il rilascio dell’ostaggio americano-israeliano Edan Alexander insieme ai corpi degli ostaggi israelo-americani Omer Neutra, Itay Chen, Gadi Haggai e Judi Weinstein. L’incontro ha incluso anche discussioni su un accordo più ampio tra Israele e Hamas per rilasciare tutti gli ostaggi rimasti e porre fine alla guerra scatenata dall’attacco del gruppo terroristico dell’ottobre 2023.
Quando Israele ha scoperto l’incontro a cose fatte, ha cercato di sabotare gli sforzi facendo trapelare la notizia ai media, ha dichiarato Ynet.
Il funzionario governativo ha dichiarato che la fuga di notizie ha raggiunto il suo scopo e che i colloqui con Hamas si sono arenati.
L’opposizione di Israele ai colloqui diretti tra Stati Uniti e Hamas derivava dalla preoccupazione che gli Stati Uniti potessero perdere interesse nell’ottenere un ampio accordo per il cessate il fuoco dopo il rilascio di tutti gli ostaggi americani.

Privilegiare gli americani
   L’inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff ha cercato di rispondere a queste preoccupazioni, insistendo giovedì sul fatto che Washington è determinata a rilasciare tutti gli ostaggi.
Tuttavia, ha riconosciuto che Alexander è una priorità per l’amministrazione e ha indicato che Hamas vuole rilasciare il ventenne soldato dell’IDF come dimostrazione di buona volontà.
“Edan Alexander è molto importante per noi, come tutti gli ostaggi, ma Edan Alexander è un americano ed è ferito, quindi per noi è una priorità assoluta”, ha detto Witkoff ai giornalisti durante un incontro fuori dalla Casa Bianca.
Sembrava confermare che il rilascio di Alexander fosse un argomento di conversazione nei colloqui diretti che Boehler ha tenuto con Hamas, pur lamentando che tali colloqui non hanno ancora dato frutti.

È ora che Hamas “sia sincero con noi”
  Purtroppo, quello che abbiamo appreso è che Hamas ci ha detto che ci avrebbe pensato in un certo modo… È un’informazione importante per noi”. E così è arrivato il tweet del presidente”, ha detto Witkoff, riferendosi all’ultimatum di Trump.
“Vogliamo che questi ostaggi tornino a casa. Non ce ne staremo seduti qui a non fare nulla e a tollerare questo tipo di condizioni disumane. Hanno vissuto in una situazione terribile. Chi tiene i cadaveri? Chi lo fa? Chi tiene le persone incatenate al piano di sotto? Chi uccide davanti agli altri ostaggi? Quello che è successo qui è intollerabile e non sarà tollerato dal Presidente Trump”.
“Siamo pronti a dialogare. Ma se il dialogo non funziona, allora l’alternativa non è così buona per Hamas”, ha detto Witkoff.
Nonostante l’apparente impasse, Wiktoff ha detto di sperare che Hamas cambierà atteggiamento nei prossimi giorni.
“Il presidente ha rilasciato una dichiarazione su cosa è accettabile per lui e cosa no. Speriamo di vedere una buona condotta la prossima settimana e di poter andare lì a discutere”, ha detto, aggiungendo che la prossima settimana ha in programma di visitare quattro Paesi della regione, non ancora nominati.
“Adam Boehler è l’inviato speciale incaricato degli ostaggi e ha avuto dei colloqui. Riteniamo che Hamas non sia stato schietto con noi, ed è ora che lo sia con noi”, ha continuato Witkoff. “Edan Alexander sarebbe uno spettacolo molto importante. Vedremo come [Hamas] reagirà”.
Oltre al rilascio di Alexander, Witkoff ha indicato che l’unica via d’uscita per Hamas sarebbe quella di liberare tutti gli ostaggi rimasti e di andare in esilio – cosa che il gruppo terroristico non ha mostrato di essere disposto a fare.
Witkoff ha riconosciuto che c’è molta incertezza su cosa accadrà dopo l’ultimatum di Trump.
“Non è chiaro cosa succederà esattamente. Verrà intrapresa un’azione. Potrebbero essere intraprese insieme agli israeliani”, ha dichiarato Witkoff ai giornalisti.
Incalzato ulteriormente su questi commenti, Witkoff è sembrato allontanare l’ipotesi che gli Stati Uniti possano unirsi a Israele in un’azione militare contro Hamas.
“Siamo un garante del processo. Oggi sono gli israeliani a controllare Gaza… e la controparte è Hamas. Qualsiasi azione viene principalmente dagli israeliani. Ma avete sentito il Presidente dire ieri che sta dando agli israeliani tutto ciò di cui hanno bisogno. Saranno gli israeliani ad agire, ma con un sostegno fisico ed emotivo molto forte da parte degli Stati Uniti”, ha detto Witkoff.
Alla domanda su cosa significhi l’ultimatum di Trump per la fase due dell’accordo, che avrebbe dovuto iniziare domenica scorsa, Witkoff ha risposto: “La gente la definisce un’estensione della fase uno o della fase due. A me non interessa come la chiamiamo”.
“È ora che guadagnino un po’ di capitale politico e dimostrino di essere in grado di farlo”.
“Hamas ha l’opportunità di agire in modo ragionevole, di fare ciò che è giusto, e poi di andarsene. Non faranno parte di un governo”, ha detto Witkoff. “Non metterei alla prova il Presidente Trump”.
Alla domanda se l’ultimatum di Trump abbia una scadenza specifica, Witkoff ha risposto: “Penso che ci sia sicuramente una data, ma non sono autorizzato a parlarne”.
Witkoff ha anche difeso i colloqui diretti, dicendo che rientrano nelle competenze di Boehler.
“Era responsabilità dell’inviato speciale avere una conversazione e vedere se si poteva ottenere qualcosa”, ha detto. “Lo elogio per averlo fatto. Adam si preoccupa delle vite umane. Le famiglie degli ostaggi gliene sono grate, così come il Presidente Trump”.
Lo stesso Boehler ha commentato gli sforzi dell’amministrazione Trump per ottenere il rilascio degli ostaggi, dicendo: “Vedrete alcuni annunci nei prossimi giorni”.
“Il presidente continuerà a insistere finché tutti i nostri americani, vivi o morti, non saranno restituiti”, ha detto Boehler durante un evento al Dipartimento di Stato per le famiglie degli ostaggi americani.
“Avete visto cosa ha detto ieri il Presidente ad Hamas, dove ha detto chiaramente che prendere cittadini statunitensi, o qualsiasi altro cittadino, in modo illecito, non è appropriato e sarà risposto nel modo più duro possibile. Questo Presidente non si fa scrupoli ad agire quando è necessario. E noi tutti lo sosterremo”, ha aggiunto Boehler.

Hamas lancia un avvertimento mentre gli Stati Uniti appoggiano il congelamento degli aiuti a Gaza
  Nel frattempo, il portavoce di Hamas Abu Obeida ha avvertito giovedì che qualsiasi escalation militare israeliana contro il gruppo terroristico di Gaza porterà molto probabilmente all’uccisione di alcuni ostaggi.
Ha inoltre aggiunto che le minacce israeliane di guerra e di blocco non garantiranno il rilascio degli ostaggi e ha affermato che il gruppo terroristico è ancora impegnato a rispettare l’accordo di tregua con Israele se Gerusalemme continuerà con la seconda frase del quadro.
Israele si è rifiutato di farlo, poiché la seconda fase prevede il ritiro completo di Israele da Gaza e l’accettazione di una fine permanente della guerra in cambio degli ostaggi ancora in vita.
Sebbene Netanyahu abbia sottoscritto questi termini a gennaio, si è rifiutato anche solo di avviare negoziati sui termini della seconda fase, che avrebbero dovuto iniziare un mese fa.
Ha invece cercato di imporre un nuovo quadro per estendere il cessate il fuoco dopo che la prima fase è scaduta sabato.
Questo quadro, che secondo lui è stato proposto da Witkoff, prevede che il cessate il fuoco venga esteso per un altro mese e mezzo, attraverso il Ramadan e la Pasqua ebraica. La prima metà degli ostaggi verrebbe rilasciata all’inizio di questo periodo e l’ultima metà degli ostaggi verrebbe rilasciata alla fine, se verranno raggiunti i termini per un cessate il fuoco permanente.
Hamas si è però opposto alla proposta, inducendo Israele ad annunciare domenica che avrebbe impedito agli aiuti di entrare a Gaza in futuro.
Giovedì il Dipartimento di Stato ha difeso la decisione israeliana sull’assistenza umanitaria, con la portavoce Tammy Bruce che ha dichiarato: “Gli aiuti possono essere consegnati solo in un contesto sicuro, quindi finché… non possiamo garantire la sicurezza di qualcosa che entra, questo verrà fermato”.
“Non è un rifiuto, ma è un riflesso del quadro della situazione sul campo”, ha aggiunto.
Secondo i termini dell’accordo firmato a gennaio, Israele dovrebbe consentire l’ingresso degli aiuti fino a quando saranno in corso i negoziati per la fase due dell’accordo.
I gruppi per i diritti dicono che il rifiuto degli aiuti o il loro utilizzo come merce di scambio equivale a una violazione del diritto internazionale.

(Rights Reporter, 7 marzo 2025)

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Roma, cantiere del Museo ebraico della Shoah vandalizzato con escrementi e scritte pro-Palestina

di Ludovica Iacovacci

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Escrementi, volantini e scritte pro-Palestina sono stati trovati al cantiere del Museo ebraico della Shoah di Roma, che sorgerà a villa Torlonia alle spalle della Casina delle Civette, in via Nomentana.
La mattina del 6 marzo 2025, il capo cantiere recandosi sul luogo ha trovato i resti degli atti vandalici. I lucchetti del cancello del cantiere sono stati ricoperti di escrementi mentre sui cartelli di avviso dei lavori in corso è stato scritto «Assassini infami» e «Oggi 45mila morti». Una chiazza di vernice rossa ricordava del sangue. Su alcuni volantini è stato scritto «Fermare il genocidio a Gaza» mentre su un altro compare una foto che ritrae il popolo di Gaza.

Gli episodi sarebbero riferibili a due settimane fa. Al momento, indaga la Digos.
   Il Museo della Shoah sorgerà a Villa Torlonia, alle spalle della Casina delle Civette. Il progetto risale a circa 20 anni fa ed è stato firmato dall’architetto Luca Zevi. L’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha dato una decisiva spinta ai lavori e a marzo del 2023 è stato annunciato lo stanziamento di 10 milioni di euro per il progetto. Nello stesso anno Camera e Senato hanno dato il via libera al disegno di legge per la realizzazione del museo. I lavori sono attualmente in corso.

La condanna da parte delle istituzioni
  «Gli atti vandalici al cantiere del Museo della Shoah a Roma sono gravi e preoccupanti. In quel cantiere sono in corso i lavori di un luogo di memoria, fortemente voluto per ricordare la storia e il dolore di milioni di ebrei. Ogni forma di odio e antisemitismo va contrastata con determinazione. La mia condanna è ferma, così come la vicinanza, mia e del Senato della Repubblica, alla comunità ebraica». Lo scrive sui social il presidente del Senato, Ignazio La Russa.
«Basta con la cultura dell’odio. L’orribile atto di vandalismo al cantiere del museo della Shoah è figlio di un’ideologia malata che molti hanno sottovalutato e non curato. La sofferenza del popolo ebraico dev’essere condivisa non dimenticata». Lo scrive su X la ministra del Turismo Daniela Santanchè.
«Gli atti di antisemitismo al museo della Shoah di Roma sono vergognosi. Non può esserci spazio a Roma, in Italia e in Europa per un ritorno dell’odio verso gli ebrei e, soprattutto, verso i luoghi che ricordano la tragedia dell’Olocausto. La nostra condanna è ferma», lo afferma il segretario di +Europa, Riccardo Magi.
«È l’ennesimo episodio di odio antisemita che vorrebbe essere giustificato citando la drammatica guerra in corso in Medio Oriente […]. Chi insulta la memoria con atti antisemiti non può dare lezioni di nulla», lo dichiara in una nota Sinistra per Israele – Due popoli due Stati.
Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha definito l’accaduto “inaccettabile”, sottolineando come si tratti di “atti vili e intimidatori che colpiscono l’intera città, fondata sui valori della memoria e del rispetto”. Il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha espresso “profonda indignazione per il vile atto vandalico”, ribadendo la necessità di “ferma condanna di ogni tentativo di inquinare il dibattito pubblico con gesti che alimentano tensioni”.
Dello stesso avviso è Francesco Rocca, il presidente della Regione Lazio, che ha parlato di “atti intimidatori inquietanti che fanno rabbrividire” e ha invitato a una “condanna corale e decisa da parte non solo delle istituzioni, ma dell’intera opinione pubblica”.
«L’atto contro il cantiere del Museo della Shoah di Roma è l’ennesimo episodio vile e ignobile di antisemitismo. Usare escrementi e slogan per delegittimare la storia è un’offesa che non si può tollerare” così su Facebook, Tobia Zevi, assessore al Patrimonio e alle Politiche abitative di Roma Capitale.

La risposta della Comunità ebraica  
Forte è stata l’indignazione da parte della comunità ebraica. “L’ignobile gesto antisemita che ha preso di mira il cantiere del Museo della Shoah è un oltraggio alla memoria in una città, Roma, che ha conosciuto la deportazione e la persecuzione”, ha dichiarato Victor Fadlun, presidente della Comunità ebraica di Roma.
Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), ha affermato: “Abbiamo affrontato l’apologia del nazifascismo, affronteremo anche l’apologia del terrorismo e ogni atto di odio. Quanto avvenuto non offende solo noi, ma l’Italia nel suo insieme e fa male al suo futuro e alle sue fondamenta democratiche”.
Siamo di fronte a continue manifestazioni di cieca aggressività – ha dichiarato il presidente della Fondazione Museo della Shoah, Mario Venezia – con atti espliciti come usano i grandi criminali, da parte di chi fa una grande confusione di quelli che sono elementi ormai storicamente acquisiti di volontà genocida nei confronti del popolo ebraico braccato in tutto il mondo con la sola finalità di sterminarlo”.
“L’imbrattamento del cantiere del Museo della Shoah rappresenta una violenza nei confronti della memoria dei 6 milioni di ebrei trucidati dalla follia nazifascista. Un gesto che dimostra come l’antisemitismo, alimentato da odio e propaganda, continui a diffondersi senza sosta” così scrive l’Unione dei Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) sulla piattaforma X.

(Bet Magazine Mosaico, 7 marzo 2025)

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Non solo l’8 marzo. Gal Gadot e l’orgoglio di una donna di essere ebrea

di Michelle Zarfati

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“Mi chiamo Gal, sono ebrea e ne ho abbastanza di questo odio” queste le parole con cui l’attrice israeliana Gal Gadot ha aperto il suo discorso dall’Anti-Defamation League (ADL). Durante il suo speech Gal Gadot ha chiesto il rilascio degli ostaggi e ha raccontato come ha trovato conforto in una sinagoga dopo il 7 ottobre, dichiarando di non poter restare in silenzio ed esortando gli ebrei di tutto il mondo ad alzare la propria voce. “Non possiamo trattenere il respiro e implorare il sostegno degli altri”
  Durante la serata Gadot è stata insignita dell’International Leadership Award per i suoi sforzi nella lotta all’antisemitismo. “Sono una moglie, sono una madre e ne ho abbastanza di questo odio. Affronteremo l’antisemitismo, lo denunceremo, non permetteremo a nessuno di sconfiggerci o di definirci. Perché il nostro amore è più forte del loro odio”. Il suo discorso ha fatto il giro del web in poche ore ricevendo un’ovazione dal pubblico presente in sala. Riflettendo sull’impatto dell’attacco di Hamas del 7 ottobre su Israele, Gadot ha condiviso come gli eventi dell’ultimo anno l’abbiano profondamente colpita. “Nei giorni successivi al 7 ottobre, eravamo tutti sconvolti. Come molti di voi, ero incollata agli schermi di telefoni e televisori inerme davanti agli orrori provenienti da Israele e all’odio che si riversava qui e in tutto il mondo – ha detto – Non sono una persona religiosa o osservante, ma mi sono ritrovata in una sinagoga e lì, ho finalmente sentito conforto. Ho sentito l’abbraccio del popolo ebraico e il potere della nostra comunità. Non dimenticherò mai quella sensazione”. Gadot ha poi sottolineato le conseguenze globali dell’antisemitismo: ” Il 7 ottobre ci ha mostrato che ciò che accade agli ebrei in Israele colpisce gli ebrei ovunque. E questo vale in entrambi i sensi: non solo ciò che accade lì colpisce noi qui, ma ciò che accade qui colpisce loro là”. L’attrice ha raccontato poi delle sue radici, della sua vita in Israele come nipote di sopravvissuti alla Shoah, e definendosi orgogliosa del suo essere ebrea ed israeliana. “Sono nata e cresciuta nel centro d’Israele. Da nonni sopravvissuti alla Shoah. Da famiglie israeliane diverse ma che mi rendono egualmente orgogliosa della mia molteplice identità ebraica”. L’attrice ha poi postato sui social scatti della serata di premiazione, l’ennesimo gesto per ribadire la fierezza del proprio ebraismo.

(Shalom, 7 marzo 2025)

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Tel Aviv e lo stop agli smartphone in classe: «Tecnologia va governata, noi pionieri digitali»

Nel suo libro Homo deus. Breve storia del futuro, lo storico israeliano Yuval Noah Harari mette in guardia l’umanità sulla dipendenza da smartphone, che ritiene una delle principali emergenze globali. Secondo Harari, se non saranno in grado di affrancarsi da questa dipendenza, «gli umani cambieranno gradualmente prima una delle loro caratteristiche e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non saranno più umani». Chissà se Ron Huldai, il sindaco di Tel Aviv, ha letto il libro del suo illustre connazionale. Sull’argomento però sembra pensarla in modo simile. «Dobbiamo governare la tecnologia, non esserne governati», ha dichiarato nel corso di una conferenza dedicata ai temi dell’educazione, davanti a vari presidi e addetti ai lavori.
Nell’occasione Huldai ha annunciato l’avvio un progetto per ridurre e poi in una seconda fase sradicare la presenza degli smartphone nelle scuole della Città Bianca, una delle capitali mondiali dell’innovazione. Alcuni istituti stanno già sperimentando una graduale disconnessione, altri lo faranno a breve. «Sono dei veri pionieri, dei pionieri digitali», ha affermato Huldai. «Lo dico senza un briciolo di cinismo».
Il sindaco ha definito il progetto nel suo insieme «non semplice, ma necessario», dicendosi consapevole delle resistenze cui andrà incontro strada facendo. «L’innovazione è una parte fondamentale della vita a Tel Aviv», ha poi riconosciuto. Ciò premesso, «vogliamo che i bambini siano in grado di divertirsi a usare strumenti di intelligenza artificiale in modo intelligente, di qualità e creativo, fornendo la capacità e gli strumenti per usare tablet e laptop per i processi di apprendimento». Allo stesso tempo, «vogliamo anche consentire ai bambini di avere momenti semplici insieme e realizzare esperienze e processi emozionali». Tutto questo, ha concluso Huldai, «non può essere fatto in modo ottimale quando gli smartphone sono con i bambini in ogni momento». a.s.

