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Notizie 16-31 agosto 2024


Il corridoio Filadelfia e gli ostaggi: la posta in gioco

di Niram Ferretti

A seguito dell’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, a cui è succeduta l’operazione militare israeliana a Gaza, due sono stati indicati da parte di Israele come gli obiettivi da conseguire: la distruzione dell’operatività militare di Hamas all’interno della Striscia e la liberazione dei civili e dei militari rapiti. Nel corso dei mesi, questi due obiettivi hanno iniziato ad alternarsi nella gerarchia delle priorità.

• L’OBIETTIVO PRINCIPALE. QUALE?
   Quando sussisteva ancora il gabinetto di guerra, di cui faceva parte anche Benny Gantz come membro dell’opposizione per rappresentare, al di là delle divergenze politiche con il governo in carica, l’unità nazionale a fronte della situazione di emergenza, fu quest’ultimo a dichiarare che l’obiettivo principale da raggiungere era la liberazione degli ostaggi. Recentemente è stato il turno di Daniel Hagari, portavoce dell’IDF, il quale ha ribadito il concetto durante una conferenza stampa, per poi correggersi subito dopo, a seguito dell’aspro rimbotto arrivatogli da un “alto funzionario del governo”, definizione di copertura per indicare Netanyahu, che gli ha fatto presente come gli ostaggi siano solo uno degli obiettivi da raggiungere, non il principale.
  Dopo mesi di inconcludenti negoziati tra Israele e Hamas per raggiungere un cessate il fuoco che consenta, nel corso del suo adempimento, la liberazione dell’ultimo centinaio di ostaggi prigionieri nella Striscia, si è giunti ieri a un alterco tra Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant nel corso di una riunione ristretta durante la quale Netanyahu ha ribadito con fermezza che la precondizione insindacabile di un eventuale accordo con Hamas è che l’IDF resti a presidio del corridoio Filadelfia ai confini con l’Egitto. Questa condizione è irricevibile per la formazione jihadista, essendo il corridoio il principale snodo per l’ingresso di armi e il passaggio di uomini, e, sulla cui piena funzionalità, l’Egitto è, con ogni evidenza, connivente.  Da qui la causa dell’alterco con Gallant, che, alla pari delle famiglie degli ostaggi più vocianti in piazza contro Netanyahu, lo ha accusato di volere la loro morte.

• DIVERGENZE STRUTTURALI
   Lo scontro tra i due, la cui convivenza, fin da prima dello scoppio della guerra non è stata agevole, basti ricordare l’annuncio fatto da Gallant l’inverno scorso, mentre Netanyahu era in visita a Londra, che la riforma della giustizia allora in corso metteva a repentaglio la sicurezza di Israele, è solo l’ultimo episodio di uno attrito ben più ampio.
  Da una parte ci sono coloro che ritengono che essendo la completa sconfitta di Hamas un obiettivo irrealistico, sia necessario spostare la priorità della guerra dalla disarticolazione della formazione jihadista alla liberazione degli ostaggi. È questa la posizione esplicita della Casa Bianca, espressa a chiare lettere da Joe Biden a maggio, quando affermò che essendo riuscito a depotenziare fortemente Hamas e non rischiando più un nuovo 7 ottobre, Israele poteva accontentarsi e che ora era necessario raggiungere il cessate il fuoco. È la posizione condivisa da una parte dell’apparato militare e dei Servizi, ed è la posizione dell’opposizione guidata da Benny Gantz. Si tratta, di fatto, di un gruppo cospicuo, spalleggiato dagli Stati Uniti, il quale ha anteposto al concetto di vittoria quello di una sconfitta mitigata dal successo dal recupero degli ostaggi rimanenti. Ma non esistono in guerra sconfitte mitigate, permettere a una residualità di Hamas di permanere nella Striscia anche se gli ostaggi fossero tutti liberati equivarrebbe a una sconfitta.
  Dall’altra parte ci sono coloro i quali ritengono che l’obiettivo primario sia la sicurezza di Israele e la messa in ginocchio definitiva di Hamas. È la ragione per la quale Netanyahu ha voluto mettere ai voti dopo la riunione di ieri, la decisione di non derogare dalla presenza dell’IDF lungo l’asse del corridoio Filadelfia.
  Hamas può essere definitivamente sconfitto nella Striscia, ma, per potere conseguire questo risultato, è evidente che la presenza israeliana al suo interno e lungo i suoi confini dovrà essere protratta, e questo significa non una manciata di mesi, ma di anni, esattamente quello che non vuole accada l’Amministrazione Biden e una eventuale Amministrazione Harris che, qualora entrasse in carica, in Medio Oriente proseguirebbe esattamente la medesima politica dell’amministrazione attuale, lesiva per la sicurezza e gli interessi dello Stato ebraico.

(L'informale, 31 agosto 2024)

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Violenza dei coloni? Un pioniere prende posizione

Già prima della guerra, la violenza dei coloni israeliani attirava sempre più l'attenzione dei media internazionali. Con lo scoppio della guerra, la situazione è peggiorata. Che cosa ha da dire un colono stesso su questa delicata questione?

di Merle Hofer e Sandro Serafin

FOTO
Benny Katzover a Elon Moreh, Samaria

Benny Katzover siede nell'insediamento di Elon Moreh in uno scenario mozzafiato: Alle sue spalle si estende il panorama biblico delle montagne Garisim ed Ebal; nella valle tra di esse si trova la città palestinese di Nablus, la biblica Shechem (Sichem). Katzover, magro e in camicia blu, ne parla con entusiasmo: È qui che si stabilì il popolo ebraico, dice, quando entrò nella terra con Giosuè. È storicamente e geograficamente il cuore di “Eretz Israel”.
  Ma in questo momento Katzover sta mescolando il suo caffè, inclinando la testa da un lato e con un sorriso leggermente sofferto sul volto. Stiamo parlando di un argomento spiacevole: la “violenza dei coloni”. Per molti, il termine stesso è irritante perché associa i coloni in quanto tali alla violenza - coloni, come Katzover. Il 77enne si è fatto un nome come pioniere fin dall'inizio, è stato uno dei primi coloni a Hebron e successivamente ha guidato il movimento in Samaria, la Cisgiordania settentrionale.

• Qui, l'86% ha votato per Ben-Gvir
   “Quel radicale?”, chiede una donna israeliana quando a Gerusalemme le raccontiamo chi abbiamo incontrato. Non solo Katzover è considerato un radicale da molti, ma l'intero villaggio di Elon Moreh: alle elezioni della Knesset del novembre 2022, circa l'86% ha votato per il Sionismo religioso - l'alleanza dell'attuale ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir e del ministro delle Finanze Bezalel Smotritsch, che sono molto controversi in Israele e a livello internazionale.
  Per molti si tratta di un'equazione semplice: Ben-Gvir uguale radicale e radicale uguale violenza. Katzover si presenta come tutt'altro che radicale. Si percepisce il suo amore per il Paese e la sua storia. La sua narrazione è calma, concreta. E dopo un breve sospiro appena accennato, commenta a lungo il tema della “violenza dei coloni”.

• “Danneggiano la reputazione dello Stato”
   Katzover non nega il fenomeno. E non c'è dubbio che egli rifiuti la violenza: “Ci danneggiano e fanno cose che non sono giuste. Danneggiano sia il progetto di insediamento sia la reputazione dello Stato”, afferma Katzover, che ha presieduto il Consiglio regionale della Samaria negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Allo stesso tempo, Katzover sottolinea che si tratta di una piccola minoranza.
  Spiega il fatto che l'attenzione internazionale sulla questione sia aumentata enormemente dicendo che il mondo sta - “ancora una volta” - trattando Israele con i tipici due pesi e due misure. Ma le cose stanno proprio come si dicono? Il problema non è forse diventato più grande? L'organizzazione israeliana di sinistra “Yesh Din” ha affermato all'inizio dell'anno scorso che il 2023 sarebbe diventato l'anno con il maggior numero di violenze da parte dei coloni da quando ha iniziato a occuparsi del problema nel 2006.
  Come spesso accade in questo conflitto, una categorizzazione esatta e oggettiva è difficile. D’altra parte, bisogna dire che un ufficiale di polizia nazional-religioso, anch'egli colono e di stanza a Hebron, afferma di avere sempre più a che fare con israeliani violenti in Cisgiordania. Le immagini di coloni che incendiano proprietà palestinesi, ad esempio, non possono essere negate e sono oggetto di un acceso dibattito sulla stampa israeliana.

• Problemi giovanili
   La spiegazione comune che la stampa tedesca dà a questo fenomeno è che il governo israeliano di destra, in carica dal dicembre 2022, ha concesso ai coloni una sorta di lasciapassare. Il fatto che il ministro della Sicurezza sia Itamar Ben-Gvir, che comunque proviene dalla scuola di pensiero della destra radicale kahanista, dà agli autori delle violenze la sensazione di avere il coltello dalla parte del manico e di poter fare quello che vogliono.
  E’ raro però ascoltare una prospettiva interna come quella di Katzover. Quando gli viene chiesto di parlare degli autori di violenza della cosiddetta gioventù delle colline - giovani israeliani che hanno fatto della conquista delle colline della Cisgiordania la loro missione per gli insediamenti israeliani - dice: “È un tipo di gioventù che esiste in tutto il mondo. Vanno male a scuola, non vogliono assumersi responsabilità, non riconoscono i loro insegnanti, nessuno indica loro una strada”.
  Non sarebbero quindi diversi dai giovani tedeschi che, in condizioni di vita disordinate, scivolano verso l'estremismo di sinistra, l'estremismo di destra o l'islamismo e alla fine cercano il senso della loro vita nella violenza: “Alcuni di loro poi trovano il loro scopo all'esterno lavorando con pecore e capre, e a volte sotto forma di violenza”, spiega Katzover, riferendosi ai coloni violenti della gioventù delle colline, alcuni dei quali egli stesso conosce. Per loro le forze di sicurezza israeliane, esercito e polizia, diventano spesso un nemico.

• Ingiustizia nei confronti dei coloni?
   Katzover condanna il loro comportamento. Eppure mostra un po' di comprensione. I giovani delle colline vedono molte ingiustizie, dice: “Quando gli arabi si appropriano di terre in Cisgiordania, nessuno fa nulla. In effetti, le costruzioni arabe illegali nella Zona C, cioè le parti della Cisgiordania che sono completamente sotto il controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo, sono un problema importante tra gli israeliani nazional-religiosi: l'organizzazione israeliana di destra Regavim ha registrato 81.317 edifici arabi illegali e 4.382 edifici ebraici illegali nel 2022.
  “Forse il governo interviene contro 100 o 200 edifici arabi”, afferma Katzover. “Ma quando i giovani delle colline salgono sulle colline, contro di loro arriva l'intero esercito a causa delle pressioni internazionali: vengono picchiati, trascinati via, i loro edifici distrutti”. Questa ingiustizia contribuisce alla radicalizzazione, soprattutto tra i giovani: “Non si fanno pensieri complessi”, dice Katzover: “Cresce invece in loro un sentimento: non c'è giustizia, non possiamo contare sul nostro governo, sul nostro esercito o sulla polizia - quindi prendiamo la situazione nelle nostre mani!”.

• “La gioia è l'arma più forte”
   Sta facendo qualcosa Katzover contro tutto questo? Quando questi giovani vengono alle sue visite guidate sul Monte Kabir, vicino a Elon Moreh, cerca di spiegare loro: “Quando lanciate delle pietre, sono solo le pietre ad essere riportate, non quello che state facendo”. Katzover è convinto che ai giovani delle colline non si debba rispondere con la violenza, ma con l'educazione e l'amore. In questo modo si vedono anche risultati evidenti: “Il 70-80% finisce per arruolarsi nell'esercito, cosa che inizialmente era considerata da loro molto negativa”.
  Katzover torna ai ricordi del suo tempo, la “battaglia per la Samaria”, come la chiama lui stesso: “Abbiamo combattuto l'intera battaglia quasi esclusivamente senza alzare le mani contro gli altri o causare danni”. Anche il rabbino Zvi Yehuda Kook, il grande leader del movimento dei coloni “Gush Emunim”, esigeva questo, dice Katzover: “Cosa facevamo invece? Cantavamo. Cantare significa gioia. E la gioia è un'arma molto più forte di qualsiasi altra arma”.

(Israelnetz, 31 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Gli ebrei diffondono il male nel mondo”: i post antisemiti dei diplomatici palestinesi

di Luca Spizzichino

Un’inchiesta condotta dal gruppo investigativo Gnasher Jew ha rivelato che numerosi diplomatici palestinesi, tra cui ambasciatori e funzionari di alto livello, hanno fatto dichiarazioni antisemite sui social network. La ricerca ha portato alla luce post che celebrano le azioni terroristiche di Hamas, paragonano Israele alla Germania nazista e chiedono l’eliminazione dello Stato di Israele. Il rapporto, pubblicato dal Jewish Chronicle, ha analizzato centinaia di post provenienti da oltre 30 profili di diplomatici e account ufficiali delle ambasciate, sollevando serie preoccupazioni sulla legittimità dei rappresentanti dell’Autorità Palestinese sulla scena internazionale.
  Il 7 ottobre, Hassan Albalawi, vice capo della missione palestinese presso l’Unione Europea, ha celebrato i terroristi di Hamas definendoli “eroici”, mentre Adel Atieh, ambasciatore palestinese presso l’UE, ha descritto i terroristi come “il popolo dei potenti”. Khuloussi Bsaiso, diplomatico palestinese alle Nazioni Unite, ha condiviso una mappa del Medio Oriente senza Israele, commentando: “La Palestina come dovrebbe essere”.
  Questi esempi di retorica estremista si ripetono in diverse parti del mondo. Rana Abuayyash, console presso la missione palestinese a Londra, ha condiviso un post in cui la bandiera israeliana si trasforma in Hitler, oltre a un video in cui Netanyahu viene ritratto sotto la figura del dittatore nazista. In Francia, Hala Abou-Hassira, ambasciatrice palestinese a Parigi, ha tentato di giustificare gli attacchi di Hamas, mentre la diplomatica Nadine Abualheija ha definito Hamas “membri della resistenza palestinese” che hanno “colpito soldati israeliani illegali”.
  In Africa, il console palestinese in Costa d’Avorio ha condiviso un’immagine di un paracadutista con il messaggio “qui per la vittoria”, mentre Thaer Abubaker, ambasciatore in Guinea e Sierra Leone, ha descritto il 7 ottobre come un giorno “eroico” e ha accusato gli ebrei di “diffondere il male nel mondo”. In un post di novembre, Abubaker ha paragonato le immagini di corpi della Shoah a quelle provenienti da Gaza, scrivendo: “Per 75 anni hanno fatto ciò che sostenevano che Hitler avesse fatto”.
  Dennis Ross, ex consigliere per il Medio Oriente di diverse amministrazioni statunitensi, ha dichiarato: “L’Autorità Palestinese non può affermare di essere per la pace e poi sostenere ciò che Hamas ha fatto. Se si vuole una soluzione a due stati, questi tweet sollevano dubbi su che tipo di stato si stia cercando di creare.”
  Hillel Neuer, direttore esecutivo di UN Watch, ha accusato i diplomatici di “ipocrisia e doppiezza”, sostenendo che “nonostante la pretesa di conformità ai principi di pace, diritti umani e diritto internazionale dell’UE, in realtà questi funzionari difendono apertamente e promuovono le atrocità di Hamas”. Neuer ha aggiunto che i diplomatici dovrebbero essere trattati come “collaboratori di Hamas”.
  Caroline Turner, direttrice di UK Lawyers for Israel, ha definito i risultati dell’inchiesta “allarmanti” e ha espresso la speranza che “ora che tutto ciò è venuto alla luce, i paesi ospitanti reagiranno e richiederanno ai diplomatici di lasciare il loro territorio”.
  L’inchiesta di Gnasher Jew, che ha evidenziato un allineamento con la retorica di Hamas, solleva interrogativi sul ruolo futuro dell’Autorità Palestinese nella governance di Gaza e nella costruzione di una soluzione a due stati.

(Shalom, 30 agosto 2024)

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IDF: i medici delle forze speciali il 7 ottobre

I medici dell’IDF delle unità d’élite raccontano le vite che hanno salvato e quelle che non hanno potuto salvare.

Il Cap. G. di Egoz è stato tra i primi a entrare a Kissufim, salvando la vita del comandante; il Cap. Y. dei Duvdevan, ha trovato il suo migliore amico tra i feriti che ha curato sotto il fuoco a Kfar Aza; il Cap. D. di Maglan ha prestato soccorso medico a Nahal Oz e ha aiutato ad eliminare i terroristi;
L’Unità Egoz è stata tra le prime a essere dispiegata nel sud di Israele il 7 ottobre. “Quel giorno avrei dovuto volare in missione negli Stati Uniti”, racconta il capitano Dr. G., medico dell’unità, che è stato uno dei primi ad arrivare all’avamposto di Kissufim insieme al comandante dell’unità. “Quando ho sentito i primi allarmi sull’infiltrazione di terroristi, ho raccolto rapidamente il mio equipaggiamento e mi sono diretto a sud”.
Durante il primo giorno di guerra, il capitano Dr. G. ha curato 37 feriti, sia civili che soldati, sotto il fuoco, salvando loro la vita. Uno dei momenti più significativi per lui fu quando sentì la radiocronaca del grave ferimento del comandante dell’unità, il ten. col. M.
“Lo abbiamo evacuato con un veicolo blindato e quando l’ho visitato per valutare le sue condizioni, ho pensato che fosse morto”, ricorda. “La sua ferita era estremamente grave e abbiamo deciso di iniziare l’intervento sul campo. Sono riuscito a stabilizzarlo ed è stato trasportato da un elicottero 669 al Soroka Medical Center. È stata una delle ferite più critiche che abbia mai trattato”.
Il dott. G. ha già trattato vittime sotto il fuoco, ma “non mi sono mai imbattuto in un’intensità e in un numero tale”, dice. “Si opera con il pilota automatico. I razzi cadevano a soli 50 metri da noi e non c’era tempo per pensare a se stessi o per elaborare ciò che stava accadendo. L’obiettivo è fare il più possibile nel minor tempo possibile, per salvare quante più vite possibile”.
Il capitano Dr. Y., medico dell’Unità Duvdevan, si stava recando a Kfar Aza quando si è imbattuto nelle scene terribili e ha capito che si trattava di un “evento senza precedenti, a cui non eravamo preparati”. La prima persona che il dottor Y. ha curato è stato un agente di polizia gravemente ferito, segnando l’inizio di due giorni di evacuazione dei feriti sotto il fuoco, stabilizzazione e trasporto in ospedale.
“Ci sono stati molti salvataggi complessi”, ricorda. “Abbiamo salvato un membro della squadra di pronto intervento da un tetto attraverso una soffitta e un riservista ferito che giaceva sull’erba in una kill zone, circondato da veicoli blindati. Le decisioni venivano prese con risorse limitate e dovevamo considerare il quadro più ampio, sapendo che l’uso di attrezzature per un ferito poteva impedire le cure per un altro”.
Uno dei momenti che rimarranno impressi nella memoria del dottor Y. è stato il trattamento del suo migliore amico dell’unità, che è stato gravemente ferito ed è poi morto per le ferite riportate. “È stato incredibilmente difficile”, racconta. “Ci siamo sempre addestrati per eventi di massa, ma la mente umana non riusciva a concepire qualcosa di così devastante come quello che è successo. Ma una cosa che mi aiuta ad affrontare la situazione è sapere che abbiamo davvero salvato delle vite, e che ci sono stati momenti di luce molto significativi durante i combattimenti”. Dopo sette anni di studi e altri anni di addestramento, abbiamo sempre parlato di salvare vite sul campo di battaglia, e all’improvviso è stato reale”.
Dopo i primi giorni di combattimenti, il dottor Y. e altri medici militari si sono allenati con professionisti medici di alto livello in Israele. “Posso dire con certezza che ora siamo più preparati di prima. Proteggere i soldati e i civili è l’essenza del lavoro”, dice. “Ogni soldato sul campo deve sapere che dietro di lui c’è un medico che si prenderà cura di lui in caso di necessità, e io cerco di dare loro quella spinta in avanti: qualunque cosa accada, vinceremo”.
Il capitano Dr. D., medico dell’Unità Maglan, è stato inviato la mattina del 7 ottobre nel settore di Nahal Oz, dove è rimasto con l’unità per tre giorni, curando i feriti e aiutando a liberare l’area dai terroristi.
“Al mattino stavo effettuando i richiami della riserva quando ho iniziato a ricevere chiamate dai soldati sul campo per i feriti”, ricorda. “Ho passato le chiamate a un’altra squadra e sono uscito. Ogni volta che incontravamo un ferito, ci fermavamo e lo curavamo. Quando siamo arrivati a Nahal Oz, la missione era di riprenderla. La sfida principale è stata l’evacuazione dei feriti”.
Dopo aver liberato il kibbutz, le forze armate hanno iniziato ad andare di casa in casa per evacuare i residenti e portarli ai punti di raccolta. “Erano terrorizzati dopo quello che avevano passato, ma vedere i soldati ha dato loro forza. Insieme a un’unità di ricognizione di Givati, abbiamo fatto tutto il possibile per calmarli ed essere presenti”, racconta il dottor D..
Ciò che risalta maggiormente nei suoi ricordi è lo spirito di unità e di determinazione. “Mentre mi recavo all’unità, sono andato a prendere il mio vice, che mi ha riferito che la presenza dei riservisti era al 100% e che anche coloro che non erano stati chiamati cercavano di arrivare il più velocemente possibile per aiutare. C’erano paramedici e medici con più di 50 anni, e anche quelli che si trovavano all’estero e che sono stati immediatamente avvisati del loro arrivo. È stato molto toccante e ha dimostrato la nostra forza. Oltre a questo, ho un profondo amore personale per le città di confine di Gaza. È la zona più bella di Israele, e vederla dopo gli orrori, bruciata e martoriata, è straziante”.

(Israele 360, 28 agosto 2024)

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Idf, 'ucciso il capo di Hamas a Jenin, in Cisogiordania'

Le forze israeliane hanno ucciso nelle ultime ore il capo di Hamas a Jenin (Cisgiordania), Wassem Hazem, e altri due terroristi che si trovavano con lui: lo hanno reso noto in un comunicato congiunto l'esercito (Idf) , l'agenzia di sicurezza e la polizia del Paese.
L'operazione è avvenuta nell'area della Samaria settentrionale.
"Hazem era coinvolto nell'esecuzione e nella direzione di attentati con armi da fuoco e bombe, e sviluppava continuamente le attività terroristiche nell'area della Giudea e della Samaria", si legge nella nota.

(ANSA, 30 agosto 2024)

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L’operazione antiterrorismo delle forze israeliane in Samaria

di Ugo Volli

• “CAMPI ESTIVI”
   Da due giorni è iniziata una grossa operazione delle forze armate di Israele in Giudea e Samaria, incentrata finora sul nord di quest’ultima regione, in particolare su Tulkarem, una città di 65 mila abitanti vicinissima alla linea armistiziale del 1949, nella zona in cui essa è più vicina al mare, a meno di 20 chilometri da Netanya. L’operazione è una parte della guerra in corso, ma è abbastanza importante da meritare un nome proprio, “campi estivi”. Per capirne la ragioni bisogna considerare la situazione del conflitto.

• SETTE FRONTI
   Si parla spesso di una guerra fra Israele e Hamas o di una “guerra di Gaza”, ma ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che la strage a tradimento compiuta il 7 ottobre dell’anno scorso dai terroristi di Hamas e della Jihad Islamica, seguita dalle devastazioni e dagli eccidi compiuti anche dai “civili innocenti” usciti dalla striscia di Gaza, è stata solo il primo colpo di una guerra voluta dall’Iran con l’obiettivo della distruzione dello stato ebraico. Questa guerra, oltre ai fronti politico, diplomatico, legale e propagandistico, assale Israele da sette linee di attacco: Gaza innanzitutto, dal sud; i missili di Hezbollah. dal nord; i bombardamenti degli Houti dallo Yemen, dal sud-est; quelli che vengono dalla Siria al nord-est e dall’Iraq a Est, il terrorismo interno degli arabi israeliani, che per fortuna questa volta è stato molto raro; quello che viene dai sudditi dell’Autorità Palestinese in Giudea e Samaria.

• I PERICOLI DAL TERRITORIO DELL’AUTORITÀ PALESTINESE
   Quest’ultimo fronte è per certi versi il più pericoloso, perché è il più vicino e il più permeabile. La barriera di separazione fra Israele e territori amministrati dall’Autorità Palestinese, molto tortuosa, è lunga circa 730 chilometri, spesso è solo un recinto elettronico; essa è in parte incompleta e viene spesso superata clandestinamente da lavoratori illegali e talvolta da terroristi. Le distanze sono tali che lo sparo di razzi anche non avanzati dalle alture della Samaria sulle città del centro di Israele, a partire da Tel Aviv, o sull’aeroporto Ben Gurion, oppure dalle parti di Ramallah a Gerusalemme, concederebbe ai bersagli solo pochissimi secondo di preavviso per mettersi al riparo. Le città arabe sono per lo più labirinti tortuosi difficili da penetrare. L’Autorità Palestinese, che dovrebbe avervi la sovranità, ha da sempre rinunciato al monopolio dell’uso delle armi che sono una caratteristica degli stati moderni, accettando la presenza di gruppi terroristici e in generale appoggia con la scuola, i mezzi di comunicazione, ma anche con la complicità pratica di tutte le sue istituzioni, il terrorismo. Spesso si scopre che i quadri terroristi sono suoi funzionari e in particolare membri delle sue polizie. Il rischio di un nuovo 7 ottobre a partire da queste località è molto alto. Un rischio concreto che i soliti appelli “pacifisti” a partire da quello del segretario dell’Onu Guterres al solito ignorano.

• GLI INTERVENTI ESTERNI
   Insomma le zone della Giudea e Samaria controllate dall’Autorità Palestinese sono focolai di terrorismo. Israele è dovuto intervenire molte volte per bloccare il pericolo, con operazioni anche molto massicce, come durante la cosiddetta “seconda Intifada” del 2000-2002, quando di qui arrivavano a decine nelle città israeliane gli attentatori suicidi. Solo grazie a questi interventi queste zone non si sono trasformate in qualcosa di equivalente a Gaza, ma molto più grave per le dimensioni e le ragioni appena esposte. Hamas investe pesantemente sulla popolazione araba dell’Autorità Palestinese e i sondaggi rivelano che vi gode di una popolarità altissima. Anche la Turchia vi si è messa da tempo al lavoro per promuovere una piattaforma islamista, ma soprattutto l’Iran ha iniziato a importarvi armi avanzate e terroristi addestrati. Di conseguenza i militari dell’esercito e delle forze di confine, guidate da servizi di informazione che in questo caso funzionano molto bene, non hanno mai smesso di intervenire quando giungeva notizia dello sviluppo di bande terroristiche pronte ad agire localmente e nel territorio israeliano vero e proprio.

• L’OPERAZIONE ATTUALE
   Negli undici mesi trascorsi dal 7 ottobre vi sono state decine di interventi locali, soprattutto a Jenin (altra località del nord della Samaria, investita anche in questi giorni), con l’uso di forze travestite, ma anche di schieramenti corazzati e di appoggi aerei, che hanno eliminato alcune centinaia di terroristi, scoprendo depositi e fabbriche di armi ed esplosivi spesso nei sotterranei di moschee, scuole e ospedali. L’operazione in corso fa parte di questa serie, investendo una località, Tulkarem, che finora non era emersa alla cronaca, ma che di recente è stata all’origine di numerosi attentati, fra cui quello ultimamente fallito a Tel Aviv. Finora è stata eliminata una dozzina di terroristi legati a Hamas, una decina è stata arrestata. Tra gli eliminati c’è anche Muhammad Jaber, detto “Abu Shujaa”, pericolosissimo capo della rete nel “campo profughi” del sobborgo di Tulkarem di Nur Shams, coinvolto in numerosi attacchi terroristici. L’operazione continua.

