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MILANO - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la conclusione di un importante accordo fra il suo governo e un consorzio che comprende l'americana Noble Energy sullo sfruttamento di riserve israeliane di gas naturale nel Mediterraneo. "Questo accordo portera' centinaia di miliardi di shekels (1 shekel =0,26 dollari) agli israeliani nei prossimi anni", ha detto Netanyahu in una breve dichiarazione, "il gas che arrivera' in Israele contribuira' anche a ridurre in modo considerevole il costo della vita".
(Il Sole 24 Ore Radiocor, 13 agosto 2015)
di Paolo Conti
ROMA - Non è un'incomprensione. In italiano si chiama rottura dei rapporti. Tra il Rabbino capo della comunità ebraica romana, Rav Riccardo Di Segni, e il sindaco Ignazio Marino c'è solo silenzio. E fortissima irritazione dagli uffici di lungotevere dei Cenci, dov'è la Sinagoga.
Motivo? I venditori ambulanti di ricordi religiosi (non bevande né bibite né panini, per intenderci), per tradizione secolare appannaggio di un centinaio di famiglie ebree. In campagna elettorale, nel 2013, Marino promise proprio al Rabbino di tutelarli. Poi a maggio 2015 comincia la vicenda dei camion bar, del trasloco dal Colosseo, dove da decenni lavorano gli urtisti. A giugno le parti si incontrano. Marino chiede alla Comunità di traslocare con i camion bar il 10 luglio, con soste alternative a San Gregorio, e promette un rientro al Colosseo entro il 25 per 12 postazioni riconoscendo la «diversità» rispetto ai camion bar. Promessa ripetuta dagli assessori Pucci e Leonori davanti al prefetto Gabrielli ai primi di luglio. Il 15 luglio Marino annuncia uno slittamento ai primi di agosto. La presidente della Comunità,
Ruth Dureghello, contatta Pucci che avverte: niente rientro prima del 22 ottobre, occorre attendere il merito della sentenza del Tar. Dureghello insorge: e la promessa del sindaco? Venerdì 7 agosto alle 14 riunione in prefettura con i vertici della Comunità ebraica (c'è anche l'ex presidente Riccardo Pacifici), il prefetto Gabrielli - che media - e gli assessori Leonori e Pucci. Si arriva a un'intesa: 12 urtisti al Colosseo lunedì 10 agosto. Alle 19 gli assessori chiamano Dureghello: impossibile, non se ne fa niente. Domenica 9 Di Segni lascia un messaggio di fuoco al sindaco che promette un appuntamento. Lunedì 10 la segreteria di Marino fa sapere che rivedrà il Rabbino «a settembre». In Comunità si parla di «grave offesa»: Di Segni è un capo religioso ....
(Corriere della Sera - Roma, 13 agosto 2015)
di Mauro Zanon
PARIGI - A un annodi distanza dagli incidenti di Barbès e di Sarcelles, nella banlieue parigina, e dal divieto che ne era scaturito, per decisione del premier Valls, di organizzare manifestazioni pro Palestina per i boulevard di Parigi, la Francia, dove vivono le più grandi comunità ebraiche e musulmane d'Europa, prova ancora sulla sua pelle gli echi nefasti di quanto sta accadendo sulla striscia di Gaza. L'oggetto della polemica è la giornata "Tel-Aviv sur Seine", organizzata dal sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, in omaggio alla dinamica e cosmopolita capitale israeliana. L'evento, che si terrà oggi nel quadro del consueto appuntamento estivo Paris Plages, durante il quale le sponde della Senna vengono trasformate in spiagge artificiali, era stato programmato mesi fa dal comune di Parigi, ma la vicinanza temporale con la morte di un bambino palestinese in un incendio provocato da alcuni terroristi israeliani, ha infuocato gli animi dell'ultrasinistra francese e delle associazioni pro Palestina che non hanno esitato a parlare di «inaccettabile provocazione» e di «scelta indecente» del sindaco socialista.
«Chiediamo l'annullamento della giornata "Tel-Aviv sur Seine" a favore di un'iniziativa della città che contribuisca alla pace giusta e duratura tra palestinesi e israeliani», hanno scritto in un comunicato gli eletti comunisti (Pci). Il consigliere comunale del partito ecologista, Jérôme Gleizes, ha anch'egli fustigato l'operazione: «Ci vuole decenza e rispetto per i morti», ha detto Gleizes, alludendo ai recenti attacchi terroristici perpetrati in Israele da estremisti ebrei. Il vicesindaco Bruno Juillard si è detto costernato per le «critiche sproporzionate» provenienti dagli «stessi che chiedono il boicotaggio totale di Israele», come l'association Europa-lestine, la quale ha lanciato un appello a manifestare durante tutta la giornata (oltre ad annunciare un'operazione di disturbo, battezzata "Paris Gaza", che si terrà tra il pont Noire-Dame e il pont au Change), se nel frattempo non verrà dembricata «questa propaganda scandalosa per lo Stato terrorista di Israele». Ma l'evento si terrà, come ha confermato Anne Hidalgo a Le Monde, difendendosi dagli attacchi di coloro che la accusano di fare propaganda al governo di Israele, e incassando ieri, dopo che per giorni era stato silenzioso, la solidarietà dell'esecutivo. «Totale sostegno al Comune di Parigi e a #TelAvivsurSeine. Finiamola con questa ondata di sciocchezze», ha twittato il primo ministro Valls.
Ma al di là delle divergenze di fondo, resta alto il timore per nuovi incidenti. Per questo, si è deciso di dispiegare altri trecento agenti, al fine di rafforzare il dispositivo di sicurezza. «È giudizioso mantenere questo tipo di eventi, visto quanto è succeso a Sarcelles lo scorso anno?», si chiede un sindacalista interno alla Crs (la polizia antisommossa francese), mentre la prefettura avverte che la minaccia di nuovi scontri, come durante le manifestazioni filo palestinesi, poi degenerate, dell'estate scorsa, «è presa molto sul serio».
(Libero, 13 agosto 2015)
Per una certa sinistra ogni occasione è buona per manifestare quello che è livore contro Israele mascherato da amore verso i palestinesi. M.C.
GERUSALEMME - Il connubio tra moda e sport specie al femminile è una formula oramai consolidata. Non sorprende più di tanto quindi che una schermitrice israeliana difenda i colori del proprio Paese anche in un'altra competizione meno pratica più estetica, quale Miss Universo 2015.
Avigail Alfatov è campionessa israeliana di scherma ma, come spesso gli accade, toglierà maschera e armi per indossare gli abiti più succinti di un concorso di bellezza rappresentando Israele a Miss Universo 2015.
La bionda 18enne di Acre è un soldato dell'Aeronautica militare dello stato ebraico ed ha un sogno: rappresentare Isreale alle Olimpiadi di Tokyo 2020 magari centrando una medaglia. Per adesso si accontenterebbe di una fascia, quella di Miss Universo.
(tio.ch, 13 agosto 2015)
- La polizia israeliana ha arrestato oggi Bentzi Gopstein, il leader dell'organizzazione Lehava che aveva giustificato il rogo della chiesa della Moltiplicazione dei pani a Tagba. Lo riferisce il «Jerusalem Post», ricordando che pochi giorni fa la Custodia di Terra santa aveva scritto al procuratore generale d'Israele, Yehuda Weinstein, per denunciare l'atteggiamento di Gopstein, sottolineando che le sue parole «mettono le chiese e le comunità cristiane in chiaro pericolo».
Secondo quanto riferiscono fonti della stampa locale, l'estremista aveva dichiarato mercoledì scorso, durante un incontro con alcuni studenti di una scuola religiosa di Gerusalemme, che «bruciare l'idolatria» è una pratica ebraica legittima, sancita dal teologo medioevale Maimonide. Gopstein era già stato arrestato nel dicembre scorso assieme ad altri sedici membri del suo gruppo, dopo un attacco incendiario all'unica scuola israelopalestinese di Gerusalemme.
Su posizioni anticristiane e antiarabe, il gruppo Lehava si riferisce in particolare alle idee del rabbino Meir Kahane, che fu assassinato a New York nel 1990 dopo che il suo partito Kach era stato messo fuori legge in Israele. E in queste ultime settimane Lehava, così come molte altre formazioni politiche legate alle frange più estreme del movimento dei coloni, sono finite nel mirino dello Shin Bet (l'intelligence interna) e delle forze dell'ordine israeliane in seguito alle recenti violenze in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Dopo l'attacco incendiario dei coloni a una casa palestinese vicino Nablus, costato la vita a un bambino di diciotto mesi e a suo padre, il Governo Netanyahu ha deciso una stretta nei confronti del terrorismo ebraico.
(L'Osservatore Romano, 13 agosto 2015)
di Emanuele Vena
Un documento - firmato da Majdi Al-Khaldi, consigliere diplomatico del presidente Abu Mazen - in cui si chiedono 4 milioni di dollari al Bahrein per finanziare un complesso residenziale di lusso per i funzionari governativi palestinesi. O, ancora, un atto che dimostra le richieste avanzate da Nazmi Muhanna - direttore generale dell'autorità che sorveglia la frontiera con Israele - di sovvenzioni pubbliche per l'istruzione della figlia e l'assistenza medica della famiglia. Sono gli ultimi esempi, resi pubblici dall'Associated Press, che riportano alla luce la piaga della corruzione nella politica - e, nello specifico, nel governo - della Palestina.
La diffusione dei documenti ha provocato l'indignazione del popolo palestinese, espressa a gran voce in particolar modo tramite i social media. Del resto, per buona parte della popolazione Abu Mazen è colpevole di aver ritardato per fin troppo tempo la proclamazione di nuove elezioni - l'ultima tornata elettorale risale al lontano 2005 - con tutto ciò che ne concerne, a partire dallo scarso livello di controllo della presentabilità morale dei suoi fedelissimi di governo, nonostante riforme a lungo promesse ma ad oggi disattese.
Gli osservatori dichiarano che il livello di corruzione è più basso rispetto al periodo antecedente la morte di Yasser Arafat. Ma Amzi Shoab, capo di Aman - associazione che fa riferimento a Transparency International, l'organizzazione internazionale che porta avanti la lotta alla corruzione su scala globale - segnala ancora l'esistenza di "grandi buchi neri" diventati "regni privati di alcuni funzionari pubblici", a partire dal "sistema finanziario ed amministrativo", da riformare in maniera urgente. Del resto, l'ultimo Barometro diffuso dalla stessa Transparency International nel 2013 non dipingeva un quadro propriamente roseo, con appena un palestinese su 4 che considerava la corruzione in calo e con il 42% degli intervistati che considerava i partiti politici del Paese come corrotti o estremamente corrotti.
La stessa Transparency nel 2014 ha denunciato una grave situazione a seguito dell'offensiva portata da Israele a Gaza, che aveva provocato seri danni sul piano logistico all'attività portata avanti dall'organizzazione. Quali sono le cifre della cattiva gestione? Secondo un rapporto della Corte dei Conti dell'Unione Europea, tra il 2008 ed il 2012 sarebbero andati dispersi oltre 3 miliardi di dollari di aiuti esteri alla Palestina. Mentre la Banca Mondiale nel 2010 parlava dell'esistenza di oltre 13 mila impiegati statali "fantasma". Una situazione destinata a perdurare, almeno fintantoché non cesserà lo stallo parlamentare creato dal conflitto tra Hamas e Fatah, dalla cui risoluzione passa, tra le altre cose, anche la creazione di un serio meccanismo di controllo delle assunzioni pubbliche e di una corruzione e nepotismo arrivati ormai a livelli ormai endemici.
(International Business Times, 12 agosto 2015)
Il mandato presidenziale di Abu Mazen è scaduto il 9 gennaio 2009. Nessuno in Occidente se ne preoccupa. Che cosa sarebbe successo se Netanyahu avesse tentato qualcosa di simile in Israele?
di Edna Angelica Calò Livne
Kibbutz Sasa
Sasa è ancora un kibbutz comunitario. Tutti i beni sono in comune e non è facile prendere una decisione che soddisfi tutti i haverim [membri, ndr]. Ma il tradizionale viaggio dell'estate, che facciamo da quattro anni, ha il potere di unire tutti i cuori e rendere tutti più sereni e comunicativi. Quest'anno si è deciso per il Marocco. Sono rimasta stordita dai colori, dagli odori, dalle sorprese che ci attendevano senza posa da una città all'altra, da un quartiere ebraico all'altro. E' stato come aprire un libro e tuffarsi in un bagno d'oro di Talmud Torah, di magie kabbalistiche, di storie di coraggio e di dolore. La prima tappa è stata Meknes, alla scuola ebraica fondata nel 1915 e ora abbandonata. Pochi ebrei anziani continuano a vegliare sulla sala di studio che è anche Beth haKnesset [Sinagoga, ndr].
C'erano 650mila ebrei in Marocco. La comunità ebraica era la più grande e la più importante dei paesi islamici. In passato gli ebrei vivevano principalmente nelle città costiere dell'est e del nord Africa ed erano in prevalenza commercianti.
Agli inizi dell'ottavo secolo inizia il dominio musulmano. Gli ebrei incontrano periodi di prosperità ma anche di persecuzione economica e culturale. Dopo l'espulsione dalla Spagna, nel 1492, molti ebrei si rifugiano in Marocco e iniziano a coprire ruoli significativi nella gestione del commercio estero e nella diplomazia del regno. Con gli anni la comunità si rafforza. Con il protettorato della Francia nel 1912 gli ebrei godono di una maggiore sicurezza e la situazione sociale ed economica migliora. La comunità si trasforma in un centro di creatività culturale, fioriscono la letteratura e la poesia scritte in ebraico da generazioni di studiosi ebrei. Il patrimonio sefardita medievale si integra nella cultura degli ebrei marocchini e nasce una tradizione - ove si fondono suoni, lingue, sentenze halakhiche e arte. Nel corso dei secoli la comunità ebraica mantiene un forte legame con Israele: "Beshana HaBaa biYrushalaim" - "L'anno prossimo a Gerusalemme". I primi segni di attività sionistica appaiono agli inizi del ventesimo secolo: i pogrom contro gli ebrei spingono intere famiglie ad abbandonare tutto da un giorno all'altro per seguire gli inviati dell'Agenzia Ebraica e del Mossad. Molti mandano solo i bambini per salvarli dalla violenza antisemita. I kibbutzim e i moshavim li accolgono a braccia aperte, ma non è facile dimenticare i cibi, la lingua, le tradizioni della mamma e abituarsi a un paese che sta cercando una sua identità lontano dallo shtetl e dalle persecuzioni, che vede nella religione la valvola che scatena l'antisemitismo. Dopo la creazione dello Stato di Israele, fino al 1967, arrivano dal Marocco più di 250mila ebrei, gli altri emigrano in Europa, in particolare in Francia e nel Nord America. Oggi, in tutto il Marocco, ci sono a malapena 2.500 ebrei.
Il quartiere ebraico si chiama Melakh, dalla parola "sale" con cui si barattava anticamente. Giriamo per i vicoli angusti. Sugli stipiti si può ancora vedere la fessura nella quale era incastonata la mezuzà. L'emozione appare persino sul volto dei più scettici tra i haverim di Sasa. Ci spostiamo da Meknes a Fez. Anche lì passeggiamo tra le mura del ghetto dove gli ebrei convissero con i musulmani con molte restrizioni: non potevano cavalcare cavalli o muli, né portare calzature all'esterno del Melakh. Ebbero il permesso di costruire sinagoghe e cimiteri e, quando emigrarono in massa, abbandonando case e beni, i musulmani occuparono le loro abitazioni, i negozi e i depositi di ogni mercanzia. Nel Beit Alamin, il cimitero ebraico, mi immergo nelle storie di Lala Sulika, la fanciulla che si negò al Gran Visir e fu barbaramente uccisa. Cammino in silenzio tra le tombe dei rabbini, Zaddikim, i Giusti che sapevano leggere e scrivere e avevano la forza di crear miracoli.
Nakkash era la famiglia che lavorava il ferro battuto e altre famiglie lavoravano l'oro e l'argento. Storie che fanno parte ormai della nostra memoria collettiva. Noi ebrei saggi, commercianti, medici o consiglieri alla corte del re. Noi ebrei che da un giorno all'altro siamo perseguitati, scacciati, depauperati di tutto. Nel 1960 il presidente egiziano Nasser accende la miccia dei pogrom. Visita re Hassan II per incorporare il Marocco nel suo disegno del grande Islam. Re Hassan II non ha nulla contro gli ebrei, anzi. Nasser crea allora il movimento Istiklal e i pogrom hanno inizio. Gli agenti del Mossad arrivano da Israele e entrano in ogni casa ebraica per salvare più gente possibile e condurla in Israele. Piccole navi di pescatori che trasportano bambini e famiglie partono di nascosto da Ifran, vicino a Tangeri, davanti allo Stretto di Gibilterra.
Non hanno nulla addosso, non hanno fatto in tempo a vendere né a prendere nulla ... come a Pesach, in Egitto, come a Tripoli, come a Vilna, come a Roma, il 16 ottobre del '43. E in Israele li accolgono. C'è bisogno di braccia per lavorare, coltivare, star di guardia sui confini. L'11gennaio del 1961 una nave dei pescatori con 44 viaggiatori che lasciano illegalmente il Marocco per raggiungere Israele affonda. L'attività del Mossad viene scoperta e si interrompe. Il 17 di Tevet siamo a Marrakech e io sono a digiuno, in ricordo dell'assedio di Gerusalemme. Entriamo nella sinagoga AlAzma, fondata nel 1492 dagli espulsi dalla Spagna. Mentre, davanti all'Aron Hakodesh, recito una preghiera, rifletto sul fatto che i miei avi, i Kalonimos, quando furono costretti a lasciare la Spagna se ne andarono in Italia ... Yehuda scorge uno shofar su un tavolo e suona. Tutto intorno si fa silenzio. La sinagoga è tutta azzurra. Come il mare quando ci si specchia il cielo. Arriviamo a Casablanca. I giorni sono quelli del Ramadan. Tutto si mescola insieme, l'odore del curcum, le luci che si riflettono dai lampadari di rame traforati, le piastrelle azzurre dei palazzi di Alhambra, le danze, i tamburi, i lavoratori di pelli, di tappeti, di stoffe, l'olio di Argan, il sole cocente e 47 gradi, le palme.
Una settimana vola e sono di nuovo in Israele, in Galilea.
A casa mia.
(pagine ebraiche, agosto 2015)
CASALE MONFERRATO La mostra "I Lumi di Chanukkah" (catalogo Skira), iniziativa di livello mondiale promossa dalla Città, d'intesa con la Fondazione Arte, Storia e Cultura Ebraica, e con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività culturali, è stata inaugurata a Casale Monferrato domenica 10 Maggio 2015 ed ha avuto già nei primi tre mesi quasi settemila visitatori (pur essendo aperta solo nei fine settimana), tra i quali il Presidente Prodi, la presidente della Commissione Cultura della Camera on. Nardelli, Don Ciotti e l'addetto culturale dell'Ambasciata di Israele in Italia.
L'evento è di grandissimo rilievo socio-culturale e valorizza un elemento fondamentale della storia della Città, quale l'esistenza della Comunità ebraica e di una Sinagoga che gode di prestigio e riconoscimenti a livello mondiale. La Fondazione Arte, Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale Onlus possiede la raccolta di oltre centosessanta Chanokkiot, candelabri a nove braccia legati alla Festa ebraica di Chanukka, realizzati da artisti contemporanei di fama mondiale (Pomodoro, Nespolo, Luzzati, Topor, Paladino e molti altri), donati alla Fondazione dal 1994 a oggi. La collezione, per motivi di spazio, non aveva trovato negli anni sale espositive idonee all'interno del complesso ebraico e fino ad ora era stata esposta solo parzialmente nella sezione detta "Museo dei lumi"; dopo l'allestimento integrale in prima assoluta di questa collezione unica al mondo, si stanno già programmando prossime esposizioni in Italia e all'estero, a partire da Gerusalemme.
La mostra costituisce il principale evento di un vero e proprio Padiglione di Casale e del Monferrato, allestito in una sede di grande prestigio quale la Fortezza dei Paleologi, cuore della Città. Il Castello ospita infatti alcune mostre ed iniziative legate al tema "Nutrire il Pianeta", offrendosi ai visitatori come porta di accesso al patrimonio materiale e immateriale di Casale e del "Monferrato degli Infernot", rientrante nel 50o sito UNESCO italiano.
Dopo il periodo estivo, l'evento tornerà sotto i riflettori in occasione della Giornata europea della Cultura ebraica (6 settembre), che quest'anno ha come tema i "ponti di cultura": una definizione che sembra scritta proprio per i lumi casalesi. Ogni candelabro infatti è di per sé un ponte: fra l'artista e il pubblico, fra identità religiose differenti, fra la storia e il futuro. Nella religione ebraica, infatti, il divieto alla rappresentazione figurativa sacra è assoluto; così, l'oggetto rituale del candelabro è stato elevato a simbolo del mondo ebraico in più occasioni e questa collezione rappresenta quindi un importante elemento nel dibattito ebraico sui simboli, sulle forme e sull'estetica identitaria contemporanea.
Proprio per questo il 6 settembre inizierà un ciclo di visite guidate gratuite con appuntamenti ogni giorno di apertura, eventi frontali di presentazione della collezione e approfondimento su temi specifici quali, ad esempio: il vino del Mondo ebraico, le relazioni fra il Mondo ebraico casalese e altre importanti città d'arte, incontri con gli artisti. Il calendario è in fase di definizione ma il public program del fine settimana in questione è già definito:
INFO:
Castello del Monferrato (Piazza Castello, Casale Monferrato)
fino al 1 novembre 2015
Catalogo Skira
Orari di visita: venerdì, sabato, domenica dalle ore 10,00 alle ore 19,00 (ingresso gratuito)
tel. 0142.444293/336 - cell. 349.1785601
(Il Monferrato, 13 agosto 2015)
di Roberto Santoro
Non si era mai visto che la designazione di un ambasciatore scatenasse tante polemiche. Lasciamo stare i republicones che inzuppano nelle reazioni dentro la comunità ebraica alla nomina di Fiamma Nirenstein, accennando solo di sfuggita ai residui della recente e accesa competizione elettorale per il rinnovo del Consiglio romano, che ha visto proprio la Nirenstein arrivare seconda, impedendo, insieme ad altri candidati, che Ruth Dureghello, sostenuta da Riccardo Pacifici, vincesse con la maggioranza assoluta. Del resto la comunità ebraica non è un monolite, non è compatta, visto che storicamente, per decenni, è stata vicina alla sinistra e che solo da pochi anni c'è stato un riequilibrio con la gestione dello stesso Pacifici.
Detto ciò per amor di chiarezza, c'interessa di più segnalare i soliti noti, quelli che hanno aperto una pagina fan su Facebook contro la designazione della Nirenstein (13 mi piace), per non dire della petizione a Renzi su Change.org ("No a Fiamma Nirenstein ambasciatore"), segnali di un fastidio, chiamiamolo così, verso una donna che ha sempre difeso a viso aperto Israele. Una persona dal curriculum indiscutibile, nominata presidente dell'International Council of Jewish Parlamentarians, una grande organizzazione che raccoglie i parlamentari di tutto il mondo e di tutti gli schieramenti politici, e che con la sua associazione, Summit, ha stretto relazioni e contatti con altrettante figure di spessore e rilevanza internazionale.
La verità è che dietro quei NO alla Nirenstein c'è il solito sentimento anti-israeliano, una precisa ostilità, perché diciamocelo, oggi tutti, anche la sinistra, sanno che la questione ebraica tende a coincidere con quella dell'esistenza di Israele, e che dietro "l'antisionismo" rivendicato da tanti anche nel nostro Paese si nascondono ben altri rigurgiti. Eppure proprio l'Italia sul riconoscimento dello Stato di Palestina ha mantenuto una posizione equilibrata, a differenza di un'Europa mai così schierata con i palestinesi, e di un'America, quella di Obama, che appare sempre più lontana dalla "relazione speciale" con Gerusalemme (vedi i messaggi all'AIPAC).
Per cui se, come viene rilevato, è anomalo che Netanyahu abbia indicato con così largo anticipo la designazione, molto più anomala è la posizione nella quale oggi si trova il primo ministro israeliano, tra Europa e Usa, tanto da credere che "Bibi" l'abbia davvero voluto lanciare, un segnale.
(l'Occidentale, 12 agosto 2015)
PARIGI - Parigi in stato d'allerta per quella che doveva essere una semplice giornata in omaggio allo spirito festoso e cosmopolita di Tel Aviv, ma che si sta via via trasformato in una nuova diatriba potenzialmente esplosiva sulle rive della Senna. Per ora, le rivolte contro
'Tel-Aviv-Sur-Seine', l'evento di dodici ore in omaggio alla metropoli israeliana previsto per giovedì tra le sdraio e gli ombrelloni di 'Paris-Plage' - la rassegna estiva in programma come ogni agosto tra Notre Dame e il Pont Neuf - si sono limitate a web, tv e politici locali. Ma sono in molti a temere scontri e proteste anche nei pressi della battigia. "Prendiamo la minaccia molto sul serio", avverte la Prefecture de Police.
A Parigi sono ancora vive nella memoria le manifestazioni filo-palestinesi dell'estate scorsa dopo le incursioni israeliane a Gaza, diventate teatro di scontri con le forze dell'ordine, tra lancio di pietre, lacrimogeni e arresti nel nord della capitale e l'assalto alla sinagoga di Sarcelles. Per vegliare al sereno svolgimento dell'evento è stato deciso di dispiegare almeno quattro unità mobili, pari a oltre trecento agenti tra polizia e gendarmi, il doppio di quelli normalmente previsti per questo tipo di eventi.
L'idea nasce qualche mese fa, quando il sindaco, Anne Hidalgo, effettua il suo primo viaggio in Israele e nei Territori palestinesi. Di passaggio a Tel Aviv, la socialista di origini spagnole propone al comune israeliano - che ora saluta il suo "coraggio" - di rendere omaggio al dinamismo della cosiddetta 'città che non dorme mai', celebre in tutto il mondo per le sue spiagge e la sua movida, con una giornata speciale nel quadro di Paris-Plages. Non l'avesse mai fatto. A pochi giorni dall'uccisione di un bimbo palestinese arso vivo dai fondamentalisti ebrei in Cisgiordania, la rete si scatena contro quella che definisce una "inaccettabile provocazione".
"Un'indecenza totale", tuona Danielle Simmonet, esponente in municipio del Parti de Gauche, chiedendo, insieme agli ecologisti, di sospendere l'evento. Lo stesso reclama una petizione che sul web ha già superato le cinquemila firme.
Mentre alcune associazioni filo-palestinesi annunciano per domani una manifestazione di piazza se 'Tel Aviv sur-Seine' non verrà annullato nel frattempo. Su Le Monde, il sindaco conferma che il gemellaggio si terrà come previsto. Mandarlo a monte sarebbe "grottesco e controproducente", anche perché - avverte - la capitale economica di Israele è una città aperta a "tutte le minoranze", e proprio per questo "detestata da tutti gli intolleranti della stessa Israele". Per la giornata di giovedì, sulla battigia parigina, è dunque confermato, come previsto, l'arrivo di specialita' gastronomiche mediorientali, ma anche musica, dj set e uno speciale 'Tel-Aviv Beach Party' al calar del sole. Il tutto rigorosamente protetto da un muro di addetti alla sicurezza e forze dell'ordine. Proprio come in Israele.
(ANSAmed, 12 agosto 2015)
"Non posso obbligare i miei colleghi a votare dalla mia parte", dice Chuck Schumer, il prossimo leader democratico del Senato che ha schiaffeggiato Barack Obama ripudiando l'accordo nucleare con l'Iran. Non potrà obbligare, ma non si risparmierà certo nel tentativo di persuadere. La macchina del potente senatore di New York per convincere altri democratici a non votare l'accordo è già in moto. Uno degli argomenti più forti per quello che definisce "un voto di coscienza" consiste nel suggerire implicitamente che chiunque darà il suo voto favorevole è un antisemita e un nemico dello stato d'Israele. Tabloid come il New York Post cavalcano questa argomentazione in modo esplicito. Schumer vorrebbe che l'amministrazione tornasse al tavolo delle trattative per rinegoziare gli aspetti più fragili del patto, desiderio che gli è valso pure la stangata via Twitter dell'ex consigliere obamiano David Plouffe: "Ci mancherà Harry Reid", il leader del senato uscente. Una spicciola logica di calcolo dice che il migliore risultato politico per Schumer è che l'accordo venga infine approvato dal Congresso ma senza il suo voto; in questo momento però non può mostrarsi tiepido o arrendevole nel propagare la sua posizione. Perciò contrasta colpo su colpo la macchina progressista che lo dipinge come un guerrafondaio e un traditore del partito. Lunedì si è trovato un folto gruppo di attivisti che protestavano fuori dal suo ufficio a Manhattan, mentre John Kerry continuava ad elencare ai giornalisti gli effetti nefasti di un repentino voltafaccia degli Stati Uniti dal deal. Ma lui continua a muovere le sue divisioni.
(Il Foglio, 12 agosto 2015)
Yahoo! apre il suo primo acceleratore globale di startup. Ma anziché optare per la Silicon Valley, dove la web company ha sede, ha scelto Israele come location.
La decisione della società guidata da Marissa Mayer la dice lunga sui cambiamenti in atto nella geografia internazionale dell'innovazione: la California resta il posto ideale per creare nuove imprese ma alcune realtà emergenti, tra cui la cosiddetta Startup Nation, si candidano a insediare questo primato.
Yahoo! è già presente in Israele con centri di ricerca e sviluppo a Tel Aviv e Haifa. L'acceleratore si chiamerà SigmaLabs e sarà lanciato a Tel Aviv nel quartiere di Ramat Gan.
L'iniziativa nasce dalla collaborazione con il fondo anglo-israeliano di venture capital Entrée Capital. Il primo programma di accelerazione, aperto a un massimo di 5 startup in ambiti come big data, video, fintech e pubblicità innovativa, partirà il prossimo settembre.
Il progetto non si fermerà a Tel Aviv ma coinvolgerà, in futuro, anche città come Haifa e avrà tra i suoi protagonisti anche Microsoft che fornirà ai neoimprenditori strumenti cloud per un valore di 150 mila dollari. Tra le società partner ci saranno anche EMC, Aleph VC e Lool Ventures.
L'acceleratore sarà diretto da Eran Bielski di Entrée Capital e nel team di management ci saranno Linat Wager, responsabile per l'innovazione e le relazione con le startup a Yahoo! Israele, Yoelle Maarek, capo di Yahoo! Labs a Haifa e Ido Yablonka, capo di Yahoo! Tel Aviv. Yahoo! non parteciperà negli investimenti ma fornirà alle startup know-how ed esperienza.
(EconomyUp, 12 agosto 2015)
di Roberto Fabbri
Questa non è una vera intervista. Intanto perché intervistare una delle nostre più illustri «compagne di strada» - come lei ama definirsi - ha in sé qualcosa di incongruo: lei non ha bisogno di un'intervista per comparire sulle nostre pagine.
E poi perché da quando è stata designata dal premier Netanyahu prossima ambasciatrice di Israele in Italia, Fiamma Nirenstein è letteralmente sotto assedio e ancora un po' (piacevolmente, si capisce) frastornata al pensiero della nuova vita che l'attende. Così ha scambiato con noi qualche pensiero, e più che rispondere alle nostre domande ci ha trasmesso un po' dei suoi sentimenti attuali.
«È vero, in questo momento sono enormemente emozionata e mi sento umile e onorata al tempo stesso. Vengo da una famiglia ebraica di nonni polacchi e italiani, perseguitati e finiti in campo di concentramento: sono la nipote di Nedo Fiano che finì ad Auschwitz e per me Israele ha un senso molto forte. Rappresenta una grandissima vittoria dell'umanità intera contro il razzismo e la barbarie più stupidi e feroci. È un Paese che mantiene alta la bandiera dell'uguaglianza di tutti i suoi cittadini, nonostante l'assedio compatto e incredibile di chi ci è ostile».
- Tu sei anche italiana, però...
«Amo moltissimo Israele anche da italiana, e pur sapendo che dovrò rinunciare alla cittadinanza del Paese in cui sono nata. Sono orgogliosamente diventata una italkim , un'israeliana con cuore italiano e sono molto contenta di far parte di questa speciale comunità».
- Naturalmente rimani una giornalista.
«Lo sono e lo rimango fin nel profondo. L'idea di deporre la penna mi è estranea soprattutto perché conosco l'importanza del nostro lavoro. Raccontare la verità su Israele con voi "compagni di strada" prima alla Stampa e poi al Giornale è stata una ragione di vita. Penso che raccontare instancabilmente questa verità salvi Israele, ma non solo Israele, perché certi valori sono universali. Sono convinta che i miei articoli scritti in tanti anni abbiano dato un contributo importante».
- Ti lasci alle spalle anche un'esperienza parlamentare.
«Sono contenta di averla vissuta e posso dire con soddisfazione che l'Italia ha svolto e sta ancora svolgendo un ruolo positivo contro l'antisemitismo a livello europeo. Ma anche che ha combattuto contro l'incomprensibile ostilità nei confronti dello Stato d'Israele».
E così una giornalista nota per essere orgogliosamente schierata diventa una diplomatica...
«D'ora in avanti mi concentrerò per poter svolgere al meglio il mio nuovo compito. Il senso della verità, ecco: quello rimarrà il mio faro».
(il Giornale, 12 agosto 2015)
di Maurizio Molinari
Inizia al numero 9 di Rabin Boulevard il primo giorno di Fiamma Nirenstein dopo la designazione ad ambasciatrice a Roma da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Sono passate da poco le 10 e al ministero degli Esteri entra nelle vesti di diplomatico in pectore. «E l'inizio di una nuova fase della mia vita - dice, tradendo una certa emozione - nella quale mi guideranno, come sempre, l'amore per Israele e per l'Italia». Superata la soglia del dicastero guidato da Netanyahu, che è anche titolare degli Esteri, la aspettano gli incontri di presentazione con funzionari e commissioni che dovranno curare il processo di conferma della designazione così come i briefmg necessari in vista dell'arrivo a Roma, al momento in programma per l'estate 2016. «Corono il sogno di una vita ma questo è soprattutto il momento di studiare - dice - ci sono cose da apprendere, persone da conoscere, realtà da comprendere».
II passato
Dopo aver raccontato Israele come reporter, parlamentare e scrittrice italiana Nirenstein affronta la sfida della diplomazia partendo dalla sua identità: «Da quando sono immigrata nel 2013 faccio parte degli italkim, gli ebrei italiani che hanno scelto di vivere in Israele, e questo è un risultato anche per loro». Nel segno dell'eredita di personaggi come il romano Enzo Sereni, caduto con la divisa della Brigata Ebraica nella lotta contro i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, e di Guido de Angelis, l'agricoltore toscano che sviluppò nei kibbutz di Revivim nel deserto del Negev la coltivazione a goccia consentendo di far nascere fiori e pomodori fra le dune.
Se Avi Pazner, ex portavoce dei premier Shamir e Sharon nonché ex ambasciatore a Roma, parla di «designazione importante» è proprio per sottolineare il valore che ha nel cammino dell'integrazione degli «italkim», una componente del tessuto nazionale che ha colto molti successi nelle professioni ma finora ha avuto un ruolo limitato nella vita pubblica della nuova patria. All'uscita dal ministero, quando sono oramai le 15, Fiamma Nirenstein tiene a sottolineare che l'«ambasciatore in carica a Roma è ancora Naor Gilon» e che «da lui come dagli altri predecessori ho molto da apprendere».
La missione
E guarda ad una missione che ritiene cruciale per rafforzare i delicati rapporti fra Unione europea e Israele. Lo spiega così: «L'Italia è un'eccezione in Europa per l'impegno che la distingue contro l'antisemitismo e ciò è alla base di una relazione unica con Israele, in una cornice Ue invece più difficile, dove in altri Paesi la situazione è assai diversa». Ciò significa che «l'Italia è un modello per l'Europa» si «potrà fare molto assieme». E un linguaggio che «guarda al futuro» come ripete ricordando quanto detto dal premier Matteo Renzi nel recente intervento alla Knesset. «E stata una visita importante come importante è il contributo che Renzi oggi, e Berlusconi prima di lui, hanno dato alla creazione dell'eccezione italiana in Europa» sottolinea con la grinta che la distingue, parlando di «un legame privilegiato fra i due Paesi» che rivendica di aver contribuito a costruire nelle vesti di vicepresidente della commissione Esteri della Camera.
Gli scettici
C'è chi critica la sua designazione sui social network lamentando il rischio di ambiguità e sovrapposizioni fra identità italiana, ebraica e israeliana ma Fiamma Nirenstein parla una lingua diversa: «Amo entrambi i Paesi, sono e resto fiorentina come sono sempre stata sionista perché il sionismo è una conquista del genere umano contro la stagione delle persecuzioni a cui la mia famiglia ha pagato un prezzo alto».
Se Arrigo Levi, uno dei maestri del giornalismo italiano già volontario nella guerra di Indipendenza del 1948, ha scritto il libro «Un Paese non basta», Nirenstein porta tale convinzione alle estreme conseguenze: entrare da ambasciatrice nella sede di Via Mercati sentendosi protagonista «di due civiltà che hanno contribuito assieme, come nessun altra, a creare il nostro mondo».