(moked, 7 marzo 2025)

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Brutti segnali per Israele da cogliere nel rapporto tra Trump e Putin

La mediazione russa e l'incontro con Hamas. Per il presidente americano l'obiettivo è il disimpegno ed è pronto a un accordo con l'Iran anche senza avere lo stato ebraico al tavolo delle trattative. Netanyahu ha una lezione da imparare guardando l'Ucraina.

di Micol Flammini

A febbraio, qualche giorno prima che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, venisse ricevuto alla Casa Bianca da Donald Trump appena insediato, il New York Times aveva pubblicato un articolo ricco di informazioni sulla corsa della Repubblica islamica dell’Iran per dotarsi di un ordigno nucleare. Secondo il quotidiano americano, un gruppo di scienziati sta lavorando in modo segreto per studiare un approccio più rapido per sviluppare l’arma atomica. Più rapido, hanno specificato le fonti che hanno parlato con il New York Times, vuol dire anche più rudimentale, quindi con un processo di assemblaggio più breve. Per accorciare la strada, Teheran potrebbe decidere di alimentare questo ordigno grezzo con uranio altamente arricchito, anziché con uranio di livello militare. Tutte queste informazioni sono state raccolte durante l’Amministrazione Biden e sono state trasferite alla squadra di Donald Trump. Durante l’incontro a Washington, al centro della conversazione a porte chiuse, il premier israeliano ha messo la dottrina atomica del regime iraniano, le nuove informazioni sugli esperimenti e l’attacco alle strutture nucleari che Israele vede come una necessità. Gli scienziati iraniani che stanno studiando come sviluppare un ordigno “grezzo” probabilmente lavorano  in un laboratorio segreto e colpirlo potrebbe essere una delle priorità. Davanti alle sue richieste, Netanyahu ha trovato un presidente americano meno battagliero del previsto e per nulla disposto a mettersi al fianco di Israele in un attacco contro Teheran. 
   Se già questo elemento era sufficiente per far capire al governo israeliano che in Trump non avrebbe avuto l’alleato pronto a distruggere il regime, la notizia di come sta conducendo le trattative con Vladimir Putin è un segnale ulteriore. Secondo Bloomberg, il Cremlino si è offerto come mediatore per far ripartire i colloqui per arrivare a un nuovo accordo  sul nucleare con l’Iran e ricomporre l’intesa che era stato proprio Trump a stracciare durante la sua prima Amministrazione. Trump all’epoca considerava l’accordo poco serio, visto che continuavano a emergere dati sul fatto che le centrifughe di Teheran arricchivano l’uranio non  per scopi civili. Così decise di ribaltare tutto  e imporre sanzioni molto forti contro l’Iran. Biden non è riuscito a negoziare un nuovo accordo, di cui Mosca è sempre stata uno sponsor e continua a esserlo, soprattutto dopo che il suo rapporto con l’Iran si è fatto più stretto con la partecipazione dei droni iraniani nella guerra contro l’Ucraina.
   “L’Amministrazione americana dovrebbe evitare di ritrovarsi in una situazione in cui a mediare c’è la Russia, un paese non imparziale che ha già scelto da che  parte stare”, dice al Foglio Ksenia Svetlova, ex deputata della Knesset, il Parlamento israeliano, e analista di Chatham House. “Per Israele il rischio è grande, il governo credeva che Trump avrebbe acconsentito a un attacco contro il programma nucleare iraniano, ma non è quello che sta avvenendo. L’azione militare è molto lontana e sappiamo che Trump parla di pace ed è interessato al disimpegno. Se per Israele mettere fine al rischio nucleare rappresentato da Teheran è questione di vita o di morte, per gli Stati Uniti non lo è ed è difficile immaginare un attacco israeliano contro le strutture nucleari senza la collaborazione degli americani”. L’idea di pace di Trump è sinonimo di  disimpegno e il principio applicato in Ucraina può valere anche per Israele, che proprio come Kyiv potrebbe ritrovarsi a subire le decisioni degli Stati Uniti dopo essersi illuso che con la nuova Amministrazione sarebbe arrivata una svolta decisiva contro il regime di Teheran: “Trump pretende di chiudere la guerra in Ucraina parlando soltanto con Putin, senza la partecipazione di Kyiv al tavolo delle trattative. Così potrebbe voler chiudere un accordo con l’Iran senza la partecipazione di Israele”, dice Svetlova. Per Trump, Gerusalemme e Kyiv devono stare un passo indietro, nonostante siano i maggiori interessati: per il capo della Casa Bianca gli accordi si chiudono tra grandi attori globali e se c’è la Russia a sussurrare al suo orecchio e a sventolare la parola pace, per l’Iran è una buona notizia, per Israele non lo è affatto: “Potrebbe ritrovarsi a subire decisioni imposte, davanti a un tavolo di accordi già decisi da Trump e Putin senza avere possibilità di parola”.
   Il presidente americano non vede in Putin un nemico, ma un facilitatore che segue gli stessi interessi degli Stati Uniti, riceve le lodi dei funzionari di Mosca che pubblicamente si dicono felici di vedere alla Casa Bianca un leader che comprende il loro punto di vista. Nello stesso tempo anche il governo israeliano, che ha tentato di mantenersi equidistante da Mosca e Kyiv, crede che Putin sia un attore globale, utile contro la Turchia in Siria e per tenere a bada l’Iran. “Non c’è una simpatia personale, semplicemente per il governo  la Russia serve a bilanciare altre forze, soprattutto ora che il ritiro degli Stati Uniti da tutto il medio oriente è sempre più concreto”, spiega Svetlova che non condivide questo calcolo e anzi crede che Israele dovrebbe coordinarsi  con l’Ucraina: “Sono nella stessa situazione”. Israele dovrebbe leggere nell’atteggiamento del presidente americano con l’Ucraina una serie di segnali: la decisione di sospendere la cooperazione con l’intelligence di Kyiv  è uno dei più allarmanti e, specifica l’esperta, “non è una risposta a un incontro spiacevole alla Casa Bianca” con Zelensky. L’inviato speciale di Trump per gli ostaggi rapiti il 7 ottobre ha incontrato in segreto Hamas senza che gli israeliani ne fossero informati, ha discusso della liberazione degli americani ma anche di una tregua più lunga: non era mai accaduto che gli americani decidessero di tenere colloqui diretti con Hamas. Anche la Russia parla con Hamas, aveva chiesto la liberazione dei russi tenuti prigionieri e aveva invitato e ricevuto al Cremlino alcuni rappresentanti dell’organizzazione terroristica. 
   La politica della massima pressione sull’Iran, che Israele era sicuro avrebbe caratterizzato l’Amministrazione Trump, si è ammorbidita. La voglia di disimpegno e la fiducia nei confronti di Putin sono costanti che si applicano in Europa e in medio oriente. 

Il Foglio, 6 marzo 2025)

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Colloqui USA-Hamas: Trump ignora la resistenza di Netanyahu

A Donald Trump non interessano le formalità di negoziazione di un accordo sugli ostaggi - finché il prezzo non è troppo alto, non gli interessa il protocollo.

di Ariel Kahana

La diplomazia richiede tatto - al contrario delle azioni del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyi. Soprattutto quando si tratta di relazioni con una potenza importante per Israele come gli Stati Uniti. E ancora di più quando questa potenza è guidata da Donald Trump.
Ecco perché Israele ha espresso la sua opposizione ai colloqui diretti e straordinari tra gli Stati Uniti e Hamas in modo estremamente cauto e contenuto. In realtà, è necessaria un'interpretazione esegetica per decifrare ciò che il primo ministro Benjamin Netanyahu pensa realmente sulla questione.
“Nei contatti con gli Stati Uniti, Israele ha espresso la sua opinione sui colloqui diretti con Hamas”, ha dichiarato l'ufficio del primo ministro in un comunicato criptico.
Chiunque riesca a risolvere questo enigma può capire quanto Gerusalemme proceda con cautela quando il destinatario è Trump. Dopo tutto, la dichiarazione di Netanyahu non specifica quanto fosse accurata l'“opinione” di Israele. I lettori dovranno trarre le proprie conclusioni.
È ovvio, ovviamente, che l'“opinione” di Israele non è favorevole. Se lo fosse, Netanyahu non esiterebbe a elogiare e lodare Trump, come fa spesso. Inoltre, Israele e gli Stati Uniti hanno perseguito per decenni la politica di evitare qualsiasi contatto con Hamas a causa del suo terrorismo omicida. Questo era vero prima del 7 ottobre 2023 ed è ancora più vero oggi.
Inoltre, i colloqui diretti secondo le regole della diplomazia garantiscono il riconoscimento e la legittimità reciproci. Per Hamas, il solo fatto di incontrare un rappresentante americano è un risultato significativo, indipendentemente dal contenuto dei colloqui o dal fatto che portino a qualcosa.
Israele è chiaramente contrario a concedere un tale onore ad Hamas. Dopotutto, se incontri diretti di questo tipo non fossero un problema per Israele, li terrebbe lui stesso invece di affidarsi a intermediari come l'Egitto o il Qatar, che non sono interlocutori meno problematici.

Disinteresse per le formalità diplomatiche
  Per tutti questi motivi, non c'è dubbio che il non meglio precisato “parere” dell'ufficio di Netanyahu sia stato negativo, forse addirittura molto negativo. E per chi non fosse ancora convinto dalle prove circostanziali, una fonte informata ha dichiarato a Israel Hayom: “Si tratta di una mossa a dir poco problematica”.
In ogni caso, il parere di Israele non ha convinto Trump. Infine, ha inviato Adam Boehler, il suo inviato per negoziare il rilascio degli ostaggi statunitensi detenuti da attori non statali e dei cittadini statunitensi ingiustamente detenuti da Stati stranieri, a incontrare i rappresentanti di Hamas a Doha. Il 47° presidente degli Stati Uniti ha fatto questo passo perché non crede nelle formalità diplomatiche. Trump, come ricordiamo, ha incontrato il leader nordcoreano Kim Jong Undurante il suo precedente mandato, nonostante un embargo americano di lunga data.
Trump ha anche inviato i suoi rappresentanti a incontrare i Talebani, che avevano ucciso i soldati statunitensi, solo per raggiungere un accordo per porre fine alla guerra in Afghanistan. Il motivo di tutte queste mosse è che Trump è un uomo di risultati, non di processi. Non gli interessa come viene raggiunto un accordo sugli ostaggi. Finché gli Stati Uniti non pagano costi esorbitanti, il protocollo lungo il percorso è irrilevante per lui. Ciò che conta è il risultato finale.
Israele ha quindi espresso la sua “opinione”, che però non è stata chiaramente accettata. La domanda ora è se questo percorso problematico che Trump sta perseguendo porterà a dei risultati.

(Israel Heute, 6 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele e il 7 ottobre: un disastro annunciato
Si sapeva bene che Hamas allenava masse lungo il recinto, che le gallerie crescevano e i finanziamenti iraniani e del Qatar finivano in armi.

di Fiamma Nirenstein

Eyal Zamir ha la forza calma dei tankisti, non quella funambolica dei piloti, o quella smart dei paracadutisti. Ma sono tempi molto diversi. L'esercito deve riconquistare il suo ruolo essenziale, e questo lui è: essenziale. In questi giorni, come mai nella storia di Israele, nemmeno al tempo della guerra del 1973, Israele cerca sé stessa; si è riaperta la ferita del 7 di ottobre, sono stati mostrati al pubblico i risultati paurosi e sconcertanti delle inchieste che l'Idf e lo Shabbach, il servizio segreto interno, hanno condotto autonomamente. Ne esce un quadro devastante del fallimento di uno dei migliori apparati di sicurezza del mondo. Due sono le voragini aperte. L'incomprensione dell'evento: durante le giornate e la nottata precedente tutto era chiaro e dispiegato, e non si è capito. E poi, la voragine del ritardo di ore e ore che ha lasciato i disperati sopravvissuti nei rifugi a chiedere un aiuto che non è arrivato. A Kfar Aza l'ultimo terrorista è stato eliminato il 10 ottobre. Così sono stati uccisi 64 dei suoi abitanti e rapiti 19 nella terza delle ondate di Hamas, mentre l'aiuto richiesto alle 6,29 è comparso in minimi termini alle 13,15; 33 erano stati uccisi nella prima ora; alle 8 c'erano nel kibbutz 250 terroristi; i rapimenti sono avvenuti alle 10, e ancora non c'era nessuno a impedirli. Alle 10,30 un piccolo gruppo di soldati si è trovato uno contro cinque terroristi, le case dei ragazzi sono state distrutte e disseminate di cadaveri. Le forze in campo erano una ignara dell'altra, totalmente scoordinate.
  La presa e distruzione dell'avamposto di Nahal Oz sul confine, 162 soldati di cui 90 senza armi e solo 81 allenati al combattimento, è stata compiuta in tre fasi, alle 6,30 alle 9 e alle 10. In base a informazioni precise, Hamas sapeva dove tagliare il recinto dove erano le telecamere, quando passava la ronda, dove dormivano i comandanti, dove erano le ragazze, rapite. 53 sono stati uccisi subito. Mentre eroi solitari arrivavano da ogni parte di Israele in aiuto, l'esercito non c'era ancora se non in gruppi auto-organizzati. L'aviazione ci ha messo 4 ore a decollare, le truppe, per esempio a Kfar Aza o a Be'eri, non avevano ordini per agire. La Divisione Gaza allo sbando non forniva indicazioni nemmeno quando ormai il disastro era evidente. Nessuno all'alba ha evacuato i 3mila ragazzi al festival musicale, anche se dalla notte si sapeva che sarebbero stati un'esca da divorare. I kibbutz erano attrezzati come fossero in Toscana e non attaccati a Gaza. Bambini, anziani, famiglie assediati nei rifugi hanno chiamato i numeri di emergenza per ore.
  Dunque lo Shabbach e Aman, i servizi dell'esercito, non avevano informazioni? In realtà ne avevano a bizzeffe, ma le hanno snobbate per via della «conceptia», un misto di prosopopea, pacifismo, presunzione; «Hamas non vuole la guerra, con noi non ce la può fare e lo sa, ha perduto dal 2008 al 2021». Eppure si sapeva bene che Hamas allenava masse lungo il recinto, che le gallerie crescevano e i finanziamenti iraniani e del Qatar finivano in armi. Eppure tutti i passaggi delle notizie di quel giorno dall'uno all'altro comandante ripetono che sì, c'è traffico, ma Hamas non vuole la guerra né tantomeno un'invasione territoriale. I vertici sia dello Shabbach che dell'esercito, durante la notte prima dell'invasione avevano saputo che migliaia di terroristi si stavano radunando in battaglioni ordinati e pronti all'attacco, che d'un tratto avevano acceso le Sim israeliane. Il capo di Stato maggiore Herzi Halevi è stato avvertito alle 1,30 di notte, ma, come i suoi, ha deciso di rimandare al mattino.
  Persino l'ex ministro della difesa Yoav Gallant ha raccontato che sua figlia l'ha svegliato chiedendogli perché bombardavano Tel Aviv. Netanyahu non fu svegliato. Israele cerca consolazione nei magnifici, incredibili eroi che sono corsi da ogni parte del Paese a difendere la gente aggredita, e hanno salvato il Paese.

(il Giornale, 6 marzo 2025)

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Un memoriale nei pressi del Kibbutz Kfar Aza, in ricordo delle vittime del 7 ottobre

Il Memoriale a cura dell’architetto Tzvika Pasternak è stato costruito per onorare il ricordo delle 64 vittime assassinate nel kibbutz Kfar Aza, durante il pogrom del 7 ottobre 2023, quando Hamas da Gaza ha invaso Israele. L’emozionante progetto è stato ideato assieme ai famigliari delle vittime. 

di Michael Soncin

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Il Memoriale Ktav V’Shem, Kfar Aza

«L’idea era di creare un percorso al centro del memoriale che assomigliasse a un marciapiede del kibbutz, con la pavimentazione in cemento e le panchine, proprio come a Kfar Aza». Con queste parole l’architetto Tzvika Pasternak spiega il progetto che ha realizzato per onorare la memoria delle 64 persone assassinate da Hamas il 7 ottobre 2023 che facevano parte del kibbutz Kfar Aza. Nella lista sono presenti anche i nomi della squadra di emergenza che quel giorno stava prestando soccorso, uccisa nel modo più atroce dai terroristi. A riportarlo è il sito Ynet.
Il memoriale fa parte di un progetto emozionante creato in collaborazione con le famiglie delle vittime. Completato nei giorni scorsi, è stato costruito dall’Israel’s Drainage Authority, in collaborazione con lo Sha’ar HaNegev Regional Council e l’amministrazione del kibbutz. L’inaugurazione ufficiale nelle prossime settimane dovrebbe avvenire con la partecipazione del presidente d’Israele, Isaac Herzog che visiterà il luogo.

• I nomi incisi su lastre di ferro con la grafia originale
   
«L’aspetto più forte è il modo in cui sono stati creati i nomi. Insieme alle famiglie in lutto, abbiamo trovato le firme manoscritte delle vittime e abbiamo riprodotto i loro nomi esattamente come li avevano scritti. Ecco perché il sito si chiama Ktav V’Shem [Scrittura e Nome]», ha spiegato Pasternak.