(Shalom, 30 agosto 2024)
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Da qui si dovrebbe capire quanto è stupido lo slogan: "Due stati che vivono l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza". Ma la stupidità antiebraica (quando non è peggio) è contagiosa. M.C.

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L’odio antisraeliano nei campus americani: come il boicottaggio a Israele è diventato ‘normale’

di Nathan Greppi

Nel 2006, quando il BDS e gli appelli al boicottaggio d’Israele erano ancora molto meno diffusi rispetto ad oggi, i vertici dell’AAUP (American Association of University Professors) pubblicarono una dichiarazione in cui si opponevano pubblicamente ai boicottaggi universitari, ritenendoli in contrasto con la libertà accademica. Il 9 agosto 2024, poco meno di un ventennio dopo, la stessa AAUP ha adottato una nuova dichiarazione, in cui si afferma che i boicottaggi non costituirebbero una violazione della libertà accademica come avevano sostenuto fino a quel momento.
  Questo è solo uno dei tanti effetti della crescente ostilità verso Israele nel mondo accademico statunitense, che in diversi casi ha alimentato un clima d’odio nei confronti degli studenti ebrei in quanto tali. Tanto che in certi atenei, come ad esempio la Columbia, le iscrizioni degli studenti ebrei sono crollate nei mesi successivi al 7 ottobre, a causa di un contesto percepito come troppo ostile.
  Chi da anni è testimone diretto di questo clima d’odio, e ne ha costantemente seguito l’evoluzione, è Cary Nelson, docente emerito di inglese presso l’Università dell’Illinois e già presidente dell’AAUP dal 2006 al 2012. Studioso della poesia americana moderna, è autore e curatore di diversi saggi sull’antisionismo universitario, tra cui The Case Against Academic Boycotts of Israel (2014), Israel Denial (2019) e Hate Speech and Academic Freedom (2024).

- Lei è stato presidente dell’American Association of University Professors.
   Sì, e sono stato anche un membro del loro “Comitato A”, quello che ne stabilisce le politiche, fino al 2015. Nel complesso, ho trascorso 23 anni nella direzione dell’AAUP, alla quale sono tuttora iscritto.

- Come è cambiato, nel corso degli anni, il loro approccio nei confronti dei boicottaggi?
   L’AAUP è nata nel 1915. In oltre un secolo di storia, erano sempre rimasti fedeli all’idea che una volta adottata una certa politica, non si faceva marcia indietro; si poteva modificarla o migliorarla, ma non si metteva in atto un capovolgimento totale della propria posizione. Che io sappia, la retromarcia fatta sulla loro precedente posizione in merito al boicottaggio costituisce il primo caso di questo genere dal 1915 ad oggi; proprio per questo, non mi sarei mai aspettato questa loro ultima decisione.
  Tra l’altro, vi è un fatto curioso: quando l’AAUP formula la prima bozza di una dichiarazione, sceglie due o tre persone che la scrivono per poi discuterne con la direzione per eventuali modifiche. Tra coloro che scrissero la prima bozza della dichiarazione contro i boicottaggi del 2006, vi era Joan Scott, una docente di Princeton. Sebbene in un primo momento fosse fortemente schierata contro qualunque boicottaggio, nel giro di un anno e mezzo cambiò idea, e si schierò a favore dei boicottaggi cercando di spingere l’associazione a cambiare direzione. Per molto tempo non ci è riuscita, ma ora invece sì.

- In precedenza, c’erano già stati altri episodi controversi legati all’AAUP?
   Seguendone l’evoluzione, direi che soprattutto a partire dal 2015 l’associazione ha sempre più preso una deriva antisionista, che prima non c’era. Questa deriva è testimoniata da vari episodi; nel 2020, conferirono un premio a Rabab Abdulhadi, docente di origini palestinesi che insegna alla San Francisco State University. Tutte le attività della Abdulhadi sono funzionali al suo impegno politico, per cui organizza eventi antisionisti e cerca di fare assumere nella sua facoltà accademici con le sue stesse idee. Pertanto, conferirle un premio significa premiare il suo attivismo antisionista.
  Un altro episodio risale al 2022, quando l’AAUP cercò di formulare una nuova definizione di antisemitismo, alternativa a quella dell’IHRA; lo fecero in maniera stupida e irresponsabile, senza avere nel comitato competente nemmeno uno studioso esperto di antisemitismo.

- Quali potrebbero essere gli effetti a lungo termine del loro cambio di direzione?
    Nei prossimi anni si moltiplicheranno le risoluzioni per boicottare le università israeliane. La loro precedente posizione era fondata sul principio secondo il quale la comunicazione aperta al di là dei confini nazionali è fondamentale per la libertà accademica. Ora questo principio è minacciato, perché molte persone cercheranno di boicottare gli atenei israeliani, almeno per un po’. Non credo che vedremo iniziative analoghe contro le università russe o cinesi, ma solo contro quelle israeliane.

- Nel dicembre 2023, ha fatto scalpore la testimonianza alla Camera delle presidi di Harvard, MIT e dell’Università della Pennsylvania, in cui alla domanda se invocare il genocidio degli ebrei nel campus violasse i loro codici di condotta, hanno risposto che “dipende dal contesto”. Cosa ha pensato, vedendo quella scena?
    Sembrava che avessero tutte consultato lo stesso avvocato e, a giudicare dal risultato, direi che non era uno bravo. Non so se lei conosce l’espressione in inglese “soft ball question”.

- No, mi spiace. Che cosa significa?
   Nel baseball, esiste la “hard ball”, la palla più dura che usano i giocatori professionisti della Major League, e poi c’è la “soft ball”, più morbida e utilizzata dai dilettanti. Per “soft ball question”, si intende una domanda facile. E in questo caso, quando uno ti chiede se invocare il genocidio degli ebrei viola il tuo codice di condotta, come ha fatto con le tre presidi la deputata repubblicana Elise Stefanik, si sarebbe dovuto semplicemente dire “sì, assolutamente”. Eppure, di fronte ad una domanda tanto semplice, non sono riuscite a dare una risposta intelligente. Hanno dato l’impressione di essere persone senza fibra morale. È stato imbarazzante, non solo per loro, ma più in generale per l’istruzione superiore, che sembra aver smarrito la propria strada.

- Per le sue posizioni, lei è mai stato preso di mira dagli attivisti del BDS nella sua università?
   Ricevo spesso mail piene di insulti, e alle riunioni può capitare che qualcuno si metta a dire cose spiacevoli su di me o mi dica che non dovrei poter insegnare se ho posizioni filoisraeliane; poi, c’è da dire che io sono attivo nel movimento contro il boicottaggio e per la difesa d’Israele sin dal 2006, per cui ormai ci sono abituato.
  Ci sarebbe da fare una distinzione tra prima e dopo il 7 ottobre; dopo quella data, molti accademici ai quali non era mai successo nulla prima hanno iniziato ad essere presi di mira. Personalmente non ho mai subito atti di violenza fisica per fortuna, ma ad alcuni miei colleghi invece è successo.

- In un suo articolo apparso nel novembre 2023 sulla rivista “Fathom Journal”, riportava il caso di Lara Sheehi, già docente di psicologia alla George Washington University che ha giustificato l’operato di Hamas in nome della “liberazione”…
   A gennaio, dopo le polemiche per le sue parole, la Sheehi ha annunciato di essersi dimessa dal suo incarico alla George Washington University e di averne accettato uno nuovo a Doha, in Qatar. Tuttavia, quello che molti non sanno è che già nel 2023 la Sheehi non era alla George Washington, perché si era presa un anno sabbatico. Provi a indovinare dove lo ha trascorso.

- A Doha?
   Esattamente. In quel periodo ha viaggiato tra il Qatar e gli Stati Uniti per partecipare a vari eventi, ma credo che abitasse principalmente a Doha. Pertanto, il suo nuovo incarico è il frutto di mesi trascorsi laggiù a intessere relazioni. Già nel 2021, lei aveva dichiarato pubblicamente di sostenere Hamas; e pur non potendo provare nulla, dubito che la sua scelta di stabilirsi in Qatar sia stata casuale.

- A parte il caso specifico della Sheehi, quanto è diffuso il giustificazionismo del 7 ottobre nel mondo accademico americano?
   Se guardiamo più in generale all’Occidente, mi sembra che i docenti universitari che hanno dichiarato pubblicamente di sostenere Hamas e di approvare ciò che ha fatto il 7 ottobre si trovano principalmente nei paesi anglofoni. È negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito che molti accademici hanno affermato testualmente che il 7 ottobre era “bellissimo”, “una liberazione”, “la cosa migliore avvenuta nel mondo da che ho memoria”. Forse c’entra il fatto che in Europa i discorsi d’odio vengono maggiormente puniti.
  Se gli accademici che hanno sostenuto il terrorismo sono stati subito criticati, certi gruppi studenteschi si sono schierati in pochi giorni dalla parte di Hamas. Uno dei più estremi è SJP (Students for Justice in Palestine), al quale si è recentemente allineato un nuovo gruppo, FJP (Faculty for Justice in Palestine). Tuttavia, questo secondo gruppo nasconde i nomi dei suoi affiliati, e hanno dichiarato il loro sostegno a SJP mantenendo l’anonimato.

- Già nel 2018, lei ha raccontato a “Mosaico” che a sostenere il BDS fosse anche l’associazione ebraica di estrema sinistra JVP (Jewish Voice for Peace), usata dagli antisionisti come foglia di fico per difendersi dalle accuse di antisemitismo. Rispetto al 2018, che cosa è cambiato?
    Oggi JVP gioca un ruolo molto più importante di quello che poteva avere nel 2018; hanno molti portavoce presenti negli accampamenti allestiti nelle università americane, e vengono continuamente messi sotto i riflettori.
  Per fare un esempio, in occasione dell’accampamento all’UCLA, l’Università della California a Los Angeles, diversi studenti ebrei querelarono l’università perché gli accampati avevano impedito loro di muoversi nel campus e recarsi in biblioteca; di fatto, bloccavano intenzionalmente l’accesso agli studenti ebrei. In quell’occasione, l’FJP rilasciò un documento in cui dichiaravano di non poter essere antisemiti, in quanto avevano esponenti di Jewish Voice for Peace tra i loro sostenitori.

- Cosa dovrebbero fare le istituzioni accademiche per contrastare l’odio verso gli ebrei e Israele negli atenei? Quali tattiche andrebbero adottate?
   Qui all’Università dell’Illinois, io e il mio collega Brett Kaufman abbiamo creato un gruppo accademico chiamato Faculty for Academic Freedom and Against Antisemitism, presente nei campus di Chicago e Urbana-Champaign. Finora hanno aderito più di 80 persone in pochi mesi. A differenza dei nostri avversari, che si nascondono dietro l’anonimato, noi abbiamo un Comitato Esecutivo i cui membri sono tutti indicati con i loro nomi sul nostro sito.
  Un’altra iniziativa a cui ho contribuito, assieme a due amici che insegnano all’Università del Minnesota e a Berkeley in California, è stata la pubblicazione di una dichiarazione contro i boicottaggi accademici. Possono firmarla accademici da tutto il mondo, non solo americani, e finora ha già raccolto più di 3.400 firme.

(Bet Magazine Mosaico, 30 agosto 2024)

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Conferenza di Mordechai Kedar a Milano 

COMUNICATO STAMPA 

Domenica 8 settembre, a Milano, ore 18, Mordechai Kedar terrà una conferenza organizzata dalla Comunità Ebraica dal titolo: 

“Che cosa dovrebbe fare lo Stato di Israele per assicurare il proprio futuro” 

Iscrizione obbligatoria. 
Per informazioni: segreamar@gmail.com 

(Emanuel Segre Amar, 30 agosto 2024) 

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Reè. Vedere è capire

di Ishai Richetti

Se qualcuno ci ponesse di fronte ad una scelta, preferiremmo essere ciechi o sordi? D-o non voglia che accada mai, ma diciamo che dovessimo scegliere, quale dei due preferiremmo? Un’idea tratta dalla Parashà di questa settimana, la Parashà di Re’é interviene su questa domanda. Il primo versetto recita: “Vedi, oggi ho posto davanti a te benedizioni e maledizioni” (Devarim 11:26). La prima domanda che sorge di fronte a questo versetto è: D-o ha posto qualcosa di tangibile e visibile davanti agli ebrei? La risposta immediata è che no, D-o attraverso questo versetto sta descrivendo concetti intellettuali di benedizioni e maledizioni. Cosa intende quindi la Torà quando usa la parola “Vedi”?
Ovviamente, la parola “vedi” è figurativa ed è usata qui per riferirsi a una comprensione. Nel nostro esprimerci, usiamo “vedi” in riferimento a una comprensione di qualcosa come in “Vedi cosa ti sto dicendo?” perché la vista è il nostro senso più affidabile e forte. (Radak in Zecharia 1:9.). Per spiegare questa idea, prendiamo come esempio un cane e il suo senso dell’olfatto. Poiché il senso più affidabile e forte di un cane è l’olfatto, se potesse parlare e volesse esprimere la sua comprensione di un’idea, direbbe: “Lo sento! Ora capisco cosa intendi”. Questa spiegazione fa sorgere tuttavia un’altra domanda: Se la vista è il nostro senso più forte ed è quindi la ragione per cui la nostra Parashà inizia con quella parola, come mai in altri punti la Torà usa la parola “udire” per riferirsi alla comprensione? L’esempio più lampante si trova in una delle preghiere più famose, nello Shemà: “Ascolta, Israele, D-o Nostro Signore, D-o è Uno“. Perché la Torà non usa sempre la parola “vedere” in allusione all’interiorizzazione di una comprensione di qualcosa se questo è il nostro senso più affidabile? Inoltre, se la vista è il nostro senso più forte, l’Halachà dovrebbe considerare più seriamente responsabile chi acceca qualcuno piuttosto che chi abbia reso sordo una persona. Tuttavia, il Talmud in Baba Kama 85b stabilisce che chi rende sordo qualcuno deve pagare molto di più che se lo acceca. Non dovrebbe essere il contrario?
Per rispondere a tutte queste domande, dobbiamo introdurre un altro fattore nell’equazione oltre alla questione del senso più forte e affidabile. Quel problema è la comunicazione con il prossimo. Helen Keller una volta disse: “Se mi chiedessi: Se potessi riavere uno dei miei sensi, la vista o l’udito, quale sceglierei? Sceglierei l’udito. Essere ciechi ti taglia fuori dal mondo, ma essere sordi ti taglia fuori dal relazionarti e comunicare con le persone. Io scelgo le persone rispetto al mondo”. Il risarcimento per aver provocato danni all’udito è più alto rispetto al risarcimento previsto per i danni provocati alla vista perché perdere la capacità di relazionarsi e condividere con gli altri è una privazione più grave. La vista può essere il nostro senso più forte, ma le relazioni umane e la comunicazione sono più vitali per l’esistenza umana. La Torà, quando sceglie di usare l’espressione “vedere” o “sentire”, desidera trasmettere messaggi diversi e specifici per indicare la comprensione di qualcosa. Quando la Torà usa la parola “shema”, “ascolta”, l’indicazione è che dobbiamo prendere un impegno che coinvolge il nostro intelletto. “Re’é”, – vedi – significa che dobbiamo prendere un impegno che coinvolge le nostre emozioni. “Ascoltare” richiede una comprensione più ampia e profonda, mentre “vedere” richiede una reazione più ampia a una comprensione che è già presente. “Ascoltare” richiede una comprensione più ampia e profonda perché quando siamo in grado di ascoltare qualcuno siamo in grado di comunicare veramente bene con lui. Per quanto significativa sia la lingua dei segni per i non udenti, non può purtroppo sostituire completamente i livelli più alti e profondi di comunicazione tra le persone che si sperimentano attraverso l’udito che permette una percezione migliore. La “Vista” è usata per raccogliere le nostre emozioni a una grande reazione per una comprensione che abbiamo già perché la vista è il nostro senso più forte e affidabile. Vedere è davvero credere ed è spesso molto più facile impegnarsi in qualcosa quando la vediamo piuttosto che se la sentiamo solamente. Questo spiega una differenza molto affascinante nella fraseologia usata dallo Zohar e quella usata dal Talmud. Molto spesso, quando il Talmud presenta nuove informazioni e fatti, viene usata la frase introduttiva “Vieni e ascolta”, “Ta Shmà”. Quando lo Zohar presenta nuove informazioni, viene usata la frase introduttiva “Vieni e vedi”, “Yuh chazi”. Perché questa differenza?
Quanto abbiamo discusso, ci aiuta a capirlo. Il Talmud include tutta la Torà rivelata e razionale, che è nota come “niglé”, rivelata. Questa sezione della Torà comporta un grande e profondo pensiero logico e la comprensione dell’intelletto. Ecco perché “l’udito” è estremamente necessario, poiché “l’udito” realizza una comunicazione chiara su un piano razionale. Lo Zohar è l’opera principale del misticismo ebraico e va oltre il regno della razionalità e della logica, verso il mondo del soprannaturale e del nascosto. È “nistar”, la Torà nascosta. “Vedere” è il senso che può suscitare le nostre emozioni e una grande reazione e la funzione principale dello Zohar è quella di rafforzare le nostre passioni ed emozioni per la nostra anima e il nostro spirito. Ecco perché Rav Avraham Yeshaya Karelitz, noto come Chazon Ish, dice che quando si studia lo Zohar si sperimenta la dolcezza del nostro Padre Celeste e, probabilmente è anche questo il motivo per il quale lo studio dello Zohar è soggetto ad alcune regole ben precise.
Nel primo versetto della Parshà di Re’é, l’uso dell’espressione “vedere” è il più appropriato in base all’argomento. D-o sta descrivendo una cerimonia di giuramenti per osservare le mitzvot della Torà che prevede benedizioni e maledizioni. Questa cerimonia avrebbe avuto effettivamente luogo in linea temporale molto più tardi rispetto al momento in cui vengono pronunciate queste parole, quando gli ebrei avrebbero attraversato il fiume Giordano per entrare in Israele. Perché allora D-o dice: “Guarda, ho posto davanti a te oggi, benedizioni e maledizioni”? Le benedizioni e le maledizioni non venivano poste davanti a loro in quel momento, quindi perché usare la parola “oggi”?
Come sappiamo la Torà non usa mai parole superflue o che non comportino un insegnamento.. Anche se secondo Rashi qui il versetto si riferisce in effetti alla cerimonia che avverrà diversi anni successivi nella Terra di Israele sul Monte Gherizim e sul Monte Eval, lo Sforno interpreta il versetto diversamente, come un ammonimento: Fai molta attenzione in modo da non essere come le nazioni del mondo che si relazionano a tutto con scarso entusiasmo, cercando sempre di trovare una via di mezzo. Ricorda che Io ti presento oggi la scelta tra due estremi opposti. La Berachà, la benedizione, è un estremo in quanto ti fornisce più di quanto ti serve, mentre la Kelalà, la maledizione, è l’altro estremo che si assicura che tu abbia meno dei tuoi bisogni di base. Hai la scelta di entrambi davanti a te; tutto ciò che devi fare è fare una scelta.
Questo versetto apparentemente semplice, di apertura della Parashà, è in realtà pregno di significati. Dopo aver usato la comprensione che avviene attraverso l’udito, “Shemà Israel”, comprensione basilare ed importantissima, può arrivare il momento in cui sarà possibile usare la comprensione che avviene attraverso il senso della vista, Re’é, che non può esserci senza la comprensione precedente. Questo insegnamento è importante anche oggi. Molte delle opinioni e delle decisioni che prendiamo sono prese solo utilizzando uno dei sensi di cui siamo dotati, spesso il senso guidato dalle emozioni. Questo senso può però portarci a decisioni errate. La Torà ci dà le istruzioni su come dobbiamo comportarci: Come prima cosa dobbiamo capire che “Shemà Israel”. ascolta Israele, il Signore è il tuo D-o, il Signore è Uno. Successivamente saremo in grado di capire che “vehaya im shamo’a tishmà el mitzvot H’ Elokecha“, e avverrà, quando osserverai le mitzvot che il Signore tuo D-o ti dà e farai quanto è bene ai Suoi occhi, solo allora porterai la berachà nella tua vita e solo allora potrai veramente arrivare a “Re’é”, vedere che in realtà l’unica via da percorrere, anche se ci viene data la scelta del libero arbitrio, necessario perché a livello semplicistico se non ci fosse non avrebbe senso il concetto di ricompensa e di punizione, è quella della berachà, quella che ci porterà solo benedizioni nelle nostre vite.

(Morashà, 30 agosto 2024)
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Parashà della settimana: Re'eh (Vedi!)

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Leader di Hamas dalla Turchia: “riprendere attentati suicidi”

Come sempre i "coraggiosi leader di Hamas" chiamano al sacrificio (degli altri) mentre loro vivono nel lusso e accumulano ricchezze

di Sarah G. Frankl

L’alto funzionario di Hamas Khaled Mashal ha invitato mercoledì a riprendere gli attentati suicidi in Cisgiordania e ha incoraggiato i palestinesi e i sostenitori della causa palestinese a impegnarsi nella “resistenza effettiva contro l’entità sionista”.
Secondo Sky News Arabia, durante un discorso a una conferenza a Istanbul, in Turchia, Mashaal ha detto che il gruppo terroristico di Hamas vuole “tornare alle operazioni [suicide]”.
La guerra con Israele a Gaza e i frequenti raid dell’IDF contro le entità terroristiche palestinesi in Cisgiordania sono una situazione “che può essere affrontata solo con un conflitto aperto”, ha detto Mashaal. “Loro ci combattono con un conflitto aperto e noi li affrontiamo con un conflitto aperto”.
“Il nemico ha aperto il conflitto su tutti i fronti, cercando tutti noi, che combattiamo o meno”, ha detto, sembrando riferirsi all’assassinio dell’ex leader di Hamas Ismail Haniyeh avvenuto a Teheran il 31 luglio. Israele non ha confermato né smentito il suo coinvolgimento nell’uccisione di Haniyeh, residente in Qatar e capo dell’ala politica del gruppo terrorista.
“Ripeto il mio appello a tutti a partecipare su più fronti all’effettiva resistenza contro l’entità sionista”, ha aggiunto Mashaal, che per un breve periodo era stato visto come uno dei candidati a sostituire Haniyeh, prima che le redini venissero affidate al leader di Hamas a Gaza Yahya Sinwar.
All’inizio di agosto, Hamas ha rivendicato la responsabilità di un’esplosione a Tel Aviv, che ha dichiarato essere un attentato suicida condotto come operazione congiunta con la Jihad islamica palestinese, e ha giurato che sarebbero seguiti altri attacchi simili.
Una persona è rimasta moderatamente ferita nell’attacco del 18 agosto, quando la bomba è esplosa all’interno dello zaino dell’uomo che la trasportava, uccidendolo all’istante.
Gli attentati suicidi in Israele sono rari dalla Seconda Intifada dei primi anni 2000, quando centinaia di israeliani furono uccisi in una serie di attentati mortali.
In seguito all’intifada, Israele ha costruito la barriera di sicurezza in Cisgiordania, che è stata ritenuta utile per sventare ulteriori tentativi di attentato.
Recentemente, nel corso della guerra a Gaza, le autorità di sicurezza israeliane hanno individuato tentativi di Hamas e di altri gruppi terroristici in Cisgiordania di tornare a compiere attentati di questo tipo.
Nel marzo di quest’anno, un aspirante attentatore suicida è stato ucciso mentre cercava di infiltrarsi in Israele dalla Cisgiordania. Altri tentativi di attacco sono stati sventati negli ultimi mesi in fasi precedenti.

(Rights Reporter, 29 agosto 2024)

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Gli ebrei in fuga dall’occidente

Israele combatte stabilmente su sette fronti. Ma la guerra contro Israele fa meno paura dell’antisemitismo in giro per il mondo. Storia dei numeri record di immigrati (più 29 mila) che cercano riparo nello stato ebraico.

Le operazioni militari lanciate ieri dall’esercito israeliano in quattro città della Cisgiordania ci ricordano che i fronti sui quali combatte lo stato di Israele sono ormai, e anche con una certa stabilità, non meno di sette, se si vogliono escludere da questo calcolo altri collaborazionisti del terrore come alcune università americane, come alcune federazioni dei giornalisti europei, come i collaborazionisti delle Nazioni Unite, che pur da posizioni diverse combattono da mesi battaglie simmetriche contro Israele, giustamente osservate con affetto dagli ayatollah iraniani. C’è il fronte della Cisgiordania, con tutte le sue problematiche, comprese purtroppo anche le azioni di terrore portate avanti da alcuni coloni. C’è il fronte di Gaza con i suoi terroristi di Hamas. C’è il fronte del Libano con i suoi Hezbollah. C’è il fronte iraniano con i suoi pasdaran. C’è il fronte dello Yemen con i suoi houthi. C’è il fronte della Siria con le sue milizie al soldo dell’Iran. C’è il fronte dell’Iraq con i suoi combattenti teleguidati da Teheran. Vivere in Israele, oggi, significa essere circondati da professionisti del terrore che in modo esplicito sognano di spazzare via uno stato dalla mappa geografica, from the river to the sea. Ma nonostante questo, la potenza generata in giro per il mondo dall’emergere dell’intifada globale, dall’odio irriducibile contro gli ebrei, dalla nuova internazionale dell’antisemitismo ha generato in molti ebrei che si trovano fuori da Israele un senso di insicurezza superiore rispetto a quello percepito dagli ebrei che vivono in mezzo ai sette fronti che assediano ormai da mesi lo stato di Israele.
  Lunedì scorso, un rapporto speciale del ministero dell’Aliyah e dell’Integrazione israeliano ha fatto emergere un dato sorprendente e per alcuni versi drammatico. Nonostante la guerra in corso, il numero di nuovi immigrati arrivati in Israele dal 7 ottobre ha raggiunto delle cifre che non si vedevano da anni e in particolare negli ultimi dieci mesi in Israele sono arrivati 29 mila immigrati che hanno scelto di beneficiare della “aliyah”, la legge che riconosce a qualsiasi ebreo il diritto legale all’immigrazione assistita, all’insediamento in Israele e alla cittadinanza israeliana.
  Tra i paesi da cui sono arrivate più domande ce ne sono quattro in particolare. C’è il Regno Unito, che ha registrato un aumento del 63 per cento di richieste rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. C’è il Canada, che ha registrato un aumento di richieste pari all’87 per cento. Ci sono gli Stati Uniti, che hanno registrato un 62 per cento in più di richieste. E c’è, infine, il caso spaventoso della Francia, che ha registrato, rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente, un balzo di richieste pari al 355 per cento (355: non è un refuso). Per Israele, avere a che fare con un boom di immigrati, che cercano rifugio, che cercano sicurezza, che cercano protezione, è un segnale incoraggiante, che mostra la capacità, da parte dello stato ebraico, di proiettarsi ancora nel futuro e di dare, nonostante tutto, un senso di sicurezza a tutti gli ebrei che in giro per il mondo non si sentono più sicuri. Ma per i paesi da cui scappano gli ebrei questi numeri certificano purtroppo una verità diversa, che in troppi continuano a non voler vedere. La macchina dell’antisionismo che è tornata a macinare odio dopo il 7 ottobre provando a creare confusione rispetto a chi sono gli aggrediti e chi sono gli aggressori in medio oriente è una macchina il cui lavorio produce ormai da mesi un effetto preciso che coincide con la legittimazione progressiva dell’odio non contro Israele ma contro gli ebrei. Giorni fa, l’agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ha condotto un sondaggio su 8 mila ebrei provenienti da 13 paesi europei e ha rivelato che il 96 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver avuto a che fare con l’antisemitismo nella propria vita quotidiana anche prima dell’attuale guerra a Gaza. Secondo lo stesso rapporto, il 76 per cento degli intervistati ha nascosto la propria identità “almeno occasionalmente”, il 34 per cento ha detto di essere restio a visitare eventi o siti ebraici perché non si sentiva sicuro, il 4 per cento ha dichiarato di aver subìto aggressioni fisiche, il doppio rispetto al sondaggio precedente condotto nel 2018, e il 60 per cento degli intervistati non è soddisfatto della risposta del proprio governo nazionale al crescente antisemitismo. Il paese più colpito da questo fenomeno è la Francia, paese che ha osservato con terrore l’esplosione causata da una bombola di gas che ha provocato quattro giorni fa un incendio di fronte alla sinagoga Beth Yaacov che solo per caso non si è tradotto in una strage. In Francia, si diceva, il 74 per cento della comunità ebraica ha dichiarato di ritenere che l’attuale conflitto abbia influito sul proprio senso di sicurezza e gli atti di antisemitismo sono quasi triplicati dall’inizio dell’anno, con 887 eventi registrati nel primo semestre contro i 304 registrati nello stesso periodo del 2023. Immaginare che Israele possa avere un futuro, nonostante il tentativo dei terroristi di mezzo mondo di cancellare il futuro dall’orizzonte di Israele, è una notizia incoraggiante. Prendere atto del fatto che l’intifada globale ha messo gli ebrei di mezzo mondo nella condizione di non sentirsi più liberi di professare la propria fede al punto di sentirsi più sicuri in un paese in guerra che in un occidente che la guerra la guarda da lontano dovrebbe essere il primo passo per comprendere cosa è diventato oggi l’antisemitismo, cosa c’è dietro l’antisionismo e cosa vuol dire difendere Israele per difendere anche la nostra libertà.

