Inizio - Attualità
Presentazione
Approfondimenti
Notizie archiviate
Notiziari 2001-2011
Selezione in PDF
Articoli vari
Testimonianze
Riflessioni
Testi audio
Libri
Questionario
Scrivici
Notizie 16-31 agosto 2021


I talebani hanno saccheggiato l’unica sinagoga di Kabul

di Paolo Castellano

In Afghanistan non si ferma l’opera di sottomissione dei talebani contro i nemici del loro credo. Non soltanto i collaboratori dell’Occidente nel mirino, ma anche le vestigia di un ebraismo vilipeso e devastato a partire dagli anni Trenta del Novecento.
   Infatti come riporta il 29 agosto Israel Valley, il sito ufficiale della Camera di commercio Francia-Israele, i talebani hanno saccheggiato l’unica sinagoga di Kabul, strappando libri ebraici e frantumando menorah.
   Inoltre, negli anni Novanta i talebani avevano rubato un’antica Torah del XV secolo che sarebbe stata venduta al mercato nero. Lo riporta JTA.
   In questo modo, sono state eliminate definitivamente le tracce ebraiche nella capitale dell’Afghanistan. Rimane soltanto una sinagoga ad Herat che però è stata trasformata in una scuola.
   Forse molti non sanno che gli ebrei vivono in Afghanistan da oltre 2500 anni. In passato risiedevano circa 40mila ebrei all’interno del paese mediorientale. Gran parte si trovava a Kabul e ad Herat, importante città lungo l’antica rotta commerciale della Via della Seta.
   Nel 1933 l’antisemitismo dilagò. La comunità ebraica afgana venne perseguitata e molti ebrei furono esiliati a causa dell’influsso dell’ideologia nazista, del sostegno alla causa palestinese e dei sospetti sugli ebrei sovietici accusati di essere “agenti bolscevichi”.
   Dunque intorno al 1950 la presenza ebraica era crollata in Afghanistan attestandosi intorno alle 5mila presenze. Un numero destinato a diminuire con l’avvento dei talebani al potere nel 1996. Oggi è rimasto soltanto un ebreo afgano, Zebulon Simentov.

(Bet Magazine Mosaico, 31 agosto 2021)


L'ideologia del Covid sembra tratta dal (giustamente) dimenticato padre del positivismo

di Boni Castellane 

Sto cominciando ad apprezzare la mascherina all'aperto, in particolar modo quando non è obbligatorio metterla, ancor meglio se chi la mette è l'unica persona in mezzo a un campo o - caso più comico - in macchina da solo. La apprezzo non soltanto perché mi indica immediatamente la presenza di una persona con la quale non voglio avere niente a che fare senza doverci neanche parlare prima, ma anche perché mi risparmia dal vedere la faccia di uno così ligio al dovere da non poter non avere un ghigno di melliflua deferenza nei confronti della Scienza. 
    Il Covid ha fatto diventare tantissime persone molto religiose: tutti credono a ciò che dice la casta sacerdotale dei medici senza metterne in discussione i piccoli dettagli incoerenti o contraddittori; tutti hanno fede nella Scienza e, soprattutto, tutti anelano alla salvezza che non può che arrivare dalla Scienza. Visto che l'anima non è un oggetto empirico e quindi non c'è, tutti anelano alla salvezza dei corpi non solo qui e ora attraverso i sacramenti (vaccino) ma anche in chiave escatologica sotto forma di transumanesimo-che-verrà quando si vivrà tutti malissimo, come schiavi, immersi nella bruttezza, ma per almeno centoventi anni. Se fai notare che l'Eternit fu approvato da fior di comitati tecnico-scientifici ti rispondono che una cosa inventata nel 1911 e prodotta in serie in tutto il mondo dal 1963 non conta perché gli esperti di allora non erano abbastanza esperti. Certo, rimane il dettaglio che ogni anno vengono ritirati dei farmaci che fanno male ma anche in questo caso la Scienza di ieri è sempre meno perfetta di quella di oggi la quale è meno perfetta di quella di domani. Come l'amore e il comunismo. 
    Naturalmente tutte queste cose non si possono «conoscere» scientificamente ma si possono solo «credere» metafisicamente, sono dogmi religiosi esattamente come l'Immacolata concezione, solo che cambiano ogni trent'anni perché la verità scientifica cambia cambiando le circostanze e c'è sempre qualcuno che ti dice qual è la verità in quel momento lì. Bisogna proprio ammettere che più che il buon vecchio Carlo Marx il Covid sta facendo emergere un altro grande profeta: Auguste Comte. Comte era convinto di aver fondato l'ultima vera religione e, insieme a sua moglie, si pose al comando del mondo attraverso il Proclama del 1851, il quale così recita: «In nome del passato e del futuro, gli scienziati, servitori teorici e pratici dell'umanità, assumono il ruolo che gli si addice, quello del comando generale degli affari della terra, allo scopo di costituire la vera provvidenza morale, intellettuale e materiale, escludendo irrevocabilmente dalla supremazia politica tutti i vari schiavi di Dio, perché retrogradi e perturbatori». Comte, che era matto, fu liquidato come matto fin da subito - se si doveva scegliere un materialista positivista incarognito era molto meglio Feuerbach - senonché, guarda un po' cosa ci riserva il destino, tramontato il marxismo risalta fuori proprio Comte e la fede assoluta nella salvezza scientifica da imporre con la forza. Sì perché forse qualche lettore distratto non ricorderà che la concezione dello Stato di Comte prevedeva un governo unico mondiale dittatoriale che imponesse a tutti ciò che la Scienza decide (a capo del quale doveva esserci lui e il cui riferimento divino doveva essere sua moglie, dettagli). Lo so, starete pensando a uno scherzo o a un'esagerazione retorica. Niente di tutto questo, Auguste Comte, principale teorico del positivismo ed inventore della sociologia, diceva esattamente queste cose. 
    Del resto anche Lenin ne diceva di simili sul ruolo salvifico della Scienza e nessuno gli ha mai dato del matto, almeno fino a quando non lo è diventato davvero. O forse sì, non ricordo. E dobbiamo anche pensare che ai tempi di Comte c'era una Chiesa ben consapevole del proprio ruolo e di ciò che stava accadendo nel mondo, la Chiesa di Pio IX, Leone XIII e San Pio X. Oggi anche quell'argine è venuto a mancare, nelle acquasantiere ci sono i gel igienizzanti e la Chiesa ritiene sconveniente affrontare argomenti escatologici perché divisivi, invece le Ong uniscono e quindi è lì che ci si salva, qui ed ora e per qualche giorno. Nel frattempo i buoni cristiani si vaccinano, mostrano il green pass, fanno la terza, la quarta, la quinta dose perché la salvezza della Scienza consiste nel fare quello che ti dice la Scienza sperando che prima o poi a un risultato si arrivi. 
    Com'era quella barzelletta? «L'intervento è perfettamente riuscito, il paziente è morto ... ».

(La Verità, 31 agosto 2021)


Il ritiro americano dall'Afghanistan desta preoccupazioni a Gerusalemme

Israele ora teme che Joe lo lasci solo

di David Zebuloni

Mentre Naftali Bennett si preparava all'incontro più importante della sua carriera di neo premier, un attimo prima della tanto anelata stretta di mano con Joe Biden, un kamikaze talebano si è fatto esplodere accanto all'aeroporto di Kabul, mandando in fumo, oltre che una zona residenziale nei pressi dello scalo, anche i suoi piani. Il caso ha voluto infatti che la visita nello Studio Ovale cadesse proprio nel giorno più dolente del conflitto afghano. Incassato il colpo, Bennett ha attesto 24 ore prima di incontrare un Biden più anziano e stanco che mai.
   Nonostante l'inizio burrascoso, i neo leader hanno manifestato da subito una grande sintonia. Impegnati nelle proprie battaglie, i due si sono scambiati parole di sincera amicizia. «So come vi sentite, intorno a noi ci sono Hezbollah e Hamas che desiderano la morte degli israeliani. Dobbiamo darci sostegno», ha annunciato Bennett. «Non permetteremo agli iraniani di acquisire l'arma nucleare», ha rassicurato Biden. Toccante, certo, eppure l'immagine risulta parziale. D'altronde, per quanto gli sviluppi a Kabul sembrino riguardare solo la regione afghana e minacciare unicamente il colosso americano, pare quasi impossibile che lo Stato Ebraico non risenta del conflitto rinnovato. Il drammatico ritiro degli Usa dall'Afghanistan dovrebbe certamente fungere da monito.
   Attraverso il suo ritiro da Kabul, infatti, Biden si è dimostrato capace di svolte diplomatiche drastiche. Pertanto, secondo alcuni, Israele non dovrebbe più dare per scontato il sodalizio con l'alleata a stelle e strisce, poiché vi è il pericolo questa l'abbandoni come ha fatto con l'Afghanistan. Un paragone forse azzardato (specie considerato che il governo americano non ha mai suggellato un'alleanza con quello afghano, bensì ha operato unicamente in nome della minaccia rappresentata dai talebani), ma comunque fondato e ben ponderato se contestualizzato nel periodo storico da noi vissuto, dove la sopravvivenza nazionale vale più di qualsiasi promessa mantenuta.

Libero, 31 agosto 2021)


Afghanistan: 85 miliardi di dollari di armi americane in mano ai Talebani

In mano ai Talebani è finito un arsenale che pochi paesi sono in grado di vantare. Tra queste armi 75.000 veicoli, 200 aerei ed elicotteri e 600.000 armi leggere e di piccolo calibro. Jim Banks, deputato repubblicano: L’organizzazione estremista afghana ha ora più elicotteri Black Hawk dell’85% dei paesi del mondo

A Causa dell’affrettato ritiro americano, i Talebani hanno accesso a 85 miliardi di dollari di equipaggiamento militare USA.
    A sostenerlo in una conferenza stampa è stato il deputato repubblicano Jim Banks, già veterano della guerra in Afghanistan, il quale accusa l’Amministrazione Biden di negligenza.
    «Ora sappiamo che, a causa della negligenza dell’amministrazione [del presidente Joe Biden], i Talebani hanno accesso a oltre 85 miliardi di dollari di equipaggiamento militare americano», ha detto Banks.
    Negli ultimi due decenni gli Stati Uniti hanno addestrato e fornito alle forze armate afgane enormi quantità di armi ed equipaggiamenti, la maggior parte dei quali è stata sequestrata dai talebani quando hanno preso il controllo del paese lo scorso 15 agosto.
    Stando a quanto afferma il deputato repubblicano, i talebani sarebbero entrati in possesso di 75.000 veicoli, 200 aerei ed elicotteri e 600.000 armi leggere e di piccolo calibro.
    «L’organizzazione estremista afghana ha ora più elicotteri Black Hawk dell’85% dei paesi del mondo» ha aggiunto Jim Banks.
    «La cosa più sorprendentemente – ha aggiunto ancora Banks – è che i talebani hanno anche dispositivi biometrici che hanno le impronte digitali, le scansioni oculari e le informazioni biografiche dei cittadini afgani che hanno collaborato con gli Stati Uniti nella loro lotta contro il gruppo estremista».
    Diversi funzionari statunitensi hanno anche avvertito che le armi potrebbero finire nelle mani di altri gruppi terroristici, come ISIS-K, o potenzialmente consegnate a rivali statunitensi come Cina e Russia.
    Il Presidente Joe Biden è finito nel mirino delle critiche repubblicane (ma anche democratiche) per aver gestito in maniera pessima il ritiro dall’Afghanistan e, sempre secondo Banks, per non aver fatto niente per recuperare [o distruggere] le armi americane lasciate indietro.
    Oggi gli Stati Uniti hanno ufficialmente dichiarato concluso il ritiro dall’Afghanistan e quindi quello rimasto in Afghanistan (a quanto sembra compresi circa 300 americani) rimane in Afghanistan.
    «Se una qualsiasi di queste armi o di questi equipaggiamenti militari verrà utilizzato per danneggiare, ferire o uccidere un americano ora o in qualsiasi momento in futuro, il sangue sarà sulle mani di Joe Biden» ha concluso il deputato Jim Banks.

(Rights Reporter, 31 agosto 2021)


Il presidente Usa preme per riaprire il processo di pace a guida americana

di Fiamma Nirenstein

L'incontro fra Benny Gantz, ministro della difesa israeliano e Abu Mazen, è una specie di raro mazzo di fiori a Biden in un momento in cui, a causa della crisi Afghana, così pochi, nel mondo, gli vogliono bene o si fidano di lui. Gli Stati Uniti hanno una predilezione per il processo di pace, l'incontro del primo ministro Naftali Bennett col presidente americano alla Casa Bianca, tre giorni or sono, è stata tutta una dimostrazione del legame «indistruttibile» fra Usa e Israele. Tanto che Biden ha detto che se non riuscirà a ottenere dagli iraniani con la trattativa lo stop alla bomba atomica, allora lo otterrà in altro modo. Come? Quando? L'accordo con l'Iran ci sarà lo stesso sul margine dell'assemblamento dei pezzi della bomba islamica? Non si sa. Però Israele, mentre sa che deve salvaguardarsi da sola, da una parte tende a qualificare ancora di più il rapporto che a Biden oggi sta più a cuore di ieri, dato che Israele è il suo unico vero amico in Medio Oriente anche col guaio in cui lo ha cacciato, e, anche, capisce che tutti i suoi nemici islamisti fondamentalisti, Hamas fra i sunniti, gli Hezbollah sciiti, tutti alimentati dall'Iran, oggi sono eccitati e hanno voglia di menare le mani.
  Israele ha interesse a cercare di calmare le acque, e la valutazione di Gantz è stata quella di cercare di rafforzare Abu Mazen a fronte di Hamas. Non importa se è in crisi di consenso già da molti anni, se è dal 2005 seduto su una sedia di Presidente che ormai non mantiene se non con forza autarchica, che ha 85 anni e una salute malferma. Gantz ha ottenuto da Bennett il permesso di incontrarlo dopo 11 anni che i palestinesi non si sedevano con gli israeliani, e ne ricava molta pubblicità personale e consenso a sinistra. Gli mancava da tempo. Ma è un evento accolto in maniere difformi, Hamas al solito dice di Abu Mazen che tradisce la causa, la destra israeliana fuori da governo protesta; Bennett, che quando Abu Mazen venne al funerale di Shimon Peres twittò frasi definitive contro chi «stipendia i terroristi», ha detto che nell'incontro non c'è cambio di politica, né sgomberi né due stati, solo accordi di sicurezza, dato che Gantz è ministro della difesa. Ma dalla Difesa si è fatto sapere che si è parlato di argomenti economici, civili, di sicurezza etc... l'economia palestinese si sa, è un disastro, il Covid picchia duro. I palestinesi però si sono opposti a un ritorno a negoziati di pace sotto la leadership degli Usa, ha dichiarato Azzam al Ahmed, incaricato ufficiale: i palestinesi vogliono una conferenza precotta, organizzata da Guterrez sotto l'egida iperamichevole dell'Onu.
  Per ora, Biden ha chiesto a Bennett di provare la disponibilità del governo post-Netanyahu, e post-Trump, misurandolo sulla disponibilità verso i palestinesi. Ed ecco un piccolo passo. Piccolo, perché non potrà andare avanti finché Abu Mazen subisce la pressione di Hamas e ne invidia anche l'influenza maggiore della sua. Ora minaccia Ramallah, mentre l'esempio talebano balena in lontananza. Ma non tanto: due campi estivi per bambini tenuti dall'Olp e da Fatah sono stati intitolati alla terrorista Dalal Mughrabi, che guidò l'assassinio di 37 civili fra cui 12 bambini nel 1978. La difficoltà per un dialogo coi palestinesi è tutta dentro queste scelte, che costruiscono il rifiuto di Israele e disegnano nuovi terroristi. Biden dovrebbe cominciare da Abu Mazen e non da Israele a chiedere simpatia per la sua linea.

(il Giornale, 31 agosto 2021)


L’uomo che fece catturare Eichmann

Il racconto inedito di Bettina Stangneth, che ha scoperto la storia

di Ugo Volli

C’è una sorpresa nella storia di Adolf  Eichmann, il più noto fra i criminali nazisti responsabili della Shoah.  La sua vicenda, sviscerata nel processo di Gerusalemme del 1961 in cui fu condannato a morte, è stata approfondita anche dopo, in particolare dal libro fondamentale di Bettina Stangneth (“La verità del male - Eichmann prima di Gerusalemme” - Edizioni Luiss) di cui Shalom ha già parlato. E però non tutto era noto. Nei giorni scorsi è stata pubblicato dal giornale tedesco Süddeutsche Zeitung, proprio a firma di Bettina Stangneth e del suo collega Willi Winkler (e poi ripresa in Italia da< La Repubblica e dal Post) una notizia significativa: la cattura di Eichmann è andata assai diversamente da come si credeva.
  Si pensava finora che l’informazione sul nascondiglio di Eichmann fosse arrivata alle autorità israeliane per via di Lothar Hermann, un tedesco di origini in parte ebraiche emigrato in Argentina nel 1938, la cui figlia incontrò nel 1956 un ragazzo di nome Klaus Eichmann che si vantava delle gesta naziste di suo padre. Hermann allertò Fritz Bauer, procuratore generale dello stato dell'Assia nella Germania occidentale, che non si fidava delle autorità tedesche e avvertì quelle israeliane. Ora però è venuto fuori che ci fu un altro testimone decisiovo: Gerhard Klammer, un geologo tedesco antinazista che era stato compagno di lavoro di Eichmann in Argentina e ne aveva intuito l’identità. Klammer fece vari tentativi di denunciare il gerarca nazista alle autorità tedesche, senza risultato. Alla fine fu decisivo il consiglio di Gieselher Pohl, suo amico pastore protestante, che lo convinse a dare la notizia a un vescovo militare, sempre protestante, Hermann Kunst. Costui decise di farla sapere proprio al procuratore Bauer, molto impegnato contro i nazisti, il quale la passò ai servizi segreti israeliani. Fu questa la conferma definitiva per Ben Gurion, che decise la cattura del criminale.  Di questa nuova storia Shalom ha parlato con Bettina Stangneth, che l’ha scoperta. 

- Come ha ottenuto la notizia?
   “Dopo la morte di Klammer e di Pohl, le due famiglie sono rimaste amiche. Qualche anno fa  uno dei Pohl credette di riconoscere Klammer nella foto di gruppo con Eichmann pubblicata dallo Spiegel e chiese spiegazioni. Klammer era morto ma sua moglie, molto anziana al momento ma ancora lucida, raccontò la storia che aveva tenuta segreta per 60 anni. In famiglia non erano convinti e si rivolsero a me e a Winkler per verificare. All’inizio eravamo scettici anche noi, ma poi trovammo un buon numero di riscontri e decidemmo di pubblicare.”

- In Israele non conoscevano l’identità dell’informatore?
   “E’ sempre difficile dire che cosa sappiano i servizi segreti; ma sono convinta di no. Bauer voleva proteggere la sua fonte e diede al Mossad solo la parte della fotografia in cui si vedeva Eichmann, escludendo l’immagine di Klammer.”

- Perché è stata importante questa informazione? Il Mossad non sapeva già la storia da Lothar Hermann?
   “La doppia conferma è stata decisiva. Era un momento in cui molti ebrei che erano stati vittime dei nazisti credevano di riconoscerli in tanti luoghi, in particolare in Sudamerica, dove molti criminali erano scappati. Il fatto che Klammer non fosse ebreo e che confermasse in maniera del tutto indipendente il racconto di Hermann fu fondamentale per la decisione di fare una verifica in Argentina, che non era una cosa semplice allora, anche solo per i costi dell’operazione, e poi di procedere alla cattura.”

- Cosa cambia questa storia nell’immagine di Eichmann? Lei ha dimostrato che non era affatto un uomo “banale” e che si comportò con grande astuzia nella sua fuga.
   “Sì, questo è vero. Ma i nazisti erano anche arroganti e razzisti, si sentivano forti e disprezzavano gli ebrei. Eichmann da un lato sapeva di dover cancellare le sue tracce e lo fece con cura. Dall’altro non sopportava di perdere la sua fama, sognava di tornare in Germania come un eroe. L’azienda di costruzioni dove lavorava era un posto pieno di nazisti e lui presumeva che tutti gli emigrati tedeschi lo fossero; non resisteva alla tentazione di svelarsi e di vantarsi.”

- Quel che colpisce è la diffidenza di tutti verso la giustizia tedesca. Perché mai i giudici della Repubblica Federale non volevano processare un criminale come Eichmann?
   “Bisogna pensare che la magistratura, come tutti gli apparati dello Stato, in quel momento era piena di ex nazisti. E che Eichmann era stato un personaggio pubblico, molto noto all’interno dell’alta amministrazione,  il punto di riferimento per tutti i ministeri sul progetto di “soluzione finale”. Molti funzionari e giudici di un certo livello lo avevano conosciuto, magari in qualche riunione, e potevano pensare che lui si ricordasse di loro e potesse denunciarli come complici. Eichmann non l’avrebbe fatto mai, perché restava nazista e conservava un forte senso di appartenenza alla Germania e di odio per gli ebrei. Ma la paura restava e in tanti preferivano che stesse alla larga.”

- C’è qualcosa di importante che questa nuova storia ci può insegnare?
   “Sì, una verità importante ne esce. La trasmissione della notizia su Eichmann coinvolge quattro uomini molto diversi fra loro: un geologo di buona fama accademica che emigra per trovare lavoro; un pastore che vive in Germania; un vescovo militare protestante di idee conservative; un pubblico ministero che invece è progressista. Tutti e quattro non fanno la cosa più comoda, quella che la società del tempo si attende da loro, cioè starsene zitti e ignorare una notizia imbarazzante. Tutti e quattro decidono di agire contro il crimine, di denunciare, anche superando barriere ideologiche consistenti come quelle fra il vescovo e il pubblico ministero. Questo ci dice che esiste la libertà e la responsabilità di fare ciò che è giusto, che l’ambiente non è determinante per chi ha la lucidità e la rettezza morale per agire secondo coscienza”.

(Shalom, 31 agosto 2021)


Covid Israele oggi, record di contagi: mai così tanti in pandemia

10.947 nuovi casi, quasi il 50% sono under 18.

Nuovo record di contagi da coronavirus in un solo giorno in Israele, dove - secondo il bollettino di oggi - nelle ultime 24 ore sono stati diagnosticati oltre 10.900 nuovi casi, complice la variante Delta. Lo riferisce il ministero della Sanità israeliano confermando 10.947 contagi, il dato più alto dallo scoppio della pandemia. Tra i nuovi contagiati molti sono bambini, come sottolinea il Times of Israel, che evidenzia anche l'alto numero di test che vengono effettuati in questi giorni nel Paese, anche in vista della riapertura dell'anno scolastico prevista per domani.
   Secondo il sito di Ynet, il 33% di coloro che sono risultati positivi ieri aveva meno di 11 anni e il 15% aveva tra i 12 e i 18 anni, mentre solo il 4% aveva più di 60 anni. Il tasso di positività tra i test effettuati è rimasto superiore al 7% per il terzo giorno consecutivo. Finora, il massimo giornaliero di nuovi casi era stato rivelato a metà gennaio, con 10.118 test positivi in un giorno.

(Adnkronos, 31 agosto 2021)


*


Israele, il tasso di infezione raggiunge il 7,8%

Si tratta della percentuale più alta da febbraio, ma il ministro della sanità Niztan Horovitz ha assicurato che l’Esecutivo farà di tutto per evitare un nuovo lockdown
   Il tasso di infezione di Covid registrato ieri [29 agosto] in Israele è stato del 7,81%, il più elevato da febbraio. Si tratta, ha spiegato il ministero della sanità, di 6.576 casi positivi registrati ieri su circa 90 mila tamponi. I malati gravi sono 731, e di essi 200 versano in condizioni critiche. Il numero dei decessi ha raggiunto la cifra di 6.990.
   Ieri, in un ulteriore tentativo di contenere la pandemia, le autorità sanitarie hanno autorizzato la somministrazione di una terza dose di vaccino Pfizer a quanti, dai 12 anni in su, abbiano ricevuto le prime due oltre sei mesi fa. In un mese, oltre due milioni di israeliani hanno già ottenuto la terza dose.
   Oggi intanto il governo si riunisce - in un clima di preoccupazione - per discutere le restrizioni sanitarie necessarie alla apertura dell’anno scolastico, il primo settembre. Ad accrescere la incertezza vi è inoltre la considerazione che a settembre si celebrano importanti ricorrenze religiose ebraiche, che comportano assembramenti e riunioni familiari.
   Oggi il ministro della sanità Niztan Horovitz ha assicurato comunque che il governo farà tutto il possibile per evitare di imporre un nuovo lockdown al Paese.

(Corriere del Ticino, 30 agosto 2021)


Israele- Palestina: un raro faccia a faccia tra Abbas e Gantz

di Piera Laurenza 

Il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha incontrato il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, nella sera del 29 agosto, nella cornice del primo bilaterale tra rappresentanti di alto livello israeliani e palestinesi dal 2010.
  L’incontro si è svolto a Ramallah, in Cisgiordania, e, stando a quanto riportato da un membro del comitato centrale del movimento Fatah, Hussein al-Sheikh, stretto confidente di Abbas, le parti hanno discusso delle relazioni israeliano-palestinesi “in tutti in loro aspetti”. Parallelamente, anche l’ufficio di Gantz ha parlato del meeting del 29 agosto, riferendo che il ministro israeliano ha parlato con l’interlocutore palestinese di questioni relative a sicurezza, diplomazia, economia e affari civili. Nello specifico, l’ufficio del ministro israeliano ha affermato che sono state due le sessioni di colloqui. Alla prima hanno partecipato il funzionario di collegamento militare israeliano con i palestinesi, Ghassan Alian, il capo dell’intelligence dell’Autorità nazionale palestinese, Majid Faraj, e al-Sheikh. Nella seconda, invece, Gantz e Abbas hanno parlato in privato. Da parte israeliana, sarebbe stata espressa la disponibilità a mettere in atto una serie di misure volte a dare impulso all’economia dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania. Non da ultimo, Gantz e Abbas hanno discusso della gestione della sicurezza e della realtà civile ed economica in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e hanno infine concordato di “rimanere in contatto”.
  Un funzionario palestinese, in condizioni di anonimato, ha affermato che Gantz e Abbas hanno parlato anche dei possibili passi da compiere per migliorare l’atmosfera. Ciò include la richiesta, da parte palestinese, di fermare le operazioni militari israeliane nelle aree della Cisgiordania occupata, consentendo l’unificazione delle famiglie con i parenti all’interno di Israele e permettendo a un maggior numero di lavoratori palestinesi di entrare nei territori israeliani. Alla luce di ciò, il faccia a faccia del 29 agosto è stato visto da alcuni come il segnale di un possibile cambio di direzione nelle relazioni tra israeliani e palestinesi. Tuttavia, il giorno successivo, il 30 agosto, un funzionario vicino al primo ministro Bennett ha minimizzato l’incontro, sottolineando che non vi saranno negoziati di pace e che i colloqui tra Abbas e Bennet hanno riguardato soltanto questioni in materia di sicurezza. Al momento, ha aggiunto il funzionario israeliano, non è stato avviato alcun processo diplomatico.
  Quello del 29 agosto è stato il primo incontro, dal 2010, tra il presidente dell’Autorità palestinese e un funzionario del governo israeliano e l’incontro pubblico di più alto livello tra le parti dal 2014. Questo è giunto a pochi giorni di distanza dalla visita del premier di Israele, Naftali Bennett, negli Stati Uniti, dove, il 27 agosto, ha incontrato il capo della Casa Bianca, Joe Biden. In tale occasione, il primo ministro ha promesso di sostenere il governo e l’economia dell’Autorità palestinese, ma ha ribadito il rifiuto di creare uno Stato palestinese indipendente. Washington, da parte sua, ha evidenziato la necessità di misure volte a “migliorare la vita dei palestinesi” e “l’importanza di astenersi da azioni che potrebbero esacerbare le tensioni, contribuire a un senso di ingiustizia e minare gli sforzi per ristabilire fiducia”.
  Già a maggio scorso, il segretario di Stato degli USA, Anthony Blinken, aveva annunciato, durante l’incontro con il presidente Abbas a Ramallah, che il proprio Paese era interessato a ricucire le relazioni con l’Autorità e il popolo palestinese, sulla base del “rispetto reciproco”, e che avrebbe portato avanti le operazioni volte a riaprire il consolato generale a Gerusalemme. Intenzioni simili fanno seguito alla politica adottata dall’ex primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e sostenuta dal predecessore di Biden, Donald Trump, definita “dura” nei confronti dei palestinesi. Bennett è stato descritto come un integralista che si oppone all’indipendenza palestinese, al pari dei partner principali della variegata coalizione di governo. Ad ogni modo, il premier ha riferito di voler sostenere l’economia palestinese e l’espansione dell’autonomia per i palestinesi, oltre a rafforzare Abbas contro il gruppo palestinese Hamas, al potere a Gaza.
  Proprio Hamas è stato al centro della violenta escalation verificatasi a maggio scorso, che ha visto scontrarsi il gruppo palestinese con le forze israeliane. Le tensioni hanno avuto inizio la sera del 10 maggio, dopo che Hamas aveva avvertito il governo di Tel Aviv che avrebbe avviato un attacco su larga scala qualora le forze israeliane non si fossero ritirate dalla Spianata delle Moschee e dal monte del Tempio, oltre che dal compound di al-Aqsa, a Gerusalemme. Alla luce della mancata risposta da parte israeliana, Hamas ha iniziato a lanciare razzi contro Gerusalemme e, nei giorni successivi, le offensive sono proseguite con attacchi da ambo le parti. Solo alle 2:00 di mattina del 21 maggio è entrato in vigore un cessate il fuoco.
  Tuttavia, da allora le tensioni non si sono mai del tutto placate. Un segnale verso una possibile de-escalation è giunto il 19 agosto, quando Israele ha riferito di aver raggiunto un accordo con il Qatar e le Nazioni Unite, relativo a un meccanismo per inviare aiuti finanziari dallo Stato del Golfo alla Striscia di Gaza. Nella medesima giornata, le autorità israeliane hanno altresì autorizzato l’ingresso di ulteriori risorse e merci attraverso il valico di Kerem Shalom, precedentemente limitate al 30%.

(Sicurezza Internazionale, 30 agosto 2021)


Il "pisolino" durante l'incontro con Bennett: polemiche su Biden

Ha scatenato grande ironia sul web il video in cui si nota il presidente Usa Joe Biden, durante l'incontro dello scorso venerdì sera alla Casa Bianca con il premier israeliano Naftali Bennett, "addormentarsi" all'improvviso. Il vertice tra i due capi di governo aveva riguardato principalmente la posizione di Washington riguardo all'accordo internazionale sul nucleare iraniano, con Bennett che aveva cercato di persuadere Biden a non sottoscrivere nuovamente quel trattato, promosso dalla presidenza Obama e poi rigettato da Trump. Mentre i due si trovavano nello Studio ovale del palazzo presidenziale è però andato in scena quello che tanti commentatori hanno etìchettato come il "pisolino" del leader Usa.
   Bennett, dopo avere illustrato i dettagli della terza vaccinazione anti-Covid in corso in Israele, si è dilungato facendo delle citazioni bibliche e spiegando le sacre letture che sarebbero state commentate quel sabato nelle sinagoghe di tutto il mondo. Proprio mentre il primo ministro stava recitando in ebraico un versetto di Isaia che avrebbe dovuto spiegare la storia e l'essenza stessa di Israele, Biden è stato ripreso a "chiudere gli occhi", forse per meditare la profondità del discorso religioso di Bennett, per poi cadere preda di un "colpo di sonno". Bennet, si nota nei video, pare quindi accorgersi della situazione imbarazzante e reagisce sorridendo e chiudendo il suo discorso con grande lentezza e con un più forte tono della voce, provando a svegliare il presidente Usa. Il premier di Gerusalemme, alla fine, parla a voce ancora più alta dicendo: “Grazie, signor Presidente. Non vedo l'ora di lavorare con voi ora e per molti anni a venire. Grazie!”.
   In quel momento, Biden riapre lentamente gli occhi e pronuncia a fatica le seguenti parole: "Bene, grazie. Mi stai dando credito, ma gran parte di questo dovrebbe essere riservato a Barack Obama... A lui spetta ogni merito...".
   Le immagini del "pisolino" di "Sleepy Joe" Biden hanno subito fatto il giro del web e del mondo, scatenando polemiche sia a carico del presidente degli Stati Uniti sia contro Bennett. Nei Paesi arabi, quel video è stato intitolato Biden si addormenta sugli ebrei, mentre alcuni membri del Partito repubblicano statunitense hanno preso spunto da quella clip per chiedere le dimissioni immediate del leader dem. In Israele, invece, a finire nel mirino dei critici è stato Bennett, accusato da molti commentatori di avere subito una "umiliazione religiosa". Il "pisolino" di Biden in diretta ha provocato anche tanta ironia sui social, dando vita a meme e caricature in cui il presidente Usa appare in esilaranti fotomontaggi.

(il Giornale, 30 agosto 2021)


Un membro del governo israeliano ha incontrato il presidente palestinese Mahmoud Abbas

Per la prima volta dopo dieci anni

Domenica il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha incontrato il presidente palestinese Mahmoud Abbas a Ramallah, in Cisgiordania: è il primo incontro tra un membro del governo israeliano e Abbas dal 2010 e l’incontro più importante tra le due parti dal 2014.
    Gantz ha detto che lui e Abbas hanno discusso della sicurezza nazionale in Israele e in Cisgiordania e che Israele adotterà alcune misure per rafforzare l’economia palestinese. Gantz ha detto anche che lui e Abbas continueranno a comunicare, in futuro, sui temi di cui hanno parlato. Un funzionario palestinese ha spiegato ad Associated Press che nell’incontro è stata discussa anche la richiesta palestinese di fermare le operazioni militari israeliane in alcune aree della Cisgiordania.
    L’incontro tra Gantz e Abbas è seguito alla visita di venerdì scorso, alla Casa Bianca, del primo ministro israeliano Naftali Bennett al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha incoraggiato un riavvicinamento delle due parti. Una fonte vicina a Bennett ha comunque detto ad Haaretz che Israele non intende avviare processi diplomatici con l’Autorità Palestinese, né ora né in futuro, e che l’incontro ha riguardato solo questioni di ordinaria amministrazione.

(il Post, 30 agosto 2021)


La clessidra e la bomba atomica

Israele pone l'allarme sul tavolo delle Nazioni Unite: nel giro di dieci settimane l'Iran potrebbe dotarsi di un'arma nucleare.

di Luca Anedda

Tre settimane fa il Ministro degli Esteri Israeliano, Yair Lapid, e il Ministro della Difesa, Benny Gantz, hanno incontrato i rappresentanti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; in quella occasione fu detto chiaramente ai rappresentanti delle Nazioni Unite che se il Governo iraniano avesse continuato con l’attuale ritmo l’arricchimento dell’Uranio, avrebbe avuto la possibilità di assemblare il primo ordigno nucleare nel giro di 10 settimane.
   La notizia è stata ripresa dagli organi di stampa internazionali e nazionali, ma tutto sommato ha avuto un’eco probabilmente inferiore alla sua reale portata.
   Gli ultimi eventi correlati al disimpegno delle Forze Occidentali dall’Afghanistan, e la preoccupante ripresa dell’attività terroristica a Kabul, hanno messo in secondo piano questa enorme clessidra che Israele ha posto sul tavolo delle Nazioni Unite, e che scandisce il conto alla rovescia per l’acquisizione della bomba atomica da parte del Governo iraniano.
   Sette settimane è quanto ora rimane secondo gli Israeliani.
   Più fonti riportano che il recente incontro tra il primo ministro israeliano Bennett ed il presidente americano Biden avesse in agenda, al primo posto, la questione iraniana.
   Anche l’insistenza con la quale Bennett ha voluto incontrare Biden, nonostante la problematica situazione Afghana, lascia pensare che l’urgenza della questione iraniana non consentisse un rinvio.
   I successivi resoconti dell’incontro al vertice suggeriscono però che nulla, se non la diplomazia, sia al momento sul tavolo delle opzioni possibili.
   Ma è davvero questo ciò che il futuro ci riserva?
   Israele ha, per ovvie ragioni, una grandissima preoccupazione circa la possibilità che uno degli Stati della regione si doti di capacità nucleare. Da sempre ha usato ogni mezzo possibile per prevenire che ciò accadesse.
   Nel giugno del 1981 con una spettacolare operazione, nome in codice “Operazione Opera”, uno squadrone di F16 israeliani bombardò e distrusse il reattore nucleare costruito alle porte di Bagdad.
   Saddam Hussein lo aveva acquistato dalla Francia con un accordo – osteggiato in tutti i modi da Israele – con il Presidente Chirac. Durante la costruzione del reattore, il Mossad si mosse in maniera risoluta: alcuni ingegneri francesi che lavoravano al progetto furono trovati senza vita a Parigi; alcuni sabotaggi rallentarono la costruzione del reattore. Ma poi il governo israeliano si rese conto che, nonostante gli sforzi compiuti dai servizi segreti, il progetto avrebbe comunque visto la luce. Allora scattò l’operazione aerea. Furono scelti i migliori piloti ed impiegati i nuovissimi F16 che furono opportunamente modificati dagli Israeliani ben oltre le specifiche emesse dalla casa costruttrice dei velivoli, l’americana General Dynamics.
   La missione era difficilissima ed il rientro dei piloti alla base di partenza non era garantito. Si trattava di sorvolare il Mar Rosso, l’Arabia Saudita e penetrare in territorio irakeno per arrivare a Bagdad; e tornare indietro. Gli occhi di tutto il Governo israeliano erano su quegli 8 F16 che non potevano fallire: era l’ultima possibilità che rimaneva alla stella di Davide per disarmare Saddam. La missione fu un completo successo e fu condotta nel più totale riserbo. Nessuno, nemmeno il presidente Reagan, sapeva dell’attacco. L’unico che forse si rese conto di qualche cosa fu il Re di Giordania, che trovandosi sul suo yacht in vacanza su Mar Rosso, vide sfrecciare gli 8 F16 con prua est, bassissimi, a pochi metri dalla superficie del mare. Ma ormai era troppo tardi.
   Quasi 30 anni dopo Israele dovette di nuovo fronteggiare la concreta minaccia nucleare proveniente da un altro nemico storico: la Siria. Anche in questo caso i servizi segreti israeliani ebbero la certezza che la Siria stava costruendo un reattore nucleare. Più volte il Governo israeliano tentò di ottenere l’aiuto americano per porre fine alla costruzione del reattore. Ma il presidente Bush negò tale appoggio. Ed allora scattò l’operazione “Orchard”. Nella notte del 5 settembre 2007, lo stesso squadrone di volo che quasi 30 anni prima aveva azzerato il progetto nucleare iracheno, entrò nello spazio aero siriano e rase al suolo il reattore di Al-Kibar.
   Oggi, dopo l’incontro con Biden, l’appoggio americano sembra essere latitante, ma l’allarme del sistema di difesa israeliano sta raggiungendo rapidamente il massimo livello. Quale sarà la prossima mossa?
   La sabbia della clessidra continua inesorabilmente a scorrere.

(Infosec.nes, 30 agosto 2021)


Addio a Yael Mann: l'eroina del Mossad

di Michelle Zarfati

Yael Mann, una figura femminile importante, un vero simbolo, la donna il cui lavoro sotto copertura in Libano ha spianato la strada ad alcune delle più famose operazioni dell'IDF, si è spenta a 85 anni nel fine settimana.
   Mann, nata in Canada nel 1936, emigrò in Israele nel 1968 e pochi anni dopo, nel 1971, venne arruolata dal Mossad.  Nel 1973 in Libano Mann agì sotto copertura: con il ruolo che le cucì il Mossad di una sceneggiatrice britannica in Libano per scrivere una serie televisiva sulla vita di una donna,  riuscì ad ottenere un contratto per lo sviluppo della sceneggiatura con una società di produzione, facendo rapidamente amicizia con locali e stranieri, che accettarono di aiutarla nella sua ricerca. Iniziò a vivere lì, e usando una macchina fotografica raccolse molto materiale prezioso, che permise in seguito all'IDF di intraprendere l'Operazione “Primavera di Gioventù”. 
   Fu lei che ottenne informazioni accurate sul luogo in cui si trovavano i terroristi responsabili del massacro delle Olimpiadi di Monaco. 
   Yael, durante la sua carriera nel Mossad, ha dimostrato di essere una guerriera di grande talento, mostrando di saper come usare il suo carisma silenzioso e il suo aspetto attraente come un'arma potente di persuasione. Era difficile immaginare, che una donna così composta e affascinante, era in realtà uno degli agenti più audaci del Mossad, prendendo parte a diverse operazioni importanti e guadagnandosi l'encomio del capo di stato maggiore, nell’epoca di Golda Meir.
   Alla fine degli anni '80, dopo 15 anni di servizio al Mossad, e dopo aver partecipato a numerose operazioni segrete, si ritirò dal servizio nell'agenzia di intelligence. L'ex primo ministro Ehud Barak, che ha guidato le forze dell'IDF durante l'Operazione Primavera di Gioventù, le ha reso omaggio dicendo: "Una leggenda ambulante di coraggio, eleganza e professionalità. Ha raccolto informazioni per l'Operazione Primavera di Gioventù, operazione che servì per eliminare i leader terroristici a Beirut. Lei era lì mentre ci avvicinavamo per assicurarci che fossero davvero nei loro appartamenti, e rimanessero nella zona, solo per non lasciare alcun segno. Un coraggio infinito. Che la sua memoria sia benedetta".

(Shalom, 30 agosto 2021)


Le ragioni profonde della violenza e criminalità che imperversano nella comunità araba israeliana

La società araba d’Israele non può continuare a dare tutte le colpe al governo senza sforzarsi di adottare drastici cambiamenti culturali ed educativi.

Un ennesimo omicidio a Rameh, in Alta Galilea, e i social network si riempiono di post di furiosi cittadini arabi israeliani che si scagliano con comprensibile indignazione contro l’inefficacia della polizia, la negligenza del governo e il modo in cui Israele lascia che la sua minoranza araba precipiti in un abisso di violenza e criminalità. Molti arabi israeliani considerano l’ondata di criminalità e violenza che investe la società araba il risultato diretto dell’essere una comunità minoritaria all’interno di uno stato percepito come ostile. Se non vivessimo sotto questo regime razzista e discriminatorio, affermano, criminalità e violenza scomparirebbero completamente.