(La Stampa, 12 agosto 2015)
di Marzio Fatucchi
«Ho il cuore pieno di gioia e di orgoglio, anche di orgoglio fiorentino. Oltre che di umiltà». Fiamma Nirenstein risponde da Gerusalemme. Sono passate solo 19 ore dalla notizia che sarà lei la prossima ambasciatrice di Israele in Italia. Lascerà la nazionalità italiana (ha doppia cittadinanza dal 2013), ma ancora se e quando entrerà in carica, non è dato saperlo. Così come non è possibile essere certi di quando la giornalista (La Stampa, Il Giornale, Panorama, tra gli altri) ed ex deputata Pdl sarà di nuovo nella sua città natale. Scelte, presenze e movimenti ora saranno programmati in base alle necessità del governo israeliano. Un percorso istituzionale e diplomatico che Nirenstein dovrà seguire fino alla nomina, con una data ancora da definire ma non immediata, pare. A Nirenstein sono arrivati i saluti e le congratulazioni di esponenti del governo come il toscano Cosimo Maria Ferri e Sandro Gozi, di membri dell'opposizione come la toscana Deborah Bergamini, ma anche di Maurizio Gasparri, Mara Carfagna di Forza Italia ma anche di Fabrizio Cicchitto di Ncd. Ora, in attesa dei passaggi formali, si attende di capire se Nirenstein sarà in Italia, e soprattutto a Firenze, a settembre. Perché c'è stato un altro riconoscimento, questa volta europeo, per la città e il legame con il mondo ebraico.
Il 6 settembre, a Firenze, si terrà infatti la Giornata Europea della Cultura Ebraica. E sarà un evento centrale per tutti i Paesi del continente, che dovrebbe vedere la partecipazione anche del premier Matteo Renzi. «Sì, ci ha confermato la presenza. A meno che la Merkel non lo chiami all'ultimo minuto ... » scherza la presidente della comunità fiorentina Sara Cividalli, orgogliosa due volte. «C'è un orgoglio fiorentino e felicità» per Nirenstein, spiega «anche se è una scelta di un altro Stato e queste scelte non si commentano. La notizia ci ha sorpresa, la scadenza dell'attuale ambasciatore è ad agosto 2016». E poi l'orgoglio della scelta del capoluogo come «sede» degli eventi centrali della Giornata. Di fatto, una manifestazione - direttore artistico Enrico Fink - che parte il 27 agosto e si concluderà a novembre, dedicata a «Ponti e attraversamenti»: «I ponti di Firenze sono i più belli del mondo, quelli che nascono - culturali e sociali - da qua anche». Ponti verso tutti, con alcune scelte come un incontro, presso la Comunità Islamica, dove parleranno di pace solamente le donne. «Non credo ci siano molti presidenti di comunità ebraiche che quando passano da un luogo di culto islamico, come a Firenze, vengono chiamati e invitati a salutare la comunità e i fedeli musulmani» racconta Cividalli.
Gli eventi organizzati per la Giornata della Cultura Ebraica partono il 27 agosto con una serie di incontri in Sinagoga, a Firenze, il concerto della Banda Improvvisa e poi un flash-mob dai ponti di Firenze alla Sinagoga. Fino a settembre, laboratori per bambini e visite guidate al «vecchio ghetto», distrutto durante la ricostruzione di Firenze Capitale. Poi presentazione di libri (tra cui quello di Guido Fink «Nel Segno di Proteo: da Shakespeare a Bassani», il 2 settembre, allo Stensen), altri incontri e concerti fino al 6 settembre quando, nei giardini della Sinagoga, dalla cucina alla letteratura, la cultura ebraica si aprirà alla città (e all'Europa) tra chef stellati come Moshe Basson, saggisti e scrittori come Riccardo Calimani, Gyorgy Konrad, Assaf Gavron e Giacoma Limentani e infine il concerto del gruppo israeliano-yemenita A-Wa. Tutte le info su www.ucei.it.
(Corriere Fiorentino, 12 agosto 2015)
Nel deserto del Negev Israele costruisce un impianto di energia solare da 121 MW che si incrementerà a 300 MW con torre alta 250 metri che sovrasta un'area di 3 km quadrati coperta da 50mila eliostati. I barbuti tagliatori di teste, distruttori di monumenti, opere d'arte, libri etc. vorrebbero distruggere un Occidente costruttore e ben più teso a opere di civiltà e benessere. I turbantati religiosi iraniani, poi, che acquistano tecnologia a caro prezzo, ritengono loro missione distruggere Israele! I vari circoli buonisti hanno qualche argomento serio da contrapporre?
GERUSALEMME - Un comitato interministeriale israeliano ha rivelato che l'imposizione di nuovi controlli governativi sul gas naturale prodotto nel giacimento offshore di Tamar (90 chilometri a ovest di Haifa) fisserebbe il prezzo di mercato a 3,70 dollari a unità, il 30 per cento in meno rispetto alla media. E' quanto ha pubblicato il quotidiano "Haaretz". Secondo il giornale israeliano le raccomandazioni del nuovo gruppo devono ancora essere presentate a causa dell'opposizione politica del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dell'ex ministro delle Finanze, Yair Lapid, e dell'ex ministro dell'Energia, Silvan Shalom.
(Agenzia Nova, 12 agosto 2015)
La Federazione Associazioni Italia-Israele accoglie con grande gioia la notizia della nomina di Fiamma Nirenstein all'incarico di ambasciatore in Italia. Ad un eccellente ambasciatore, qual è Naor Gilon, che ha recato un prezioso contribuito al rafforzamento dei rapporti tra i due Paesi, succederà dal 2016 una personalità di autorevolezza internazionale. Fiamma Nirenstein, donna coraggiosa e di carattere, forte della sua esperienza parlamentare, di dirigente della Comunità ebraica, di scrittrice e grande giornalista, saprà adempiere efficacemente al suo nuovo ruolo. Il premier Benjamin Netanyahu ha fatto la scelta giusta: Israele non potrebbe essere meglio rappresentata.
(Federazione Associazioni Italia-Israele, 11 agosto 2015)
ROMA - Fiamma Nirenstein designata nuovo ambasciatore d'Israele in Italia. A dare la notizia è stato lo stesso primo ministro Benyamin Netanyahu: «Sono convinto ha detto che Nirenstein avrà successo nel rendere più profonde le relazioni tra Israele e Italia, un Paese nostro stretto amico».
« E' stato lui stesso a propormelo una settimana fa» spiega la giornalista e scrittrice, 70 anni, ex parlamentare Pdl nella precedente legislatura e io gli ho detto "fammici pensare. Lui ha atteso e poi ho accettato la proposta. Sono contenta, orgogliosa, emozionata, rifletto sul compito che mi si prospetta, ma lo considero la prosecuzione naturale di quanto ho fatto nel mio lavoro. Israele è un Paese eroicamente democratico, benché circondato da tanta maldicenza e molte menzogne».
Quella di Fiamma Nirenstein che si dice pronta a rinunciare alla cittadinanza italiana: «Quando un ambasciatore rappresenta un Paese, non deve avere altri passaporti» è però soltanto una designazione: per la nomina occorre un parere positivo del comitato interno dell'esecutivo e poi del governo e, considerando che Netanyahu alla Knesset il parlamento di Israele ha un solo voto di maggioranza, il percorso sembra complesso.
Le reazioni a Roma non si sono fatte attendere: il rabbino capo della Capitale Riccardo Di Segni e il presidente della comunità ebraica Ruth Dureghello non commentano la designazione. Fabio Perugia, portavoce della stessa comunità, dice: «Ci attendiamo che Nirenstein venga a riferire al nostro Consiglio dov'è stata eletta due mesi fa». Alle elezioni di giugno la lista di cui era capolista, "Per Israele" aveva ottenuto il 22,95% dei voti, arrivando seconda dietro a "Israele siamo noi" guidata da Ruth Dureghello.
Secondo Haaretz, il principale quotidiano israeliano, il suo mandato avrà inizio nel 2016: a Roma sostituirà Naor Gilon. «È chiaro che dovrò rinunciare a molte cose, compresa la cittadinanza e il mio ruolo nella Comunità romana. Sono tornata in Israele da due ore dice l'ex parlamentaree certamente da domani inizieranno incontri e riflessioni». Nirenstein non vede contraddizioni tra l'esser stata parlamentare italiana e diventare poi ambasciatore israeliana nello stesso Paese: «Ho fatto la mia aliyah (il ritorno degli ebrei in terra d'Israele, ndr) dopo la fine del mio mandato parlamentare».
(la Repubblica, 11 agosto 2015)
È la fiorentina Fiamma Nirenstein il nuovo ambasciatore designato per Israele a Roma. Lo ha deciso il premier Benyamin Netanyahu che ha annunciato il nome dell'ex parlamentare italiano lunedì sera. «Sono convinto che Nirenstein ha detto il capo del governo avrà successo nel rendere più profonde le relazioni tra Israele e Italia, un Paese nostro stretto amico». «Sono onorata, commossa il primo commento di Nirenstein e penso che sia un grande onore che Israele mi concede come un seguito naturale di quella che è la battaglia di una vita».Il cambio della guardia con l'attuale ambasciatore, Naor Gilon, è previsto per il 2016.
L'impegno di una vita
Eletta alla Camera con il Pdl, Fiamma Nirenstein giornalista e scrittrice, figlia della giornalista Wanda Lattes e dello storico e scrittore Alberto Nirenstein è stata vicepresidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera nella XVI Legislatura. Autrice di reportage, commenti, storie, interviste, sui conflitti, le guerre, il terrorismo, ha raccontato da Gerusalemme dove vive dal 1994 le dinamiche fra le tre religioni monoteiste e sui segnali di pace, di democratizzazione e di conflitto nell'area intera. L'ultimo dei suoi dieci libri, «A Gerusalemme», è uscito nel 2012 per Rizzoli. Dal dicembre 2008, fa parte del Direttivo della Coalizione Interparlamentare per Combattere l'Antisemitismo (ICCA) mentre nel 2011 è stata eletta all'unanimità presidente del Consiglio Internazionale dei Parlamentari Ebrei, che riunisce i parlamentari ebrei da tutto il mondo. Nel giugno 2011 il quotidiano Jerusalem Post l'ha inserita nella lista dei «50 ebrei più influenti del mondo».
(Corriere Fiorentino, 11 agosto 2015)
La notizia probabilmente ha sorpreso molti. Si fa un po' fatica a immaginarsi l'impetuosa e volitiva toscana nelle paludate vesti di un diplomatico rappresentante di una nazione straniera, anche se da molti amata, come Israele. Le auguriamo di cuore di imparare presto il mestiere, perché di un altro mestiere davvero si tratta, rispetto a quelli di giornalista, scrittore o parlamentare. Quello che c'è di comune rispetto a prima, e che molti hanno ammirato in lei, è l'amore vero, attento e documentato per Israele. Dovrà esercitarlo in un modo diverso, molto diverso rispetto a prima, ma la speranza è che alla fine risulti ancora più produttivo di prima. Per alleggerire il peso che potrebbe sentire al pensiero della nuova responsabilità diplomatica che le si prospetta, e distendersi un poco nello spirito e nell'anima, proponiamo a lei, toscana, la lettura di un testo di disincantata saggezza romana:
La dipromazzia. Buon lavoro, Fiamma. M.C.
di Roberto Santoro
Il primo ministro Netanyahu ha indicato Fiamma Nirenstein, giornalista, scrittrice e politica, come nuovo ambasciatore dello Stato ebraico in Italia. Netanyahu si è detto convinto che la nomina «aiuterà a rafforzare i legami tra i due Paesi». Parole sante, almeno per noi che abbiamo ospitato spesso gli interventi di Fiamma sulle pagine dell'Occidentale e non abbiamo mai messo in discussione l'amicizia tra Italia e Israele. E' una mossa, quella di Netanyahu, verso un governo, quello italiano, che nonostante le fortissime pressioni internazionali e a differenza degli altri membri Ue non ha riconosciuto lo Stato di Palestina. O meglio, quando qualcuno nel nostro Paese ha provato a far passare una mozione in tal senso, subito dopo è arrivata quella targata Ncd a rimettere i paletti al loro posto. Una pagina parlamentare della quale possiamo andare fieri.
Ma c'è un'altra notizia che in questi giorni sta rimbalzando sul web destando sconcerto e scalpore. Quella del presidente Barack Obama che attacca l'AIPAC, l'American Israel Public Affairs Committee, il gruppo che più di altri sostiene la "special relationship" fra Washington e Gerusalemme. Secondo il New York Times, Obama avrebbe stigmatizzato la campagna condotta dall'AIPAC contro l'accordo sul nucleare tra Usa e Iran, promettendo scintille contro chi diffonde "falsità" sull'accordo. In un discorso all'American University, Obama, senza citare l'AIPAC, se l'è presa con quelli che nel 2003 spinsero per l'invasione dell'Iraq, gli stessi che secondo il presidente adesso usano una retorica simile contro l'accordo con l'Iran. Senza accordo, secondo Obama, il rischio è una nuova guerra in Medio Oriente. In realtà, se guerra dovesse esserci, scoppierà perché un Iran atomico è destinato a scatenare una rincorsa nucleare tra i Paesi dell'area, portando a funeste conseguenze.
Lascia a dir poco perplessi la deriva impressa dal presidente Obama alle relazioni con Israele: non è questa l'America che conoscevamo, certo non quella del tanto bistrattato Bush che mai avrebbe ceduto ai mullah atomici. Un'America irriconoscibile nella quale Obama apre a certe "lobby" e chiude la porta in faccia ad altre, rischiando di lasciare un frutto avvelenato al suo successore. L'AIPAC non è un gruppo monopolizzato dal Partito Repubblicano, è sempre stata un'entità bipartisan, che ha sostenuto sia l'Asinello che l'Elefantino. Obama rompe con la consuetudine e strapazza l'AIPAC, mettendo a repentaglio un tesoro di relazioni strategiche per la sicurezza internazionale. Anche la nostra sicurezza, degli alleati dell'America, di tutti coloro che oggi festeggiano come una buona notizia la designazione di Fiamma Nirenstein a nuovo ambasciatore di Israele in Italia.
(l'Occidentale, 11 agosto 2015)
Proviamo per un attimo a seguire il ragionamento che fa Barack Obama quando cerca di convincere gli americani e il mondo che l'accordo sul nucleare iraniano è un "buon accordo". Obama basa tutta la sua linea su due punti fondamentali, cioè che un mancato accordo con l'Iran porterà a una nuova guerra e che, al contrario, in caso di accordo il regime iraniano diventerà "moderato".
Per confutare la linea di Obama proviamo a usare le parole dell'influente Senatore democratico, cioè dello stesso partito del Presidente, Chuck Schumer. Durante un comizio elettorale tenutosi ieri nella Wyoming County, il potentissimo senatore democratico ha fatto una domanda ai suoi elettori: «pensate che il regime iraniano diventerà moderato?» Alla risposta negativa della folla Schumer ha dato il via a una delle critiche più feroci all'accordo sul nucleare iraniano che sia mai arrivata dalla parte democratica. «Contrastare l'accordo con l'Iran voluto dal Presidente Obama è stata una delle decisioni più difficili della mia vita politica» ha detto Chuck Schumer alla folla «ma quell'accordo si basa sul presupposto che l'Iran diventi moderato e io non credo affatto che questo sarà possibile. L'Iran è un regime sanguinario che vuole esportare la rivoluzione islamica in tutto il mondo, che chiama l'America con il nome di "grande Satana", che vuole distruggere Israele. La guida suprema iraniana lo ha ribadito ancora pochi giorni fa. Come possiamo credere che diventi moderato?»....
(Right Reporters, 11 agosto 2015)
di Lia Tagliacozzo
Questa è la storia di un padre raccontata dal figlio", l'esordio è di grandissima tenerezza, e le righe che seguono ne rivelano, forse, la ragione: "lo non sapevo nulla della storia della famiglia di mio padre. Un giorno, da adolescente, riuscii a farmela raccontare (...) Ho atteso tanti anni, ma infine è giunto il tempo di raccontare la storia della mia famiglia, di mio padre, delle traversie e delle umiliazioni da lui subite e del grande coraggio con cui affrontò le difficoltà, la solitudine e il dolore per la perdita dei famigliari nei campi di sterminio". E' con questo viatico che Umberto Abenaim guida il lettore nelle vicende del padre Carlo e della sua famiglia, del fratello Ettore e della sorella Vanda, moglie del rabbino di Genova, Riccardo Pacifici e dei nipotini Raffaele e Emanuele, in" Abenaim - Una famiglia ebrea e le leggi razziali", edizioni "Scritture" : storie di sommersi e salvati - come scriveva Primo Levi - raccontate con rigore e con grazia, con affetto e rimpianto.
Nel volume si snoda la storia di una famiglia ebraica di Pisa, benestante e serena, rispettosa delle tradizioni ebraiche, che viene travolta dalle Leggi razziali fasciste e che attraversa il periodo della Repubblica Sociale, gli anni della persecuzioni delle vite, alla ricerca spasmodica di un rifugio, di una salvezza quando, come spiega Liliana Picciotto nella introduzione, "nella primavera del 1942 iniziano gli stermini di massa di ebrei nel campo di sterminio di Auschwitz, nella Polonia occupata. Questi tragici fatti sembrano lontani dall'Italia, le comunicazioni sono difficilissime e nessuno immagina che occupazione tedesca significhi estensione all'Italia della politica di sterminio". Alla fine della guerra il conto per gli Abenaim sarà tragico: come per tante altre famiglie si contano i lutti delle deportazioni, la morte della madre di crepacuore alla fine della guerra, le umiliazioni, la paura e le fughe di un intero nucleo familiare la cui vicenda attraversa mezza Italia e, inizia, prima ancora, ad Alessandria d'Egitto per poi spostarsi a Pisa, Firenze, Genova, Piacenza e Torino, dalle città alle campagne: luogo di rifugio e accoglienza, dove alla sopravvivenza fisica si accompagna il conforto di un incontro tra uomini e donne capaci di offrire umanità e salvezza. Ad arricchire il volume le riproduzioni di lettere, pagine di diario, piccoli acquarelli che accompagnavano gli auguri, fotografie - bellissime - che restituiscono al lettore la normalità delle vite. Nel testo invece, al racconto partecipato di Umberto, si alternano pagine di taccuini, testi di lettere e di poesie d'occasione.
Carlo si laureò in Ingegneria civile, chiamato alle armi nel 1929 frequentò il corso allievi ufficiali. Una volta nominato sottotenente "probabilmente fu la grande depressione americana del 1929 - scrive Umberto ipotizzando le ragioni delle scelte paterne - con quel devastante effetto domino che travolse tutti i paesi industrializzati, che convinse mio padre a proseguire la carriera militare non ancora osteggiata da alcuna legge razziale fascista". Divenuto Tenente di artiglieria Carlo partecipa alla guerra d'Africa, ma è una vita intera che si racconta nelle pagine di Abenaim: le leggi razziali, la guerra, il faticoso recupero di una normalità, il matrimonio con Wanda Boselli, amica conosciuta a Torino che con la famiglia e i lavoranti della campagna offre a Carlo rifugio e salvezza.
Pagine particolarmente intense sono quelle dedicate al ricordo del cugino Emanuele Pacifici, animatore instancabile di tante iniziative della Comunità ebraica di Roma, mancato pochi anni fa, un rapporto fatto di stima e di affetto, di condivisione - Umberto è il cugino che tenne per molti anni il catalogo informatico della grande biblioteca che Emanuele aveva raccolto - e ne ricostruisce la vita e le vicende dell'infanzia e della adolescenza, drammatica, durante la guerra.
Si intuisce nella lettura del volume che la ricostruzione della memoria famigliare è anche un percorso alla ricerca dell'identità ebraica, di una sua possibile definizione tra storia, cultura e eredità famigliare. Un percorso che non si ferma con la fine della guerra - ed è questo uno dei pregi del libro - a corredare il volume infatti, anche un "Epilogo. Il dopoguerra e la vita di Carlo Abenaim", che restituisce il 'dopo': la ripresa della vita, il lavoro, la famiglia, gli affetti, la stima dei colleghi e sottoposti. Carlo infatti riprenderà già nel 1945 la carriera militare. Non stupisce quindi il contributo dell'Istituto storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Piacenza nell'Introduzione della direttrice Carla Antonini perché il libro racconta una vicenda e un lessico famigliare tutto interno alla vicenda ebraica italiana. Ebraica e italiana: qualcosa di più di due aggettivi.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Astronauti vestiti di batik, manoscritti di Albert Einstein e oggetti del neolitico: James Snyder, direttore newyorkese del Museum Israel, illustra l'esposizione sulla «Storia dell'Umanità» spiegando che «è tratta da un best seller» a dimostrazione che nel XXI secolo i musei possono essere una «sinfonia» fra modalità diverse di arte.
Cappello di paglia, giacca di lino leggero e voce tenue, Snyder guida da 19 anni il museo che, dopo il memoriale della Shoah allo Yad Vashem, è il luogo più visitato d'Israele. La scelta di celebrare il 50o anno del museo con la mostra dedicata a «Breve storia dell'umanità» (pubblicato in Italia da Mondadori) di Yuval Harari, nasce dalla volontà di dimostrare quanto «l'arte può essere dinamica». E di conseguenza «il ruolo di un museo è armonizzarne le diverse espressioni». E' un'impostazione che condivide e realizza con un team di stretti collaboratori «a cui chiedo sempre il massimo», a cominciare dalla curatrice delle esposizioni, l'italiana Tania Coen-Uzzielli.
E' questo approccio al museo come sintesi di diverse forme di arte che, all'inizio dell'anno, lo ha visto inaugurare la mostra sulle opere dell'americano James Turrell capaci di creare lo spazio dalIa luce». Le pagine scritte come la luce aiutano un museo «a comunicare con un pubblico più vasto». E questo è ancora più vero per la realtà virtuale. «Ci troviamo a Gerusalemme, nel cuore dell'umanità, e il museo è chiamato a esprimerne la costante tendenza al rinnovamento, alla modernità» aggiunge, riferendosi alla scelta di digitalizzare i Rotoli del Mar Morto - le più antiche copie esistenti di testi esseni di epoca biblica, esposte sotto la cupola del Santuario del Libro - per renderle accessibili su scala universale grazie a GoogleArt.
«Questi antichi manoscritti su pergamena sono la nostra Gioconda - spiega - ed abbiamo deciso di metterli online perché il ruolo di un museo è di condividere i propri gioielli con il pubblico ovunque» anche perché «immaginare di tenerli in cassaforte non ha molto senso quando chiunque può scattare un foto e postarla online».
Il risultato è una mappa interattiva di contatti da ogni angolo del pianeta con l'unica eccezione di tre Paesi dell'Africa centrale. «Sono quelli non collegati da Internet», precisa. Lo slancio verso i nuovi media trova un premio nell'identikit del pubblico: fra i circa 850 mila visitatori l'anno almeno 100 mila sono giovani. Ma non è tutto: il Museo d'Israele è anche l'epicentro di un network di 17 Associazioni di amicizia, dal Brasile a Hong Kong, dal Sudafrica all'Italia, che generano interesse e donazioni come quella di 300 antichità greco-romane dei filantropi Robert e Renee Belfer, gli stessi della «Belfer Court» del Metropolitan Museum di New York.
«Non siamo in competizione con nessuno - puntualizza - vogliamo solo completare la visione con cui il Museo d'Israele nacque nel 1965 grazie a Teddy Kollek, l'ebreo viennese portatore della passione per la cultura universale» che fu per 27 anni sindaco di Gerusalemme. L'altro esempio di «pioniere dell'arte» a cui Snyder si richiama è Boris Shatz, lo scultore lituano che all'inizio del Novecento fondò la scuola «Bezalel» di Belle Arti a Gerusalemme iniziando a tessere il legame fra la città più antica e l'arte del nostro tempo che si ritrova nelle gallerie dove il Profeta Geremia di Rembrandt si alterna all'installazione Letteratura delle Tempeste della video-artista Dana Levy. Fino alla famiglia di astronauti con le tute spaziali coperte da coloratissimi batik che l'anglonigeriano Yinka Shonibare raffigura durante un pic-nic su un pianeta qualsiasi. E' l'ultima sala dell'esposizione sul libro di Harari ed apre una finestra sul mondo che verrà.
(La Stampa, 11 agosto 2015)
di Serena Marotta
Si verificano episodi di razzismo in Israele da parte degli arabi israeliani ai danni degli ebrei, impedendo addirittura loro di bere dalle fontanelle pubbliche sul Monte del Tempio, ovvero nei dintorni della Moschea di Al Aqsa. In questo video si vede che le donne non accettano che un ebreo possa bere dalle fontanelle di quel sito. Non perché si tratta di un luogo sacro, alla Moschea infatti i musulmani arabi mangiano e bevono, giocano a calcio, e addirittura usano il luogo come nascondiglio per le proprie armi e bombe motolov. Il motivo quindi è soltanto uno, il razzismo nei confronti degli ebrei. Per altro, in passato, questo luogo apparteneva agli ebrei. Qui sorgeva il Beit HaMikdash, l'antico tempio di Salomone, che fu distrutto dai babilonesi prima e poi dai romani. La Moschea quindi sorge sull'unico luogo sacro agli ebrei e a loro adesso rimane solo il Muro Occidentale, chiamato pure Muro del Pianto, piccola sezione del muro di cinta che circondava il tempio. Solo dopo la guerra dci Sei Giorni del 1967 gli ebrei poterono nuovamente avvicinarsi al muro, quando Israele riconquistò la città. Tuttavia, gli ebrei che vogliono recarsi a pregare al Monte del tempio, incontrano gravi difficoltà a causa di questo odio nei loro confronti. Molti di loro scoraggiano gli altri correligionari a recarvisi per evitare attacchi terroristici o aggressioni, ma alcuni gruppi continuano a rivendicare il loro diritto a visitare il luogo.
(ilsussidiario.net, 10 agosto 2015)
di Elisabetta Rosaspina
PARIGI Nervi a fior di pelle sulle rive della Senna in vista di «Tel Aviv Plage», dopodomani, quando la spiaggia parigina si travestirà, per 12 ore, da litorale israeliano: un «foodtruck» scodellerà hummus (crema di ceci), tehina (crema di sesamo) e altre specialità mediorientali, un dj e vari animatori cercheranno di ricreare l'atmosfera balneare della capitale economica e mondana di Israele. Coral, cantante israeliana, si esibirà durante lo spettacolo serale.
Ma anche il livello di mobilitazione delle forze dell'ordine contribuirà, involontariamente, a creare un clima mediorientale sotto gli ombrelloni del ferragosto parigino. Dopo due giorni di polemiche sempre più aggressive, in rete, alla tivù e tra politici, sull'opportunità di questo gemellaggio, la prefettura ha chiamato i rinforzi: trecento agenti in più militarizzeranno giovedì il lungo Senna, tra il Pont de l'Arcole e il Pont de Notre-Dame, nel timore di contestazioni filo-palestinesi o incursioni sulla spiaggetta cittadina.
La sindaca socialista, Anne Hidalgo, tiene duro: il progetto è stato concepito a maggio durante la sua visita in Israele e l'incontro con il suo omologo, Ron Huldai, quando è stato deciso di invitare Tel Aviv come ospite d'onore a Paris-Plages. E la giornata non sarà annullata perché «equivarrebbe a dare ragione a chi vuole il boicottaggio totale di Israele, e questa non è la nostra posizione», ha spiegato il suo vice, Bruno Julliard, ricordando che, nello stesso viaggio, Hidalgo ha incontrato le autorità di Betlemme e concordato iniziative congiunte anche con i palestinesi.
Ma il beach-party francoisraeliano di dopodomani rischia di compromettere la tenuta della maggioranza municipale che si basa sull'alleanza tra socialisti e comunisti. Il mal di pancia, a sinistra, è forte: la prima a chiedere l'annullamento del programma è stata Danielle Simonnet, consigliera del Parti de Gauche. Poco dopo i suoi colleghi del Groupe Communiste-Front de Gauche hanno diffuso un comunicato meravigliandosi di non essere stati preventivamente consultati dalla sindaca e chiedendo che la festa fosse trasformata in una giornata da dedicare a incontri e dibattiti per una «pace giusta e duratura tra israeliani e palestinesi». Proposta appoggiata dall'assessore all'edilizia abitativa, Ian Brossat, ma bocciata dal Comune, poiché il programma di Lionel Choukroun, organizzatore con l'Agenzia Culturale, è già molto intenso e non lascia spazio a tavole rotonde.
Via twitter, (#TelAvivSurSeine era uno degli hashtag più digitati nel week end) un altro consigliere della maggioranza, Jéròme Gleizes, di Paris Ecologiste, evoca «un problema di decenza e di rispetto dei morti», in riferimento al bebè bruciato vivo con il padre nell'incendio della sua casa in Cisgiordania, per mano di coloni israeliani. Anne Hidalgo viene accusata di connivenza con il governo di Netanyahu e assimilata alla sua politica conservatrice.
Lo spiegamento di forze dell'ordine è diventato inevitabile: negli alti comandi si agita ancora lo spettro degli incidenti scoppiati a luglio dell'anno scorso, a Barbès (nel XVIn Arrondissement) durante una dimostrazione a sostegno di Gaza. Ventiquattr'ore dopo, a Sarcelles, in Val d'Oise, era stata minacciata la sinagoga di una grossa comunità sefardita, erano stati bruciati negozi e farmacie gestite da ebrei, e gli agenti erano stati impegnati per ore in una guerriglia urbana conclusa con decine di feriti e di arresti.
(Corriere della Sera, 11 agosto 2015)
di Salman Masalha
Quest'anno Israele ha celebrato la sua 67esima Giornata dell'Indipendenza. Non è facile parlare di questo evento su un quotidiano arabo perché la semplice menzione del nome Israele nell'arena araba suscita forti emozioni. Da decenni la parola Israele si è legata, nell'immaginazione dei popoli arabi, alle parole Palestina e Nakba (palestinese): è stato versato così tanto inchiostro e sono state dedicate così tante ore di trasmissione a discutere del cosiddetto "problema primario degli arabi"!...
(israele.net, 11 agosto 2015)
di Guido Olimpio
Un documento d'appoggio che pesa. Lo hanno firmato 29 scienziati americani favorevoli all'intesa nucleare raggiunta con l'Iran. Un messaggio di sostegno alla Casa Bianca in una fase critica dove gli avversari del patto si stanno mobilitando. La lettera di due pagine è stata sottoscritta da ben 6 premi Nobel e da ricercatori che molto hanno dato allo sviluppo scientifico statunitense. Un parere da esperti che è anche un giudizio politico su un accordo storico ma pieno di incognite.
Tra i firmatari Richard L. Garwin, il fisico che ha contribuito alla costruzione della prima bomba all'idrogeno ed ha svolto un lavoro di consulenza nel campo delle trattative sul disarmo. Poi Siegfried S. Hecker, responsabile per molti anni del laboratorio di Los Alamos, uno dei principali centri atomici degli Stati Uniti. Molti degli scienziati - ha precisato il New York Times - hanno il livello di sicurezza Q ossia quello che permette di trattare temi segreti legati al nucleare. A loro giudizio, come sottolineano più volte nella lettera, l'accordo concluso con Teheran fornisce grandi garanzie in quanto è possibile verificarlo e monitorarlo. A questo si aggiunge il valore storico di un passo che può favorire il dialogo in una regione sconvolta dai conflitti.
Ovviamente negli Usa non tutti hanno questa visione positiva. La diffidenza nei confronti dei mullah è ampia. La prova più eclatante è venuta dalla presa di posizione del senatore democratico Chuck Schumer, personaggio influente e ascoltato, che ha dichiarato la sua ferma opposizione alla svolta. Approccio non sorprendente che però conta. Così come conta quello del suo collega Eliot Engel, anch'egli dichiaratosi per il no.
Le grandi manovre non riguardano comunque solo lo schieramento statunitense. A Teheran, il capo di Stato Maggiore Hassan Firouzabadi, si è espresso a favore dell'intesa anche se le forze armate hanno delle riserve. fl generale ha sostenuto in un articolo che vi sono i6 punti positivi. La dichiarazione non è da poco perché viene da un personaggio molto vicino alla guida Ali Khamenei. ll ministro degli Esteri iraniano Mohammad Zarif ha negato che le gru e le altre macchine fotografate dai satelliti sul sito nucleare di Parkin siano impegnate in una missione di ripulitura in vista dell'ispezione Onu. Secondo il capo della diplomazia si tratta di lavori legati alla costruzione di alcune strade.
(Corriere della Sera, 10 agosto 2015)
TEHERAN - La recente visita della delegazione italiana guidata dai ministri degli Esteri e dello Sviluppo economico, rispettivamente, Paolo Gentiloni e Federica Guidi, rientra nel quadro una forte crescita dell'interesse degli investitori internazionali per il mercato iraniano dopo la storica intesa sul programma nucleare di Teheran raggiunta a Vienna il 14 luglio scorso. La progressiva rimozione delle sanzioni economiche aprirà la strada allo sviluppo economico nel paese degli ayatollah. L'uscita dall'isolamento della Borsa iraniana attirerà ingenti quantità di capitale degli investitori istituzionali. E' ipotizzabile una vera e propria corsa ai maggiori titoli azionari della repubblica islamica. Le società quotate hanno ancora valori bassi, dato il difficile contesto in cui hanno dovuto confrontarsi negli ultimi anni a causa delle stringenti sanzioni economiche. L'indice Tedpix della Borsa di Teheran (Tse) ha visto un percorso piuttosto incidentato dall'inizio dell'anno persiano, iniziato il 21 marzo scorso.
(Agenzia Nova, 10 agosto 2015)
"Il regime in Iran non è un'istituzione permanente nel panorama mediorientale. La falsa dicotomia tra guerra e negoziato è una retorica utile ma crea una cattiva politica", hanno affermato il Prof. Ivan Sheehan ed il Professore Emerito Raymond Tanter.
"La storia insegna che una diplomazia superficiale con partners disonesti è la ricetta per la proliferazione e non per la pace", hanno scritto i professori su TownHall.com mercoledì.
"Il Review Act dell'Accordo sul Nucleare Iraniano del 2015, richiede un vigoroso riesame dell'accordo da parte del Congresso prima della sua attuazione e concede ai legislatori una rara opportunità di criticare l'accordo e di sollevare questioni che possono inficiare la sua efficace attuazione", hanno scritto.
"La crescente opposizione bipartisan a questo delicato accordo s'incentra su sei questioni primarie:
I professori hanno precisato che i politici, preoccupati da queste e da una miriade di altre questioni, possono usare il periodo del riesame per indirizzare i loro quesiti ai funzionari della Casa Bianca ed insistere per ottenere spiegazioni credibili. I quesiti che, hanno detto, devono essere posti sono:
I professori hanno aggiunto che quando il Congresso degli Stati Uniti si addentrerà nell'accordo, dovrà tenere a mente che:
I legislatori inoltre non devono consentire alla Casa Bianca di stabilire i termini della deliberazione pubblica sulla questione nucleare, separando l'accordo sul nucleare dalle discussioni simultanee sulla situazione dei diritti umani nel regime, sulla sua sponsorizzazione del terrorismo mondiale e sull'influenza destabilizzante che Tehran continua ad esercitare nella regione", hanno aggiunto.
- Il Dr. Ivan Sascha Sheehan è direttore dei corsi di laurea su Negoziato, Gestione del Conflitto, Affari Globali e Sicurezza Umana alla Facoltà di Affari Pubblici ed Internazionali dell'Università di Baltimora.
- Il Prof. Emerito Raymond Tanter è un ex-membro dello staff del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca e Rappresentante Personale del Segretario alla Difesa nei colloqui sul controllo delle armi nell'amministrazione Reagan-Bush.
(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 9 agosto 2015)
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Il massimo dell'ossimoro: un kibbutz in città.
Nel profondo dell'estate telavivese, quando l'unica cosa che si desidera (oltre ad essere in vacanza, possibilmente in alta montagna) è di stare in luoghi muniti di aria condizionata, può capitare di incontrare esseri umani che vivono in comuni nel bel mezzo della città. Si tratta di giovani, ovviamente, nell'accezione antica della parola giovane, e cioè giovane davvero, non quarantenne che crede ancora di avere venticinque anni. In alcuni casi possono essere giovani che per ragioni di studio o lavoro si sono inurbati, ma non hanno voluto abbandonare completamente la dinamica comunitaria della vita in kibbutz. Altri, si aggregano per affinità di stile di vita o perché essere diversi è ancora e sempre cool, soprattutto sotto i trent'anni.
Dunque ieri sera io volevo solo ascoltare una conferenza tenuta da una conoscente sulla questione del gas naturale in Israele e di come (e se) cambierà la nostra società, e invece mi sono trovata in uno di questi luoghi che stanno a metà fra il mai dimenticato CGE (Centro Giovanile Ebraico) e un rifugio per scappati di casa. In bagno asciugamani e spazzolini da denti sono la prova che qualcuno in effetti ci vive in quelle stanze attrezzate per piccole riunioni e corsi.
Nella stanza accanto un gruppo di scrittura creativa, al piano di sopra artisti assortiti e liberamente creativi.
Nell'unica grande città d'Israele, questi moti aggregativi ormai si vedono a tutti i livelli, anche fuori dallo stile di vita decisamente alternativo delle mini-comuni. I moltissimi che lavorano da indipendenti, invece di ricavarsi uno studiolo nei piccoli appartamenti telavivesi preferiscono andare a condividere spazi organizzati per ospitare persone singole o piccoli gruppi di lavoro. Sono le 'hub' in appartamenti, o palazzi interi come il WeWork, ristrutturati con lo scopo di ricavare quanti più possibili tavoli da lavoro e mini sale riunione.
E come nelle comuni cittadine le persone si incontrano e formano amicizie e famiglie, nei luoghi di lavoro in condivisione nascono nuove iniziative, compagnie e idee.
Anche nella Tel Aviv postmoderna, l'unione fa ancora la forza.
Cercate, gridate, chiedete!
