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Notizie 16-31 agosto 2022


Olimpiadi di Monaco 1972, troppi errori intorno alla strage

A 50 anni dal massacro di atleti israeliani da parte di un commando palestinese, i parenti reclamano ancora giustizia. E disertano la cerimonia.

di Yossi Melman

I tragici eventi che portarono all'uccisione di 11 atleti israeliani da parte dei terroristi dell'Olp alle Olimpiadi di Monaco, nel 1972, furono aggravati dalla burocrazia, dall'incompetenza e dal cinismo tedeschi. Cinquant'anni dopo, le famiglie sentono di dover affrontare la stessa rigidità e lo stesso approccio burocratico tedeschi.
  Alle 4:10 del 5 settembre 1972, mentre i Giochi Olimpici erano in pieno svolgimento, otto palestinesi fecero irruzione, con fucili d'assalto AK -47 Kalashnikov, bombe a mano ed esplosivi, nelle stanze della delegazione israeliana al villaggio olimpico in Konneley Strasse 5.
  Due membri della delegazione israeliana - l'allenatore di wrestling Moshe Weinberg e il sollevatore di pesi massimi Yosef Romano – reagirono e furono assassinati. Alcuni atleti riuscirono a fuggire, mentre nove furono presi in ostaggio.
  Dopo la sconfitta araba nella guerra del giugno 1967, il popolo palestinese, che aveva scatenato e perso anche la guerra del 1948, decise di non fare affidamento sugli eserciti arabi e di prendere in mano il proprio destino.
  Rappresentato dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), diede inizio a una guerriglia contro Israele, caratterizzata da attacchi terroristici.
  Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, l'Olp intraprese una serie di atti di pirateria aerea attaccando, bombardando e dirottando aerei della compagnia aerea israeliana El Al e navi passeggeri europee, portando così la sua lotta, fino ad allora limitata a Israele e ai Paesi vicini in Medio Oriente, in Europa.
  Per camuffare il suo coinvolgimento, Arafat creò un gruppo terroristico di facciata chiamato “Settembre Nero”.
  Nel giugno del 1972, Arafat, il suo vice Salah Khalaf (anche noto come Abu Iyad), responsabile delle operazioni, e Mahmoud Abbas (più noto con il titolo di Abu Mazen), responsabile finanziario, decisero e approvarono di mettere in atto un'operazione significativa, che avrebbe lasciato il segno sul palcoscenico mondiale.
  Ordinarono ai loro fidati luogotenenti Ali Hassan Salameh, Mohammad Daoud Oudeh ("Abu Daoud") e Atef Bseiso di eseguire la missione. “Mentre ero seduto in un caffè a Roma”, scrive Abu Daoud nella sua autobiografia, “lessi su un giornale delle prossime Olimpiadi di Monaco e la notizia mi diede l’idea di progettare un'operazione”. Quindi, inviò dei giovani combattenti dell'Olp ad addestrarsi in Libia.
  In seguito organizzò il trasferimento di denaro, l'acquisto di passaporti falsi e di biglietti aerei e marittimi per trasferire i terroristi e procurarsi le armi. Lo stesso Abu Daoud si recò a Monaco e lì stabilì il suo centro di comando in una stanza d'albergo, per assicurarsi che gli otto terroristi selezionati per la missione e tutta la logistica fossero a posto.
  “Volevamo che il mondo intero ascoltasse il nostro messaggio”, ha scritto. In effetti, il mondo rimase scioccato dai drammatici eventi che si susseguirono per 19 ore fino al tragico epilogo. Ventinove anni prima degli eventi dell'11 settembre 2001 negli Stati Uniti, il mondo assistette, per la prima volta, a un grande attacco terroristico in diretta televisiva.
  Per la Germania, i Giochi di Monaco erano un'ottima opportunità per correggere l'immagine dei Giochi Olimpici di Berlino del 1936, svoltisi all'ombra del regime nazista razzista e violento di Adolf Hitler. La Germania voleva anche mostrare al mondo che, ventisette anni dopo la fine della seconda guerra mondiale e l'Olocausto, il Paese era cambiato ed era pacifico e prospero.
  Per questo motivo, gli addetti alla vigilanza del villaggio olimpico erano cortesi e non portavano armi. I terroristi rimasero sorpresi nel rendersi conto di quanto fosse facile per loro varcare le porte del villaggio, con le armi nascoste nelle borse, mentre si fingevano atleti di ritorno da una notte di baldoria in città. Nessuna borsa fu perquisita, né venne posta alcuna domanda.
  I terroristi dell'Olp chiesero il rilascio di 234 loro compagni palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, oltre che di Andreas Baader e Ulrike Meinhof, fondatori della Rote Armee Fraktion, il terrore della Germania occidentale, dove erano a loro volta detenuti. I terroristi chiesero anche la disponibilità di un aereo per trasferirsi in un Paese arabo, ma il primo ministro israeliano Golda Meir non volle cedere alla richiesta dei terroristi solo per risolvere la crisi pacificamente sul suolo tedesco.
  Ehud Barak, l'ex primo ministro israeliano, comandava allora la Sayeret Matkal, la principale unità di commando d'élite di Israele. “Sulla base delle nostre precedenti operazioni conclusesi con successo nella lotta al terrorismo palestinese, proposi di guidare una squadra di 20-30 uomini con i quali volare a Monaco, ispezionare il luogo e organizzare una missione di salvataggio”, mi ha detto recentemente Barak in un'intervista per una miniserie che ho scritto con lo scrittore francese Marc Dugain e il regista francese Philippe Saada e che andrà in onda all'inizio del mese prossimo su canali televisivi israeliani e francesi.
  Il cancelliere tedesco Willy Brandt, però, rifiutò la proposta israeliana, sostenendo che era contraria alla Costituzione del suo Paese. Si decise, invece, che la crisi sarebbe stata gestita da Hans Genscher, ministro degli Interni, e Manfred Schreiber, comandante della polizia del governo regionale della Baviera. Ma non avevano la minima idea di come farlo. Non avevano capacità di negoziazione, non capivano il conflitto israelo-palestinese e le forze di polizia inviate sul posto erano inesperte, dilettanti e prive di esperienza nell’ambito delle misure antiterrorismo. Non avevano un vero piano; il loro equipaggiamento era inadeguato. I cecchini della polizia si rivelarono dei cacciatori di bosco e i loro fucili erano privi di visori notturni.
  Le autorità tedesche accettarono di trasportare i terroristi e gli ostaggi in elicottero dal villaggio alla vicina Furstenbrock, una base aerea della Nato, e da lì, con un volo Lufthansa, si sarebbero messi in salvo in uno Stato arabo. Il piano era una trappola escogitata dalle autorità tedesche.
  Capendo di essere stati ingannati, i terroristi lanciarono delle granate e aprirono il fuoco sugli elicotteri, uccidendo i nove ostaggi. Gli agenti di polizia reagirono troppo tardi e nello scontro a fuoco rimasero uccisi anche cinque terroristi e un agente tedesco. Tre terroristi furono catturati vivi.
  Brandt non aveva consentito al commando israeliano di gestire la crisi, ma permise a Zvi Zamir, capo del Mossad, l'agenzia israeliana di intelligence per le operazioni all’estero, e a Victor Cohen, un alto funzionario dello Shin Bet (l'agenzia di intelligence per gli affari interni) di essere presenti sulla scena. “Ripenso con orrore a come i tedeschi furono incapaci di salvare i nostri atleti”, raccontò Zamir in lacrime nel 2017 in un'intervista per “Inside the Mossad”, una serie di Netflix, da me creata. “Avevo perso ogni speranza”, aggiunse Zamir, “i tedeschi mi ignorarono completamente, non vollero nemmeno parlare con me”.
  La toccante testimonianza di Zamir portò i media israeliani e internazionali a creare un mito, che è rimasto impresso nella memoria ma non è basato sui fatti. La voce di Wikipedia descrive ancora come Golda ordinò a Zamir che il Mossad conducesse un'operazione denominata in codice “Ira di Dio” per uccidere qualsiasi palestinese coinvolto nell'attacco terroristico. “Non ricevetti alcun ordine da Golda”, mi disse Zamir già nel 2005 in un'intervista al quotidiano Haaretz. “Non c'era nessuna operazione chiamata Ira di Dio. Golda mi chiese solo di difendere gli israeliani e i nostri uffici all'estero e di non fare affidamento sulle forze di polizia europee”.
  Una commissione d'inchiesta israeliana guidata da Pinhas Kopel, un ex commissario di polizia, ha scoperto che anche l'intelligence israeliana fallì. Il Mossad ignorò le soffiate di agenti palestinesi che avvertivano che l'Olp aveva pianificato un grande attentato sulla “scena mondiale”, e lo Shin Bet non fornì guardie del corpo per proteggere gli atleti.
  “Dopo le Olimpiadi cambiammo tattica e passammo all'offensiva”, aggiunse Zamir, “dando la caccia alle cellule dell'Olp in Europa e in Medio Oriente, sapendo che se fossero state attaccate, avrebbero dovuto nascondersi e avrebbero avuto meno tempo per tramare nuovi atti terroristici. La campagna non aveva nulla a che fare con la vendetta, ma intendeva solo prevenire futuri attacchi terroristici".
  In realtà, nel ventennio successivo, fino al 1993, quando con gli Accordi di Oslo si firmò l’accordo di pace tra Israele e l’Olp, la guerra tra i due nemici si intensificò. Diversi palestinesi, come Salah Khalaf, Atef Bseiso e Ali Hassan Salameh, oltre a una dozzina di altri funzionari dell'Olp, furono assassinati da squadre di killer del Mossad a Beirut, Roma, Parigi, Atene e Nicosia. La maggior parte di loro non era coinvolta nel massacro di Monaco. Abu Daoud stesso sfuggì ad alcuni tentativi di eliminarlo e morì per cause naturali nel 2010.
  Per cinquant'anni, le famiglie degli undici atleti uccisi hanno chiesto che i governi tedeschi si assumessero la responsabilità della loro incompetenza e dei loro fallimenti. Hanno anche chiesto la pubblicazione dei documenti secretati e la descrizione dettagliata dell’accaduto per una piena trasparenza, nonché pubbliche scuse e un adeguato risarcimento, ma tutte le richieste di queste famiglie sono state respinte e accolte con indifferenza.
  Solo negli ultimi mesi, dopo nuove forti pressioni delle famiglie e dei media tedeschi e israeliani, l'atteggiamento tedesco è cambiato. Il governo tedesco di Olaf Schultz è ora pronto ad ammettere le proprie responsabilità, accetta di aprire i propri archivi davanti a una commissione congiunta di storici tedeschi e israeliani e annuncia che risarcirà le famiglie.
  Tuttavia, sembra che il governo di Berlino sia disposto a farlo solo perché intende trasformare il 50° anniversario del massacro in un esercizio di pubbliche relazioni. Sono già stati invitati mille ospiti, guidati dal presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier.
  Le famiglie, da parte loro, hanno dichiarato che boicotteranno la “festa” prevista per il 5 settembre presso il monumento eretto agli atleti israeliani nel Villaggio Olimpico di Monaco. “Dopo cinquant'anni di bugie, insabbiamenti, sofferenze e umiliazioni da parte della Germania, ne abbiamo abbastanza”, mi ha detto Ankie Spitzer, la vedova del maestro di scherma Andre Spitzer, una delle vittime. Secondo lei, i 5,5 milioni di euro offerti ora alle 11 famiglie (per un totale di 75 parenti) “sono peggio di uno scherzo. È un insulto”. Anche vent'anni fa le famiglie ricevettero dal governo tedesco 2 milioni di dollari come gesto eccezionale, senza alcuna ammissione di responsabilità.
  Le famiglie, sostenute dal Comitato olimpico israeliano, dicono di chiedere un “giusto risarcimento” secondo i precedenti legali internazionali. Ricordano che la Libia di Muammar Gheddafi pagò nel 2004 10 milioni di dollari a ogni famiglia delle 270 vittime del terrorismo fatte esplodere in volo dai suoi agenti su un aereo Pan-Am nel 1988.
  “Ci rendiamo conto che dopo tutti questi anni la rigida burocrazia tedesca sta ancora facendo con noi un gioco cinico come ha fatto negli ultimi cinquant'anni”, conclude Ankie Spitzer. “So che la gente ci accusa, dice che il nostro è un ricatto e che siamo avidi, ma questa è la nostra ultima possibilità di ottenere giustizia e di essere risarciti. Per questo abbiamo deciso di boicottare la cerimonia. Se il presidente tedesco Steinmeier vi prenderà parte, come mi ha detto, anche se noi famiglie non vi parteciperemo, sarà un teatro dell'assurdo”.

(la Repubblica, 31 agosto 2022)

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Nucleare Iran: possibile intesa in quattro fasi, ma Israele chiede più garanzie

di Paolo Castellano

Il processo per il raggiungimento di un accordo internazionale sul nucleare iraniano sembra aver preso forma nonostante le perplessità dell’attuale governo israeliano. Il 30 agosto, il quotidiano israeliano Haaretz ha riportato i dettagli della proposta – ancora in bozza – sul tavolo dell’Unione europea. Lo riporta Ansa.
  Questo accordo prevede quattro fasi che si verificheranno in un arco di tempo di 165 giorni. Prima di firmare l’accordo che rilancerà l’intesa, si dovrà fare un patto con l’Iran per il rilascio di alcuni prigionieri. A quel punto verranno sbloccati i fondi per Teheran che saranno depositati in varie banche internazionali. Per di più, ci saranno alcuni allentamenti delle sanzioni.
  La fase finale incomincerà quando il Congresso USA approverà questa intesa. Passati all’incirca due mesi, l’accordo potrà avere piena attuazione con una dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Iran nella quale gli americani si impegneranno al ritiro di ulteriori sanzioni.
  Questo procedimento non convince lo Stato di Israele perché Gerusalemme vorrebbe condizioni più vincolanti nei confronti di Teheran. Inoltre, il primo ministro Yair Lapid ha chiesto apertamente agli Stati Uniti di considerare anche l’opzione militare per persuadere il governo iraniano a siglare una migliore intesa.

(Bet Magazine Mosaico, 31 agosto 2022)

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Ecco chi ha veramente ucciso i civili palestinesi a Gaza

Un video e un comunicato diffusi dall’IDF smascherano i veri responsabili della maggior parte delle vittime civili rimaste uccise durante l’operazione Breaking Dawn.

di Elisha Ben Kimon

L’IDF ha pubblicato martedì i nomi dei civili palestinesi che hanno contribuito a facilitare gli attacchi terroristici con razzi dalla Striscia di Gaza verso Israele durante l’ultimo round di violenza nell’enclave palestinese all’inizio del mese.
  Secondo l’Unità portavoce dell’IDF, almeno due di questi razzi, lanciati da proprietà private di civili che hanno collaborato con il gruppo terroristico della Jihad islamica, sono caduti all’interno di Gaza.
  Uno dei missili della Jihad islamica è caduto nella città di Jabaliya alle 9:03 del 7 agosto, uccidendo due civili. Il luogo da cui è stato lanciato il missile è di proprietà della municipalità di Gaza City, guidata dal dottor Yahya al-Sarraj.
  «Sarraj ha scelto di occuparsi dell’organizzazione terroristica Jihad islamica più che dei residenti della città che dirige, e ha abusato dello spazio pubblico che appartiene ai residenti della città per favorire il terrore. In questo modo ha danneggiato direttamente i suoi cittadini», ha dichiarato l’unità portavoce dell’IDF.
  Un altro razzo caduto nella Striscia di Gaza è stato sparato da una proprietà di Bakr Hamadan Imran Shamalh, il cui fratello è un addestratore della forza navale della Jihad islamica.
  «Ha facilitato il lancio di un razzo dalla sua proprietà, che ha poi colpito un edificio civile a Gaza City ed è stato trasmesso in diretta sul canale [libanese] Al Mayadeen alle 15:13», ha dichiarato l’esercito.
  «La famiglia di Hamadan Imran Shamalh ha partecipato attivamente alle attività terroristiche permettendo il lancio di razzi da aree di loro proprietà, causando danni ai civili di Gaza. I gruppi terroristici di Gaza abusano cinicamente dei suoi civili e lanciano razzi dalle aree urbane, e questa ne è un’altra prova» ha detto ancora l’esercito israeliano.
  Secondo i dati dell’IDF, oltre 200 dei 1.100 missili lanciati dalla Jihad islamica durante le 55 ore del conflitto sono caduti all’interno di Gaza, quasi uno ogni cinque.
  Alcuni razzi sono caduti in aree popolate, uccidendo almeno 14 civili, tra cui bambini, e ferendone più di 100.
  L’IDF sostiene che la maggior parte delle vittime civili palestinesi durante l’Operazione Breaking Dawn sono state causate dai razzi lanciati da Gaza. Ufficiali militari che hanno familiarità con i dettagli attribuiscono questa statistica alle inferiori capacità di produzione di razzi della Jihad islamica rispetto ad Hamas, che è rimasto rimasti fuori da questa ultima campagna.
  «Una parte dei razzi della Jihad islamica sono semplicemente cartelli stradali abbattuti dai suoi agenti, imbottiti di esplosivi improvvisati e trasformati in razzi di fortuna, spesso basati su video tutorial su YouTube», hanno dichiarato i funzionari.
  «Così come noi miglioriamo da un round all’altro, lo fa anche il nemico e non possiamo sottovalutarlo, ma in questo caso i razzi sono facili da costruire, senza standard, spesso realizzati in modo amatoriale e pericoloso».
  I filmati di Gaza dei lanci che sono circolati di recente, alcuni ripresi da civili, mostrano razzi che deviano dalla loro traiettoria e si schiantano al suolo poco dopo.
  A Gaza non ci sono sirene di raid aerei per avvisare i civili dei razzi in arrivo.
  Le fazioni terroristiche di Gaza, a differenza dell’IDF, non utilizzano quello che Israele definisce “roof knocking”, ovvero la pratica di lanciare ordigni non esplosivi o a basso potenziale sui tetti delle case civili prese di mira, come preavviso di imminenti bombardamenti per dare agli abitanti il tempo di fuggire.
  Inoltre, la maggior parte dei razzi viene immagazzinata e lanciata dal cuore di aree densamente popolate, il che spesso danneggia i civili vicini.

(Ynet, 30 agosto 2022 - trad. Rights Reporter)

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Libano: due ministri del partito del presidente Aoun lanciano pietre verso Israele

Durante una visita nel villaggio di Houla, nel sud del Libano, i ministri dell’Energia e degli Affari sociali, Walid Fayad ed Hector Hajjar, entrambi esponenti del partito cristiano maronita Corrente patriottica libera del presidente Michel Aoun, hanno lanciato pietre verso Israele, distante soltanto due chilometri dalla linea di confine. Le immagini hanno fatto il giro della rete e gli utenti hanno ironizzato. Un utente ha scritto su Twitter: “Se questo ministro fornisse l’elettricità, non sarebbe più dannoso per Israele?”. Il dicastero di Fayad, infatti, si occupa anche del settore dell’elettricità, di cui il Paese è carente e la popolazione può contare su poche ore di corrente al giorno. La delegazione che ha visitato ieri, 30 agosto, prima Houla e poi Adaisseh, era composta anche dai ministri del Turismo, Walid Nassar, del Lavoro, Moustapha Bayram, dell’Industria, Georges Bouchikian, delle Telecomunicazioni, Johnny Corm, della Cultura, Mohammad Mortada, e dell’Ambiente, Nasser Yassin.
  L’episodio è avvenuto mentre il mediatore statunitense, Amos Hochstein, incaricato di trovare un accordo tra Libano e Israele per definire i confini marittimi, dovrebbe ritornare nella regione per definire i dettagli. Il fatto è stato commentato anche dal portavoce per i media in arabo delle Forze di difesa israeliane (Idf), Avichai Adraee, che su Twitter ha scritto: “Questa scena merita soltanto di ricordare il proverbio arabo nella sua versione libanese: ‘Chi ha una casa di vetro non dovrebbe gettare le pietre agli altri’”. Il Libano è tecnicamente ancora in stato di guerra con Israele e si verificano regolarmente numerosi incidenti, tensioni e violazioni degli spazi aerei.

(Nova News, 31 agosto 2022)

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Giappone e Israele rafforzano i legami

di Michelle Zarfati

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I Ministri della Difesa del Giappone e Israele si sono incontrati e hanno condiviso martedì le preoccupazioni circa le crescenti tensioni globali dall'Asia al Medio Oriente, firmando un accordo per intensificare la cooperazione nel settore dell'equipaggiamento e della tecnologia militare. L’incontro si è svolto in occasione del 70° anniversario dei loro legami diplomatici.
  Il ministro della Difesa giapponese Yasukazu Hamada ha detto di accogliere con favore legami militari più forti con Israele per poter raggiungere una visione "libera e aperta indo-pacifica" sostenuta dal Giappone e dagli Stati Uniti per contrastare la crescente assertività della Cina nella regione.
  Hamada ha sottolineato che la pace e la stabilità in Medio Oriente aiuterebbero anche la pace e la prosperità del Giappone. Entrambe le regioni hanno corsie chiave per il trasporto marittimo. Il ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato, nel corso dì una conferenza stampa congiunta dopo l'incontro con Hamada, che il rafforzamento della cooperazione in materia di difesa "eleverà i 70 anni di eccellenti legami tra i nostri paesi a livello strategico". La cooperazione dei due paesi, in aree più ampie, dalla tecnologia di difesa alla condivisione delle informazioni e alle attività militari-militari "rafforzerà la capacità di difesa di ciascun paese così come il nostro contributo congiunto alla pace e alla stabilità nelle nostre regioni e in tutto il mondo", ha aggiunto.
  Il Giappone, che deve affrontare sfide alla sicurezza da parte della Cina, della Corea del Nord e dall'invasione russa dell'Ucraina, ha ampliato inoltre la sua cooperazione militare, assieme al suo tradizionale alleato, gli Stati Uniti, e ad altre nazioni amiche nella regione Asia-Pacifico e in Europa. Il ministro giapponese ha tuttavia manifestato la sua preoccupazione per le energiche azioni militari di Pechino nel Mar Cinese Orientale e Meridionale e per le crescenti tensioni intorno a Taiwan, un'isola autogovernata che la Cina rivendica come territorio proprio.

(Shalom, 31 agosto 2022)

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I prezzi delle case di Tel Aviv sono del 60% superiori

I prezzi delle case e gli affitti degli uffici si stanno spingendo reciprocamente verso l’alto a Tel Aviv. Cosa può spezzare la catena?

Nel 2017, il prezzo di un appartamento di quattro stanze a Tel Aviv era superiore del 40% rispetto al prezzo di un appartamento simile nel vicino Ramat Gan. All’inizio del 2020, il rapporto era più o meno lo stesso. Oggi il divario è superiore al 60%. Dallo scoppio della pandemia di Covid19, Tel Aviv, che era costantemente più costosa delle città circostanti, si è completamente distaccata. Il divario è diventato così ampio che gli immobiliaristi trovano difficile trovare una spiegazione razionale.
  Dai controlli effettuati emerge che nel triennio fino alla pandemia di Covid19 il rapporto tra i prezzi delle case a Tel Aviv e quelli delle città limitrofe era abbastanza stabile, e che il divario si è allargato dopo lo scoppio della pandemia, contestualmente si è verificato un fenomeno analogo negli affitti degli uffici. L’inflazione e la situazione economica globale raffredderanno il mercato di Tel Aviv? Questo è almeno uno scenario.
  I dati del Central Bureau of Statistics mostrano che tra il secondo trimestre del 2020 e il primo trimestre del 2022, il prezzo medio di un quadrilocale a Tel Aviv è aumentato del 43% a 4,7 milioni di NIS. Nello stesso periodo, in cinque città intorno a Tel Aviv, l’aumento dei prezzi è stato del 15-32%. Qualcuno che oggi compra un appartamento di quattro stanze a Tel Aviv è disposto a pagare a volte 2 milioni di NIS in più rispetto alle città vicine che sono state esaminate. Solo due anni fa, la differenza era fino a 1,6 milioni di NIS, il che è sostanziale, ma lontano da quello che abbiamo visto da quando il Covid-19 è entrato a far parte delle nostre vite.

• Gli affitti restano indietro
  Mentre il divario tra i prezzi delle case a Tel Aviv e nei suoi vicini si è ampliato, il divario degli affitti è rimasto abbastanza stabile. Secondo il Central Bureau of Statistics, l’affitto mensile medio di un appartamento di quattro stanze a Tel Aviv è di 7.368 NIS. Ciò si confronta con NIS 5.725 a Ramat Gan, NIS 4.730 a Rishon Lezion, NIS 4.404 a Petah Tikva, NIS 4.803 a Holon e NIS 4.597 a Bat Yam. Vale a dire, gli affitti a Tel Aviv sono circa il 30% più alti rispetto a Ramat Gan e quasi il 70% in più rispetto a Petah Tikva.
  L’alto tasso di aumento dei prezzi di acquisto rispetto all’aumento degli affitti ha portato negli ultimi anni a un calo sostanziale dei rendimenti locativi per gli investitori. Prima della pandemia di Covid19, un investitore poteva ottenere un rendimento annuo del 2,5% su un appartamento a Tel Aviv. Quest’anno, il rendimento medio è inferiore al 2%, un minimo di 30 anni.
  “Questo dimostra che c’è un elemento di bolla nei prezzi degli appartamenti a Tel Aviv”, afferma il dottor Yair Duchin, che dirige il programma MBA di finanziamento immobiliare presso la Hebrew University of Jerusalem Business School. “Gli affitti riflettono il valore dei servizi abitativi che si ricevono, e tale rapporto è rimasto più o meno lo stesso, perché non c’è stato alcun cambiamento sostanziale in questo mercato. I prezzi degli appartamenti, invece, sono determinati, tra l’altro , tendenze e aspettative del mercato”.
  Per quanto riguarda gli inquilini, Duchin afferma: “Il marchio di Tel Aviv è tale che le persone sono disposte a pagare, e ci sono inquilini che fanno il calcolo e concludono che i costi per trasferirsi in appartamenti altrove sono tali che per loro è meglio assorbire l’aumento degli affitti”.

• “Gli affittuari sono irrazionali”
  Il Prof. Danny Czamanski della Facoltà di Economia e Economia aziendale del Ruppin Academic Center, afferma: “Questo è un comportamento irrazionale da parte dei giovani, che non sono preparati a vivere ad Hadera o Netanya; vogliono Tel Aviv. Pensano che c’è qualche vantaggio nel vivere a Tel Aviv, e generalmente non c’è. Di conseguenza, gli investitori sono disposti a pagare di più per gli appartamenti a Tel Aviv e anche le aziende in cerca di lavoratori nell’high tech vengono a Tel Aviv e creano una situazione che non ha eguali in nessuna parte del mondo, di prezzi degli uffici in costante aumento e tassi di occupazione vicini al 100%. In altre parti del mondo, quando i prezzi aumentano, i giovani vanno da qualche altra parte”.

• Boom degli uffici
  Tutto questo è strettamente connesso al mercato degli uffici di Tel Aviv. Anch’esso ha aperto un ampio divario rispetto ai vicini. Un sondaggio della società internazionale di gestione della proprietà CBRE rileva che gli affitti di uffici a Tel Aviv hanno raggiunto i 130 NIS per metro quadrato a giugno, rispetto a 90 NIS a Ramat Gan, 89 NIS a Herzliya, 55 NIS a Petah Tikva e 50 NIS a Holon.
  Il boom simultaneo in entrambi i mercati non è casuale. “Tel Aviv è diventata la roccaforte e il centro degli uffici nazionali. Negli ultimi anni, la domanda è stata principalmente lungo l’autostrada Ayalon, lungo Yigal Alon Street e le strade laterali (Ha’arba’a, Kaplan, Hahashmona’im), fino a come il sito di Hassan Arafa (tra Hamasger Street, Yitzhak Sadeh Street e Begin Road, AM)”, afferma Itai Shafran, vicepresidente dello sviluppo aziendale di Geocartography. Anche questo non è casuale. Quest’area si raccorda con quello che viene chiamato “lo spazio dello scooter”, l’area raggiungibile con lo scooter elettrico dal neighborhoods nel nord e nel centro di Tel Aviv, ed è questo che determina l’aumento dei prezzi in città.
  Shafran aggiunge che l’area beneficia anche dell’accessibilità del miglior trasporto pubblico in Israele, con due stazioni ferroviarie e autobus di tutte le compagnie di autobus, e la linea rossa del sistema di metropolitana leggera di Tel Aviv che la attraverserà in futuro. “Aggiungi a ciò l’offerta di intrattenimento e ristorazione, e quella che in realtà è la prima e la migliore area ad uso misto in Israele, la striscia del quartiere degli affari nord che va dallo svincolo di Azrieli alle Torri di Haze’irim”. È proprio questo il punto di raccordo tra il mercato residenziale e quello degli uffici. “Le aziende hanno capito che lo spazio per gli scooter è il posto giusto dove stare”, afferma Shafran.
  In altre parole, Tel Aviv fa pagare a tutti molto di più per case e uffici di quanto non farebbero per le alternative. “Chi non può affittare 2.000-4.000 metri quadrati andrà fino a Ramat Gan e Givatayim, ma non oltre. Perché? La paura che i dipendenti non vengano, che non possano portarli in treno e poi un 6 -7 minuti di scooter”, dice Shafran. “Questo non dovrebbe accadere”, dice Czamanski. “Mi aspetterei che anche se la decisione su dove vivere non è sempre razionale, quando si tratta di aziende e uffici, dovrebbe essere razionale. La mia spiegazione è che si tratta di immagine. Vogliono essere a Tel Aviv e che i giovani verranno a lavorare per loro perché sono a Tel Aviv. È un fallimento del mercato. Se non fosse per quello, tutto si riequilibrerebbe e non vedremmo questi divari crescenti senza una spiegazione logica”.

• E cosa succederà dopo?
  La situazione attuale può persistere? Shafran crede che la metropolitana leggera cambierà le regole del gioco. “Se un lavoratore può viaggiare in dieci minuti dalla stazione di Midtown a Tel Aviv alla stazione che sarà a sud delle torri nel quartiere degli affari di Bnei Brak, allora in teoria sarà possibile attirare le aziende a stabilirsi lì”, afferma Shafran, anche se fa notare che la stazione sarà a una certa distanza dalle torri, il che sarà uno svantaggio per gli scooteristi”. Se questo scenario si verifica e più aziende alla fine vengono persuase a trasferirsi nei distretti degli affari intorno a Tel Aviv, sfruttando la linea rossa della metropolitana leggera, il divario tra gli affitti degli uffici dovrebbe ridursi e forse i giovani lavoratori della tecnologia si convinceranno che Tel Aviv non è l'unico posto dove vivere. Czamanski, come detto, non è certo che sia solo un problema di trasporto.
  Duchin, da parte sua, la vede non come una questione di scooter o non scooter, ma di economia statunitense. “L’industria tecnologica israeliana ha attinto qui una grande quantità di capitale dal mercato azionario statunitense, ed è ciò che ha reso possibile tutto ciò che abbiamo visto qui negli ultimi anni. Ora stiamo assistendo all’impennata dell’inflazione e al calo del mercato azionario , e se la Federal Reserve continua a comportarsi in modo duro negli Stati Uniti, e anche qui gli aumenti dei tassi di interesse continueranno, ciò influenzerà le aziende e i lavoratori della tecnologia e, di conseguenza, anche i prezzi degli immobili a Tel Aviv ne risentiranno”.

(Israele360, 30 agosto 2022)

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Scoperti corpi umani in un pozzo medievale; erano ebrei ashkenaziti perseguitati nel 12° secolo

Gli esperti credono che il gruppo possa essere caduto vittima della violenza antisemita nel 12 ° secolo.

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I resti di 17 corpi umani trovati sul fondo di un pozzo medievale a Norwich sono stati identificati come appartenenti a un gruppo di ebrei ashkenaziti che potrebbero essere stati vittime di violenza antisemita durante il 12 ° secolo. Per mettere insieme le vite passate degli individui, i ricercatori hanno scavato nel DNA di sei scheletri utilizzando una nuova tecnologia che decodifica milioni di frammenti di DNA contemporaneamente. I resti scheletrici, che comprendono sei adulti e 11 bambini, sono stati portati alla luce dai lavoratori edili nel 2004. Tra questi, quattro erano strettamente imparentati, tra cui tre sorelle: una bambina dai 5 ai 10 anni, una dai 10 ai 15 anni e un giovane adulto. L’analisi del DNA ha anche scoperto i tratti fisici di un bambino da 0 a 3 anni per includere occhi azzurri e capelli rossi, quest’ultima una caratteristica associata agli stereotipi storici degli ebrei europei. 
  Si pensa che il gruppo fosse originario di Rouen in Normandia e parlasse francese. Sono stati trovati portatori di alcune malattie genetiche, per le quali le moderne popolazioni ebraiche ashkenazite sono a più alto rischio. Le malattie genetiche che sono particolarmente comuni in alcune popolazioni possono insorgere durante eventi di collo di bottiglia, hanno detto i ricercatori, dove una rapida riduzione della popolazione può portare a grandi salti nel numero di persone portatrici di mutazioni genetiche altrimenti rare. Utilizzando simulazioni al computer, il team ha dimostrato che il numero di tali mutazioni di malattie nei resti era simile a quello che si aspetterebbero se le malattie fossero comuni allora come lo sono ora negli ebrei ashkenaziti. I risultati indicano un evento di collo di bottiglia che ha modellato la moderna popolazione ebraica ashkenazita prima del 12 ° secolo – prima delle credenze precedenti, che datavano l’evento da 500 a 700 anni fa. A differenza di altri siti di sepoltura di massa, dove i corpi venivano deposti in modo organizzato, gli scheletri di questo pozzo erano stranamente posizionati e mescolati, molto probabilmente perché sono stati depositati per la testa poco dopo la morte. Insieme, questi risultati suggeriscono morti di massa come carestia, malattie o omicidi. La datazione al radiocarbonio dei resti ha posto la loro morte tra la fine del 12 ° e l’inizio del 13 ° secolo – un periodo con focolai ben documentati di violenza antisemita in Inghilterra – portando i ricercatori a considerare il gioco sporco. Tuttavia, non sanno ancora cosa abbia causato direttamente la morte dei 17 individui, ed è un puzzle che il DNA antico non può risolvere. 
  “Sono passati più di 12 anni da quando abbiamo iniziato a indagare su chi sono queste persone, e la tecnologia ha finalmente raggiunto la nostra ambizione”, ha detto il genetista evoluzionista e autore dello studio Ian Barnes del Museo di Storia Naturale di Londra. “Il nostro compito principale era quello di stabilire l’identità di quegli individui a livello etnico”. I risultati si basano su documenti archeologici, documenti storici, analisi del DNA e delle ossa e simulazioni al computer. “È stato abbastanza sorprendente che i resti inizialmente non identificati abbiano colmato il vuoto storico su quando alcune comunità ebraiche si sono formate per la prima volta e le origini di alcune malattie genetiche”, ha detto il genetista evoluzionista e co-autore Mark Thomas, dell’University College di Londra. “Nessuno aveva mai analizzato il DNA antico ebraico prima a causa dei divieti sul disturbo delle tombe ebraiche.”Tuttavia, non lo sapevamo fino a dopo aver fatto le analisi genetiche.” 
  Lo studio è stato condotto dall’antropologa forense professor Sue Black, ex dell’Università di Dundee. Andò nei Balcani dopo la guerra del Kosovo dove il suo compito era quello di ricostruire i corpi degli albanesi del Kosovo massacrati. Parlando delle ossa del pozzo di Norwich, ha detto: “Forse stiamo parlando di persecuzione. “Forse stiamo parlando di pulizia etnica e tutto questo riporta alla mente lo scenario che abbiamo affrontato durante i crimini di guerra dei Balcani”. Le foto scattate al momento dello scavo suggerivano che i corpi fossero gettati giù per il pozzo insieme, a testa in giù. Un attento esame delle ossa adulte ha mostrato fratture causate dall’impatto di colpire il fondo del pozzo. Ma lo stesso danno non è stato visto sulle ossa dei bambini, suggerendo che sono stati gettati dopo gli adulti che hanno ammortizzato la caduta dei loro corpi. Il team aveva precedentemente considerato la possibilità di morte per malattia. Ma l’esame osseo non ha mostrato prove di lebbra o tubercolosi. Norwich era stata sede di una fiorente comunità ebraica dal 1135 e molti vivevano vicino al sito del pozzo. Ma ci sono registrazioni di persecuzioni di ebrei nell’Inghilterra medievale, compresa Norwich. Sophie Cabot, archeologa ed esperta della storia ebraica di Norwich, ha detto che il popolo ebraico era stato invitato in Inghilterra dal re per prestare denaro. A quel tempo, l’interpretazione cristiana della Bibbia non permetteva ai cristiani di prestare denaro e addebitare interessi. Era considerato un peccato. Quindi i finanziamenti in contanti per grandi progetti provenivano dalla comunità ebraica e alcuni divennero molto ricchi – il che a sua volta causò attriti.

(Scienze Notizie, 31 agosto 2022)

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L'Iran arricchisce l'uranio al 5%

La comunicazione alle Nazioni Unite; timori di Israele sull'arma atomica.

L'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) afferma in un rapporto che Iran ha iniziato l'arricchimento dell'uranio al 5% in centrifughe IR-6, recentemente installate presso un impianto specializzato a Natanz. Si tratta di tecnologie più avanzate e molto più efficienti rispetto ad altre precedentemente in uso (IR-1), e sono adesso le uniche autorizzate dall'accordo sul nucleare.
  "Il 28 agosto 2022 l'agenzia ha verificato al Fep (Fuel Enrichment Plant, Impianto di arricchimento di combustibili, NdR) che l'Iran stava alimentando UF6 (Esafluoruro di uranio, NdR) arricchito fino al 2% di U-235 (Uranio) nella cascata IR-6, per la produzione di UF6 arricchito fino al 5% di U-235", scrive Aiea in un rapporto riservato agli Stati membri delle Nazioni Unite. 
  Sull'intesa fra Teheran ed il gruppo dei 5+1 (Usa, Francia, Cina, Russia e Germania) Israele resta molto critico. Il primo ministro israeliano Yair Lapid lo ha definito un "pessimo accordo", che non sarà capace di impedire all’Iran di raggiungere l’arma nucleare, alimentando il "regime di terrore" ed alterando gli equilibri in Medio Oriente. 

(Mobilità, 30 agosto 2022)

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Israele frena, no all’accordo con l’Iran: “Non blocca il nucleare e arma Teheran”

Due i punti critici secondo il governo israeliano: la fine delle sanzioni e la scadenza del 2031, dopo la quale il regime potrà tornare ad arricchire uranio

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME - Un "pessimo accordo", che non rispetta ciò che avevano promesso gli Stati Uniti e non sarà capace di impedire all'Iran di raggiungere l'arma nucleare, oltre a riempire i forzieri di un regime di terrore, in patria, in Medio Oriente e oltre. Il nuovo accordo fra Teheran e il gruppo dei 5+1 (Usa, Francia, Cina, Russia e Germania) pare sul punto di essere firmato e il governo israeliano è partito all'attacco di ciò che prevede la nuova versione del trattato originariamente firmato nel 2015 e abbandonato da Donald Trump nel 2018.
  "Lo abbiamo detto agli americani, non è questo ciò che voleva il presidente Biden. Non è di questo che ha parlato durante la sua visita in Israele", le parole del primo ministro israeliano Yair Lapid.
  Due i punti particolarmente critici per Israele, la fine delle sanzioni, che garantirà miliardi di dollari ai forzieri del regime degli ayatollah e le cosiddette clausole "sunset," secondo cui, con la progressiva scadenza dell'accordo l'Iran potrà ricominciare ad operare centrifughe avanzate nel 2026 e ad arricchire l'uranio ad alti livelli a partire dal 2031.
  "I soldi non verranno usati per costruire scuole o ospedali. Si tratta di cento miliardi di dollari all'anno che verranno impiegati per minare la stabilità in Medio Oriente e diffondere il terrore in tutto il mondo", ammonisce Lapid. "Questo denaro finanzierà le Guardie Rivoluzionarie. Finanzierà i Basij che opprimono il popolo iraniano. Finanzierà più attacchi alle basi americane in Medio Oriente. Sarà utilizzato per rafforzare Hezbollah, Hamas e la Jihad islamica. Questo denaro andrà alle persone che stanno cercando di uccidere autori e pensatori a New York. E, naturalmente, sarà utilizzato per rafforzare il programma nucleare iraniano".

• Il nodo dell'inchiesta Aiea
  Gerusalemme ha anche ricordato come per stessa ammissione dell'Agenzia atomica internazionale, Teheran non abbia fornito spiegazioni adeguate alla presenza di residui di uranio arricchito trovati in siti che avrebbero dovuto essere dismessi da tempo.
  Così lo Stato ebraico ha lanciato la sua controffensiva diplomatica, tenendo però a sottolineare la sua fiducia in Biden e nella sua amministrazione, marcando la differenza con lo stile dell'ex premier Benjamin Netanyahu che nel 2015 aveva sfidato l'allora presidente Barack Obama a viso aperto.
  Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, Lapid sta premendo per un incontro con il presidente Usa in occasione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite a fine settembre. Nel frattempo si è già recato a Washington il ministro della Difesa Benny Gantz, mentre nei prossimi giorni dovrebbe essere la volta del capo del Mossad David Barnea.
  Incontrando il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, Gantz ha espresso le preoccupazioni di Gerusalemme, auspicando miglioramenti all'attuale bozza.
  Lo Stato ebraico allo stesso tempo continua a lavorare su un piano per un'eventuale azione militare, rivendicando il diritto di proteggere i propri cittadini.
  "Lo abbiamo chiarito a tutti: se l'accordo verrà firmato, non vincolerà Israele. Agiremo per impedire che l'Iran diventi uno stato nucleare", dice Lapid.

(la Repubblica, 30 agosto 2022)

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Theodor Herzl e il Congresso di Basilea. Riportare gli ebrei fra le nazioni

di Ugo Volli

• Una conferenza sul futuro
  Si è appena conclusa a Basilea la celebrazione dell’anniversario del primo congresso sionista, tenuto nella città svizzera 125 anni fa, per iniziativa di Theodor Herzl. Vi hanno partecipato molti dei più importanti dirigenti ebrei di tutto il mondo, a partire dal presidente israeliano Yitzhak Herzog, ricordando le realizzazioni di questo periodo e cercando una riflessione comune sul futuro del popolo ebraico, in particolare sui rapporti fra ebraismo della Diaspora e Israele, che ormai è largamente predominante sul piano culturale, politico e spirituale, ma che certo non rappresenta ancora la totalità degli ebrei. Riuscire a far crescere la collaborazione fra Israele e l’ebraismo del resto del mondo, in particolare degli Usa, è forse la sfida più importante per l’ebraismo, a parte le urgenze politico-militari, come il pericolo imminente che viene oggi dall’Iran.  

• Che cosa non si festeggia
  È naturalmente giusto festeggiare il congresso di Basilea e Theodor Herzl, che sono all’origine di Israele e delle realizzazioni contemporanee del popolo ebraico. Vale la pena però di capire esattamente che cosa si deve celebrare. Herzl non ha certo inventato il sionismo, se con questo si intende la spinta del popolo ebraico al ritorno alla propria terra ancestrale e alla realizzazione dell’indipendenza statale. Tutta la liturgia ebraica è da sempre costellata di invocazioni alla restaurazione di Gerusalemme e del regno di David; le guide spirituali del popolo ebraico, dai profeti ai maestri della Mishnà ai grandi autori come Maimonide o Yehuda Halevi, hanno sempre considerato un dovere il ritorno dalla Diaspora; prima di Basilea c’era già un movimento consistente di immigrazione in Israele, che fosse quella religiosa del movimento Hovevei Zion o quella laica di persone come Ben Yehud, il restauratore della moderna lingua ebraica. Herzl non ha neanche inventato la parola “sionismo”, che era stata coniata qualche anno prima dall’austriaco Nathan Birnbaum, che usò il termine nel 1890 nella sua rivista  Selbst Emanzipation! (Auto-emancipazione).  

• E che cosa si festeggia invece
  Quel che Herzl fece invece e che trionfò a Basilea fu il trasferimento (o meglio la restituzione) della questione della Terra di Israele dall’ideale religioso, dal rimpianto sentimentale, dal desiderio personale, alla dimensione politica - il che significa portarlo sul piano della conquista del consenso interno al popolo ebraico, dell’organizzazione pratica, e poi del tentativo di trovare comprensione e alleanze nella politica internazionale. Se è vero (forse solo in parte vero), come ha sostenuto Hannah Arendt, che nei lunghi secoli della diaspora il popolo ebraico era rimasto esterno alle dinamiche politiche, tanto da accettare in cambio dell’emancipazione una riduzione della sua identità a sola religione, rinunciando esplicitamente in certi casi (per esempio negli ambienti riformati tedeschi e americani) alla dimensione di popolo, Herzl fu capace di invertire questa tendenza, di riportare il popolo ebraico nel suo complesso a comportarsi da soggetto storico, riuscendo ad agire da subito sul piano della politica internazionale, all’inizio senza ottenere quel che chiedeva. Ma questa trasformazione già solo vent’anni dopo Basilea (e dodici dopo la sua morte) fu riconosciuta dalla Dichiarazione Balfour, e dopo altri trenta portò alla proclamazione dello Stato di Israele.

  • La fatica di Herzl
  Il lavoro di Herzl, arrivato al momento giusto della storia, fu anche un’impresa immane, al limite delle forze di un uomo. Raramente nella storia vi è stato un singolo individuo che coi mezzi della convinzione, dell’organizzazione, della diffusione delle idee, del negoziato, abbia compiuto una trasformazione simile nella vita di un popolo. Se partiamo dal 1894, cioè dall’inizio del Caso Dreyfus, che secondo i biografi fu la scintilla che trasformò un brillante giornalista piuttosto assimilato nell’apostolo della redenzione ebraica, in soli tre anni Herzl riuscì a convocare il primo momento di organizzazione unitaria del popolo ebraico dall’inizio della diaspora (questo fu il Primo Congresso di Basilea). Negli altri sette anni di vita che gli rimasero fino a essere stroncato da questo immenso lavoro, Herzl viaggiò ininterrottamente incontrando gli ebrei di tutta Europa, cercando di negoziare con la Gran Bretagna, col Papa, con il Sultano ottomano, recandosi a Gerusalemme, vincendo l’opposizione di buona parte del mondo religioso, dei socialisti internazionalisti del Bund, dei “sionisti culturali” che volevano attendere che crescesse la coscienza ebraica popolare prima di occuparsi dell’immigrazione in Israele e della politica che la consentisse. Fece anche alcune battaglie sbagliate, come quella per accettare come meta dell’emigrazione ebraica dall’Europa un territorio in Uganda offertogli dalla Gran Bretagna. Ma anche in questo era un precursore, perché forse presentiva al di là dei dati disponibili l’imminenza di quella grande aggressione antiebraica che sarebbe stata la Shoah. La sua capacità visionaria si verifica anche leggendo i suoi libri, non solo “Lo stato ebraico” (1896) che lancia il programma politico sionista, ma anche Altneuland ("L'Antica Nuova Terra", 1902), in cui si immagina un’Israele multiculturale, laica, tecnologica, aperta al turismo come è oggi.  

• Le conseguenze del Congresso
  Insomma, Basilea 1897 significò il ritorno del popolo ebraico nella comunità internazionale, la presa di coscienza degli ebrei di non poter più vivere in una dimensione privata e locale, ma di dover fare grandi scelte collettive, prendendo in mano il proprio destino comune, di non avere una via di fuga dalle persecuzioni nell’assimilazione, ma di dover riaffermare la propria identità politica, lavorando per la costruzione di uno stato moderno. Perché questo programma si realizzasse ci fu bisogno di altri grandi personaggi, prima di tutto di David Ben Gurion, di una generazione sola più giovane di Herzl. E purtroppo l’autoemancipazione del popolo ebraico arrivò troppo tardi per impedire la Shoah. Ma il sionismo senza dubbio ne moderò gli effetti distruttivi. Di questo saremo sempre grati a Herzl e a chi accettò la sua intuizione a Basilea 125 anni fa.