(israele.net, 30 agosto 2021)


Gli israeliani, “grazie” al Covid19, rivalutano la loro vita e cambiano lavoro

Hila Levy, un ingegnere informatico di Safebrich, ha lavorato per sette anni per un’azienda high-tech nella città meridionale di Beer Sheva e poi, al culmine della crisi del Covid19, se ne è andata. “Ho visto che il coronavirus mi ha permesso di lavorare nel campo che volevo. L’opzione del lavoro ibrido ha reso la decisione più facile”, ha detto. Ha lavorato nel settore delle comunicazioni e voleva passare al cyber. Dopo essere tornata dal congedo di maternità, ha annunciato le sue dimissioni e si è trasferita in una nuova posizione nel centro del paese. Nel sud di Israele c’è una minore offerta di posti di lavoro, ma grazie al Covid19 e al lavoro a distanza si sono aperte nuove possibilità per lei che prima non esistevano. “Volevo davvero lavorare nel cyber. Dalla mia ricerca, ho visto che questa era l’opportunità per fare il cambiamento, e ho anche sentito che era tempo per me di voltare pagina dal mio precedente lavoro. Forse questi erano ormoni post-partum, ma ho davvero sentito che ora era il mio momento”, ha detto.
  E Hila non è sola. Milioni di persone in tutto il mondo stanno lasciando il lavoro. Negli Stati Uniti, il numero di dimissioni ha raggiunto un picco di quasi 4 milioni ad aprile, mentre a giugno 3,9 milioni di americani hanno smesso di lavorare. Un sondaggio Microsoft di marzo ha mostrato che il 41% dei lavoratori era alla ricerca di un nuovo lavoro, mentre in sondaggi più recenti il numero di persone che pensavano di lasciare il lavoro ha raggiunto il 95%. Secondo il sito di ricerca di lavoro Monster.com, oltre il 90% dei dipendenti è persino disposto a trasferirsi in un altro settore per trovare il lavoro giusto per loro.
   “Questa crisi, e inizialmente anche i mesi di congedo non retribuito che molti hanno ricevuto, ha permesso alle persone di trasferirsi in aziende più stabili e migliori, di lasciare le organizzazioni a favore di posizioni più importanti o di fare cambiamenti professionali. Viviamo in un’epoca in cui le persone cambiano ruolo ogni due o tre anni e comprendono che il modo principale per aggiornarsi è passare a un’altra organizzazione. Molte persone sono salite sul treno del coronavirus per un aggiornamento lavorativo”, afferma Liat Ben Tora-Shushan, direttore del dipartimento di gestione della carriera presso AllJobs, che aiuta tra 400 e 600 persone che effettuano questi spostamenti ogni mese. Il fenomeno delle dimissioni di massa si verifica quando il reclutamento diventa più difficile per i datori di lavoro in tutti i settori. In un momento in cui il tasso di posti vacanti è alto, lo è anche il tasso di disoccupazione e l’economia è in crisi. A giugno, il tasso di posti disponibili ha raggiunto il 3,2% e il tasso di disoccupazione è stato del 6,9%.
  “I datori di lavoro riferiscono di non aver mai avuto difficoltà a reclutare personale. È una combinazione di licenziamenti di massa che c’erano all’inizio della pandemia quando le organizzazioni soffrivano di difficoltà economiche e cercavano di essere più efficienti, così come le organizzazioni che stanno crescendo ora. Inoltre, nell’ambito dei cambiamenti che il mondo del lavoro ha subito di recente, molte persone hanno lasciato le loro aziende lasciando alcune posizioni che se in passato erano difficili da reclutare, oggi è quasi impossibile, alle posizioni per cui è sempre stato difficile assumere come vendite e ricerca e sviluppo si aggiungono lavori nel retail”. Il fenomeno si chiama “The Great Resignation” (le Grandi Dimissioni n.d.r.), un termine coniato dal professor Anthony Klotz dell’Università del Texas. Ha sostenuto che la partenza di massa volontaria sarebbe stata una delle principali conseguenze della crisi di COVID19 sul mercato del lavoro poiché durante oltre un anno e mezzo di pandemia globale, le persone hanno avuto il tempo di riflettere sulle loro carriere e pensare, tra l’altro cose, sull’equilibrio tra lavoro e vita privata.
  Maayan Inbar, analista marketing presso Kape, non ha preso in considerazione l’idea di lasciare il suo lavoro prima della crisi di COVID19. Alla fine di aprile, si è dimessa e si è trasferita in una nuova azienda dopo un processo di cinque mesi. “Ho imparato molto sul campo del marketing online ed è questo che mi ha motivato a cercare un altra azienda. Durante il Covid19 c’è stato più tempo per pensare, pensare dove voglio andare, fare domande. Inoltre, praticamente, ho avuto più tempo per leggere di lavori, inviare curriculum, essere intervistati e fare test a casa. Per la maggior parte delle posizioni, ci sono processi in più fasi e durante il Covid19 il pomeriggio e anche i fine settimana sono più liberi “, ha detto. Non è che non le piacesse il suo lavoro precedente, ma quando si è resa conto che era possibile lavorare da casa e che poteva ottenere un ruolo che desiderava e che non esisteva nella sua precedente azienda, ha deciso di trasferirsi.

• CHI SE NE VA DURANTE UNA CRISI
  Levy e Inbar hanno lasciato il lavoro per migliorare la loro situazione, per avere una posizione migliore, che corrispondesse meglio ai loro desideri. Entrambi lavorano nel settore dell’High-Tech, dove c’è una grande offerta di posti di lavoro e opportunità di lavorare da remoto. Tuttavia, coloro che si sono dimessi durante la pandemia non facevano solo parte di una forza lavoro istruita e molto richiesta da industrie con molte opportunità. Il modello del congedo non retribuito, che ha fornito una rete di sicurezza economica poiché le indennità di disoccupazione sono state garantite fino alla fine di giugno 2021, ha consentito alle persone di intraprendere processi di cambio di carriera e aggiornamento di carriera.
  I settori che forniscono servizi, dove i salari sono bassi e il lavoro è difficile, hanno subito gravi danni durante le chiusure e le restrizioni, con le dimissioni dei lavoratori e i datori di lavoro che trovavano molto difficile assumere. Secondo l’U.S. Bureau of Statistics, più di 740.000 dei quattro milioni di lavoratori che si sono dimessi negli Stati Uniti ad aprile erano nel settore del tempo libero. In Israele, molti negozi e ristoranti sono stati costretti a chiudere e a licenziare il personale durante i tre lockdown subiti dal Paese. L’incertezza per quei lavoratori era particolarmente alta in quanto il loro ritorno al lavoro era impegnativo. Le posizioni rivolte ai clienti durante una carenza di manodopera significavano che ogni lavoratore doveva lavorare di più, il che faceva sì che molti giovani dipendenti se ne andassero semplicemente e non si precipitassero indietro.

• MA PERCHE' SE NE VANNO TUTTI?
  Sebbene l’ondata di dimissioni abbia raggiunto il picco durante la crisi di COVID19, non è un fenomeno nuovo nel mercato del lavoro. Ricercatori negli Stati Uniti, in Europa e in Israele hanno identificato la tendenza già nel 2014. “Il COVID19, poiché è una significativa crisi personale, economica e sociale, ha acuito tutti i tipi di tendenze esistenti”, afferma il dott. Oleg Komlik, capo del Percorso di gestione e risorse umane presso la School of Behavioral Sciences del College of Management.
  “Nei punti di crisi, le persone ricalcolano il loro corso, anche nel contesto lavorativo. Anche gli aspetti economici, sociologici e psicologici sono entrati nel processo, mentre le persone sedevano da sole a casa e pensavano ai loro sogni abbandonati, il nuovo mercato del lavoro si è improvvisamente aperto a nuove opportunità che erano considerate irregolari, ad esempio, se ho sempre sognato di aprire un’attività ma non sapevo di poter lavorare da casa, quindi oggi lo so. La gente ha iniziato a ripensare alla propria vita, e il lavoro era decisamente al centro dell’attenzione. Il lavoro non è solo denaro , è anche la questione se sto realizzando il mio potenziale, e in Israele e in altri paesi occidentali sono state fornite reti di sostegno economico. Quando c’è una tale rete, è più facile rassegnarsi e pensare a cosa fare con i tuoi sogni e aspirazioni”, ha detto.
  Il Gallup Research Institute, invece, sostiene che la grande ondata di dimissioni è generalmente legata a un senso di coinvolgimento, o meglio, al mancato coinvolgimento dei dipendenti sul posto di lavoro. In un sondaggio condotto a marzo di quest’anno, hanno scoperto che il 48% degli americani è alla ricerca di un altro lavoro, indipendentemente dal settore in cui sono impiegati o dai livelli salariali. La maggior parte dei lavoratori nel mondo non si sente impegnata al lavoro quando in realtà solo il 30% di loro si sente coinvolto nella loro attività giornaliera. In Israele, a partire dal 2021, solo il 18% dei dipendenti segnala un senso di coinvolgimento sul lavoro, in aumento del 2% rispetto agli anni precedenti. Ciò significa che l’82% degli israeliani non ama il proprio lavoro.
  “Stiamo assistendo a una diminuzione dell’impegno per il lavoro e a un aumento delle persone che se ne vanno. Anche le aspettative sono cambiate. Se in passato le persone cercavano solo di guadagnarsi da vivere, le generazioni più giovani sono alla ricerca di interesse, sfida e crescita, ma quando la realtà è che finiscono per esaurirsi dal lavoro, quindi vedi più dimissioni, meno impegno e quando una crisi enorme ha colpito – le persone hanno ripensato alla loro strada”, ha detto Komlik. Parte della tendenza al ribasso nel coinvolgimento e nell’impegno dei dipendenti ha a che fare con l’ultimo anno e mezzo che è stato caratterizzato da incertezza e stress. Inoltre, il lavoro a distanza ha trasformato il senso di coinvolgimento in qualcosa che deve essere mantenuto attivamente e non tutti i datori di lavoro sono stati in grado di farlo. Quando non c’è un ufficio fisico è più difficile preservare una cultura organizzativa e un senso di appartenenza.
  Il modello del congedo non retribuito, da un lato, ha dato sicurezza finanziaria ai lavoratori, l’opportunità di pensare e riflettere sulla propria carriera, migliorare le competenze e persino il coraggio di andarsene, ma dall’altro ha creato una crisi di fiducia tra i lavoratori e datori di lavoro. Komlik ha descritto la mossa di dimettersi in queste circostanze, “quando c’è una rete di sicurezza economica, le persone prendono una decisione razionale e molto comprensibile di dimettersi”, e ora si aspetta che con la cancellazione del modello, vedremo più persone tornare al mercato del lavoro, anche se non necessariamente ai luoghi in cui lavoravano prima della crisi. Questa grande ondata di dimissioni durante il Covid fa parte di una tendenza iniziata nell’ultimo decennio e potrebbe semplicemente essere parte del processo di transizione del futuro mondo del lavoro. Un processo che ha subito un accelerazione a causa del coronavirus ed è legato anche all’accelerazione della digitalizzazione, del lavoro a distanza e dei cambiamenti nelle competenze e abilità richieste ai dipendenti. è un processo di cui si parla da anni e, come molti processi, si sta svolgendo a ritmo serrato sullo sfondo dell’epidemia globale.

(israele360.com, 30 agosto 2021)


Un altro record mondiale per Mark Malyar che vince il suo secondo oro a Tokyo

Il nuotatore israeliano Mark Malyar ha portato a casa il suo secondo oro alle Paralimpiadi di Tokyo oggi, conquistando la vittoria nei 400 metri stile libero e battendo di nuovo il record mondiale. Il conteggio delle medaglie israeliane ai Giochi Paralimpici è di 5, superando il record ottenuto a Rio, con diverse opportunità di vincere nelle prossime competizioni.
  Malyar ha completato la gara in 4:31.06, battendo il record mondiale di 4: 33.64 stabilito nell'evento di Londra nel 2019. L'ucraino Andrii Trusov ha portato a casa l'argento e lo statunitense Evan Austin ha vinto il bronzo.
  Questa è stata la seconda medaglia d'oro dei Giochi per Malyar, che ha vinto anche la finale dei 200 metri misti individuali e ha battuto un record mondiale venerdì, dove ha di nuovo battuto l'ucraino Trusov.
  "Due medaglie d'oro, due record mondiali e un futuro brillante per qualcuno che ha iniziato a fare sport come parte dell'idroterapia in piscina", ha condiviso il ministro della Cultura e dello Sport Chili Tropper. “Mark dimostra che non è importante solo il talento, ma anche la perseveranza e la voglia di superare ogni limite”. Con due medaglie d'oro già al collo, Malyar, 21 anni, ha ancora altre tre possibilità di vincere a Tokyo, nei prossimi eventi 100m dorso, 50m stile libero e 50m farfalla.
  “È un vero combattente, sono così orgoglioso", ha detto il padre di Malyar, Alex, all'emittente pubblica Kan subito dopo la vittoria. “Muoio dalla voglia di vederlo e di abbracciarlo. So quanto tempo e sforzi ha investito”
  Anche il fratello gemello di Malyar, Ariel Malyar, gareggia alle Paralimpiadi di Tokyo.  Entrambi i fratelli, affetti da paralisi cerebrale, hanno iniziato a nuotare come parte della loro terapia fisica, e gareggiano oggi a diversi livelli di disabilità.
  La medaglia d'oro di Malyar ha segnato la quinta medaglia finora per Israele alle Paralimpiadi di Tokyo. All'inizio della giornata, la vogatrice Moran Samuel, si è aggiudicata l’argento nei 2.000 metri singoli femminili.
  Samuel, 39 anni, è stata uno dei portabandiera di Israele alla cerimonia di apertura delle Paralimpiadi la scorsa settimana. Ha portato a casa una medaglia di bronzo ai Giochi di Rio cinque anni fa e un altro bronzo ai Campionati del mondo di canottaggio 2019 a Ottensheim, in Austria.
  Domenica scorsa, le nuotatrici israeliane Veronika Guirenko e Bashar Halabi non sono riuscite a qualificarsi per le finali nelle rispettive categorie. Halabi è diventata la prima atleta drusa a competere per Israele sia alle Olimpiadi che alle Paralimpiadi.
  La nuotatrice Erel Halevi ha gareggiato nella finale dei 400 m stile libero femminile domenica e si è classificata al settimo posto. Il giocatore di bocce israeliano Nadav Levi ha vinto la sua partita contro il portoghese Nelson Fernandes, e lunedì giocherà contro un avversario thailandese.
  Israele ha finora vinto tre medaglie d'oro e due argenti durante i Giochi Paralimpici del 2020, già superando il numero di medaglie a Rio nel 2016, dove ha portato a casa tre bronzi.
  Sabato, il nuotatore Ami Omer Dadaon ha vinto una medaglia d'argento nei 150 metri misti maschili. Dadaon ha concluso la gara nella categoria SM4 in 2 minuti e 29,48 secondi. E mercoledì è stato Iyad Shalabi a vincere i 100 metri dorso nella categoria S1, diventando il primo arabo israeliano a vincere una medaglia alle Paralimpiadi o alle Olimpiadi.

(Shalom, 29 agosto 2021)


Striscia di Gaza, attacchi aerei da Israele

Le forze di difesa israeliane hanno lanciato attacchi aerei sulla Striscia di Gaza all'alba di domenica 29 agosto dopo che gli attivisti di Hamas hanno organizzato proteste notturne lungo il confine con lo Stato ebraico. Centinaia di manifestanti hanno tenuto la prima di una serie di proteste notturne, lanciando esplosivi contro le forze israeliane, che hanno risposto con armi da fuoco. Secondi i media palestinesi, almeno cinque persone sono rimaste ferite. I video rilasciati dalle forze di difesa israeliane hanno mostrato attacchi aerei su quello che l'IDF ha definito un "compound militare".

(LaPresse, 29 agosto 2021)


Israele, 12.073 nuovi casi positivi in un giorno: è record assoluto dall’inizio della pandemia

Covid, in Israele record assoluto di contagi dall'inizio della pandemia e boom di ricoverati in terapia intensiva tra i vaccinati.

Ieri, sabato 28 agosto 2021, Israele ha battuto il record assoluto di contagi dall’inizio della pandemia: sono stati infatti rilevati 12.073 nuovi casi positivi in un solo giorno. Non erano mai stati così tanti: il precedente record era di 11.316 e risaliva al 23 settembre 2020, quasi un anno fa, il picco della seconda ondata. La differenza è che adesso, a differenza di un anno fa, la stragrande maggioranza degli israeliani è vaccinata: 6 milioni di cittadini (su 9 milioni di abitanti) ha ricevuto la prima dose dell’unico vaccino autorizzato nel Paese, il Pfizer BioNTech, pari al 68% dell’intera popolazione nazionale. Hanno completato l’intero ciclo vaccinale con due dosi 5 milioni e mezzo di israeliani, pari al 62,2% di abitanti, una percentuale superiore a quella attuale dell’Italia e analoga a quella del Regno Unito. Inoltre in Israele poco meno di 2 milioni di persone (pari al 22% degli abitanti) ha già ricevuto la terza dose. Percentuali che sono molto più alti tra gli adulti, se consideriamo che in Israele tra i minorenni soltanto i malati cronici hanno ricevuto il vaccino e che si tratta di un Paese molto giovane con 2 milioni e 300 mila under 14. Significa che è vaccinato il 97% degli over 18, eppure non si riscontra nessun beneficio nell’andamento epidemiologico.
   Oltre ai contagi, infatti, è aumentato sensibilmente il numero dei ricoverati e dei morti proprio tra i vaccinati. In questo momento sono 726 i pazienti ricoverati nei reparti di terapia intensiva, per più del 90% vaccinati.

(MeteoWeb, 29 agosto 2021)


Si fermeranno? Probabilmente no. Bennett forse ripeterà che la causa di tutto sono i non ancora vaccinati! Avanti dunque con la siringa! E "il mondo guarda a Israele". M.C.


Nessuno tocchi i bambini: una conferma da Israele!

Confrontando l’immunità indotta dall’infezione naturale con quella suscitata dalle vaccinazioni non ci sono più dubbi: l’immunità naturale conferisce una protezione più prolungata e più robusta contro l’infezione, contro la malattia sintomatica e contro l’ospedalizzazione causata dalla variante Delta di SARS-CoV-2 rispetto all’immunità indotta dalla vaccinazione con due dosi di Pfizer BNT162b2 (Comirnaty).
   I risultati di uno studio preprint indicano con chiarezza che non c’è razionale scientifico nel vaccinare i bambini: ritardare l’età d’insorgenza di una infezione naturale che nei bambini è quasi sempre lieve o asintomatica, li esporrà, con l’avanzare dell’età, a infezioni da Sars-CoV-2 che comportano rischi maggiori e malattie progressivamente più gravi (Lavine J et al. BMJ 2021).
   Lo studio ha confrontando tre gruppi di popolazione:

  • individui che non erano stati precedentemente contagiati del SARS-CoV-2 e vaccinati con due dosi del vaccino BioNTech/Pfizer;
  • individui precedentemente infettati dal virus e non vaccinati;
  • individui precedentemente infettati e vaccinati con una singola dose; 

ed ha valutato quattro esiti:

  1. l’infezione da SARS-CoV-2,
  2. la malattia sintomatica,
  3. l’ospedalizzazione correlata alla COVID-19.
  4. il decesso.

Non sono stati valutati dati di laboratorio, ma attraverso quanto avvenuto realmente tra la popolazione di Israele si può rilevare che i vaccinati non infettati in precedenza con SARS-COV-2 avevano un rischio di 13.06 volte maggiore di infezione con la variante Delta rispetto a quelli precedentemente infettati naturalmente e anche un maggior rischio di sviluppare una malattia sintomatica.
   Ad oggi, non esistono certezze sulla durata della protezione indotta dalle vaccinazioni alle diverse varianti del virus, che va valutata non solo attraverso il dosaggio degli anticorpi, ma sul campo, nel mondo reale.
   Abbiamo oggi la conferma che la strategia migliore per uscire dalla pandemia è la COOPERAZIONE tra l’immunità artificiale degli anziani e dei fragili e l’immunità naturale del resto della popolazione.
   Non sussiste alcun motivo per sostenere l’utilità della vaccinazione dei bambini, se ancora vogliamo basarci sul metodo scientifico e sulla medicina basata sulle prove.

(Assis, 28 agosto 2021)


Algeria: l’antisemitismo pericoloso

di Francesco Piazza

Per l’esercito, i politici e i media algerini lo Stato d’Israele é qualificato come “l’entità sionista”.
   I ricorrenti attacchi linguistici contro Israele identificata come “entità sionista”, e che sarebbe corresponsabile insieme al Marocco di tutti i mali che colpiscono l’Algeria, sono infatti l’espressione di uno strisciante antisemitismo eretto nella dottrina di Stato, purtroppo ben radicata nel Paese e che si usa oggi in modo del tutto disinvolto per denunciare gli Accordi Abramitici firmati tra il Regno del Marocco, lo Stato di Israele e gli Stati Uniti d’America nel 22 dicembre scorso a Rabat.
   L’antisemitismo del regime algerino si è esacerbato all’indomani del riconoscimento del carattere marocchino del Sahara da parte degli Stati Uniti, ritenuto un vero e proprio affronto inflitto alle mire separatiste del Polisario appoggiato dalla giunta militare algerina, e per la ripresa delle relazioni tra Marocco e Israele. Giocando sulla manipolazione dei codici dell’ideologia nazista, fondata sulla falsità del pericolo giudaico in quanto minaccia al mondo, il Primo Ministro algerino, Abdelaziz Djerad, aveva evocato il 12 dicembre scorso “operazioni estere volte alla destabilizzazione dell’Algeria”, sottoineando che “gli indicatori erano ormai chiari in vista di ciò che sta accadendo alle frontiere”. In sostanza annuncia “una volontà di attaccare l’Algeria” con “l’arrivo dell’entità sionista alle nostre porte”.
   Una propaganda intrisa di antisemitismo che si ripeterà anche nella recensione pubblicata dall’esercito algerino, invitando gli algerini a “prepararsi” per difendere il loro paese.
   Persino all’indomani del linciaggio di Djamel Bensmail nel 15 agosto scorso, falsamente accusato di essere uno degli autori degli incendi che hanno devastato la Cabilia, il capo della diplomazia algerina, Ramtane Lamamra, ha cavalcato l’onda antisemita utilizzando le dichiarazioni del Ministro degli Esteri israeliano, Yaïr Lapid a margine della sua visita ufficiale in Marocco.
   Il Ministro israeliano ha poi espresso la sua preoccupazione per il ruolo “dell’Algeria nella regione, il suo riavvicinamento con l’Iran e la campagna che ha condotto contro l’ammissione di Israele come membro osservatore del Unione Africana”.
   Anche il Presidente algerino Abdelmadjid Tebboune non si è sottratto a questa ideologia antisemita presiedendo una riunione straordinaria del Consiglio Superiore di Sicurezza “dedicato alla situazione generale nel Paese in seguito ai recenti dolorosi eventi e agli incessanti atti ostili perpetrati dal Marocco e dal suo alleato, l’entità sionista, contro l’Algeria”, con l’ovvio riferimento ad Israele.
   Secondo lo storico francese e specialista del Maghreb Pierre Vermeren, l’origine della decisione del regime algerino di troncare le relazioni diplomatiche con Rabat è da ricercare negli eventi del mese di dicembre 2020. “Questa è la risposta algerina agli accordi abramitici e al riavvicinamento del Marocco con Israele”, ha affermato in una dichiarazione all’AFP mercoledì 25 agosto scorso.
   Tuttavia, il pericolo dell’antisemitismo in Algeria risale a molto prima degli accordi abramitici. Nel 2011, alla vigilia di una visita in Algeria dell’ex presidente della repubblica francese Nicolas Sarkozy, in un’intervista al quotidiano “El Khabar” il Ministro algerino Mohamed Cherif Abbas aveva accusato Sarkozy di essere al soldo di Israele, affermando che “Conosci le origini del presidente francese e i partiti che lo hanno portato al potere. Questo è stato il risultato di un movimento che riflette l’opinione dei veri artefici dell’arrivo al potere di Sarkozy, la lobby ebraica che ha il monopolio dell’industria in Francia”. Nella stessa intervista, poi cancellata dal sito del quotidiano, il Ministro aveva attaccato anche il cantante ebreo francese di origine algerina Enrico Macias, ritenendo “il suo arrivo insieme alla delegazione francese una provocazione”.
   Pochi ani dopo, il 1° novembre 2015, è apparso in rete un agghiacciante video che testimonia il disinvolto antisemitismo che imperversa anche all’interno dello stesso esercito algerino. Per galvanizzare le truppe durante un’esercitazione di marcia ordinata della gendarmeria nazionale algerina, cantano a gran voce un “appello a massacrare gli ebrei”, utilizzando il termine “alyahoud” ossia gli ebrei in lingua araba.
   In questa espressione del tutto disinibita dell’antisemitismo dell’esercito algerino, peraltro filmata in occasione di una festa nazionale per commemorare la liberazione di questo Paese, alla quale hanno preso parte molti ebrei algerini, si svela il volto orrendo di un regime pronto a negare la storia del territorio che governa e sconfessare coloro che hanno combattuto per la sua libertà.
   Secondo David Pollock, ricercatore del Washington Institute for Near East Policy, e JD Gordon, ex portavoce del Pentagono, l’uso della menzogna e l’antisemitismo persino nei media algerini mira a esportare le tensioni interne ai paesi vicini, per distogliere l’attenzione dalla grave crisi interna
   L’isteria provocata in Algeria dal ristabilimento dei rapporti tra il Regno del Marocco e lo Stato di Israele si spiega dunque anche con questo antisemitismo.

(MediterraNews, 28 agosto 2021)



L'esempio della formica

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 6.
  1. Va’, pigro, alla formica;
    considera le sue vie e diventa saggio!
  2. Essa non ha né capo,
    né sorvegliante, né padrone;
  3. prepara il suo nutrimento nell’estate
    e immagazzina il suo cibo al tempo della mietitura.
  4. Fino a quando, o pigro, te ne starai coricato?
    Quando ti sveglierai dal tuo sonno?
  5. Dormire un po’, sonnecchiare un po’,
    incrociare un po’ le mani per riposare...
  6. La tua povertà verrà come un ladro,
    la tua miseria, come un uomo armato.
  1. Va’, pigro, alla formica;
    considera le sue vie e diventa saggio!

    Nella Scrittura non mancano gli inviti a considerare il comportamento degli animali e in qualche caso a prenderne l'esempio (Giobbe 12.7, Isaia 1.3, Geremia 8.7, Matteo 6.26). Anche se non è facile (e molte volte nemmeno possibile, al di fuori degli esempi biblici) trarre precise indicazioni di vita dall'osservazione degli animali, è bene ricordare che l'ambiente naturale in cui l'uomo vive è stato creato e voluto da Dio, pur avendo subito la corruzione conseguente alla caduta. La forma parabolica dell'insegnamento del Signore Gesù è un invito a riflettere sui collegamenti esistenti tra fatti naturali e realtà spirituali. Nel caso della formica, per esempio, uno studioso tecnicamente preparato potrebbe dire molte cose interessantissime sul suo conto; ma dopo aver a lungo osservato il comportamento della formica dal punto di vista naturale, potrebbe chiedersi se Qualcun Altro stia osservando lui dal punto di vista spirituale. Se facesse così, la formica potrebbe diventare per lui, oltre che un oggetto di studio per aumentare la conoscenza scientifica, anche uno strumento nelle mani di Dio per arrivare ad una vera sapienza.

  2. Essa non ha né capo,
    né sorvegliante, né padrone;

    Il termine originale tradotto con sorvegliante è lo stesso usato per indicare i sorveglianti egiziani che angariavano gli ebrei nei loro lavori per il faraone (Esodo 5.6,10,14,15,19). Il saggio non considera quindi il lavoro come una schiavitù impostagli da qualche autorità esterna, ma, come la formica, è spinto al lavoro dalla forza stessa della sua vita. Se è vero che "non si vive per lavorare", è anche vero che non si lavora soltanto per vivere, cioè per procurarsi il minimo indispensabile per non morire. Il lavoro volutamente scelto o responsabilmente accettato è parte integrante della vita di una persona, espressione autentica della sua umana personalità.

  3. prepara il suo nutrimento nell’estate
    e immagazzina il suo cibo al tempo della mietitura.

    L'invito a imitare la laboriosità della formica, che nell'estate raccoglie il cibo che dovrà consumare durante l'inverno, sembra essere in contrasto con la parola di Gesù: "Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno" (Matteo 6.34). Gesù però vuole soltanto invitare i suoi discepoli a non lasciarsi prendere dall'ansia e dall'affanno per ciò che non dipende da loro. Nel suo orgoglio e nella sua mancanza di fede in Dio l'uomo vorrebbe poter dominare non solo il presente, ma anche il futuro (Luca 12.16-21), e quando comincia a temere di non riuscirci viene preso da sentimenti di paura. Da questa paura Gesù vuole liberare i suoi discepoli, invitandoli a preoccuparsi soltanto dell'oggi. Ma è chiaro che fa parte dei compiti dell'oggi anche lavorare (senza preoccuparsi) per impegni che riguardano il domani. In questo caso si tratta di ubbidienza a Dio, e non di mancanza di fede in Lui. 

  4. Fino a quando, o pigro, te ne starai coricato?
    Quando ti sveglierai dal tuo sonno?

    E' difficile che un pigro dica: "Questo non lo farò mai", perché anche una dichiarazione di questo tipo è impegnativa, e quindi richiede una certa fatica. Il pigro preferisce dire: "Forse lo farò domani". Ma domani si ritroverà davanti lo stesso problema, e le probabilità di reagire con la stessa risposta sono molto elevate. Si capisce allora la domanda: "Fino a quando...?"  Per vincere la pigrizia non basta decidersi a fare certe cose: si deve anche essere pronti a farle nel momento giusto.

  5. Dormire un po’, sonnecchiare un po’,
    incrociare un po’ le mani per riposare...

    Il pigro si conferma come persona che non ama le prese di posizioni troppo nette e decise. A chi vuole farlo alzare dal letto non risponde chiaro e tondo: "Lasciami stare, sono stanco, voglio rimanere a dormire tutto il giorno". L'espressione che si ripete continuamente è "un po'". Se possibile, vorrebbe continuare a dormire. Ma soltanto un po'. Se non può dormire, vorrebbe rimanere nel dormiveglia a sonnecchiare. Ma soltanto un po'. Se proprio deve svegliarsi, vorrebbe almeno non dover cominciare subito a lavorare, ma poter rimanere seduto a letto senza far niente e continuare a riposarsi. Ma soltanto un po'. E' una persona calma, il pigro. Per lui vanno tutti troppo di corsa. Che bisogno c'è di affrettarsi tanto? Il versetto che segue fornisce la risposta.

  6. La tua povertà verrà come un ladro,
    la tua miseria, come un uomo armato.

    Alla placida calma del pigro si contrappone la solerte velocità del suo nemico: la povertà (10.4).   Il pigro vorrebbe che tutto procedesse a rilento, e invece la miseria gli piomberà addosso come un uomo rapido (un ladro) e deciso a colpire (un uomo  armato). Il pigro vorrebbe che la realtà si adeguasse ai suoi desideri senza dover fare niente; ma dovrà toccare con mano che le cose non stanno così. "Il pigro desidera" dice altrove la Scrittura, "e non ha nulla" (13.4). Quando se ne accorgerà, si dovrà svegliare. Ma potrebbe essere troppo tardi. 

    M.C.

 

Biden promette a Bennet le stesse cose che Obama promise a Netanyahu

Ora anche Bennet sa cosa vuol dire non poter contare sul tuo migliore amico mentre il tuo peggior nemico si prepara a distruggerti

di Franco Londei

L’Iran non avrà mai armi nucleari. La promessa arriva dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ed è rivolta al popolo israeliano per tramite del suo Primo Ministro, Naftali Bennet.
   Se fallisce la via diplomatica gli Stati Uniti hanno altre opzioni sul tavolo pur di non permettere all’Iran di dotarsi di armi nucleari Anche questa promessa arriva da Joe Biden, formulata durante il colloqui di ieri con il Premier israeliano.
   È una specie di “déjà vu” quello vissuto ieri con la visita del Premier israeliano, Naftali Bennet, a Washington, un bruttissimo déjà vu perché ricorda tantissimo le promesse fatte a suo tempo da Barack Obama a Benjamin Netanyahu. E abbiamo visto come è andata a finire.
   La situazione, se possibile, è addirittura peggiore perché quando Obama fece quelle promesse a Netanyahu l’America era ancora una potenza credibile. Oggi, dopo la fuga dall’Afghanistan, non ha neppure la credibilità per lanciare minacce.
   Rassicurante che Bennet nel ringraziare il Presidente Biden per il grande supporto americano alla difesa di Israele (davvero molto grande) abbia aggiunto che «Israele non delegherà mai la sua sicurezza agli Stati Uniti». Sembrava un’allusione al fatto che all’Iran ci avrebbero pensato gli israeliani.
   Per il resto è tutta roba vecchia intrisa da uno stucchevole atteggiamento anti-Netanyahu del tipo che l’America e Israele sono “tornati migliori amici” dopo che non c’è più l’ex Premier. Che adesso, per gli stessi motivi, Israele è tornato ad essere un “partner affidabile” ecc. ecc.
   Ora, è tutto molto bello, tutto molto sfavillante, tuttavia i problemi rimangono. Biden, in sostanza, ha confermato che con l’Iran intende mantenere la via diplomatica al di sopra di qualsiasi altra opzione.
   Certo, ha promesso che se la via diplomatica dovesse fallire ci sono altre opzioni. Ma mai ha nominato o almeno accennato al fatto di ricorrere ad opzioni “di forza”.
   E il tempo corre veloce. L’Iran è a poche settimane dall’avere abbastanza materiale fissile per una bomba.
   Bennet è volato a Washington sperando di ottenere qualcosa di più che la conferma della via diplomatica con l’Iran e vaghe promesse sul dopo nel caso dovesse fallire.
   Ora anche Bennet sa cosa vuol dire non poter contare sul tuo migliore amico mentre il tuo peggior nemico si prepara a distruggerti.

(Rights Reporter, 28 agosto 2021)


Antisemita già da giovane socialista, così Mussolini aprì la strada a Hitler

In uno scritto del 1910 esaltava la teoria pangermanista della "razza bionda". Sosteneva che gli ebrei con la loro ricchezza volevano prendersi la rivincita sugli ariani.

di Mirella Serri

La signora Elisa Fuà «durante un veglione ... tradì la fedeltà coniugale con un ariano»: l'industriale Oscar Morpurgo, divenuto così figlio illegittimo, concepito fuori del matrimonio, di un papà ariano, sfuggì alla rete della persecuzione antiebraica. Con decreto del 3 giugno 1941, al ricco ebreo anconetano, che assieme alla famiglia aveva sempre dichiarato la sua fedeltà alla dittatura, fu concesso di essere «discriminato» e «di essere classificato non rientrante nella categoria dei giudii».
  Morpurgo era un noto finanziere e un imprenditore: la discriminazione mise a rumore la pubblica opinione. La stampa di regime attivò un battage antisemita per dimostrare la falsità del presunto tradimento della mamma di Morpurgo. Il decreto che salvava Oscar fu annullato. Chi si preoccupò di dirimere la controversia e di occuparsi della pratica? Il Duce in persona. Siglò il documento con una «M» tracciata con la matita blu. L'iniziale del suo cognome sulle carte che decidevano la sorte degli israeliti aveva un preciso significato: a volte indicava la necessità di ulteriori ricerche e molte altre volte siglava la definitiva assegnazione alla «razza ebraica».
  A portare alla luce le «M» fino a oggi inedite di Mussolini, che finivano per indirizzare i cittadini israeliti verso un fatale destino, è Giorgio Fabre nel libro Il razzismo del duce. Mussolini dal ministero dell'Interno alla Repubblica sociale italiana (Carocci editore, pp. 549, €49), scritto con la collaborazione di Annalisa Capristo. Fabre smentisce la vulgata, diffusa per anni, che Mussolini non avrebbe dato un personale contributo alla destinazione finale degli ebrei. Al contrario, il leader fascista fu assai attivo e si occupò direttamente dei rapporti che designavano l'appartenenza razziale.
  Avvenne nel caso di Morpurgo, a cui il capo del governo era anche molto legato: l'industriale fu deportato. Salì sul medesimo treno dell'attuale senatrice Liliana Segre e finì ad Auschwitz, e dal 26 febbraio 1945 di lui non si ebbero più notizie. Non solo: fin dal 1938 il Duce si dedicò a dar vita a un «razzismo ministeriale e di Stato», osserva Fabre. Lo studioso fa emergere i documenti dell'organizzazione da parte di Mussolini - nei mesi che precedettero la legislazione razziale - di un'efficiente macchina statale che alimentò un razzismo burocratico di cui fino a oggi assai poco è stato raccontato.
  Con un decreto emesso il primo giugno 1938 il capo del governo istituì la commissione che doveva varare provvedimenti legislativi riguardanti «la difesa della razza italiana». I commissari erano sei e a loro poi si aggiunse Gaetano Azzariti, presidente del cosiddetto «tribunale della razza» che faceva capo alla Direzione generale per la Demografia e la Razza, la Demorazza. I solerti funzionari, di cui Fabre ricostruisce le biografie, ricevevano 25 lire per ogni riunione.
  L'ostilità agli ebrei di Mussolini, osserva lo studioso che si è occupato dell'argomento anche in ricerche precedenti, aveva origini lontane. Fin dal 1910, l'allora giovane socialista esaltava la teoria «pangermanista» della «razza bionda». Successivamente, catturato dalle teorie di Friedrich Nietzsche, più volte scrisse e ribadì, sulle orme del pensatore tedesco, che gli ebrei con la loro ricchezza e prepotenza «si prendevano una rivincita contro la razza ariana che li aveva condannati alla dispersione per tanti secoli». Quando il dittatore dovette confrontarsi con Alfred Rosenberg, il teorico più amato da Hitler per le speculazioni sui «popoli africani», considerati «una razza inferiore al pari degli ebrei», riprese in mano i propri scritti giovanili. Lo fece per dimostrare, dati alla mano, che il suo razzismo era antecedente e differente da quello dell'alleato germanico.
  La sperimentazione antisemita e la cacciata degli ebrei dai pubblici uffici fu messa in atto fin dal 1934. A fianco del Duce, a diramare circolari antiebraiche, erano il sottosegretario al ministero dell'Interno (il cui scranno era occupato dal Duce) Guido Buffarini Guidi e il capo della polizia Arturo Bocchini: dinamici e pronti a obbedire agli ordini, comandavano ai prefetti di effettuare controlli e di privare i singoli ebrei, non di rado fascisti della prima ora, degli incarichi di dipendenti o di stipendiati dallo Stato.
  Il «razzismo segreto», fatto di vessazioni individuali, scorreva in parallelo a quello pubblico. Nel dopoguerra tanti illustri componenti di commissioni e sottocommissioni, come Azzariti, riuscirono abilmente a sfuggire all'epurazione. Addirittura sostenendo di aver avuto, con il loro ruolo istituzionale, una funzione di protezione nei confronti degli ebrei. Azzariti negli anni in camicia nera confermò ripetutamente la sua avversione nei confronti dei «giudei» e si prodigò per le loro condanne. Dopo la fine del conflitto, però, collaborò addirittura con Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia. Per giunta nel 1955 venne nominato giudice costituzionale dal Presidente Giovanni Gronchi. Ancor più grave è il fatto che pure il coinvolgimento e le pesanti implicazioni di Mussolini negli arresti e nei trasferimenti nei Lager degli ebrei sono state per decenni ricacciate nell'ombra. Una verità che ora, dopo le carte fatte emergere da questa importante ricerca, non si può più negare.

(La Stampa, 28 agosto 2021)


Con Bibi il Mossad lasciò “al buio” la Cia di Biden. E ora?

Il New York Times rivela che nei mesi passati l’intelligence israeliana ha ignorato le richieste di aiuto Usa sull’Iran a causa dei dubbi dell’ex premier verso il nuovo inquilino della Casa Bianca. Ora tocca a Bennett.

di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi

La rete di informatori della Cia in Iran è stata in gran parte persa a causa delle operazioni di controspionaggio brutalmente efficienti di Teheran. L’intelligence statunitense, troppo al buio in un Paese considerato ostile, aveva chiesto sponda a Israele, che ha per diverso tempo supportato gli alleati americani. Poi però, con l’inizio dell’amministrazione di Joe Biden, per volontà dell’ex primo ministro Benajamin Netanyahu, è stata più fredda. Lo rivela un articolo informato del New York Times, uscito poche ore prima dell’incontro di giovedì – poi rinviato a venerdì a causa dell’attentato a Kabul, in Afghanistan – tra l’attuale premier israeliano, Naftali Bennett, e il capo della casa Bianca. Nelle scorse settimane, come raccontato su Formiche.net, un faccia a faccia tra i vertici dell’intelligence aveva preparato il terreno alla visita di Bennett negli Stati Uniti.
   Duro con l’Iran ma più dialogante con gli Stati Uniti (rispetto al predecessore): questa la linea annunciata da Bennett prima dell’arrivo a Washington e già evidenziato dal suo ministro degli Esteri, Yair Lapid, durante l’incontro di giugno a Roma con l’omologo statunitense, Antony Blinken.
   Il dialogo degli Stati Uniti con Israele, nei mesi di convivenza tra Biden e Netanyahu, ha poggiato su due pilastri che hanno compensato la fine di un rapporto diretto tra i leader com’era con Donald Trump alla Casa Bianca: il presidente di Israele (prima Reuven Rivlin, oggi Isaac Herzog, ex laburista con importanti rapporti internazionali) e il Mossad.
   Infatti, se Netanyahu non è mai stato invitato alla Casa Bianca da Biden, a fine aprile Yossi Cohen, suo fedelissimo e allora capo del Mossad, era stato ricevuto dal presidente statunitense. “L’importanza degli appartati, su tutti quello dell’intelligence, in Israele è cruciale: i governi passano, la politica vive un perenne disequilibrio, mentre le strutture guidano lo Stato”, sottolineavamo. “Segno evidente che questo tipo di interlocuzione resta viva anche con la Washington democratica di Joe Biden, mentre cambia la postura nei confronti di Netanyahu”.
   La condivisione di informazioni di intelligence è alla base delle relazioni tra due Paesi, fondamentalmente connesse al quadro ampio della sicurezza, all’interno del quale rientrano anche elementi di carattere strategico come la cooperazione su settori hi-tech e finanziari. Israele è un moltiplicatore per le capacità statunitensi di infiltrarsi e raccogliere info tra rivali e partner nella regione e non solo (Washington e Gerusalemme cooperano per esempio anche in Sudamerica, dove interessi connessi all’Iran sono attivi e dove c’è un’ampia comunità ebraica).
   Ora il vantaggio israeliano riguarda la presenza sul campo. Il Mossad può contare su una più forte human-intelligence, che gli ha permesso di portare a termine operazioni come l’uccisione del fisico nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh oppure il sabotaggio  di aprile all’impianto atomico di Natanz, a Sud di Teheran. In quest’ultima occasione, secondo le fonti del New York Times, gli Stati Uniti furono avvisati all’ultimo minuto. Netanyahu voleva evitare qualsiasi genere di interferenza: le temeva perché sapeva che Biden stava spingendo molto sulla ricomposizione dell’accordo Jcpoa.