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Il sentiero con la riproduzione originale della calligrafia dei nomi delle vittime

Il memoriale è già visitabile ed offre una vista del kibbutz e delle zone vicine che si trovano al confine di Gaza. Il percorso con i nomi delle vittime incise su lastre di metallo, oltre a simboleggiare l’analogo percorso che si trova all’interno del kibbutz, vuole anche ricordare la frattura e il momento di grande dolore che Kfar Aza ha vissuto quel terribile giorno.
«Ai margini del memoriale c’è una mappa metallica del kibbutz, incisa con i nomi dei luoghi chiave, come la residenza di Dor Tza’ir, uno dei punti focali del massacro, dove molti giovani sono stati assassinati o rapiti, tra cui Gali e Ziv Berman, che sono prigionieri di Hamas. La mappa alla fine del memoriale rappresenta la resilienza e la ricostruzione del kibbutz, nonostante tutto», ha aggiunto l’architetto.
La mappa di Kfar Aza (Ynet)

• Il BaMAH Trail
   
Il memoriale fa parte del sentiero BaMAH  (Bitachon, Mayim, Hitnachalut—Security, Water and Settlement), un percorso costituito da 14 siti che raccontano la storia dell’insediamento nel Negev settentrionale, dalle origini fino alla fondazione dello Stato d’Israele. Ogni sito è dotato di un cartello ed un filmato che raccontano brevemente le persone che hanno contribuito alla costruzione dei vari siti, persone che ora non sono più tra noi. Una storia che racconta la sfida di cosa voglia dire vivere ai confini di Gaza, incluso il tema della sicurezza idrica.

(Bet Magazine Mosaico, 6 marzo 2025)

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Trump incontra alla Casa Bianca gli ostaggi liberati

“Faremo di tutto per riportare a casa chi è ancora a Gaza”

di Luca Spizzichino

Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha accolto alla Casa Bianca otto degli ostaggi recentemente rilasciati da Hamas, rinnovando il suo impegno per garantire la liberazione di tutti coloro che sono ancora prigionieri a Gaza.
  Durante l’incontro nello Studio Ovale, Trump ha ascoltato le toccanti testimonianze degli ex ostaggi e ha lanciato un nuovo ultimatum al gruppo terroristico, avvertendo che ci saranno gravi conseguenze se non verranno rilasciati immediatamente tutti gli ostaggi rimasti.
  Gli otto sopravvissuti, schierata davanti alla Resolute Desk, hanno espresso la loro gratitudine per l’impegno del Presidente. “Lei è stato la nostra speranza mentre eravamo lì, e ora è la loro speranza”, ha dichiarato Naama Levy, riferendosi ai 59 ostaggi ancora detenuti a Gaza. Trump ha risposto con fermezza: “Faremo tutto il possibile per riportarli a casa. Li tireremo fuori. Guardate e vedrete”. Omer Shem Tov ha affermato che gli ostaggi vedono in Trump “l’uomo che può fare la differenza”, mentre Eli Sharabi gli ha consegnato un foglio con due immagini simboliche: una raffigurante sopravvissuti alla Shoah con la scritta “Mai più” e un’altra con la propria immagine emaciata al momento della liberazione, accompagnata dalle parole “Di nuovo”. Trump ha ribadito che gli Stati Uniti continueranno a lavorare instancabilmente per riportare a casa ogni ostaggio: “Abbiamo fatto molto, ma non è ancora abbastanza. Li riporteremo tutti indietro”. In segno di riconoscenza, gli ex ostaggi gli hanno donato una targa con la frase: “Chi salva una vita salva il mondo intero”.
  Poco dopo l’incontro, Trump ha pubblicato un messaggio su Truth Social rivolto direttamente a Hamas: “Rilasciate subito tutti gli ostaggi e restituite i corpi di coloro che avete assassinato, oppure per voi sarà la fine”. Ha poi ribadito la sua determinazione a sostenere Israele con ogni mezzo necessario per eliminare Hamas, qualora il gruppo non collaborasse.
  Nei mesi scorsi, Trump ha già rivolto diversi ultimatum a Hamas, contribuendo alla liberazione di alcuni ostaggi, seppur senza ottenere il rilascio completo. Con il sostegno della sua amministrazione, Israele ha portato avanti negoziati complessi, ma le trattative si sono arenate negli ultimi giorni.

(Shalom, 6 marzo 2025)

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Tutto quello che c'è da sapere sull'intervento di Israele in Siria

I nuovi governanti jihadisti della Siria hanno reagito con rabbia, minacciando di invadere lo Stato ebraico e di fare agli israeliani quello che Hamas ha fatto il 7 ottobre.

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Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sul Monte Hermon, vicino ai confini
libanese e siriano, con i commando dell'unità alpina dell'IDF, 22 febbraio 2024.        

Mentre tutti gli occhi erano puntati su Gaza, la scorsa settimana si è verificato un drammatico cambiamento nella strategia israeliana verso la Siria meridionale, che è passato in gran parte inosservato.
La decisione di permettere all'IDF di avanzare più in profondità nell'area a est del confine con le Alture del Golan non ha nulla a che fare con il desiderio di espansione territoriale o con la dottrina del “Grande Israele”, come alcuni credono, ma piuttosto con la sicurezza dei residenti delle Alture del Golan e della minoranza drusa in Siria.
Inoltre, il cambiamento strategico è legato alla possibile creazione di uno Stato druso indipendente nel sud della Siria, come vedremo.

L’IDF espande l'invasione della Siria meridionale
   Alla fine di febbraio, il governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dato istruzioni all'IDF di intensificare le operazioni nell'intera area che va dalla capitale siriana Damasco a Suweida, comunemente chiamata “Montagna drusa”.
Questo spostamento strategico ha due obiettivi principali:

  1. Israele vuole impedire al nuovo regime siriano del movimento islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) di insediarsi nell'area a est del confine israeliano sulle alture del Golan.
  2. Israele vuole proteggere la grande comunità drusa di Suweida e dell'area confinante con Israele e contribuire alla creazione di uno Stato indipendente.

È anche chiaro che l'IDF rimarrà nel sud della Siria per garantire la sicurezza degli abitanti delle Alture del Golan.
La presenza dell'IDF sui Monti Hermon, nell'estremo nord-est di Israele, è di particolare importanza perché offre eccellenti opportunità di raccolta di informazioni sugli sviluppi nel sud della Siria e nell'area di Damasco.

Presenza permanente
   La pubblicazione di un video di una cosiddetta cerimonia Mezuzah da parte degli alpini dell'IDF sulla cima del Monte Hermon, la scorsa settimana, ha dimostrato che Israele è seriamente intenzionato a mantenere una presenza permanente nel sud della Siria.
Gli alpini dell'IDF sono stati visti riunirsi in un edificio che fino a poco tempo fa era nelle mani dell'esercito siriano. Mentre i soldati si trovavano nella neve e parlavano delle temperature gelide, hanno recitato la tradizionale benedizione che viene recitata prima di mettere una mezuzah sullo stipite di una casa. In questo caso, si trattava dell'ingresso di un edificio in cui l'esercito siriano aveva una base.
Era chiaro che questo atto andava oltre il valore simbolico, poiché la legge ebraica (Halacha) stabilisce che un ebreo deve apporre una mezuzah sullo stipite della sua casa se vi abita in modo permanente.
Ponendo la mezuzah sullo stipite dell'edificio abbandonato dell'esercito siriano, l'IDF ha segnalato che il versante siriano del Monte Hermon è ora considerato territorio israeliano. Il governo israeliano aveva precedentemente dichiarato che il versante siriano del monte non sarebbe stato restituito alla Siria.
Questa notevole azione degli alpini dell'IDF ha coinciso con l'annuncio dell'inizio di una nuova fase delle operazioni dell'IDF sul fronte settentrionale.

Espansione delle operazioni dell'IDF
   Netanyahu e il suo ministro della Difesa Israel Katz hanno rilasciato una dichiarazione in cui sottolineavano che Israele non avrebbe permesso che la Siria meridionale diventasse un secondo Libano meridionale.
Netanyahu e Katz hanno anche chiarito che la nuova strategia servirà a proteggere i drusi in Siria e ad aiutarli a difendersi dall'HTS.
“Qualsiasi tentativo del regime siriano di insediarsi nella zona di sicurezza creata dall'IDF nel sud della Siria sarà accolto con il fuoco”, ha dichiarato Katz.
Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot ha riportato poco dopo che l'IDF ha iniziato le operazioni nella provincia di Daraa, che confina con la Giordania, e nella parte occidentale della provincia di Quneitra, che confina direttamente con Israele.
Contemporaneamente, sono stati osservati aerei da guerra israeliani bombardare obiettivi nel sud della Siria. Per la prima volta dopo tanto tempo, il cielo è stato riempito dal rombo degli aerei da guerra israeliani e dal suono degli elicotteri d'attacco Apache.
L'HTS ha reagito con rabbia alle azioni e agli annunci israeliani. Sui social media, HTS ha minacciato azioni simili a quelle di Hamas, tra cui l'invasione di Israele, la decapitazione di uomini e lo stupro di donne israeliane.

I drusi reagiscono con gioia all'intervento di Israele
   I drusi stessi hanno reagito con forza al sostegno di Israele e hanno agito immediatamente. Diverse milizie druse della provincia di Suweida si sono unite al nuovo “consiglio militare” guidato da Tariq al-Shufi, che ha ringraziato Netanyahu per il suo sostegno ai drusi, storicamente perseguitati dai musulmani.
Poco dopo l'intervento di al-Shufi, a Suweida si è svolta una parata militare ed è iniziata la mobilitazione dei combattenti.
I drusi in Siria hanno a lungo sostenuto il regime di Assad e un tempo erano fortemente anti-israeliani.
La situazione è lentamente cambiata dopo che Bashar al-Assad ha deluso gravemente i drusi e ha costretto i giovani drusi a servire nell'esercito siriano.
Ora l'HTS rappresenta una minaccia diretta per i drusi, poiché gli islamisti li considerano collaboratori del rovesciato regime di Assad e ora anche di Israele.
In seguito alle dichiarazioni di Netanyahu e Katz, si è svolto a Damasco un incontro tra una delegazione drusa e il nuovo presidente siriano Abu Muhammad al-Julani (Ahmad al-Shara).
L'obiettivo dell'incontro era chiaro: al-Julani non vuole che la Siria si disintegri ulteriormente ed è naturalmente contrario a un cantone druso indipendente vicino a Israele e a sud di Damasco.
Il nuovo presidente siriano, ex comandante dell'IS, sta cercando in vari modi di creare una Siria unita, ma finora ha avuto poco successo con i suoi sforzi per raggiungere l'unità nazionale.

Possibile corso del conflitto con la Turchia
Questo è legato anche alla situazione militare sul terreno. La Turchia e una coalizione di milizie sunnite sono impegnate in un conflitto prolungato con le Forze Democratiche Siriane (SDF) sostenute dagli Stati Uniti.
Nella Siria orientale è in corso una guerra di logoramento, in cui i turchi utilizzano la loro forza aerea contro l'SDF, ma non hanno ancora lanciato una grande offensiva.
Israele sembra ora voler sfruttare le divisioni interne alla Siria per garantire i propri interessi di sicurezza.
Di conseguenza, Israele sta sostenendo attivamente la grande minoranza drusa in Siria e ha dato istruzioni all'IDF di intervenire militarmente per proteggere i drusi dagli attacchi dell'HTS nella città di Jaramana, a sud di Damasco.
Tuttavia, l'intervento israeliano in Siria comporta dei rischi, poiché potrebbe mettere l'IDF in rotta di collisione con l'esercito turco.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha nuovamente inveito contro Israele lunedì e ha avvertito di uno “smembramento della Siria”.
La Turchia è il principale sponsor dell'HTS e persegue ambizioni imperialiste in Medio Oriente con la sua politica sulla Siria.

(Israel Heute, 5 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Gaza come Dubai? La proposta provocatoria di Trump scoperchia decenni di bugie sulla volontà dei palestinesi di avere uno Stato

di Paolo Salom

[voci dal lontano occidente]
Mai visto l’Occidente così fuori di sé. È bastato che il presidente Trump si mettesse all’opera sulla soluzione del conflitto a Gaza per scatenare una parata di reazioni indignate. Proviamo dunque a fare un po’ di ordine. Quali sono i problemi ora nella Striscia?
Primo, è in gran parte distrutta – non completamente, si badi bene – e comunque disseminata di ordigni inesplosi, di case minate da Hamas, di tunnel e altri depositi di armi e strumenti di guerra dei terroristi. Secondo, la popolazione civile per i motivi suddetti non ha un posto cui ritornare e, possibilmente, riflettere sulla decisione di attaccare Israele presa dalla leadership. Terzo, l’economia locale è ormai inesistente, senza speranza di riprendersi a breve.
La soluzione più pragmatica è quella di offrire alla popolazione un luogo dove rifarsi un’esistenza degna di questo nome, ripulire e ricostruire la devastazione e poi, per chi lo vuole, immaginare un ritorno. È evidente che questa opzione non può che essere subordinata all’accettazione di Israele, al rispetto del diritto alla vita di tutti gli israeliani – non importa di che religione – e all’impegno a non collaborare mai più alla preparazione di un conflitto atroce come quello che, il 7 ottobre 2023, è stato scatenato da Hamas. Questo è quanto affermato da Donald Trump. Dov’è lo scandalo?
Eppure tutti si sono stracciati le vesti nel lontano Occidente. C’è chi ha parlato di “pulizia etnica”, di “annessione coatta” della Palestina, alcune voci hanno messo in chiaro che “quella è la nostra casa e non la lasceremo mai”. Qui dovremmo chiedere lumi noi per primi: ma come, si offre una destinazione sicura a chi ha perso tutto, in attesa di un rientro, e non va bene? Come mai non è stato sollevato lo stesso scandalo per i dieci milioni di siriani fuggiti dalla guerra civile? Oltre un milione sono stati accolti in Germania: dov’è il dilemma?
Inoltre, anche prima della guerra voluta da Hamas si diceva che “Gaza è una prigione a cielo aperto”. Ora che si aprono le porte non è più così? O i “prigionieri” devono rimanere in cella, per di più senza nemmeno più pareti e tetto? Infine, gli arabi palestinesi dicono che quella è la loro “casa” e dunque non vogliono abbandonarla: ma non erano considerati tutti profughi tanto da avere ancora bisogno di un’agenzia apposita (l’Unrwa) per le necessità primarie in attesa di una sistemazione?
È evidente che tutte queste posizioni non sono – nella loro contraddittorietà – che un paravento, da decenni, per occultare al pubblico del lontano Occidente la verità: a loro interessa soltanto una cosa, distruggere lo Stato degli ebrei. Gaza, Territori (Giudea e Samaria) non sono nel loro obiettivo di indipendenza, non lo sono mai stati. Lo dimostra il fatto che, quando erano in mani arabe, ovvero dal 1948 al 1967, nessuno si è mai preoccupato di mettere le fondamenta per uno Stato autonomo.
Insomma, fino a quando potremo andare avanti con questa ipocrisia? Con questa formula salva faccia di “due Stati per due popoli”? Trump, con una proposta semplice e logica, ha scoperchiato decenni di menzogne e falsità e ha costretto tutti con le spalle al muro. Senza nemmeno il bisogno di minacciare, come il suo predecessore Biden (ma solo con Israele) aveva l’abitudine di fare, pur di piegare la realtà alle presunte necessità stabilite dalla Comunità internazionale. Ora i palestinesi avranno l’opportunità di scegliere: vogliono continuare il loro percorso di odio e distruzione, di volontà omicida contro Israele? Perché se è questo che vogliono, allora il loro destino sarà sempre quello di vivere nella miseria, sballottati da un campo all’altro, senza diritti e senza dignità.
Oppure possono trovare il coraggio di accettare la realtà dei fatti: ovvero di vivere in accordo accanto allo Stato degli ebrei, che, peraltro, sarebbe un ottimo volano per la loro stessa economia. Siamo a un bivio: pace o guerra; costruire una nuova Dubai in riva al Mediterraneo oppure nuovi tunnel che saranno regolarmente (e giustamente) distrutti. Quanto alle anime belle del lontano Occidente, anche loro dovranno accettare una semplice verità: gli ebrei non si fanno più massacrare, né sono disposti a rinunciare al loro diritto naturale a essere un popolo sovrano, nella propria terra ancestrale.
Questo è il significato di una semplice espressione: Am Israel Chai.
P.S. C’è anche la possibilità che Trump abbia fatto quelle dichiarazioni roboanti avendo altro in mente: insomma, da astuto uomo d’affari, alza un polverone per poi ottenere un obiettivo differente. Restiamo in attesa che la nebbia si diradi.

(Bet Magazine Mosaico, 5 marzo 2025)

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USA – Never Is Now 2025: il summit globale contro l’odio e l’antisemitismo

«Il tempo dell’autocompiacimento è finito. Non possiamo dare per scontato che la vita degli ebrei americani continuerà ad essere comoda, a meno che non facciamo qualcosa ora». Con queste parole, Jonathan Greenblatt, CEO dell’Anti-Defamation League (ADL), ha inaugurato Never Is Now 2025, il summit mondiale sull’antisemitismo e sull’odio, tenutosi il 3 e 4 marzo a New York. Il suo discorso è stato un forte richiamo all’azione: «La distorsione del linguaggio, la codardia morale e l’ignorare l’antisemitismo devono finire ora».