(Shalom, 30 agosto 2022)

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Il vero successo del sionismo (e le sfide del futuro)

Lo straordinario successo del sionismo consiste nell’essere riuscito a persuadere gli ebrei che arrivarono qui per necessità a diventare sionisti e israeliani per scelta, facendo di Israele la loro casa democratica e pluralistica.

di Dan Schueftan

Nel 125esimo anniversario del Primo Congresso Sionista è tempo di fare il punto su quanto è avvenuto finora. La rivoluzione sionista in corso è una delle pochissime di quell’epoca che sia effettivamente riuscita a realizzare un cambiamento radicale, allo stesso tempo evolvendosi costantemente di fronte alle nuove sfide. Ha trasformato il popolo ebraico e lo ha preservato dal graduale dissolversi in un gruppo di fanatici ortodossi e una frangia di ebrei assimilati. Ha riportato il popolo ebraico nella storia come una nazione in grado di reggersi sulle proprie gambe e plasmare il proprio futuro.
  All’inizio la configurazione del terreno presentava molti ostacoli apparentemente insormontabili. Dopotutto, la visione prevedeva l’istituzione di una sovranità nazionale per gli ebrei senza ancora averne i prerequisiti: un popolo che fosse funzionante, una lingua nazionale che fosse viva, una concentrazione di ebrei nella terra desiderata che fosse maggiore delle ridotte comunità all’epoca presenti. Inoltre, vi era l’attiva opposizione al progetto indipendentista da parte di una quota delle altre popolazioni locali.
  La maggioranza del popolo ebraico non prendeva parte attiva in questa visione rivoluzionaria. Solo una limitata minoranza, anche tra i suoi tanti sostenitori, era disposta a prendere in mano le cose e agire in prima persona. La maggior parte dei leader rabbinici si opponeva, e alcuni di loro addirittura rifiutavano l’idea di ristabilire lo stato ebraico a Sion dicendo che era qualcosa di simile a una bestemmia.
   La maggior parte degli ebrei che gradualmente abbracciarono questa causa non erano disposti a mettersi personalmente in gioco. Il successo del sionismo è unico non tanto perché è riuscito a superare l’opposizione esterna di arabi e palestinesi o del resto del mondo, e nemmeno perché è riuscito a entusiasmare un piccolo gruppo di idealisti determinati. Il suo successo straordinario consiste principalmente nel fatto d’essere riuscito a convincere gli ebrei che ne erano stati attratti per ragioni non sioniste a convertire il loro trasporto in vero entusiasmo sionista, cosa che rese l’Israele pre-statale quella vibrante realtà che alla fine sarebbe diventata una patria nazionale vitale e forte.
Settembre 1946: pionieri ebrei al lavoro in un campo di patate presso il kibbutz Urim, nel deserto del Negev.
La grande maggioranza degli ebrei che vivono in Israele è composta da coloro o dai discendenti di coloro che arrivarono qui per necessità, non per sionismo: semplicemente non potevano più rimanere nei loro paesi d’origine e, al momento di andarsene, di fatto venne preclusa loro ogni altra auspicabile destinazione. Il test fondamentale che Israele ha dovuto affrontare – il suo vero esame di sionismo – è stato quello di riuscire a integrarli nonostante le mille difficoltà che dovettero affrontare, e di aver persuaso loro e i loro discendenti a rimanere in questo paese per scelta, facendone la propria casa.
  Il successo di gran lunga più importante del movimento sionista è stato riuscire a fare di Israele la patria della maggiore comunità di ebrei (oggi quasi la metà degli ebrei del mondo vive in Israele) e nel renderlo – partendo quasi da zero – il luogo in cui la continuità del popolo ebraico è garantita. Grazie a questa impresa, gli ebrei sono tornati all’indipendenza nella loro patria storica come un popolo funzionante, la loro lingua nazionale è tornata a nuova vita e gli ebrei esercitano la loro storica sovranità e autodeterminazione.
  Quella testa di ponte stabilita in Terra d’Israele da una minoranza animata da una visione radicale è diventata il centro vibrante della vita ebraica. Quello che nacque due generazioni fa come un paese del terzo mondo, povero e debole, che contava solo il 6% degli ebrei del mondo, grazie alla dedizione e al talento delle generazioni successive si è trasformato in una potenza democratica regionale con un’economia fiorente e risultati di prim’ordine.
  Ancora più importante dei successi del passato è garantire risultati lungo la strada futura. È quasi inesorabile che Israele continuerà ad essere il fulcro della vita ebraica a spese della seconda concentrazione ebraica più importante del mondo, quella nordamericana: la diffusa assimilazione delle generazioni più giovani unita al calo dei tassi di natalità, rispetto alla continuità della famiglia ebraica in Israele unita a un tasso di natalità molto alto, assicura che Israele sarà sempre più l’epicentro della vita ebraica.
  Altre sono le grandi sfide, e le principali sono all’interno della società israeliana: persino più pericolose delle minacce poste dall’Iran e dai suoi scagnozzi. Israele ha dimostrato di saper resistere in tempi difficilissimi, come la guerra dello Yom Kippur e la seconda intifada (quella delle stragi suicide negli autobus e nei bar ndr). Quello che deve preoccuparci è la radicalizzazione di alcuni gruppi haredi (ultraortodossi) e il perdurante controllo su alcuni milioni di arabi palestinesi: due trend che minacciano la natura democratica e pluralistica dell’impresa sionista, che è ciò che l’ha resa così vincente negli scorsi cento anni. Senza di questo, Israele rischia di trasformarsi in uno stato arretrato e autoritario che potrebbe minacciare il futuro del popolo ebraico.

(Israel HaYom, 29 agosto 2022 - trad. Israele.net)

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Riaperta la Sinagoga di Alessandria dopo un lungo restauro

Sarà visitabile domenica 18 settembre per la Giornata Europea della Cultura Ebraica

TORINO – Si parla spesso di ebrei e ebraismo, ma quante persone hanno avuto l’opportunità di visitare una sinagoga, un cimitero ebraico o un ghetto? Domenica 18 settembre 2022 si terrà in Piemonte, in Italia e in Europa la Giornata Europea della Cultura Ebraica, una giornata pensata per chi vorrebbe finalmente conoscere questa religione in tutte le sue sfaccettature. Attraverso percorsi guidati in sinagoghe, cimiteri, ghetti o partecipando a conferenze e concerti, i visitatori entreranno in contatto con l’arte, la cultura e le feste e tradizioni ebraiche. In Piemonte l’offerta culturale è particolarmente ampia: sarà infatti possibile visitare gratuitamente le sinagoghe di Asti, Alessandria, Carmagnola, Cherasco, Cuneo, Mondovì, Saluzzo e Torino; i cimiteri ebraici di Chieri, Ivrea e Torino; i ghetti di Chieri e Torino. Ad Alessandria la giornata sarà particolarmente significativa in quanto, dopo un lungo ed accurato restauro curato dall’architetto Milanese, si riaprirà la sinagoga di via Milano; una sinagoga monumentale, realizzata nell’Ottocento ma con un cuore antico, perché fu realizzata là dove era già presente la precedente sinagoga del XVIII secolo, della quale è rimasto uno splendido soffitto dipinto.
  La Giornata Europea della Cultura Ebraica è un appuntamento ormai consolidato, che nel nostro Paese, come sostenuto dall’AEPJ, l’Associazione europea per la preservazione e la valorizzazione del patrimonio ebraico e organizzazione “ombrello” della Giornata, vanta il primato di edizione più ampia e riuscita in Europa.
  Ogni anno infatti partecipano nella sola Italia decine di migliaia di visitatori, che aderiscono all’invito a scoprire un patrimonio culturale di notevole interesse storico, archeologico, architettonico, artistico, che per un giorno diventa fruibile all’unisono, grazie alla virtuosa collaborazione tra Comunità Ebraiche, Istituzioni, Enti locali e Associazioni attive sul territorio.

(Alessandria Oggi, 30 agosto 2022)

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Matteo Salvini: "Indignato e preoccupato per la sinistra anti-Israele"

Matteo Salvini parla a Israel Hayom (che lo definisce “buon amico di Israele”), attacca duramente l'antisemitismo anti-israeliano della sinistra italiana, spiega che nell'Italia di oggi non esiste una "minaccia fascista", conferma la sua promessa di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Il leader della Lega critica duramente le candidature del Pd di Enrico Letta e alcune posizioni come quelle di Laura Boldrini.  Con il voto del 25 settembre, spiega Salvini, l’Italia non avrà un governo di destra, piuttosto “direi un governo di buon senso, coerente e concreto, che mette al centro il lavoro, la sicurezza, lo sviluppo, il merito, le tradizioni”. “Sono poi orgoglioso di ricordare che, da leader della Lega, ho promosso in Senato un incontro sull’antisemitismo per denunciare quello che è un vero e proprio scandalo del nostro tempo: su questo tema siamo attenti, non abbassiamo la guardia e nessuno ne parla più di noi” sottolinea Salvini. “Credo che nel 2022 non abbia senso parlare di “allarme fascismo”, è il tema che la sinistra italiana tira fuori a ogni elezione contro tutti gli avversari che rischiano di sbarrarle la strada. Siamo e rimarremo un Paese democratico, nessuna nostalgia di un passato di violenza che, per fortuna, non ritornerà”. Salvini sottolinea: “Premetto che io non mi sento “di destra” e la Lega non è “di destra”, abbiamo a cuore il bene dell’Italia ma parliamo a tutti, tanto che siamo il partito più votato dalle operaie e dagli operai.
  Il centrodestra come squadra è maggioranza nel Paese ma non nelle redazioni dei grandi giornali e nel mainstream di certa intellighenzia di sinistra che ha tendenzialmente una visione intollerante e poco democratica, concepisce chi non condivide i suoi  valori come un nemico da abbattere non come un avversario con cui confrontarsi. Del resto molti giornalisti che stavano con la sinistra estrema sono finiti a dirigere giornali o nelle principali redazioni. Per parte nostra abbiamo già governato il Paese, è oggettivamente ridicolo lanciare allarmi infondati. Piuttosto, credo che all’estero debbano guardare con preoccupazione al fatto che il PD aveva candidato, addirittura come capilista, personaggi che hanno scritto insulti vergognosi contro Israele e il suo diritto a esistere e a difendersi. Come ha dichiarato un intellettuale come Paolo Mieli, in una recente intervista al quotidiano italiano “Libero” non si tratta di casi isolati, ma di una atteggiamento molto diffuso all'interno del PD in cui, cito Mieli,  "comanda ancora un nucleo che ha le proprie radici culturali nella storia e negli ideali della rivoluzione d'ottobre". E sempre Mieli: il partito di fatto non ha seguito Letta, "perché permane l'antica diffidenza verso gli Stati Uniti. Come quella verso Israele".
  Un’altra intellettuale e giornalista, Fiamma Nirenstein, su il Giornale ha denunciato “l’uso dell'antisemitismo antisraeliano come arma di consenso” della sinistra e ha ricordato che l’esponente del Pd Boldrini, ex presidente della Camera dei Deputati, “ha invitato alla Camera Mohamed Ahmed al Tayyeb, l'Imam che invoca la distruzione di Israele”. Sono indignato e preoccupato”.
  Salvini assicura: “La vittoria della Lega e del centrodestra sarà la migliore garanzia affinché gli odiatori di Israele, come quelli che il Pd aveva candidato, siano messi in condizione di non influenzare il governo italiano. Voglio piuttosto rilanciare: contro chi coltiva ancora un antisemitismo strisciante dobbiamo piuttosto riscoprire il contributo importante che ha dato l'ebraismo alla storia italiana e più in generale alla cultura europea. Chi è nemico di Israele, in Italia, in Europa e nel Mondo, è nemico della libertà, della democrazia e del sottoscritto”.
  Tra le altre cose, Salvini aggiunge: “L’Europa sta vivendo una drammatica crisi legata ai costi dell’energia, è quindi necessario - anche per avere valide alternative a Mosca - riprendere in mano il progetto EastMed-Poseidon, un gasdotto di circa 2mila km per collegare Italia e Israele”.

Libero, 30 agosto 2022)

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Yemen, i ribelli aiutano la comunità di Aden a restaurare cimitero ebraico di 160 anni

di Paolo Castellano

Ci sono buone notizie per la comunità ebraica dello Yemen, che dal 2015 è teatro di una sanguinosa guerra civile. Una delle fazioni politiche che ha combattuto per conquistare il potere ha deciso di restaurare un cimitero ebraico di 160 anni nella città portuale di Aden.
  Come riporta il Jerusalem Post, un giornalista locale, che segue in prima persona il restauro, ha confermato l’inizio dei lavori all’emittente israeliana Kan durante un servizio andato in onda il 21 agosto.
  Al momento in Yemen si sta verificando una tregua tra le due parti in conflitto. Il Consiglio di transizione meridionale (STC), guidato dal generale Aidarus Qassem Abdulaziz al-Zoubaidi, vuole l’indipendenza dello Yemen del Sud. L’STC ora ha il controllo di Aden ed è stato coinvolto nel progetto dopo che gli sforzi per rinnovare il sito sono stati inizialmente guidati da associazioni di volontari.
  Tra le altre cose, un funzionario yemenita ha dichiarato che la ristrutturazione è “un messaggio rivolto a tutti i residenti” di Aden: «Una città di pace in cui non è ammissibile recare danno a nessun luogo sacro».
  Nella prima metà del XX secolo, in Yemen viveva una comunità di oltre 50mila membri. La maggior parte degli ebrei ha lasciato il paese dopo il 1948 e coloro che sono rimasti hanno subito gravi persecuzioni. Nel 2008 erano presenti poche centinaia di ebrei, ma all’inizio di quest’anno le Nazioni Unite hanno riferito che ne sono rimasti soltanto sette a causa di un “sistematico” clima d’intolleranza.

(Bet Magazine Mosaico, 29 agosto 2022)

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La campagna elettorale israeliana in corso: primarie, fusioni, sondaggi

di Ugo Volli

• Elezioni lunghe e ripetitive
  La campagna elettorale in Israele dura dal 22 giugno, quando cadde il governo Bennett, e si concluderà solo il 1° novembre, quando si terranno le elezioni. Quattro mesi di sospensione della normale vita parlamentare e governativa, cui ne andranno aggiunti altri due o tre per la formazione del nuovo governo. Bisogna considerare poi che si tratta delle quinte elezioni in quattro anni: più o meno con gli stessi protagonisti, gli stessi partiti, gli stessi schieramenti. Ce n’è abbastanza per stancare l’elettorato e infatti, anche nel clima molto partigiano della politica israeliana, intorno a queste elezioni è difficile vedere, almeno finora, grande emozione.

• Il blocco del sistema politico
  Il fatto è che il sistema politico israeliano è bloccato da una semplice contraddizione. Semplificando molto le sue complessità, i fatti sono questi: una maggioranza consistente e stabile dell’elettorato israeliano è di centro-destra, è cioè scettica delle vecchie politiche (terra in cambio di pace) sul problema palestinese, perché ha capito che i leader palestinisti vogliono la terra ma non la pace e chiedono concessioni in cambio di nulla. Inoltre di questa maggioranza fanno parte i partiti religiosi e dunque essa è almeno parzialmente ben disposta nei confronti delle richieste di sostegno economico e di agevolazioni militari che vengono da questi settori; sostiene anche le comunità in Giudea e Samaria. Infine è piuttosto favorevole a una politica economica liberale. Contro di essa vi è una netta minoranza di sinistra che crede ancora nelle trattative coi palestinesi e nei confronti di “ultraortodossi” e “coloni” nutre solo rancore e disprezzo. Inoltre vi sono un partito arabo ideologicamente vicino ai palestinisti e un secondo che invece bada soprattutto a ottenere privilegi economici per la propria base.

• Il problema di Netanyahu
  Il leader indiscusso della maggioranza di centro-destra è Benjamin Netanyahu, che però se n’è inimicato una parte, che ha preso a pretesto la lunga campagna giudiziaria (probabilmente in buona parte infondata) contro di lui per allearsi con la sinistra e gli arabi. Dunque vi sono due maggioranze: una politica e sociale di destra e una partitica e parlamentare contro Netanyahu. Anche queste elezioni si giocano su questo tema: riuscirà Netanyahu a ottenere la maggioranza dei seggi che gli serve per tornare primo ministro? O nascerà qualche altra coalizione pasticciata come quella di Bennett? O bisognerà tornare ancora a votare per la sesta volta in questo infinito braccio di ferro?

• Le primarie
  Per il momento i sondaggi sembrano aprire uno spiraglio per la vittoria di Netanyahu. Ma è presto per dirlo. I partiti hanno tempo fino al 15 settembre per presentare le liste definitive (che sono decise per lo più con elezioni primarie di partito, in cui però i leader di partito possono inserire dei candidati secondo il loro giudizio) e parecchi sono in trattativa per presentarsi assieme. Le primarie tenute finora hanno avuto risultati in parte imprevisti. In particolare nel Likud, dove le votazioni hanno lasciato delusi parlamentari molto noti ed ex ministri come Katz, Edelstein, Hanegbi, Levy-Abacassis. In generale sono stati premiati i fedelissimi di Netanyahu. Anche nell’estrema sinistra di Meretz vi è stato una specie di ribaltone. Dopo le dimissioni da leader di Nitzan Horowitz, si era candidato al suo posto l’ex vicecapo dell’esercito, il polemicissimo Yair Golan. Per contrastarlo è tornata in campo le leader storica Zehava Galon che l’ha battuto molto nettamente, relegandolo al quinto posto della lista elettorale. Altri partiti non hanno tenuto primarie o i loro risultati non hanno mostrato sorprese, come nel caso dei sionisti religiosi di Bezalel Smotrich.

(Shalom, 29 agosto 2022)

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Ecco il nuovo accordo sul nucleare iraniano che Biden sta per firmare

Secondo il nuovo accordo le sanzioni verranno rimosse prima ancora che l’Iran inizi a rimuovere le centrifughe e “consegni” l’uraniano altamente arricchito. Miliardi di dollari fluiranno nelle casse del terrorismo islamico di matrice sciita.

di Ron Ben-Yishai e Redazione RR 

La bozza finale dell’accordo nucleare con l’Iran, proposta dall’Unione Europea a luglio, è suddivisa in quattro fasi, che sia l’Iran che gli Stati Uniti si impegnano ad attuare per consolidare la fiducia e migliorare i loro legami bilaterali.
  Ricordiamo che il vecchio accordo (JCPOA) è stato firmato nel 2015, attuato nel 2016 e smantellato nel 2018 – quando l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è tirato fuori dall’accordo.
  All’apparenza, il nuovo accordo mantiene l’equilibrio tra le concessioni iraniane e quelle americane, ma a uno sguardo più attento si scopre che il ritmo di rimozione delle sanzioni è maggiore rispetto al calendario che prevede che l’Iran abbandoni l’arricchimento dell’uranio e si sbarazzi delle scorte di materiale già arricchito, oltre che delle centrifughe.
  Secondo l’accordo, l’Agenzia internazionale per l’energia nucleare (AIEA) tornerà a ispezionare il programma nucleare iraniano e a chiedere spiegazioni sulle violazioni dell’accordo originale, ma non subito.
  Va notato che l’accordo riguarda solo il materiale fissile necessario per costruire una bomba e non altre componenti del programma nucleare militare iraniano, tra cui lo sviluppo di testate nucleari e dei missili necessari per consegnarle all’obiettivo.
  L’accordo ignora anche le politiche bellicose dell’Iran in Medio Oriente e il suo uso di proxy per destabilizzare la regione.

• PRIMA FASE
  La prima fase dell’accordo prevede la firma dell’accordo e il rilancio del cosiddetto Piano d’azione congiunto globale. Prima che questo entri in vigore, Iran e Stati Uniti si scambieranno prigionieri e libereranno beni e fondi iraniani congelati.
  L’amministrazione americana comincerà inoltre a rimuovere alcune sanzioni nei confronti di individui iraniani e, in risposta, l’Iran sospenderà l’arricchimento dell’uranio oltre la soglia del 20% consentita dal JCPOA e cesserà la produzione di nuove centrifughe.
  Sebbene a quel punto l’Iran conservi ancora le sue scorte di uranio arricchito, nell’idea dei legislatori questa fase dovrebbe arrestare bruscamente l’avanzamento dell’Iran verso la capacità nucleare. Ma l’AIEA non avrà ancora pieno accesso ai siti nucleari, quindi gli Stati Uniti e gli alleati occidentali saranno costretti a fidarsi della leadership di Teheran e a sperare che qualsiasi tentativo di nascondere materiale arricchito venga individuato dalle agenzie di intelligence.
  Nei primi 60 giorni dell’accordo, l’Iran riceverà garanzie che gli Stati Uniti non si ritireranno dall’accordo per almeno due anni.
  Il Congresso degli Stati Uniti potrà opporsi all’accordo, ma il Presidente avrà il potere di veto, lasciando l’accordo in vigore a meno che i due terzi del Senato non votino per scioglierlo.
  Gli iraniani temono, a ragione, le elezioni di metà mandato di novembre negli Stati Uniti, che probabilmente porteranno a una maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti e al Senato. Ciò potrebbe portare a un secondo ritiro americano dall’accordo.
  Gli iraniani, dopo aver chiesto garanzie scritte all’amministrazione che l’accordo sarebbe stato rispettato almeno fino alla fine del primo mandato del presidente Joe Biden, hanno insistito sul fatto che se in futuro dovessero essere imposte sanzioni, Washington non prenderà di mira le aziende che commerciano con loro. Questa richiesta è stata respinta.

• FASE DUE
  Nella seconda fase, all’Iran sarà consentita la vendita una tantum di 50 milioni di barili di petrolio e la possibilità di negoziare accordi internazionali in materia di energia e trasporto aereo.
  Questo arricchirà le casse iraniane di miliardi di dollari e può essere visto come un regalo magnanimo a Teheran, anche prima che l’uranio arricchito in violazione dell’accordo originale venga rimosso e prima che l’AIEA possa ispezionare il programma nucleare.
  L’unica cosa che l’accordo richiede all’Iran in questa fase è che cessi l’arricchimento dell’uranio oltre il 5%.

• FASE TRE
  Nella terza fase dell’accordo, che entrerà in vigore 120 giorni dopo la firma, l’Iran potrà possedere 300 chilogrammi di uranio a basso grado e una piccola quantità di uranio arricchito al massimo al 20%.
  Non è chiaro cosa si farà con l’uranio già arricchito al 60%, che l’Iran detiene. È difficile stoccare questo materiale al di fuori dell’Iran a causa dei suoi pericolosi livelli di radiazioni. Attualmente l’Iran possiede tra i 20 e i 40 chilogrammi di questo materiale, ancora lontano dai 58 chili necessari per costruire una bomba nucleare.
  In pratica, nei primi tre mesi dell’accordo, l’AIEA non potrà ispezionare il programma nucleare iraniano. L’Iran potrà produrre centrifughe avanzate e nascondere il materiale arricchito.
  Infatti, solo dopo quattro mesi dalla firma dell’accordo, l’AIEA avrà nuovamente accesso all’ispezione dei siti nucleari. Nel frattempo, le sanzioni imposte all’Iran dagli Stati Uniti saranno completamente rimosse.

• QUARTA FASE
  La quarta fase, che entrerà in vigore 165 giorni dopo la firma dell’accordo, vedrà di fatto il ripristino completo dell’accordo nucleare originale.
  In questa fase, gli Stati Uniti eliminerebbero l’embargo sulla vendita di armi convenzionali all’Iran e concederebbero agli agenti iraniani il permesso di commerciare con gli americani. L’Iran, da parte sua, smantellerebbe parte delle centrifughe installate dopo il ritiro di Trump dall’accordo.
  La bozza dell’UE non è ancora stata accettata dagli Stati Uniti e sono in corso ulteriori negoziati.
  Israele sta cercando di influenzare un accordo finale e nelle ultime settimane i funzionari hanno avuto colloqui con le loro controparti americane per cercare di influenzare la decisione finale.
  Ieri in un briefing con i giornalisti politici il Primo Ministro Yair Lapid ha affermato che dovrebbe esserci un accordo “migliore e più lungo”, che impedirebbe all’Iran di ottenere un’arma nucleare in modo rapido e semplice. Ma sembra ormai certo che il nuovo accordo sarà quello qui descritto.

(Rights Reporter, 29 agosto 2022)

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L'Italia acquista da Israele due "aerei spia"

L'accordo porta dunque a quattro il numero di aerei forniti da Gerusalemme a Roma.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME – Tecnologia avanzata, sistema di raccolta informazioni, monitoraggio a 360° di tutte le minacce terrestri, navali e aree. L’Italia acquista da Israele altri due “velivoli da missioni speciali” e prosegue il rafforzamento della sua flotta di aerei da spionaggio elettronico.
  L’ordine appare nei documenti del Ministero della Difesa pubblicati sul sito del dicastero e portati alla luce dal quotidiano israeliano Haaretz, secondo cui l'accordo avrebbe dovuto rimanere segreto. Il provvedimento infatti risale all’inizio di marzo e prevede le modifiche di due aeromobili per dotarli dei sistemi ELTA sviluppati dalla Israel Aerospace Industries (Iai), che a sua volta aveva annunciato l’accordo in luglio parlando però genericamente di tecnologia venduta a “un paese NATO”, senza entrare nello specifico.
  Uno dei vantaggi del produttore israeliano consiste nella capacità di fornire versioni miniaturizzate di attrezzature che in precedenza potevano essere trasportate soltanto da giganteschi cargo e che possono quindi essere ora installate su velivoli di dimensioni ridotte, e in particolare sui jet commerciali Gulfstream G550, provenienti dagli Stati Uniti. Israele aveva già fornito all’Italia due “aerei spia” nell’ambito di un accordo bilaterale firmato nel 2011, con lo Stato ebraico che per parte sua aveva acquistato decine di velivoli da addestramento da Leonardo.
  Il nuovo contratto, del valore di oltre 209 milioni di euro, è da inquadrare nel piano presentato dal governo Conte II alle Camere nel 2020 per una cifra stimata attorno ai cinque miliardi. Obiettivo, incrementare la capacità militare italiana in fatto di sorveglianza e prevenzione, dotandosi di tecnologie capaci di raccogliere dati come singole conversazioni telefoniche e geolocalizzane di utenti e veicoli, ma pure di lanciare azioni di disturbo elettronico per mandare in tilt i sistemi nemici, anche in chiave antiterrorismo
  Secondo quanto stabilito, l’Italia dovrebbe acquistare altri otto jet, in aggiunta ai due già in suo possesso. La tecnologia fornita da ELTA consente di modificare i velivoli per trasformarli in aerei di monitoraggio del suolo dotati di radar per scansionare e localizzare bersagli a terra e per la gestione del campo di battaglia, in pattugliatori marittimi per seguire navi e sottomarini, in velivoli SIGINT per la raccolta di informazioni elettroniche e di comunicazione e guerriglia elettronica o in CAEW che garantiscono preallarme (early warning) e controllo in volo.
  All’epoca, per rispondere a chi criticava il programma come eccessivo rispetto alle esigenze italiane, l’esecutivo aveva risposto sottolineando “la trasversalità e imprevedibilità delle future minacce.” Un avvertimento che, in considerazione del conflitto in Ucraina, si è rivelato premonitore.
  Tanto più che secondo Haaretz, i due aerei dotati degli equipaggiamenti ELTA già forniti da Israele all’Italia hanno già partecipato a esercitazioni e operazioni nell’ambito della NATO, e in particolare, a marzo, uno dei due velivoli sarebbe stato avvistato durante la sua prima missione di raccolta di informazioni nell'Europa orientale, volando per circa quattro ore lungo i confini rumeno, moldavo e ucraino. Luoghi non casuali, associati all’esigenza di mappatura delle forze russe che hanno invaso l'Ucraina.

(la Repubblica, 29 agosto 2022)

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L’eresia di un cantautore tra i soldati

In attesa dell’album-tributo di star del pop e del jazz, un ricordo del viaggio in Israele di Leonard Cohen durante la guerra del Kippur. Alla ricerca delle radici e con un piccolo mistero racchiuso in una delle sue canzoni più amate.

di Matti Friedman

Cohen era già una star internazionale e ora si trovava in medio oriente, ai margini di un deserto disseminato di carri armati anneriti e cadaveri in tute carbonizzate, a suonare per piccoli gruppi di soldati senza amplificatore e con una cassa di munizioni come palco. La sua presenza non è mai stata realmente spiegata. Nel taccuino si vede come poco dopo aver scritto quel verso di "Lover Lover Lover", stesse già avendo dei ripensamenti. Le parole "per aiutare i miei fratelli a combattere" erano state cancellate e sostituite con: "Per guardare i bambini combattere". Ma anche questo verso non doveva suonargli bene.

Uscirà il 14 ottobre “Here it is: a tribute to Leonard Cohen”, l’album prodotto da Larry Klein che presenta alcuni brani del cantautore morto nel 2016 interpretati da cantanti di generi diversi e da alcuni musicisti jazz: tra gli altri, Norah Jones, Peter Gabriel, James Taylor, Iggy Pop, Bill Frisell. Matti Friedman, nell’articolo che segue, ricorda un episodio poco conosciuto della vita del musicista e poeta canadese.
Leonard Cohen nel 1973, tra i soldati israeliani
C’è stato qualcosa di criptico in Lover Lover Lover, il classico del 1974 dell’icona della musica canadese Leonard Cohen, il “poeta del rock”. La canzone non sarà famosa come Hallelujah, ma i suoi fan la amavano ed era importante per Cohen, che ancora la suonava ai suoi concerti quarant’anni dopo. Ma cosa significa? Perché, nel primo verso della canzone, diceva piangendo: “Padre, cambia il mio nome”? Non sembrava una canzone d’amore. Né l’analisi che un corpo potesse servire come un’“arma”, o una speranza che la canzone stessa potesse servire come uno “scudo contro il nemico”? Chi era il nemico? E chi era il pubblico?
  Nel 2009, Cohen ha messo fine a un tour mondiale con uno spettacolo in Israele, dove vivo. A 75 anni, ha messo in scena uno dei più grandi atti finali della storia della musica. E questo è avvenuto dopo essere uscito da un monastero buddista in California e aver scoperto che un suo ex manager aveva ripulito la sua carta di credito: tornò sulla strada e scoprì di essere entrato nel pantheon della musica popolare. Forse siete stati abbastanza fortunati da assistere a uno di quei concerti. Sono cresciuto in Canada, dove Cohen è sempre stato considerato un tesoro nazionale, ma fino ad allora non avevo ancora capito che qui in Israele fosse considerato allo stesso modo. Quando i biglietti sono stati messi in vendita, le linee telefoniche sono andate in tilt in pochi minuti. A Tel Aviv si sono presentate cinquantamila persone. Non conoscevo la motivazione di questo intenso legame finché un articolo su un giornale locale mi suggerì una spiegazione. Aveva a che fare con un’esperienza che Cohen aveva condiviso con gli israeliani molto tempo prima, nell’autunno del 1973. Il mio tentativo di capire cosa fosse successo si è trasformato in anni e anni di ricerche e interviste, e infine in un libro intitolato Who By Fire, che racconta come una guerra e un cantante si siano scontrati per creare un momento straordinario nella storia della musica. Una parte di questa storia si è rivelata collegata alla canzone Lover Lover Lover, e alla lotta di un grande artista, o di chiunque fra noi, per riconciliare l’attrazione dell’universale con il magnetismo della propria tribù e del proprio passato.
  La seconda settimana dell’ottobre del 1973 fu una delle peggiori nella storia di Israele. Alle due del pomeriggio del 6 ottobre, il giorno del digiuno ebraico dello Yom Kippur, la Siria e l’Egitto lanciarono degli attacchi a sorpresa. Le sirene iniziarono a suonare per tutta Israele, un bombardiere egiziano sparò un missile guidato su Tel Aviv, le difese di frontiera di sgretolarono, l’aviazione cominciò a perdere aerei e piloti, le vittime dell’esercito si alzarono dalle centinaia alle migliaia e gli israeliani sprofondarono nella disperazione. In quel momento, dal fumo della battaglia nel deserto del Sinai, in una missione di sua invenzione, uscì un ironico bardo di Montreal. L’apparizione di Leonard Cohen sembrò strana allora come oggi e non è mai stata realmente spiegata, anche se in Israele è diventata una delle storie conosciute da tutti sulla guerra dello Yom Kippur, allo stesso livello delle famose battaglie. Cohen era già una star internazionale. Tre anni prima aveva suonato per mezzo milione di persone al festival dell’isola di Wight, che era più grande di Woodstock, dove i fan scatenati avevano insultato Joan Baez, lanciato bottiglie a Kris Kristofferson e bruciato il palco con Jimi Hendrix sopra, ma si calmarono quando dopo mezzanotte su quel palco salì Cohen ipnotizzandoli. Era uno dei più grandi artisti degli anni Sessanta. E ora si trovava in medio oriente, ai margini di un deserto disseminato di carri armati anneriti e cadaveri in tute carbonizzate, a suonare per piccoli gruppi di soldati senza amplificatore e con una cassa di munizioni come palco. Alcuni soldati non sapevano chi fosse. Altri lo sapevano e non riuscivano a capire cosa diamine ci facesse lì.
  Come sia arrivato in guerra e cosa lo abbia attirato, o spinto in Israele è una storia diversa, che ho svelato con l’aiuto di un notevole testo che ha scritto sull’esperienza e che ha poi accantonato. Quando raggiunse il fronte nel Sinai, era insieme a una band di quattro musicisti israeliani. In una descrizione tratta da una rivista ormai defunta che era l’equivalente israeliano di Rolling Stone, i soldati erano seduti sulla sabbia di notte dopo una giornata di combattimenti. Alcuni fumavano. Cohen arrivò vestito color cachi. Si rivolse a loro in un inglese solenne, che non tutti capiscono. “Questa canzone è una di quelle che dovrebbero essere ascoltate a casa, in una stanza calda con un drink e la donna che amate”, disse. “Spero che tutti voi vi troviate presto in quella situazione”. Suonò Suzanne. Il pubblico di quell’insolito tour era uno spaccato di giovani israeliani nel momento peggiore delle loro vite: fanti scossi, artiglieri mezzi sordi, ragazze adolescenti che avevano appena visto uccidere cinque amici da una stazione radar distrutta. Ho passato molto tempo sulle loro tracce per sentire cosa avessero provato. Uno dei concerti si tenne in una base aerea chiamata Hatzor, dove i piloti dei jet Phantom americani e dei Mystères francesi venivano abbattuti dai missili Sam sovietici a una velocità che le Forze israeliane non avevano mai visto. I piloti chiudevano le loro tute di volo, lasciavano i loro alloggi e sparivano per sempre. Questo tour ha tratto la sua potenza unica dal fatto che un cantante i cui temi erano l’imperfezione e la caducità umana, e i piccoli piaceri che possono addolcire le notti, si trovò a suonare per persone le quali quelle forze fugaci non erano astrazioni che fluttuavano nell’aria di un dormitorio. Sapevano che alla fine del concerto, li aspettava la morte. Erano tutti sobri. Non c’era alcun scambio di denaro. Erano tutti attenti.
  Alla base aerea, Cohen suonò quelle canzoni di successo che tutti conoscevano, Suzanne, So Long Marianne, Bird on the Wire. Il concerto andò così bene che uno degli ufficiali pregò i musicisti di esibirsi di nuovo, e nella pausa tra le due esibizioni Cohen compose una canzone. Uno dei piaceri della ricerca per questo libro è stato passare del tempo con i taccuini che Cohen teneva durante e dopo la guerra, conservati dalla proprietà del cantante. In quei taccuini ho trovato scarabocchi, mezzi pensieri, righe buttate giù e i primi barlumi di canzoni che sono poi state conosciute da milioni e milioni di persone. Su una pagina di un piccolo taccuino arancione che aveva portato con sé in Israele scrisse (toglie il fiato, se si conosce il lavoro di Cohen, perché si sta assistendo alla nascita di qualcosa di famoso):

  Ho chiesto a mio padre,
  Gli ho chiesto
  Un altro cognome

E’ la versione embrionale di Lover Lover Lover. E’ un’idea interessante con cui aprire, soprattutto perché gli israeliani dicono che Cohen chiese di non essere chiamato Leonard ma Eliezer, il suo nome ebraico. Cohen introdusse la canzone nel secondo concerto alla base aerea, secondo due dei suoi compagni di band: il balladeer Oshik Levy, che era in piedi vicino al palco ad ascoltare, e Matti Caspi, il ventitreenne che suonò la chitarra nella primissima interpretazione della canzone, ora una leggenda della musica israeliana a sé stante. Cohen la perfezionò man mano che la band procedeva nella guerra. Nel suo manoscritto inedito, Cohen menziona l’idea che potesse effettivamente tenere al sicuro i soldati: “Ho detto a me stesso: forse posso proteggere alcune persone con questa canzone”. Questo potrebbe spiegare il testo della canzone come “scudo contro il nemico”.
  Quindi Lover Lover Lover è una canzone di guerra. Non è chiaro chi sia “l’amante” a cui fa riferimento nel ritornello, che intona semplicemente sette volte e implora: “Torna da me”. Ma se intendiamo la canzone come una sorta di preghiera, forse la parola appare nel senso del biblico Cantico dei Cantici, dove la presenza di Dio è descritta in termini di amore erotico. Pochi hanno bisogno di questa presenza con la stessa urgenza dei soldati. Cohen è cresciuto in una comunità ebraica, nipote di un rabbino colto, e conosceva la Bibbia (si direbbe che conoscesse le parti erotiche meglio delle altre). O forse è solo un classico coro di guerra, un’espressione di desiderio per qualcuno lontano, come Wait For Me di Konstantin Simonov, la poesia preferita dei frontoviki dell’Armata rossa della Seconda guerra mondiale. In quella canzone ogni verso inizia con: “Aspettami e tornerò”. La madre di Cohen, Masha, era di madrelingua russa e forse quando era bambino, negli anni della Guerra, gli ha cantato Simonov. Chiunque sia stato un soldato sa che questo sentimento è il più potente, molto più del patriottismo o della rabbia. I ricercatori che hanno studiato la musica dei GI in Vietnam hanno scoperto che, nonostante i film del dopoguerra facessero sembrare che la colonna sonora del paese fosse politica, con canzoni come For What It’s Worth, e Fortunate Son, le canzoni che le truppe amavano davvero erano quelle sulla solitudine e la nostalgia, come Leaving on a Jet Plane.
  Un primo dettaglio misterioso nella storia di Lover Lover Lover apparve quando intervistai Shlomi Gruner, che nel 1973 era un giovane ufficiale in un’unità improvvisata di fanti che assistette ad alcuni dei combattimenti più duri nel Sinai. Una notte lui e i suoi amici si trovavano sul lato opposto del Canale di Suez, accampati sotto una tenda ricavata dal paracadute di un pilota egiziano che avevano abbattuto. Stava setacciando il deserto in cerca di benzina per la jeep dell’unità, e se ne tornava a mani vuote, quando vide una figura con una chitarra seduta su un elmetto rovesciato sulla sabbia. Conosceva la voce: Leonard Cohen era lì. Non aveva alcun senso, ma era vero. Stava cantando Lover Lover Lover. Quando parlammo, Shlomi ricordò in particolare un verso in cui si identificava con i soldati israeliani, chiamandoli “fratelli”. All’epoca, gli stati arabi erano schierati contro Israele e la maggior parte dei paesi europei si rifiutava persino di permettere ai voli di rifornimento di arrivare qui. Gli israeliani provavano una sensazione di forte isolamento. Li toccava sapere che una persona come Cohen fosse venuta fino in Israele e avesse viaggiato fino al Sinai per stare con loro. Il cantante non era un aereo pieno di armi o rinforzi, ma la sua presenza significava qualcosa, così come anche le sue parole: la parola “fratelli” non lasciava spazio a speculazioni sulla posizione di Cohen. Il problema è che non c’è alcun verso del genere nella canzone.
  All’inizio pensavo che Shlomi si fosse sbagliato. La memoria è una risorsa inaffidabile, soprattutto nei momenti di estremo stress, che conosco bene dalle mie esperienze in uniforme. Ma poi ho trovato un articolo di giornale, pubblicato da un quotidiano israeliano durante la guerra, in cui il giornalista notava come Cohen avesse appena scritto una nuova canzone intitolata Lover Lover Lover, e citava un verso che suonava come quello di cui mi aveva parlato Shlomi. E’ stato il piccolo taccuino arancione di Cohen a risolvere il mistero. Dopo la prima bozza di Lover Lover Lover, sotto il titolo: “Base aerea”, compaiono otto righe scritte a mano dal cantante:

  Sono sceso nel deserto
  per aiutare i miei fratelli a combattere
  sapevo che non avevano torto
  sapevo che non avevano ragione
  ma le ossa devono stare dritte e camminare
  e il sangue deve muoversi in giro
  e gli uomini vanno a fare brutte linee
  sulla terra santa
  per aiutare i miei fratelli a combattere.

Per aiutare i miei fratelli a combattere
. Non c’è da meravigliarsi che quel verso abbia colpito gli israeliani. E non c’è da meravigliarsi che Cohen si sia ripreso velocemente e abbia cominciato a tornare indietro. Il suo passo di indietro fu certamente legato alla consapevolezza che, a prescindere dalle sue personali fedeltà in quelle settimane, come poeta doveva essere più grande degli israeliani e più grande di quella guerra. Se gli dovessimo chiedere quale fosse il suo nemico in quelle settimane, penso ci siano buone probabilità che risponda semplicemente: l’umanità. Il cambiamento potrebbe essere legato a un momento specifico durante la guerra che sembra essere stato un punto di rottura. Ecco come lo descrive nel suo manoscritto:
Atterraggio dell’elicottero. Nel forte vento i soldati corrono a scaricarlo. E’ pieno di uomini feriti. Vedo le loro bende e mi trattengo dal piangere. Sono giovani ebrei che stanno morendo. Poi qualcuno mi dice che sono feriti egiziani. Il mio sollievo mi stupisce. Lo odio. Odio il mio sollievo. Questo non può essere perdonato. Questo è sangue sulle vostre mani.
La sua identificazione tribale era andata troppo oltre. Nel taccuino si vede come poco dopo aver scritto quel verso di Lover Lover Lover, stesse già avendo dei ripensamenti. Le parole “per aiutare i miei fratelli a combattere” erano state cancellate e sostituite con: “Per guardare i bambini combattere”. Ora è un osservatore che guarda lateralmente, forse addirittura dall’alto verso il basso. Ma anche questo verso non doveva suonargli bene, e quando la canzone fu pubblicata qualche mese dopo l’intera strofa era sparita. Più tardi, quando Cohen suonò Lover Lover Lover, riconobbe il luogo in cui l’aveva scritta, ma disse che era per i soldati “di entrambe le parti”. Dopo tre anni, durante un concerto in Francia nel 1976, affermò di aver scritto la canzone per “gli egiziani e gli israeliani”, in quest’ordine.
  In quegli anni, con l’esercito americano ancora in Vietnam, la maggior parte degli artisti popolari non avrebbe suonato per le truppe, perché poteva sembrare che approvassero la guerra. Bisognava essere abbastanza sofisticati da vedere attraverso la politica l’umanità dei soldati. Johnny Cash e sua moglie, June Carter, andarono in Vietnam nel 1969, e trascorsero un paio di settimane in una base aerea chiama Long Binh, cantando per gli uomini che si dirigevano verso le foreste per quelli che tornavano indietro con gli elicotteri di soccorso. “Quasi non riuscivo a sopportarlo”, scrisse Cash, ma ci andò. E James Brown partì con alcuni compagni di band nel 1968, nonostante l’impopolarità della guerra e nonostante l’odio razziale che minacciava Brown e l’America stessa; il tour iniziò appena dopo l’assassinio di Martin Luther King Jr. Raccontò questa storia in interviste al Washington Post e a Jet, e avrebbe potuto parlare anche per Cohen.
  Brown suonò per la prima volta al campo di aviazione di Tan Son Nhut, vicino a Saigon, poi fece un tour di 16 giorni, con due spettacoli a ogni tappa, reidratandosi tra un concerto e l’altro con una flebo. Sosteneva che persino i vietcong si avvicinavano di nascosto per ascoltare la musica. “Siamo tornati là dove stava andando avanti Apocalypse Now”. A molte persone non piaceva la guerra. “Beh, nemmeno a me piace la guerra” disse, “ma laggiù abbiamo fratelli dell’anima”.

Il Foglio, 29 agosto 2022)

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Il sorprendente vino di Israele

Quella dei vini della Terra Santa è una storia fatta di lotte e conquiste. Fu il barone Edmond de Rothschild a iniziare, ma i frutti arrivarono solo un secolo dopo, nel 1983. E oggi le vigne arrivano a oltre 2000 metri, includendo luoghi come il lago di Tiberiade e la Galilea.

di Orazio Vagnozzi

Per quanto testimonianze scritte facciano risalire la presenza della viticultura e produzione di vino in Galilea a oltre 3000 anni fa, la viticultura moderna in Israele ha radici recenti. Fu il barone Edmond de Rothschild di origini ebraiche nel 1882 a fondare la cantina Carmel, finanziando iniziative vitivinicole in Terra Santa sperando che diventasse il cuore produttivo dei vini Kosher per gli ebrei di tutto il mondo.
  Piantò due vitigni, il Chenin Blanc e il Carignan dando il via così alla nuova viticoltura israeliana. L’inizio non fu fortunato: il primo raccolto fu bruciato da un’ondata di caldo, poi arrivò la fillossera. Il successivo turbolento periodo storico non aiutò. Bisogna aspettare il 1983, un secolo dopo, quando un noto professore di enologia della California University, Cornelius Ough, fonda la Golan Heights Winery sulle alture del Golan, una delle zone più vocate del paese. 
  Notevoli i risultati enologici di questa azienda, la prima a puntare sulla qualità. Dalla fine degli anni ’80 si è registrato un proliferare di aziende, che vanno dalle più grandi certificate Kosher fino alle piccole wine boutique. Secondo i dati di Assovini 2021, attualmente si contano circa 300 aziende con vigneti che coprono circa 6.000 ettari. Per quasi quattro quinti sono dedicati a uve rosse. La produzione è dedicata al mercato interno, anche se un buon 15% è destinato all’esportazione.
  Le varietà più diffuse sono Cabernet, Carignan e Merlot, che coprono il 50% della produzione. I territori vocati passa- no dal mare alle montagne, dalle valli fertili al deserto. Tra le aree più vocate, la Galilea, al nord del paese. Qui hanno sede alcune delle cantine migliori di Israele – tra cui appunto la Golan Heights Winery – che conta quattro sottozone, Alta e Bassa Galilea, Tabor e appunto Golan Heights.
  L’area è caratterizzata da buoni rilievi, escursioni termiche tra il giorno e la notte e terreni drenati al punto giusto. Un territorio vario, in cui la vite viene coltivata tra i 400 e i 1200 metri s.l.m., con picchi fino a oltre 2000 metri di altezza, incluso il lago di Tiberiade, il cosiddetto Mare della Galilea. Direttamente confinante con la Galilea del nord c’è la Samaria, un territorio che ha caratteristiche molto più miti rispetto al nord del paese con estati caldi e inverni non troppo rigidi. Le altezze massime sono di 800 metri s.l.m. A Binyamina, tra Tel Aviv e Haifa, c’è la nota cantina Margalit.
  E poi c’è la regione delle Colline della Giudea situata attorno a Gerusalemme, con caratteristiche pedoclimatiche particolarmente favorevoli per la produzione di vino, quali buone altezze, escursioni termiche e terreni fertili. Qui hanno sede famose cantine come Tzora, Clos de Gat e Castel. Altre regioni in cui si produce vino sono Samson, dai terreni argillosi: una pianura costiera e colline influenzate dal Mar Mediterraneo e il deserto del Negev, dove impianti sofisticati di irrigazione hanno reso coltivabile la terra soprattutto nella sottozona di Ramat Arad.
  Ho avuto modo di degustare recentemente alcuni vini israeliani. Tra questi segnalerei il Sauvignon Blanc "Gamla" 2020 della Golan Heights Winery, vino fresco e sapido dai sentori agrumati, fiori di sambuco e erbe aromatiche, e due grandi vini della cantina Castel. Il Castel Grand Vin 2019, che è un classico taglio bordolese a base di Cabernet Sauvignon, Merlot, Petit Verdot, Cabernet Franc, un vino equilibrato dal tannino fine e vellutato, dall’aroma di mora e spezie con un lungo finale dal retrogusto di liquirizia, cioccolato e tabacco, dal grande potenziale di invecchiamento.
  Infine, il ‘C’ Blanc du Castel 2019, un vino bianco, 100% Chardonnay, dallo stile borgognone, ricco, complesso e ben strutturato. Dal colore dorato brillante, il vino esprime profumi agrumati e di frutta esotica, con note di burro e mandorle tostate. Vino ricco, equilibrato da un’acidità rinfrescante e una sapidità che allunga il sorso.