Il Foglio, 29 agosto 2024)

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Quando la censura viene dalla stampa

Indagare, riferire, illustrare, informare, fare riflettere. Sono questi gli obiettivi di una stampa al servizio del cittadino, non importa se lettore di un giornale, radioascoltatore o fruitore del web. La politica attiva invece no, non fa parte della missione istituzionale di una testata che si voglia libera. Certo, nel gioco dei media è ammesso sposare una battaglia o manifestare le proprie preferenze per quel politico o, meglio sarebbe, per alcune scelte di qualche amministratore. Qua in occidente, poi, si dà tutto per scontato dimenticando che in tanti paesi i giornalisti non sono affatto liberi: da questo punto di vista gli appelli ai governi perché garantiscano la libertà della stampa e l’incolumità dei giornalisti vanno sempre appoggiati. Eppure, dalla lettera-appello che 58 fra organizzazioni giornalistiche e ong hanno inviato all’alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Josep Borrell, traspare qualcosa di inquietante. Perché non si tratta (solo) di un testo per la libertà della stampa e la tutela dei giornalisti ma di un appello contro. Contro Israele considerato non una democrazia in lotta contro il radicalismo islamico fomentato dall’Iran, campione di violenza domestica e internazionale, ma come un’entità assassina, violenta, torturatrice. Della quale si arriva a chiedere nientemeno che l’espulsione dagli accordi di associazione con l’Ue. In questo caso le associazioni dei giornalisti non solo rincorrono la politica ma la superano in corsa. Un segnale spaventoso: Israele è in guerra con Hamas? E noi chiediamo l’allontanamento dello stato ebraico dall’Europa. Noi giornalisti riteniamo che la libertà di stampa, leggi la democrazia, in Israele sia in pericolo? Anziché invocare la fine della guerra meglio assestare una pedata nei denti a chi rischia la vita tutti i giorni per estrarre civili innocenti dai tunnel della morte. Fra i firmatari della lettere appello c’è la Fnsi italiana in compagnia della European Federation of Journalists (Efj) e di una serie di sigle analoghe dai paesi più diversi: non mancano la Tgs e la Gcd, due sigle turche, la Ppf pachistana e ben tre organizzazioni spagnole (Fape, Fesp e Spa-Fesp): sono le nuove sentinelle della nostra libertà (di essere sempre contro Israele). dan.mos.

(moked, 29 agosto 2024)

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20 ostaggi come scudi umani attorno a Sinwar mentre Hamas affronta una rivolta interna

di Luca Spizzichino

Sarebbero soltanto 20 gli ostaggi sotto il controllo diretto di Hamas e questi verrebbero usati come scudi umani per proteggere il leader Yahya Sinwar. È quanto riporta il quotidiano inglese The Jewish Chronicle. Il ricercato numero 1 dalle forze di difesa israeliane, architetto del 7 ottobre, si nasconderebbe in tunnel sotterranei, circondato dai prigionieri, nel tentativo di evitare un attacco mirato da parte di Israele. Nonostante l’intelligence israeliana abbia identificato più volte i nascondigli del leader di Hamas, gli attacchi sono stati evitati per non mettere a rischio la vita degli ostaggi.
  La situazione degli ostaggi a Gaza è ulteriormente complicata dalle tensioni interne tra Hamas e i gruppi terroristici minori operanti nella Striscia. Gli altri ostaggi, sia vivi che morti, sono detenuti da gruppi terroristici minori come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, le Brigate dei Mujahideen, le Brigate al-Nasser Salah al-Deen e le Brigate dei Martiri di al-Aqsa. Questi gruppi hanno rotto i contatti con Sinwar, manifestando un crescente malcontento e stanno pianificando un colpo di stato per prendere il controllo della leadership di Hamas. Le tensioni tra queste fazioni terroriste e Sinwar nascono da profondi disaccordi riguardanti l’identità e il numero di prigionieri palestinesi da includere in un eventuale accordo di scambio per la liberazione degli ostaggi. Mentre Sinwar insiste sulla priorità del rilascio dei prigionieri affiliati a Hamas, questi gruppi minori pretendono che anche i loro membri siano inclusi nella lista, rifiutando qualsiasi compromesso con Israele.
  Nonostante avessero seguito le direttive del capo di Hamas durante l’attacco del 7 ottobre, ora questi gruppi si ribellano alla sua autorità, rendendo ancora più complesso raggiungere un accordo con Israele. Sinwar, dal canto suo, cerca di ottenere condizioni favorevoli per la sua sicurezza personale, chiedendo la fine delle operazioni militari israeliane e garanzie americane che Israele non proseguirà la guerra dopo il rilascio degli ostaggi. Inoltre, Sinwar vuole la promessa di non essere eliminato una volta liberati gli ostaggi.
  Nel frattempo, Sinwar sembra guadagnare tempo, sperando in un conflitto regionale più ampio che distragga l’IDF. Hamas sta anche incoraggiando attività terroristiche in Cisgiordania per sovraccaricare ulteriormente l’esercito israeliano. A tal fine, Sinwar ha incaricato Zaher Jabarin, terrorista considerato il banchiere di Hamas che è stato detenuto in Israele, ora operativo dalla Turchia, di attivare cellule terroristiche per creare ulteriore caos e pressione sull’IDF. Jabarin, che riceve fondi dall’Iran, è considerato responsabile del recente aumento delle attività terroristiche nella regione.

(Shalom, 28 agosto 2024)

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Ex ostaggio Moran Stella Yanai: sopravvissuta a Gaza tra torture, richieste di riscatti e pressione per convertirsi all’Islam

Una dopo l’altra, come lacrime amare di un puzzle, spuntano via via le testimonianze di chi è miracolosamente sopravvissuto dall’inferno di Gaza e che ora prova a ricomporre una tragedia che sembra non avere fine. Dei sopravvissuti come l’ex ostaggio Moran Stella Yanai, 41 anni, che in un’intervista rilasciata domenica a N12, ha raccontato ulteriori dettagli sulla sua detenzione. Moran, un’avvenente giovane donna, che come altre incolpevoli vittime di quel maledetto 7 ottobre ha avuto il solo torto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Moran ce l’ha fatta, così come ce l’hanno fatta altri, ma la sua vita non potrà mai più essere come quella di prima.
In un’intervista rilasciata il 29 novembre dell’anno scorso – e ora riportata alla luce dal Jerusalem Post arricchita da ulteriori dettagli – la donna ha dichiarato che durante la sua prigionia da parte dei terroristi di Hamas, questi ultimi hanno chiesto a suo padre un riscatto per la sua liberazione, minacciandola di morte se si fosse rifiutato. Non solo: hanno cercato anche di farle pressione affinché si convertisse all’Islam.
«Un giorno, verso mezzogiorno, io e altri due ostaggi eravamo seduti in una stanza, preparati a qualsiasi scenario potesse verificarsi nella stanza adiacente (dove si trovavano i terroristi), quando all’improvviso ho sentito “abuha abuha” più volte», ha raccontato agli intervistatori.
Dopo aver sentito ripetere la frase in arabo che significava “suo padre, suo padre”, Stella ha raccontato di aver iniziato a prestare maggiore attenzione alle conversazioni dei suoi rapitori. Uno di loro le si è avvicinato e ha cominciato a porle domande molto precise: «Tuo padre ti ama?», le ha chiesto. Lei ha risposto determinata: «Certamente, più di ogni altra cosa». I rapitori stavano chiaramente cercando di ottenere un riscatto per la sua liberazione, consapevoli che il padre sarebbe stato disposto a pagare una somma considerevole pur di riaverla. Hanno quindi iniziato a raccogliere il maggior numero possibile di informazioni sulla situazione finanziaria della famiglia. La pressione psicologica esercitata durante questi interrogatori aveva l’obiettivo di manipolare e terrorizzare Stella, rendendo la situazione ancora più angosciante. Sebbene Stella non sia ancora del tutto sicura se si trattasse di una semplice estorsione di denaro o se fosse parte di una strategia più complessa per destabilizzare psicologicamente la sua famiglia, ha affermato: «Fa parte dei loro giochi mentali, non stanno giocando solo con noi, ma anche con le nostre famiglie». Ha aggiunto che «non finisce con la nostra morte o il nostro rapimento; continuano a torturare e abusare delle nostre famiglie».
Ma non è finita qui. L’ex ostaggio ha poi spiegato che quasi ogni giorno uno di loro entrava nella stanza e diceva che sarebbe stato meglio per lei essere musulmana. «Una volta il terrorista ha mandato uno dei suoi compagni a prendere un velo da mettermi e mostrarmi cosa significa essere una donna musulmana», ha raccontato Stella sempre a N12.
La donna ha anche dichiarato che occasionalmente i suoi rapitori le portavano un Corano per leggerle dei versetti, chiedendole di lodare Dio: «Se ti convertissi all’Islam ti libereremmo prima», l’hanno intimata i suoi rapitori.
«Come donna, la mia più grande paura è stata di essere venduta. Che qualcuno mi avrebbe sposato con la forza e che avrei dovuto convertirmi all’Islam», ha riferito Stella ribadendo che l’intera esperienza è stata traumatica per tutta la sua famiglia. Ha raccontato che quando suo padre ha iniziato a ricevere i messaggi di riscatto, «è andato in stato di shock». Ha ricevuto una foto di sua figlia (non una scattata in cattività) e gli è stato detto «che se non avesse pagato entro un’ora, avrebbero iniziato a ucciderci uno a uno. Cerco di immaginare mio padre in quella situazione, a cui è stato detto che entro un’ora avrebbero ucciso sua figlia se non avesse mandato i soldi.  Penso a lui e a quanto gli stava passando per la testa: avrebbe potuto spezzargli il cuore. I miei genitori hanno vissuto un trauma non inferiore al mio».

(Bet Magazine Mosaico, 28 agosto 2024)

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Il “Mandela” palestinese: una miniatura

di Davide Cavaliere

«La verità, vi prego, su Marwan Barghouti», si dovrebbe chiedere in questi giorni, parafrasando W.H. Auden. Di recente, il terrorista palestinese, in carcere in Israele dal 2002, è stato oggetto di alcuni articoli elogiativi e quasi apologetici, come quello del post. Barghouti, con sempre maggiore insistenza, è presentato come il solo leader palestinese capace di concordare una pace con lo Stato ebraico e gestire il post-Hamas a Gaza.
  Si tratta, come sanno tutti coloro che guardano alla realtà mediorientale senza lenti ideologiche, di una pia illusione. Barghouti, infatti, non è il «Nelson Mandela della Palestina», bensì un assassino sanguinario imbevuto di antisemitismo.
  Durante la prima Intifada, nel 1987, emerse come una delle principali figure militari del partito Fatah. Guidò i palestinesi in violenti scontri contro le forze militari e gravi attentati a danno dei civili israeliani. Nello stesso anno, fu arrestato da Israele ed estradato in Giordania, dove rimase fino al 1994, anno in cui tornò in Cisgiordania secondo i termini degli Accordi di Oslo. Nel 1996 fu eletto al «Consiglio legislativo palestinese», dove salì di grado fino al titolo di Segretario generale di Fatah nei «Territori occupati». Tuttavia, in seguito, ebbe un litigio con Yasser Arafat, la cui amministrazione accusò di corruzione.
  Con lo scoppio della Seconda Intifada, nel 2000, Barghouti divenne un leader delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Capeggiò marce verso i posti di blocco israeliani con l’intento di provocare i soldati dell’IDF e causare scontri. Divenne una presenza visibile in molte manifestazioni e funerali di «martiri» palestinesi coperti dalla stampa araba e occidentale. Nei discorsi che tenne in tali eventi, Barghouti esortò le folle a persistere nel tentativo di espellere con la forza Israele dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza.
  Sotto il suo comando, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa si resero responsabili di numerosi attacchi contro Israele, tra cui un attentato suicida in un bar di Gerusalemme nel marzo 2002, in cui persero la vita 11 civili e ne rimasero feriti più di 50, e altri due attentati kamikaze a Tel Aviv nel gennaio 2003, che provocarono la morte di 23 persone e il ferimento di oltre un centinaio.
  Barghouti fu catturato dall’esercito israeliano a Ramallah, sua città natale, nell’aprile del 2002 con l’accusa di terrorismo e per l’omicidio di 26 persone. Nel corso del processo, ribadì il suo sostegno alla «resistenza» armata. Alla fine, fu condannato per omicidio con ben cinque sentenze all’ergastolo.
  Dal suo eremo carcerario, nel 2007, ebbe un ruolo importante anche nell’elaborazione dell’accordo della Mecca tra Hamas e Fatah, che esortava le due parti a porre fine agli scontri militari tra fazioni a Gaza e a concentrarsi nella lotta all’«occupante sionista».
  Un terrorista pluriomicida non può garantire né una pace duratura né la sicurezza d’Israele. Bisogna, pertanto, sperare che la leadership israeliana lasci Barghouti scontare pienamente la sua pena nella prigione di Ofer e non commetta il medesimo errore fatto con Arafat, ossia credere che un lord of terror possa mai diventare una colomba.

(L'informale, 28 agosto 2024)

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Liberato dall’IDF l’ostaggio Qaid Farhan Alkadi

di Michelle Zarfati

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Dopo 326 giorni di prigionia nelle mani di Hamas, l’IDF ha tratto in salvo l’ostaggio Qaid Farhan Alkadi. Alkadi, beduino residente della zona di Rahat, era stato catturato il 7 ottobre mentre lavorava come guardia al Kibbutz Magen vicino al confine con la Striscia di Gaza. Il salvataggio ha avuto luogo in un tunnel nel sud di Gaza, dove Alkadi è stato trovato da solo durante una complessa operazione che ha coinvolto Shayetet 13, le forze della 401a Brigata, di Yahalom e Shin Bet sotto il comando della 162a Divisione. Il cinquantaduenne, sposato e padre, è in condizioni stabili, e dopo l’operazione di salvataggio è stato subito portato in ospedale per una valutazione medica.
  “Siamo felici di tutto questo e speriamo possa riprendersi al più presto” ha detto Hathem, il fratello dell’ex ostaggio. Il primo ministro Benjamin Netanyahu si è congratulato con le forze di sicurezza per il salvataggio, ribadendo l’impegno dello Stato ebraico nel riportare a casa tutti gli ostaggi. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha elogiato l’operazione, definendola come un esempio di determinazione dei soldati dell’IDF per raggiungere tutti gli obiettivi della guerra.
  Anche il presidente Isaac Herzog ha accolto con gioia la notizia, celebrando il ritorno di Alkadi come un momento di sollievo per l’intero Paese. Alkadi è uno dei sei beduini rapiti durante il massacro del 7 ottobre. Tra loro anche Samer al-Talalqa, 25 anni, che è stato accidentalmente ucciso dall’IDF insieme ad Alon Shamriz e Yotam Haim; Yousef al-Ziadna, 49 anni, della zona di Rahat, che è stato rapito con i suoi figli Hamza, 22 anni, Bilal, 18 anni e Aisha, 17 anni. Aisha e Bilal sono stati rilasciati grazie all’accordo raggiunto con Hamas alla fine di novembre dello scorso anno.
  Inoltre, Hamas detiene ancora Hisham al-Sayed, un civile israeliano beduino detenuto nella Striscia di Gaza dal 2015.
  Il salvataggio di Alkadi è l’ottavo avvenuto grazie al l’IDF dall’inizio della guerra. A giugno, Noa Argamani, Almog Meir Jan, Shlomi Ziv e Andrey Kozlov sono stati salvati dal campo di Nuseirat, nella Striscia di Gaza durante quella che è stata definita “operazione Arnon”. A febbraio, Fernando Simon Marman e Louis Har sono stati salvati da Rafah., mentre il soldato dell’IDF Ori Magidish è stato recuperato grazie all’incursione di terra avvenuta a Gaza alla fine di ottobre.

(Shalom, 28 agosto 2024)

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I patetici tentativi di far passare l’attacco di Hezbollah come “deliberatamente moderato”

di Franco Londei

È incredibile come la propaganda anti-ebraica riesca a far passare per buone delle vere e proprie frottole. Lo abbiamo visto a Gaza dove la suddetta propaganda anti-ebraica è riuscita a trasformare le veline di Hamas in “informazione attendibile”, come se fosse la Reuters, lo vediamo adesso con lo sventato massiccio attacco di Hezbollah contro Israele.
La corsa a sminuire la brillante operazione preventiva, per altro aiutata dai satelliti americani, che ha impedito un attacco pesantissimo contro Israele, l’altrettanto patetica spinta a cercare di far credere che l’attacco di Hezbollah contro Israele sia stato “volontariamente debole”, producono una intollerabile alone di leggerezza intorno a quella che invece è stata una delle più brillanti operazioni di Israele degli ultimi decenni, nonché un importantissimo avviso all’Iran sullo strapotere militare israeliano.
Una leggerezza che a quanto pare colpisce anche siti web amici, che sembrano fare a gara con Haaretz per dimostrare quanto siano “progressisti”.
Su questi fantomatici “siti web progressisti” sostengono che «nuove informazioni indicano che Nasrallah ha ordinato che la risposta fosse significativamente ridimensionata a causa delle tensioni tra i centri di potere all’interno di Hezbollah».
La verità è significativamente diversa. Hezbollah aveva preparato un attacco massiccio su diversi obiettivi in Israele, tanto massiccio da tirare fuori dai rifugi gli ingombranti lanciatori dei missili Fatah 110 (o Petah 110) in grado di colpire con precisione qualsiasi luogo in Israele. Una mossa che non poteva sfuggire né a Israele né ai satelliti americani.
In un tempo particolarmente breve sono stati individuati migliaia di lanciatori di ogni tipo. Non decine, non centinaia, MIGLIAIA di lanciatori pronti a sparare razzi e missili di ogni tipo contro il territorio israeliano.
L’attacco preventivo israeliano è stato così violento, così di grande portata che in meno di mezzora ha distrutto buona parte dei lanciatori allo scoperto lasciando a Hezbollah appena 300 tra razzi e droni. Nessun missile balistico.
Uno che prepara migliaia di lanciatori tra cui decine di missili balistici, che quindi intende lanciare decine di migliaia di missili sullo Stato Ebraico, non ha in mente una «attacco significativamente debole», come vorrebbero farci intendere alcune patetiche “menti”, tutt’altro, ha in mente un attacco di grandissime proporzioni.  
Tra un po’ arriverà qualche invasato a spiegarci che Israele ed Hezbollah si erano accordati prima, che Nasrallah aveva fornito a Israele le coordinate di dov’erano i lanciatori ecc. ecc.
La cruda e semplice verità è che Hezbollah ha ricevuto una lezione di indicibile grandezza, qualcosa che neppure gli israeliani osano quantificare pubblicamente per paura di mettere Nasrallah in un angolo e umiliarlo più di quanto non lo sia già stato.
L’altra verità è che adesso Israele non vuole una guerra sul suo confine nord, non prima di aver eliminato del tutto la minaccia di Hamas, che rimane il fronte principale.

(Rights Reporter, 28 agosto 2024)

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Dal 7 ottobre più di 29.000 persone sono immigrate in Israele

Negli ultimi 11 mesi sono immigrate in Israele più di 29.000 persone in base alla Legge del Ritorno, tra cui 150 immigrati arrivati martedì 27 agosto dalla Francia. Questo annuncio di Yaakov Hagoel, presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale (WZO), segna una netta inversione di tendenza dopo il forte calo dell’immigrazione nei mesi successivi all’attacco di Hamas.
Come si legge su i24news, gli analisti attribuiscono questo rinnovato interesse a un’ondata di antisemitismo in Europa, negli Stati Uniti e altrove, dopo la campagna militare di Israele a Gaza.
“Il 7 ottobre è scoppiata una guerra non contro lo Stato di Israele, ma contro il popolo ebraico. Oggi, in molti Paesi del mondo, è difficile essere ebrei, a scuola, al lavoro o durante la preghiera”, ha detto Hagoel agli immigrati francesi.
I dati sull’immigrazione erano crollati subito dopo l’attentato del 7 ottobre. Secondo l’Ufficio centrale di statistica, nell’ottobre 2023 sono immigrate in Israele solo 1.163 persone, rispetto alle 2.364 di settembre. Nell’ottobre 2022, la cifra era di 6.091 persone.
Le cifre sono però aumentate lentamente nei mesi successivi. Da ottobre ad aprile sono arrivati in Israele più di 12.000 immigrati, secondo i dati del governo e dell’Agenzia Ebraica per Israele.
Un portavoce di Nefesh B’Nefesh, che sostiene l’immigrazione nordamericana in Israele, ha dichiarato che l’immigrazione generalmente rallenta in autunno e in inverno. Da parte sua, Yigal Palmor, portavoce dell’Agenzia Ebraica, ha aggiunto: “Abbiamo registrato un notevole aumento delle richieste di aliyah, soprattutto negli Stati Uniti e in Francia, ma anche in Canada e nel Regno Unito. Questo significa che la tendenza si invertirà sicuramente nei prossimi mesi, quando la situazione della sicurezza si stabilizzerà, come tutti speriamo che accada”.

(Bet Magazine Mosaico, 28 agosto 2024)

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Leni Riefenstahl, a Venezia un nuovo sguardo alla regista di Hitler

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Fra i progetti fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, al via mercoledì 28 agosto, ci sarà anche Riefenstahl. Il nuovo documentario di Andres Veiel si presenta come un’introspettiva sulla celebre regista del Terzo Reich, Leni Riefenstahl, nota per aver diretto i capisaldi della propaganda nazista Trionfo della volontà e Olympia, dedicato ai Giochi di Berlino 1936. Tramite video privati, registrazioni e documenti inediti intende offrire un nuovo sguardo all’autrice che, pur vantando un legame diretto con Adolf Hitler, negò durante tutta la sua vita – terminata nel 2003 a 101 anni – qualsiasi legame stretto con il Führer o il ministro Goebbels. Come ha anticipato il Guardian, una lettera sembrerebbe confermare un suo coinvolgimento nel massacro degli ebrei in Polonia del 1939, che dopo la caduta del Reich ha sempre negato, sostenendo di non saperne nulla.

• Riefenstahl fu coinvolta in alcuni crimini di Hitler? Le anticipazioni del documentario

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La regista Leni Riefenstahl in uno scatto dell’epoca

Il nuovo documentario di Andres Veiel, che il pubblico non accreditato potrà vedere a Venezia la sera di giovedì 29 agosto, è il primo progetto a vantare un accesso totale alla tenuta della regista Leni Riefenstahl. Analizzando alcuni documenti personali, è spuntata fuori una lettera del 1952 in cui sembra essere certificata una sua responsabilità, seppur indiretta, nel massacro compiuto dai nazisti a Kónskie, nel centro-sud della Polonia, nel settembre 1939. Firmata da un ufficiale di grado inferiore al marito della regista, il maggiore della SA Peter Jacob, racconta che Riefenstahl avrebbe sollecitato a «rimuovere gli ebrei» da un mercato in cui doveva girare una scena. «Sbarazzatevi di loro», avrebbe intimato ai soldati, che risposero sparando direttamente su alcune persone in fuga. Parole che contrastano con quanto avrebbe detto nel 1976, confessando di aver conosciuto gli orrori compiuti dagli uomini di Hitler solo dopo la guerra.
  «Se questa affermazione è vera, Riefenstahl ha giocato un ruolo cruciale nella morte degli ebrei a Kónskie», ha spiegato Veiel al Guardian. «I suoi conseguenti sensi di colpa potrebbero spiegare la sua negazione di aver assistito al crimine». Nel documentario troveranno spazio anche circa 30 ore di conversazioni telefoniche, registrate su cassetta, che la regista ebbe con ex membri del partito nazista che la tranquillizzarono dicendo che «moralità, decenza e virtù» del Reich non sarebbero morte con la sconfitta nella guerra mondiale. In risposta, Riefenstahl avrebbe concordato convinta che il popolo tedesco fosse «predestinato» a questo sviluppo. Nell’archivio sono spuntate lettere di ammiratori e corrispondenze in cui lei si rammarica per «gli ideali assassinati» del nazismo.

• Il documentario a Venezia racconta anche la realizzazione di Olympia
   Il progetto racconta anche Riefenstahl durante la realizzazione del documentario sulle Olimpiadi di Berlino 1936. La regista avrebbe più volte sottolineato il suo disprezzo per le persone fisicamente non all’altezza degli ideali nazisti di forza e bellezza che aveva promosso nel Trionfo della volontà. Dopo aver concluso Olympia, il collega Willy Zielke che ne curò il prologo fu ricoverato per psicosi ed esaurimento nervoso e successivamente sterilizzato con la forza. Pur a conoscenza di tutto ciò, Leni Riefenstahl non avrebbe fatto nulla in suo favore. Nelle 700 scatole di archivio, Veiel ha detto di aver trovato «un’attivista ancora convinta dell’ideologia nazista fino alla fine dei suoi giorni». A riprova della teoria, su un calendario è comparso l’appunto «Vota NPD», il partito neonazista.

(Lettera 43, 28 agosto 2024)

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“Sionista” è il nuovo lasciapassare, il nuovo capo di imputazione dell’inesausta retorica antisemita

di Iuri Maria Prado 

Prima del 7 ottobre la dicitura “sionista” evocava una realtà ignominiosa ed era usata come un insulto in qualche scantinato neonazista o presso irrilevanti platee filo-terroriste bardate di kefiah. Nel giro di pochi mesi, all’esito di un processo indisturbato e lungo un binario di ignoranza mostruosa, quel termine – “sionista” – è diventato il contrassegno di una specificità maligna, la patacca dell’oltranzismo usurpatore e razzista che l’ebreo ostenta senza pudore dopo essersi levato dal petto la stella gialla che lo manteneva al suo posto.
  Che cosa significhi “sionismo”, a quale movimento culturale, civile e politico quel termine rimandi, a quale realtà storica e sociale esso si riferisca, ecco, tutto questo semplicemente sfugge all’orizzonte delle cognizioni della fanciulla che, a capo di un corteo “pacifista”, a pochi passi dal Ghetto che fu rastrellato, grida “fuori i sionisti da Roma”. Sfugge, il significato del termine, sia al bifolco che dice all’ebreo “sionista di merda” sia all’avvocato che, difendendo in giudizio il responsabile di propaganda neonazista, spiega che il proprio assistito si limita a “combattere le politiche sioniste”.
  I pionieri ottocenteschi e gli ebrei palestinesi socialisti che hanno costruito Israele sulla scorta dell’anelito sionista – uno dei tanti nell’arco di tempo che preparava e vedeva consumarsi il collasso dei sistemi colonial-imperiali – probabilmente non immaginavano che, cent’anni dopo, il loro liberarsi e difendersi dalla persecuzione millenaria di cui erano destinatari sarebbe diventato il nuovo capo di imputazione dell’inesausta retorica antisemita.
  Il disprezzo e l’odio per il “sionista” erano i sentimenti di cui non aveva bisogno l’antisemitismo genocidiario prima della fondazione dello Stato Ebraico, perché il disprezzo e l’odio per gli ebrei erano autosufficienti e non occorreva ammantarli di troppe giustificazioni. Oggi – per quanto la propaganda anti-ebraica abbia assunto tratti di spigliatezza impensabili anche solo un anno fa – la libertà di dirsi antisemiti e la facoltà di esercitare la violenza antisemita trovano un impedimento solo nominalistico, un ostacolo che l’uso di quel termine, “sionista”, rimuove d’un colpo e con efficacia perfetta. Ma attenzione. Rispetto alle tradizionali menzogne (l’ebreo ladro, deicida, usuraio, pedofilo, portatore di malattie) che hanno scritto i capitoli della Bibbia antisemita e sono state usate per giustificare la persecuzione degli ebrei, l’addebito di “sionista” è simultaneamente più detestabile e pericoloso perché corrompe e trasfigura il significato di quella parola e la riformula in senso infamante.