Gallant e Gadot, orgogliosi di essere israeliani
   Al centro di questa edizione del vertice dell’ADL c’era Israele, con molti richiami alla liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. «Chiediamo l’immediato rilascio di tutti i rapiti: i sopravvissuti perché possano guarire, gli assassinati perché ricevano una degna sepoltura», hanno dichiarato dal palco Orna e Ronen Neutra, genitori di Omer, la cui salma è trattenuta da Hamas. Della guerra contro i terroristi palestinesi ha parlato Yoav Gallant, ex ministro della Difesa israeliano. Contro di lui e contro il premier Benjamin Netanyahu lo scorso anno la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto internazionale. Mandato criticato dalla politica Usa e in particolare dai repubblicani. «Sono orgoglioso di essere criticato dalla Cpi e da altri per aver difeso lo stato di Israele, il popolo ebraico, i nostri figli e le nostre donne. Sono orgoglioso», ha commentato Gallant, intervistato dalla giornalista Bianna Golodryga. «Mi dispiace dire che questo mandato è un’altra forma di antisemitismo istituzionalizzato. Ecco cos’è», ha aggiunto l’ex ministro della Difesa. Parlando delle violente manifestazioni propalestinesi nei campus americani, contro cui l’amministrazione Trump ha annunciato una stretta, Gallant ha affermato: «Se i vostri studenti sostengono Hamas, che uccide bambini e donne israeliane innocenti, e boicottano Israele per averli protetti, avete un problema con la vostra educazione. Il problema non è quello che stanno facendo gli ebrei. Il 1943 non è il 2023; oggi possiamo proteggerci».
  Altra voce da Israele al summit era quella di Gal Gadot, a cui l’ADL ha consegnato un proprio riconoscimento. «Mi chiamo Gal e sono ebrea», ha esordito l’attrice, sottolineando come, nel clima attuale, esprimere la propria identità sia diventato un atto di coraggio. «L’odio contro gli ebrei è esploso ovunque. Ma affronteremo l’antisemitismo e non permetteremo mai che ci definisca, perché il nostro amore è più forte del loro odio».
  L’ADL ha chiamato anche un altro volto noto dello spettacolo, l’attore David Schwimmer, tra i protagonisti della serie Friends. Schwimmer ha criticato il silenzio di molte celebrità di Hollywood di fronte all’ondata di antisemitismo: «Vorrei che vi faceste sentire. La vostra voce è significativa per i vostri fan e per le persone che hanno bisogno di solidarietà in questo momento». Il suo appello ha ricevuto un caloroso applauso dalla platea.

Una Nostra Aetate per l’Islam
   Al summit hanno partecipato numerosi esperti, tra cui Loay al-Sharif, influencer saudita noto per il suo impegno nel promuovere il dialogo tra arabi ed ebrei. Spesso attaccato dai media arabi per la sua posizione, al-Sharif ha paragonato sé stesso ai «Maccabei arabi», una minoranza che combatte per il cambiamento. Ha denunciato il ruolo di regimi che usano le democrazie occidentali per diffondere odio e ha lanciato un messaggio ai paesi democratici: «Ascoltate anche le minoranze nei paesi arabi, non solo le voci dei regimi». In vista della festività di Purim, ha tracciato un parallelismo tra Hamas e Haman, il nemico biblico degli ebrei, sottolineando la necessità di una nuova Nostra Aetate per l’Islam, un documento che possa sancire una riconciliazione tra musulmani ed ebrei.
  Durante la conferenza dell’Adl, i rappresentanti del mondo ebraico mondiale internazionale si sono confrontati su tematiche di stretta attualità, tra cui la protezione degli studenti ebrei o l’implementazione di nuove azioni legali contro gli antisemiti.

(moked, 5 marzo 2025)

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La realtà che preme

di Niram Ferretti

Cosa ha portato di positivo ad Israele il cessate il fuoco entrato in vigore il 19 gennaio scorso per volontà di Donald Trump? Sicuramente la liberazione di ulteriori ostaggi. Si tratta dell’unico beneficio, seppure certamente rilevante, ottenuto dallo Stato ebraico, ma a che prezzo?
La liberazione di centinaia di terroristi che andranno ad incrementare le file del jihad, è il prezzo  scontato, quello consueto, che portò in passato per riavere vivo il soldato Gilad Shalit, alla liberazione, tra gli altri, di Yayha Sinwar, l’artefice del 7 ottobre. L’altro prezzo è la cessazione della guerra corredata dall’evidenza oscena che Hamas, pur fortemente depotenziato non è stato sconfitto, con aggiunta degli osceni spettacoli inscenati da quest’ultimo per il rilascio degli ostaggi.
Prima dell’accordo con Hamas, per lunghi mesi, Benjamin Netanyahu era riuscito, da slalomista quale è, ad evitare di cedere alla pressione costante dell’Amministrazione Biden, fino a quando a metà gennaio non è arrivato in Israele l’immobiliarista Steven Witkoff, investito da Trump del ruolo di emissario per il Medioriente, e, in un batter d’occhio, quello che Biden non aveva ottenuto per più di un anno si è materializzato.
Il contenuto del colloquio tra Witcoff e Netanyahu è rimasto riservato, ma il neo-emissario, nella sua prima missione ufficiale all’estero, deve essere stato molto persuasivo.
Quali possano essere le conseguenze del non acconsentire alla volontà di Trump, di mettersi per traverso, lo ha potuto constatare Volodymyr Zelensky nelle ultime ore, con il blocco delle forniture militari all’Ucraina e l’accusa di essere lui, non Putin, il principale ostacolo alla pace.
Netanyahu, assai più flessibile, si è piegato subito sapendo quello che rischiava, molto peggio di quanto già messo in atto dall’Amministrazione Biden. In cambio della sua accondiscendenza, o come direbbe qualcuno di assai scafato, della consapevolezza che la realpolitik richiede sempre sacrifici, ha ottenuto di essere il primo premier straniero invitato alla Casa Bianca dopo l’insediamento di Trump, dove Trump, in conferenza stampa, gli ha regalato il sogno di una Gaza trasformata nella versione mediorientale di Palm Beach.
La realtà però preme e al risveglio i sogni si dissolvono. Gaza resort resta lontana, mentre, nel frattempo, a Gaza resta Hamas e non si vede ancora, nemmeno lontanamente, come possa essere rimosso.
La domanda “cosa succederà a Gaza prossimamente?” ha una risposta. O, meglio, molteplici possibili risposte.
Il Times of Israel riporta che i funzionari governativi hanno offerto una certa chiarezza tanto attesa sullo stato del cessate il fuoco con Hamas. Questa settimana, Hamas dovrebbe restituire i corpi di quattro ostaggi. Ciò, in teoria, porrebbe fine alla prima fase dell’accordo.
Ma Hamas potrebbe estendere questa fase molto facilmente, continuando a organizzare il ritorno degli ostaggi.
Qual è la differenza tra estendere la fase uno e passare alla fase due? Per passare alla seconda fase, Hamas dovrebbe disarmare, mandare i suoi leader in esilio e rinunciare all’amministrazione civile del governo a Gaza. Una volta concordato, il resto degli ostaggi verrà rilasciato e Israele porrà fine alla sua presenza militare a Gaza. La guerra sarà finita.
Questo è un buon promemoria del fatto che questo accordo sul tavolo è sempre stato sul tavolo. Gaza ha invaso Israele per innescare la guerra, prendendo gli ostaggi; Israele è andato a Gaza per catturare i responsabili, vale a dire, la leadership del partito di governo e delle forze armate di Gaza, Hamas, e per riportare indietro i suoi ostaggi. Che Israele fosse disposto a lasciare che i leader di Hamas lasciassero vivi l’enclave è stata una offerta generosa. Non c’è motivo per cui tutta la pressione dei leader mondiali (e, ehm, dei cittadini che protestavano) non avrebbe dovuto premere per questo particolare risultato fin dal primo giorno.
Le guerre non finiscono quando entrambe le parti riescono a tirare qualche buon colpo; quella è una partita di hockey. Le guerre non finiscono quando le loro condizioni fondamentali sottostanti rimangono intatte, anche se i combattimenti cessano temporaneamente; si tratta di un intervallo. È piuttosto esasperante ricordare che “restituisci gli ostaggi che hai preso e vattene da Gaza” era l’offerta alla leadership di Hamas (non a tutti i membri di Hamas, per non parlare di tutti a Gaza; solo ai massimi dirigenti) e tuttavia la guerra continua perché Hamas e i suoi sostenitori in tutto il mondo credono che “restituisci gli ostaggi che hai catturato” sia incompatibile con un corso di decolonizzazione per principianti per il quale qualcuno ha ingannato i suoi genitori facendogli pagare migliaia di dollari per frequentarlo.
E se i leader di Hamas non volessero vivere in un attico in Qatar? Possono continuare a rilasciare ostaggi sotto la rubrica della fase uno.
Ecco due offerte fin troppo generose da parte di Israele ad Hamas. Cosa c’è dietro la porta numero tre? Ah, quella sarebbe la porta dell’inferno: “Hamas può scegliere la fine del cessate il fuoco, il che significherebbe un ritorno alla guerra totale”. Come ha detto un funzionario israeliano al Times of Israel, “Sarebbe diverso [rispetto a prima]. Un nuovo ministro della Difesa, un nuovo capo di stato maggiore, tutte le armi di cui abbiamo bisogno e la piena legittimità, al cento per cento, dell’Amministrazione Trump”.
La scadenza è l’8 marzo. Se non ci saranno ulteriori rilasci di ostaggi entro una settimana da sabato, il cessate il fuoco terminerà.
Questa chiarezza è, come suggerisce il funzionario, quasi interamente una funzione del cambio di amministrazione a Washington. Donald Trump è entrato in carica desiderando che questa guerra finisse. Entrambe le parti hanno i mezzi per porre fine a questa guerra: Hamas arrendendosi e accettando l’esilio per i suoi leader, Israele costringendo Hamas a lasciare il potere e la sua leadership a lasciare Gaza. Per i prossimi 11 giorni guarderemo Hamas riflettere se sarà lui o Israele a porre fine alla guerra.
Ma uno di loro lo farà. E dopo la serie di festival demoniaci della morte eseguiti da Hamas ogni settimana, e dopo le rivelazioni di ciò che i palestinesi hanno fatto a quegli ostaggi e alla famiglia Bibas, e dopo che è diventato chiaro che non c’era stata carestia e certamente nessun genocidio e che Hamas aveva inventato tutto, Israele potrebbe benissimo avere il coraggio di porre fine alla guerra se Hamas decidesse di non farlo.

(L'informale, 4 marzo 2025)

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“Il Talmud per tutti”: un podcast per scoprire un sapere millenario

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Il Talmud è un testo antico, ma la sua conoscenza non è mai stata così attuale. Grazie al podcast “Il Talmud per tutti” di Progetto Talmud e RaiPlay Sound ora quest’antico patrimonio del sapere diviene finalmente accessibile al grande pubblico. Un racconto moderno e coinvolgente per far scoprire o riscoprire quanto questo testo tramandatosi nei secoli nasconde all’interno, per porre domande e per trovare risposte che anche dopo oltre mille anni ancora ci interrogano.
  Il podcast di dieci episodi racconta il Talmud attraverso una chiave narrativa, che ne mette in luce le storie più interessanti, le vicende correlate al testo ed il modo in cui esso ha influenzato la società. Il Talmud non è un testo di legge, né un testo religioso: è una palestra del pensare in cui il dibattito e la discussione sono al centro del processo di apprendimento. Dire che si studia Talmud significa imparare a porsi le domande giuste, imparare a riconoscersi nei dilemmi della società e guardare il mondo con la lente critica del confronto.
  Infatti, la sua influenza ha ampio raggio, attraversa il mondo ebraico e si perde nei confini dell’universale e del cosmico. La giustizia e il senso morale, la convivenza e la coesistenza, la definizione del significato stesso della vita sono solo alcune delle tematiche capaci di connettere il Talmud a qualsiasi questione della vita sulla terra. Ecco quindi perché un testo di millequattrocento anni non ci offre solamente il senso dei discorsi sull’emozione della comunità, ma ci lascia con un’intera filosofia applicabile come s’intende il senso di vita. Il podcast è disponibile in streaming su RaiPlay Sound e Spotify.

(Shalom, 5 marzo 2025)

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Con l'aiuto di Israele nascerà un nuovo Stato druso?

Con Israele dalla loro parte, i drusi del sud della Siria e forse anche del Libano sperano in un futuro migliore.

di Ryan Jones

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Bambini drusi nella città di Majdal Shams, sulle alture del Golan settentrionale

Israele ha recentemente giurato di difendere la popolazione drusa nel sud della Siria di fronte agli attacchi dei nuovi governanti jihadisti sunniti di Damasco. Secondo nuovi rapporti, i drusi stanno accettando il sostegno israeliano e stanno cercando l'autonomia, se non l'indipendenza.
Nei video virali diffusi sui social media, si vedono i drusi del governatorato di Suwayda, nel sud della Siria, innalzare la bandiera israeliana.
Il quotidiano libanese Al-Akhbar riferisce che il leader spirituale dei drusi in Israele, dove vivono 120.000 drusi (altri 23.000 nelle Alture del Golan), ha inviato denaro alle comunità druse in Siria e in Libano, incoraggiandole a passare sotto la protezione israeliana.
I drusi come popolo sono storicamente fedeli allo Stato in cui vivono, e questo vale anche per Israele. I drusi in Israele si sono uniti da tempo agli ebrei come “fratelli di sangue” e sono l'unica minoranza del Paese che insiste nel prestare il servizio militare a fianco dei propri compatrioti ebrei.
In Siria e in Libano, invece, i drusi, rimasti fedeli per tutti questi decenni, sono sempre più sotto attacco da parte dei jihadisti di Hezbollah e di Hay'at Tahrir al-Sham (HTS), il movimento sunnita simile all'ISIS che ha recentemente preso il potere a Damasco.
I drusi delle alture israeliane del Golan sono un caso particolare. Le alture del Golan sono passate sotto il controllo israeliano nel 1967, molto tempo dopo che i drusi della Galilea avevano giurato fedeltà allo Stato ebraico. La maggior parte dei drusi delle Alture del Golan non ha mai preso la cittadinanza e non si offre volontaria per il servizio nelle Forze di Difesa israeliane per paura di essere bollata come “traditrice” nel caso in cui le Alture del Golan fossero un giorno restituite alla Siria nell'ambito di un accordo di pace. Ciononostante, sono amichevoli nei confronti di Israele, anche se la loro principale preoccupazione è per i loro fratelli che rimangono sul lato siriano del confine.
Israele considera i drusi del Golan e della Siria meridionale come potenziali alleati e persino come “fratelli di sangue”, come i drusi della Galilea. La fede drusa onora il suocero di Mosè, Jethro, creando un legame profondo e antico tra i drusi e i figli di Israele.
La scorsa settimana, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Israel Katz hanno avvertito il nuovo regime siriano di non dispiegare le sue forze a sud di Damasco e in particolare di smettere di minacciare il sobborgo druso di Jaramana.
“Non permetteremo al regime terroristico dell'Islam radicale in Siria di danneggiare i drusi. Abbiamo dato istruzioni alle Forze di Difesa israeliane di preparare e consegnare un avvertimento chiaro e inequivocabile: Se il regime fa del male ai drusi, noi gli faremo del male”, hanno dichiarato i politici israeliani in un comunicato congiunto.
“Siamo impegnati con i nostri fratelli drusi in Israele a fare tutto il possibile per evitare danni ai loro fratelli drusi in Siria e prenderemo tutte le misure necessarie per garantire la loro sicurezza”, ha continuato la dichiarazione.
Secondo quanto riportato, le truppe druse provenienti dal sud hanno iniziato a marciare verso nord in direzione di Jaramana sotto la protezione dell'aviazione israeliana. Insieme al rapporto libanese sulle attività del leader druso israeliano Mowafaq Tarif, questo ha scatenato la speculazione che i drusi potrebbero cercare una zona autonoma, se non l'indipendenza, nel governatorato di Suwayda, nel sud della Siria.
La regione di Suwayda ha una popolazione di quasi mezzo milione di abitanti, di cui oltre l'85% sono drusi. Un altro 10% è costituito da cristiani, una minoranza che è anch'essa sotto attacco in questa nuova Siria. Sotto la guida dei drusi e la protezione militare israeliana, Suwayda sarebbe senza dubbio l'area più sicura per i cristiani siriani.
Sui social network e sui media, i drusi affermano apertamente di non voler vivere sotto uno Stato islamico in Siria.
Con Israele al loro fianco, sperano in un futuro migliore.

(Israel Heute, 4 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Siria: «esercito israeliano opera molto in profondità»

Fonti siriane riferiscono che l’esercito israeliano (IDF) sta operando nei pressi della cima di Tel al-Mal, nel governatorato di Daraa, dove un tempo sorgeva una postazione militare appartenente all’ex regime siriano.
La collina si trova a circa 13 chilometri (oltre 8 miglia) dal confine con Israele, ben al di fuori della zona cuscinetto tra i due paesi, conquistata da Israele dopo la caduta del regime di Assad.
Secondo quanto riportato dal canale locale Daraa 24, nella zona si possono udire rumori di ruspe e voli di elicotteri e droni.
Secondo quanto riferito, veicoli militari israeliani sono stati avvistati anche nella vicina città di Masharah e su una strada che collega la città al villaggio di al-Tyha.
Non ci sono commenti immediati da parte dell’IDF.

(Rights Reporter, 4 marzo 2025)

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Italia-Germania, le strategie contro l’antisemitismo a confronto

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Felix Klein, commissario governativo per l’antisemitismo in Germania

Tutta l’Europa fa i conti con un’ondata di antisemitismo senza precedenti dal Dopoguerra a oggi. Di quali strumenti dotarsi e quali strategie i singoli stati devono applicare è l’oggetto del confronto a Roma tra Felix Klein, commissario governativo per l’antisemitismo in Germania, e il generale Pasquale Angelosanto, coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo in Italia. Il colloquio tra i due si svolge presso la residenza dell’ambasciatore tedesco in Italia, Hans-Dieter Lucas, con la partecipazione di esperti e rappresentanti delle comunità ebraiche italiane.
  In una recente intervista al quotidiano Neue Osnabrücker Zeitung, Klein ha ribadito la necessità di rafforzare le misure di prevenzione e contrasto all’antisemitismo, con un’attenzione particolare agli ambienti accademici e alla propaganda online. In particolare ha espresso preoccupazione per l’atteggiamento di «cieca indulgenza» nei confronti di Hamas in alcuni settori dell’opinione pubblica e dell’accademia. «Il livello di radicalità che osserviamo in questi ambienti è allarmante e lo stato non può rimanere inerte», ha affermato Klein. Serve, ha aggiunto, un maggiore coinvolgimento dei servizi di sicurezza, compresa l’intelligence, per prevenire derive estremiste. Anche il neoeletto Bundestag dovrebbe, secondo il commissario tedesco, intervenire sul codice penale, inasprendo le pene per chi promuove il terrorismo e l’odio. Tra i bersagli anche chi con l’espressione «From the river to the sea» (Dal fiume al mare) invoca la cancellazione d’Israele.
  Altro punto centrale per Klein è la sensibilizzazione dei nuovi immigrati sulla cultura della memoria in Europa. «Chiunque entri a far parte della nostra società deve comprendere la responsabilità storica della Germania nei confronti di Israele e del popolo ebraico», ha affermato Klein nell’intervista, ricordando che il rispetto della memoria storica è un valore fondamentale della democrazia europea.
  Angelosanto illustrerà la nuova strategia adottata dal governo italiano per contrastare l’odio antisemita. «L’Italia sta intensificando il monitoraggio e l’azione preventiva contro tutte le forme di antisemitismo, con particolare attenzione alla radicalizzazione online e ai discorsi d’odio», ha spiegato il generale presentando il piano.
  Per l’ambasciatore Lucas l’impegno nel contrastare l’odio antiebraico non rappresenta solo la tutela di una minoranza, «ma della democrazia e dello stato di diritto». «L’affermazione ‘Mai più’», ha proseguito il diplomatico, «deve trasformarsi in un impegno concreto. Perché mai più è adesso».