(WEWelt, 10 agosto 2022)

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Salmo 109 (3)

  1. Per il maestro del coro. Salmo di Davide.
    O Dio della mia lode, non tacere,
  2. perché bocca di malvagio e bocca d'inganno si sono aperte contro di me; hanno parlato contro di me con lingua di menzogna.
  3. Mi hanno circondato con parole d'odio, mi hanno fatto guerra senza motivo;
  4. in risposta al mio amore mi accusano. E io resto in preghiera.
  5. Mi hanno reso male per bene, e odio in cambio d'amore.
  1. Costituisci un empio sopra di lui, un accusatore si tenga alla sua destra.
  2. Sia giudicato ed esca condannato; la sua preghiera gli sia imputata a peccato.
  3. Siano pochi i suoi giorni: un altro prenda il suo ufficio.
  4. Siano orfani i suoi figli e vedova sua moglie.
  5. Vadano errando i suoi figli e accattino; cerchino pane lontano dalle loro case in rovina.
  6. Getti l'usuraio le sue reti sui suoi beni; facciano preda gli estranei delle sue fatiche.
  7. Nessuno mostri a lui benevolenza, e non si trovi chi abbia pietà dei suoi orfani.
  8. Sia distrutta la sua progenie; nella seconda generazione sia cancellato il loro nome!
  9. Sia ricordata dall'Eterno l'iniquità dei suoi padri, e il peccato di sua madre non sia cancellato.
  10. Restino sempre davanti all'Eterno quei peccati e faccia Egli sparire dalla terra la sua memoria.
  11. Perché non ha voluto aver pietà, ma ha perseguitato il povero e bisognoso, chi aveva il cuore spezzato, per ucciderlo.
  12. Ha amato la maledizione, ricada essa su di lui; non ha gradito la benedizione, resti essa lontana da lui.
  13. Si è avvolto di maledizione come di un vestito, penetri essa come acqua in lui,  come olio nelle sue ossa.
  14. Sia per lui come un manto che lo ricopre, come una cintura che sempre lo cinge!
  15. Tale sia da parte dell'Eterno la ricompensa dei miei accusatori, e di quelli che proferiscono del male contro l'anima mia.
  1. Ma tu, Eterno, o Signore, opera in mio favore, per amore del tuo nome; poiché buona è la tua misericordia, liberami!
  2. Perché povero e bisognoso io sono e il mio cuore è ferito dentro di me.
  3. Me ne vado come un'ombra che s'allunga, sono scosso via come una locusta.
  4. Le mie ginocchia vacillano per il digiuno, la mia carne deperisce e dimagra.
  5. Son diventato un obbrobrio per loro; mi guardano e scuotono il capo.
  6. Aiutami, o Eterno, Dio mio, salvami secondo la tua benignità.
  7. E sappiano essi che questa è la tua mano, che sei tu, o Eterno, che agisci.
  8. Essi malediranno, ma tu benedirai; s'innalzeranno, ma saranno confusi, e il tuo servo esulterà.
  9. I miei accusatori saran vestiti di vituperio e avvolti nella vergogna come in un manto!
  10. Ad alta voce io celebrerò l'Eterno con la mia bocca, lo loderò in mezzo a molti;
  11. perché Egli sta alla destra del povero per salvarlo da quelli che lo condannano a morte.

Dopo aver dato suggerimenti a Dio su come trattare il traditore che capeggia la schiera dei suoi accusatori, Davide chiede al Signore di rivolgere a lui la sua attenzione. 
  La richiesta di aiuto di Davide non è generica, ma si basa su tre motivi.
  Il primo riguarda Dio stesso.

  1. Ma tu, Eterno, o Signore, opera in mio favore, per amore del tuo nome; poiché buona è la tua misericordia, liberami!
Qui è in gioco il nome di Dio, perché è nel Suo nome che Davide sta combattendo questa guerra e adesso si trova assediato dai suoi nemici in una posizione senza via d'uscita. Liberami, supplica allora Davide, per amore del tuo nome, (le stesse parole del Salmo 23), perché è in gioco quello che si dirà di Te, e si dovrà riconoscere che la tua misericordia (חסד chesed) verso il tuo servitore è buona, cioè vincente contro tutti i suoi oppositori.
  Il secondo motivo riguarda Davide stesso.

  1. Perché povero e bisognoso io sono e il mio cuore è ferito dentro di me.
  2. Me ne vado come un'ombra che s'allunga, sono scosso via come una locusta.
  3. Le mie ginocchia vacillano per il digiuno, la mia carne deperisce e dimagra.

"Il mio nemico mi ha visto povero e bisognoso, - potrebbe dire Davide - e invece di impietosirsi di me ha voluto sfruttare proprio la mia situazione di debolezza per colpirmi al cuore, e adesso il mio cuore è ferito dentro di me. La mia vita appare senza speranze, sono come un'ombra che s'allunga con il calar del sole, e quando il sole sparirà, sparirò anch'io senza che nessuno vi ponga attenzione. Mi scuotono di dosso come si fa con un insetto fastidioso."
  Come reagisce Davide a questo stato di cose? Come vive la misera situazione in cui si trova? Io resto in preghiera, aveva detto all'inizio del Salmo, e certamente ha continuato. Ha praticato anche il digiuno, per essere meglio udito dall'Eterno e convincerlo a non tacere, a far sentire a tutti la Sua autorità. Ma come risultato ha ottenuto che adesso è prostrato non solo nell'animo (il mio cuore è ferito dentro di me), ma anche nel corpo (la mia carne deperisce e dimagra). 
  Davide ha cercato di impietosire il Signore. E' sbagliato? Certamente no, ma quando la cosa a quel che sembra "non funziona" la fede è messa duramente alla prova.
  Il terzo motivo riguarda i suoi accusatori.

  1. Sono diventato un obbrobrio per loro; mi guardano e scuotono il capo.
  2. Aiutami, o Eterno, Dio mio, salvami secondo la tua benignità.
  3. E sappiano essi che questa è la tua mano, che sei tu, o Eterno, che agisci.

La valanga di accuse scatenata sulla vittima scelta da "bocca di malvagio e bocca d'inganno" ha ottenuto il suo effetto: agli occhi dei suoi nemici Davide ormai è un relitto che provoca avversione. Lo "guardano e scuotono il capo".  Per gustare il senso di questo modo biblico di esprimersi si può pensare a Geremia che ascolta le esclamazioni di coloro che vedono le rovine di Gerusalemme dopo la sua distruzione da parte dei Babilonesi:

    "Tutti i passanti battono le mani al vederti; fischiano e scuotono il capo al vedere la figlia di Gerusalemme: 'È questa la città che la gente chiamava una bellezza perfetta, la gioia di tutta la terra?" (Lamentazioni 2:15).

Un atteggiamento simile hanno i nemici di Davide vedendo come ormai lui è ridotto: scuotono il capo con parole di scherno commiserante: "E sarebbe questo l'unto del Signore che dovrebbe regnare su Israele?"
  Si capisce allora il grido di Davide: "Aiutami, o Eterno," perché non sono io che mi sono fatto avanti, sei Tu che mi hai scelto, "questa è opera della tua mano". Loro mi guardano e non ci credono: per questo ti dico: salvami secondo la tua benignità, affinché sappiano essi, che non sono io ad avere la capacità di vincere, ma sei tu, o Eterno, che agisci." 
  Come già detto, nel  salmo 109 la questione è politica. Politica di Dio, perché si tratta del Suo regno. E poiché è in gioco il re da Lui designato, l'Eterno non si limita ad osservare, sentenziare, giudicare, ma alla fine agisce.
  Nel salmo tuttavia l'azione di Dio in soccorso del suo servitore non si vede; si vede però la solida fede di Davide nel credere che prima o poi Dio farà scendere su di lui la Sua benedizione: ad esultare  per la vittoria alla fine sarà lui, non i suoi accusatori.

  1. Essi malediranno, ma tu benedirai; s'innalzeranno, ma saranno confusi, e il tuo servo esulterà.
  2. I miei accusatori saranno vestiti di vituperio e avvolti nella vergogna come in un manto!

Anche se il detto popolare "tutti i salmi finiscono in gloria" non è vero per tutti i salmi, si applica però particolarmente bene al salmo 109. Davide, che ha iniziato la sua supplica in modo personale con le parole O Dio della mia lode, alla fine annuncia che darà gloria a Dio in modo pubblico e a chiare lettere: 

  1. Ad alta voce io  celebrerò l'Eterno con la mia bocca, lo loderò in mezzo a molti;
  2. perché Egli sta alla destra del povero per salvarlo da quelli che lo condannano a morte.

Davide ha sentito sulla sua pelle che chi lo odia desidera e cerca la sua morte. La sentenza su di lui è già pronunciata: per i suoi nemici è come un morto che cammina in attesa di giacere per sempre. Ma Davide conosce il Signore e sa che "Egli sta alla destra del povero", dunque sta alla sua destra, perché nella sua preghiera gli aveva detto implorando: povero e bisognoso io sono. E poiché sta scritto “L'Eterno è colui che ti protegge; l'Eterno è la tua ombra; egli sta alla tua destra” (Salmo 121:5), se i nemici di Davide lo condannano a morte, lui sa che alla sua destra si trova l'Eterno che lo protegge per salvarlo da quelli che lo condannano a morte. È questo il motivo della sua esultanza. 

Dopo questa analisi puntuale del contenuto del salmo, versetto per versetto, si può cominciare a fare qualche riflessione. 
  La problematicità del salmo si trova in sostanza nel versetti da 6 a 20. Se si prova a toglierli, il discorso scorre via liscio e si otterrebbe un salmo collocabile nel genere delle lamentazioni, come se ne trovano diversi nel Salterio. Naturalmente per gli studiosi storico-critici della Bibbia questa potrebbe essere la soluzione giusta, come nel caso del libro di Giobbe: si taglia. Nello splendido mosaico della rivelazione biblica molti che non ne capiscono o non ne accettano il messaggio trovano intelligente staccare tessere qua e là, spostarle, ridipingerle, adattarle, reincastrarle, o del tutto buttarle via. E quello che ottengono li soddisfa. Del resto ne hanno motivo, perché è opera delle loro mani, e ha una debolissima attinenza con l'opera originale. 
  Il metodo qui usato è diverso. Il mosaico non si tocca: si possono comprenderne parti particolari soltanto riuscendo a scoprire qual è il loro significato all'interno del tutto. Ma se non si capisce il tutto, è vano sperare di capirne le parti. Non è detto che sia sempre facile scoprire qual è il significato del particolare all'interno del tutto, ma è in questa direzione che va fatto lo sforzo.
  Se stacchiamo dal Salmo 109 i "versetti terribili" da 6 a 20, e lo mettiamo così ridotto a confronto col Salmo 22, si possono scoprire interessanti analogie espressive tra i due testi. Elenchiamone alcune:

SALMO 109  SALMO 22 
1. O Dio della mia lode, non tacere, 2. O Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
3. Mi hanno circondato con parole d'odio, mi hanno fatto guerra senza motivo. 12. Grandi tori mi hanno circondato; potenti tori di Basan mi hanno attorniato; aprono la loro gola contro di me,
21. Ma tu, o Eterno, o Signore, opera in mio favore, per amore del tuo nome; poiché la tua misericordia è buona, liberami, 20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane; salvami dalla gola del leone.
24. Le mie ginocchia vacillano per il digiuno, la mia carne deperisce e dimagra. 15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi si attacca al palato; tu mi hai posto nella polvere della morte.
26. Aiutami, o Eterno, mio Dio, salvami secondo la tua benignità, 11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.
29. I miei accusatori saranno vestiti di vituperio e avvolti nella vergogna come in un manto! 29. Tutti i potenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendono nella polvere e non possono mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
30. Ad alta voce io celebrerò l'Eterno con la mia bocca, lo loderò in mezzo a molti; 22. Io annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.

La tradizione cristiana più ampia, sia cattolica sia evangelica, riconosce il salmo 22 come "salmo messianico", prefigurante la sofferenza di Cristo sulla croce e la sua successiva glorificazione, in compimento della profezia di Isaia 53. 
  Dopo un confronto come quello presentato nella tabella precedente, e magari ancora più approfondito, sarebbe plausibile assegnare anche al "salmo 109 emendato" la qualifica di "salmo messianico", perché nelle parole accorate di Davide si può vedere una prefigurazione delle sofferenze morali di Cristo prima della sua condanna a morte.
  Ma se il testo deve rimanere intatto, come si giustifica la presenza di quei versetti terribili in un salmo che certamente Gesù ha letto e recitato durante il suo percorso di sofferenza sulla terra? E' una domanda che ha tormentato Charles Spurgeon nel suo commentario: 

    «Non si può ammettere - scrive - che questo salmo contenga quello che un autore ha osato definire 'uno spietato odio, una raffinata e insaziabile malignità'. A una simile conclusione non possiamo cedere, no, neppure un momento. Ma che altro si può dire di questo strano linguaggio? Veramente, questo è uno dei posti più duri della Scrittura, un passaggio che l'anima trema a leggere [...] Ascrivere questa amara denuncia al nostro Signore nell'ora della sua sofferenza è più di quello che osiamo fare. Questo non è coerente col suo silenzio di Agnello di Dio, che non apre la bocca quando viene condotto al macello.»

In conclusione si può dire che con la sua spiegazione Spurgeon "gira intorno" al problema senza indicarne una soluzione. Collega le parole imprecatorie di Davide con riferimenti culturali di vario genere per poi riconoscere di aver forse contribuito assai poco alla chiarificazione del testo. E alla fine si chiede: "Che dire? Non è forse bene per noi avvertire, ogni tanto,  che non siamo capaci di capire tutte le parole e i pensieri di Dio?" E questa sua sincerità è forse la parte migliore del suo commento al salmo. Il problema c'è - ha detto - ed è ancora lì. 
  Una proposta di soluzione al problema si può trovare invece in ambito cattolico:

    «L'antica tradizione cristiana non ha esitato a ravvisare nel giusto perseguitato del salmo il Cristo e a considerare il salmo come una profezia della sua passione, e come lamento di Cristo, il quale rimprovera ai suoi nemici e specialmente ai Giudei e a Giuda di averlo circondato con parole di odio, e di averlo combattuto senza motivo, di aver ricambiato il suo amore con accuse, il bene con il male e l'amore con odio, mentre egli pregava per essi,
    Ora, se il salmo è considerato dalla tradizione preghiera di Cristo, possiamo ancora una volta domandarci come si giustifichino sulla bocca di Cristo le maledizioni contenute nel salmo.
    La risposta sta nel fatto che i Giudei non credendo a Cristo, ma volendo che il suo sangue ricadesse su di loro e sui loro figli (cf Mt 27,25), e condannandolo a morte, per ciò stesso, hanno rifiutato la benedizione di Dio. 
    Dice il salmo: « Perché ha rifiutato di usare misericordia e ha perseguitato il misero e l'indigente, per far morire chi è affranto di cuore. Ha amato la maledizione: ricada su di lui! Non ha voluto la benedizione: da lui si allontani! (16-17).»
    (I Salmi, preghiera di Cristo e della Chiesa, Spirito Rinaudo, Elledici, 2004)  

Il commentario prosegue presentando la maledizione invocata da Davide sui suoi avversari come espressione del rigetto da parte di Dio di un Israele che aveva rigettato la benedizione offertagli da Gesù. E' una spiegazione che si inserisce bene nella tradizionale dottrina cattolica antigiudaica; e indipendentemente dalla sua validità, ha in ogni caso il merito di mettere in evidenza che per essere accettata o respinta si deve fare riferimento al centro del messaggio biblico nella sua totalità. La spiegazione proposta infatti  fa intervenire in modo essenziale elementi biblici fondamentali come il posto di Israele nella Bibbia e la figura del suo Messia. Questo conferma che quando si affrontano certi passaggi difficili della Bibbia, non si può capire la parte se non si capisce il tutto. 
  Ma poiché, stando al circolo ermeneutico, è anche vero che non si può arrivare al tutto senza passare per le parti, lo sforzo da fare deve partire dalla decisione irremovibile di non togliere dal tutto la parte scomoda, né di accantonarla con motivazioni al limite dell'onestà, ma di far partire proprio da lì il tentativo di arrivare non soltanto a dare una qualche spiegazione della parte, ma di capire meglio il centro del tutto.
  E' quello che si tenterà di fare nel seguito.

M.C.
(3. continua)

(Notizie su Israele, 28 agosto 2022)


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Iran: capo Mossad mette in guardia su accordo nucleare

Barnea ritiene che l’accordo a lungo termine renderà più facile per l’Iran cercare di ottenere un’arma nucleare

Il capo del Mossad israeliano, David Barnea, ha avvertito che l’imminente accordo nucleare con l’Iran sarebbe un “disastro strategico” se firmato. Barnea ritiene che l’accordo a lungo termine renderà più facile per l’Iran cercare di ottenere un’arma nucleare.
  Secondo il capo del Mossad, l’unica cosa che sta cambiando ora sono le “tattiche di accordo” iraniane, che sono sponsorizzate delle grandi potenze, guidate dagli Stati Uniti.
  “L’Iran tornerà all’accordo perché Teheran e gli Stati Uniti hanno un interesse strategico in tal senso. La possibilità di firmare gli accordi è vicina al 100%”.
  Nel suo incontro con Lapid, Barnea ha avvertito che la firma consentirà agli iraniani di raggiungere capacità molto grandi, citando le centinaia di miliardi di dollari che entreranno nel Paese una volta revocate le sanzioni.
  Barnea ha indicato che questi fondi aiuteranno Hezbollah, la Jihad islamica palestinese, gli Houthi, le milizie fedeli a Teheran, la brigata Quds e Hamas, aggiungendo che questo pone grandi sfide nell’area per gli Stati Uniti e Israele.
  Il capo del Mossad teme che alcuni paesi della regione considerino l’Iran un “modello” e che sarà difficile per Israele affrontare una significativa espansione iraniana.
  Barnea ha spiegato nei suoi briefing che l’accordo che sta per essere firmato sarà peggiore di quello del 2015.

(Futuro Quotidiano, 27 agosto 2022)

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Dopo l'ultimo attacco israeliano, tutti i sistemi S-300 sono improvvisamente scomparsi in Siria

FOTO
I sistemi missilistici antiaerei S-300 precedentemente messi in servizio con la Siria sono improvvisamente scomparsi da un'area appositamente creata della sua base. I complessi erano situati nell'area di Masyaf, che, durante il loro ultimo raid, è stata presa di mira dagli aerei da guerra israeliani, che negli ultimi tre mesi hanno attivamente distrutto i sistemi di difesa aerea siriani.
  Lo dimostrano le immagini satellitari israeliane, che mostrano che nell'area di prima posizione non ci sono più apparecchiature radar o lanciatori mobili. È interessante notare che ciò è accaduto dopo che Israele ha lanciato alcuni giorni fa i suoi attacchi nell'area di Masyaf e ha distrutto, secondo fonti locali, diversi sistemi di difesa aerea (il loro tipo non è stato specificato). Non ci sono tracce di scioperi nell'area di schieramento dei sistemi missilistici antiaerei S-300, tuttavia, dato che il complesso comprende un gran numero di apparecchiature, questo fatto solleva non pochi interrogativi. Preoccupazioni molto più serie sono il fatto che nel maggio di quest'anno Israele ha annunciato ufficialmente che i sistemi S-300 siriani sono stati attaccati da combattenti israeliani, il che, secondo la parte israeliana, è una violazione degli accordi tra Gerusalemme, Mosca e Damasco che in risposta al mancato utilizzo di questi complessi da parte dell'esercito siriano, quest'ultimo non sarà attaccato da aerei da combattimento israeliani.
  Al momento non ci sono dichiarazioni ufficiali né dell'IDF né di Damasco.

(AVIA PRO, 27 agosto 2022)

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Israele - La destra più estrema vola nei sondaggi e Ben Gvir è la sua stella

Riportiamo questo articolo di un autore notoriamente anti-israeliano perché sia pure dal suo punto di vista fornisce informazioni di attualità su Israele che su altri fogli non si trovano. NsI

di Michele Giorgio

Nel febbraio 2021, dopo aver orchestrato un partito unito dell’estrema destra, alleato del suo, il Likud, l’ex premier Benyamin Netanyahu, oggi capo dell’opposizione, dichiarò che avrebbe voluto Otzma Yehudit (Potere ebraico) nella sua maggioranza. Ma, precisò, il suo leader, l’ultranazionalista e nemico giurato degli «arabi» (i palestinesi) Itamar Ben Gvir «non era idoneo» a diventare ministro. Da allora è passato un anno e mezzo e il deputato Ben Gvir di strada ne ha fatta e di consensi ne ha conquistati tanti, grazie a una incessante campagna contro i palestinesi, condotta da nord a sud, in Israele come nei Territori occupati. E Netanyahu, dovesse vincere le elezioni legislative del primo novembre, dovrà assegnare all’uomo che guida Otzma Yehudit un ministero importante.
  Se si votasse oggi in Israele, la sorpresa sarebbe proprio Otzma Yehudit, partito erede di quello razzista Kach, fuorilegge. I sondaggi gli assegnano fino a nove seggi. Ben Gvir, inizialmente non intendeva apparentarsi come nel 2021 con l’affine leader di Sionismo Religioso, Bezalel Smootrich, che, invece, da solo, faticherebbe a superare la soglia di sbarramento elettorale (3,25%). Poi ha cambiato idea. Sempre i sondaggi dicono che il blocco di destra – guidato dal Likud di Netanyahu – assieme ai partiti religiosi ultraortodossi e all’estrema destra unita dovrebbe raggiungere la quota di 61 seggi, la maggioranza alla Knesset. Per questo l’ex premier ieri ha convocato a Cesarea Ben Gvir e Smotrich, convincendoli a mettere da parte le divergenze e a rinnovare l’alleanza che li ha visti vincere sei seggi alle politiche dello scorso anno. L’estrema destra unita potrebbe ottenere anche 13 seggi. Invece Sionismo Religioso, fallendo l’ingresso in parlamento, avrebbe buttato via migliaia di voti utili al blocco di Netanyahu.
  La stella dell’estremismo ormai è Itamar Ben Gvir. La sua campagna per le elezioni del prossimo novembre di fatto è iniziata appena dopo le elezioni del 2021. Non ha perduto un’occasione per creare tensioni con i suoi nemici, i palestinesi. Con dichiarazioni velenose e provocazioni. Avvocato di professione – assiste i coloni israeliani e gli estremisti di destra – qualche mese fa con i suoi seguaci ha montato una tenda a pochi metri dall’abitazione della famiglia palestinese Salem, minacciata di espulsione da Sheikh Jarrah, nella zona Est occupata di Gerusalemme, facendone il suo «studio parlamentare» a tempo indeterminato. Una presenza, ora meno assidua, che ha provocato scontri tra palestinesi e coloni, violenze, manifestazioni e che non è stata mai sanzionata. Anzi, ha accresciuto la popolarità di Ben Gvir nei settori più nazionalisti della società israeliana.
  Ben Gvir è un ardente ammiratore del rabbino razzista Meir Kahane (assassinato negli Usa), che sosteneva la deportazione di tutti gli «arabi», anche quelli con cittadinanza israeliana. All’età di 19 anni, attirò l’attenzione nazionale per un’intervista televisiva, nell’ottobre 1995, settimane prima dell’assassinio di Yitzhak Rabin, in cui mostrò il fregio della Cadillac strappato dall’auto del primo ministro e dichiarò: «Siamo arrivati ​​alla sua macchina; arriveremo anche a lui».
  Oggi Ben Gvir ha ammorbidito la sua richiesta di deportare tutti i palestinesi, dichiarando che vuole espellere «solo» gli arabi che ritiene «sleali». Allo stesso tempo si è alleato con due movimenti tra i più estremisti: il suprematista ebraico, Lehava, e l’omofobo Noam. Le posizioni più radicali e le alleanze politicamente scorrette non lo danneggiano, anzi. Ben Gvir ora conta di tramutare i consensi in voti il primo novembre. Per l’analista Michael Warshansky «Le prossime elezioni non rappresentano solo la rivincita di Netanyahu, probabilmente destinato a tornare al potere. Sono anche lo sdoganamento politico definitivo di Ben Gvir e della destra più estrema e razzista».

(il manifesto, 27 agosto 2022)

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Ruth Shammah: «Dario Fo non voleva fare l’attore, ho messo la cocaina sulla bara di Strehler»

La regista: «Nel ’68 io ero contro chi contestava». «Con Franco Parenti la bella avventura del Pier Lombardo e del Teatro». «Strehler? Un visionario», «Ai funerali di Craxi Berlusconi piangeva a dirotto».

di Roberta Scorranese

Ruth Shammah
Geniale, caotica, sempre in movimento. L’irrequietezza come temperamento e forse un motivo c’è: Andrée Ruth Shammah è figlia di una fuga. Quella di una famiglia sefardita di Aleppo, ebrei che per «scappare dai pogrom arabi prima trovarono rifugio sui tetti e poi si dispersero nel mondo». Gli Shammah capitarono a Milano, nel 1948 nacque Andrée, «e forse — racconta — i miei nemmeno sapevano bene che cosa era Milano. L’idea era di andare in Giappone. Ma rimanemmo». Quattro sorelle, tra le quali lei: intelligente, vivace, amante del teatro. Il padre faceva tutt’altro: investimenti finanziari, consulenze, insomma si occupava di soldi.

- Lei però è diventata un’apprezzata regista. Come ha cominciato?
  «Incontrai Giovanni Testori per motivi che nulla avevano a che fare con il teatro. Papà faceva investimenti nel mondo dell’arte, Giovanni era un appassionato di pittura. Per anni sono andata nello studio di Testori, in via Brera, nel pomeriggio. Caffè, conversazioni su arte e teatro. Fu il mio apprendistato di ragazza ebrea ma allieva di una scuola cattolica, milanese ma di origini aleppine».

- Milano, negli anni Sessanta, era un laboratorio di linguaggi. La lingua di Carlo Porta veniva rielaborata a teatro, c’era il «grammelot» di Dario Fo.
  «E la mia prima regia fu nel ‘73, con l’Ambleto di Testori, rivoluzione del concetto di idioma. Ma tutto era cambiato con le contestazioni del ‘68: Strehler se n’era andato dal Piccolo, Paolo Grassi voleva rinnovare, chiamò Franco Parenti. E mi chiese di fargli da assistente alla regia, anche perché Franco era molto giù. Era da poco stato lasciato da Benedetta Barzini, per la quale lui aveva detto addio a moglie e figli. All’inizio non lo sopportavo: mi irritava per come parlava. E poi tenga conto che a Milano in quel periodo c’era Marco Bellocchio, che faceva cose fighissime».

- Poi il legame con Franco. Per la verità, breve, dal ‘72 al ‘73. Ma esattamente cinquant’anni fa, insieme, avete fatto nascere il Salone Pier Lombardo, che si chiama Teatro Franco Parenti dal 1989.
  «E ne abbiamo fatto un esempio unico di teatro privato con funzione pubblica. Se io oggi devo fare un qualsiasi lavoro qui, devo andare a chiedere ai sostenitori. Mille, duemila, cinquemila euro. E vado di persona, meno male che tutti riconoscono la qualità di quello che facciamo».

- Che tipo era Franco?
  «Coerente. Fermo nelle sue idee, anticonformista, se necessario controcorrente. Quando mise in scena Claudel, un autore cattolico, il Pci gliene disse di ogni. Oddio, il Pci bacchettone non ammetteva neanche le parolacce nei testi di Carlo Porta. E anche Dario Fo non era d’accordo su Claudel, ne discussero a lungo, Dario cercava di dissuaderlo. Franco gli disse: “Vedi, Dario, tu fai sempre te stesso e va bene, io però non ho bisogno di ripetere me stesso”».

- Che rapporto c’era con Fo e Rame?
  «Buono. Dario studiava architettura e per mantenersi scriveva degli sketch. Franco faceva il personaggio di Anacleto il gasista alla radio, in corso Sempione, e allora era consuetudine che i giovani autori lasciassero nel camerino degli attori affermati questi foglietti con delle piccole scene. Parenti rimase colpito dalla bravura di Dario e lo invitò per parlare. Insisteva: devi fare l’attore. Ma Dario non voleva fare quello. In ogni caso, iniziò un sodalizio e poteva durare di più, ma Franca sognava la televisione».

- Com’era Silvio Berlusconi prima di diventare Silvio Berlusconi?
  «Senta questa. Una volta Silvio incontra Franco in aereo. Gli dice: “Venga a trovarmi, io se vuole le apro un teatro”. Parenti torna a Milano e mi fa: “Ho incontrato un industriale che vuole finanziare un teatro, ma io ho la sensazione che voglia il suo teatro”. Non se ne fece niente. Però mi ricordo che ai funerali di Craxi Berlusconi piangeva a dirotto. Tenga presente che quando Craxi cadde in disgrazia a Milano non si trovava più un socialista, spariti tutti».

- Craxi. È vero che le offrì la direzione del Teatro Stabile di Roma?
  «E io gli risposi: “Ma che ci vengo a fare a Roma se ho un teatro qui a Milano? Finanziami questo, se puoi”. Ma lui non poteva, e insomma eravamo punto e a capo, ce la siamo sbrigata noi».

- Erano lottizzati anche i teatri?
  «Eccome. Ma almeno sapevi chi faceva cosa. Gabriele Salvatores in area socialista all’Elfo, per dire. Il Parenti però restava fuori, non eravamo ingabbiabili».

- Strehler. Lei lo ha conosciuto molto bene. Se dovesse raccontarlo in breve?
  «Un visionario, un grande uomo di teatro. Le racconto questa. Maggio Musicale Fiorentino, lui sta provando. Valentina Cortese cerca di farlo mangiare, mi manda a prendere due vassoi con sei paste di riso ciascuno. Lei gliene offre una. Lui, insofferente, “Ma non vedi che sto lavorando?”, però intanto allunga dietro una mano e la prende. Lei, di volta in volta, sostituisce il dolce mancante attingendo dall’altro vassoio. Morale: alla fine il maestro ha mangiato ma ha dato a vedere di non mangiare».

- Cortese gli era legata?
  «Al suo funerale io e Valentina, per rendergli omaggio, abbiamo messo due righe di cocaina sulla bara. Glielo dovevamo».

- Un altro suo grande sostenitore è stato Eduardo De Filippo. È così?
  «Non dimenticherò mai quella volta in cui venne a teatro e, davanti a tutti, mi definì “a shamma”, che in napoletano vuol dire “fiamma”. Fu bellissimo, anche perché era un sostegno a una figura facilmente attaccabile: una donna sola, che molti continuavano a definire con malizia la compagna di Franco. Ma in questo teatro si è fatto di tutto».

- Anche il pane, vero?
  «Certo, nei programmi dedicati ai bambini. Ma abbiamo fatto anche i matrimoni. Oggi c’è una piscina, si organizzano dibattiti».

- Lei non ha fatto il ‘68?
  «No, anzi, mi schierai con Paolo Grassi contro chi lo contestava. D’altra parte io, ebrea, nutrivo grande ammirazione per il cardinal Martini. Sempre controcorrente»

(Corriere della Sera, 27 agosto 2022)

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''A Basilea ho fondato lo Stato ebraico''. Il Congresso Sionista celebra il sogno di Herzl e i suoi 125 anni

di Claudia De Benedetti

Theodor Herzl convocò il Primo Congresso Sionista a Basilea, in Svizzera, il 29 agosto 1897. Nel 125° anniversario dell’evento, che portò alla nascita dell'’Organizzazione Sionista Mondiale - WZO - organismo fondamentale per la storia del popolo ebraico prima e dopo la fondazione dello Stato d’Israele, l’Organizzazione Sionista Mondiale ha organizzato a Basilea un Congresso cui sono attesi oltre 1.100 partecipanti, tra cui la Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello. Ospite d'onore sarà il Presidente di Israele Isaac Herzog, accolto, tra gli altri, dal Presidente federale svizzero Ignazio Cassis. Il momento culminante si terrà, a 125 anni di distanza, nello stesso luogo in cui si svolse il Primo Congresso Sionista: lo Stadtcasino di Basilea.
  Il programma dei lavori, alla presenza di oltre 500 relatori di fama internazionale, prevede sessioni di riflessione incentrate sulle sfide e sulle proposte di rafforzamento del movimento sionista nella diaspora e in Israele, contenuti artistici e multimediali in cui vengono proposte le visioni del sionismo di Theodor Herzl di ieri e quelle dei leader sionisti di oggi, con uno sguardo rivolto alla formazione delle nuove leve del futuro.
  Il Centro Congressi della Messe Basel ospiterà due forum prestigiosi: la "Herzl Leadership Conference", in cui verranno discussi i moderni approcci al sionismo e l’"Herzl Social Impact Entrepeneurship Summit", che riunirà 125 giovani imprenditori e investitori leader nel campo delle iniziative socio-economiche provenienti da tutto il mondo.
  Oltre alle celebrazioni ufficiali da maggio l’Università di Basilea ha organizzato un ciclo di conferenze intitolato "1897. Utopie del sionismo" e un workshop sul legame tra religione e politica, a partire dal Primo Congresso Sionista e dalle sue conseguenze. "Basel in Conversation", è un ulteriore appuntamento proposto dal Cantone con il Gruppo di lavoro cristiano-ebraico di Basilea e la Chiesa aperta di Elisabethen.
  Yaakov Hagoel, Presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale, nel messaggio di benvenuto ai congressisti ha scritto: “Cari amici, molti di noi sono nati nello Stato di Israele, un paese indipendente, forte e basato sui valori e sugli ideali ebraici. Ma se solo pensiamo alle cinque generazioni che ci hanno preceduto, per loro era un sogno lontano. La visione di chi aveva profetizzato la rinascita dello Stato ebraico è diventata lentamente realtà. In una sala conferenze di Basilea, i cuori dei delegati del Primo Congresso Sionista furono smossi, aprendo la strada alla creazione dello Stato ebraico. ‘Tra cinque anni, forse, e certamente tra cinquanta, tutti lo percepiranno’, diceva il visionario dello Stato, Theodor Herzl. La sua speranza e il suo sogno si sono realizzati. Da qui, da Basilea, dove il popolo d’Israele si è risvegliato da duemila anni di esilio e si è unito da ogni angolo della terra per tornare finalmente a casa, sono entusiasta di celebrare con voi questo evento fondamentale. Pensando al futuro dei nostri figli, nipoti e pronipoti, continueremo a lottare per una società giusta, con una forte attività sionista, per rafforzare il destino condiviso e l'unità d’ Israele.

(Shalom, 26 agosto 2022)

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Israele - Presto aprirà nuova autostrada per Gerusalemme

La prossima settimana aprirà la nuova autostrada di ingresso a Gerusalemme da sud-ovest. A confermarlo è stato il ministero dei Trasporti di Israele, che specifica che la nuova autostrada renderà più facile viaggiare a Gerusalemme. I critici tuttavia sostengono che questa intaserà ulteriormente il traffico nella città e renderà più difficile uscire dal suo perimetro.
  La strada, di sei chilometri, comprende quattro tunnel, sette ponti e tre svincoli a Motza, Ravida (Givat Shaul) e Byte. Il limite di velocità su strada sarà di 80 chilometri orari.
  La strada è stata realizzata per il ministero dei Trasporti da Netivei Israel al costo di 2,5 miliardi di shekel (circa 770 milioni di euro) e il contratto include anche 20 anni di manutenzione. La gara per la costruzione e la manutenzione è stata vinta da Shapir-Pizzarotti, società partecipata in parti uguali da Shapir Engineering e dalla società italiana Impresa Pizzarotti.
  Il progetto è stato completato con più di un anno di anticipo rispetto al previsto: secondo Shapir-Pizzarotti la tempistica è stata anticipata grazie all’accelerazione dei lavori durante la pandemia di Covid. L’autostrada ridurrà i tempi di percorrenza verso i sobborghi occidentali e meridionali di Gerusalemme e si stima che alleggerirà la congestione sulle autostrade di ingresso esistenti a Gerusalemme da ovest: la nuova autostrada era in progetto da molti anni ma il suo completamento contraddice l’ultimo approccio ai trasporti del Comune di Gerusalemme, che pone i pedoni e i trasporti pubblici come priorità assoluta.

(infoMercatiEsteri, 26 agosto 2022)

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L’Iron Dome made in Israel proteggerà Cipro

di Paolo Castellano

Cipro ha deciso di dotarsi del sistema antimissile israeliano Iron Dome. La notizia è trapelata il 21 agosto, dopo che il Ministero della Difesa dello Stato ebraico ha dato la sua approvazione alla vendita dell’arma difensiva al governo cipriota.
  Come riporta il Jerusalem Post, l’accordo è stato firmato sia dai funzionari ciprioti che da quelli israeliani. La Guardia nazionale cipriota ha uno strumento in più per proteggere l’isola da eventuali minacce militari. In particolare, Iron Dome è considerato il sistema ideale sia per la difesa dello spazio aereo sia per neutralizzare la minaccia dei droni turchi.
  Cipro ritiene che l’arma israeliana sia la migliore al mondo per ciò che riguarda l’intercettazione di minacce aeree. La sua efficacia è stata ampiamente dimostrata durante le recenti escalation militari innescate dai gruppi terroristici presenti nella Striscia di Gaza.
  Per di più, a marzo il capo della Guardia Nazionale di Cipro, il tenente generale Demokritos Zervakis, ha visitato lo Stato d’Israele come ospite del capo di stato maggiore dell’IDF, il tenente generale Aviv Kohavi. Durante la sua visita, Zervakis si è recato al confine con il Libano e ha esaminato dal vivo una batteria Iron Dome.
  Inoltre, i rapporti militari con Israele si sono maggiormente consolidati quando a giugno Cipro ha firmato un accordo con lo Stato ebraico per dei dispositivi personali di protezione per l’esercito cipriota. L’equipaggiamento include sistemi di trasporto tattico e di difesa individuale.
  «La cooperazione in materia di difesa tra Cipro e Israele continua a crescere e a estendersi», ha dichiarato il ministro della Difesa Charalambos Petrides. «Siamo orgogliosi che questa cooperazione sia in tandem con le nostre eccellenti relazioni bilaterali e rifletta il modo in cui i paesi vicini dovrebbero lavorare per promuovere la pace e la stabilità».

(Bet Magazine Mosaico, 26 agosto 2022)

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Presidente israeliano in visita, quasi 6 milioni per la sicurezza

Isaac Herzog si recherà a Basilea in vista del 125° anniversario del primo Congresso sionista

BASILEA - Le celebrazioni per il 125° anniversario del primo Congresso sionista si svolgono domenica e lunedì a Basilea. Tra gli ospiti ci sarà anche il presidente israeliano Isaac Herzog. I costi della sicurezza sono stimati in 5,7 milioni di franchi e per coprirli il Canton Basilea Città ha chiesto e ottenuto il sostegno finanziario della Confederazione.
  Per domenica la polizia - che si dichiara pronta per l'evento - segnala che vi saranno limitazioni temporanee alla circolazione a causa di una contromanifestazione. Non sono invece note minacce concrete contro il giubileo.
  Per l'occasione il Consiglio federale ha approvato una restrizione temporanea dell'uso dello spazio aereo. Le Forze aeree assicureranno un servizio di polizia e una sorveglianza rafforzata dei cieli sopra Basilea. L'Esercito metterà a disposizione un effettivo di 700 militari per coadiuvare le autorità civili nel quadro delle misure di sicurezza.
  I festeggiamenti sono previsti per il 28 e 29 agosto al casinò e al centro congressi di Basilea. All'evento sono attese più di 1'200 persone da tutto il mondo.
  La città renana è considerata la "levatrice" dello Stato ebraico di Israele, secondo le parole di Ralph Lewin, presidente della Federazione svizzera delle comunità israelite. Il primo congresso sionista si tenne infatti alla fine di agosto del 1897 nella sala concerti del casinò di Basilea su iniziativa di Theodor Herzl ed è considerato la base per la successiva fondazione dello Stato di Israele. Dieci dei 22 congressi sionisti che hanno preceduto la creazione di Israele si sono tenuti a Basilea.

(tio.ch, 26 agosto 2022)

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L’agosto del ‘29 a Hebron, Gerusalemme e Safed: le stragi più terribili prima della fondazione di Israele

di Ugo Volli

• Le origini del terrorismo
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Spesso gli antisionisti dicono che la colpa del terrorismo è “dell’occupazione” ebraica della Giudea e Samaria (e magari anche di Gaza, anche se gli ebrei non ci sono più da molti anni). Peccato che il terrorismo di stato (le guerre dei paesi arabi contro Israele) e quello di gruppi non statali, come l’OLP e le organizzazioni che vi aderiscono, siano ben precedenti alla Guerra dei Sei Giorni del 1967 e alla liberazione dei territori che ne fu la conseguenza. A questa obiezione i palestinisti replicano che il problema viene dalla costituzione dello Stato di Israele del 1948, un “furto” della terra palestinese e una “catastrofe”. Ma anche questa tesi, recentemente rilanciata da Mohamed Abbas nella sua famigerata conferenza stampa a Berlino sui “50 olocausti” è smentita dai fatti.

• Le stragi del 1929
  Alcune delle peggiori stragi di ebrei commesse dagli arabi in Terra di Israele risalgono al 1929, diciannove anni prima della proclamazione dello Stato di Israele. Non sono le prime, perché i pogrom iniziarono più di cent’anni fa, nel 1920-21. Ma quelle del ‘29 furono particolarmente efferate e generali; vale la pena di parlarne oggi perché si svolsero proprio in questi stessi giorni di fine agosto, distribuite soprattutto fra Gerusalemme, Hebron e Sefad, in tutto più di duecento assassinati, solo per la colpa di essere ebrei, quasi tutti religiosi e disarmati.

• Il problema della mechitzà
  La dinamica dei fatti è interessante, perché ricorda vicende attuali. La storia inizia dallo Iom Kippur (il giorno dell’espiazione) dell’anno precedente. Gli ebrei di Gerusalemme avevano l’abitudine come ora di pregare al Muro Occidentale del Tempio, il Kotel. Il luogo era però molto diverso da oggi, davanti al Muro non vi era uno spiazzo ma solo un vicolo e fino a che era durato il dominio ottomano, gli ebrei non avevano il permesso di portare niente in quel luogo, neppure sedie e leggii per pregare. Non era neppure permesso separare lo spazio degli uomini da quello delle donne, come la tradizione richiede per i luoghi di preghiera. Ma per Kippur, il 23 settembre 1928, gli ebrei di Gerusalemme portarono al Kotel un divisorio (in ebraico mechitzà) per adempiere a questo precetto. Tanto bastò a suscitare l’ira degli arabi che pretesero dagli inglesi la “tutela dello status quo” con rimozione dello schermo, che fu eseguita dai soldati britannici con notevole violenza, anche se senza vittime. In seguito Haj Amin al Husseini, il Muftì di Gerusalemme che in futuro sarebbe stato ospite e seguace di Hitler, fece distribuire volantini agli arabi del Mandato in cui si affermava che gli ebrei stavano progettando di impossessarsi della moschea di al-Aqsa e diceva che il governo inglese era "responsabile di qualsiasi conseguenza di qualsiasi misura che i musulmani potessero adottare allo scopo di difendere [quella parte della moschea ...] per prevenire una tale intrusione da parte degli ebrei." Le provocazioni continuarono. Nell'ottobre del 1928 il Gran Mufti organizzò una nuova costruzione vicino al Muro. I muli venivano guidati attraverso l'area di preghiera lasciando cadere spesso escrementi e le acque reflue venivano gettate sugli ebrei. Un muezzin fu incaricato di eseguire la chiamata islamica alla preghiera direttamente accanto al Muro, impedendo le preghiere ebraiche.

• Tishà beAv
  Dopo un po’ gli incidenti sembravano conclusi, ma la tensione montò di nuovo nel periodo precedente al digiuno del 9 del mese di Av, che quell’anno cadeva a fine agosto: il 15 una manifestazione ebraica con bandiere e slogan attraversò la città vecchia di Gerusalemme fino al Kotel. Il 16 arrivarono gli arabi, che andarono al Kotel a bruciare libri di preghiera e rotoli della Torà. Il 17 fu ferito un ragazzo ebreo a Meà Shearim, che morì il 20. IL 23 e 24 vi furono scontri in cui la polizia britannica scelse di schierarsi cogli arabi, in cui vi furono 17 morti nell’area di Gerusalemme. I pogrom continuarono nei giorni successivi.

• Hebron
  I disordini si estesero però subito nel resto del paese. La haganà, la forza di difesa che è l’antenata dell’esercito israeliano, temeva per la vita dei 600 ebrei di Hebron, stabiliti nella città da tempo immemorabile (Hebron è il luogo della tomba del patriarchi e la prima sede del regno di Davide, non vi era mai mancata una popolazione ebraica da oltre tremila anni). Gli uomini dell’autodifesa ebraica però furono respinti e contro gli ebrei di Hebron si scatenò il pogrom più terribile. 68 ebrei furono assassinati a freddo, inclusi vecchi, bambini, donne incinte; 58 feriti; parecchi torturati e violentati - dai loro vicini con cui avevano convissuto fino al giorno prima. Quel che restava fu poi obbligato dagli inglesi a evacuare la città. Chi oggi parla come “coloni” degli ebrei che abitano le case che appartenevano alla comunità di Hebron e furono allora allora dagli arabi, ignora che si tratta del bottino di questa strage.

• Il resto del paese
  Un’altra strage efferata fu quella di Safed, il 29 agosto, quando nella cittadina dell’alta Galilea furono uccisi 50 ebrei e 80 furono feriti. Il kibbutz Mishmar Ha Emek fu completamente distrutto. Attacchi arabi avvennero anche ad Acco, Haifa, Tel Aviv, Beit Shean, Ramat Rachel e in altre località minori. Gli ebrei furono costretti a evacuare i paesi a prevalenza araba come Jenin, Nablus, Gaza, Tulkarem. Se si vuole stabilire una data di inizio alla totale separazione fra arabi e ebrei che fino ad allora avevano convissuto, sia pur fra molti incidenti, essa risale proprio a quell’agosto di novantatré anni fa, quando sotto la direzione del muftì di Gerusalemme e con la tolleranza degli inglesi la popolazione araba cercò di eliminare gli ebrei, prima di tutto quelli religiosi che avevano sempre convissuto con loro, perché più deboli, disorganizzati e disarmati: il momento più terribile del terrorismo arabo (allora non era ancora chiamato palestinese) prima della fondazione dello stato di Israele.

(Shalom, 26 agosto 2022)

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Una luce di energia dal Negev

Anche dallo spazio Israele fa parlare di sé, grazie alla sua tecnologia solare. Vediamo perché.

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Nella sua nuova missione spaziale, attualmente in corso, “Mission Minerva”, l’astronauta Samantha Cristoferetti ieri è rimasta colpita da una luce che, in pieno giorno, si poteva osservare anche dell’orbita terrestre.
  La luce proveniva dal Negev.
  Di che si tratta?
  La risposta è semplice: della centrale solare israeliana di Ashalim.
  La centrale è entrata in funzione da pochi anni, e utilizza per la produzione di energia solare la tecnologia detta “a concentrazione” (CSP), alimentata da 50.600 pannelli solari (eliostati), disposti su una superficie di 3 chilometri quadrati intorno a una torre alta 250 metri, la più alta mai costruita nel mondo fino a oggi; ed è proprio questa torre che ha colpito l’occhio della nostra astronauta.
  La tecnologia utilizzata, sebbene più costosa rispetto al fotovoltaico a cui siamo abituati noi, garantisce però un flusso continuo di elettricità, anche quando non c’è il sole.
  Si tratta di un gioiello tecnologico made in Israel, dunque, perché se al mondo esistono già impianti che usano la tecnologia del solare a concentrazione, nessuno di  essi ha una torre così elevata. La torre, realizzata dalla Megalim Solar Power Ltd, peraltro è stata una scelta obbligata, per via del fatto che l’area su cui sono installati gli eliostati è relativamente ridotta, per cui è stato necessario alzare l’altezza della torre.