(Formiche.net, 27 agosto 2021)


Intesa Biden-Bennett: “L’Iran va fermato, esporta terrorismo”

Prima visita del neo premier israeliano a Washington. Il presidente Usa: “Mai l’atomica a Teheran”

di Anna Lombardi

NEW YORK - Isaia 49:18: "Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si radunano, vengono da te...". Il premier israeliano Naftali Bennett ha iniziato così, con una citazione biblica, l'atteso incontro di ieri a Washington con il presidente americano Joe Biden. Bilaterale slittato di un giorno per colpa del grave attacco di giovedì a Kabul che ha costretto il Commander-in-chief a trascorrere la giornata nella Situation Room coi consiglieri militari. Una citazione profetica, certo, omaggio a quella fatta dal presidente Usa in onore dei marines uccisi, solo poche ore prima, quando sempre citando Elia (6:8) Biden aveva detto: "Ho sentito il Signore chiedere: "Chi andrà per noi?". Ho risposto: "Sono qui. Prendi me". Ma anche il modo di Bennett per riaffermare la profonda amicizia fra i due paesi: "Quel passaggio significa che i figli del popolo ebraico torneranno alla loro terra. Un'antica profezia, oggi realtà di Israele. Anche grazie all'importante ruolo in tal senso avuto da lei, signor presidente, per così tanti anni", ha detto, strappando un sorriso a Biden: "Già, molti anni. Ho conosciuto ogni vostro capo di governo a partire da Golda Meir".
   Sì, è andato decisamente bene l'incontro fra i leader dei due paesi, "faro di un mondo molto tempestoso", secondo la definizione data dall'israeliano nel corso dei colloqui. Avvenuti nonostante siano entrambe pressati dal particolare momento affrontato: la disastrosa uscita dall'Afghanistan per il presidente Usa. E il tentativo di evitare l'ennesima escalation di tensioni a Gaza, cercando allo stesso tempo di tenere in piedi la maggioranza risicata e disomogenea per il neo premier israeliano.
   Una sintonia importante per i due, bisognosi di prendere le distanze dal forte legame esistente fra i loro predecessori, Donald Trump e Benjamin Netanyahu. In qualche modo perfino rafforzata dall'attentato del giorno precedente. Con Bennett ad offrire fin da subito sostegno all'amico americano telefonandogli per primo, come poi ribadito quando i due si sono finalmente stretti la mano nello Studio Ovale, con un'ennesima mezz'ora di ritardo rispetto al programma: "Sappiamo bene come vi sentite. Israele è circondata. Intorno a noi ci sono Isis, Hezbollah, Hamas e vogliono tutti la morte degli israeliani. Dobbiamo darci fiducia e sostegno". Naturalmente, è soprattutto di Iran che si è discusso. Giacché pure se la linea del nuovo primo ministro, diverge da quella di Netanyahu, nella sostanza non cambia: Teheran mina la sicurezza di Israele e dei suoi alleati arabi, "è il primo esportatore di terrorismo e va fermato". Biden, l'ha subito rassicurato: "Preferiamo ancora la via diplomatica, ma se fallirà ci saranno altre opzioni. Non gli permetteremo mai di acquisire l'arma nucleare".
   In agenda, oltre ai rapporti con la Cina e la questione delle relazioni con i palestinesi, anche gli aiuti militari americani, ovvero le forniture americane del nuovo sistema anti-missile Drome. E la questione vaccini, con Israele che ha già somministrato la terza dose a tre milioni di persone. Sì, un incontro all'ombra del sangue versato in Afghanistan, che sembra proprio un nuovo inizio per i rapporti fra i due Paesi.  

(la Repubblica, 28 agosto 2021)


Vertice Usa-Israele, Bennett chiederà a Biden linea dura sul nucleare iraniano

L'incontro si sarebbe dovuto tenere ieri, ma è stato spostato a oggi per l'attentato all'aeroporto di Kabul. Gerusalemme si oppone al rientro degli Stati Uniti nell'accordo Jcpoa abbandonato da Trump. “Stiamo formando una coalizione di Paesi arabi ragionevoli che, insieme a noi, respingerà e bloccherà le mire espansionistiche di Teheran”, ha detto il premier israeliano in un'intervista al New York Times.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME – Mentre l’Amministrazione Biden è sommersa dalla crisi afghana, il premier israeliano Naftali Bennett - atterrato mercoledì a Washington - terrà oggi il primo faccia a faccia con il presidente Joe Biden. L'incontro si sarebbe dovuto tenere ieri, ma è slittato a causa dell'attentato all'aeroporto di Kabul. Si tratta del primo vertice bilaterale con un’amministrazione Usa non guidato da Benjamin Netanyahu, che, dopo 12 anni ininterrotti di governo, a giugno è stato sostituito da un nuovo esecutivo di larghe intese frutto della coalizione di otto partiti con posizioni diametralmente opposte.
  La priorità della missione dichiarata da Bennett - al centro anche dei colloqui tenuti l'altroieri con il segretario di Stato Antony Blinken e con il segretario alla Difesa Lloyd Austin – è affrontare la questione del nucleare iraniano. Israele – e su questo il nuovo governo mantiene la linea del precedente – si oppone fermamente al rientro degli Stati Uniti nell’accordo Jcpoa, abbandonato da Trump nel 2018 dopo forti pressioni esercitate da Netanyahu. Ma la seconda priorità di Bennett è prendere le distanze dalla politica adottata dal premier più longevo della storia dello Stato ebraico, che non ha lesinato critiche aperte all’amministrazione Obama – di cui Biden era vicepresidente – sostenendo fermamente invece il presidente Trump, portando negli anni a un’incrinatura delle relazioni tra Israele e il Partito democratico. “Porto con me da Gerusalemme un nuovo spirito di cooperazione”, ha detto Bennett poco prima di imbarcarsi per gli Stati Uniti.
  Barak Ravid, corrispondente diplomatico di Walla!, ha scritto che, durante un briefing con la stampa israeliana a Washington, alti funzionari dell’amministrazione Biden hanno espresso apprezzamento per le dichiarazioni di Bennett secondo cui “negli ultimi due, tre anni vi è stato un avanzamento significativo del programma nucleare iraniano”, perché sono indice del fatto che il nuovo governo israeliano lega il progresso di Teheran nell’arricchimento dell’uranio alla decisione di Trump di abbandonare il Jcpoa. “Il nostro impegno è per il percorso diplomatico, che reputiamo la strada migliore per riportare indietro il programma nucleare iraniano”, hanno aggiunto i funzionari nel briefing a porte chiuse, “ma se la diplomazia non funzionerà, esistono altre strade”. Negli stessi momenti, in Israele il capo di Stato maggiore Aviv Kohavi annunciava che “Israele sta accelerando i propri programmi operativi contro l’Iran a causa del progresso del programma nucleare iraniano della Repubblica Islamica”. Bennett vorrebbe ottenere da Biden l’impegno Usa affinché Teheran “non ottenga mai” il nucleare e non “durante il mio mandato”, come dichiarato recentemente da presidente.
  All’ombra delle immagini angoscianti che arrivano da Kabul e delle prospettive di ritiro americano dalla regione, Bennett si presenta come un delegato anche a nome delle forze mediorientali dell’asse anti-sciita e anti-fratelli musulmani: Egitto e Giordania, ma anche i Paesi che si sono consolidati intorno agli Accordi di Abramo stipulati tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan per l’iniziativa di Trump e Netanyahu, ma che estendono la propria influenza anche all’attore principale dell’area, l’Arabia Saudita. “Quello che stiamo facendo è formare una coalizione regionale di Paesi arabi ragionevoli che, insieme a noi, respingerà e bloccherà le mire espansionistiche dell’Iran”, ha detto Bennett in un’intervista al New York Times in vista del vertice. “Noi possiamo essere il faro nella tempesta”, ha aggiunto.
  Tuttavia, per quanto si parli di toni più conciliatori tra le due amministrazioni, esistono ancora diversi nodi. Bennett è il primo premier israeliano che ha servito in passato come capo del Consiglio Yesha, l’organizzazione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania ed è un fermo oppositore alla creazione di uno Stato palestinese, nonché in passato fautore della necessità di annettere parte dei Territori Palestinesi allo Stato ebraico. Programmi che Bennett non intende avanzare, alla luce della coalizione eterogenea che si trova a guidare (che unisce, tra gli altri, esponenti della destra nazionalista, il partito islamista Ra’am e la sinistra pro-concessioni di Meretz). “Questo governo farà progressi importanti nell'economia, ma non pretende di risolvere 130 anni di conflitto”, ha detto Bennett al New York Times. “Questo governo non annetterà né formerà uno Stato palestinese. Sono il primo ministro di tutti gli israeliani e quello che sto facendo ora è cercare di trovare una via di mezzo: come possiamo concentrarci su ciò su cui siamo tutti d'accordo”.
  Bennett ha anche detto che non intende fermare le costruzioni negli insediamenti, ma solo “per garantire le necessità dettate dalla crescita naturale”, e sul fronte di Gaza sta adottando una politica più dura di quella dei precedenti governi Netanyahu, rispondendo con bombardamenti anche al lancio dei palloncini incendiari o a lanci sporadici di razzi. Nonostante queste divergenze con l’amministrazione Biden, la valutazione è che la questione palestinese non sia in cima all’agenda del nuovo presidente Usa e che questi preferisca chiudere un occhio per non mettere a rischio la tenuta del governo Bennett, di gran lunga preferito a uno a guida Netanyahu.

(la Repubblica, 27 agosto 2021)


Da Israele una legnata al green Pass

Un nuovo studio prova che l'immunità naturale protegge fino a 13 volte di più di quella acquisita con la puntura: assurdo, quindi, accordare privilegi a chi ottiene la carta verde.

di Alessandro Rico

Israele non smette di riservare sorprese. Uno studio, condotto nel Paese mediorientale, supervisionato dal Maccabi healthcare services e ora in attesa di revisione paritaria, dimostra che, in presenza della variante Delta, i vaccinati con due dosi, mai venuti in contatto con il Sars-Cov-2, rischiano 13 volte di più di infettarsi, rispetto a chi è già stato positivo nei mesi in cui la Delta non dilagava in Israele. Le evidenze provano anche che, in quei soggetti, aumenta sensibilmente il rischio di sviluppare dei sintomi. La conclusione, tratta dagli stessi autori della ricerca, è che «l'immunità naturale conferisce un protezione più duratura e più forte contro infezione, malattia sintomatica e ricovero provocati dalla variante Delta», a paragone con l'immunità acquisita sottoponendosi al doppio «shot» di vaccino.
   Nel dettaglio, gli scienziati hanno confrontato tre gruppi: gli immunizzati con due dosi mai contagiati, gli individui precedentemente infettati e non vaccinati e quelli che, in seguito al contagio, avevano ricevuto una dose di vaccino. Ne è emerso che i vaccinati non precedentemente infettati avevano un rischio maggiore di 13,06 volte d'infettarsi con la variante Delta, rispetto a quelli già infettati tra gennaio e febbraio 2021. Allungando il periodo di riferimento ai mesi tra marzo 2020 e febbraio 2021, si è constatato un affievolimento dell'immunità naturale, ma comunque, i vaccinati mai contagiati rischiavano 5,96 volte in più d'infettarsi e 7,13 di ammalarsi. Ed erano più esposti ai ricoveri rispetto ai soggetti entrati in contatto con il Covid in precedenza.
   Ma allora, su che base scientifica è stato concepito il green pass all'italiana? Mario Draghi aveva giurato che il foglio verde avrebbe offerto la «garanzia di trovarsi tra persone che non sono contagiose». Falso, se il documento, anziché in virtù di un tampone negativo, viene rilasciato in seguito all'inoculazione del farmaco anti coronavirus. Non soltanto non c'è alcuna assicurazione che il vaccinato non sia positivo e contagioso, ma, addirittura, egli ha difese molto più fragili da infezione e sintomi della malattia, rispetto a chi ha acquisito l'immunità naturalmente. Che senso ha, quindi, conferire ai possessori del fantasmagorico lasciapassare uno status privilegiato? Alla fine, ha ragione chi, come Andrea Crisanti o Matteo Bassetti, ha subito gettato la maschera: il green pass non serve a prevenire i contagi, bensì a costringere la gente a vaccinarsi.
   Lo studio israeliano, peraltro, proietta ulteriori ombre sulla rincorsa a inoculare i ragazzini, che corrono pochissimi pericoli se contraggono il Covid e che, incrociando il Sars-Cov-2, maturerebbero un'immunità più stabile e durevole di quella offerta dai vaccini. Si teme che, distogliendo gli aghi dai minori, il virus circoli in modo tanto sostenuto da generare ulteriori varianti? Finto problema: primo, come sta accadendo in Israele, che viaggi sui 10.000 casi al dì, il virus Delta circola anche con la stragrande maggioranza della popolazione vaccinata (e il green pass non può arginarlo); secondo, è altamente improbabile che una variante pericolosa emerga in Italia.
   Dove, però, esperti e decisori politici sono inclini a ribellarsi alla logica. E così, ora si discute di prolungare da nove a 12 mesi la validità del pass verde, mentre, sempre da Israele (dove la mortalità sta sì scendendo tra i vaccinati e la terza dose sta ravvivando gli anticorpi sopiti), si apprende che l'immunità acquisita con i vaccini, vuoi fisiologicamente, vuoi per il ceppo indiano, cala dopo sei mesi. Il sonno della ragione genera Covid.

(La Verità, 27 agosto 2021)



 Per me il vivere è Cristo
 e il morire, guadagno.


Filippesi 1.21       

 


I buchi neri dopo Kabul

Gli Stati Uniti hanno bisogno di Israele, il "non Afghanistan".

di Micol Flammini

ROMA - E' finita un po' sottosopra la visita di Naftali Bennett a Washington, tanto attesa, tanto necessaria, arrivata in un momento difficilissimo, infine rimandata a oggi. Joe Biden rinchiuso nella Situation Room dopo la notizia degli attentati suicidi all'aeroporto di Kabul, aveva fuori dalla porta uno dei suoi alleati più importanti, arrivato alla Casa Bianca proprio per fargli capire che l'amicizia tra Israele e Stati Uniti in questo momento è più necessaria che mai. "I rapporti tra Gerusalemme e Washington -ha detto al Foglio Gil Troy, editorialista del Jerusalem Post e professore presso la McGill University di Montreale - sono sempre stati altalenanti. E' un rapporto che va a momenti, ma l'amicizia di fondo rimane". Era rimasta anche con tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu, nonostante tutte le divergenze e "i problemi di chimica che nascevano tra due uomini che volevano sempre il centro della scena. Non era un problema ideologico, ma appunto di chimica". Dopo la freddezza tra Netanyahu e Biden appena insediato, con l'arrivo di Bennett come primo ministro a capo di una coalizione nata per escludere proprio Netanyahu, si pensava che i rapporti potessero migliorare e questa visita era la grande occasione. Ma in realtà Bennett, ideologicamente, è molto vicino all'ex premier israeliano e Biden a Obama, quindi le divergenze dovrebbero rimanere. Ma Troy ribadisce: "Sono anche i toni che contano e da questo punto di vista Bennett è partito bene".
  Biden ha bisogno di farsi vedere presente con i suoi alleati, di stringere loro la mano e rassicurarli, e in questo non può fare a meno di Israele, che Troy definisce il non Afghanistan: "La corruzione endemica dell'Afghanistan ha generato un esercito vuoto senza motivazione per combattere i talebani. Al contrario, la democrazia israeliana ha creato un esercito forte, orgoglioso e indipendente che difende coraggiosamente gli israeliani e la democrazia in tutto il mondo. Gli israeliani apprezzano la nostra amicizia americana che è reciprocamente vantaggiosa, ma sentono che spesso manca il sostegno dell'America". E l'Afghanistan in questo ha amplificato la paura. "Se gli Stati Uniti vengono umiliati allora lo è anche l'occidente, se l'occidente è umiliato il timore è che presto potrebbe esserlo anche Israele. A Gerusalemme dispiace se Washington prende una batosta, ma soprattutto ora si chiede cosa stia accadendo, quanto l'America sia affidabile". A fare da soli, a non contare sugli americani, gli israeliani stanno facendo l'abitudine da tempo, la domanda è se sia davvero possibile.
  Nonostante il disastro afghano, per Troy è ancora presto per giudicare Biden, finora, dice l'editorialista, si è sempre preso le sue responsabilità e questo è positivo. "Tutto può essere risolto da una buona leadership". Gli Stati Uniti si sono allontanati anche dalle battaglie dell'occidente, si sono dimenticati di traumi passati, di minacce, come quella dell'islam radicale. Il problema è stato sollevato anche dall'ex premier britannico Tony Blair in un articolo pubblicato sul sito del suo Institute for global change e anche Gil Troy è d'accordo: "L'occidente deve realizzare che ha bisogno di una società forte, che c'è uno scontro di civiltà e se l'occidente non è forte nell'affrontarlo, se perde l'obiettivo, il rischio è grande". Israele l'obiettivo non l'ha perso. Né con Netanyahu, né con Bennett.

Il Foglio, 27 agosto 2021)


Kabul è solo l'inizio, ci saranno altri attacchi. Ma seminare il terrore fa il gioco del regime

L'esperto: ora Isis e al Qaeda cercano spazio nel Paese. Il caos rafforzerà anche le milizie.

di Fiamma Nirenstein

Efraim Inbar è uno dei più famosi mediorentalisti del mondo, per 23 anni è stato direttore del BESA, Begin Sadat Center for Strategic Studies, professore oltre che all'Università Bar Ilan anche alla John Hopkins e alla Georgetown University, consigliere strategico dei vari governi israeliani e oggi presidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security.

- Allo scenario della tragica evacuazione dall'Afghanistan oggi si aggiunge l'assalto terrorista, forse dell'Isis. E' di poche ore fa la strage all'aeroporto. Di che si tratta professore? L'Isis cerca un suo spazio? Blocca la già impervia, quasi impossibile uscita da qui al 31 agosto?
   «Una cosa è chiara: questa strage, al lato dalla difficilissima evacuazione americana, è un altro passo nella strada della umiliazione globale americana, promette ulteriore difficoltà, altri attacchi terroristi. Mette l'America sempre più in ginocchio. Questo è nell'interesse di qualsiasi gruppo terrorista islamista. Non sappiamo se qui si tratta veramente dell'Isis. Questa organizzazione al momento non è particolarmente forte, difficile immaginarsi che voglia entrare in un gioco di concorrenza coi Talebani, forse cerca un po' di spazio».

- Quindi anche se adesso è stata l'Isis a compiere questo attentato, non sarà questa organizzazione a tornare al centro della scena in Afghanistan nel prossimo futuro.
   «È uno dei gruppi che, fra spinte ideologiche, tribali, etniche, cerca spazio: c'è una bella guerra contro l'Occidente, naturalmente l'Isis, al Qaeda vogliono esserci. Ma teniamo invece a mente che il terrore fa il gioco dei talebani, sia perché questo gesto violento aggiunge alla umiliazione americana e quindi certifica la sua strategia internazionale, sia perché l'oscuro messaggio di terrore consolida la sua presa sulla società Afgana, la riempie di paura, la paralizza come i Talebani avevano da tempo pianificato».

- Ma per molti anni sono stati tenuti con successo all'angolo dalla presenza americana.
   «Sì, finché è stata massiccia e armata. Ma l'illusione di democratizzare, occidentalizzare una società islamica è destinata al fallimento: quando gli americani hanno messo le mani in Egitto, è subito uscita fuori la Fratellanza Musulmana; con i palestinesi hanno dato forza a Hamas, in Tunisia si è creato il caos islamista con le elezioni. Non è vero che ogni uomo desidera la libertà. Desidera la pace e il benessere. Nel caos, sopraggiungono i Talebani, si armano, prendono il potere, come a Gaza arriva Hamas, e in Libano Hezbollah».

- Allora bisogna restare per sempre?
   «Gli Usa avevano deciso di andarsene dai tempi di Obama, non di Trump come ora scrivono in parecchi. Avevano ragioni importanti per farlo, legati all'invecchiamento degli armamenti, alla spesa enorme, alla necessità di impegnarsi nel contrastare la Cina, ai problemi americani interni. Biden ha fatto quello che l'America chiede da molto tempo».

- Ma hanno fatto le cose in modo disgraziato, disumano, scoordinato. Dopo il generale biasimo umano e politico ancora confermerebbero questa politica?
   «Bisogna scontare il piacere che prova la stampa a biasimare l'America. L'ha sempre desiderato. Certo, qui ce ne sono ragioni serie, Biden ha agito in maniera disordinata, debole, priva di rete di sicurezza. Adesso deve sgomberare in fretta e concludere con la deadline fissata, e poi via, chi c'è c'è. Si immagini se oltre alle bombe, gli Afgani adesso offrissero questo spettacolo: un talebano spara un missile Estrella, quelli che la Cia aveva loro fornito contro i russi, e abbatte un aereo di profughi. Biden non vuole affrontare questo possibile guaio, e quindi corre per rispettare il 31 di agosto».

- E fa male?
   «Biden doveva fare quello che sempre si deve fare quando si abbandona il terreno in Medio Oriente: una sventola sonora, un attacco che mettesse i talebani in ginocchio e gli facesse passare la voglia di scontrarsi con gli Usa. Anche noi abbiamo fatto lo stesso errore a Gaza e in Libano: se te ne vai senza creare deterrenza, l'invito a colpire senza pagare pegno sarà sonoro».

(il Giornale, 27 agosto 2021)


Perché l’Italia non deve partecipare a Durban 20

Presenziare ai lavori infliggerebbe un vulnus alla stabilità regionale, alla sicurezza internazionale e alla democrazia liberale, offrendo la copertura reputazionale di Roma alla delegittimazione dello Stato ebraico. 

di Bepi Pezzulli

Australia, Austria, Canada, Germania, Francia, Israele, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, UK, Ungheria e Usa hanno annunciato che non parteciperanno al 20mo anniversario della Conferenza di Durban programmato per il 22 settembre, durante la sessione di apertura dell’Assemblea Generale dell’Onu. Le maggiori democrazie occidentali avevano già dato forfait a Durban II, nel 2009 a Ginevra, e a Durban III, nel 2011 a New York.
   Questo perché la I Conferenza di Durban fu un evento spregevole. Il 31 agosto 2001, poco prima degli attentati terroristici dell’11 settembre, quella che doveva essere l’iniziativa universale della comunità internazionale contro il razzismo, si trasformò in un atto d’accusa contro il sionismo, lo Stato di Israele, e il popolo ebraico.
   Irwin Cotler, ministro della Giustizia e procuratore generale del Canada, scrisse: “Se l’11 settembre è stato la Kristallnacht del terrorismo, Durban è stata la sua Mein Kampf“.
   Durban I fu un palcoscenico di ribalta per il dittatore cubano Fidel Castro e al leader dell’OLP Yasser Arafat. Il primo denunciò “il terribile genocidio perpetrato contro i fratelli palestinesi”; mentre il secondo si scagliò contro “le pratiche razziste del sionismo”. I lavori posero le basi teoriche dell’antisemitismo contemporaneo; il documento finale fu usato per attaccare lo Stato di Israele e fabbricare la narrativa “sionismo uguale razzismo”. Nel Forum delle ONG vennero posti in vendita I protocolli dei Savi di Sion e migliaia di persone parteciparono ad una marcia guidata dai palestinesi, dove un cartello recava scritto “Hitler avrebbe dovuto finire il lavoro”. Fondamentalmente, Durban elaborò la strategia della disinformazione antisionista e sviluppò la formula retorica per la manipolazione del  discorso pubblico: da allora, gli ebrei non sono più odiati in nome del razzismo, ma in nome dell’antirazzismo.
   Durban II offrì una piattaforma al presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad che usò il discorso di apertura dei lavori per condannare Israele come “totalmente razzista” e accusare l’Occidente di usare l’Olocausto come “pretesto” per l’aggressione contro i palestinesi. La versione inglese distribuita del discorso si riferiva all’Olocausto come una “questione ambigua e dubbia”.
   A Durban III occorse un miracolo: il sottosegretario saudita per gli affari multi-relazionali non si è mai presentato, ma l’ONU caricò comunque il suo “discorso” sul sito della manifestazione. Queste furono le parole del principale praticante mondiale dell’apartheid di genere e del paese che criminalizza le manifestazioni religiose diverse da quelle dell’Islam: “il più alto grado di razzismo e discriminazione (…) l’illustrazione più chiara di tale discriminazione razziale globale è (…) contro il popolo palestinese”.
   Le conseguenze di Durban si irradiano ad oggi. Durante l’operazione Guardiani delle mura, numerose voci dall’interno dell’UE e dall’Italia hanno simpatizzato con le posizioni di Hamas, un’organizzazione terroristica, accusando Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente, di essere un regime di apartheid. E’ ironico che a poche settimane dalla cessazione delle ostilità, un partito arabo, Ra’am, sia poi andato al governo a Gerusalemme con la coalizione di Naftali Bennet.
   Quando la Francia ha adottato la definizione di antisemitismo IHRA, il presidente Emmanuel Macron ha dichiarato che “l’antisionismo è una moderna forma di antisemitismo”; e, nel fare altrettanto, la Kanzlerin tedesca Angela Merkel ha detto che “l’antisionismo è illegittimo”.
   L’Italia non deve partecipare a Durban 20. Presenziare ai lavori infliggerebbe un vulnus alla stabilità regionale, alla sicurezza internazionale e alla democrazia liberale, offrendo la copertura reputazionale di Roma alla delegittimazione dello Stato ebraico. Piuttosto, l’Italia deve adottare la definizione di antisemitismo dell’IHRA nella sua interezza e comunicare la propria assenza dal festival dell’antisemitismo, facendo sue le parole di Ugo La Malfa: “La difesa della libertà dell’Occidente comincia sotto le Mura di Gerusalemme”.

(Formiche.net, 27 agosto 2021)


Tornano alla luce i resti della grande sinagoga di Vilnus distrutta dai nazisti

di Michelle Zarfati

Un recente scavo congiunto, ad opera di un team israelo-lituano, all’interno rovine del secolare centro della comunità ebraica di Vilna, ha portato alla luce un complesso sinagogale, e una Yad (indice) d'argento, impiegato per la lettura della Torah. Israel Antiquities ha reso nota la recente scoperta giovedì.
  La Grande Sinagoga, distrutta dai nazisti e dai sovietici, fu costruita nel XVII secolo in stile rinascimentale-barocco, e faceva parte di un più ampio complesso di istituzioni ebraiche che comprendeva originariamente 12 sinagoghe ed alcuni Mikveh (bagni rituali), un edificio del consiglio comunitario, bancarelle di carne kosher, una famosa biblioteca intitolata al talmudista lituano Mattityahu Strashun, il seminario di Gaon di Vilna e altro ancora.
  La sinagoga di Vilna fu saccheggiata e bruciata dai nazisti durante la Shoah, successivamente nel 1956-1957, ciò che restava dell'edificio venne raso al suolo dalle autorità sovietiche. All'epoca la Lituania era una repubblica dell'Unione Sovietica, e all’interno del sito si decise di costruire una scuola. Dal centro comunale ebraico circostante, noto come Shulhoyf, non rimase nulla e venne cancellato dopo circa 300 anni di operato.
  La squadra, diretta dall'archeologo dell'Israel Antiquities Authority, il dott. Jon Seligman, ha ora concluso la sua sesta stagione annuale di scavi nel sito archeologico, iniziata con test radar utilizzato per penetrare negli scavi della città di Vilna. La città, nota per il suo famoso saggio, il Gaon di Vilna, era un importante centro della vita ebraica prima della Shoah.
  Qualche anno fa, Seligman visitò il sito per ragioni personali, come parte di un viaggio alla ricerca delle sue radici ebraiche, e decise di intraprendere gli scavi proprio in quel luogo. “Quando siamo arrivati ​​a scavare l'Aron Akodesh (arca della Torah) e la bimah (pulpito), da cui generazioni di ebrei hanno letto il rotolo della Torah per 300 anni consecutivi, è sembrato subito tristemente chiaro, che il nucleo della sinagoga era stato gravemente danneggiato dalla distruzione sovietica” ha spiegato Seligman. Due scale, che sono chiaramente visibili nelle vecchie foto della sinagoga, erano originariamente state distrutte ma il team di archeologi è stato in grado di rinvenire prove della loro precedente presenza. Di fronte all'arca, è stato rinvenuto un pavimento decorativo raffigurante raggi di sole. Nel corso degli scavi della Bimah (pulpito), il team ha anche recuperato uno dei quattro enormi pilastri che sostenevano il tetto della sinagoga. "Inoltre, è stato completato lo scavo della Bimah, compresa l'intera facciata, e i resti completi di uno dei quattro enormi pilastri che sostenevano il tetto della Grande Sinagoga", hanno precisato gli archeologi.
  Ma le scoperte all’interno dell’area sono continuate, portando alla luce giovedì mattina, anche un altro tesoro. “Proprio stamattina, mentre setacciavamo il terreno davanti all'Aron Akodesh (armadio sacro), abbiamo trovato uno Yad d'argento. Lo Yad è un indice utilizzato per leggere dal rotolo della Torah", ha detto l'IAA nella sua dichiarazione, riferendosi a un ornamento a forma di mano usato per indicare la parte del testo biblico da leggere.
  Lo scavo è una joint venture tra la Israel Antiquities Authority, il Kultūros paveldo Išsaugojimo pajėgos, la Good Will Foundation e la comunità ebraica della Lituania. Il team di ricercatori comprende lituani, israeliani e nordamericani.

(Shalom, 27 agosto 2021)


Il docente vaccinato: «Obbligo di pass? Mi dimetto»

Pubblichiamo la lettera che Andrea Camperio Ciani, ordinario all'Università di Padova del dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata, ha inviato al rettore dello stesso ateneo, Rosario Rizzuto, dopo l'annuncio che da settembre sarà necessario avere il green pass per insegnare, seguire le lezioni, fare gli esami e per frequentare le sedi dell'Università. Va precisato che il professore è vaccinato con doppia dose, ma non accetta l'idea che un docente o uno studente che abbia scelto di non vaccinarsi non possa più insegnare all'università o seguire le lezioni.

Collega Rettore, (non uso superlativi per ciò che segue), io sottoscritto Andrea Camperio Ciani, professore ordinario di codesta libera Università degli studi di Padova, avendo appreso dal decreto rettorale dell'obbligatorietà della tessera green pass per svolgere lezioni, dichiaro formalmente, a lei, e per conoscenza al ministro della Università e della ricerca, Maria Cristina Messa, e al ministro della Salute, Roberto Speranza, che avrò l'onore e la dignità di rimettere davanti a lei il mio green pass, accettando la sua dimissione dall'insegnamento dei miei corsi di «evolutionary psycology», «genes mind and social behavior», e «animal and human behavior», e la radiazione della mia cattedra di insegnamento quale professore ordinario, e sospensione dell'intero stipendio. Io mi prendo la responsabilità di ciò che affermo, e aspetto il suo decreto di radiazione da codesta Università di Padova.
   Sottolineo che in una università libera quale credevo fosse, l'appartenenza a tessere di partito, fasciste o di green pass fossero avulse, dato lo spirito libertario e democratico che credevo ci appartenesse. Sono fiero pronipote del professor Costanzo Zenoni, che rinunciò alla cattedra di anatomia all'Università di Milano per non aderire al partito fascista. Antenati patrioti, eroi e pensatori, mi avevano illuso che l'università avesse appreso principi di libertà e democrazia, vedo che così non è e me ne assumo le responsabilità.
   Mi rifaccio al patto sociale di Thomas Hobbes che, più di trecento anni fa, sanciva quanta libertà il cittadino dovesse abdicare allo Stato e quanta tenersi, dichiaro che in nome della libertà individuale, per tutti i no vax che non condivido, ma tollero, insieme a testimoni di Geova, e ai timorosi, o male informati, ritengo che discriminarli sia opera liberticida ed oscurantista. Sono quindi fiero di rimetterle il mio mandato e attendo il suo decreto di licenziamento.
   Viva la libertà qualunque essa sia.
Andrea Camperio Ciani

(La Verità, 26 agosto 2021)


Il premier israeliano alla Casa Bianca e le inquietudini del mondo mediorientale

Il disimpegno degli Usa rafforza l'Iran. I timori dei Paesi arabi moderati.

di Fiamma Nirenstein

Un banco di prova per il futuro dell'intero Medio Oriente sarà l'incontro odierno fra Biden e il primo ministro d'Israele Naftali Bennett in visita alla Casa Bianca. La tragedia afgana cambia un larghissimo e delicato scenario, in cui guerra e terrore sono di casa: saranno molte le tappe in cui si svilupperanno i cambiamenti psicologici e concreti che porta con sé l'abbandono americano dell'Afghanistan e la rapidissima riconquista talebana.
   La scelta del «nation building» del 2000 è fallita clamorosamente, vent'anni di miglioramenti collassati nelle grinfie islamofasciste dei talebani ne sono una prova, e anche l'Iraq non è diventato certo una democrazia. Non funzionarono né gli accordi di Oslo, né il sostegno di Obama alle Primavere Arabe. Le forze islamiste integraliste sono andate per la loro strada armandosi sempre di più, scegliendo la strada del terrorismo e dell'incitamento. Un mondo brutale che non è mai cambiato e oggi è rafforzato. In opposizione, certo i Paesi arabi moderati del Patto di Abramo e i coraggiosi Egitto, Giordania, Marocco, e anche l'Arabia Saudita, per ora hanno scelto strade di stabilità, di rapporti amichevoli con l'Occidente e di opposizione alla conquista sciita e anche della Fratellanza Musulmana, di cui Erdogan è campione. Tutti hanno puntato sul sostegno e la presenza americana. Adesso, l'America se ne n'è andata, e seguiterà ad abbandonare la scena. Questo provocherà l'organizzazione mondiale del pericolo terrorista guidato dall'Iran con eserciti e missili: Israele lo sa bene, e lo sanno anche i Paesi moderati. Nell'assenza americana, si disegna un ruolo nuovo per Israele, che infatti vive questo incontro con Biden in maniera drammatica.
   Bennett va da Biden all'ombra delle immagini umilianti di Kabul; ha un doppio compito, rinsaldare l'amicizia con un Paese indispensabile a Israele quanto a economia, armi, sostegno diplomatico all'ONU e nelle altre istituzioni, deve dimostrare che la sua Israele post Bibi non è amica solo dei Repubblicani ma anche dei Democratici di Biden e dell' ebraismo americano di sinistra, ma nello stesso tempo deve mantenere un comportamento deciso e portare a casa un risultato attendibile. Biden vuole due cose che Israele non vuole, un accordo con l'Iran, sul piede di guerra con tutto il resto dell'Islam jihadista contro l'Occidente; e un accordo coi Palestinesi, che non riconoscono lo Stato Ebraico mentre Hamas ha dichiarato che l' Afganistan mostra che gli ebrei verranno spazzati via.
   Biden deve aver certo preparato l'incontro perché risulti superamichevole: deve comunicare che l' America sarà nell'area per interposto Israele, con la sua tecnologia, le sue armi, la sanità, l'acqua, la sua cultura democratica. La vicenda Afgana solleva molti dubbi sull'affidabilità americana. Il resto del Medio Oriente sa che se gli americani se ne vanno lasciando tutti nei guai, Israele resterà nell'area come una piccola America. Ma deve badare di più a sé stessa.

(il Giornale, 26 agosto 2021)


Shalahi, la prima volta di Israele

Il nuotatore araboisraeliano vince il 1° oro per la gioia del presidente Herzog. Daniel Dias da leggenda: 25a medaglia per il brasiliano.

di Mario Nicoliello

E' nato sordo e a 13 anni, in seguito a un incidente stradale, è rimasto paralizzato nella parte inferiore del corpo. Eppure, seduto sulla sua carrozzina, Iyad Shalabi è entrato sul piano vasca del Tokyo Aquatics Centre a testa alta, conscio di essere a un passo dal riscrivere la storia. Aiutato dall'assistente si è tuffato in piscina, si è messo a pancia in su sul bordo dell'acqua e ha aspettato il segnale dello starter. Nelle due vasche a dorso, Iyad ha ripercorso i suoi 34 anni di vita, ricordando la sua infanzia da musulmano a Shefa-'Amr. Poi, dopo il tocco della piastra, il pianto liberatorio e la raccolta degli onori, in patria e fuori.
   Iyad Shalabi è diventato infatti il primo arabo-israeliano a salire sul podio in una rassegna paralimpica o olimpica, portando a casa il primo oro di Israele ai Giochi paralimpici di Tokyo. Il nuotatore ha trionfato nei 100 dorso, raggiungendo un traguardo mai toccato prima. Il suo allenatore, Yaakov Binenson, non stava nella pelle: «Sono molto emozionato e felice che abbia vinto la medaglia d'oro. Questa è la sua quarta Paralimpiade. Nelle tre precedenti aveva sempre chiuso al quarto posto, ma ha continuato ad andare avanti». Mai arrendersi. È stato il motto del figlio di Yusuf, genitore presente in Giappone in veste di accompagnatore: «Il mio cuore batteva forte. Quando ha superato il suo concorrente ho pianto. Si allenava costantemente ogni giorno sognando questo momento». Shalabi ha mandato in visibilio un'intera nazione. In un tweet il presidente israeliano, Isaac Herzog, lo ha definito «un campione e un simbolo di potere».
   Dopo la premiazione il Presidente ha parlato personalmente al telefono con Shalabi e si è congratulato con lui per la sua vittoria. «Siamo tutti così orgogliosi di te. La tua storia è incredibile e stimolante. È un grande onore che hai portato allo Stato di Israele, una bellissima medaglia d'oro!», ha detto Herzog al nuotatore, che per un giorno ha unito il Paese. A felicitarsi sono stati infatti tutti i leader politici, compreso il capo dell'opposizione, e deputato del Likud, Benjamin Netanyahu.
   Non ha vinto, ma è comunque entrato nella leggenda anche il brasiliano Daniel Dias, terzo nei 200 stile libero. Un bonzo che è molto di più di un oro, poiché per Dias rappresenta la medaglia paralimpica n.25 conquistata in carriera. Il brasiliano è il para-nuotatore maschile di maggior successo di tutti i tempi. A Tokyo sta vivendo i suoi ultimi Giochi a 33 anni: «Ciò che definisce ognuno di noi è ciò che abbiamo dentro, una forza in grado di realizzare grandi obiettivi.
   Vorrei lasciare in eredità che la gente capisca che sì, siamo diversi, ma uguali allo stesso tempo nelle capacità e che, per me, sarebbe fantastico rompere questa barriera di pregiudizio». L'avventura in terra nipponica di Dias continuerà lungo l'intera settimana nella stessa vasca che ieri ha regalato quattro vittorie all'Australia (con le altre due raccolte nel ciclismo su pista gli Aussie comandano il medagliere) e ha portato in dote al bielorusso Ihar Boki il dodicesimo oro della carriera, quello dei 100 farfalla. Il 27enne ipovedente di Babrujsk aveva centrato cinque trionfi a Londra e sei a Rio. Il mondo paralimpico è pieno di atleti più medagliati di Michael Phelps. Talenti nascosti ma più vincenti del Kid di Baltimora.

(Avvenire, 26 agosto 2021)


No vax, no teach

Vaccinarsi deve essere un obbligo per gli insegnanti, dice il rabbino Kanievsky

A far resistenza alla campagna di vaccinazione capillare organizzata in Israele già a partire da fine dicembre dello scorso anno era soprattutto la comunità haredi, che era anche quella meno incline a rispettare le restrizioni. Se l'atteggiamento infastidiva il governo, ma veniva tollerato, ora la tolleranza sta venendo meno, non tanto dal governo, ma anche da esponenti illustri della comunità. Dall'8 agosto hanno iniziato a riaprire le scuole ultraortodosse. I casi di coronavirus, come era prevedibile, sono di nuovo in aumento e lo stato ebraico, che ha iniziato già a somministrare la terza dose, ha la sensazione di essere soggetto alle fatiche di Sisifo: vede la luce della fine della pandemia, ma non riesce, come tutti, a uscirne. Soltanto che Israele la luce sembrava averla vista un po' più del resto del mondo, per questo l'aumento dei contagiati è vissuto con ancora più frustrazione, oltre che con preoccupazione. Soprattutto se l'aumento è dovuto al rifiuto di vaccinarsi. Anche il rabbino Chaim Kanievsky, forse il più illustre rappresentante della comunità haredi, ha perso la pazienza e in un incontro con il commissario per il coronavirus, Salman Zarka, ha detto che tutti dovrebbero essere vaccinati, a partire dagli insegnanti. Kanievsky è tra i rabbini che sempre hanno fatto appelli agli ultraortodossi affinché si vaccinassero, ma gli appelli non bastano più. Secondo una dichiarazione del ministero della Salute, Kanievsky ha detto che agli insegnanti dovrebbe essere "proibito" di andare a lavorare se non sono vaccinati e che tutti coloro che sono coinvolti nell'istruzione dovrebbero essere obbligati a farlo. E i presidi dovrebbero sospendere chi si rifiuta. Una lezione più che saggia, l'unico precetto da seguire ora è vaccinarsi. L'obbligo, davanti alle ritrosie, è l'unica arma che Israele, come tutti, ha per tornare a una normalità che non sia una falsa partenza. Altrimenti, come Sisifo, si torna indietro.

Il Foglio, 26 agosto 2021)


*


Obbligo, obbligo, obbligo

«Obbligo! Obbligo! Obbligo! e obbligheremo in cielo, in terra e in mare, è la parola d'ordine della Suprema Volontà». L'inno continua dicendo che "nessun ci fermerà". Abbiamo messo la parola "obbligo" al posto dell'originale fascista "vincere", ma ci sta bene perché ormai per vincere la guerra contro il virus la "Suprema Volontà" ha deciso che "l'unico precetto da seguire ora è vaccinarsi". Così almeno capisce e riferisce l'articolista italiano. "L'obbligo ... è l'unica arma che Israele, come tutti, ha per tornare a una normalità". E poiché sarà l'obbligo stesso ad essere la normalità, sarà da considerare fin d'ora come anormale chiunque si opponga all'obbligo. E in fatto di obbligo non ci dovranno essere esitazioni "davanti alle ritrosie". L'obbligo dovrà essere esteso per numero di categorie a cui sottoporlo, numero di precetti da osservare e numero di punizioni da impartire. I renitenti che rifiutano l'obbligo dovranno essere messi davanti all'altra parola chiave conseguente all'obbligo: Proibito! Verboten! "... agli insegnanti dovrebbe essere proibito di andare a lavorare se non sono vaccinati", incalza l'articolista. Questo non è un modo per tornare alla normalità, questa è la nuova normalità. E Israele sembra voler fare da apripista. Su questa strada non lo seguiamo. M.C.