(moked, 4 marzo 2025)

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Archeologia e fotografia all’aeroporto Ben Gurion

Una mostra racconta la storia d’Israele

di Jacqueline Sermoneta

Uno sguardo sulla storia d’Israele e del suo popolo. I visitatori all’aeroporto Ben Gurion ora potranno ammirare, grazie a reperti archeologici e fotografie, la mostra “Eternity of Israel”, allestita al Terminal 3 fino a gennaio 2026. 
L’esposizione accompagna i passeggeri in un viaggio attraverso la storia ebraica: una storia fatta di sfide, sconvolgimenti e rinascita, che dimostra la straordinaria capacità di rinnovamento del popolo d’Israele.
Esposti oggetti rari come attrezzi agricoli di epoca asmonea, scoperti in una fattoria vicino al monte Arbel, armi antiche, un tesoro di monete asmonee rinvenuto nel deserto, una testimonianza materiale del nome “Acab”, re d’Israele, e una pietra originale dal peso di cinque tonnellate del Muro Occidentale. In mostra anche fotografie di siti di scavo, che catturano momenti incredibili di scoperta, insieme ai codici QR che rimandano a video girati durante i lavori. 
L’iniziativa è stata promossa congiuntamente dall’Autorità israeliana per le Antichità (IAA), dall’Autorità aeroportuale e dal Ministero del Patrimonio ed è supportata dall’Helmsley Charitable Trust.
“La mostra ‘Eternity of Israel’ cerca di trasmettere la potente vitalità del popolo ebraico e il modo in cui è legato alla propria terra. – ha affermato la curatrice Galit Litani dell’IAA – Volevamo creare un’esperienza che unisse archeologia, storia e cultura, offrendo ai viaggiatori uno sguardo sulla storia del nostro popolo, così come si riflette in queste scoperte”,
“Non è un caso che questa mostra sia stata allestita proprio in questo periodo, mentre affrontiamo sfide nazionali e sfide di sicurezza. – ha detto l’ex ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu – La mostra ricorda a tutti le nostre profonde radici e l’impegno incrollabile del popolo ebraico nei confronti del proprio Paese e del proprio patrimonio. L’esposizione sulla storia del popolo ebraico, sullo sfondo di eventi recenti, rafforza lo spirito di tutti i popoli e trasmette un messaggio di forza e speranza alle generazioni future”
“In questi tempi di fake news e crescente antisemitismo, centinaia di migliaia di viaggiatori, israeliani e stranieri, avranno la possibilità di conoscere la storia unica del popolo ebraico. – ha affermato Eli Escusido, direttore generale dell’IAA – Attraverso la mostra puntiamo a fornire un’esperienza coinvolgente che evidenzi il legame profondo ed eterno tra il popolo di Israele e questa terra”.

(Shalom, 3 marzo 2025)

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Ci siamo tutti sbagliati, i messianisti avevano ragione

Quando la realtà mi ha mostrato che la mia moderata lucidità era un’illusione, ho imparato che proprio i messianisti che parlavano di futuri orrori avevano ragione molto più di me, e che dovevo superare questa cattiva inclinazione – l’inclinazione all’illusione della normalità.
di Rav Haim Navon

Il termine dispregiativo “messianisti” è tornato prepotentemente nel discorso politico, ed è tempo di ricordare: negli ultimi decenni, si è ripetutamente dimostrato che i messianici avevano ragione. Ben Gurion disse che per essere realisti in Terra d’Israele bisogna credere nei miracoli. I fatti dimostrano che per essere realisti nello Stato d’Israele bisogna anche essere messianisti.
La domanda è a cosa ci si riferisce con questo termine. Se si intendono persone che immaginano uno scenario realistico, certo e specifico dell’imminente presenza del Messia, e addirittura cercano di accelerarne l’arrivo – ad esempio, danneggiando la moschea sul Monte del Tempio – queste sono effettivamente persone pericolose; ma è da tempo che non ne incontro. Persino gli attivisti odierni del Monte del Tempio parlano un linguaggio completamente diverso. Quando cerco di analizzare a chi si attribuisce oggi il titolo di “messianista”, scopro che si intende qualcos’altro: chiunque osi discostarsi dalla descrizione liberale del conflitto israelo-arabo come semplice scontro di interessi, risolvibile con un ragionevole compromesso.
I disaccordi ideologici e politici a volte derivano da questioni profonde riguardanti la natura umana. I sostenitori del compromesso si basano su una certa immagine del genere umano: secondo la loro visione, gli esseri umani sono creature più o meno razionali, che generalmente cercano di massimizzare i propri interessi. Secondo questa concezione, i conflitti tra persone derivano da uno scontro di interessi. Quindi, quando c’è buona volontà, e dopo aver purificato l’atmosfera, si può trovare un compromesso ragionevole, in cui ognuno ottiene parte di ciò che voleva. E se sei una brava persona, sarai disposto a essere quello che cede di più.
Chi viene chiamato “messianista” è colui che nega questa descrizione della natura umana. Il “messianista” vede nel mondo non solo persone mediocri e ragionevoli, ma anche angeli e mostri. Questa antica saggezza si può apprendere già dalla Genesi, con il suo terribile finale; ma agli occhi di molti questa è probabilmente una narrazione messianista, che non vale la pena di prendere sul serio.
I messianisti furono derisi e scherniti durante gli Accordi di Oslo, quando dissero che l’accordo sarebbe fallito, perché i leader arabi non volevano un compromesso, ma volevano uccidere gli ebrei. E avevano ragione. Ricordo oggi i miei peccati: anch’io ho fallito nelle mie valutazioni. Il primo articolo che ho pubblicato in vita mia si intitolava “L’insulto del grigio”, e fu pubblicato più di trent’anni fa nella rivista “Nekuda” (che non esiste più). Sostenevo che l’Accordo di Oslo fosse certamente un cattivo accordo, ma che non bisognava esagerare nella descrizione degli scenari da incubo che avrebbe generato, come “razzi Katyusha ad Ashkelon”. Si poteva opporsi a Oslo anche attraverso un’analisi sobria e moderata della realtà. Quando la realtà mi ha mostrato che la mia sobria moderazione era un’illusione, ho imparato che proprio i messianisti che parlavano di futuri orrori avevano ragione molto più di me, e che dovevo superare questa cattiva inclinazione – l’inclinazione all’illusione della normalità.
Non tutti si sono ravveduti. I messianisti furono perseguitati durante il Disimpegno da Gaza, messi a tacere con violenza dalla polizia, gettati in prigione dal sistema giudiziario e insultati negli studi televisivi – tutto questo perché osavano affermare che Gaza sarebbe diventata un inferno in terra dopo il ritiro dell’IDF. E avevano ragione. I messianisti si opposero anche all’accordo Shalit, non solo perché era un cattivo affare, ma perché lo vedevano come il preludio a un’apocalisse di vampiri. E di nuovo, avevano ragione.
Quanta melma viene versata ogni giorno nei media sulla testa di Orit Struk “la messianista”. Ebbene, Ariel Kahana ha rivelato su “Israel Hayom” che questa messianista era forse l’unica politica che ha ripetutamente avvertito del massacro che Hamas avrebbe perpetrato. Solo un mese prima di Simchat Torah, Struk scrisse: “Il giorno del giudizio verrà – quando Hamas deciderà“. Io e voi non abbiamo previsto il massacro, gli esperti di sicurezza arroganti ci hanno spiegato che Hamas era deterrito, i geni dell’intelligence erano occupati con la crisi climatica – e solo una donna messianista gridava, e nessuno ascoltava. Si possono difendere tutti coloro che hanno sbagliato, ma è più difficile giustificare l’attacco spudorato ai pochi che avevano ragione.
Bugy Ya’alon ha diffamato l’accademia pre-militare “messianica” di Eli e ha chiesto la sua chiusura. L’accademia di Eli ha perso 19 dei suoi ex studenti nella guerra di Simchat Torah. Inoltre: i suoi leader sono i pionieri dell’intero progetto delle accademie pre-militari. Senza le decine di migliaia di soldati formatisi in queste accademie, è difficile immaginare come l’IDF avrebbe potuto resistere ai nostri nemici in questa guerra. Negli ambienti religiosi liberali, negli ultimi anni era comune deridere la gente di Eli, come se fossero rimasti ancorati al passato e non comprendessero che l’esercito non è più una questione importante in Israele. Si è scoperto che questi “messianisti” erano gli unici realisti tra noi.
Chi altro viene deriso come “messianista”? Chiunque giunga alla conclusione ovvia che l’IDF debba continuare a controllare Gaza, come ha proposto il Generale di Brigata Roman Gofman. Abbiamo imparato ripetutamente che ovunque l’IDF si ritiri, i nazisti prendono il controllo. L’idea di affidare Gaza al negazionista dell’Olocausto Abu Mazen viene presentata come la soluzione sensata e ragionevole, mentre in realtà è una mossa folle, quasi suicida. Abbiamo già provato questo: dopo il Disimpegno, l’Autorità Palestinese ha ricevuto Gaza – e abbiamo visto come è finita. Ma solo i messianici osano sottolinearlo, e solo loro osano aggiungere che Hamas deve pagare l’unico prezzo che teme: la terra. Chi comprende che nella realtà esiste qualcosa oltre agli interessi egoistici individuali capisce anche che il legame con la terra è il fattore reale più forte in Medio Oriente. E chi comprende questo sa che la ricostruzione degli insediamenti nell’enclave settentrionale di Gush Katif, vuota di arabi, è la risposta più realistica e deterrente che Israele possa adottare. E questa è, naturalmente, una mossa “messianista”.
Oggi i “messianisti” vengono diffamati per la loro opposizione ai deboli e fallimentari negoziati che il governo israeliano sta conducendo con Hamas – e hanno ragione anche in questo. La questione non riguarda solo le cattive condizioni dell’accordo, e nemmeno solo la politica sciocca di suppliche disperate, che tutti capiscono quanto danneggi il potere contrattuale israeliano. La questione è che non ci troviamo di fronte a esseri umani razionali e ragionevoli, ma a mostri. Non è una questione genetica, ma culturale. Ma finché questa cultura non cambierà, non possiamo fingere di essere impegnati in una normale contrattazione, che può essere spostata un po’ di qua o di là.
Quando gli straordinari Eliyahu Liebman e Zvika Mor hanno chiesto, fin dal massacro, di combattere con forza Hamas e di non sottomettersi ai rapitori dei loro figli, le persone hanno osato chiamare questi meravigliosi eroi “messianisti”, come se fosse un insulto. La verità è che il messianismo ci ha salvato a Simchat Torah. Gli assassini pianificavano di arrivare fino a Tel Aviv e Gerusalemme, e di conquistare, tra l’altro, anche la Knesset. Chi si è frapposto sul loro cammino? Non colonne di carri armati né divisioni di fanteria. Gli assassini si sono fermati solo perché a Simchat Torah demoni lottavano contro angeli. I diavoli malvagi hanno perso la testa di fronte all’opportunità di massacrare e stuprare, e hanno dimenticato i loro obiettivi strategici; e dall’altra parte si sono schierati contro di loro angeli giusti, persone come Elchanan Kalmanzon, i fratelli Slutzky, Aner Shapira ed Elyakim Liebman, che il Signore vendichi il sangue di tutti loro. Con loro c’erano molti altri, civili coraggiosi nei quali lo spirito di Dio si è infuso, e grazie a questo sono diventati l’ultima linea di difesa – messianica – della nostra patria.
Forse è giunto il momento di adottare questo titolo come segno di onore. Beati i messianisti, che proteggono la nostra terra. Beati i messianisti, che sono pronti a sacrificare la propria vita per noi. Beati i messianisti, perché sono gli unici che comprendono veramente cosa sta accadendo qui.

(Kolòt Morashà, 3 marzo 2025)

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Attentato alla stazione di Haifa

Un uomo di 70 anni è stato ucciso questa mattina in un attacco terroristico alla stazione centrale degli autobus di Haifa. Altre quattro persone sono rimaste ferite: tre in modo grave e una in condizioni moderate. Il terrorista, un druso israeliano di 20 anni della città di Shfaram, in Galilea, è stato neutralizzato sul posto dalle forze di sicurezza.
  L’attacco è avvenuto nell’area di Hamifratz, uno dei principali snodi di trasporto in Israele. L’attentatore è sceso da un autobus proveniente da Shfaram e ha accoltellato le persone attorno a lui in stazione, gridando «Allahu Akbar», raccontano i testimoni. Poco dopo l’attacco, il terrorista è stato eliminato dalle forze di sicurezza. Secondo i media israeliani, l’attentatore aveva anche cittadinanza tedesca, aveva vissuto all’estero un anno ed era rientrato in Israele solo da un mese.
  Le squadre di soccorso del Magen David Adom hanno evacuato i feriti all’ospedale Rambam. Tra loro, un ragazzo di 15 anni, un uomo e una donna sulla trentina, tutti in gravi condizioni. Una donna di 70 anni ha riportato ferite moderate. Nessuno dei feriti è in pericolo di vita, ha reso noto l’ospedale.
  Le forze di sicurezza hanno avviato un’indagine per chiarire la dinamica dell’attacco e verificare se il terrorista abbia agito da solo. Il viceministro della sicurezza nazionale, Haim Katz, ha tenuto una riunione operativa per valutare la situazione: «I prossimi giorni saranno impegnativi. La polizia israeliana e le forze di emergenza sono in massima allerta. Invitiamo il pubblico a rimanere vigile e a segnalare qualsiasi comportamento sospetto».
  L’attacco arriva in un momento di forte allerta per la sicurezza. Solo pochi giorni fa, un attentatore di 53 anni ha investito 14 persone con un’auto all’incrocio di Karkur, in Galilea, lasciando una ragazza di 17 anni in condizioni critiche. Anche in quel caso, il terrorista è stato neutralizzato sul posto.

(Shalom, 3 marzo 2025)

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Israele ringrazia Rubio per la “consegna urgente” di armi per 4 miliardi di $

Rubio ha fatto ricorso all'autorità di emergenza per accelerare la fornitura di armi a Israele

Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha ringraziato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il segretario di Stato americano Marco Rubio per le misure adottate per accelerare la consegna di circa 4 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele.
Sa’ar afferma che la decisione “consente a Israele di dotarsi degli strumenti necessari per portare a termine il lavoro”.
“Siamo grati per le azioni accelerate intraprese per migliorare la nostra sicurezza e garantire la nostra difesa”, scrive su X.
Sabato Rubio ha dichiarato di aver firmato una dichiarazione per l’assistenza militare, senza rivelare quali armi o altri aiuti fossero inclusi nel pacchetto.
L’amministrazione Trump, insediatasi il 20 gennaio, ha approvato quasi 12 miliardi di dollari in importanti vendite militari estere a Israele, ha affermato Rubio in una nota, aggiungendo che “continuerà a utilizzare tutti gli strumenti disponibili per rispettare l’impegno dell’America nei confronti della sicurezza di Israele, compresi i mezzi per contrastare le minacce alla sicurezza”.
Rubio ha affermato di aver fatto ricorso all’autorità di emergenza per accelerare la fornitura di assistenza militare a Israele, mentre si prepara a un possibile ritorno alla guerra a Gaza, nel mezzo di un cessate il fuoco incerto con Hamas.

(Rights Reporter, 3 marzo 2025)

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La Sapienza annulla la presentazione del libro di Sinwar e il movimento palestinese grida vendetta

L’evento organizzato dal movimento degli studenti palestinesi in Italia e previsto per il 5 marzo alle ore 15 presso la Facoltà di Fisica dell’Ateneo italiano. Gli ospiti invitati erano Maya Issa, attivista del movimento degli studenti palestinesi in Italia, e Davide Piccardo, direttore del quotidiano La Luce ed editore del libro.

di Ludovica Iacovacci

L’Università La Sapienza di Roma ha annullato l’evento intitolato “Palestina e resistenza: una voce dall’interno”, presentazione del libro Le spine e il garofano dell’ex capo politico di Hamas Yahya Sinwar, ucciso da Tzahal nella zona di Tal Al-Sultan a Rafah nella Striscia di Gaza il 17 ottobre 2024.
L’evento è stato organizzato dal movimento degli studenti palestinesi in Italia e previsto per il 5 marzo 2025 alle ore 15 presso la Facoltà di Fisica dell’Ateneo italiano. Gli ospiti invitati erano Maya Issa, attivista del movimento degli studenti palestinesi in Italia, e Davide Piccardo, direttore del quotidiano La Luce ed editore del libro con la casa editrice Editori della Luce.
Il movimento degli studenti palestinesi scriveva sulle sue piattaforme che l’evento “rappresenta un’importante occasione per approfondire la comprensione della questione palestinese” non mancando riferimenti al “genocidio di Gaza e la pulizia etnica in corso nel resto della Palestina” attraverso l’intervento di “voci autorevoli”. Secondo gli organizzatori, l’evento non avrebbe dovuto essere una semplice presentazione letteraria ma “un momento di riflessione e confronto su un tema di urgente attualità” con l’obiettivo di “far luce su una realtà spesso distorta dai media mainstream”. Ingresso libero.
Il 27 febbraio 2025 l’Università La Sapienza ha negato e cancellato l’iniziativa già preventivamente autorizzata il 14 febbraio.
“È un’iniziativa pericolosa” ha detto il presidente dell’UCEI Noemi Di Segni ai microfoni di Adnkronos, paragonando l’evento “all’apologia del fascismo e incitamento a commettere reato, non solo all’odio ma proprio alla matrice di terrorismo organizzato. Penso – conclude Di Segni – che nessun genitore auspicherebbe che il figlio studente entrasse a ‘studiare’ in una simile aula, su simili libri. Non è per questo scopo che investiamo nelle università e studi accademici”.
A commento dell’annullamento dell’incontro, il presidente dell’UGEI Luca Spizzichino ha affermato: “Le università devono essere spazi di conoscenza e dialogo, non un palcoscenico per chi diffonde odio e violenza. Non possono trasformarsi in strumenti di revisionismo ideologico che travisa la realtà, spacciando per “resistenza” il massacro di civili innocenti”.
Il movimento degli studenti palestinesi, al netto della cancellazione dell’iniziativa, ha parlato di “complicità sistemica”. “Non possiamo tollerare ipocrisia” ha scritto il gruppo sulle sue piattaforme. Invocando all’intifada, ha promesso il regolare svolgimento dell’evento.