• Da quando è in funzione, la torre eroga energia solare per 130mila abitazioni.
  Ma non c’è solo questo gioiello tecnologico a costituire l’impianto. La torre infatti è solo una delle tre parti dell’impianto di Ashalim. Oltre al solare termico a concentrazione è presente un’area dell’impianto che serve allo stoccaggio dell’energia solare prodotta per renderla disponibile nel momento in cui il sole non ci sarà. Una terza zona, infine, produce energia elettrica mediante pannelli solari fotovoltaici tradizionali. A regime, si stima che la centrale entrerà in funzione, produrrà 310 megawatt pari all’1,6 per cento della domanda energetica di Israele, abbastanza per dare energia al 5% dei cittadini di Israele, circa 130mila abitazioni.
  Insomma, un esempio importante forse utile da studiare anche dalle nostre parti… oltre che dallo spazio

(Riflessi Menorah, 26 agosto 2022)

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Tel Aviv: l’Ambasciata organizza il primo simposio delle Missioni archeologiche italiane in Israele

TEL AVIV - L'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv organizza il primo Simposio delle Missioni Archeologiche Italiane in Israele. Nato da una collaborazione con l’Israel Antiquities Authority (IAA) e con il sostegno della Tel Aviv University, l’evento si terrà il 6 e 7 settembre rispettivamente a Tel Aviv e Acri e sarà intitolato “Italia e Israele: rotte, scambi, collegamenti”. 
  “L'obiettivo dell'iniziativa”, spiega l’ambasciatore Sergio Barbanti, “è quello di far conoscere gli importanti risultati raggiunti dalle missioni archeologiche italiane in Israele e dai loro partner locali, promuovendo nel contempo la reciproca conoscenza tra gli operatori del settore, nuove partnership e studiando possibilità per più intense forme di collaborazione”.
  Nella prima giornata a Tel Aviv, presso il Dipartimento di Archeologia della Tel Aviv University, i capi delle Missioni archeologiche prof.ssa Lemorini (Università La Sapienza, Roma), prof.ssa Luschi (Università di Firenze) e prof. Benente (Università di Genova) illustreranno con i partner locali (prof. Barkai di Tel Aviv University, dr. Lewis di Ashkelon Academic College e University of Haifa e dr. Edna ed Eliezer Stern di IAA) i risultati delle campagne di scavo, rispettivamente a Revadim, Qesem Cave e Jajuilia, ad Ashkelon e ad Acri.
  Nella seconda giornata ad Acri, Cittadella Crociata, il celebre medievalista italiano prof. Cardini inquadrerà le relazioni storiche tra Italia ed Israele. A seguire, importanti accademici dei due Paesi indagheranno le profonde connessioni tra Italia ed Israele a partire dalle rotte tra Mediterraneo orientale e occidentale (prof. Kashtan), i network tecnologici dell’agricoltura (prof. Avni, chief scientist di IAA), la presenza francescana in terra Santa (padre Alliata) e l’architettura romana a Gerusalemme (prof.ssa Boaretto). Spiccano il panel sull’archeologia subacquea che ospita importanti collaborazioni italo-israeliane a sfondo tecnologico (Sharvit, prof.ri Allotta, Scaradozzi e Artioli, Shelach, dr. Asscher) e la prima relazione sui risultati delle analisi su una spada medievale ritrovata nelle acque di Haifa nel 2021 (Gosker). Chiuderà il seminario un’intervista della prof.ssa Boaretto ai giovani ricercatori italiani nel Paese.
  In programma anche la ricostruzione di una cena bizantina (Uri Jeremias e prof. Lev) e una visita-lezione ai “luoghi italiani” di Acri (dr. Stern e prof.ssa Luschi), tra i quali la Chiesa di Sant’Andrea (padre Bahus) e San Giovanni Battista, nonché all’Istituto di restauro “Città di Roma” di Acri, danneggiato nel maggio 2021.

(aise, 26 agosto 2022)

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Machshevet Israel Gordon: terra e lavoro ‍‍

di Massimo Giuliani,

Non passi sotto silenzio il centenario della morte di un influente pensatore sionista del XX secolo: Aron David Gordon (1856-1922). Oggi poco studiato, nella prima metà del Novecento fu una figura assai carismatica di chalutz, di pioniere in eretz Israel, terra che ‘scelse’ in polemica con la proposta del Barone de Hirsch di costruire una colonia nazionale ebraica in Argentina: immigrò infatti nell’allora Palestina ottomana durante la storica seconda aliyà del 1904, stabilendosi in seguito nel kibbutz Deganya dove seppe coniugare le sue due vocazioni: il lavoro manuale della terra di Israele e il lavoro intellettuale nella forma di una filosofia del “ritorno alla natura” quale condizione imprescindibile per la rigenerazione della stessa nazione ebraica. Nel 1905 fondò il movimento Ha-po‘el ha-tza‘ir, ‘Il giovane lavoratore’ ispirato al suo nazionalismo umanistico, laico e socialista ma nel rispetto dell’elemento religioso, nel solco ebraico di Achad Ha’am (suo coscritto, e come Gordon nato in Ucraina) ma al contempo nel solco russo di Tolstoj (dal quale attingeva parte del suo naturismo semi-mistico). Non ha lasciato scritti sistematici, e il suo pensiero – che ha alimentato diverse generazioni di ebrei sionisti prima e dopo la nascita dello stato di Israele – fu disseminato in una vasta messe di articoli su quotidiani, riviste e opuscoli vari, in ebraico ma anche in tedesco e in russo. Ricordarlo serve anche a ricordarci delle radici ucraino-russe e tedesche di quei primi gruppi sionisti est-europei. I nazionalismi della prima metà del secolo scorso, che oggi riaffiorano minacciosi in Europa, sono stati una degenerazione dell’ideale nazionale elaborato da Gordon, che mai si sarebbe sognato di contrapporre i grandi valori etici della tradizione ebraica a quella che chiamava semplicemente una ‘rinascita nazionale’ per gli ebrei, ai quali quella dimensione politica e culturale era stata negata e che, assimilandosi, si erano imborghesiti e inurbati al punto da perdere il contatto fisico con la terra, la natura, gli animali. La riflessione gordoniana nasce da un’analisi dell’alienazione dell’uomo, dell’uomo ebreo in particolare, rispetto alla quale offrì terapeuticamente una sapiente combinazione di autonomia nazionale e di mistica del lavoro, di socialismo non marxiano e di idealismo tolstojano, di recupero delle tradizioni ebraiche e di fiducia palingenetica (tardo-romantica) nella creatività umana, il tutto nella straordinaria terra-madre che è, per gli ebrei, eretz Israel. Sebbene alcune di queste idee circolassero anche negli scritti di Achad Ha’am e Buber, Aron David Gordon fu diverso da loro perché davvero si rimboccò le maniche e passò anni a dissodare e seminare e irrigare la valle ai piedi della catena del Ghilboa. Non teorizzò sui lavoratori, abbracciò lui stesso il lavoro della terra, che ai suoi occhi attendeva da secoli il ritorno dei suoi figli; fu un sognatore socialista, non un sociologo marxista; visse la propria idea di uomo e a partire dal suo sionismo costruì una filosofia universale della rigenerazione sociale.
  Scriveva: “Dobbiamo trarre la nostra ispirazione dalla nostra terra, dalla vita sul nostro suolo e dal lavoro che essa richiede… Ciò che cerchiamo di stabilire in Palestina [come si diceva negli anni Dieci e Venti] è un nuovo popolo ebraico rigenerato, non una semplice colonia della diaspora ebraica: il nostro compito è fare della Palestina ebraica [oggi avrebbe detto dello Stato di Israele] la terra-madre di tutta l’ebraicità della diaspora”. La centralità di eretz Israel non sarebbe stata tale, secondo Gordon, se essa non avesse ispirato e stimolato l’intero ‘am Israel a riunirsi, a ripensarsi in quanto nazione (allora la dimensione politica era ancora appannaggio di gruppi sionisti elitari, che non apprezzavano i toni socialisti e romantici dei gruppi di matrice ‘orientale’ ossia est-europea) e a coltivare relazioni internazionali pacifiche con le altre nazioni, a partire dalla nazione araba. La terra pone, infatti, sia il problema del diritto al lavoro sia il problema della giustizia sociale nonché del benessere economico per tutti i suoi abitanti, e questi due problemi sono importanti proprio affinché tale terra dia i suoi frutti come descritto e cantato dai profeti. L’ingiustizia sociale e la negazione del diritto al lavoro precluderebbero, di conseguenza, la stessa rigenerazione del popolo ebraico. Quest’idea era fondamentale per Gordon e i suoi estimatori, che furono numerosi nei decenni a ridosso della nascita di medinat Israel. Una volta ebbe a dire: “La nostra rinascita nazionale è equiparabile alla resurrezione dei morti”. Siffatto diritto al lavoro e a un’equa distribuzione delle risorse e dei prodotti della terra, oggi un’ovvietà morale e giuridica riconosciuta da diverse carte mondiali, all’inizio del Novecento era ancora un principio rivoluzionario, ma di una rivoluzione che nella prosa di Aron David Gordon aveva a che fare con gli ideali ebraici radicati nella Torà e nei Neviim. Il ritorno in eretz Israel era per lui un tutt’uno con il ritorno alla natura, alle foreste della Galilea, al lavoro dei campi, alla bonifica delle valli a quel tempo ancora infestate dalla malaria. Morì di cancro, a 66 anni, a Deganya, rimpianto da molti seppure non da tutti compreso.

(moked, 25 agosto 2022)

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Israele non vuole la riattivazione dell’accordo nucleare con l’Iran

Lapid, primo ministro di Israele, avverte che farà tutto il possibile per impedire il patto. Teheran assicura di aver già ricevuto la risposta degli Stati Uniti.

di Paolo Battisti

Come accaduto nel 2015, Israele sta ora reagendo con sentimenti contrastanti di sfiducia e rassegnazione di fronte a un’eventuale ristampa, che teme imminente, dell’accordo nucleare iraniano con le grandi potenze, patto che languisce dal 2018 dopo gli Stati Uniti abbandonato. In un’apparizione davanti alla stampa estera a Gerusalemme, mercoledì il primo ministro israeliano Yair Lapid ha avvertito che se l’accordo sarà firmato, il suo Paese non sarà vincolato dalle sue clausole e agirà “per impedire all’Iran di diventare uno Stato”.

• In Israele c’è sfiducia e rassegnazione di fronte a un eventuale accordo nucleare tra Usa e Iran
  Lapid ha già inviato a Washington il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Eyal Hulata, e giovedì il ministro della Difesa, l’ex generale Benny Gantz, si recherà negli Stati Uniti per raddoppiare la pressione sul suo principale alleato militare nel tentativo finale di silurare la firma dell’accordo.
  Lo stesso Presidente del Consiglio è stato in contatto diretto con il presidente francese, Emmanuel Macron, e con il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, per cercare di convincerli, come ha evidenziato ai corrispondenti internazionali, che il patto con Teheran è “inaccettabile” in termini attuali, poiché rappresenta un “cattivo accordo” che gli permetterà di avere circa un miliardo di dollari all’anno per finanziare lo spiegamento di milizie filo-iraniane, come Hezbollah, in Libano, e i ribelli huthi in Yemen.
  “I negoziati devono finire”, ha sottolineato. I media statunitensi hanno assicurato che l’amministrazione del presidente Joe Biden ha verificato l’apparente disponibilità del regime della Repubblica islamica a fare “concessioni” per chiudere l’accordo. L’Iran sembra aver rinunciato a due delle principali richieste che ha trasferito la scorsa settimana all’Unione Europea, che media nel negoziato, in risposta alla proposta di accordo finale presentata questo mese dal capo della diplomazia europea, Josep Borrell.
  Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanaani, ha dichiarato mercoledì che il suo governo ha ricevuto la risposta dagli Stati Uniti alla proposta finale per la riattivazione dell’accordo nucleare attraverso l’Unione Europea, con la quale ne esaminerà il contenuto. facendo una dichiarazione ufficiale, secondo Reuters.
  Il ritiro delle Guardie Rivoluzionarie dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche stilata da Washington e l’annullamento dell’indagine intrapresa dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) sui resti di uranio rinvenuti in strutture iraniane non dichiarate non sono più una linea rossa per Teheran. “Non siamo disposti a vivere con una minaccia nucleare che incombe sulle nostre teste.
  Non permetteremo che accada”, ha insistito il centrista Lapid, che ha sottolineato che per Israele “non è uno scontro politico, ma una minaccia esistenziale”. Primo ministro ad interim prima delle elezioni legislative anticipate a novembre, Lapid lancia un messaggio che rievoca quello dell’ex primo ministro conservatore Benjamin Netanyahu —il suo più diretto rivale oggi alle urne— alla vigilia della firma dell’accordo iniziale con l’Iran nel 2015 sotto la presidenza del democratico Barack Obama.

• Gli analisti della stampa israeliana ritengono che il governo Lapid sembri dare per scontata la firma dell’accordo
  Gli avvertimenti di Israele non si sono però tradotti in fatti allora, ed è stato necessario attendere l’arrivo alla Casa Bianca del repubblicano Donald Trump, che tre anni dopo paralizzò il patto atomico. Lo stesso Netanyahu ha lanciato questo mercoledì in campagna presagi neri sul “terribile patto con l’Iran, che getta grandi ombre sulla sicurezza di Israele” e offre “immunità internazionale” al regime iraniano.
  Gli analisti della stampa israeliana ritengono che il governo Lapid sembri dare per scontata la firma dell’accordo e che le sue pressioni concatenate rappresentino in realtà una tecnica preventiva di controllo dei danni. “Israele si sta già coordinando con gli Stati Uniti per il giorno dopo per assicurarsi che l’Iran non lo inganni e, soprattutto, per evitare che il flusso di miliardi di dollari nelle casse iraniane finisca nelle mani di Hezbollah”, ha osservato .questo mercoledì l’analista Itamar Eichner sul quotidiano Yediot Ahronot.
  “Israele si sente sconvolto e ha la sensazione che Washington lo abbia tenuto insensibile e in disparte durante gli ultimi mesi dei negoziati”, ha sottolineato lo stesso esperto in un articolo firmato anche da Tzipi Schmilovitz. Metto il veto all’arma atomica In sostanza, il JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action, acronimo in inglese della denominazione ufficiale dell’accordo) raggiunto con la mediazione dell’UE dall’Iran nel 2015 con le grandi potenze (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Germania e Regno Unito) propone di revocare le sanzioni imposte alla Repubblica Islamica.
  In cambio, deve sottoporre il suo programma nucleare a un controllo esterno per impedirgli di essere dotato di un’arma atomica. Il premier Lapid ora rimprovera che l’accordo che sembra arrivare “non soddisfa i criteri fissati dalla stessa amministrazione Biden”. Israele chiede, ad esempio, la distruzione delle centrifughe di arricchimento dell’uranio invece della loro sigillatura per impedirne il riutilizzo. Israele teme soprattutto che Teheran rinunci agli impegni e continui ad arricchire rapidamente l’uranio dotandosi di missili per trasportare testate nucleari.
  Come ha recentemente assicurato su questo stesso giornale l’ex generale Yossi Kuperwasser, ex capo dei servizi di intelligence israeliani, l’Iran è in grado di produrre a breve termine – “tra poche settimane e un paio di mesi”, precisa – e dopo un breve periodo di maggiore arricchimento dell’uranio, circa quattro bombe nucleari. Per Tamir Hayman, altro ex generale e capo dei servizi di intelligence, “l’accordo nucleare con l’Iran è un male minore” di fronte al rischio di uno scontro armato. “Se raggiunge il 90% del livello di arricchimento dell’uranio (adatto per armi atomiche), Israele non avrà altra scelta che attaccare”, prevede questo esperto in chiave apocalittica.

(nanopress.it, 25 agosto 2022)

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Israele aumenta la produzione di gas per l’Europa

di Francesco Paolo La Bionda

Israele ha aumentato la produzione di gas naturale del 22% nella prima metà del 2022, portandola a 10,85 miliardi di metri cubi. Lo ha reso noto il ministro dell’Energia Karine Elharrar, che ha aggiunto che la crescita continuerà per incrementare le esportazioni verso l’Europa colpita dal taglio delle forniture russe.
  A giugno scorso, lo Stato ebraico, l’Egitto e l’Unione Europea hanno siglato infatti un accordo trilaterale per aumentare le forniture di gas naturale da Israele al continente, tramite gli impianti di rigassificazione del paese arabo. Elharrar ha inoltre segnalato che nei primi sei mesi dell’anno le esportazioni del combustibile sono aumentate del 35%, raggiungendo i 4,59 miliardi di metri cubi, mentre gli introiti per lo Stato del settore estrattivo, quasi tutti relativi al gas, sono cresciuti del 50%, toccando l’equivalente di 253 milioni di dollari.

• Le tensioni con Libano sui nuovi giacimenti
  Proprio l’estrazione di gas è al centro di nuove tensioni tra Israele e Libano, che dissentono sulla demarcazione dei confini marittimi e dunque sui diritti di sfruttamento di alcuni giacimenti offshore situati nell’area.
  La questione è diventata pressante poiché Gerusalemme intende cominciare le attività di estrazione nel giacimento di Karish a settembre, e le due parti stanno svolgendo negoziazioni indirette per trovare un compromesso ed evitare il rischio di scontri armati, minacciati già nei mesi scorsi da Hezbollah.
  L’inviato statunitense Amos Hochstein è arrivato a Beirut domenica 21 agosto per facilitare la mediazione, con una proposta che demarcherebbe i confini in modo da lasciare a Israele tutto il giacimento di Karish e al Libano tutto quello di Qana.

(Bet Magazine Mosaico, 25 agosto 2022)

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Rivolte antiebraiche nell'"illuminata" Repubblica elvetica

Per secoli, la vita di ebree ed ebrei in Svizzera è stata segnata dalla discriminazione. A partire dal 1798, coloro che sostenevano l'Illuminismo hanno lottato per l'uguaglianza giuridica. Ma il cammino per ottenerla è stato irto di ostacoli.

di Martin Bürgin

Il 21 settembre del 1802, una folla di circa 800 persone si riunì per attaccare le comunità ebraiche di Lengnau ed Endingen, nella contea di Baden, nell'attuale Cantone Argovia. All'alba, marciò sulle colline e vi imperversò fino a sera, vessando le persone che vi abitavano, demolendo le loro case e rubandone gli averi.
  Quella che fu chiamata "Guerra delle prugne" ("Zwetschgenkrieg") non fu uno scoppio di violenza spontaneo, ma di un'azione concertata. Tra chi compì le aggressioni c'erano membri dei gruppi più disparati: contadini e artigiani, ex mercenari e figli di patrizi, protestanti e cattolici. Alcuni erano a cavallo, altri a piedi. Erano armati di fucili, sciabole e forconi.
  Le forze dell'ordine che avrebbero dovuto porre fine alla rivolta arrivarono nei due villaggi troppo tardi e con troppi pochi agenti per riuscire a calmare gli animi. I disordini terminarono solo quando gli aggressori si stancarono e se ne andarono di propria iniziativa. Come fu possibile un simile attacco?
  Altri sviluppi

• Nessuna libertà di insediamento
  Dall'inizio del XVI secolo fino alla fine del XVIII secolo, la vita delle persone di religione ebraica nel territorio dell'attuale Svizzera oscillò tra la tolleranza e il rigetto. Per loro, non c'era libertà insediamento. Dovevano acquisire una lettera di protezione che garantiva loro la tutela delle autorità, ma imponeva al contempo dazi e tasse.
  Nelle città erano benvenute soprattutto le persone ebree che lavoravano come medici, tipografi o fornitori di crediti. Nelle zone rurali erano particolarmente attivi nel commercio di bestiame o nella vendita ambulante. Nelle città erano presenti perlopiù singole famiglie, nelle campagne si formarono comunità più grandi.
  La loro vita era segnata da regole specifiche e discriminatorie: divieti d'occupazione, divieti di possedere case, restrizioni alla crescita delle comunità e dazi mirati. A seconda del territorio, venivano applicate norme diverse. In alcune zone, persino l'uso dei ponti prevedeva dazi che dovevano pagare solo le persone ebree.
  Le lettere di protezione avevano una validità limitata. Il rinnovo non era mai assicurato e molte famiglie cambiavano spesso casa. Anche con una lettera valida, ogni tanto si verificava comunque un'espulsione. La politica nei confronti delle persone ebree era caratterizzata da decisioni arbitrarie, dalla congiuntura economica o dai conflitti politico-religiosi.
  A partire dal XVIII secolo, gli insediamenti ebraici si limitarono generalmente alla contea di Baden. Nella Surbtal (valle in cui si trovano Lengnau ed Endingen) conobbero un periodo di splendore. Nel 1750, le comunità ebraiche di Lengnau ed Endingen ottennero il permesso di creare un cimitero nei terreni tra i due villaggi. Nello stesso anno, a Lengnau fu costruita una sinagoga. A Endingen, fu eretta nel 1764.
  Il numero di famiglie ebree crebbe rapidamente. Tra il 1761 e il 1774 passò da 94 nuclei famigliari a 180. Grazie alla vicinanza con il fiume Reno e alla città di Zurzach, celebre per la sua fiera annuale, gli insediamenti ebrei della Surbtal erano interessanti da un punto di vista economico.

• Antisemitismo di facciata
  Le voci che chiedevano l'espulsione degli ebrei non mancavano. Tuttavia, anche la popolazione cristiana della contea di Baden non godeva di molti diritti: la regione era un baliaggio, amministrato congiuntamente dalla Confederazione.
  Nella Dieta federale, l'espulsione era spesso tema di discussione. I cattolici la chiedevano quando l'amministrazione territoriale era in mano ai protestanti, mentre questi ultimi si battevano per essa quando il potere era in campo cattolico. Ritrarre l'altra confessione come "amica degli ebrei" serviva a dare al proprio campo l'immagine di "custode della vera fede cristiana".
  Tuttavia, ci si limitò a dibattiti politico-simbolici. I balivi che gestivano il territorio si opposero sempre alle espulsioni. La vendita di lettere di protezione era un affare molto lucrativo.

• Stranieri in patria
  Il 12 aprile 1798, il sistema di Governo della vecchia Confederazione ebbe fine: ad Aarau fu proclamata la Repubblica elvetica, su modello della Repubblica francese. Il vecchio sistema, legittimato dal diritto divino, fu sostituito dall'ordinamento rivoluzionario di una democrazia centralizzata.
  I baliaggi, come la contea di Baden, diventarono Cantoni democraticamente costituiti e con pari diritti. Furono aboliti i tributi feudali, la servitù della gleba, la tortura e le punizioni corporali. Sia per le comunità cristiane sia per quelle ebree.
  Altri sviluppi
  Chi sosteneva l'Illuminismo esigette l'introduzione di diritti umani e civili e l'uguaglianza per le persone ebree – come fu il caso in Francia a partire dal settembre del 1791.
  Johann Jakob Suter, medico di Zofingen, si espresse con queste parole per l'uguaglianza: "A livello politico non posso e non devo dire nulla quando la Costituzione sancisce che ogni straniero che ha vissuto in Elvezia per 20 anni senza interruzione è cittadino di questo Paese. A queste condizioni abbraccerò tutti - pagani, turchi, ottentotti e irochesi - come miei fratelli e concittadini […]. Solo il termine 'ebreo' vi spaventa ancora!".
  Coloro che si opponevano alla parità di diritti qualificavano le persone ebree come straniere. Secondo loro, non solo appartenevano a un'altra religione, ma anche a un altro popolo. Le argomentazioni si basavano su pregiudizi profondamente radicati. Sottolineando la somiglianza fonetica tra il termine "ebreo" ("Jude", in tedesco) e "Giuda", affermavano che le persone di fede ebraica erano spergiuratori e che le loro promesse non avevano nessun valore. Di conseguenza, non si poteva esigere da loro il giuramento civico alla Repubblica Elvetica.
  La fazione antiebraica prevalse. Gli ebrei svizzeri – compresi quelli le cui famiglie vivevano da generazioni nella Surbtal – furono sottoposti alla legge sugli stranieri.

• Violenza e confische
  Il periodo delle Repubblica elvetica fu caratterizzato da rapidi sconvolgimenti e da intensa violenza. Le truppe francesi, austriache e russe combatterono nel Paese, furono commessi soprusi ai danni della popolazione locale, tra cui confische di beni e cibo. La vecchia élite – ma anche parte degli ex sudditi – disapprovavano la Repubblica elvetica. L'ordine era traballante.
  Nel settembre del 1802, l'opposizione lanciò una rivolta nazionale, la Guerra dei bastoni, e riuscì a rovesciare temporaneamente il Governo della giovane repubblica. Il già fragile monopolio statale sull'uso della forza fu eliminato. Gli attacchi a Endigen e Lengnau avvennero in questo periodo di vuoto di potere: nella storia, le rivolte antiebraiche e i pogrom si sono spesso verificati quando il monopolio sull'uso della forza era assente.
  Dopo le turbolenze, nel Cantone di Baden fu nominato un nuovo Governo. Anch'esso aveva un atteggiamento ambivalente nei confronti delle persone ebree. Tuttavia, si adoperò per chiarire le violenze del 21 settembre 1802. Fu istituita una commissione di inchiesta che convocò parti lese, testimoni e persone responsabile delle aggressioni. Queste non erano per forza contrarie alla Repubblica elvetica. I verbali delle testimonianze sono tutt'oggi un documento eccezionale sulle motivazioni dell'odio nei confronti di ebree ed ebrei radicate nell'immaginario della popolazione.
  I sostenitori del vecchio ordinamento diffamarono le persone di fede ebraica dicendo che erano agenti della rivoluzione e che la Repubblica elvetica li privilegiava. Così facendo, attingevano a piene mani dalle fantasie cospirative sul complotto ebraico che si erano diffuse a livello internazionale grazie alla critica conservatrice alla Rivoluzione francese: gli ebrei erano le "menti segrete" dietro la rivoluzione, volevano "rovesciare l'ordine cristiano" e "dominare il mondo".
  I contadini e i rivoluzionari che presero parte alla Guerra delle prugne sostennero invece il contrario: gli ebrei erano profittatori dell'Ancien Régime e la loro attività commerciale era dannosa tanto quanto i vecchi tributi feudali.
  Altri si giustificarono con stereotipi tratti dal repertorio dell'antigiudaismo religioso: gli ebrei come nemici del cristianesimo, come "sinagoga di Satana". Una parte degli aggressori partecipò a una processione cattolica subito dopo le violenze.
  Altri ancora fecero riferimento a dicerie secondo le quali un ebreo avrebbe tagliato la mascella inferiore di un cristiano. Erano andati nella Surbtal per vendicare la presunta vittima.
  Altri sviluppi
  Infine, ma non meno importante, anche le motivazioni economiche ebbero un ruolo. Nella "Guerra delle prugne" le persone ebree subirono danni economici immensi, con distruzione di cambiali e furti di beni.

• Revoca dei diritti
  Dopo il crollo della Repubblica elvetica nel maggio del 1803, i diritti precedentemente concessi furono parzialmente revocati. Vari cantoni emisero ordinanze sul mercato e sul commercio ambulante rivolte specificamente contro ebrei ed ebree. Nel Canton Argovia, la legge ebraica del 1809 conteneva disposizioni simili a quelle delle vecchie lettere di protezione. Solo con la legge organica del 1824 e la legge sulla scuola del 1835 (leggi cantonali) la posizione delle comunità ebraiche di Lengnau ed Endingen fu modernizzata. Tuttavia, ci volle ancora molto tempo prima che le persone ebree fossero riconosciute come cittadini e cittadine a pieno titolo. Solo con la revisione della Costituzione federale del 1866 fu concesso loro – a livello nazionale – il libero insediamento e l'uguaglianza di fronte alla legge. Con la seconda revisione costituzionale del 1874, fu concessa la libertà di culto. A livello cantonale, Argovia fu l'ultimo a concedere loro il pieno diritto di cittadinanza, nel 1879.

(swissinfo.ch, 25 agosto 2022)

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Theodor Herzl, il sognatore, protagonista di una serie tv firmata dall’ideatore di Shtisel

Theodor Herzl, il sognatore che divenne promotore del “Sionismo Moderno”, è il  protagonista di una serie tv firmata da Ori Elon, l’ideatore della fortunata serie Shtisel dedicata al mondo ortodosso in Israele

di Ester Moscati

“I maccabei risorgeranno e gli ebrei che desiderano uno Stato lo avranno”. Con queste parole profetiche e emozionanti, contenute nel suo testo più famoso Der Judenstaat (Lo Stato ebraico), il carismatico giornalista, avvocato ed attivista politico Theodor Herzl  prevedeva nel 1896 la nascita del futuro Stato ebraico, inaugurando l’idea di Sionismo Moderno.
  Ora la sua tumultuosa e breve esistenza, degna del migliore romanzo mitteleuropeo ottocentesco,  diventerà una serie tv che verrà realizzata, in questi mesi, da Ori Elon ideatore di Shtisel, clamoroso successo che ha svelato al grande pubblico il mondo ortodosso israeliano. La notizia è stata diffusa, lo scorso 22 agosto, da una serie di siti, primo fra tutti il Times of Israel con un articolo di Philissa Cramer, che ha evidenziato come i dettagli sulla nuova produzione scarseggino e che attualmente il progetto finanziato, a quanto pare, dalla filantropa e importante legale israeliana Inbar Nacht sia solo “in fase iniziale”. La filantropa, nota per le sue iniziative umanitarie, come il sostegno a numerosi artisti israeliani durante la pandemia ed il suo impegno nell’aiutare centinaia di persone nella fuga dall’Afganistan dopo la vittoria dei Talebani, mantiene assoluto riserbo sia su chi sarà il regista, sia da chi sarà composto il cast di attori.
  Grande mistero riguardo a questa sua nuova avventura che, a quanto pare, verrà trasmessa in streaming in questi mesi. Certamente Herzl, con la sua tenace e idealistica personalità, sembra essere il personaggio ideale per una serie tv di successo. Vissuto solo quarantaquattro anni,  essendo nato il 2 maggio 1860 nella Budapest dominata dall’Impero Austro-Ungarico, da famiglia ebraica colta, laica e assimilata,  fu un ardente sostenitore della cultura e della lingua tedesca ed ebbe una vita estremamente travagliata.
  Laureatosi in Giurisprudenza, dopo la morte della sorella Theodor Herzl si trasferì a Vienna che divenne la sua città d’adozione. In quella città si dedicò alla sua passione per il giornalismo e la letteratura e, successivamente,  negli ultimi dieci anni della sua vita, si trasformò in un infaticabile promotore del “sogno sionista” scrivendo anche il libro Lo Stato ebraico, passato alla storia come pilastro del Sionismo moderno. Egli divenne fondatore del giornale sionista Die Welt (Il Mondo) e, successivamente, nel 1897 organizzò a Basilea il Primo Congresso Sionista, venendo in seguito eletto come suo presidente.
  Una figura fascinosa e complessa, tormentata da vicissitudini storiche e da idee contraddittorie e discutibili, come l’idea che gli ebrei dovessero omologarsi alla cultura dominante, fino alla presa di coscienza, negli ultimi dieci anni della sua vita che, visto il dilagante antisemitismo che dilaniava l’Europa, dai pogrom al Caso Dreyfus che seguì quando era corrispondente da Parigi, l’unica soluzione fosse la fuga degli ebrei nella Terra Promessa.
  Eppure,  come ha evidenziato il Times of Israel, fino alla nuova idea di Ori Elon, nessuna serie tv o film gli erano mai stati dedicati in più di cent’anni. Unica eccezione il film muto austriaco, girato nel 1921, Herzl il  leader del popolo ebraico che però venne totalmente dimenticato. Chissà cosa racconterà la nuova serie, se si soffermerà sul suo incessante impegno politico e intellettuale, se accennerà alla sua vita privata,  essendo sposato con la facoltosa ebrea austriaca Julie Naschauer e padre di tre figlie e se illustrerà la sua tragica fine.
  Herzl morì a soli 44 anni, il 3 luglio 1904, e  sorprendentemente al suo funerale non si tennero discorsi o particolari commemorazioni della sua figura storica. Sicuramente la sua idea gli sopravvisse lungamente e lo dimostra questa serie tv che, secondo l’articolo di Ben Bloch sul sito The Jewish Chronicle, è stata realizzata consultando una lunga serie di lettere e diari. Come giornalista e lucido osservatore fu testimone del virulento antisemitismo dell’epoca, dal caso Dreyfus, sconvolgente vicenda del capitano dell’esercito francese accusato di essere spia dei tedeschi, così come le folle inferocite dall’odio antiebraico. Furono questi drammatici episodi a spingerlo a promuovere strenuamente il ritorno ebraico a Sion e a visitare Gerusalemme per la prima volta nel 1898 morendo quarantaquattro anni prima della nascita dello Stato d’Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 25 agosto 2022)

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Tracce di ebraismo in giro per l’Italia

di Daniele Toscano

Ventidue secoli di presenza ebraica in Italia hanno lasciato il segno. Girando la Penisola in lungo e in largo, infatti, ci si può imbattere in sinagoghe, monumenti, toponomastica, cimiteri o piccoli simboli legati all’ebraismo. Elencare tutti questi luoghi sarebbe impossibile, ma anche solo qualche tappa può rendere l’idea. Se alcuni percorsi sono noti ai più, come l’ex ghetto di Roma o le maestose sinagoghe di Firenze o Casale Monferrato, non tutti sanno che tracce di ebraismo si possono riscontrare praticamente in ogni regione. Anche al Sud, dove gli ebrei furono espulsi all’inizio del XVI secolo, restano vive le testimonianze dei 1500 anni precedenti. La Puglia, ad esempio, nel tardo medioevo, fu tappa frequente di mercanti e pellegrini in viaggio verso l’Oriente. Otranto, Bari e tante altre cittadine della costa ospitavano giudecche oggi evocate da nomi come “vico la Giudea” a Trani. Ma anche in piccoli centri come Oria (Brindisi) si trovano Piazza Shabbatai Ben Abraham Donnolo, la Porta degli Ebrei e il Rione Judea, il cui simbolo è una menorah. Spostandosi in Basilicata, presso il parco archeologico di Venosa si possono scoprire epigrafi e iscrizioni in ebraico risalenti alle catacombe ebraiche locali, costruite dal III secolo. Al Sud gli ebrei erano giunti nell’antichità con i primi scambi commerciali, per poi crescere nel Medioevo, soprattutto in Sicilia, quando sotto arabi e normanni si svilupparono centri culturalmente molto vivaci. Tra le testimonianze presenti nell’Isola, la più nota è certamente il mikvé medievale di Ortigia, ma di giudecche ve ne sono state decine, da Palermo a Trapani. Se al Sud la storia degli ebrei si interrompe dopo la cacciata dalla Spagna, nel Centro-Nord le vicende sono più variegate. Le prime aperture al commercio dopo l’anno mille vedono una crescita della presenza ebraica nelle Repubbliche Marinare che si nota ancora oggi: non solo a Venezia, dove la giudecca accoglie i visitatori sin dal loro arrivo in laguna. A Pisa la zona di Sant’Andrea è rimasta nei secoli il quartiere ebraico, visto che qua si trovava il “Chiasso degli ebrei”. A Genova, uno dei segni resta nel palazzo Lomellini Patrone, eretto nel XVII secolo, dove il doge commissionò un suggestivo ciclo di affreschi su temi biblici, ispirati in particolare alla storia di Purim.
  In tante città settentrionali gli ebrei si legarono ai comuni o alle corti, in cui in epoca rinascimentale ebbero anche una discreta fortuna, come a Ferrara con gli Estensi o a Parma sotto i Visconti e gli Sforza tra il XIV e il XV secolo. Tuttavia, soprattutto nelle città sotto lo Stato Pontificio, gli ebrei vennero relegati per periodi più o meno lunghi nei ghetti. Questo portò molti a migrare e a formare piccole comunità in cittadine limitrofe. Così avvenne per esempio nella bassa parmense in paesini come Fiorenzuola, Cortemaggiore, Fidenza, Busseto, Monticelli d'Ongina, Colorno e Soragna, dove ancora oggi resta una sinagoga di stile neoclassico, con soffitti completamente affrescati, nel cui edificio si trova anche il ‘museo ebraico Fausto Levi’. Per sfuggire al ghetto di Roma, istituito nel 1555, alcune famiglie si trasferirono nel borgo di Pitigliano, nel cuore della Maremma, ancora oggi noto anche come “Piccola Gerusalemme”: qui i visitatori possono ammirare la sinagoga in stile classico e i locali dove si svolgevano il mikvé, la macellazione rituale, il forno per il pane azzimo.
  Le trasformazioni degli ultimi due secoli hanno notevolmente modificato gli scenari. Nel XIX secolo, il processo di emancipazione e l’urbanizzazione hanno provocato uno spostamento dai centri più piccoli verso le grandi città, dove ancora oggi si trovano le comunità più numerose. La Shoah poi ha drasticamente ridotto i numeri anche degli ebrei italiani. Oggi resta una notevole vivacità delle grandi comunità, a cui si affianca una valorizzazione dei luoghi meno noti. Ma alcune storie sono ancora da scoprire.

(Shalom, 25 agosto 2022)

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Intanto, sui mass-media palestinesi: il progetto di distruggere Israele ed ebrei

“Israele cesserà di esistere grazie ai combattenti di Fatah”. “La rinascita del Califfato segnerà la fine dell'entità sionista” e “l’uccisione di tutti gli ebrei che vi si trovano”. “Gli ebrei, assassini di profeti, perseguitarono Gesù e mentono sui luoghi santi”.

Jalal Abu Shihad, esponente nel Libano meridionale di Fatah (la fazione che fa capo ad Abu Mazen), ha dichiarato in un’intervista del 23 luglio 2022 ad Awda TV (dell’Autorità Palestinese) che Israele cesserà di esistere per mano dei combattenti e dei politici palestinesi”.

(israele.net, 25 agosto 2022)

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Israele spera di esportare più gas in Europa

Israele vuole vendere gas all’Europa sempre più bisognosa di fornitori sostitutivi della Russia. Quanto combustibile può arrivare da Tel Aviv? La produzione è in crescita, ma ci sono ostacoli.
  
di Violetta Silvestri

La produzione israeliana di gas naturale è aumentata del 22% nella prima metà dell’anno, con il governo che prevede di incrementare le esportazioni verso l’Europa, dove è in corso la peggiore crisi energetica degli ultimi decenni.
  La notizia non è di poco conto considerando il disperati bisogno del vecchio continente di nuovi fornitori.
  Infatti, Israele sta spingendo la sua produzione proprio mentre le nazioni europee perlustrano il globo alla ricerca di gas naturale, con prezzi dell’energia nel continente a livelli record. L’Unione Europea si sta allontanando dalla Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte del Paese, mentre Mosca ha anche limitato le spedizioni, lasciando gli acquirenti nel bisogno urgente di trovare alternative prima dell’inverno.
  Il gas israeliano può fare la differenza in Europa? Cosa sapere.

• Israele spinge per esportare gas in Europa
  A giugno Israele ha firmato un memorandum d’intesa con l’Egitto e l’Ue volto a incrementare la produzione e le esportazioni regionali di gas.
  Il combustibile verrà spedito in Egitto, che già riceve la maggior parte delle esportazioni di gas israeliane, e quindi ri-esportato nel blocco. I flussi iniziali nell’ambito dell’accordo non dovrebbero essere sostanziali, ma potrebbero fornire all’Europa parte del gas di cui ha bisogno, poiché la produzione israeliana aumenterà ulteriormente negli anni a venire.
  La nascente industria del gas naturale israeliana è stata un punto di svolta per la nazione, portando entrate per quasi 10 miliardi di shekel nelle casse dello stato dal 2004. Le scoperte al largo della costa mediterranea hanno messo il Paese sulla strada verso una maggiore indipendenza energetica, rimodellando la regione legami economici e assistenza nella transizione verso le energie rinnovabili.
  Negli ultimi mesi, quelle ambizioni hanno subito una battuta d’arresto, con il vicino Libano che si è opposto alla decisione di Israele di spostare una piattaforma galleggiante di gas nel giacimento di Karish, vicino al confine marittimo conteso tra i due Paesi. I colloqui in corso guidati dagli Stati Uniti finora non sono riusciti a trovare una soluzione.
  Il ministro dell’Energia Karine Elharrar ha affermato che l’aumento della produzione nella prima metà dell’anno aiuterebbe Israele a vendere il suo gas all’Ue come parte dell’accordo trilaterale, aggiungendo che la produzione probabilmente continuerà ad espandersi una volta che l’impianto di perforazione di Karish inizierà a funzionare.

(Money, 24 agosto 2022)

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L’accordo sul nucleare iraniano è più vicino, ma Israele avverte: “non ci faremo vincolare”

di Francesco Paolo La Bionda

Israele si oppone a un ritorno all’accordo sul nucleare iraniano e, se verrà raggiunto, non sarà vincolato da esso. Lo ha comunicato lunedì 22 agosto il primo ministro israeliano Yair Lapid durante una conversazione telefonica col presidente francese Emmanuel Macron.
  La dichiarazione è stata riportata da una nota stampa diffusa dall’ufficio del politico dello Stato ebraico, che ha anche ribadito al suo omologo francese che “Israele continuerà a fare tutto il possibile per impedire all’Iran di raggiungere una capacità nucleare”.
  Lapid ha inoltre sottolineato che gli iraniani stanno continuando a condurre i negoziati sulla base di una proposta che è stata presentata come “prendere o lasciare”. Ha inoltre avvertito che contiene nuovi elementi non presenti nell’accordo del 2015, che potrebbero permettere di far affluire nuovi e significativi investimenti per rafforzare l’esercito iraniano e la rete terroristica che fa capo a Teheran.
   
  • L’accordo è sempre più vicino secondo le fonti americane
  La dichiarazione fa seguito a voci secondo cui il nuovo accordo sul nucleare iraniano, che riporterebbe in vita il precedente “Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA)” del 2015, sarebbe in dirittura d’arrivo dopo oltre un anno di colloqui.
  Sempre lunedì 22, il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price ha dichiarato che “l’accordo è più vicino ora di quanto non lo fosse due settimane fa”, pur ammettendo che “l’esito dei colloqui in corso rimane ancora incerto, poiché permangono delle differenze”. Da parte sua l’Iran, tramite il portavoce del ministero degli Esteri, ha dichiarato che sono proprio gli Stati Uniti “a procrastinare” nel rispondere alla proposta iraniana.
  Proposta che Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha definito “ragionevole”, esortando quindi gli americani ad accelerare i tempi.
  Secondo indiscrezioni riprese dal sito di news israeliano Walla!, Washington ha nel frattempo provato a  rassicurare Gerusalemme che l’accordo non sia imminente e che non siano state concordate nuove concessioni al regime iraniano, senza però convincere le alte cariche israeliane.

(Bet Magazine Mosaico, 24 agosto 2022)

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Ancora rinvenimenti dal sito di Rahat, Israele

di Daniele Mancini

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Un imponente edificio del primo periodo islamico, costruito tra l’VIII e il IX secolo, impiantato su una precedente costruzione romano-bizantina, è stata identificato nel sud di Israele, nel sito di Rahat, nel Negev settentrionale, già protagonista di numerosi recenti rinvenimenti tra cui due importanti moschee
  Gli archeologi dell’Israel Antiquities Authority hanno scoperto che le pareti dell’edificio erano adornate da affreschi dai colori vivaci realizzati su intonaco bianco ma la cosa veramente notevole è stato il rinvenimento di questo diversi ambienti ipogei a ben 6 metri di profondità, casualmente identificato durante i lavori di consolidamento e restauro di un nuovo quartiere nella città beduina di Rahat. Dell’antico edificio proto islamico, che misurava circa 30 metri per 30, resta un muro di soli 50 cm di altezza, a sua volta poggiato su un sistema di ambienti ipogei sorretti da volte alte 2,5 metri, costruite con blocchi di calcare locale. Gli ambienti voltati erano collegati da tunnel anch’essi realizzati con blocchi di pietra. Il team ha anche rinvenuto una grande cisterna profonda almeno 3,5 metri, scavata nella roccia.
  Secondo , direttore dei lavori di scavo per conto dell’IAA insieme a Oren Shmueli e a Elena Kogan-Zehavi, edifici simili sono stati trovati in Giordania ma non in queste terre. Nei pressi di questo edificio, gli archeologi hanno identificato una fattoria che sembrerebbe essere stata costruita per prima.
  I ricercatori ritengono che la fattoria e il grande edificio/villa epigeo avrebbero potuto appartenere al medesimo proprietario ma, rispetto ad altri complessi presenti nel Negev con camere ipogee, se quelli di Rahat sono stati costruiti magnificamente usando blocchi di pietra, gli altri sono stati scavati grossolanamente nel loess, la tenera roccia sedimentaria tipica di questa zona. La costruzione di questi ambienti camere sotto un’abitazione sarebbe stata costosa e avrebbe richiesto ingenti investimenti, non solo nei materiali ma anche in architetti competenti.

(Daniele Mancini Archeologia, 24 agosto 2022)

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Raid americano in Siria contro gruppi legati all’Iran

Proprio mentre sembrava che un accordo sul nucleare iraniano fosse vicino

L’esercito statunitense ha dichiarato di aver effettuato martedì attacchi aerei a Deir al-Zor, in Siria, contro strutture utilizzate da gruppi affiliati al corpo d’élite delle Guardie rivoluzionarie iraniane (IRGC).
  Gli attacchi sono stati effettuati mentre gli Stati Uniti avrebbero dovuto rispondere a una bozza di accordo proposta dall’Unione Europea che avrebbe riportato in vita l’accordo nucleare con l’Iran del 2015, abbandonato dall’ex presidente Donald Trump e che l’attuale presidente Joe Biden ha cercato di rilanciare.
  Il Comando centrale dell’esercito ha dichiarato in un comunicato che tali attacchi erano volti a proteggere le forze statunitensi da attacchi di gruppi sostenuti dall’Iran.
  Il Comando ha citato un episodio di questo tipo avvenuto il 15 agosto, che secondo la Reuters ha comportato l’attacco di un drone a un complesso gestito da combattenti dell’opposizione siriana sostenuti dalla coalizione e dagli Stati Uniti, senza fare vittime.
  “Il presidente ha dato le direttive per questi attacchi”, ha dichiarato il portavoce dell’esercito, il colonnello Joe Buccino.
  Il Comando centrale ha definito gli attacchi “un’azione proporzionata e deliberata volta a limitare il rischio di escalation e a minimizzare il rischio di vittime”.
  La dichiarazione sull’attacco statunitense di martedì non menziona se ci sono state vittime e non dice se gli attacchi aerei sono stati effettuati da velivoli con o senza equipaggio.
  Non è la prima volta che gli aerei da guerra statunitensi colpiscono le forze sostenute dall’Iran in Iraq e Siria. Gli Stati Uniti hanno colpito strutture operative e di stoccaggio di armi in due località in Siria e una in Iraq nel giugno dello scorso anno.
  Le forze statunitensi si sono schierate per la prima volta in Siria durante la campagna dell’amministrazione Obama contro lo Stato Islamico, in collaborazione con un gruppo guidato dai curdi chiamato Forze Democratiche Siriane. In Siria sono presenti circa 900 truppe statunitensi, la maggior parte delle quali nella parte orientale.
  Ma le milizie sostenute dall’Iran hanno preso piede in Siria mentre combattevano a sostegno del presidente Bashar al-Assad durante la guerra civile siriana.
  Le milizie sostenute dall’Iran sono fortemente concentrate a ovest dell’Eufrate, nella provincia di Deir al-Zor, dove si riforniscono dall’Iraq attraverso il valico di frontiera di al-Bukamal.

(Rights Reporter, 24 agosto 2022)

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“La Germania rifiutò l’aiuto di Israele e fece il doppio gioco"

Intervista a Shaul Ladany, sopravvissuto al massacro delle Olimpiadi di Monaco ’72

di Luca Spizzichino

È sopravvissuto alla Shoah, al Massacro di Monaco del 1972 e ha combattuto tre guerre come ufficiale dell’esercito israeliano. Shaul Ladany ha una storia unica. A 86 anni, il marciatore israeliano è come se avesse vissuto più vite, invece di una sola.
  Nato a Belgrado il 2 aprile 1936, Ladany, dovette abituarsi a spostarsi rapidamente da un posto all’altro sin da piccolo. Fuggiti dalla Serbia nel 1941, a soli 5 anni, Ladany e la sua famiglia si stabilirono a Budapest. Ma la ferocia nazista lo raggiunse anche nella capitale magiara, e nel luglio 1944 venne deportato a Bergen-Belsen. Nel dicembre 1944 venne liberato dagli Alleati e si trasferì in Svizzera con quello che rimase della sua famiglia. Proprio tra le Alpi, Ladany riprese la scuola e sviluppò una passione per la camminata e la marcia, che è viva ancora oggi.
  Dopo aver fatto l'Aliyah nel 1948 con la sua famiglia e aver combattuto nella guerra del Canale di Suez nel 1956, Ladany decise di trasferirsi negli Stati Uniti. Ma l'amore per lo Stato Ebraico lo portò a tornare nel 1967 per combattere durante la Guerra dei Sei Giorni. “Riuscii a tornare in Israele per combattere da volontario senza essere chiamato, lasciando mia moglie a New York. E il secondo giorno di guerra, ero già nel deserto del Sinai” racconta a Shalom Shaul Ladany.
  In occasione del 50esimo anniversario dall’assassinio degli 11 atleti israeliani per mano dei terroristi di Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco ‘72, insieme a Ladany abbiamo ripercorso quanto successe quella notte e discusso di quanto si stia effettivamente facendo per onorare la memoria di chi è stato barbaramente ucciso a causa dell’odio antisemita.