(Notizie su Israele, 26 agosto 2021)


Tre università israeliane si classificano tra le 100 migliori al mondo

di Michelle Zarfati

Tre università israeliane si sono classificate tra le prime 100 università più innovative al mondo in una classifica redatta annualmente. Le università annoverate nell’elenco sono: la Hebrew University di Gerusalemme, il Technion - Institute of Technology di Haifa e il Weizman Institute of Science di Rehovot. L'ultima volta che tre università israeliane sono entrate nella top 100 risale al 2013. L
   'analisi identifica le istituzioni educative che stanno facendo di più per far progredire la scienza, inventare nuove tecnologie e alimentare nuovi mercati e industrie. La classifica si basa su una serie di indicatori, tra cui domande di brevetto e citazioni di documenti di ricerca.
    "La tendenza al rialzo della classifica di Shanghai è la prova del duro lavoro e della ricerca senza compromessi dell'eccellenza accademica. Sono lieto che tre istituzioni accademiche siano arrivate tra le prime 100" ha detto il presidente dell'Università Ebraica, il professor Asher Cohen.
    Il Ministro dell'Istruzione, Yifat Shasha-Biton, si è congratulata con gli istituti: “E’ un riflesso dell'eccellenza israeliana e una fonte di orgoglio e successo" ha detto.
    Diverse altre istituzioni israeliane sono entrate nella lista. L'Università di Tel Aviv si è classificata tra le prime 200 e la Bar-Ilan University e la Ben Gurion University del Negev sono entrate tra le prime 500.
    I vincitori di quest'anno sono l'Università di Harvard, la Stanford University e l'Università di Cambridge, che si sono classificate rispettivamente prima, seconda e terza.

(Shalom, 25 agosto 2021)


Il padiglione di Israele a Expo 2020 Dubai: un invito a creare un nuovo futuro

ABU DHABI - Il padiglione israeliano, prodotto da AVS, azienda guidata da Malki Shem-Tov, e progettato da Knafo Klimor Architects, è alto 15 metri (M) e 1.550 metri quadrati (MQ) area costruita.
  L'architettura trae ispirazione dai paesaggi aridi di Israele e di altri paesi del Medio Oriente. Il padiglione adotta la forma di dune di sabbia e strade ombreggiate del Medio Oriente. Queste dune sono incorniciate da sette cancelli a schermo LED a 15 m di altezza utilizzando pannelli LED di 630 MQ, creando uno spazio aperto significativo in cui le persone possono riunirsi, discutere e condividere idee. L'area del lotto del padiglione israeliano comprende un'area interna costruita di 765 MQ con un'area ombreggiata esterna aggiuntiva di 828 MQ. La superficie delle dune è di 986 mq.
  Le dune poggiano su una base di zattera, il padiglione ha una struttura in acciaio preparata nell'officina di Dubai e assemblata in loco utilizzando collegamenti a secco e materiali di rivestimento multipli approvati per la finitura. Il pavimento della duna è formato utilizzando un sottile strato di cemento sopra una struttura a pannelli trapezoidali in acciaio per creare la geometria unica della duna, questa è poi sormontata da gomma riciclata color sabbia.
  David Knafo, amministratore delegato di Knafo Kilmore architects, ha dichiarato: "Il padiglione israeliano offre uno spazio aperto, una duna circondata da sette porte che riflettono gioia e speranza. La duna offre un luogo in cui l'immaginazione può creare una svolta per il futuro del nostro pianeta, la sua diversità ecologica e la conservazione del patrimonio umano. L'attuale crisi climatica ed ecologica richiede una mobilitazione urgente di buona volontà globale, nuove tecnologie, invenzioni e strette collaborazioni, al fine di creare nuovi orizzonti per le prossime generazioni".
  Il padiglione, guidato dal Ministero degli Affari Esteri israeliano, utilizza molti elementi unici e intelligenti. Lo schermo a parete LED può essere utilizzato dal visitatore come un impegno di gioco con le persone in Israele, oltre ad avere un certo controllo sul contenuto presentato dal vivo. Questi schermi a LED sono anche il materiale di rivestimento delle pareti interne dei sette cancelli. Gli schermi a LED presenteranno una varietà di immagini e video che mostrano contenuti vari e tempestivi, come: riduzione della fame nel mondo, protezione della natura, energia per tutti, conservazione e adattamento dell'acqua per i paesi aridi, tecnologie sanitarie e sicurezza informatica. Il livello delle dune è inoltre dotato di binocoli per la realtà virtuale, che consentono ai visitatori di vivere il paesaggio di Israele.
  In cima alla duna, c'è una grande insegna luminosa, lunga 15 m e alta 5 m, che utilizza una struttura in alluminio con una copertura frontale traslucida e apparecchi di illuminazione a LED all'interno. Il segno è formato da lettere in "Aravrit", un carattere inventato dal tipografo Liron Lavi Turkenich. Aravit è un ibrido di due scritture locali, che combinano caratteri ebraici e arabi. Ogni lettera è composta dall'arabo nella metà superiore e dall'ebraico nella metà inferiore. Il significato del testo del segno in entrambe le lingue è lo stesso, "Verso domani".
  Nella sala principale all'interno del padiglione, uno spettacolo immersivo a 360 gradi su 250 mq di schermo, presenterà l'innovazione israeliana per un futuro migliore. Le sfide del nostro tempo nella medicina e nella sanità, nella produzione alimentare e nell'agricoltura, nella comunicazione e nello spazio e in molti altri aspetti critici della vita umana.
  Il padiglione crea un microcosmo, con un microclima temperato ottenuto utilizzando ombreggiature e irrigatori. Il padiglione è progettato per essere demolito dopo la fine della fiera e, ad eccezione del pavimento in cemento, tutto il materiale e gli elementi da costruzione saranno riciclati.
  Elazar Cohen, Commissario Generale del Padiglione israeliano, ha dichiarato: "Il nostro Padiglione riflette lo spirito israeliano, che ci ha reso ciò che siamo. Siamo composti da vari popoli e culture. Possiamo percorrere strade diverse, ma condividiamo tutti le stesse grandi sfide di oggi. Stiamo cercando di connettere le nostre menti e risolvere insieme queste sfide".
  Questo spazio aperto che si affaccia sul Parco Expo è un luogo per connettere le menti e trovare soluzioni ai problemi umani di oggi. Il padiglione israeliano fa eco all'urgente necessità di reinventare il nostro futuro condividendo risultati tecnologici, invenzioni scientifiche e nuove idee a beneficio di tutti.

(WAM Italian, 26 agosto 2021 trad. Hussein Abuel Ela)


Potsdam, Germania: riapre la prima sinagoga dopo 80 anni

di Michelle Zarfati

La capitale del Brandeburgo ha di nuovo una sinagoga, la prima dalla fine della Seconda guerra mondiale. Potsdam, in Germania, è una città al confine con Berlino, ed ha una popolazione di 178.000 abitanti. Mercoledì ha annunciato l'apertura della sua prima sinagoga oltre 80 anni dopo che la sinagoga della città venne distrutta dai nazisti durante la notte dei cristalli. Annesso alla nuova sinagoga, è previso un centro di studi ebraici.
    L'apertura della sinagoga fa parte di un evento che segna la creazione del Centro europeo per le borse di studio ebraiche presso l'Università di Potsdam, secondo quanto riportato dal quotidiano tedesco Jüdische Allgemeine. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, e il presidente dell'Unione europea degli ebrei progressisti, Sonja Guentner, hanno portato i rotoli della Torah nella sinagoga.
    La sinagoga, con spazio per 40 fedeli, è stata costruita con fondi internazionali. Molti degli oggetti religiosi all'interno, sono stati realizzati in Israele e includono le rappresentazioni simboliche delle 12 tribù di Israele scolpite in altorilievo. Situata nel Neues Palais in Palace Park, la sinagoga sarà il collegamento tra due seminari rabbinici, l'Abraham Geiger College e il Zacharias Frankel College, e la School of Jewish Theology, dove sono iscritti circa 80 studenti, di cui circa un terzo studia per diventare rabbino o cantore.
    I nazisti distrussero la sinagoga di Potsdam tra il 9 e 10 novembre 1938, durante la Kristallnacht (Notte dei cristalli), la terribile notte di distruzione nella quale si scatenò tutta la furia antisemita contro negozi, sinagoghe e edifici ebraici. Insieme a molte altre sinagoghe in tutta la Germania, anche nell'Austria recentemente annessa, nel territorio dei Sudeti (aree settentrionali, meridionali e occidentali dell'ex Cecoslovacchia) e nella Città Libera di Danzica (una città-stato semiautonoma esistita tra il 1920 e il 1939) vennero distrutti la maggior parte degli edifici ebraici.

(Shalom, 25 agosto 2021)


Gaza, riesplode la tensione al confine alla vigilia della visita di Bennett alla Casa Bianca

di Sharon Nizza

TEL AVIV – Alla vigilia della prima visita alla Casa Bianca, il premier israeliano Naftali Bennett si trova ad affrontare giorni di rinnovata tensione al confine con la Striscia di Gaza, a tre mesi dall’ultimo conflitto di maggio, avvenuto ancora sotto il precedente governo di Benjamin Netanyahu. Sabato scorso, una marcia convocata da Hamas e dalla Jihad Islamica per commemorare l’anniversario dell’incendio della Moschea di Al Aqsa del 1969 (provocato da un giovane australiano cristiano giudicato poi mentalmente instabile) è degenerata in scontri violenti con i soldati israeliani. Alcune decine di manifestanti, superato il cordone delle forze di sicurezza palestinesi (che non hanno opposto resistenza), si sono riversati a ridosso del confine e uno di questi, identificato in seguito come appartenente a Hamas, ha sparato a distanza zero a un militare israeliano, ferendolo gravemente. Il ministero della salute di Gaza ha riportato 41 feriti palestinesi colpiti dall’esercito israeliano, tra cui un bambino di 13 anni in condizioni gravi. Da due giorni sono anche ripresi i lanci di palloncini incendiari contro i villaggi israeliani di confine e i caccia israeliani hanno colpito ieri notte – come sabato sera - postazioni militari di Hamas, “considerato il responsabile per ogni attività all’interno della Striscia di Gaza”, secondo il comunicato del portavoce dell’esercito.
  La degenerazione degli eventi arriva a pochi giorni dal raggiungimento di un accordo - dopo tre mesi di trattative che hanno coinvolto Israele, l’Autorità Palestinese, Qatar, Nazioni Unite ed Egitto – sul rinnovo del meccanismo di passaggio di fondi qatarioti verso la Striscia di Gaza. La convocazione della manifestazione di sabato è vista dai mediatori come una provocazione di Hamas, tanto che Il Cairo ha dato un chiaro segnale di disappunto chiudendo ieri il valico di Rafah a tempo indeterminato. L’unico altro sbocco verso l’esterno per la Striscia di Gaza, il valico di Kerem Shalom gestito da Israele, continua a operare per l’ingresso di aiuti umanitari e materiali edili reintrodotti nei giorni scorsi nonostante l’escalation in atto.
  Secondo l’accordo reso noto giovedì, ogni mese, oltre a 10 milioni di dollari in carburanti, 10 milioni in assistenza a famiglie bisognose passeranno da settembre attraverso le Nazioni Unite e non più in contanti tramite l’inviato di Doha, come avveniva fino all'inizio di maggio, quando il meccanismo si è interrotto dopo l’ultimo scontro tra Hamas e Israele. Quello che ancora non è chiaro è invece la sorte di altri 10 milioni di dollari che fino a maggio entravano a Gaza per pagare gli stipendi dei funzionari di Hamas, estromessi ora dalla nuova intesa Doha-Onu-Israele. Il motivo, secondo gli analisti, per cui Hamas sta rialzando il tiro, cercando di slegare la questione del rinnovo degli aiuti economici ad altri aspetti delle trattative sottobanco, in primis la richiesta di Israele di condizionare nuovi aiuti al rilascio degli ostaggi israeliani detenuti a Gaza.
  E mentre Bennett si imbarca per Washington, dove giovedì avrà il primo faccia a faccia con il presidente Joe Biden - domani incontrerà invece il segretario di Stato Antony Blinken e il sottosegretario alla Difesa Lloyd Austin – in casa monta la polemica sul fallimento della tregua con Gaza. Per il premier israeliano, il rischio è che gli avvenimenti degli ultimi giorni spostino il focus dei colloqui Usa, che lui vorrebbe concentrare sul nucleare iraniano e sulla gestione della pandemia (Israele sembra stia riuscendo ad evitare la minaccia di un nuovo lockdown grazie alla somministrazione della terza dose del vaccino anti-Covid, da oggi estesa anche agli over 30). La stampa locale dà voce a diverse valutazioni dell’establishment militare secondo cui “Yahya Sinwar (il capo di Hamas a Gaza, ndr) è pronto per un nuovo scontro” e che un nuovo confronto potrebbe essere solo questione di tempo. Hamas, che mira a impattare l’agenda del primo vertice israelo-americano, ha convocato per domani una nuova marcia della rabbia, che potrebbe degenerare in uno scontro violento come accaduto sabato. Secondo fonti citate dal quotidiano Al Arabiya, l’intelligence egiziana sarebbe intervenuta per guadagnare qualche giorno di quiete da parte di Hamas, ottenendo uno stop alle provocazioni. L’Egitto ha interesse a mantenere la calma tra Israele e Gaza in vista dell’incontro Bennett-Al Sisi che si dovrebbe svolgere poco dopo quello con Biden, a seguito dell’invito al Cairo esteso dal generale Abbas Kamel, il capo dell’intelligence egiziana che ha visitato Gerusalemme la settimana scorsa. Si tratterà del primo vertice alla luce del sole tra i capi dei due Stati confinanti dopo anni. Alleanze che si cementano alla luce del cambio di inquilini alla Casa Bianca e delle immagini provenienti da Kabul, che prefigurano un Medio Oriente sempre più abbandonato alle forze locali.

(la Repubblica online, 25 agosto 2021)


Biden-Bennett, un incontro in un momento difficile

di Ugo Volli

Domani alla Casa Bianca il nuovo Naftali Bennett incontrerà per la prima volta nel suo ruolo di Primo Ministro israeliano il presidente degli Stati Uniti; e Joe Biden per la prima volta vedrà da presidente un primo ministro israeliano. Si tratta insomma di un incontro importante, che in teoria potrebbe aprire un’epoca nuova nei rapporti fra i due paesi. L’ultima volta che un primo ministro israeliano aveva incontrato un presidente americano, si trattava di Benjamin Netanyahu e di Donald Trump: è passato un anno, ma non solo le due amministrazioni bensì anche i due paesi sono molto cambiati. Ma non è affatto detto che il cambiamento sia andato nella direzione del meglio, o anche solo degli interessi israeliani.
  Di fatto il momento in cui avviene questo incontro non è certo facile. Biden aveva già da un paio di mesi concluso la proverbiale “luna di miele” dei nuovi presidenti: la sua popolarità era scesa ben sotto i livelli dei suoi predecessori e c’erano seri dubbi sulla sua capacità di leadership. Ma poi è arrivata la catastrofe dell’Afghanistan: non tanto il fatto di abbandonare senza condizioni un paese per cui gli Stati Uniti avevano speso migliaia di morti e molti miliardi di dollari, ma il modo disordinato come una rotta militare in cui questo è accaduto, lasciandosi dietro decine di migliaia di cittadini americani, collaboratori locali, materiali militari preziosi e avanzati, con la gente che all'aeroporto cede bambini agli sconosciuti per sottrarli alla catastrofe o si aggrappa ai carrelli degli aerei in decollo pur di non farsi prendere dai talebani. E soprattutto con la confusione, l’ipocrisia, le menzogne vere e proprie di un presidente incapace anche di ammettere apertamente gli errori.
  E sono scene destinate a ripetersi nei prossimi giorni, magari con l’incubo alla Carter di una presa di ostaggi americani. Bennett non ha una situazione così tragica cui fare fronte, ma è chiaro che i suoi margini di manovra nella politica di sicurezza sono molto limitati: non ha risposto ai missili provenienti dal Libano né alle aggressioni iraniane contro le navi americane; non può reagire contro le aggressioni che vengono da Gaza se non nei limiti della routine; ha sospeso costruzioni e nuove infrastrutture in Giudea e Samaria senza poter rispondere adeguatamente alla lenta ma continua presa del territorio della zona C da parte dell’Autorità Palestinese. Questo deriva dall’eterogeneità della sua maggioranza, che comprende l’estrema sinistra di Meretz e gli islamisti di Bala’am, ben decisi a bloccare l’autodifesa militare di Israele. Sui temi di sicurezza ci sono screzi continui nella maggioranza: l’ultimo è avvenuto nei giorni scorsi quando il dirigente del partito più forte, Yair Lapid, ha ricominciato a parlare dei due stati come obiettivo della sua gestione del Ministero degli Esteri; ed è toccato ad Ayelet Shaked, compagna di partito di Bennett, di bloccarlo con una dichiarazione di totale indisponibilità, fino alla minaccia di uscire dal governo.
  Di che cosa parleranno dunque alla Casa Bianca i due leader così in difficoltà? E’ chiaro che Bennett cercherà di convincere Biden ad abbandonare il progetto di un accordo con gli ayatollah e a prendere atto che ormai l’Iran è vicinissimo alla costruzione della bomba atomica, per cui è necessario un intervento molto risoluto sul piano diplomatico e, se - come è probabile - questo non bastasse, anche su quello militare. Ma è altrettanto chiaro che Biden non accetterà di rovesciare un punto fondamentale del suo programma di politica estera, perché questa sarebbe una nuova disastrosa sconfitta per lui e anche perché l’uomo è ostinato, incapace di rinunciare alla sue visione ideologiche di fronte alla smentita dei fatti, come si è visto anche nel pasticcio afgano. Biden chiederà a Bennett di prendere impegni sul ritorno alla vecchia liturgia delle trattative di pace promossa dagli Usa ai tempi di Kerry, Obama e anche prima.
  Bennett magari potrà compiere qualche “gesto di buona volontà” come si diceva a quei tempi; ma è chiaro che sul fronte palestinista non ci sono interlocutori se non i terroristi e che “l’autunno del patriarca” del vecchio dittatore Mohamed Abbas impedisce ogni iniziativa anche formale. Bennett poi, per non perdere del tutto la sua base elettorale, non può certo prendere la bandiera della cessioni territoriali all’Autorità Palestinese. Anche la riapertura del consolato americano a Gerusalemme, di fatto la rappresentanza degli Usa verso l’Autorità Palestinese, stranissimo caso diplomatico di una rappresentanza nei confronti di uno stato insistente che ha sede nel territorio di un altro stato, cui l’amministrazione Biden tiene molto e che la grande maggioranza degli israeliani e dei loro politici non vuole, rischia di essere un ostacolo troppo grande e di essere rimandato a un’occasione più favorevole.
  E’ probabile dunque che il senso dell’incontro fra i due leader si limiterà proprio al fatto che l’incontro ci sia stato, che Israele continua a essere un fedele alleato degli Usa, sia pure nelle difficoltà del momento, e che gli Stati Uniti dichiarano di essere i garanti della sicurezza di Israele. E soprattutto che Biden potrà mostrare di non essere solo chiuso nell’incubo dell’Afghanistan e Bennett di iniziare ad avere una statura internazionale. E’ ragionevole anche pensare che i due governanti si scambieranno idee sull’epidemia, dato che i due paesi affrontano entrambi un momento difficile su questo tema. E poi ci saranno accordi parziali, “atti di buona volontà”, dichiarazioni altisonanti. La politica è fatta anche di questa cose. E magari, nella migliore delle ipotesi, Bennett potrà accumulare qualche credito nei confronti di un’amministrazione certamente non molto amica di Israele, per aver fatto atto di presenza e di amicizia in un momento così difficile. Il che per Israele può certamente essere utile.

(Shalom, 25 agosto 2021)


Il green pass varrà 12 mesi, ma la protezione s'abbassa

Vaccini: efficacia limitata nel tempo, ma il governo prolungherà la validità del certificato. Contagi tra medici: +600%.

di Alessandro Mantovani

I dati di Israele,dove l'operazione "terza dose" è già iniziata, non sembrano particolarmente confortanti sulla durata della protezione indotta dai vaccini anti-Covid: l'immunità dalla malattia grave o dal ricovero resta sopra l'80%, tra il 20 giugno e il 17 luglio, anche per chi si è vaccinato (con Pfizer) lo scorso gennaio; malo scudo contro la malattia appena sintomatica e la semplice infezione scende rispettivamente dal 79 e dal 75% dei vaccinati di aprile ( tre mesi prima) al 16% di chi ha ricevuto la seconda iniezione a gennaio, cioè all'inizio della campagna vaccinale. Lo dicono anche i numeri della Gran Bretagna, l'altro Paese che è partito prima nelle immunizzazioni. E lo confermano, in Italia, i contagi tra gli operatori sanitari, primi a vaccinarsi: ieri la Fnopi, la federazione degli Ordini degli infermieri, ha reso noto che le infezioni tra chi lavora nella sanità sono passate da 265 a 1.835 al mese tra luglio e agosto, con un aumento del 600%. Prima dei vaccini se ne contavano fino a 16-19 mila al mese.
   Ma per quanto i dati dicano che la protezione cala, il governo ha deciso di prolungare la durata del green pass da cui dipendono buona parte delle nostre libertà e il diritto al lavoro di una quota crescente della popolazione: dagli attuali nove mesi si passerà a dodici per i vaccinati e forse anche per i guariti, al momento ''liberi" solo per sei mesi; resterebbe invece di 48 ore per chi ha solo il tampone negativo.
   Questa almeno è l'intenzione di Palazzo Chigi, condivisa dal ministro della Salute Roberto Speranza. Venerdì ne discute il Comitato tecnico scientifico e ci si attende un via libera. "D'altra parte - riassume una fonte autorevole del ministero della Salute - i nove mesi iniziali cominciano a scadere: o li prolunghiamo, o facciamo subito la terza dose oppure abbandoniamo il green pass". Secondo diversi specialisti, come Fabrizio Pregliasco e Massimo Clementi, servono sia il primo sia il secondo provvedimento. È invece scettico Andrea Crisanti, professore di Microbiologia a Padova: "Sono tutte decisioni di carattere creativo che non hanno nulla di scientifico, purtroppo. I dati di Israele non sono rassicuranti, la protezione vaccinale dura otto mesi se va bene; dura di più quella dell'infezione". Secondo Crisanti "c'è qualcosa che non capiamo, vediamo ventenni con anticorpi consistenti, vaccinati da un mese, che si infettano con la febbre alta. Può dipendere dalle varianti". Gli scienziati, come sappiamo, non hanno ancora trovato un accordo sui test sierologici che misurano gli anticorpi, a volte alti anche in chi si infetta. La terza dose per ora sarà prevista solo per le persone ultrafragili con gravi deficit immunitario come trapiantati e malati oncologici, ma poi si vedrà.
   Il generale Francesco Paolo Figliuolo assicura l'80% di immunizzati per la fine di settembre. Vedremo. Ma intanto sale la pressione per introdurre l'obbligo vaccinale, almeno sotto forma di estensione delle attività subordinate al green pass. Ieri il Tar del Lazio ha negato la sospensiva sulle scuole. Il tema divide la maggioranza e ieri il Comitato nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita di Palazzo Chigi ha diffuso, di sua iniziativa, uno stringato parere a favore dell'obbligo per chi svolge "funzioni pubbliche e comunque attività lavorative che pongano il cittadino a stretto e continuo contatto con altri soggetti". Il Comitato di Bioetica, pure insediato a Palazzo Chigi, è più cauto. "Ma loro - spiega il professor Andrea Lenzi, presidente del Comitato per la Biosicurezza - valutano anche sul piano filosofico e morale dell'opportunità, noi invece soltanto su base scientifica. E riteniamo poco logico favorire il contagio. E una iniziativa politica? In un certo senso tutto è politica". Deciderà la politica vera.

(il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2021)


«Secondo Crisanti "c'è qualcosa che non capiamo, vediamo ventenni con anticorpi consistenti, vaccinati da un mese, che si infettano con la febbre alta.»
Vaccinatevi, vaccinatevi, prima o poi qualcosa si capirà. M.C.


In Israele aumentano i casi gravi «Comirnaty sta funzionando meno

La Delta dilaga tra gli anziani. Spunta un'altra reazione avversa nella fascia 28-45 anni.

di Patrizia Floder Remer 

La quarta ondata del Covid avrebbe colpito in Israele soprattutto la popolazione vaccinata. l'85% dei risultati positivi è vaccinato, l'80-90% della popolazione ha avuto almeno una dose di vaccino, quindi da questi numeri non se ne esce se non abbandonando le percentuali e indicando i numeri assoluti. 
   Di certo, ormai si parla di ricoveri e di alte percentuali di casi gravi tra vaccinati con dose doppia. Il messaggio lanciato sui social dal premier israeliano, Naftali Bennett, non poteva essere più chiaro, avendo invitato tutti a farsi la terza dose. «Chi gira tranquillo perché ne ha fatte due sbaglia, perché l'efficacia del vaccino si è indebolita di fronte alla variante Delta», ha detto il capo del governo di Gerusalemme. In un video di tre giorni fa, testimonianze di autorevoli medici israeliani confermano che nello Stato dove si è iniziata a somministrare anche la terza dose, la preoccupazione cresce. 
   Il biologo e biofisico di Tel Aviv, Ehud Gazit, afferma che «la maggior parte della popolazione israeliana è vaccinata, quindi l'85-90% dei ricoverati nei nostri ospedali sono pazienti positivi al Covid che hanno completato il ciclo di vaccinazione». Dror Dikar, direttore del reparto Covid presso il Rabin medical center e già presidente dell'Associazione israeliana di medicina interna, davanti alle telecamere dichiara: «I malati che accogliamo sono anziani, arrivano in ospedale benché vaccinati». In un'altra intervista Gabi Barbash, professore di epidemiologia e medicina preventiva, autorevole esperto di salute pubblica in prima linea nella lotta al Covìd, ex direttore generale del Tel Aviv Sourasky medical center, sostiene: «I vaccini che abbiamo sono meno efficaci di quanto pensassimo e questo oggi è un dato chiaro a tutti». Secondo il ministero della Salute israeliano, recenti studi hanno mostrato che l'efficacia del vaccino Pfizer contro l'infezione da Covid «è scesa al 39% e fino al 16% nelle persone che sono state vaccinate a gennaio», come riportava due giorni fa il Financial Times. 
   C'è poi l'intervento della professoressa Dorit Blìckstein, ematologa del Rabin medical center che spiega come una rara malattia autoimmune si manifesti in alcuni pazienti entro diversi giorni dalla somministrazione del vaccino Pfìzer-Biontech. Si tratta della porpora trombotica trombocitopenica, causata dallo sviluppo di autoanticorpi, provoca la formazione di piccoli coaguli di sangue in tutto il corpo che bloccano l'apporto di sangue a organi vitali come il cervello, il cuore e i reni. La Blickstein spiega che il sospetto di una correlazione tra il vaccino e la malattia è sorto perché di questa patologia non si verificano più di tre casi l'anno in ogni ospedale d'Israele, mentre «dallo scorso marzo sono cominciati ad arrivare troppi pazienti e ci siamo chiesti che spiegazione ci fosse. Abbiamo scoperto che tutti erano stati vaccinati con Pfizer nei 5-28 giorni precedenti» alla comparsa dei disturbi. Secondo l'esperta, la malattia colpisce soprattutto le fasce giovani «la maggior parte dei pazienti sono tra i 28 e i 45 anni», dichiara l'ematologa che a riguardo ha pubblicato degli studi. Per non parlare delle malattie autoimmuni anti Rna che si potrebbero scatenare alla lunga dopo tre, quattro inoculazioni, dichiarano altri medici. 
   Grossi problemi sta avendo anche l'Islanda, dove oltre il 69% della popolazione è completamente vaccinata contro il Covid-19. Il vaccino previene malattie gravi e ospedalizzazioni, non l'infezione o la trasmissione come speravano gli esperti, infatti il tasso di incidenza del Covid-19 in Islanda è a un livello record. Il capo epidemiologo Thorolfur Gudnason, al quale il governo ha affidato la gestione della pandemia l'ha detto chiaramente: «I vaccini non funzionano come pensavamo, sulla variante Delta perdono di efficacia. I vaccinati si contagiano e si ammalano».

(La Verità, 25 agosto 2021)


Davanti al fatto che cittadini sani si ammalino dopo essere stati vaccinati, non sarebbe ragionevole interrompere le vaccinazioni, aspettare altri risultati e cercare altre forme di cura? Si direbbe di sì, ma può Israele farlo? Da una notizia apparsa in rete il 4 febbraio scorso:
    «Il Governo israeliano ha fatto un accordo con Pfizer che prevede la raccolta e l’invio all’azienda farmaceutica di informazioni sui pazienti vaccinati in cambio di una fornitura di dosi continua. Al momento dell’annuncio dell’efficacia del vaccino di Pfizer, Israele si è mossa d’anticipo rispetto agli altri Paesi. Il Governo israeliano ha pagato un sovrapprezzo per garantirsi una fornitura anticipata di dosi del vaccino Pfizer-BioNTech e soprattutto ha deciso di fornire all’azienda dati sull’andamento e gli effetti delle vaccinazioni in cambio di consegne regolari e continue. L’accordo tra Pfizer e Israele prevede che l’Istituto centrale di statistiche mediche informi l’azienda farmaceutica sulla percentuale di popolazione vaccinata necessaria al raggiungimento dell’immunità di gregge. Israele può fare affidamento su un sistema sanitario altamente sviluppato e tecnologico che permette di somministrare rapidamente i vaccini ai suoi circa 9 milioni di abitanti e restituire a Pfizer dati affidabili prima di chiunque altro su un campione così elevato.»
Può Israele diminuire la sua percentuale di vaccinazioni senza infrangere questo o altri contratti con le case farmaceutiche? E' una domanda, certo, non la prova di un fatto, ma non desta sospetti che dubbi di questo tipo, dubbi di determinanti interessi commerciali, superiori ad ogni altro interesse, non sfiorino quasi mai le menti di giornalisti pro-vax? M.C.



Come rendere schiave le persone

Al processo di Norimberga fu chiesto al gerarca nazista Hermann Göring: "Come avete fatto a convincere il popolo tedesco ad accettare tutto questo?"
Risposta: "E' stato facile e non ha nulla a che fare con il nazismo, ha a che fare con la natura umana. Si può fare in un regime nazista, comunista, socialista, in una monarchia o in una democrazia. L’unica cosa che si deve fare per rendere schiave le persone è impaurirle. Se riuscite a trovare un modo per impaurire le persone, potete fargli fare quello che volete".
  

*

impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati
il diavolo sta preparando il mondo
ad accogliere l'anticristo


 

Miss Israele ora vive a Dubai: la storia di Rana Raslan

Cittadina araba israeliana nata a un quartiere povero di Haifa, dopo aver vinto il concorso di bellezza nel 1999 ha vissuto in Europa e sposato uno sceicco di Dubai.

di Meir Ouziel

GERUSALEMME - Rana Raslan è una cittadina araba israeliana nata a un quartiere povero di Haifa. La sua bellezza l'ha portata lontano dai bassifondi della città, ma nessuno avrebbe immaginato quanto lontano. Nel 1999, Rana ha fatto la storia quando fu coronata Miss Israele, la prima (e finora unica) araba musulmana a ottenere il titolo della più bella del Paese. In seguito, ha rappresentato Israele a Miss Universo, è entrata nello showbiz israeliano, ha girato il mondo per sfilare sulle principali passerelle, fino a trasferirsi per un lungo periodo in Francia e poi in Italia. A 25 anni era al 31mo posto nell'elenco delle donne più belle del mondo della rivista GQ.
    Poi, nel 2003, il silenzio. Al culmine della sua carriera, è scomparsa. A Roma conosce e sposa uno sceicco di Dubai, un multimilionario di cui non è mai stata rivelata l'identità.
    L'anno scorso, poco dopo la firma degli accordi di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il giornalista israeliano Haim Etgar riceve una telefonata mentre si trova a Dubai per un servizio. È Rana, dopo anni. Gli chiede di incontrarsi, insieme a suo marito. Ne è nata una serie di conversazioni che hanno portato a realizzare un servizio andato in onda nei giorni scorsi in prima serata su Channel 12, il principale canale israeliano. Rana racconta la sua vita incredibile, tra sfarzo e ricchezze senza limiti, ma anche molta sofferenza per non essere riuscita ad avere figli. Del marito sceicco - che continua a tenersi alla larga dalle videocamere - Rana ha rivelato che in passato aveva sviato intenzionalmente la stampa rivelando un nome inventato, uno sceicco saudita mai esistito. Nei colloqui con Etgar a Dubai, a un certo punto interviene anche un uomo d'affari di Roma, Haim Shoval, un caro amico, un fratello dice Rana, che conosce dal periodo italiano.
    Molti punti interrogativi rimangono sulla storia di Rana, ma allo stesso tempo, affronta con grande passione e apertura il costante, tragico conflitto che l'ha tormentata per tutta la vita: essere un'araba musulmana profondamente legata a Israele e alla società in cui è cresciuta, che considera ancora casa, anche se da 18 anni non vive in Israele. "Mio marito è uno sceicco, io mi sento Cenerentola" dice a Etgar in un ebraico fluente, "ma a volte penso che vorrei tornare a essere quella sedicenne di Haifa, senza diventare Miss Israele". Quello che avrebbe voluto, racconta, era raggiungere il successo in Israele, come israeliana.
    Visita spesso la sua famiglia a Haifa, per cui ha costruito una bella casa, dove conserva parte del suo immenso guardaroba - "solo da mia madre ho 300 paia di scarpe" dice a Etgar mentre sfoggia parte della collezione, ovviamente tutta firmata Chanel, Gucci, Cucinelli, Hermes e simili.
    Rana ha sempre cercato di sfuggire alla politica, ma la politica non gliel'ha permesso. In passato, i giornalisti avevano cercato di estorcerle dichiarazioni a sostegno del terrorismo palestinese. Nell'intervista a Etgar, emerge con chiarezza quanto sia combattuta nel suo dilemma identitario - israeliana? araba? Dalla gente in Israele ha ricevuto molto affetto e tutto ciò che si poteva chiedere; il primo ministro Netanyahu si era congratulato calorosamente quando è stata eletta reginetta. Ma nei viaggi all'estero, la differenza tra lei e le sue colleghe modelle ebree è emersa: una cittadina araba, seppur Miss Israele, è ancora sottoposta a controlli di sicurezza più rigorosi.
    "Spero di rappresentare lo Stato di Israele nel modo migliore, non importa se sono araba o ebrea: dobbiamo dimostrare al mondo che la convivenza è possibile. Non c'è differenza tra ebrei o arabi", aveva detto Rana nel suo discorso d'incoronazione come donna più bella d'Israele. Ma parlando ora da Dubai, ci ricorda quanto sia ancora lontano questo mondo idillico. "La mia vittoria è stata politicizzata, da una parte come dall'altra". Già allora, poco dopo l'incoronazione, aveva avvertito: "Non sono la reginetta della politica, ma della bellezza".
    Ora Rana ha capito che sono maturate le condizioni per intervenire da un'altra angolazione e si presenta come un ponte di collegamento tra imprenditori e investitori emiratini e israeliani. La profonda conoscenza della società araba e israeliana, delle lingue e della mentalità, possono trasformare il dilemma identitario in una risorsa a beneficio di tutti.

(la Repubblica, 24 agosto 2021 online - trad. Sharon Nizza)


Israele supera 1 milione di casi totali covid

Ieri “record” giornaliero vicino ai 10.000 positivi

di Giulia Favignana

In Israele lunedì si è sfiorata la soglia di 10.000 positivi al COVID-19 in un solo giorno. Ieri infatti i nuovi casi Covid ammontavano a più di 9.800, e sono numeri che riportano il paese ai suoi massimi storici registrati in una giornata.
   Il tasso di positività ieri è arrivato al 6,63%. Sono numeri che non si vedevano da gennaio e febbraio. Così, come si legge nei nuovi dati del Ministero della salute, Israele supera un totale di 1 milione di positivi al COVID dall’inizio della pandemia.
   Fu durante il picco della terza ondata di questo inverno, che Israele superò 10.000 casi in un giorno. E da allora sino ad oggi non si era mai raggiunta questa cifra.
   Oggi si registrano nel paese in totale 72.572 casi, con 1.124 persone ricoverate in ospedale, 678 in gravi condizioni. Dei 141.472 test COVID effettuati lunedì, 9.831 sono risultati positivi. I deceduti domenica sono stati 30 e 12 lunedì. Sono più di un milione gli israeliani idonei al vaccino che ancora devono farlo. Intanto pare che nei prossimi giorni anche le persone dai trent’anni in su saranno chiamate a fare la terza dose di vaccino.

(Shalom, 24 agosto 2021)


Un test per Bennett

Per il premier israeliano la guerra al Covid è più che personale. C’entra la lotta senza fine con Bibi.

di Micol Flammini

ROMA - Gli israeliani che hanno ricevuto una terza dose di vaccino contro il Covid-19 sono circa 1,5 milioni. Ci sono 6.400 positivi e uno dei primi paesi che aveva celebrato il ritorno alla normalità, alla vita pre pandemia, alle feste senza restrizioni, ai concerti, alle serate assembrate, nell’ultimo mese ha dovuto fare di nuovo i conti con il virus. E il premier Naftali Bennett che il 13 giugno aveva giurato come primo ministro di un paese che si toglieva la mascherina dal volto adesso si sta rendendo conto che avere a che fare con la pandemia non è così semplice, come invece asseriva quando ancora era all’opposizione, come leader di Yamina. All’epoca il paese era guidato da Benjamin Netanyahu che, dopo aver organizzato la campagna di vaccinazione più rapida al mondo, aveva commesso l’errore di far cadere il governo, andare a elezioni anticipate e schiantarsi contro una compagine di partiti che avevano in comune solo l’obiettivo di voler vedere Israele senza di lui.
   Quando, dopo il giuramento del suo ex pupillo Bennett, Netanyahu aveva osservato che il nuovo governo prendeva la guida di uno dei paesi messi meglio per quanto riguardava la lotta al Covid, aveva ragione. Bennett e i suoi non si aspettavano però che avrebbero dovuto avere a che fare con una quarta ondata, con l’arrivo della variante Delta che li avrebbe subito messi alla prova. Ormai passato all’opposizione era stato Netanyahu il primo a dire che sarebbe stato meglio mettersi al lavoro per una terza dose di vaccino e che anzi lui avrebbe potuto chiamare il suo amico Albert Bourla, ceo di Pfizer, per chiedergli nuovi vaccini.
   Bennett e il governo avevano respinto l’offerta. Politicamente al blocco anti Netanyahu non conveniva accogliere le proposte dell’ex premier, ma Bennett si è poi ritrovato a fare quello che Netanyahu andava suggerendo da un po’: una terza dose di vaccino per tutta la popolazione, iniziando dai più fragili. Il leader di Yamina e nuovo premier sta constatando che gestire un paese e gestirlo durante una pandemia è molto più difficile nei banchi del governo che in quelli dell’opposizione.
   Tanto più che Bennett sulla gestione del Covid aveva anche scritto un libro in cui prometteva che, fosse stato lui il premier, avrebbe portato il paese fuori dalla crisi in cinque mesi. Ora si sta rendendo conto che non è così semplice. Bennett aveva anche detto che mai ci sarebbero stati passi indietro, e invece anche Israele ha dovuto reintrodurre le mascherine e altre restrizioni per evitare gli assembramenti. Adesso l’obiettivo è evitare un nuovo lockdown, ma gli israeliani, vedono il premier confuso, poco incline a rispettare le promesse e secondo un sondaggio citato dall’Economist, il 43 per cento dei cittadini pensa che Netanyahu abbia gestito la pandemia meglio di Bennett. Solo il 21 per cento dice che il invece il leader di Yamina sta facendo un lavoro migliore rispetto al suo predecessore. Netanyahu non vede l’ora di riprendere il posto che ha occupato per undici anni e anche chi è contro di lui, anche i cittadini che negli ultimi tempi hanno cercato di allontanarlo, gli riconoscono di aver gestito bene la pandemia.
   Tanto più che la crisi sanitaria e le questioni di sicurezza non lasciano spazio per parlare delle accuse e dei processi contro Netanyahu. Bibi facendo cadere il governo ha commesso un azzardo, ma Bennett vantandosi di saper gestire bene una crisi che ha messo in ginocchio il mondo intero ha complicato la sua posizione.
   Tanto più che Bennett è un premier a metà. Secondo l’accordo di coalizione il premier non può rimuovere o richiamare ministri che non siano del suo partito e, considerando che il governo è composto da otto partiti che vanno dall’estrema destra all’estrema sinistra, la capacità di azione del premier è molto ridotta. Il ministro degli Esteri Yair Lapid, di centrosinistra, non ha mai preso parte a una delle riunioni di governo sul Covid.
   Neppure Avigdor Lieberman, ministro delle Finanze e leader della destra di Israel Beitenu, lo ha mai fatto. La notizia riportata da tutte le testate israeliane ha fatto molto scalpore: le riunioni prevedono la presenza di tutti i ministri e i cittadini vedono ancora l’uscita dalla pandemia come una priorità della politica, pretendevano spiegazioni e anche che ci fossero ripercussioni. Bennett non ha potuto prendere nessuna misura contro i due ministri, uno dei quali, Lapid, è l’architetto del nuovo governo e sarà lui ad assumere la premiership quando sarà finito il mandato di Bennett.
   Israele ha capito subito come i vaccini fossero l’unica via d’uscita dalla pandemia ed è vero che Bennett si trova davanti un meccanismo ben oliato. Forse è perché le aspettative erano molto alte, ma se in Israele c’è un senso di disapprovazione nei confronti dell’operato del premier è anche perché il leader di Yamina si è messo da solo nei guai accusando Netanyahu di non saper gestire la crisi sanitaria.
   Dice Bennett che per combattere il Covid bisogna essere umili, ma lui non lo è mai stato. Sta facendo lo stesso errore che ha fatto il suo predecessore: rendere la lotta alla pandemia una questione personale. Avrebbe dovuto imparare che non conviene mai, in un paese come Israele in cui la politica è così instabile, ancora meno.

Il Foglio, 24 agosto 2021)


Da Israele al Regno Unito, arrivano i primi dati sul calo dell'efficacia dei vaccini

Tra luglio e agosto Israele e il Regno Unito, due tra i Paesi al mondo che hanno vaccinato di più contro la Covid-19, sono tornati al centro di molti titoli di giornali per l’aumento dei contagi, con gli annessi dubbi sul contributo dato dalla campagna vaccinale.
    Visto che in passato abbiamo scritto molto sull’efficacia dei vaccini, anche nel prevenire il contagio, facciamo il punto su che cosa sappiamo adesso, a otto mesi dall’inizio delle somministrazioni, sulla capacità dei vaccini di ridurre il rischio di infettarsi o di sviluppare forme gravi della malattia.
    In breve: con il passare del tempo i vaccini, senza grandi distinzioni tra i produttori, sembrano calare di efficacia per lo più nel prevenire il contagio, anche a causa della variante delta, ma la copertura resiste meglio per quanto riguarda le ospedalizzazioni.

(Pagella Politica, 23 agosto 2021)


Egitto chiude valico con Gaza. Israele valuta escalation contro Hamas ma…

Crescono le provocazioni contro Israele che però reagisce in maniera limitata. Il nodo Mansour Abbas si fa sentire

di Franco Londei

Ieri sera il Cairo ha fatto sapere che da oggi il valico di Rafah, l’unico tra Egitto e Striscia di Gaza, verrà chiuso in entrambe le direzioni.
   Nonostante non sia stata fornita alcuna spiegazione ufficiale per questa decisione, fonti della sicurezza egiziana sentite dalla Reuters hanno affermato che la decisione è stata presa per «motivi di sicurezza». Gli egiziani si aspettano qualcosa?
   A seguito dei disordini lungo il confine tra Israele e la Striscia di Gaza e il ferimento in modo grave di un agente di frontiera israeliano, ieri i caccia di Gerusalemme hanno colpito diversi depositi di armi e impianti di produzione di Hamas.
   Ma secondo indiscrezioni credibili, il Governo israeliano starebbe valutando una “energica operazione” contro Hamas, responsabile dei disordini nonostante Israele avesse concesso l’ingresso degli aiuti in denaro del Qatar e di decine di camion di aiuti materiali.