(Bet Magazine Mosaico, 3 marzo 2025)
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Purtroppo gli effetti di questi divieti sono più negativi che positivi. "E' un'iniziativa pericolosa" ha detto la presidente UCEI, ma la sua pericolosità non è diminuita con la proibizione, anzi forse è aumentata. M.C.

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Come cambia il Medio Oriente

di Ugo Volli

Le prospettiva a Gaza
   La guerra iniziata con la strage del 7 ottobre era stata pensata dai suoi ideatori (dietro Hamas, innanzitutto l’Iran) per distruggere Israele. E invece la reazione israeliana sta smantellando ciò che presuntuosamente essi chiamavano “l’asse della resistenza” e modificando profondamente l’assetto strategico del Medio Oriente. Al sud, a Gaza, l’azione israeliana non è stata ancora conclusiva per il freno che l’amministrazione Biden vi ha opposto aderendo alle bugie demagogiche del “genocidio”, della “carestia”, della “crisi umanitaria”. Siamo ora a un punto cruciale, con la scadenza della prima fase della tregua conclusa a dicembre anche su pressione dell’entrante amministrazione Trump. Esaurito lo scambio di una trentina degli israeliani rapiti, fra vivi e defunti, con un migliaio di terroristi condannati anche per reati gravissimi, ora la seconda fase prevederebbe il rilascio di tutti gli altri sequestrati contro la scarcerazione di altre migliaia di pericolosi pregiudicati e soprattutto l’abbandono da parte dell’esercito israeliano della Striscia, incluso il confine con l’Egitto, lasciando così ai terroristi il governo di Gaza e la possibilità di ottenere facilmente rifornimenti da parte dell’Egitto che li spalleggia. Difficile che accada, il governo israeliano si è già rifiutato. I terroristi possono accettare una delle due offerte israeliane (l’esilio e il disarmo in cambio della loro sopravvivenza fisica, o il rinnovo della prima fase con la continuazione della tregua alla condizioni attuali e gli scambi a tappe settimanali). Oppure, come è più probabile, ci può essere nei prossimi giorni una ripresa della guerra.

Il cambiamento strategico al Nord
   Il teatro dove le cose sono cambiate di più è però il confine settentrionale con il Libano, dove è chiaro che Hezbollah ha perso buona parte delle sue armi e del suo potere e Israele mantiene il controllo di alcuni punti strategici e riesce a impedire con minacce e attacchi mirati i rifornimenti e la riorganizzazione militare dei terroristi. E soprattutto è cambiato il teatro di nord-est con la Siria. Qui due mesi e mezzo fa è crollato molto velocemente il regime di Assad, sostenuto dall’Iran per mezzo di Hezbollah; il potere è stato preso da un gruppo islamista sostenuto dalla Turchia. Ciò ha costituito una grave rottura del “ponte di terra” con cui l’Iran vuole combattere Israele. L’aviazione israeliana ha compiuto subito una serie di attacchi per distruggere quanto possibile dei materiali e delle installazioni militari del vecchio regime; attacchi che continuano ancora oggi. L’esercito si è mosso immediatamente al di là delle linee armistiziali del 1973 conquistando la posizione dominante del Monte Hermon.

L’appoggio ai drusi
   Nell’ultima settimana, mentre tutta l’attenzione era volta alla sorte dei rapiti, ci sono stati altri sviluppi importantissimi. I drusi del Golan siriano hanno rotto per la prima volta da decenni la fedeltà allo stato, chiedendo protezione a Israele, che non aveva mai compiuto un gesto del genere. Ci sono stati degli incontri, dei negoziati e Israele ha concesso il suo aiuto. Netanyahu ha dichiarato ufficialmente che la regione a sud di Damasco deve restare libera dall’esercito siriano e che Israele non tollererà attacchi ai drusi. Le forze israeliane sono avanzate accampandosi “per un tempo indeterminato” a circa 40 chilometri da Damasco. Israele sta anche mandando ai villaggi drusi rifornimenti e ha stretto degli accordi per consentire ai loro abitanti di venire a lavorare da pendolari al posto dei palestinesi, con stipendi molto più alti di quelli siriani.

Uno stato anche coi curdi?
   Il significato di queste mosse è stato chiarito in alcune dichiarazioni. Israele non vuole impadronirsi di terreni siriani, ma non vuole nemmeno trovarsi un altro confine in mano a gruppi terroristi, com’era a Gaza e in Libano. Intende dunque favorire la creazione di un territorio autonomo dei Drusi nella zona meridionale della Siria, difendendo così il proprio confine e quello giordano dalle infiltrazioni islamiste e turche. Questo territorio potrebbe arrivare a congiungersi con le vaste aree desertiche orientali che sono in mano ai curdi, arrivando fino ai confini con l’Iraq e la Turchia. Si creerebbe così una divisione etnica della Siria, con una zona filo-occidentale dei turchi e dei curdi, un centro sunnita legato alla Turchia e magari l’indipendenza delle zone alawite verso il mare fra Libano e Turchia, dove a quanto pare Israele ha fatto sapere agli americani che sarebbe disposto ad accettare una presenza russa (è la zona da cui vengono gli Assad). Bisogna aggiungere che ci sono drusi israeliani nel Golan meridionale e anche sul Carmelo, che certamente hanno mediato coi drusi siriani, e che ce n’è anche in Libano sui monti a nordovest dell’Hermon. Si tratta di un gruppo guidato da un politico noto, Walid Jumblatt, che è sempre stato contro Israele e vicino a palestinesi e Hezbollah; ma non è detto che la prospettiva di un loro stato non attragga anche loro.

I popoli druso e curdo
   I drusi sono un popolo di circa 2 milioni di lingua ed etnia araba che dall’XI secolo pratica una religione monoteista iniziatica. Vivono sulle montagne, hanno fama di essere ottimi combattenti, dopo la I Guerra Mondiale si sono ribellati sanguinosamente al dominio del mandato francese di Siria, e da allora hanno praticato la lealtà per gli stati dove abitavano, anche se in lotta fra loro. Quelli israeliani si arruolano tutti nell’esercito e sono fra i combattenti più decorati. Se riusciranno a costituire un loro stato, o un’autonomia, sarà per merito di Israele e questo aumenterà molto la sicurezza della Galilea e del Golan cambiando profondamente il gioco politico della regione. Se poi potranno mettersi d’accordo con i curdi, popolo indoeuropeo di lingua iranica diviso fra Siria, Iraq, Turchia e Iran, in tutto circa 30-40 milioni, la cui indipendenza era stata riconosciuta dopo la I guerra mondiale ma poi repressa da Ataturk, il cambiamento sarà ancora più grande. Tanto che la Turchia per prevenirlo ha estorto negli ultimi giorni a Ocalan, il leader del loro gruppo più forte militarmente (il PKK), che tengono prigioniero dal 1999, un appello ai suoi compagni per l’abbandono delle armi e l’accordo con la Turchia. Difficile che la pace si realizzi davvero così, e difficile anche che nasca uno stato unitario anti-sunnita; ma è chiaro che la struttura geopolitica di tutto il territorio a nord di Israele sta cambiando – probabilmente in meglio.

(Shalom, 2 marzo 2025)

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Delegazione di ebrei americani visita Damasco

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Il governo di transizione siriano, insediatosi dopo la caduta del regime di Assad lo scorso dicembre, ha autorizzato la visita di una delegazione di ebrei siriano-americani a Damasco. Organizzata dal Syrian Emergency Task Force (SETF), gruppo con sede a Washington fondato nel 2011 per sostenere l’allora opposizione siriana, l’occasione ha riportato a casa il rabbino Yosef Hamra, ex leader della comunità ebraica siriana, e il rabbino Asher Lopatin, direttore delle relazioni comunitarie della Federazione Ebraica di Ann Arbor, Michigan, insieme ad altri ebrei siriani residenti negli Stati Uniti.
La delegazione ha visitato il cimitero ebraico di Damasco, rendendo omaggio alla tomba del rabbino Chaim Vital, e siti storici ebraici come la sinagoga di Jobar, in gran parte distrutta, e le sinagoghe Al-Franj e Al-Raki, oltre alla scuola ebraica Maimonide. Come ha raccontato Joshua Marks sul sito Jewish News Syndicate, per Rav Hamra, che era stato costretto a lasciare la Siria nel 1992, l’emozione è stata enorme. Ha esortato gli ebrei che vivono in Occidente a visitare la Siria sostenendo che l’attuale governo di transizione è impegnato a preservare il patrimonio culturale e religioso del paese.
Il SETF sottolinea che si è trattato di un viaggio importante per la Siria post-Assad, un passo verso la riconciliazione e la ricostruzione di una società inclusiva e rispettosa delle diverse tradizioni religiose e culturali del paese. La diaspora ebraica siriana si sta impegnando nel sostenere gli sforzi di ricostruzione e nel rafforzare i legami con la loro terra d’origine. Il viaggio è stato un evento dal grande valore simbolico per tutti i partecipanti, con la speranza che ci sia l’opportunità di costruire una società pronta a valorizzare e celebrare la diversità culturale e religiosa del paese ponendo le basi per una pace duratura.

(moked, 2 marzo 2025)

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Trump metterà alla porta anche Israele?

Fin da quando è scoppiata la guerra tra Russia e Ucraina, dal modo in cui è stata valutata e appoggiata dai media occidentali, e anche da molti ebrei o amici di Israele, ho avuto subito l’impressione che questa guerra avrebbe potuto essere presentata in un mistificante parallelo con la guerra di Israele contro Hamas. Su “Israel Heute” compare oggi un articolo in cui si segnala la forma inquietante che potrebbe prendere oggi questo accostamento. Ne riporto alcuni estratti, perché esprimono dubbi e timori pienamente condivisibili. M.C.

Quando ieri il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha concluso con uno scandalo il suo incontro con il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky e lo ha cacciato dalla Casa Bianca, è apparso chiaro che questo evento è stato anche una lezione per Israele.
Trump persegue una linea chiara: vuole ottenere il più possibile per il meno possibile. Questo è il suo principio fondamentale. Dice a Zelensky: “Farò un accordo - con o senza di te -. In cambio, l'Ucraina potrà ricevere alcune armi, ma non di più. La Russia continuerà a controllare la parte centrale del Paese sconfitto.” Trump sta chiarendo al mondo che l'America oggi non ha bisogno di alleati. La NATO è irrilevante e costosa. La Dottrina Truman, secondo la quale gli Stati Uniti proteggono tutti dall'aggressione comunista, è superata. Trump ha dichiarato inequivocabilmente che l'UE è stata fondata solo per sfruttare gli Stati Uniti.
La più grande preoccupazione di Israele - anzi, il suo incubo - è cosa accadrà se Trump si opporrà a Israele. E se costringesse Israele a normalizzare le relazioni con l'Arabia Saudita per calmare la situazione in Medio Oriente e disinnescare i conflitti, ma in cambio venisse creato uno Stato palestinese? Questo è impossibile per l'attuale governo religioso di destra di Benjamin Netanyahu. Ma Trump accetterà un NO da Israele e Netanyahu? O li eliminerà anche dal suo cuore e dalla sua agenda? Fino a che punto i cristiani evangelici, i ministri e i capi ufficio filo-israeliani della sua amministrazione lasceranno che il loro capo assuma una posizione anti-israeliana?
Per quanto riguarda Israele, Trump sta segnalando che adesso Israele è solo. Fornisce armi e tutto il necessario per sostenere Israele nella guerra da lontano, senza dubbio un aiuto significativo, ma non tutto. Ha detto: “Occupatevi di Gaza, fate quello che volete, avete il mio permesso”. Ma non ha detto: 'I soldati americani lo faranno per voi’”. Ha invece postato un video in cui lui e Netanyahu prendono il sole sulla spiaggia della nuova Riviera nella Striscia di Gaza. Ma la realizzazione spetta a Israele.
Mentre la politica statunitense precedente, sotto Biden e i suoi alleati, isolava la Russia, Trump sta prendendo una direzione diversa: proclama che ‘America non ha bisogno di alleati. Forse in questo momento ha ragione, ma nulla rimarrà come Trump vuole per sempre. Se oggi non hai bisogno di alleati, domani potresti avere bisogno di loro, sia in Medio Oriente che in un altro conflitto.
Quello che i russi non sono riusciti a ottenere contro Zelensky in tre anni di guerra, Trump e il suo vicepresidente JD Vance lo hanno ottenuto in soli 30 minuti nello Studio Ovale della Casa Bianca. Quello che è successo lì è stato un disastro diplomatico, amplificato dalla dimensione pubblica e dalla diretta. Subito dopo la diretta, lo show Trump-Zelensky si è spostato sui social media. Zelensky ha cercato di limitare i danni ringraziando gli Stati Uniti, ma Trump non ne è rimasto colpito. Ha pubblicato le sue posizioni in dettaglio e ha indicato a Zelensky la via d'uscita.
Se persino l'Ucraina, che è in prima linea in una guerra, deve pagare per essere sostenuta, non c'è motivo di pensare che Israele riceverà per sempre un sostegno incondizionato. In un mondo in cui le alleanze tradizionali lasciano il posto ad accordi temporanei, la gratitudine e gli argomenti morali non sono più moneta corrente - e non sempre vincono sul freddo calcolo.
In questa realtà, Israele deve assicurare di poter fornire benefici tangibili a qualsiasi partner strategico, che si tratti di tecnologia, intelligence o vantaggio geopolitico. Non sono sicuro che i valori biblici di Israele siano sufficienti a far sì che Trump gli rimanga fedele in qualsiasi circostanza. I suoi ministri evangelici e pro-Israele lo inchioderanno su questo punto? Si dimetteranno dai loro incarichi se Trump trascurerà Israele? O saranno abbastanza forti da mantenere la sua posizione politica a favore di Israele?
È vero: attualmente Israele gode di un ampio e incondizionato sostegno da parte degli Stati Uniti, non solo da parte del presidente, ma anche di molti suoi collaboratori. Ma sebbene Trump abbia scongelato gli aiuti militari statunitensi a Israele, non si è impegnato a rinnovarli. Israele non ha minerali rari o preziosi da offrire a Trump in caso di emergenza per assicurarsi il suo sostegno. È un piccolo Paese in una regione strategicamente complicata.
I paesi ricchi sono alla ricerca di opportunità di investimento, ed è per questo che sogna un affare immobiliare a Gaza. Ma la “ristrutturazione”, cioè la guerra contro il regime di Hamas, rimane compito di Israele. Si aspetta gratitudine da Israele, perché per lui è importante. Trump pretende rispetto per sé e per l'America, potrebbe allora essere pericoloso se Israele dovesse rinunciare a pretendere rispetto per sé in cambio.
Dobbiamo rimanere realistici. Trump può anche rivoltarsi contro Israele. Non voglio crederlo, ma nella teoria dei giochi politici è possibile. Tra i valori biblici e quelli commerciali, credo che Trump sceglierà innanzitutto il guadagno commerciale per l'America, non la promessa biblica per Israele. La domanda è: i colleghi evangelici della sua amministrazione gli ricorderanno quanto è potente il Dio di Israele?

(Notizie su Israele, 2 marzo 2025)

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Chi non grida per gli ebrei non può lodare Dio

di Samuel Rindlisbacher

È passato più di un anno - dal 7 ottobre 2023 - da quando i terroristi di Hamas hanno attaccato Israele e ucciso brutalmente oltre 1.200 persone. Da allora, Israele ha dovuto combattere su più fronti ed è minacciato da ogni parte. È quindi giunto il momento di alzarsi in piedi e gridare per gli ebrei, proprio come fece Dietrich Bonhoeffer quando disse: “Chi non grida per gli ebrei non può cantare i canti gregoriani!”.
Vorrei precedere le mie riflessioni con le seguenti parole:

    “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che essa ha ricevuto dalla mano dell'Eterno il doppio per tutti i suoi peccati” (Isaia 40:1-2).

Anche se oggi il diritto all'esistenza di Israele viene nuovamente attaccato e messo in discussione: Dio ha promesso al suo popolo un futuro glorioso: la redenzione e la salvezza! Leggiamo in Ezechiele 36, 24-30:

    Io vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da tutti i paesi e vi ricondurrò nel vostro paese; vi aspergerò con acqua pura e sarete puri; io vi purificherò di tutte le vostre impurità e di tutti i vostri idoli. Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dalla vostra carne il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Metterò dentro di voi il mio Spirito, farò in modo che camminerete secondo le mie leggi e osserverete e metterete in pratica le mie prescrizioni. Voi abiterete nel paese che io diedi ai vostri padri, sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. Io vi libererò da tutte le vostre impurità; chiamerò il frumento, lo farò abbondare, e non manderò più contro di voi la fame; farò moltiplicare il frutto degli alberi e il prodotto dei campi, affinché non siate più esposti all'obbrobrio della fame tra le nazioni.”.

Ogni volta che leggo queste parole, mi sento confortato, incoraggiato e rafforzato. Mi fa capire che Dio è fedele alla sua parola. Questo vale sia per me personalmente che per il suo popolo dell'alleanza, Israele, nonostante tutti i nemici e le opposizioni.
Sì, posso dirlo: i nemici di Israele non avranno l'ultima parola. Il diavolo non prevarrà. L'Olocausto non è il capolinea. Il 7 ottobre 2023 non è l'ultima parola. Né quello che è successo di recente in Medio Oriente. O quello che accadrà in futuro. Ma piuttosto, la fedeltà di Dio al suo popolo e alla terra d'Israele, alle sue promesse e alla sua parola. Dio fa persino dire a uno dei nemici di Israele, Balaam, che avrebbe dovuto maledire Israele per conto di Balak:

    “Dio non è uomo da mentire, né figlio d'uomo da pentirsi. Dovrebbe forse dire qualcosa e non farla? Dovrebbe parlare e non parlare?” (Numeri 23:19).