Io ho cercato l'Eterno, ed egli m'ha risposto, m'ha liberato da tutti i miei spaventi. Quelli che guardano a lui sono illuminati, le loro facce non sono svergognate. Quest'afflitto ha gridato, e l'Eterno l'ha esaudito, l'ha salvato da tutte le sue distrette. L'Angelo dell'Eterno s'accampa intorno a quelli che lo temono, e li libera. Gustate e vedete quanto l'Eterno è buono! Beato l'uomo che confida in lui. Salmo 34:4-8
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Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi picchia. Qual è l'uomo fra voi, che se il figlio gli chiede un pane, gli dia una pietra? o se gli chiede un pesce, gli dia un serpente? Se dunque voi che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è ne' cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano! Matteo 7:7-11
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di Francesca Matalon
Sono la nuova moda iper salutista del momento, di quelle seguite da chi fa yoga in tute fosforescenti, è attratto da qualunque cosa contenga cavolo nero, nutre ossessione per l'aria aperta e disgusto per l'aria condizionata. Ovviamente si tratta delle bacche di goji, che per chi non fosse informato sulle ultime tendenze sono dei piccoli frutti provenienti dall'estremo Oriente di un color rosso acceso che normalmente si consumano essiccati. Esistono da sempre, ma oggi vivono il loro momento di gloria nella cucina occidentale perché qualcuno ne ha scoperto gli incredibili benefici per la salute, tali che grazie alle loro vitamine e altre sostanze miracolose si è parlato addirittura di 'elisir di giovinezza'. Insomma, di un alimento cosi trendy di certo non poteva non dotarsi anche Israele, dove recentemente hanno cominciato a crescere le prime coltivazioni di bacche di goji fresche.
Ebbene sì, dunque le bacche non crescono in sacchettini di plastica ma su arbusti, e più che a uva passa da fresche somigliano a pomodorini. Dopo che per anni venivano importate a peso d'oro dall'Himalaya, ora le si può vedere in tutto il loro splendore sia nel campo del biologo Yair Fisher, sul terreno appartenente alla sua famiglia all'interno del moshav Avigdor, nel sud di Israele, sia a Herzliya, nella piccola fattoria chiamata Super Goji del deejay specializzato in musica new vibe anni '80 Nir Katan. Ma come sono arrivate delle esotiche bacche asprigne nella terra del latte e del miele? Proprio latte si produceva in effetti nel terreno della famiglia Fisher, fino a quando Yair non è diventato vegano e suo fratello Merom è stato ucciso a Jenin nel corso dell'Operazione Scudo difensivo del 2002. Così il pascolo di mucche non aveva più una gran ragione di esistere e il campo sarebbe rimasto ricoperto di erbacce se una volta finita l'università Yair non avesse sentito il richiamo della madre terra e non avesse preso la decisione di tornare a casa a coltivarla. L'incontro è avvenuto nel 2013 aprendo banalmente il frigo, dove Fisher ha trovato un sacchettino di bacche di goji, che ha cominciato a sbocconcellare, senza restarne nemmeno troppo folgorato. Però da vero biologo e per di più ricercatore nel campo del sistema immunitario e della cura del cancro, dopo aver letto l'etichetta che ne elencava le straordinarie proprietà, è andato a controllarne le caratteristiche e si è convinto che qualcosa di buono l'avevano. "Mi sono accorto che nessuno le coltivava in Israele - ha raccontato - e mi sono anche detto che forse c'era una ragione, ma poi ho pensato che valesse la pena correre il rischio, solo per divertimento".
Più recentemente è nata Super Goji, dopo che Nir ha ottenuto qualche seme dall'Himalaya in un modo "un po' tortuoso" non meglio definito. Il terreno di Herzliya è meno adatto di quello del sud d'Israele, e ci sono voluti quattro anni perché spuntasse qualche bacca, ma adesso sono vendute fino in Russia e presto saranno anche usate per produrre cosmetici. Ma quali sono di preciso i benefici procurati da queste bacche, tra i cui ammiratori più accaniti ci sono anche Madonna e Liz Hurley? La formula magica è quella di ben 22 vitamine e minerali, una buona gamma di amminoacidi, potenti oligosaccaridi, 500 volte più vitamina C di un'arancia, ferro e dosi massicce di antiossidanti. Tutto ciò a quanto pare è un ottimo anti-età nonché un antinfiammatorio, sostiene il sistema immunitario e la vista, riduce la cellulite, e aiuta chi soffre di diabete. Ma attenzione, sottolinea Yair, è importante stare in guardia dai ciarlatani della medicina alternativa e ricordare che le bacche di goji non sono un medicinale. E aggiunge: "Bisogna condurre esperimenti per accertare le loro qualità terapeutiche, su cui non si è ancora ricercato e che dunque rimangono al momento solo supposizioni".
Il dj Nir però è in grado di aggiungere un dettaglio che di certo il biologo Yair non conosce: "Le bacche di goji stanno benissimo con l'alcool'. E la concorrenza non lo preoccupa affatto: "La richiesta è folle, nemmeno se ci mettessimo insieme riusciremmo a soddisfarla".
(pagine ebraiche, agosto 2015)
Il regime dei mullah in Iran ha impiccato altri sette prigionieri tutti nello stesso giorno questa settimana.
Quattro sono stati impiccati martedì nella provincia centrale di Yazd. Non sono stati forniti i loro nomi.
Altri tre sono stati impiccati lo stesso giorno in una prigione di Rafsanjan, Iran centrale. Uno dei prigionieri si chiamava Hossein Seifi-Qoli. I nomi degli altri due non sono stati rivelati.
Almeno 64 detenuti, tra i quali due donne, sono stati giustiziati in Iran nel giro di due settimane, in alcuni casi in pubbliche piazze.
Mercoledì in un comunicato dell'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Zeid Ra'ad Al Hussein ha detto: "Sembra che l'Iran abbia giustiziato oltre 600 individui finora quest'anno. L'anno scorso, almeno 753 persone sono state giustiziate nel paese".
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha dato agli americani un nuovo avvertimento per i viaggi in Iran, tre settimane dopo che il regime iraniano e i paesi del P5+1 hanno raggiunto un accordo per controllare le attività nucleari del regime.
Il Dipartimento di Stato ha detto: "Questo accordo sul programma nucleare iraniano non altera la valutazione degli Stati Uniti sui rischi del viaggiare in Iran per i cittadini statunitensi".
Gli americani che si recano in Iran "possono essere soggetti a molestie o ad arresto durante il viaggio o il soggiorno in Iran", ha aggiunto.
"La nostra capacità di assistere i cittadini statunitensi in Iran in caso di emergenza è estremamente limitata".
Questo avvertimento è un aggiornamento di un precedente messaggio di Gennaio e ribadisce fortemente i problemi di vecchia data sulla sicurezza degli americani in Iran.
"Il Governo degli Stati Uniti non ha relazioni diplomatiche o consolari con la Repubblica Islamica dell'Iran e pertanto non può fornire protezione o servizi consolari di routine ai cittadini statunitensi in Iran", ha detto il Dipartimento di Stato.
(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 9 agosto 2015)
GERUSALEMME - Il governo israeliano è riuscito dopo un intenso dibattito il bilancio statale 2015-16. La legge finanziaria, secondo quanto riferisce il quotidiano "Haaretz", prevede una serie di aumenti nei settori dell'istruzione, della sanità, della pubblica sicurezza e della previdenza sociale. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto in una nota del governo che il bilancio è "equilibrato, responsabile e si tiene conto della crescita". Per quanto riguarda l'anno corrente il bilancio ammonta a 329,5 miliardi di shekel (circa 1,3 miliardi di euro), mentre per il 2016 si attesta a 343,3 miliardi di shekel (circa 1,4 miliardi di euro). La notizia degna di nota, però, è l'astensione dal voto del ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, contrario a una parte della legge finanziaria relativa ai finanziamenti destinati al suo dicastero per il prossimo anno.
(Agenzia Nova, 9 agosto 2015)
di Vera De Luca
Il Mar Morto, il punto più basso della Terra, è un luogo da non perdere non solo per il suo significato storico nel Vecchio Testamento, ma anche per le meraviglie naturali dei suoi paesaggi. La moglie di Lot, una formazione di sale erosa dal tempo in cima al Monte Sodoma, è un ricordo del racconto biblico di Sodoma e Gomorra. La Locanda del Buon Samaritano, con il suo museo dei mosaici, è vicino al luogo leggendario della Parabola del Buon Samaritano. I rotoli del Mar Morto sono stati scoperti nelle grotte di Qumran, un sito ricco di rovine di 2000 anni fa. Massada, la fortezza e palazzo di Erode ubicato in cima alla montagna, fu il sito dell'ultima postazione Ebraica contro i Romani. Le iniziative turistiche abbondano in questo tesoro naturale inestimabile, con hotel, spiagge, ristoranti e centri commerciali, turismo attivo (gite in jeep e bicicletta, gite su cammello e ospitalità beduina, discese in corda doppia e altro), accanto ad attività artistiche e culturali e le tante riserve naturali uniche.
In questa estate calda perché non rilassarsi andando a scoprire il Mar Morto, situato in Oriente, nel cuore della valle della Grande Fossa Siro - Africana, al confine tra Israele, la Cisgiordania e la Giordania, nella regione storico-geografica della Palestina. Il bacino fu chiamato dagli antichi Greci e dai Romani "Mar Asphaltitus", cioè "mare di creta", per la creta galleggiante sulla sua superficie. Una delle cose più speciali di un viaggio in Israele è che dopo solo un'ora di macchina ci si potrà ritrovare in un ambiente naturale completamente diverso da Gerusalemme, ed è la sensazione che si prova quando si arriva al Mar Morto e a Massada, la fortezza romana costruita su un altopiano più di 2000 anni fa dagli Zeloti nei domini di Re Erode. Interessante sarà anche effettuare un tour più lungo di dieci ore come quello del Masada National Park, che inizia con un viaggio passando da Gerusalemme, attraversando l'arido deserto della Giudea. Si prosegue poi per Ein Gedi, dove sono da visitare le terme e la riserva naturale, caratterizzata da una vegetazione rigogliosa e dalla presenza di due fonti d'acqua dolce. All'arrivo poi a Masada è possibile salire in funivia o a piedi per visitare la fortezza sulla montagna che il Re Erode costruì durante la grande ribellione degli Ebrei nei pressi delle città di Sodoma e Gomorra. Una volta in cima a quella che fu l'ultima roccaforte dei ribelli contro le legioni romane, si potranno scoprire le imponenti rovine delle mura della fortezza, della Sinagoga, delle cisterne d'acqua, dei pavimenti musivi e delle terme private di Erode. Nell'acqua terapeutica del Mar Morto si proverà personalmente la sensazione di galleggiare nelle acque ricche di sali minerali, in media 10 volte superiore alle acque del Mediterraneo. Il bacino del mare, la cui superficie è di 1.020 kmq, si trova a 400 metri sotto il livello del mare, è lungo circa 80 chilometri ed occupa la più bassa depressione della Terra. L'occasione di parlare del Mar Morto ci è stata data anche dalle ricerche scientifiche che hanno dimostrato che i fattori climatici combinati insieme hanno un notevole effetto terapeutico ed inoltre i dannosi raggi ultra-violetti del sole in questo caso vengono filtrati rendendo possibile fare i bagni di sole senza rischiare scottature. Non c'è da meravigliarsi se questo mare chiuso è diventato un luogo di villeggiatura internazionale. Questo territorio è l'unico posto al mondo che combina tutto in uno, clima caldo durante tutto l'anno, un'atmosfera ricca di ossigeno, radiazioni solari terapeutiche UVB, un mare salato ricco di minerali e fango di fama mondiale, sorgenti termominerali calde e lussuose stazioni termali. Le sue acque, conosciute fin dai tempi dei Romani, sono sfruttate ancora oggi, per le loro qualità curative, per le malattie della pelle e per i disturbi reumatici. Secondo alcuni studiosi il Mar Morto è destinato pian piano a scomparire dal momento che la notevole evaporazione non è sufficientemente compensata dall'afflusso delle acque del Giordano e degli altri più aridi corsi d'acqua. Un "tocco personale" del Mar Morto è il fango nero, una miscela omogenea di minerali, elementi organici e terra. Spalmando sul corpo il fango nero si ottengono sia benefici cosmetici che terapeutici, conosciuti per pulire e stimolare la cute, liberare da tensione muscolare, migliorare la circolazione del sangue. I trattamenti possono essere effettuati anche a casa propria con la linea cosmetica Dsm - Mon Platin del Dott. Mosè Isawi (www.drisawi.it) che, dopo essersi laureato a Ferrara in Scienze Farmaceutiche, ha costituito a Rovigo una piccola azienda di prodotti dermocosmetici. «La nostra filosofia aziendale, che gode dell' approvazione del Ministero della Salute e delle autorità competenti - egli ci dice - è l' introduzione nel mercato italiano di prodotti naturali, efficaci e sicuri per la salute, la bellezza ed il benessere. È dalla natura con la sua saggezza senza tempo, che ha saputo produrre sostanze benefiche, che la linea cosmetica prende l'avvio selezionando nel luogo di origine con tecniche antiche i principi attivi naturali, creando così una fito-cosmesi di qualità che produce benessere psico-fisico.
Ma come si possono raggiungere più facilmente queste bellezze mozzafiato?
Oggi è più facile con il volo diretto El Al Israel Airlines della Sun D'Or che parte dall'aeroporto di Capodichino per Tel Aviv. El Al effettua due voli settimanali, il lunedì e venerdì, con aeromobili Boeing 737/800. Il volo parte dall'aeroporto di Ben Gurion di Tel Aviv alle ore 8 locali ed arriva a Napoli alle ore 10.25, ripartendo poi dall'aeroporto di Capodichino alle ore 11.30 per arrivare a Tel Aviv alle ore 15.45. Non a caso all'interno di Expo 2015, l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo ha presentato in modo inedito Tel Aviv, la città che non dorme mai. Accanto all'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo hanno partecipato all'evento La Municipalità di Tel Aviv, la EL AL e la Tel Aviv Hotel Association. «Siamo qui - ha detto Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale israeliano del Turismo (www.goisrael.it e www.visit-tel-aviv.com) per raccontare l'atmosfera, i colori, i profumi, i molteplici aspetti di una città che sa sempre sorprendere ed incuriosire, una città che negli ultimi anni ha ottenuto moltissimi riconoscimenti e che comincia ad essere inserita tra le mete di vacanze degli italiani che però ne conoscono ancora
. solo alcuni aspetti». Tel Aviv: città posta sotto la tutela dell'Unesco definita "città bianca" con oltre 4.000 edifici Bauhaus; Tel Aviv, una delle città al mondo con la più giovane popolazione in rapporto al numero degli abitanti, culla delle Start up (oltre 1.000), una città con 1741 tra locali notturni e ristoranti ( uno ogni 231 abitanti). Una città verde, dove ogni due ore viene piantato un nuovo albero. E soprattutto: una città facile da raggiungere.
(NapoliPost, 9 agosto 2015)
GERUSALEMME - I capi delle chiese cattoliche in Israele hanno denunciato per istigazione il leader del gruppo radicale ebraico 'Lehava' (Fiamma) Bentzi Gopstein a seguito della diffusione di un resoconto di un dibattito nel quale gli è stato attribuita una frase a favore del rogo delle chiese locali.
Lo ha confermato all'ANSA padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa. "La denuncia - ha detto - è stata presentata venerdì scorso da parte di alcune chiese. A questa ne seguiranno altre. Non si può rimanere inerti".
Padre Pizzaballa ha anche annunciato che "sull'intera questione sarà scritta una lettera al Consigliere legale del primo ministro Benyamin Netanyahu". L'iniziativa - ha aggiunto - è stata presa in accordo con la Nunziatura apostolica di Gerusalemme.
Gopstein, secondo i media che hanno citato il resoconto del dibattito fornito dal sito ortodosso 'Kikar Shabbat', si sarebbe espresso, in risposta alla domanda di un giornalista, a favore dell'"incendio di chiese" citando il parere di un rabbino medievale. Poi ha aggiunto - secondo le stesse fonti - di essere disposto per questo a "passare 50 anni in carcere".
(Corriere del Ticino, 9 agosto 2015)
Nove estremisti ebrei sono stati arrestati nell'ambito delle indagini sull'attacco incendiario in Samaria, in cui sono morti un bimbo palestinese di 18 mesi e il papà. Gli arresti sono stati eseguiti dalla polizia israeliana e dai servizi di sicurezza dello Shin Bet in due insediamenti nel nord della Samaria. Confermando la linea dura del governo, è stato poi autorizzato il fermo, provvedimento di solito usato nei confronti di sospetti terroristi palestinesi, di altri 2 estremisti ebrei.
E' stato il ministro della difesa Moshe' Yaalon ad emettere l'ordine di detenzione amministrativa (arresto preventivo) di 6 mesi per Meir Ettinger e Eviatar Slonim, sospettati di terrorismo ebraico. Al tempo stesso la scorsa notte lo Shin Bet (sicurezza interna) ha arrestato 9 persone negli insediamenti in Samaria per combattere l'estremismo ebraico: 2 ad Adei Ad nel nord dei Territori, non lontano dal villaggio di Duma.
(Fonte: RaiNews24, 9 agosto 2015)
di Francesca Paci
TEHERAN - L'Iran deve l'accordo sul nucleare ai suoi giovani che, avendo pagato il prezzo della rivoluzione del '79, hanno insegnato ai genitori la moderazione». Parla senza remore il cartoonist Jamal Rahmat: dopo vent'anni a sfidare il regime disegnando per i giornali riformisti «Etemaad» e «Shargh», si ritrova dalla parte del governo. Il bavaglio tocca ora ai nemici del nuovo corso come l'appena chiuso «9Dey» e l'ammonito «Kayhan». Jamal versa il tè nello studio a nord di Teheran, la città benestante e illuminata. Sul tavolo, gli schizzi dell'ultima vignetta, il ministro degli esteri Zarif in posa per un selfie con la colomba della pace: «Lo Stato ha deciso di aprirsi al mondo e chi si oppone passa i guai. È sempre la stessa storia? È la nostra storia, quella dell'Iran e la mia. Sono il minore di due fratelli, uno si arruolò con gli ayatollah e l'altro sarebbe morto in cella se non fosse riuscito a fuggire in Germania. Dopo 36 anni sono entrambi moderati. La democrazia è lontana, ma avanziamo».
«Addio alla pessima fama»
Benvenuti nella Teheran 2015, dove ovunque imperversano le foto di Khomeini e della Guida Suprema Khamenei ma tutti parlano del presidente Rohani e del diletto negoziatore Zarif.
«Per 8 anni abbiamo goduto di pessima fama, ora possiamo recuperare» ragiona Amin Mir Mohammad Sadeghi, 30 anni, titolare della Karal, sorta di Lagostina iraniana da 10 milioni di dollari l'anno e 100 dipendenti. Producendo in loco, ammette, ha beneficiato delle sanzioni. Ma, giura, è pronto alla concorrenza. Per dimostrarlo sfrega la spugnetta d'acciaio sulla padella inossidabile: «Un vero imprenditore sa che ogni minaccia cela un'opportunità. Faccio una linea di qualità e sono aperto agli investitori stranieri». Nell'ufficio affacciato sulla metro Olhach ha la foto della figlia di 6 mesi: «Emigrare non è la soluzione. La mia generazione deve provare ai più piccoli che si può vivere bene anche qui».
I figli delusi del 1979
A Teheran coabitano due narrative. Quella passatista alimentata dalle onnipresenti immagini dei martiri e l'altra, irriverente, che racconta come la rivoluzione sia riuscita a tenere in piedi le infrastrutture e l'identità del paese ma abbia perso la guerra del soft power.
«Accusiamo i nostri genitori di aver partecipato al '79» afferma il 29enne Abolfazl riordinando cd nella bottega gestita con un socio. Sono cresciuti con i classici del cinema iraniano ma anche con il proibito, Leonard Cohen, Bob Dylan, i film di Woody Allen. Chi parla è finito alla polizia per aver venduto la cantautrice israeliana Yasmin Levy: «I miei erano colti e lontani dalla religione eppure hanno creduto a Khomeini, dicevano di vedere la sua faccia nella luna. Oggi sono pentiti, sostengono che ci fosse dietro lo zampino degli Usa gelosi per la potenza iraniana. Ma intanto siamo noi a scontare quell'ingenuità e senza nemmeno l'illusione dell'ideologia». L'amica Ava annuisce: «Abbiamo ereditato la claustrofobia, nel 2009 abbiamo provato a liberarci con l'onda verde ma siamo stati massacrati, non scenderemo più in piazza. Ora ci recitiamo il poeta Hafez, "campo accontentandomi di così poco che nessuno può togliermi nulla", e confidiamo nei piccoli passi, viva Rohani».
Attraversando Teheran da nord a sud, su e giù per i viali che tracciano la disparità sociale della città, si respira voglia di svolta. Il vicepresidente Jahangiri cita il un sondaggio secondo cui l'80% della popolazione è favorevole all'accordo. Tra i giovani la percentuale vola.
C'è chi teme che ci vorrà troppo tempo, come il neo ingegnere informatico Mahmoud ridotto a guidare il taxi. C'è la 18enne Melica che viaggiando nel vagone della metro riservato alle donne vagheggia l'implementazione dell'accordo per «studiare medicina all'estero». C'è la coetanea Taiebe che sogna Londra e vorrebbe dire al mondo come l'Iran non sia «pericoloso ma solo fiero». E c'è il regista teatrale 32enne Afshin che leggendo Brecht al Caffé degli Artisti, a pochi isolati dall'ex ambasciata Usa ancora vergata dalla scritta «down with the Usa», auspica il cambio di stagione: «Qui, con discrezione, puoi fare tutto. Ma la cultura si è impoverita, campiamo di rendita di quanto prodotto prima del '79. E' l'ora del rilancio».
Il regno di Ahmadinejad
Poi c'è la città che votava Ahmadinejad. Giù, nei quartieri di Khianshahr e Khazaneh, dove la rivoluzione ha sostituito le baracche dell'epoca dello scià con case popolari e parchi su cui si affaccia il centro commerciale Ipersun, si brinda meno. Le sanzioni hanno gravato, qui più che altrove. Per questo il 57enne Mahmoud Jaranghide, basji fiero d'essere stato il braccio armato alla rivoluzione, tollera l'attualità. Apre la stanza sul retro della moschea dove dorme in cambio delle pulizie. Serve biscotti: «Avevamo bisogno di respiro, dopo l'accordo il prezzo del cocomero è sceso da 250 a 60 mila rial. Per me però si stava meglio con Ahmadinejad che aiutava i poveri, dava prestiti senza interesse, passava un sussidio da 800 mila rial al mese». Non è solo questione economica: «So che 800 mila rial sono 3 corse in taxi, ma io risparmiando sono andato alla Mecca. A noi interessa Allah, purtroppo in passato le donne si coprivano di più ma tanto, nucleare o meno, non ci arrenderemo all'occidente perché abbiamo sulla testa il sangue dei martiri: questo quartiere ne ha dati 300 alla guerra con l'Iraq».
Il tempo delle riforme
La guerra con l'Iraq è il respiratore che ha tenuto in vita la rivoluzione, ripetono gli intellettuali sotto lo stesso cielo di Mahmoud. La produttrice cinematografica Fereshteh Taerpour ha 62 anni e il passato sulle spalle: «Siamo stati naif e l'abbiamo pagata. Il 2009 ci ha riconfermato però che non siamo fatti per la rivoluzione, i regimi faticano a riformarsi e si portano dietro la minaccia della guerra civile. Meglio sostenere il filo delle riforme, da Khatami a Rohani». La figlia Gazau, cantante in un paese in cui le donne non potrebbero, tiene a mente quanto la madre, offesa per l'intervista a Khomeini, scrisse alla Fallaci in difesa delle iraniane. Ne è passata di acqua da allora, ma Fereshthe ripete lo stesso concetto di diversamente emancipata: «Abbiamo imparato a nuotare senza bagnarci».
(La Stampa, 9 agosto 2015)
di Francesca Paci
Gli ebrei di Teheran pregano il Talmud nella sinagoga di Yusef Abad, la stessa in cui anni fa si recò in visita il riformista Khatami, primo presidente iraniano a incontrare la comunità che sogna il Muro Occidentale di Gerusalemme. Farzin Farnooshi insegna ai bimbi l'idioma reinventato da Ben Yehuda alla nascita d'Israele. Chiede i documenti per congiurare provocazioni poi, affabile, fa strada nella sala decorata di Menorah: «Ho sempre vissuto a Teheran, un tempo pensavo di andar via ma poi sono nati i miei tre figli. Ci sono stati momenti duri, per questo fu importante la visita di Khatami, segno di considerazione per le altre religioni in un Paese in cui non tutti sono d'accordo su questo. Oggi va un po' meglio. Non sono un politico ma credo che l'accordo sul nucleare apra delle prospettive, anche secondo me l'amicizia è più difficile da instaurare dell'inimicizia».
Uomini e donne entrano e escono, «Shalom». Un gruppo di ragazzi si dondola avanti e indietro tenendo fissato sulla fronte e sul braccio il tefillin alla maniera degli ultraortodossi.
Farzin racconta la sua comunità, la sua vita: «Siamo diecimila in Iran, tremila a Teheran, l'unica città dove oltre alle sinagoghe ci sono delle scuole ebraiche per i bambini». Per chi dovesse credere che sia un paradiso spiega che non lo è: «Ricordo il '79 perché prima potevamo costruire sinagoghe e dopo non più. Sotto Ahmadinejad poi, abbiamo subito molta propaganda negativa e atti vandalici, luoghi sacri sono stati danneggiati. Ma in ogni Paese c'è chi la pensa diversamente e nella storia noi ebrei siamo sempre stati minoranza. Avremo sempre paura: so che quando i miei figli finiranno le scuole ebraiche incontreranno le reazioni negative che ho incontrato io all'università dove ho avuto amici musulmani ma anche tanti nemici. Eppure bisogna vivere». Non vuol neppure menzionare i Neturei Karta, i rabbini ultraortodossi Usa convinti dell'illegittimità dello Stato d'Israele al punto da abbracciare Ahmadinejad. Lui è stato una volta a Gerusalemme, la sogna ancora.
Ammette il peso dell'antisemitismo, ma qui dove gli ebrei hanno un seggio in parlamento lo sente meno che nel resto del Medio Oriente: «Non vivrei mai al Cairo, sebbene l'Egitto sia in pace con Israele. Nella sua storia l'Iran ha sempre mostrato una cultura maggiore degli arabi verso le altre fedi».
(La Stampa, 9 agosto 2015)
di Sara Gandolfi
Si alza il tono dello scontro fra Barack Obama e la potente lobby degli ebrei conservatori d'America, che si oppone all'intesa con l'Iran. Mancano cinque settimane al voto del Congresso sul testo dell'accordo, che elimina in parte le sanzioni a Teheran in cambio di una serie di restrizioni al suo programma nucleare, e il presidente Usa ha scelto la linea dello strappo. In un incontro a porte chiuse alla Casa Bianca con l rappresentanti dell'Aipac (The American Israel Public Affairs Committee) avrebbe accusato la lobby pro-israeliana di spendere milioni di dollari in pubblicità contro l'intesa e di diffondere dichiarazioni false. «Controbatterò con forza», avrebbe concluso Obama, secondo la ricostruzione fatta dal New York Times. E il giorno dopo, intervenendo all'American University, ha denunciato pubblicamente i «lobbisti» che spendono somme enormi - almeno 20 milioni - per disinformare e «strombazzare» la «stessa retorica» che ha portato gli Usa in guerra con l'Iraq,
Una presa di posizione senza precedenti per un inquilino della Casa Bianca, fa notare il quotidiano, che ricorda due soli casi: Ronald Reagan che sfidò le obiezioni di Israele e dell'Aipac alla vendita di aerei Awacs all'Arabia Saudita nel 1981 e George Bush che un decennio dopo si definì «un piccolo uomo solo» contro un migliaio di lobbisti a Capitol Hill. Gli stessi lobbisti che da settimane premono sui parlamentari per convincerli a votare «no» all'accordo con gli ayatollah (qualche giorno fa. più di 700 aderenti all'Aipac si sono riuniti allo scopo a Washington, rifiutando peraltro un invito alla Casa Bianca).
La posta in gioco, per Obama. è altissima. In più di un'occasione ha sottolineato come l'Intesa di Vienna sia un cardine della politica estera del suo secondo mandato. E benché sia certo che le Camere a maggioranza repubblicana bocceranno in prima battuta l'Intesa. gli oppositori difficilmente riusciranno a mettere insieme i due terzi necessari per opporsi al successivo veto presidenziale, anche se hanno appena incassato l'appoggio del democratico Chuck Schumer, il più influente senatore ebreo.
E' una decisione che in realtà sta lacerando la comunità ebraica - tradizionalmente schierata con i democratici - e l suoi rappresentanti. Sander Levin, il deputato ebreo di più lungo corso, si è già dichiarato per il «sì» mentre Grace Meng, democratica newyorchese eletta in un distretto a maggioranza ebraica, voterà «NO». Un diplomatico israeliano a Washington, secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, avrebbe confermato al suo governo che «la comunità ebraica in America non è allineata dietro Israele».
La spaccatura è emersa anche durante l'incontro alla Casa Bianca fra Obama e una ventina di leader dell'associazionismo ebraico, tra cui i «duri» dell'Aipac, che avrebbero accusato il presidente di bollarli come «guerrafondai». Secondo alcuni testimoni, Obama sarebbe andato oltre nel criticare il gruppo. «Le parole hanno conseguenze, specialmente quando prevengono dalle autorità», ha commentato Malcolm Hoenlein. Ma il leader statunitense avrebbe contrattaccato, lamentandosi degli spot tv che lo paragonano a Neville Chamberlain, il premier britannico che firmò l'Accordo di Monaco con Adolf Hitler nel 1938. Il peso politico - e psicologico - dell'opinione degli ebrei d'America è evidente. Entrambe le parti lo hanno compreso e lo scontro, finora relegato dietro le quinte, comincia ad emergere anche in pubblico.
(Corriere della Sera, 9 agosto 2015)
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO - A Berlino, soprattutto attorno alla vecchia e alla nuova sinagoga, è impossibile ignorarle. Sono piastre di ottone minuscole, grandi quanto un sanpietrino, con una breve, toccante iscrizione. Si incrociano ovunque, davanti ai portoni e agli ingressi dove sono avvenute le deportazioni naziste. Recano solo il nome della vittima, la data di nascita, la data di deportazione e quella di morte. Solo nella capitale tedesca ce ne sono seimila.
In tutto l'artista Gunter Demnig ne ha già incise cinquantamila, esportate anche in altri Paesi, in Italia, in Austria, in Polonia, ovunque siano arrivate le persecuzioni hitleriane (la numero 50mila è stata collocata a Torino in memoria di Eleonora Levi morta ad Auschwitz). L'artista di Colonia le ha chiamate «Stolpersteine», «pietre d'inciampo». Il senso è chiaro: fare in modo che nessuno possa dimenticare la dimensione delle persecuzioni, che si inciampi di continuo nel ricordo delle deportazioni. Ad oggi quello di Demnig è il più esteso monumento alle atrocità naziste del mondo.
I divieti
Ma qualcuno è riuscito a farle vietare. E proprio nella città degli esordi del Fuehrer, delle prime violente scorribande delle camicie brune, dello sventato putsch nazista del 1922: Monaco di Baviera.
Nel capoluogo bavarese le pietre d'inciampo sono bandite: dal 2004 Charlotte Knobloch, che le ritiene offensive, si batte perché restino confinate alle abitazioni private. Nel 2014 la capa della comunità ebraica di Monaco e dell'Alta Baviera ha spiegato il senso della sua guerra: «Mi fanno venire in mente le persone già buttate a terra che venivano prese a calci con gli stivali di ferro fino a farle montare sui camion che li deportavano. Persone rannic- chiate, ferite, in fin di vita o già morte. Queste pietre possono essere bersaglio di sputi, sporcizia, graffi, escrementi animali o essere oggetto di gesti offensivi».
La comunità monacense è compatta e appoggia la battaglia di Knobloch, così come le iniziative varie nate in questi anni contro le pietre d'inciampo che accusano i sostenitori di essere spesso contro Israele o l'artista che le ha inventate di fare soldi con l'Olocausto. Anche fuori da Monaco le pietre hanno fatto discutere: il capo della comunità ebraica di Amburgo, Daniel Killy, ha accusato Demnig brutalmente di «aver fatto i milioni con milioni di vittime». Inoltre lo stesso artista ha contribuito ad attirare l'odio di una parte della comunità su di sé con una gaffe mostruosa come l'utilizzo di termini nazionalsocialisti sulle placche. Su una pietra aveva scritto: «Gewohnheitsverbrecher», criminale recidivo, ma è un termine cancellato dopo il nazismo perché sottintende che qualcuno lo sia quasi geneticamente.
Per ora il presidente della comunità ebraica tedesca, Josef Schuster, difende le Pietre d'inciampo: «personalmente sono dispiaciuto per la decisione del comune di Monaco». E il gruppo che si batte per introdurle anche a Monaco non si perde d'animo. Ernst Grube, sopravvissuto a Theresienstadt, ha raccontato ieri alla Sueddeutsche Zeitung che vuole una pietra d'inciampo da dedicare al padre di sua moglie. È indignato di doversi battere «per quella pietra minuscola», nella «capitale del movimento», nella città della «resistibile ascesa» del Fuehrer, come la chiamò Bertolt Brecht.
(La Stampa, 9 agosto 2015)
di Giacomo Galeazzi
ROMA - Quella che viene raccontata su queste pietre è una storia inequivocabile e rappresenta un antidoto al negazionismo». L'architetto e storico dell'arte Adachiara Zevi non si stupisce del dibattito tedesco tra pro e contro. «Accade anche qui», spiega la presidente della fondazione culturale Bruno Zevi e di «Arte in memoria», l'associazione che si occupa in Italia del progetto «Memorie d'inciampo». Centinaia di pietre installate in decine di città per ricordare i deportati razziali, politici e militari. «Mappa urbana di luoghi della memoria che si compongono in monumento democratico per non dimenticare».
- Dove sono queste pietre?
«A Roma in più 220 luoghi. Ghetto, centro, periferie. A via Urbana 2 un sampietrino è dedicato a don Pietro Pappagallo, il sacerdote che durante l'occupazione nazista nascose perseguitati. In via Madonna dei Monti si rende omaggio ai familiari di Giulia Spizzichino, assassinati adAuschwitz e alle Fosse Ardeatine. A Venezia, Torino, Prato, Brescia, in altre città. Memoriale diffuso, dedicato indifferentemente a tutti deportati».
- Un messaggio rivolto a chi?
«I primi a inciamparci sono gli inquilini dei palazzi dove sono le pietre, poi i cittadini che passano per strada. È una memoria democratica. Pietre identiche per tutti sulle quale sono scritti nome, cognome, date di nascita,deportazione,morte. Segno democratico e anti-gerarchico, a differenza di quanto accade al cimitero dove chi ha i soldi si fa costruire un monumento funebre e chi non li ha finisce nel semplice loculo».
- Quali sono i luoghi-simbolo?
«Due pietre d'inciampo sono davanti all'entrata del carcere di Regina Coeli, in ricordo dei detenuti politici, Jean Bourdet e Paskvala Blazevic. Un mosaico della memoria le cui tessere restituiscono ai deportati dignità di persone e un luogo dove ricordarli. Le pietre sono tutte importanti allo stesso modo. Aiutano a capire che le deportazioni non sono avvenute solo al ghetto e non solo il 16 ottobre 1943, data della grande razzia di ebrei romani. Ma anche in borgate come Valla Aurelia e Pigneto. Le pietre davanti alla caserma di viale Giulio Cesare riportano alla luce una pagina poco conosciuta: una settimana prima della razzia al ghetto, i nazisti deportarono 2mila carabinieri ritenendoli inaffidabili. Altre raccontano deportazioni di antifascisti. Memoria collettiva».
- Qualcuno si oppone alle pietre?
«Come in Germania resistenze ci sono anche in Italia. E non solo da negazionisti ma anche da chi non le vuole vedere uscendo da casa propria. Malgrado le pietre d'inciampo siano una presenza discreta, il 10- ro senso è molto forte. Non si può fare a meno di vederle e di leggere cosa c'è scritto sopra. Vengono commissionate dai familiari. Partono da una memoria privata ma il luogo in cui sono installate è pubblico. La responsabilità di farsi carico di questa memoria passa dalla famiglia alla collettività. Le pietre sono parte delle città e la loro collocazione rende impossibile sostenere che i campi di sterminio non siano esistiti. Servono a ricordare cosa è successo durante la Shoah».
- A cosa servono in concreto?
«Riconoscere quello che è successo è il primo passo affinché questo orrore non accada mai. Sono piccole targhe di ottone infisse nell'asfalto delle vie per ricordare chi si voleva ridurre soltanto a un numero. Attraverso le pietre chiunque può fermarsi a riflettere e fare memoria di ciò che è accaduto. Dimostrano che gli ebrei furono deportati in diversi periodi e da tutta Roma, non solo dal ghetto. Testimoniano la vastità della deportazione politica».
(*) Adachiara Zevi è architetto e presidente della Fondazione Bruno Zevi.
(La Stampa, 9 agosto 2015)
MOSCA - Una flotta della marina militare russa starebbe per entrare nelle acque territoriali iraniane e attraccando lungo le coste del paese.
A darne notizia è l'Irna. La missione, secondo i media, è un segno di "pace e di amicizia", ed è intesa per rafforzare la fiducia reciproca e le relazioni amichevoli tra i due paesi.
Le navi militari dovrebbero attraccare nella quarta zona navale dell'Iran il 9 agosto, il comandante della flotta russa dovrebbe visitare la provincia di Gilan e incontrare le autorità politiche e militari locali. Si tratta della terza visita in otto anni, la marina militare russa, infatti, è già entrata nelle acque territoriali iraniane due volte: nel 2007 e nel 2014; entrambe le visite avevano lo scopo di rafforzare i legami amichevoli e la cooperazione tra i due paesi
Nel 2013, la marina russa e navi di altri stati del Caspio si sono scambiate visite per quattro volte; navi iraniane hanno visitato il porto di Astrakhan nell'agosto del 2013.