• IL NODO MANSOUR ABBAS
   A frenare una energica risposta contro Hamas e la Jihad Islamica ci sarebbe tuttavia il partito arabo Ra’am di Mansour Abbas, il quale garantisce la sopravvivenza di questo Governo e che, stando a voci non confermate, avrebbe già impedito una risposta adeguata al lancio di 21 razzi nel nord di Israele da parte di Hezbollah e che avrebbe minacciato di togliere la fiducia al Governo in caso di operazioni contro Hamas.
   Mi pare abbastanza chiaro che anche questa volta, nonostante i timori egiziani, la risposta di Israele sarà quindi giocoforza limitata e “simbolica”.
   In un momento nel quale ci sarebbe bisogno di decisioni “importanti” come quelle da dare alla corsa nucleare dell’Iran o alle continue provocazioni di Hezbollah al nord e di Hamas al sud, avere un peso al collo come Mansour Abbas non aiuta.
   Sembra quasi che conoscendo la situazione del Governo israeliano, terroristi e iraniani se ne approfittino per provocare Israele ben sapendo che non ci sarà una forte risposta.

(Rights Reporter, 24 agosto 2021)


Israele, l’ambasciatore in Italia risponde alle polemiche degli intellettuali di sinistra

Dror Eydar, 54 anni, ambasciatore israeliano a Roma dal settembre 2019, è innanzitutto un umanista. Cita Dante a memoria e nella sua residenza capitolina abbondano i libri sulla storia romana, scritti in ebraico, in inglese e in italiano. «Storicamente», dice mostrando alcuni di quei volumi antichi, «i rapporti tra Italia e Israele sono molto forti. Gli intellettuali ebrei si ispirarono al meraviglioso Risorgimento italiano. Nel 1861 Moses Hess, un ebreo tedesco, pubblicò Roma e Gerusalemme: 9 anni prima della presa di Roma, scrisse che con la liberazione della Città eterna sul fiume Tevere sarebbe iniziata la liberazione della Città eterna sul monte Moriah. Un profezia che si è realizzata».
   Nella lunga intervista su Libero appaiono distanze incolmabili tra Israele e la Palestina ma un netto spiraglio costituito proprio dal contributo imprenditoriale di Paesi Esteri come l’Italia che aiutano a comprendere che non è più tempo di farsi la guerra, ma quello di cavalcare assieme un mondo che cambia.

- E oggi, ambasciatore? Come sono i rapporti tra i nostri popoli? 
  «Italia e Israele collaborano in molti settori. Le aziende hanno interessi economici comuni, ma la componente fondamentale resta l’amicizia. Un mese fa, al termine dell’esercitazione congiunta, i piloti militari israeliani mi hanno detto cose meravigliose sui loro colleghi italiani. È così anche nell’agricoltura, nella sanità, nella cybersecurity, nella ricerca. La prima visita ufficiale del nostro ministro degli Esteri, Yair Lapid, è stata qui. Abbiamo tante cose in comune».

- C’è dell’altro, mi pare di capire.
  «C’è una domanda che mi faccio. Perché noto una discrepanza tra questi rapporti così stretti e l’attitudine dell’Italia verso Israele nell’arena internazionale, a cominciare dall’Onu. Io non capisco, noi non capiamo. Ogni anno sono adottate oltre venti risoluzioni contro Israele, non c’è altra nazione che riceva un simile trattamento. Tutti sanno che le decisioni dell’Onu contro Israele sono un teatro dell’assurdo, eppure tutti, Italia inclusa, partecipano alla scena». 

- È accaduto anche di recente, dopo l’operazione a Gaza. 
  «È stata l’operazione di uno Stato democratico contro Hamas, organizzazione terroristica di stampo nazista. Eppure il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha varato una risoluzione per investigare su Israele, accusandolo di avere commesso “crimini di guerra”. Senza dedicare una parola ai quattromila razzi lanciati contro Israele. E l’Italia si è astenuta, mettendo così Israele e Hamas sullo stesso piano».

- Ne ha parlato con i nostri politici, presumo.
  «Il capo della commissione Esteri al Senato, Vito Petrocelli (esponente del M5S, ndr), mi ha detto: “Non ho sostenuto né Israele né Hamas, io sono contro la violenza”».

- E lei? 
  «Gli ho risposto che il popolo ebraico, quando finisce Shabbat, prega Dio di dargli l’abilità di distinguere tra la luce e il buio. Perché se una persona non sa distinguere tra uno Stato democratico che non vuole combattere ed è costretto a farlo, e un’organizzazione la cui ragion d’essere consiste nel distruggere Israele e gli ebrei, il problema non è nostro: è questa persona ad avere un grosso problema morale. Appartiene a quelli di cui scrive Dante nel Terzo Canto».

- Gli ignavi. 
  «”Coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”. Quelli che non meritano nemmeno di entrare all’Inferno, perché non hanno mai preso posizione».

- Per l’Italia è una tradizione. Nel 2016 si astenne sulla risoluzione Unesco che negava il legame tra gli ebrei e i luoghi sacri di Gerusalemme. 
  «Tutto il mondo occidentale vuole intervenire nel rapporto storico, religioso e sentimentale che lega gli ebrei a Gerusalemme. Ma Gerusalemme non è una capitale come le altre: è la ragion d’essere degli ebrei. Durante l’esilio la ricordavamo ogni volta che mangiavamo e ancora oggi, dopo aver ringraziato Dio per il cibo, aggiungiamo: “E non dimenticare di costruire Gerusalemme”».

- Gerusalemme è sacra anche per musulmani e cristiani, ambasciatore.
  «Ma questo riguarda la religione, non la politica. Gerusalemme è stata una capitale politica solo per il nostro popolo. E solo la sovranità di Israele ha garantito che vi fosse libertà di religione e movimento per tutti».

- Donald Trump ha spostato l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme. È stato il primo, ma anche l’unico.
  «Trump ha fatto un grande gesto. È entrato nella Storia come il nuovo Assuero, il re persiano che dopo l’esilio babilonese permise agli ebrei di tornare a Gerusalemme. Riconoscerla come capitale politica eterna del popolo ebraico è la ricompensa per tutti i disastri che abbiamo sofferto».

- Matteo Salvini ha promesso di fare lo stesso. È questo che vi attendete dall’Italia?
  «So che l’Italia non è l’impero romano, ma da Roma fu mandato Tito a distruggere Gerusalemme. Dopo quasi duemila anni il popolo ebraico è tornato a casa e ha ricostruito Gerusalemme. Cosa manca? Che anche Roma e l’Italia partecipino a questo miracolo. È il mio sogno».

- In Italia, comunque, chi prende posizione c’è. Una scrittrice di sinistra, Michela Murgia, nei giorni scorsi ha scritto: «La penso come Hamas».
  «È sorprendente, da parte di una scrittrice di origine cristiana. Se fosse stata nella striscia di Gaza sarebbe stata discriminata sia in quanto donna, che per Hamas non deve avere diritti, sia in quanto cristiana, perché Hamas ha perseguitato tutti i cristiani di Gaza».

- La Murgia non è certo l’unica a pensarla così. Come se lo spiega?
  «Ci sono intellettuali, o persone che vorrebbero esserlo, che fanno della loro ignoranza un’ideologia. Basterebbe che leggessero lo statuto di Hamas, scritto nel 1988. In quella carta ci sono due principi. Il primo è un impegno totale per la completa distruzione dello Stato ebraico, il secondo la promessa di uccidere ogni ebreo, ovunque si trovi. Negli ultimi cento anni conosco un solo documento in cui appaiano simili idee».

- Il Mein Kampf.
   «Appunto. A chi crede che sia possibile trattare con Hamas, consiglio di leggere questi articoli: “Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di resistenza islamico”, cioè Hamas. “Non c’è soluzione per il problema palestinese se non il jihad”».

- Magari certi personaggi trasferiscono su Hamas la loro simpatia per la causa palestinese e i poveri di Gaza. 
  «Ma Hamas non è “i palestinesi”. È un’entità distinta che nemmeno riconosce l’Autorità palestinese. Certo, a Gaza ci sono poveri, ma quegli intellettuali ingenui non sanno che, anche mentre Hamas lanciava migliaia di razzi contro di noi, contro i nostri bambini, Israele non ha mai smesso di fornire a Gaza elettricità, acqua, benzina e cibo».

- La Banca mondiale e altre organizzazioni stanno raccogliendo soldi da donare a Gaza, come riparazione per i danni subiti. 
  «È un’altra cosa che gli occidentali non capiscono: la maggior parte di quei soldi è usata per scopi terroristici, per mantenere la striscia di Gaza perennemente militarizzata. Il resto va direttamente ai capi di Hamas: la ricchezza di Ismail Haniyeh è valutata in 4 miliardi di dollari, quella di Musa Abu Marzook in 3 miliardi».

- Un’altra accusa frequente a Israele è quella di condurre una politica di «apartheid» nei confronti dei palestinesi. La ripete anche Alessandro Di Battista, altro personaggio con un certo seguito.
  «Lo so, ci sono persone che ripetono in continuazione simili bugie. In Israele un giudice arabo ha mandato in prigione il presidente dello Stato di Israele. Questa sarebbe apartheid? Da noi i cittadini arabi hanno gli stessi diritti di tutti gli altri. Anzi, ne hanno più degli ebrei, visto che non debbono fare il servizio militare».

- E lei come spiega che così tanti, in Occidente, spargano bugie su Israele? 
  «È il nuovo antisemitismo. Dicono di essere non contro gli ebrei, ma contro lo Stato ebraico, eppure lo scopo è sempre quello. Contestano il diritto di Israele a difendersi dai suoi nemici, quindi il diritto degli ebrei ad esistere e ad avere una nazione come gli altri popoli. E difendendoci non difendiamo solo noi stessi: Israele è l’avamposto contro il terrorismo e l’estremismo che minacciano il mondo libero».

- A proposito: come sono i vostri rapporti con la Ue? A Bruxelles intendono rilanciare l’accordo sul nucleare siglato con l’Iran nel 2015. 
  «Conosco gli iraniani. Sono i numeri uno nel commercio, abilissimi nelle trattative e capaci di far cambiare opinione agli europei ingenui. Anche nel 2015 il mondo disse che Israele sbagliava ad opporsi. Due anni dopo, il Mossad si procurò l’archivio del progetto nucleare iraniano. E lì c’erano le prove che durante i negoziati l’Iran aveva mentito, le sue intenzioni erano militari. Adesso arriva Mohammad Zarif, il loro ministro degli Esteri, con completo inglese e cravatta, e tanto basta a convincere gli europei».

- La guerra tra Israele ed Iran è una delle grandi paure dell’Occidente. Fino a che punto siete disposti ad arrivare per difendervi?
  «L’Iran dichiara ogni giorno che intende sterminare il popolo ebraico, e la Storia ci ha insegnato che dobbiamo credere ai dittatori quando dicono una cosa. Noi implorammo gli Alleati affinché bombardassero la linea ferroviaria di Auschwitz. Avrebbero potuto salvare mezzo milione di ebrei ungheresi, però non lo fecero. Ma abbiamo finito di implorare gli altri. Grazie a Dio, ora abbiamo la tecnologia per difenderci da soli e la saggezza per usarla. A nessuno sarà più permesso di sterminare gli ebrei. Se ci sarà la necessità, sapremo cosa fare».

(Il denaro.it, 23 agosto 2021)


La caduta di Kabul alimenta le preoccupazioni di Israele

II governo israeliano guarda con apprensione alla vittoria islamista, che potrebbe dare nuova centralità all'Iran. Il primo ministro Bennett questa settimana vede Biden, che però vuole parlare soprattutto di Palestina.

di Davide Lerner

ROMA Folle di fuggitivi assiepati sulla barriera di separazione. Un esercito che dopo ventl anni si lascia alle spalle il caos. I combattenti islamisti che spazzano via quello che resta delle unità di collaboratori locali. In Israele le immagini dell'aeroporto di Kabul si sono immediatamente sovrapposte con le memorie del ritiro dal Libano, il 24 maggio 2000, quando la decisione attesa ma improvvisa dell'allora primo ministro Ehud Barak gettò nel panico i soldati dell'Esercito libanese del sud (Sla), appendice dell'esercito israeliano (Idf) ormai allo sbaraglio con l'avanzare dei miliziani sciiti di Hezbollah.
   Dopo essere penetrato in Libano negli anni della guerra civile per annientare Arafat e la sua Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), l'esercito di Israele aveva cercato di stabilire potentati locali amici. La proclamazione del "Libano libero e indipendente" nel sud del paese, da parte del fondatore del Sla Saad Haddad, e il tentativo di sostenere il cristiano Bachir Gemayel a Beirut, si erano però rivelati dei fallimenti. Per anni l'Idf avrebbe subappaltato l'occupazione della cosiddetta "zona di sicurezza" ai miliziani alleati, ma continuando a subire perdite ingenti per mano della guerriglia islamista Migliaia i libanesi che ottennero asilo in Israele dopo il ritiro, e che vivono a oggi nel nord nel paese.

• LE DIFFERENZE
  Lo stesso ex primo ministro Barak, fautore del disimpegno, ha detto la sua mentre il paragone avventato con le vicende di Kabul si affermava nel discorso pubblico israeliano. In un editoriale sul giornale Yedioth Ahronoth ha fatto notare che a differenza del Libano «l'Afghanistan è a migliaia di chilometri dagli Stati Uniti, e nulla che possa accadere laggiù è una minaccia diretta ai suoi cittadini». Per lui quella di Biden è «una mossa audace che la storia non mancherà di apprezzare». Al contrario dell'ex leader laburista, le destre israeliane interpretano la presa del potere da parte dei Talebani come un monito a mantenere il più a lungo possibile il controllo sui territori occupati, in primis la Cisgiordania palestinese.
   E' il caso dell'ex primo ministro e leader dell'opposizione Benjamin Netanyahu, che ha rivelato un episodio curioso per ribadire l'importanza strategica dell'occupazione. «Nel 2013 (l'ex Segretario di Stato) John Kerry mi invitò a fare una visita segreta in Afghanistan per vedere, a quanto diceva lui, come gli Stati Uniti erano stati in grado di creare un esercito locale che teneva testa al terrorismo da solo», ha raccontato su Facebook. «Il messaggio era chiaramente quello afghano era il modello che gli Stati Uniti volevano applicare alla questione palestinese (cioè dotando di mezzi militari l'Autorità di Ramallah, ndr)». Netanyahu, a cui era stato offerto di viaggiare servendosi di un travestimento, declinò l'invito.

• IL PRIMO INCONTRO
  A breve ci sarà però il primo incontro fra il nuovo premier israeliano, Naftali Bennett, e il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, previsto per giovedì 26 agosto, a dominare l'attualità nello stato ebraico. L'ultima volta che due leader neoeletti di Washington e Gerusalemme hanno avviato un confronto, all'epoca del primo mandato di Barack Obama e del ritorno al potere di Netanyahu nel 2009, le cose non sono andate per il verso giusto. Lo racconta lo stesso Obama nella sua lunga autobiografia (il primo volume è uscito in Italia per Garzanti, 805 pagine), seppur nei toni prudenti che caratterizzano il libro. La sua richiesta di andarci piano con gli insediamenti illegali, in occasione dei primi contatti, scatenò fin da subito un'aggressiva campagna di Bibi, volta a screditarlo nei circoli più influenti di Washington.
    «Il chiasso orchestrato da Netanyahu aveva ottenuto l'effetto desiderata farci perdere tempo, metterci sulla difensiva e ricordarmi che le normali differenze di vedute con un primo ministro israeliano — perfino se a capo di una fragile coalizione — avevano un prezzo in termini di politica interna che semplicemente non dovevo mettere in conto quando trattavo con il Regno Unito, la Germania, la Francia, il Giappone, il Canada o un altro dei nostri alleati più stretti», ha scritto Obama.
    E ancora: «Era difficile dire se Netanyahu avesse ereditato dal padre anche l'ostilità nei confronti degli arabi che dichiarava senza batter ciglio». In un'occasione, Netanyahu pubblicizzò una normale attesa prima di un incontro con Obama alla Casa Bianca come un grave affronto allo stato ebraico.
    Ma seppur provenienti da schieramenti opposti, come Obama e Netanyahu, le premesse all'incontro Bennett-Biden sono migliori L'amministrazione americana ha interesse a favorire la sopravvivenza del governo di coalizione capeggiato dall'ex allievo di Bibi, che include anche forze progressiste, ed è dunque improbabile lo metta alle strette su questioni divisive. Bennett è il decimo leader israeliano che Biden incontra in vesti istituzionali — la prima fu Golda Meir quando era ancora senatore negli anni 70 — e i precedenti restituiscono una tendenza accomodante Da parte sua Bennett, che come Netanyahu è cresciuto a cavallo fra Israele e Stati Uniti, ha bisogno di entrare in sintonia con Biden per costruirsi una statura internazionale

• PRIORITÀ DIVERSE
  Dai rispettivi comunicati sull'incontro affiorano però vecchie frizioni. Mentre quello della Casa Bianca cita la questione palestinese fra i temi da affrontare, quello dell'ufficio del primo ministro israeliano non ne fa menzione. In linea con l'era Netanyahu, in cima alle preoccupazioni di Gerusalemme c'è piuttosto il nucleare iraniano, e la possibilità che i negoziati di Vienna rilancino l'accordo Jcpoa che era stato cestinato dall'ex presidente Donald Trump. «Sia noi che gli americani non vogliamo che l'Iran ottenga armamenti nucleari», dice il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Lior Hayat, ex console negli Stati Uniti. «Differiamo soltanto su come raggiungere questo risultato», aggiunge, sminuendo i possibili attriti fra i paesi alleati.
    Durante il colloquio, Biden potrebbe tornare sulla questione degli investimenti cinesi in Israele, che da tempo impensieriscono la Casa Bianca. Lo stesso capo della Cia, William Burns, durante una visita a Tel Aviv nella seconda settimana di agosto, aveva sollevato il problema del possibile coinvolgimento di aziende di Pechino in infrastrutture strategiche israeliane, come il porto di Haifa. Il timore è che gli appalti favoriscano la penetrazione dei servizi di intelligence cinese. Proprio in una fase in cui l'apertura di Pechino al nuovo regime talebano in Afghanistan porta alcuni analisti a paventare un'espansione strategica del Dragone in Medio Oriente.
    È invece difficile venga sollevata la questione di Zablon Simintov, l'ultimo ebreo dell'Afghanistan, che pure sta impensierendo i vertici delle istituzioni israeliane. La preoccupazione per le sue sorti ha fatto ipotizzare rocambolesche operazioni di salvataggio, per cui potrebbe servire la cooperazione degli Usa. Ma secondo rappresentanti dello stato ebraico sentiti da Domani, lo stesso Simantov avrebbe manifestato la volontà di rimanere a Kabul. «Israele in passato ha aiutato ebrei a fuggire da territori ostili», dice Lior Hayat del ministero degli esteri israeliano, «ma prima di tutto bisogna che vogliano venire loro, e in questo caso i nostri contatti suggeriscono il contrario».
    Noto per il carattere scontroso e mitomane, oltre che per il consumo copioso di bevande alcoliche, Simintov è già stato in prigione sotto l'ultimo regime talebano. Così come il suo ultimo correligionario afghano Isaak Levi, nel frattempo scomparso. I due, che vivevano barricati in zone diverse della cosiddetta "Moschea ebraica", il palazzo che ospita due ex sinagoghe in via dei fiori in centro a Kabul, si consideravano «l'uno il peggior nemico dell'altro» secondo un dispaccio in presa diretta dei Guardian nel 2002. Tanto che fu denunciandosi a vicenda che finirono per attirare l'attenzione dei talebani. Gli islamisti li avrebbero poi liberati perché esasperati dai loro furiosi litigi in cella.

(Domani, 23 agosto 2021)


Le nuove sfide di Israele sulla sicurezza

Intervista al Vice Ambasciatore Alon Simhayoff

di Ugo Volli

Alon Simhayoff, nato a Gerusalemme nel 1977, è un diplomatico di carriera israeliano che da un anno circa serve come Ministro e Vice Ambasciatore presso l'Ambasciata di Israele a Roma. Prima di assumere questa posizione, ha lavorato come consigliere politico presso il dipartimento per la sicurezza regionale e l'antiterrorismo del Ministero degli esteri. Negli anni 2015-2018 ha ricoperto il ruolo di capo della sezione politica per gli affari europei presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale.  In precedenza era stato segretario politico e addetto culturale presso l'Ambasciata di Israele a Varsavia, e ha lavorato al ministero sulle relazioni bilaterali con Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Paesi Bassi e Austria. Con lui Shalom ha parlato dei problemi di sicurezza che Israele si trova oggi ad affrontare.

- Signor Vice Ambasciatore, nelle ultime settimane diverse navi in qualche modo legate a Israele sono state attaccate in mare. È una minaccia nuova, la cui responsabilità è generalmente attribuita all’Iran. Come Israele intende contrastarla?
   “La responsabilità dell’Iran in questi episodi è chiara: noi abbiamo identificato personalmente gli organizzatori di questi attacchi e la catena di comando che li ha decisi. Ne abbiamo denunciato pubblicamente i nomi. E’ importante dire che si tratta di una minaccia non solo per Israele ma per tutta la comunità internazionale. Non solo perché colpendo navi civili si attacca la libertà di navigazione, che è un bene di tutti, ma anche perché in questi attentati sono stati colpiti soggetti di varie nazionalità: navi di proprietà giapponese, gestite da società inglesi. L’ultimo assalto ha fatto due vittime, il comandante di nazionalità rumena e un marinaio inglese. Noi crediamo che la comunità internazionale debba affrontare insieme questa minaccia e punire i responsabili. Israele dal canto suo farà tutto quel che potrà per tutelare la sicurezza dei suoi cittadini.”

- Questi attacchi sono concomitanti con il cambio di presidenza dell’Iran. Le due cose sono legate?
   “Chiaramente non si tratta di iniziative individuali, ma di una politica dello stato iraniano. Gli attacchi sono iniziati già prima della presidenza Raisi. Ma è importante ricordare che il nuovo presidente è un estremista fanatico, coinvolto quand’era responsabile dell’apparato giuridico dell’Iran in molte esecuzioni. Il suo è uno dei governi più pericolosi ed estremisti dell’intera storia della repubblica islamica. Basta pensare al ministro degli interni  Ahmad Vahidi, che è ricercato dall’Interpol per il suoi ruolo nel terribile attentato del 1984 al centro ebraico   di Buenos Aires (AMIA), in cui furono uccise 85 persone. Lei può immaginare un ministro degli interni ricercato dall’Interpol per strage? Il ministro degli esteri Hossein Amir Abdollahian è un noto antisemita, che si è pubblicamente riferito a Netanyahu come “Hitler”. Anche il capo di gabinetto di Raisi è stato internazionalmente incriminato per torture di prigionieri. La composizione di questo governo è un chiaro segnale di violenza ed estremismo. La comunità internazionale deve mostrare forza e bloccare le politiche aggressive dell’Iran.”

- Non sembra che questo sia l’atteggiamento dell’Amministrazione Biden né dell’Europa, che cercano a ogni costo di rinnovare gli accordi nucleari Jpcoa con l’Iran.
   “La situazione è profondamente cambiata rispetto al 2015, quando furono conclusi quegli accordi. Anche grazie alla nostra pubblicazione degli archivi segreti che documentano i loro progetti di armamento nucleare, oggi tutti dovrebbero capire che non è possibile fidarsi dell’Iran. Il regime iraniano è andato molto avanti nella preparazione del combustibile per la bomba atomica e anche di missili capaci di trasportarla. Gli accordi Jpcoa non tenevano conto delle preoccupazioni degli stati vicini all’Iran, fra cui Israele, ma non solo. Noi crediamo che la comunità internazionale oggi debba prenderli in considerazione e bloccare non solo i piani nucleari dell’Iran, ma anche il suo progetto imperialista.”

-  Ma il ministro della difesa di Israele, Benny Gantz, ha appena dichiarato che in dieci settimane l’Iran potrà aver accumulato abbastanza uranio arricchito da costruire un ordigno nucleare. Come cambierà la politica del Medio Oriente, allora? Che farà Israele?
   - “Noi pensiamo che quel momento non debba mai essere raggiunto. Israele non è disposto ad accettare un armamento nucleare iraniano.”

- Di recente, per la prima volta da decenni, Hezbollah ha bombardato Israele con i suoi missili. E’ un problema significativo?
   -  “Il Libano ha gravissimi problemi economici e strutturali. Hezbollah, invece di cercare di migliorare la situazione del suo paese, persegue solo gli interessi dell’Iran. E’ un’organizzazione terroristica che ha commesso molti crimini e attentati, anche in territorio europeo. Bisogna accrescere la pressione internazionale per fermarli. L’Iran agisce tramite organizzazioni satellite, come Hezbollah, Hamas, gli Houti in Yemen, eccetera. Sta cercando di armarli con sistemi missilistici di precisione che potrebbero minacciare seriamente la sicurezza di Israele. Noi siamo determinati a impedirlo.”

- Gli accordi di Abramo stanno per compiere un anno. Hanno raggiunto il loro risultato?
   “Sono stati uno sviluppo importantissimo, che ha cambiato profondamente il Medio Oriente. Abbiamo ottimi rapporti con gli Emirati e il Bahrein, scambieremo presto rappresentanze diplomatiche col Marocco, con altri stati ci sono trattative. Il ruolo di Israele nel Medio Oriente è molto cambiato. Io sono molto ottimista su questo. C’è un’altra cosa da considerare: non bisogna vedere questi accordi come alternativi alla soluzione della questione palestinese. Noi crediamo al contrario che possano essere la strada per arrivare a una convivenza pacifica.

- Che cosa possono fare gli ebrei italiani per aiutare Israele in questo momento?
   “Mi permetta di dire una cosa: sono qui da un anno dopo tante esperienze internazionali e sono stato veramente colpito dall’incontro con la comunità romana: consapevole, compatta, fiera della propria identità. La manifestazione organizzata qualche mese fa durante il conflitto a Gaza, con tanta gente e tanti politici che sono venuti a darci la loro solidarietà ha fatto una grande impressione anche al Ministero a Gerusalemme. Noi contiamo che la comunità di Roma e gli ebrei italiani continuino a sostenere Israele e a operare perché aumenti in Italia la consapevolezza della situazione in Medio Oriente. A proposito di questo devo dire che sono stato deluso dal fatto che, dopo tante espressioni politiche di solidarietà con Israele, l’Italia non abbia supportato Israele all’Onu. Bisogna lavorare per cambiare le posizioni italiane su questo tema nelle organizzazioni internazionali”.

(Shalom, 23 agosto 2021)


La foto dell’eroe segreto. Così il boia Eichmann fu consegnato al Mossad

Klammer era collega del gerarca nazista, ricercato e fuggito in Argentina. La sua identità è rimasta nascosta fino all’inchiesta di un giornale tedesco.

di Tonia Mastrobuoni

Nella foto del GHS-Archiv, cerchiato di rosso, il gerarca nazista Adolf Eichmann durante la latitanza in Argentina. Alla sua sinistra, l’uomo che lo consegnò a Israele, il geologo Gerhard Klammer: è la foto che convinse il Mossad
BERLINO - L’uomo nella foto sorride. Ma non è ignaro. Sa chi è il collega che posa accanto a lui. Sa che è uno dei più feroci gerarchi nazisti, latitante da anni. Anche Adolf Eichmann sembra accennare a un sorriso. Si sente protetto in quella sperduta provincia argentina. Coperto dalla fedeltà d’acciaio dell’ampia rete di ex nazisti che si nascondono nel Paese di Perón e dalla falsa identità che gli hanno regalato. Ma l’uomo nella foto ha capito da un pezzo che dietro Ricardo Klement si cela uno dei principali architetti dello sterminio degli ebrei, il boia che Hannah Arendt prenderà a esempio per descrivere la banalità del male quando diventerà l’imputato del più spettacolare processo alla Germania nazista in Israele. Gerhard Klammer è schifato da Eichmann. In Germania ha visto i filmati sui campi di concentramento, per anni busserà invano alle autorità tedesche per denunciarlo. Finché non incontrerà la persona giusta. Fino a oggi l’identità di Klammer, eroe civile, geologo tedesco emigrato in Sudamerica che consegnò il boia di Hitler alla procura generale e al Mossad, è rimasta segreta. Il quotidiano Sueddeutsche Zeitung è riuscito a ricostruirne l’identità attraverso una lunga inchiesta.
   È il 1949 quando Klammer decide di abbandonare la moglie, i figli, e una Germania ancora ricoperta di macerie per cercare fortuna in Sudamerica. È costretto a lavoretti saltuari, pagati una miseria, e a settembre si imbarca clandestinamente a Genova su una nave che lo porta in Argentina. Negli stessi mesi Adolf Eichmann è più fortunato. Parte in nave per il Sudamerica con il suo passaporto nuovo di zecca e quando arriva a Buenos Aires la rete di ex nazisti magnificamente raccontata da Frederick Forsyth in "Dossier Odessa" è già lì ad aspettarlo. I sodali del Reich lo portano immediatamente nella provincia di Tucuman, dove c’è già un lavoro nell’impresa di costruzioni Capri ad aspettarlo. È stata fondata da un ex ufficiale delle SS, pullula di ex nazisti con il passaporto falso. Ma il regime di Perón chiude entrambi gli occhi.
   Klammer approda alla Capri con più fatica. Fa il barista, scrive a un suo collega, sarcastico, che "diventerò un grande gastronomo o un barbone", finalmente riesce a unirsi a una spedizione scientifica di un biologo austriaco, Otto Feninger. E con lui, il geologo fa scoperte talmente importanti che i giornali argentini lo festeggiano come un novello Alexander von Humboldt. Dopo, piovono le offerte di lavoro. E il giovane geologo, finalmente raggiunto dalla moglie e dai figli, accetta un impiego alla Capri, la stessa dove lavora Eichmann.
   Quando arriva in azienda, tutti sanno chi si nasconde dietro Ricardo Klement. All’inizio degli anni Cinquanta, Klammer comincia a denunciarlo alle autorità tedesche. Ma nessuno lo ascolta. Il Paese vuole dimenticare, il cancelliere Konrad Adenauer è ansioso di cancellare tante biografie coperte di sangue, vuole pacificare una Germania che fatica a rialzarsi. Anzitutto copre il passato di uno dei suoi più stretti collaboratori, Hans Globke, che ai tempi di Hitler era stato uno dei più potenti funzionari nazisti. Il geologo ha persino seguito Eichmann a casa, di nascosto, conosce il suo indirizzo preciso. Un giorno, disperato, si rivolge a un suo amico teologo rimasto in Germania, Giselher Pohl, molto vicino al vescovo Hermann Kunst. È lui a parlare nel 1959 con il leggendario Procuratore generale Fritz Bauer, con il magistrato ebreo che si è messo a caccia gli ex nazisti ma che ha la sensazione di calpestare territorio nemico ogni volta che lascia il suo ufficio. I tribunali sono infestati di ex nazisti, e Bauer ha imparato da un pezzo a girare le sue informazioni al Mossad, ai servizi segreti israeliani. Su Eichmann, però, si sono bruciati già una volta, non si fidano dell’accuratezza delle sue informazioni. Finché Bauer non tira fuori la foto.
   È l’istantanea scattata in Argentina in cui si vede Eichmann accanto a Klammer. È la prova che convince il Mossad, che rapisce Eichmann da lì a poco e lo consegna alla giustizia israeliana. Ma la foto è strappata: Bauer ha voluto nascondere il suo informatore. Per ricomporla, la Germania ha dovuto aspettare sessanta lunghi anni.

(la Repubblica, 23 agosto 2021)


L'ultimo ebreo di Kabul

Zabulon Simantov si rifiuta di lasciare la capitale per prendersi cura della sinagoga: "Non ho paura". L'ex uomo d'affari nato a Herat: "Non me ne vado, sanno dove trovarmi, ma non mi importa".

di Luca Monticelli

Il telefono di casa squilla a vuoto, il cellulare non è raggiungibile. Zabulon Simantov, l'ultimo ebreo rimasto a Kabul, non risponde. Molte zone della città sono schermate, comunicare diventa sempre più difficile. Chi ha parlato con lui nelle ultime ore, come Rabbi Mendy Chitrik, spiega: «Siamo in contatto da anni, l'ho sentito la settimana scorsa e mi ha confermato che vuole restare nella capitale afghana», dice a La Stampa. Chitrik, presidente dell'Alleanza dei rabbini nei Paesi islamici, si trova a Istanbul dove Simantov potrebbe trovare rifugio, ora che Kabul è nelle mani dei taleban: «Le autorità turche sono informate, il ministro degli Esteri Cavusoglu sarebbe felice di aiutarlo, ma lui non vuole andarsene». La sua patria è l'Afghanistan e non intende spostarsi.
   «Qualche mese fa - racconta il rabbino Chitrik - Simantov aveva fatto sapere a più persone, sia israeliane che americane, che voleva partire. Poi ha cambiato idea, non sappiamo il perché, ha detto che non ha paura e di non essere in pericolo di vita, vuole restare perché ha dei debiti da pagare e deve prendersi cura della sinagoga. Non possiamo che accettare la sua decisione».
   Sui rischi che corre l'ultimo ebreo di Kabul, l'emissario di Chabad (il movimento ebraico internazionale) in Turchia preferisce non sbilanciarsi: «Non sappiamo cosa succederà in futuro. In passato non abbiamo registrato danni a Herat o a Kabul ai siti ebraici da parte dei taleban. Tra il '94 e il '96 quasi tutta l'antica comunità ebraica è emigrata - ricorda - per la gran parte in Israele, Singapore, Inghilterra e Stati Uniti. Così sono rimasti solo due ebrei dichiarati fino al 2005, ora uno. Ma noi siamo preoccupati anche per i collaboratori non ebrei che hanno conservato l'archivio, collaborato nel mantenere la sinagoga e i cimiteri».
   Zabulon (o Zevulum a seconda di come viene translitterato il nome) Simantov, ex uomo d'affari specializzato nell'export di tappeti, è nato nel 1959 a Herat. Ha due figli e una moglie originaria del Tagikistan, che l'ha lasciato per rifarsi una vita in Israele, e da anni chiede il divorzio che lui non vuole accettare. Nell'ebraismo, infatti, il marito deve concedere il "get'', una sorta di documento che autorizza la donna a risposarsi. Nel '95, quando i taleban presero il potere per la prima volta in Afghanistan, Simantov venne incarcerato per mesi, resistendo alle pressioni degli studenti coranici che provarono a convertirlo all'Islam. Condivise l'eredità dell'ebraismo afghano con Yitzhak Levi, con il quale però non correva buon sangue. Un po' come la famosa storia dei «due ebrei e tre opinioni», gli amici/nemici pregavano separati e si denunciarono l'un l'altro con l'accusa di aver trafugato l'unico rotolo della Torah. Nel 2005, Levi, il compagno di discussioni, è morto e Simantov è rimasto da solo a occuparsi della sinagoga e del cimitero. Lo aiutano alcuni ragazzi giovani che conoscono l'inglese e in questi vent'anni hanno aperto le porte dei siti ebraici agli occidentali in visita. Simantov parla Dari, la lingua principale dell'Afghanistan e poco l'ebraico, custodisce uno shofar (il corno di montone usato durante le funzioni religiose) e diversi libri di preghiera. Abita nell'appartamento che ospita il Tempio: un'ampia stanza bianca con un paio di colonne e una bimah (il pulpito) molto semplice al centro.
   Sulla figura di Simantov, in Israele si discute da tempo, tanto che ha ispirato un testo teatrale e un film. I media hanno ipotizzato addirittura che lui non voglia trasferirsi per non concedere il divorzio alla moglie. «In questi anni, con una mano ci siamo assicurati che lui fosse vivo cercando di fargli avere quello di cui aveva bisogno e con l'altra siamo stati vicini alla moglie - ricorda Rabbi Chitrik - abbiamo insistito con Zevulum perché concedesse il divorzio religioso, ma sfortunatamente non ci siamo riusciti».
   Il portavoce dei taleban, alla prima conferenza stampa a Kabul, garantì il rispetto delle minoranze, una promessa che sembra già essere stata tradita viste le notizie che arrivano di vendette e spedizioni punitive casa per casa. «Sanno dove trovarmi - dice Simantov - ma non mi importa».

(La Stampa, 23 agosto 2021)


Un articolo di 16 anni fa su Simintov: "Così sopravvive l'ultimo ebreo rimasto a Kabul".


Covid: ciò che sappiamo sul nuovo ceppo Delta potrebbe bloccare Israele

di Felipa Santos

Un alto funzionario sanitario ha avvertito la scorsa settimana che un nuovo ceppo Delta potrebbe forzare l’ingresso in Israele .
   l direttore del Dipartimento delle relazioni internazionali presso il Ministero della salute, il dott. Asher Shalomon, ha dichiarato al Comitato per la legge e la costituzione della Knesset, riferendosi all’AY3, che si ritiene abbia avuto origine in Sud America e sia stato scoperto per la prima volta negli Stati Uniti.
   Solo due giorni dopo, il ministero ha annunciato che in Israele erano stati identificati 10 casi di AY3, otto tra persone rientrate di recente dall’estero e due che sembravano aver contratto l’infezione nel Paese.
   Cosa sappiamo dell’AY3 che potrebbe essere la goccia che ha fatto traboccare il vaso e ha provocato un altro arresto israeliano?
   “AY3 è un sottotipo di una variante delta, che rientra nella categoria di quelle che chiamiamo varianti Delta-Plus”, ha affermato il professor Cyril Cohen, capo del laboratorio di immunoterapia presso la Bar Ilan University. “Tutti rappresentano una mutazione chiamata 417, sospettata di aiutare la variante a sfuggire agli anticorpi”.
   Tutti i virus tendono a mutare costantemente. Sebbene la maggior parte delle mutazioni non abbia conseguenze, un gruppo di mutazioni può generare una nuova variante e, di conseguenza, il virus può produrre una proteina diversa. Nel caso del coronavirus, la proteina primaria da considerare è la proteina spike, che si trova sulla superficie del virus e gli consente di penetrare nelle cellule ospiti e causare infezioni.
   Le varianti sono una preoccupazione quando aumentano la trasmissibilità del virus, poiché tendono a provocare sintomi più gravi o appaiono più resistenti agli anticorpi.
   “Abbiamo visto che a maggio il ceppo era quasi inesistente negli Stati Uniti, e ora rappresenta circa il 13% di tutti i casi nell’intero paese, e in alcuni singoli stati come Mississippi e Missouri, fino al 43%. -45% dei casi”, ha osservato. Cohen.
   Quando gli è stato chiesto se pensa che l’alternativa sia arrivata in Israele e che il Paese sia più a rischio di chiusura, il professore ha detto che non pensa che siamo ancora arrivati a quel punto.
   Ha detto: “Dobbiamo seguire da vicino ciò che sta accadendo e vedere se diventa prevalente in Israele”. “Con il Delta originale ci trovavamo in una situazione simile: era già in Israele ad aprile, ma è rimasto inattivo fino a quando i casi non hanno iniziato ad aumentare improvvisamente a giugno”, ha detto.
   l volo di salvataggio di Harel riporta i pazienti israeliani con coronavirus dall’Islanda. (credito: IMA – Viaggi Medici)
   Tuttavia, il problema che Israele deve affrontare è che con 7000-8000 nuovi portatori di virus Determinato ogni giorno, lo Stato non è in grado di effettuare il sequenziamento genetico di tutti i nuovi casi, ma solo di un campione statistico, che non consente alle autorità sanitarie di monitorare a pieno le varianti.
   “Quando abbiamo avuto meno casi, siamo stati in grado di risolverli quasi tutti”, ha detto Cohen.
   Quanto a quanto sarebbe allarmante la variante se dovesse diffondersi, Cohen ha detto che è troppo presto per saperlo perché le informazioni sono ancora molto limitate.
   “La mia impressione è che quando si tratta di protezione anticorpale, non sarà un problema tutto o niente, ma piuttosto manterremo una qualche forma di protezione, anche se il vaccino è meno efficace”, ha detto Cohen.

(Telecentro di Bologna e dell'Emilia Romagna, 22 agosto 2021)


“Abbiamo visto che a maggio il ceppo era quasi inesistente negli Stati Uniti, e ora rappresenta circa il 13% di tutti i casi nell’intero paese, e in alcuni singoli stati come Mississippi e Missouri, fino al 43%. -45% dei casi”. E se fosse proprio la vaccinazione a provocare l'inattesa comparsa di certe varianti? Tra le tante voci "scientifiche" c'è anche questa. M.C.


Beni confiscati agli ebrei scoppia la crisi diplomatica

di Monica Perosino

Come se non bastasse la già tesa situazione tra Varsavia e Unione europea in materia di stato di diritto, media e riforma della giustizia, il governo ultranazionalista di Varsavia è riuscito, nel giro di pochi giorni, ad attirarsi anche le ire di Israele per la nuova legge sulla reprywatyzacja, la riprivatizzazione, firmata dal presidente Duda alla vigilia di Ferragosto, che concede non più di 30 anni per contestare ogni decisione sulla riassegnazione delle proprietà sottratte agli ebrei dai nazisti durante e dopo la Seconda guerra mondiale, impedendo di fatto la restituzione ai superstiti dell'Olocausto delle proprietà sequestrate e poi nazionalizzate durante l'occupazione comunista.
   Una legge che Israele definisce «vergognosa, un oltraggio alla memoria della Shoah» e contro la quale combatte da mesi, chiamando in aiuto anche l'alleata Washington. Ma Le pressioni internazionali non sono servite: la «legge antisemita» è passata e la crisi diplomatica tra Varsavia e Gerusalemme è ormai conclamata, tanto che la Polonia ha richiamato il suo ambasciatore in Israele due giorni dopo che Gerusalemme aveva fatto lo stesso in risposta alla firma di Duda. La legge è stata definita dal ministro degli esteri Yair Lapid «antisemita e immorale» e a rimarcare lo strappo con Varsavia ha raccomandato che «il rappresentante polacco in Israele continui le vacanze nel suo Paese», suggerendogli di usare il suo tempo per «spiegare al popolo polacco quello che significa la Shoah per i cittadini di Israele» e come lo stato ebraico «non tollererà il disprezzo per la memoria delle vittime e la memoria della Shoah». Dal canto sua Duda ha tentato di motivare la legge augurandosi che questa ponga fine a «un'era di caos legale» e a «mafie di riprivatizzazione».
   Sei milioni di polacchi, metà dei quali ebrei, furono uccisi durante la Seconda guerra mondiale in Polonia. Quando la cortina di ferro cadde nel 1989, la Polonia non organizzò la restituzione delle proprietà saccheggiate come fecero la maggior parte degli altri Paesi del blocco comunista, lasciando che le singole persone, o gli eredi, tentassero la fortuna in tribunale. In Polonia i beni confiscati dai nazisti valgono diversi miliardi di dollari.