- I sopravvissuti alla Shoah per molti anni sono stati restii a tornare in Germania. Cosa la spinse a partecipare alle Olimpiadi di Monaco?
  Decisi di partecipare per mostrare al mondo e alla Germania che noi eravamo ancora qui e in grado di competere allo stesso livello del resto del mondo come cittadini dello stato indipendente d’Israele.

- Cosa successe quella notte, come riuscisti a scappare dai terroristi di Settembre Nero?
  Bisogna iniziare dalla sera del 4 settembre. Fummo invitati alla messa in scena al Teatro di Monaco di “Fiddler on the Roof” di Sholem Aleichem, dove l'attore principale era un famoso attore israeliano, Shmuel Brodsky. L’attore ci chiamò nel backstage per farci una foto tutti insieme, quella fu la mia ultima foto con loro.
  Una volta tornati negli appartamenti, Moshe Weinberg, soprannominato Monie, mi chiese di prestargli la sveglia. Gliela diedi e andai in mensa; all’una i terroristi fecero irruzione nel suo appartamento, il numero 1.
  Io mi trovavo nel numero 2, insieme ad altri 5 membri della delegazione. Andai a dormire verso le 3, ma alle 5:30 venni svegliato da Zelig Storch, che mi disse: “Monie è stato ucciso dagli arabi”. Non appena aprii gli occhi, vidi il mio coinquilino seduto sul suo letto che si stava vestendo. Io mi misi le scarpe da camminata, ma rimasi in pigiama. Andai alla porta d'ingresso principale dell'appartamento che si apriva all'interno, e non notai alcuna violenza. Ad un certo punto vidi, a circa 4 metri alla destra del mio appartamento, una persona con un cappello alla moda e la pelle scura. Non mi vide perché stava parlando con il personale del Villaggio Olimpico. Una di loro chiese al terrorista di far entrare la Croce Rossa, ma lui rifiutò. Cercò di convincerlo e disse: “Dovresti essere umano”. E lui rispose: “Gli ebrei non sono umani”. A quel punto capii che stava succedendo qualcosa di grave. Più avanti scoprii che quell’uomo era Issa, il capo del gruppo terroristico.
  Una volta rientrato nell’appartamento, salii al piano di sopra e vidi i miei compagni completamente vestiti. Quando chiesi loro cosa fosse successo, spostarono la tenda e indicarono l’altro appartamento. Vidi delle macchie di sangue, erano di Monie. A quel punto decidemmo di fuggire. Scendemmo la scala a chiocciola che portava alla mia camera e aprimmo la finestra che dava sulla terrazza.
  Gli altri si misero in salvo, mentre io decisi di avvertire il capo della missione nell'appartamento 5. Per farlo dovetti camminare lungo la ringhiera dell'edificio. Una volta arrivato, bussai alla finestra di Larkin, il capo della missione, che aprì e mi fece entrare. Già sapeva cosa stesse accadendo. Informammo il capo del Comitato Olimpico israeliano e lasciammo l'appartamento dal retro. Una volta arrivati al piano interrato dell'edificio incontrammo diversi poliziotti armati che ci indirizzarono al quartier generale del Villaggio Olimpico.

- Trent’anni dopo la Shoah, lei fu di nuovo testimone dell’odio antisemita in Germania, anche se per mano del terrorismo palestinese. Che cosa provò in quel momento, capendo di non essere considerato “umano” dai terroristi che la stavano cercando?
  A quel tempo avevo 36 anni, ero un professore all'università di Tel Aviv e avevo partecipato a diverse guerre. Ho affrontato le atrocità non solo durante la Shoah. 
  Negli anni ’70 i terroristi arabi cominciarono ad attaccare in diversi luoghi gli aerei israeliani e i passeggeri israeliani negli aeroporti. Quindi noi eravamo consci del fatto che era rischioso viaggiare.
  Tuttavia, rimasi sorpreso che questo potesse succedere alle Olimpiadi.
  Non avevo paura però, speravo solamente che anche i miei compagni di squadra potessero uscire vivi da quella situazione.

- La Germania commise evidenti errori nel tentare salvare gli 11 atleti presi in ostaggio dal commando palestinese. Perché non riuscirono a salvare i suoi compagni?
  Le autorità tedesche si sono prese la piena responsabilità nel cercare di liberare gli ostaggi. Spinte dal loro orgoglio, rifiutarono l'aiuto di Israele e i vari consigli del capo del Mossad. Per tentare di salvare gli atleti israeliani, erano disposti a fare un doppio gioco: da una parte si stavano accordando con i terroristi per mandarli in un paese arabo insieme agli ostaggi, e allo stesso tempo, a loro insaputa, stavano pianificando il loro piano per cercare di liberare gli israeliani con la forza. Tuttavia, le forze dell’ordine tedesche erano composte da volontari, totalmente impreparate, erano degli schlemiel (creduloni).

- E, nonostante ciò, pochi mesi dopo liberarono tre dei terroristi del Massacro di Monaco…
  Non ha nulla a che fare il tentativo di liberazione da parte delle autorità tedesche degli ostaggi olimpici israeliani; tuttavia, la Germania ha fatto qualcosa di terribile accordandosi per il rilascio dei terroristi in cambio di non coinvolgimento della popolazione tedesca in eventuali futuri attentati.

- Nel ’72 non vennero fermati i Giochi. Il Comitato Olimpico Internazionale per commemorare i suoi compagni di squadra ha impiegato 49 anni. Tuttavia, cosa ha provato nel vedere alla Cerimonia di Apertura delle Olimpiadi di Tokyo il minuto di silenzio?
  La decisione del CIO di non interrompere i Giochi Olimpici la reputo giusta. Se li avessero cancellati, Israele sarebbe stato accusato da tutti per non aver dato la possibilità agli atleti di competere dopo essersi allenati per molti anni.
  Tuttavia, accuso il Comitato Olimpico per non aver commemorato prima i miei compagni di squadra. Potevano essere onorate come vittime dei Giochi Olimpici, senza nominare lo Stato d’Israele, ma non è stato fatto e si sono rifiutati di farlo fino a quando il presidente del CIO Bach ha deciso di onorare la loro memoria a Tokyo. Sono contento che sia accaduto, ma spero che questa diventi una tradizione.

- A settembre il governo tedesco organizzerà una cerimonia per il 50esimo anniversario. Alcuni familiari delle vittime hanno minacciato il boicottaggio dell’evento, chiedendo al presidente Herzog di non andare. Che cosa ne pensa della vicenda?
  Credo sia giusto ciò che chiedono le famiglie delle vittime, hanno il diritto di avere un maggior risarcimento. Qual è la giusta somma? Non te lo so dire, ma è giusto che ricevano un risarcimento congruo. Spero che riescano a trovare un accordo accettabile per entrambe le parti. Tuttavia, è una questione che riguarda le famiglie e il governo tedesco, e basta. Un boicottaggio generale da parte del Comitato Olimpico israeliano e dello Stato d’Israele, nella persona del presidente Herzog, credo sia sbagliato.

- Cosa la spinge a raccontare la sua testimonianza?
  Il mio desiderio è che il mondo non dimentichi quello che è successo durante la Shoah, e il punto di partenza è l'educazione dei giovani, sono loro che faranno sì che ciò non possa ripetersi. Non vivrò ancora per molti anni. Ho 86 anni. Quindi devo raccontare la mia storia, farla conoscere. Per quanti anni le testimonianze avranno un impatto? Non lo so.

Secondo lei, gli eventi di Monaco ‘72, sono ricordati abbastanza o c'è ancora tanto lavoro da fare?
  I Giochi Olimpici di Monaco furono molto pubblicizzati e ci fu un'enorme concentrazione dei media. Ciò che accadde in quei giorni, quindi, ebbe una grossa risonanza, ma ovviamente le cose tendono ad essere dimenticate.
  In occasione del 50esimo anniversario so che ci saranno molti film e così via, questo farà sì che ciò che è accaduto venga ricordato a lungo.

- Come si è sentito guardando la squadra israeliana vincere l’oro nella maratona agli Europei di atletica di Monaco, 50 anni dopo il massacro?
  Ero molto felice, abbiamo fatto vedere al mondo che possiamo competere con tutti allo stesso livello. Sono molto orgoglioso.

(Shalom, 24 agosto 2022)

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Lettera aperta ai candidati politici da parte dei familiari delle vittime Covid

Candidate, Candidati, siamo il Comitato Nazionale Familiari Vittime del Covid e Anchise – comitato famiglie RSA RSD, i familiari di quei poveri martiri che hanno pagato il prezzo più alto di una gestione quantomeno approssimativa della pandemia, frutto di 25 anni di tagli alla sanità che hanno ridotto il nostro sistema sanitario in condizioni disastrose.
  Siamo gli invisibili, quelli che non sono scesi in piazza, quelli che non sono stati mai presi in considerazione dai media, quelli che nella narrazione del governo, della normalità, dell’andrà tutto bene non erano contemplati perché rovinavano l’immagine di efficienza e ottimismo che si voleva trasmettere.
  E così anche l’opinione pubblica ha scelto di ascoltare la narrazione accomodante e rassicurante, guardandoci con pietà e finta compassione come degli sfortunati, vittime di un virus letale.
  No, non ci avete visto sbraitare in piazza, né per le vittorie nazionali (purtroppo per noi l’Italia ha perso la partita più importante, quella della sanità), non ci avete visto in piazza a gridare, assaltare sindacati, divellere panchine. No, noi siamo stati buoni e abbiamo rispettato la legge, ci siamo fidati dello Stato e della sanità, non abbiamo sfondato i pronto soccorso quando sentivamo i nostri cari urlare disperati, non abbiamo fatto irruzione quando al telefono ci chiedevano di essere portati via da lì perché li stavano uccidendo.
  Abbiamo dimostrato un’enorme dignità in un dolore che nessuno di voi può capire, nessuno. Salutare la propria mamma e vederla sparire in un buco nero dal quale ricevi notizie vaghe una volta al giorno senza poterla vedere, toccare, asciugare il sudore, aiutarla a bere. E un “bel” giorno, dopo che fino al giorno prima hai sentito dirti va tutto bene, i valori sono stabili“, sentirsi dire “ci dispiace, la mamma non ce l’ha fatta.
  Come fai ad elaborare un lutto del genere? Un lutto senza morto, un lutto senza che tu abbia potuto prenderti cura del tuo congiunto. Entra una persona ed esce un brutto vaso pieno di polvere.
  Sappiate però che l’educazione, la pacatezza, la dignità del dolore non significano arrendevolezza o rassegnazione. Ci è stato tolto tutto, non abbiamo più nulla da perdere, la missione della nostra vita oramai è quella di ridare voce a tutte quelle povere anime, fare chiarezza e cercare di evitare che altra gente soffra l’inferno che stiamo soffrendo noi tutti.
  Senza voler puntare il dito contro nessuno in particolare, possiamo tranquillamente affermare, date le nostre esperienze personali, che la retorica del medico eroe della prima ondata non è valsa per le ondate successive.
  Ma il precedente governo ha voluto insistere su questa retorica rassicurante e orgogliosa, motivo per cui noi dovevamo sparire e siamo spariti da tutti quei media che hanno assecondato il governo, dimostrando scarsa fedeltà alla carta di Roma e ai principi cardine del giornalismo, che dovrebbe dare voce a chi non ce l’ha anziché essere grancassa di chi il potere lo detiene.
  Sono troppi gli errori, le “disattenzioni”, le carenze che hanno portato alla morte i nostri cari e che sono state archiviate come morti covid, quando invece dovevano essere ascritte alla voce malasanità. Noi tutti abbiamo denunciato gli ospedali, descrivendo e allegando dettagliatamente quanto successo. Così non si può dire delle cartelle cliniche che erano (e sono) spesso molto “fantasiose”, con cancellazioni, fogli mancanti, fogli di altri pazienti, o addirittura fatte sparire, così come molti degli oggetti di valore che i pazienti covid portavano con sé (anelli, collane, smartphone).
  Tutto ciò, in un paese normale, avrebbe dovuto scatenare un terremoto nella sanità, ma così non è stato perché con lo stato d’emergenza e lo scudo penale, la maggior parte degli avvocati non ha neanche provato a fare causa contro gli ospedali, e solo pochi coraggiosi come noi lo hanno fatto. Per elencare alcune delle criticità emerse, potremmo parlare dei contagi ospedalieri che avvengono ancora a distanza di anni dall’inizio della pandemia, potremmo parlare del famigerato “Protocollo Vigile attesa e Tachipirina” che tanti morti ha causato.
  Più in generale possiamo parlare del rapimento di tanti pazienti, sottratti alla vista e all’assistenza dei propri cari in nome di un’emergenza che era ben strana, dato che riguardava solo gli ospedali. Non si poteva fare assistenza ai propri cari ma gli stadi erano pieni, le discoteche erano piene, i ristoranti erano pieni e così via. Abbiamo quindi assistito a una disumanizzazione della cura e del paziente stesso. In nome di un’emergenza “asimmetrica” (concerti, stadi, vacanze concesse e ospedali blindati) sono stati calpestati l’articolo 32 della Costituzione, la Carta dei diritti del morente (in particolar modo i punti 10,11 e 12) e la carta dei diritti del malato in quasi tutti i suoi punti.
  Tutto questo nell’assoluto e colpevole silenzio di tutti.
  Centinaia di migliaia di persone sono morte in completa solitudine, senza il conforto di una mano o di uno sguardo familiare, senza quell’amore che è la più efficace delle medicine, molto spesso lasciate per ore ed ore senza bere, senza mangiare, senza essere cambiate. E dopo il decesso non è stata concessa loro neanche la dignità del morente, con il colpevole silenzio della Chiesa. Nessun riconoscimento della salma, nessun ultimo saluto, nessuna estrema unzione.
  Corpi denudati, lavati con varechina, messi in sacchi neri e “smaltiti” in un inceneritore come se fossero rifiuti. Ma la disumanizzazione della morte parte da molto prima. Si pensi, ad esempio, alle zone. In televisione venivano snocciolati numeri come se si parlasse di previsioni del tempo, ma quei numeri erano persone: genitori, mariti, mogli, fratelli, figli.
  Quei numeri erano persone che morivano nell’indifferenza generale. La maggior parte della popolazione guardava quei numeri solo per sapere a che ora avrebbe potuto fare l’aperitivo: 18 e 30 o 20 e 30? Il governo continuava a rassicurare dicendo che i morti erano tutti anziani e con patologie, quando invece morivano anche pazienti molto giovani e in ottima salute. E comunque, anche se fossero stati ultracentenari con mille patologie, avrebbero avuto diritto ad una morte dignitosa.
  Il precedente governo e molti dei candidati a queste elezioni, assieme alla stampa, sono quantomeno complici di questa disumanizzazione delle morti, assieme alla Chiesa, che tutt’oggi non ha speso una parola in merito. La Chiesa che non ha messo piede nei reparti covid per dare l’estrema unzione, la Chiesa che non ha speso una parola sulla pratica barbara di “smaltimento” delle salme.
  E colpevoli sono anche i vari cantanti, attori, influencer che si sono spesi per ogni causa possibile ma non hanno osato mettersi contro la narrazione del governo, anzi, hanno assecondato le scelte del governo prestando i loro volti per spot e campagne varie, salvo fare polemiche ad personam (si pensi alla famosa nonna di Fedez) che alzavano piccole nuvole di polvere senza però scalfire il sistema marcio che dal 2020 in poi ha mietuto centinaia di migliaia di vittime evitabili.
  Potremmo circostanziare le accuse e analizzarle una per una, ma non è questo l’intento della presente lettera, né è questa l’occasione giusta per farlo. I nostri iscritti hanno tutti sporto regolari esposti o denunce in cui viene argomentato per filo e per segno il trattamento disumano ricevuto dai nostri cari.
  In questa lettera noi vi chiediamo di mettervi una mano sulla coscienza, se ne avete una, e cercare di risponderci sinceramente, senza politichese e senza false promesse che si sciolgono come neve al sole alla prima crisi di governo.
  Siamo tutte e tutti distrutti psicologicamente, i tentativi di suicidio tra noi, i danneggiati da vaccino e i long covid non si contano, eppure andiamo avanti, andiamo avanti per rendere giustizia alle persone che più amavamo e che ci avete strappato, sacrificandole sull’altare del PIL e della “normalità” quando di normale, in questa orrenda pagina della storia italiana, non c’è proprio nulla.
  Quindi, per essere il più sintetici possibile:

CHIEDIAMO
  1) Che il primo atto del nuovo governo sia quello di istituire una commissione di inchiesta a 360 gradi sulla gestione della pandemia. Una commissione di inchiesta che non sia chiusa nelle stanze dei palazzi ma che includa strutturalmente tecnici di specchiata onestà e senza conflitti di interessi con case farmaceutiche. Tale commissione dovrà prevedere la presenza attiva (non semplici audizioni di pochi minuti) dei comitati dei familiari delle vittime, in quanto protagonisti loro malgrado di questa tragedia annunciata e mal gestita. Chiediamo inoltre che venga istituita una commissione tecnico-scientifica atta a verificare i danni derivanti da vaccino e long covid.
  2) Che il lavoro degli enti inquirenti non venga in alcun modo intralciato con stati di emergenza fasulli o scudi penali, e che le verità processuali siano aderenti alle verità fattuali senza nessuna attenuante.
  3) Che i familiari delle vittime Covid ricevano sostegno psicoterapeutico gratuito per tutto il tempo necessario a rendere la loro vita più accettabile (no, per noi la normalità non esisterà più). Il bonus psicologo rientra in quella logica della lotteria per la quale qualcuno vince e qualcuno perde. Noi abbiamo già perso abbastanza e il sostegno psicoterapico di qualità e mirato è per noi un DIRITTO, non una lotteria da vincere. Chiediamo inoltre, laddove sia necessario, un sostegno economico a quelle famiglie che, avendo perso la principale fonte di sostentamento (marito, genitore, moglie), si sono ritrovate ad affrontare, oltre al dolore atroce, anche problemi pratici di natura economica.
  4) Esigiamo scuse ufficiali dalle istituzioni e gesti concreti che commemorino e ricordino i nostri martiri. Un semplice parchetto alla periferia di Bergamo, un concerto arrangiato e due parole del sindaco di Bergamo sono un insulto, non una commemorazione. Ai nostri cari dovranno essere intitolate strade e piazze e la Giornata della Memoria dovrà essere una giornata di lutto nazionale, quel lutto collettivo che non è mai stato elaborato, ma solo rimosso dalla parola “normalità”.
  5) Per finire chiediamo la cosa che al momento abbiamo più a cuore, l’unica che ridarebbe un minimo di dignità ai nostri cari e che darebbe un senso alla loro morte. Esigiamo una riforma della sanità pubblica che permetta a tutti di curarsi in sicurezza, avendo vicino i propri cari, in ambienti confortevoli, con personale sanitario che non sia costretto a fare l’eroe lavorando 15 ore, con il rischio (poi verificatosi) di andare in burnout o di sbagliare terapia, determinando la morte del paziente. Inoltre, chiediamo l’abolizione della legge Gelli e dell’imposizione di protocolli che riducono l’uomo ad una macchina costruita in serie. Ogni medico dovrà essere libero di applicare le cure adatte ad ogni singolo paziente in base alle specificità dello stesso.

BASTA PROMESSE.
  Vogliamo che dal letame di questi tre anni nasca il fiore di una sanità a misura di paziente. Mai più i familiari dovranno essere separati dai propri cari, mai più le persone dovranno morire sole e abbandonate in asettiche stanze di ospedale. Mai più.
  Sappiamo che ignorerete questa lettera come avete ignorato ogni nostra iniziativa fino ad ora, ma vogliamo che sappiate una cosa: ciò che ci tiene in vita è la voglia di giustizia e verità, e andremo fino in fondo. Anche se ci vorranno quarant’anni, noi continueremo a lottare con ancora maggior determinazione.”

(Comitato Nazionale Familiari Vittime del Covid, 23 agosto 2022)

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Lechaim! Israele si apre al turismo enologico

di Fabiana Magrì

Fino a pochi anni fa, sarebbe stato impensabile. Oggi invece il turismo enologico in Israele, incluso il segmento del vino kasher, sta prendendo una piega interessante. Il ministero israeliano del turismo ci sta investendo con convinzione, rispondendo agli sforzi di tanti produttori e lavorando per migliorare l'esperienza nel suo complesso, dai centri di informazione per i visitatori, ai tour organizzati, all’offerta gastronomica.
  Lo scenario è ancora fluido e in via di sviluppo, ma è certo che l’interesse per il vino israeliano, dall’essere una moda sta acquisendo consapevolezza di rappresentare una forma di cultura del territorio.
  Su circa 200 cantine presenti in tutto Israele, dalle Alture del Golan fino al Mar Rosso, passando per la Galilea e il Negev, per i dintorni di Tel Aviv e le colline di Gerusalemme, 106 etichette sono kasher. Ciascuna bottiglia contiene affascinanti avventure umane che nascono nei kibbutz, nelle città e perfino nei garage, come fossero start-up di altri tempi. Così l’industria israeliana del vino si sta costruendo una sua identità, nel modo in cui può esprimere le caratteristiche uniche dei suoi terroir.
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Recentemente è uscita - in libreria, nelle enoteche e nei deli shop di Israele - una guida preziosa e utile (in ebraico e in inglese) che si chiama “Wine Journey. An Israeli Adventure”. Le cantine sono raggruppate per aree geografiche, con tanto di mappe e interessanti introduzioni alle caratteristiche specifiche del territorio. Ogni cantina è presentata con una breve descrizione e simboli utilissimi per capire a colpo d’occhio la dimensione della produzione, se si tratta di vini kosher o vegani, se a quell’indirizzo sono benvenuti anche i bambini o gli animali, se si offre cucina o camere per dormire e se è accessibile a chi ha limitazioni o disabilità motorie.
  Il Negev è la più giovane regione del vino, in questa nuova era del turismo enologico in Israele. Lo stupore di lasciare l’ocra del deserto per immergersi nel verde delle vigne di Carmey Avdat è impagabile. Le Alture del Golan sono una specie di Wild West, con una natura che concentra in un piccolo territorio catene di vulcani dormienti e cascate, pascoli di mucche e villaggi drusi. Alla cantina Tel Shifon si può arrivare in elicottero. Qui è di casa anche Pelter, una delle etichette più esclusive, che di recente ha aperto una linea kosher, Matar. La Galilea, che si estende tra la costa e i confini con il Libano, la Siria e la Giordania, ospita il maggior numero di cantine. La Kitron è un'azienda vinicola gravitazionale, costruita su tre livelli cosicché il vino possa fluire senza essere pompato verso i successivi livelli di produzione. Le altre zone dove unire turismo e scoperta del vino sono le colline lungo la strada tra Tel Aviv e Gerusalemme e la pianura centrale lungo la costa mediterranea.
  Prima di partire per un’avventura all’insegna di assaggi di vini israeliani, può essere utile pianificare il tour, selezionando le cantine e chiamando o scrivendo per verificare che in quel giorno e in quegli orari siano aperte. E, se necessario, prenotare una visita. Tra una tappa e l’altra, è sempre meglio prevedere una sosta gastronomica. La guida ha pensato a tutto, anche a sezioni dedicate agli indirizzi più sfiziosi dove mangiare, dai mercati alle aziende agricole, dai ristorantini di campagna ai deli shop.

(Shalom, 23 agosto 2022)

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Israele, un toro spaesato fa irruzione in una banca: panico fra i dipendenti

È avvenuto lunedì 22 agosto a Lod (est di Tel Aviv)

Alla Leumi Bank di Lod (a est di Tel Aviv) una scena surreale si è palesata di fronte agli impiegati lunedì 22 agosto quando, nei loro uffici, è improvvisamente piombato un toro. L’animale, completamente spaesato, ha avuto difficoltà a muoversi sui pavimenti di marmo dell’edificio. Dopo circa un’ora e mezza di intervento, il toro è stato sospinto verso l’uscita fino a un parcheggio, dov’è stato imbrigliato e sedato da un veterinario. Non ci sono stati feriti. Il video è stato pubblicato dal quotidiano «Israel Hayom».

(Corriere della Sera, 23 agosto 2022)

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Palestinesi e antisemitismo: quando l’odio è scritto nei libri di scuola

Nonostante abbia ritrattato le sue controverse affermazioni sull'Olocausto, il leader palestinese continua a nutrire l'odio verso gli ebrei avviando in Cisgiordania riforme scolastiche che includono l'elogio del terrore, la demonizzazione dell'ebraismo e l'incitamento alla violenza.

di Itamar Eichner

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha infine ritrattato le sue controverse affermazioni sull’Olocausto pronunciate martedì in Germania, dopo aver suscitato indignazione in Israele e all’estero.
  In una dichiarazione scritta di mercoledì, ha affermato che non intendeva negare “la singolarità dell’Olocausto – il crimine più efferato della storia umana moderna”.
  Ma lo stesso Mahmoud Abbas, in passato, ha sostenuto nel suo dottorato che l’Olocausto non era altro che una “fantastica bugia”. E sembra che continui a nutrire questa convinzione nel suo ruolo di leader dell’Autorità Palestinese.
  I libri di testo distribuiti a oltre un milione di studenti in Cisgiordania, comprese le scuole dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), sembrano essere pieni di antisemitismo, compresa la negazione dell’Olocausto.
  Sotto la direttiva di Abbas, il Ministero dell’Istruzione palestinese ha attuato una riforma completa dei programmi scolastici, in seguito alla quale i contenuti dei libri di testo sono diventati significativamente più radicali rispetto agli anni precedenti.
  Il materiale didattico rielaborato include ora appelli alla Jihad, alla violenza e all’incitamento contro Israele e gli ebrei. Inoltre, i precedenti tentativi di raggiungere la pace con Israele, come gli accordi di Oslo, sono stati deliberatamente omessi dai nuovi libri di testo.
  Nonostante Abbas abbia chiarito che non intendeva negare l’Olocausto, i nuovi libri di testo palestinesi non menzionano affatto il genocidio degli ebrei. L’Olocausto è stato completamente omesso dai libri di storia che insegnano la Seconda Guerra Mondiale e la sua influenza sul corso della storia.
  Sorprendentemente, anche le Nazioni Unite, che spesso favoriscono i palestinesi nei confronti di Israele, sono criticate nei libri di testo. Agli studenti viene ordinato di fare un processo simulato in cui perseguono le Nazioni Unite per non aver protetto i palestinesi durante la Nakba, nota anche come catastrofe palestinese.
  Inoltre, il massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972 da parte di terroristi palestinesi viene descritto in una luce positiva e presentato come un esempio di lotta palestinese legittima.
  I libri di testo includono anche la demonizzazione dell’ebraismo, piuttosto che solo di Israele, come avveniva prima della riforma scolastica di Abbas.
  Gli insegnanti hanno anche l’ordine di abbassare i voti degli studenti che non fanno un collegamento tra “i massacri sionisti e la religione ebraica”. Un libro di storia insegnato in undicesima elementare suggerisce che gli ebrei governano il mondo, utilizzando la classica immagine antisemita di un braccio decorato con la Stella di Davide che regge il globo.
  Gli studenti palestinesi imparano anche che gli ebrei sono razzisti e controllano tutto il denaro, i media e la politica del mondo, sfruttandolo per il proprio tornaconto. Gli ebrei sono anche caratterizzati come bugiardi e corrotti e come “nemici dell’Islam”.
  Alcuni libri di testo parlano apertamente del genocidio che attende gli ebrei alla fine dei giorni, in modo simile al contenuto del Patto di Hamas.
  Il contenuto glorifica anche l’omicidio di civili in attacchi terroristici. Terroristi come Dalal Mughrabi, che nel 1978 guidò l’attacco a un autobus israeliano che si concluse con l’uccisione di 38 israeliani, tra cui 13 bambini, sono idolatrati come modello in un libro di testo destinato alla quinta elementare.
  La lingua araba viene insegnata attraverso una storia scioccante, che raffigura l’uso di cinture esplosive e suicide. La storia descrive palestinesi che “tagliano la gola ai soldati nemici” e “indossano cinture esplosive, trasformando così i loro corpi in un fuoco che brucia il carro armato sionista”.
  Una nuova ricerca di IMPACT-se, un’organizzazione israeliana senza scopo di lucro che monitora il contenuto dei libri di testo, ha analizzato centinaia di pagine dei nuovi libri scolastici dell’UNRWA, scoprendo che l’agenzia continua a incitare alla violenza e a cancellare Israele dalle mappe geografiche.

(Rights Reporter, 22 agosto 2022)

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E’ morto il rabbino Shalom Cohen, leader spirituale di Shas

E’ stato uno dei più importanti rabbini sefarditi di Israele Shalom Cohen, che è morto ieri all’età di 91 anni a Gerusalemme. Era il capo della prestigiosa yeshivà Porat Yosef e dalla morte del rabbino Ovadia Yosef, è stato il leader spirituale del partito Shas e del Consiglio dei saggi della Torah.
  Il rabbino Shalom Cohen è nato a Gerusalemme nel 1931, dove suo padre, anch’egli rabbino, gestiva una yeshivà. Da giovane ha studiato alla yeshivà Porat Yosef, dove ha insegnato per anni prima di diventarne il leader.
  "Piango la morte del capo della Grande Yeshiva e del saggio Shalom Cohen di benedetta memoria. - ha detto il presidente Isaac Herzog - Oltre alla sua grandezza nella Torah, era un leader spirituale che con modestia e umiltà guidava una grande e importante comunità in Israele e nel mondo ebraico. Ci siamo incontrati molte volte e mi dispiace che quest'anno non potremo mantenere la tradizione e fargli visita nella sua sukkah".
  "Nel nome del governo israeliano e di tutto il popolo di Israele, mando le mie condoglianze alla sua famiglia, ai suoi studenti e a tutti coloro che ne conservano la memoria. – ha dichiarato il primo ministro Yair Lapid - La nostra forza è nell'unità del popolo d'Israele”.
  Cohen è stato ricoverato pochi giorni fa all'Hadassah Ein Kerem a causa di un'infezione alla gamba. Tuttavia, le sue condizioni sono peggiorate durante il fine settimana, secondo quanto si apprende dai media israeliani. Il rabbino è stato trasferito al reparto di terapia intensiva ed è stato sedato a causa delle gravi condizioni. Sarà sepolto vicino a sua moglie e al rabbino Ovadia Yosef.

(Shalom, 22 agosto 2022)

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Monaco, bodyguard fa il saluto nazista agli atleti israeliani. Arrestato dalla polizia

di Paolo Castellano

Un saluto nazista rivolto alla squadra israeliana. È accaduto lo scorso 16 agosto a Monaco mentre si svolgevano i Campionati Europei di atletica leggera. L’autore del gesto antisemita è un 19enne tedesco che faceva parte dello staff della sicurezza. Il ragazzo è stato prontamente arrestato dalla polizia bavarese con l’accusa di “utilizzo di simboli di organizzazioni incostituzionali” – in Germania la legge vieta qualsiasi apologia del nazismo.
  Secondo il rapporto della polizia, intorno alle 19:20 una delle quattro guardie della security si è rivolta alla squadra degli atleti israeliani con il braccio teso; inequivocabile il saluto hitleriano. Il 19enne e i suoi tre colleghi hanno ricevuto un daspo per tutti gli eventi relativi alla grande kermesse sportiva. Inoltre, come riporta Times of Israel, il colpevole è stato immediatamente licenziato.
  Secondo le ricostruzioni, gli atleti israeliani non si sarebbero accorti di nulla. Tra l’altro, poco prima, una delegazione israeliana aveva visitato i luoghi simbolo dei tragici fatti avvenuti nel 1972, tra cui l’Olympic Park in cui avvenne il massacro di Monaco ’72 dove persero la vita 11 atleti israeliani.
  Dopo l’incidente antisemita è arrivata anche la condanna del capo del comitato organizzativo e del Parco Olimpico Marion Schöne. «Non accetteremo azioni così deplorevoli e ringraziamo la polizia per aver arrestato l’autore. Ci dispiace per ciò che è successo e ci auguriamo che i nostri ospiti israeliani continuino a sentirsi a proprio agio a Monaco nonostante questo vergognoso incidente».

(Bet Magazine Mosaico, 22 agosto 2022)

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Il Rio delle Amazzoni parla yiddish

Storia di E. I., che imparò a leggere in una lingua sconosciuta grazie ai libri di un uomo che risaliva il fiume. Un’ipotesi vuole che il primo europeo a navigare il suo corso sia stato fra il 1541 e il ’42 Francisco de Orellana e che vi abbia incontrato delle donne guerriere: da qui il nome. Narrava la sua vicenda di nato sul fiume più grande del mondo in una Maputo polverosa e descriveva cosa fosse uno shtetl, la Shoah, l’ebraismo: il suo sembrava un racconto surreale.

di Lia Tagliacozzo

Il Rio delle Amazzoni è il fiume più lungo del mondo (per alcuni si contende il primato con il Nilo); è luogo di fenomeni importanti per l’intera collettività umana: il disboscamento massiccio, gli incendi, l’inquinamento, la presenza di tribù di nativi estromesse dai loro territori. Il suo bacino naturale è colossale: è la foresta amazzonica, il «polmone verde» della Terra i cui milioni di alberi fanno rallentare il riscaldamento globale. Quando si parla del Rio delle Amazzoni tutto è gigantesco: i suoi miti e la sua leggenda: la lunghezza del fiume – 6992 chilometri, il fatto che oltre cento dei suoi innumerevoli affluenti siano navigabili, il dato che attraversi tre paesi diversi.

IL SUO ESTUARIO, a seconda delle fonti, è compreso tra i cento e i duecento chilometri, la sua profondità pare arrivi a cento metri. Un fiume grandioso lungo cui scorrono mondi interi: migliaia di storie corrono lungo il fiume, portate da uno dei duecentoventi affluenti del solo tratto che scorre nel territorio brasiliano dopo aver attraversato il Perù e la Colombia.
  Oggi il Brasile brucia e la foresta compare nelle cronache per la distruzione di uno dei polmoni della terra. Ma c’è un altro modo di guardare all’Amazzonia e al grande fiume: luogo della magia e dell’immaginario che da cinque secoli lo candida a conservare il segreto dell’Eldorado, nascosto e lussureggiante, luogo di ricchezza e di spiritualità. La storia del Rio delle Amazzoni è radicata nel mito, nelle lingue diverse, nella vita delle 190 tribù indigene, nelle vicende dei garimpeiros (i cercatori d’oro), nel ciclo del caucciù che ha fatto la fortuna e la caduta delle città lungo il fiume.
  Tra le molte vicende raccolte dal fiume vi è quella di E. I., identificato con le sole iniziali. Ha un nome brasiliano e la sua storia – che affonda le radici nelle palafitte dei caboclos, gli abitanti del fiume – l’ha raccontata a Maputo, in Mozambico, nell’unica sinagoga del paese, parecchi anni fa.
  Una tesi ardita suppone che la direzione del Rio delle Amazzoni sia dovuta alla sua formazione antecedente la deriva dei continenti e che il grande fiume sia quindi nato, originariamente, in Ciad. Ma non c’è bisogno di questo per collegare il Brasile all’Africa e le due tradizioni lusofone, basta un uomo che, nato sul corso del Rio delle Amazzoni, decida di fare l’assistente sociale in un paese ancora più povero del suo quale è il Mozambico.
  Del grande fiume non è sicura nemmeno l’origine del nome: un’ipotesi vuole che il primo europeo a risalirlo sia stato Francisco de Orellana tra il 1541 e il 1542 e che vi abbia incontrato delle donne indigene guerriere da cui sarebbe venuto il riferimento alle amazzoni. Fu lo scrivano di Orellana, frate Carvajal, che descrisse nella «Relacion del neuevo descubrimiento del famoso Rio Grande» la struttura delle società indigene. La citazione più antica del «Rio de Amaxones» risale invece al 1548 ed è riportata in un atlante del cartografo genovese Vesconte Maggiolo mentre fu Padre Samuel Fritz, un missionario gesuita tedesco, il primo a disegnare la mappa del fiume nel 1707.
  «Uno spazio enorme, essenziale, vergine – spiega Sebastião Salgado nell’introdurre la mostra Amazzonia, prorogata fino a oggi 21 agosto al Maxxi di Roma – che è indispensabile proteggere», ma anche «un’Amazzonia viva, incontaminata, che è la sua parte più consistente, foto che raccontano quell’ottantadue per cento della foresta ancora carica di misteri», segreti e storie grandi e piccole.
  E. I. all’epoca del suo racconto aveva una cinquantina di anni e due baffi poderosi, da bambino viveva però sulle palafitte, poche case raccolte tra l’acqua e il verde della foresta: un luogo di sosta per chi viaggiava sul fiume. Una povertà dignitosa che non sconfinava nella miseria. Suo padre – proprietario dell’unico spaccio del villaggio – non sapeva leggere; sua madre invece, caparbia e lungimirante, voleva che il figlio studiasse. Poco può fare la pluriclasse: manca tutto, mancano – soprattutto – i libri.

E. I. LEGGE I GIORNALI – quando arrivano portati dalle barche che risalgono il fiume – una lettura condivisa con il resto del villaggio fin quando le pagine si usuravano.
  Un giorno, una nuova barca risale il fiume. Quando E. I. narra la sua storia, a Maputo partecipa alle funzioni in sinagoga. Lui – non ebreo – propone ai presenti un culto dello Shabbat, il sabato ebraico, come lo ha imparato dai molti ebrei delle organizzazioni internazionali che si sono avvicendate in Mozambico.
  Decine di anni prima, sulla barca che risaliva il Rio delle Amazzoni, c’era un uomo con un aspetto strano perfino per la varia umanità dei caboclos: barba e capelli incolti, un vestito scuro, quasi non parlava portoghese ma, per farsi compagnia, portava con sé dei libri. Di quelli non faceva commercio: erano suoi e non erano molti, li leggeva e li rileggeva.

ERANO IN UNA LINGUA straniera che E. I. non conosceva ed erano anche i primi che avesse mai visto. Quando l’uomo capì il fascino che esercitavano sul ragazzino gliene lasciò uno, insieme ai rudimenti di quella lingua misteriosa. Quando risaliva il fiume raccontava, si riprendeva il libro e ne lasciava un altro. Come l’uomo, anche i libri erano vecchi e usurati, ma erano libri. E. I. leggeva e l’uomo raccontava, un libro dopo l’altro per mesi, anni. Poi l’uomo vestito di scuro smise di risalire il fiume e E. I. non ne seppe più nulla. Aveva però imparato a leggere la lingua strana e sconosciuta. Nel cuore della foresta amazzonica, lungo il Rio delle Amazzoni, aveva imparato a leggere lo yiddish, la lingua degli ebrei dell’Europa orientale.

LA PRIMA VOLTA che E. I. è sceso lungo il fiume è stato per andarsene: ha fatto il lavapiatti e si è pagato l’università. Ha studiato e fatto il sindacalista. Oggi l’archivio della polizia politica dello stato di Minas Gerais – al fine di democratizzare la consultazione delle raccolte documentarie – conserva testi con il suo nome: diffusione di materiale del Partito comunista clandestino ai tempi della dittatura, organizzazione della sinistra studentesca. Con la sua firma si trovano articoli sul sottosviluppo.
  Quando E. I spiegava la sua storia di nato sul fiume più grande del mondo in una Maputo polverosa e descriveva cosa fosse uno shtetl, cosa l’ebraismo, cosa la Shoah, il suo sembrava un racconto surreale. E. I. declinava gli ebrei con il «noi» pur non millantando alcuna ascendenza ebraica: è solo – spiegava – «che esiste un legame tra ciò che ho letto nella giungla amazzonica lungo il Rio delle Amazzoni e ciò che sono venuto a fare nella capitale africana. È una questione di responsabilità». I fiumi, a volte, disegnano confini, altre portano storie che raccontano incontri, vicende di uomini e donne che si intrecciano come i corsi d’acqua che si versano nel Rio delle Amazzoni.

SCHEDA - DALLE LETTERE DI AMERIGO VESPUCCI
«Ci regalarono tartarughe e pesci saporiti»

Nel 1499 il navigatore toscano Amerigo Vespucci, separatosi da Alonso de Ojeda in Guayana, si diresse verso sud esplorando l’attuale costa brasiliana fino al cabo di San Agustin.
  Vespucci descrisse nelle sue lettere al fiorentino Lorenzo di Pier Francesco de Medici, due fiumi enormi, probabilmente il Rio delle Amazzoni e il Parà (estuario del Tocantins) che sfociano nell’oceano: «Credo che questi due fiumi siano la causa dell’acqua dolce nel mare. Accordammo entrare in uno di questi grandi fiumi e navigare attraverso di esso fino ad incontrare l’occasione di visitare quelle terre e popolazioni (…). Navigando, vedemmo segnali certissimi che l’interno di quelle terre era abitato. Quindi decidemmo di tornare alle caravelle che avevamo lasciato in un luogo non sicuro e così facemmo».
  Dopo aver navigato per 15 leghe avvistarono un’isola enorme – probabilmente Marajò, l’isola fluvio-marina che si trova al centro dell’immenso estuario del Rio delle Amazzoni. Ecco nuovamente il racconto del fiorentino: «Avvicinandosi a detta isola con grande celerità, incontrammo gente bestiale e ignorante, però allo stesso tempo era la più pacifica e benigna di tutte le genti fino ad allora trovate; ed ecco i loro usi e costumi: il loro volto e corpo sono animaleschi. Tutti hanno la bocca piena d’una strana erba verde che ruminano, come fossero animali, cosicché difficilmente possono articolar verbo. Avevano anche alcuni recipienti tipo zucche legati al collo, alcuni di essi pieni di detta erba, altri pieni di una farina bianca simile a gesso, e con un bastoncino che insalivavano, si portavano alla bocca detta farina di gesso per poi masticarla insieme all’erba verde. (…) Questa gente si dimostrò così familiare che era come se li avessimo conosciuti da tempo. Camminando con loro nella spiaggia ci intrattenemmo con loro in amabili conversazioni. Quando desiderammo bere acqua fresca, ci fecero capire a segni che nell’isola mancava l’acqua fresca e ci offrirono l’erba e la farina che ruminavano di continuo; da ciò capimmo che usavano quella pianta proprio per non sentire la sete… Sono grandi pescatori e hanno grand’abbondanza di pesci. Ci regalarono molte tartarughe e altri tipi di pesce fresco e saporito». (Brani delle lettere di Amerigo Vespucci sono tratti da «Storia della colonizzazione europea dell’Amazzonia» di Yuri Leveratt. Si ringrazia Barbara De Benedictis) l. ta.


(il manifesto, 21 agosto 2022)

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La sinistra che attacca Israele

Da Jeremy Corbyn ai post dei giovani Pd

Gli attacchi a Israele da parte di due esponenti del Pd in lizza per le elezioni del 25 settembre, il segretario del partito in Basilicata Raffaele La Regina e la candidata in Veneto Rachele Scarpa, non sono un caso isolato. Appartengono a un contesto di opinioni assai diffuse nella sinistra italiana e in quella mondiale: polemiche analoghe sono sorte negli ultimi anni a Londra, quando Jeremy Corbyn era leader del Labour, e negli Stati Uniti con l'emergere della corrente radicale del partito democratico legata alle deputate Alexandria Ocasio-Ortez e Rashida Tlaib. Il nuovo leader laburista britannico Keir Starmer ha denunciato apertamente l'esistenza di posizione antisemite all'interno del proprio partito, espellendo i membri della Camera dei Comuni che le esprimevano, incluso il suo predecessore Corbyn. Joe Biden ha preso le distanze con fermezza dalle accuse a Israele di Ocasio-Ortez e Tlaib, impedendo che condizionassero la politica della Casa Bianca. Nel condannare le dichiarazioni di La Regina, che ha volontariamente ritirato la propria candidatura, e Scarpa, il leader del Pd Enrico Letta segue lo stesso solco.
  Ma una condanna non basta. Simili incidenti dovrebbero spingere i progressisti italiani a una riflessione più profonda sui motivi che li scatenano. Come ha fatto Starmer nel Regno Unito, equiparando l'antisionismo con l'antisemitismo e presentandolo come l'antitesi della tradizione laburista. Criticare il governo di Israele per la sua politica nei confronti dei palestinesi è legittimo: lo fanno del resto molti amici sinceri dello Stato ebraico, inclusa l'amministrazione Usa, e molti fra gli stessi israeliani, basta pensare alle posizioni prese nel corso del tempo da tre grandi scrittori come Amoz Oz, Abraham Yehoshua e David Grossman. O a quanto ha scritto nei giorni scorsi Bernard-Henry Lévy su questo giornale a proposito della recente guerra di Gaza: "Vorrei vedere più Atene che Sparta nell'Israele odierna", sottolineando però che questo non sempre è possibile per l'unica democrazia di stampo occidentale di una regione in cui tutti gli altri volevano distruggerla. Negli attacchi a Israele della sinistra europea e americana, invece, traspare spesso una delegittimazione dell'esistenza di Israele, dietro la quale si intravedono i peggiori stereotipi sui banchieri ebrei padroni del pianeta.
  "L'antisionismo va equiparato all'antisemitismo", ha detto Starmer schierandosi anche contro il movimento Bds (Boycott, Divestment and Sanctions), "perché nega il diritto del popolo ebraico all'autodeterminazione. Paragona il sionismo al razzismo, si concentra ossessivamente sull'unico Stato degli ebrei al mondo e richiede ad esso degli standard a cui nessun altro Paese viene sottoposto". Come scrive una giovane docente di storia della Sapienza, Alessandra Tarquini, nel saggio La sinistra italiana e gli ebrei, pubblicato dal Mulino nel 2019, il difficile rapporto fra la sinistra di tradizione marxista e gli ebrei riflette una inadeguatezza strutturale a riflettere sulla questione ebraica che ne inibisce la piena comprensione.
  A livello internazionale David Rich, direttore del Pears Institute for the Study of Antisemitism alla Birkbeck University di Londra e autore del saggio The left's Jewish problem (Il problema ebraico della sinistra), va al nocciolo della questione: "C'è un vecchio pregiudizio che spinge alcuni progressisti, in tutto il mondo, a vedere negli ebrei e nello Stato ebraico la fonte di ogni male. L'antisemitismo di sinistra non ha niente a che vedere con il ben noto, razzista e violento antisemitismo di destra. Deriva piuttosto da un modello di pensiero che divide il mondo in oppressi e oppressori, assegnando quest'ultima etichetta agli ebrei, visti come popolo ricco, potente e manipolatore. È un sentimento che sconfina in molto più di una legittima opposizione alle politiche dello Stato ebraico, incorporando gli antichi stereotipi antisemiti e le classiche teorie della cospirazione". Solo riconoscendo che un atteggiamento del genere esiste, la sinistra italiana può risolvere il problema.  