(agc, 8 agosto 2015)
di Sergio Della Pergola
Mi è sembrata insufficiente la reazione dei rabbini in Israele e nel mondo di fronte agli abbietti omicidi perpetrati nei giorni scorsi da alcuni giovani israeliani nei confronti di un infante arabo in un villaggio della Cisgiordania e di una ragazza ebrea nelle strade di Gerusalemme. Gli uccisori, così come l'assassino del primo ministro Rabin nel 1995, erano o erano stati tutti allievi di accademie rabbiniche, o presunte tali, agivano in nome di principi che, a loro dire, derivavano dalla tradizione ebraica, e si prefiggevano obiettivi dettati, sempre a loro dire, dalle norme dell'ebraismo. In sintesi, il programma degli assassini e delle altre (non molte) migliaia di persone che sono accomunate nella stessa ideologia, è lo stabilimento di uno stato fondato sull'applicazione integrale della halachah (il diritto ebraico tradizionale) su tutto l'antico territorio storico della Terra d'Israele, qualunque esso sia, e senza alcuna esclusione di mezzi, compreso l'omicidio.
Gli ultimi sanguinari episodi sono stati condannati dai capi-rabbini di Israele Yizhak Yosef e David Lau insieme a molti altri noti rabbini israeliani di diverse correnti e a diversi rabbini italiani. Da una quindicina di voci autorevoli raccolte in internet emergono queste direttrici di pensiero: "Gli autori dei delitti sono dei criminali. Sono atti feroci e senza logica. Preghiamo per la salute e il pronto ricupero dei feriti. Questa barbarie va condannata. Condanniamo il sangue versato dagli assassini in nome della religione. Questi comportamenti sono contrari a qualsiasi valore ebraico. È impensabile che un uomo sollevi la sua mano contro l'anima di un altro ebreo in nome della religione. Chiunque sia coinvolto in spargimenti di sangue non ci rappresenta. La Legge del Popolo d'Israele è contro la violenza e a favore della vita. Nell'ebraismo il valore della vita sta al di sopra di ogni altra cosa. La Torah dice non uccidere. Ci sono persone che compiono azioni due volte criminali: uccidono e lo fanno nel nome di D.o, che ci comanda di non farlo. Guai a coloro che sono vergogna per la Torah e il popolo di Israele. Dobbiamo riflettere sulla responsabilità individuale e collettiva. Gli errori del nostro popolo ci procurano dolore più degli errori di altri popoli. Anche quanto non siamo d'accordo dobbiamo trovare una via per esserlo in modo rispettoso e dobbiamo evitare a ogni costo situazioni che portino al versamento di altro sangue. Richiamiamo l'intero popolo ebraico a tornare all'unità in uno spirito di gentilezza e di tolleranza. Le parti coinvolte devono maturare la consapevolezza che non vi è né vi può essere altra soluzione al di fuori del dialogo".
Tutte queste parole sono giuste, nobili e di grande buon senso, ma avrebbero potuto essere proposte da un quasiasi bravo giornalista oppure da un onesto docente universitario. Dal rabbinato ci aspettiamo qualche cosa di diverso e di più. E più in particolare pretendiamo tre cose. La prima è che venga sviluppata con ben maggiore profondità l'analisi del punto di vista ebraico sugli atti criminali commessi e sulle loro aberranti premesse ideologiche. La seconda è una condanna esplicita e senza attenuanti nei confronti di quelle specifiche scuole rabbiniche all'interno delle quali e su istruzione dei cui maestri sono maturati gli infami assassini. E la terza è una chiara e non equivoca specifica delle sanzioni e delle pene alle quali, secondo il diritto ebraico, devono essere sottoposti i vili criminali che nello stroncare giovani vite innocenti hanno infamato l'immagine di tutto il popolo ebraico e di tutto lo stato d'Israele.
(moked, 6 agosto 2015)
di Michele Steindler
Ho sempre dubitato di chi scrive non al singolare ma attribuendosi il plurale maiestatis, non ho mai capito se chi lo fa si ritenga rappresentante di un ampio gruppo di persone che l'hanno nominato loro portavoce o perché abbia un ego talmente smisurato che il singolare non può contenere la propria autostima
.
Il prof. Sergio Della Pergola non si accontenta delle parole dei Rabbini capo d'Israele, ma pretende di più, anzi "pretendiamo" di più, è difficile rispondere a questa chiamata di responsabilità collettiva del mondo delle yeshivot, vorrei però puntualizzare alcuni punti:
Non so in quale yeshivà si siano formati Igal Amir e gli altri assassini - ammesso e non concesso che abbiano studiato - ma non mi risulta che alcuno di loro sia stato un ex studente di alcuna delle figure più importanti e trainanti del mondo religioso sia essa Merkaz Harav, Ponovich o Porat Yosef.
Mi risulta invece che Igal Amir sia un ex studente universitario, secondo lo stesso (s)criterio chi fa parte del mondo accademico israeliano dovrebbe sentirsi chiamato in causa?
Se uno degli assassini abbia vissuto o viva a Yerushalaim a maggior ragione molti altri israeliani dovrebbero sentirsi chiamati in causa in quanto concittadini?
È evidente che quelle che propongo sono delle sciocchezze, ma non troppo distanti da altri sillogismi.
Durante gli accordi di Oslo ero studente alla Yeshivat Hakotel, istituto che ho continuato a frequentare anche negli anni successivi; ho quindi vissuto tale periodo compreso quello dell'omicidio Rabin z"l all'interno di quel mondo che si vuole oggi colpevolizzare e invitare a un mea culpa collettivo, a riguardo posso dire: È evidente che vedevamo quegli accordi come un fatto negativo, ma mai nessun Rav ci invitò a praticare violenza o augurare nulla ai leader politici di allora, dopo l'omicidio fu a tutti ricordato come l'assassinio rappresenti l'esatto contrario dell'etica ebraica, e nessuno cercò di giustificare Igal Amir; se proprio devo esprimermi sul valore della democrazia mi ricordo la proibizione che il Rosh Yeshivà ci diede di partecipare a manifestazioni politiche in quanto eravamo studenti stranieri e non cittadini israeliani.
Anche io ritengo che di fronte alla violenza vi sia una responsabilità collettiva, ma la stessa ci appartiene quale popolo ebraico, e mi dispiace che di fronte a una chiara, netta e totale presa di posizione del mondo rabbinico si pretenda, anzi "pretendiamo" qualcosa che vuole colpevolizzare un'intera parte di società israeliana che non ha nulla a che spartire che questi barbari assassini.
(moked, 9 agosto 2015)
Aggiungiamo alcune parole di commento all'articolo di Della Pergola estratte da un recente articolo di Deborah Fait:
Un razzo lanciato da Gaza è caduto ieri in territorio israeliano a nord del villaggio di Kissufim a ridosso della Striscia. Nessuno è rimasto ferito. Altri due razzi, secondo quanto riferito da alcuni organi di stampa, sarebbero caduti dentro Gaza, anche questi senza colpire persone. L'aviazione israeliana, come risposta ha compiuto un'incursione sulla Striscia colpendo una presunta base di addestramento di Hamas nel campo di El Boureij. Secondo alcune fonti ci sarebbe un ferito. «Dall'inizio di agosto diversi razzi sono stati lanciati verso il sud di Israele - ha detto il portavoce dell'Esercito israelaino Peter Lerner- la maggior parte caduta nella Striscia. Hamas deve assumersi le sue responsabilità o fronteggiarne le conseguenze». Il lancio dei razzi è stato rivendicato in serata da un gruppo militante legato allo Stato Islamico.
(Il Messaggero, 8 agosto 2015)
L'accordo nucleare tra gli Stati Uniti e l'Iran aumenterà l'influenza della Russia e della Cina in Medio Oriente, e l'emergere dell'asse Mosca-Pechino-Teheran potrebbe accelerare il declino negli Stati Uniti nella regione, sostiene l'analista statunitense Arthur Herman.
Nel suo articolo sul 'Wall Street Journal', l'analista spiega che la revoca delle sanzioni contro l'Iran comporterebbe il più grande cambiamento geopolitico in Medio Oriente dopo la crisi di Suez del 1956.
Herman è convinto che proprio la Russia e la Cina diventerebbero i più grandi giocatori nella riattivazione dell'economia iraniana quando e se le sanzioni internazionali contro il paese verranno sollevate, sia nel campo della tecnologia informatica o nei progetti sugli idrocarburi.
"Mosca può offrire i suoi avanzati caccia Su-30 Flanker per sostituire la flotta di F-14 in servizio nell'Air Force iraniana fin dai tempi di Jimmy Carter e i sofisticati sistemi antiaerei S-400 che renderebbero qualsiasi attacco futuro degli Stati Uniti o di Israele alle sue strutture nucleari iraniane troppo costoso", scrive l'analista.
Secondo Herman, la cosa più importante è che un Iran forte e in crescita corrisponde agli interessi strategici della Cina e della Russia nella regione.
"Per la Russia, questo include il supporto dell'Iran per il presidente siriano Bashar al Assad, che faciliterà una crescente presenza navale russa nel Mediterraneo orientale", ha detto.
Mentre la Cina dovrebbe aggiungere l'Iran alla lista di partner strategici ed espandere la sua cooperazione militare.
"La comparsa di un asse Mosca-Pechino-Teheran accelererà l'eclissi degli Stati Uniti come potenza straniera dominante nella regione, con conseguenze che nessuno può prevedere", conclude l'autore.
(L'AntiDiplomatico, 8 agosto 2015)
Barack Obama sembra proprio essere luomo del destino con il compito di accelerare leclissi degli Stati Uniti come potenza dominante non solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo. Il distacco da Israele che persegue con tenacia fin dall'inizio del suo mandato ne è una conferma. Come a suo tempo si pensava, sbagliando, che il distacco di Hitler dagli ebrei fosse un aspetto secondario della sua politica, così oggi si pensa, di nuovo sbagliando, che il distacco di Obama da Israele sia un fatto puramente strumentale della sua politica. Non è così. M.C.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - La «Divisione 30» si rifiuta di combattere contro Al Qaeda e la Siria diventa il teatro di un fallimento degli alleati militari di Washington che evoca il disastro della Baia dei Porci e l'umiliazione del Vietnam del Sud.
In pochi sul campo
La «Divisione 30» è l'unità dell'«Esercito di liberazione siriano» che il Pentagono è riuscito con gran fatica a far nascere in un campo di addestramento in Turchia: in teoria avrebbe dovuto contare almeno 1500 ma ne sono stati addestrati solo 54, a causa della difficoltà di trovare reclute affidabili. Questi 54 combattenti, agli ordini del comandante Nadim al-Hassan, a metà luglio sono entrati nel Nord della Siria, assumendo il controllo di una base e preparandosi a compiere missioni di ricognizione per gli aerei della coalizione guidata dagli Usa. Il loro compito avrebbe dovuto essere di identificare sul territorio gli obiettivi da far colpire ai jet, rimediando cosi alla maggiore difficoltà della coalizione: trovare chi bersagliare.
La cattura del leader
Ma i jihadisti di Al Nusra, emanazione diretta di Al Qaeda, nell'arco di pochi giorni hanno scoperto la base della «Divisione 30» e l'hanno attaccata in forze, provocando fra i ribelli filo-Usa un bilancio pesante: 5 morti e 18 catturati, incluso il comandante Nadim al-Hassan. I sopravvissuti hanno reagito allo smacco militare imputando al Pentagono di «non averci difesi» con il «necessario fuoco di protezione» e quando i portavoce della base di Tampa, in Florida, hanno fatto presente che «in realtà la protezione c'è stata» la replica dell'ufficiale dei ribelli filo-Usa, Ammar al Wawi, è stata: «Certo che avete sparato, ma quando ormai era tardi».
Scontro con il Pentagono
L'irritazione contro gli ex-istruttori militari Usa è diventata, in pochi giorni, rivolta vera e propria con la scelta di incrociare le braccia e cessare ogni operazione «perché non siamo venuti in Siria per combattere contro Al Nusra, ma solo contro Isis e il regime di Bashar Assad». Il tutto presentato sotto forma di comunicato scritto nel quale ciò che resta della «Divisione 30» afferma di «essere contrario ai raid della coalizione contro gli obiettivi di Al Nusra perché non sono nostri nemici». Che si tratti di volontà di riavere i compagni catturati, paura di combattere o insubordinazione verso il Pentagono, Charles Lister, arabista del «Brookings Doha Center», definisce tale comportamento «un inizio disastroso per le unità addestrate dagli Usa» al punto tale che «le altre fazioni ribelli filo-occidentali non si fidano più di loro». Da qui il parallelo con la Baia dei Porci ovvero il fallimento dell'invio nel 1961 di 1400 esuli sull'isola di Cuba nel tentativo di rovesciare Fidel Castro: l'operazione dopo 24 ore era già fallita e in 3 giorni la «Brigada 2506» era stata decimata, con i sopravvissuti detenuti e interrogati nel carcere dell'Avana. Più clamoroso è il collasso del Vietnam del Sud di Nguyen Van Thieu, nell'aprile del 1975: l'esercito di un milione di uomini formato dagli americani si sciolse come neve al Sole consentendo ai nordvietnamiti di prendere Saigon.
(La Stampa, 8 agosto 2015)
MILANO - L'Italia e la Germania saranno probabilmente i maggiori beneficiari dell'aumento delle importazioni da parte dell'Iran , che dovrebbe far seguito alla graduale rimozione di una parte delle sanzioni dopo l'accordo raggiunto a metà luglio da Teheran con gli Usa e altri cinque Paesi, i restanti membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu più la Germania, sull'uso dell'energia nucleare. A prevederlo è State Street Global Advisors, in un report dedicato all'Iran, "The Implications of Iran's Normalization", firmato da Elliot Hentov, vicepresident e responsabile Policy e Research dell'Official Institutions Group di State Street GA.
L'Iran detiene cospicui fondi nei conti vincolati (escrow accounts) in cui Cina, Giappone, Turchia, Taiwan, Corea del Sud e India sono stati forzati dalle sanzioni Usa a depositare i pagamenti in cambio del petrolio iraniano; da questi conti, Teheran poteva prelevare solo poche merci, selezionate in un'ottica umanitaria. Ora, con la graduale rimozione delle sanzioni, è probabile che l'Iran nel 2016 ritorni nella piena disponibilità di questi fondi, stimati in circa 100 mld di dollari.
Non solo. L'Iran potrà anche vendere immediatamente una quantità di petrolio stimata in 40 mln di barili, per circa 2-2,5 mld di dollari. Insomma, il Paese con la rimozione delle sanzioni tornerà in possesso di ingenti risorse, una parte delle quali sarà probabilmente "segregata per sostenere le riserve della banca centrale e forse per supportare la ricapitalizzazione del settore bancario".
Tuttavia, "il calendario politico iraniano (le elezioni politiche si terranno nel marzo 2016, ndr) potrebbe portare direttamente a un aumento della spesa pubblica, che potrebbe sostenere a sua volta un balzo della domanda di beni importati in molti settori, ma specialmente nei macchinari, nell'industria leggera e nei beni di consumo. Con gli investimenti nell'industria petrolifera in moto, ci dovrebbe essere una crescita sostenuta nell'importazione di beni capitali, specie macchinari pesanti, negli anni successivi al 2017".
Fino ad allora, prosegue Hentov, "l'assunzione base è di una crescita addizionale delle importazioni di circa 70 mld di dollari entro fine 2017, dei quali circa la metà sarebbero semilavorati per l'industria petrolchimica, l'automotive e altri settori industriali. La crescita delle importazioni, presumibilmente, non sarebbe simmetrica all'attuale profilo delle importazioni dell'Iran, ma porterebbe più probabilmente ad un riorientamento del commercio, i cui maggiori beneficiari sarebbero gli esportatori europei, in particolare la Germania e l'Italia".
"Solo per questi due Paesi - continua State Street - l'apertura del mercato dell'Iran potrebbe tradursi in esportazioni aggiuntive del valore di 10-12 mld di dollari nei prossimi due anni. Dalla Germania aumenterebbe la domanda di macchinari, prodotti farmaceutici, chimici e dell'industria leggera, mentre dall'Italia crescerebbero probabilmente le importazioni di beni di consumo e del settore automotive".
(Adnkronos, 8 agosto 2015)
di Paola Naldi
Nuovi fondi ministeriali (7 milioni di euro dal Piano strategico Grandi Progetti) e una nuova figura di direttore. Due tasselli si aggiungono al progetto del Meis, il Museo Nazionale dell'Ebraismo e della Shoah che dovrebbe aprire nella primavera del 2017, dando corpo ad un'idea partorita, in realtà, molti anni fa. Istituito per legge nel 2003, collocato nell'ex carcere della città, il museo era stato inaugurato nel 2011 ma solo per ospitare qualche evento e alcune piccole mostre tematiche, nell'attesa di concretizzare un progetto ben più complesso teso a raccontare la storia dell'ebraismo in Italia. Oggi, chi visita l'ex carcere di via Piangipane trova un cantiere aperto per la riqualificazione dell'edificio storico, in parte demolito.
«Con i 7 milioni stanziati dal ministro Franceschini riusciremo a realizzare una delle cinque nuove palazzine previste dal piano, quella a ridosso dell'entrata che ospiterà il punto di accoglienza, il book shop, i servizi - commenta Massimo Maisto, assessore alla Cultura di Ferrara e membro del Cda del Meis -. Finora, con 10 milioni già stanziati, siamo intervenuti sull'edificio dell'ex carcere e ci vorrà circa un anno per completare i lavori, ma l'obiettivo è di aprire una nuova ala nella primavera del 2017. I tempi stringono e per questo il Cda ha deciso di cambiare lo statuto semplificando la governance, e dotare quindi il museo di un direttore, una figura che oggi manca: pensiamo di nominarlo entro novembre».
Già, perché un museo ha bisogno sì di una sede adeguata, ma necessita pure di una guida che metta in pratica il progetto espositivo, che per ora rimane quello stilato da Piero Stefani, il direttore del Meis dimessosi nel 2010. «L'idea originale è un mix tra un percorso temporale e la storia regionale - spiega ancora Maisto -. Il Meis non ha un patrimonio, a parte piccole donazioni, ma dovrebbe diventare il punto di riferimento per le Comunità ebraiche di tutta Italia, mettendo in luce i loro archivi, le loro storie, facendo il punto su grandi personaggi.
Il progetto originale prevedeva la parte espositiva, con un forte apparato multimediale, nelle cinque palazzine nuove mentre l'ex carcere doveva servire da accoglienza Invece dobbiamo ribaltare i piani perché, per il momento, l'unica parte pronta è la sede storica a cui si aggiungerà la prima nuova palazzina. Sarà compito del direttore rivedere l'assetto per essere aprire al più presto, senza aspettare che tutto sia finito». Un obiettivo che giustifica i 7 milioni di euro stanziati dal Governo, che definisce il Meis un progetto «di eccezionale significato culturale e storico, la cui realizzazione deve essere accelerata per rispondere ad una domanda in costante crescita», apprezzato pure dal ministro Franceschini come «un intervento molto importante che arricchirà l'offerta culturale della città in un'ottica sempre più internazionale».
(la Repubblica - Bologna, 8 agosto 2015)
GERUSALEMME - L'aeronautica israeliana ha completato un'esercitazione su larga scala di undici giorni in Grecia volta a migliorare le capacità di combattimento e di trasporto attraverso l'uso di elicotteri. Grazie alla manovra i militari israeliani hanno acquisito una preziosa capacità di esperienza su un terreno montuoso che potrà essere applicata in missioni a breve e lungo raggio, secondo quanto affermato da un ufficiale militare. In questo modo, infatti, le forze armate israeliane hanno preso familiarità con un terreno sconosciuto, se si tiene presente che il territorio del paese mediorientale è per lo più pianeggiante.
(Agenzia Nova, 7 agosto 2015)
Camminando per le strade di Netanya a volte si può avere l'impressione che la città si stia trasformando in una piccola Nizza. Questo perché nella città costiera israeliana, poco distante da Tel Aviv, difficilmente si sente parlare ebraico e tutte le insegne delle attività commerciali sono in francese o contengono all'interno un riferimento alla Francia.
A causa dell'incremento di incidenti antisemiti, avvenuti nella grande maggioranza dei casi da estremisti islamici, la comunità ebraica francese, la terza per grandezza dopo Israele e Stati Uniti, ha optato per l'emigrazione verso lo Stato ebraico. Un'ondata senza precedenti che ha reso Netanya, grazie a una già consolidata presenza di ebrei francesi, la meta privilegiata degli olim chadashim (coloro che hanno appena fatto l'alyah, il ritorno in Israele dalla diaspora)....
(Progetto Dreyfus, 6 agosto 2015)
La prova più convincente
Quando Federico il Grande, re di Prussia, chiese al suo cappellano di mostrargli la più convincente prova della fede cristiana, il cappellano rispose: "Gli Ebrei!" Il popolo ebreo rimane la testimonianza della veridicità della Parola di Dio, molto dopo che altre grandissime civiltà sono ormai estinte. Nel corso della storia biblica, Dio ha promesso alla nazione ebrea che Egli l'avrebbe preservata per sempre. Al tempo di Paolo però, c'era una crescente preoccupazione che Dio avesse respinto Israele a causa del suo rifiuto di Gesù come Messia. Poiché la chiesa era predominantemente composta da pagani convertiti, sembrava che Dio avesse messo Israele da parte mentre costruiva la propria chiesa. L'apostolo Paolo, affrontando questa preoccupazione nella lettera ai Romani (11:11-15), spiega che l'incredulità di Israele non ha frustrato le promesse di Dio a Israele; piuttosto questa incredulità ha messo in atto il piano di redenzione di Dio per l'umanità. Paolo inizia questo brano con una domanda penetrante: "Hanno essi cosi inciampato da cadere?" (11:11). Aveva già affermato che il rifiuto di Gesù da parte di Israele era come una persona che inciampava (11:9). Ora egli chiedeva perché erano inciampati. Erano inciampati senza potersi rialzare? Israele era caduta in modo tale che non avrebbe mai potuto riprendersi? Qual era lo scopo di Dio nel permettere che Israele inciampasse? Dio intendeva rimuovere le sue benedizioni per sempre? La risposta viene data immediatamente: "Così non sia" (11:11). |
Un palestinese di circa 20 anni ha deliberatamente investito con la sua auto, giovedì pomeriggio, un gruppo di pedoni israeliani in attesa a una fermata presso Shiloh, in Cisgiordania. Feriti tre soldati in licenza, di cui due gravi. Altri soldati presenti hanno reagito sparando, il veicolo si è ribaltato e il terrorista, rimastovi intrappolato, è stato poi ricoverato in condizioni critiche. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha nuovamente invitato la comunità internazionale a condannare questo attacco come quello all'inizio della settimana, quando un veicolo israeliano è stato incendiato da un ordigno molotov a Gerusalemme. "Trovo sorprendente - ha detto Netanyahu - che coloro che si sono affrettati a condannare il terrorismo contro palestinesi stiano in silenzio quando il terrorismo è diretto contro ebrei". "Sono orgoglioso dei nostri soldati, che hanno reagito immediatamente e hanno fermato il terrorista - ha detto il presidente Reuven Rivlin - Non c'è nessuna possibilità che Israele tolleri il terrorismo. Sostengo il primo ministro e tutti i membri delle forze di sicurezza nella loro lotta per il nostro diritto di mantenere un normale stile di vita in tutto il paese". Sia Hamas che la Jihad Islamica palestinese hanno elogiato l'attacco presso Shiloh definendolo "un atto di eroismo" e hanno esortato i loro seguaci a compiere ulteriori attentati di questo tipo.
(israele.net, 7 agosto 2015)
Dopo l'uccisione per mano di estremisti ebraici di un bimbo palestinese nell'incendio della sua abitazione, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha condannato l'azione definendola terrorismo, chiesto scusa al popolo e alla famiglia palestinese, promulgato leggi per la carcerazione preventiva a carico degli estremisti ebraici, mobilitato i Servizi per assicurare, al più presto, i colpevoli alla giustizia. Non ricordo un simile atteggiamento o anche una semplice condanna verbale da parte dell'Anp, men che meno da Hamas, dopo qualche attentato contro autobus o civili israeliani. Questa è una delle differenze, sfuggite peraltro ai compagni italiani pro arabi, tra una democrazia compiuta e chi fa del terrorismo praticante la propria politica.
di Yair Lapid
L'accordo sul nucleare con l'Iran pone due problemi. il primo è che le condizioni stabilite sono pessime. il sistema di ispezioni è carente, gli iraniani potranno continuare a sviluppare il programma militare e il messaggio recapitato al Medio Oriente è che l'Occidente è debole e fiacco, e che chiunque sia abbastanza scaltro da ingannarlo e raggirarlo alla fine viene premiato, anziché punito. La tesi secondo cui con tale accordo gli iraniani non acquisiranno mai l'arma nucleare richiama alla memoria di noi israeliani le parole di Primo Levi, grande scrittore sopravvissuto ad Auschwitz, in Se questo è un uomo: «Sapete come si dice "mai" nel gergo del campo? "Morgen Früh", domani mattina».
Il secondo problema è che questo accordo sta diventando l'unico criterio di giudizio del- l'Iran nell'arena internazionale. Tra i Paesi firmatari si è scatenata una furiosa corsa ai mercati iraniani. La comunità internazionale ha stabilito che se l'intesa è accettabile, evidentemente lo è anche l'Iran. La prova? L'imprimatur ricevuto dalle principali potenze mondiali.
Non c'è nulla di più lontano dalla verità.
Lasciamo per un momento da parte il programma nucleare iraniano e prendiamo in esame il comportamento dell'Iran. Da tre decenni è l'esportatore numero uno di terrorismo nel mondo.
Oggi gli iraniani non tentano neppure più di nascondere il proprio coinvolgimento nella brutale guerra civile siriana, con i suoi oltre 300 mila (per la maggior parte civili) e 3,5 milioni di persone strappate dalle loro case. In Libano c'è Hezbollah, un'organizzazione terroristica sciita finanziata e armata dall'Iran. Nella Striscia di Gaza sono invece Hamas e la Jihad islamica i gruppi terroristici a ricevere armi e finanziamenti dall'Iran.
In ballo non c'è solo l'esportazione del terrorismo, ma anche l'insieme di valori di cui quel terrorismo si alimenta. Nell'Iran del 2015 gli omosessuali finiscono appesi ai pali dell'elettricità, le donne accusate di adulterio vengono giustiziate, la tortura è di routine, i cristiani sono perseguitati e l'odio nei confronti degli ebrei fa parte della politica ufficiale.
L'Iran, dove la negazione dell'Olocausto si iscrive nella strategia di governo, è anche l'unico Paese delle Nazioni Unite che abbia pubblicamente più volte dichiarato l'obiettivo di distruggere un altro Stato membro (Israele) - non danneggiarlo o coinvolgerlo in un conflitto, ma distruggerlo.
In circostanze normali, i Paesi occidentali più avanzati, come la Germania e l'Italia, non esiterebbero a boicottare l'Iran, indipendentemente dal programma nucleare. Anche se i governi e le grandi aziende volessero fare affari con quel Paese, le organizzazioni femminili e gli attivisti per i diritti umani farebbero sentire la propria voce e scenderebbero in piazza.
Chiunque si definisca una persona con principi morali, si farebbe carico di dire ai propri governanti: «Prima di fare affari con l'Iran, pretendete che rinunci al terrorismo e alla violenza in patria e nel mondo».
Per qualche strana ragione, nulla di tutto ciò sta succedendo. Al contrario, l'Europa fa la predica a Israele, un Paese minacciato come nessun altro al mondo, che continua a essere democratico nonostante tali minacce, che rispetta il diritto internazionale e difende i diritti delle minoranze, delle donne e della comunità Lgbt.
Anche i più feroci critici di Israele riconoscono che quest'ultimo non minaccia la stabilità mondiale, né esporta il terrorismo. La morte di ogni persona innocente - israeliana o palestinese che sia - è un fatto che mi addolora, ma il numero di vittime del conflitto israelo-palestinese impallidisce di fronte agli scenari di crisi di cui l'Iran è responsabile. Eppure, noi israeliani siamo minacciati di boicottaggio, mentre le misure volte a isolare l'Iran vengono revocate con il plauso della comunità internazionale.
TI mondo è uscito di senno?
(Corriere della Sera, 7 agosto 2015 - trad- Enrico Del Sero)
WASHINGTON - Si fa sempre più complicata la battaglia di Barack Obama per ottenere il via libera all'accordo sul programma nucleare iraniano. Il presidente americano perde i primi due pezzi tra le fila dei democratici al Senato e alla Camera, entrambe a netta maggioranza repubblicana, che devono ratificare l'intesa. Contro l'accordo il deputato Eliot Engel, capogruppo nella commissione Esteri della Camera: "Le risposte che ho ricevuto semplicemente non mi convincono del fatto che questo accordo impedirà all'Iran di ottenere armi nucleari e questa intesa di fatto rafforza la posizione dell'Iran come potenza destabilizzante e distruttrice in Medio Oriente", ha detto.
Sulla stessa linea il senatore democratico Chuck Schumer, influente al Congresso e vicino alle posizioni di Israele, che secondo l'Huffington Post si appresta ad annunciare il suo voto contrario. Sul fronte opposto, quello del sì all'intesa, ha reso nota la sua posizione la senatrice democratica Kirsten Gillibrand.
Il presidente d'altra parte è già partito con la sua campagna di persuasione sull'intesa con l'Iran. Due giorni fa, all'American University di Washington, ha detto che l'unica alternativa all'accordo è la guerra.
(la Repubblica, 7 agosto 2015)
Autentico segnale distensivo o subdolo tentativo di tranquillizzare l'opinione pubblica ebraica da parte del regime iraniano? Comunque si guardi a quanto sta accadendo, un fatto storico.
Suscita infatti curiosità (anche in vista di ciò che sarà pubblicato) il visto concesso dall'Iran a uno dei più letti e influenti giornali ebraici del mondo, il newyorkese Jewish Daily Forward, che ha beneficiato di un permesso concesso dal ministro della cultura (che autorizza personalmente ogni singolo accredito rilasciato alla stampa estera) per svolgere il proprio ruolo di informazione direttamente da Teheran.
Un accadimento significativo, che viene annunciato proprio nelle ore in cui il presidente Obama sta cercando di ricucire la frattura con quella parte di mondo ebraico statunitense che ha condannato con fermezza l'accordo sul nucleare siglato a Vienna. Il confronto, come è noto, è stato portato direttamente nelle stanze della Casa Bianca per un incontro a porte chiuse che ha visto la partecipazione di rappresentanze nazionali, locali e di associazioni di vario tipo.
"L'accordo con l'Iran rappresenta un tema di enorme importanza per gli ebrei americani. Abbiamo inviato un nostro giornalista sul posto così da poter raccontare ai lettori, approfonditamente e con obiettività, che cosa davvero pensano gli iraniani dei frutti del negoziato, degli Stati Uniti e di Israele" afferma il direttore del Forward Jane Eisner. Stando a un recente sondaggio, il 49 % degli ebrei americani sarebbe favorevole all'accordo, a fronte di un 31% di contrari.
Il reportage del Forward sarà pubblicato la prossima settimana. Si ignora a firma di chi, visto che la direzione non ha ritenuto opportuno comunicarlo in anticipo. "Ci sono voluti due anni di trattative per ottenere questo visto. Tra pochi giorni - spiega Eisner - saprete tutto".
Fondato nel 1897, il Jewish Daily Forward nasce come giornale di riferimento degli ebrei progressisti e di lingua yiddish. Forte la vocazione progressista della testata, capace nei primi anni del Novecento di raggiungere tirature di quasi 300mila copie. Oggi all'edizione in yiddish si affianca quella in inglese, i numeri sono molto diversi, e diversi gli strumenti di comunicazione utilizzati, ma la sua voce continua ad essere tra le più autorevoli e ascoltate.
(moked, 7 agosto 2015)
Il fatto non sembrerebbe di difficile interpretazione. Proprio perché lIran ritiene estremamente vantaggioso laffare che sta portando a termine e teme che gli ebrei dAmerica possano mettersi di traverso, pensa che la cosa migliore sia cercare di allettarli con qualche contentino di facciata. Riuscire a staccare lo Stato dIsraele dagli ebrei della diaspora, soprattutto da quelli che contano nella patria dellutile Obama, fa parte della magistrale manovra iraniana. Del resto, oggi la pietra dintoppo per il mondo non è costituita dagli sparsi ebrei della diaspora, ma dalla ricostituita nazione ebraica sulla terra dIsraele. E contrariamente a quello che si pensa e si dice sulle potenti lobby ebraiche, è vero il fatto che gli ebrei che hanno raggiunto posizioni di rilievo nel mondo dei gentili, dovendo e volendo difendere prima di tutto i loro propri interessi personali, sono quasi sempre stati di scarsa utilità, e in qualche caso di autentico danno, per la difesa del popolo ebraico come tale. M.C.
di José Maria Aznar
C'è solo una cosa che gli ayatollah di Teheran vogliono più di una bomba nucleare: è la sopravvivenza del loro regime. Grazie all'accordo annunciato il 14 luglio, raggiungeranno entrambi gli obiettivi. L'accordo rafforzerà la loro tirannia, rivoluzionaria e integralista, e avranno la bomba nel giro di pochi anni. L'iniziativa Friends of Israel, di cui sono presidente, ha messo in guardia sul fatto che un cattivo accordo sia peggio di nessun accordo, e siamo fermamente convinti che l'accordo raggiunto, nonostante la buona fede dell'amministrazione statunitense, sia terribile.
Il male è nella natura stessa del regime degli ayatollah, che crede che la violenza sia uno strumento legittimo per raggiungere i suoi obiettivi espansionistici. L'amministrazione Obama sostiene che versando miliardi di dollari in Iran le sue aspirazioni saranno domate e i suoi comportamenti saranno moderati. Questi argomenti si basano su una pia speranza. Tutto ciò che sappiamo sulla Repubblica islamica, fin dalla sua fondazione nel 1979, va nella direzione opposta, così come la nostra esperienza con altri regimi tirannici, come la Corea del Nord. I dittatori non si dissolvono quando vengono inondati di denaro.
Il supporre, come fa questo accordo, che l'Iran modererà le sue politiche, rinuncerà alle sue aspirazioni egemoniche, respingerà i suoi alleati terroristi e diventerà un paese normale, è una scommessa pericolosa. Il risultato più probabile è un regime potenziato, meglio attrezzato per perseguire i propri interessi regionali e perfettamente in grado di costruire una bomba nucleare.
Il presidente Obama presenta una falsa dicotomia, in suggerendo che rinviare il percorso dell'Iran alla bomba è l'unico modo per evitare spargimenti di sangue ora. Ci sono alternative efficaci che rientrano tra questo accordo e una guerra.
Anche se può essere vero che i russi e i cinesi avessero già alleviato alcune conseguenze delle sanzioni economiche, comunque esse comportavano un pesante tributo per l'Iran. Gli iraniani non sarebbero venuti al tavolo delle trattative a parlare del loro programma nucleare, dopo anni di sforzi segreti, per un calo di interesse: le sanzioni stavano facendo egregiamente il loro lavoro.
Inoltre, a causa delle molte concessioni di questo accordo, in particolare la rimozione dell'embargo sulla vendita di armi all'Iran, il regime sarà meglio attrezzato e militarmente più robusto. Dieci anni, il lasso di tempo che passerà prima che l'Iran possa avere una bomba nucleare, sono un'eternità per un politico come Obama, che può rimanere al potere al massimo per otto anni. Ma è un grave errore il non pensare che le ambizioni iraniane sopravvivranno facilmente a un così breve lasso di tempo.
Infine, alcuni pragmatisti possono affermare che con la fine delle animosità provocate dalle sanzioni economiche, questo accordo aprirà una nuova fase di collaborazione con l'Iran, in particolare per quanto riguarda la lotta contro l'Isis. Ma è nell'interesse a lungo termine dell'Occidente avere una presenza iraniana in Yemen, Iraq o Siria? Il nemico del mio nemico non è sempre il mio amico, in particolare in Medio Oriente. Anche se gli Stati Uniti sono stanchi di guerre in territori lontani in cui la vittoria si dimostra sfuggente, la fatica non deve portare all'abbandono.
Lasciare all'Iran l'iniziativa nella lotta sul campo contro l'Isis è un inadempimento che il mondo occidentale e tanto meno gli Stati Uniti, non dovrebbero consentirsi. Che dopo un anno di attacchi aerei contro l'Isis, il califfato conservi ancora metà della Siria e un terzo dell'Iraq, non è perché l'Occidente è debole; è perché la nostra strategia minimalista non riesce ad abbattere il senso della vittoria presente nei tanti che si uniscono per lottare con l'Isis. Gli alleati occidentali possono essere efficaci militarmente, ma occorre un maggiore impegno per vincere.
In Europa, nel 1920 e 1930 molti leader competenti fecero gravi errori sulla base di falsi presupposti. Anche in America, ci sono stati momenti, come la gestione dei rapporti con l'Iran da parte di Jimmy Carter, in cui i presidenti hanno sbagliato. I politici non sono immuni dal commettere errori. Ma possono imparare dalla storia. Prima o poi l'Occidente dovrà affrontare l'Iran: se lo fa dopo, troverà un Iran più sicuro di se stesso, più preparato, modernizzato e più ricco, che farà del suo meglio per raggiungere gli obiettivi che abbiamo sempre cercato di evitare.
(Milano Finanza, 7 agosto 2015)
di Tommaso Canetta
L'Iran ha bruscamente rotto i rapporti con Hamas. Secondo quanto riportato da fonti dell'organizzazione palestinese stessa e dalla stampa israeliana, la Repubblica Islamica avrebbe deciso di sospendere ogni finanziamento all'oramai ex alleato. Il motivo sarebbe, secondo gli analisti, l'avvicinamento di Hamas all'Arabia Saudita, grande avversario dell'Iran per l'egemonia regionale e con cui Teheran sta conducendo oramai da qualche anno una guerra per interposte fazioni ("proxy war") in tutti gli scenari di crisi in Medio Oriente, dove passa la frattura tra sunniti e sciiti: Siria, Iraq, Yemen e Bahrein.