(Specchio, 22 agosto 2021)


Il catalogo dell'Italia ebraica

Il 26 settembre alla Festa del Libro ebraico di Ferrara saranno presentati al pubblico i primi risultati del progetto di catalogazione del patrimonio librario dell'ebraismo italiano. Obiettivo finale dell'iniziativa, catalogare 35mila volumi.

Dopo un'iniziale fase pilota, il progetto di censimento digitale di circa 35mila volumi a tema ebraico "I-TAL-YA Books", frutto di una collaborazione tra l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, l'ente a capo dell'iniziativa, la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, la Biblioteca Nazionale di Israele e la Rothschild Foundation, ha preso ufficialmente il via la scorsa estate. Obiettivo: realizzare un database bilingue, in italiano e in ebraico, che permetta di coprire l'intero arco che va dalle origini della stampa fino agli Anni Sessanta del secolo scorso. Quattordici le comunità ebraiche e venticinque le istituzioni statali oggetto della ricognizione. Il progetto avanza spedito, nonostante le difficoltà di un anno di pandemia che hanno inciso inevitabilmente sulle tempistiche. Già 2000 i volumi caricati sulla Teca, il portale della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, e altri 1000 sono pronti per essere aggiunti. Ogni due mesi circa si procederà con un ulteriore aggiornamento. Il prossimo 26 settembre, in occasione della Festa del Libro ebraico di Ferrara, organizzata dal Museo nazionale dell'Ebraismo e della Shoah (Meis), ci sarà un grande evento per presentare i risultati ottenuti fino ad ora da Y-TAL-YA Books e le prospettive per il futuro. Un evento in italiano e inglese, che sarà visibile sulle piattaforme social di UCEI, Meis e Biblioteca d'Israele. Andando sul sito (http:/ /digitale.bnc.roma.sbn.it/) è possibile consultare il materiale catalogato: uno strumento utile per gli studiosi, ma anche per chi vuole rendersi conto della portata del progetto. Dal Centro Bibliografico UCEI alla biblioteca Artom di Torino, da quella di Genova al fondo di Ferrara, fino alle cinquecentine del fondo di Firenze, si coglie l'impatto di un'iniziativa che aiuta a scoprire il passato dell'ebraismo italiano, le sue profonde radici nella storia culturale del paese. Ci si può così immergere in pagine che vanno dal Quattrocento fino a metà Novecento, sfogliare i commenti dei rabbini ai testi della tradizione, ma anche scoprire dove e chi aveva la possibilità di stampare questi volumi. L'iniziativa "I-TalYa Books" garantisce dunque la protezione, la conservazione e l'accesso a questi tesori culturali come mai prima d'ora, utilizzando una tecnologia sviluppata appositamente per questa iniziativa.
  Come spiegava su queste pagine Gloria Arbib, referente UCEI del progetto, nell'aprile 2018 il gruppo di lavoro si è riunito e ha posto le basi organizzative per iniziare la catalogazione. Inizialmente si è deciso di svolgere una fase pilota concentrandosi su duemila volumi presenti in alcune biblioteche a Roma, Milano, Torino e Genova. Al termine della fase pilota, ottobre 2018-marzo 2019, il comitato scientifico è stato invitato a collegarsi alla Teca per analizzare i primi risultati e consentire al gruppo di lavoro di raccogliere feedback e suggerimenti.
  Grazie a questa analisi, è stato possibile migliorare la funzione di ricerca nella Teca in modo da poter selezionare per autore, titolo, luogo di edizione e tipografia/ editore, sia in caratteri latini che in ebraico. Cercare un nome di autore o di luogo che, nel corso dei secoli e a causa della traslitterazione può essere stato scritto in molti modi diversi, costituisce una evidente difficoltà, ma attraverso l'uso di 'authority file' la funzione di ricerca è in grado di individuare un nome anche se scritto in più versioni (Abramo, Avraam, Abraham). La Rothschild Foundation Hanadiv Europe nell'aprile 2019 ha chiesto di presentare la richiesta di contributo finanziario per completare la catalogazione. Per gestire al meglio il progetto ha fornito il sistema di gestione per la catalogazione e digitalizzazione Goobi della Scandata, che consente l'interazione tra tutti gli attori del processo: i fotografi caricano sul sistema le foto, il controllo qualità ne verifica la correttezza, il collegamento immediato sulle foto da parte dei catalogatori e della Biblioteca. Questo sistema permette al gruppo di lavoro di operare sulla stessa piattaforma informatica in tutte le fasi del procedimento.
  A settembre 2019 la Rothschild Foundation Hanadiv Europe ha approvato la seconda fase del progetto che prevede la catalogazione di circa 18mila volumi da realizzare nel corso del 2020 e 2021. A questa seguirà la terza e ultima fase di completamento che consentirà la registrazione di tutto il patrimonio librario in ebraico, custodito nelle biblioteche italiane.

(Pagine Ebraiche, 22 agosto 2021)


L'ambiguo patto fra medicina e governi

La medicina ha il compito di curare le malattie secondo i princìpi che segue da secoli e che il giuramento di Ippocrate sancisce irrevocabilmente. Se, stringendo un patto necessariamente ambiguo e indeterminato con i governi, si pone invece in posizione di legislatore, non soltanto, come si è visto in Italia per la pandemia, ciò non conduce a risultati positivi sul piano della salute, ma può condurre a inaccettabili limitazioni delle libertà degli individui, rispetto alle quali le ragioni mediche possono offrire, come dovrebbe oggi essere per tutti evidente, il pretesto ideale per un controllo senza precedenti della vita sociale.
Il primo esempio di una legislazione in cui uno Stato si assume programmaticamente la cura della salute dei cittadini è l’eugenetica nazista. Subito dopo l’ascesa al potere, nel luglio 1933, Hitler fece promulgare una legge per proteggere il popolo tedesco dalle malattie ereditarie, che portò alla creazione di speciali commissioni per la salute ereditaria (Erbgesundheitsgerichte) che decisero la sterilizzazione coatta di 400.000 persone.

(Da "A che punto siamo?" di Giorgio Agamben)



«I TAL YA», dolce nome coniato dagli ebrei

Storie di popoli. Secondo un'antica etimologia il termine «Italia» avrebbe origini giudaiche con un bellissimo significato: «Isola della rugiada divina». Da qui parte lo studio di Germano Maifreda sull'ebraismo italiano.

di Massimo Firpo

Un'antica etimologia giudaica fa nascere il nome Italia dall'espressione Ital ya, «l'isola della rugiada divina», la terra sulla quale Dio ha riversato le sue benedizioni, abitata dagli ebrei già in età preromana. Per alcuni fu così, almeno rispetto ad altre parti del mondo, che di quelle benedizioni ne ricevettero ben poche.
  La storia dell'ebraismo italiano conosce oggi una stagione molto vitale anche grazie alla svolta euristica segnata dall'apertura agli studiosi nel 1999 degli archivi del Sant'Ufficio romano che su di essi aveva giurisdizione e fu quindi fondamentale nella creazione di una cultura teologica e politica della discriminazione. Molte furono le peculiarità della presenza giudaica al di qua delle Alpi nel più ampio contesto europeo e mediterraneo, a cominciare dalle profonde diversità tra luogo e luogo.
  La Spagna ne decretò infatti la cacciata da tutti i suoi domini italiani tra il 1492 e il 1597, mentre altre realtà politiche ne videro insediamenti e ruoli, sia pure assai differenziati, o addirittura ne sollecitarono la presenza e le competenze mercantili, come nella Livorno del granducato di Toscana. Fu solo in Italia, per esempio (con l'eccezione della Judengasse di Francoforte), che dall'inizio del Cinquecento gli ebrei furono rinchiusi nei ghetti: il primo a essere inaugurato fu quello di Venezia nel 1516 e l'ultimo a essere chiuso quello di Roma nel 1870, dopo la breccia di Porta Pia. Paradossalmente il ghetto segregò, ma al tempo stesso protesse gli ebrei, che vi poterono avere una sinagoga, praticare il loro culto, esercitare le loro attività, studiare la loro lingua e la loro legge, conservare le loro identità storiche e linguistiche tutt'altro che omogenee e talora aspramente conflittuali.
  È in questa prospettiva mobile e aperta, volta anche a superare la contrapposizione tra la storiografia ebraica dell'esclusione e la storiografia non ebraica dell'integrazione che Germano Maifreda si sottrae a ogni teleologia della progressiva assimilazione all'insegna di una tradizione di bonaria tolleranza che sarebbe stata tipica degli italiani, fino all'improvvisa e brutale svolta delle leggi razziali del 1938.
  La struttura portante del libro consiste piuttosto nel rifiuto di una categoria problematica come quella degli ebrei italiani, sostituita da quella più sfumata e complessa degli ebrei in Italia, che conobbero infatti molte distinzioni: ebrei autoctoni, tedeschi (askenaziti), iberici (sefarditi), conversos, levantini, famiglie ricche e talora ricchissime, votate a una chiusa endogamia, stracciaroli e grandi mercanti, artigiani e finanzieri, immersi in reti di relazioni talora vastissime. Lingue, culture, status, pratiche sociali, consuetudini matrimoniali ed ereditarie, diritti di proprietà compongono mosaici di identità differenti che impediscono di parlare di un «un unico modo di vivere "da ebrei"» e impongono distinzioni profonde tra la storia degli italiani e la storia degli ebrei, che tuttavia questo libro aiuta a ricomporre e raccordare proprio a partire dalla loro strutturale diversità. E lo fa attraverso episodi emblematici e analisi di specifiche realtà locali (Venezia, Ferrara, Mantova, Roma, Milano) che impongono di rivedere e arricchire lo stesso «vocabolario» della questione per farne emergere le molte sfaccettature nel lungo arco di tempo che va dal Rinascimento all'Unità d'Italia, dall'espulsione degli ebrei dalla Spagna cattolica (ma tacitamente accolti nello Stato pontificio dall'aragonese Alessandro VI)all'emancipazione giuridica decretata dalla corona sabauda e poi estesa a tutto il Regno d'Italia.
  È il caso, per esempio, del marinaio cristiano Giorgio, innamorato dell'ebrea Rachel, che alla fine del Cinquecento si aggira spavaldamente notte e giorno nel ghetto veneziano dicendosi addirittura pronto a farsi ebreo pur di poterla sposare, in barba al formale divieto contemplato dalla severissima e umiliante bolla Cum nimis absurdum emanata nel 1555 da Paolo IV, l'istitutore del ghetto romano, ma in barba anche ai genitori della donna che per levarselo di tomo non trovano di meglio che denunciarlo all'Inquisizione. I documenti della vicenda consentono di verificare le molteplici violazioni normative e contaminazioni sociali che si intrecciavano nel ghetto, nelle feste, nei traffici, nella stampa e diffusione di libri, nei riti magici e negli esorcismi, nella circolazione di macellai e panettieri per la preparazione del cibo kosher, di medici e musicisti. «Una realtà sociale plastica, non troppo condizionata da schemi normativi e confini simbolici rigidi e precostituiti», insomma, percorsa da un fitto intreccio di «interazioni e scambi culturali», di «rapporti di lavoro, affettivi, intellettuali, ludici, persino religiosi o comunque spirituali», in un continuo «oscillare tra familiarità ed estraneità, curiosità e incomprensione, seduzione e paura» che costituì «forse la cifra distintiva della relazione tra le "storie di ebrei" e la "storia italiana"».
  Ne scaturisce una realtà complessa, fatta di «contatti, collaborazioni e attrazioni reciproche tra donne, uomini, bambini ebrei e cristiani a cavallo delle mura del claustro» che, lungi dal fornire «una rappresentazione edulcorata e tranquillizzante dei rapporti tra ebrei e cristiani» suggerisce che «proprio nel divario tra la lettera delle leggi e la pratica quotidiana» si possa individuare «una chiave di lettura dell'equilibrio instabile tra società maggioritaria e minoranza ebraica».
  Non è possibile in questa sede soffermarsi in dettaglio sulla ricca e variegata casistica studiata e narrata con grande efficacia da Maifreda, e dispiace di non poterlo fare soprattutto per le belle pagine dedicate alla Roma papale e alle mille contraddizioni della sua legislazione antigiudaica. Una ricerca densa e raffinata, dunque, che impedisce di ridurre la storia degli ebrei a una storia di discriminazioni, vessazioni. segregazioni, espulsioni, persecuzioni ai danni di una massa indistinta di «soggetti inerti, stereotipati, passivi».
  In realtà il ghetto non fu solo un serraglio, fu anche un luogo di negoziazione costante che conobbe momenti diversi, fasi alterne, rapporti mutevoli nel quadro della «strutturale sfasatura tra leggi e pratiche» che ne costituì l'essenza, al punto da diventare una «metafora» dell'intera storia degli ebrei in Italia. «E forse - suggerisce acutamente l'autore - della storia nella sua interezza».

(Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2021)


Spigolature da Roma. Lo Shibolè ha-leqet

di Ariel Di Porto

Non è un mistero che la presenza ebraica a Roma sia antichissima. La leggenda vuole che quattro famiglie vennero esiliate a Roma da Tito ai tempi della distruzione del secondo Tempio. A una di queste famiglie, quella degli Anawim (dei Mansi), apparteneva uno dei più illustri rabbini romani, Zidqià ben Avraham ha-rofè (XIII sec.), autore dello Shibolè ha-leqet, opera halakhica, fra le prime del genere in Italia, nella quale vengono illustrate, fra le numerose norme, usanze ancora oggi praticate dagli ebrei romani. Il fratello dell’autore, Biniamin, uno dei maggiori dotti romani del suo tempo, si distinse per le sue conoscenze filosofiche, matematiche e astronomiche, e fu autore di vari componimenti poetici recitati nel rito romano e ashkenazita. Alla stessa famiglia apparteneva anche Natan ben Yechiel, che nell’XI secolo scrisse l’Arukh, una grandiosa opera lessicografica sulla letteratura postbiblica, che diede all’autore ampia fama e funse da base per i lessici talmudici successivi.
  Nello Shibolè ha-leqet (ed. Buber, cap. 263, p. 252) viene ricordata una delle pagine più tristi della storia degli ebrei nel medioevo, il rogo del Talmud di Parigi del 5004 (1244, o secondo gli studiosi 1242), da cui scaturì l’uso di digiunare il venerdì che precede lo Shabbat in cui viene letta la parashà di Chuqqat. Questo riferimento ci permette di inquadrare cronologicamente l’opera, scritta al massimo pochi anni dopo. La formazione di R. Zidqià iniziò a Roma, allora importante centro di studi, sotto la guida di R. Meir ben R. Moshè e di R. Yehudà ben R. Biniamin, figlio del fratello di suo padre Avraham. Gli studi proseguirono nelle yeshivot francesi e ashkenazite, sotto la guida di R. Ya’aqov di Wurzburg e probabilmente di R. Avigdor ha-Kohen di Vienna, prima del ritorno in Italia, dove R. Zidqià diviene allievo del tosafista R. Eli’ezer di Verona. Nella sua opera R. Zidqià cita frequentemente R. Yesha’ayà da Trani (Ri”d), uno dei massimi commentatori del Talmud e una delle maggiori autorità rabbiniche nell’Italia medievale, ma non abbiamo testimonianze di alcuna interrelazione fra i due, probabilmente perché R. Zidqià lasciò l’Italia da giovane.
  L’opera più famosa di R. Zidqià è intitolata Shibolè ha-leqet, spigolature. L’immagine bucolica viene illustrata nell’introduzione dall’autore, che ha raccolto delle spighe (fuor di metafora, degli insegnamenti) dai Gheonim e le ha riunite in dei covoni, separando la paglia dal grano. In questo lavoro R. Zidqià non si esime dal prendere posizione nelle varie dispute rabbiniche, ma pur riconoscendo la grandezza delle autorità precedenti e la propria insignificanza, si considera, riprendendo un’argomentazione già presentata dal Ri”d, come un nano sulle spalle dei giganti, che può vedere più lontano di loro, quando si avvale della loro conoscenza e esperienza. Questa metafora, che a noi, visto l’ampio utilizzo che se ne fa al giorno d’oggi, può sembrare molto familiare, ha una prima attestazione di rilievo nel Metalogicon di Giovanni di Salisbury (1159), che ne attribuisce la paternità al suo maestro Bernardo di Chartres.
  L’opera si interessa delle regole relative alla vita quotidiana e alle festività. Conta complessivamente 372 capitoli, sheva’ (sette) nella ghematrià, richiamando così le sette spighe (sheva’ shibolim) di bell’aspetto dei sogni del Faraone, interpretati da Giuseppe nel libro della Genesi. Un’altra opera, che qualcuno considera la seconda parte dello Shibolè ha-leqet, affronta altre tematiche afferenti ad altri ambiti della normativa ebraica, affrontandoli però in un modo sensibilmente differente a livello metodologico rispetto all’altra opera.
  Le prime edizioni a stampa dello Shibolè ha-leqet, a partire dall’edizione di Venezia del 1546, riportano in realtà solo una parte, circa un terzo, degli insegnamenti in esso contenuti, a volte inserendo dei cambiamenti considerevoli. L’edizione completa dello Shibolè ha-leqet, che comprende anche le norme sul lutto, la circoncisione, lo tzitzit, i tefillin, la shechità e le terefot (difetti fisici degli animali che li rendono inadatti al consumo) è stata pubblicata molto più tardi, nel 1886, grazie al lavoro compiuto da Shelomò Buber, il nonno di Martin Buber, su due manoscritti dell’opera. Le varie edizioni sono consultabili in rete, per esempio sul sito hebrewbooks.org.
  Allo Shibolè ha-leqet sono collegati altri testi halakhici, il Tania Rabbatì di R. Yechiel Ben Yequtiel, anch’esso appartenente alla famiglia degli Anawim, che divenne il libro guida per gli usi e le tradizioni che seguono il rito italiano, e il Sefer ha-taddir di R. Moshè ben Yequtiel de' Rossi. In un articolo dedicato a quest’ultima opera Rav Nello Pavoncello ne traduce il titolo “libro di continua ed assidua consultazione”, in quanto esso si fonda sui “precetti più frequenti che l’ebreo deve osservare ed in quanto esso deve trovarsi continuamente nella Sinagoga, come libro di consultazione per tutti coloro che ne avranno la necessità”. Non si può non notare che all’epoca, alla fine del XIV secolo, tutti i frequentatori di un Bet ha-keneset erano in grado di leggere un testo halakhico scritto in ebraico, per quanto semplice. Credo che questo debba essere un obiettivo da perseguire per le nostre comunità al giorno d’oggi.

(Shalom, 22 agosto 2021)



Non farsi mai garante per nessuno

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 6.
  1. Figlio mio, se ti sei reso garante per il tuo prossimo,
    se ti sei impegnato per un estraneo,
  2. sei còlto allora nel laccio dalle parole della tua bocca,
    sei preso prigioniero dalle parole della tua bocca.
  3. Fa’ questo, figlio mio; disimpégnati,
    perché sei caduto in mano del tuo prossimo.
    Va’, géttati ai suoi piedi, insisti,
  4. non dar sonno ai tuoi occhi,
    né riposo alle tue palpebre;
  5. lìberati come il capriolo dalla mano del cacciatore,
    come l’uccello dalla mano dell’uccellatore.
  1. Figlio mio, se ti sei reso garante per il tuo prossimo,
    se ti sei impegnato per un estraneo,

    Questo versetto presenta una difficoltà di comprensione. Il prossimo di cui si parla è certamente il debitore che si trova nel bisogno, ma non è sicuro che l'estraneo sia la stessa persona: potrebbe anche essere il creditore. Infatti, la seconda parte del versetto letteralmente dovrebbe essere tradotta: "se hai toccato la mano allo straniero" (17.18, 22.6).  La stretta di mano era l'atto formale con cui si assicurava la propria garanzia. Potrebbe quindi essere ragionevole pensare che il garante del debito abbia "toccato la mano" del creditore per formalizzare il suo impegno a soddisfare, se necessario, l'obbligazione assunta dal debitore. Inoltre, il termine originale tradotto con "estraneo" è lo stesso che viene usato per indicare la donna adultera (2.16, 5.10, 5.17, 5.20) e quindi si adatta poco a indicare l'amico nel bisogno che si vorrebbe aiutare. Alcuni pensano poi che l'estraneo potrebbe essere una persona non appartenente al popolo di Israele, perché la legge di Mosè non permetteva che tra ebrei si prestasse denaro a usura  (Levitico 25.35-36, Ezechiele 18.8,13,17).

  2. sei còlto allora nel laccio dalle parole della tua bocca,
    sei preso prigioniero dalle parole della tua bocca.

    Può essere utile confrontare questo versetto con 5.22. In entrambi i casi viene usato lo stesso verbo tradotto con preso prigioniero, e in entrambi i casi l'uomo ammonito si è fatto imprigionare  da qualcosa che lui stesso ha prodotto: le proprie iniquità in 5.22, e le parole della sua bocca in 6.2. Un altro elemento che accomuna i due casi può essere il riferimento al falso amore. In 5.22 si parla di un empio che si lascia convincere ad "amare" una donna estranea, e in 6.2 di un figlio inesperto che si lascia convincere ad "amare" un amico che vuole indebitarsi ma non ha la fiducia di chi dovrebbe fargli credito. Si fa un po' di fatica a capire che cosa ci sia di sbagliato nel desiderio di aiutare anche in questo modo chi si trova in difficoltà finanziarie. Forse il motivo profondo sta nel fatto che il vero amore si esercita nella libertà e quindi il suo esercizio non può mai condurre in una posizione di schiavitù. Se il garante ha di che soddisfare le necessità dell'amico, deve chiedersi perché non è lui stesso a farlo. Se invece non ha i mezzi per pagare quello che spetta al creditore, ma ha fatto soltanto una promessa verbale confidando nella solvibilità dell'amico, allora ha consegnato nelle mani di altri la responsabilità del mantenimento di una sua parola data. Non ha più il controllo delle parole che ha speso, anzi, con le sue stesse parole si è legato al debitore, dal cui comportamento d'ora in poi dipenderà se la promessa fatta potrà essere mantenuta oppure no (18.7).

  3. Fa’ questo, figlio mio; disimpégnati,
    perché sei caduto in mano del tuo prossimo.

    Chi si è messo da solo in una posizione di schiavitù, deve cercare di uscirne. Ma c'è un prezzo da pagare. Se prima l'amico era andato dal garante e gli aveva chiesto umilmente di aiutarlo a ottenere il credito di cui aveva bisogno, adesso è il garante che deve andare dall'amico e supplicarlo, con umiltà e insistenza, di liberarlo dall'impegno preso. Non è detto in quale modo, perché probabilmente questo dipende dalle particolari circostanze, ma anche così si mette in evidenza la gravità della situazione, perché è come se il maestro dicesse: "Fa' come credi meglio, ma non ti stancare nel chiedere di essere disimpegnato e non preoccuparti delle umiliazioni a cui sarai sottoposto. L'importante è ottenere lo scopo. Dunque insisti!"

  4. non dar sonno ai tuoi occhi,
    né riposo alle tue palpebre;

    Queste parole fanno capire il carattere di urgenza dell'esortazione. Il discepolo si è incatenato da solo, e chi è moralmente schiavo dimora nel male (Giovanni 8.34). Bisogna dunque liberarsi, e subito, perché il tempo che passa può aprire le porte a mali maggiori: forse la rottura con l'amico; forse la ritorsione legale del creditore che non ha riottenuto dal debitore la somma prestata (22.27).

  5. lìberati come il capriolo dalla mano del cacciatore,
    come l’uccello dalla mano dell’uccellatore.

    Con parole poeticamente espressive viene di nuovo messo in risalto che l'aspetto più grave della situazione del garante è la sua condizione di schiavitù. Chi è raggiunto dall'amore da Dio fa l'esperienza della vera liberazione, che è liberazione dal male. Il suo amore per il prossimo, quindi, non può che essere la comunicazione di una parola che offre anche all'altro la libertà ricevuta in dono da Dio. Se invece di liberare l'amico dalla schiavitù di un debito, il garante disavveduto si lascia coinvolgere nella sua schiavitù facendosi egli stesso debitore di un estraneo, il risultato che si ottiene è soltanto l'allargamento del male.  Si capisce allora l'invito pressante del maestro al discepolo: liberati!

    M.C.

 

Investimenti cinesi in Israele: Usa preoccupati

La scorsa settimana, durante la sua visita, del Paese mediorientale, il capo della Cia, Bill Burns, avrebbe espresso preoccupazioni per la presenza sempre maggiore di investitori cinesi in Israele. Lo rivela "Axios", aggiungendo che gli israeliani avrebbero condiviso le preoccupazioni ma facendo presente che nessuna azienda americana sembra interessata a grandi progetti nel Paese.
   Attualmente i cinesi sono impegnati nella costruzione della linea ferrata leggera di Tel Aviv e hanno interessi nel porto di Haifa. Proprio per venire incontro alle preoccupazioni americane, rileva l'Agi, l'amministrazione Netanyahu bloccò un investimento cinese in una centrale energetica. La prossima settimana il premier israeliano, Naftali Bennett, sarà a Washington per incontrare il presidente americano Joe Biden.

(Quotidiano del Sud, 21 agosto 2021)


I vaccini saranno l’Afghanistan di Draghi

di Paolo Becchi e Giovanni Zibordi

 
 
Sulle prime pagine del Wall Street Journal e del New York Times questa settimana si inizia a mettere in discussione la campagna vaccinale di massa, dopo il disastro di Israele dove ora i morti e i malati gravi sono molto più alti dell’anno scorso e sono tornati ai livelli di marzo.
   Vedi qui ad esempio ieri il New York Times in un pezzo dal titolo “Israele, uno dei paesi più vaccinati, ora ha uno dei tassi di contagio più alti del mondo e questo solleva questione sull’efficacia dei vaccini”.
   Ieri gli USA hanno annunciato che daranno la terza dose di Pfizer e Moderna a tutti, senza aspettare studi clinici, perché appunto i dati mostrano che dopo 3 mesi i vaccini cominciano a perdere efficacia e dopo 6 mesi non proteggono, come si vede in Israele dove l’80% dei malati gravi è vaccinato e i morti sono arrivati a 20 al giorno (che equivale a 120 in Italia facendo la proporzione).
   Non solo. I paesi dell’Est Asia che avevano evitato quasi completamente la Covid-19 ora che vaccinano improvvisamente hanno un boom di contagi
   In tutto il mondo questa estate i contagi ma anche gli ospedalizzati e i decessi Covid sono molti di più dell’estate scorsa e questo è un virus stagionale per cui non ha senso confrontare dicembre e gennaio con luglio e agosto.
   In più, i morti, si tratta di giovani e adulti sani, nei giorni o settimane successive alla vaccinazione continuano ad accumularsi nelle cronache dei giornali e nelle esperienze che vengono riportate su internet. E anche nei dati della vigilanza europea e americana o australiana. In Italia però stranamente l’Aifa ne riporta molto meno che negli altri paesi. Tanto per fare un esempio, l’Australia riporta 480 morti post vaccinazione ed è un paese in cui solo 8 milioni sono stati vaccinati (la percentuale è meno della metà dell’Italia). In Italia, con una popolazione doppia e quasi 40 milioni vaccinati l’Aifa riporta lo stesso numero (e però i vaccini usati sono gli stessi). Ieri un ministro australiano, Victor Dominello, durante una conferenza stampa ha manifestato sintomi della sindrome di Ball Palsy (paralisi facciale) che è uno degli effetti collaterali che sono stati aggiunti questo mese al bugiardino dei vaccini
   Se si leggono i maggiori giornali italiani niente di tutto questo succede, esistono solo le parole dei cinque esperti del CTS che negano ormai l’evidenza. Facciamo qui sotto un esempio tra i tanti di un pezzo del Corriere che nega l’evidenza dei contagi in aumento, dei malati e morti in aumento non solo in Italia ma in tutto il mondo in coincidenza con la vaccinazione di massa (e ovviamente non spende mezza parola sulle morti improvvise post vaccinazione).
   La variante Delta ad esempio è meno letale, ma i morti Covid sono molti di più questa estate ovunque nel mondo. Senza la vaccinazione l’anno scorso la Covid era sparita come contagi e anche ospedalizzazioni e morti erano quasi inesistenti. La maggioranza dei virologi spiega che la vaccinazione induce il virus a mutare adattandosi sviluppando le famose varianti. La Svezia non ha fatto nessun lockdown ed è l’unico paese europeo che non ha l’aumento di contagi e ora ha zero decessi
   In Israele e UK che hanno vaccinato per primi, morti, ospedalizzati e contagiati sono da 5 a 100 volte di più dell’anno scorso. In UK siamo sui 100-130 morti Covid al giorno e l’anno scorso erano meno di 10 al giorno. In Israele, paese di 9,6 milioni di persone, siamo su 20 morti Covid al giorno, che equivalgono quindi a 120 o 130 morti al giorno in Italia e UK. Gli ospedalizzati in condizioni critiche in Israele sono 2,300.
   In UK i contagi sono 100 volte di più dello scorso anno. l’Islanda, ha vaccinato tutta la popolazione, ha un’esplosione di contagi mentre prima non aveva quasi contagi. Stessa cosa a Malta, Gibilterra, Seychelles, Maldive che hanno vaccinato tutti. In Giappone l’estate scorsa c’erano 200 contagi e ora 20mila. La cosa in comune di tutti questi paesi è che l’esplosione dei contagi coincide con la vaccinazione.
   In Italia Draghi si comporta come Biden in Afganistan, che fino all’ultimo momento ha continuato a dire che l’esercito afgano con 300mila soldati non avrebbe avuto problemi con 70mila talebani male armati. E i giornali e i partiti gli danno man forte. Per quanto tempo ancora potrà durare questa politica dello struzzo?

(Nicola Porro, 21 agosto 2021)


Vivere in uno stato di paura e di insicurezza permanente

Gli uomini si sono talmente abituati a vivere in uno stato di crisi permanente che non sembrano accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica, che ha perduto non solo la sua dimensione politica, ma anche ogni dimensione semplicemente umana. Una società che vive in uno stato di emergenza permanente non può essere una società libera. Noi viviamo oggi in una società che ha sacrificato la sua libertà alle cosiddette «ragioni di sicurezza» e in questo modo si è condannata a vivere in uno stato di paura e di insicurezza permanente
Giorgio Agamben



Dal Qatar un accordo per gli aiuti alla Striscia di Gaza

TEL AVIV - Una nuova speranza per le famiglie della Striscia di Gaza. Il Qatar ha annunciato ieri, e Israele ha confermato, che è stato raggiunto un accordo con l'Onu per trasferire fondi, ad oggi bloccati, alle famiglie più povere che abitano nel territorio palestinese. L'annuncio rappresenta un importante passo in avanti destinato ad allentare le tensioni alla frontiera con la Striscia a poco meno di 4 mesi dall'ultimo conflitto tra Israele e le fazioni palestinesi Hamas e Jihad islamica, gruppi considerati di natura terroristica dalla maggior parte della comunità internazionale.
   Secondo l'intesa, circa 100 mila famiglie palestinesi povere della Striscia riceveranno, a partire dai primi giorni di settembre, 100 dollari in contanti ogni mese. Potranno così far fronte alle necessità quotidiane nonostante le difficoltà legate alla ricostruzione.
   Il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, confermando l'accordo, ha sottolineato che il meccanismo trovato «permetterà che i soldi arrivino a chi ne ha veramente bisogno». L'intesa avrà anche un effetto positivo sui colloqui indiretti mediati dal Cairo per rafforzare il cessate il fuoco. In effetti, Israele voleva essere sicuro che gli aiuti internazionali finissero nelle mani di chi ne ha veramente bisogno, e non ai gruppi terroristici. Gantz ha spiegato di essere stato in contatto con gli esponenti del Qatar che «hanno compreso i bisogni di Israele». Gantz ha anche reso noto che le parti stanno cercando un altro meccanismo per i fondi da distribuire all'Autorità palestinese per sostenere la popolazione.

(L'Osservatore Romano, 21 agosto 2021)


Israele, attacco aereo vicino Damasco. E continua la tensione con il Libano

di Sharon Nizza

GERUSALEMME – La Siria ha comunicato di aver intercettato questa notte un attacco missilistico effettuato dall’aeronautica militare israeliana contro obiettivi nei pressi di Damasco e Homs. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Sana, i caccia israeliani hanno operato dallo spazio aereo libanese, a sud-est di Beirut, costringendo due aerei civili a deviare la rotta. “Una palese violazione della sovranità del Libano che ha provocato panico tra i cittadini”, ha dichiarato Zeina Akar, la ministra della Difesa libanese, presentando una denuncia all’Onu contro Israele – che non ha rivendicato l’attacco, l’ultimo di una lunga serie che caratterizzano la guerra delle ombre che lo Stato ebraico combatte contro le postazioni filo-iraniane in Siria.
   Solo due giorni fa, sempre secondo fonti straniere, Israele aveva colpito obiettivi identificati con Hezbollah nei pressi della base militare siriana di Quneitra, sulle Alture del Golan. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, che opera da Londra, ha riferito che l’esercito israeliano ha diffuso nell’area volantini avvertendo i soldati siriani di smettere di collaborare con Hezbollah, la milizia libanese sciita alleata di Teheran. “Hezbollah vi ha trasformati in marionette e vi porterà alla rovina. Siete responsabili delle vostre azioni e Hezbollah è responsabile della vostra sofferenza”, recita il volantino che nomina direttamente Jawad Hasham, considerato il capo di Hezbollah nel Golan.

• LA GUERRA DELLE OMBRE CON L'IRAN
  Gli attacchi aerei arrivano in un periodo in cui la tensione tra Israele e Libano è alta, dopo il lancio due settimane fa di 19 missili dal Libano, per cui non vi è stata una rappresaglia rivendicata pubblicamente da parte israeliana. In un’intervista ieri alla tv israeliana Kan11, sollecitato in merito dalla giornalista, il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha risposto che Israele “reagisce in modalità che non sono sempre note” ai giornalisti. L’episodio si inserisce anche nell’ambito del fronte marittimo della guerra delle ombre con l’Iran, emerso nuovamente alla luce del sole dopo l’attacco alla petroliera Mercer Street il 29 luglio, in cui hanno perso la vita due membri dell’equipaggio straniero, attribuito a Teheran da Stati Uniti, Inghilterra e Israele.
   Ora l’attenzione è puntata su una nave con un carico di petrolio che ha iniziato la sua rotta dall’Iran verso il Libano, in un tentativo di Hezbollah di guadagnare consenso popolare nel Paese che affronta la peggiore crisi economica e umanitaria della sua storia. “Agli americani e agli israeliani dico che, dal momento in cui lascia il porto iraniano, la nave si trova in territorio libanese”, ha dichiarato mercoledì Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah. Ergo: una possibile rappresaglia all’attacco della Mercer Street via mare potrebbe ripercuotersi anche sul fronte terrestre al confine con Israele.

• PROGRESSI NELLA STRISCIA
  Sempre nella giornata di ieri, si è registrato invece uno sviluppo positivo al confine con Gaza: dopo mesi di trattative dall’ultimo conflitto di maggio, il ministro della Difesa Benny Gantz ha annunciato che è stato raggiunto un accordo sul rinnovo del meccanismo di trasferimento dei fondi del Qatar nella Striscia. Per quanto riguarda i 30 milioni di dollari mensili donati da Doha dal 2018 – dopo che Ramallah ha interrotto il trasferimento di fondi ai rivali di Hamas che governano l’enclave palestinese – il nuovo accordo stabilisce che, oltre a 10 milioni di dollari in carburante, altri 10 milioni in assistenza a famiglie bisognose passeranno tramite le Nazioni Unite.
   Il nodo rimane ancora sui 10 milioni di dollari volti a pagare gli stipendi dei funzionari di Hamas, estromessi dall’accordo Doha-Onu-Israele. Una questione che occupa anche i colloqui intensivi tra Israele ed Egitto: Abbas Kamel, il potente capo dell’intelligence egiziana ha visitato questa settimana Gerusalemme, estendendo al premier Naftali Bennett un invito al Cairo da parte del Presidente Abdel Fattah el-Sisi, che potrebbe avvenire a stretto giro – prima visita alla luce del sole di un premier israeliano al Cairo da anni –, dopo che Bennett rientrerà da Washington, dove incontrerà il Presidente Biden giovedì prossimo.

(la Repubblica online, 20 agosto 2021)


Il paradosso d'Israele, il Paese "iperimmune" con la quarta ondata

La Delta penetra tra i vaccinati perché sono maggioranza. Ma pesano anche i molti no-vax ultraortodossi.

di Fabio Scuto

Israele è in un momento cruciale nella sua campagna contro il Covid. Il numero di nuovi casi, ricoveri, malattie gravi e decessi è in aumento nelle ultime sette settimane, con un picco di 8.600 nuovi casi martedì. Gli esperti prevedono che i numeri continueranno ad aumentare per qualche settimana. Ma ci sono anche indicazioni positive. L'indice Rt ha iniziato a diminuire e ci sono prove che gli israeliani che hanno ricevuto la terza dose di richiamo - oltre un milione - hanno migliorato significativamente la loro protezione contro il virus. La domanda è se la terza dose sarà abbastanza efficace da frenare l'aumento dei casi prima che gli ospedali - che sono tornati in allarme rosso e hanno bisogno dei riservisti dell'esercito per far fronte all'emergenza - siano sopraffatti. Il professor Ran Balicer, che dirige il gruppo di esperti sulla pandemia, ha spiegato in tv che il paese ha attualmente 100 nuovi pazienti gravi al giorno, il che è un enorme onere per il sistema sanitario, anche se si registra un rallentamento dei contagi tra gli over 60.
   Molteplici fattori rendono la quarta ondata di Covid molto diversa dalle tre precedenti, soprattutto in Israele. Non è solo il maggiore livello di infettività della variante Delta. Questa è la prima ondata che arriva con la maggioranza della popolazione completamente vaccinata. Israele è stato uno dei Paesi più virtuosi nella gestione dell'emergenza Covid, ma a pesare adesso nel boom di nuovi contagi sono i tantissimi (circa un milione) che non hanno risposto alla campagna vaccinale e che pur potendosi vaccinare finora "resistono a tutti gli appelli". La gran parte dei refrattari alla vaccinazione è nella comunità ultraortodossa, da sempre scettica sul valore della Scienza sulla preghiera.
   Oltre ai fattori epidemiologici, ci sono anche quelli sociali. I vaccini hanno finora goduto di un alto livello di fiducia tra gli israeliani e il successo della terza dose nel combattere questa ondata è cruciale per salvaguardare quella fiducia e convincere anche gli scettici a farsi vaccinare.
   Il primo ministro Naftali Bennett, che ha sostenuto la vaccinazione diffusa come alternativa ai lockdown, ha recentemente incaricato i direttori delle quattro organizzazioni israeliane di mantenimento della salute di raddoppiare i loro tassi di vaccinazione e di offrire vaccinazioni 24 ore su 24. Finora, 5,8 milioni di israeliani hanno ricevuto la prima dose, mentre 5,4 milioni ne hanno ricevuto una seconda. Altri 1,2 milioni hanno ricevuto un terzo colpo di richiamo. È una corsa contro il tempo perché martedì 7 settembre comincia la lunga serie di festività - con il Capodanno ebraico - che andranno avanti tutto il mese. Stagione di acquisti, di riunioni familiari, di visite ai parenti, di arrivi e partenze da e per l'estero. Bennett vuole evitare il lockdown - che sarebbe devastante - durante questo periodo. Intanto ha fatto spostare l'apertura delle scuole alla fine di queste festività, cioè il 1 ottobre.
   L'aumento della contagiosità del Covid è solo temporaneo ha spiegato ieri sera su Channel 12 il biologo Eran Segal, i tassi di contagio dovrebbero scendere entro un paio di settimane. Segal, capo della Biologia del Weizmann Institute of Science, afferma che c'è stato un rallentamento nell'aumento dei casi gravi, per il quale attribuisce la nuova spinta a dare dosi di richiamo a tutti gli israeliani di età superiore ai 50 anni.
   "In tutta onestà non sappiamo cosa vincerà, la campagna o il tasso di infezione, ma siamo ottimisti", ha spiegato davanti alle telecamere, "credo che intorno alla prima o alla seconda settimana di settembre fermeremo l'aumento della morbilità". Segal ha detto anche di essere favorevole a una terza dose a tutti coloro che hanno più di 40 anni.

(il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2021)


Scoperta in Israele un'altra mutazione. E' la Delta ma più aggressiva coi vaccini

La variante arriverebbe dagli Stati Uniti. Per ora se ne sono contati solo pochi casi.

Israele dopo aver avviato le somministrazioni delle terze dosi di vaccino introduce il green pass obbligatorio per partecipare a qualsiasi attività pubblica. Il provvedimento, che riguarda tutti coloro che hanno più di tre anni di età, è stato introdotto per fare fronte all'aumento dei casi di Covid. Circa il 60 per cento dei 9,4 milioni di abitanti del Paese sono completamente vaccinati e più di un milione ha ricevuto la terza dose di vaccino. Fra le poche eccezioni all'obbligo di green pass, i luoghi di culto, dove si continua a poter accedere liberamente con non più di 50 persone presenti. I bambini fino a 12 anni di età potranno effettuare i test gratuitamente.
  A preoccupare sono soprattutto le comunità ortodosse. La campagna di analisi del sangue, condotta dal comando del fronte interno dell'esercito israeliano, infatti, è iniziata la scorsa settimana in dieci comunità ultra-ortodosse. Ha rivelato che quasi il 20% dei bambini tra i 3 e gli 11 anni era stato infettato e si era ripreso dal Covid senza essere stato diagnosticato. Nel frattempo, i nuovi dati diffusi lunedì dal ministero dell'Istruzione hanno mostrato un tasso di malattia significativamente più alto tra gli studenti ultra-ortodossi rispetto ai bambini in età scolare non haredi (che non sono ancora tornati a scuola). Lunedì ci sono stati più di 1.600 casi confermati di bambini ultra-ortodossi contagiati, con un aumento del 130% dal 3 agosto. Gli ebrei ultraortodossi sono stati colpiti in modo sproporzionato dal virus durante le precedenti tre ondate perché, hanno spiegato gli esperti, tendono ad avere famiglie più numerose e a vivere in quartieri più densi. Inoltre, la loro enfasi sulle attività di gruppo come la preghiera e l'apprendimento in comune e il loro rifiuto iniziale di chiudere scuole e yeshivas, hanno ostacolato l'attuazione delle misure di allontanamento sociale.
  Infine, come se non bastasse, in Israele è stata scoperta una mutazione della variante Delta. Il suo nome è «AY3», ed è un ceppo al momento raro che sta preoccupando gli Stati Uniti e ora pure Israele perché è molto più contagiosa della variante madre e dalle prime verifiche sembra resistere pure ai vaccini Pfizer e Moderna utilizzati in entrambi i paesi. Secondo Tom Hertz, capo del dipartimento di microbiologia, immunologia e generica dell'Università Ben Gurion del Negev, già la variante Delta sta dimostrando di creare più problemi di quel che si immaginava. Mentre Asher Shalmon, capo della divisione per le relazioni internazionali del Ministero della Salute, ha detto al Comitato Legale della Knesset che questa variante è stata individuata in 10 casi in Israele che hanno avuto origine negli Usa. Sembra molto, molto virulento il suo tasso di contagio e sembra che stia sviluppando una relativa resistenza al vaccino. Se questa variante arriva in Israele, potrebbe essere un punto di svolta e spingerci verso il blocco, stiamo quindi cercando di evitarla in ogni modo». BEN.ANT.