(Il Riformista, 28 agosto 2024)

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Israele stringe il cerchio attorno al leader di Hamas latitante

Il tempo potrebbe essere scaduto per Yahya Sinwar. “Più di una volta siamo stati a pochi minuti di distanza”, ha dichiarato un ex agente dello Shin Bet.

di David Isaac

Il 61enne capo di Hamas Yahya Sinwar ha abbandonato i tunnel e si è travestito da donna per evitare di essere scoperto, come ha riferito lunedì il quotidiano britannico Daily Express, facendo sì che la mente del massacro del 7 ottobre fosse soprannominata “Mrs Dodgefire” sui social media.
Finora, Sinwar è riuscito a evitare il colpo di grazia che Israele sta pianificando per lui - un destino che Israele ha riservato a molti leader di Hamas, tra cui Ismail Haniyeh a Teheran e Mohammed Deif a Gaza.
Ma il tempo non sembra essere dalla parte di Sinwar.
“Più di una volta ci siamo trovati a pochi minuti di distanza”, ha dichiarato al Daily Express Shalom Ben Hanan, un ex ufficiale dei servizi di sicurezza israeliani (Shin Bet) che è stato determinante nella caccia a Sinwar.
“Come abbiamo scoperto in altre operazioni di eliminazione, Sinwar non rimane in tunnel sotterranei o in zone speciali sotterranee per più di 24-36 ore alla volta”, ha aggiunto Ben Hanan.
“Sa che possiamo trovare questi nascondigli sotterranei con una tecnologia avanzata. E sa che deve continuare a muoversi nel caso in cui venga commesso un errore o troviamo fonti che ci dicono dove si trova. In questo modo può evitare di commettere un errore fatale”, ha detto.
Un altro vantaggio per Israele è che Sinwar è impopolare presso una parte della popolazione della Striscia di Gaza. “Credono che li abbia portati alla rovina e che la situazione non potrà che peggiorare più a lungo rimarrà in vita”, ha dichiarato una fonte anonima al giornale.
Il generale di brigata Dan Goldfuss, comandante della 98esima divisione paracadutisti delle Forze di Difesa israeliane, ha confermato in un'intervista rilasciata a Channel 12 l'11 agosto che le forze israeliane avevano mancato Sinwar per pochi minuti durante una missione: “Eravamo vicini. Eravamo nella sua zona. Siamo scesi sottoterra. La zona era 'calda’. Abbiamo anche trovato un sacco di soldi lì. Il caffè era ancora caldo. Le armi erano state... lasciate pochi minuti prima”.
In un servizio domenicale sulla caccia a Sinwar, il New York Times ha riferito che egli aveva lasciato un bunker il 31 gennaio, pochi giorni prima dell'arrivo delle forze israeliane.
Gli israeliani hanno diffuso un filmato di Sinwar di ottobre che lo mostra mentre cammina in un tunnel con alcuni dei suoi figli.

• ELETTRONICA RICONOSCIBILE
   Il successo di Sinwar nell'eludere l'individuazione è dovuto principalmente al fatto che non usa mezzi di comunicazione elettronici rintracciabili ed è modellato su Osama bin Laden.
“Si ritiene che si tenga in contatto con l'organizzazione che guida attraverso una rete di corrieri umani”, secondo il Times.
Il giornale ha intervistato più di due dozzine di funzionari israeliani e statunitensi e ha scoperto che entrambi i Paesi hanno investito “enormi risorse” nella ricerca di Sinwar.
Gli americani stanno monitorando le comunicazioni e hanno aiutato Israele con radar di terra per mappare la vasta “rete di tunnel” di Hamas.
“Abbiamo fornito sforzi e risorse significative agli israeliani nella caccia ai vertici di Hamas, in particolare a Sinwar”, ha dichiarato il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan. “Abbiamo avuto persone in Israele sedute in una stanza con gli israeliani che lavoravano su questo problema. E, naturalmente, abbiamo molta esperienza nella ricerca di obiettivi di alto valore”.
Gli Stati Uniti sono motivati in parte dalla speranza che, con la morte di Sinwar, Israele possa dichiarare la vittoria e porre fine alle operazioni militari, si legge nel rapporto.
Lo Shin Bet, insieme all'Intelligence militare delle Forze di Difesa israeliane, ha istituito un'unità speciale per rintracciare una lista approvata dal Gabinetto di leader di Hamas da uccidere, tra cui Sinwar è il più importante.
Sebbene sia riuscito a sfuggire alle forze israeliane, l'anello intorno a lui si sta stringendo. Nelle prime settimane di guerra, Sinwar si è nascosto nei tunnel di Hamas a Gaza City, ma da allora si è trasferito a Khan Yunis. Ha anche usato telefoni cellulari e satellitari e ha persino parlato con membri di Hamas a Doha, ma da allora ha smesso di farlo.
“Le agenzie di intelligence americane e israeliane sono state in grado di monitorare alcune di queste chiamate, ma non sono riuscite a localizzare la sua posizione”, riporta il Times.
In passato rispondeva ai messaggi nel giro di pochi giorni, ma i negoziatori degli ostaggi e altre persone affermano che ora impiega molto più tempo a rispondere.
E mentre si affidava a un gruppo ristretto di leader politici e militari di Hamas a Gaza per le decisioni politiche, quella cerchia si sta restringendo, ha osservato il Times.
Tra i confidenti di Sinwar uccisi ci sono >MDeif, Marwan Issa, Rawhi Mushtaha, Izzeldin al-Haddad e Muhammad.

(Israel Heute, 27 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Iniziate in Israele le commemorazioni del 7 ottobre

Undici mesi dopo l’attacco a sorpresa di Hamas, sono iniziate domenica scorsa le commemorazioni per alcune delle centinaia di vittime; con l’anno bisestile, ulteriori cerimonie segnano un anniversario di un anno, ponendo una sfida logistica per le famiglie e l’esercito
Le funzioni commemorative per i soldati dell’IDF e le vittime del terrorismo uccisi il 7 ottobre sono iniziate domenica, segnando 11 mesi ebraici dall’attacco a sorpresa di Hamas alle città di confine di Gaza. Poiché centinaia di soldati dell’IDF e di civili israeliani sono caduti in quel tragico sabato – la maggior parte prima del tramonto del 22 di Tishrei – le prime commemorazioni si terranno il 22 di Av, da domenica sera a lunedì sera.
Negli anni passati, i rappresentanti dell’IDF e i membri delle unità potevano essere al fianco delle famiglie in questo giorno difficile. Tuttavia, l’infuriare della guerra rappresenta una sfida unica, con scelte difficili da affrontare per i soldati delle unità che hanno subito gravi perdite. Molti non hanno potuto partecipare ai funerali a causa dei combattimenti in corso, e quelli che ora possono partecipare alle commemorazioni devono decidere quale cimitero visitare e quale tomba di un compagno onorare.
Quest’anno, essendo un anno bisestile nel calendario ebraico, vedrà un’impennata di commemorazioni nelle prossime settimane. Alcune famiglie osservano l’anniversario degli 11 mesi, seguito da commemorazioni che segnano un anno dalla morte, mentre altre aderiscono alla tradizione di tenere una commemorazione anche il 13° mese durante un anno bisestile. Alcune famiglie scelgono di tenere tutte e tre le commemorazioni.
“Abbiamo un centro di comando centrale all’interno del Dipartimento vittime dell’IDF, dove gli ufficiali addetti alle vittime si coordinano con le famiglie per stabilire le date preferite”, ha spiegato il tenente colonnello Meital Samet-Cohen, capo della sezione di collegamento con le famiglie dell’IDF.
“Le famiglie comunicano i loro desideri e noi ci coordiniamo con l’Unità per le commemorazioni del Ministero della Difesa, occupandoci di tutto, dagli impianti audio, ai baldacchini, ai trasporti, fino all’organizzazione di un cantore militare per la cerimonia”. E ha aggiunto: “Lavoriamo a stretto contatto con le famiglie per ogni data scelta, comprese quelle che optano per più commemorazioni”.
Per quanto riguarda la situazione attuale, il tenente colonnello Samet-Cohen ha dichiarato: “I rappresentanti delle unità parteciperanno alle commemorazioni, probabilmente dal fronte interno, poiché siamo ancora impegnati in combattimento. Il nostro principio guida è quello di mantenere il legame con l’unità, segnato dal colore del berretto e dalle insegne”.
Il tenente colonnello Samet-Cohen ha anche sottolineato le sfide logistiche, dicendo: “Riceviamo richieste da parte di famiglie in lutto che chiedono che un nipote o uno zio in combattimento partecipi alla commemorazione, e ci mettiamo in contatto con i comandanti per sottolineare l’importanza, come facciamo per i membri dell’unità”. Nonostante le numerose commemorazioni – dovute sia alle gravi perdite che all’anno bisestile – manteniamo standard elevati e forniamo tutto il supporto necessario, il che comporta notevoli sfide logistiche”.
Un problema sollevato è stato quello della programmazione di più commemorazioni nello stesso cimitero. “Per esempio, nella stessa sezione ci sono soldati caduti nello stesso giorno e le loro famiglie hanno chiesto di tenere le commemorazioni alla stessa ora, il che non è ideale”, ha spiegato Samet-Cohen.
“Chiediamo alle famiglie di modificare leggermente l’orario. Il giorno dei funerali, molti si sono svolti in tempi stretti, soprattutto nelle aree a portata di razzo. Oggi, durante i funerali, ci concentriamo sul distanziare gli orari per dare a ogni famiglia il tempo di cui ha bisogno. È un processo delicato e sensibile. I nostri ufficiali addetti alle vittime lavorano 24 ore su 24 con immensa sensibilità, che è molto apprezzata nonostante le sfide”.

(Israele 360, 27 agosto 2024)

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Il Ministro della Sicurezza raccoglie contrasti

Lo Status quo prevede che soltanto i musulmani possono pregare sul Monte del Tempio

GERUSALEMME - Il Ministro della Sicurezza israeliano Itamar Ben-Gvir (Forza ebraica) ha ribadito ancora una volta la sua opinione secondo cui i fedeli ebrei e musulmani hanno gli stessi diritti sul Monte del Tempio. Così come i musulmani possono pregare al Muro del Pianto, lo stesso diritto dovrebbe valere per gli ebrei sul Monte del Tempio. Se potesse, vi costruirebbe sopra una sinagoga, ha dichiarato lunedì alla Radio dell'esercito israeliano.
Ben-Gvir ha anche chiesto: “Perché un ebreo dovrebbe avere paura di pregare? Perché poi Hamas si arrabbierebbe?” Non è vero che si permette di fare tutto quello che vuole sul Monte del Tempio: “Se avessi fatto tutto quello che volevo fare, la bandiera israeliana avrebbe sventolato lì molto tempo fa”. Ma impedire alle persone di pregare è illegale: “Le regole attuali permettono la preghiera sul Monte del Tempio, punto e basta”.
Dopo la conquista del Monte del Tempio da parte degli israeliani nella Guerra dei Sei Giorni, è stato concordato lo status quo: La polizia israeliana è responsabile della sicurezza sul Monte, mentre il Waqf, l'autorità religiosa musulmano-giordana, è responsabile delle questioni religiose. Questo stabilisce che i non musulmani non possono pregare sul Monte del Tempio.

• LINEA DEL GOVERNO: LO STATUS QUO RIMANE INVARIATO
  Le dichiarazioni del ministro sono state immediatamente registrate dall'opposizione: l'Autorità Palestinese (AP) ha definito la richiesta “un invito esplicito a distruggere la Moschea di Al-Aqsa e a sostituirla con un luogo di culto ebraico”. Il Ministero degli Esteri ha invitato gli alleati internazionali a “esercitare pressioni su Israele per costringerlo a porre fine alle pratiche, alle dichiarazioni e agli atteggiamenti provocatori di Ben-Gvir”.
Gli israeliani sono stati più rapidi dell'Autorità palestinese nel presentare le loro critiche: Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu (Likud) ha immediatamente fatto sapere che “non c'è stato alcun cambiamento dello status quo ufficiale sul Monte del Tempio”. Il ministro degli Interni Moshe Arbel, del partito ultraortodosso Shass, ha invitato Netanyahu a licenziare immediatamente il ministro della Sicurezza. La sua “scarsa capacità di pensiero [ted. Mangel an Denkvermögen] potrebbe costarci sangue”. Le richieste di Ben-Gvir sono “irresponsabili e mettono in discussione l'alleanza strategica di Israele con gli Stati musulmani come parte dell'alleanza contro il malvagio asse iraniano”, ha affermato.
Anche Giordania, Egitto e Arabia Saudita hanno commentato l'incidente. La Giordania ha spiegato che il Monte del Tempio è destinato esclusivamente alla preghiera musulmana. Lo Stato prenderà tutte le misure necessarie “per prevenire gli attacchi di Ben-Gvir al Monte del Tempio”.
Il Ministero degli Esteri saudita ha ribadito il suo “categorico rifiuto di queste dichiarazioni estremiste e provocatorie e il suo rifiuto delle continue provocazioni di musulmani in tutto il mondo”.

• DILEMMA: DIVIETO O ALLENTAMENTO?
  Anche la rivista ultraortodossa “Jated Ne'eman” si è dichiarata fortemente in disaccordo con la richiesta. Martedì ha stampato in prima pagina un articolo in arabo che condanna le richieste del ministro. Ha scritto: “Con la sua stupidità, il ministro Ben-Gvir sta mettendo in pericolo gli abitanti della Terra d'Israele”. Inoltre, hanno chiarito: “A nome dei nostri venerati rabbini, dichiariamo pubblicamente: è noto che secondo la legge ebraica, la Halacha, l'ascesa ebraica al Monte del Tempio, a cui i musulmani si riferiscono come ‘complesso di Al-Aqsa’, è rigorosamente vietata a tutte le generazioni. Questo punto di vista non è cambiato e rimane immutato”.
Il Monte è venerato dagli ebrei religiosi come un luogo sacro perché lì sorgevano i due templi ebraici. Molti ebrei religiosi osservano gli antichi divieti rabbinici di visitare il sito. Questo è dovuto al timore di entrare accidentalmente nel “Santo dei Santi”.
Negli ultimi anni, tuttavia, sempre più credenti hanno chiesto di poter pregare anche su quel monte. Secondo l'organizzazione “Bejadenu” (Nelle nostre mani), che lavora per rafforzare i legami ebraici con il Monte del Tempio, circa 50.000 ebrei hanno visitato il Monte del Tempio dall'inizio dell'anno ebraico 5784. 

(Israelnetz, 27 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Davos: ragazzo ebreo aggredito al grido ‘Free Palestine’

Ennesimo atto antisemita in Europa, questa volta accaduto nella cittadina svizzera di Davos: come riporta la RSI, venerdì 23 agosto un ragazzo ebreo residente in Inghilterra sulla Promenade di Davos è stato colpito da due uomini che  hanno gridato più volte “Free Palestine”.
“Mi hanno colpito all’improvviso. Li ho spinti via e sono scappato. Mi hanno seguito, e urlandomi contro “Free Palestine”, mi hanno sputato in faccia”, ha dichiarato il ragazzo, Eli, alla Radio Svizzera Italiana. “All’inizio ero abbastanza perplesso – ha dichiarato il segretario generale della Federazione svizzera delle comunità israelite Jonathan Kreutner -. Non è una cosa che succede spesso in Svizzera. E negli ultimi tempi non ho mai sentito che una cosa così sia successa a Davos.”
La vittima ha sporto denuncia, mentre la polizia per ora non si sbilancia.
Non è la prima volta che nella cittadina svizzera si registrano episodi antisemiti. Nel febbraio di quest’anno un locale del comprensorio sciistico di Pischa, vicino a Davos, aveva appeso alla propria porta il cartello “non si affittano più attrezzature da sci agli ebrei”.

(Bet Magazine Mosaico, 27 agosto 2024)

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Antica pietra del Tempio di Gerusalemme in esposizione

di Michelle Zarfati

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L’archeologia ha spesso il potere di parlarci dal passato. Sei anni dopo essere caduta dal Muro Occidentale, a Gerusalemme, una massiccia pietra del peso di circa 400 chilogrammi (quasi 900 libbre) è stata trasferita per l’esposizione al pubblico. La pietra ora “riposa” accanto ad altri massi caduti nel Giardino Archeologico di Gerusalemme al Davidson Center. Nel 2018, poco dopo la preghiera serale per il giorno del digiuno di Tisha B’Av, la pietra si è staccata dal muro ed è caduta da un’altezza di diversi metri, sulla piattaforma della sezione Ezrat Yisrael vicino alla piazza del Muro Occidentale. Una donna, intenta a pregare è stata testimone di tutta la scena.
  Da allora, la pietra è stata sottoposta a test e ricerche archeologiche approfondite, secondo la Jewish Quarter Reconstruction and Development Company. “Questa pietra, rappresenta una testimonianza importante di migliaia di anni di preghiera, speranza e fede”, ha spiegato il CEO della Jewish Quarter Reconstruction and Development Company Herzl Ben Ari. “Lo studio di questi massi è più di un semplice evento fisico; è un’opportunità per collegare il passato con il presente, apprezzare la ricca storia di questo luogo sacro e preservare la connessione tra le generazioni”.
  Dopo la caduta, l’Israel Antiquities Authority ha condotto un’indagine ingegneristica sulla conservazione dei massi del Muro del Pianto. Che ha poi portato all’esposizione della pietra. Ezrat Yisrael, il sito in cui è caduta la pietra, si trova a sud della piazza centrale del muro ed è riconosciuta come la nota area di preghiera delle donne del Muro Occidentale – parte dell’antico muro di contenimento del Monte del Tempio. D’ora in poi, il masso verrà esposto e sarà visibile assieme a molte altre pietre simili, una testimonianza dal passato di quanto l’area del Tempio di Gerusalemme abbia sempre avuto una forte sacralità per il popolo ebraico.

(Shalom, 27 agosto 2024)

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Sinwar si muove a Gaza vestito da donna: la rivelazione dell’intelligence israeliana

Secondo fonti dell’intelligence israeliana citate dal Daily Express e riprese da i24news, Yahya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza, ha adottato una strategia di sopravvivenza a dir poco inaspettata. L’uomo più ricercato da Israele starebbe camminando per le strade di Gaza travestito da donna, lasciando periodicamente i tunnel sotterranei per evitare di essere individuato.
  Shalom Ben Hanan, ex alto funzionario dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno di Israele), ha spiegato che Sinwar non rimarrebbe nei tunnel per più di 24-36 ore, consapevole del fatto che la tecnologia moderna consente di individuarlo anche sottoterra. Questa tattica di continui spostamenti e camuffamenti sarebbe la sua risposta agli incessanti sforzi di Israele per catturarlo o eliminarlo.
  I servizi segreti israeliani stanno attualmente combinando mezzi tecnologici e intelligence umana per cercare di localizzare Sinwar. Ritengono che si trovi spesso in luoghi visibili, mescolato alla popolazione civile, il che complica notevolmente le operazioni per neutralizzarlo.
  In un articolo, il New York Times ha rivelato un’operazione segreta condotta dalle forze d’élite di Tsahal lo scorso gennaio. Questi commando si sono infiltrati nei tunnel nel sud della Striscia di Gaza nella speranza di catturare Yahya Sinwar. Tuttavia, il leader di Hamas sarebbe riuscito a fuggire poco prima dell’arrivo delle forze israeliane, svanendo nel nulla. Il quotidiano americano conclude con una nota critica: “La sua capacità di sfuggire alla cattura o alla morte ha impedito a Israele di ottenere un successo militare nella guerra”.

(Bet Magazine Mosaico, 26 agosto 2024)

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La scoppola di Israele a Hezbollah cambia tutto

Solo tra qualche giorno potremo avere veramente l'idea di quanto forte sia stata la scoppola inferta da Israele a Hezbollah. Ma già da ora cambia tutto sul fronte nord.

di Maurizia De Groot Vos

Non credo in tutta onestà che ieri ci si sia resi conto delle reali dimensioni dell’attacco preventivo condotto da Israele contro Hezbollah.
I caccia israeliani hanno sorpreso allo scoperto migliaia di lanciatori di ogni tipo, dai razzi katiuscia fino ai pachidermici lanciatori per i missili balistici Petah 110 che – nei piani di Hezbollah – insieme ai droni dovevano essere quella seconda ondata che avrebbe colpito i bersagli designati dopo che migliaia di razzi avevano saturato le difese israeliane.
A Hezbollah sono rimasti circa 300 razzi da lanciare su Israele. Piccola curiosità, tra le poche cose che sono riusciti a colpire c’era un allevamento di polli, fatto questo che ha scatenato l’ilarità sui social, specie da parte araba, che ha prodotto una infinità di meme su “Nasrallah lo sterminatore di polli”.
Il patetico discorso del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, andato in onda ieri sera sulla rete del gruppo terrorista nel quale affermava che l’attacco era stato un successo, è servito solo a confermare quanto grossa fosse stata la sberla ricevuta da Hezbollah.
Parliamo della distruzione di migliaia di lanciatori con relativi equipaggi, anche se Hezbollah parla di soli tre morti. Una pioggia di bombe concentrata in poco tempo come non si era mai vista che non solo ha dimostrato l’efficienza dell’aviazione israeliana, ma soprattutto ha dimostrato la letalità della intelligence di Gerusalemme.  
Ora sul fronte nord cambia tutto. Anche se Nasrallah ha fatto capire che intende muoversi verso una de-escalation, Israele rimane fermo sul punto che Hezbollah si deve ritirare oltre la linea blu delimitata dal fiume Litani.
Non solo, se i terroristi libanesi intendessero riprendere con lo stillicidio di razzi visto dall’8 ottobre ad oggi, si sbagliano di grosso. Israele intende far rientrare le migliaia di sfollati dai villaggi e kibbutz del nord il prima possibile. Il che vuol dire applicazione alla lettera e in tutte le sue componenti della risoluzione 1701 dell’ONU. Spetta a UNIFIL farla rispettare, diversamente lo farà Israele.  

(Rights Reporter, 26 agosto 2024)

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Carenze logistiche nell'IDF: un esercito sotto pressione nel bel mezzo del conflitto

La guerra in corso sta rivelando segni di carenze logistiche all'interno di Tsahal, l'esercito israeliano, sollevando preoccupazioni sulla sua capacità di sostenere le operazioni a lungo termine. Recenti rapporti indicano una carenza di uniformi di tipo B e di veicoli blindati usurati e fatiscenti. Mentre l'esercito sostiene di avere l'85% di controllo dei propri strumenti nelle unità di manovra e che la carenza di uniformi riguarda solo alcune unità, le testimonianze dei soldati sul campo dipingono un quadro molto più preoccupante.
  I prolungati combattimenti a Gaza e nel nord di Israele hanno messo a dura prova le risorse dell'IDF. In molte unità, i soldati si trovano ad affrontare una “economia dei pezzi di ricambio”, in cui la gestione delle risorse sta diventando critica. Tra i problemi più urgenti c'è la mancanza di parabrezza per carri armati e veicoli blindati, essenziali per la sicurezza e l'efficacia delle operazioni militari. Nonostante le rassicurazioni dell'esercito sulla disponibilità di uniformi, molti soldati, in particolare quelli in addestramento, riferiscono di una grave carenza di uniformi B, che a volte li costringe a indossare abiti strappati a causa della mancanza di rifornimenti.
  La situazione è aggravata dalle condizioni sul campo. I soldati impegnati in turni prolungati hanno difficoltà a cambiare le uniformi e alcuni sono costretti a combattere in veicoli blindati i cui sistemi essenziali, come l'aria condizionata, non funzionano più. Questi malfunzionamenti tecnici aggiungono ulteriore stress ai combattenti, che devono operare in condizioni già estremamente difficili.
  Per far fronte a queste sfide, l'IDF ha introdotto una “economia di guerra” volta a dare priorità alla distribuzione dei pezzi di ricambio. Ad esempio, i motori ricondizionati vengono trasferiti in via prioritaria alle unità di manovra di Gaza e del nord, dove sono più urgentemente necessari. L'esercito ha anche abbassato il limite di chilometraggio per i veicoli RCM, cercando di rinnovare le attrezzature più vecchie per rafforzare la capacità di affrontare le minacce attuali.
  Tuttavia, gli ufficiali militari riconoscono che queste misure non sono sufficienti a soddisfare completamente le esigenze logistiche. Un cessate il fuoco a Gaza potrebbe fornire un'opportunità cruciale per aumentare il livello di abilità degli strumenti e delle attrezzature dell'IDF, consentendo di effettuare riparazioni e ristrutturazioni essenziali dopo lunghi mesi di combattimenti. Questa tregua sarebbe fondamentale per ripristinare la piena capacità operativa dell'esercito israeliano e garantirne la prontezza per le sfide future.
  In breve, la situazione logistica dell'IDF sottolinea le crescenti pressioni di un conflitto prolungato. Le attuali carenze, sebbene gestite in modo proattivo, rivelano la fragilità della catena di approvvigionamento militare in tempo di guerra. Il ritorno alla piena efficienza dipenderà non solo dalla fine delle ostilità, ma anche dalla capacità dell'IDF di ripristinare rapidamente le proprie risorse e di adattarsi a un ambiente sempre più complesso ed esigente.

(JForun, 26 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Torino celebra 600 anni di storia ebraica: città capofila della Giornata Europea della Cultura Ebraica 2024

Il 15 settembre, il capoluogo piemontese sarà al centro delle celebrazioni europee con un ricco programma di eventi dedicati al tema della famiglia, tra tradizione e dialogo interculturale

di Caterina Malanetto

TORINO – Domenica 15 settembre 2024, Torino sarà il cuore pulsante della venticinquesima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica#d22d14;">, un appuntamento che coinvolge 27 Paesi europei e ben 106 località italiane. La scelta del capoluogo piemontese come città capofila non è casuale: quest’anno ricorrono infatti i 600 anni dalla nascita della comunità ebraica torinese#d22d14;">, la cui presenza fu attestata per la prima volta nel 1424. Un anniversario che rende ancora più significativo l’evento, che verrà inaugurato simbolicamente a Torino alla presenza delle autorità locali e nazionali.

• UN EVENTO DI PORTATA INTERNAZIONALE
   Coordinata a livello europeo dall’AEPJ (European Association for the Preservation and Promotion of Jewish Culture and Heritage) e in Italia dall’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), la Giornata Europea della Cultura Ebraica è un’occasione per conoscere e apprezzare il patrimonio storico, architettonico e artistico ebraico, e riflettere sul contributo fondamentale che ebrei ed ebraismo hanno dato e continuano a dare alle società in cui vivono.
  L’Italia si distingue come Paese leader dell’iniziativa, vantando la più ampia partecipazione e la maggiore diffusione territoriale in Europa. Questo successo è il frutto di una virtuosa collaborazione tra le Comunità Ebraiche, i Comuni, gli Enti locali e numerose associazioni, che ogni anno rendono possibile la realizzazione di un programma ricco e variegato.