(la Repubblica, 22 agosto 2022)

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L’alibi dell’antisionismo

di Elena Loewenthal

Per quanto possa sembrare approssimativa o pretestuosa, l’equazione antisionismo uguale antisemitismo ha una sua ragion d’essere tanto profonda quanto coerente sulla quale, alla luce del recente subbuglio fra le fila del Partito Democratico, val la pena tentare un poco di chiarezza. Dichiararsi antisionisti (con magari la premessa cautelativa «però non ho nulla contro gli ebrei...») è prima di tutto un goffo anacronismo. Il sionismo, nato intorno alla metà dell’Ottocento (e codificato dopo qualche anno da Theodor Herzl) è di fatto un movimento risorgimentale che auspica la costruzione di un focolare nazionale per il popolo ebraico con l’obiettivo per un verso di strapparlo al suo destino di paria fra le nazioni, oggetto di emarginazione e persecuzioni perpetrate in nome della sua diversità, per l’altra di normalizzare questo destino riportando i figli d’Israele a un’autodeterminazione che in quell’epoca divenne un diritto per tutti i popoli. Dirsi antisionisti è anacronistico perché è come dirsi antirisorgimentali, ma anche perché ormai da decenni l’obiettivo del sionismo, cioè la creazione di uno stato ebraico, è raggiunto: lo stato d’Israele esiste dal maggio del 1948. Anzi, da un po’ prima. Israele è infatti uno dei pochi stati al mondo nato sulla scorta di una votazione democratica: la risoluzione Onu del 29 novembre del 1947 che sancì la spartizione della Palestina in due stati palestinesi - uno palestinese arabo e uno palestinese ebraico. Israele non è nato a causa della Shoah, come incongruo risarcimento agli ebrei sterminati. È nato nonostante la Shoah, che ha portato via un capitale incalcolabile di risorse umane, di vite. Nel 1947 esisteva in Palestina, oltre a una comunità ebraica storica lì da sempre, anche una società composita e strutturata frutto di diverse ondate migratorie a partire dalla prima metà del XIX secolo, con Università (quella di Gerusalemme è fondata nel 1925), settori produttivi, sistema sanitario, servizi postali e tanto altro. Lo stato d’Israele, dichiarato nel maggio del 1948, non nasce affatto dal nulla, ma da quel mondo già formato e vivo; e in virtù della risoluzione Onu, salutata con gioia dal fronte ebraico e rinnegata da quello arabo.
  Oltre che un anacronismo, l’antisionismo si configura come un pregiudizio. Per due ragioni fondamentali. Il sionismo è un grande movimento di pensiero e azione, è di fatto il risultato dell’incontro fra ebraismo e modernità: l’idea che l’antisemitismo è irriducibile e solo conquistando l’autonomia politica il popolo ebraico potrà sottrarsi al suo giogo. Non a caso, Theodor Herzl elabora la sua idea di risorgimento ebraico dopo aver assistito al processo Dreyfus - l’emblema stesso del moderno pregiudizio antisemita, che darà poi la terribile prova dei campi di sterminio. Negare la legittimità del sionismo significa relegare tutti gli ebrei (israeliani o diasporici che siano) a quel destino di popolo dannato, privo dei diritti fondamentali - primo di tutto quelli della libertà e dell’autodeterminazione. Significa anche un’altra cosa: la convinzione che se Israele non ci fosse tutti i problemi del Medio Oriente, tutti i conflitti si risolverebbero in un batter d’occhio. Come se Israele portasse in sé un peccato originale primigenio: quello di esserci. Anche su questo fronte, la storia di questi ultimi anni ha saputo dimostrare che non è così: quello scacchiere macro regionale sta cambiando, è mobile e imprevedibile – a prescindere dalla presenza di uno stato come Israele, che copre un territorio grande non più della Lombardia. In sostanza, mettere in discussione l’esistenza stessa dello stato ebraico è né più né meno che un pregiudizio, fondato su un’errata percezione della storia e della realtà. Il che naturalmente non significa che lo stato d’Israele non possa essere oggetto di critiche, anche pesanti. Purché non venga messo in discussione, però, il suo diritto all’esistenza, tanto legittimo quanto storicamente sancito.

(La Stampa, 22 agosto 2022)
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«Israele è uno dei pochi stati al mondo nato sulla scorta di una votazione democratica: la risoluzione Onu del 29 novembre del 1947 che sancì la spartizione della Palestina in due stati palestinesi - uno palestinese arabo e uno palestinese ebraico», sostiene l'autrice dell'articolo, ripetendo una formula usuale che dopo tutto quello che si è scritto sull'argomento non può che dirsi frutto di ignoranza. Non è vero. L'Onu non ha la virtù di far nascere nazioni. Una formulazione errata in questioni di tale importanza non è accettabile, tanto meno da una esponente del mondo ebraico. Riportiamo qui alcuni punti ribaditi nel nostro sito:
  1. Lo Stato d'Israele non è il frutto tardivo del colonialismo delle potenze occidentali, ma, al contrario, le sue difficoltà sono dovute al perdurare di atteggiamenti colonialistici europei che hanno favorito la nascita di Stati arabi come Iraq, Giordania, Libano, Arabia Saudita, mentre hanno danneggiato la fondazione dello Stato ebraico.
  2. La legittimità nazionale dello Stato ebraico non nasce nel 1947 con la Risoluzione 181 dell'Onu, ma nel 1920 con la Risoluzione di Sanremo stabilita dalle potenze alleate vincitrici della prima guerra mondiale.
  3. La Risoluzione di spartizione 181 non è la benevola dichiarazione che ha fatto nascere lo Stato d'Israele, ma, al contrario, è la malevola prevaricazione che ha causato l'illegale decurtazione di una parte consistente della terra che già apparteneva, de jure, allo Stato ebraico.
  4. L'Olocausto non è la molla che ha spinto le nazioni, per rimorso e volontà di compensazione, a dare agli ebrei una nazione, ma, al contrario, è la tragedia che ha costretto l'Organizzazione Sionista e l'Agenzia Ebraica ad accettare, obtorto collo, la spartizione della loro terra perché era assolutamente urgente dare asilo alle migliaia di profughi ebrei scampati all'Olocausto, e che nessuno, a cominciare dalla Mandataria Gran Bretagna, voleva accogliere.
Gli articoli collegati a questi punti sono presenti da anni nel nostro sito e si possono trovare  -> qui.

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I pericoli della trattativa con l’Iran

di Ugo Volli

• PERCHÉ L’IRAN È PERICOLOSO
  Ci sono poche cose al mondo più dannose e dunque militarmente e politicamente più significative delle armi atomiche, capaci di distruggere una città in un colpo solo e di lasciarla inabitabile per tempi molto lunghi. L’umanità conosce queste armi da quasi ottant’anni e nonostante i numerosi conflitti di questo periodo, dopo il primo bombardamento di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, esse non sono state più utilizzate: perché gli stati che le possiedono sono pochi (esattamente 9: Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, India, Pakistan, Israele, Corea del Nord) e perché i loro comportamenti in questo campo sono razionali, tengono cioè conto delle reazioni degli altri che li distruggerebbero se le usassero per prime. Al club degli stati atomici però ci sono altre candidature, soprattutto in Medio Oriente. Ci hanno provato l’Iraq di Saddam Hussein e la Siria, fermati entrambi da Israele, e da decenni ci lavora l’Iran.

• IL PROGETTO ATOMICO DELL’IRAN
  Questo è oggi probabilmente il più grave pericolo per la pace nel mondo. Perché l’Iran non è solo uno stato aggressivo e imperialista (come Russia e Cina) o governato da un'élite paranoica e priva di inibizioni (come la Corea del Nord), ma è anche un regime teocratico che teorizza il terrorismo suicida (loro lo chiamano “martirio”) e spesso ha mostrato di non avere cura della vita stessa dei propri sudditi pur di avanzare il proprio imperialismo religioso. Questa è la ragione per cui tutti gli statisti responsabili sono estremamente preoccupati dalla scommessa degli ayatollah: la minaccia della mutual assured destruction (la “distruzione reciproca garantita” in caso di guerra atomica) potrebbe non essere sufficiente a fermare un Iran nucleare. Inoltre, l’armamento atomico gli permetterebbe di intraprendere aggressioni convenzionali senza temere rappresaglie.

• LE REAZIONI AL PROGETTO DI ARMAMENTO NUCLEARE IRANIANO
  Chi ha più cercato di fermare il tentativo iraniano è stato Israele, il nemico che gli ayatollah promettono di distruggere alla prima occasione. Lo Stato ebraico ha usato tutte le sue risorse di intelligence, di azione clandestina e di guerra informatica per fermare il progetto e in effetti è riuscito a rallentarlo per decenni. Anche gli Usa fino a un certo punto ci hanno provato, con sanzioni e azioni segrete. La svolta è venuta da Obama, convinto che l’Occidente avesse un debito morale verso l’Islam. Ha cercato quindi di trovare un accordo con la Repubblica Islamica, nemico storico del suo paese, promettendo vantaggi economici e una sostanziale tolleranza verso l’imperialismo iraniano, anche se esercitato ai danni degli alleati storici dell’America, come Israele, Egitto, Arabia.

• L’ERRORE DI OBAMA E I SUOI SUCCESSORI
  Nel 2015 Obama, contro l’opposizione di questi alleati e anche della maggioranza del congresso, firmò un accordo detto Jpcoa (non un trattato, perché sapeva che il Senato non l’avrebbe approvato, come esige la Costituzione Usa per i trattati internazionali), che prevedeva la sospensione da parte dell’Iran dell’arricchimento dell’uranio (l’esplosivo della bomba atomica), controllata dall’agenzia atomica dell’Onu, in cambio della sospensione delle sanzioni e di cospicui vantaggi politico-economici. L’Iran ne approfittò per estendere la sua espansione imperialistica in tutto il Medio Oriente e come fu documentato da Israele, non cessò affatto il suo progetto nucleare. Di conseguenza Trump, successore di Obama, decise di uscire dall’accordo e l’Iran ne approfittò per intensificare i suoi sforzi di ottenere l’atomica, soprattutto dopo che Biden decise di tentare di rientrare nell’Jpcoa.

• LE TRATTATIVE
  I negoziati per la ripresa dell’accordo vanno avanti ormai da più di un anno, bloccati da diversi fattori. Il primo è che l’Iran vuole rientrare da una posizione di forza, non tornare al punto di partenza del 2015, ma far valere il suo status di threshold state (cioè stato al limite del nucleare, capace di avere la Bomba in poche settimane), come ormai purtroppo è. Il secondo è che oltre a questo esso ha pretese politico-economiche decisamente esagerate (risarcimenti economici enormi, riconoscimenti politici, la rinuncia a definire terroriste le sue attività di sovversione armata e le organizzazioni di cui si serve, ecc.). Il terzo fattore è che il principale mediatore fra Usa e Iran, che non si parlano direttamente, è stata a lungo la Russia, grande protettore e alleato della Repubblica Islamica, che però con la guerra in Ucraina è diventato esplicitamente un nemico degli Usa. Insomma, le trattative si sono bloccate più volte e sembravano fallite. Ora però al posto della Russia è arrivata l’Unione Europea (tendenzialmente piuttosto filo-iraniana anch’essa) che ha formulato, non si sa con che diritto, una “proposta finale” per l’Iran. Buona parte delle richieste iraniane sono accolte in questa proposta, ma l’Iran ha rilanciato con altre richieste. Il negoziato sembra di nuovo a un punto morto.

• CHE ACCADRÀ
  La trattativa è segreta, ne conosciamo solo le indiscrezioni rese pubbliche dalle parti a scopo propagandistico. Non sappiamo quindi quali sono i termini esatti della discussione. Ma c’è un serio pericolo che Biden ripeta l’errore di Obama (perché l’ha condiviso come vicepresidente ed è ancora portatore delle stesse scelte ideologiche), e annunci un giorno che l’accordo è fatto, applicandolo subito. È probabile che questo possa accadere prima delle elezioni di novembre, dove è possibile che egli perda la maggioranza al Congresso, anche perché immagina possa essere un buon contenuto di propaganda elettorale. Se ciò accadesse, questo lascerebbe soli i tradizionali alleati dell’America e in primo luogo Israele, a resistere all’espansione iraniana. E molto probabilmente nell’accordo ci sarebbero intese più o meno esplicite, per cui gli Usa si impegnerebbero a impedire un’azione preventiva israeliana contro l’atomica dell’Iran. Insomma il problema è estremamente delicato e mette Israele in una posizione molto difficile. Ma anche per l’America e l’Europa rafforzare con finanziamenti, influenza politica e lo stato di threshold state un regime anti-occidentale, alleato della Russia, fanaticamente terrorista è decisamente un cattivo affare.

(Shalom, 22 agosto 2022)

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Germania: Abu Mazen indagato per avere sminuito l’Olocausto

di Sofia Tranchina

Si è tenuta il giorno 16 agosto una conferenza nella cancelleria di Berlino tra il cancelliere della Germania Olaf Scholz e il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmud Abbas.
  Nonostante l’evento prevedesse un confronto pacifico e aperto sulla soluzione dei due Stati Israele e Palestina, si è visto sin da subito che non mancava una certa franchezza che ha portato a una iniziale frizione e un finale gelo.
  Mentre Abbas chiedeva un ritorno ai confini del 1967 per la creazione di uno Stato palestinese, infatti, ha parlato di Apartheid e di occupazione della Palestina, termini ai quali Scholz non ha mancato di dichiararsi contrario.
  «Non credo che il termine Apartheid possa essere usato per definire la corrente situazione», ha affermato il cancelliere tedesco, commentando tra l’altro il fatto che Abbas è in carica da diciotto anni e sarebbe il caso di procedere a nuove elezioni.
  Verso la fine della conferenza, tuttavia, la frizione è scivolata nel gelo: un giornalista ha chiesto ad Abbas se, in quanto presidente dell’Autorità Palestinese, intendesse scusarsi da parte di tutti i palestinesi per il Massacro di Monaco del 1972, in cui l’organizzazione terroristica Settembre Nero rapì e uccise 11 atleti della squadra olimpica israeliana.
  Si ricorda che, ai tempi dell’attacco, il gruppo Settembre Nero era legato al partito Fatah, di cui Abbas fa parte.
  A questa domanda, Abbas ha risposto dicendo che avrebbe piuttosto potuto elencare «50 massacri di Israele contro la Palestina perpetuati dal 1947, 50 olocausti».
  In seguito all’utilizzo improprio del termine Olocausto, il cancelliere tedesco ha risposto tramite i media che non è ammissibile sminuire così la Shoah, ovvero lo sterminio perpetuato da parte dei nazisti nei confronti di sei milioni di ebrei. Una «rottura della civiltà» che non andrà mai dimenticata.
  Scholz ha poi chiamato personalmente il primo ministro israeliano Yair Lapid per comunicargli tempestivamente il proprio «disgusto» nei confronti delle affermazioni di Abbas.
  Attualmente, la polizia tedesca ha avviato un’indagine preliminare contro Abbas, accusato di aver banalizzato l’Olocausto.
  Sminuire l’Olocausto è infatti un reato penale in Germania, ma Abbas sarebbe immune dall’accusa, come affermato dal ministero degli esteri tedesco, poiché si trovava in visita nel paese in veste ufficiale in qualità di rappresentante dell’Autorità palestinese.
  Abbas rimane comunque largamente criticato dalla comunità internazionale per essersi rifiutato di scusarsi per il massacro di Monaco.

(Bet Magazine Mosaico, 22 agosto 2022)

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Quando Caltabellotta andava alla sinagoga: riemergono tracce degli ebrei in Sicilia

La visita con i Borghi dei tesori

di Gioacchino Amato

La casa rabbinica di Caltabellotta
Un'indagine lunga e faticosa che prende il via nei polverosi ma ricchissimi archivi storici di Sciacca, e continua svelando documenti unici e dettagliati per poi spostarsi sul campo dove, alla fine, il tesoro torna alla luce.
  È la ricerca della studiosa ebraista saccense Angela Scandaliato che ha ricostruito la presenza a Caltabellotta, a partire dalla metà del Quattrocento, di una delle più folte comunità ebraiche di Sicilia ed è riuscita ad individuare nella cittadina agrigentina arroccata sulle montagne il quartiere ebraico e la sinagoga. Una scoperta che per la prima volta viene aperta ai visitatori nei weekend da oggi al 4 settembre nell'ambito di "Borghi dei tesori fest".
  Tutto inizia dai documenti che testimoniano la presenza della comunità ebraica di Caltabellotta che vive in stretto collegamento con quella di Sciacca ma se ne differenzia nettamente quanto ad estrazione sociale. Se nel centro costiero gli ebrei fanno parte dei nobili del tempo, a Caltabellotta rappresentano un primo embrione di borghesia, formato da medici, notai, erboristi. Ma paradossalmente l'impronta più nitida della comunità la lascia la sua scomparsa causata dall'editto dei re cattolici Ferdinando II d'Aragona e Isabella I di Castiglia che nel 1492 decreta l'espulsione dai loro territori delle comunità ebraiche. La sinagoga di Caltabellotta e tutti i beni del rabbino vengono messi in vendita e sono minuziosamente descritti nell'atto di cessione. Una vera e propria mappa del tesoro per Angela Scandaliato: "Si descriveva la sinagoga con la casa rabbinica e il matroneo - spiega la storica - il locale riservato alle donne con l'apertura che permetteva di osservare i riti e la bibbia ebraica orientata verso Gerusalemme. Anche i locali sotterranei dedicati al bagno sacro. Così inizio una serie di ricerche sul campo e una mia amica mi parla di un'iscrizione antica su un palazzo".
  Scopre così sullo stipite di una porta antica una pietra tombale di forma trapezoidale. Siamo nei primi anni Novanta e la studiosa consulta quello che era il più grande esperto di civiltà ebraica in Sicilia, monsignor Benedetto Rocco, Ciantro della Cappella Palatina che conferma: si tratta di un reperto proveniente dal cimitero ebraico di Caltabellotta. Poi c'è una nuova intuizione dovuta all'allora vicesindaco di Gerusalemme, l'architetto David Cassuto: "Eravamo a passeggio per il paese - racconta Scandaliato - e lui notò la via delle scuole. Mi chiese se esistessero scuole o fossero esistite in passato perché "scola" è anche sinonimo di sinagoga. Iniziai le ricerche e arrivai a trovare il quartiere ebraico".
  Si svelano così, anche se celati in parte da costruzioni cinquecentesche, i resti della sinagoga e tracce del bagno rituale, e soprattutto la casa rabbinica che è quella meglio conservata e arricchita da un soffitto ligneo del Seicento.
  È questa la visita destinata a piccoli gruppi di cinque persone che offre l'iniziativa delle Vie dei tesori. Lo storico locale Vincenzo Mulè che è anche il custode della casa che appartiene ai tre fratelli Buttafuoco guiderà i visitatori servendosi della descrizione della fine del Quattrocento ritrovata da Angela Scandaliato.
  Dalla casa rabbinica con l'alcova e il tetto intarsiato, si arriva sul pronao a colonne affacciato sulla vallata. Da qui si scende una scala in pietra medievale e si accede ad una sorta di cortile con al centro un pozzo. Secondo gli studi, questa zona in un primo tempo faceva parte di una strada aperta che conduceva al pozzo a cui gli ebrei attingevano, secondo tradizione, l'acqua di sorgente. Le due colonne visibili sarebbero posteriori e la strada condurrebbe alle antiche scuole ebraiche che danno il nome alla via. Ma non tutti i tesori sono stati svelati: "Bisognerebbe avviare una campagna di scavi - spiega la studiosa - per esplorare il sottosuolo in cerca dei locali del bagno sacro e per scoprire altre parti della sinagoga che sono ancora inaccessibili. E valorizzare una grande figura di quel tempo, noto agli studiosi ma non al grande pubblico, come Flavio Mitridate".
  Già, perché la comunità ebraica di Caltabellotta ha dato i natali all'orientalista più famoso del Rinascimento, figura controversa dalla immensa cultura ma dalla vita rocambolesca come il più illustre dei suoi allievi, Pico della Mirandola, del quale fu insegnante di ebraico e arabo. Figlio di un medico e astrologo e allievo dell'università ebraica di Sciacca fondata nel 1447, ebbe tre nomi: Shemuel ben Nissim Abul-Farag, Guglielmo Raimondo Moncada e infine Flavio Mitridate. "Fu alla corte dei papi Sisto IV e Innocenzo VIII - spiega Scandaliato - ma poi fu accusato di un delitto. In realtà in molti suoi scritti descrive anche con crudezza l'omosessualità dei due papi che erano suoi protettori e alla fine fu lui stesso accusato. Si rifugiò in grandi università europee dove colpiva la sua grande cultura ma anche l'interesse per la mistica, l'esoterismo, la cabala".

(la Repubblica, 20 agosto 2022)

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Salmo 109 (2)

  1. Per il maestro del coro. Salmo di Davide.
    O Dio della mia lode, non tacere,
  2. perché bocca di malvagio e bocca d'inganno si sono aperte contro di me; hanno parlato contro di me con lingua di menzogna.
  3. Mi hanno circondato con parole d'odio, mi hanno fatto guerra senza motivo;
  4. in risposta al mio amore mi accusano. E io resto in preghiera.
  5. Mi hanno reso male per bene, e odio in cambio d'amore.
  1. Costituisci un empio sopra di lui, un accusatore si tenga alla sua destra.
  2. Sia giudicato ed esca condannato; la sua preghiera gli sia imputata a peccato.
  3. Siano pochi i suoi giorni: un altro prenda il suo ufficio.
  4. Siano orfani i suoi figli e vedova sua moglie.
  5. Vadano errando i suoi figli e accattino; cerchino pane lontano dalle loro case in rovina.
  6. Getti l'usuraio le sue reti sui suoi beni; facciano preda gli estranei delle sue fatiche.
  7. Nessuno mostri a lui benevolenza, e non si trovi chi abbia pietà dei suoi orfani.
  8. Sia distrutta la sua progenie; nella seconda generazione sia cancellato il loro nome!
  9. Sia ricordata dall'Eterno l'iniquità dei suoi padri, e il peccato di sua madre non sia cancellato.
  10. Restino sempre davanti all'Eterno quei peccati e faccia Egli sparire dalla terra la sua memoria.
  11. Perché non ha voluto aver pietà, ma ha perseguitato il povero e bisognoso, chi aveva il cuore spezzato, per ucciderlo.
  12. Ha amato la maledizione, ricada essa su di lui; non ha gradito la benedizione, resti essa lontana da lui.
  13. Si è avvolto di maledizione come di un vestito, penetri essa come acqua in lui,   come olio nelle sue ossa.
  14. Sia per lui come un manto che lo ricopre, come una cintura che sempre lo cinge!
  15. Tale sia da parte dell'Eterno la ricompensa dei miei accusatori, e di quelli che proferiscono del male contro l'anima mia.
  1. Ma tu, Eterno, o Signore, opera in mio favore, per amore del tuo nome; poiché buona è la tua misericordia, liberami!
  2. Perché povero e bisognoso io sono e il mio cuore è ferito dentro di me.
  3. Me ne vado come un'ombra che s'allunga, sono scosso via come una locusta.
  4. Le mie ginocchia vacillano per il digiuno, la mia carne deperisce e dimagra.
  5. Son diventato un obbrobrio per loro; mi guardano e scuotono il capo.
  6. Aiutami, o Eterno, Dio mio, salvami secondo la tua benignità.
  7. E sappiano essi che questa è la tua mano, che sei tu, o Eterno, che agisci.
  8. Essi malediranno, ma tu benedirai; s'innalzeranno, ma saranno confusi, e il tuo servo esulterà.
  9. I miei accusatori saran vestiti di vituperio e avvolti nella vergogna come in un manto!
  10. Ad alta voce io celebrerò l'Eterno con la mia bocca, lo loderò in mezzo a molti;
  11. perché Egli sta alla destra del povero per salvarlo da quelli che lo condannano a morte.

Dal versetto 6 fino al 15 la preghiera di Davide si trasforma in una violenta requisitoria contro un imprecisato lui. Il passaggio dal plurale al singolare è brusco,  ma più avanti, nei versetti 20 e 29, Davide tornerà a nominare i "miei accusatori", a conferma del fatto che contro di lui si è formata una congiura di più elementi ma con una mente unica che pensa e dirige le operazioni. Non si sa nulla di specifico sulle circostanze e le persone a cui si riferisce la preghiera, ma anche questo dev'essere considerato indicativo: non è necessario saperlo. Dio lo sa, e questo basta. Chi legge o recita questa preghiera deve trarre istruzione dal modo in cui è vissuta ed espressa la relazione fra i tre elementi principali del salmo: Davide, l'Eterno e "lui", il capo dei congiurati.
  Certo, per Charles Spurgeon come per molti altri è difficile "to imagine the whole nation singing such dreadful imprecations", ma potrebbe essere vero il contrario: è meno urtante pensare a questo testo come a una sorta di inno nazionale con cui il popolo celebra la gloria del suo Dio usando le parole sofferte del suo re Davide. Si pensi per esempio al primo "inno nazionale" cantato dai figli d'Israele dopo essere usciti dall'Egitto: 

    Allora Mosè e i figli d'Israele cantarono questo cantico all'Eterno, e dissero così: «Io canterò all'Eterno, perché si è sommamente esaltato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere [...] Egli ha gettato in mare i carri di Faraone e il suo esercito, e i migliori suoi condottieri sono stati sommersi nel mar Rosso. Gli abissi li coprono; sono andati a fondo come una pietra [...] E Miriam, la profetessa, sorella d'Aaronne, prese in mano il timpano, e tutte le donne uscirono dietro a lei con dei timpani, e danzando. E Miriam rispondeva ai figli d'Israele: 'Cantate all'Eterno, perché si è sommamente esaltato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere' (Esodo 15:1,4,21,22).

Israele eleva il suo primo inno corale a Dio della storia  avendo sotto gli occhi i corpi dei cavalli e dei cavalieri egiziani gettati in mare e arenati sulla terra asciutta: 

    Così, in quel giorno, l'Eterno salvò Israele dalle mani degli Egiziani, e Israele vide sul lido del mare gli Egiziani morti (Esodo 14:30).

Quando si è in guerra si desidera la sconfitta del nemico e ci si rallegra quando avviene. Nel salmo 109 il re d'Israele eleva la sua voce a Dio dall'interno di una situazione di guerra. Non una guerra politica fra popoli e nazioni, dove Davide si era sempre dimostrato forte e valido, ma una lacerante guerra spirituale combattuta dal nemico non con lance e pietre, ma con le frecce avvelenate della menzogna. E soprattutto è una guerra non contro nemici esterni, ma contro lui, un tremendo e determinato nemico interno. Più precisamente: un traditore.
  Si dice che la guerra è spirituale non perché riguardi forme morali di comportamento, ma perché non si esaurisce nella sua parte visibile orizzontale, ma contiene invisibili collegamenti verticali con il mondo di sopra, dove si trova il trono di Dio. 
  Si può fare un collegamento con quella preistoria israeliana che è il libro di Giobbe, in cui si rivela che c'è un Satana nei "luoghi celesti" (Efesini 6:12) che dialoga e compete con l'Eterno su tutto ciò che avviene sulla terra. La radice ebraica סטן (satan) compare 4 volte in questo salmo (vv. 4, 6, 20, 29), in termini che qui abbiamo sempre tradotto usando la radice italiana "accusa".
  Anche se abbiamo detto che non si può sapere chi sia questo lui, è legittimo ricercare nella Bibbia esempi che possano accostarsi a quanto qui è descritto.
  Il primo esempio a cui si può avvicinare questo lui  è Saul. Ma anche se non fosse Saul, l'importante è che l'offensiva accusatoria contro Davide sia compresa come un attacco alla sua legittimità di re designato dall'Eterno. Questo spiega la violenza delle "bocche aperte", che non lanciano generici insulti, ma attacchi giuridici di grossa portata con l'uso spregiudicato della menzogna in tutte le sue tonalità.
  La questione dunque è politica. Riguarda il progetto di Dio di instaurare il suo regno sulla terra. Ma è un progetto a cui si oppone tenacemente Satana,  a cui Dio concede, come ha fatto con Giobbe, un uso condizionato di certe armi al fine di portare  a compimento il Suo progetto nei modi da lui scelti e nei limiti che si è dato.
  Come nei casi di Giobbe e Giona, anche qui abbiamo un servo di Dio che ha con il suo Signore un rapporto sofferto. Quando Davide fu unto re da Samuele per ordine di Dio, in Israele quasi nessuno lo sapeva. Soltanto gli anziani di Betlemme e la famiglia di Isai assistettero alla strana cerimonia con cui Samuele, dopo aver passato in rassegna tutti i figli di Isai, insediò il giovane Davide come re d'Israele. 

    Poi Samuele disse ad Isai: 'Sono questi tutti i tuoi figli?' Isai rispose: 'Resta ancora il più giovane, ma è a pascere le pecore'. E Samuele disse ad Isai: 'Mandalo a cercare, perché non ci metteremo a tavola prima che sia arrivato qua'. Isai dunque lo mandò a cercare, e lo fece venire. Egli era biondo, aveva dei begli occhi e un bell'aspetto. E l'Eterno disse a Samuele: 'Alzati, ungilo, perché è lui'. Allora Samuele prese il corno dell'olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli; e, da quel giorno in poi, lo spirito dell'Eterno investì Davide. Poi Samuele si alzò e se ne andò a Rama. Ora lo spirito dell'Eterno si era ritirato da Saul, che era turbato da un cattivo spirito da parte dell'Eterno (1 Samuele 16:11-14).

L'azione dello spirito dell'Eterno su Davide e dello spirito cattivo su Saul fa capire che la guerra fra i due si svolge su due livelli: uno terrestre, uno celeste. In poche parole: Davide è l'uomo di Dio, Saul è l'uomo di Satana. 
  Che sia o no Saul il lui a cui si riferisce il salmo, in ogni caso si può pensare che sia qualcuno in cui Satana ha visto la possibilità di farne un suo strumento per contrastare l'istituzione del regno di Dio sulla terra sotto la sovranità di Davide. E si può anche pensare che questo lui sia riuscito ad arrivare talmente avanti nel suo progetto da indurre Davide a chiedersi preoccupato: ma il Signore che fa? Perché non interviene? Di qui la sua supplica accorata: O Dio della mia lode, non tacere! 
  La guerra si combatte anche in cielo, ma è sulla terra che se ne vedono i risultati. Davide, che si trova sulla terra, osserva l'empio eseguire le sue macchinazioni e ottenere risultati promettenti che sembrano far fallire il piano del regno di Dio. Davide è un servitore del Signore, ma anche per lui arriva il momento in cui comincia a temere che le cose non vadano a finire come si aspettava. Allora si rivolge in preghiera a quel Dio per cui lavora; e non si limita a chiedergli aiuto, ma comincia a suggerirgli quello che dovrebbe fare per sventare il piano di quell'empio.

  1. Costituisci un empio sopra di lui, un accusatore si tenga alla sua destra.
  2. Sia giudicato ed esca condannato;  la sua supplica  gli sia imputata a peccato.
  3. Siano pochi i suoi giorni: un altro prenda il suo ufficio.
   Quell'empio occupa nella società un posto alto, da cui ritiene di poter accusare e giudicare Davide con la semplice forza delle sue parole, anche se sono pure menzogne. "Ripagalo allora con la stessa moneta - sembra dire Davide -: metti un empio come lui in una posizione superiore alla sua e in concorrenza con lui, che lo accusi con parole menzognere e lo giudichi e lo condanni con motivazioni ingiuste come quelle che ha usato contro di me. E la sua condanna sia definitiva, tanto che se provasse a chiedere uno sconto di pena, la sua stessa supplica gli sia considerata come una colpa che aggrava la sua pena. Perda poi la sua posizione pubblica; sia abbreviata la sua carriera e conosca il disonore della destituzione dal suo ufficio per essere sostituito da un altro". 
  Chi prova a difendere Davide spesso invoca questioni di giustizia del tipo "chi sbaglia, paga", ma sono spiegazioni moralistiche che mal si applicano alle successive imprecazioni su figli, progenie e genitori. Qui non è in gioco una questione di giustizia generale, ma di concreta politica. Politica del regno di Dio, dunque riguardante cielo e terra. Quell'empio sta tentando di mettere le mani su questo regno; Davide ne avverte la pericolosità e chiede a Dio di distruggere tutte le relazioni che lo  legano oggi, l'hanno legato ieri, e potrebbero ancora legarlo domani alla società che costituisce il regno di Dio. 
  Dopo aver chiesto a Dio di rompere i rapporti istituzionali di quell'empio con la società, Davide passa ai rapporti familiari.

  1. Siano orfani i suoi figli e vedova sua moglie.
  2. Vadano errando i suoi figli e accattino; cerchino pane lontano dalle loro case in rovina.
Parlando di orfani e vedova è chiaro che Davide chiede a Dio, in forma indiretta, di far morire quell'empio. Non chiede la morte di moglie e figli, ma il loro permanere in vita sulla terra dovrà esprimere nelle sue conseguenze familiari l'originario giudizio di Dio su lui. La moglie si adatti a vivere senza lamenti nella sua posizione di vedova; i figli vaghino senza fissa dimora per il mondo vivendo di elemosina. Il livello del loro rapporto con la società dovrà essere basso.

  1. Getti l'usuraio le sue reti sui suoi beni; facciano preda gli estranei delle sue fatiche.
Dopo aver toccato  temi istituzionale e familiare, Davide affronta il tema dei rapporti di lavoro e proprietà. Non dovranno rimanere aziende o capitali che ricordano il suo nome nel mondo degli affari; i suoi beni dovranno cadere in mano agli strozzini, e di tutto quello che in qualche modo è riuscito ad accaparrarsi si dovrà vedere che non sarà lui a trarne profitto. E neppure i suoi figli, il cui posto non sarà certamente fra gli eredi, ma fra gli accattoni. 

  1. Nessuno mostri a lui benevolenza, e non si trovi chi abbia pietà dei suoi orfani.
  2. Sia distrutta la sua progenie; nella seconda generazione sia cancellato il loro nome!
Qui Davide alza lo sguardo sul futuro: pensa al dopo. Non dovrà avvenire che la compassione sollevata dalla misera vita dei suoi orfani possa spingere le persone a ricordare con nostalgia i tempi in cui c'era lui, il rimpianto campione che alcuni, chissà perché, vollero abbattere. No, il suo ricordo non può, non deve essere in benedizione. Quindi dopo aver concesso agli orfani di sopravvivere, nella seconda generazione sia cancellato il loro nome e sia distrutta in eterno la progenie di quell'empio.

  1. Sia ricordata dall'Eterno l'iniquità dei suoi padri, e il peccato di sua madre non sia cancellato.
  2. Restino sempre davanti all'Eterno quei peccati  e faccia Egli sparire dalla terra la sua memoria.
Da queste parole si deduce che Davide conosce la famiglia da cui proviene lui e ritiene che i suoi genitori siano responsabili di come lo hanno educato e istruito. Forse l'hanno allevato sperando di avere in lui il vanto della famiglia, quindi incoraggiandolo e sostenendolo nel suo ambizioso progetto di supremazia. Davide chiede allora che il ricordo di lui e della sua famiglia sia interamente cancellato dalla memoria degli uomini; e viceversa chiede che non sia mai più cancellato dalla memoria di Dio il ricordo delle loro iniquità e dei loro peccati.
  E' indubbiamente un giudizio durissimo, che così com'è non è trasferibile in nessuna relazione puramente orizzontale tra uomini: è inutile quindi ricamarci sopra con fili psicologici. Ogni tentativo di spiegazione deve assolutamente far intervenire in forma diretta il personaggio principale della Bibbia, cioè Dio stesso. E chi lo fa deve sempre tener presente che lo fa a proprio rischio e pericolo.
  1. Perché non ha voluto aver pietà, ma ha perseguitato il povero e bisognoso, e chi aveva il cuore spezzato, per ucciderlo.
Davide qui mostra di conoscere per esperienza la persona di cui sta parlando, perché il povero e bisognoso (עני ואביון) che quell'empio ha perseguitato e tentato di uccidere è proprio lui, Davide, che infatti più avanti si rivolge a Dio con le stesse parole: povero e bisognoso (עני ואביון) io sono. E aggiunge: il mio cuore è ferito dentro di me (v. 22), ma lui non ha avuto alcuna pietà; infatti era prontissimo a uccidere chi aveva il cuore spezzato (v. 16).
  Il riferimento al cuore ferito e spezzato fa capire che Davide si sente colpito alle spalle da qualcuno che considerava suo amico, qualcuno che aveva amato (v. 4), a cui aveva fatto del bene (v. 5), di cui aveva avuto fiducia. Esperienze simili sono davvero laceranti, e Davide ne può dare testimonianza:

    “Anche l’amico con cui vivevo in pace, nel quale confidavo, che mangiava il mio pane, si è schierato contro di me” (Salmo 41:9);
    “Se mi avesse offeso un nemico, l’avrei sopportato; se un avversario avesse cercato di sopraffarmi, mi sarei nascosto da lui; ma sei stato tu, l’uomo ch’io stimavo come mio pari, mio compagno e mio intimo amico”
    (Salmo 55:12,13).

Dunque quell'empio non è un semplice nemico: è un traditore.

  1. Ha amato la maledizione, ricada essa su di lui; non ha gradito la benedizione, resti essa lontana da lui.
  2. Si è avvolto di maledizione come di un vestito, penetri essa come acqua in lui, come olio nelle sue ossa.
  3. Sia per lui come un manto che lo ricopre, come una cintura che sempre lo cinge!
La situazione in cui si trova quell'empio traditore è spaventosa. Può essere ben descritta da un passaggio del Nuovo Testamento:

    "La terra che beve la pioggia che viene spesse volte su lei, e produce erbe utili a quelli per i quali è coltivata, riceve benedizione da Dio; ma se porta spine e triboli, è riprovata e vicina ad esser maledetta; e la sua fine è di essere arsa" (Ebrei 6:7-8).

La pioggia della benedizione di Dio che cadeva sull'empio quando Davide gli manifestava amore, a contatto con la sua falsa coscienza si è trasformata in maledizione. A questa lui non ha cercato di resistere, anzi l'ha accolta: ha trovato interessante essere maledetto da Dio; la Sua benedizione non lo interessava. Dunque resti essa lontana da lui. Per sempre.
   Si è fatto vanto della maledizione di Dio e se ne è avvolto "come di un vestito", traendone tutta la diabolica forza che gli era utile per i suoi scopi. Così è arrivato a un punto di non ritorno. Penetri dunque la maledizione come acqua in lui, come olio nelle sue ossa, esclama Davide. Accada a lui quello che ha voluto. Ha voluto avvolgersi di maledizione come di un vestito, sia dunque la maledizione l'ultimo, definitivo vestito che lo avvolge. Gli serva la maledizione anche come cintura che lo stringe e lo lega per sempre
  Davide poi conclude la sua sofferta invettiva con una tremenda esecrazione:

  1. Tale sia da parte dell'Eterno la ricompensa dei miei accusatori, e di quelli che proferiscono del male contro l'anima mia.
Qui le cose si fanno difficili per i cristiani, ma per altro verso anche per gli ebrei. Davide, il re d'Israele, l'archetipo del Signore Gesù, invoca da Dio il male su tutti coloro che gli fanno o gli augurano del male, e lo fa con le terribili parole riportate sopra. Come si inserisce tutto questo nella dottrina cristiana o nella prassi ebraica? Naturalmente ci sono diversi tentativi di spiegazione, ma sono degni di essere presi in considerazione solo quelli che non girano intorno al problema, ma l'affrontano di petto e propongono una soluzione. 
  Il problema dunque esiste, bisognerà riparlarne.

M.C.
(2. continua)

(Notizie su Israele, 21 agosto 2022)


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Nessuna guerra tra Hezbollah e Israele e nessuna demarcazione dei confini

di Elijah J. Magnier

Israele rinvierà la soluzione dei confini marittimi con il Libano a breve termine, fino alla formazione di un nuovo governo. Questa mossa offrirà al governo dell’attuale Primo Ministro Yair Lapid la possibilità di evitare le conseguenze politiche di una sottomissione a Hezbollah nelle prossime elezioni israeliane.
  Secondo fonti ben informate, “Israele dovrebbe annunciare che interromperà le trivellazioni nella parte del giacimento di Karish che ricade nel territorio marittimo del Libano. Tel Aviv sospenderà anche qualsiasi trivellazione nell’area marittima che circonda Karish per evitare di provocare Hezbollah, che ha lanciato una scadenza a metà settembre per dichiarare guerra a Israele”. 
  Il mese scorso, Hezbollah ha mandato in onda un filmato con un drone che riprendeva le navi israeliane in un giacimento di gas conteso nel Mar Mediterraneo. L’esercito israeliano ha abbattuto tre droni disarmati di Hezbollah che sorvolavano il giacimento di gas di Karish. Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, in una recente intervista, ha dichiarato che il gruppo militante potrebbe localizzare e colpire Karish e qualsiasi altro giacimento di gas israeliano.
  All’inizio di ottobre 2020, Libano e Israele hanno concordato di tenere colloqui sui confini marittimi contesi, anche se i due Paesi teoricamente non mantengono relazioni diplomatiche.
  Israele e Libano non hanno relazioni diplomatiche e sono tecnicamente in stato di guerra. Di conseguenza, ciascuno di essi rivendica circa 860 chilometri quadrati del Mar Mediterraneo, noti come Blocco 9, ricchi di petrolio e gas, come appartenenti alle proprie zone economiche esclusive.
  Nel 2011, il Libano ha emesso il decreto 6433 alle Nazioni Unite in merito alle sue rivendicazioni sul territorio marittimo nel Mar Mediterraneo, denominato Linea 23, che non si interseca con il giacimento di Karish. Studi condotti dall’Ufficio idrografico del Regno Unito e successivamente dall’esercito libanese hanno indicato che il Libano potrebbe rivendicare altri 1.430 km quadrati (889 miglia quadrate), che si intersecano con il giacimento di Karish. Si parla di Linea 29, ma il Libano non ha mai emendato il Decreto 6433.
  Nei colloqui indiretti tra Libano e Israele del 2012, il diplomatico statunitense Frederick Hoff ha proposto “una linea di mezzo per i confini marittimi, in base alla quale al Libano spetterebbe il 58% dell’area contesa e a Israele il restante 42%, che si traduce in 500 chilometri quadrati per il Libano e 300 chilometri quadrati per Israele”.

(ELIJAH J. MAGNIER, 20 agosto 2022)

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Hollywood, porte girevoli e spionaggio: il metodo israeliano

“Stiamo assistendo a un crowdsourcing della cyber offensiva e difensiva”. Zafrir ha aggiunto: “Stiamo assistendo all’integrazione delle capacità governative, siano esse civili, governative, militari, del settore privato e degli Stati nazionali”.

di Livio Varriale

I vecchi colleghi di Nadav Zafrir dell’unità di intelligence d’élite dell’esercito israeliano, la 8200, lo descrivono come un tipo alla “James Bond”. L’ex direttore dell’unità di spionaggio high-tech israeliana – l’equivalente della National Security Agency (NSA) statunitense – sembra un incrocio tra un venture capitalist della Silicon Valley e un comandante di agenti speciali. Da un lato, indossa occhiali da sole scuri e veste con un’infarinatura di abiti firmati contemporanei che è rara per i generali di carriera dell’esercito israeliano, noti per le loro camicie con colletto aperto e i sandali di cuoio. D’altra parte, il suo periodo come paracadutista israeliano significa che si comporta con il piglio di chi ha trascorso anni in una brigata di fanteria d’élite.
  In un discorso tenuto il 28 giugno, durante l’annuale Cyber Week dell’Università di Tel Aviv, Zafrir ha descritto un nuovo panorama militare, in cui i governi affidano gli strumenti e le tattiche di guerra ad alta tecnologia a imprese private, cittadini imprenditori e conglomerati aziendali.
  La linea di demarcazione tra il settore tecnologico privato e le forze armate israeliane è un elemento comune alla Cyber Week, una conferenza fondata 11 anni fa da Isaac Ben-Israel. Generale israeliano decorato, mente della politica cibernetica di Israele, attuale capo dell’Agenzia spaziale israeliana e filosofo militare, Ben-Israel ha scritto un libro che promuove l’uso della teoria post-strutturale nelle operazioni di intelligence militare. Negli anni 2000, ha insegnato all’IDF come calcolare il numero di assassini mirati necessari per mantenere un vantaggio sulla Striscia di Gaza secondo le equazioni dell’entropia della fisica.
  Ben-Israel sperava che la Cyber Week, come la sua carriera, avrebbe sfumato il confine tra l’accademia, l’esercito e l’industria tecnologica. Ma in questi giorni la Cyber Week sembra un esercizio di speed dating aziendale tra capi di Stato, generali di carriera e gestori di fondi di venture capital (VC). Le visioni che offrono sono quelle di una guerra virtuale condotta per conto dei militari da aziende private e dai loro finanziatori, piuttosto che dai soldati e dai loro comandanti.
  La maggior parte dei grandi nomi presenti alla Cyber Week di quest’anno sono passati da incarichi militari decorati alla gestione di fondi di venture capital o alla consulenza di startup. Zafrir, ad esempio, ha trascorso gran parte della sua carriera militare presso il quartier generale dell’intelligence militare israeliana, situato sotto un centro commerciale nel centro di Tel Aviv. Una volta in pensione, ha portato con sé una manciata di generali di talento per avviare un fondo di venture capital, chiamato “Team 8”, con l’obiettivo di far decollare le startup di cybersecurity. Quando Zafrir ha lanciato il fondo, gli esperti di business hanno detto che il Team 8 rappresentava un “nuovo complesso militare-industriale” in cui le aziende private operano “quasi come mercenari”, fornendo armi informatiche all’avanguardia ad aziende e governi.
  Fin dall’inizio, il Team 8 ha lavorato esclusivamente nel settore della sicurezza informatica difensiva, finanziando aziende che respingono gli attacchi piuttosto che eseguirli. Ma la scena high-tech israeliana dimostra che la linea di demarcazione tra capacità informatiche offensive e difensive è fragile e spesso viene sfruttata. La privatizzazione degli strumenti e delle tattiche della guerra digitale ha portato alla proliferazione di aziende più sinistre come NSO Group, che prendono di mira i sostenitori dei diritti umani e i politici con una sorveglianza invasiva.
  Oggi anche i dirigenti tecnologici di lunga data sono preoccupati. “Le armi informatiche appartengono alle mani dei militari, non alle aziende private”, ha dichiarato Guy Barnhart-Magen, amministratore delegato di sicurezza informatica e relatore alla Cyber Week, durante un’intervista rilasciata questa primavera. “Quando l’incentivo è monetario, chi pensa a cosa succede quando cade nelle mani sbagliate?”.
  Per Barnhart-Magen, l’ascesa e il declino del gruppo NSO – che rischia la bancarotta dopo essere stato inserito nella lista nera degli Stati Uniti – esemplifica il rischio degli Stati che si affidano a imprese private per sviluppare nuove tecnologie. Ma eventi come la Cyber Week dimostrano che il flusso di denaro non finirà presto. Nuove aziende stanno nascendo rapidamente e, oltre alle armi informatiche, sfoggiano robot assassini, laser letali e psyops in stile Cambridge Analytica.

• ISPIRAZIONI HOLLYWOODIANE
  Nonostante il clamore suscitato da eventi come la Cyber Week, non c’è nulla di nuovo nell’esternalizzazione delle operazioni militari a imprese tecnologiche private. Israele sta seguendo le orme di superpotenze militari più grandi, come gli Stati Uniti; la Silicon Valley è stata, dopo tutto, la creazione del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Dagli anni Sessanta agli anni Novanta, il Dipartimento della Difesa ha investito milioni di euro in aziende informatiche che hanno prodotto i processori per guidare i missili nucleari e lanciare i satelliti spia. Ma l’ascesa dei conglomerati tecnologici globali e delle startup finanziate da privati negli anni ’90 ha lasciato gli istituti di intelligence di tutto il mondo a lottare per tenere il passo con l’innovazione civile.
  I visitatori dell’annuale Cybertech Israel Conference and Exhibition, a Tel Aviv, a cui partecipano migliaia di aziende multinazionali, PMI, start-up, investitori privati e aziendali, società di venture capital, esperti e clienti. 29 gennaio 2020. (Miriam Alster/Flash90)
  Visitatori alla conferenza ed esposizione annuale Cybertech Israel, a Tel Aviv, alla quale partecipano migliaia di aziende multinazionali, PMI, start-up, investitori privati e aziendali, società di venture capital, esperti e clienti. 29 gennaio 2020. (Miriam Alster/Flash90)
  Negli Stati Uniti, questa ansia ha generato In-Q-Tel, il fondo di venture capital della Central Intelligence Agency (CIA). Fondata nel 1999, In-Q-Tel fornisce tecnologie di sorveglianza all’avanguardia dal mondo delle startup alla comunità dell’intelligence statunitense. La Q nel nome è un omaggio al quartiermastro di James Bond, o agente Q, che fornisce a Bond nuove tecnologie fantastiche e spesso letali. Il riferimento hollywoodiano era aspirazionale: all’epoca, aziende come Google sfornavano nuove tecnologie che i militari non si sognavano di possedere. La CIA sperava che In-Q-Tel potesse contribuire a rinnovare il proprio arsenale spionistico analogico per soddisfare le esigenze dell’era digitale.
  In-Q-Tel stabilì un nuovo modello per l’esternalizzazione della ricerca e dello sviluppo da parte delle forze armate all’industria privata, soprattutto per Israele. Come ha detto un generale di carriera dell’Unità 8200 durante un’intervista anonima di questa primavera: “Ci siamo resi conto che dovevamo fare un uso migliore del settore privato – dovevamo iniziare a pensarci in modo diverso”. Il generale, che ha servito ai vertici dell’intelligence per tre decenni, ha raccontato come i vertici militari si siano resi conto “che i soldati non dovevano necessariamente indossare le uniformi”.
  L’esercito ha iniziato a stipulare contratti con piccole aziende per effettuare la sorveglianza e produrre nuove tecnologie. Alcune, come la Black Cube – che svolgeva attività di spionaggio anche per il magnate di Hollywood, condannato per reati sessuali, Harvey Weinstein – avevano una reputazione peggiore di altre. La maggior parte, però, era composta da veterani di unità di intelligence d’élite e aveva generali di alto rango nei propri consigli di amministrazione.
  Anche i fondi militari hanno iniziato ad affluire nella scena delle startup israeliane a un ritmo vertiginoso, quando l’esercito è diventato un altro tipo di investitore di capitale. Oggi, diversi bracci dell’intelligence israeliana gestiscono i propri fondi CR sul modello di In-Q-Tel della CIA.
  Il Mossad, la versione israeliana della CIA, finanzia startup che sperimentano l’intelligenza artificiale, l’analisi della personalità e le tecnologie di telerilevamento attraverso il suo braccio finanziario, Libertad. Libertad attira i candidati con video promozionali iperprodotti con giovani agenti genericamente attraenti che indossano attrezzature da spionaggio di tipo fantascientifico, come lenti a contatto dotate di tecnologia di riconoscimento facciale. Lo Shin Bet, il servizio segreto nazionale israeliano, gestisce anche Xcelerator, un fondo VC che mette in contatto agenti di alto livello con sviluppatori emergenti, individuando talenti promettenti con competizioni in stile Fauda che sfidano i candidati a identificare e sventare cellule terroristiche operanti in Israele.