I rapporti tra Iran e Hamas si erano già incrinati e poi interrotti tre anni fa, quando l'organizzazione palestinese - storicamente supportata dall'Iran e dal suo fedele alleato libanese sciita Hezbollah - si era rifiutata di appoggiare Bashar al Assad in Siria . Il dittatore siriano appartiene alla minoranza alawita, riconducibile allo sciismo, ed è una pedina strategica per Teheran. I ribelli che da quattro anni provano a rovesciarlo sono in larga parte sunniti e, prima che prevalessero le componenti jihadiste, erano in buona parte legati alla Fratellanza Musulmana, come la stessa Hamas. Nel 2012 l'organizzazione palestinese scelse di stare coi ribelli, subendo così la ritorsione economica dell'Iran, e avvicinandosi all'Egitto di Mohammed Morsi, anche lui membro della Fratellanza. Tuttavia il golpe militare di Al Sisi al Cairo nel 2013, e il fallimento del progetto politico - propiziato anche dalla Turchia - di portare al potere i Fratelli Musulmani nei Paesi travolti dalle Primavere Arabe, costrinsero Hamas a tornare sui propri passi, riagganciando progressivamente i rapporti con la Repubblica Islamica nel 2014.
Da allora la leadership di Hamas ha tenuto un atteggiamento ambiguo, mantenendo i rapporti con Teheran ma flirtando - più o meno apertamente - con i Saud. Il nuovo Re Salman sembra infatti meno pregiudizialmente ostile alla Fratellanza Musulmana rispetto al suo predecessore Abullah, e la prospettiva di sottrarre all'Iran una pedina simbolicamente importante come Hamas pare aver propiziato l'atteggiamento di realpolitik dei sauditi. I rapporti si sono fatti più stretti negli ultimi mesi - fino a far circolare voci su una possibile trattativa segreta tra l'organizzazione palestinese e Israele, propiziata proprio dai Saud - e, lo scorso 15 luglio, Kalhed Meshaal, capo del braccio politico di Hamas, è atterrato a Riad per una due giorni di incontri e a metà agosto dovrebbe tornarci. L'esito, secondo quanto riportato dalla stessa organizzazione palestinese, sarebbe stato incoraggiante circa l'avvicinamento con Riad. Due settimane dopo questo meeting, e dopo un'escalation di attacchi sui media iraniani, Teheran ha deciso di interrompere nuovamente i finanziamenti ad Hamas.
Secondo gli esperti non è certo che si tratti di una scelta definitiva, ma per l'Iran un "tradimento" di Hamas con la Fratellanza Musulmana - come quello avvenuto nel 2012 - è meno pericoloso di quello in corso con i loro avversari regionali Sauditi (che sono sunniti ma nemici dei Fratelli Musulmani, in quanto wahabiti). Se l'allontanamento fosse confermato, e anzi le distanze andassero aumentando, le conseguenze sullo scenario medio orientale sarebbero potenzialmente dirompenti: l'Iran potrebbe approfittare del momento di disgelo dei rapporti diplomatici seguito all'accordo sul nucleare per cercare, quasi sicuramente in segreto, un'intesa con Israele, mantenendo Hezbollah impegnato negli scenari siriano e iracheno, e trascurando la causa palestinese. E nel medio-lungo periodo il processo di pace tra palestinesi e israeliani potrebbe beneficiarne (anche se al momento i segnali sono di segno opposto) per varie ragioni.
Innanzitutto i due principali movimenti palestinesi, Fatah e Hamas, si troverebbero ad avere sostanzialmente gli stessi sponsor internazionali (le monarchie del Golfo), e non due parti in conflitto (Iran e Saud). L'Arabia Saudita, poi, negli ultimi anni - causa l'imminente accordo sul nucleare che, eliminando le sanzioni, sblocca miliardi di dollari per il comune nemico iraniano - ha forgiato un rapporto con Israele di tacita alleanza. Nelle future trattative questo potrebbe essere secondo gli esperti un elemento importante. Inoltre Riad è alleata del Cairo, che finanzia e arma generosamente. Re Salman potrebbe convincere il generale Al Sisi ad allentare la morsa sui valichi con Gaza, alleviando così le condizioni della popolazione e consentendo ad Hamas di incassare i dividendi in termini di consenso.
Militano contro queste prospettive di ripresa del dialogo di pace sia le sempre maggiori tensioni nei territori tra palestinesi e israeliani, sia la crescente distanza tra Hamas e Fatah. Il presidente palestinese Abbas (di Fatah) ha di recente operato un rimpasto di governo che danneggia il movimento islamista, compromettendo forse definitivamente le prospettive di riconciliazione nazionale nel breve termine. Tuttavia Abbas è in una posizione sempre più isolata, anche all'interno del suo movimento, e circolano voci di sue possibili clamorose dimissioni, a settembre, dal palco dell'assemblea generale dell'Onu. I nomi sul piatto per la successione sarebbero soprattutto quelli di Saeb Erekat (delfino di Abbas) e dell'ex primo ministro Salam Fayyad. Pare che le monarchie del Golfo, in questa prospettiva, per avere una maggior presa sul prossimo presidente stiano muovendo capitali e relazioni diplomatiche, scommettendo su più cavalli contemporaneamente.
(East, 7 agosto 2015)
y.
di Danilo Taino
Berlino è la metropoli perfetta per essere giovani. Una parte di città è (rimane, almeno per ora) a basso costo. L'ambiente è internazionale. I ragazzi che arrivano da fuori non hanno bisogno di parlare subito il tedesco, possono coprire il tempo di apprendimento della lingua passando facilmente all'inglese. C'è arte in abbondanza. Ci sono musica e luoghi di ritrovo, spontanei o organizzati. Le università sono buone. Manca però qualcosa e, di recente, parecchie iniziative, private e pubbliche, hanno cercato di colmare il vuoto: provano a creare stimoli all'innovazione, soprattutto nell'hi-tech ma anche in campi come l'architettura, la mobilità urbana, le biotecnologie.
Il ricordo del 1936
Negli ultimi giorni, però, si è aperto un dibattito curioso e interessante, grazie ai Maccabi Games europei che si sono svolti a Berlino dal 27 luglio al 5 agosto. Duemila atleti ebrei da 36 Paesi si sono confrontati in 19 discipline. Si tratta del maggiore evento sportivo ebraico in Europa e per la prima volta si è tenuto nella capitale tedesca. Il ricordo del 1936, quando all'Olimpiade di Berlino Hitler vietò la partecipazione degli "Juden", è stato automatico. Ha anche sottolineato il fatto che la Germania è oggi non solo il Paese che forse ha il legame più stretto con Israele: ha anche ricordato che la Repubblica federale è il Paese in cui la comunità ebraica cresce maggiormente, fuori da Israele, grazie alla sua capacità di attrazione. I Maccabi Games hanno però stimolato una riflessione meno ovvia. Cosa sarebbero Berlino e la Germania, oggi, se non ci fossero stati il nazismo, Hitler e l'Olocausto? Una risposta interessante è stata: sarebbe un Paese ancora più potente dal punto di vista economico, sarebbe la patria dell'innovazione e dell'alta tecnologia. La tradizione scientifica e ingegneristica tedesca assieme alla capacità di innovare e di avere visione di mercato e internazionale della comunità ebraica avrebbero fatto mangiare la polvere a Silicon Valley. È una visione probabilmente esagerata, forse molto. Dimentica l'elemento "frontiera", inteso come conquista non di territorio ma di futuro, che sta alla base dell'innovazione negli Stati Uniti e che non sempre è una caratteristica della Germania. Però, la discussione aperta dai Maccabi Games è interessante. Segno che il passato continua a emergere ma in forme sempre nuove nella società tedesca. Che quei terribili dodici anni sono senso di colpa ma anche enorme vuoto. E che Berlino può fare ancora meglio.
(Corriere della Sera, 7 agosto 2015)
di Gwynne Dyer
Reuven Rivlin, il presidente d'Israele, è un uomo schietto ma sa quando è il momento di trattenersi. Ha condannato come "terroristica" l'uccisione di un bambino palestinese di diciotto mesi durante un incendio doloso in Cisgiordania di cui sono sospettati alcuni coloni ebrei. Ma non ha detto che i sospetti provenivano dall'ala estremista della "tribù nazionalista religiosa".
Inoltre, parlando dell'accoltellamento di sei manifestanti durante il gay pridedi Gerusalemme (una di loro, la sedicenne Shira Banki, è poi morta per le ferite riportate), non ha detto che l'assassino, Yishai Schlissel, appartiene alla frangia estremista della "tribù degli haredim", gli ebrei ultraortodossi che non riconoscono neppure la legittimità dello stato di Israele.
Sarebbe sbagliato usare un linguaggio che descriva tutti i membri delle tribù in questione come complici di questi omicidi, poiché non lo sono. Anche ammettendo (come è probabile) che alcuni di loro simpatizzino con le azioni degli assassini, sarebbe comunque un errore politico spingerli ancora più ai margini della società israeliana.
Ma forse è il caso di riformulare quest'ultima frase poiché, stando a quanto pensa Rivlin, non esiste più una sola società israeliana. Esisteva un tempo, quando gli ebrei laici, perlopiù originari dell'Europa dell'est, costituivano la maggioranza della popolazione e tutti gli altri appartenevano a delle "minoranze". Tuttavia gli alti tassi di natalità di queste minoranze hanno fatto sì che gli ebrei laici diventassero semplicemente un'altra minoranza. E ora Rivlin sostiene che in realtà dovrebbero essere tutti considerati delle "tribù".
I cambiamenti demografici hanno creato un nuovo ordine, nel quale la società è composta da quattro 'tribù' principali. |
Ha sostenuto tutto ciò due mesi fa, nel corso di un discorso incredibilmente franco tenuto durante la conferenza di Herzliya, un evento annuale dove i principali dirigenti del paese discutono questioni di politica interna. "Negli anni novanta del novecento", ha detto, "la società israeliana era composta da
un'ampia maggioranza sionista laica accanto alla quale esistevano tre gruppi minoritari: la minoranza nazionalista religiosa, la minoranza araba e la minoranza degli haredim".
"Sebbene questo schema rimanga impresso nella mente di molti cittadini israeliani, nella stampa e nel sistema politico, nel frattempo la realtà è totalmente cambiata. Oggi nelle classi di prima elementare (delle scuole israeliane) i bambini provengono da famiglie al 38 per cento circa di ebrei laici, al 15 per cento circa di nazionalisti religiosi, per un altro quarto circa di arabi e un quarto ancora di haredim".
Aspettando il messia
I cambiamenti demografici, ha affermato Rivlin, hanno creato un "nuovo ordine israeliano
nel quale la società è composta da quattro gruppi di popolazione o, se preferite, quattro 'tribù' principali, tutte sostanzialmente diverse fra loro e dalle dimensioni sempre più simili. Che ci piaccia o no, la composizione degli 'azionisti' della società israeliana, e dello stato d'Israele, sta cambiando davanti ai nostri occhi".
La principale conseguenza di questo cambiamento è che appena la metà dei bambini che oggi sono nelle scuole elementari israeliane cresceranno sionisti. Non accadrà agli arabi, naturalmente, ma neanche agli haredim, gli ebrei ultraortodossi che credono che il progetto sionista di ricreare uno stato ebraico in Israele sia blasfemo. Solo dio può farlo, inviando il messia, e il tentativo dei sionisti di accelerare la cosa con mezzi umani è una ribellione contro dio.
Queste minoranze sono estranee ai presupposti sionisti laici che sono alla base della struttura politica d'Israele |
Nessuna di queste "tribù", peraltro, presta servizio nell'esercito, un tempo la grande istituzione unificatrice israeliana. Gli arabi non sono tenuti a fare il servizio militare e pochissimi di loro si offrono volontari. Gli haredim, in pratica, sono stati esonerati dalla leva per tutta la storia d'Israele come stato indipendente, anche se lo scorso anno il parlamento ha approvato una legge volta a porre fine a tali deroghe.
Le tribù sioniste inoltre sono divise tra sionisti e "nazionalisti religiosi". Questi ultimi riescono a conciliare le loro convinzioni religiose col progetto sionista sostenendo che è stato dio a spingere i primi sionisti dell'europa orientale a costruire uno stato ebraico in Palestina, anche se non se ne sono resi conto neanche loro. La maggioranza dei coloni ebrei della Cisgiordania, e la maggior parte dei loro sostenitori nel territorio israeliano propriamente detto, appartengono a questa minoranza.
Tutte queste ex minoranze sono, in una certa misura, estranee ai presupposti sionisti laici e liberaldemocratici che sono alla base dell'attuale struttura politica d'Israele. Alcuni membri di ciascuna tribù sono già talmente estranei da ricorrere alla violenza, come i coloni che attaccano i bambini palestinesi, gli arabi israeliani che uccidono degli ebrei o il fanatico ultraortodosso che ha attaccato la parata del gay pride.
Il re è nudo
Il presidente Rivlin, "Ruvi", non lo ha detto in maniera esplicita (sarebbe stato troppo traumatico), ma stava facendo notare che il re è nudo. L'attuale predominio dei sionisti laici non può continuare: anche le altre tribù devono sentirsi al sicuro e benvenute in una diversa Israele. Più precisamente, in uno "stato unico" israeliano che includa tutti i territori tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.
Rivlin, per quanto sia un ebreo ortodosso, non appartiene in realtà a nessuna di queste tribù, poiché la sua famiglia ha vissuto a Gerusalemme per più di due secoli. Egli ritiene che la soluzione "dei due stati" (uno per gli ebrei e uno per i palestinesi) non sia più praticabile, ammesso che lo sia mai stata. Per questo è spinto verso la "soluzione dello stato unico" che impone la riconciliazione e la cooperazione tra tutte le tribù.
È una soluzione talmente radicale da essere quasi sensata. Ma è difficile credere che possa mai avere luogo.
(Internazionale, 6 agosto 2015)
Non quasi sensato ma del tutto sensato sarebbe stato che non si fosse mai parlato di stato palestinese, conformemente alle disposizioni che avevano dato le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, ma soltanto di minoranza araba allinterno di uno Stato ebraico. Minoranze di questo tipo ci sono in tutto il mondo, a cominciare dalla nostra Italia, dove è presente una minoranza di lingua tedesca che là dove si trova vive meglio della maggioranza di lingua italiana. In questa cornice, la comunità internazionale avrebbe potuto vegliare sulla tutela dei diritti civili minoranza araba, cosa del tutto legittima, favorendo così il benessere reale di quella popolazione. Ha scelto invece di appoggiare le rivendicazioni violente del nazionalismo arabo e del messianismo islamico, condannando così gli abitanti arabi delle zone di Gaza e Giudea-Samaria ad una perenne situazione di conflitto, alimentata dallillusione di riuscire un giorno a buttare a mare gli ebrei. E chiaro ormai che la formula dei due stati per due popoli non serve a risolvere i problemi, ma ad alimentarli, a far sì che si perda ogni speranza di raggiungimento di un equilibrio vivibile. Quanto alls proposta dello stato binazionale suggerita da alcuni, questa è soltanto una variante della formula dei due stati. Con lo stesso grado di legittimità (cioè pari a zero) e le stesse speranze di successo. M.C.
di Bassam Tawil (*)
Non riesco a contare il numero delle volte che ho sentito dire agli ebrei israeliani: "Mi vergogno" o "Mi dispiace" in risposta all'orribile crimine che la scorsa settimana è costato la vita al bimbo palestinese Ali Dawabsha, nel villaggio cisgiordano di Duma. A dire il vero, la forte risposta dell'opinione pubblica e dei
leader israeliani all'attacco incendiario è in qualche modo confortante. La condanna totale di questo crimine non solo ha indotto me e altri palestinesi a vergognarci, ma ci ha anche lasciato imbarazzati - perché questo non è il modo in cui noi palestinesi reagiamo agli attacchi terroristici contro gli ebrei, anche se si tratta delle deplorevoli uccisioni dei bambini ebrei.
La nostra reazione, di fatto, suscita sentimenti di vergogna e disonore. Mentre il primo ministro israeliano, il presidente e altri funzionari si sono precipitati a condannare fermamente l'uccisione del piccolo Ali, i nostri leader raramente denunciano gli attacchi terroristici contro gli ebrei. E quando un leader palestinese come Mahmoud Abbas pronuncia parole di condanna, lo fa in modo vago ed ambiguo. Prendiamo, ad esempio, quanto accaduto dopo l'ultimo rapimento dello scorso anno in Cisgiordania di tre ragazzi israeliani per mano dei palestinesi. Non solo ci sono voluti quattro giorni al presidente Abbas per rilasciare una dichiarazione di condanna dell'attacco terroristico, ma più che una vera e propria condanna si è trattato di un tentativo: "La presidenza palestinese (
) condanna la serie di eventi accaduti la settimana scorsa, a partire dal rapimento dei tre ragazzi israeliani". Abbas ha poi denunciato Israele per aver arrestato decine di membri di Hamas dopo il sequestro e l'uccisione dei tre giovani.
Più tardi, nel 2014, quando Abbas condannò un attacco terroristico palestinese in cui persero la vita cinque israeliani, in una sinagoga di Gerusalemme, pochi giorni dopo, Najat Abu Baker, esponente di punta di Fatah, spiegava che la condanna era stata fatta "in un contesto diplomatico (
) [egli] è stato costretto a parlare così al mondo". Ma a quanto pare, la condanna dell'attacco alla sinagoga di Gerusalemme da parte del presidente dell'Autorità palestinese è stata esclusivamente dovuta alle pressioni del segretario di Stato americano John Kerry, che telefonò al leader palestinese per ben due volte per chiedergli di pronunciarsi contro le uccisioni. Nella sua dichiarazione, Abbas disse che la dirigenza palestinese condannava "l'uccisione dei fedeli presenti in una sinagoga e tutti gli atti di violenza, indipendentemente dalla loro origine" e chiese anche la fine delle "incursioni e delle provocazioni da parte dei coloni contro la Moschea di al-Aqsa".
Le condanne ambigue e tiepide mosse da Abbas agli attacchi lanciati dai palestinesi contro gli israeliani sono esclusivamente rivolte al pubblico e mirano principalmente a rabbonire i donatori occidentali, in modo che essi continuino a convogliare i fondi all'Autorità palestinese. Inoltre, le sue condanne cercano quasi sempre di attribuire a Israele la colpa degli attacchi terroristici palestinesi - presumibilmente un tentativo di giustificare l'uccisione degli ebrei per mano dei terroristi palestinesi. Al contrario, la condanna da parte dei dirigenti israeliani dell'uccisione del bimbo palestinese sembra ferma e univoca. Ecco cosa ha detto il premier Netanyahu dopo aver fatto visita ai genitori e al fratello della piccola vittima che sono rimasti feriti nell'attacco incendiario e sono ricoverati negli ospedali israeliani: "È stato duro stare accanto al letto di questo bambino, sapendo che il suo fratellino è stato brutalmente ucciso, siamo sconvolti e indignati. Tolleranza zero nei confronti del terrorismo, da qualsiasi parte provenga".
La forte e chiara condanna di Netanyahu ha indotto me e altri palestinesi a chiederci quando è stata l'ultima volta che abbiamo sentito i nostri leader fare affermazioni del genere. Non ricordo mai che Abbas o qualsiasi altro dirigente palestinese si sia detto sconcertato e indignato per l'uccisione di un ebreo in un attacco terroristico palestinese né che un funzionario palestinese abbia visitato le vittime israeliane di un attacco terroristico palestinese. Il biasimo dei leader israeliani è sincero e rispecchia le opinioni della stragrande maggioranza dell'opinione pubblica israeliana. Al contrario, le denunce degli attacchi terroristici da parte dei dirigenti palestinesi non rispecchiano l'opinione comune delle piazze palestinesi. Ogni volta che Abbas condanna a denti stretti un attacco terroristico palestinese, egli deve far fronte a un'ondata di critiche da parte di molti palestinesi.
A differenza dell'opinione pubblica israeliana, molti palestinesi spesso si precipitano a giustificare, e anche ad approvare, gli attacchi terroristici contro gli ebrei. Questa era la situazione solo poche settimane fa, quando un israeliano è stato ucciso nei pressi di Ramallah. Diverse fazioni palestinesi e gruppi militari hanno plaudito all'omicidio, definendolo "una reazione naturale ai crimini israeliani". Questa è la grande differenza tra il modo in cui gli israeliani e i palestinesi reagiscono al terrorismo. L'uccisione di Ali Dawabsha ha visto migliaia di israeliani organizzare manifestazioni contro la violenza per condannare l'orribile crimine. Ma qualcuno sa di qualche manifestazione simile indetta da parte palestinese, quando i terroristi uccidono innocenti civili israeliani? C'è qualche figura di spicco palestinese che osa parlare in pubblico contro l'uccisione degli ebrei, durante una manifestazione nel centro di Ramallah o di Gaza City? C'è mai stato un attivista palestinese che ha osato organizzare una manifestazione in una città palestinese per condannare gli attentati suicidi o l'uccisione di un'intera famiglia ebrea?
Mentre gli israeliani organizzano manifestazioni di protesta contro gli attacchi terroristici al nostro popolo, noi festeggiamo l'uccisione degli ebrei. Quante volte siamo scesi in piazza a distribuire dolci e caramelle, giubilanti per l'uccisione degli ebrei? Queste scene disgustose di donne e uomini che celebrano gli attacchi terroristici contro Israele nelle strade della Cisgiordania e della Striscia di Gaza non sono mai state condannate dai nostri leader. E tali scene diventano comuni ogni volta che i terroristi palestinesi compiono un attacco contro gli ebrei. Scene che sono in netto contrasto con le dichiarazioni pubbliche e le manifestazioni organizzate in Israele in risposta agli attacchi terroristici contro i palestinesi.
I nostri dirigenti devono imparare dal presidente israeliano Reuven Rivlin, che ha detto di "vergognarsi" e di "provare dolore" per l'uccisione del bimbo palestinese. Quando è stata l'ultima volta che un leader palestinese ha usato una retorica del genere per biasimare l'uccisione di ebrei? Le dichiarazioni laconiche rilasciate dall'ufficio di Abbas in risposta agli attacchi terroristici contro gli ebrei non hanno mai parlato di vergogna o di dolore. Noi palestinesi non siamo riusciti a educare la nostra gente ai principi della tolleranza e della pace. Piuttosto, scusiamo e plaudiamo al terrorismo, soprattutto quando è diretto contro gli ebrei. Vogliamo che tutti condannino il terrorismo solo quando esso fa vittime tra i palestinesi. Abbiamo raggiunto un punto in cui molti di noi hanno paura di denunciare il terrorismo o si limitano ad accettarlo quando uccide gli ebrei.
Il presidente israeliano ha buoni motivi per vergognarsi dell'omicidio di un bambino. Ma noi palestinesi quando proveremo vergogna per il modo in cui reagiamo all'uccisione degli ebrei? Quando smetteremo di esaltare i terroristi e di intitolargli vie e piazze, anziché denunciarli con fermezza e scacciarli dalla nostra società? Abbiamo ancora molto da imparare dall'opinione pubblica e dai leader israeliani.
di Oscar di Montigny
direttore marketing, comunicazione e innovazione di Banca Mediolanum
Sono stato rapito per sette giorni in Israele dall'euforia avanguardistica di #TechAviv, capitale e centro nevralgico della StartUp Nation. Comunque lo guardiate, in questo piccolo Stato dalla storia travagliata vedrete innovazione. Merito di un pluralismo culturale e di una forte identità che consentono, in una maniera peculiare quanto unica sul pianeta, di coniugare arte ed economia con filosofia e scienza. Otto milioni di abitanti e una capacità senza pari di attrarre talenti e «cervelli»: oggi in Israele convivono professionisti di oltre 70 nazionalità, tutti tesi a creare modelli di business innovativi, scalabili e immediatamente esportabili.
Il nostro Paese avrebbe molto da imparare da questo Stato e la recente sottoscrizione di un accordo bilaterale di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica è sicuramente un ottimo segnale anche se ancora tutto da implementare. Potrebbe insegnarci molto sulla valorizzazione di un asset e se noi italiani fossimo animati da consapevolezza, capacità e volontà, avremmo nell'unicità culturale e industriale due asset non replicabili al mondo. L'ecosistema israeliano funziona perché si fonda sull'identità di un insieme che trascende anche l'orgoglio; perché è autorevole e stimola a una forte complementarietà tra pubblico e privato, civile e militare, accademia e ricerca, singolo e gruppo. Una sorta di pentagono virtuoso sulle cui punte vivono le diverse anime della sua società: governo, esercito, accademia (ricerca e università), privato (aziende, multinazionali e fondi) e società civile. Tutte convergono verso un bene collettivo, hanno chiare regole di ingaggio e perseguono una comunione d'intenti che troppo semplicisticamente sarebbe da ricondursi solo a mere ragioni storiche, politiche o religiose che si voglia intenderle. Si riscontra poi una forte capacità nel traslare le competenze da un ambito all'altro, continuando a produrre efficienza. Insomma, prendete la nostra Italia, oppressa da bandi cervellotici, da burocrazia elefantiaca e dall'atavica impossibilità di fare sinergia efficace e trasparente tra pubblico e privato, giratela al contrario, e scoprirete cos'è Israele.
Per obiettivi così ambiziosi serve però una programmazione mirata: un vero piano di marketing territoriale (industriale-sociale-culturale) sviluppato a tavolino e volto ad attrarre investimenti e talenti da tutto il mondo. Non è un caso dunque che oggi sempre più aziende investono in Israele perché il suo ecosistema è unico. Si è puntato su imprenditorialità, ricerca e innovazione, rendendoli «cool», quali caratteristiche imprescindibili per chiunque decida di lanciarsi nel variegato mondo delle startup.
Anche il ritorno del cervelli in fuga dovrebbe ispirarci. Punte di diamante di questo ecosistema sono infatti gli Innovation lab e i centri di ricerca e sviluppo aperti da oltre il 25 per cento delle maggiori corporation internazionali; iniziative tanto attraenti da ri-calamitare coloro che avevano espatriato per cercare fortuna altrove o che, avendola oramai trovata da tempo, iniziavano a sentire il richiamo di casa. Israele, seppur denso di contraddizioni, sta riuscendo a riportare un condizionamento al suo stato originario di condizione, trasformando un rischio in opportunità, una paura in occasione, una chiusura in apertura. Se riuscirà a superare tutte le sue contraddizioni, preservando le sue eccellenze, diventerà un modello organizzativo.
(Panorama, 12 agosto 2015)
Mentre Obama si affanna a destra e a manca per convincere il Congresso e i cittadini americani che l'accordo sul nucleare iraniano è "un buon accordo" e che in fondo degli Ayatollahh bisogna fidarsi, mentre mezzo mondo corre a inginocchiarsi davanti ai mullah iraniani - Italia in testa - pur di farci affari, l'intelligence americana scopre che l"Iran l'accordo sul nucleare lo ha già violato.
A rivelarlo è l'Agenzia Bloomberg che cita fonti di intelligence americane. Secondo quanto scrivono Josh Rogin ed Eli Lake in un editoriale apparso ieri sera sul sito di Bloomberg, la CIA avrebbe scoperto che l'Iran ha "sanificato" il sito di Parchin, che lo ha fatto in tutta fretta e in pieno giorno solo pochi giorni dopo aver raggiunto l'accordo sul nucleare in aperta violazione dell'accordo stesso il quale prevede che Teheran renda pienamente conto dei suoi progressi nel campo del nucleare militare e civile alla Agenzia Atomica Internazionale (AIEA) dando accesso agli ispettori ai siti, in special modo quelli sospetti, senza alterare nulla....
(Right Reporters, 6 agosto 2015)
L'amministrazione USA tranquillizza sbrigativamente gli israeliani: l'accordo sottoscritto con l'Iran non costituirà il prologo di un Olocausto nucleare. Facile a dirsi, con l'ayatollah Khamenei che un giorno sì e l'altro pure si affanna a caldeggiare la rimozione dello stato ebraico dalla mappa geografica; e nel momento in cui un alto esponente del Pentagono precisa che è virtualmente impossibile assicurare che Gerusalemme non sia bersaglio di attacco atomico: a meno che si schierino sul territorio diecine di migliaia di soldati americani.
La triste verità è che la presidenza Obama si è schierata a favore del mondo arabo: un po' confusamente, avendo prima sostenuto la confessione sunnita (Fratelli Musulmani; ma ci si è messo di mezzo il generale al-Sisi), e ora quella sciita. Ma i palestinesi devono essergli rimasti nel cuore, se è vero che il presidente americano - la cui boria arriva al punto di pronosticare un nuovo successo nelle urne, qualora si presentasse clamorosamente per un terzo mandato - sacrifica i suoi stessi concittadini....
(Il Borghesino, 6 agosto 2015)
di Hana Levi Julian*
L'amministrazione del presidente americano Barack Obama sta considerando seriamente di intervenire nel giudizio contro l'Autorità Palestinese a seguito dei brutali attacchi terroristici che hanno ucciso e ferito decine di cittadini americani oltre dieci anni fa in Israele.
Una giuria del tribunale federale del distretto di New York ha giudicato che l'Organizzazione di liberazione della Palestina (OLP) e l'Autorita Palestinese (AP) erano colpevoli di aver aiutato i terroristi che hanno effettuato attacchi a causa dei quali sono morti cittadini americani.
Secondo un rapporto della Fox News, il ministero della Giustizia ha informato il mese scorso il tribunale che prevede di presentare una dichiarazione di interesse nel caso relativo ai fatti del 10 agosto. I funzionari non hanno specificato le loro intenzioni. In precedenza il ministero non aveva alcun coinvolgimento nel caso. Una fonte del ministero della Giustizia che ha lavorato con il Dipartimento di Stato sulla pratica lo ha dichiarato a Fox News.
Un portavoce del Dipartimento della Giustizia (DOJ) ha dichiarato a FoxNews.com che "tutti i depositi saranno effettuati per conto degli Stati Uniti e non per conto di alcuna altra parte".
L'avvocato dei querelanti Kent Yalowitz ha chiesto alla leadership palestinese di versare un deposito di 30 milioni di dollari al mese durante il periodo dell'appello. Egli sospetta che il governo degli Stati Uniti stia riflettendo ad un tentativo di aiuti all'Autorità Palestinese per evitare l'obbligo - un intervento della Casa Bianca a nome di coloro che hanno direttamente sponsorizzato il terrorismo.
"Un'amministrazione che pretende di combattere il terrorismo prevede di lavorare in favore dei terroristi" ha detto Yalowitz a FoxNews.com. "Se il nostro governo opererà davvero in favore di terroristi condannati, sarà davvero un modo desolante di come tratta il terrorismo".
Negli attacchi ci sono stati 33 morti ed oltre 450 feriti, tra i quali alcuni che sono rimasti mutilati in modo permanente.
L'Autorità Palestinese, che riceve generosi aiuti da parte degli USA e dell'EU, versa contributi ai terroristi ed alle loro famiglie quando compiono attacchi terroristici. Tanto maggiori sono gli attacchi ed i danni, tanto maggiori sono i contributi versati
La causa era stata intentata da 10 famiglie con circa 36 membri ai sensi della la legge antiterrorismo che consente ai cittadini americani di citare in giudizio i loro aggressori di fronte ad un tribunale degli Stati Uniti.
L'affare internazionale si era trascinato per un decennio prima che una decisione venisse finalmente presa.
L'OLP e la AP sono stati giudicati responsabili di più di sei attacchi e attentati che ci sono stati tra il 2002 e il 2004 nella zona di Gerusalemme e dintorni la cui responsabilità è stata attribuita al gruppo terrorista delle Brigate di Al Aqsa, Martiri di Fatah, con legami con la prima fazione del governo dell'AP avente sede a Ramallah, ed a Gaza, base di Hamas. In due dei casi gli assalitori erano dei veri e propri agenti di polizia della AP. Uno dei kamikaze è stato strettamente legato ad un ufficiale dei servizi di informazione militare dell'Autorita. Per un attentato suicida in un bus, nel 2004, la polizia dell'Autorità e dei responsabili della sicurezza hanno anche riconosciuto di avere pianificato l'operazione e di aver fabbricato la bomba.
Tutti i terroristi imprigionati e le loro famiglie sono stati pagati per le loro azioni dal governo dell'AP.
Il giorno nel quale la sentenza è stata pronunciata nessuna rete dei media nazionali degli USA ne ha fatto cenno tra le "ultime notizie", e quando il verdetto è stato annunciato nessun notiziario della sera ne ha fatto menzione.
di Adriano Arati
REGGIO EMILIA - Un viaggio di 259 anni, pronto a continuare dopo decenni di ricerche. Anche la sinagoga di Reggio Emilia, lo storico luogo culto ebraico di via dell'Aquila, nell'ex ghetto cittadino, ha vissuto a modo suo una diaspora, e i fili si stanno riannodando solo oggi. La scorsa settimana un gruppo reggiano, in visita in Israele in un'iniziativa organizzata da Istoreco, ha raggiunto la comunità di Kiryat Shumel alla periferia di Haifa, per vedere dal vivo i paramenti sacri appartenuti per quasi un secolo alla sinagoga reggiana, portati oltremare nel 1957. Una delle mille storie dolorose figliate dalla seconda guerra mondiale e dalla Shoah. Nel dopoguerra Reggio non aveva più una comunità ebraica, i sopravvissuti erano pochissimi, la sinagoga era in stato di abbandono e vi era il rischio di danni o di furti per il paramento più prezioso, lo splendido Aron-Ha-Kodesh realizzato in marmo di Carrara nel 1858, l'arca/altare tipica del '700, usata per custodire i rotoli della Torah, il principale testo sacro ebraico, composto dai primi cinque libri dell'Antico Testamento, quelli del Pentateuco. Così, all'interno di un'operazione coordinata da un ricco ebreo milanese, i paramenti, come quelli di altre ventuno sinagoghe italiane, vennero imbarcati a Genova e portati in Israele. L'Aron-Ha- Kodesh era il pezzo più pregiato del lotto, per le dimensioni e per il marmo al posto del solito legno, e venne scelta una destinazione adeguata, una grande sinagoga a Kyriat Shmuel di Haifa, dove si trova tutt'ora.
E negli anni successivi, a celebrare il successo dell'operazione, l'Aron-Ha- Kodesh reggiano è diventato anche un francobollo commemorativo, tutt'ora piuttosto ricercato. Una storia importante per Haifa e per Israele ma non per Reggio, dove la sinagoga ha continuato per decenni la sua decadenza, sino alle ristrutturazioni degli ultimi anni. Del paramento sacro si perde la memoria, sino a che Matthias Durchfeld di Istoreco, durante una ricerca sugli ebrei cittadini, decide di partire sulle sue tracce, trovando la documentazione del trasporto e arrivando sino a Kyriat Shmuel, dove il custode, accogliendolo, gli dice che da oltre 40 anni aspettavano notizie da Reggio. È l'inizio di una rinnovata amicizia, che dal 1756 - anno di costruzione della sinagoga - ha portato sino al 2015, al recente viaggio di Istoreco con la consegna di materiale che sancisce il legame. Ad accogliere il gruppo nostrano, il medico Shraga Blazer, referente della comunità di Kyriat Shmuel, e il figlio di Ben-Huri, l'architetto che nel dopoguerra ha costruito la sinagoga. E qualche piacevole sorpresa. La prima è Vittorio Liuzzi, discendente di ebrei reggiani (i Liuzzi sono stati una storica famiglia della nostra zona) da decenni residente a Haifa. La seconda è Donata Modena, una delle poche persone in grado di ricordarsi la sinagoga di via dell'Aquila.
(Gazzetta di Reggio, 5 agosto 2015)
di Roberto Fieschi
Del progetto americano per realizzare la bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale ormai si sa tutto o quasi. E' bene non dimenticare mai alcune date: il 16 luglio 1945, nel quadro del Progetto Manhattan, a Los Alamos,nel deserto del Nuovo Messico, si realizzò la prima esplosione nucleare sperimentale, un successo; il 6 agosto dello stesso anno l'esplosione sulla città giapponese di Hiroshima, e tre giorni dopo quella su Nagasaki. (*)
E' singolare che oggi oltre il 50% dei giovani giapponesi dichiarino di non sapere che Giappone e Stati Uniti si sono scontrati in un sanguinoso conflitto; quindi è improbabile anche che sappiano del massacro di cinesi a Nanchino (1937-38) e che migliaia di donne della Corea occupata siano state ridotte a schiave sessuali delle truppe del Sol Levante.
Quanto ai fisici tedeschi nella Germania nazista e ai progetti per realizzare la bomba atomica , documenti recenti recano nuova luce (P. Ball: Al servizio del Reich).
Durante il nazismo due fisici illustri aderirono al regime e alla sua politica razzista contro gli ebrei. Philipp Lenard, premio Nobel (1905), ormai pensionato, fu aperto sostenitore dell'idea che il suo paese dovesse appoggiarsi solo sul lavoro dei fisici tedeschi, ignorando le fallaci e ingannevoli idee proposte dai fisici ebrei, con riferimento esplicito ad Einstein e alla teoria della relatività. Per chiarire il suo punto di vista affermò: "La scienza è internazionale? E' falso. In realtà la scienza, come ogni altro prodotto umano, è legata alla razza e condizionata dal sangue".
Insieme a Johannes Stark (premio Nobel per la fisica nel 1919) divenne guida della fisica ariana sotto il regime.
La grande maggioranza dei fisici tedeschi, quelli rimasti dopo le epurazioni razziali, rifiutò di riconoscere valore scientifico alle enunciazioni, peraltro confuse, della fisica ariana. Nemmeno il regime nazista sostenne più che tanto Lenard e Stark; ma già aveva decapitato la fisica tedesca, allora la più avanzata, con le leggi razziali. Molti dei fisici ebrei che lasciarono la Germania, ironia della sorte, contribuirono al progetto americano per realizzare la bomba atomica. Se Lenard e Stark fossero vissuti ancora qualche decennio avrebbero potuto assistere al numero sorprendente di premi Nobel assegnati a fisici ebrei.