• IL TEMA DEL 2024: LA FAMIGLIA
   Il tema prescelto per l’edizione 2024 è “la famiglia#d22d14;">“, un argomento che verrà declinato attraverso molteplici prospettive artistiche e culturali. Dalle appassionanti storie di famiglia narrate nella Bibbia alle famiglie ebraiche che hanno segnato la storia, la riflessione si allargherà alla concezione ebraica dell’educazione, fondata sulla continuità della tradizione e, al contempo, sulla valorizzazione dell’unicità di ogni individuo.
  Inoltre, la Giornata offrirà l’opportunità di esplorare l’idea biblica e talmudica delle “famiglie della terra”, un concetto che afferma l’uguaglianza di ogni popolo e individuo, tutti figli di un unico Dio, e quindi meritevoli degli stessi diritti fondamentali di libertà, rispetto e solidarietà.
  Questo approccio permetterà di collegare passato e presente, tradizioni e trasformazioni, affrontando temi cruciali per le famiglie contemporanee, come le questioni sociali, etiche e bioetiche. L’obiettivo è tracciare un punto di vista ebraico sulla famiglia, senza dimenticare la pluralità e diversità di tempi, geografie e interpretazioni.

• UN RICCO CALENDARIO DI EVENTI
   Il programma di Torino e delle altre città italiane partecipanti sarà costellato di eventi: conferenze, mostre, spettacoli, visite guidate e laboratori permetteranno ai visitatori di immergersi nella cultura ebraica, esplorando sia le sue radici storiche sia la sua influenza contemporanea.
  Tra le iniziative di rilievo, spicca il progetto “Itinerari Culturali Ebraici in Emilia Romagna#d22d14;">”, realizzato dall’Enciclopedia Treccani in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Questo progetto mira a valorizzare le località emiliane che partecipano alla Giornata, promuovendo la conoscenza del ricco patrimonio ebraico della regione.

• TORINO E LA SUA EREDITÀ EBRAICA
   Torino è stata scelta come città capofila anche per il ruolo centrale che la comunità ebraica ha rivestito nel tessuto sociale e culturale della città. Sin dal XV secolo, la presenza ebraica ha contribuito a plasmare l’identità del capoluogo piemontese, arricchendolo con un patrimonio culturale, architettonico e intellettuale di grande valore.
  La Sinagoga di Torino#d22d14;">, situata nel cuore della città, è uno dei simboli di questa eredità, così come il Cimitero Monumentale Ebraico#d22d14;">, testimonianza della lunga storia della comunità. Durante la Giornata, questi luoghi saranno aperti al pubblico, offrendo l’occasione di scoprire storie, tradizioni e monumenti che raccontano secoli di vita ebraica a Torino.

• UN'OCCASIONE DI DIALOGO E INCONTRO
   La Giornata Europea della Cultura Ebraica si fonda sulla convinzione che la disponibilità a conoscere e riconoscere l’altro sia il principale strumento per contrastare vecchi e nuovi stereotipi. Attraverso la promozione del dialogo interculturale, l’evento rappresenta un’opportunità per rafforzare i legami tra le diverse comunità e per costruire una società più inclusiva e solidale.
  Con la sua lunga storia e la sua ricchezza culturale, Torino sarà il palcoscenico ideale per questa giornata di celebrazione, riflessione e incontro, un’occasione unica per riscoprire il valore dell’identità ebraica e il suo ruolo cruciale nella nostra storia comune.

(Quotidiano Piemontese, 26 agosto 2024)

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Johnson & Johnson acquista l’israeliana V-Wave per curare il cuore

È una delle “exit” meglio pagate nella storia delle startup israeliane. Il colosso farmaceutico Johnson & Johnson ha annunciato l’acquisto dell’israeliana V-Wave, specializzata nella produzione di apparecchi biomedici per il trattamento dell’insufficienza cardiaca e dell’ipertensione polmonare, per la cifra di 1,7 miliardi di dollari. Al centro dell’acquisizione c’è un piccolo impianto, frutto di oltre due decenni di ricerca. “Questa tecnologia aiuta a trattare i pazienti con insufficienza cardiaca riducendo la pressione nell’atrio sinistro, migliorando i sintomi clinici come la mancanza di respiro dei pazienti”, ha affermato Gadi Keren, l’ex direttore del dipartimento di cardiologia dell’ospedale Ichilov di Tel Aviv e sviluppatore del dispositivo. Come racconta la Tribune Juive, “la sua a messa a punto ha richiesto più di un decennio di ricerche, tra cui la sperimentazione animale conclusa nel 2013 e un primo impianto sull’uomo in Israele. Ciò che rende questo successo particolarmente notevole è l’impegnativo percorso normativo che V-Wave ha seguito:.la società ha preso la via di aiuto anticipato della Food & Drugs Administration degli Stati Uniti, nota per essere molto rigorosa per i dispositivi medici”.

(moked, 26 agosto 2024)

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Un bombardamento preventivo di Israele scongiura il massiccio attacco pianificato da Hezbollah

di Ugo Volli

• LA MINACCIA
   Fiammata di guerra al Nord. Dopo più di tre settimane dall’eliminazione del suo numero due, Fouad Sukar, avvenuta a Beirut il 30 luglio, e l’annuncio continuamente ripetuto di una prossima “terribile vendetta”, il movimento terrorista Hezbollah ha provato a mantenere la minaccia. La notte scorsa ha messo in posizione di lancio molte migliaia di missili e centinaia di droni, che avevano per obiettivo le città di Israele e a quanto pare in particolare le sedi di Tel Aviv del comando dell’esercito e del Mossad. Israele però ha dimostrato ancora una volta di avere fonti di informazione in profondità nei comandi di Hezbollah e inoltre possiede avanzatissimi strumenti tecnologici di osservazione perennemente puntati sull’apparato terrorista in Libano. Ha quindi compreso perfettamente in anticipo la minaccia e ha reagito secondo piani ben predisposti in anticipo, da un lato allertando la popolazione civile e sospendendo per qualche ora le operazioni all’aeroporto Ben Gurion, dall’altro bombardando massicciamente le rampe di lancio di Hezbollah.

• L’AZIONE
   Come comunicano le fonti militari in Israele, circa cento jet da combattimento delle forze aeree israeliane si sono alzati all’alba e hanno colpito e distrutto migliaia di lanciarazzi di Hezbollah che si trovavano nel Libano meridionale. La maggior parte di questi lanciatori erano puntati verso il nord di Israele e alcuni verso il centro di Israele. Più di quaranta aree di lancio in Libano sono state colpite durante gli attacchi. Circa seimila razzi, droni e lanciatori che Hezbollah aveva pianificato di lanciare contro Israele sono stati distrutti. Si stima che Hezbollah sia riuscito finora a sparare in tutto 210 missili e una ventina di droni, senza provocare danni gravi o vittime. L’organizzazione terroristica ha affermato prima che erano attese ondate aggiuntive, poi ha sostenuto che Israele non era riuscito a impedire la sua vendetta, che ora era compiuta.

• LA DICHIARAZIONE DI NETANYAHU
   Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha aperto la riunione del gabinetto politico-di sicurezza nella sede dei comandi militari a Tel Aviv, facendo riferimento all’attacco preventivo. “Stamattina abbiamo identificato i preparativi di Hezbollah per attaccare Israele. In accordo con il ministro della Difesa e il capo di stato maggiore delle forze armate, abbiamo ordinato all’aeronautica di avviare un’azione per eliminare la minaccia”, ha detto Netanyahu. “Abbiamo intrapreso potenti azioni per sventare le minacce, eliminando migliaia di razzi che erano diretti verso il nord di Israele. Siamo determinati a fare tutto il possibile per difendere il nostro Paese, per far tornare i residenti del nord nelle loro case in sicurezza e per continuare a sostenere una semplice regola: chiunque ci faccia del male, noi gli faremo del male”.

• UNA VITTORIA SIGNIFICATIVA
   Riaperto l’aeroporto Ben Gurion, normalizzata la situazione nelle città, ritornati alla base gli aerei israeliani, questo scambio di colpi sembrerebbe concluso con una netta vittoria israeliana. L’incapacità di Hezbollah di portare danni in Israele, anche per rappresaglia a un colpo importante come l’uccisione di Sukar, va al di là delle più ottimistiche previsioni. Israele si è potuto difendere da solo, senza far ricorso all’aiuto delle forze americane nella regione e ha potuto mostrare l’efficacia e la legittimità della sua azione preventiva. Gli obiettivi colpiti sono esclusivamente militari e non dovrebbero poter essere usati nella campagna di delegittimazione contro lo stato ebraico – mostrando così anche la precisione tecnica delle armi israeliane e il livello elevato delle sue informazioni sul nemico. La propaganda di Hezbollah e dell’Iran sulla vendetta si è risolta in un’azione debole e fallimentare, che rafforza per contrasto il prestigio delle forze armate israeliane e la loro capacità di deterrenza.

• LE PROSPETTIVE
   Ci sono ora due possibilità per i nemici di Israele. O l’asse terrorista incassa una nuova sconfitta e non compie ulteriori azioni aggressive, o prova a reagire rilanciando la minaccia, il che porterebbe a un’escalation, fino alla guerra regionale da molti temuta. Per il momento i segnali vanno nella prima direzione. Israele dal canto suo non vuole che il conflitto si estenda, ma non può accettare che vaste aree della Galilea siano ancora sotto la minaccia continua di Hezbollah e quindi ha la necessità di colpire ancora le armi e l’organizzazione terroristica e di allontanarla dai propri confini. Continuerà quindi a colpire le strutture e le truppe, in particolare i comandanti del gruppo terrorista, ma probabilmente senza continuare il livello di intensità di oggi.

(Shalom, 25 agosto 2024)

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Non imitate i gentili, nella vanità della lor mente

di Marcello Cicchese

EFESINI, cap. 4:

  1. Questo dico adunque, e protesto nel Signore, che voi non camminiate più come camminano ancora gli altri gentili, nella vanità della lor mente;
  2. intenebrati nell'intelletto, alieni dalla vita di Dio, per l'ignoranza che è in loro, per l'induramento del cuor loro.
  3. I quali, essendo divenuti insensibili ad ogni dolore, si sono abbandonati alla dissoluzione, da operare ogni immondizia, con insaziabile cupidità.
  4. Ma voi non avete così imparato Cristo;
  5. se pur l'avete udito, e siete stati in lui ammaestrati, secondo la verità che è in Gesù:
  6. di spogliare, quant'è alla primiera condotta, l'uomo vecchio, il qual si corrompe nelle concupiscenze della seduzione;
  7. e d'essere rinnovati per lo Spirito della vostra mente;
  8. e d'esser vestiti dell'uomo nuovo, creato, secondo Iddio, in giustizia, e santità di verità.

La traduzione del testo qui riportato è tratta dalla Bibbia di Giovanni Diodati, che fino alla prima metà del secolo scorso era la traduzione largamente più usata nel mondo evangelico italiano. La usiamo qui non perché sia l’unica, autentica versione italiana ispirata, ma per volgere l’attenzione su termini ed espressioni ora poco usate, ma appunto per questo capaci di attirare l’attenzione sul loro significato. Chi vuole, può confrontare questo testo con quello ora più usato della Nuova Riveduta.
Si può subito fissare l’attenzione sul termine adunque, da cui si capisce che le esortazioni morali che seguono vanno viste come una conseguenza della possente esposizione dottrinale che l’apostolo Paolo ha fatto nei capitoli precedenti. Paolo parla a persone che sono state ammaestrate secondo la verità che è in Gesù, dunque è una trattazione di moralità che procede dalla divina verità, non un moralismo generico prodotto da umana ideologia.
Paolo si rivolge a chi conosce e ha accettato la verità esposta nei capitoli precedenti, ma il suo dire può essere utile anche a chi non li conosce ancora, perché chi è davvero in una posizione di ricerca, è bene che sappia subito qual è il gusto della verità esposta nella Bibbia. Perché se non è di suo gusto deve essere libero di rivolgersi altrove, senza però avere la libertà di evitarne le conseguenze.
Risalta subito l’espressione altri gentili, che in altre edizioni è tradotta con “pagani”. E’ un’incertezza collegata al termine greco “etnos”. Chi sono gli “etnici” del Nuovo Testamento? Sono i generici non credenti in Gesù (pagani) o i non ebrei (gentili)? La domanda è tutt'altro che oziosa, perché da come si traduce possono scaturire diversi significati.
In questo testo la Diodati traduce altri gentili, anche se il termine altri non compare nell'originale, ma è per sottolineare che si intendono i gentili altri, cioè quelli che essendosi convertiti a Cristo hanno preso le distanze dai costumi depravati dei loro simili che si rotolano in ogni immondizia, con insaziabile cupidità. Non è così che avete imparato Cristo, ricorda Paolo. I gentili infatti hanno dovuto imparare che esiste un Messia, perché non lo sapevano; gli ebrei invece lo sapevano, e anche se molti di loro non avevano riconosciuto in Gesù il Messia promesso dai profeti, sapevano perfettamente che la legge di Mosè non avrebbe mai approvato i costumi qui descritti dall'apostolo. Non avevano dunque bisogno di raccomandazioni così forti, proprio come oggi non è necessario raccomandare a ebrei ultraortodossi di non partecipare a licenziose manifestazioni gay pride o a idolatrici festival psy-trance, perché lo sanno già, e infatti non vi partecipano. Anche se non credono in Gesù.
Nelle traduzioni si riconosce una linea di tendenza costante: più sono moderne, più si attenuano in esse i riferimenti all'ebraicità del testo. Il concreto si evolve in astratto e lo storico in universale. Ecco un esempio di traduzione molto moderna: "Vi prego, dunque, anzi vi scongiuro nel nome del Signore: non vivete più come quelli che non credono in Dio, con i loro pensieri vuoti e confusi!" Gli etnici sono diventati quelli che non credono in Dio e i dissoluti che si rotolano nell’immondizia sono persone con pensieri vuoti e confusi, senza riferimento a storia e costumi.
Molto meglio si presenta la vecchia traduzione cattolica del Martini: "Questo adunque io dico, e vi scongiuro nel Signore, che non camminiate più, come camminano le nazioni nella vanità de' loro pensamenti". Qui gli etnici sono le nazioni, in chiara opposizione a ciò che sono gli ebrei.
La distinzione tra ebrei e gentili, espressione della differenza tra Israele e le nazioni, si risolve nella realtà storica del Messia Gesù, ed è presente dall’inizio alla fine nella lettera agli Efesini. Valga per tutti un brano del capitolo 2, riportato appositamente nella versione Diodati:

  1. Perciò, ricordatevi che già voi gentili nella carne, che siete chiamati incirconcisione da quella che è chiamata circoncisione nella carne, fatta con la mano;
  2. in quel tempo eravate senza Cristo, alieni dalla cittadinanza d'Israele, e stranieri de' patti della promessa, non avendo speranza, ed essendo senza Dio nel mondo.
  3. Ma ora, in Cristo Gesù, voi, che già eravate lontani, siete stati approssimati per il sangue di Cristo.
  4. Perciocché egli è la nostra pace, il quale ha fatto de' due popoli uno; e avendo disfatta la parete di mezzo che facea la separazione,
  5. ha nella sua carne annullata l'inimicizia, la legge de' comandamenti, posta in ordinamenti; acciocchè creasse in sé stesso i due in un uomo nuovo, facendo la pace;
  6. e li riconciliasse amendue in un corpo a Dio, per la croce, avendo uccisa l'inimicizia in sè stesso.
  7. Ed essendo venuto, ha evangelizzato pace a voi che eravate lontani, e a quelli che eran vicini.
  8. Perciocché per esso abbiamo gli uni e gli altri introduzione al Padre, in uno Spirito.

Quelli che qui sono i gentili nella carne in altre traduzioni diventano gli stranieri di nascita, ma sono sempre i soliti etnici, che secondo i casi sono presentati come stranieri o pagani, senza riferimento esplicito a ciò a cui si oppongono: gli ebrei come cittadini di Israele.
Può sembrare una raffinatezza esegetica, ma la dissolvenza della distinzione tra ebrei e gentili nella lettura del Nuovo Testamento o, peggio ancora, il mescolamento confuso dei due termini, può alterare in modo serio la comprensione della persona di Gesù nella sua dimensione storica e salvifica.
Questo avviene in modo particolare nella spiegazione dei Vangeli, i testi più noti e più maltrattati del Nuovo Testamento; e in modo ancora più particolare nella spiegazione di quel testo estremamente sensibile che è il Sermone sul Monte (Matteo cap. 5,6,7). Nel limitato contesto di questo articolo ci limitiamo a poche dichiarazioni schematiche sul Sermone sul Monte (SM):

  1. Il SM è storia, non morale universale.
  2. Il SM è storia di Israele, particolare nazione distinta dalle altre nazioni
  3. Il SM è il discorso programmatico con cui il Messia di Israele si presenta al suo popolo.

I primi ascoltatori a cui Gesù rivolge il suo messaggio sono evidentemente cittadini di Israele. Il fatto che la storia del Messia sulla terra si sia conclusa con la sua morte, la sua risurrezione, la sua ascesa al cielo, con tutte le conseguenze eterne riportate nei testi del Nuovo Testamento, permette ai credenti di ogni provenienza di ritornare su quel testo e riconoscervi, per l'azione dello Spirito Santo, la voce di Gesù che ora siede alla destra del Padre, ma questo non autorizza a cancellare Israele nella spiegazione storica di quelle parole.
Prendiamo a esempio un passaggio molto caro ai credenti di ogni epoca:

    Non siate dunque in ansia, dicendo: "Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?" Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno (Matteo 6:31-34, NR).

Anche qui compaiono i pagani. Chi sono? Il termine è sempre lo stesso: etnos, che in altri casi nella Nuova Riveduta viene tradotto con stranieri, che sostituisce quello che nella vecchia Riveduta era tradotto con gentili. Si noti: col passar del tempo la traduzione si allontana sempre più dal riferimento a Israele: i gentili diventano stranieri e questi in qualche caso diventano pagani.
I gentili invece ci sono ancora nella Nuova Diodati:
"Poiché sono i gentili quelli che cercano tutte queste cose; il Padre vostro celeste, infatti, sa che avete bisogno di tutte queste cose";
e in tre "antiche" traduzioni cattoliche;
Ricciotti: "Sono i gentili che cercan tutto ciò, mentre il Padre vostro sa che n'avete bisogno";
Tintori: "Tutte queste cose preoccupano i gentili; or il Padre vostro sa che avete bisogno di tutto questo";
Martini: "Imperocché tali sono le cure de' gentili. Ora il vostro Padre sa, che di tutte queste cose avete bisogno".
La scelta di preferire in questo passaggio il termine pagani nasconde il fatto che Gesù, rivolgendosi ai cittadini di Israele, abbia voluto dire di non imitare i gentili, cioè i non ebrei, che essendo senza speranza e senza Dio nel mondo, sono condannati a chiedersi con ansia: "Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?" Ai suoi connazionali Gesù ricorda che loro hanno un Padre celeste che si prende cura di chi lo conosce e lo teme, secondo la parola della Scrittura che hanno ricevuta: "Come un padre è pietoso verso i figli, così è pietoso il Signore verso quelli che lo temono" (Salmo 103:13). Ed è per questo che li invita a pregare: "Padre nostro, che sei nei cieli, ecc." (Matteo 6:9-13).
A ciò si aggiunge che l'esortazione a "cercare prima il regno e la giustizia di Dio" (Matteo 6:33) acquista il suo pieno significato all'interno della storia di Israele, che dunque in nessun caso può essere trascurata per far posto a generiche raccomandazioni di natura morale.
Nella lettera ai Romani la distinzione tra ebrei e gentili è presentata in termini di giudei e greci. La caratteristica negativa principale dei gentili, frutto di ignoranza e idolatria, è proprio la depravazione morale a cui Dio li ha abbandonati (Romani 1:24-31). La caratteristica negativa degli ebrei invece è diversa. Paolo si rivolge al singolo giudeo per fargli notare che sì, è vero, lui ha ricevuto la legge di Dio, la conosce, la insegna, ma... non la osserva (Romani 2:17-24). Per concludere che "tutti, Giudei e Greci, sono sotto il peccato" (Romani 3:9), e tutti, indipendentemente dalla legge, possono essere giustificati da Dio stesso mediante la fede in Gesù Cristo (Romani 3:21-31).

CONSIDERAZIONI ATTUALI

• Ebrei e non ebrei
   Volendo trarre una prima impressione di carattere umano dalla distinzione fin qui fatta tra ebrei e gentili, non si direbbe che i primi si presentino più “cattivi” dei secondi. Uso appositamente questo termine poco teologico perché spesso quello che sottende a riflessioni apparentemente oggettive dei gentili sugli ebrei è proprio un viscerale sentimento di misurazione della cattiveria. Sono bravi, certo - si pensa - però prima o poi il loro carattere viene fuori: sono duri, vendicativi. Perché loro hanno la legge mosaica, la legge del taglione: vendetta, vendetta, vendetta. Oggi i gentili pensano di trovare una conferma in quello che sta avvenendo a Gaza: inorridiscono per quello che i palestinesi stanno subendo dagli ebrei a Gaza, ed emettono su di loro un severo giudizio accusatorio nel nome di una universale moralità a cui gli ebrei sembrano incapaci di arrivare. Attenzione, chi pensa così, o chi soltanto rumina così nel sottofondo della sua mente, considera gli ebrei una categoria umana inferiore, non in termini di biologia, ma di umana moralità. Questa base di antisemitismo morale potrebbe spiegare l’estensione, l’intensità e la gratuità dell’odio diffuso contro gli ebrei: perché sarebbero esseri moralmente deficitari da cui i “normali” umani si sentono minacciati.
Chiamo “antisemitismo teologico” questo tipo di odio sociale perché si ricollega a Dio e al suo Avversario. E’ la ragione per cui queste “considerazioni attuali” sono precedute da riflessioni di carattere biblico, anche perché da questo vago umore antisemita possono essere colpiti anche i cristiani. Anche i cristiani evangelici.
Va detto allora che il Dio della Bibbia non presenta il suo popolo come particolarmente malvagio, se messo a confronto con gli altri popoli. Israele è stato traditore, adultero, di collo duro, ribelle, ma rispetto a Dio, nel confronto con quella Parola che ha avuto l’onore di ricevere in esclusiva, ma non è più malvagio degli altri popoli. E’ vero il contrario. E questo è dovuto proprio al fatto di aver ricevuto e custodito, sia pur malamente, quella parola della legge che hanno ricevuta da Dio al Sinai. Quindi va detto una volta per tutte, in modo semplice e chiaro: gli ebrei non sono soltanto i più bravi tra gli uomini, sono anche i più buoni. Punto.
Molti alzeranno le sopracciglia, ma i cristiani evangelici che potrebbero avere su questo dubbi dottrinali possono essere rassicurati: nessuno va in paradiso per la sua bontà, nemmeno gli ebrei. I passi biblici commentati sopra sono lì a ricordarlo.
La dichiarazione dunque merita di essere spiegata e soppesata bene, ma in ogni caso va mantenuta. Con la stessa chiarezza e determinazione con cui altri insistono a dire che gli ebrei sono i più cattivi.

• Ebrei e altri ebrei.
   Dopo aver detto qualcosa sul dualismo ebrei-gentili in fatto di moralità, si può provare a dire qualcosa sul dualismo laici-religiosi che bolle nella pentola israeliana. Chi sono i più buoni? Candida domanda volutamente ingenua.
In forma schematica presentiamo i due ideali campioni estremi intorno a cui si raccolgono, in varie graduazioni, i componenti dei due schieramenti: l'ultraortodosso e il laico integrale. Il primo fa dipendere la sua vita e quella della sua nazione dal Dio di Israele; il secondo esclude ogni dio dalla sua vita personale e vorrebbe vederlo escluso da Israele anche come nazione.
Al campione ultraortodosso si potrebbe applicare quello che dice l'apostolo Paolo al giudeo:

    Ecco, tu ti chiami Giudeo, ti fondi sulla legge e ti glori in Dio,  conosci la sua volontà e distingui le cose importanti, essendo ammaestrato dalla legge,  e sei convinto di essere guida di ciechi, luce di quelli che sono nelle tenebre,  istruttore degli insensati, insegnante dei bambini, avendo la forma della conoscenza e della verità nella legge (Romani 2:17-20);

e chiedergli poi se le cose che dice di fare alla gloria di Dio, poi le fa davvero.
Ma il campione laico, a chi potrebbe essere paragonato? Dice di non credere in Dio, o comunque di non far dipendere la sua vita da nessun eventuale dio. Dunque i laici, direbbe Paolo, sono "senza speranza e senza Dio nel mondo" (Efesini 2:12), proprio come i gentili, di cui poco dopo dice che

    "... camminano nella vanità della lor mente; intenebrati nell'intelletto, alieni dalla vita di Dio, per l'ignoranza che è in loro, per l'induramento del cuor loro. I quali, essendo divenuti insensibili ad ogni dolore, si sono abbandonati alla dissoluzione, da operare ogni immondizia, con insaziabile cupidità" (Efesini 4:17-19).

Dunque, se sul piano della condotta morale i religiosi corrono il rischio di inorgoglirsi, essere legalisti, imporre precetti asfissianti nel nome del Dio di Israele, sullo stesso piano morale i laici corrono il rischio di assomigliare tremendamente ai gentili nella vanità della lor mente, nella libertina dissolutezza, nella depravazione dei costumi nel nome del dio di questo mondo decaduto e corrotto.
Sono rischi, non è detto che avvenga così, ma è serio chiederselo.
Ma che dire dall’esterno? Che opinione avere di quello che avviene oggi in Israele, come gentile che storicamente ha imparato il Messia dagli ebrei? Dico allora che se proprio dovessi dire la mia, se fossi costretto a scegliere tra gli ortodossi che mi tirano le pietre se faccio il nome di Gesù davanti a loro e i laici che vogliono convincermi ad applaudire i gay pride e a partecipare ai festival psy-trance, sceglierei senza esitazione i primi.

(Notizie su Israele, 25 agosto 2024


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Israele colpisce obiettivi iraniani e di Hezbollah in Siria

Il ministero della Difesa siriano ha accusato Israele di aver effettuato attacchi aerei su diversi siti nel centro del Paese nella notte di venerdì.
“Alle 19:35 circa (1635 GMT), il nemico israeliano ha lanciato un’aggressione aerea dalla direzione del Libano settentrionale, prendendo di mira diversi siti nella regione centrale”, ha dichiarato, aggiungendo che sette civili sono rimasti feriti.
Una fonte sul posto ha dichiarato che gli attacchi aerei israeliani in Siria, diretti contro le posizioni dell’esercito e del suo alleato libanese Hezbollah, hanno ucciso tre combattenti sostenuti dall’Iran.
“Gli attacchi israeliani hanno finora ucciso tre combattenti filo-iraniani e ne hanno feriti altri 10”, ha detto la fonte.
Sempre secondo la fonte gli attacchi hanno preso di mira “stazioni di rifornimento di fortuna affiliate a Hezbollah nella campagna di Homs, e hanno colpito depositi di armi appartenenti al gruppo e due siti dell’esercito siriano nella campagna di Hama”.
Dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, Israele ha effettuato centinaia di attacchi nel Paese, colpendo principalmente l’esercito e i suoi alleati sostenuti dall’Iran.
I raid si sono intensificati dopo che l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre ha scatenato la guerra a Gaza, poi si sono attenuati dopo che un attacco del 1° aprile, attribuito a Israele, ha colpito un edificio consolare iraniano a Damasco uccidendo due generali della Guardia rivoluzionaria.
Le tensioni sono tornate a salire dopo l’uccisione di due alti combattenti sostenuti dall’Iran il mese scorso, un fatto che ha scatenato minacce di rappresaglia da parte di Teheran e dei suoi alleati, che hanno incolpato Israele.
Le autorità israeliane raramente commentano i singoli attacchi in Siria, ma hanno ripetutamente affermato che non permetteranno all’Iran di espandere lì la propria presenza.