• UNA PORTA GIREVOLE
  Esternalizzare la ricerca e lo sviluppo a imprese private significa che le nuove tecnologie possono essere prototipate e perfezionate rapidamente, senza il fastidio della burocrazia governativa. Tuttavia, monitorare e regolamentare le aziende private che sviluppano nuove tecnologie è difficile. È particolarmente impegnativo quando ex generali diventano amministratori delegati e le strutture di intelligence che un tempo guidavano si trasformano in investitori privati.
  La porta girevole tra lo Stato di sicurezza nazionale e il settore tecnologico privato è particolarmente pronunciata per la “Startup Nation”, dove la linea di demarcazione tra esercito ed economia high-tech è un marchio nazionale. Nonostante ciò, gli eserciti di tutto il mondo continuano a pompare denaro in un mercato tecnologico militarizzato che i sostenitori – da coalizioni di scienziati d’élite a Human Rights Watch – definiscono privo di leggi. Ad oggi, non esistono regolamenti generali sullo sviluppo e l’impiego di armi e tecnologie di sorveglianza basate sull’IA.
  Giornalisti e attivisti hanno da tempo messo in guardia sull’impatto brutale di questo status quo in Palestina, dove l’esercito israeliano dispiega armi autonome e controllate a distanza – dai droni killer ai programmi di spionaggio – su una popolazione civile che vive sotto occupazione. I generali israeliani promettono che una rivoluzione nell’intelligenza artificiale e nella guerra virtuale è dietro l’angolo. La guerra di domani, dicono, sarà meno sanguinosa e più efficiente. Tuttavia, molti di coloro che parlano presiedono, consigliano o investono nelle stesse aziende che promettono di rivoluzionare i conflitti, il che significa che è difficile prenderli in parola. Per ora, le nuove tecnologie sembrano far cadere missili e proiettili a un ritmo più frequente e più mortale: il 2022 si avvia a essere un anno da record per il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata.
  Il costo umano della guerra è difficile da ricordare quando il business del militarismo è vestito come un ritiro di lavoro della Silicon Valley. Alla Cyber Week, i generali parlano del futuro del conflitto militare nello stesso modo in cui i dirigenti delle big-tech si vantano del Metaverse. Entrambi aderiscono a un genere di tecno-utopismo che distrae dalla realtà attuale di sorveglianza pervasiva e guerra infinita. È difficile dire cosa sia solo aria fritta e quali nuove tecnologie sia in grado di sfornare un’industria tecnologica militarizzata. Ma è chiaro che la guerra è un investimento redditizio come sempre, e l’establishment militare israeliano è ansioso di mantenerlo tale.

(Matrice Digitale, 20 agosto 2022)

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Frasi sull’Olocausto, Abu Mazen denunciato in Germania

La polizia conferma una denuncia da parte di un nipote di sopravvissuti ai crimini nazisti. Ma c’è il nodo dell’immunità diplomatica

Con la sua frase sui "50 Olocausti" compiuti da Israele, pronunciata martedì scorso a Berlino il presidente Anp Abu Mazen avrebbe compiuto un reato. Lo pensa Mike Delberg, nipote di sopravvissuti ai crimini nazisti, che ha presentato presso la polizia di Berlino una formale denuncia contro il leader palestinese per relativizzazione dell’Olocausto. La polizia ha confermato una denuncia per presunta istigazione del popolo a delinquere. Lo racconta il Bild.
  Martedì scorso, dopo un inizio di conferenza stampa relativamente tranquillo, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese ha risposto a una domanda dichiarando che "dal 1947 a oggi Israele ha commesso 50 massacri in 50 località palestinesi", aggiungendo che si tratta di "50 Olocausti".
  Il Ministero degli esteri tedesco ritiene che Abu Mazen goda di "immunità ai sensi del diritto internazionale", anche perché si trovava in Germania in "visita ufficiale". Secondo il professore di diritto penale Michael Kubiciel, interpellato sempre dal Bild, la questione sarebbe però più complicata, perché il fattore determinante non sarebbe se Abu Mazen si trovasse a Berlino per un invito tedesco, ma se il leader palestinese abbia o meno l’immunità garantita ai capi di Stato estero. La Germania, infatti, non riconosce attualmente la Palestina come Stato.

(la Regione, 20 agosto 2022)

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La guerra ha permesso alla Jihad Islamica di diventare il movimento preferito di Teheran

di Anna Mahjar-Barducci

• Introduzione
  Nonostante i colpi inferti dall'esercito israeliano, il movimento palestinese Jihad Islamica a Gaza ha ottenuto vari vantaggi dall'ultima guerra contro Israele. Alcuni media occidentali hanno scritto che Israele ha "vinto" la guerra lampo, che aveva tenuto (in particolare) il sud del Paese sotto assedio per tre giorni.
  In realtà, anche se, durante la guerra, Israele ha eliminato due importanti leader del movimento terroristico, la Jihad Islamica è riuscita a rafforzare la propria immagine e influenza nella regione. Fino al 5 agosto, data in cui Israele ha lanciato l'attacco preventivo contro Gaza, iniziando l'operazione "Breaking Dawn", la Jihad Islamica era solo un movimento secondario, che non poteva competere con la popolarità di Hamas nella Striscia di Gaza.
  Dopo tre giorni di guerra e circa 1.100 missili inviati contro Israele, invece, la Jihad Islamica può dire di essere diventata uno fra i più importanti movimenti di resistenza nella regione e di aver ottenuto il completo sostegno di Teheran.

• Come è iniziata la guerra
  Il primo agosto, durante un'operazione a Jenin, Israele ha arrestato un comandante della Jihad Islamica nella West Bank, Bassam al-Saadi, assieme al genero Ashraf Zidan Mohammad al-Jada.
  Subito dopo l'arresto, la Jihad Islamica ha cominciato a pianificare attacchi terroristici contro le cittadine israeliane intorno alla Striscia di Gaza, con lo scopo di mettere pressione a Israele per il rilascio di Bassam al-Saadi e del detenuto amministrativo palestinese Khalil Awawdeh, diventato uno dei simboli della resistenza palestinese, dopo oltre 150 giorni di sciopero della fame. L'esercito israeliano (IDF) ha quindi alzato il livello di allerta nel sud del Paese, chiudendo le strade ai veicoli civili. 
  La popolazione israeliana, sentendosi sotto assedio, ha richiesto al governo di intervenire. Il 5 agosto, il governo israeliano ha pertanto deciso di bombardare preventivamente Gaza, dopo aver ricevuto l'informazione da parte dell'intelligence che la Jihad Islamica era pronta ad attaccare Israele.
  Il bombardamento, nonostante abbia causato anche vittime civili, ha visto l'eliminazione di Taysir al-Jabari, un importante comandante delle Brigate Al-Quds (Saraya al-Quds), braccio armato della Jihad Islamica. La risposta del movimento terroristico è stata immediata, la Jihad Islamica ha infatti dato mostra della sua forza militare, lanciando missili verso il sud del Paese e verso Tel Aviv.

• Il secondo giorno di guerra – Il "Gaza Envelope" 
  Il secondo giorno di guerra, la Jihad Islamica ha continuato a lanciare missili senza interruzione, soprattutto nel sud del Paese. Uno degli scopi proclamati di questa organizzazione (durante la guerra) è infatti quello di rendere impossibile la vita nel "Gaza Envelope", ovvero la parte di Israele che si trova entro i sette chilometri dalla Striscia, in modo tale da spopolarla dai cittadini israeliani. 
  In parte, la Jihad Islamica è riuscita nel suo scopo. Molti abitanti dell'"envelope" hanno dichiarato che per la prima volta hanno pensato di trasferirsi da questa area, che in ogni guerra viene colpita senza tregua. In effetti, vari bus hanno evacuato parte della popolazione, esausta dal continuo lancio di missili, che non ha permesso nemmeno di uscire dal mamad, ovvero il rifugio antimissile (dal momento in cui suona la sirena, la popolazione nell'"envelope" ha solo 15 secondi per raggiungere il mamad e solo le case più nuove hanno ne hanno uno in casa).

• Il secondo giorno di guerra – L'incontro a Teheran 
  L'evento più significato del secondo giorno di guerra, però, è stato l'incontro a Teheran del leader della Jihad Islamica Ziyad al-Nakhalah con il generale iraniano Hossein Salami, attuale comandante del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (IRGC). Durante l'incontro, Salami ha detto che "il collasso" "dell'entità sionista" è un "percorso irreversibile" e che "la liberazione di Gerusalemme è imminente".
  È importante sottolineare che il 4 agosto, prima dell'inizio della guerra, al-Nakhalah ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi. Come riportato dal Middle East Media Research Institute (MEMRI), durante l'incontro, Raisi ha detto: "Non abbiamo dubbi sulla vittoria della resistenza palestinese e sulla liberazione di Gerusalemme… Oggi, le nazioni musulmane della regione odiano la predatoria entità sionista e considerano la resistenza la linea principale e fondamentale per affrontarla."
  Il giorno prima, il 3 agosto, al-Nakhalah si è inoltre incontrato con il ministro degli Affari Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, con il Presidente del Majlis (parlamento iraniano) Mohammad Baqr Qalibaf e con Ali Akbar Velayati, consigliere per le relazioni internazionali del Leader Supremo, l'Ayatollah Ali Khamenei.
  L'Iran, che sta negoziando con gli Stati Uniti gli accordi sul nucleare, ha infatti tutto l'interesse a mettere pressione su Washington, utilizzando i movimenti terroristici in Palestina e in Libano, che ricevono finanziamenti da Teheran, per lanciare una guerra regionale per procura (proxy war) contro Israele, come ha già fatto in passato.
  Nella serata del secondo giorno di guerra, però, Israele ha colpito duramente la Jihad Islamica, uccidendo Khaled Mansour, un altro importante leader del movimento palestinese.

• Il terzo giorno di guerra – Tisha b'Av  
  Il 7 agosto, il terzo giorno di guerra, gli analisti israeliani hanno temuto che Hamas potesse entrare nel conflitto, come avrebbe voluto la Jihad Islamica. Il 7 agosto, infatti, è caduta la ricorrenza del Tisha b'Av (giorno di digiuno in memoria di eventi luttuosi per il popolo ebraico, fra cui la distruzione del Primo Tempio nel 586 a.C. e del Secondo Tempio da parte delle truppe di Tito nel 70 d.C.).
  In molti si aspettavano tensioni sul "Monte del Tempio" (noto anche come "Spianata delle Moschee"), dato che era previsto che numerosi ebrei religiosi sarebbero andati (come da tradizione) a pregare sulla spianata, rendendo inevitabile l'entrata di Hamas nel conflitto. Nella mattinata del 7 agosto, la Jihad Islamica ha infatti inviato un missile di avvertimento verso Gerusalemme, che è stato lanciato verso la zona di Beit Safafa (un quartiere a prevalenza arabo).
  La polizia israeliana (composta in Città Vecchia a Gerusalemme da una maggioranza di arabi israeliani) è stata però abile a gestire la situazione, anche perché il numero di ebrei religiosi, che si sono presentati al "Monte del Tempio", è stato inferiore al previsto.

• Il terzo giorno di guerra - La Tregua  
  Nel pomeriggio del 7 agosto, si sono susseguite informazioni sull'inizio di una tregua, mediate dall'Egitto. Le prime notizie sono state di una tregua verso le otto di sera, che però è stata rinviata dalla Jihad Islamica, che fino all'ultimo ha voluto dettare le proprie condizioni.
  Alla fine, verso le dieci di sera, i media hanno informato che la Jihad aveva accettato un cessate il fuoco per le 23.30, dopo che il Cairo si è impegnato a mediare  la liberazione di Bassam al-Saadi e Khalil Awawdeh. La Jihad Islamica ha tenuto poi a rivendicare la propria vittoria lanciando l'ultimo razzo alle 23.50 verso l'"envelope". Il giorno dopo, inoltre, come richiesto dalla Jihad Islamica, Israele ha inviato trenta camion carichi di carburante a Gaza, dopo la riapertura dei valichi di frontiera.
  Inoltre, subito dopo l'entrata in vigore della tregua, alcuni siti palestinesi hanno scritto che Awawdeh poteva essere mandato in ospedale per cure mediche, come richiesto dalla Jihad islamica, e poi rilasciato.
  Tuttavia, i giornali israeliani hanno riportato che Israele non ha fretta di rilasciare né Awawdeh né al-Saadi. L'11 agosto, il quotidiano israeliano Ynet ha però riferito che Israele ha trasferito Awawdeh in ospedale. "Khalil Awawdeh ha superato i 160 giorni di digiuno per protestare contro la sua detenzione amministrativa senza processo; l'avvocato comunica che Awawdeh usa una sedia a rotelle, mostrando segni di danni cerebrali; la Jihad islamica ha minacciato ritorsioni se il prigioniero muore", Ynet ha scritto.
  Il 19 agosto, i media hanno riportato che Israele ha “sospeso” la detenzione amministrativa di Awawdeh, a causa delle sue condizioni di salute precarie, dopo 170 giorni di sciopero della fame. La sospensione non implica però la fine della reclusione, Awawdeh però potrà ricevere visite da parte dei familiari. Nel frattempo, il prigioniero palestinese ha informato che continuerà lo sciopero della fame fino alla sua completa liberazione. 
  È importante ricordare che, a Gaza, Hamas tiene in ostaggio due israeliani (Avraham Mengistu, israeliano di origine etiope di Ashkelon, e Hisham al-Sayed, arabo-israeliano di un villaggio beduino nel Negev) e ha i corpi di due soldati dello Stato ebraico (il sergente Oren Shaul e il sottotenente Hadar Goldin, morti nella guerra del 2014). 

• Hamas, il grande assente 
  Sin dall'inizio della guerra, Hamas ha deciso di non entrare nel conflitto. La decisione ha pertanto dimostrato che Hamas è diventato un movimento politico pragmatico. Nella guerra degli undici giorni dello scorso maggio 2021, Hamas è stato considerato il "vincitore" della guerra, per aver paralizzato la vita in Israele, ed essersi affermato con la violenza come il rappresentate della popolazione palestinese. Il movimento islamista non intende quindi partecipare in guerre, nelle quali potrebbe perdere la propria popolarità. 
  Inoltre, la Jihad Islamica è in competizione con Hamas a Gaza, e non è un suo interesse prestare soccorso a un rivale. Se la guerra fosse durata più giorni, sicuramente, Hamas avrebbe dovuto scendere in campo, per non essere accusato dalla popolazione palestinese di aver abbandonato il proprio popolo e la resistenza.
  Inoltre, nonostante Israele fosse preparata a ogni tipo di scenario (aveva già detto di voler richiamare 25 mila riservisti), neppure Hezbollah si è fatto sentire, anche perché la situazione politico-economica in Libano è talmente in crisi, che il gruppo sciita non può permettersi di entrare in una guerra con Israele.

• Conclusione 
  Nonostante la distruzione portata su Gaza, la Jihad Islamica si ritiene la vincitrice di questa guerra. In primo luogo, il movimento è infatti riuscito a dettare i termini della tregua e a rendere insopportabile la vita degli israeliani nel sud del Paese. La cosa più importante però è che la Jihad Islamica ha superato o quantomeno uguagliato la popolarità di Hamas. È stato sicuramente positivo per Israele, che Hamas non sia entrato nel conflitto, ma potrebbe essere anche un fattore negativo, dato che non è a beneficio dello Stato ebraico la crescita della Jihad Islamica nella striscia di Gaza. 
  Inoltre, la Jihad Islamica si è adesso guadagnata l'ammirato sostegno di Teheran. Durante l'incontro con il consigliere di Khamenei, il leader della Jihad Islamica (un movimento sunnita!) al-Nakhalah ha detto: "Il Leader Supremo ha un posto importante nel nostro cuore che non ha eguali in tutto il mondo. Siete i nostri fratelli maggiori e svolgete un ruolo importante in Iran e oltre". Inoltre, il giorno della tregua, al-Nakhalah ha dichiarato la vittoria del suo movimento direttamente da Teheran.
  Per quanto riguarda il governo Lapid, l'esito di questa guerra verrà valutato dagli stessi israeliani alle urne il prossimo ottobre. Israele ha ucciso due importanti comandanti della Jihad Islamica, ma questo non sembra aver indebolito il movimento, che adesso sembra soddisfatto del risultato della guerra, a cui ha dato il nome di "Unity of Battlefields" (Wahdat Al-sahat, in arabo), ovvero l'unione dei campi di battaglia della Cisgiordania con quelli di Gaza (pertanto qualsiasi cosa accada nella West Bank riceverà una risposta armata da Gaza e viceversa). Per il momento, la Jihad Islamica sembra essere riuscita in questo intento.

(Agenzia Radicale, 20 agosto 2022)

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Mossad: due donne a capo dell’Iran Desk e dell'Autorità d’intelligence

di Michelle Zarfati

Il Mossad ha annunciato che l’agente "A" ha assunto la carica di Direttore dell'Autorità d’intelligence (parallelamente al Capo dell'IDF Intelligence). È la prima donna nella storia del Mossad a ricoprire un ruolo del genere.
  "A" ha prestato servizio nel Mossad per circa 20 anni, svolgendo un ruolo chiave nelle operazioni di intelligence. Il nuovo ruolo rappresenta un incarico estremamente prestigioso: si tratta del responsabile della strategia nazionale sulle politiche di intelligence in merito a numerose questioni, tra cui il programma nucleare iraniano, il terrorismo globale e la normalizzazione con il mondo arabo. Questa figura è anche responsabile dell'intelligence relativa a tutte le operazioni del Mossad e gestisce centinaia di dipendenti nelle operazioni di raccolta dati, ricerca e analisi.
  La figura di "A" non rappresenterà l’unica donna ai vertici del Mossad, visto che sarà affiancata da una vice, "H”. questa nuova configurazione è considerata una mossa senza precedenti nella storia dell’organizzazione. L’agente "A", inoltre, si unisce a "K", che ricopre il ruolo di capo dell'Iran Desk, ovvero la persona responsabile delle strategie sulla minaccia iraniana e della guida del processo di integrazione delle operazioni, della tecnologia e dell'intelligence nell'organizzazione. Anche "K", veterana dell'intelligence, ricopre una delle posizioni più importanti, significative e influenti dell'organizzazione.
  "All’interno del Mossad c'è completa uguaglianza tra uomini e donne - ha sottolineato David Barnea, direttore del Mossad - Molte donne servono in tutti i ruoli, come agenti e operatrici. Sono integrate nel nucleo di operazioni e intelligence, con talento, professionalità ed energia. La porta per l'avanzamento ai ranghi più alti è aperta a uomini e donne allo stesso modo, secondo la loro idoneità e il loro talento".
  La presenza di donne a capo delle diverse aree è cresciuta notevolmente negli ultimi anni. Tuttavia, già circa 30 anni fa, Aliza Magen era stata vicedirettrice dell'organizzazione. Da allora diverse donne sono state nominate in posizioni di rilievo, sebbene nessuna avesse però ricoperto prima d'ora le posizioni di capo dell'Iran Desk e capo dell'Autorità d’intelligence.

(Shalom, 19 agosto 2022)

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L’Ucraina ha già venduto la propria sovranità a multinazionali e fondi d’investimento

di Giorgia Audiello

La retorica occidentale racconta di una Ucraina impegnata in una resistenza per difendere la propria indipendenza, ma la dinamica dei prestiti, dei finanziamenti e degli aiuti nasconde altro: quella stessa indipendenza, intesa come sovranità nazionale, sta venendo smantellata clausola dopo clausola dagli stessi paesi che stanno aiutando l’Ucraina nel conflitto bellico e dalle istituzioni finanziarie internazionali. È noto che i prestiti forniti da queste ultime sono sempre e immancabilmente accompagnati dalle famigerate “condizionalità”, che includono liberalizzazioni economiche e privatizzazione dei beni pubblici. Ciò significa che gli asset statali debbono essere venduti ai grandi gruppi privati secondo le logiche del mercato, attribuendo di fatto alle multinazionali e ai fondi di investimento un enorme potere di influenzare le decisioni politico-economiche ed erodendo di fatto la sovranità dell’Ucraina che verrà. Una dinamica che è già pienamente in atto.
  Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha agito così in buona parte dei continenti del mondo: dal Sudamerica all’Africa, non risparmiando la stessa Russia negli anni Novanta. Pare, dunque, che ora sia arrivato il turno di Kiev: la guerra, infatti, ha fornito agli avvoltoi internazionali della finanza l’occasione per offrire nuovi e ingenti prestiti al Paese martoriato dai bombardamenti. In questo modo, la guerra si sta trasformando in una ghiotta occasione per fare incetta di asset pubblici e per commissariare – di fatto – l’ex Paese sovietico.
  La conferma di questo programma improntato sulle riforme macroeconomiche liberiste arriva dallo stesso governo di Kiev: il Primo Ministro Denys Šmihal’, infatti, in una conferenza aveva affermato che «Il presidente dell’Ucraina ha stabilito il compito di avviare la privatizzazione a partire da settembre. Dobbiamo rendere questo processo il più veloce possibile», come si poteva leggere sul sito dello stesso governo di Kiev in un comunicato successivamente rimosso e ora archiviato per ragioni non note. Il programma sarà avviato a partire dal prossimo primo settembre e dovrebbe concludersi in 25 giorni con la possibile privatizzazione di 420 società statali. Si tratta della “contropartita” per i prestiti concessi dall’FMI.
  L’Ucraina, infatti, ha sottoscritto due programmi di aiuti economici: uno il 9 marzo, quando il Consiglio di Amministrazione dell’FMI ha approvato 4,1 miliardi di dollari di sostegno finanziario di emergenza a Kiev e uno più recente che dovrebbe aiutare il Paese «a coprire la sua carenza di finanziamento e rafforzerà la credibilità della sua strategia economica per sostenere lo sforzo bellico». Nel primo comunicato rilasciato a marzo dal FMI si legge che «Le autorità hanno espresso l’intenzione di collaborare con il FMI per progettare un programma economico adeguato volto alla riabilitazione e alla crescita, quando le condizioni lo permetteranno».
  Il mito della crescita sbandierato in modo ricorrente dagli organismi finanziari internazionali è rimasto il più delle volte un mero miraggio, volto a convincere gli Stati a sottoscrivere prestiti che si rivelano quasi sempre vere e proprie estorsioni. Nessuno dei Paesi che ha ricevuto aiuti finanziari dall’FMI, infatti, ha registrato la tanto decantata crescita, in quanto le condizionalità imposte dal Fondo – come ha affermato anche l’economista Premio Nobel Joseph Stiglitz – sono contrarie alla ripresa dell’economia. Tra queste, vi sono la «stabilità macroeconomica», la «liberalizzazione dell’economia» e quindi la «riduzione della presenza del governo e l’apertura dei mercati»: queste condizioni sono quelle specificate nel documento dedicato alla Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina.
  Ma non c’è solo il FMI a erodere la sovranità di Kiev, bensì anche gli altri due suoi principali creditori: gli USA e l’UE. Anche gli ingenti fondi forniti dal cosiddetto “mondo libero”, infatti, sono vincolati a precise riforme e diktat. In particolare, nella Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina – cui hanno partecipato 58 delegazioni da altrettanti Paesi, Italia compresa – è stata prodotta la Dichiarazione di Lugano, in cui si legge che «Sosteniamo l’istituzione di un’efficace piattaforma di coordinamento tra il governo ucraino e tutti i suoi partner, organizzazioni e istituzioni finanziarie internazionali per l’attuazione del piano di ripresa e sviluppo dell’Ucraina, basandosi sulle strutture esistenti e stabilendo un chiaro collegamento con l’ampio programma di riforme». Il che significa che il futuro dell’Ucraina non verrà deciso a Kiev, ma a Washington, a Bruxelles e nei palazzi della finanza internazionale, in barba al tanto declamato rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dello Stato est europeo.
  Chi, dunque, ha fomentato fin dal 2014 il conflitto che affligge Kiev, si sta ora preparando a spartirsi il bottino – vale a dire gli asset pubblici e i terreni ucraini – e a smembrare definitivamente la già parziale sovranità del Paese, con l’espediente degli aiuti finanziari. Ai prestiti economici degli organismi internazionali, infatti, si aggiungono gli assalti delle multinazionali ai fertili terreni di quello che è considerato il granaio d’Europa: le grandi imprese agroalimentari, tra cui le americane Monsanto, Cargill e Du Pont, infatti, stanno investendo sempre di più nell’acquisto dei terreni agricoli ucraini, aggirando le norme che regolano l’investimento in strutture per la produzione di sementi, l’acquisizione di impianti per la lavorazione e il trasporto delle materie prime.
  In breve, l’Ucraina si sta trasformando nella gallina dalle uova d’oro per gli affari dei grandi gruppi occidentali, finendo per essere dilaniata non solo dalla guerra sul campo, ma anche dai saccheggi economici propri dell’avidità capitalista, con la complicità – in entrambi i casi – dei suoi rappresentanti politici.

(L'INDIPENDENTE, 19 agosto 2022)

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La Regina, il supercandidato Pd in Basilicata: «Lo Stato di Israele? Non esiste, come gli alienl» 

Il post antisemita dell’ex assistente di Provenzano, blindato come capolista 

di Domenico Di Sanzo 

La legittimità dello Stato di Israele? Una bufala come l'esistenza degli alieni. Sicuramente meno importante di un appetitoso piatto della tradizione lucana. Per altre informazioni chiedere al capolista del Pd nel collegio plurinominale della Basilicata alla Camera. 
  Il paragone tra l'esistenza dello Stato ebraico, gli extraterrestri e il manicaretto, infatti, sgorga direttamente dalla fantasia di Raffaele La Regina, 29 anni, segretario regionale del Pd lucano, tra i quattro capilista under 35 scelti da Enrico Letta per rappresentare il rinnovamento del partito alle prossime elezioni politiche del 25 settembre. 
  La Regina, all'epoca collaboratore del vicesegretario dem Peppe Provenzano al ministero per il Sud, il 10 dicembre del 2020 si divertiva a intrattenere i suoi amici di Facebook sfoderando un parallelismo di dubbio gusto. «In cosa credete di più: legittimità dello Stato di Israele, alieni o al mollicato di Mauairedd? E perché proprio al mollicato?», scriveva sul suo profilo social, come da screenshot visionato dal Giornale. Più che evidente l'intento di mettere in dubbio il diritto all'esistenza di Israele. Una fake news, come le creature dalla testa oblunga protagoniste di qualche film di fantascienza. Di certo una facezia, se messa a confronto con un piatto di pasta condito con la mollica di pane croccante, la cui variante preferita da La Regina era quella preparata da un ristorante di Avigliano, vicino Potenza, che adesso ha chiuso definitivamente. Una battuta cattiva, quella del candidato di Letta, che però ci restituisce l'immagine di una giovane sinistra ancora non del tutto depurata da alcune incrostazioni del passato. Già allora uno scivolone meritevole di sollevare un polverone politico, dato che il giovane dottorando in Storia contemporanea era già assistente dell'attuale vicesegretario del Pd Giuseppe Provenzano, che all'epoca ricopriva il ruolo di Ministro per il Mezzogiorno nel secondo governo guidato da Giuseppe Conte. 
  La Regina ha chiuso il suo profilo Facebook, eppure la gaffe anti-israeliana meriterebbe un supplemento di riflessione da parte di una forza politica, il Pd, da sempre schierata a difesa dello Stato di Israele. Contro le minacce del terrorismo jihadista e di qualche entità statuale come l'Iran degli Ayatollah, che vorrebbe vedere la nazione ebraica cancellata dalla faccia della terra. Alla luce di un post come quello pubblicato dal segretario regionale della Basilicata, anche la pochezza del suo curriculum, evidenziata ieri dal Giornale, appare come una cosa di scarso peso. 
  Soprattutto perché basta spulciare sul superstite profilo Twitter dell'aspirante parlamentare lucano per trovare altre posizioni controverse sullo Stato ebraico e sul conflitto israelo-palestinese. La Regina, l'11 dicembre del 2017, twittava: «@realDonaldTrump è il peggio potesse capitare al mondo, adesso. #Gerusalemme è luogo sacro per 3 principali religioni monoteiste, occupata in maniera illegale e violenta da #Israele durante la guerra dei 6 giorni. Solidarietà al popolo Palestinese, No Pasaran!», segue bandiera della Palestina. E ancora il 13 aprile del 2017, contro l'ipotesi del gasdotto tra Basilicata e Israele: «#gasdotto tra #Basilicata e #Israele a che scopo? Tramite quale processo democratico?», 
  Un'ostilità anti-israeliana più simile a quella professata dall'ex grillino Alessandro Di Battista che a un candidato piazzato in pole position dal più grande partito del centrosinistra italiano. Blindato capolista al proporzionale La Regina, a differenza di Emanuele Fiano, ebreo e tra i più strenui difensori di Israele, mandato alla battaglia per un seggio al Senato in un collegio uninominale proibitivo come quello di Sesto San Giovanni. «Accetto, ma è una sfida complicata», ha detto Fiano. Per l'anti-israeliano La Regina sarà sicuramente una partita più facile. 

(il Giornale, 19 agosto 2022)


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Post del candidato Pd La Regina mette in dubbio l'esistenza d'Israele

Dureghello: “Abbiamo un grande problema”

Scoppia la bufera attorno alla candidatura come capolista in Basilicata di Raffaele La Regina. Infatti, il 29enne segretario regionale del Pd lucano, non ha nascosto le sue posizioni nei confronti dello Stato d’Israele. In un post di Facebook risalente al 10 dicembre 2020 e su cui è tornato Il Giornale oggi, La Regina con un post ironico dai toni antisemiti metteva in dubbio l’esistenza stessa dello Stato Ebraico. “In cosa credete di più: legittimità dello Stato di Israele, alieni o al mollicato di Mauairedd? E perché proprio al mollicato?” si legge nel suo post.
  “Candidare i giovani in Parlamento è una scelta di valore, soprattutto se i candidati portano valore e idee innovative. Se bisogna leggere tesi di odio che negano il diritto d'Israele ad esistere allora abbiamo un grande problema". Così la presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, commenta su Twitter l’articolo.
  "Il Giornale di oggi mi accusa di negare l'esistenza dello Stato di Israele, richiamando un meme che distrattamente e superficialmente ho rilanciato in un gruppo privato. Si trattava insomma di satira, non di una posizione politica. Un gesto comunque sbagliato, per cui chiedo scusa. Ma voglio essere chiaro, non ho mai messo in dubbio la legittimità dello Stato di Israele, né in passato né mai, né il suo diritto a esistere". Così in una nota Raffaele La Regina, che però in passato ha pubblicato diversi tweet in chiave anti-israeliana. Nel dicembre 2017 scriveva: “@realDonaldTrump è il peggio che potesse capitare al mondo, adesso. Gerusalemme è luogo sacro per 3 principali religioni monoteiste, occupata in maniera illegale e violenta da durante la guerra dei 6 giorni. Solidarietà al popolo Palestinese, No Pasaran!”, seguito della bandiera della Palestina. E ancora il 13 aprile del 2017, contro l'ipotesi del gasdotto tra Basilicata e Israele: “gasdotto tra Basilicata e Israele e a che scopo? Tramite quale processo democratico?”
  Tweet commentati dal Partito Democratico stesso che mette in chiaro la loro posizione riguardo Israele. “La posizione del PD su Israele è nota. I due tweet e il meme di Raffaele La Regina, risalenti a quando non era candidato del PD e non rappresentava il PD, non rispecchiano in alcun modo il lavoro e le prese di posizione del Partito Democratico di questi anni, schierato a difesa del diritto a esistere dello Stato di Israele, della sua sicurezza e del percorso di pace”.

(Shalom, 19 agosto 2022)

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Germania: la polizia indaga su Abu Mazen per le frasi sull'Olocausto

La polizia di Berlino sta indagando sulle dichiarazioni di Abu Mazen, che nella capitale tedesca martedì ha parlato di "50 Olocausti" di Israele. Il presidente palestinese è stato denunciato per relativizzazione dell'Olocausto e incitamento del popolo a un reato.
  Le autorità confermano che l'indagine è gestita da un dipartimento specializzato della Polizia criminale di Berlino e "sarà inviata tempestivamente alla procura di Berlino per informazioni e ulteriori decisioni". La formale denuncia contro il leader palestinese è stata presentata da Mike Delberg, nipote di sopravvissuti ai crimini nazisti.
  Un portavoce del ministero degli Esteri ha detto oggi in conferenza stampa che il ministero ritiene che Abu Mazen - al secolo Mahmud Abbas - goda di immunità ai sensi del diritto internazionale perché stava svolgendo una "visita ufficiale nella sua funzione di rappresentante dell'ANP, anche se al momento la Germania non riconosce uno stato palestinese", ma che la circostanza sarà da valutare da parte delle autorità competenti.

(swissinfo.ch, 19 agosto 2022)


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Il reiterato negazionismo di Abu Mazen è un serio problema (e servono a poco le insincere ritrattazioni)

CNN, BBC, New York Times & company riporteranno la rettifica e passeranno oltre. Gli israeliani no, e si fideranno sempre meno. Ma ci sarà sempre chi dice che sono loro gli intransigenti.

Si consideri questa notizia tratta dal sito web della BBC: “Il leader palestinese Abu Mazen si è scusato per le osservazioni che ha fatto sul popolo ebraico e sull’Olocausto. In una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio… ha definito l’Olocausto come ‘il crimine più efferato della storia’.” Sembra l’esatto resoconto del “chiarimento” rilasciato da Abu Mazen circa le dichiarazioni che ha fatto martedì scorso in Germania (di tutti i luoghi possibili), quando ha sostenuto che Israele ha commesso “50 Olocausti” contro i palestinesi, giusto?

(israele.net, 19 agosto 2022)


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Cosa c’è dietro alle menzogne che Abbas ha detto a Berlino

di Ugo Volli

Ha suscitato molta indignazione la frase pronunciata dal leader dei palestinesi Mohamed Abbas (che i suoi sostenitori chiamano per lo più col nome onorifico Abu Mazen, “padre di Mazen”, il suo primogenito morto anni fa), durante la conferenza stampa col cancelliere tedesco Olaf Scholz. “Israele - ha detto Abbas - ha commesso 50 Shoah nei confronti dei palestinesi”. Di fronte alla ferma e immediata reazione di Scholz e all’indignazione internazionale, il dittatore ha fatto una penosa marcia indietro, sostenendo di non essere stato capito.

• Una gigantesca menzogna
  Naturalmente la dichiarazione di Abbas è insensata, non merita neppure di essere discussa e smentita. Basta solo citare un fatto inequivocabile, al di là di qualunque ragionamento politico. La Shoah è un genocidio, la distruzione di un popolo; anche prescindendo da tutte le discussioni sull’esistenza storica di un popolo palestinese, le statistiche dicono che nel territorio fra il Giordano e il Mediterraneo prima della fondazione di Israele i musulmani erano circa un milione e oggi, settantacinque anni dopo, secondo i dati forniti dall’Autorità Palestinese, sono fra i quattro e i cinque milioni. Un gruppo umano che si moltiplica per quattro o cinque in tre generazioni non ha certamente subito un genocidio. O “cinquanta Shoah”.

• Perché questa clamorosa bugia?
  La frase di Abbas non è un errore, un semplice slogan propagandistico fuori posto. Come spiega Mordechai Kedar, uno dei più importanti studiosi israeliani di politica araba, l’incidente è avvenuto “perché Abbas sta invecchiando, sta perdendo le sue capacità mentali e inizia a dire quello che pensa veramente. Se fino ad ora si è trattenuto, ora non ha più la capacità di controllarsi”. Secondo Kedar, già "la tesi di laurea di Abbas [sostenuta nel 1982 all’università per stranieri di Mosca, quando secondo molti egli sarebbe stato reclutato dal KGB e intitolata “L’altro lato: la relazione segreta tra nazismo e sionismo”] era centrata sulla negazione della Shoah. Ma soprattutto Abbas comprende bene che l'intera idea palestinese si basa sulla negazione della storia israeliana ed ebraica. Ritiene che il ristabilimento dello Stato di Israele nel 1948 sia stato, in un modo o nell'altro, una conseguenza della Shoah, che dopo la Shoah il mondo abbia deciso che non c'era altra scelta che creare uno Stato per gli ebrei. Di conseguenza, pensa che se riesce a mettere in dubbio la storia della Shoah, potrebbe minare la ragione dell'esistenza dello Stato d'Israele, e questo è tutto il suo scopo nella vita. Per questo fine cerca di minimizzare o negare la Shoah e i suoi orrori, soprattutto in presenza dei tedeschi affinché smettano di basare sulla Shoah la loro politica nei confronti di Israele”. Fino a qualche tempo fa, Abbas "cercava di essere politicamente corretto perché si rendeva conto che contestare l'esistenza dell'Olocausto o minimizzarlo lo rendeva ridicolo, specialmente in Europa e ancor di più in Germania. Ma ora sta invecchiando, sta perdendo la sua capacità di controllare ciò che dice” e quindi si lascia andare a discorsi che per chi conosce la storia appaiono grotteschi, ma che esprimono tutto il suo odio per Israele e per gli ebrei.

• Le menzogne di Abbas
  Abbas, come molti esponenti dell’islamismo e del palestinismo, è abituato a un uso continuo della menzogna e della dissimulazione. Per esempio, ha sostenuto di essere stato cacciato da Israele dalla città natale di Safed, mentre risulta che la sua famiglia abbandonò la città durante l’offensiva araba del ’48.

• Monaco
  Un altro tema su cui Abbas ha molto cercato di confondere le acque è la strage di Monaco. Il capo degli assassini, Mohammed Oudeh, meglio conosciuto come Abu Daoud, nella sua autobiografia lo indicò come uno dei tre dirigenti di Fatah che lo aiutarono nella pianificazione del massacro. Abbas ha sempre smentito di aver partecipato alla pianificazione dell’attentato, ma è chiaro che ha contribuito al suo finanziamento. Va notato che ha tirato fuori la menzogna delle “50 Shoah” proprio in seguito a una domanda di un giornalista che gli chiedeva se intendesse scusarsi con Israele per il massacro. In realtà, la strage di Monaco è esaltata e celebrata dai media e dai politici dell’Autorità Palestinese. Abu Mazen stesso ha sempre dichiarato che la cosa più intoccabile per lui nella sua gestione politica sono i fondi dedicati a premiare i terroristi riconosciuti colpevoli di aver ucciso degli ebrei.

(Shalom, 19 agosto 2022)

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A Gerusalemme, tutti insieme!

Il racconto di Arturo Cohen, responsabile tecnico Inter Campus in Terra Santa, del progetto di Abu Tor, nucleo dove bambini israeliani e palestinesi giocano insieme.

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GERUSALEMME EST – Ho 29 anni, e da 9 anni vivo nella città più complessa e affascinante del mondo, luogo sacro di tanti e contesa da sempre, l’eterna Gerusalemme. Tante possono essere le posizioni sul conflitto israelopalestinese, tante le sfaccettature di come leggere il corso degli eventi, ma di certo un fatto è chiaro ai più, l’indissolubile legame culturale e religioso con questa città, con il Muro del Pianto in ricordo del vecchio Tempio distrutto, con la spianata delle Moschee dove arrivò il Profeta Maometto da Mecca, e con la chiesa della natività che rappresenta la crocifissione, l’unzione, la sepoltura e la resurrezione di Gesù. Secoli di storia, attraversati da momenti di condivisione pace e prosperità e da tanti altri di guerre, segregazione e soprusi. Una città che continua ad essere contesa, divisa in alcune sue parti da un muro e in altre da un muro solamente idealizzato, ma che è così presente, così percepito. Dove la città non riesce a fare da collante alla diversità delle sue genti, chiamata con nomi diversi dai popoli in conflitto, che ne bramano il controllo assoluto.
  E' sul solco della condivisione e del superamento di confini e paure che nasce l’intervento di Inter Campus nel quartiere di Abu Tor, Gerusalemme Est, dove israeliani e palestinesi, ebrei mussulmani e cattolici, giocano insieme per provare a scrivere una pagina di storia in contrasto con gli ultimi anni così pieni di guerre. Un nucleo che si basa su condivisione e rispetto, dove i genitori e i bambini, insieme in un’unica comunità a tinte neroazzurre, provano a superare il peso della storia e della paura e ad insegnare un futuro di pace. Dove il calcio, il suo potere ipnotico sui bambini, la sua forza trainante sugli adulti, prova ad essere il metodo educativo per cambiare la realtà.
  E non c’è momento più emozionante che la visita di fine stagione dei nostri amici da Milano, che portano nuovi spunti calcistici ed educativi e tanta voglia di crescere insieme. Ed è con Chiara e Silvio sul campo che ci si sente tutti parte di qualcosa di più grande, di unico, di una famiglia mondiale che con l’Inter porta in giro il calcio quello vero, quello per il benessere delle persone e non incentrato sui profitti, quello che prova ad unire e non a dividere, che gioca sulle diversità e le porta in campo per conoscerle e apprezzarle. Oltre sessanta bambini, dai 9 ai 14 anni, portano sul campo il loro bagaglio culturale, il loro legame con questa città così difficile, ed è la magia di Inter Campus a tradurre il tutto in condivisione e sano stare insieme. Sono Mohammed e Noam, coetanei trentenni, uno palestinese e l’altro israeliano, a dimostrare che un altro mondo è ancora possibile.

(Inter Campus, 19 agosto 2022)

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Israele e Turchia rinnovano i rapporti diplomatici, i due paesi ristabiliranno le proprie ambasciate

di Luca Spizzichino

Israele e Turchia hanno annunciato ieri il pieno rinnovo dei rapporti diplomatici. La notizia è arrivata a seguito di una recente conversazione telefonica tra il primo ministro israeliano Yair Lapid e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Come parte degli accordi, entrambi i paesi ristabiliranno le proprie ambasciate e i consolati nei due paesi. 
  L'accordo finale è stato raggiunto dopo una conversazione martedì sera tra il direttore generale del ministero degli Esteri israeliano Alon Ushpiz e il viceministro degli Esteri turco Sedat Önal. 
  Il primo ministro israeliano Yair Lapid ha definito il rinnovo dei rapporti diplomatici con la Turchia "una risorsa importante per la stabilità regionale”. "Continueremo a rafforzare la posizione di Israele nel mondo" ha aggiunto.
  Nella dichiarazione rilasciata dall’ufficio del Primo Ministro è stato spiegato che quanto raggiunto ieri da parte delle due cancellerie "è una continuazione della direzione positiva nello sviluppo delle relazioni nell'ultimo anno".
  Un processo di riavvicinamento tra i due paesi iniziato circa un anno fa, che ha raggiunto l’apice con la visita di stato del presidente Herzog ad Ankara all'inizio di quest'anno, che ha accolto con favore “il rinnovamento delle piene relazioni diplomatiche con la Turchia, un importante sviluppo che abbiamo guidato nell'ultimo anno, che incoraggerà maggiori relazioni economiche, turismo reciproco, e l'amicizia tra i popoli israeliano e turco".
  Anche il ministro del Turismo israeliano Yoel Razbozov ha commentato la notizia affermando che Israele non vede l'ora di "ospitare più turisti turchi, che rafforzeranno l'industria del turismo e il collegamento tra i paesi".
  Il riavvicinamento tra Israele e Turchia è passato anche attraverso il coordinamento tra l’intelligence israeliana e le forze di sicurezza turche, i due paesi infatti hanno collaborato per impedire che venissero rapiti e uccisi turisti israeliani a Istanbul. Le forze turche hanno rintracciato e arrestato gli agenti iraniani che stavano preparando l’operazione.
  Inoltre Erdogan potrebbe mirare a utilizzare le rinnovate relazioni come trampolino di lancio per lo sviluppo di un gasdotto che vedrebbe Israele convogliare il gas naturale direttamente in Turchia nel tentativo di ridurre la dipendenza della Turchia dal gas russo.