La fisica ariana in pratica sparì da sola, più per la propria inconsistenza che per la forza dei suoi oppositori, prima ancora della fine della guerra.
Altri fisici ebbero posizioni diverse, più sfumate, verso il regime nazista: da una fuga dalle responsabilità per rifugiarsi nelle proprie ricerche, a una adesione passiva al nazismo, giustificata dal senso di patriottismo e di obbedienza all'autorità dello stato.
Ma solo una esigua minoranza aderì al nefasto regime
Pochissimi, all'interno della Germania,si opposero al nazismo; quasi nessuno si dimise o emigrò per protesta nei confronti della espulsione dei fisici ebrei dalle cariche pubbliche. La reazione della comunità scientifica ai decreti razzisti che si abbatterono con violenza sui fisici fu arrendevole; le rare espressioni critiche furono per il danno alla cultura tedesca e alla sua reputazione internazionale, piuttosto che per la violazione di valori morali, nonostante che, almeno fino allo scoppio della guerra, i pericoli corsi da chi avesse dissentito non fossero gravi..
Max Planck, lo scienziato che nel 1900 aprì la strada alla nuova fisica, era un conservatore tradizionalista, pervaso da un senso del dovere civico verso lo stato, anche verso lo stato nazista; la sua autorità scientifica era indiscussa, ma, di fronte alla pretese dei nazisti, si affliggeva e tergiversava. Caratterizzavano la personalità di Planck la mitezza, la fiducia nelle istituzioni, la dedizione al dovere, l'assoluta onestà. Di fronte alla perdita del posto di molti colleghi, in seguito alle leggi razziali, ritenne che non avesse senso protestare, perché inutile. In un colloquio con Hitler (maggio 1933) sostenne che sarebbe un danno far emigrare ebrei del cui lavoro la scienza aveva bisogno, ma non ricevette risposte rassicuranti.
Planck morì nel 1947, vecchio a col morale distrutto; aveva perso un figlio nella Prima guerra mondiale e un altro figlio era stato ucciso dai nazisti dopo il fallito complotto (luglio 1944) per assassinare Hitler.
Werner Heisenberg, uno dei fisici più brillanti dell'ultimo secolo, fondatore della meccanica quantistica, condivideva il patriottismo di Planck e inoltre riteneva che la speranza di rinascita dello spirito tedesco dopo l'umiliazione della Prima guerra mondiale sarebbe venuta da un movimento che esaltava un attaccamento romantico alla natura e al cameratismo. La sua famiglia era benestante e militarista.
Nell'ottobre 1933, dopo l'ascesa di Hitler al potere, Heisenberg scrisse: "Adesso si stanno provando anche molte cose buone, e le buone intenzioni vanno apprezzate". L'anno seguente firmò il giuramento di fedeltà alla persona di Hitler. Nel campo suo proprio, resistette alle crociate di Stark, difese la meccanica quantistica e la relatività, osando citare pubblicamente il nome di Einstein e buscandosi per questo le reprimenda delle autorità. Nella sua azione difensiva fu sostenuto da Heinrich Himmler, il capo delle SS, aiutato in questo dalla madre, che aveva un buon rapporto con la madre di Himmler. Comunque, durante la guerra Heisenberg si astenne dal citare Einstein nelle conferenze che tenne per diffondere la cultura tedesca nei territori occupati.
Heisenberg è stato uno dei principali attori nei progetti, falliti, per realizzare la bomba atomica.
Nel dicembre 1938 Otto Hahn e Fritz Strassmann (giovane antinazista, al quale fu precluso ogni incarico accademico) scoprirono la fissione dell'Uranio, ossia la rottura del nucleo pesante, bombardato con neutroni, in due nuclei di elementi di massa intermedia, pur senza capire chiaramente il fenomeno.
L'interpretazione corretta fu fornita, pochi giorni dopo, da Lise Meitner (collaboratrice per molti anni di Hahn) e Otto Fritsch, fisici austriaci espatriati per sottrarsi alle leggi razziali. In seguito ricercatori in Francia e negli USA mostrarono che nel processo di fissione venivano generati altri neutroni, così da rendere possibile una reazione a catena con la liberazione di una energia enorme.Il resto della storia che portò al Progetto Manhattan è ben noto. Il progetto era stato avviato per contrastare la possibilità di una bomba atomica nelle mani del regime nazista.
Nell'aprile 1939 due chimici tedeschi informarono il Ministero della guerra della possibilità di sfruttare la fissione dell'uranio per ottenere un esplosivo potentissimo.
Dopo una prima, immediata, riunione informale all'Università di Gottinga, l'Ufficio Armi dell'esercito decise di convocare un gruppo di esperti per valutare le azioni da intraprendere; venne così istituito il Uranverein (Club dell'uranio), che si riunì nel settembre, guidato dal fisico Kurt Diebner: si decise che le ricerche su questa potenziale nuova fonte di energia e di supremazia militare iniziassero subito.
Heisenberg redasse un rapporto sulla fattibilità di ottenere energia dalla fissione controllata dell'uranio, anche per i motori di carri armati e sottomarini ( un reattore nucleare), e che, disponendo di quantità sufficienti di U235, l'isotopo leggero dell'uranio, presente nell'uranio naturale in piccola quantità (7 per mille) ma difficile da separare dall'isotopo pesante (U238), si sarebbe potuto ottenere un esplosivo di smisurata potenza. Ma i ricercatori tedeschi non riuscirono mai a ottenere quantità significative di U235. Inoltre Heisenberg, sbagliando i calcoli, aveva sopravvalutato di molto la quantità di U235 necessaria per la bomba, e questo risultato aveva allontanato la prospettiva di realizzare l'ordigno.
In seguito si capì che da un reattore si sarebbe potuto ottenere un nuovo elemento, il plutonio (Pu), adatto per una bomba nucleare, ma i tedeschi non riuscirono a ottenerne quantità significative. (Il Pu fu il materiale impiegato dagli americani nell'esplosione sperimentale del 16 luglio 1945 e nella bomba di Nagasaki, il 9 agosto).
Buona parte delle ricerche però si concentrarono sulla costruzione di un reattore e si scelse, come moderatore necessario per rallentare i neutroni, l'acqua pesante. Fu realizzato, fra l'altro, nell'impianto di Gottow, l'esperimento G.III, su piccola scala, che mostrò la generazione di un flusso intenso di neutroni dalla fissione dell'uranio.. Ma la fonte disponibile più importante di acqua pesante, in Norvegia, fu distrutta dai partigiani (febbraio 1943). Così i progetti nucleari della Germania, sempre sotto-finanziati, furono quasi abbandonati, visto che, a detta degli scienziati, non vi erano prospettive di realizzazione che portassero a contributi decisivi alla guerra. Le distruzioni provocate dai bombardamenti alleati ne accelerarono il fallimento.
Dopo la partenza di Debye per gli Stati Uniti, alla presidenza della Società tedesca di fisica fu nominato Carl Ramsauer, fisico industriale e nazionalista, ma non iscritto al partito nazista. Egli riconobbe che la scienza aveva il dovere di contribuire alla difesa della nazione e protestò con David Rust, capo della divisione scientifica del Ministero dell'Istruzione, perché la fantasia della fisica ebraica era stata così dannosa che la fisica tedesca aveva perso la sua supremazia su quella americana. Più tardi ottenne anche l'esenzione dal servizio militare attivo di molti fisici, sostenendo che, mentre le forze armate avrebbero potuto fare a meno di 3000 uomini, 3000 fisici in più avrebbero forse potuto decidere le sorti della guerra; ma dei 6000 scienziati che i nazisti cercarono di richiamare dal fronte nel 1944, ne tornarono solo 4000, mentre altri erano morti o introvabili. Più tardi ottenne anche l'esenzione dal servizio militare attivo di molti fisici, sostenendo che, mentre le forze armate avrebbero potuto fare a meno di 3000 uomini, 3000 fisici in più avrebbero forse potuto decidere le sorti della guerra; ma dei 6000 scienziati che i nazisti cercarono di richiamare dal fronte nel 1944, ne tornarono solo 4000, mentre altri erano morti o introvabili.
Comunque ormai la guerra era già praticamente persa.
Si pensi, per confronto, che nell'avviare il progetto Manhattan e lo sviluppo del Radar, gli Stati Uniti avevano reclutato tutte le migliori menti disponibili, inclusi gli scienziati tedeschi rifugiatisi all'estero.
Quando, verso la fine della guerra, Heisenberg fu catturato dagli alleati, nei primi colloqui si mostrò arrogante: si sarebbe degnato di spiegare agli americani come costruire un reattore, ma non poteva accettare di andare a lavorare negli USA perché la Germania aveva ancora bisogno di lui! In seguito insieme ad altri nove fisici fu confinato, in Inghilterra, in una villa nota come Farm Hall; la villa era piena di microspie che consentivano di conoscere le discussioni che i prigionieri tenevano fra di loro. Quando vennero a sapere della esplosione su Hiroshima, sulle prime Heisenberg si mostrò incredulo, convinto ancora che gli scienziati tedeschi avessero una superiorità sui rivali alleati. Solo Hahn ne fu tanto scosso che si temette che volesse suicidarsi.
Venticinque anni dopo Heisenberg sostenne che i fisici tedeschi avevano deliberatamente agito per prevenire lo sviluppo della bomba atomica da parte della Germania, ma tale tesi difensiva non è sostenibile alla luce dei fatti.di armi nucleari tattiche
Nel complesso colpisce l'assenza, da parte della stragrande maggioranza dei fisici tedeschi, di una riflessione morale sulla loro attività e sulle responsabilità della Germania. Molti di essi non capivano nemmeno dove fosse il problema. Fra le grandi personalità scientifiche (pochissime) che non condivisero questo atteggiamento vale la pena di ricordare Max von Laue.
(*) Ancor oggi il numero di bombe atomiche nel mondo, nonostante sia stato avviato da anni il processo di disarmo, è alto; secondo l'Istituto SIPRI circa 16000. In Italia si stima che ve ne siano da 20 a 40.
(7per24, 5 agosto 2015)
di Khaled Abu Toameh (*)
Per il terzo anno consecutivo, migliaia di minori palestinesi della Striscia di Gaza ricevono un addestramento militare da parte di Hamas, nei campi estivi organizzati dal gruppo islamista. I campi, che si ispirano al motto "Avanguardie della liberazione", hanno lo scopo di preparare i ragazzini dell'età di 15 anni a combattere contro Israele. Secondo i dirigenti del movimento, quest'anno, oltre 25mila minori hanno partecipato ai campi allestiti nella Striscia di Gaza.
La cosa più inquietante di questa pratica è che le famiglie non sono riluttanti a permettere che i loro figli vengano addestrati come futuri jihadisti nella guerra contro Israele. Anzi, molti dei genitori intervistati dai media palestinesi negli ultimi giorni hanno detto che sono orgogliosi di vedere che ai loro figli viene insegnato l'uso di vari tipi di armi. Solo pochi palestinesi hanno avuto il coraggio di parlare contro lo sfruttamento dei minori da parte di Hamas. L'attivista palestinese Eyad al-Atal critica il gruppo perché "priva un'intera generazione di palestinesi della loro infanzia". A suo dire, oltre a creare nuovi sostenitori dello Stato islamico, l'addestramento militare dei minori è una violazione dei principi dei diritti umani.
Rivolgendosi ai leader di Hamas, al-Atal ha asserito: "Insegnate ai vostri figli come giocare, come sorridere, come gioire. Costruite per loro un'istituzione per l'educazione e l'intrattenimento che li allevi insegnandogli l'amore per la Palestina e non come farsi ammazzare". È altresì inquietante vedere come organizzazioni internazionali e palestinesi che si battono per i diritti umani, soprattutto quelle che affermano di difendere i diritti dei minori, stiano facendo finta di non vedere lo sfruttamento su larga scala esercitato da Hamas sui ragazzini. Queste organizzazioni si preoccupano dei diritti dei minori solo quando c'è modo di addossare tutta la colpa a Israele.
Come negli ultimi due anni, i campi estivi vengono allestiti in basi che appartengono all'ala armata di Hamas, le Brigate Ezaddin al-Qassam, in tutta la Striscia di Gaza. L'obiettivo dichiarato dei campi è quello di "preparare spiritualmente, mentalmente e fisicamente una nuova generazione di giovani palestinesi alla battaglia per liberare la Palestina". Quando Hamas parla di "liberazione della Palestina", non si riferisce solamente alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, ma a tutto Israele. In altre parole, questi minori palestinesi vengono educati e addestrati per prepararsi a partecipare alla guerra volta a distruggere lo Stato ebraico. Ai ragazzi viene insegnato che gli esempi da seguire sono gli attentatori suicidi di Hamas e i terroristi responsabili della morte di centinaia di israeliani nel corso degli ultimi decenni. La maggior parte dell'addestramento e dell'indottrinamento si svolge la sera, a causa del clima caldo e per "motivi di sicurezza". Più di 500 membri delle Brigate Ezaddin al-Qassam stanno supervisionando l'educazione religiosa e l'addestramento militare impartiti nei campi.
L'istruzione religiosa di Hamas è volta a insegnare ai minori i principi dell'Islam e la legge della Sharia. Ai ragazzi viene detto che tutta la terra di Palestina (incluso Israele) è di proprietà musulmana e non può essere ceduta a chi non è musulmano. Viene anche loro insegnato che l'Islam vieta di fare pace con gli "infedeli". In uno dei campi, è stato insegnato ai giovani come "fare un'incursione" in una base militare israeliana e come uccidere e catturare alcuni soldati delle Idf. L'esercitazione è stata condotta da Ismail Haniyeh, leader di Hamas nella Striscia di Gaza, che ha dichiarato di essere orgoglioso del livello di prestazione dei ragazzi.
Un altro importante dirigente del gruppo, Khalil al-Hayah, ha parlato così dei bambini soldato che vengono addestrati per il jihad contro Israele: "Questi campi sono destinati a preparare una generazione che usa il Corano e il fucile. I campi mostrano che i palestinesi appoggiano la resistenza e il progetto di liberazione della Palestina. L'obiettivo è liberare la Palestina e la Moschea di al-Aqsa [a Gerusalemme]". Questa è una pessima notizia per l'Autorità palestinese (Ap) e il suo presidente, Mahmoud Abbas, che continuano a parlare del loro desiderio di creare uno Stato palestinese che esisterebbe a fianco di Israele in pace e stabilità. Questi ragazzi non accetteranno mai la soluzione dei due Stati di cui parla Abbas. Né mai riconosceranno a Israele il diritto di esistere in questa parte del mondo.
Mentre Hamas addestra i minori che diventeranno i futuri jihadisti dei palestinesi, Abbas e la sua Ap avvelenano altresì i cuori e le menti del loro popolo, incitandolo costantemente contro Israele. Questo incitamento è in atto nelle moschee, nei media e nella retorica pubblica dei leader e dei portavoce dell'Autorità palestinese. Pertanto, ciò che Abbas e l'Ap stanno facendo non è meno grave di quanto sta facendo Hamas ai ragazzini della Striscia di Gaza. Né Hamas né l'Autorità palestinese preparano la propria popolazione alla possibilità di fare pace con Israele. Anzi, i due partiti hanno radicalizzato la loro gente al punto che è diventato impossibile parlare di una soluzione dei due Stati. Gli unici che trarranno vantaggio da questo indottrinamento sono i gruppi terroristici islamisti e quelli presenti nella regione e all'estero, compresa l'Europa, che continuano a invocare la distruzione di Israele.
di Massimo Galli
Israele ha un record mondiale che fa invidia a molti: il 70% dell'acqua che esce dai rubinetti nelle famiglie proviene dal mare. Dopo essere stata desalinizzata negli appositi impianti, diventa potabile e passa all'uso domestico. Uno degli esempi più eloquenti è quello della struttura di Palmachim, dove ogni giorno 624 mila metri cubi d'acqua vengono prelevati dal mare attraverso due grandi tubi sotterranei lunghi un paio di chilometri. Il nome dell'impianto è Sorek e si tratta del più grande al mondo nella desalinizzazione per osmosi inversa, una tecnica all'avanguardia. Si trova a 15 chilometri da Tel Aviv e rifornisce il 20% dell'acqua corrente dell'intera nazione.
Il fatto che Palmachim sia un gioiello tecnologico è testimoniato dal fatto che esperti e scienziati arrivano dall'intero pianeta per capirne il funzionamento. Passando attraverso membrane porose che la liberano dai cristalli di sale, l'acqua viene filtrata e arricchita di minerali, mentre lo scarto della lavorazione torna in mare. Al termine del trattamento, spiegano i responsabili della struttura, l'acqua è perfetta per il consumo.
Non c'erano altre vie per Israele, il cui clima semidesertico avrebbe costretto la popolazione a confrontarsi in maniera permanente con la penuria d'acqua. Per non parlare delle aziende, molte delle quali consumano acqua in gran quantità. La competenza professionale dei tecnici ha supplito a questo limite: negli ultimi dieci anni sono sorti quattro impianti di desalinizzazione, sotto l'impulso del governo. E il quinto è atteso entro pochi mesi.
C'è però il rovescio della medaglia, almeno secondo gli ambientalisti, che ritengono questa tecnica troppo onerosa in termini di consumo energetico. Inoltre non si conosce l'impatto del ritorno in mare degli scarti, che consistono in acqua ad alto contenuto salino: l'ecosistema potrebbe risentirne a lungo termine. Ma i tecnici ribattono che non fare niente avrebbe avuto costi di gran lunga superiori per lo Stato ebraico. Avshalom Felber, numero uno di Ide, società che gestisce l'impianto, sottolinea che questo programma ha cambiato le carte in tavola. In genere le piogge garantiscono soltanto metà del fabbisogno della popolazione e sei anni fa il timore era che ci si sarebbe presto ritrovati in una situazione preoccupante. Oggi, invece, Israele ha acqua in eccesso e ha risolto i suoi problemi. Non solo: grazie alle competenze accumulate, Tel Aviv ha siglato un accordo con la Banca mondiale per condividere la propria esperienza e metterla a disposizione di altri paesi. Eilon Adar, direttore dell'Istituto Zuckerberg per la ricerca sull'acqua all'università Ben Gurion del Negev, spiega che l'acqua non è considerata una semplice risorsa naturale, ma una materia prima importante quanto il petrolio: si tratta di un argomento che riguarda la sicurezza nazionale.
Oltre a questo aspetto c'è anche quello del riutilizzo dell'acqua. Anche qui Israele è primo nel mondo con l'86% rispetto al 19% della Spagna, che si trova in seconda posizione. L'acqua recuperata da appositi impianti copre i due terzi del fabbisogno agricolo, compresa l'irrigazione della frutta e dei legumi più delicati.
(ItaliaOggi, 5 agosto 2015)
Un trio inedito apre stasera il festival itinerante Le Vie del Suono, che porta la musica d'autore ai piedi dell'Appennino modenese. Alle 21,45, a Monfestino di Serramazzoni, inaugurano la rassegna il cantante degli Almamegretta Raiz, il musicista e attore Enrico Fink e il jazzista Frank London, in un progetto di musica e poesia ebraica. Un viaggio a due voci col supporto della tromba di London, alla scoperta di antichi poemi religiosi in musica degli ebrei italiani e del repertorio che attraverso il Mediterraneo ha viaggiato dalla Spagna al Nord Africa, passando dal Medio Oriente e arrivando poi nel nostro Paese. Oltre a London, ad accompagnare con la musica le parole di Raiz e Fink sono Giuseppe De Trizio alla chitarra, Arlo Bigazzi al basso e Matteo Scarpettini alle percussioni.
(la Repubblica - Bologna, 5 agosto 2015)
di Davide Frattini
GERUSALEMME - La strada scende verso il Canale e l'odore del petrolio sale. Sono le esalazioni delle raffinerie che da decenni arricchiscono il regime. I soldi a Suez riempiono l'aria e le casse dello Stato, ben poco le tasche degli operai trapiantati qui dalla miseria dei villaggi. Quattro anni fa mentre i rivoltosi al Cairo assaltavano i simboli del governo, in questa città la rabbia aggrediva i palazzi del denaro: le banche e l'acciaieria di Ahmed Ezz, il magnate amico di Gamal Mubarak, il figlio minore del faraone Hosni deposto dai diciotto giorni di rivoluzione.
Adesso un altro generale diventato presidente prova a mantenere quello che anche i predecessori avevano promesso fin da quando Gamal Abdel Nasser proclamò da un balcone ad Alessandria la nazionalizzazione del canale di Suez, una sera di luglio del 1956: Centoventimila egiziani sono morti per scavarlo senza essere mai pagati. Oggi ritorna all'Egitto perché era stato costruito per dare benefici al nostro Paese e non per diventare uno strumento degli sfruttatori stranieri francesi e britannici».
Abdel Fattah al Sisi ha allargato il canale e garantisce di allargare l'economia nazionale, ridistribuire la ricchezza: i proventi dal transito di mercantili e petroliere dovrebbero crescere dai 5,3 miliardi di dollari previsti per quest'anno a 13,2 nel 2023. Mohab Mamish, alla guida della società che gestisce il canale, parla di un milione di posti di lavoro creati nella regione in quindici anni. Ne hanno bisogno gli egiziani disoccupati (il 40 per cento dei giovani è senza un impiego) e ne ha bisogno Sisi per rafforzare la popolarità in discesa.
I 72 chilometri di acqua navigabile in più (258 milioni di metri cubi di deserto rimossi, costo quasi 8 miliardi di euro) sono stati realizzati in un anno invece dei tre previsti. Eppure il giornale economico Ai Bursa titola un'inchiesta sulle riforme: «Perché il governo si muove alla velocità di una tartaruga?». Il quotidiano AI Watan elenca gli intralci alla nascita del «nuovo Egitto» annunciata dal presidente e sono ancora le piaghe dell'era Mubarak: l'oligarchia militare e politica, la corruzione, il nepotismo, gli abusi della polizia.
È la prima volta da quando Sisi è stato eletto nel maggio dell'anno scorso che qualche giornalista tra i più temerari il governo minaccia chi non segue la linea ufficiale invoca il voto anticipato perché «il presidente ha accresciuto l'instabilità».
Così la cerimonia d'inaugurazione serve al leader egiziano per dimostrare di essere il vero erede di Nasser e di voler distaccarsi dal periodo di Mubarak. I mosaici di piastrelle disseminati al Cairo che celebrano la via artificiale tra il Mar Rosso e il Mediterraneo affiancano Sisi ai predecessori ma cancellano l'esistenza, almeno in immagine, di Hosni.
«Gli egiziani sono ancora disposti a fare sacrifici nella speranza di un futuro migliore scrive Jack Khoury sul quotidiano israeliano Haaretz e stanno concedendo tempo al presidente. Sisi sa che solo mantenendo le promesse potrà essere innalzato sullo stesso piedistallo di Nasser».
Anche il colonnello che comandò la rivoluzione degli ufficiali contro re Faruq puntò su progetti patriottici imponenti, nazionalizzò il canale per accumulare il miliardo di dollari necessario a innalzare la diga di Assuan sul Nilo. Sisi annuncia la costruzione di una nuova capitale e un piano di rilancio economico del Sinai.
Come Nasser deve combattere l'opposizione dei Fratelli Musulmani. Il movimento è in rivolta da quando Mohammed Morsi, primo presidente eletto nel dopo Mubarak, è stato deposto dai militari. Gli islamisti avrebbero stretto un'alleanza con i gruppi di estremisti che dominano e terrorizzano la penisola di sabbia.
Le celebrazioni di domani diventano una prova di prestigio e di forza: Sisi ha schierato 10 mila poliziotti e le forze speciali dell'esercito per mostrare agli egiziani e al mondo di poter garantire l'ordine e la sicurezza. Ospite d'onore alla cerimonia sarà il presidente francese Hollande. I fuochi d'artificio spera Sisi saranno solo quelli offerti dai francesi che con Ferdinand de Lesseps aprirono il canale di Suez 146 anni fa.
(Corriere della Sera, 5 agosto 2015)
Dopo l'India e la Cina, è la volta del Giappone, il quale vuole rafforzare la sua cooperazione economica, industriale e tecnologica con Israele. Nel mese di maggio, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha firmato diversi accordi di ricerca e sviluppo con il dirigente giapponese Shinzo Abe. Ora sono le aziende israeliane che giungono in Giappone per stabilire accordi di partnership con aziende giapponesi.
La scorsa settimana, una delegazione di aziende israeliane, guidata da Ohad Cohen, responsabile del commercio estero del Ministero dell'Economia, ha visitato Tokyo. Le aziende rappresentate provenivano da molti settori: prodotti farmaceutici, attrezzature mediche, dispositivi agro-tecnologici, biotecnologici, screening e così via. Lo scopo di questo incontro è stato quello di aumentare gli investimenti da entrambe le parti e rafforzare i legami economici tra i due paesi. Le aree che interessano maggiormente alle aziende giapponesi sono:
Tre aree nelle quali Israele è leader. La popolazione giapponese è nota per la sua longevità e i suoi dirigenti sono concentrati nella capacità di garantire il benessere della popolazione. E proprio questa preoccupazione è ciò che rende gli israeliani partner ideali perché sviluppano tecnologie robotiche e dispositivi medici.
Vered Farber, Direttore dell'Asian Institute (organizzazione israeliana per promuovere le relazioni tra Asia e Israele) è entusiasta:
I giapponesi hanno finalmente realizzato che esiste una Silicon Wadi nel medio Oriente che rivaleggia con la Silicon Valley in California, e non vogliono rimanere indietro. |
Parallelamente, le relazioni tra Taiwan e Israele negli ultimi anni si sono notevolmente rafforzate, gli scambi commerciali nel 2014 hanno raggiunto l'1,3 miliardi dollari.
(SiliconWadi, 5 agosto 2015)
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Ali Khamenei teorizza l'«egemonia iraniana» sul Medio Oriente attraverso l'eliminazione di Israele, gli ultraconservatori accusano il governo di aver ceduto sulle «linee rosse» del nucleare e l'ex presidente Mohammed Ahmadinejad si candida al Parlamento di Teheran per guidare la controffensiva dei «falchi».
A dare il polso della reazione dei conservatori di Teheran all'accordo di Vienna sul programma nucleare era stato a metà luglio Ali Khamenei, Leader Supremo dell'Iran, assicurando che «la nostra politica contro l'arroganza dell'America non cambierà». Ed ora è sempre Khamenei a rafforzare il messaggio autorizzando la pubblicazione da parte del suo ufficio - ovvero l'istituzione più importante della Repubblica Islamica - di un libro-pamphlet di 416 pagine nel quale si teorizza la distruzione dello Stato ebraico nel quadro di una «egemonia dell'Iran sulla regione» destinata a sostituire l'«egemonia dell'Occidente». II libro identifica l'autore nel Grande Ayatollah Seyyed Ali Husseini Khamenei definendolo «il portabandiera della liberazione di Gerusalemme» e per negare il diritto all'esistenza di Israele adopera tre verbi: annichilire, dissolversi e rimuovere.
Se lo Stato ebraico è «il nemico», per Khamenei le ragioni sono tre. Anzitutto è un leale «alleato del Grande Satana americano» ed è dunque un ingranaggio-chiave dello «schema diabolico» di dominare la «madreterra della Ummah» musulmana. In secondo luogo è un «infedele ostile» perché ha combattuto contro i musulmani. Ed infine «occupa Gerusalemme», «terza città santa dell'Islam» dove Khamenei svela di «avere il desiderio di pregare».
La strategia
Nel libro la strategia per cancellare Israele viene illustrata nei dettagli spiegando che non si tratta di una «guerra classica» ma di un conflitto di lungo termine a bassa intensità per spingere il numero più alto possibile di ebrei ad andarsene. La soluzione del conflitto mediorientale è dunque nella «formula con un solo Stato», sotto i musulmani, che consentira di rimanere come «minoranza protetta» solo a quel numero limitato di ebrei con «vere radici» in loco.
Per realizzare tale progetto Khamenei punta, sul piano militare, su conflitti di attrito simili a quelli «vinti» negli ultimi anni da Hezbollah in Libano del Sud e Hamas a Gaza, e sul piano diplomatico sulla «stanchezza nei confronti di Israele» da parte della comunità internazionale. A completare il tutto c'è una definizione dell'Olocausto come «strumento di propaganda» perché «se davvero qualcosa di simile è avvenuto, non sappiamo perché e come».
Si tratta di posizioni destinate a rafforzare le voci degli ultraconservatori a Teheran in coincidenza con la discussione in Parlamento dell'intesa di Vienna che ha visto il ministro degli Esteri Javad Zarif bersagliato da critiche e ironie degli oppositori, arrivati a simulare di dormire durante il suo intervento. II magazine «9 Dey» e il quotidiano conservatore «Kayhan» hanno accusato il team negoziale di aver «violato le linee rosse di Khamenei» e il governo ha reagito con un provvedimenti insolito: vietando le pubblicazioni del primo e «ammonendo» il secondo.
D'altra parte più miliziani Basiji hanno espresso scontento contro Vienna scrivendo su Facebook e la tv di Stato ha fatto proprie tali critiche mandando su tutte le furie Ali AkbarVelayati, collaboratore di Khamenei. È in tale atmosfera che l'ex presidente Ahmadinejad annuncia la candidatura alle politiche di febbraio con un ritorno in politica teso a «impedire alle culture straniere di penetrare in Iran». «Non dobbiamo dimenticare che gli Usa sono il nostro nemico», ha detto Ahmadinejad nel primo comizio, facendo proprio il messaggio di Khamenei.
(La Stampa, 5 agosto 2015)
di Maurizio Molinari
Mura alte trenta metri, un cancello imponente e un'estensione quadrupla rispetto a Gerusalemme: l'antica città di Golia si è svelata agli archeologi dell'Università di Bar Ilan in tutta la sua potenza, portando a rileggere gli equilibri di forza con il regno di Giuda.
Gli scavi sulla collina di Tel Zafit, nel parco nazionale sulle colline della Giudea, sono in corso da oltre venti anni, ma finora il team internazionale di archeologi guidato da Aren Maeir non era andato oltre il ritrovamento di alcuni templi filistei dell'XI secolo a. C. e dei resti del castello crociato «Blanche Garde» che ebbe tra i suoi difensori Riccardo Cuor di Leone. Ma ora i ricercatori hanno scoperto la città filistea di Gath dove abitava Golia e verso la quale - come si legge nel Libro di Samuele - David fuggì andando «da re Saul a Achish, re di Gath».
La scoperta riguarda il grande cancello che era all'entrata della città, la cui imponenza consente di ricostruire anzitutto l'altezza delle mura di cinta - almeno 30 metri - nonché un'estensione che per Maeir arrivava a 500 dunam (50 ettari), ovvero quattro volte i 120 dunam (12 ettari) che all'epoca misuravano le maggiori città come Megiddo, Gerusalemme e Beer Sheva.
Poiché Gath venne distrutta nell'830 a. C. da Hazael, re di Aram, ciò significa per Maeir che «durante l'esistenza del regno di Giudea ai suoi confini occidentali esisteva una grande città filistea che non attaccò mai», dimostrando che durante i re David e Salomone controllava un territorio più limitato, soprattutto sulle montagne, attorno a Gerusalemme. Nei pressi di Gath è stata scoperta a Kaifa, alcuni anni fa, una città fortificata della Giudea, risalente al X secolo a. C., che forse segnava il limite massimo di estensione del regno prima dei cancelli di Golia.
(La Stampa, 5 agosto 2015)
A Teheran per ribadire il valore politico dell'accordo sul nucleare e per sfruttarne i possibili risvolti economici. Sono i due binari su cui si muoverà la missione in Iran cominciata ieri dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni assieme al responsabile dello Sviluppo Economico, Federica Guidi.
A metterlo in chiaro è lo stesso titolare della Farnesina precisando che l'obiettivo è «tenere collegate le due direzioni, dimensione politica e economica, del percorso che si è aperto». Da una parte Gentiloni ha ribadito che gli sforzi per raggiungere l'intesa si giustificano solo nel «coinvolgimento dell'Iran nella stabilità regionale» e per il capo della diplomazia italiana è legittimo aspettarsi «qualche progresso in alcuni teatri di crisi», soprattutto «in Siria».
Dall'altra però l'Italia vuole muoversi in fretta nel campo economico aperto dall'intesa di Vienna puntando a raddoppiare l'interscambio tra i due Paesi. Una collaborazione che già prima del 14 luglio scorso (data in cui è stato raggiunto lo storico patto) valeva 1,2 miliardi di dollari (erano sette prima dell'embargo). Ecco perché al seguito del ministro ci sarà una nutrita delegazione di investitori: Eni, Finrneccanica, Cassa depositi e prestiti, Sace, e altri sono attesi a fine anno. D'altronde, come spiega bene lo stesso Gentiloni, l'Italia è convinta che le potenzialità di questa intesa siano di gran lunga superiori alle preoccupazioni avanzate d altri Paesi. Basti pensare che secondo Sace (agenzia di sostegno economico all'export italiano) la rimozione delle sanzioni economiche, (che comunque non avverrà prima di un anno) potrebbe generare un fatturato di 19 miliardi. Gentiloni e Guidi hanno in agenda una serie di incontri con la leadership locale: il presidente Hassan Rohani, probabilmente questa mattina, il capo della diplomazia Mohammad Iavad Zarif, oltre ai ministri del Petrolio e dell'Industria.
(Avvenire, 5 agosto 2015)
di Cristina Gulfi*
Seduto su una sedia, tra una sigaretta e l'altra, Jacob Lellouche risponde alle telefonate su tre cellulari. Lo chiamano per sapere il menu del giorno del suo ristorante, il Mamie Lily. Il nome deriva dalla madre, che, a dispetto dei suoi 88 anni, dà ancora ordini e osserva la preparazione dei piatti in cucina. Il Mamie Lily, situato a La Goulette, è l'unico ristorante kosher di tutta la Tunisia, testamento di una cultura di tolleranza da sempre presente nella società tunisina.
Jacob è un caso unico non solo perché gestisce un ristorante kosher, ma anche perché è fondatore e presidente di Dar el Dhikra, organizzazione dedicata alla memoria del patrimonio ebraico in Tunisia. Della storia degli ebrei in Tunisia Jacob sa tutto, dal loro arrivo con i fenici fino ai giorni nostri. Pur con tutto questo orgoglio, però, Jacob si identifica innanzitutto e soprattutto con il suo Paese. "Sono tunisino! - esclama - Sono come tutti gli altri. Musulmani, ebrei, cristiani. Siamo tutti tunisini".
Sebbene la sua organizzazione sia di tipo puramente culturale, Jacob, dopo la rivoluzione tunisina, si è dedicato per un p0? di tempo alla politica. Si è candidato al Parlamento perché voleva dimostrare che gli ebrei tunisini sarebbero stati parte della società tunisina, come cittadini e non come minoranza religiosa. Anche se ha perso, crede di aver raggiunto il suo scopo.
Di Israele e della Palestina pensa che tutt'e due amano la guerra e che hanno ricevuto molti soldi dall'esterno solo perché sono in perenne conflitto. È felice che esista un posto che si spera impedirà un nuovo olocausto, ma non ha alcuna intenzione di trasferirsi in Israele. "Ho studiato e vissuto in Francia per molto tempo, ma lì lo stile di vita era troppo frenetico. Qui a Tunisi ho una vita sociale, intaglio il legno, dipingo, lavoro alle iniziative della mia organizzazione e mi dedico alla gestione di due ristoranti. Sono tunisino e non ho interesse a vivere in nessun'altra parte del mondo. Resterò qui per il resto della vita".
Jacob ama la sua famiglia. Lo si evince dall'impegno nel prendersi cura della madre - l'unica donna della sua vita da quando ha divorziato - e dall'umorismo con cui si rivolge al fratello. A volte però, lo spirito lascia spazio al turbamento. La rivoluzione ha portato molta libertà, ma l'ascesa dei gruppi islamisti preoccupa Jacob. In diversi episodi, infatti, i salafiti hanno inneggiato alla morte degli ebrei e dei sionisti.
Alla domanda se questa sia l'età dell'oro per gli ebrei di tutto il mondo, Jacob risponde convinto: "No. Né sicuro che ne abbiamo mai avuto o ne avremo una". Eppure non può fare a meno di riconoscere che in Tunisia vive liberamente ed ha la possibilità di stringere relazioni con persone di ogni religione.
Jacob non è credente, ma rispetta il diritto alla religione. Molti suoi amici sono musulmani. In questo senso, la sua storia e la sua visione della vita mostrano che i conflitti senza fine ed una considerazione negativa delle differenze non devono essere temi dell'interagire umano nel fragile mondo di oggi. Ogni giorno Jacob, parlando con i clienti del suo ristorante, involontariamente trasmette questo messaggio di pace, rendendo La Goulette, la Tunisia e il mondo un posto migliore.
* Da un articolo di Conor McCormick-Cavanagh su Your Middle East (2 ago 2015)
(ArabPress, 5 agosto 2015)
La società israeliana Arava Power Company ha inaugurato ieri il suo più grande campo di pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica di massa.
Situato nella valle di Arava, a nord di Eilat, i 140,343 pannelli solari si sviluppano di 54 ettari ed è il risultato di 6 anni di lavoro e collaborazione tra Arava Power e EDF Energies Nouvelles. La capacità totale è di 40 MW, che la rende la più grande infrastruttura di pannelli solari in Israele. Ogni giorno, 250,000 Kw/h vengono forniti da questi pannelli.
EDF conferma la sua presenza in Israele con la sua decima infrastruttura di pannelli solari. Ayalon Vaniche, CEO di EDF Energie Nouvelles Israel ha affermato che l'azienda francese continuerà ad investire nel campo dell'energia rinnovabile. Per quanto riguarda Arava Power Company, questa impresa porta con sé la capacità totale di produzione di elettricità derivata da pannelli solari a 100 MW.
Israele non è nuova nel campo delle infrastrutture fotovoltaiche come attestato dalla collaborazione tra la Gigawatt Global e lo stato del Rwanda. La Gigawatt ha infatti si trova all'origine del più grande progetto solare in Rwanda.