(Rights Reporter, 24 agosto 2024)

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La gioiosa festa ebraica di Purim

Ieri abbiamo parlato di Ephraim Kishon, notando con rammarico che di questo autore non si trovano libri tradotti in italiano. Anche nella speranza che un giorno si trovi qualcuno disposto a farlo, presentiamo qui la traduzione dal tedesco di un breve scorcio del libro “Drehen Sie sich um, Frau Lot!” (Si volti, signora Lot!).

La festa ebraica più gioiosa è Purim, che commemora il trionfo della regina Ester sul malvagio Haman. È l'unica volta nella nostra storia che un antisemita viene impiccato prima che avvenga il pogrom. Questo evento unico viene festeggiato dai nostri bambini facendo un enorme rumore, rivolto direttamente ai timpani dei genitori. I bambini possono fare tutto quello che vogliono a Purim. Si vestono da adulti, si comportano di conseguenza e causano molti spiacevoli incidenti.
  Ricordo fin troppo bene una di queste tradizionali feste di carnevale con i bambini che invadono le strade. Un amore caldo, totalizzante e assolutamente globale per l'umanità si è acceso in me quando ho visto tanti vivaci monelli scatenarsi sotto il sole dorato. Il mio cuore batteva forte al pensiero che queste figure in filigrana dai costumi colorati sono tutti bambini ebrei che si godono la vita. Ogni tanto mi fermavo ad accarezzare i capelli di un piccolo sceriffo, a chiacchierare con un osservatore delle Nazioni Unite di tre anni o a salutare un pilota a forma di Pollicino. Sono rimasto particolarmente colpito da un piccolo poliziotto che, con la sua uniforme blu copiata nei minimi dettagli, aiutava i suoi colleghi adulti a controllare il traffico a un incrocio di Dizengoff Boulevard. Sono rimasto lì a guardarlo per minuti, affascinato.
  Alla fine si gira verso di me: “Vada avanti, signore, vada avanti”, dice con faccia impassibile. “Perché? Mi piace molto stare qui!” e gli faccio l'occhiolino sorridendo. “Adonì (signore)! Non mi contraddica!” “Ora mi fai davvero paura. Vuoi imprigionarmi, vero?” Il poliziotto in miniatura arrossisce infastidito fino alle orecchie: “La sua carta d'identità, la sua carta d'identità!” cinguetta. “Eccola qui, tesoro. Serviti pure!” E gli porgo due biglietti del cinema che avevo trovato nella borsa. “Cosa diavolo dovrei fare con questi?” Ormai non ce la faccio più, lo prendo tra le mie braccia e gli chiedo dove abitano i suoi genitori per poterlo portare a casa quella sera. Ma il mio piccolo amico si offende; nemmeno la gomma da masticare che gli ho comprato da un ambulante lo calma. E quando gli pizzico le guance rosee, tira fuori un fischietto e lo fa suonare. Poco dopo arriva la macchina della polizia a sirene spiegate. Mi arrestano e mi portano alla stazione di polizia più vicina, dove sono messo in custodia per comportamento scorretto verso un funzionario in servizio. Il ragazzo era un vero poliziotto.

(Notizie su Israele, 24 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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"La lista di proscrizione". Il nuovo Pci scheda i sostenitori di Israele. Ci sono Funaro e Carrai

Sul suo sito il partito elenca persone e aziende ’amici’ dello Stato ebraico. La replica di Fdi: "Una incitazione razzista alla violenza inaccettabile". Il console onorario: "Questa ‘minaccia’ non fermerà il mio operato".

"La sinistra del (nuovo) Partito Comunista arriva a stilare liste di proscrizione contro ebrei e amici di Israele. Imprenditori, decine di giornalisti e politici di vari schieramenti, tra cui la senatrice di Fratelli d’Italia Ester Mieli, sono additati come i nemici contro cui scagliarsi. Una incitazione razzista alla violenza inaccettabile, con tanto di obiettivi in carne ed ossa identificati". Lo scrive sui social il responsabile Organizzazione di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli. Il riferimento è a un documento prodotto dal (nuovo) Partito Comunista dal titolo ’Sviluppare la denuncia e la lotta contro organismi e agenti sionisti in Italia’. Politici, giornalisti, intellettuali, imprenditori, manager e non solo. Il portale del nuovo Partito Comunista Italiano ha pubblicato una lista con i personaggi famosi italiani che hanno pubblicamente sostenuto Israele.
   Tra i tanti nomi, come quelli di John Elkann, Ester Mieli, Gabriele Albertini, Claudio Lotito, alla voce "sionisti esponenti di partiti politici delle larghe intese o rappresentanti di fondazioni ed enti pubblici o associazioni attivi nel sostegno alle iniziative dello Stato sionista d’Israele", compare anche Sara Funaro. Poco sotto, al punto "società medico-sanitarie israeliane attive in Italia ed esponenti che dirigono, posseggono quote", c’è invece Marco Carrai.
   La pubblicazione ha sollevato una condanna bipartisan. Con Donzelli che scrive: "Difenderò sempre il diritto di Israele di esistere in sicurezza e sarò sempre avversario di comunisti e antisemiti". Anche Carrai commenta l’accaduto: "Il nuovo Partito comunista italiano lancia liste di proscrizione per scatenare la caccia all’ebreo? È quello che sembra emergere con evidenza da un loro comunicato dove invitano a ‘sviluppare la denuncia e la lotta contro organismi e agenti sionisti in Italia’ e fanno un lungo elenco di persone, tra cui giornalisti, politici, imprenditori, e di società a vario titolo legate ad Israele e che secondo gli estensori sarebbero prova che ‘entità sionista è parte integrante del sistema di potere della Repubblica Pontificia".
   E ancora: "Essere inseriti in questo elenco - continua Carrai - conferma la necessità delle battaglie che da sempre porto avanti e certo questa ‘minaccia’ non fermeranno il mio operato".
   Dura anche la critica del Pd: "È l’ennesimo episodio di una lunga serie di atti antisemiti che ci riportano a tempi molto bui della storia dell’Europa. Solidarietà alle persone e alle organizzazioni coinvolte. Presenteremo una interrogazione alla Camera (tra i firmatari il deputato dem Federico Gianassi), al Senato e al Parlamento europeo per chiedere tutela per le persone coinvolte e per avere certezza che il ministero dell’Interno stia agendo immediatamente e con fermezza per perseguire i responsabili di quella lista e per arginare i crescenti fenomeni di antisemitismo", commentano i dem Ascani, Carè, De Luca, Fassino, Stefano Graziano, Guerini, Madia, Porta, Provenzano, Quartapelle, Alfieri, Camusso, Crisanti, Franceschini, Giacobbe, Malpezzi, Sensi, Zampa, Picierno.

(La Nazione, 24 agosto 2024)

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Enzo Sereni, partigiano anti-nazista che scelse Israele

Ottant’anni fa moriva, ucciso a Dachau, l’intellettuale romano. Fondò un kibbutz nella Palestina mandataria ma volle tornare in Europa per combattere il Reich

di Mirella Serri

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Il kibbutz Ghivat Brenner

Le baracche nel lager nel quartiere di Gries-San Quirino, a Bolzano, erano ancora in fase di allestimento quando Samuel Barda vi arrivò il 25 agosto 1944. Quella data segnò per Enzo Sereni, questo il vero nome di Barda, l’inizio della fine: di lì a poco venne trasferito in un luogo per lui del tutto sconosciuto, Dachau. Le torrette del campo che si delinearono all’orizzonte apparvero spaventose ai prigionieri. «Il capo-lager venne con un elenco e chiamò Barda, capitano paracadutista inglese», racconta un sopravvissuto. «Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia e questo capitano, alto un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze».
Il 17 novembre 1944 al “capitano” fu ordinato di cambiare cella, avvertendolo di non portare con sé la propria coperta perché ne potesse usufruire il nuovo inquilino. Il giorno successivo venne fucilato. Ricorrono adesso gli 80 anni dalla scomparsa dell’antifascista catturato dai nazisti della Todt nei pressi di Lucca dopo che si era lanciato dall’aereo. Enzo, che aveva trascorso tanti anni all’estero, ora voleva dar man forte alla Resistenza: Sereni-Barda fu uno dei primi ebrei italiani a trasferirsi in Palestina e a dar vita al kibbutz Givat Brenner.
Era un intellettuale, un agente segreto, un pacifista intransigente e divenne un pioniere del sionismo socialista. L’esperienza di Sereni fu unica nella storia della lotta al nazifascismo. Forse anche per questo oggi il suo nome non occupa il posto che merita nelle pagine di storia. Come i suoi fratelli, Enrico e il più noto Emilio, antifascista e futuro senatore comunista, Enzo era nato a Roma in una famiglia borghese. Suo padre era il medico di Vittorio Emanuele III e suo zio Angelo era presidente della comunità ebraica romana.
Appena il regime si insediò al potere Enzo, ancora studente, intuì che l’aria stava diventando mefitica per chi teneva alla libertà. Laureato in filosofia, con gli amici Carlo e Nello Rosselli cominciò a coltivare il sogno di una “democrazia agraria” da realizzare in Palestina. Dopo la promessa di Lord Balfour di dare vita a un “focolare ebraico” e di destinare parte del territorio palestinese agli insediamenti ebraici, Enzo riteneva che fosse necessario rimediare «all’ingiustizia perpetrata nei confronti dei fratelli arabi».
Era un socialista riformista e pensava che incentivando lo sviluppo economico si sarebbero realizzate nuove forme di convivenza tra arabi ed ebrei. Addio dunque ai dotti studi e ai libri: poco più che ventenne, con la giovane moglie Ada Ascarelli si trasferì in Erétz Yisra’él. Secondo lui in Palestina non c’era bisogno della speculazione filosofica ma del lavoro manuale. Si impiegò in un agrumeto e diede vita al primo kibbutz italiano.Al lavoro di bracciante rinunciò quando Hitler si insediò alla Cancelleria del Reich: l’Agenzia ebraica lo mandò in missione speciale in Europa. Eccolo per circa una decina di anni in viaggio senza sosta da Parigi a Danzica, da Praga a Vienna ad Amsterdam e poi anche in America.
Contrabbandava passaporti falsi e valuta; riuscì a portare in salvo migliaia di ebrei, in particolare molti giovani. Nel 1939 Enzo ritornò nella capitale e ottenne dai correligionari romani informazioni riservate sulle forze armate del Duce che poi trasmise agli inglesi. Mise anche in guardia gli ebrei capitolini, avvertendoli che dovevano lasciare il paese al più presto.
Nessuno gli credette: dopo i primi provvedimenti razziali, gli venne detto, le acque sembravano essersi calmate e la popolazione era solidale con gli ebrei. Quando iniziò la guerra Enzo fu costretto a una nuova rinuncia, mise in cantina l’utopia pacifista, si arruolò nella British Army. In Egitto si occupò dei prigionieri di guerra italiani e antifascisti. In Iraq aiutò altri ebrei nella fuga.
Dopo il rastrellamento da parte dei nazisti del ghetto di Roma prese la decisione che segnò la sua vita. L’Italia ora era occupata dai tedeschi e aveva bisogno di lui. Sua moglie, i suoi superiori in Palestina e anche gli ufficiali inglesi cercarono di dissuaderlo. Non poteva paracadutarsi: in quanto quarantenne era considerato troppo avanti con l’età, ma lo fece comunque.
Il compagno di volo che si lanciò con lui il 5 maggio del 1944 ricorda di aver sentito nella notte il richiamo del suo fischietto di salvataggio. Barda fu catturato, condotto a Verona e rinchiuso nei sotterranei. Poi il suo destino fu deciso in Germania. Sparì nel nulla. La moglie non ebbe più notizie.
Quando Ada rientrò nella Penisola, alla fine della guerra, divenne agente del Mossad, organizzò le spedizioni che portarono dall’Italia in Israele migliaia di ebrei con il tacito assenso del presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi (a lei è stata dedicata la miniserie tivù Exodus. Il sogno di Ada). Finalmente trovò a Dachau la scheda di Enzo: “Schmuil”, non c’era nemmeno il vero nome. Lo avevano ammazzato ignorando la sua identità.
In un certo senso è rimasto senza una precisa identità anche nel Dopoguerra: a differenza di suo fratello Emilio, la cui lotta antifascista è stata sempre giustamente riconosciuta e valorizzata dal partito comunista con convegni, opere, scuole e strade a lui intestate, Enzo è stato trascurato dalla memoria collettiva. Era un combattente solitario e per la sua avventurosa solitudine, per il pionieristico coraggio, merita di essere riscoperto e ricordato. In questo momento storico, per il tenace pacifismo, per la critica al fascismo e al razzismo, per la predicazione della convivenza tra arabi e israeliani, la sua figura è più attuale che mai. Può diventare un simbolo nei nostri tempi di acuti conflitti.

(la Repubblica, 23 agosto 2024)

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Il capo dell’intelligence Haliva si dimette per il fallimento del 7 ottobre

Il capo uscente dell’intelligence dell’IDF, Haliva, dice di non aver avvertito del 7 ottobre e chiede un’indagine di Stato.

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Il prossimo capo della Direzione dell’Intelligence militare, il Magg. Gen. Shlomi Binder, chiede di concentrare gli sforzi sulla missione “urgente” di restituire gli ostaggi
Il Magg. Gen. Aharon Haliva, nel suo ultimo discorso come capo della Direzione dell’Intelligence Militare, ha affermato mercoledì di essere responsabile per non aver dato un avvertimento prima dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre.
Nel suo discorso di dimissioni, ha lasciato intendere che si aspetta che anche altri ufficiali si assumano la responsabilità delle loro mancanze e ha chiesto una commissione d’inchiesta statale sulle mancanze che hanno portato alla guerra.  “Quel sabato non abbiamo portato a termine la missione più importante che ci è stata affidata, quella di fornire un preavviso di guerra”, ha detto durante una cerimonia di consegna alla base Glilot, vicino alla città centrale di Herzliya, che ospita alcune unità del Direttorato.
 “La responsabilità dei fallimenti della Direzione dei servizi segreti militari ricade su di me”, ha detto Haliva.
Ad aprile Haliva aveva dichiarato che avrebbe lasciato l’IDF per il suo coinvolgimento nei fallimenti che hanno portato all’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas. Lo sostituirà il Magg. Gen. Shlomi Binder, ex comandante della Divisione Operazioni dell’IDF.
“La responsabilità e l’esempio personale sono un valore fondamentale dell’IDF e della leadership in generale. L’assunzione di responsabilità non è fatta di parole, ma di azioni. La mia decisione di porre fine al mio ruolo e di dimettermi dall’IDF è la norma a cui sono stato educato… è ciò che ci si aspetta da chi marcia in avanti e da chi carica al fronte”, ha detto.
Haliva ha anche chiesto di istituire una commissione d’inchiesta statale su “tutti gli aspetti che hanno portato alla guerra, in modo che ciò che è accaduto a noi non si ripeta mai più”. Le ripetute richieste di una revisione indipendente del 7 ottobre sono state respinte dai leader del governo, che a quanto pare temevano di essere criticati, insistendo sul fatto che le indagini devono attendere la fine della guerra contro Hamas. Il nuovo capo della Direzione dell’Intelligence militare, Binder, ha detto durante la cerimonia che Israele deve dedicare i suoi sforzi di intelligence alla restituzione degli ostaggi detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza, mentre si prepara a un’escalation con Hezbollah in Libano.
 “Siamo nel mezzo di una guerra giusta, una guerra dura e lunga, che può espandersi, e continueremo a impegnarci per raggiungere i suoi obiettivi. Dobbiamo dedicare i nostri sforzi alla restituzione di 109 ostaggi nella Striscia di Gaza. È una missione nazionale, etica, di estrema importanza e urgente”, ha detto.  “Dobbiamo continuare ad aumentare la nostra preparazione per la campagna che si sta espandendo nel nord, e costruire un buon quadro di intelligence per la difesa e l’attacco, e per le arene più lontane, come questa direzione ha dimostrato di recente”, ha continuato Binder.
Oltre a combattere e a prepararsi all’escalation, Binder ha detto che la Direzione dell’Intelligence dovrà anche indagare su se stessa, fare ammenda e migliorare dai propri errori.  “Dove abbiamo fallito, dovremo indagare e migliorare; dove abbiamo commesso errori, impareremo e cambieremo; dove sono state aperte fratture, per quanto grandi siano, insisteremo per ripararle e ci pentiremo”, ha detto. “Il popolo israeliano non ha un altro Paese, lo Stato di Israele non ha un’altra IDF e l’IDF non ha un’altra Direzione dell’Intelligence”, ha aggiunto Binder. La nomina di Binder a questo ruolo è stata vista come controversa, in quanto in precedenza era a capo della Divisione Operazioni della Direzione Operazioni – e potrebbe essere stato coinvolto in fallimenti legati al 7 ottobre.
Haliva è il primo alto ufficiale dell’IDF a dimettersi per l’attacco del 7 ottobre. (Un altro generale di alto livello dell’intelligence, che aveva intenzione di dimettersi a causa dell’attacco, si è dimesso dopo che gli era stato diagnosticato un cancro). A giugno, il Brig. Gen. Avi Rosenfeld, capo della Divisione Gaza, ha annunciato le sue dimissioni per l’attacco del 7 ottobre. Nelle prossime settimane sarà sostituito dal brig. gen. Barak Hiram, ex capo della 99a divisione.
Altri alti ufficiali della difesa hanno dichiarato di essere responsabili dell’invasione mortale compiuta da Hamas il 7 ottobre, tra cui il capo dell’agenzia di sicurezza Shin Bet e il capo di stato maggiore dell’IDF. Nessuno di loro ha ancora annunciato l’intenzione di dimettersi, anche se si prevede che molti lo faranno una volta che la situazione della sicurezza si sarà stabilizzata. Tuttavia, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e la maggior parte dei membri del suo governo hanno ripetutamente rifiutato di assumersi la responsabilità del loro ruolo nella serie di fallimenti strategici e operativi che hanno portato all’assalto di Hamas, insistendo sul fatto che la questione della loro responsabilità sarà affrontata solo dopo la guerra.
Circa 3.000 terroristi guidati da Hamas hanno fatto irruzione dalla Striscia di Gaza nel sud di Israele il 7 ottobre, compiendo una furia omicida di intensità e ampiezza senza precedenti. L’IDF ha faticato a organizzare una risposta, con le basi più vicine al confine invase e la catena di comando apparentemente interrotta nel caos.
L’assalto ha causato la morte di circa 1.200 persone in Israele, con altre 251 persone rapite e gran parte dell’area devastata. La maggior parte delle vittime erano civili.

(Israele 360, 22 agosto 2024)

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Trovati esplosivi in sacchi contrassegnati Unrwa a Rafah

GERUSALEMME - Le Forze di difesa di Israele (Idf) hanno affermato di aver trovato degli esplosivi in sacchi contrassegnati Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) durante la perquisizione di un edificio nei pressi in una scuola nel quartiere Tel Sultan di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Nel corso dell’operazione, hanno spiegato le forze israeliane, il 50mo battaglione della Brigata Nahal ha inoltre trovato “armi, giubbotti militari e documenti dell’intelligence nemica”. Nella zona di Tel Sultan, le forze appartenenti alla 162ma Divisione delle Idf hanno diretto negli ultimi giorni attacchi aerei “contro terroristi armati e siti terroristici”.

(Agenzia Nova, 23 agosto 2024)

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Medico del Soroka Medical Center di Beer Sheba arrestato per aver giurato fedeltà all’ISIS

di Luca Spizzichino

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Muhammad Azzam

Un medico del Soroka Medical Center di Beer Sheba è stato arrestato con l’accusa di aver giurato fedeltà all’ISIS ed è stato formalmente incriminato, come riferito giovedì dalla polizia israeliana. In un’operazione congiunta tra la polizia e lo Shin Bet, Muhammad Azzam, 34 anni, residente a Beer Sheba e originario di Nazareth, è stato tratto in arresto.
  Secondo il Ministero della Giustizia, Azzam leggeva online contenuti estremisti affiliati all’ISIS dal 2014. A seguito delle indagini, l’8 agosto la Procura distrettuale meridionale ha depositato un atto d’accusa contro di lui. Nell’atto d’accusa, presentato dall’avvocato Hofit Kantorovich, si evidenzia che sul telefono del medico sono stati trovati numerosi file multimediali, tra cui video di esecuzioni, decapitazioni e corpi mutilati. Inoltre, sono state rinvenute cartelle intitolate “Materiali esplosivi” e “Preparazione di veleni”, oltre ad altro materiale sospetto.
  Secondo l’accusa, Azzam avrebbe deciso di unirsi ufficialmente all’ISIS e giurato fedeltà ad Abu Hafs al-Hajri al-Qurashi, il nuovo califfo dell’organizzazione, dopo il 7 ottobre. Dopo il massacro compiuto da Hamas, il medico avrebbe inviato video delle atrocità ai suoi amici con toni di scherno e soddisfazione.
  Azzam resterà in custodia fino alla conclusione di tutti i procedimenti legali, come richiesto dall’accusa. La richiesta di detenzione ha sottolineato che il suo comportamento rappresenta un pericolo per la collettività, soprattutto considerando il suo ruolo di medico in un ospedale.
  “L’amministrazione dell’ospedale prende molto seriamente le accuse e ne è scioccata”, ha dichiarato il Soroka Medical Center in un comunicato, secondo quanto riportato da Maariv. “Il caso è in fase di indagine e gestione da parte delle autorità legali competenti e siamo fiduciosi nella loro gestione della questione”, ha commentato.

(Shalom, 23 agosto 2024)

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Satira made in Israel

Ephraim Kishon, uno dei satirici di maggior successo del XX secolo

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Ephraim Kishon

Quando giocava a “poker ebraico” con il suo amico Jossele, si giocava senza carte: il primo pensava a un numero e lo diceva ad alta voce, poi l'altro annunciava il numero che aveva pensato e se era più alto di quello dell'altro, il secondo aveva vinto. Non sorprende che il satirico israeliano Ephraim Kishon vincesse sempre in questo gioco contro Jossele.
  Indimenticabile è anche la storia del Blaumilchkanal (Canale del latte blu), che lo stesso Kishon trasformò in film nel 1969: in essa, un uomo fuggito da un manicomio pratica un buco nella strada del centro di Tel Aviv con un martello pneumatico senza alcun motivo; ma nessuno lo ferma, anzi ottiene il sostegno non solo della polizia, ma di tutte le autorità della città.
  Ephraim Kishon è stato uno degli autori israeliani più conosciuti in Germania e uno dei satirici di maggior successo del XX secolo. I suoi racconti, le sue opere teatrali e le sue sceneggiature erano per lo più pungenti nei confronti delle autorità e dell'establishment, ma avevano anche una visione affettuosa delle eccentricità degli abitanti dell'Israele moderno. Gli oltre 50 libri di Kishon sono stati tradotti in 37 lingue, con 43 milioni di copie stampate in tutto il mondo. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Israele per il lavoro di una vita nel 2002 e il Premio tedesco Münchhausen per la satira nel 2001.

• FUGA DA UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO
   Kishon è nato il 23 agosto 1924 a Budapest, nella capitale ungherese, da una famiglia ebrea laica. Il padre era direttore di banca, la madre segretaria. La famiglia non era religiosa.
  All'età di 17 anni vince il premio nazionale per il miglior racconto. Dopo aver lasciato la scuola nel 1941, non potendo studiare a causa delle leggi ebraiche, iniziò un apprendistato come orafo. Tre anni dopo fu deportato e internato in vari campi di lavoro.
  Riuscì a fuggire durante il trasporto in un campo di concentramento in Polonia. Assunse l'identità di un operaio slovacco non ebreo e il nome di Stanko Andras. La maggior parte della sua famiglia morì nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. Solo i suoi genitori e sua sorella Agnes sopravvissero alla persecuzione degli ebrei. Nella sua autobiografia Nichts zu lachen. Memorie (Non c’è niente da ridere. Memorie) , pubblicata in tedesco nel 1993, Kishon racconta la sua vita quasi incredibile.
  Kishon ha studiato storia dell'arte e scultura a Budapest. Ha cambiato il suo cognome in Kishont. A sua insaputa, una zia inviò la satira di Kishon sulle teste calve al concorso nazionale per romanzi organizzato dal principale giornale letterario ungherese nel 1948. Vinse il primo premio e divenne membro della redazione del giornale satirico “Ludas Matyi”.

• LASCIARE L'UNGHERIA A CAUSA DEI COMUNISTI
   Kishon e la sua prima moglie Eva decisero di lasciare l'Ungheria a causa dei comunisti. Nel 1949 giunsero in Israele su una nave di rifugiati. Un ufficiale dell'immigrazione gli diede il nome di Ephraim Kishon. Il suo primo libro, una raccolta di racconti umoristici, fu pubblicato con il titolo Der Neueinwanderer, der uns auf die Nerven geht (Il nuovo immigrato che ci dà ai nervi). Dal 1952, con lo pseudonimo di “Chad Gadja” (agnellino), scrive una rubrica quotidiana per il più importante quotidiano israeliano “Ma'ariv” - per oltre 30 anni.
  La sua carriera internazionale inizia nel 1959: il “New York Times” sceglie la sua raccolta satirica “Turn around, Mrs Lot” come libro del mese. Inoltre, fonda il teatro “The Green Onion” a Tel Aviv.
  Nello stesso anno, l'ormai divorziato Kishon sposò la pianista Sara Lipovitz - quella che nei suoi libri è “la moglie migliore di tutte”. Nei decenni successivi scrisse opere teatrali, radiofoniche e satire. Lavorò anche come regista.
  Kishon aveva un grande pubblico soprattutto in Germania: solo in tedesco sono stati pubblicati 32 milioni di suoi libri. In Israele, nel 1968, il suo libro sulla Guerra dei Sei Giorni - Pardon, wir haben gewonnen (Pardon, abbiamo vinto) - ha suscitato grandi critiche. Alcuni media vi videro tendenze nazionaliste. Tuttavia, nel 2002 ha ricevuto il Premio Israele per il lavoro culturale svolto nel corso della sua vita, dalle mani del Ministro dell'Istruzione Limor Livnat.
  Nella primavera del 2002, Sara Kishon muore di cancro. Un anno dopo, Ephraim Kishon sposò Lisa Witasek, una scrittrice viennese di 32 anni più giovane. Negli ultimi anni, Kishon visse alternativamente a Tel Aviv e nella casa che aveva acquistato ad Appenzell (Svizzera) nel 1981. Kishon ha lasciato tre figli: il figlio maggiore Rafi è veterinario, il figlio Amir vive a New York, la figlia Renana a Tel Aviv. Il figlio di Kishon, Rafi, mantiene vivo il ricordo del padre, tra l'altro con letture dei suoi libri in tedesco.

• AUTORE ISRAELIANO PARTICOLARMENTE APPREZZATO DAI TEDESCHI
   Dalla sua morte nel 2005, lo studio di Ephraim Kishon a Tel Aviv è rimasto intatto. La studiosa tedesca di letteratura Birgit Körner ha avuto il permesso di rovistarlo e recentemente ha scritto un libro su Kishon. Il titolo è: Israelische Satiren für ein westdeutsches Publikum. Ephraim Kishon, Friedrich Torberg und die Konstruktionen ‚jüdischen Humors‘ nach der Schoah (Satire israeliane per un pubblico tedesco occidentale. Ephraim Kishon, Friedrich Torberg e le costruzioni di 'umorismo ebraico' dopo la Shoah).
  L'autrice ricorda, ad esempio, che Kishon non ha mai affrontato nei suoi racconti la storia oscura che legava Germania ed ebraismo. Ma era anche capace di essere politico. Nel racconto Wie Israel sich die Sympathien der Welt verscherzte (Come Israele si è giocata la simpatia del mondo) del 1963, scrive di come gli Stati arabi stiano distruggendo Israele; la comunità internazionale non può impedire che lo Stato ebraico venga spazzato via otto anni dopo la sua fondazione e dieci anni dopo la Shoah.
  Recentemente è stata pubblicata la biografia Ephraim Kishon. Ein Leben für den Humor (Ephraim Kishon. Una vita per l'umorismo) di Silja Behre. L'autrice esplora, tra l'altro, la questione del perché i tedeschi abbiano amato così tanto questo autore israeliano. Per lui, l'entusiasmo dei tedeschi per le sue satire era una fonte di soddisfazione - e un'ironia della storia, scrive l'autrice.