(Il Tempo, 20 agosto 2021)


La sfida di Sumaya, prima studentessa degli Emirati a studiare in Israele

La giovane ha scelto l'università di Haifa per i suoi studi: incoraggiamenti ma anche minacce

di Benedetta Paravia

DUBAI  - È nata a Boulder in Colorado, ma Sumaya al-Mahabiri è di nazionalità emiratina, vive nell’amata Dubai ed è ufficialmente la prima studentessa degli Eau ad essersi iscritta a un’università israeliana, quella di Haifa. Da quando è stato firmato il trattato di pace con Israele, a settembre, i rapporti tra i due Paesi sono andati in crescendo: la partecipazione di Sumaya alla scuola per infermieri di Haifa rafforzerà i legami accademici e spingerà anche altri studenti a partecipare a programmi di scambio.

- Ci parli dei suoi studi.
  «Ho già una laurea in Ingegneria elettrica, ambito in cui ho lavorato dal 2013, ma ho sempre avuto una passione per l’ostetricia. Per questo l’anno scorso ho lasciato il lavoro per seguire il mio sogno e ho fatto domanda all’Università di Haifa».

- Cosa fa nel tempo libero?
  «Amo nuotare, cucinare, studiare e praticare l’ebraico».

- Perché ha scelto Israele?
  «Israele è noto per le sue università all’avanguardia in medicina e tecnologia, e anche perché per gli studenti è conveniente. Fra l’altro ho creato shafah.me, prima piattaforma di scambio linguistico nel Golfo arabo, ho iniziato a imparare l’ebraico e mi sono innamorata della lingua e della cultura».

- Ci racconta di più di questa sua creazione?
  «Certo. Nel 2014, dopo aver sentito cantare Ofra Haza e dopo aver ascoltato la preghiera ebraica Shemà in dialetto ebraico yemenita, sono rimasta affascinata dal suono, mi è sembrato molto familiare alla mia lingua, ma ho continuato a procrastinare fino alla comparsa della pandemia, quando mi sono sentita “prigioniera” e ho finalmente reagito cominciando a imparare l’ebraico. Ho provato a usare applicazioni e siti come YouTube, ma mi mancava l’interazione con gli altri e non volevo un vero e proprio insegnante con dinamiche di classe; non esistendo alcuna piattaforma che fornisse lo scambio linguistico tra arabo ed ebraico nella regione ho deciso di crearne una mia. Oggi ho raggiunto piena capacità sul gruppo di WhatsApp, e il gruppo Telegram conta già centinaia di membri».

- Cosa pensava di Israele prima del trattato di pace?
  «Israele mi appariva classicamente come “il nemico”, sia per luoghi comuni che attraverso i media, anche se non avevo mai parlato con un israeliano. Oggi, grazie alla prima visita della delegazione ufficiale emiratina in Israele, alla quale ho avuto l’onore di partecipare, e grazie alla mia piattaforma linguistica di scambio, sono in grado di capire quante similitudini culturali ci leghino sia nella fede che nelle tradizioni e ho potuto trovare tanti amici israeliani. Non vedo l’ora di cominciare i miei studi tra loro, in carne ed ossa».

- Ha ricevuto critiche?
  «Sì, ho avuto minacce di morte e sono stata vittima di bullismo online da parte di estremisti che non amano l’idea della pace con Israele. In ogni caso per carattere sono una persona che si focalizza sugli aspetti positivi, in centinaia mi hanno fatto gli auguri dai Paesi più diversi. Ora mi trovo negli Stati Uniti per una vacanza e per ritrovare gli amici di infanzia ma anche tra gli americani porto la mia storia come esempio di dialogo, ci sono troppi pregiudizi anche nei confronti di noi arabi nel mondo».

- La sua famiglia è preoccupata?
  «Sono più che altro preoccupati del fatto che sarò lontana da casa per quattro anni, ma ovviamente li visiterò spesso. Nella nostra cultura non è molto frequente che le studentesse si allontanino da casa prima del matrimonio».

- Come vede il futuro del Medio Oriente?
  «Altri Paesi arabi seguiranno le orme del mio. Gli Emirati hanno saputo creare una base di fiducia e comprensione: connettere le persone è l’unico modo per far cadere le barriere». 

(la Repubblica, 20 agosto 2021)


L'Averroè di Gershon. Attualità del Medioevo

Il filologo Gatti traduce dall'originale ebraico i commenti trecenteschi di Gersonide a tre testi del grande pensatore Ibn Rushd su un tema, la felicità mentale attraverso la conoscenza filosofica di Dio, che sembra interrogare molto da vicino la nostra contemporaneità.

di Massimo Giuliani

Roberto Gatti, ebraista e medievista astigiano, prova che non è finita in Italia la tradizione dei grandi professori di liceo ( di storia e filosofia, naturalmente) i quali, nonostante le fatiche didattiche e burocratiche della nostra scuola superiore, riescono a coltivare con passione la ricerca erudita e continuano a "produrre", come si dice nell'orribile gergo diffusosi in accademia, scrivendo e pubblicando studi di altissimo livello. Il suo ultimo, dotto lavoro è una traduzione annotata dall'ebraico del commento del filosofo medievale Lewi ben Gershon, il Gersonide (noto alla tradizione rabbinica come Ralbag), a tre brevi opuscoli di Ibn Rushd, che il grande pubblico conosce con il nome di Averroè. Celebrato da Dante nel nobile castello limbico della Commedia come «Averoìs che 'l gran comento feo» (Iv; 144), il filosofo arabo di Cordoba interpretò e diffuse l'opera di Aristotele, che buona parte del mondo medievale conobbe soltanto grazie alla sua mediazione. Anche i circoli della filosofia ebraica, Maimonide nel XII secolo non meno che Gersonide agli inizi del XIV secolo, ebbero accesso alla filosofia greca grazie alle glosse e alle epitomi, ossia alle sintesi scritte in arabo dal grande commentatore.
  I temi di questi opuscoli ruotano attorno alla conoscenza del mondo, e di Dio come intelletto agente, e della mente umana nelle sue possibilità euristiche; in altri termini, trattano delle complesse dottrine noetiche o epistemologiche (perché il suo orizzonte abbraccia le scienze di allora, dalla fisica alla medicina) di cui i medievali erano raffinati maestri. Non per mero divertimento, ma animati dalla convinzione che da simili processi conoscitivi dipendesse il benessere, o meglio la felicità degli esseri umani. Stesi probabilmente attorno al 1325, questi commenti sono come dei fari puntati sull' opera maggiore del Gersonide, i sei libri in ebraico intitolati Le guerre del Signore, che occupò lo studioso provenzale per quasi vent'anni, almeno fino al 1329, e che abbiamo in traduzione italiana sempre grazie all'acribia filologica di Roberto Gatti. Assai più brevi, ma non meno complessi, i commenti gersonidiani ad Averroè (Roberto Gatti, Come l'uom si etterna. Traduzione annotata del Commento di Lewi ben Gershon "Gersonide" ai tre Opuscoli di ibn Rushd e figlio sulla felicità mentale, Paideia/ Claudiana 2021, pp.232, Euro 34) sono una disamina di tesi e contro-tesi sulla reale possibilità della mente umana non solo di conoscere, ma anche di perseguire la felicità, che qui è termine "laico" per salvazione, l'equivalente del concetto teologico di salvezza. Più che curioso, è sorprendente scoprire che dal XII secolo in poi i grandi temi della gnoseologia moderna, ovvero le kantiane condizioni di possibilità della conoscenza, fossero già tutti presenti e analizzati dai filosofi arabi ed ebrei del medioevo; ma anche che tali discussioni riuscissero a tenere un registro filosofico che nulla concedeva alla teologia delle religioni rivelate, non volendo affatto divenire an - ciliare rispetto alle verità della fede. Che ragionassero sulla base dell'autorità di Aristotele o di Alessandro di Afrodisia, piuttosto che sulla scienza di Avicenna o di Al-Farabi, i pensatori ebrei e musulmani del tardo medioevo intendevano fare filosofia, non teologia. Lo scopo era aiutare l'essere umano a conquistare quella felicità interiore che non poteva che essere frutto dello studio e della conoscenza del mondo. Per i credenti tra loro, i testi rivelati non potevano che confermare, con registri diversi, i dati della ricerca razionale.
  Proprio per Gersonide, «la Torà e i profeti da un lato e la speculazione filosofica dall'altra confermano che la felicità ultima dell'uomo consiste nel comprendere intellettualmente e nel conoscere Dio, nella misura in cui ciò gli risulta possibile». Ecco il limite ma anche la sfida: le reali possibilità della ragione umana. Non è un tema inventato da Descartes o da Kant, è piuttosto il filo rosso che unisce la storia occidentale almeno a partire dal XII secolo, una storia che affonda le sue radici, con sorpresa solo di chi la ignora, nell'intreccio interculturale elaborato e trasmesso da arabi ed ebrei, e proprio nella Provenza dell'età di Gersonide tradotto infine in latino, a beneficio dell'Europa cristiana.
  Le vicende della sopravvivenza di questi tre opuscoli rushdiani (il terzo è attribuito al di lui figlio) e della loro traduzione in ebraico ( unica lingua in cui abbiamo i primi due) sono ricostruite da Gatti e attestano l'enorme debito che la modernità ha contratto con il medioevo non cristiano, al punto che l'idea della «felicità mentale» (espressione di Maria Corti) è davvero un filo rosso che da Maimonide e Averroè, attraverso Gersonide e Moshe Narboni (altro grande averroista ebreo medievale), giunge sino alle soglie dell'età moderna, a Spinoza come "ultimo dei grandi medievali", e poi a Moses Mendelssohn e Ephraim Lessing e Immanuel Kant, fino a Martha Nussbaum, per così dire. E felicità come percorso di conoscenza significa anche immortalità, forse l'unica accezione di immortalità che l'uomo contemporaneo accetta ancora di considerare. Da qui l'idea di Roberto Gatti di intitolare il suo magistrale libro Come l'uom si etterna, l'ennesimo rimando a Dante (Inferno XV, 85), a Brunetto Latini e ai molti come lui che fecero da cinghia di trasmissione tra l'evo medio e l'alba del Rinascimento. Il fatto che quei testi furono scritti e tradotti in contesti e in anni in cui arabi ed ebrei venivano demonizzati, ostracizzati ed espulsi dall'Europa rende la loro conoscenza, grazie a questa nuova traduzione, ancor più intrigante.

(Avvenire, 20 agosto 2021)


Al-Sisi invita Bennet al Cairo dopo la mediazione su Gaza

Il premier israeliano ha ricevuto il capo dell’intelligence egiziana e annuncia un prossimo incontro. Dalla situazione nella Striscia ai Territori palestinesi, il ruolo chiave del Paese dei faraoni nella regione. Il 26 agosto Bennett sarà alla Casa Bianca per il faccia a faccia con Biden. Fra i temi la crisi in Afghanistan e la “minaccia” iraniana.

GERUSALEMME - Relazioni bilaterali strategiche, la sicurezza, il ruolo di mediatore dell’Egitto nella Striscia di Gaza e un invito formale per una prossima visita al Cairo del capo del governo israeliano. Sono i temi al centro dell’incontro, avvenuto ieri a Gerusalemme, fra il capo dell’intelligence del Paese dei faraoni Abbas Kamel e il primo ministro dello Stato ebraico Naftali Bennett, cui è seguito un faccia a faccia col titolare della Difesa Benny Gantz. Il viaggio di Bennet in Egitto sarebbe il primo in oltre un decennio di un premier israeliano: l’ultimo risale al 2011, con l’incontro fra Benjamin Netanyahu e Hosni Mubarak nella località turistica di Sharm el-Sheikh.
  La visita di Bennett al Cairo dovrebbe avvenire “entro le prossime settimane” e suggellare la promessa di un incontro fra le parti avvenuta durante il primo colloqui telefonico con il presidente Abdel Fatah al-Sisi, all’indomani del giuramento del governo. La mediazione dell’Egitto si è rivelata fondamentale a maggio, per risolvere la crisi di Gaza dove si è combattuta una sanguinosa guerra lampo fra Hamas e l’esercito con la stella di David che ha causato centinaia di vittime, anche civili.
  Fonti vicine ai colloqui smentiscono di una discussione relativa al possibile ingresso di fondi del Qatar nella Striscia, del valore di centinaia di migliaia di dollari e fondamentali per risollevare una economia allo stremo. Kamel ha inoltre compiuto una tappa a Ramallah, in Cisgiordania, per colloqui con il leader dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas incentrati sullo “sviluppo” dei territori e un “rafforzamento delle relazioni bilaterali” in un’ottica di pace e sicurezza.
  La visita del capo dell’intelligence egiziana giunge a due giorni di distanza dal lancio di razzi da Gaza verso Sderot, che hanno fatto temere una nuova escalation della violenza nell’area. Dietro l’attacco vi sarebbe la mano della Jihad islamica attiva nella Striscia; al momento, Israele non ha risposto con una operazione militare, mantenendo invece aperto il canale di dialogo con Hamas.
  Sempre sul versante diplomatico è arrivata in queste ore l’ufficializzazione della prossima visita di due giorni, in programma il 26 agosto, del primo ministro Bennett negli Stati Uniti, dove verrà ricevuto dal presidente Usa Joe Biden. Al centro dei colloqui la questione iraniana e le ultime vicende di cronaca provenienti dall’Afghanistan, con la presa di Kabul da parte dei talebani e la fuga precipitosa del governo in carica dopo il ritiro delle truppe statunitensi.
  Secondo una nota diffusa dal capo ufficio stampa della Casa Bianca Jen Psaki l’obiettivo dell’incontro è di “rafforzare la partnership fra Stati Uniti e Israele” già consolidata dai “profondi legami fra i nostri governi e i nostri popoli”, unita all’impegno “incrollabile” di Washington “per la sicurezza di Israele”. Un altro tema caldo della visita, conclude il portavoce, saranno gli sforzi da promuovere in ambito diplomatico per raggiungere la pace con i palestinesi.

(AsiaNews, 19 agosto 2021)


Israele approva la ripresa degli aiuti del Qatar a Gaza

Israele afferma di aver raggiunto un accordo con il Qatar e le Nazioni Unite su un meccanismo per trasferire gli aiuti dallo Stato del Golfo alla Striscia di Gaza assediata, aumentando le prospettive di soccorso nell’enclave palestinese dopo che è stata devastata in un conflitto israelo-Hamas.
   L’erogazione degli aiuti dopo i combattimenti di maggio è stata in parte frenata da una disputa da Israele su Hamas e dal dibattito su come impedire al gruppo di accedere a tali fondi.
   Hamas, il gruppo palestinese che governa Gaza, si è impegnato a non toccare i soldi dei donatori, che è emersa come una questione chiave nei colloqui mediati dall’Egitto a seguito di una tregua del 21 maggio che per lo più ha fermato le ostilità.
   Annunciando un accordo giovedì, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha affermato di essere stato in contatto con il Qatar “per stabilire un meccanismo che garantisca che il denaro raggiunga chi ne ha bisogno, pur mantenendo le esigenze di sicurezza di Israele”.
   Secondo il nuovo meccanismo, gli aiuti dal Qatar “verranno trasferiti a centinaia di migliaia di abitanti di Gaza dalle Nazioni Unite direttamente sui loro conti bancari, con Israele che supervisionerà i destinatari”, ha affermato Gantz in una nota.
    Gantz ha aggiunto che Israele continuerà la sua “campagna di pressione per il ritorno dei soldati e dei cittadini israeliani tenuti in ostaggio da Hamas”, riferendosi a due soldati dispersi in una guerra di Gaza del 2014 e a due civili che sono scivolati separatamente nell’enclave .
    Nessun commento immediato da Hamas, che non ha dettagliato le condizioni dei quattro israeliani.
    Il Qatar ha fornito centinaia di milioni di dollari alle famiglie più povere di Gaza negli ultimi anni. I fondi sono stati una fonte fondamentale di stabilità per il territorio impoverito, dove la disoccupazione si aggira intorno al 50 per cento.
    Ma dal conflitto di maggio, Israele ha bloccato i pagamenti, insistendo sulla salvaguardia che nessuno dei soldi raggiungerà Hamas. Secondo il sistema prima della guerra, ogni mese venivano consegnati a Gaza circa 30 milioni di dollari in contanti in valigie attraverso un valico controllato da Israele.
    Il Comitato per la ricostruzione della Striscia di Gaza del Qatar ha dichiarato di aver firmato un memorandum d’intesa con le Nazioni Unite per distribuire 100 dollari a ciascuna delle circa 100.000 famiglie a partire da settembre.

(Free Press, 19 agosto 2021)


Israele, ritorno del Green pass

Israele è stato tra i pionieri del Green pass. Già a fine febbraio, con le vaccinazioni che marciavano spedite, nel paese era stato introdotto un sistema per permettere a vaccinati, guariti e negativi a un test Covid fatto non più di 48 ore prima di accedere a determinati luoghi. Chi otteneva il lasciapassare - in versione app o cartacea - poteva entrare a teatro, al cinema, in palestra, in un ristorante. Un primo passo per tornare alla normalità. Con il trascorrere dei mesi e l'aumentare dei vaccinati, era arrivato il passaggio successivo: la caduta delle restrizioni e l'abbandono, lo scorso giugno, del sistema dei Green pass. I dati, con una diminuzione di contagiati e ricoverati, sembravano raccontare di una Israele con oramai alle spalle la pandemia. E invece la variante Delta ha iniziato a mettere tutto in discussione. Il numero dei positivi, a causa della maggiore contagiosità, è cresciuto in modo esponenziale in poco tempo. Grazie ai vaccini il bilancio degli ospedalizzati è rimasto sotto controllo, ha spiegato Ran Balicer, a capo del gruppo di consulenti del ministero della Salute. Ma servono anche altri argini alla circolazione del virus. E per questo il governo ha deciso di ripristinare il sistema dei Green pass, proprio mentre in Italia si decideva di introdurlo per la prima volta. Non solo. Il 22 luglio il Primo ministro Naftali Bennett è andato in televisione e ha lanciato un forte messaggio al milione di israeliani che, pur avendo la possibilità di farlo, non si erano recati a farsi vaccinare. "Chi rifiuta i vaccini mette in pericolo la propria salute, quella di chi gli sta intorno e la libertà di tutti gli israeliani. - le parole di Bennett - Danneggia tutti noi, perché se tutti prendono il vaccino, tutti potranno tornare alla normalità". Per Balicer la situazione è più sfumata, bisognerà comunque convivere con il Covid e con le sue varianti, ma l'importante è evitare di far circolare il virus e farsi quindi trovare preparati. "Chi pensa che le persone vaccinate proteggeranno con l'immunità di gregge, sbaglia. Questo ha funzionato bene con la variante alfa, ma non funzionerà con la delta e certamente non con il ceppo che verrà dopo. Se vogliono evitare di avere complicazioni gravi, o meno gravi ma a lungo termine, questo è il momento di vaccinarsi", il monito dell'esperto israeliano. Sullo scetticismo di alcuni verso il Green pass, visto che i dati raccontavano che anche i vaccinati potevano infettarsi con la variante Delta, Balicer spiega: "E vero, ma per quanto ne sappiamo, infettano gli altri molto meno delle persone non vaccinate. Anche quando indossiamo la cintura di sicurezza, ci sono incidenti mortali e non ci proteggono al 100%. Questo significa che non dovremmo indossarle? Certo che dovremmo. In questo caso, è ancora più importante indossarle".

(Pagine Ebraiche, agosto 2021)


"Chi rifiuta i vaccini mette in pericolo la propria salute, quella di chi gli sta intorno e la libertà di tutti gli israeliani". Ha proclamato il 22 luglio scorso alla televisione il premier israeliano Naftali Bennett. Per singolare coincidenza, parole simili ha detto lo stesso giorno il Presidente Mario Draghi alla televisione italiana. M.C.


*


Appello a morire

«L'appello a non vaccinarsi è un appello a morire. Non ti vaccini: ti ammali, muori. Oppure, fai morire. Non ti vaccini: ti ammali, contagi, lui, lei, muore.»



Presidente del Consiglio - Roma, 22 luglio 2021

Come mai si è spenta così presto l'eco di queste gravi parole presidenziali, che nel loro sinistro riferimento alla morte personale assumono il carattere di una maledizione? Forse perché i cittadini terrorizzati, dopo essere andati di corsa a farsi vaccinare , sono tutti presi dal cercar di capire, litigando appassionatamente fra di loro, quando e dove e come bisogna esibire il Green pass, e quando no. E il mare di regole e sotto regole in cui sono costretti a muoversi li tiene occupati e contribuisce a distrarli. M.C.

(Notizie su Israele, 19 agosto 2021)


*


Green Pass o tampone per ogni ambiente di lavoro oppure niente stipendio

La proposta del Presidente di Federmeccanica

di Federica Rosato

Se da qualche settimana il Green Pass in Italia è diventato obbligatorio per ‘partecipare’ alla vita sociale – tra non poche polemiche e proteste in piazza – e dal 1 settembre il documento entrerà in vigore e si estenderà anche agli ambienti scolastici e ai mezzi di trasporto a lunga percorrenza, il certificato verde continua a stare al centro di dibattiti tutti aperti, che a quanto pare non stanno facendo altro che alimentare la confusione. Da giorni, infatti, non si fa che parlare della questione delle mense aziendali, con il chiarimento che è arrivato proprio dal Governo: il Green Pass servirà, sarà obbligatorio per i lavoratori che hanno intenzione di pranzare sul posto di lavoro. Nessuna differenza, dunque, con quanto accade già dal 6 agosto scorso con i ristoranti al chiuso. Ma è proprio su questo punto che Federico Visentin, Presidente di Federmeccanica, all’Ansa ha dichiarato: “Il dibattito sul Green Pass per le mense crea confusione, porta fuori strada”.

Zazoom Blog, 19 agosto 2021)


E' questo il "bene comune" che si ottiene con la politica del "Vaccini e Green Pass"?


I vicini di casa di Bennett manifestano: “Trasferisciti a Gerusalemme”

di Giulia Favignana

Non sono sempre facili i rapporti con i vicini di casa, lo sa bene anche il Primo Ministro israeliano Naftali Bennett. Un gruppo di suoi vicini di casa, a Ra'anana, città a nord di Tel Aviv, ha presentato una petizione all'Alta Corte per farlo trasferire nella capitale Gerusalemme, dove in effetti dovrebbe vivere il Primo Ministro.
  A scatenare il malcontento dei vicini del primo ministro ci sarebbe il rafforzamento della sicurezza che ha causato la chiusura di molte strade e deviato il traffico vicino alla sua casa, nel quartiere residenziale di Ra’anana. “Persino far fare una passeggiata al cane è diventato impossibile – lamenta un vicino di casa del Primo Ministro – da quando è cominciata questa storia la nostra vita è diventata impossibile”. Ma non solo, complici del malcontento anche le regolari proteste fuori dalla casa della famiglia Bennett, che secondo i vicini hanno "reso prigionieri i residenti del quartiere".
  Nella petizione, i vicini chiedono che Bennett e la sua famiglia si trasferiscano nella residenza ufficiale del Primo Ministro, in Balfour Street a Gerusalemme "come è consuetudine, e accettato da più di 70 anni dalla fondazione di Israele".
  Da quando il Primo Ministro è entrato in carica alla fine di giugno, è rimasto in gran parte residente nella casa di famiglia. Bennett, inizialmente aveva indicato che sarebbe rimasto a Ra'anana a tempo indeterminato per mantenere i suoi figli nelle loro scuole. In seguito, ha detto che avrebbe dormito nella residenza ufficiale di Gerusalemme tre o quattro notti a settimana.
  Secondo un rapporto del canale israeliano Channel 13 del mese scorso, la decisione di Bennett di mantenere la sua famiglia a Ra'anana potrebbe costare ai contribuenti circa 12-15 milioni di Shekel (3,6-4,6 milioni di dollari). Questi fondi verrebbero stanziati per la costruzione di stazioni di sicurezza, posti di blocco, telecamere e altre infrastrutture necessarie per proteggere il primo ministro e i suoi familiari. Ulteriori costi dovrebbero essere destinati all'affitto di appartamenti nelle vicinanze per i funzionari della sicurezza. Nonostante Bennett abbia prestato giuramento il 13 giugno, l'ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu, e la sua famiglia, non hanno lasciato la residenza fino alle prime ore del mattino dell'11 luglio.

(Shalom, 19 agosto 2021)


«Mentire per l'islam è una tattica di guerra»

L'esperto: «Guai a cadere nella trappola della taqiyya: fingono per sottometterci» . Intervista a Harold Rhode.

MAi FlDARSI
Per il bene della loro fede sono autorizzati a raccontare menzogne
LA MINACCIA
Aver messo in fuga gli Usa li ha esaltati. Torneranno a colpire gli americani

  di Fiamma Nirenstein

Harold Rhode, uno degli allievi preferiti del maggiore storico del Medio Oriente, Bernard Lewis, ha lavorato per 28 anni al Pentagono nell'Ufficio del Dipartimento per la Difesa come consigliere sulla cultura Islamica. Esplicito e anticonformista, autore di molti libri, membro del Gatestone Institute e del Jerusalem Center for Public Affairs, la sua idea è che niente potrà dissuadere i talebani dal loro disegno originario, una guerra totale all'Occidente tramite il terrorismo.

- Ma oggi, dottor Rhode promettono che non verrà torto un capello a nessuno e che la loro «inclusività» verrà confermata dalla politica prossima ventura.
   «Chi mostra di crederci, coltiva inutili speranze. Non c'è la minima chance al mondo che i talebani cambino la loro determinazione a un governo totalitario della Sharia, oggi sul loro popolo e domani su tutto il mondo, è solo la prudenza. Trump aveva indicato una via d'uscita diversa da quella di Biden».

- Ma è Trump che ha gettato le basi del disastro.
   «Trump aveva detto: ce ne andiamo, ma se osate tornare a spadroneggiare, a uccidere, a torturare, di voi non resterà traccia. L'unica cosa che può fermare una forza integralista e shariatica come i talebani, è la paura di essere annientati, che è andata sparendo con Biden. E la deterrenza è l'unico sistema per bloccarli».

- L'idea di abbandonare il campo come soluzione di pace è molto frequentata dall'Occidente.
   «Innanzi tutto, quando si occupa un Paese straniero per eliminare, come fece Israele col Libano, milizie terroriste che ti minacciano, si deve agire e poi uscire dal campo. Restare sul terreno a lungo costa denaro e vite umane».

- E quindi? Lasciare che poi i terroristi costruiscano il loro potere?
   «Niente affatto: le loro piramidi vanno destrutturate con la forza, poi si deve lasciare il campo, e se restano residui, avvertirli chiaramente che non osino riprendere quella strada. L'abbandono israeliano del Libano senza toccare il vertice degli Hezbollah, ha lasciato che essi diventassero i padroni del Paese; a Gaza lo stesso è successo con Hamas. Le strutture jihadiste, sciite e sunnite, vivono la loro guerra per la sharia e la jihad mondiale come una raison d'etre fondamentale. Come i talebani».

- Questo significa che torneranno a colpire gli Usa?
   «Questa è certamente la loro intenzione. La loro grande eccitazione non è determinata dal fatto che gli americani se ne siano andati, ma da come se ne sono andati, di corsa, senza colpo ferire. Ci pensi, i talebani hanno sconfitto tre imperi, quello inglese, quello russo, quello americano».

- E tuttavia stanno cercando di apparire diversi, dando speranza a molti leader occidentali, a Guterrez, alla Merkel, anche agli italiani ..
   «Guai a cadere nella trappola della taqiyya, la dissimulazione per cui per il bene dell'Islam si può, anzi si deve, parlare il linguaggio del nemico, sorridere, trovare accordi. L'Iran è un perfetto esempio, i suoi rappresentanti non si peritano di condurre amichevoli trattative e di scambiare simpatetici punti di vista con tutti rappresentanti occidentali.
La verità è che il nostro mondo, per fedeltà alla sua cultura di pace, non vede l'ora di cascarci, anche quando si discutono questioni vitali come il nucleare su cui, appunto, l'Iran seguita a prendere il mondo per il naso da decenni. Il guaio è che così mettiamo a gran rischio la nostra civiltà».

- L'Iran e i talebani hanno interesse a unire le loro forze per l'Islam. Pensa che questo sia possibile anche uno è sunnita e l'altro sciita
   «E già successo, come quando i figli di Bin Laden sono stati ospitati a Teheran, o quando Ismail Hanyye va a trovare gli ayatollah. Ma alla lunga il rapporto non regge, e contiene sempre un velato ricatto».

- La Cina si avvantaggerà della situazione?
   «L'Afganistan è ricco di metalli e di altre risorse che la Cina desidera, e Pechino ha un buon rapporto coi talebani ma loro sanno cosa fanno i cinesi ai loro fratelli musulmani nello Xinjang e anche la Cina non è fuori dai programmi talebani di islamizzazione del mondo. Anche qui la cultura ha il suo ruolo da giocare».

- E in Medio Oriente?
   «In Medio Oriente molti degli alleati degli americani, gli Emirati, i Sauditi, l'Egitto, Israele.. si stanno certo chiedendo se ci si può fidare degli americani in caso di bisogno. Mi sembra di sentire echeggiare un sonoro "no"».

- Si può fare qualcosa?
   «Salvare chi ha aiutato gli Usa in questi anni. Certo, purtroppo non si può immaginare di aprire i confini a tutti i musulmani del mondo».

(il Giornale, 19 agosto 2021)


Perché per Israele non è un dramma

I nuovi equilibri

di Fabio Nicolucci

Per quanto bizzarro possa sembrare a noi occidentali, che usiamo ancora la carta del mondo centrata sull'Europa con la proiezione di Mercatare concepita nel 1569, l'Afghanistan non è alla periferia del mondo. L'Afghanistan è invece proprio il cuore del suo nuovo centro, che come sappiamo si è spostato in Asia. Per questo sin dalla fine del XIX secolo ha fatto parte centrale del "Grande Gioco" fra le potenze coloniali e imperiali per lo più europee.
   Per questo è stato il luogo dove si è combattuta la più lunga guerra americana, non solo legittima ma anche se vogliamo doverosa. E per questo il cambio di regime ultimo a Kabul, con la non certo improvvisa ma sicuramente definitiva presa del controllo su tutto il territorio nazionale da parte dei Talebani, avrà conseguenze politiche sistemiche. A cambiare non sarà solo - in questo caso in peggio -la vita delle donne e delle bambine afghane, delle nuove generazioni, e della perseguitata minoranza sciita degli Hazara, bensì tutta la dinamica del sistema delle relazioni internazionali, non solo regionale ma anche globale.
   I proclami del nuovo governo dei Talebani sono molto prudenti, tanto da far pensare ad una più accorta regia politica, magari dal vicino Pakistano Si vedrà nel futuro la risultante tra i proclami e le spinte interne, settarie e tribali del mosaico afghano. In ogni caso, già si può dire che strategicamente qualcuno perde e qualcuno vince. A perdere è sicuramente l'Iran, che vede infiammarsi di nuovo la sua lunga frontiera con l'Afghanistan, riaccendersi le speranze indipendentiste della sua minoranza sunnita nella regione di frontiera del Baluchistan, di nuovo oppressa la minoranza Hazara e riaperti del tutto i rubinetti del traffico di droga che lo attraversa - rendendolo tra l'altro quello nel mondo con il più alto rapporto tra tossicodipendenti e popolazione - e si vede costretto a distogliere parte del suo dispiegamento militare ora in Siria a ovest per rafforzare il controllo ad est. Di conseguenza, visto che in Medio Oriente vige il motto arabo" Asdiqa'uka thalatha: Sadiquka, ua Sadiqu Sadiqika ua 'aduwu Aduwuka" ("hai tre amici: il tuo amico, l'amico del tuo amico, è il nemico del tuo nemico" ndr.) ad avere nell'immediato più opportunità che perdite è Israele, che costituisce la potenza relativamente più forte nel teatro dell'Asia minore.
   Non c'è dubbio infatti che il fallimento e la sconfitta del ventennale intervento in Afghanistan indebolisca gli Usa - anche se i Talebani a Kabul possono costituire una indiretta maggiore pressione sull'Iran nelle negoziazioni in corso sulla ripresa dell'accordo sul nucleare - che sono il maggiore alleato di Israele. Indubbiamente il colpo al prestigio internazionale degli Usa vi è stato, anche se le conseguenze politiche saranno ridotte, un po' perché si tratta di un ritiro deciso da Trump nel 2020 - che aveva anche avviato negoziati con i Talebani - e poi confermato da Biden, un po' perché è una decisione di un cinismo sconfinato ma dall'assoluto realismo, visto che i Talebani hanno comunque vinto i cuori e le menti della maggioranza degli afghani, cosa che agli occidentali non è mai riuscita.
   Ma la presa di coscienza del relativo declino Usa ed occidentale nel mondo, cosa non di oggi nemmeno nel Medio Oriente, per Israele ha un impatto ridotto. Soprattutto dal fatto che è l'unica potenza regionale che non sarà toccata dal riaprirsi del vaso di Pandora afghano. Perché se gli Usa piangono, anche la Cina non ride, e nemmeno la Russia, perché l'entropia liberata sul sistema toccherà tutti. Meno Israele. Che vede l'Iran risucchiato ad est, con minore capacità di pressione ad ovest. Così come la Turchia, che guarderà agli "stan" - Kirghisistan, Uzbekistan e Tajikistan - dove i Talebani potrebbero cercare di esportare il loro modello. Anche se sembrano molto più "locali" e "nazionali" rispetto alla prima versione succube ed ospite di Al Qaeda spazzata via nel 2001. Mentre i suoi alleati sunniti potrebbero avere ancora più bisogno di Israele.
   Sul breve periodo dunque, l'unico a guadagnarci sembra .Israele, da cui si distolgono pressioni e attenzioni non richieste. Per quanto riguarda il lungo periodo, però il discorso è diverso. Se Israele vuole far pienamente parte dell'Occidente, ne dovrà condividere i dolori e i problemi. Come i prossimi fiumi di oppio, il nuovo jihad del XXI secolo - che arriveranno senza più freni dall'Afghanistan. E allora arriverà il momento delle scelte, e non si potrà più stare a guardare.

(Il Mattino, 19 agosto 2021)


La startup israeliana mira a cambiare la vita dei pazienti con disturbi urinari

di Gabriele Bauer

"PeePal" consente ai pazienti di sfruttare gli sviluppi della telemedicina per affrontare una condizione che colpisce fino al 50% degli uomini sopra i 50 anni.
   I disturbi urinari sono estremamente comuni, ben il 50% degli uomini di età superiore ai 50 anni ne soffre. Tuttavia, gli strumenti all'avanguardia per diagnosticare e monitorare questi problemi implicano tecniche onerose e invasive per i pazienti. Una startup israeliana sta lavorando per modificare questa situazione, offrendo una soluzione facile e discreta, che allo stesso tempo mantiene i pazienti in costante contatto con il loro medico di fiducia.
   “Non abbiamo una esperienza nel campo medico, ma molti medici con cui collaboriamo ci hanno segnalato questa problematica e cosi abbiamo deciso di cercare una soluzione per questa tipologia di problema” , ha affermato Yosi Rozenberg, CEO e cofondatore di P. Square Medical, “abbiamo analizzato il mercato e ci siamo resi conto che gli unici strumenti disponibili richiedevano visite di persona in ospedale o da uno specialista".
   Dopo un periodo di ricerca, P. Square Medical, una società che nasce con l'obiettivo di applicare lo sviluppo delle tecnologie di telemedicina al campo dell'urologia si è applicata per trovare una soluzione al problema posto.
   Peepal – il sistema sviluppato da P. Square – è composto da un sensore monouso, un registratore dei risultati e un app, che consentono al paziente di tenersi testato e costantemente monitorato senza più visite mediche e cliniche con tutto quello che riguarda poi il disagio che comporta gli attuali metodi di prova.
   "Secondo me, il campo dell'urologia è stato caratterizzato da apparecchiature di test che sono rimaste le stesse per molti anni e non sono state sviluppate per soddisfare gli attuali progressi tecnologici", ha affermato Rozenberg.
   Il sistema è stato testato presso il Rambam Healthcare Campus di Haifa e la sperimentazione clinica ha dimostrato che la qualità dei risultati offerti è paragonabile a quella delle visite e dei test di persona presso uno specialista. "PeePal è una tecnologia innovativa, affidabile e promettente che consente più test, in modo indipendente e non invasivo, 24 ore su 24, in un ambiente domestico confortevole e intuitivo o in qualsiasi altro ambiente come al lavoro, vacanza e così via", ha affermato Prof. Ilan Gruenwald, direttore dell'Unità di Urologia a Rambam.
   A giugno, l'azienda ha firmato un accordo con l'azienda sanitaria statunitense Premier Inc. per testare il sistema presso il dipartimento di urologia del Thomas Jefferson University Hospital, a Philadelphia. L'obiettivo è ottenere l'approvazione della Food and Drug Administration entro l'inizio del prossimo anno.

(Shalom, 18 agosto 2021)


Green pass e mascherine, da oggi al via nuove restrizioni in Israele

Le ha imposte il governo locale per contrastare la diffusione dei contagi, soprattutto quelli legati alla variante Delta del virus. Tra queste, l'obbligo di Green pass, applicabile a vaccinati, guariti o con test negativo, che verrà richiesto anche ai bambini a partire da una età di 3 anni in su, per l'accesso a ristoranti e bar, luoghi culturali e sportivi, hotel e palestre, sinagoghe o moschee. E le mascherine saranno obbligatorie negli spazi al chiuso.

Israele ha deciso di contrastare la diffusione dei contagi da coronavirus con l’entrata in vigore, a partire da oggi, di una serie di nuove restrizioni imposte dal governo, proprio a fronte dell'aumento dei casi dovuti alla variante Delta.

• LE PRINCIPALI RESTRIZIONI IN VIGORE
  Tra queste, ulteriori limiti sono stati imposti alle presenze nel corso di eventi ed è stata approvata la reintroduzione del distanziamento sociale nelle imprese. Da oggi, nel Paese, le riunioni private sono limitate a 100 persone all'aperto e a 50 persone al chiuso, mentre nelle sedi dove si svolgono eventi pubblici il limite è di 500 persone all'aperto, mentre di 400 al chiuso. Un paletto imposto dalle autorità sanitarie, poi, è che nessun evento potrà superare la capacità del 75% di capienza del luogo in cui si svolge. Altre regole riguardano poi le mascherine ed il Green pass sanitario. Le prime sono obbligatorie in tutti gli spazi al chiuso, esclusa la propria residenza, e anche nelle riunioni all'aperto dove ci sia la presenza di almeno 100 persone. E’ stato esteso, poi, anche l'obbligo di Green pass, applicabile a vaccinati, guariti o con test negativo, che a partire da oggi verrà richiesto anche ai bambini a partire da una età di 3 anni in su. Le misure, infatti, prevedono l’obbligo del certificato di vaccinazione o dei test negativi per entrare in una serie di spazi pubblici, inclusi ristoranti e bar, luoghi culturali e sportivi, hotel e palestre, come confermato dal ministero della Salute locale. Lo stesso vale per i fedeli che desiderano entrare in sinagoghe, moschee o chiese con più di 50 persone presenti. Inoltre, la capacità di negozi, centri commerciali e parchi industriali sarà limitata ad una persona ogni sette metri quadrati.

• LA CAMPAGNA VACCINALE ED I DATI PIÙ RECENTI LEGATI AI CONTAGI
  Nel Paese, intanto, dopo il lancio avvenuto lo scorso dicembre, la campagna vaccinale ha contribuito a ridurre le infezioni, sebbene di recente questa tendenza si sia invertita, guidata dalla diffusione della variante Delta del virus, con una serie di restrizioni che sono state revocate a giugno e poi reintrodotte a partire da luglio. Nelle ultime settimane, Israele ha iniziato a somministrare una terza dose di richiamo ai cittadini di età pari o superiore ai 50 anni, esortando chiunque abbia più di 12 anni a farsi vaccinare. Circa un milione di israeliani, infatti, non sono stati sottoposti a vaccinazione, seppur idonei. Secondo il ministero della Salute, martedì, oltre 8.700 persone sono risultate positive al coronavirus, il numero più alto in un solo giorno sin da gennaio. Mentre nelle ultime 24 ore, le nuove infezioni sono state 7.832 a fronte di circa 143.000 tamponi, con un tasso del 5.6%. I malati gravi sono attualmente 578.

(tg24.sky.it, 18 agosto 2021)


*


Covid, nuove restrizioni in Israele: Green pass anche per i bimbi sopra i 3 anni

Rabbino allontana un fedele no vax dalla sinagoga

Il balzo dei contagi in Israele – che non ha ancora superato la soglia del 60% dei vaccinati nonostante una campagna vaccinale veloce ed aggressiva – ha portato il governo a decidere l’introduzione di nuove restrizioni a tre settimane dall’inizio delle festività. Ci saranno ulteriori limiti alle presenze agli eventi e la reintroduzione del distanziamento sociale nelle imprese. Le riunioni private sono limitate a 100 persone all’aperto e 50 persone al chiuso, mentre nelle sedi degli eventi il limite è di 500 persone all’aperto e 400 al chiuso. Inoltre, nessun evento può superare la capacità del 75% di capienza del luogo.
  Le mascherine sono obbligatorie in tutti gli spazi al chiuso (tranne che nella propria residenza) e anche nelle riunioni all’aperto con almeno 100 persone. Esteso anche l’obbligo di Green pass (che si applica a vaccinati, guariti o con test negativo) che da oggi è richiesto anche ai bambini superiori a 3 anni. Fra le poche eccezioni all’obbligo di Green Pass, i luoghi di culto, dove si continua a poter accedere liberamente con non più di 50 persone presenti. I bambini fino a 12 anni di età potranno effettuare i test gratuitamente. In flessione – rispetto al record di ieri che ha segnato oltre 8mila casi – le infezioni: nelle ultime 24 ore secondo il ministero della sanità sono state 7.832 a fronte di circa 143.000 tamponi con un tasso del 5.6%. I malati gravi sono 578. Intanto prosegue a pieno ritmo la vaccinazione con la terza dose che oramai ha superato il milione di persone.
  Una situazione delicata in Israele che ha visto Ben Zion Mutzafi, un importante rabbino ortodosso dal largo seguito tra i fedeli, allontanare dalla sua lezione in una sinagoga a Gerusalemme un uomo che si opponeva alla vaccinazione. L’episodio è stato riferito dal sito di notizie Kikar HaShabbat, pubblicazione ortodossa che ha anche diffuso un video dell’accaduto nel quale si vede il rabbino inveire ripetutamente contro il no vax definendolo “pazzo” e “diavolo“. Mutzafi – che ad inizio anno nella fase più dura dell’epidemia con parecchie resistenze da parte della popolazione ortodossa aveva ordinato ai suoi seguaci di andare a vaccinarsi – ha poi gridato all’uomo: “Più di 6.500 persone sono morte, basta con queste cose. Vattene fuori di qui, sei pazzo”. Alle proteste del no vax il rabbino ha insistito dicendo all’uomo che non gli avrebbe consentito di parlare oltre: “Sei un eretico – ha proseguito – un diavolo”.