(SiliconWadi, 4 agosto 2015)
Ecco alcuni estratti da un'intervista con la terrorista liberata di Hamas, Ahlam Tamimi, andata in onda su Al-Aqsa TV il 12 luglio 2012.
Intervistatore: 16 sionisti sono stati uccisi [nell'attentato suicida che lei ha contribuito a compiere]. Era il suono dell'esplosione...? E' stato molto forte.
Ahlam Tamimi: Il mujahid Abdallah Barghouti ha fatto un lavoro perfetto suonando la chitarra [contenente la bomba], e i risultati hanno stupito tutti, grazie ad Allah.
[...]
In seguito, quando ho preso l'autobus, i palestinesi intorno alla Porta di Damasco [a Gerusalemme] erano tutti sorridenti. Si poteva avvertire che erano tutti contenti. Quando sono arrivata sul bus, nessuno sapeva che ero io che aveva guidato [l'attentatore suicida all'obiettivo] ... Mi sentivo abbastanza strana, perché avevo lasciato [l'attentatore] 'Izz Al-Din dietro, ma dentro il bus tutti si congratulavano l'un l'altro. Nemmeno si conoscevano fra di loro, ma si scambiavano complimenti.
[...]
Mentre ero seduta sul bus, l'autista ha acceso la radio. Ma prima, lasciate che vi dica l'aumento graduale del numero di vittime. Mentre ero sul bus e tutti si congratulavano l'uno con l'altro, hanno detto alla radio che c'era stato un attacco di martirio al ristorante Sbarro, e che tre persone erano rimaste uccise. Devo ammettere che ero un po' delusa, perché avevo sperato in un risultato più grande. Eppure, quando hanno detto "tre morti" ho detto: "Allah sia lodato."
Intervistatore: Era una stazione radio israeliana o palestinese?
Ahlam Tamimi: La stazione era in lingua sionista, e l'autista traduceva per i passeggeri.
[...]
Due minuti più tardi alla radio hanno detto che il numero era salito a cinque. Volevo nascondere il mio sorriso, ma proprio non ci sono riuscita. Allah sia lodato, è stato fantastico. Poiché il numero di morti continuava a crescere, i passeggeri applaudivano. Non sapevano nemmeno che c'ero io in mezzo a loro.
Sulla via del ritorno [a Ramallah], abbiamo passato un posto di blocco della polizia palestinese, e i poliziotti ridevano. Uno di loro infilò la testa e disse: "Congratulazioni a tutti noi". Erano tutti contenti.
(Memri TV, agosto 2012 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
di Cristofaro Sola
Lo scorso 30 luglio il piccolo Ali Saad Dawabsheh, palestinese di 18 mesi, è arso vivo nel villaggio di Duma, a sud di Nablus in Cisgiordania, in un incendio appiccato da quattro coloni israeliani. Si è trattato di un atto criminale ignobile prodotto dal terrorismo ultranazionalista ebraico, della cui gravità ha parlato senza mezzi termini il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Parimenti, il popolo israeliano ha chiesto giustizia per Ali Saad perché la logica di un altro tipo d'integralismo, uguale e contrario a quello islamico, non faccia breccia nel tessuto di una società civile autenticamente democratica e tollerante.
Gli israeliani non sono come i palestinesi. Non traggono soddisfazione dalle azioni criminali compiute in danno di pacifici cittadini, sebbene non ebrei. A differenza dei palestinesi, essi non chiamano eroi coloro che si macchiano di delitti orrendi. Non intestano loro piazze e strade. Netanyahu in persona ha dichiarato che userà il pugno di ferro contro gli attentatori di Duma. Gli si creda. Il problema resta la controparte palestinese che, attraverso i suoi vertici, non ha perso occasione per rinfocolare la polemica antisraeliana, volendo sfruttare il fattore emozionale scatenato dall'orrendo crimine.
Il presidente dell'Anp, Abu Mazen, ha commesso l'ennesimo errore politico. Piuttosto che cogliere l'opportunità offerta da un odioso fatto di sangue per rilanciare il processo di pace, egli ha preferito puntare sulla carta del coinvolgimento della comunità internazionale nella speranza di provocare l'isolamento del governo israeliano. Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente dell'Autorità Palestinese, ha dichiarato che l'uccisione del piccolo Ali Saad Dawabsheh sarà uno dei temi principali da portare alla Corte Penale Internazionale contro Israele. Il capo dei palestinesi, ancora una volta, cerca scorciatoie per evitare la strada maestra del negoziato. Come ha fatto all'indomani degli incidenti alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, chiedendo una convocazione urgente della Lega Araba per il prossimo 5 agosto. All'ordine del giorno: "L'escalation israeliana". Non caverà un ragno dal buco. Pensa davvero Abu Mazen di conquistare alla sua causa i governi dei Paesi musulmani? È assai poco probabile che ciò avverrà visto il mutato scenario geopolitico degli ultimi mesi. Da qualche tempo si è creato un asse invisibile tra Israele e i governi ispirati all'Islam sunnita allarmati dalla crescita del peso politico dell'Iran sciita. Preoccupazione che è aumentata dopo la sottoscrizione degli accordi di Vienna sul nucleare iraniano. Il giudizio negativo su quanto accaduto tra le potenze globali e Teheran accomuna Gerusalemme al Cairo, ad Amman ma anche a Riyad, ad Abu Dhabi ed a Doha.
Inoltre, resta sullo sfondo la questione della presenza dell'Is - lo Stato Islamico - in Siria, in Iraq e oggi nel Sinai. L'Egitto di al-Sisi ha bisogno del pieno sostegno dell'intelligence israeliana per fare fronte ad un pericolosissimo rischio di saldatura tra le diverse fazioni dell'integralismo jihadista contro le quali il nuovo uomo forte del Cairo sta testando la sua tenuta interna e la credibilità agli occhi della comunità internazionale.
Abu Mazen si è rifugiato in un pericoloso cerchiobottismo tattico. Da un lato, non chiude tutti i ponti con la controparte israeliana, dall'altro non vuol dare la sensazione a quelli che all'interno dei territori amministrati dall'Anp la pensano come Hamas di cedere davanti al nemico. Per costoro la cancellazione d'Israele dalla carta geografica del Medioriente resta obiettivo irrinunciabile. Abu Mazen ha il diritto di piangere la sua piccola vittima ma dovrebbe, per onestà, dire qualcosa di definitivo sullo stillicidio di attacchi quotidiani provocati dai palestinesi contro civili israeliani. Con tanto di morti e feriti. Ma la sua bilancia è guasta: pende sempre e solo dalla stessa parte.
(L'Opinione, 4 agosto 2015)
Una molotov, lanciata da alcuni palestinesi, ha centrato un'automobile di ebrei israeliani a Beit Hanina, un sobborgo a nord di Gerusalemme. La macchina ha preso fuoco e nell'incendio è rimasta ferita una donna che in quel momento era a bordo del veicolo con il marito, colpito in modo superficiale. La ragazza, 27 anni, estratta a fatica dall'auto distrutta dalle fiamme dal marito, sarebbe stata portata all'ospedale Hadassah Ein Kerem e avrebbe ustioni sul 15 per cento del corpo, ma sarebbe cosciente.
(Fonte: Corriere della Sera, 4 agosto 2015)
Egregio Dottor Cervi, mi risultava di aver ricevuto da varie fonti la conferma che l'Italia avesse usato nei confronti degli ebrei durante l'occupazione della Grecia nella seconda guerra mondiale un trattamento umano in contrasto con quello dei tedeschi alleati. In particolare avevo letto che avevano avuto il coraggio di difendere la comunità - anche se si limitarono agli ebrei italiani - allorché i nazisti radunarono e li trasferirono nei campi di sterminio. Si è tramandata la fama di correo ai danni del rabbino Zevi Koretz, che avrebbe applicato con troppa do- cilità le direttive naziste non dando ascolto alle loro lagnanze. A questa fama di collaborazionista si oppongono nuove interpretazioni del suo comportamento, come quella di Massimo Peri, che, peraltro, nega che il comportamento degli italiani sia stato umano come viene tramandato. Data la Sua conoscenza diretta di quelle tragiche vicende, potrebbe descriverle e commentarle?
Caro Fadda, anche se, come lei in un poscritto scrive, mi occupo preferibilmente di cani e gatti, farò in suo favore un'eccezione: e mi occuperò degli ebrei di Salonicco e di quel tragico personaggio che fu Zvi Koretz, gran rabbino e collaboratore dei nazisti. In tutti i territori da loro occupati i comandi italiani usarono nei confronti degli ebrei un atteggiamento umano, cercando di sottrarne il maggior possibile numero alla ferocia tedesca. Infatti proprio il controverso Koretz, che si fece complice delle SS ritenendo così di proteggere i correligionari, avviò contatti con il console italiano a Salonicco per averne aiuto. Il che non fa degli italiani degli angeli salvatori - le leggi razziali erano anche fasciste - ma attribuisce loro un ruolo diverso od opposto a quello dei nazisti. Quanto a Koretz, un ebreo polacco ambizioso e avido di incarichi e di denaro, non credo gli si addica una dannazione senza attenuanti. Trovatosi al centro d'una vicenda terribile, assillato da meschine rivalità interne alla comunità, forse benintenzionato e sicuramente vile, trattò con gli ufficiali tedeschi e obbedì ai loro ordini. Lo fece solo per servilismo o anche (o soprattutto) per il tentativo d'evitare la deportazione nei campi di sterminio di tutti gli ebrei di Salonicco? Trattando di queste figure storiche ambigue, equivoche, controverse, sgradevoli se non odiose si è sempre tentati dalla condanna assoluta. Koretz morì di tifo proprio nei giorni in cui la guerra finiva così scampando a un sicuro processo e forse alla pena capitale. Nell'ottica più pacata di oggi la sua figura rientra tra quelle innumerevoli delle vittime assecondanti i carnefici.
(il Giornale, 4 agosto 2015)
CITTÀ DEL VATICANO - "La Santa Sede vede positivamente l'accordo sul nucleare iraniano perché considera che la via per risolvere le controversie e le difficoltà deve essere sempre quella del dialogo e del negoziato". Lo dichiara il segretario della Santa Sede per i Rapporti con gli Stati Paul Richard Gallagher, in un'intervista per Vatican Insider.
"L'intesa raggiunta - prosegue - è il risultato di tanti anni di negoziato su una questione che aveva suscitato grave preoccupazione. È davvero positivo che si sia giunti a una soluzione soddisfacente per tutte le parti. È chiaro, altresì, che tale accordo richiede la continuazione degli sforzi e dell'impegno di tutti perché possa dare i suoi frutti".
"Ribadisco - conclude Gallagher - che la via per la soluzione dei conflitti in Medio Oriente, che vanno affrontati in modo globale e regionale insieme, è quella del dialogo e del negoziato e non quella dello scontro. È vero che questa via richiede decisioni coraggiose per il bene di tutti, ma è quella che conduce all'auspicata pace nella regione".
(LaPresse, 4 agosto 2015)
I frutti che potrà dare laccordo apprezzato dalla Santa Sede sono ben espressi dallarticolo che segue.
Secondo un reportage firmato sabato scorso sul New York Post dall'esule iraniano Amir Taheri, la Giuda Suprema dell'Iran ayatollah Ali Khamenei ha pubblicato un libro intitolato Palestina nel quale perora la causa della distruzione del "regime sionista" spiegando come e perché Israele debba essere cancellato dalla carta geografica. "La soluzione [del conflitto ] - scrive Khamenei - è la formula ad un unico stato" e quello stato si chiama "Palestina".
Nel libro, Khamenei usa tre parole farsi per dire che Israele non ha diritto di esistere: nabudi (annientare), imha (dissolvere) e zaval (cancellare).
Khamenei spiega il "meccanismo pratico e logico" che porterà Israele sotto dominio musulmano: soltanto ad alcuni ebrei verrà permesso di rimanervi come "minoranza protetta", ma solo dopo che avranno dimostrato di avere "radici autentiche" nel paese. Khamenei illustra poi un rigido sistema di apartheid che escluderà gli ebrei dal diritto di voto, mentre agli arabi verranno riconosciuti pieni diritti....
(israele.net, 4 agosto 2015)
Il particolare della progettata distruzione di Israele da parte dellIran però, oltre a non essere preso in considerazione dalla Santa Sede, non imbarazza neppure i governi degli altri paesi, perché laccordo con laspirante emulo di Hitler sembra aprire interessantissme possibilità di lucrosi affari.
Gli albergatori e i tour operator occidentali volgono il loro sguardo all'Iran, ora che la firma dell'accordo sul programma nucleare pare aver avviato un nuovo periodo di distensione politica, particolarmente favorevole alla riapertura dell'industria turistica del Paese.
Dopo la revoca delle sanzioni economiche l'inbound in Iran è destinato a crescere in modo esponenziale, tanto che gli analisti prospettano come, in tempi rapidi, il Paese possa arrivare ad accogliere anche 20 milioni di turisti l'anno.
Se, poi, le restrizioni bancarie, in vigore in varie forme dal 1979, verranno finalmente rimosse, sarà più semplice prenotare alberghi e collegamenti, prelevare contanti e pagare con carte di credito una volta entrati in territorio iraniano.
Proseguono intanto a ritmi serrati gli investimenti dei grandi gruppi alberghieri, tra cui spicca quello di Rotana Group, basato ad Abu Dhabi, che ha confermato l'imminente apertura di quattro strutture, mentre Accor sembra intenzionato ad acquisire due quattro stelle nella capitale Teheran.
(TTG Italia, 4 agosto 2015)
Non solo bombe e fucili dividono Israele dalla Palestina. Una vignetta satirica pubblicata da Baha Yassin, noto fumettista di una rivista di Hamas a Gaza, ha infatti alimentato estese polemiche in Cisgiordania e a Gaza e nuove frizioni fa al-Fatah e Hamas.
Apparsa sul web poco dopo la uccisione del bimbo palestinese Ali Dawabsheh nel rogo della sua casa, la vignetta mostra una donna palestinese cisgiordana mentre ha un "rapporto intimo" con un israeliano stereotipato. Questi è vestito di nero, ostenta una stella di David sulla schiena, ha un naso pronunciato ed orecchie a punta. L'uomo tiene una mano sul seno della donna, e con l'altra colpisce a morte con una mitraglietta i figlioletti. A poca distanza un militante di Gaza esclama: "Su Cisgiordania! Alzati, difendi il tuo onore e i tuoi figli!". Ma la donna replica, con un debole sorriso: "Vorrei poterlo fare, ma non ho il permesso''. A pochi passi dalla scena un ufficiale della sicurezza dell'Autorità palestinese (AP) sembra non curarsi di quanto accade e fuma imperturbabile.
In Cisgiordania la collera è stata immediata perché - oltre a lasciare intendere che lì le donne sarebbero di facili costumi - sembra rappresentarne gli abitanti come 'venduti' all'occupazione israeliana. Anche a Gaza, a quanto risulta, le proteste contro Yassin - un parente del fondatore di Hamas,sceicco Ahmed Yassin - sono state molto elevate.
Intanto un funzionario dell'AP ha alimentato nuove polemiche: "Gli abitanti di Gaza - ha detto, citato dalla stampa - non si sono sacrificati per la causa palestinese quanto quelli della Cisgiordania. Se vogliono dati e cifre possiamo fornirglieli".
(Il Faro, 3 agosto 2015)
TEL AVIV - Giornata storica per la citta' di Tel Aviv dove la scorsa notte sono iniziati i lavori per la costruzione della prima linea metropolitana. "Dopo 60 anni di promesse - ha detto il ministro dei trasporti Israel Katz - adesso cominciamo col realizzare la 'Linea Rossa' della metropolitana. Entro sei anni - ha aggiunto - Tel Aviv fara' ingresso nell'era moderna dei trasporti".
La 'Linea Rossa' avra' una decina di stazioni sotterranee, la prima delle quali - nella via Allenby - e' da oggi la prima ad essere realizzata, a 30 metri sotto il livello terrestre, e sara' completata nel 2019. Le strade immediatamente vicine sono state chiuse al traffico e lo stesso accadra' gradualmente anche in prossimita' delle altre stazioni. Il progetto include complessivamente otto linee diverse che collegheranno il centro di Tel Aviv alle citta' satellite piu' vicine. I responsabili del progetto hanno spiegato di averlo avviato di agosto, quando il traffico cittadino e' meno intenso, per non essere eccessivamente di peso agli abitanti. Ma via via che i lavori procederanno saranno egualmente possibili gravi ingorghi. Di conseguenza quanti raggiungono Tel Aviv dall'esterno sono da oggi invitati a lasciare i propri automezzi agli ingressi della citta' e a proseguire con mezzi pubblici.
(ANSA, 3 agosto 2015)
Dalla bellissima spiaggia di Palmachim sulla costa israeliana, rimane difficile immaginare ciò che accade nel sottosuolo. Eppure ogni giorno, 624,000 metri cubi d'acqua di mare vengono aspirati da due enormi tubi sotterranei e indirizzati verso 2 kilometri per essere trasformati in acqua potabile. Benvenuti a Sorek, il più grande impianto di desalinizzazione a osmosi inversa, considerata oggi, la tecnica di maggior successo. Nel 2013, a 15 kilometri a sud di Tel Aviv, il complesso fornisce il 20% dell'acqua corrente d'Israele, donando - letteralmente - mare da bere a 1,5 milioni di persone.
Gioiello tecnologico, l'installazione è diventata un luogo di pellegrinaggio per specialisti di tutto il mondo. Un rumore assordante e spruzzi d'acqua.
Descrive il direttore tecnico Micha Taub, mentre riempie un bicchiere posto all'estremità del sito:
Alla fine l'acqua è perfettamente sicura da bere, con tutto ciò che concerne alcalinità e durezza. |
La desalinizzazione è uno dei segreti che ha permesso a Israele di superare lo stress idrico che sembrava condannare il clima semi-desertico. Sotto la guida del governo, nel corso dell'ultimo decennio sono stati aperti quattro impianti. Un quinto dovrà essere messo in funzione alla fine del 2015. Insieme produrranno il 70% dell'acqua consumata dalle famiglie israeliane.
Le aziende israeliane sono leader nel campo della desalinizzazione dell'acqua, particolarmente vincolata a fenomeni naturali (calore eccessivo, poche risorse idriche e terre aride) che obbligano il paese ad adattarsi.
La redazione di siliconwadi.it aveva già trattato l'argomento della desalinizzazione dell'acqua, quando il MIT (Massachussets Institute of Technology) stilò un elenco di 10 innovazioni tecnologiche che cambieranno il mondo in cui figurava proprio l'impianto di Sorek.
(SiliconWadi, 3 agosto 2015)
Le parole più efficaci in linea con quella che è la nostra identità e i valori che vogliamo testimoniare le ha pronunciate il presidente Rivlin: non è la nostra via, non è la via del popolo d'Israele". Parte da queste affermazioni rav Giuseppe Momigliano, presidente dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia, per esprimere la ferma condanna, a nome di tutto il rabbinato italiano, per i fatti di sangue delle ultime ore: il rogo nel villaggio palestinese di Kfar Douma in cui ha perso la vita il piccolo Ali Saad Dawabsheh, l'attacco omofobo contro i manifestanti del Gay Pride di Gerusalemme. Oltranzismo e fanatismo religioso la radice comune dei due orrendi episodi. "Sono gesti contrari a qualsiasi valore ebraico. Per questo - dice rav Momigliano a 'Moked', il portale dell'ebraismo italiano - è importante che contro questa barbarie si levi una voce forte, un unico fronte che dal rabbinato arriva alla società civile. E che dalle parole si passi immediatamente ai fatti. Quello che sta succedendo in Israele in queste ore fa ben sperare". Categorico il rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni: "Tutti questi comportamenti non hanno a niente a che fare con la legge ebraica, la halakhah. Non c'è altro da aggiungere".
Rav Benedetto Carucci Viterbi, preside delle scuole ebraiche di Roma, tratta questo tema nel suo consueto contributo domenicale. Una riflessione che parte dal comandamento "Non uccidere". "Non uccidere - dice il rav - senza ma senza selezione falsamente giustificativa delle vittime". E Rav Pierpaolo Pinhas Punturello, rappresentante per l'Italia dell'organizzazione Shavei Israel, incalza: "Il gesto di un haredì che ha accoltellato alcuni manifestanti al Gay Pride di Gerusalemme e il brutale incendio di una casa vicino Ramallah con la conseguente morte di un bambino di 18 mesi schiacciano senza possibilità di respiro gli orizzonti della mia identità ebraica". Rav Adolfo Locci, rabbino capo di Padova, cita il passo dal Deuteronomio che recita "E amerai l'Eterno tuo Dio". E spiega: "I maestri del Midrash insegnano che questo verso si riferisce all'amore verso Dio che si deve far nascere nelle altre persone, come fece Abramo nostro padre. Non è però sufficiente, per adempiere a questa mitzvà, il nostro personale amore, bisogna considerare soprattutto quello che riusciamo a far scaturire negli altri attraverso il nostro insegnamento e il nostro esempio". E quindi, conclude il rav, "guai a coloro che sono vergogna per la Torah e il popolo di Israele".
(Servizio Informazione Religiosa, 3 agosto 2015)
Puntuali prese di posizione come queste non sono necessarie per chi conosce la realtà ebraica e la valuta senza pregiudizi, e non sono sufficienti per chi detesta la realtà ebraica e non è disposto a modificare i suoi pregiudizi contro gli ebrei da dichiarazioni come queste. Anzi, per molti saranno una conferma. M.C.
Il presidente d'Israele Reuven Rivlin venerdì scorso allo Sheba Medical Center di Tel Hashomer presta visita a Ahmed Dawabsha, gravemente ferito nell'attentato costato la vita al fratellino Ali Saad.
Israele i suoi assassini li condanna, mentre i vicini di Israele intitolano in loro onore piazze e scuole. Lo ha sottolineato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aprendo domenica la riunione settimanale del governo.
Nel ricordare l'attentato incendiario che venerdì scorso ha causato la morte di un bambino palestinese in Cisgiordania, Netanyahu ha criticato la dirigenza palestinese accusandola di non condannare gli attentati del terrorismo palestinese. Netanyahu ha messo a confronto la immediata, netta e unanime condanna espressa da tutti gli esponenti politici e religiosi israeliani del rogo di venerdì scorso verosimilmente appiccato da terroristi ebrei, a quella che ha definito la risposta reticente e del tutto inadeguata da parte degli esponenti dell'Autorità Palestinese dopo ogni attentato di terroristi palestinesi contro innocenti civili israeliani....
(israele.net, 3 agosto 2015)
di Teresa Potenza
ROMA - Non solo oil&gas. L'intesa sul nucleare in Iran, raggiunta a Vienna lo scorso luglio, ha spalancato innumerevoli porte. Tant'è che, subito dopo la firma di quello storico accordo, il vice ministro allo Sviluppo economico twittava: "L'accordo con Iran riapre un mercato importantissimo. Ci muoveremo subito. Missione entro l'estate".
Ed ecco, puntuali, arrivati i giorni di questa missione, che il 4 e il 5 agosto vede protagonisti a Teheran il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e quello dello Sviluppo economico, Federica Guidi. Accanto a loro, imprenditori e rappresentanti di alcune tra i maggiori gruppi italiani, come Eni, oltre a Cassa Deposititi e Prestiti e Sace, la società specializzata nel sostegno e nella protezione degli investimenti delle imprese italiane all'estero, presieduta dall'ex ambasciatore italiano a Washington e a Teheran Giovanni Castellaneta.
È stata proprio Sace ad aver calcolato che l'export italiano, nei prossimi quattro anni, potrebbe aumentare di circa tre miliardi di euro. L'Italia vede dunque la possibilità di tornare a essere il principale partner economico del Paese, così come lo era prima delle sanzioni. Già qualche mese fa, a margine della cerimonia inaugurale di Expo, il ministro Guidi aveva avuto l'occasione di incontrare il ministro iraniano dell'Industria, Mohammad Reza Nematzadeh: "Le parti hanno convenuto sull'importanza di rafforzare le relazioni industriali e commerciali, con riguardo prioritario ai settori agroalimentare, della tutela ambientale e delle energie rinnovabili" si leggeva in una nota del ministero.
Certo è che la fine dell'embargo apre ottime prospettive a molti altri settori, grazie anche ai suoi 80 milioni di abitanti. Così, a Teheran è già arrivata la prima agenzia di relazioni pubbliche italiana: il gruppo Sec. A rendere possibile l'ingresso di Sec a Teheran è stata la partnership con il gruppo Pat, già attivo anche negli Emirati Arabi e presente in Italia. L'obiettivo è di sostenere quelle imprese che hanno già attività nel Paese, ma soprattutto le società che intenderanno sbarcare in Iran.
Anche il settore del legno-arredo considera quello iraniano uno dei mercati del futuro. A fine luglio, una delegazione di FederlegnoArredo ha infatti visitato il Paese "per intercettare nuove opportunità e rafforzare le relazioni commerciali di un mercato tutto da creare, ma che si concentra nella fascia alta". Target della filiera (tutta, come sottolinea FederlegnoArredo), sono studi di architettura e interior designer da una parte, general contractor, imprese di costruzione e distributori dall'altra.
Stesse potenzialità anche per il mercato della moda: alcuni brand del lusso, tanto per fare un esempio, sono già presenti in uno dei più importanti department store del Paese, il Sam Center (tra i quali l'italiano Sergio Rossi). Ora è la volta di Piquadro, che nello stesso centro commerciale ha inaugurato a fine luglio il suo primo shop-in-shop, per conquistare proprio quei consumatori affascinati dal'alta qualità dei prodotti italiani.
Ed è forse proprio sulla fascia alta e sul suo know how, ancora molto apprezzato in Iran, che l'Italia deve puntare, poiché è prevedibile che si farà molto agguerrita la concorrenza con gli altri Stati, altrettanto allettati dallo stop alle sanzioni. A cominciare da Russia e Cina, che in questi anni sono riuscite a mantenere buone quote grazie ai rapporti privilegiati con Teheran. Ma altrettanto agguerriti saranno gli altri Stati europei: un esempio per tutti è la Germania, che nel 2014 ha esportato quasi 2,4 miliardi di euro (contro poco più di un miliardo dell'Italia) - e Deutsche Bank stima ora altri due miliardi in più. Una delegazione del governo tedesco è volata a Teheran già all'indomani dell'accordo di Vienna, precisamente lo scorso 19 luglio.
Senza dimenticare, naturalmente, il settore dell'oil&gas. L'Unione europea, d'accordo con delegati iraniani, prevede che i progetti del settore, in collaborazione con partner europei, potranno raggiungere il valore di 185 miliardi di dollari entro il 2020. Ecco perché Teheran ha definitivamente confermato che la partnership con Bruxelles è fondamentale per spingere lo sviluppo della propria economia ed essere a tutti gli effetti reintegrata nella comunità internazionale.
(Il Ghirlandaio, 3 agosto 2015)
di Luca Rocca
Rosario Priore è stato il giudice istruttore del processo sulla strage di Ustica, del caso Moro e del tentato assassinio di Papa Wojtyla. Da magistrato si è occupato di terrorismo rosso e nero, e adesso che è in pensione si dedica alla ricerca storica di molte delle stragi che hanno "violentato" l'Italia nei decenni scorsi.
- Giudice Priore, dalla strage di Bologna a quella di piazza Fontana, dalla bomba a piazza della Loggia a quella dell'Italicus. L'Italia è stata per anni preda del terrorismo. Perché?
«Alla sua stessa domanda, il famoso capo dei servizi segreti francesi, Demaranche, rispose: "E perché no"? Argomentò che il nostro era un Paese debolissimo, con istituzioni inefficienti e un Partito comunista fortissimo. Riteneva, insomma, che l'Italia non fosse in grado di opporre una seria resistenza alle forze che volevano modificarne violentemente l'assetto istituzionale».
- Gli ex Nar, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, sono i responsabili "ufficiali" degli 85 morti provocati dalla bomba alla stazione. Ma sulla loro colpevolezza, nonostante una condanna definitiva, restano enormi dubbi.
«Io sono stato magistrato e dunque rispetto una sentenza passata in giudicato, ma ho sempre sostenuto che ciò non deve impedire a chi ha dei dubbi sulla ricostruzione ufficiale, di proseguire nella ricerca storico-politica. Credo sia un obbligo tentare di scavare più a fondo per giungere a una verità più aderente ai fatti».
- La "pista palestinese" è stata giuridicamente archiviata, eppure solidi indizi la tengono perennemente in piedi. Convince anche lei?
«Ci sono molti documenti che contengono indizi, trascurati, che vanno in questa direzione. Le nostre autorità percepirono un pericolo proveniente dalle aree Mediorientali e allertarono le forze di polizia. Ricordo messaggi, che non pervennero all'autorità giudiziaria, nei quali si diceva che era in atto la preparazione di un grande attentato. Per compierlo, sarebbe stato chiesto l'aiuto del terrorista filopalestinese Carlos. Ma questa pista non fu efficacemente battuta».
- Gli elementi sulla matrice palestinese sono robusti al punto da rendere legittimo chiedere la revisione del processo sulla strage di Bologna?
«Probabilmente sì, se si andasse avanti nelle ricerche. Ogni volta che ci si muove in questa direzione, anche se a farlo sono solo poche persone di buona volontà, emergono un'infinità di conferme su questa ipotesi. Anche Cossiga parlò di una bomba palestinese deflagrata per sbaglio. Quel carico di esplosivo, probabilmente, era in transito da Bologna ma non è lì che doveva brillare».
- Per la strage di piazza della Loggia di recente sono stati condannati due esponenti di Ordine Nuovo. Eppure anche in questo caso la verità sembra essere un'altra.
«È per questo che sono scettico sulla loro responsabilità. Sappiamo che la Germania dell'Est impedì a un brigatista di entrare in quel Paese, e nel respingerlo spiegò che era collegato a una strage avvenuta poco tempo prima in Italia. Addirittura la comunista Ddr rivelò anche i nomi delle fonti a sostegno di questa ipotesi, e fra queste c'era un giornalista dell'Unità. La cosa assurda è che in questa direzione sostanzialmente non si indagò mai».
- È credibile un ruolo della P2 nelle stragi?
«Non sono un esperto di questa loggia massonica, ma ho notato che per ipotizzare una responsabilità della P2 sono stati compiuti incredibili salti mortali e le prove, in dibattimento, sono sempre crollate».
- Sulle stragi più che la verità, si è cercata una "verità ideologica" che prescindeva dai fatti?
«In quasi tutti i processi a reggere è stato una sorta di postulato per cui le stragi dovevano per forza portare la firma dell'estrema destra. Ma non è così, perché tante volte sono nate in altri ambienti. Eppure per decenni si è operato tenendo fermo questa specie di religioso dogma».
(Il Tempo, 3 agosto 2015)
di Ada Treves
Presentati a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro, i programmi del Festivaletteratura di Mantova e di Pordenonelegge mantengono le aspettative. I due storici festival culturali che aprono la stagione autunnale già non avevano sofferto in maniera drammatica della crisi negli scorsi anni, e nel 2015 tornano prepotentemente a ricordare al mondo che la cultura, la letteratura, la conoscenza non passano di moda. Pur se molto diversi, si tratta di due appuntamenti che mostrano senza esitazione come unire intelligenza, coraggio, curiosità ed entusiasmo sia una scelta premiante, sempre.
Il Festivaletteratura, capostipite dei festival culturali italiani, è stato presentato dal presidente del comitato organizzatore, Luca Nicolini, in una serata che è da sempre una festa per la città e i suoi abitanti, con i suoi riti e le sue tradizioni, e alla presenza dal sindaco Mattia Palazzi - il quarto sindaco, per il festival - è stato distribuito il programma, che prevede nei quattro giorni di festival più di duecentocinquanta incontri, lezioni, presentazioni, concerti, tavole rotonde e laboratori per bambini e non solo, a partire dal 9 settembre. Il lunghissimo elenco di autori presenti a Mantova comprende grandi nomi ed esordienti, ritorni attesi e novità, a costruire un programma che comprende un focus sugli autori greci contemporanei e la consueta attenzione ai temi della legalità - con la presenza di Raffaele Cantone, Giuseppe Pignatone, Piercamillo Davigo, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelski - oltre alla grande letteratura da tutto il mondo. Da Bianca Bitzorno all'israeliano Assaf Gavron, dallo storico Carlo Ginzburg a Anna Sarfatti, da Tzvetan Todorov agli esperti di scuola ed educazione Franco Lorenzoni e Alberto Melloni, Mantova diventerà per alcuni giorni la capitale della letteratura e della cultura.
E solo una settimana separa Mantova quest'anno da Pordenonelegge, il festival del libro con gli autori che apre il 16 settembre con Daniel Pennac, ospite d'onore all'inaugurazione. Torna in città uno dei grandi autori della letteratura americana, David Leavitt, mentre lo scrittore ceco Michal Ajwaz vi porta le atmosfere di Borges e Kafka, di Kubin e Meyrink. Non possono mancare la presentazione di un libro dedicato alla vicina Trieste, che raccoglie testi di Gillo Dorfles, Boris Pahor, Pino Roveredo, Veit Heinichen e Pietro Spirito, né la poesia, con Pierluigi Cappello insieme a Francesca Archibugi, e ne parlano anche Emanuele Trevi e Stas Gawronski. Alla complessità del mondo digitale è dedicato l'incontro con il sociologo francese Frédéric Martel, mentre lo psichiatra Eugenio Borgna parla di comunicazione come sinonimo di cura.
E fra i due festival storici si inserisce un altro appuntamento, alla sua seconda edizione: a Camogli, in Liguria, il Festival della comunicazione dedica le sue giornate al linguaggio, da quello specifico della cultura digitale al linguaggio delle arti, e poi delle scienze e delle imprese, declinati in decine di incontri, che saranno aperti dalla lezione del linguista Tullio De Mauro e chiusi da una lectio magistralis di Umberto Eco, guida spirituale della manifestazione.
Ed è solo l'inizio, perché anche ad ottobre non mancano i grandi appuntamenti culturali, capaci di muovere decine di migliaia di persone disposte a fare viaggi anche lunghissimi per assistere a una lezione, a una conferenza, alla presentazione di un libro.
Per amore della cultura.
(moked, 2 agosto 2015)
di Daniele Toscano
Le stime sul numero degli ebrei neri negli Stati Uniti sono molteplici: si va dai 40mila de L'Enciclopedia dei Neri d'America ai 500mila dichiarati nella storia degli ebrei neri pubblicata nella rivista Ascent; tuttavia, raramente queste fonti chiariscono le modalità con cui hanno ricostruito i loro dati. Il problema di fare riferimento a cifre attendibili è legato anche a chi è un "Black Jew", visto che ci sono numerosi gruppi, con alcuni che hanno appena delle affinità con le norme bibliche e, pur seguendo solo genericamente alcuni usi e costumi, si definiscono ebrei; per contro, un regolare approccio basato sull'halackhah riduce drasticamente la categoria, viste anche le numerose conversioni.
La Commandment Keepers Congregation (Congregazione dei Custodi dei Comandamenti), ad esempio, fu fondata ad Harlem, a New York, nel 1919 dal Rabbino Wentworth Arthur Matthew, ebreo di origine africana. L'ebraismo si diffuse nella prima metà del '900 presso la comunità afro-americana in virtù di diversi fattori: molti neri infatti si richiamavano a tradizioni appartenenti alle precedenti generazioni, come il rispetto dello Shabbat o di alcune norme di kasherut. Il presupposto da cui partiva Rav Matthew era che molti degli ebrei più antichi erano neri, o quantomeno non europei, quindi l'ebraismo era inevitabilmente una componente del loro patrimonio culturale e religioso: le loro origini risalivano al Re Salomone e alla Regina di Saba, la quale era etiope. Nei loro cuori e nelle loro menti non era neppure necessaria una conversione, in quanto questo processo era una mera riappropriazione di una loro eredità. Ciò non implicava una delegittimazione degli "ebrei bianchi", coloro che avevano conservato e difeso l'ebraismo nel corso dei secoli, tanto che dalle comunità ortodosse già esistenti Matthew prese usanze e metodi per le preghiere, l'insegnamento rabbinico e la celebrazione delle ricorrenze. Contestava alcune "contaminazioni europee", rivendicando il diritto di introdurre elementi africani, americani e caraibici nella sua comunità, Tuttavia, il dialogo tra gli ebrei di Harlem e le comunità ortodosse bianche non è mai decollato e, anzi, talvolta si sono verificate delle tensioni.
Nel 1937 gli ebrei neri di Harlem erano circa 600, ma sono sempre stati un gruppo ristretto e indigente; talvolta ne è stata anche messa in dubbio la natura ebraica, Dopo la morte di Rav Matthew nel 1973, è stata smarrita la guida principale e con essa la necessaria coesione. Oggi la comunità è assai ridotta: come racconta un articolo di The Jewish Week del 2007, ha vissuto anche numerose vicissitudini, come quando il Consiglio della Sinagoga ha citato in giudizio presso la Corte Suprema di Manhattan il rabbino David Matthew Dorè, nipote del fondatore, il quale rivendicava il ruolo di leader spirituale. Nonostante la vittoria del Consiglio, si è aperto subito dopo un nuovo caso legale, che ha penalizzato ulteriormente questa comunità. Restano comunque attive due sinagoghe, sebbene non condividano le stesse usanze.
(Shalom, luglio 2015)
di Massimo Gaggia
Il momento della verità al Congresso sull'accordo nucleare con l'Iran arriverà solo a settembre e Barack Obama con ogni probabilità riuscirà a spuntarla: le Camere a maggioranza repubblicana bocceranno l'intesa, il presidente porrà il veto e il Parlamento non riuscirà a mettere insieme la maggioranza dei due terzi necessaria per annullare l'atto della Casa Bianca.