Non importa quello che viene, non importa quello che succede: Dio è ancora al comando. Dio tiene ancora le redini in mano. Niente e nessuno sfugge dalle sue mani, nemmeno voi e la vostra vita se siete suoi figli. Dio è in procinto di redimere il suo popolo Israele. E in Ezechiele 36 vediamo chiaramente l'ordine di questa redenzione di Israele:
Il ritorno.
La purificazione.
La rinascita
Finalmente a casa, alla presenza di Dio.

• IL RITORNO
  Notiamo che il ritorno di Israele è già avvenuto e sta ancora avvenendo. È notevole che questo ritorno avvenga in uno stato di incredulità. Leggiamo:

    “Vi trarrò dalle nazioni, vi raccoglierò da tutti i paesi e vi ricondurrò nella vostra terra!”. (Ezechiele 36,24).

Dio stesso riporta il suo popolo. È lui che lo fa. Riportare il suo popolo nella terra che ha promesso è affar suo.
I primi immigrati erano per lo più ebrei laici. Non erano particolarmente religiosi né impegnati nella fede dei loro padri. Piuttosto, portavano con sé idee socialiste, evidenti anche nei kibbutzim e nei moshavim che fondarono. E ancora oggi, è un dato di fatto che una parte molto ampia della popolazione israeliana è molto lontana da Dio: Tel Aviv, ad esempio, è un punto caldo per il movimento LGBTQ. Molti giovani israeliani hanno problemi di droga. Anche la criminalità non è trascurabile in Israele. Israele non è una “terra santa”, né una “nazione santa”. E trattare con gli israeliani non è sempre facile. Tuttavia, Israele è e rimane il primo amore di Dio!
Nonostante questo stato di non redenzione, nonostante questa rigidità, nonostante il loro peccato, il Signore Dio dice del suo popolo:

    “Vi prenderò da tutte le nazioni, vi raccoglierò da tutti i paesi e vi ricondurrò nella vostra terra!” (Ezechiele 36,24).

Israele è tornato e forma una miscela impressionante di popoli di origine europea, araba, asiatica e africana. Oggi in Israele vivono ebrei provenienti da oltre 140 nazioni diverse e da ogni parte del mondo. Si sentono tutte le lingue. Anche nei negozi, le merci non sono etichettate solo in ebraico, ma anche in arabo e russo. Gli ebrei di lingua russa costituiscono oggi il più grande gruppo di immigrati in Israele: oltre un milione di persone.
La prima azione di rimpatrio di Dio (Aliyah) ebbe luogo nel 1881 dalla Russia. Lo zar Alessandro II fu assassinato il 1° marzo 1881 e si diffuse la voce che la colpa fosse degli ebrei. Ciò portò a gravi pogrom contro la popolazione ebraica. Ci furono espropri, saccheggi, stupri e omicidi di ebrei. E così, nel 1882, iniziò la prima grande ondata di immigrazione di ebrei verso la loro patria ancestrale.
L'accuratezza della parola di Dio è affascinante. Il profeta Isaia scrisse intorno al 700 a.C.:

    “Dirò al nord: Date, e al sud: Non trattenete! Fate venire i miei figli da lontano e le mie figlie dall'estremità della terra” (Isaia 43,6).

Il nord è qui esplicitamente menzionato: dal punto di vista di Israele, la prima ondata di immigrazione proveniva effettivamente dal nord, cioè dalla Russia. Dio si è servito ancora una volta della storia del mondo per realizzare i suoi pensieri e le sue intenzioni.
Ezechiele 37 descrive in modo impressionante le circostanze del ritorno:

    “La mano dell'Eterno fu sopra di me e l'Eterno mi portò fuori in spirito e mi depose in mezzo a una valle che era piena di ossa. Mi fece passare presso di esse, tutto intorno; ecco erano numerosissime sulla superficie della valle ed erano anche molto secche” (vv. 1-2).

Un vasto campo pieno di ossa morte: un campo è un'area senza confini visibili, senza inizio né fine. È un'immagine di tutti gli ebrei uccisi nel mondo. La storia del popolo ebraico è una storia piena di difficoltà, di miseria, di espulsione, di spodestamento, di ostracismo e di omicidio.
Questa storia è iniziata in Egitto, quando il faraone fece annegare i neonati. E continuò sotto gli Assiri, i Babilonesi e i Romani. Gli ebrei furono ostracizzati e uccisi anche nell'Impero romano e sotto i Bizantini. I papi li perseguitarono, gli spagnoli li espulsero dalla penisola iberica. Furono rinchiusi nei ghetti, oppressi nei pogrom e sterminati nell'Olocausto.
Ovunque gli ebrei siano andati nei loro 2000 anni di storia, sono stati odiati, perseguitati e uccisi. Innumerevoli tombe senza nome lo testimoniano. La valle dei morti culminò nell'assassinio di 6 milioni di ebrei durante il Terzo Reich. E oggi questo odio continua: attraverso le azioni di Hamas, Hezbollah e Iran, il cui obiettivo dichiarato è la distruzione di Israele.

    “Ed ecco, c'erano molte ossa che giacevano sul campo, ed ecco, erano tutte inaridite” (Ezechiele 37:2).

Ma Dio ha altri piani. Il profeta Ezechiele scrive:

    “Poi profetizzai come mi era stato ordinato e, mentre profetizzavo, si udì un suono ed ecco uno scuotimento e le ossa si muovevano insieme, osso a osso” (Ezechiele 37,7).

Questa profezia si è avverata nella storia: Nel 1914 scoppiò la Prima Guerra Mondiale, una catastrofe senza precedenti con 17 milioni di morti. Ma anche queste terribili circostanze servirono al piano di Dio: secondo la Dichiarazione Balfour, al popolo ebraico fu promessa una patria. Il 1° settembre 1939 iniziò la Seconda guerra mondiale, un orrore senza precedenti con 60 milioni di morti, tra cui 6 milioni di ebrei assassinati. Fu proprio questo shock che portò le Nazioni Unite ad accettare la creazione di uno Stato ebraico.
Il 14 maggio 1948 nacque lo Stato di Israele.
Consideriamo il seguente dettaglio: quando i discepoli chiesero a Gesù quando avrebbe stabilito il suo regno, egli rispose:

    “Sentirete parlare di guerre e di voci di guerre; vegliate e non allarmatevi. Perché è necessario che ciò avvenga. Ma non è ancora la fine” (Matteo 24,6).

Una cosa che oggi diamo per scontata: i messaggi possono essere inviati e ricevuti in pochi secondi in ogni angolo della terra, anche nella giungla più profonda. Gesù ha parlato di un tempo in cui sarebbe stato possibile ascoltare in tutto il mondo - in altre parole, il tempo delle telecomunicazioni mondiali. Nel 1897 fu trasmesso con successo il primo messaggio senza fili. Nel 1917, un trasmettitore militare americano trasmise per la prima volta rapporti di guerra in tutto il mondo.
Anche in questo caso, la parola di Dio si sta realizzando, fin nei minimi dettagli!
Da quando gli ebrei sono tornati nella loro terra, a partire dal 1882, epidemie, carestie, terremoti e guerre sono aumentati in tutto il mondo. Gesù disse: “E vi saranno grandi terremoti, e qua e là carestie e pestilenze...” (Luca 21:11).
Le pestilenze ci sono sempre state e continueranno ad esserci. Tuttavia, è stato solo quando gli ebrei sono tornati nella loro terra che si è verificata la prima pestilenza mondiale. Alcuni esempi: A seguito della prima guerra mondiale, si è verificata la prima epidemia mondiale: l'influenza spagnola (1918-1920), che ha causato la morte di circa 50 milioni di persone. Pensiamo all'AIDS, che è comparso per la prima volta nel 1981. Ad oggi, circa 40 milioni di persone sono morte a causa di questa malattia e oltre 38 milioni di persone ne sono attualmente affette. Ci siamo appena lasciati alle spalle Corona, ma il futuro è incerto. Anche la crescente resistenza ai farmaci e la mancanza di medicinali efficaci sono motivo di grande preoccupazione.
Tutto questo ci dimostra che la parola di Dio si sta realizzando!

• LA PURIFICAZIONE
  Conosciamo tutti la storia del figliol prodigo in Luca capitolo 15, che va per il mondo, sperpera l'eredità del padre e poi torna a casa dopo molto tempo. Anche Israele non è forse un figliol prodigo? Ha trascorso 2000 anni in terra straniera, per dirla in modo metaforico, alla mangiatoia delle nazioni. In questo modo, ha perso la sua dignità e la nobiltà della sua vocazione. Sì, è diventato un “ebreo errante”. Ma il figliol prodigo è tornato a casa: anche Israele è tornato, di nuovo una nazione. E altrettanto sporca, non lavata e non purificata, come il figliol prodigo.
E come ha accolto il padre, nella storia del figliol prodigo? Così anche Israele è tornato di nuovo: sporco, non lavato, con le tracce della sua odissea di zoo anni. E verrà il momento in cui Israele sarà lavato (proprio come il figliol prodigo):

    “Io spruzzerò su di te acqua pulita e tu sarai pulito; ti purificherò da tutte le tue sozzure e da tutti i tuoi idoli” (Ezechiele 36,25).

A proposito, non è forse questa la nostra storia? Come è avvenuta la nostra conversione? Non è stato forse Dio ad attirarci a sé anche se eravamo ancora nei nostri peccati? Non ci ha forse seguiti in mezzo alla nostra sporcizia? Ci ha accettati, sporchi e impuri, ci ha accolti quando eravamo ancora peccatori. Ci ha purificati, ci ha rivestiti di abiti nuovi e ci ha accolti nella sua famiglia.
Dio agisce allo stesso modo con il suo popolo, Israele.
Per prima cosa, Israele deve tornare alla casa dei suoi padri, a “Eretz Israel”, alla terra che Dio ha promesso loro. E poi accadrà ciò che il profeta Ezechiele ha predetto: la purificazione.

    E vi aspergerò con acqua pulita” (Ezechiele 36,25).

L'acqua ha un significato profondo e molteplice nella Bibbia.
Vediamo l'acqua come mezzo di purificazione:
Nell'Antico Testamento, chi era ritualmente impuro doveva lavarsi con l'acqua per tornare pulito. Anche prima delle tre grandi Pasqua, Shavuot e Sukkot (Pasqua, Pentecoste e Festa dei Tabernacoli) - gli ebrei facevano anche un bagno rituale nella mikvah. Solo allora potevano entrare nell'area del tempio e partecipare alle feste.
L'acqua come fonte di vita:
L'acqua è anche sinonimo di ristoro e rafforzamento. Ricordiamo il Salmo 23: “L'Eterno è il mio pastore, non manco di nulla. Mi fa riposare in pascoli verdi, mi conduce ad acque tranquille” (Salmo 23:1-2).
L'acqua come simbolo di giudizio:
Tuttavia, l'acqua è usata anche come immagine di giudizio. Ricordiamo il Diluvio, quando Dio giudicò l'umanità empia, o gli Egiziani che perseguitarono il popolo d'Israele - e alla fine perirono nel Mar Rosso.
Dopo il ritorno alla terra dei padri, Israele sarà purificato attraverso il giudizio. Il profeta Ezechiele lo descrive così: “Vi aspergerò con acqua pulita e sarete purificati; vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli!” (Ezechiele 36:25).
Questo è il giudizio che è stato annunciato molte volte nell'Antico Testamento - e anche Gesù ne parla:

    “Perché allora ci sarà una grande tribolazione, quale non c'è stata dall'inizio del mondo fino ad ora, né mai ci sarà!” (Matteo 24,21).

La Bibbia si riferisce a questo tempo di giudizio usando vari termini come: Grande Tribolazione, l'angoscia di Giacobbe, il tempo dell'angoscia, il giorno dell'Eterno, l'ira dell'Agnello. - Per quanto possa essere difficile da accettare, Dio stesso purificherà il suo popolo: Dio stesso purificherà il suo popolo Israele e lo farà attraverso “le acque della grande tribolazione”.
Il pensiero di ciò che deve ancora accadere per il popolo di Dio mi riempie di tremore e di terrore. Penso con orrore all'Olocausto o al 7 ottobre, ma la Bibbia descrive una prova ancora più grande che deve ancora venire.

    “In Sion i peccatori sono presi da spavento, un tremore si è impadronito degli empi: «Chi di noi potrà dimorare con il fuoco divorante? Chi di noi potrà dimorare con le fiamme eterne?” (Isaia 33,14).

Questo giudizio scuoterà i peccatori, li scuoterà e li commuoverà nel profondo. Allora grideranno a Dio, al loro Salvatore. Israele griderà per il Messia, per Gesù Cristo. Farà la stessa esperienza di Paolo sulla via di Damasco:
Crollerà. Si renderanno conto della loro colpa. E chiederanno: “Signore, chi sei?”.
Allora si realizzerà ciò che il profeta Ezechiele ha annunciato:

    “Io vi aspergerò con acqua pulita e sarete purificati; vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli!”. (Ezechiele 36:25).

• LA RINASCITA
  Israele viene condotto da Dio al pentimento e poi avviene la sua rinascita. Così leggiamo in Ezechiele:

    “Vi darò un cuore nuovo e metterò in voi uno spirito nuovo; toglierò il cuore di pietra dalla vostra carne e vi darò un cuore di carne. E metterò il mio Spirito dentro di te e ti farò camminare nei miei statuti, osservare i miei giudizi e metterli in pratica” (Ezechiele 36:26-27).

Verrà il momento in cui Israele non avrà altra scelta che gridare a Dio. Il suo intero esercito e tutta la sua tecnologia militare non saranno più in grado di aiutarlo e nessun amico sarà al suo fianco. Israele sarà allora solo, abbandonato da tutti: anche gli Stati Uniti si saranno rivoltati contro Israele. Arriverà quindi il momento in cui Israele sembrerà spacciato e tutte le nazioni si rivolteranno contro Israele, e allora l'ultima risorsa di Israele sarà Dio - l'eterno, onnipotente Dio di Israele. In questo momento di angoscia, esso invocherà il Signore e lo cercherà:

    “Voi mi invocherete, verrete a pregarmi e io vi esaudirò. Voi mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il vostro cuore; io mi lascerò trovare da voi', dice l'Eterno” (Geremia29,12-14a).

Così Israele riconoscerà il suo Messia e si verificherà la più grande rinascita di tutti i tempi. La Bibbia dice infatti di questo evento:

    “Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme, lo spirito di grazia e di supplicazione; essi guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito.” (Zaccaria 12:10).

Israele si lascerà alle spalle tutte le azioni vergognose, odierà ogni peccato e rimuoverà tutti gli idoli.

    ““In quel giorno vi sarà una fonte aperta per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme, per il peccato e per l'impurità. 2 In quel giorno avverrà”, dice l'Eterno degli eserciti, “che io sterminerò dal paese i nomi degli idoli, e non saranno più nominati; farò anche sparire dal paese i profeti e gli spiriti immondi.” (Zaccaria 13:1-2).

• FINALMENTE A CASA
  Allora Israele sarà infine spiritualmente a casa: si riconcilierà con il suo Dio, lo glorificherà di nuovo e attraverso Israele la gloria di Dio sarà grande. Si realizzeranno così le parole del profeta Ezechiele:

    Abiterete nel paese che ho dato ai vostri padri, sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” (Ezechiele 36,28).

Questo non è ancora avvenuto: manca ancora la rinascita e il rinnovamento di Israele. Ma Dio fa la sua strada incessantemente con il suo popolo. E allora la domanda sorge spontanea: a che punto siamo oggi?
Israele è profondamente scosso dal 7 ottobre. Si trova in un'enorme battaglia contro Hamas e Hezbollah e ora anche in un conflitto diretto con l'Iran. Cosa succederà dopo? Cosa succederà domani? Non possiamo saperlo, ma ho la seguente impressione:
Se si riuscirà a contenere il terrore islamico che proviene dall'Iran e a porvi fine - mettendo a tacere l'Iran e i suoi proxy (Hamas, Hezbollah, Huthi ecc.), come fece Saddam Hussein in Iraq - allora il mondo sarà pronto per la pace. È interessante notare che anche alcune parti del mondo arabo stanno riconoscendo sempre più che la pace con Israele non è un'opzione. Non è un caso che gli Emirati Arabi Uniti, insieme agli Stati Uniti e a Israele, abbiano firmato gli “Accordi di Abramo”, mediati dall'allora Presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel 2020.
Come in Occidente, sempre più persone nel mondo arabo moderato si rendono conto che siamo tutti uniti: Non abbiamo forse un progenitore spirituale, Abramo? Non adoriamo forse tutti lo stesso Dio, che siamo ebrei, musulmani o cristiani? Ne è espressione la “Casa della famiglia Abramo” di Abu Dhabi, fondata in uno spirito di pace e di uguaglianza tra le nazioni e le religioni. Ma cosa manca?
Manca un uomo forte: un uomo che risolva i problemi, che porti unità, pace e “sicurezza”, il Messia, Redentore e Salvatore di Israele. Gesù dice:

    “Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi mi rifiutate. Ma se un altro viene nel suo nome, lo accoglierete a braccia aperte” (Giovanni 5:43).

E noi lo sappiamo: Questo uomo forte che verrà non sarà altro che l'Anticristo. Il grande imitatore, l'imitatore, il bugiardo, senza rapporto con Dio e senza identità divina.
Di lui si dice:

    “Il drago trasferì il suo potere alla bestia; gli diede il suo trono e lo dotò di poteri straordinari” (Apocalisse 13,2). Egli apparirà “come un agnello e parlerà come un drago” (Apocalisse 13,11).

Una cosa dovrebbe essere chiara a noi cristiani: Il Rapimento è dietro l'angolo! Tutti questi sviluppi ci mostrano che possiamo aspettarci il rapimento in qualsiasi momento. Gesù sta arrivando - potrebbe essere oggi!
È notevole quanto segue: in Israele - nonostante o proprio a causa della situazione disastrosa - è in corso un movimento caratterizzato da un profondo desiderio del Messia. Molti si stanno rivolgendo al Messia, Gesù Cristo.
In Matteo 23,37-39 leggiamo:

    “ Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 38 Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. 39 Poiché vi dico che d'ora in avanti non mi vedrete più, finché non dirette: 'Benedetto colui che viene nel nome del Signore’”.