(il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2021)


Interessante. Dopo il primato nell'istigazione al vax, Israele avrà il primato anche nella caccia ai "no vax"? M.C.


Israele, 8.730 casi e 46 morti in un giorno quasi tutti tra i vaccinati

Lo scienziato Usa Eric Topol, postando il grafico dell’impennata dei contagi registrati in Israele con la variante Delta, ha detto: “Non doveva andare così. I casi sono scesi a zero a giugno dopo una delle campagne di vaccinazione più aggressive al mondo, poi è arrivata Delta“.
Covid-19, in Israele la situazione continua a peggiorare drammaticamente: brusco aumento di casi e contagi quasi tutti tra i vaccinati. Gli esperti sorpresi: "Non doveva andare così"


di Peppe Caridi

Record di 8.730 nuovi casi positivi al Covid-19 nelle ultime 24 ore in Israele: non erano mai stati così tanti negli ultimi 6 mesi, cioè da inizio di febbraio. Lo indicano i dati diffusi dal ministero della sanità che registrano su circa 143mila tamponi per un tasso di positività del 6.2%, anche questo un record. Anche il numero dei morti giornalieri, ben 46, ha raggiunto i livelli dello scorso febbraio. Le persone attualmente positive nel Paese, che conta 9 milioni di abitanti, sono 55.323, di cui 559 si trovano in gravi condizioni nei reparti di terapia intensiva.
   In Israele hanno ricevuto la prima dose di vaccino più di 6 milioni di abitanti (67,5% della popolazione totale); la seconda dose 5 milioni e 625 mila abitanti (62,6% della popolazione); la terza dose (di cui sono iniziate le somministrazioni tre settimane fa) 1 milione di abitanti (l’11,1% della popolazione totale del Paese).
   La stragrande maggioranza dei contagiati è tra i vaccinati, nonostante il virus stia circolando in modo prevalente nelle fasce giovani della popolazione dove ci sono circa la metà dei ragazzi non vaccinati (che però vengono meno colpiti dal contagio):

(MeteoWeb, 17 agosto 2021)



Complottismo biblico

impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati
il diavolo sta preparando il mondo
ad accogliere l'anticristo

 

Dal tabacco al chewing gum: la storia ebraica di Bazooka Bubble Gum

di Giulia Favignana

Bazooka Bubble Gum è uno dei chewing gum americani più conosciuti al mondo, in particolare in Israele, dove la gomma masticabile rosa, dal sapore inconfondibile, è diventata un’icona cult. 
   Non tutti però conoscono l’origine di Bazooka Bubble Gum. Arrivato dalla Russia negli Stati Uniti nel 1891, Morris Chigorinsky Shorin fonda l’American Leaf Tobacco Company.  Nel 1938, per salvare la famiglia dalla crisi economica, i quattro figli di Chigorinsky decidono di investire sull’azienda dolciaria Topps Chewing Gum Company, a Brooklyn, NY e nel 1947 mettono in commercio la gomma da masticare Bazooka, che supera largamente nelle vendite la diretta concorrente Dubble Bubble, prodotta da Fleer (come racconta il Jerusalem Post).
   Il successo è immediato sia per il nome scelto (Bazooka, arma lanciarazzi anticarro ideata dagli americani) sia per i colori patriottici della confezione: rossa, bianca e blu. La singola gomma, che costava un centesimo, era avvolta da un piccolo fumetto, che, nel 1949, aveva come protagonista Bazooka, l '"Atom Bubble Boy". Nel 1953 l’illustratore Wesley Morse, ispirato dal figlio, crea un nuovo personaggio per rappresentare il marchio: Bazooka Joe.
   Nel 1954 Bazooka Joe, un ragazzo spavaldo con la benda nera sull’occhio, diventa il protagonista, insieme alla sua “banda”, delle vignette delle gomme da masticare, che avranno un boom di vendite. Nel corso degli anni ’50 la popolarità di Bazooka Joe è testimoniata anche dalle sitcom come “How I met your mother”, “Seinfeld” e “King of Queens”, in cui il protagonista viene più volte menzionato. Da allora le confezioni sono diventate oggetti da collezione e ancora oggi si fanno aste di vendita on line. 
   Nel 2012 i fumetti vengono sostituiti da piccoli giochi rompicapo. Scelta che determina un calo delle preferenze dei consumatori. Per questo nel 2019 l’azienda decide di produrre il Throwback Pack di Bazooka Bubble Gum “ispirato all’iconico packaging originale del marchio con una nostalgica grafica anni ’80, avvolto nei classici fumetti”. 
   In Israele la gomma Bazooka è diventata un cult. Negli anni ’60 Islico Ltd inizia a produrre Bazooka a Tel Aviv, negli anni ‘70 il marchio viene rilevato da Lieber Co e, nel decennio successivo, dal colosso di generi alimentari Strauss-Elite, che ancora oggi continua a produrre prodotti dolciari Bazooka, gomme, caramelle, snack e perfino il latte. 
   Bazooka Bubble Gum ha inoltre ispirato un artista israeliano, il cui pseudonimo è proprio Bazooka Joe.
   Chiunque fosse interessato alla storia di Bazooka in Israele può anche visitare il museo virtuale dedicato.

(Shalom, 18 agosto 2021)


Ricadute in Medio Oriente della caduta di Kabul

Gli alleati degli americani sono costretti a trarre severe conclusioni, anche quelli come Israele che, grazie al cielo, per difendersi dai nemici non dipendono dalla presenza di truppe statunitensi.

Scrive Jonathan S. Tobin, su jns.org: Per coloro che sono abbastanza anziani da ricordare le immagini degli ultimi giorni del Vietnam del Sud, i recenti eventi in Afghanistan appaiono drammaticamente familiari. In entrambi i casi, un alleato degli americani assai imperfetto è rapidamente crollato di fronte a un nemico molto determinato, quando le due parti in conflitto si sono rese conto che gli Stati Uniti non avrebbero più mosso un dito per aiutare i loro amici. L’Afghanistan è stata la guerra più lunga dell’America e purtroppo, come quella del Vietnam, è destinata a passare alla storia come una guerra in cui una superpotenza è stata sconfitta da un nemico molto meno forte. In entrambi i casi, ci sono buone ragioni per ritenere che la sconfitta fosse inevitabile a dispetto delle capacità e del coraggio delle forze statunitensi e dei loro alleati. E in entrambi i casi è del tutto probabile che la maggior parte degli americani, sebbene mortificati alla vista di spregevoli nemici che festeggiano il proprio trionfo e delle terribili conseguenze per i residenti locali che hanno combattuto con l’America e l’hanno affiancata, alla fine non si preoccuperanno più di tanto. La loro vita andrà avanti, seppure disturbata di tanto in tanto dalle notizie sulle atrocità islamiste che inizieranno in Afghanistan o nell’anniversario dell’11 settembre....

(israele.net, 18 agosto 2021)


Covid: oltre ottomila infezioni in Israele, è record

TEL AVIV – Oltre 8mila (8.646) nuove infezioni nelle ultime 24 ore in Israele: un record negli ultimi sei mesi, ovvero da febbraio scorso. Lo indicano i dati diffusi dal ministero della sanità che registrano su circa 143mila tamponi un tasso di morbilità al 6.2%, anche questo un record. Sempre in leggera flessione – secondo gli stessi dati – i malati gravi anche se i casi attivi restano oltre 50 mila. Ad oggi sono oltre 1 milione gli israeliani che si sono vaccinati con la terza dose la cui campagna di immunizzazione procede in modo accelerato.

(ANSA, 17 agosto 2021)


Macron boicotta i boicottatori di Israele

La Francia non parteciperà alla Conferenza dell’Onu contro il razzismo a Durban

La Francia di Emmanuel Macron non sarà presente alla Conferenza delle Nazioni Unite contro il razzismo, la discriminazione, la xenofobia e l’intolleranza che si terrà a Durban, in Sudafrica, il prossimo 22 settembre. E il motivo di questa decisione risiede nella ferma volontà di denunciare l’antisemitismo di cui si è macchiata questa riunione nelle precedenti edizioni, “un male sotterraneo”, come lo ha definito il capo dello stato francese, che sta tornando a mettere radici in Europa. “Legata all’universalismo dei diritti dell’uomo, la Francia continuerà a lottare contro ogni forma di razzismo e veglierà affinché la conferenza di Durban si svolga nel rispetto dei princìpi fondatori delle Nazioni Unite”, ha precisato l’Eliseo in una nota pubblicata venerdì, puntando il dito contro “le dichiarazioni antisemite pronunciate in passato nel quadro di questa conferenza”. Boicottare i boicottatori: è questo il messaggio di Macron ai paesi che continuano a demonizzare Israele e a diffondere il virus dell’antisemitismo.
   Durante la prima conferenza di Durban, nel 2001, gli Stati Uniti e Israele avevano abbandonato la riunione protestando contro i paesi arabi che avevano assimilato il sionismo al razzismo. Durante l’edizione tenutasi a Ginevra nel 2011, diversi rappresentanti dei paesi europei lasciarono la sala durante il discorso anti israeliano e negazionista pronunciato dal presidente iraniano dell’epoca Mahmoud Ahmadinejad.
   Quest’anno, in occasione del ventesimo anniversario della conferenza dell’Onu, la Francia starà direttamente a casa. A luglio, Francis Kalifat, presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif), lanciò un appello solenne alla presidenza de la République, “affinché la Francia non perdesse la sua anima partecipando a questa pagliacciata”, ritirandosi sulla scia di Regno Unito, Stati Uniti e Canada. Macron ha accolto l’appello, confermando il suo impegno nella lotta contro l’antisemitismo e il boicottaggio di Israele.

Il Foglio, 17 agosto 2021)


Quel Davide che è in noi

In questo articolo l'autore presenta a mo' di favola la famosissima storia biblica di Davide e Golia. E come si fa di solito con le favole, anche lui ne trae la sua morale. Riportiamo soltanto quella, il resto si conosce. NsI

di Gad Lerner

[...] In tempi recenti abbiamo ritrovato nelle mani dei giovani palestinesi quello strumento rudimentale, la fionda, con cui Davide ebbe la meglio su Golia. I sassi vengono scagliati addosso alle truppe d'occupazione israeliane sulla cui divisa compare la stella di Davide. Per uno scherzo del destino, il nome stesso dei palestinesi deriva proprio dai filistei; anche se essi preferiscono rivendicare un'origine cananea per sancire una presenza nella terra contesa antecedente quella ebraica. Così Davide, eroe degli ebrei, è diventato il simbolo di una speranza di riscossa degli ultimi che appartiene a tutti i popoli. Anche ai discendenti di Golia.

(il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2021)


I palestinesi sarebbero dunque i discendenti di Golia. Fa parte anche questo della favola? M.C.


Riconoscimento facciale: ricercatori israeliani creano 9 volti in grado di aggirarlo facilmente

Riconoscimento facciale: creato un software in grado di aggirare i controlli. La cyber security è davvero inespugnabile? Da Israele vengono mostrate le lacune.

La vulnerabilità della cyber security è ancora al centro delle polemiche. Questa volta a gettare luci e ombre su un modello a detta di molti inespugnabile, il software che alcuni ricercatori israeliani hanno creato per raggirare alcuni tra i controlli più efficaci del pianeta. Nove i volti sviluppati mezzo software in grado di falsificare le identità ai controlli.
  In molti la ritengono tra le più sicure, ma la tecnologia che sta alla base del riconoscimento facciale può essere “facilmente” espugnata. A provarlo alcuni ricercatori israeliani, i quali hanno creato nove volti in grado di superare i controlli “fregando” i software alla base del riconoscimento facciale.
  I ricercatori di informatica ed ingegneria elettrica dell’Università di Tel Aviv ci sono riusciti. Il 40% dei casi in cui viene analizzato il volto può essere effettivamente raggirato. Si tratta di nove facce che, in quattro casi su dieci, sarebbero in grado di ingannare i sistemi di identificazione biometrica. Un risultato incredibile se si pensa che i software, in grado di riconoscere i nostri volti, sono tra i più sofisticati ed efficienti presenti ad oggi.
  Sblocco con impronta digitale Photo by George Prentzas on Unsplash La storia dei ricercatori israeliani si accoda ad una serie di altri esperimenti con al centro la sicurezza dei nostri dati e dei software di riconoscimento dei dati biometrici. Quest’ultimo caso conferma, ancora una volta, che è possibile ingannarli e raggirarli grazie a studio e ricerca degli addetti ai lavori.
  I due alleati nel successo dei ricercatori di Tel Aviv sono stati l’intelligenza artificiale ed il machine learning, sempre più centrali anche nel mondo delle truffe online e nel furto dei dati sensibili. Grazie ai due elementi è stato possibile dare vera e propria vita ai nove volti attraverso reti neurali ed algoritmi. Dei numerosissimi volti creati negli anni, solo nove sono stati in grado di risultare “più performanti” sotto l’aspetto dei raggiro dei controlli.
  Si tratta di un primo step di ciò che ci aspetta in futuro. Da considerare un’altra tecnologia, sempre più popolare e ottimizzata: il deep fake. Questa, mescolata all’IA ed al machine learning, potrebbe rendere molto più semplice, in futuro, raggirare i controlli dei dati biometrici, rendendo sempre più vulnerabili i sistemi di sicurezza.

(Computer Magazine, 17 agosto 2021)


La vittoria infinita dell’emirato islamista

Nel collasso afghano l’anello debole che ha ceduto non è l’esercito di Kabul, ma la politica occidentale.

di Daniele Raineri

Prologo. Nel 2001 il gruppo terroristico al Qaida attacca Manhattan e il Pentagono e uccide migliaia di persone. Al Qaida è ospite dei fanatici talebani in Afghanistan. Gli americani intervengono, disperdono i talebani e minacciano in privato il loro sponsor, il confinante Pakistan: “Se non cooperate, vi facciamo tornare all’età della pietra a suon di bombe”. Talebani e al Qaida non spariscono. La strategia è aspettare e combattere una guerriglia di logoramento, prima o poi i governi occidentali si stancheranno dell’Afghanistan. “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”, dicono. I servizi del Pakistan aiutano sottobanco. Passano vent’anni. Prima il presidente repubblicano Trump e poi il democratico Biden ordinano il ritiro e annunciano che i talebani faranno la pace con il governo afghano. Ma non c’è nessuna pace. Nelle città, le donne temono il ritorno dei fanatici.
  Ci sono due scuole di pensiero sul fallimento storico del presidente americano Joe Biden in Afghanistan. La prima scuola di pensiero dice che è innocente. I talebani stavano avanzando in modo irreparabile da anni ormai e si erano già ripresi metà del paese a dispetto della presenza militare degli Stati Uniti e degli altri contingenti di soldati stranieri, incluso quello italiano. I guerriglieri stavano occupando distretto dopo distretto e il grande pubblico non se ne accorgeva soltanto perché si trattava di zone rurali e non di città – che fanno senza dubbio più notizia – ma presto o tardi avrebbero cominciato a bussare ai cancelli di Kandahar, Jalalabad, Kunduz e degli altri grandi centri fino ad arrivare da zero alla capitale Kabul come avevano fatto negli anni Novanta in appena trentasei mesi. I talebani sono specializzati nel conquistare grandi territori afghani per poi marciare sulle città (avevano già preso Kunduz due volte, nel 2016 e nel 2019, per poi ritirarsi come uno squalo che assaggia il boccone). Erano in vantaggio e non c’era modo di ribaltare la situazione. Quindi che senso aveva restare ancora “un altro anno o altri cinque anni”, come ha detto Biden? In queste condizioni era inevitabile che prima o poi l’Amministrazione americana avrebbe dovuto aumentare il numero delle truppe americane in Afghanistan e avrebbe dovuto gettarle di nuovo in combattimento per fermare i talebani – come non facevano da anni perché dal punto di vista ufficiale non erano più laggiù a sparare, il loro ruolo nel 2016 era diventato di mero appoggio all’esercito afghano. Il presidente Biden sapeva che questo tracollo era possibile se non proprio inevitabile e quindi ha chiuso la missione americana prima di essere costretto a rientrare in guerra contro i talebani. Insomma, ha soltanto preso atto della situazione e ha agito di conseguenza (per questa scuola di pensiero fatalista-innocentista vedi per esempio David Rothkopf, editorialista tendenza democratici e firma per molti anni del New York Times).
  L’altra scuola di pensiero dice che Biden è colpevole. I soldati americani in Afghanistan non combattevano più da molto tempo, avevano altri compiti, raccoglievano informazioni, si occupavano di intelligence e logistica e guidavano all’occorrenza i raid aerei contro i talebani.
  Gli ultimi due caduti americani in combattimento risalgono al febbraio 2020. Erano soltanto 2.500 e stavano chiusi nelle loro basi (tanto per farsi un’idea: i vigili urbani a Milano sono tremila, era difficile considerare gli americani in Afghanistan una “forza d’occupazione”). Però i soldati americani rassicuravano con la loro presenza il debolissimo ancorché numerosissimo (trecentomila sulla carta) esercito nazionale dell’Afghanistan. Gli Stati Uniti hanno basi in tutto il mondo, hanno 63 mila uomini in Europa e 53 mila in Giappone dal 1945, e 26 mila uomini in Corea dal 1957, valeva la pena tenerne 2.500 in Afghanistan per evitare questa catastrofe. Gli Stati Uniti a partire dal 2001 – quando attaccarono e spazzarono via il regime dei talebani – hanno la responsabilità di quello che succede agli afghani. Può essere che i guerriglieri stessero avanzando e fossero in vantaggio, ma il collasso è cominciato davvero in un momento preciso: quando Biden il 14 aprile ha annunciato il ritiro senza condizioni dal paese entro l’11 settembre. Non avremo mai la controprova di quello che sarebbe successo se gli americani fossero restati, ma vediamo l’orrore che succede oggi. Il sospetto è che l’Amministrazione Biden avesse già accettato il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan, ma sperava che si sarebbe spalmato nel corso di due-tre anni di noiosa guerra civile in fondo ai notiziari della sera e non arrivasse così di colpo. Tra l’altro la data dell’11 settembre (il giorno degli attacchi di al Qaida contro New York e Washington nel 2001) suggerisce che l’Amministrazione Biden avesse in mente un qualche perverso simbolismo da celebrare, del tipo: la nostra missione si conclude a vent’anni esatti. E invece. Per questa seconda scuola di pensiero non rassegnata vedi tra gli altri l’ex generale e direttore della Cia David Petraeus, che fino a pochi giorni fa chiedeva l’invio di urgenza di altre truppe, o l’ex generale H. R. McMaster, che è stato consigliere per la Sicurezza nazionale dell’ex presidente americano Donald Trump.
  A proposito di Trump. Se le immagini della folla in preda al panico che tenta di salire sugli aerei che decollano dall’aeroporto di Kabul fossero arrivate mentre c’era Trump alla Casa Bianca ci sarebbe un fuoco tambureggiante contro il presidente che non capisce nulla di politica estera e del resto. Ora, quello che succede a Kabul non rende Trump un presidente migliore – lui sponsorizza la setta fanatico-demenziale di QAnon e ha trasformato mascherine e vaccino in una questione politica, tanto per citare due disastri. Ma Biden ha dato molto materiale alla seconda scuola di pensiero, quella dei colpevolisti. A cominciare dall’annuncio fatto il 20 gennaio, il giorno di inaugurazione del suo mandato: “America is back!”, disse, come a voler significare che gli Stati Uniti avrebbero ripreso a guidare gli eventi internazionali e avrebbero abbandonato quella postura rannicchiata e isolazionista che avevano preso sotto Trump. Sul Financial Times l’editorialista Gideon Rachman fa notare che dire – come dice Biden – che il ritiro dall’Afghanistan è un passo necessario per occuparsi meglio degli avversari strategici dell’America come Cina e Russia è un errore che avvantaggerà proprio Cina e Russia. C’è il danno non quantificabile alla credibilità e quindi alla capacità di deterrenza degli Stati Uniti e di tutto il blocco dei paesi occidentali. E infine c’è il tragicomico discorso dell’8 luglio, poco più di un mese fa, quando Biden difese la sua decisione a proposito dell’Afghanistan in una conferenza stampa con parole che oggi suonano separate dalla realtà. Domanda dei giornalisti: “La vittoria dei talebani è inevitabile?”. Biden: “No, perché l’esercito afghano ha trecentomila uomini bene equipaggiati e una forza aerea contro circa 75 mila talebani. Non è inevitabile”. Domanda: “Si fida dei talebani?”. Biden: “E’ una domanda sciocca. Non mi fido dei talebani. Mi fido delle capacità dei militari afghani, che sono meglio addestrati, meglio equipaggiati e più competenti nel condurre una guerra”. Domanda: “Signor presidente, l’intelligence americana dice che il governo afghano probabilmente collasserà”. Biden: “Non è vero, non dice questo”. Domanda: “E allora che livello di certezza hanno sul fatto che non collasserà?”. Biden: “Penso che l’unico modo in cui ci saranno pace e sicurezza in Afghanistan è quando il governo troverà un arrangiamento con i talebani su come convivere e come fare pace” [ministri e presidente sono scappati da Kabul nel fine settimana con borse piene di denaro a bordo di aerei diretti verso altri paesi della regione, nei palazzi ora siedono i leader talebani]. Domanda: “Presidente, alcuni veterani che hanno fatto la guerra in Vietnam vedono echi della loro esperienza in questo ritiro dall’Afghanistan. Vede qualche parallelo tra questo ritiro e quello che è successo in Vietnam, c’è gente che pensa…”. Biden (interrompendo): “No, nessuno. Zero. I talebani non sono l’esercito del Vietnam del nord. Non sono nemmeno comparabili in termini di capacità. In nessuna circostanza vedrete gente evacuata dal tetto di un’ambasciata americana in Afghanistan. Non c’è alcun paragone possibile”.
  In pratica i giornalisti l’8 luglio chiedevano a Biden se non c’era il rischio che finisse tutto come a Saigon nel 1975, quando furono scattate le immagini famose dell’evacuazione con gli elicotteri dal tetto dell’ambasciata americana in Vietnam (nota storica: in realtà la situazione era più complicata del racconto che se ne fa, ma non è argomento per oggi). Sembrava un’iperbole, roba da sensazionalisti. E’ finita peggio. Ieri dall’aeroporto di Kabul arrivavano le immagini di una folla disperata pronta a tutto per imbarcarsi a bordo di un aereo e scappare dai talebani. Gente che si arrampicava sui terminal, che invadeva le piste, che si aggrappava ai velivoli in decollo. Tre persone che si sono avvinghiate all’esterno di un jumbo in decollo non ce l’hanno fatta a reggersi e sono precipitate poco dopo da centinaia di metri di altezza sui tetti di Kabul. L’evacuazione dell’ambasciata degli Stati Uniti nella capitale afghana è avvenuta con ordine e sotto la protezione dei soldati americani, ma le immagini iconiche della disfatta prodotte dal 2021 sono più impressionanti di quelle del 1975. Per portare a termine questa operazione il Pentagono ha spedito con urgenza migliaia di soldati americani a Kabul, anche se soltanto per pochi giorni. Ma se per ritirare incolumi i tuoi diplomatici devi mandare un numero di militari superiore a quelli che hai appena ritirato per mettere in sicurezza il percorso e un pezzo di aeroporto è chiaro che il ritiro è stato un insuccesso e che la situazione in Afghanistan è sfuggita al tuo controllo.
  Sarebbe da scemi sostenere che le due ultime Amministrazioni americane non temessero un collasso improvviso in Afghanistan. Se i giornalisti ne parlano in conferenza stampa vuol dire che altri, migliori, ci sono arrivati prima e con più informazioni e ci hanno lavorato, dal dipartimento di Stato al Pentagono alla comunità dei servizi di intelligence. Forse un problema è che il dibattito in politica estera, quello che arriva agli elettori, è prigioniero di sintesi facili che diventano slogan. Per l’Afghanistan si parlava di “ending the endless war”, mettere fine alla guerra senza fine. E’ senz’altro una formula accattivante, soprattutto in campagna elettorale, ma come abbiamo visto la guerra senza fine era mutata, si era trasformata in un’altra cosa, era un’operazione di sicurezza internazionale con impegno e rischi minimi o comunque incredibilmente ridotti rispetto al passato. Se invece che chiamarla “guerra senza fine” nei comizi e in tv avessero detto “lasciamo 2.500 uomini in Afghanistan altrimenti è come se gettassimo le donne afghane ai cani, pensate che sia giusto?” il dibattito sarebbe stato differente? Si procede per inerzia, nessuno si prende la briga di spiegare le possibilità. Ci si emoziona per Malala, presa a fucilate dai talebani perché voleva andare a scuola, ma si resta convinti che in Afghanistan la guerra fosse ancora la stessa del 2009. Se la domanda nuda è “volete mettere fine alla guerra senza fine?” è ovvio che tutti risponderanno sì.
  Digressione. Viene da pensare allo slogan della campagna pacifista contro l’invasione dell’Iraq nel 2003: “No blood for oil”. Era uno slogan senza senso. Si può pensare quello che si vuole di quel conflitto, ma le compagnie americane non hanno mai toccato il greggio iracheno, il greggio iracheno è rimasto agli iracheni che hanno deciso come e a chi venderlo (compagnie francesi e cinesi soprattutto), il petrolio non è un bene così scarso e strategico, i paesi produttori non sanno più come limitarne la produzione per tenere il prezzo a un livello decente e gli Stati Uniti sono un paese esportatore. Ma all’epoca erano tutti convinti che la guerra in Iraq fosse una manovra americana per prendere i pozzi. Da un pubblico informato male la politica prende le mosse per cattive decisioni. Visto che siamo in tema di formule vaghe, il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha appena detto al Corriere della Sera: “Non lasceremo soli gli afghani”. Oggi sull’onda dell’emozione funziona molto bene, ma nessuno sa spiegare cosa voglia dire con precisione.
  C’è da notare che l’ambasciata russa a Kabul resta aperta, mentre quella americana è costretta a chiudere e il personale dev’essere evacuato sotto scorta militare. I russi nel 2020 erano stati coinvolti in una bruttissima storia: l’intelligence americana accusava i servizi segreti di Mosca di avere istituito un sistema di taglie per uccidere soldati americani in Afghanistan. I talebani ammazzavano e incassavano un premio in denaro. La storia è difficile da raccontare perché le tracce materiali sono poche. Era un sistema per indebolire la politica estera degli Stati Uniti nell’Asia centrale, l’accusa non è mai caduta ma l’Amministrazione Trump l’ha ignorata. Fa parte di quel bouquet di notizie che non fanno mai presa sul grande pubblico, che invece crede ad alcuni miti – come quello che vorrebbe i talebani finanziati ai loro albori dagli americani e quello sì va fortissimo sui social. I russi sono stati accusati di avere pagato i talebani in questi anni ma la faccenda è come se non esistesse.
  Questione Stato islamico. Lo Stato islamico in Afghanistan, spesso menzionato con la sigla inglese ISKP (Islamic State Khorasan Province), è aggressivo e organizzato ed è un nemico giurato dei talebani, che considera dei piscialetto nazionalisti perché vogliono soltanto un Emirato islamico afghano e non sognano un Califfato globale e li accusa di essere in combutta con i servizi segreti pachistani (su questo hanno ragione, è un fatto certo). I talebani ricambiano l’odio. Il Foglio ha chiesto a un circolo di esperti del jihad un parere in forma anonima su quello che succederà. Il responso è che i talebani sono un avversario formidabile per lo Stato islamico e non gli permetteranno di conquistare territorio e che per paradosso è meglio questa ascesa fulminea dei talebani rispetto a una guerra civile che si sarebbe potuta trascinare per anni perché il caos che ne sarebbe derivato è l’habitat preferito dallo Stato islamico per crescere. Invece in questo modo i talebani si occuperanno con violenza delle cellule dello Stato islamico che riusciranno a trovare. E infatti dalle prime notizie si è appreso che quando i guerriglieri attaccano una prigione e liberano in massa i prigionieri si premurano di capire chi è finito in carcere perché faceva parte dello Stato islamico. Quelli non sono rimessi in libertà, ma restano in attesa di essere indagati. C’è però il timore fondato che i talebani non riescano a condurre operazioni antiterrorismo efficaci, perché non hanno i mezzi che aveva l’NDS, l’intelligence afghana appoggiata dagli americani, che intercettava computer e telefoni e poteva ottenere sorveglianza e raid con i droni. C’è poi il pericolo che lo Stato islamico, anche senza guadagnare territorio, crei un network molto robusto a cavallo di Afghanistan e Pakistan per lanciare attentati. In questi mesi abbiamo già avuto un’anteprima orrenda di quello che potrebbe succedere con la sequenza serrata di attacchi con bombe contro la minoranza sciita di Kabul, incluso un attentato con più ordigni contro l’ingresso di una scuola all’ora di uscita che ha ucciso più di cento bambine. I talebani sono bravi a impedire che le donne studino all’università, riusciranno a essere efficienti contro reti di stragisti capaci di eludere la sorveglianza di tutti?
  E questo ci porta alla questione al Qaida e Ttp – che è la sigla dei talebani pachistani, un movimento estremista in guerra contro il governo del Pakistan che trova ospitalità presso i talebani afghani. Ricapitoliamo prima di perderci. I talebani odiano lo Stato islamico, ma hanno un debole per molti altri gruppi estremisti come al Qaida e appunto i talebani pachistani. I talebani sono appoggiati dal Pakistan, ma i loro gruppi alleati come al Qaida e i talebani pachistani (Ttp) compiono volentieri attacchi orrendi in territorio pachistano e questo crea una contraddizione grave. In teoria gli accordi tra Stati Uniti e talebani prevedevano il ripudio dei gruppi terroristici, ma se è per questo prevedevano anche negoziati di pace con il governo afghano e invece i talebani sono piombati su Kabul come un treno e hanno cacciato il governo armi in pugno. Quindi non c’è alcuna sicurezza su come si comporteranno i talebani nei prossimi anni con i gruppi terroristici. Potrebbero essere spietati con lo Stato islamico ma molto permissivi con al Qaida e con altri. Quando hanno attaccato la prigione di Bagram hanno rimesso in libertà Ahmed Farouq, capo storico dei talebani pachistani che ha un’amicizia personale con l’egiziano Ayman al Zawahiri, il capo di al Qaida. In breve: non sappiamo cosa succederà, ma succederà un po’ troppo lontano dagli occhi degli americani. E anche se gli americani si accorgessero che qualcosa va male, la loro capacità di intervenire in Afghanistan è ormai molto ridotta rispetto a una settimana fa, qualsiasi missione dovrebbe partire da paesi lontani. Ending the endless war è un bello slogan, ma da oggi un drone americano per sorvegliare un covo di al Qaida in Afghanistan deve decollare dal Golfo, volare per dieci ore e violare uno spazio aereo ostile. E’ abbastanza pacifico che i talebani non saranno così scemi da permettere ad altre fazioni di organizzare attacchi contro l’occidente adesso, perché hanno bisogno di stabilità mentre rafforzano la presa sul paese. E’ anche pacifico però che se lo scopo dell’intervento in Afghanistan nel 2001 era distruggere al Qaida, non è stato raggiunto. L’organizzazione è più forte rispetto a vent’anni fa e conta più uomini. Soltanto nel 2020 al Qaida ha compiuto ottanta attacchi suicidi in Afghanistan.
  L’evacuazione precipitosa degli americani da Kabul fa venire in mente una storia sul viaggio intrapreso da due generali israeliani, Meir Dagan (che poi diventerà direttore del Mossad) e Yossi Ben Hanan a metà degli anni Novanta per andare a consultare il leggendario generale vietnamita Vo Nguyen Giap, lo stratega che costrinse gli americani ad abbandonare il Vietnam nel 1975. Gli israeliani non consideravano lo spietato Giap un eroe, ma era in ogni caso un gigante della dottrina militare da ascoltare e da studiare. Alla fine dell’incontro molto lungo, Giap disse ai due che i palestinesi spesso facevano lo stesso viaggio di pellegrinaggio in Vietnam per chiedergli: voi avete cacciato prima i francesi e poi gli americani, spiegateci come avete fatto in modo che noi possiamo fare la stessa cosa contro gli israeliani che occupano le nostre terre. Gli israeliani si fermarono per ascoltare la risposta di Giap. “Dico loro: i francesi sono tornati in Francia e gli americani sono tornati in America, ma gli ebrei non hanno un posto dove andare. Non li caccerete”. Il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan è anche un’iniezione di realismo nelle conversazioni che riguardano i fatti internazionali. Puoi fare finta che i tuoi nemici non esistano, ma quelli non ricambiano la cortesia. E’ molto probabile che chi si occupa di sicurezza in Israele stia osservando la disfatta a Kabul e la disperazione degli afghani e sia sempre più determinato a non lasciare questioni strategiche – come il nucleare iraniano o il dossier Hamas – in mano ad altri.
  Un ultimo paragrafo dedicato alla disinformazione. Vent’anni fa, quando gli americani arrivarono in Afghanistan, sui social circolavano alcune spiegazioni in stile “ho capito tutto io” su un fantomatico oleodotto strategico che avrebbe dovuto attraversare l’Afghanistan e che gli americani desideravano tanto. Quello e non gli attacchi dell’11 settembre era la vera ragione dell’intervento militare contro i talebani. Vent’anni dopo gli americani se ne sono andati perché non sopportavano di spendere a vuoto altri soldi dei contribuenti per mantenere una missione militare a Kabul.

Il Foglio, 17 agosto 2021)


16 agosto 1944, la fine della storica comunità ebraica di Rodi

Il ricordo di Sami Modiano a Shalom

di Daniele Toscano

16 agosto 1944: in questo giorno simbolicamente si può collocare la fine della comunità ebraica di Rodi.
   Oltre 5 secoli di storia che avevano visto fiorire nell’isola greca una significativa presenza ebraica venivano distrutti dalla deportazione nazista nei campi di sterminio.
    “È una delle pagine più nere della storia – racconta il sopravvissuto ad Auschwitz Sami Modiano a Shalom. – Il 16 agosto 1944 la comunità di Rodi conobbe di fatto la sua fine: dopo quasi un mese di viaggio in condizioni terribili, in questo giorno, i circa 2mila ebrei di Rodi giunsero ad Auschwitz, furono selezionati e mandati alla cosiddetta ‘rampa della morte’. Era la fine di una storica comunità che per secoli aveva vissuto a Rodi in pace, producendo un grande patrimonio umano e culturale. Io sono uno dei pochi sopravvissuti di questa comunità e il mio pensiero va a queste vittime innocenti, tra cui vi è anche la mia famiglia”.
    A Rodi la comunità ebraica era fiorita dal XVI secolo. Aveva resistito all’occupazione italiana, sebbene dal 1938 anche gli ebrei dell’isola vengono spogliati dei loro diritti a causa delle leggi razziali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Rodi passa sotto il dominio nazista: è l’inizio della fine.
    Il 18 luglio 1944 vengono arrestati i capifamiglia della comunità; il giorno dopo viene chiesto ai familiari di preparare i bagagli con oggetti di prima necessità. All’alba del 23 luglio ha inizio il lungo viaggio verso Auschwitz, con alcuni barconi destinati al trasporto animale riempiti di uomini e donne ridotti in condizioni disumane. Dopo una sosta a Cos, l’arrivo al porto del Pireo. Il 3 agosto, ad Atene, il trasferimento su un treno dai vagoni piombati, in un ambiente altrettanto malsano e precario. L’arrivo ad Auschwitz, appunto, il 16 agosto 1944: una data indelebile nella mente dei pochi sopravvissuti, 31 uomini e 120 donne.
    Dopo la guerra hanno tutti conservato Rodi nel cuore, pur proseguendo nella maggior parte dei casi la propria vita in America, Australia, Italia, Israele o altri Paesi.
    Oggi resta solo una presenza ebraica a Rodi ridotta a poche decine di persone. La data del 16 agosto rimane quindi uno spartiacque significativo nella storia di questa comunità e di tutto l’ebraismo.

(Shalom, 17 agosto 2021)


Gaza - Israele allenta le restrizioni al confine

Israele ha allentato le restrizioni sulla Striscia di Gaza, inasprite durante il conflitto con Hamas e il successivo cessate il fuoco. 11 camion carichi di abbigliamento sono passati dal valico di Kelen Shalom, dopo 40 giorni di blocco. Le autorità dello Stato ebraico ha fatto sapere che da domenica verranno consentite esportazioni di prodotti agricoli da Gaza. Un impianto della Pepsi di Gaza City ha annunciato la chiusura della fabbrica e il licenziamento di 250 operai per il mancato arrivo del materiale necessario alla produzione.

(LaPresse, 16 agosto 2021)


Israele - Una casherut da riformare

Il ministro Kahana ha lanciato un progetto per rivoluzionare il sistema delle licenze casher d'Israele. Il Gran Rabbinato ha contestato il progetto di riforma Kahana.

Il sistema del rilascio delle certificazioni casher in Israele è stato a più riprese criticato e oggetto di proposte di riforma. Ad essere contestato è il monopolio che esercita in questo settore il Gran Rabbinato d'Israele, l'autorità nel paese per tutte le questioni legate alla Legge ebraica. Secondo i critici, il sistema attuale è troppo oneroso per le imprese che si occupano di ristorazione (dai ristoranti ai locali), non è trasparente, non tutela il consumatore e ha portato a diversi casi di illeciti. Per questo deve essere riformato. A provare a farlo ora, dopo i diversi tentativi naufragati, sarà il ministro per gli Affari religiosi Matan Kahana, che ha presentato di recente un piano per introdurre una parziale privatizzazione delle licenze casher. "Il sistema della casherut dello Stato di Israele ha bisogno di essere significativamente semplificato - ha dichiarato Kahane presentando il suo piano ai giornalisti - La rivoluzione che sto conducendo rafforzerà il Gran Rabbinato e creerà una concorrenza che migliorerà la casherut, così come abbasserà il prezzo delle certificazioni per le imprese". La riforma, spiegano i media israeliani, dovrebbe portare alla creazione di una serie di agenzie private di certificazione casher, che dovranno garantire gli standard religiosi stabiliti dal Gran Rabbinato. Solo in questo caso potranno rilasciare licenze che indicano che sono sotto la supervisione di quest'ultimo. Nella direzione delle agenzie dovrà poi esservi un rabbino che ha ottenuto il via libera dal Consiglio religioso locale della città di riferimento.
   Il piano proposto vedrebbe anche la creazione di un organo di supervisione generale del Gran Rabbinato per monitorare le agenzie private e assicurare che mantengano gli standard che hanno promesso di rispettare. Oltre a rivolgersi a queste agenzie, i ristoratori avranno un'altra soluzione a disposizione: potranno infatti ottenere la certificazione da tre rabbini autorizzati dal Gran rabbinato a trattare questioni di casherut, "L'attuale sistema di casherut è afflitto da problemi di qualità, standard disomogenei, condizioni di lavoro scadenti per i supervisori, supervisione problematica e livelli di competenza variabili" ha detto Kahana, proponendo la sua riforma a due percorsi come una soluzione per tutelare imprese, consumatori e il livello della casherut, che rimarrebbe comunque sotto la supervisione ultima del Gran Rabbinato. Quest'ultimo però non ha accolto con favore la proposta di Kahana. Anzi, ha rifiutato completamente la riforma, che, ha detto, comporterebbe "l'abolizione della casherut in Israele". Dal Gran Rabbinato, scrivono i media israeliani, hanno accusato il ministero degli Affari Religiosi di voler aprire un "bazar di organizzazioni motivate finanziariamente a dare certificazioni casher", come parte di una tendenza generale a "fare guerra ai servizi religiosi il cui obiettivo finale è l'abolizione dell'identità ebraica di Israele".
   Attualmente in Israele le certificazioni casher per le imprese sono assegnate in via esclusiva da organi locali del rabbinato statale (Consigli religiosi), emanazione del Gran Rabbinato. Questi organi nominano degli ispettori che controllano che chi richiede la licenza della casherut rispetti effettivamente tutte le regole prescritte dalla Legge ebraica. Si tratta di un sistema di controllo verticale, gestito in forma di monopolio. E questo costa al paese e al consumatore israeliano, secondo uno studio del ministero delle Finanze del 2015, 600milioni di shekel all'anno. Inoltre, ricorda l'Israel Democracy lnstitut, "ci sono stati una serie di rapporti critici nel corso degli anni che hanno scoperto che i supervisori casher (mashgichim) non fanno effettivamente visite in loco, nonostante siano pagati. Fanno altri lavori, a volte in conflitto di interesse, e sono pagati nonostante non seguano i protocolli del ministero dei Servizi Religiosi". L’ente denuncia inoltre il fatto che non ci siano standard unificati di casherut. "In ogni comunità, ci sono standard diversi, il che crea una realtà impossibile per le catene di ristoranti con un certo numero di filiali", che si trovano magari a Tel Aviv con la licenza e ad Eilat senza.
   La riforma vorrebbe mettere mano a tutto questo. E in molti sperano sia effettivamente così.

(Pagine Ebraiche, 16 agosto 2021)


L’Azerbaijan pronto ad acquistare quasi 600 milioni di dollari in armamenti da Israele

di Giacomo Cavanna

La progressiva degradazione delle relazioni tra Azerbaijan ed Armenia, sfociata poi in un vero e proprio conflitto, sta spingendo Baku ad acquistare sistemi d’arma in Israele per circa 585 milioni di dollari.
   Non si tratta certo di una novità dato che già durante il recente conflitto del Nagorno-Karabakh gli azeri hanno impiegato, anche con successo, armamenti israeliani tra cui le loitering munition Harop.
   Recentemente però le relazioni diplomatiche tra Baku e Tel Aviv si sono intensificate con l’apertura di una rappresentanza commerciale azera in Israele.
   Secondo quanto riportato dal giornale Israel HaYom, secondo per diffusione nel paese, velivoli da trasporto militari azeri avrebbero già iniziato ad atterrare in Israele per caricare sistemi d’arma.
   Il supporto israeliano in campo militare all’Azerbaijan comprende diversi campi tra cui: cooperazione nello sviluppo della tecnologia per satelliti da osservazione TecSAR e fornitura di droni Hermes 450, IAI Heron, IAI Searcher nonché la produzione su licenza di Orbiter e Aerostar.
   Altri importanti acquisti riguardano un numero non specificato di batterie missilistiche Iron Dome, sistemi SHORAD Rafael Spyders e missili Barak 8.

(Ares Osservatorio Difesa, 16 agosto 2021)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.