Eppure la battaglia già infuria da settimane, con le organizzazioni favorevoli e contrarie all'intesa che spendono decine di milioni di dollari per tirare acqua al proprio mulino con spot e pubblicità sui giornali. In prima fila c'è lo stesso Obama che stavolta non vuole correre il rischio di sottovalutare le difficoltà: l'altro giorno, ad Addis Abeba, ha dedicato metà della conferenza stampa ad attaccare i repubblicani accusati di demonizzare con argomenti inesistenti e un linguaggio assurdo (Ted Cruz ha parlato di nuovo olocausto) un'intesa «che è apprezzata dal 99 per cento del mondo, è stata negoziata anche da tecnici competenti e ha l'approvazione dei più autorevoli esperti dei due fronti politici, da Brent Scowcroft a Sam Nunn».
Tanta insistenza e determinazione si spiega soprattutto col desiderio di convincere la comunità ebraica americana, numerosa, ricca ed estremamente influente anche in Israele, che stavolta non sembra affatto allineata col premier Netanyahu, ferocemente contrario all'accordo nucleare. Gli ebrei d'America sono divisi e ieri il Financial Times, facendo la media tra i sondaggi, ha sostenuto che una maggioranza abbastanza ampia della comunità considera l'intesa positiva, anche se il patto ha evidenti punti deboli. L'Aipac, la potente dobby» degli ebrei conservatori, e la Republican Jewish Coalition, gli ebrei che si riconoscono nel partito della destra, stanno spendendo cifre enormi per presentare l'accordo come una trappola degli «ayatollah), ma molti ebrei moderati non vogliono finire nello scontro democratici-repubblicani e si sono convinti che le alternative sono peggiori di questo accordo.
(Corriere della Sera, 2 agosto 2015)
di Giulio Busi
Non solo un luogo a cui andare o da cui partirsene, quando si è stanchi. Una città è un racconto, che potete ascoltare per ore, per giorni o per una vita intera. Chi racconta la storia di Berlino, in questa estate 2015? Non ditemi che non l'avete pensato subito. Meno settanta, la cifra è tonda. c'è una Berlino ferma per sempre al 1945. E un'altra che si muove veloce. Anzi, parecchie altre, che ruotano l'una entro la successiva, a velocità diverse. Sono città in parte vere e in parte immaginarie, popolate di ospiti dai volti indistinti. Nonostante la burocrazia puntigliosa - siamo pur sempre nella vecchia Prussia - nessuno sa esattamente quanti siano. Gli italiani registrati al consolato sono ventiduemila. E quelli non registrati? c'è chi dice quarantamila, forse di più. Diecimila gli israeliani "ufficiali", a cui vanno aggiunti tutti quelli col doppio passaporto, israeliano e tedesco. Nipoti o pronipoti di chi dovette emigrare a forza o fu trucidato. Nel cuore d'Europa, i numeri fluttuano misteriosi.
Certo, Berlino è in Germania, lo sa anche un bambino. Eppure, i giovani, poco più che ventenni, che sciamano qui da mezzo mondo sembrano non saperlo, o se lo scordano volentieri. La città gode ancora di una strana extraterritorialità non quella cupa degli anni del Muro ma un'altra, più gentile dislocazione. Berlino sembra quasi sollevata a mezz'aria. Prendete i ragazzi israeliani. A loro non pare di trasferirsi in terra tedesca. Scelgono una sorta di limbo, o addirittura, un corrispondente postmoderno, e piuttosto provocatorio, della Sion dei tempi antichi. Nello scorso autunno, ha fatto furore una pagina facebook aperta da un anonimo, giovane israeliano, che issava un motto tra l'ironico e l'iconoclasta. "Olimle- Berlin", immigrati a Berlino, e sin qui nulla, o quasi, di male, se non che il verbo usato - "olim" - è quello biblico che indica la salita alla Città santa, alta e altera sulle sue colline. Berlino come nuova Gerusalemme? Nel frattempo, il bloggaro si è rivelato per tale Naor Narkis, passato alle rive della Sprea dopo sei anni come ufficiale nei servizi d'informazione israeliani. E ha spiegato la sua protesta, condivisa da tanti coetanei di Tel Aviv o di Haifa. La vita a Berlino è molto, molto più a buon mercato di quanto non sia nelle città dello Stato ebraico. Tanto per fare un esempio, un pudding al latte costa tre-quattro volte meno, come dimostrano gli scontrini, postati in internet e subissati di likes, ragion per cui il movimento israelo-berlinese è stato subito ribattezzato "milky protest", "protesta al latte", con buona pace degli esterrefatti padri sionisti. Certo, sono fenomeni di breve durata, tanto che Narkis è tornato - sembra - in Israele. La somma di siffatte narrazioni individuali, o individualistiche, tra il serio e il faceto, costruisce tuttavia il mito della città giovane, aperta e creativa. Intendiamoci' Berlino è davvero tutto questo, ed è forse la meno tedesca delle città di Germania, non fosse altro per alcune clamorose prove d'inefficienza, valga per tutte l'incompiuto aeroporto internazionale di Schönefeld, in ritardo ormai di parecchi anni, a onta di politici e imprenditori locali. A paragone di altre metropoli del vecchio continente, Berlino può poi vantare un tasso relativamente basso di antisemitismo pubblico. Che sia reputata sicura, lo dimostra tra l'altro il fatto che in questi giorni, dal 27 luglio al 5 agosto, si svolgano qui le Maccabiadi d'Europa, ovvero le Olimpiadi ebraiche, con la partecipazione di più di duemila atleti ebrei provenienti da trenta Paesi. È la prima volta che i giochi si tengono in Germania, quasi una riparazione, seppure tardiva, ai torti della persecuzione. Nate negli anni Trenta del secolo scorso, in seno al movimento sionista, e intitolate ai Maccabei, gli eroi dell'antica rivolta anti ellenistica, le Maccabiadi volevano affermare un nuovo tipo di ebreo, sportivo e combattivo. Come spesso avviene a Berlino, un messaggio vecchio risuona attuale e vivo, quasi che, per le strade e i parchi di questa città, vasta e verde, fosse impigliata un'anima di lutti e d'energie.
Tutto è amplificato, e a maggior ragione cresce di tono e di valore simbolico quanto ha a che fare col giudaismo, giacché, da dove è venuto tanto male, spereresti giunga moltiplicato anche il bene.
Va da sé che non tutti gli attori sono in buonafede, e persino i ragazzi che si rifugiano qui per vivere e divertirsi a buon mercato contribuiscono alla trasformazione del profilo urbano. A quella che, con vocabolo ibrido e indigesto, s'usa ormai dire "gentrificazione", recupero e abbellimento di quartieri decaduti, con conseguente allontanamento dei loro vecchi abitanti meno abbienti, sostituiti da nuovi arrivati, più benestanti. È un'ironia globalizzata, che giovani in fuga dalla gentrificazione di Tel Aviv o di Roma finiscano a fare da avanguardia alla trasformazione delle aree creative berlinesi, quasi fossero rabdomanti, spensierati e inconsapevoli, di futuri investimenti e speculazioni immobiliari. È quanto è avvenuto a Mitte, poi a Prenzlauer Berg, e ora si delinea a Neukòlln, ove a un periodo più o meno lungo di vivacità "alternativa" fa puntualmente seguito la riqualificazione e la trasformazione in zona residenziale, costosa e ambita.
Chi racconta Berlino? Per lo più sono cantastorie venuti da fuori, che fanno qui le prove generali dei guai di casa propria. Più che romanzi, quelle berlinesi d'oggi sono storie brevi, episodi che si consumano in poche pagine. La vicenda effimera della milkyprotest è, in questo senso, significativa. Berlino è servita da lavagna per scrivere, in ebraico, un disagio tutto israeliano. «Siamo qui nello Stato più potente d'Europa a risparmiare soldi per comprarci un appartamento in un Paese del Medio Oriente, tormentato dai missili. È assurdo». Così Narkis, il protestatore milky, ha sintetizzato il paradosso della sua breve stagione berlinese. E se ci fosse qualcuno che si racconta dentro la storia di qualcun altro? Se questa città, centro d'Europa, non fosse altro che un labirinto di piccole patrie, ciascuna a modo suo, accostate, nitide, distinte? Leggerete nelle guide che Berlino ha più ponti di Venezia. Se li volete contare, le notti d'agosto sono ancora abbastanza lunghe per provarci.
(Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2015)
di Ernesto Ferrara
Una botola segreta nel bagno del vecchio collegio femminile. Uno sgabuzzino nascosto in un armadio. Luoghi antichi, custodi di una memoria quasi perduta: «Era lì che salvavano gli ebrei durante la guerra, in questi due posti. Erano le suore a gestire tutto. Anche anni dopo non ne parlavano tanto volentieri». Eppure, nonostante la proverbiale riservatezza delle madri immacolatine di Genova, dentro Montedomini questa è una memoria conosciuta. Nel gigantesco istituto caritatevole tra via dei Malcontenti, via Thouar e via delle Casine sono settant'anni che si tramanda questa storia. Da dipendente a dipendente, dalla lavanderia alla casa di cura, dalla mensa al magazzino: chiunque abbia lavorato qui ha sentito il racconto. La storia di un nascondimento, anzi di più nascondimenti: «C'è una stanza sotterranea, accessibile da una porticina invisibile nell'ala oggi inagibile del palazzo, che qui i vecchi dipendenti chiamano ancora oggi "la stanza dell' ebreo" e dove pare abbia vissuto per un periodo una persona nascosta. E c'è una specie di sgabuzzino ricavato nel doppio fondo dell'antico guardaroba, dove le suore che hanno avuto qui la loro sede fino al 2000 pare accogliessero i perseguitati», racconta oggi il direttore della struttura Emanuele Pellicanò.
Nella città del Cardinale Elia dalla Costa e di Gino Bartali è una nuova testimonianza di quella grande rete di solidarietà e resistenza civile che Firenze seppe dimostrare tra il settembre del 1943 e l'agosto del 1944, quando anche qui si manifestò l'orrore dei rastrellamenti: 311 cittadini ebrei furono deportati, c'è una lapide nella sinagoga di via Farini che ne ricorda nomi e cognomi. Una rete costituita da appartamenti privati come la cantina di Gavinana dove Bartali ospitò Giorgio Goldenberg, ma anche da pezzi di città con una funzione pubblica. Qui avvennero salvataggi che dopo 70 anni cercano oggi un riscatto storico. E' il caso dell'incredibile storia di Montedomini. La memoria consolidata eppure mai provata e mai emersa del ruolo che l'istituto svolse per gli ebrei. Non si conoscono i nomi di eventuali salvati, non ci sono testimonianze scritte finora emerse: questa è una tradizione orale che arriva dagli anni delle deportazioni ai nostri giorni certamente priva di tutti gli elementi necessari ad iscriverla nel grande libro storico dell'assistenza fiorentina agli ebrei.
Eppure qualche elemento ora inizia a saltare fuori. «Io sono entrata a Montedomini nel 1981, lavoravo in lavanderia e lì conobbi suor Ilde, una persona molto precisa, meticolosa, estremamente riservata. Ci serviva ogni giorno una tazzina di caffè in segreto, per non farsi vedere dall'economo. Era gelosissima dei suoi riti, parlava molto poco per indole. Ogni tanto spariva. Non sapevamo dove andava. Una volta un'altra suora mi disse che suor Ilde ancora ogni tanto andava nello sgabuzzino dove in tempi di guerra nascondevano le persone. Ebrei, partigiani: loro non ne parlavano mai. C'era molto riserbo, molta gelosia su quel posto. Eppure questa è una storia che noi conosciamo da tempo», racconta oggi Maria Notaristefano, dipendente di Montedomini mostrando quello sgabuzzino.
Non il solo fatto degno di nota che a quanto pare avveniva dentro l'enorme struttura di Montedomini, oltre 7 mila metri quadrati di spazi destinati a partire dal Trecento a diverse funzioni, dall'educandato al reclusorio, dal lazzaretto alla casa di cura. E' la responsabile dell'ufficio tecnico Silvia Giannoni a svelare l'esistenza di un altro luogo carico di suggestione: una botola sotterranea all'interno di quello che un tempo era il bagno delle bambine nel collegio. Dietro una porta un tempo nascosta si apre una buca con una scala che conduce ad un ambiente ipogeo piuttosto piccolo, ma con altre porte oggi murate, che verosimilmente conducono ad altre stanze. Secondo le testimonianze degli storici dipendenti di Montedomini quelle porte oggi tappate conducono, ambiente dopo ambiente, ad un cunicolo che passa sotto l'Arno e arriva fino ai Canottieri comunali. Certamente un via di fuga possibile, in guerra. «Qui la chiamano la stanza dell'ebreo», rivela Pellicanò. Però è un ricordo che si perde: nella parte di archivio storico di Montedomini fin qui studiata non c'è traccia della storia. Per questo il bello viene ora: «Noi stiamo continuando a spulciare il nostro archivio ma ci piacerebbe che questo racconto potesse diventare anche un appello a parenti o ai figli di chi fu forse salvato», dice Pellicanò. Ed è una chiamata a cui si uniscono anche il presidente della struttura, Luigi Pacccosi, e l'assessore al sociale Sara Funaro, ebrea, fra le prime a trovare una storia alla ricerca di prove. Non la prima missione apparentemente impossibile: lo sa bene Adam Smulevich, fiorentino, giornalista di Pagine Ebraiche, che proprio in questo modo, appello dopo appello, insieme a Funaro riuscì a provare i salvataggi di Bartali che poi fu riconosciuto Giusto fra le nazioni. Andando ad arricchire la schiera dei salvatori toscani ricordati allo Yad Vashem, che sono 108, di cui 15 negli ultimi 6 anni.
(la Repubblica - Firenze, 2 agosto 2015)
di Susanna Nirenstein
Per Eli Amir, nato nel 1937 a Baghdad e nei primi anni Cinquanta esule in Israele con altri 130 mila ebrei iracheni, l'assorbimento degli immigrati è stato una fonte di poesia e motivo di impegno. Quando con la famiglia sbarcò a Haifa e furono portati in un campo di accoglienza, gli fu assegnata una mezza tenda e come pasto degli spaghetti: suo fratello pensò fossero vermi. Venivano dall'Oriente, si sentivano più arabi che uguali ai fondatori dello Stato ebraico, protesi a far nascere un ebreo nuovo fatto anche di muscoli e lavoro manuale, senza più differenze tra donne e uomini né troppe regole religiose. E' questa la terra promessa? è il delicato e drammatico racconto, in parte autobiografico, di un ragazzino iracheno, Nuri, che prova a integrarsi in un kibbutz, in mezzo a regole inedite e a sentimenti comunitari e egualitari di cui niente sa e niente vorrebbe sapere. Fatica fisica, ragazze in pantaloncini, docce comuni, nessuno che osservi la kasherut... tutto è nuovissimo. E tanti compagni vogliono restarne fuori.
(la Repubblica, 2 agosto 2015)
di Pierluigi Battista
Tutto si può dire dello scrittore Hanif Kureishi, traine che sia un ipocrita. All'intervistatore di El Pais che gli chiede se trova lecita la bestemmia, Kureishi non adopera parole impegnative come «rispetto» per dire che lui non vuole bestemmiare. No, dice, non bestemmio, non uso espressioni blasfeme contro l'Islam perché, testuale, «non sono così stupido». Non è contro la bestemmia per qualche nobile motivo, perché non si inveisce contro il Dio in cui credono milioni di persone, perché non si oltraggia la divinità, perché non si deve offendere la fede di chicchessia. Non si deve bestemmiare, perché bestemmiare è un gesto poco intelligente. Poco intelligente in che senso? Nel senso che devi essere intelligente per capire che se bestemmi ti accoppano, che finisci male, che vieni coinvolto in una carneficina, come i poveri vignettisti, che stupidi che erano, di Charlie Hebdo. Infatti Kureishi, per denigrare quei poveri che stanno sotto terra, ammazzati come cani dai fanatici fondamentalisti dell'islamismo politico radicale, ribadisce il concetto: quelle vignette che sono costate la vita ai disegnatori del settimanale non erano «intelligenti». Se fossero state intelligenti, se avessero satireggiato soltanto su cristiani ed ebrei, allora sì, non sarebbeio state stupide e non sarebbe successo nulla. Erano così idiote da aver riso dell'Islam e allora se la sono proprio andata a cercare, quella strage. Scemi. Morti e scemi. Mica intelligenti come Kureishi.
Finalmente, è la fine dell'ipocrisia. Non si bestemmia, dice Kureishi, perché si valutano le conseguenze intelligentemente. E' la paura che non deve far bestemmiare, non il rispetto per la fede altrui, come sostengono virtuosamente i nemici della libertà d'espressione che, come Joyce Carolo Oates e altre decine di scrittori contrari al premio dedicato al settimanale decimato, hanno colto l'occasione del massacro di Charlie Hebdo per avanzare pensose considerazioni sui «limiti» che la libertà d'espressione deve tassativamente onorare. Come se il problema fosse l'irriverenza di un pugno di vignettisti e non le condanne a morte comminate in tutto il mondo islamico con la grottesca motivazione della «blasfemia». E' la paura: ecco il motivo per cui è «intelligente» autocensurarsi, rinunciare alla libertà di parola, alla libertà di disegnare, alla libertà di dire sciocchezze, di pubblicare brutte vignette senza incorrere nei rigori della condanna a morte: Kureishi, anche senza volerlo, strappa il velo della doppiezza che ha sinora coperto chi mette sullo stesso piano chi pronuncia battute blasfeme e chi uccide per una battuta blasfema. Recentemente un numero speciale della rivista Nuovi argomenti ha dimostrato quanto gli scrittori e gli intellettuali, cioè le categorie che quasi professionalmente dovrebbero essere affezionati all'integrità del diritto di dire e di scrivere, tengano ben poco alla libertà d'espressione. Tutto un eccepire sul cattivo gusto delle vignette blasfeme, un'esplosione di antipatia per le vittime del fondamentalismo fanatico, un nascondersi dietro l'etichetta dell'«opportunità», dell'autocontrollo, della censura, della necessità di non offendere. Nessuno, però ha avuto il coraggio di Kureishi e di tirare fuori l'argomento decisivo: la paura. La paura di essere ammazzati, perseguitati, imbavagliati, di essere estromessi dal circuiti del festival e dei convegni attanagliati dal terrore, lo stesso terrore che ha suggerito a un museo inglese di nascondere un quadro che raffigurava Maometto.
Lo stesso terrore che impedisce alle Università americane di invitare Ayaan Hirsi Ali, un'«apostata» che ha la fierezza e il coraggio di battersi contro il fondamentalismo islamista e che perciò conduce una vita blindata ed emarginata dalle accademie. Che sono più «intelligenti», direbbe Kureishi, ed evitano di mettersi nei guai. Parlano di «rispetto» e di «buon gusto» per non dire la verità, perché la critica alle bestemmie non è davvero sentita, ma è agitata solo in alcuni casi e indovinate quali. Hanif Kureishi l'ha indovinato e perciò evita accuratamente di dimostrarsi poco «intelligente» come il suo amico Salman Rushdie, che ebbe la stupidità di scrivere un libro libero e perseguitato dai nemici della libertà. Avrebbe dovuto essere più intelligente.
(Corriere della Sera, 2 agosto 2015)
PARABOLA - Il signor XX alza il telefono e sente dallaltra parte la voce del signor YY che da alcuni giorni lo tormenta con richieste sempre crescenti di soldi che - secondo lui - deve riavere. XX si è sempre rifiutato, per validissimi motivi, secondo lui. YY però non demorde e alla fine arriva lultimatum: O mi dai subito quei soldi o sarò costretto a diffondere quella sgradevole notizia su di te che hai sempre cercato di nascondere. A questo punto XX si indigna e alza la voce: Ma questo è un ricatto - grida al telefono - un turpe, lurido ricatto, vero? Sì, è un ricatto, risponde tranquillamente YY. Va bene - conclude XX - se è così, allora pago. E riappoggia il telefono. M.C.
L'Iran punta sul calcio italiano. La notizia arriva dal Pgb Group, "che supporta e valorizza nuovi business in Italia e all'estero". Un gruppo che rappresenta il consorzio irariano Pakro Sabz Qeshm Fcz e che avrebbe intravvisto potenzialità d'investimento nel nostro mondo del pallone. Si vocifera di un forte interessamento per il Parma che rinascerà dalle ceneri di quello fallito. Così come per il Monte dei Paschi di Siena e nella ristrutturazione del sito archeologico di Pompei.
Il gruppo iraniano sarebbe pronto a mettere sul tappeto un miliardo di euro per acquisti e investimenti italiani. "E' un'iniziativa che non possiamo farci scappare perché rappresenta una grande opportunità per molte aziende italiane, nei settori della finanza e delle infrastrutture, oltre che per quelle che operano nell'automotive, nell'aviazione, nell'innovazione tecnologica, food e arredamento". Un piatto ricco, fa sapere dunque il Pgb Group, per bocca del presidente Piergiorgio Bassi.
"Anche alla luce dell'accordo sul nucleare, l'Iran si appresta a vivere una nuova primavera. Dal punto di vista commerciale il Paese è ricco di materie prime e diverrà un polo attrattivo per gli investimenti e un punto di snodo fondamentale per gli scambi commerciali, oltre a ricoprire un ruolo di prim'ordine nella diplomazia internazionale".
C'è stato un incontro la delegazione iraniana ha voluto coinvolgere pure i vertici del Vaticano, per parlare di come migliorare i rapporti interreligiosi, diplomatici e culturali. Sul piano commerciale, è stato coinvolto l'Ice e gruppi bancari come Intesa San Paolo, Ubi e Banca Profilo. Al tavolo anche gruppi industriali del calibro di Toyota Italia, Aso Group, Sogesid e Selex.
Tornando al calcio, una buona notizia per i tifosi del Parma, che intanto attendono l'affiliazione per poter ripartire dal campionato di serie D. Anche se cordate straniere, negli ultimi tempi, hanno fatto più il male che il bene della Società ducale. Ma questa pare essere davvero un'altra storia. Non saranno sceicchi gli investitori provenienti dall'Iran, ma di soldi ne hanno.
(ItalyJournal, 1 agosto 2015)
No comment.
MILANO - Piquadro non perde tempo e, a due settimane dallo storico accordo sugli armamenti nucleari che ha portato alla revoca delle sanzioni internazionali sull'Iran, apre la sua prima boutique a Teheran.
Alla presenza del Console italiano, Alberto Petrangeli, e di Marco Palmieri, presidente e Amministratore delegato dell'azienda bolognese di pelletteria, è stato inaugurato il punto vendita all'interno del Sam Center, uno dei maggiori centri commerciali della capitale iraniana.
"Il mercato iraniano ha grandi potenzialità e siamo certi che l'essere tra i primi ad arrivare dopo la revoca delle sanzioni ci permetterà un ottimo posizionamento - ha commentato Palmieri - La prestigiosa location nella quale abbiamo portato la nostra insegna e la professionalità del nostro partner locale ci rendono fiduciosi per lo sviluppo del marchio in Iran".
"I consumatori iraniani sono molto affascinati dal design, dai materiali pregiati e dalla manifattura di qualità dei prodotti italiani - ha spiegato Shahram Ekhlaspoor, Managing Director of Roshan Mehr CO. società di distribuzione di Piquadro in Iran - Il nostro obiettivo è quello di posizionare Piquadro come marchio leader negli accessori da uomo in Iran".
(ContattoNews, 31 luglio 2015)
TEHERAN - L'Iran ha sottoscritto un accordo storico sul nucleare, ora spetta a Israele. E' quanto ha scritto sul quotidiano britannico Guardian il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ribadendo che l'intesa firmata il 14 luglio scorso a Vienna con le potenze mondiali fornisce «fondamenta solide su cui costruire».
Ampliare l'accordo a tutto il Medio Oriente
L'accordo consolida lo status dell'Iran quale zona libera dalle armi nucleari. Ora è il momento di ampliare tale zona fino a comprendere tutto il Medio Oriente», ha dichiarato Zarif, sottolineando come una delle principali «ironie della Storia» sia il fatto che proprio gli Stati senza armi nucleari, «come l'Iran», si siano adoperati di più per la causa della non proliferazione. Mentre Paesi come Israele, che ha «un arsenale nucleare mai dichiarato e un dichiarato disprezzo verso la non proliferazione», lancia «un'assurda e allarmistica campagna contro l'accordo nucleare iraniano».
Passo nella giusta direzione
"Io credo veramente che l'accordo tra il mio Paese, uno Stato senza arma nucleare, e il gruppo 5+1 (che controlla quasi tutte le testate nucleari della Terra) sia tanto importante a livello simbolico da dare il via a un cambiamento di modello e segnare l'inizio di una nuova era per un regime di non proliferazione», ha sottolineato il ministro, secondo cui «un passo nella giusta direzione sarebbe l'avvio di negoziati per un trattato per l'eliminazione delle armi».
(askanews, 1 agosto 2015)
No comment.
di Ilaria Liberatore
MILANO - Israele celebra a Expo la Festa di Tu B'Av, la ricorrenza ebraica dedicata agli innamorati. E' il San Valentino d'Israele, "con l'unica differenza che durante il Tu B'Av l'amore, se ancora non lo si è trovato, lo si può anche cercare". Questo l'invito rivolto ai visitatori dai ragazzi del Padiglione per partecipare in prima persona alla festa.
Il Tu B'Av è una festa di origine contadina che cade il 15esimo giorno del mese ebraico di Av (corrisponde, nel calendario gregoriano, a luglio-agosto). La giornata segnava tradizionalmente l'inizio dei raccolti. "Expo è un luogo perfetto per festeggiare il Tu B'Av - ha spiegato il commissario generale del padiglione, Elazar Cohen -. Anticamente il popolo ebraico viveva in base ai ritmi dell'agricoltura. Oggi le cose sono cambiate e anche il modo di festeggiare non è più lo stesso, ma il Tu B'Av è sempre la festa dell'amore".
Per la cultura popolare ebraica, è anche la giornata ideale per sposarsi, secondo la tradizione: "in questo giorno terminano le tre settimane di lutto che gli ebrei osservano per commemorare le distruzioni del primo (586 a.C.) e del secondo Tempio (70 d.C.), un periodo nel quale non ci si può sposare - ha precisato Cohen -. Tu B'Av, quindi, indica anche il giorno in cui si può nuovamente convolare a nozze".
In occasione del San Valentino ebraico il personale del padiglione di Expo ha distribuito tra gli ospiti cuoricini ritagliati a metà, con diverse sagome. Potevano essere completati solo trovando l'"altra metà del cuore" nel frattempo distribuita tra i visitatori del padiglione. Una volta che le due metà si ricongiungevano, i due innamorati potevano baciarsi alla kiss-spot, una postazione romantica allestita di fronte all'ormai celebre "campo verticale" del Padiglione. Quel bacio (o anche semplicemente quell'abbraccio) venica ripreso in tempo reale da un apposita tele camera e trasmesso sui maxi-schermi dell'ingresso. I visitatori del padiglione hanno partecipato con entusiasmo all'iniziativa, scegliendo però, nella maggior parte dei casi, di posare davanti alla kiss-spot col proprio partner, e non con quello scelto dal 'destino'.
"L'importante è celebrare l'amore in tutte le sue forme - ha concluso Cohen -. Qui a Expo vogliamo portare un messaggio di amore e pace fra tutti gli esseri umani. Buon Tu V'Av a tutti".
(Giornale di Vicenza, 1 agosto 2015
(ANSA, 1 agosto 2015
di Carlo Panella
Il terrorismo è un problema interno di Israele, come di tutte le nazioni del mondo, anche le più democratiche. Nessuna è immune dal terrorismo politico, nazionalistico o religioso (ricordiamo l'orrore del norvegese Breiwik, tra i tanti). Ma il sangue versato nella Terra Santa per le tre religioni monoteistiche ha sempre una valenza più grave, drammatica, sconvolgente. Come sconvolgente e intollerabile è l'orrore di cui si sono macchiati i coloni israeliani che hanno bruciato vivo il piccolo Alì.
Israele per prima ha pagato il prezzo intollerabile della ferocia dei suoi terroristi, con la vita del suo straordinario premier Itsaac Rabin, ucciso il 4 novembre 1995 da Ygal Amir, un fanatico religioso israeliano che lo "punì" per il suo coraggio nel firmare con Yasser Arafat gli accordi di pace di Madrid del 1993 (poi disattesi e traditi da Arafat nel 2000, nonostante avesse ottenuto da Israele la restituzione del 90% dei Territori). Altri terroristi israeliani hanno seminato follemente morte tra gli israeliani stessi e i palestinesi, ma Israele non usa la "doppia morale" dei palestinesi e degli arabi che minacciano di "uccidere tutti gli israeliani" quando la vittima è loro, e invece scendono nelle strade urlando di gioia, quando le vittime sono tre ragazzini israeliani che facevano autostop, come è accaduto nel 2014.
Da sempre, Israele e il sionismo sono stati inflessibili con i propri terroristi: nel 1948 David Ben Gurion arrivò sino ad ordinare a Rabin di fare esplodere nel porto di Yaffa la nave Altalena, che Menachem Begin aveva riempito di armi. Si era alla vigilia della guerra del '48, con cui gli arabi volevano stroncare nel sangue Israele prima che nascesse, e quelle armi erano addirittura indispensabili ai sionisti. Ma Ben Gurion, facendo esplodere la nave Altalena impose un principio: Israele non tollera eserciti e armi che non siano sotto il controllo dello Stato. E così è stato, sempre. Tutti i terroristi israeliani, nell'arco di pochi giorni, sono stati catturati, processati e condannati a pene altissime da Israele. Con rigidità inflessibile. E così sarà anche per i feroci assassini israeliani del piccolo Ali. Senza false pietà, codice alla mano.
Non così gli arabi, non così i palestinesi. E non solo i terroristi di Hamas che non solo esultano quando vengono uccisi civili israeliani, ma fucilano senza processo i palestinesi che considerano "collaborazionisti". Anche il "moderato" Abu Mazen si muove sulle tracce di Arafat che incitava i ragazzini palestinesi a diventare "martiri" e a uccidere gli israeliani, civili o militari, adulti o bambini, come avvenne durante la "Intifada delle stragi" dei primi anni 2000. Oggi il leader palestinese, ben sapendo che questi coloni-terroristi sono esecrati da tutta Israele e che contrastano la politica del governo di Gerusalemme (che non a caso in questi giorni aveva iniziato trattative segrete col suo inviato Saeeb Erekat), eccita gli animi dei palestinesi contro tutta Israele, li mobilita, chiama sangue contro sangue. E così continua a perdere.
(Libero, 1 agosto 2015)
di Franco Vanni
Al posto delle riviste di pettegolezzi, i gestori del negozio di parrucchiere L'Italiano in via Gessi a Milano hanno offerto ai clienti in attesa una lettura shock: il Mein Kampf, saggio pubblicato nel 1925 da Adolf Hitler, base del programma politico nazionalsocialista e manifesto della persecuzione degli ebrei. Ad accorgersi del libro, appoggiato su una mensola e consultabile da chiunque, è stata una donna ebrea che aveva accompagnato il figlio quindicenne a farsi tagliare i capelli.
Come d'altronde fanno molti ragazzi della Comunità ebraica, che in zona ha la sua scuola. "Siamo immediatamente usciti dal negozio - racconta - una volta tornata a casa, ho deciso di raccontare il gravissimo episodio su Facebook". Nel post, pubblicato mercoledì sul proprio profilo, la donna scrive: "In quel negozio non metteremo mai più piede perché odiano gli ebrei. Inutile dire che l'antisemitismo in Italia non è solo strisciante, ma è ben visibile, sotto gli occhi di tutti".
Daniele Nahum, esponente della Comunità ebraica e responsabile cittadino della Cultura del Pd, ha preso contatto con i gestori del negozio per avere spiegazioni su quello che ritiene "un fatto inaccettabile". Amatore Antonicelli, responsabile del salone, su richiesta di Nahum ha accettato di fare sparire il libro, sostenendo che lo avesse lasciato in negozio un cliente solo pochi giorni prima. "Abbiamo una vetrinetta con vari libri, i clienti li prendono e li lasciano - sostiene Antonicelli - Noi non ci siamo accorti che fra gli altri ci fosse il Mein Kampf. Appena ce lo hanno fatto presente, abbiamo provveduto a eliminarlo".
In realtà la questione si era già posta poco più di un mese fa. Ad accorgersi della presenza del libro fu per primo un giovane ebreo, che denunciò l'episodio tramite i social network, senza però ottenere risultati concreti. Ora che il Mein Kampf è stato tolto dalla piccola libreria del negozio, Nahum commenta: "Non sapremo mai se davvero il libro era stato lasciato lì da un cliente. Il gestore è stato quantomeno leggero nel non controllare, buon senso avrebbe voluto che un testo del genere nemmeno entrasse in un luogo aperto al pubblico. Sono contento del fatto che, dopo la mia segnalazione, lo abbia rimosso".
L'episodio avviene all'indomani degli attacchi antisemiti di cui è stato vittima Emanuele Fiano, candidato alle primarie del centrosinistra per la corsa a sindaco nel 2016. Ad accusarlo sui social network, è il Fronte Palestina. E su Facebook è nato un gruppo per chiedere "a Radio Popolare di smettere di intervistare Fiano", cui però è andata la solidarietà di decine di esponenti del Pd e della comunità ebraica.
(la Repubblica - Milano, 1 agosto 2015)
L'accordo con l'Iran impedirà davvero ai mullah di sviluppare mai un'arma nucleare? Oppure potrà solo impedirglielo per qualche anno? Questa è la domanda chiave che rimane ancora senza una chiara risposta.
Nelle sue dichiarazioni sull'accordo, il presidente americano Barack Obama sembra suggerire che all'Iran non sarà mai consentito sviluppare un'arma nucleare. Ha detto infatti che "questo accordo a lungo termine con l'Iran gli impedirà di ottenere un'arma nucleare". Ed ha poi ripetuto questa rassicurazione: "Per via di questo accordo, la comunità internazionale potrà verificare che la Repubblica Islamica d'Iran non sia in grado di sviluppare un'arma nucleare". Queste categoriche dichiarazioni hanno evidentemente lo scopo di rassicurare il mondo sul fatto che Obama ha mantenuto la sua originaria promessa secondo cui all'Iran non sarebbe mai stato permesso di sviluppare armi nucleari....
(israele.net, 31 luglio 2015)
di Diego Gabutti
Cavalcata da brivido attraverso gli orrori delle identità europee, che come sempre si definiscono in negativo, attraverso l'invenzione delle identità nemiche, tra le quali spicca la solita, ieri il «giudeo» e oggi il «sionista», Muoia Israele. La brava gente che odia gli ebrei di Giulio Meotti (Rubbettino 2015, pp. 162, 12,00 euro, ebook 6,99 euro) è un libro impassibile, tutto fatti, niente retorica, che si legge con spavento.È dagli anni ottanta, da oltre trent'anni, da quando distinguere tra sinistre estreme e sinistre forsennate è diventato impossibile, che l'Europa è di nuovo invasata dal demone dell'antisemitismo, come prima di Auschwitz.
Sono tempi terribili, come ogni volta che la Bestia antisemita, invece d'essere tenuta a bada da un'intellighenzia votata alla ragione, è al contrario scatenata da chierici traditori contro i «nazisionisti», contro gli «assassini di donne e bambini», i «genocidi», i «nemici del genere umano». È un antisemitismo cupo e violento, che applaude le imprese dei terroristi e banalizza la dimensione disumanistica dell'islamismo radicale, di cui gli intellettuali europei sono diventati, in larghissima parte, la cassa di risonanza, spesso anche il fan club. È un antisemitismo che invita a boicottare i prodotti israeliani, che fa spallucce quando la bomba del kamikaze esplode in un locale pubblico di Tel Aviv oppure il missile di Hamas o di Hezbollah colpisce e uccide dei civili, perché agli occhi dell'antisemita caviar ci sono donne e donne, bambini e bambini, alcuni dei quali meritano quel che gli capita: di morire negli attentati in Israele, di finire sotto le bombe e le sventagliate di mitra a Parigi, d'essere imprigionati e torturati nelle banlieu e d'essere accusati di «piagnucolare», di «monopolizzare il dolore» e di «lucrare sul senso di colpa altrui» quando osano lamentarsene.
È un antisemitismo rococò, un caso clinico culturale, che nega l'accesso dei cittadini israeliani alle università, ai convegni scientifici, ai premi letterari, alle redazioni delle riviste accademiche, ai programmi televisivi. Non ha per bersaglio Israele e il sionismo (come si giustifica l'hitleriano di sinistra, e come si consolano gli «ebrei antisionisti», di cui Giulio Meotti ha illustrato le imprese in un altro grande libro, Ebrei contro Israele, Belforte 2014) ma ha per bersaglio l'ebreo in quanto tale, tenuto a pagare per i peccati d'Israele anche se non è israeliano, ma per ragioni religiose, o meglio razziali. È l'Islam rococò dell'intellighenzia progressista e reazionaria, che da oltre un secolo divide il mondo in veri fedeli da una parte e apostati, miscredenti, sottouomini e borghesi da «schiacciare come insetti» dall'altra. Meotti racconta storie esemplari e spaventose insieme. Leggetele e tremate.
Un tempo, nella Vienna degli austromarxisti, di Sigmund Freud e di Gustav Mahler, di Franz Wedekind e di Gustav Klimt, l'antisemitismo era definito, da chi aveva la testa sul collo e vedeva lontano, «socialismo degl'imbecilli». Gl'imbecilli, com'è noto, sono sempre tra noi, e continuano a essere pericolosi, e socialisti. Gli stessi imbecilli che settant'anni fa salutavano a pugno chiuso i ritratti di Stalin, che cinquant'anni fa tifavano per la Rivoluzione culturale e agitavano il Libretto rosso nelle piazze, che quarant'anni fa esaltavano l'ayatollah Khomeini e i suoi pasdaran, oggi stanno con l'Islam radicale, tifano per i regimi fascisti arabi, odiano gli ebrei e tuonano contro Israele l'unica democrazia del Medio Oriente. Fasciocomunisti: sono sempre tra noi.
(ItaliaOggi, 1 agosto 2015)