La casa di Israele è stata desolata per 2.000 anni e calpestata dalle nazioni. Ma ora il popolo è tornato, in cammino verso il suo Messia. Quando lo Stato di Israele fu fondato nel 1948, c'erano solo pochi ebrei messianici. Non c'era una sola congregazione messianica con un leader ebreo. Ma oggi in Israele ci sono oltre 300 congregazioni messianiche con più di 30.000 membri registrati.
La parola di Dio si sta compiendo sotto i nostri occhi!
Anche l'opera di “One for Israel” è in movimento: un istituto teologico aperto a ebrei e arabi che offre numerosi programmi evangelistici e brevi video in ebraico e inglese. Questi video sono già stati cliccati più di 50 milioni di volte. Ogni mese, l'intera Bibbia viene scaricata più di 20.000 volte in ebraico. In media, ogni 12 minuti qualcuno in Israele chiama per saperne di più sul Messia Gesù Cristo.
Sorge la luminosa stella del mattino!

    “Alzati, diventa luce! Perché la tua luce è venuta e la gloria del Signore è sorta su di te” (Isaia 60:1-2).

Cerchiamo di essere saggi come i magi d'Oriente. Riconosciamo i segni della sua seconda venuta, che potrebbe essere oggi. Alziamo il capo: Gesù sta arrivando! Maranatha, Amen, vieni, Signore Gesù!

(Nachrichten aus Israele, febbraio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Ex ostaggio racconta di fame e di catene di ferro

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Eli Sharabi

GERUSALEMME - Eli Sharabi è stato tenuto in ostaggio nella Striscia di Gaza per 491 giorni in condizioni inaccettabili. Sua moglie e le sue due figlie sono state uccise da Hamas il 7 ottobre 2023. Nella sua prima intervista dopo il rilascio, Sharabi si preoccupa soprattutto di un compagno di prigionia che è ancora prigioniero dei terroristi.
L'intervista è stata condotta da Ilana Dajan. È la conduttrice del programma investigativo “Uvda” (Fatto) sul canale israeliano “Kanal 12”. È stata pubblicata giovedì sera. Quando gli è stato chiesto perché stesse rilasciando l'intervista, Sharabi ha risposto: “Perché non si può lasciare nessuno lì”.
Dopo il suo rapimento, è stato inizialmente tenuto prigioniero in una casa con un thailandese per 51 giorni. Lì aveva paura solo dei raid aerei. Per i primi tre giorni ha portato delle catene strette e non riusciva a dormire a causa del dolore. Ha perso conoscenza solo per qualche ora, di tanto in tanto. I rapitori gli hanno poi tolto le catene.
Il 27 novembre 2023 è stato portato in un tunnel. Lì ha incontrato Or Levy, Elia Cohen e Alon Ohel. Per tre giorni sono stati con loro anche tre giovani del Nova Festival: Hersh Goldberg-Polin, Ori Danino e Almog Sarusi.
I loro quattro compagni pensavano che sarebbero stati rilasciati perché feriti. Ma sono stati portati in un altro tunnel e giustiziati con altri tre ostaggi a settembre. Sharabi e i suoi compagni si sono resi conto che sarebbero stati colpiti alla testa se l'esercito avesse cercato di liberarli.

“Ho promesso ad Alon che avrei combattuto per lui”.
   Lui e Levy sono stati liberati l'8 febbraio, Cohen il 22 febbraio. Alon Ohel, 24 anni, è rimasto solo nel tunnel. “Mi disse che era felice per me”.
Il 53enne ha raccontato della loro relazione: “È entrato nel mio cuore. L'ho adottato dal primo momento. Ci siamo sostenuti a vicenda, insieme 24 ore su 24, sette giorni su sette”. Sapeva tutto della sua famiglia e dei suoi hobby. “Come posso lasciarlo indietro?”. Restare da soli nel tunnel era molto difficile. I quattro si facevano forza a vicenda. “Gli ho promesso che non l'avrei lasciato, che avrei combattuto per lui”.
Sharabi ha saputo del suo imminente rilascio una settimana prima. Si rese conto che sarebbe stato sicuro solo se fosse stato nelle mani dell'esercito. Che si sarebbe arrivati al dunque.
Nel tunnel non c'erano né radio né televisione. Avrebbero notato che tipo di notizie c'erano dal comportamento delle guardie. Un terrorista gli ha mostrato su un portatile i 33 nomi di coloro che dovevano essere rilasciati nella prima fase dell'accordo • e che 25 di loro erano vivi e otto erano morti.

Menzogna di Hamas: “Tua moglie e le tue figlie stanno bene”
   Sharabi è stato poi portato in un altro tunnel, dove ha rivisto il suo collega Ohad Ben-Ami del Kibbutz Be'eri. Quando lo ha visto, si è reso conto per la prima volta del suo aspetto emaciato. Lì apprese anche che suo fratello Jossi Sharabi era morto mentre era tenuto in ostaggio.
Tuttavia, non sapeva nulla della sorte di sua moglie Lianne e delle loro due figlie. Ha chiesto più volte ai terroristi notizie sulla sua famiglia, ricevendo come risposta: “Sua moglie e le sue figlie stanno bene”. Eli e Lianne Scharabi sono stati una coppia per 30 anni. Si sono conosciuti quando lei lavorava come volontaria a Be'eri. Mentre erano tenuti in ostaggio, lui temeva a un certo punto che la moglie sarebbe tornata in Inghilterra, suo paese natale, dopo l'attacco al kibbutz.
Il giorno del rilascio, i tre ostaggi si sono alzati alle 5 del mattino e hanno provato le battute per la produzione di Hamas, ha raccontato. Tra le altre cose, Sharabi doveva dire che non vedeva l'ora di rivedere sua moglie e le sue figlie.
Dopo lo spettacolo di propaganda sul palco, Sharabi, Levy e Ben-Ami sono stati consegnati alla Croce Rossa Internazionale. Quest'ultima aveva chiesto in macchina: “Dove eravate?”. Il presentatore, visibilmente colpito, ha chiesto la reazione: “Ha detto che non gli hanno permesso di avvicinarsi”.
Quando è stato consegnato all'esercito, Sharabi ha incontrato un'assistente sociale che conosceva. Gli ha detto che sua madre e sua sorella lo stavano aspettando alla base militare. Chiese di Lianne e delle bambine e gli fu risposto che glielo avrebbero detto. In quel momento ha capito che era successo qualcosa di terribile. Spera che siano morte rapidamente e che non abbiano dovuto soffrire.

Un frigorifero è un intero mondo
   Quando è stato rilasciato, Eli Sharabi pesava 44 kg e aveva perso più di 30 kg. Per la maggior parte del tempo mangiava o un piatto di pasta o un quarto di pita. Preferiva quest'ultimo, ha osservato nell'intervista: Era riuscito a conservare il pane e a mangiarlo pezzo per pezzo prima di andare a letto, per aiutarlo a superare la notte.
“Ilana, sai cosa significa aprire un frigorifero?”, ha chiesto l'ospite dell'intervista alla conduttrice. “È un mondo intero”. E ha aggiunto: “Solo l'idea che una persona libera possa prendere frutta o verdura o un uovo o acqua o un sacchetto di pane da lì … lo si sogna tutto il giorno”. Le percosse e le cicatrici, invece, non sono importanti. Per sei mesi ha ricevuto solo un decimo del necessario per mangiare.

C'è Dio nel tunnel?
   Sognava di mangiare, di mangiare lo Shabbat con la sua famiglia il venerdì sera e di pregare. “Non sono una persona religiosa. Ma lì, dal giorno in cui sono stato rapito, ho detto 'Shma Israel' ogni mattina. Ho fatto il kiddush. Ho detto 'Eschet Chajl' per mia madre e per mia sorella e” • con le lacrime che mi soffocavano la voce • ‘per mia moglie e le mie figlie’. Il kiddush è la benedizione sul vino. La poesia “Eschet Chajl” si trova nel 31° capitolo del libro biblico dei Proverbi. Elogia la “donna virtuosa” e viene cantata nelle famiglie ebraiche la sera dello Shabbat.
“C'è Dio nel tunnel?”, ha chiesto il presentatore. L'ex ostaggio ha risposto che la preghiera dà molta forza. “C'è qualcosa che veglia su di te. Questo ti dà molto conforto”.
I quattro ostaggi erano tenuti a 50 metri di profondità in una stanza di 10 metri quadrati. I piedi di Sharabi erano legati a catene di ferro, con le quali poteva fare solo passi molto piccoli. Anche questa era una misura precauzionale per consentire ai terroristi di uccidere più facilmente gli ostaggi in caso di tentativo di liberarli. Una volta al mese potevano fare la doccia con una bottiglia d'acqua. Per poter parlare dei loro sequestratori, avevano pensato a dei nomi in codice e inventato un linguaggio comune.
Un giorno, uno dei terroristi nella stanza accanto ricevette una telefonata: la casa della sua famiglia era stata distrutta. Si trovava nella zona degli ostaggi, dove Sharabi dormiva proprio all'ingresso. Il terrorista lo ha picchiato. Alon Ohel ha cercato di proteggerlo.
Poiché sospettava che sarebbe uscito prima del giovane, gli insegnò i comportamenti che lo avrebbero aiutato a sopravvivere. In generale, si considerava un padre per i suoi compagni di prigione più giovani. Alon Ohel ha una ferita all'occhio destro causata da una scheggia.

Sharabi: necessaria una commissione d'inchiesta statale
   Per Sharabi, un'indagine statale sui fallimenti che hanno preceduto il massacro terroristico è una questione di moralità. È necessaria. “E se dovessero scoprire che la colpa è mia, dovrebbero comunque istituire una commissione”, ha scherzato. Non si tratta di destra o sinistra, ma di andare dritti per la propria strada. Non è una questione di politica: “Hanno chiesto ai Bibas quale sia la loro politica?”.
È così che l'ex ostaggio percepisce Israele: “Sono tornato in uno Stato che è in uno stato di trauma”.
Nonostante tutto quello che ha passato, Eli Sharabi è certo che un giorno sarà felice: “Ho già dei momenti felici”, ha detto. E “Non sono arrabbiato”. È un uomo fortunato: ha potuto vivere 30 anni con Lianne, si è goduto le sue figlie, non è stato ucciso ed è tornato dall'altra famiglia dopo 16 mesi.

(Israelnetz, 1 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Meno ebrei americani pregano regolarmente

Lo rivela un nuovo sondaggio

Il Pew Research Center ha condotto un'indagine sulla religione negli Stati Uniti. I risultati rivelano che la percentuale di ebrei americani che pregano regolarmente è diminuita notevolmente negli ultimi dieci anni. 
I numeri sono impressionanti: nel 2014, il 45% degli adulti ebrei ha descritto la propria frequenza di preghiera come “raramente/mai”, e nel 2023 e nel 2024, questa percentuale è aumentata al 58%. Lo studio rivela anche un declino dell'importanza della religione nella vita degli ebrei americani in generale.
Rispetto ad altre comunità religiose, la percentuale di ebrei americani che pregano poco è notevolmente più alta: tra i musulmani americani la percentuale è del 18% e tra i cristiani evangelici è del 7%.
Inoltre, il rapporto ha rilevato che il 31% degli ebrei americani si identifica come repubblicano o simpatizza per il partito, una cifra in linea con i sondaggi condotti dopo le elezioni presidenziali del 2024.

(Autora, 1 marzo 2025)

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Hamas non può essere “gestito”, dice l'IDF nel suo primo rapporto dopo il 7 ottobre

La gestione dei conflitti non funziona contro un nemico impegnato a distruggerti, afferma l'esercito israeliano in un messaggio al governo.

di Ryan Jones

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Distruzione da parte dei terroristi di Hamas nel Kibbutz Nahal Oz, 20 ottobre 2023

Il gioco delle colpe dopo il 7 ottobre è ufficialmente iniziato dopo che le indagini interne dell'IDF sull'invasione di Hamas sono state parzialmente rese pubbliche. Le indagini dovevano concentrarsi sui fallimenti operativi, ma il rapporto prende di mira anche la leadership politica del Paese e le sue politiche fallimentari.
È importante sottolineare che in questo Shabbat nero, l'intero sistema ha fallito - politicamente, militarmente, a livello di intelligence, nella risposta iniziale - tutto. Quindi nessuna delle accuse mosse è falsa. Anzi, la colpa è in parte di tutti.
Nelle loro conclusioni, i vertici dell'IDF si sono assunti la responsabilità dell'incapacità di difendere il Paese dall'invasione, ma hanno sottolineato che il problema di fondo è iniziato più in alto nella catena di comando.
Lo Stato di Israele ha optato per una politica di “gestione del conflitto” nei confronti di Hamas, il cui scopo era quello di preservare e migliorare la realtà esistente. I metodi operativi militari sono derivati da questo”, si legge nel rapporto dell'IDF.
“È sbagliato 'gestire' un conflitto con un nemico il cui obiettivo è la tua distruzione“, conclude l'indagine militare di alto livello, osservando che i terroristi di Hamas ‘hanno usato la politica di ’gestione del conflitto' di Israele per portare avanti un piano organizzato per un attacco su larga scala”.
Il rapporto si concentra su quattro temi principali:

  • L'evoluzione delle “percezioni” dell'IDF sulla Striscia di Gaza tra il 2018 e il 7 ottobre 2023;
  • I processi di intelligence e decisionali alla vigilia dell'attacco.
  • I combattimenti nei primi giorni di guerra;
  • “Punti focali aggiuntivi”

Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato giovedì sera di aver ordinato di presentare tutti i risultati al primo ministro Benjamin Netanyahu “e di prepararsi a presentare in dettaglio qualsiasi indagine ritenuta necessaria”.

Avvertimenti ignorati
  L'indagine sulle ore che hanno preceduto il massacro ha rilevato che i primi segnali di un'imminente invasione sono stati rilevati intorno alle 21:00 - circa nove ore e mezza prima che i palestinesi attaccassero.
I segnali di allarme comprendevano i preparativi per il lancio di razzi, l'ingresso di combattenti nei tunnel e l'attivazione di decine di carte SIM israeliane all'interno della Striscia di Gaza.
Gli uffici di Netanyahu e dell'allora ministro della Difesa israeliano Joav Galant furono informati degli sviluppi durante la notte, ma i politici non furono svegliati dai loro segretari militari.
Dopo l'inizio dell'attacco alle 6:29 del giorno successivo - di Shabbat e della festività ebraica di Simchat Torah - circa 5.500 terroristi sono entrati in territorio israeliano attraverso 114 brecce nella barriera di sicurezza, sette barche e sei parapendii, secondo l'IDF. I terroristi guidati da Hamas hanno violato il confine sotto la copertura di 3.889 razzi e 57 droni.
L'esercito riconosce ora che Hamas stava gradualmente preparando piani dal 2016 per “violare le difese della divisione di Gaza”. Ma quando la Divisione di intelligence militare ha ottenuto i piani di attacco di Hamas, soprannominati “Muro di Gerico” nel 2022, sono stati liquidati come irrealistici.

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Si spera che Israele abbia imparato a non sottovalutare mai la minaccia dei suoi nemici.

Nel 2016, l'allora ministro della Difesa Avigdor Liberman presentò al gabinetto un avvertimento dettagliato sul fatto che un giorno Hamas avrebbe invaso il sud di Israele in gran numero, invaso le città israeliane e ucciso e rapito numerosi civili.
Liberman raccomandò un attacco preventivo a sorpresa contro Hamas per distruggere la sua capacità di danneggiare seriamente Israele e i suoi cittadini. Ma Netanyahu, l'allora Capo di Stato Maggiore dell'IDF Gadi Eisenkot e altri alti funzionari della sicurezza insistettero sul fatto che Hamas era stato sufficientemente scoraggiato. Hanno detto che Liberman, che non è un militare, ha sopravvalutato il pericolo e che la sua valutazione non è realistica.

“Uno scenario realistico che può essere realizzato”
   Nel 2021, la leadership israeliana - sia politica che militare - ha ripetuto lo stesso errore di valutazione. Dopo l'operazione “Guardians of the Walls”, durata undici giorni, contro Hamas nel maggio dello stesso anno, secondo il nuovo rapporto, l'opinione israeliana era che l'organizzazione terroristica avesse subito perdite significative e fosse stata efficacemente dissuasa da azioni importanti.
Un anno dopo, il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh ha scritto al capo militare di Hamas Yahya Sinwar nella Striscia di Gaza: “Durante un incontro con [l'ex leader di Hezbollah Hassan] Nasrallah, abbiamo rivisto il percorso strategico”. La lettera si concludeva con le parole: “Questo è uno scenario realistico che può essere realizzato: la distruzione di Israele”.
Secondo il rapporto, il capo di Stato Maggiore dell'IDF, il tenente generale Herzi Halevi, non era stato informato del piano del “Muro di Gerico” e ne è venuto a conoscenza solo due settimane dopo l'inizio della guerra.
“La responsabilità è mia. Ero il comandante dell'esercito il 7 ottobre, e ho anche la piena responsabilità per tutti voi”, ha detto il capo di stato maggiore, che si è assunto la responsabilità dei fallimenti militari e intende dimettersi a marzo, in una dichiarazione rilasciata dall'IDF giovedì sera.
“Penso che un'organizzazione e una persona che non sono in grado di guardare dritto negli occhi un fallimento avranno grandi difficoltà a risolverlo”, ha continuato Halevi. “Dal 7 ottobre 2023, Simchat Torah, ho preso l'abitudine di affrontare il fallimento ogni giorno, più volte al giorno”.
Halevi ha continuato: “Abbiamo soldati che hanno combattuto eroicamente - abbiamo sentito le loro voci alla radio durante le indagini. Abbiamo osservatori donna che hanno riferito con professionalità e calma fino all'ultimo momento. Abbiamo comandanti che hanno preso decisioni drammatiche - dopo aver combattuto, dopo essere stati feriti - per andare in un'altra battaglia e salvare la situazione. Abbiamo alti dirigenti dell'IDF, alcuni dei quali sono seduti qui, che hanno preso le armi e sono andati in battaglia”.
Ha concluso dicendo: “Questo è l'IDF”.
Durante l'attacco del 7 ottobre, i terroristi di Hamas e i “civili” gazani non affiliati non solo hanno ucciso 1.200 persone, ma ne hanno ferite altre migliaia e hanno rapito 251 persone a Gaza, 58 delle quali rimangono in cattività dopo 510 giorni.

(Israel Heute, 1 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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