(Shalom, 18 agosto 2022)

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La Palestina dentro la tenaglia di Hitler

Dan Diner racconta le settimane frenetiche del 1942 quando le armate tedesche erano a un passo dal futuro Israele. E gli ebrei degli insediamenti ipotizzarono persino suicidi di massa. Uno sguardo dal Sud del mondo sulla Seconda guerra mondiale.

di Roberto Righetto

Ufficiali del 1° Battaglione The Loyal Regiment (North Lancashire) ad Haifa nel 1936.
Cosa sarebbe accaduto in Palestina se nel 1942 le armate tedesche l’avessero conquistata? E quale destino avrebbero subito gli ebrei che l’abitavano e che meditavano di realizzarvi uno Stato? Dopo la disfatta britannica a Tobruch, ai primi di luglio, la Panzerarmee Afrika aveva preso Marsa Matruh avvicinandosi pericolosamente ad Alessandria e al Cairo, dove gli inglesi avevano iniziato a bruciare i documenti per evitare che finissero in mano nazista. Il catastrofismo s’impadronì in quei mesi degli ebrei che vivevano a Tel Aviv e Gerusalemme, sino ad allora risparmiate dalla guerra che imperversava in Europa e in Estremo Oriente. Fino al mese di novembre, con l’esito della seconda battaglia di El Alamein sfavorevole a Rommel e il rovesciamento di situazione verificatosi a Stalingrado, lo scenario della fine dello Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina durante il Mandato britannico, era ritenuto possibile. Tanto che l’Haganah, l’organizzazione paramilitare ebraica, ipotizzò un piano di suicidio collettivo sul monte Carmelo, dove centomila ebrei si sarebbero dovuti trincerare aspettando l’attacco tedesco: una sorta di 'Masada bis' o una 'Mussa Dagh ebraica', come qualcuno la chiamò ricordando il sacrificio sotto l’impero romano e quello più recente degli armeni nel 1915, poco prima del genocidio compiuto dai turchi.
  Il racconto di quelle settimane frenetiche è effettuato dallo storico Dan Diner in un saggio avvincente che mostra un aspetto sinora poco esplorato della seconda guerra mondiale: se di solito la prospettiva degli studi è stata prevalentemente orizzontale, con un’espansione che a partire dal 1939 dalla Germania ha riguardato l’Est e l’Ovest del Vecchio Continente, qui lo sguardo parte dal Sud del mondo per guardare a quanto accadeva a Nord. Tutta un’altra guerra. Il secondo conflitto mondiale e la Palestina ebraica (1935-1942) è il titolo azzeccato del volume tradotto da Bollati Boringhieri (pagine 320, euro 28,00). L’autore, nato a Monaco nel 1946 da immigrati lituani e polacchi, insegna Storia moderna all’Università ebraica di Gerusalemme e ha pubblicato varie opere sulla storia politica del XX secolo.
  In quell’estate Hitler era convinto che l’operazione Barbarossa si sarebbe presto conclusa con una vittoria schiacciante sull’Unione Sovietica. Ma un anno prima la direzione della Marina tedesca gli aveva suggerito di attendere ad aprire il fronte orientale e a privilegiare il terreno di scontro con Londra sul Mediterraneo e in Africa, arrivando così a conquistare il Vicino Oriente. «Una volta sospesi i preparativi per il piano, comunque altamente rischioso, di sbarcare sull’isola britannica nel settembre del 1940 – annota Diner –, il grande ammiraglio Raeder cercò di convincere Hitler che in quel momento si offriva l’occasione di sfruttare le debolezze britanniche nel teatro di guerra mediterraneo». Nel giugno del 1941 Raeder compì un ultimo tentativo di far rimandare l’offensiva orientale e di impadronirsi del Mediterraneo orientale, bloccando i rifornimenti attesi da Churchill che dovevano arrivare attraverso l’Oceano Indiano e il Mar Rosso.
  Per un certo periodo sembrò aver ragione il Führer: «Nell’estate 1942 – rileva ancora Diner – la zona di dominio nazista aveva raggiunto la sua massima ampiezza, con l’avanzata dal deserto occidentale in direzione del Canale di Suez e la marcia attraverso la Russia meridionale in direzione del Caucaso e verso la foce del Volga. Tale espansione portò i vertici della Wehrmacht a crogiolarsi all’idea di una strategia in cui le due parti dell’esercito si muovevano l’una verso l’altra, chiudendosi a tenaglia: a sud dall’Egitto, a nord dal Caucaso. Il loro incontro, magari proprio nella zona della Palestina, avrebbe sottratto all’intero mondo britannico meridionale l’accesso alle fonti di carburante, interrompendo le vie di comunicazione e di trasporto vitali per l’impero, con conseguenze devastanti per la tenuta della Gran Bretagna». Un progetto bloccato pochi mesi dopo, sia in Africa che in Russia.
  Ma com’era in quegli anni la situazione degli ebrei in Palestina? Rinvigoriti da un’immigrazione sempre più forte, proveniente da un’Europa dove la discriminazione verso gli ebrei era crescente, non solo in Germania ma anche in Polonia - qui maturò il progetto di trasferimento in massa in Madagascar -, l’ipotesi sionista prendeva sempre
  più corpo, nonostante l’opposizione dei britannici che volevano mantenere buone relazioni con i popoli arabi. Nel 1935 erano stati 60mila gli ebrei arrivati in Palestina. E il 16 ottobre di quell’anno accadde un episodio che avrebbe dato il via a una rivolta araba durata tre anni e piegata dai britannici con l’uso di una forza bruta. In una nave cargo belga, durante un controllo dei portuali arabi, furono ritrovati 360 barili contenenti armi destinate probabilmente agli ebrei. Da lì partì uno sciopero con proteste e gesti di violenza, tanto che i circa 7mila ebrei che abitavano nella città portuale dovettero abbandonarla. Quando nell’estate 1942 la Palestina era minacciata dal Terzo Reich, molti ebrei paventavano pogrom da parte araba nel caso di una vittoria dell’Asse sugli Alleati; ma ci fu anche chi meditò di affidare i propri figli ad amici arabi.
  La convivenza fra ebrei ed inglesi sin dall’inizio del Mandato britannico, nel 1920, non era stata affatto idilliaca. La famosa dichiarazione di Balfour del 1917, in cui il governo di sua maestà si impegnava a sostenere la creazione di una 'dimora nazionale ebraica' in Palestina, sarebbe stata di ben difficile attuazione, anche per le promesse precedenti fatte agli arabi. Lo stesso movimento sionista, come ben documenta Diner, aveva perso fiducia nell’impero, e nel maggio 1942, in un raduno straordinario tenutosi all’hotel Biltmore di New York, si era compiuta una vera e propria svolta: gli ebrei si sarebbero affidati alla potenza americana per raggiungere i loro obiettivi. Svolta che era coincisa con la perdita di consenso dell’allora presidente dell’Organizzazione sionista mondiale, Chaim Weizmann, considerato l’erede di Theodor Herzl, a favore di Ben Gurion, che era a capo dell’Agenzia Ebraica. In quell’albergo costruito a fianco della Grand Central Station e che sarebbe poi stato abbattuto, si verificò dunque una «translatio imperii dalla Corona Unita agli Stati Uniti» e si prospettò la creazione di un esercito ebraico che combattesse a fianco degli Alleati, per poter partecipare alla conferenza di pace che si sarebbe svolta alla fine della guerra. Prospettiva allora solo auspicata, dato che anche il vicepresidente Usa Wallace intervenendo al raduno ipotizzò almeno due anni perché la macchina bellica americana potesse entrare in azione al cento per cento. All’incontro newyorchese fece capolino pure la questione dell’Olocausto, a quel tempo in gran parte sottostimato. Weizmann parlò chiaramente del destino tragico degli ebrei europei, facendo addirittura la previsione che sotto il dominio nazista il 25 per cento non sarebbe sopravvissuto. Vi fu chi gridò allo scandalo ma anche chi fece previsioni ancora più cupe. E in Palestina cosa si sapeva della Shoah? Solo a partire dalla metà di novembre 1942, con un gruppo di ebrei cittadini palestinesi provenienti dalla Polonia in un’operazione di scambio con prigionieri tedeschi, si cominciò ad averne notizia. Quei sopravvissuti alla macchina di sterminio nazista parlarono delle camere a gas e a stento furono creduti. Il 26 novembre l’Agenzia ebraica diramò un comunicato in cui si denunciavano le atrocità di Hitler nei campi nazisti in Polonia, dove trovavano la morte gli ebrei dell’Europa occidentale e orientale. Fu così la prima volta che lo Yishuv fece i conti con l’enormità della catastrofe.

(Avvenire, 18 agosto 2022)

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L’ebraico nelle parlate dialettali degli ebrei italiani

Il monumentale lavoro di Mayer Modena e Rosenzweig in un preziosissimo dizionario

di i Massimo Giuliani

Vi sono libri che gli autori scrivono in un mese e libri che richiedono anni, anzi decenni di lavoro: una sistematica e meticolosa raccolta di dati letterari ed empirici, catalogazione e sinossi, verifica continua delle fonti scritte e orali, precise corrispondenze e aggiornamenti, assoluto rigore storico-filologico ma anche consapevolezza che la linguistica non è una ‘scienza esatta’ ed esige flessibilità diacronica e sincronica… insomma, stiamo parando un un’opera complessa, perché complesso è l’oggetto al centro di tale ricerca. Il suo titolo non è dei più facili: Vena hebraica nel giudeo-italiano. Il sottotitolo è più esplicito: Dizionario dell’elemento ebraico negli idiomi degli Ebrei d’Italia. Il volume, coraggiosamente pubblicato dalle Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto [LED] di Milano (420 dense pagine, 59 euro), è il frutto di una vita di studi, ricerche e insegnamento della professoressa Maria Luisa Mayer Modena, ben nota nella comunità ebraica milanese, docente (ora a riposo) di Ebraico e Lingue semitiche comparate all’Università degli Studi di Milano, la Statale, ‘maestra’ di molte generazioni di studiosi e cultori della lingua ebraica nonché instancabile animatrice dell’Associazione Amici dell’Università ebraica di Gerusalemme e dei rapporti tra accademie, l’italiana e l’israeliana. Quest’opera, a lungo attesa, è il coronamento di tale intensa carriera, anzi di una vocazione scientifica di cui l’ebraismo italiano dovrebbe andare molto fiero, dimenticando per un momento beghe interne e scontri politici e onorando in vita i suoi esponenti più insigni, appunto come la prof.ssa Mayer Modena.
  In materia di meriti, occorre dire che questo volume non sarebbe apparso ora senza la collaborazione altrettanto scientificamente accurata e defatigante di Claudia Rosenzweig, docente di Letteratura yiddish antica all’Università di Bar-Ilan, a Ramat-Gan in Israele, che nei suoi anni milanesi fu allieva di Mayer Modena. Questo Dizionario può ben dirsi, comunque, il frutto di una cooperazione scientifica comunitaria che, in quasi sessant’anni, ha coinvolto testimoni e protagonisti della cultura ebraica italiana che oggi non ci sono più e che vengono tutti e tutte debitamente ricordati/e nella prefazione. Insomma, un’opera corale seria, importante e destinata a restare nella bibliografie di ebraistica molto a lungo.
  Ciò premesso, il Dizionario è strutturato come ogni buon dizionario, anzi come ogni buon lessico: raccoglie e articola i lessemi, i termini ebraici presenti nelle diverse parlate idiomatiche degli ebrei sparsi nella penisola del Belpaese. I problemi metodologici di una tale impresa sono evidenti. Diacronicamente gli ebrei vivono nella nostra penisola dal II secolo avanti l’era comune/corrente, dapprima concentrati a Roma e nelle principali città dell’impero. Che lingue parlavano? Il greco e il latino? Certamente, e certamente mantennero espressioni e termini ebraici e/o aramaici della loro cultura religiosa. Poi ci fu il lento declino della koinè tardo-antica e l’altrettanto lento emergere di un giudeo-italiano che ebbe, come suggerisce Mayer Modena, “presumibilmente gli stessi tempi e le stesse modalità dell’evoluzione dal latino all’italiano”. Un giudeo-italiano vero e proprio si attesta solo a partire dal XIII-XIV secolo, indebitato con le prime traduzioni della Bibbia e con il mai cessato uso dei testi liturgici.
  Nel frattempo il baricentro della vita ebraica si era stabilizzato nel meridione d’Italia, con comunità sparse da Palermo e Reggio a Bari e Otranto: come non immaginare quali e quante tipologie di dialetti giudaici fossero in uso quotidiano. Poi, dopo il gerush ovvero la cacciata dai domini spagnoli, agli inizi del XVI secolo, la vita ebraica si spostò sempre più verso il nord, nel settentrione d’Italia: nuove migrazioni e altri influssi, nuove parlate locali con inedite contaminazioni… Quanto permase dell’elemento ebraico, specificamente preso dall’antica lingua sacra?
  Ancora, l’incontro del mondo sefardita con il mondo ashkenazita, nel contesto della componente italiana, portò certamente a infiniti scambi e adattamenti linguistici. Quando si dice ‘idioma giudeo-italiano’ si dice un astratto per una varietà quasi inimmaginabile di parlate ebraiche, che anche considerate in modo sincronico, rendono impervio uno sguardo indagatore unitario, sintetico e onnicomprensivo. Cosa ha in comune il bagitto di Livorno con la parlata giudeo-romanesca o con quella degli ebrei veneto-veneziani o con quella giudeo-piemontese (di cui parlò Primo Levi in “Argon”, nel suo Sistema periodico), per non citare che le maggiori di queste parlate? Domanda retorica, ma che questo Dizionario non lascia più nel vago e ci aiuta, per chi sa come si manovra un tale strumento linguistico, a orientarci. A Roma si continua a dire ‘fare minian’ per parlare di un bar mitzwà, e si dice talled e non tallit, come si sente ancora oggi sciabbad o sciabbadde per shabbat, e trefà per taref, ‘andare a ghinnam’ per andare al diavolo, ‘essere in ghenizà’ per andar sprecato, e via spigolando.
  Ci si divertirà, anche, a spulciare quest’opera-monumento che dà credito a tutte le fonti, anche orali, in voce per voce. Come accennato, essa nasce nella scia di un'immensa ricerca avviata all’Università ebraica di Gerusalemme verso la fine degli anni Cinquanta, da Shlomo Morag z”l, sulle tradizioni delle diverse comunità ebraiche mediterranee e orientali, e proseguita dal linguista Aharon Maman, che negli ultimi anni ha, a sua volta, raccolto l’eredità di Morag pubblicando un Dizionario sinottico della componente ebraica nelle lingue parlate dagli ebrei, in tempi e luoghi diversi, ovviamente scritto in ebraico (prima edizione 2013; seconda edizione rivista 2019). Molto del materiale accumulato e schedato nelle sue ricerche da Mayer Modena è confluito in tale sinossi linguistica, così che il vissuto ebraico-italiano, attraverso questa documentazione, è potenzialmente conoscibile a livello mondiale.
  In Italia è stato importante il giudizio e il lavoro di Umberto Cassuto, che per primo si rese conto di come l’abbandono delle parlate dialettali degli ebrei – a favore di un italiano standard in omaggio all’emancipazione sabauda tesa all’assimilazione culturale (almeno fino al ’38!) – significasse anche una parziale perdita di identità e di specificità, appunto la specificità ebraica, quella ‘cosa’ che oggi in molti cercano, non di rado forzatamente e con innesti alieni, di rivitalizzare come priorità affinché il ‘giudaismo italiano’ non scompaia. A prescindere, questo Dizionario – che potremmo anche chiamare il Mayer-Rosenweig (sul calco del Devoto-Oli, da poco riedito con 500 neologismi) – è ora uno strumento formidabile per la memoria della lunga storia degli ebrei in Italia, ma forse anche per gli stimoli che può offrire a essere ebraicamente più creativi, affinché questo immenso lavoro non sia solo ‘a imperitura memoria’.
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Vena hebraica nel giudeo-italiano. Dizionario dell’elemento ebraico negli idiomi degli Ebrei d’Italia, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto [LED] di Milano, 420 pagine, 59 euro.

(JoiMag, 18 agosto 2022)

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Deposito di 600 astragali rinvenuto a Maresha, Israele

di Daniele Mancini

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Gli archeologi dell’Israel Antiquities Authority hanno rinvenuto oltre 600 astragali, relativi a zampe di quadrupedi, nei pressi dell’antico centro urbano di Maresha, o Marissa, nell’Israele centrale.
  Gli astragali risalgono al periodo ellenistico del centro urbano, circa 2.300 anni fa, e il loro uso  potrebbe indicare un uso rituale per contattare le divinità ma anche quello ludico legato a classiche attività di gioco.
  Frammenti di zampe ovine o caprine, o anche versioni artificiali di esse, e talvolta anche piccole elementi di zampe di vacca o di gazzella, erano popolari in tutto il Levante e nel mondo classico, e anche oltre. Tuttavia, la quantità trovata nei recenti scavi a Maresha è insolitamente grande.
  La loro scoperta e lo studio sul loro uso sono stati riportati sulla rivista archeologica Levant da Lee Perry-Gal dell’Israel Antiquities Authority, Adi Erlich dello Zinman Institute of Archaeology dell’Università di Haifa e da Ian Stern dello Hebrew Union College di Gerusalemme.
  Secondo Perry-Gal, quando si trovano astragali o assi di zampe di erbivori in un contesto cultuale, solitamente sono ascrivibili a resti di pasti. Pecore e capre sono state le basi della dieta levantina sin dalla loro addomesticazione circa 10.000 anni fa nel sud-est della Turchia ma per gli archeologi un osso potrebbe essere più di un osso quando si rinviene in grandi quantità.
  Inoltre, una vasta collezione di 680 astragali era stata scoperta a Megiddo nell’ambito di un contesto legato  a depositi di fondazione, integrati nelle fondamenta delle case, probabilmente a causa della loro associazione con la buona sorte.
  Situata ai piedi della Giudea, Maresha appare nella Bibbia nell’ambito dell’eredità della tribù di Giuda, che includeva, tra i molti centri citati, anche Libna, Ether, Ashan; Ifta, Ashna, Nezib, Keilah, Aczib, Maresha. Proprio questa era una dei centri fortificati da re Roboamo, secondo il racconto biblico, che la cita come luogo della battaglia di Asa di Giudea contro un esercito invasore guidato da Zera l’Etiope.
  Perry-Gal ritiene che nel periodo ellenistico, dal IV al II secolo a.C., Maresha era una città multiculturale con quattro o cinque diverse popolazioni che vivevano insieme.
  L’arte della divinazione con gli astragali è chiamata astragalomanzia e, almeno nel periodo storico, la pratica era basata sui segni sulle ossa: nomi di divinità e numeri. La teoria di fondo è che lanciare dadi o piccoli ossi sia un modo per invocare o contattare i poteri divini, diverso dal modo in cui viene interpretato il messaggio mediato della divinità invocata.
  Alcuni credono che la astragalomanzia risalga alla preistoria, in qualche forma, usata anche prima delle forme di scrittura in cui gli astragali, presumibilmente, non avrebbero avuto indicazioni alfabetiche. In ogni caso, nel periodo classico gli astragali erano così pregiati che manufatti scolpiti nel vetro sono state rinvenuti anche a Tel Kedesh, in Galilea, e nell’antica Grecia, sempre del periodo ellenistico. Esistono anche esempi di astragali in avorio, pietra e metallo. Astragali d’osso sono stati rinvenuti anche a Gerusalemme.
  A Maresha, ossi per uso rituale o per divertimento, così come alcuni eventualmente impiegati nella speranza di persuadere la divinità a tormentare altre persone, sono stati trovati in grotte scavate nella roccia della città bassa che servivano per vari scopi, incluso lo stoccaggio di cereali e cisterne d’acqua, forse per il culto. Molti degli astragali sono stati trovati, in grandi concentrazioni, in grotte specifiche.
  Nel contesto dei perenni disagi e ostilità del Medio Oriente, manufatti e materiali delle aree domestiche venivano gettate, forse a scopo di conservazione, nelle aree sotterranee divenendo una sorta di capsula del tempo, Quindi, secondo Perry-Gal, è difficile dire se gli astragali di Maresha fossero usati sotto alla luce del sole o in buie santuari interni.
  Nell’Area 89 del sito, sotterranea, presso un piccolo altare con incisioni, è stata trovata un’enorme collezione di astragali e ostraca: questo ipogeo potrebbe essere servito come luogo di culto. In contesti di culto si trovano astragali che recano iscrizioni con i nomi di Afrodite ed Eros, la grande Era, Hermes e altri. Nel frattempo, in un altro quartiere di Maresha, il team ha identificato degli astragali che portano il nome di Nike, la dea della fortuna, e ipotizzano che quelli trovati in quel contesto servissero per giocare.
  Vale la pena notare che gli astragali nel mondo antico di solito non erano sempre contrassegnati; alcuni portavano nomi di divinità, associati a tentativi di divinazione o adorazione; alcuni numeri, che sono associati ai giochi; alcuni, apparentemente, servivano per praticare un sortilegio e maledire i propri nemici.
  Perry-Gal sottolinea come durante il periodo ellenistico e romano di Maresha gli astragali erano molto usati nella divinazione: la quantità straordinaria, specialmente quelle con scritte con nomi di divinità, sono stati rinvenuti in un contesto con diversi ostraca di profezia. Si sospetta che gli astragali con sopra parole come “ladro” fossero usati per giocare. Alcuni astragali erano appesantiti con piombo molto più di altri metalli e, probabilmente, sarebbero serviti nei giochi: rotolerebbero meglio del semplice osso.
  I ricercatori non hanno associato a una specifica tribù o popolazione l’uso degli astragali: si può notare, però, che gli ostraca sono inscritti in aramaico e includono maledizioni e profezie mentre astragali sono inscritti in greco.
  Sebbene Maresha non era l’unica città ellenistica in Israele, l’uso massiccio di astragali potrebbe essere giustificato da dalle condizioni speciali di multiculturalismo in misura che qui potrebbe essere stata insolita, suggerisce Perry-Gal.
  Le pratiche magiche e divinatorie degli astragali non ha aiutato la popolazione a prevedere il futuro. Maresha subì altri sconvolgimenti e nell’anno 40 a.C. i Parti la rasero al suolo e l’attività economiche si sarebbero spostate accanto al centro di Beit Guvrin.

(Daniele Mancini Archeologia, 18 agosto 2022)

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Israele: inflazione e i prezzi delle case continuano a salire, battendo nuovi record

L’inflazione e i prezzi delle case in Israele stanno aumentando più velocemente di quanto visto per molti anni, secondo i nuovi dati ufficiali pubblicati, continuando un trend preoccupante per l’economia. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dal Central Bureau of Statistics, l’indice dei prezzi al consumo israeliano (CPI) è aumentato dell’1,1% inaspettato a luglio e del 5,2% annuo rispetto a luglio 2021, il tasso annuo più veloce degli ultimi 14 anni. Il tasso di inflazione è ben oltre la fascia superiore del 3% prevista dalla Banca d’Israele.
  Il CPI è una misura dell’inflazione che tiene traccia del costo medio di beni per la casa come cibo, vestiti e trasporti. Sono esclusi i prezzi delle abitazioni che sono tracciati separatamente. L’ultimo rapporto sugli alloggi della Central Bureau of Statistics mostra che i prezzi sono aumentati a un tasso annuo del 17,8%, il più veloce in un decennio. Lungi dal rallentare in risposta all’aumento dei tassi di interesse, i prezzi delle case sono aumentati del 2% tra maggio e giugno, rispetto al periodo da aprile a maggio.  Sebbene il tasso di inflazione in  Israele sia inferiore a quello degli Stati Uniti, dove il tasso sembra rallentare all’8,5% a luglio, la combinazione di aumenti dei prezzi, aumenti dei tassi di interesse, incertezza nel settore tecnologico e salari piuttosto stagnanti crea uno dei problemi più difficili nel contesto economico degli ultimi anni.
  Per quanto elevato possa sembrare, il tasso è inferiore alla media OCSE del 9,6% per maggio, l’ultimo mese per il quale sono attualmente disponibili dati. L’aumento del costo della vita in Israele è in cima all’agenda in vista di un altro turno di elezioni a novembre. Secondo un recente sondaggio dell’Israel Democracy Institute (IDI), il 44% degli intervistati israeliani ha affermato che la piattaforma economica di un determinato partito e il suo piano per affrontare l’aumento del costo della vita sono stati i principali fattori che hanno influenzato la loro decisione al momento del voto del 1° novembre.
  Il costo della frutta fresca è aumentato dell’8,5%, i trasporti del 3,3% e la cultura e l’intrattenimento dell’1,2%, secondo il CPI. Anche articoli come zaini scolastici, articoli da toeletta e cosmetici hanno registrato un aumento. Abbigliamento e calzature calano del 4%. L’altra area chiave che ha visto un sostanziale aumento dei prezzi è il carburante. Nell’ultimo mese i prezzi sono aumentati dell’8,7%, con aumenti nell’ultimo anno che hanno toccato il 108%.
  Da inizio anno il CPI è aumentato del 4,4%. Per quanto riguarda le abitazioni, i prezzi sono aumentati in tutte le regioni ad eccezione del sud di Israele e sono aumentati più drasticamente a Gerusalemme e nel nord nell’ultimo mese. Ma ogni parte del paese ha visto incrementi a doppia cifra nell’ultimo anno. Il prezzo medio di un appartamento ora è di NIS 1.880.900 (€ 564.590) per il secondo trimestre del 2022, con un aumento di NIS 80.000 (€ 24.014) rispetto al primo trimestre dell’anno, secondo CBS.
  A Tel Aviv, il prezzo medio per un appartamento è ora superiore a NIS 4.000.000 (€ 1.200.680), mentre a Ramat Gan, Kfar Saba e Gerusalemme, i prezzi medi sono superiori a NIS 2.500.000 (€ 750.425).

(Israele 360, 16 agosto 2022)

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In Germania il leader palestinese Abbas accusa Israele di "Olocausto"

In visita a Berlino, il presidente di Ramallah ha respinto la richiesta di scuse, avanzata da un giornalista, per gli attentati di Monaco '72. E ha invitato a guardare piuttosto ai massacri dello Stato ebraico. Il cancelliere, al suo fianco, non ha nascosto una smorfia. L'Ira di Israele.

Nel corso di una conferenza stampa con il cancelliere tedesco Olaf Scholz il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non ha espresso alcun rammarico per l'attacco mortale dei militanti palestinesi contro gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco mezzo secolo fa.
  Undici atleti israeliani e un agente di polizia tedesco morirono dopo che membri del gruppo militante palestinese Settembre Nero presero ostaggi al Villaggio Olimpico il 5 settembre 1972. Al momento dell'attacco, il gruppo era legato al partito Fatah di Abbas.
  Alla domanda se come leader palestinese intendesse scusarsi con Israele e la Germania per l'attacco in vista del 50° anniversario del prossimo mese, Abbas ha risposto citando le accuse di atrocità commesse da Israele dal 1947.

• Il paragone con la Shoah
  "Se vogliamo ripercorrere il passato, andiamo avanti", ha detto Abbas ai giornalisti. "Dal 1947 ad oggi, Israele ha commesso cinquanta massacri in cinquanta città palestinesi", ha detto Abu Mazen per poi aggiungere: "Cinquanta massacri, cinquanta olocausti".  In piedi accanto a Scholz, Abbas ha usato esplicitamente la parola "Olocausto" nella sua risposta, provocando una smorfia del cancelliere tedesco. La Germania ha a lungo sostenuto che il termine dovrebbe essere usato solo per descrivere il crimine commesso dai nazisti nei confronti degli ebrei prima e durante la seconda guerra mondiale.

• Il premier israeliano: "Bugia mostruosa"
  Il fatto che Abu Mazen abbia accusato Israele di aver commesso "cinquanta olocausti" mentre si trovava sul suolo tedesco non solo è una vergogna morale, ma una bugia mostruosa", ha scritto il premier israeliano Lapid su Twitter. "Sei milioni di ebrei furono uccisi durante l'Olocausto, incluso un milione e mezzo di bambini ebrei. La storia non lo perdonerà mai", ha aggiunto il premier.
  Scholz non ha avuto modo di replicare immediatamente ad Abu Mazen in occasione dell'uso della parola "Olocausto" poiché la conferenza stampa si è conclusa subito dopo, ma a stretto giro l'ha definita "inaccettabile" in una dichiarazione al quotidiano Bild. "Proprio per noi tedeschi, qualsiasi relativizzazione dell'Olocausto è insopportabile e inaccettabile", ha affermato il cancelliere.

(la Repubblica, 17 agosto 2022)

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Allarme fascismo "Falso problema. Demonizzare l’avversario lo aiuta"

Marek Halter, scrittore ebreo perseguitato dai nazisti: "La sinistra ha perso forza di attrazione".

di Giovanni Serafini

Marek Halter
Se c’è un intellettuale che può parlare di nazismo e di fascismo sapendo quel che dice, è senza dubbio Marek Halter. Ebreo polacco naturalizzato francese, nato nel ghetto di Varsavia da una poetessa yiddish e da un tipografo, aveva quattro anni quando Hitler invase la Polonia. La sua famiglia scappò in Ucraina e il piccolo Marek visse tutti gli orrori di quel periodo: vide sua sorella Berenice morire di fame a tre anni, i suoi genitori ammalarsi di stenti e malattie. Oggi, a 86 anni, scrittore noto in tutto il mondo, descrive nei suoi libri la confusione della nostra epoca, il pressappochismo imperante, la scomparsa dei ’profeti’ sostituiti da leader politici senza statura né ideali. Parliamo con lui della crescita dell’estrema destra in Francia, in Italia e in Europa, di cosa rappresenta realmente e delle strategie per combatterla.

- Marek Halter, cosa vuol dire oggi essere fascisti?
  "Non significa niente. Queste due parole, ’fascismo’ e ’oggi’, non possono stare insieme. Il fascismo è un riferimento storico, qualcosa che appartiene al passato, di cui si parla spesso a vanvera. Il fascismo per me è Mussolini, è Hitler, è la guerra mondiale, è la caccia agli ebrei e agli oppositori politici, è il sangue, lo sterminio, la distruzione".

- Pensa che ci siano eredità, legami, continuità ideologia fra passato e presente?
  "La storia non si ripete. Il mondo è cambiato, non siamo alla vigilia di una ’Notte dei cristalli’. La Francia è una grande democrazia, come l’Italia, come la Germania, come tutti gli altri paesi occidentali. Ricorda cosa diceva Marx? I grandi avvenimenti si producono sempre due volte: la prima sotto forma di tragedia, la seconda sotto forma di farsa. Ecco, il fascismo di cui si parla oggi ha i tratti tipici della farsa".

- Come giudica il fatto che la sinistra accusi di neofascismo gli avversari della destra?
  "È un modo per demonizzarli. Ma un partito rappresentato in Parlamento non può al tempo stesso stare dentro e fuori rispetto allo schieramento democratico. Puoi combatterlo, puoi criticarlo, puoi contestarlo in mille modi perché questa è l’essenza della democrazia: ma demonizzarlo no, è sbagliato, è illogico. Oltretutto è controproducente perché permette all’avversario di atteggiarsi da vittima".

- Secondo lei nella nostra società non esiste il pericolo di derive fasciste?
  "Il problema non è la forza d’attrazione del fascismo, è l’assenza di forza di attrazione della sinistra. Se l’estrema destra cresce è perché è diventata più abile, più furba. Il partito di Marine Le Pen si è umanizzato, non commette gli errori del vecchio Jean-Marie Le Pen ed è votato anche dagli operai e dalle classi sfavorite . Succede anche in Italia: Giorgia Meloni in più ha il vantaggio di non uscire da una famiglia di razzisti e di fascisti. Non ha scheletri nell’armadio".

- In questi giorni è stata duramente criticata per non aver tolto la fiamma tricolore dal simbolo del suo partito.
  "Non averlo fatto è un errore strategico da parte sua. Strizzare l’occhio al passato, in particolare a quel passato, non è una buona scelta. Ma probabilmente si tratta di una forma di marketing politico rivolto a qualche nostalgico, per non perdere voti. Comunque non mi sembra il caso di farne una tragedia. La demonizzazione, ripeto, ottiene il risultato opposto a quello sperato".

- Lei dice che i partiti sono deboli. Perché?
  "Perché non propongono progetti credibili di società. C’è chi si arrocca in schemi del passato e chi invece vorrebbe disfare tutto, ma senza sapere dove andare. Il risultato di queste componenti opposte è l’immobilità. Poi c’è la confusione, l’ambiguità che regna sovrana. Guardiamo cosa sta succedendo dopo l’attacco di Putin all’Ucraina: gran parte dei capi di Stato africani stanno dalla parte di Putin, non perché ne condividano le idee, ma semplicemente perché combatte gli ex colonizzatori e perché elargisce armi, gas e petrolio. Idem per l’America Latina, che non è comunista ma odia la Nato e gli Stati Uniti. Per non parlare di quella ’gauche’ europea che in nome del pacifismo assiste senza reagire al massacro di tutto un popolo".

- Putin è un fascista?
  "Fascista, comunista... Queste definizioni non hanno senso, sono fuorvianti. Il crinale è ben diverso. Oggi la domanda da farsi è: sei pro o contro Putin? Sei europeista o no? Credi nei valori dell’Occidente o no? Sei un nazionalista o un universalista? Questa è la frontiera dei nostri tempi".

(Quotidiano Nazionale, 17 agosto 2022)

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Se non sei forte, sparisci

di Bertina Buccio 

L’ex primo ministro Benjamin Netanyahu ha trascorso la sua vita al servizio dello Stato di Israele dalle forze di difesa israeliane per diventare il primo ministro più longevo del paese con i suoi cinque mandati come primo ministro.
  Durante il suo primo mandato negli anni ’90, il primo ministro è stato decisivo nell’abbattere la maggior parte del governo socialista israeliano. Le sue persistenti strategie portarono a una fondamentale riconfigurazione del Paese, in particolare in termini di libertà economica e potere militare.
  In un’intervista di un’ora con Ben Shapiro, Netanyahu ha parlato della sua lunga carriera, del suo rapporto con gli Stati Uniti e di cosa c’è all’ordine del giorno se rieletto, oltre a molti altri argomenti interessanti.

• Duty free
  Netanyahu parla calorosamente della necessità del libero mercato per una nazione forte.
  Sai che l’innovazione non funziona da sola. Qualsiasi scienza, tecnologia e istruzione, non producono ricchezza in sé e per sé. Perché se così fosse, l’Unione Sovietica sarebbe il paese più prospero del mondo perché ha scienziati, matematici, fisici e mineralogisti straordinari. Ha detto che non ha aiutato.
  – Per fare questo, bisogna avere il libero mercato, spiega l’uomo che, in quanto ministro delle finanze israeliano, ha guidato la nazione sulla strada del successo economico.
  La tecnologia senza il libero mercato non ti porterà da nessuna parte. Fa semplicemente migrare le persone verso paesi con mercati liberi. Il libero mercato e la tecnologia possono esplodere, ed è quello che vedi qui, ha detto al conduttore Shapiro.

• Difesa
  Ha continuato dicendo che la generazione di suo padre doveva garantire l’istituzione dello stato ebraico e che la sua generazione, e la sua responsabilità, era quella di assicurarne il futuro. Ha detto che l’unico modo per garantire il futuro della nazione era renderla forte.
  – Cosa significa forza? Ha chiesto retoricamente, poi ha ricordato come il popolo ebraico fosse stato lasciato ai suoi nemici assassini senza un esercito per quasi 2000 anni.
  – La prima cosa che devi fare è avere un esercito. La capacità di difendersi, che mancava al popolo ebraico, quando non aveva uno stato e veniva ucciso all’infinito. Bene, cosa ti serve un esercito? Hai bisogno di carri armati: ora sono stati sostituiti dai droni. Hai bisogno di un F-35, hai bisogno di sottomarini, hai bisogno di intelligence militare. È molto costoso. Tutte queste cose hanno una cosa in comune. È costoso. Allora come lo pagherai? chiede retoricamente.
  Netanyahu dice che il modo socialista è tassare le persone.
  – Questo è un errore. Questo è il motivo per cui l’unico modo per pagarlo è con un’economia forte. Le uniche economie che operano sono le economie di libero mercato. È stata una mia idea. L’idea, ha spiegato, era che con un’economia di libero mercato si potesse costruire un’intelligence militare e militare molto forte.
  – E poi crei sia tecnologia civile che tecnologia militare, e poi diventa qualcosa a cui la gente si preoccupa. Non andare a chiedere ai paesi di venire ad aiutarti: vengono da te in modo che tu possa aiutarli. Questo crea il terzo vertice del triangolo, il fiorente Israele diplomatico.
  La mia idea era quella di riformare l’economia, avere un esercito forte e avere una posizione diplomatica più forte che ti darà forza e pace, non debolezza.
  Bene, è più facile a dirsi che a farsi. Innanzitutto non è facile dirlo. Perché la gente non ci credeva. Fondamentalmente pensano che risolveremo il nostro problema se faremo la pace. E se dobbiamo fare la pace, dobbiamo fare concessioni. Il che ci rende deboli. In altre parole, credono che la pace dia forza.
  Credo che il potere produca pace, soprattutto nella nostra parte del mondo. Se non sei forte, scomparirai. consumerà. Quindi ho dovuto fare la rivoluzione del libero mercato qui. E questo è fondamentalmente quello che ho fatto, come primo ministro e come ministro delle finanze, ha spiegato.

• Tutti e due
   Nell’intervista Netanyahu ha parlato anche della sua disponibilità a tornare come candidato alle elezioni previste per l’autunno.
  Shapiro ha chiesto a Netanyahu la storia di Israele.
  – In quanto leader più longevo nella storia dello stato ebraico, cosa pensi che rappresenti lo stato ebraico? Perché c’è sempre stato questo dibattito sul fatto che lo stato ebraico di Theodor Herzl sia lo stato degli ebrei o sia uno stato ebraico? chiese Shapiro.
  Netanyahu ha risposto. La cosa più importante del popolo ebraico è che è un corpo collettivo, una nazione, se vuoi, ma è anche una religione. Avete religioni, con molti paesi, molti paesi, come il cattolicesimo, e ci sono molti paesi a maggioranza cattolica. Rispose: Hai molti paesi con molte religioni.
  Per il popolo ebraico, l’identità del popolo ebraico è intrecciata tra identità nazionale e religione. È davvero, per molti versi, inseparabile – lo separi in una certa misura – ma c’è un’interazione tra questi due fattori, bilanciandoli e preservandoli entrambi, ha detto.
  Per me è un miracolo continuo. Devo dirtelo, voglio dire, posso spiegarlo razionalmente. Vengo da una tradizione molto razionale. Mio padre era l’editore dell’Enciclopedia dell’ebraico. Ogni famiglia ce l’aveva, non tutte le famiglie, ma molte di loro. Quindi l’approccio razionale ne spiega molto, ha detto.
  – Ha fatto notare che questo non spiega tutto. Come ancora non credi, è difficile credere che le persone che hanno perso il loro paese siano state fatte girare per le nazioni, rese indifese… Furono massacrate, espulse, assassinate, maltrattate – e infine, durante l’Olocausto, il peggior crimine commesso nella storia umana – subito dopo riuscirono a governare chi raccolse la loro volontà collettiva e costruirono lo stato nella loro antica patria e divennero – secondo l’indagine annuale dell’Università della Pennsylvania, che hanno condotto tra 20.000 opinion leader nel mondo – l’ottavo posto e ha aggiunto che è il paese più potente del mondo.
  Siamo 1/10 dell’1% della popolazione mondiale. I paesi sopra di noi sono un miliardo di persone, centinaia di milioni di persone. E siamo nove milioni di persone, e siamo il numero otto al mondo, e questo non è solo — è più di una semplice vittoria razionale qui: è una vittoria per l’anima. Ti dirò di cosa si tratta. Ha aggiunto che è stata una vittoria per la fede.

• Iran
  Netanyahu sottolinea che ora esiste una nuova tecnologia in grado di destabilizzare l’Iran.
  – Con i satelliti a bassa quota e altri dispositivi in miniatura, puoi rompere la loro presa e il monopolio delle informazioni. Ho iniziato a sfidarli, dice l’ex primo ministro israeliano. Aggiunge anche che ci sono dispositivi delle dimensioni di una scatola di fiammiferi che possono aiutare a destabilizzare il regime iraniano.
  – Ha aggiunto che ci sono molte altre cose di cui posso parlare, ma non voglio.

• Afghanistan
  Netanyahu ha anche menzionato che nella conversazione, l’ex segretario di Stato americano John Kerry gli ha detto che Israele potrebbe ritirare le sue forze di sicurezza dalla Giudea e dalla Samaria perché “vogliamo addestrare le forze palestinesi locali per combattere gli estremisti islamici”.
  Netanyahu ha affermato che Kerry ha detto in un incontro che avrebbe potuto dimostrargli il proprio valore portandolo in visita segreta in Afghanistan per mostrare come gli Stati Uniti stiano addestrando le truppe lì per affrontare i talebani.
  “John, ti garantisco che, nel momento in cui te ne vai, non ci vorranno più di qualche giorno prima che i talebani schiacciano tutte le forze addestrate dagli Stati Uniti che hai, e non corriamo alcun rischio”, ha risposto Netanyahu.

(Travely, 17 agosto 2022)

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Il tasso di inflazione di Israele raggiunge il 5,2% con l’aumento dei prezzi della frutta

Più alto dal 2008

L’inflazione su base annua di Israele ha raggiunto il 5,2% a luglio, la più alta dall’ottobre 2008, secondo i dati diffusi dall’Ufficio centrale di statistica del paese.
Questo è il sesto mese consecutivo in cui l’indice dei prezzi al consumo a 12 mesi supera l’intervallo obiettivo del governo dell’1-3%, ha riferito l’agenzia di stampa Xinhua.
Il tasso di inflazione mensile israeliano a luglio è stato dell’1,1%, dopo lo 0,4% di giugno, principalmente a causa di un aumento dell’8,5% dei prezzi della frutta fresca e del 3,3% dei prezzi dei trasporti.
Gli analisti israeliani hanno stimato che il continuo aumento dell’inflazione porterà a un quarto aumento consecutivo del tasso di interesse di base di Israele da parte della Banca d’Israele il 22 agosto.
Durante gli ultimi tre rialzi, il tasso di interesse base è stato portato dallo 0,1 per cento all’attuale tasso dell’1,25 per cento.
Secondo l’Ufficio di presidenza, i prezzi delle case israeliane nel periodo maggio-giugno hanno registrato un aumento anno su anno del 17,8%, il più alto in oltre 12 anni.

(Barletta.web, 16 agosto 2022)

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A 50 anni dal massacro, Israele vince un oro agli Europei di atletica a Monaco

di Luca Spizzichino

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Una rivincita sulla Storia quella della delegazione israeliana agli Europei di atletica che si stanno tenendo a Monaco. A 50 anni dal massacro delle Olimpiadi di Monaco, dove 11 atleti israeliani furono assassinati dai terroristi palestinesi di Settembre Nero, Israele si è aggiudicata l’oro a squadre nella maratona.
  I podisti israeliani Marhu Teferi e Gashau Ayala, arrivati al secondo e al terzo posto, grazie al loro piazzamento nella maratona individuale, hanno permesso allo Stato Ebraico di raggiungere il gradino più alto del podio. Infatti, agli Europei sono state assegnate due medaglie per la stessa disciplina: una a livello individuale e un’altra a livello collettivo. Il posto finale delle squadre che hanno partecipato alla maratona è stato determinato dal risultato complessivo dei tre corridori più veloci di ogni team. Teferi è stato anche vicino a vincere la medaglia d'oro individuale, ma è stato superato dal maratoneta tedesco Richard Ringer a pochi metri dal traguardo.
  “Questo è davvero eccitante per me. Sono molto contento di questo risultato", ha detto Teferi ai giornalisti dopo la gara.
  Marhu Teferi, 29 anni, è tra i podisti migliori dello Stato Ebraico. Attualmente detiene i record israeliani sia nella maratona che nella mezza maratona. Nato in Etiopia, ha fatto Aliyah quando aveva 14 anni, insieme ai suoi genitori e a sei fratelli, mentre altri tre fratelli sono rimasti indietro.
  Quella di ieri è stata la sua seconda maratona in meno di un mese. Teferi ha gareggiato ai Mondiali di atletica a Eugene - negli Stati Uniti - in cui ha ottenuto l'11° posto, il piazzamento più alto mai raggiunto dai maratoneti israeliani. Normalmente i maratoneti non gareggiano in due gare in così poco tempo, tuttavia i capisquadra gli hanno chiesto di farlo e di rappresentare con orgoglio Israele nella lotta per la medaglia a Monaco, che alla fine è arrivata.
  Il podista arrivato al terzo posto, Gashau Ayala, è il più giovane della squadra israeliana. Solo tre mesi fa, ha battuto il record israeliano per i 10.000 metri piani, ed è stato il primo israeliano a completare questa distanza in meno di 28 minuti.
  “È stata fatta la storia ai campionati Europei di Atletica” ha affermato il ministro della Cultura e dello Sport israeliano Chili Tropper, che si è congratulato con gli atleti: “Un incredibile risultato, siamo orgogliosi di voi”.
  Il Comitato Olimpico israeliano ha espresso la propria commozione nel “vivere l’entusiasmante continuità degli sport israeliani sul suolo di Monaco” 50 anni dopo il massacro.

(Shalom, 16 agosto 2022)

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Scavi in corso per trovare una trincea segreta della Guerra dei Sei Giorni a Gerusalemme

di Michelle Zarfati

Dopo 55 anni, sono iniziati gli scavi su “Ammunition Hill” per cercare una trincea nascosta ormai da decenni. La trincea dovrebbe essere stata utilizzata l'ultima volta durante la Guerra dei Sei Giorni. Gli scavi sono iniziati dopo che dozzine di soldati dell'IDF hanno contattato il Centro di munizioni per il patrimonio della Guerra dei Sei Giorni chiedendo di individuare la trincea in cui l’IDF ha combattuto nel ’67, secondo il CEO Ketri Maoz. "Sempre più richieste sono arrivate da combattenti della Guerra dei Sei Giorni che hanno sottolineato la possibilità che ci sia un'ulteriore trincea che deve essere cercata e trovata" ha detto il CEO di Ammunition Hill Center, Ketri Maoz.
  Ammunition Hill è stata una delle battaglie chiave a Gerusalemme durante la guerra dei Sei Giorni del 1967. Trentasei soldati israeliani morirono proprio mentre catturavano la postazione militare giordana nel sito. La trincea in questione presumibilmente continua verso est ed è stata utilizzata dai soldati giordani per osservare il Monte Scopus. Negli ultimi decenni, la zona si è riempita di terra impedendo dunque ulteriori ricerche.
  "Ammunition Hill aveva tre trincee, una orientata verso ovest, un'altra che attraversava la collina per larghezza, e un'altra che guardava verso il monte Scopus a est", ha spiegato Maoz. Le altre due trincee sono state le uniche due visitabili fino ad ora. Negli ultimi anni, sono arrivate sempre più richieste dai combattenti della Guerra dei Sei Giorni che hanno insistito sull’esistenza di una trincea orientale da trovare. Il team di ricercatori ha utilizzato foto aeree per pianificare il progetto di scavo. Lavoreranno per i prossimi tre mesi nella speranza di trovare la trincea. Se, e quando, verrà riscoperta sarà messa a disposizione del pubblico per la visita. La speranza non è solo di trovare la trincea, ma anche di scoprire alcuni tesori nascosti all'interno di questa, che potrebbero fare ulteriore luce sulla Guerra dei Sei Giorni.

(Shalom, 16 agosto 2022)

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Animix, a Tel Aviv il festival del fumetto e dell’animazione

di Nathan Greppi

TEL-AVIV Una volta entrati, due sono i dettagli che saltano all’occhio: il primo è che la maggior parte dei visitatori erano bambini con i genitori che li accompagnavano, mentre i ragazzi e gli adulti senza figli erano una minoranza; il secondo è che tra gli stand spiccavano molto le autoproduzioni indipendenti. Queste, che di norma nelle fiere italiane hanno degli spazi appositi minori rispetto alle case editrici, in Israele al contrario hanno un ruolo chiave in un paese dove l’editoria del fumetto è ancora di dimensioni relativamente modeste.
  Queste sono le prime impressioni che restano nella mente visitando Animix, il festival israeliano dell’animazione, dei fumetti e delle vignette tenutosi al Cinematheque di Tel Aviv dal 9 al 13 agosto.
  Nel corso della fiera, giunta quest’anno alla 22° edizione, oltre a girare per i tavoli da esposizione dove si potevano acquistare fumetti, modellini e pupazzi ispirati ai personaggi Marvel, i partecipanti potevano farsi fare un ritratto in stile caricaturale. Inoltre, potevano assistere ai film d’animazione proiettati nelle sale cinematografiche, che includevano opere Disney, Marvel, anime giapponesi o cartoni europei per un pubblico adulto.
  Si sono potuti seguire incontri e dibattiti su vari temi: ad esempio su come avviene il passaggio dal fumetto a film e cartoni, come avviene nei manga e anime giapponesi o per l’universo Marvel. Mentre degli animatori professionisti spiegavano a chi fosse interessato a quella strada come cercare lavoro una volta finiti gli studi, e in quali settori possono lavorare.
  Una peculiarità di questa edizione è che, per la prima volta nella storia del festival, sono stati ospitati due artisti provenienti da paesi arabi che hanno firmato da poco accordi di pace con Israele: Saad Jalal, fumettista marocchino che ha pubblicato i propri lavori sui più importanti giornali del suo paese, e Mohammed Saeed Harib, animatore emiratino e creatore di FREEJ, una delle più popolari serie animate del mondo arabo.
  Altri ospiti dall’estero includevano l’autrice britannica Carol Isaacs, che nel suo romanzo a fumetti The Wolf of Baghdad racconta le vicende della sua famiglia ebraica costretta a lasciare l’Iraq a causa delle persecuzioni, e Nicolas Grivel, agente letterario francese molto attivo nel mercato del fumetto d’oltralpe. Quest’ultimo, illustrando i dati delle pubblicazioni di fumetti in Francia, ha fatto diversi esempi su come oggi è un mercato rivolto non più solo ai giovani come un tempo, ma a tutte le fasce d’età. Questo perché nel tempo ha saputo trattare anche tematiche sociali, politiche e storiche di un certo spessore: “Oggi si può parlare di tutto nei fumetti, ma devi sempre sapere bene di cosa stai parlando,” ha dichiarato.
  Pur non essendoci ospiti italiani, l’Italia si è comunque ritagliata uno spazio in seno all’offerta culturale del festival: tra i film d’animazione proiettati c’era La famosa invasione degli orsi in Sicilia, coproduzione italo-francese del 2019 diretta da Lorenzo Mattotti e tratta da un romanzo di Dino Buzzati. Inoltre, nel suo intervento Grivel ha citato tra i suoi classici di riferimento il personaggio di Corto Maltese creato da Hugo Pratt, oltre ad indicare tra i più importanti autori contemporanei gli italiani Igort e Zerocalcare

(Bet Magazine Mosaico, 16 agosto 2022)

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