(Israelnetz, 23 agosto 2024)


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Ephraim Kishon, una perla nascosta di Israele

di Marcello Cicchese

Per perfezionare il mio tedesco, anni fa ho letto molti libri di Ephraim Kishon. Ed è stata una buona scelta, perché per tradurre la fine ironia di scrittori umoristici è necessario avere una grande padronanza di entrambe le lingue, saperne godere e riprodurre la musicalità. Nell’impossibilità di gustare le finezze dello stile ebraico, ho spesso goduto di quello che riusciva a fare il traduttore tedesco. Ricordo le stranezze del matto di Blaumilchkanal che, uno scavo dopo l’altro, convince i funzionari a scavare un lunghissimo canale che piano piano arriva fino al mare. Per arrivare infine a scoprire che non serve assolutamente a niente. Una irridente stoccata alle autorità preposte.
  In un altro caso, si vede un impiegato statale che pratica la corruzione come dovere di ufficio, ma alla fine è stanco e vorrebbe smettere, ma non può.  Chiede ai superiori di poter rinunciare a guadagni illeciti; è perfino disposto ad essere abbassato di stipendio, ma è impossibile: il sistema richiede che tutti continuino  così. Smettere di rubare non è possibile. E anche qui c’è un sorridente accenno a pratiche presenti in tutto il mondo,  che anche Israele non ha voluto farsi mancare.
  In Pardon, wir haben gewonnen, il contestato libro scritto dopo la guerra dei sei giorni, l’autore riferisce che in quei giorni di aspro combattimento il suo bambino (7/8 anni) aveva deciso di praticare austere forme di rinuncia personale in solidarietà con i soldati in guerra. Tra queste, aveva deciso di non farsi tagliare più i capelli. L’autore allora descrive, con fine ironia, le difficili argomentazioni militari che ha dovuto trovare per far desistere suo figlio da questo nobile proposito.
  Si può dire che Ephraim Kishon è in Israele quello che Giovannino Guareschi è in Italia. Anche i suoi libri, come quelli di Guareschi, sono stati tradotti in moltissime lingue.  Anche lui, come Guareschi, è stato considerato uno scrittore di destra, e dunque, poiché in molte parti del mondo occidentale in fatto di cultura è la sinistra che comanda, anche lui, come Guareschi, è stato boicottato in patria.
  Kishon avrebbe potuto essere una perla per Israele, da presentare con vanto al mondo, e invece si è preferito, soprattutto in Italia, tradurre romanzieri “di grido” come Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossmann, che hanno il grande vantaggio di piacere al mondo perché “criticano” Israele. Non è il valore dei loro romanzi che qui si discute, ma il posto che hanno voluto occupare gli autori in rapporto al loro paese. Non si discute il valore letterario delle loro opere, ma anche senza averle lette si può dubitare che  avrebbero avuto lo stesso successo se gli autori non fossero stati israeliani che criticano Israele. Ho letto soltanto il romanzo “Giuda” di Amos Oz, e sinceramente non mi è parso che i suo tentativo di imitare Dostoevskij sia riuscito. E non intendo procedere oltre in altre letture.
  Resta ancora una domanda: perché Ephraim Kishon ha avuto tanto successo in Germania e così poco, per non dire nulla, in Italia? Si troverà un giorno anche in Italia un ebreo bilingue che sappia rendere in italiano le leggerezze umoristiche della lingua ebraica di Kishon? Sarei il primo a leggerle, e a farne propaganda. Le pesantezze di monumenti letterari come quelli sopracitati sono fin troppe: da Israele si vorrebbe veder arrivare aria nuova. M.C.

(Notizie su Israele, 23 agosto 2024)

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Parashat Ekev. Solo la fede può salvare una società dal declino e dalla caduta

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Qual è la vera sfida per mantenere una società libera? Nella parashà di Ekev, Mosè ha in serbo per noi una grande sorpresa. Ecco le sue parole: State attenti a non dimenticare il Signore vostro Dio… Altrimenti, quando mangerete e sarete sazi, quando costruirete belle case e vi ci stabilirete, e quando le vostre mandrie e i vostri greggi diventeranno grandi e il vostro argento e il vostro oro aumenteranno e tutto ciò che avete si moltiplicherà, allora il vostro cuore si inorgoglirà e dimenticherete il Signore vostro Dio, che vi ha fatto uscire dall’Egitto, dal paese della schiavitù… Potresti dire a te stesso: “La mia potenza e la forza delle mie mani hanno prodotto questa ricchezza per me”. … Se mai dimenticherai il Signore tuo Dio… io testimonio oggi contro di te che sarai sicuramente distrutto”. (Deuteronomio 8:11-19)
Ciò che Mosè stava dicendo alla nuova generazione era questo: “Pensavate che i quarant’anni di vagabondaggio nel deserto fossero la vera sfida e che una volta conquistata e colonizzata la terra, i vostri problemi sarebbero finiti. La verità è che in quel momento inizierà la vera sfida. Sarà proprio quando tutti i vostri bisogni fisici saranno soddisfatti – quando avrete terra e sovranità, ricchi raccolti e case sicure – che inizierà la vostra prova spirituale.
La vera sfida non è la povertà ma l’agiatezza, non l’insicurezza ma la sicurezza, non la schiavitù ma la libertà. Mosè, per la prima volta nella storia, stava accennando a una legge della storia. Molti secoli dopo è stata articolata dal grande pensatore islamico del XIV secolo, Ibn Khaldun (1332-1406), dal filosofo politico italiano Giambattista Vico (1668-1744) e, più recentemente, dallo storico di Harvard Niall Ferguson (1964-…). Mosè stava raccontando il declino e la caduta delle civiltà.
Ibn Khaldun sosteneva in modo simile che quando una civiltà diventa grande, le sue élite si abituano al lusso e alle comodità e il popolo nel suo complesso perde quella che lui chiamava asabiyah, la solidarietà sociale. Il popolo diventa quindi preda di un nemico conquistatore, meno civilizzato di lui ma più coeso e motivato.
Vico ha descritto un ciclo simile: “Gli uomini dapprima avvertono ciò che è necessario, poi considerano ciò che è utile, quindi si occupano delle comodità, poi si dilettano dei piaceri, presto diventano dissoluti nel lusso e infine impazziscono sperperando i loro beni”.
Bertrand Russell (1872-1970) lo dice con forza nell’introduzione alla sua Storia della filosofia occidentale. Egli pensava che le due grandi vette della civiltà fossero state raggiunte nell’antica Grecia e nell’Italia rinascimentale. Ma era abbastanza onesto da vedere che proprio le caratteristiche che le avevano rese grandi contenevano i semi della loro stessa fine:
Ciò che era accaduto nella grande età greca si ripeté nell’Italia rinascimentale: i tradizionali vincoli morali scomparvero, perché considerati associati alla superstizione; la liberazione dalle catene rese gli individui energici e creativi, producendo una rara fluorescenza del genio; ma l’anarchia e il tradimento che inevitabilmente derivarono dal decadimento della morale resero gli italiani collettivamente impotenti e caddero, come i greci, sotto il dominio di nazioni meno civilizzate di loro ma non altrettanto prive di coesione sociale.
Nel suo libro Civilization: the West and the Rest (2011), Niall Ferguson sostiene che l’Occidente ha dominato il mondo grazie a quelle che definisce sei “killer applications”: concorrenza, scienza, democrazia, medicina, consumismo ed etica protestante del lavoro. Oggi però sta perdendo fiducia in se stesso e rischia di essere superato dagli altri.
Tutto questo è stato detto per la prima volta da Mosè e costituisce un argomento centrale del libro di Devarim. Se presumete – dice alla generazione successiva – di aver conquistato voi stessi la terra e la libertà di cui godete, diventerete compiacenti e autocompiaciuti. Questo è l’inizio della fine di qualsiasi civiltà. In un capitolo precedente Mosè usa la parola grafica venoshantem, “invecchierete” (Deuteronomio 4:25), a significare che non avrete più l’energia morale e mentale per fare i sacrifici necessari alla difesa della libertà.
Le disuguaglianze aumenteranno. I ricchi diventeranno auto-indulgenti. I poveri si sentiranno esclusi. Ci saranno divisioni sociali, risentimenti e ingiustizie. La società non sarà più coesa. Le persone non si sentiranno legate tra loro da un vincolo di responsabilità collettiva. Prevarrà l’individualismo. La fiducia diminuirà. Il capitale sociale diminuirà.
Questo è accaduto, prima o poi, a tutte le civiltà, per quanto grandi. Per gli israeliti – un piccolo popolo circondato da grandi imperi – sarebbe stato disastroso. Come Mosè chiarisce verso la fine del libro, mettendo in guardia il popolo dalle maledizioni che lo avrebbero colpito se avesse perso l’orientamento spirituale, Israele si sarebbe trovato sconfitto e devastato.
Solo in questo contesto si può comprendere il progetto epocale che il libro di Devarim propone: la creazione di una società capace di annullare le normali leggi di crescita e declino delle civiltà. È un’idea sorprendente.
Come si può realizzare? Attraverso l’assunzione e la condivisione di responsabilità da parte di ciascuno nei confronti della società nel suo complesso. Conoscendo la storia del proprio popolo. Studiando e comprendendo le leggi che governano tutti. Insegnando ai propri figli affinché anch’essi diventino alfabetizzati ed esprimano la loro identità.
Regola 1: Non dimenticare mai da dove vieni.
Quindi si mantiene la libertà istituendo tribunali, lo stato di diritto e l’istituzione della giustizia. Prendendosi cura dei poveri. Garantendo a tutti le condizioni fondamentali necessarie per la dignità. Includendo le persone isolate nelle celebrazioni popolari. Ricordando l’alleanza nei rituali quotidiani, settimanali e annuali e rinnovandola in un’assemblea nazionale ogni sette anni. Assicurando che ci siano sempre profeti che ricordino alle persone il loro destino e smascherino le corruzioni del potere.
Regola 2: non allontanarsi mai dai propri principi e ideali fondamentali.
Soprattutto, deriva dal riconoscere un potere più grande di noi stessi. Questo è il punto che Mosè sottolinea maggiormente. Le società invecchiano quando perdono la fiducia nella trascendenza. Quindi perdono la fiducia in un ordine morale oggettivo e alla fine perdono la fiducia in se stessi.
Regola 3: Una società è forte quanto la sua fede.
Solo la fede in Dio può portarci a onorare i bisogni degli altri così come i nostri bisogni. Solo la fede in Dio può motivarci ad agire per il bene di un futuro che non vivremo abbastanza da vedere. Solo la fede in Dio può farci smettere di fare il male quando crediamo che nessun altro essere umano lo saprà. Solo la fede in Dio può darci l’umiltà che sola ha il potere di superare l’arroganza del successo e la fiducia in se stessi che porta, come afferma Paul Kennedy in Ascesa e caduta delle grandi potenze (1987), al sovrasfruttamento militare e alla sconfitta nazionale.
Verso la fine del suo libro “Civilization” Niall Ferguson cita un membro dell’Accademia cinese delle scienze sociali, parte di un team incaricato di scoprire perché l’Europa, rimasta indietro rispetto alla Cina fino al XVII secolo, ne prese il sopravvento, ottenendo notorietà e dominio.
All’inizio, ha detto, pensavamo che fosse colpa delle vostre armi. Avevate armi migliori delle nostre. Poi abbiamo approfondito e abbiamo pensato che fosse il vostro sistema politico. Poi abbiamo cercato ancora più a fondo e abbiamo concluso che era il vostro sistema economico.
Ma negli ultimi 20 anni abbiamo capito che in realtà era la vostra religione. È stato il fondamento (giudaico-cristiano) della vita sociale e culturale in Europa a rendere possibile l’emergere prima del capitalismo e poi della politica democratica.
Solo la fede può salvare una società dal declino e dalla caduta. Questa è stata una delle più grandi intuizioni di Mosè, e non ha mai smesso di essere vero.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl

(Bet Magazine Mosaico, 23 agosto 2024)
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Parashà della settimana: Va-yelech (E rivolse)
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Un tuffo nel passato: scoperti i segreti delle incisioni di Timna, nel sud di Israele

di Nicole Nahum

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Un team di studiosi dell’Università ebraica di Gerusalemme ha fatto un notevole passo avanti nella decifrazione delle incisioni rupestri nel parco di Timna, nel sud di Israele. Grazie all’uso di una tecnologia tridimensionale all’avanguardia, i ricercatori sono riusciti a rivelare molti dei particolari che hanno ispirato queste opere, risalenti al XIV secolo a.e.v.
  Il parco di Timna è celebre per i suoi antichi resti legati alla produzione del rame, datati al VI millennio a.e.v. Tuttavia, le emblematiche incisioni rupestri hanno sempre rappresentato un enigma anche per i più esperti. Recentemente, un software innovativo sviluppato dal Computational Archaeology Laboratory, insieme all’uso di uno scanner 3D, ha permesso al team guidato dal Prof. Lior Grossman e dalla studentessa di dottorato Lena Dubinskydi esaminare in dettaglio le tecniche utilizzate da questi antichi artisti. “Abbiamo scoperto che le decisioni degli scultori erano guidate da precise scelte visive e teoriche” ha dichiarato il Prof. Lior Grossman. Infatti, i risultati dello studio, riportati nel Journal of Archaeological Method and Theory, in collaborazione con il parco di Timna, il Lev Academic Center e la Charles W. Wilson Foundation, rivelano che le incisioni non erano solo frutto di abilità tecniche, ma anche di considerazioni estetiche e concettuali dell’epoca.
  Il focus principale dell’analisi è stato incentrato su due incisioni: quella del carro, la più grande del parco, e un’altra che segue il canone egizio, raffigurante faraoni. “Analizzando le tecniche usate e i segni degli utensili nelle miniere di rame, abbiamo potuto delineare un linguaggio visivo unico” ha spiegato Lena Dubinsky.
  Questa metodologia innovativa non solo chiarisce il mistero delle incisioni di Timna, ma apre anche nuove prospettive per future indagini archeologiche. Tale studio ha permesso dunque di esaminare con maggiore precisione il patrimonio culturale israeliano, fornendo strumenti per una comprensione più approfondita delle culture passate.

(Shalom, 23 agosto 2024)

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Gaza - Israele denuncia silenzio Unrwa sulle “scuole del terrore”

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In precedenza il complesso ospitava la scuola Salah al-Din a Gaza City. Hamas ha trasformato la struttura in uno suo centro di comando, «da dove pianificava ed eseguiva attacchi contro l’esercito e lo stato d’Israele». Per questo, ha reso noto Tsahal, il complesso è stato attaccato nelle scorse ore. Prima di colpire, «sono state adottate numerose misure per mitigare il rischio di danneggiare la popolazione civile», ha spiegato l’esercito in una nota. La presenza di terroristi in scuole a Gaza è stata più volte denunciata da Israele. «Hamas viola sistematicamente il diritto internazionale e opera dall’interno di infrastrutture e rifugi civili nella Striscia di Gaza, sfruttando brutalmente la popolazione per le sue attività terroristiche», ha ribadito Tsahal dopo l’operazione nella scuola Salah al-Din. La struttura in precedenza era sotto la gestione dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, che ha condannato il raid israeliano. «Ancora una volta sembra vogliate ingannare il mondo», ha replicato il portavoce di Tsahal Nadav Shoshani, denunciando il silenzio dell’Unrwa sull’uso di Hamas della scuola come centro terroristico. «Perché non menzionate questo fatto?».
  Nei mesi passati altre strutture scolastiche sono state al centro di operazioni militari. Nella sola Gaza City, le scuole Hassan Salame, Nasser e al Tabin. Quest’ultima, colpita a inizio agosto, era una base operativa sia di Hamas sia del movimento Jihad islamica. Almeno una ventina di terroristi dei due movimenti sono stati eliminati nell’attacco di Tsahal, ha dichiarato Shoshani, invitando i media internazionali ad «agire con cautela nei confronti delle informazioni rilasciate dalle fonti di Hamas, che si sono dimostrate decisamente inaffidabili». Il riferimento era ai numeri dati dal ministero della Salute di Gaza secondo cui almeno 70 palestinesi erano morti nel raid.

(moked, 22 agosto 2024)

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Gaza, l’ufficio di Netanyahu: Israele non ha accettato di ritirare i militari dal Corridoio di Filadelfia

Israele non ha accettato di ritirare i militari delle Forze di difesa israeliane (Idf) dal cosiddetto Corridoio di Filadelfia, zona cuscinetto lungo il confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza. Lo ha reso noto ieri sera l’ufficio del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, smentendo alcune indiscrezioni che erano state diffuse dai media in precedenza. In un comunicato, l’ufficio del premier ha dichiarato: “Israele insisterà sul raggiungimento di tutti i suoi obiettivi di guerra, così come sono stati definiti dal gabinetto di sicurezza, compreso il fatto che Gaza non costituisca mai più una minaccia per la sicurezza di Israele. Ciò richiede la messa in sicurezza del confine meridionale”. Fra le condizioni per il raggiungimento di un accordo con Israele sul cessate il fuoco a Gaza, il movimento islamista palestinese Hamas chiede il ritiro completo delle Idf dalla Striscia, compreso il Corridoio di Filadelfia.
   Ieri sera, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha discusso con Netanyahu le trattative per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e la liberazione degli ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas. Secondo quanto riferito dalla Casa Bianca, la conversazione, a cui ha partecipato anche Kamala Harris, vicepresidente e candidata democratica alle elezioni di novembre, si è incentrata anche sulle modalità per evitare ulteriori escalation in Medio Oriente.
   In precedenza, una fonte aveva riferito al portale di informazione statunitense “Axios” che il presidente Usa avrebbe avuto un colloquio telefonico con il primo ministro israeliano per esortarlo a mostrare maggiore flessibilità, in modo da raggiungere un accordo per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco a Gaza. Secondo quanto dichiarato da una fonte di “Axios”, la conversazione si sarebbe incentrata sulla nuova richiesta di Netanyahu che le Forze di difesa israeliane rimangano dispiegate lungo il Corridoio di Filadelfia. Negoziatori israeliani e funzionari statunitensi hanno affermato che questa nuova richiesta rappresenta un ostacolo significativo per un possibile accordo e Biden vorrebbe che Netanyahu ammorbidisse la sua posizione sulla questione. Al momento, tuttavia, il premier israeliano non ha cambiato idea sulla sua richiesta.

(Agenzia Nova, 22 agosto 2024)

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Il capo degli 007 israeliani chiede perdono per l’attacco di Hamas

Haliva: la responsabilità ultima ricade su di me

HERZLIYA – Il dimissionario capo dell’intelligence militare israeliana Aharon Haliva ha ammesso di avere la “responsabilità ultima” per non aver protetto gli israeliani dall’attacco di Hamas del 7 ottobre. “A nome mio e di tutta l’ala dell’intelligence, chiedo perdono”, ha detto visibilmente commosso durante una cerimonia di passaggio di consegne presso la sede dei servizi segreti a Herzliya, nel centro di Israele.

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(askanews, 22 agosto 2024)

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Come Hezbollah mette a rischio i civili libanesi

di Nathan Greppi

Dall’inizio della guerra scoppiata dopo il 7 ottobre, è stato fatto più volte presente il fatto che Hamas non esita ad utilizzare scuole e ospedali come depositi di armi, oltre a non offrire alcun rifugio alla popolazione civile di Gaza nei propri tunnel.
  Recentemente, è giunta la conferma che anche Hezbollah adotta tattiche simili, non esitando ad usare i civili libanesi come scudi umani; martedì 20 agosto, l’IDF ha annunciato che nella notte di lunedì le loro forze aeree hanno distrutto due lanciamissili appartenenti a Hezbollah nel Libano meridionale.
  Ben Tzion Macales, analista indipendente ed esperto di geolocalizzazione ripreso dal Jerusalem Post, ha spiegato che “i lanciamissili erano collocati a soli 620 metri da una base dell’UNIFIL. Qualcuno da quelle parti non ha fatto il proprio lavoro, ammesso che siano realmente interessati a farlo”.
  Secondo Macales, proprio come Hamas anche Hezbollah nasconde le proprie armi vicino alla popolazione civile: “Il deposito di armi distrutto ieri nella Valle della Bekaa era anch’esso situato in un appezzamento di terra agricolo, avendo un impatto sul terreno e gli edifici circostanti”, ha dichiarato. “Allo stesso modo, a luglio, un altro deposito situato in mezzo a edifici di uso civile è stato distrutto dall’IDF a Tiro. Diverse persone rimasero leggermente ferite da cocci di vetro in seguito all’attacco, che dimostra la prossimità di queste armi ai civili, mettendo a rischio i villaggi e le città vicine”.
  Sempre vicino a Tiro, un altro deposito di armi di Hezbollah era stato distrutto a giugno, in mezzo ad una zona industriale. “Anche qui, nessuno rimase ferito durante l’attacco israeliano, ma comunque la scelta di Hezbollah di collocarlo lì dimostra qual è la loro considerazione delle vite umane”, ha spiegato Macales.
  A causa di questo loro modus operandi, in passato c’è chi tra i libanesi ha provato ad opporsi: ad aprile, la popolazione cristiana del villaggio di Rmeish, nel sud del Libano, ha reagito contro dei terroristi di Hezbollah sospettati di aver cercato di piazzare dei lanciamissili nel villaggio, e in particolare vicino a chiese e scuole.

(Bet Magazine Mosaico, 22 agosto 2024)

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Il capo di Hamas, Yahya Sinwar, intrappolato sotto terra

Funzionari statunitensi ritengono che il leader di Hamas Yahya Sinwar voglia trovare un accordo con Israele, dal momento che è “intrappolato” nel sottosuolo e sta esaurendo le munizioni e i rifornimenti. Lo ha scritto il giornalista del Washington Post David Ignatius in un articolo di opinione pubblicato mercoledì.
  Tuttavia pur con il desiderio di un accordo, Ignatius osserva che Hamas sta “giocando una partita di attesa”, sperando che l’Iran o Hezbollah attacchino Israele, una mossa che trasformerebbe il campo di battaglia.
  Ma l’Iran probabilmente deluderà Hamas. Riferisce infatti che i funzionari statunitensi ritengono che i leader iraniani abbiano deciso di ritardare l’attacco a Israele, scoraggiati dalle forti minacce degli Stati Uniti.
  Secondo Ignatius, Teheran sta esortando Hezbollah a colpire Israele al suo posto.
  Da parte di Hezbollah, i funzionari statunitensi ritengono che il suo leader Hassan Nasrallah abbia fatto marcia indietro rispetto al piano iniziale di lanciare una raffica di missili su Tel Aviv e che sceglierà invece di colpire altri obiettivi.

(Rights Reporter, 22 agosto 2024)

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La Turchia blocca Israele, boom dei prezzi di ortofrutta

La decisione del governo turco di bloccare gli scambi commerciali con Israele a causa dei bombardamenti di quest’ultimo sulla Striscia di Gaza sta contribuendo all’aumento dei prezzi di frutta e verdura per i consumatori israeliani, secondo quanto riportato dal Daily Sabah.
Dopo una prima limitazione delle esportazioni di 54 tipi di prodotti, come riporta Fruitnet, a maggio le autorità turche hanno introdotto un divieto generalizzato a causa del continuo peggioramento della situazione umanitaria a Gaza.
“In seguito alla sospensione delle importazioni dalla Turchia a causa del suo boicottaggio di Israele, si è verificato un aumento dei prezzi di frutta e verdura”, ha confermato l’emittente pubblica israeliana KAN.
Il commercio bilaterale tra i due Paesi ammontava a quasi 7 miliardi di dollari l’anno prima della sospensione di quest’anno.
In risposta, il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha dichiarato che il Paese si sta concentrando sulla produzione locale e sulle importazioni da Paesi alternativi.
I prezzi sono stati influenzati anche dalla sospensione cautelativa da parte di Israele delle verdure provenienti dalla Giordania dopo la scoperta di batteri del colera nel delta del fiume Yarmouk.
Il Consiglio israeliano delle piante e delle associazioni agricole ha chiesto il sostegno finanziario del governo per abbassare i costi agricoli e ridurre i prezzi per i consumatori.

(Corriere Ortofrutticolo, 22 agosto 2024)

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L’IDF ha ucciso Khalil al-Maqdah, uno dei capi dell’ala militare di Fatah in Libano

di Luca Spizzichino

In un attacco aereo a Sidone, l’IDF ha ucciso Khalil al-Maqdah, uno dei comandanti dell’ala militare di Fatah in Libano. Al-Maqdah, leader delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, è stato colpito mentre viaggiava in auto. L’esercito israeliano ha confermato l’operazione, dichiarando che il terrorista, insieme al fratello Mounir, guidava il braccio armato di Fatah. Entrambi sono stati accusati di “dirigere attacchi terroristici e contrabbandare armi” in Giudea e Samaria, e sono stati descritti come “collaboratori” delle Guardie rivoluzionarie iraniane.
  Secondo le informazioni di intelligence riportate da Israel Hayom, Khalil al-Maqdah collaborava con la Forza Quds iraniana, il ramo delle operazioni estere delle Guardie rivoluzionarie. “Nel marzo 2024 è stato rivelato che armi erano state introdotte di nascosto in Giudea e Samaria e distribuite a cellule terroristiche reclutate e dirette dall’infrastruttura di Khalil e Mounir in Libano,” ha affermato l’esercito in un comunicato. “I funzionari responsabili della direzione e dell’esecuzione del contrabbando di armi in Israele e degli attacchi terroristici sono iraniani, guidati da Jawad Jaafari, capo dell’Unità 4000, un’unità per operazioni speciali nell’ala di intelligence dell’IRGC, insieme ad Ashgar Bakari, comandante dell’Unità 840, un’unità per operazioni speciali della Forza Quds iraniana”, ha aggiunto l’IDF.
  “La IDF e lo Shin Bet continueranno costantemente ad agire per monitorare e contrastare le attività che mettono a repentaglio la sicurezza dello Stato di Israele e dei suoi cittadini, al fine di denunciare e ostacolare i tentativi iraniani di compiere attività terroristiche contro lo Stato di Israele”, conclude il comunicato.
  L’attacco è stato commentato anche sul profilo X in ebraico dell’IDF, accompagnato da un video aereo che mostra il momento in cui l’auto su cui viaggiava Khalil al-Maqdah è stata colpita. È la prima volta dall’inizio della guerra che Israele prende di mira un membro della Brigata dei Martiri di Al-Aqsa.

(Shalom, 22 agosto 2024)

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ONU – Ambasciatore Israele: vittime 7 ottobre cancellate da mostra sul terrorismo

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Gilad Erdan, ambasciatore israeliano (uscente) alle Nazioni Unite

In occasione della Giornata internazionale della memoria e del tributo alle vittime del terrorismo la sede dell’Onu di New York, il Palazzo di Vetro, ospita la mostra Memories. Nell’esposizione si citano gli attacchi terroristi dell’11 settembre 2001 e alla maratona di Boston del 2013, oltre a riferimenti ad attentati in Indonesia e in Kenya. «Ma cosa manca?», chiede in un video Gilad Erdan, ambasciatore israeliano (uscente) alle Nazioni Unite. «Non c’è una sola menzione di un attacco compiuto dai palestinesi contro gli israeliani. Stiamo per commemorare un anno dal più grande attacco terroristico contro ebrei e israeliani dalla Shoah, eppure le Nazioni Unite non pensano di doverlo mostrare sui propri muri», accusa Erdan.
  Il diplomatico mostra poi la presenza nell’esposizione di una vittima palestinese del terrorismo. «In modo fuorviante c’è scritto grande Palestina in modo che i visitatori pensino che la persona sia stata colpita in Israele. Ma se si leggono le scritte in piccolo si scopre che in realtà è stata ferita in Nuova Zelanda».
  Sul sito delle Nazioni Unite si legge che la mostra – promossa da un programma internazionale di supporto alla vittime del terrore – mira a sensibilizzare l’opinione pubblica, ricordando che dietro ogni vittima e sopravvissuto al terrorismo c’è una storia personale. Inoltre si vuole «sottolineare l’importanza di prevenire gli attacchi terroristici e l’emergere di nuove vittime». Non però quando si tratta d’Israele, denuncia Erdan. «Non c’è luogo più corrotto e moralmente distorto delle Nazioni Unite. Dobbiamo unirci per diffondere questo messaggio in tutto il mondo, chiedendo la chiusura e lo smantellamento di questa organizzazione e l’istituzione di un nuovo organismo che rappresenti veramente valori nobili», conclude l’ambasciatore.
  Alla fine del suo mandato, il diplomatico ha aumentato il tono dello scontro nei confronti dell’Onu. In una recente intervista all’emittente i24News ha dichiarato che la sede delle Nazioni Unite a New York è «inutile» e dovrebbe essere «chiusa e cancellata dalla faccia della terra». Parlando dei suoi quattro anni da inviato all’Onu, ha affermato di essere «soddisfatto del lavoro svolto. Tuttavia, provo anche un’immensa frustrazione e angoscia per il fatto che questo edificio, che potrebbe apparire imponente dall’esterno, in realtà è corrotto e distorto».

(moked, 21 agosto 2024)

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Haifa prepara il più grande ospedale sotterraneo del mondo

La struttura del Rambam Health Care Campus è preparata per l'eventualità di una guerra totale con Hezbollah in Libano.

di Etgar Lefkovits

HAIFA - File di letti d'ospedale con annesse attrezzature per l'ossigeno fiancheggiano il parcheggio sotterraneo.
Quattro sale operatorie, un reparto di maternità e un centro di dialisi sono tra le strutture che il Rambam Health Care Campus di Haifa, noto anche come Rambam Medical Center, ha sistemato a tre livelli inferiori nel suo parcheggio.
Il più grande ospedale del nord di Israele ha creato il più grande ospedale sotterraneo del mondo e si sta preparando per una possibile guerra totale contro Hezbollah in Libano.
L'ospedale di emergenza sotterraneo fortificato Sammy Ofer, di tre piani e del valore di 140 milioni di dollari, è stato costruito dopo la seconda guerra del Libano contro l'organizzazione terroristica nel 2006, quando la procura iraniana ha sparato circa 70 razzi contro la città portuale settentrionale per oltre un mese, facendo tremare l'ospedale prima che venisse dispiegato il sistema di difesa aerea Iron Dome.
“Abbiamo preso l'impegno che uno scenario del genere non deve ripetersi”, ha ricordato il direttore dell'ospedale, il professor Michael Halberthal, durante una visita alla struttura domenica.

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Uno dei tre piani dell'ospedale sotterraneo di Haifa

L'ospedale sotterraneo di emergenza con più di 2.000 posti letto, operativo ma inutilizzato negli ultimi dieci anni, è essenzialmente un parcheggio di 1.500 auto che è stato convertito senza soluzione di continuità in un ospedale di guerra fortificato che è pienamente operativo entro otto ore.
A quasi due decenni dall'ultima grande guerra con Hezbollah, le minacce alla sicurezza sono solo aumentate. Il gruppo terroristico sciita, che lancia razzi contro Israele quasi quotidianamente dal massacro di Hamas del 7 ottobre che ha scatenato la guerra di Gaza, è meglio addestrato e più pesantemente armato. Gli esperti stimano che abbia un arsenale di 150.000 razzi con cui può colpire praticamente tutto il Paese.
Halberthal ha detto che l'esercito israeliano ha ipotizzato che, in caso di guerra totale, Hezbollah avrebbe lanciato un razzo su Haifa ogni quattro minuti per 60 giorni, causando migliaia di vittime.
“Volevamo una certezza per poter continuare a lavorare e ridurre il tempo di esposizione nel caso di un improvviso attacco missilistico sul nord di Israele”, ha dichiarato.
La struttura, che è stata modellata su quella di Singapore, è stata finanziata per il 30% dallo Stato e per il resto da filantropi ebrei e cristiani e da associazioni di beneficenza.
Durante la pandemia di coronavirus, è stata ampliata per diventare la più grande struttura COVID-19 in Israele.
Data la situazione di tensione con Hezbollah - Israele ha ucciso un alto dirigente di Hezbollah a Beirut il mese scorso, dopo che un razzo di Hezbollah aveva ucciso dodici bambini israeliani che giocavano a calcio sulle alture del Golan - l'ospedale sotterraneo è di nuovo operativo.
Uno dei tre piani di 20.000 metri quadrati è stato sgomberato dalle auto e messo in attesa negli ultimi 10 mesi, mentre l'ospedale sotterraneo curava centinaia di vittime di guerra, tra cui bambini drusi feriti durante l'attacco alle Alture del Golan.
Servizi igienici, docce e persino un asilo nella struttura sotterranea possono ospitare 8.000 persone a pieno regime. La struttura è dotata di elettricità, acqua, ossigeno, cibo e gas per essere autosufficiente per diversi giorni, secondo il direttore dell'ospedale.
Un centro di comando sotterraneo fortificato dell'ospedale, dotato di televisori con schermo intelligente e di un sistema informatico all'avanguardia, è stato donato dalla Federazione Internazionale di Cristiani e Ebrei.

• NIENTE PANICO
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I letti sono pronti per essere trasferiti al centro dialisi sotterraneo di Haifa

Non c'è bisogno di farsi prendere dal panico, ma i cittadini sono preoccupati”, dice Tal Siboni, responsabile del centro di emergenza del Comune di Haifa, che dal 7 ottobre è ospitato in un bunker sotterraneo. I telefoni squillano a vuoto, ma siamo preparati”.
La città di 300.000 abitanti, di cui il 12% arabi, è stata in tensione come molte altre città israeliane negli ultimi 10 mesi.
Circa 60.000 israeliani sono stati evacuati dalle loro case nel nord di Israele in seguito agli attacchi dal Libano, e alcuni si sono trasferiti ad Haifa.
Il sindaco di Haifa, Yona Yahav, ha dichiarato che Hezbollah potrebbe sparare fino a 4.000 proiettili al giorno contro il nord di Israele in una guerra totale.
“Mi accusano di essere troppo pessimista, ma è meglio essere troppo pessimisti”, ha detto lunedì, confermando le sue osservazioni, che hanno fatto alzare le sopracciglia nel mondo arabo e sono state riportate dai media.
“Siamo noi l'obiettivo”, ha detto. “Il leader di Hezbollah , Hassan Nasrallah, lo dice apertamente”.
Nel frattempo, la città ha ridotto la quantità di materiali pericolosi nelle sue industrie petrolchimiche nelle ultime due settimane come misura di sicurezza in conformità con una direttiva militare, ha detto Yair Zilberman, direttore della preparazione alle emergenze e della sicurezza della città.
“Ci sono sforzi diplomatici per disinnescare il conflitto, ma siamo pronti a tutto”, ha dichiarato il portavoce delle Forze di Difesa israeliane, il maggiore David Avraham, durante una conferenza stampa ad Haifa, con vista sui porti della città.
All'ospedale, in una calda e soleggiata giornata estiva, un flusso costante di pazienti attraversa l'ingresso principale, apparentemente ignaro dei preparativi in corso tre piani più in basso.
“Dobbiamo essere ottimisti”, dice Halberthal. “A un certo punto, tutto questo dovrà finire”.

(Israel Heute, 21 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Ex comandanti della NATO lodano Israele per la condotta umana in guerra

Un gruppo militare di alto livello respinge le accuse della Corte penale internazionale ed elogia gli sforzi dell'IDF per proteggere i civili.

 Nonostante le critiche diffuse dai media e le sfide legali, la condotta di Israele durante la guerra di Gaza in corso ha ricevuto un forte elogio da parte di ex capi militari della NATO. Nonostante le accuse della Corte Penale Internazionale (CPI) contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant, il Gruppo Militare di Alto Livello (HLMG) - composto da ex capi di stato maggiore e alti funzionari militari di diversi Paesi della NATO - ha elogiato le Forze di Difesa Israeliane (IDF) per il loro approccio umano nel conflitto.
Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha richiesto un mandato di arresto per Netanyahu e Gallant con l'accusa di crimini di guerra, comprese le accuse di aver affamato e ucciso intenzionalmente i civili. Tuttavia, l'HLMG ha presentato una memoria amicus curiae alla CPI, confutando queste accuse e fornendo le prove che l'IDF ha compiuto sforzi straordinari per proteggere i civili mentre conduceva operazioni militari a Gaza.
L'HLMG, che comprende leader militari di Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Francia, Spagna, Finlandia e Paesi Bassi, ha dichiarato che gli sforzi di Israele per garantire la consegna di cibo e aiuti umanitari a Gaza superano di gran lunga quelli tipicamente intrapresi dagli eserciti moderni. “È nostra opinione militare che lo Stato di Israele e l'IDF stiano rispettando in buona fede tutti gli obblighi legali internazionali per facilitare la fornitura di aiuti umanitari a Gaza”, ha scritto il gruppo.
Gli esperti militari hanno sottolineato che nessun'altra forza armata ha eguagliato il successo di Israele nel facilitare la consegna degli aiuti ai civili in territorio nemico mentre era attivamente impegnata nelle ostilità. L'HLMG ha evidenziato la creazione da parte dell'IDF di una Cellula di Mitigazione del Danno Civile (CHMC), un'innovazione tecnologica che utilizza una mappa digitale aggiornata ogni ora per monitorare le concentrazioni di civili. Questo strumento viene consultato quando si pianificano gli attacchi aerei e si scelgono le munizioni, assicurando che l'IDF riduca al minimo le vittime civili.
L'HLMG ha descritto il CHMC come una misura “estremamente insolita” e “senza precedenti”, notando che non è a conoscenza di nessun'altra forza militare che impieghi una metodologia comparabile per mitigare il rischio per la vita dei civili. Oltre a ciò, l'IDF ha anche implementato ampi sistemi di allerta, tra cui milioni di lanci di volantini, telefonate e messaggi di testo, per avvisare i civili dell'imminenza di azioni militari.
Questi sforzi, secondo l'HLMG, dimostrano l'impegno di Israele ad aderire al diritto internazionale e a proteggere le vite dei civili anche durante un conflitto attivo. La loro dichiarazione è in netto contrasto con la narrazione di violenza indiscriminata spesso riportata da alcuni media e sottolinea la complessità di condurre operazioni militari in aree densamente popolate come Gaza.
Mentre il dibattito continua sulla scena internazionale, il sostegno di questi alti ufficiali militari può giocare un ruolo cruciale nel plasmare la percezione globale della condotta di Israele nella guerra di Gaza.

(Israfan, 21 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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I dubbi su Alcide De Gasperi

di Elisabetta Fiorito

Settant’anni fa moriva Alcide De Gasperi, precisamente il 19 agosto 1954. Molti sono gli articoli commemorativi di questi giorni in cui si ricorda anche che sullo statista democristiano è in corso una causa di beatificazione in Vaticano, ormai ferma da oltre un decennio. Ma nuove nubi si addensano sul primo Capo di Stato dell’Italia repubblicana e primo Presidente del Consiglio. Un libro dello storico milanese Augusto Sartorelli, “L’antisemitismo di Alcide De Gasperi tra Austria e Italia, edizioni Clinamen” descrive gli anni giovanili a Vienna dove il giovane studente italiano abbraccia le tesi del controverso e antisemita borgomastro Karl Lueger che “combatteva gli ebrei artificiosamente identificati con la borghesia capitalista”. De Gasperi fu grande ammiratore di Lueger — spiega Sartorelli — che di lui disse: “Era il campione cristiano che liberò Vienna dal giogo degli Ebrei”. In un articolo su “Il Domani d’Italia”, il 15 maggio 1902, De Gasperi scrive che “in Austria dal 1860 al 1885 circa spadroneggiava il liberalismo in tutte le sue forme. Alla testa della corrente liberale stava la nazione ebrea, Vienna e l’Austria erano completamente sotto il giogo degli ebrei. Giornalisti si presentavano come l’indiscutibile opinione pubblica; industriali tenevano gli operai cristiani in condizione di schiavi; commercianti facevano coi grandi bazar una spietata concorrenza ai piccoli negozianti indigeni; banchieri affamavano alla borsa dei cereali la classe dei contadini, e nei teatri e nelle scuole il loro spirito talmudico rovinava completamente la morale pubblica”. Parole che non lasciano dubbi su come De Gasperi etichettasse gli ebrei il male del mondo.
  Ma da dove nasce tutto questo odio del futuro statista? È presto detto. Alcide De Gasperi nasce a Pieve Tesino, Borgo Valsugana, in Trentino, il 3 aprile del 1881 da una famiglia di umili origini di stretta osservanza cattolica. E Trento è il luogo dove, durante la Pasqua del 1475, viene ritrovato un bambino morto, Simonino e dove, a causa delle predicazioni del frate francescano Bernardo da Feltre, al quale ancora oggi è intestata una piazza vicino a viale Trastevere, il vescovo principe Johannes Hinderbach sostiene con forza la tesi che il bimbo sia stato vittima di un omicidio rituale, la famosa accusa del sangue, perpetrato dalla locale comunità ebraica. La storia ha il tragico epilogo nella condanna a morte, con confessioni estorte grazie alla tortura, di quindici ebrei, il più giovane di 15 anni, il più vecchio di 90 anni.
  “Il bambino – ricorda Sartorelli – da subito considerato un martire, era diventato oggetto di un culto destinato a durare per quasi cinque secoli”. Un culto che lo stesso De Gasperi difendeva. Come scrive Antonio Polito nel suo libro “Il costruttore – Le cinque lezioni di De Gasperi”, “nel 1903, un giovane avvocato liberale trentino, Giuseppe Menestrina (studente in Giurisprudenza a Graz poi avvocato ndr) amico e compagno di scuola di De Gasperi, diede alle stampe uno studio che smontava completamente le false accuse e che fu però accolto molto male dalla curia trentina. In quell’occasione Alcide difese invece il culto, provocando una dolorosa ma radicale rottura dell’amicizia con Menestrina, che gli tolse il saluto per 15 anni”.
  Si potrebbe dire, tesi di un giovane che si deve ancora formare, ma passiamo al 1938. De Gasperi è ormai un politico navigato, ha 57 anni, dapprima deputato del partito popolare di Don Sturzo, poi arrestato dai fascisti, rilasciato grazie all’intermediazione del vescovo di Trento Celestino Endrici, lavora dal 1929 alla Biblioteca Vaticana. Dopo la pubblicazione del Manifesto della Razza del 1938, la Chiesa ribadisce l’incompatibilità del razzismo con la dottrina cattolica. Sul numero 16 del 16-31 agosto dell’Illustrazione Vaticana, De Gasperi scrive che le tesi del Manifesto della razza “si distinguono nettamente dalle dottrine più conosciute dei razzisti tedeschi, “discriminare non significa perseguitare” e che “il governo fascista non ha nessun piano persecutorio contro gli ebrei”, ma penserebbe soltanto a una specie di “numero chiuso” alle professioni. De Gasperi conclude augurandosi che “il razzismo italiano si attui in provvedimenti concreti di difesa e di valorizzazione della nazione ed è da credere che l’elemento universalista contenuto nel fascismo può nutrirsi delle vive tradizioni della Roma cristiana che gli offrono il modo di conciliare, è il caso di dire ‘romanamente’, la fierezza del popolo con la sua gentile umanità”. Una posizione a dir poco ambigua.
  Ritroviamo Alcide De Gasperi nelle memorie di Ada Sereni, moglie dell’eroe Enzo Sereni, artefice dell’emigrazione ebraica in Israele dal 1945 al 1948 che descrive ne “I clandestini del Mare”, ed. Mursia, la cosiddetta Aliyah Beth. “Giunsero pure molti telegrammi di solidarietà – scrive Ada Sereni – primo fra tutti quello del presidente del consiglio italiano Alcide De Gasperi” per la vicenda delle navi Fede e Fenice bloccate al porto di La Spezia durante la Pasqua ebraica del 1946 e che darà luogo alla vicenda dell’Exodus. Ma più interessante è l’incontro che Ada Sereni ha con De Gasperi nel 1948 all’indomani delle prime elezioni politiche della repubblica vinte dalla Democrazia Cristiana. Fino a quel momento, la nazione è stata guidata da un governo di unità nazionale sempre da De Gasperi, tra i quali figurava anche il cognato di Ada, Emilio Sereni fratello di Enzo, ministro dei lavori pubblici e appartenente al Pci.
  Il voto Onu di novembre sancisce la nascita dello Stato ebraico che si prepara alla guerra già annunciata dalle nazioni arabe. Ada Sereni ha necessità di trasportare armi nella Palestina mandataria prima della dipartita dei britannici prevista il 15 maggio del 1948. “In quelle settimane di passione – scrive Ada Sereni – mi fu detto chiaramente, anche dai nostri più fervidi sostenitori, che solo se De Gasperi avesse approvato saremmo stati aiutati a far transitare i difficili carichi. De Gasperi non ci volle ricevere a Roma, ma ci fissò l’appuntamento a Trento (anche qui si potrebbe presagire una scorrettezza ma la materia era delicata). Per venticinque minuti, De Gasperi mi mise sotto un fuoco di fila di domande ben centrate. Infine, concluse: ‘quello che chiedete è praticamente il nostro aiuto a farvi vincere la guerra in Palestina. Qual è l’interesse dell’Italia alla vostra vittoria?’ La mia risposta fu pronta. Primo: l’Italia non ha nessun interesse ad essere circondata da paesi arabi troppo forti. Secondo: sono tre anni che ci aiutate a far defluire dall’Italia i profughi; se perderemo la guerra in Palestina ci sarà un riflusso di masse di profughi; per ragioni geografiche la maggior parte arriverà in Italia: che interesse avete a riprenderli? De Gasperi rimase un attimo silenzioso e disse: ‘allora cosa possiamo fare per voi?’ Chiudere un occhio e possibilmente due sulle nostre attività in Italia. ‘Va bene’, disse alzandosi”. Verrebbe da dire più spaventato dalla prospettiva che l’Italia potesse essere invasa dai profughi ebrei.
  “Sul tema degli ebrei – prosegue invece Sartorelli sul suo libro – la voce di De Gasperi sembrò forse riaffiorare nel 1945 dopo la caduta del governo Parri. Nel corso di una conversazione con lo statista democristiano per la formazione del nuovo governo, Pietro Nenni, accennando all’avversione dei liberali e dei democristiani per il Partito d’Azione, annota nel suo diario che ‘De Gasperi ha parlato dello spirito semitico dei Professori del Partito d’azione’. Un’affermazione che sembra essere congruente con il pensiero del primo De Gasperi, quello del Trentino asburgico”. Il partito d’Azione era nato nel 1942 sulle ceneri di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli e di cui faceva parte nel 1945 Vittorio Foa.
  Assolve parzialmente De Gasperi, Antonio Polito. “Vale la pena ricordare che solo nel 1965, undici anni dopo la sua morte – scrive il giornalista nel suo libro sullo statista – l’arcivescovo di Trento Alessandro Maria Gottardi decise finalmente la soppressione del culto e la rimozione della salma del piccolo Simonino dalla chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Trento”. E che proprio in quell’anno chiudeva il Concilio Vaticano II con il documento Nostra Aetate che toglieva dopo due millenni l’accusa di deicidio nei confronti degli ebrei.
  Viene da chiedersi allora: fu De Gasperi un uomo del suo tempo, antisemita perché lo era la Chiesa dell’epoca come si chiede lo stesso Sartorelli? Probabilmente è anche così, ma purtroppo troppi dubbi restano.

(Shalom, 21 agosto 2024)

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Il premier “non è certo che ci sarà un accordo”: Israele resterà al confine con l'Egitto

Netanyahu ha anche informato le famiglie degli ostaggi: "L'operazione di ieri sera per recuperare i corpi degli ostaggi è solo una delle tante che stiamo conducendo. Non posso rivelare tutto. Stiamo lavorando costantemente a queste e ad altre operazioni”.

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha espresso scetticismo su un potenziale accordo con Hamas, sottolineando l'impegno di Israele a mantenere posizioni strategiche chiave. Nel frattempo, le famiglie in lutto hanno espresso preoccupazione per un possibile scambio di prigionieri, facendo un parallelo con il controverso accordo di Gilad Schalit del 2011.
  “Non sono certo che ci sarà un accordo, ma se si concretizzerà, salvaguarderà gli interessi e gli asset strategici di Israele”, ha dichiarato martedì Netanyahu durante un incontro con il Forum dell'Eroismo - famiglie in lutto che hanno perso soldati nella campagna Spade di Ferro in corso - e il Forum della Speranza - famiglie degli ostaggi del 7 ottobre.
  Netanyahu ha anche informato le famiglie: “L'operazione di ieri sera per recuperare i corpi degli ostaggi è solo una delle tante che stiamo conducendo. Non posso rivelare tutto. Stiamo lavorando costantemente a queste e ad altre operazioni”.
  Il primo ministro ha dichiarato con fermezza che Israele non rinuncerà in nessun caso al controllo del Corridoio di Filadelfia e del Corridoio di Netzarim, riferendosi al confine tra Gaza ed Egitto e ad un corridoio chiave est-ovest nella Striscia di Gaza. “Forse sono riuscito a convincere Blinken? Gliel'ho detto chiaramente: In nessun caso Israele si ritirerà dalle posizioni strategiche che ha conquistato durante questo conflitto”.
  “Queste sono ore cruciali per il popolo israeliano”, ha detto Yehoshua Shani, padre del capitano Uri Shani, caduto a Kisufim, all'inizio dell'incontro. “Siamo profondamente preoccupati per un potenziale accordo che potrebbe compromettere la sicurezza di Israele”, ha continuato. “Voglio mostrare una fotografia scattata l'anno in cui Gilad Shalit è stato rilasciato, che ritrae dei bambini di 10 anni, mio figlio e Eitan Mor, attualmente prigioniero a Gaza. Mentre lei spingeva per l'accordo su Shalit, sono stati gettati i semi del disastro del 7 ottobre. Esortiamo il Primo Ministro a non ripetere gli errori dell'accordo Shalit che ci hanno fatto tornare indietro. Siamo aperti a un accordo, ma non a uno che metta a rischio la nostra sicurezza nazionale”.
  Itzik Buntzel, padre di Amit Buntzel, caduto nella Striscia di Gaza, ha dichiarato: “Siamo qui questa mattina per un incontro del 'Forum dell'eroismo' con il primo ministro, viste le informazioni contrastanti che circolano nella sfera pubblica e nei media. Intendiamo guardare il primo ministro negli occhi e chiedere chiarezza su ciò che sta realmente accadendo e su quali termini si stanno discutendo”.
  E ha aggiunto: “Allarmante è il fatto che stamattina abbiamo appreso che lo Stato non dispone di un elenco completo degli ostaggi e delle vittime. Iniziare i negoziati senza sapere chi tra gli ostaggi è vivo è profondamente preoccupante. Come possiamo impegnarci in trattative se mancano informazioni così cruciali?”.
  “È impensabile che si arrivi a un accordo con implicazioni di vasta portata per la sicurezza di Israele senza una piena trasparenza. Esigiamo risposte dal Primo Ministro. Non siamo semplicemente un'altra stella sulla bandiera americana, ma una nazione sovrana. Non esiste uno scenario in cui Israele capitola e Hamas riprende il controllo di Gaza come se nulla fosse”.
  Itzik Fitusi, che ha perso suo figlio Yishai, un combattente del Golani caduto il 7 ottobre, ha detto: “Sono qui per assicurarmi che il Primo Ministro rimanga risoluto nel salvaguardare la sicurezza di Israele, con in mente il benessere di tutti i cittadini. Oggi ricorrono 19 anni dall'espulsione dalle nostre case e siamo testimoni delle conseguenze del disimpegno. Intendo ricordargli tutto quello che è successo da allora”.
  Danny Steinberg, padre del Comandante della Brigata Nahal, Colonnello Yonatan Aharon Steinberg, ha aggiunto: “La mia posizione riflette i precedenti incontri con il Primo Ministro, in cui egli è stato incrollabile nel suo impegno verso le decisioni del governo di smantellare Hamas e di assicurare la restituzione di tutti gli ostaggi. Il Forum dell'Eroismo sostiene un accordo, ma che includa tutti gli ostaggi, compresi quelli uccisi. Sosterremo un accordo che non comprometta gli asset strategici o abbandoni il Sud e lo Stato. Prevediamo un accordo globale che garantisca il ritorno di tutti gli ostaggi e porti sicurezza sia al Sud che, se possibile, al Nord. Questa è la nostra visione dell'accordo. Siamo qui per sentire in prima persona cosa sta accadendo”.

(Israel HaYom, 20 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele – La ferrovia unisce il paese, anche in tempo di guerra

di Adam Smulevich

La “normalità” di Israele in questa estate di guerra scorre anche sui binari del suo sistema ferroviario. Sessantasei stazioni e un totale di 1.138 chilometri, di proprietà statale. Non solo tutte le stazioni sono aperte, ma nessuna comunicazione è stata interrotta con le aree più esposte ad eventuali attacchi da parte dell’Iran o dei suoi alleati. In un paio d’ore, partendo da Tel Aviv, si possono così raggiungere sia Nahariya che Sderot. La prima, al confine con il Libano, teme in ogni momento un attacco di Hezbollah e tiene pronti i rifugi. La seconda, travolta dai terroristi di Hamas lo scorso 7 ottobre, si trova a pochi chilometri dalle aree di combattimento a Gaza.
  La stazione di Sderot, all’occorrenza un bunker, è stata riaperta a marzo. Vari treni assicurano un collegamento con la “capitale” regionale Beer Sheva così come con le località di Netivot e Ofakim, segnate entrambe dal 7 ottobre. In questa parte del paese i viaggiatori sono oggi pochi: qualche civile e soprattutto soldati, in transito da casa alle basi in cui prestano servizio (e viceversa). Più affollata la linea Tel Aviv-Gerusalemme, utilizzata da un buon numero dei passeggeri in transito all’aeroporto Ben Gurion, l’unico collegamento aperto tra Israele e il resto del mondo. Per andare dalla capitale alla Città Bianca ci vogliono poco più di trenta minuti. Con la precedente linea d’epoca ottomana il tempo di percorrenza era oltre il doppio rispetto a quello attuale. Quando fu inaugurata, il 26 settembre del 1892, per salire fino agli ottocento metri di Gerusalemme si impiegavano tra le tre e le sei ore, partendo tra l’altro da Jaffa visto che Tel Aviv ancora non esisteva.
  La ferrovia dell’alta velocità tra Gerusalemme e Tel Aviv è stata inaugurata nel 2018, nel 70esimo anniversario dalla fondazione dello Stato ebraico, imprimendo una svolta a un sistema in crescita ma ancora lacunoso sotto vari punti di vista. Per l’elettrificazione totale della rete si dovrà attendere ancora. Almeno il 2030, scrivono alcuni organi di informazione. Restano poi da inserire nel sistema alcune importanti città oggi non raggiungibili con il treno. Come Eilat, località tra le più turistiche d’Israele, separata dal resto del paese da centinaia di chilometri di deserto. Oppure Nazareth, in Galilea, che sarà la destinazione di una nuova linea in costruzione con partenza da Haifa. L’inaugurazione è prevista per il 2027 e sono attesi circa 120mila passeggeri al giorno.

(moked, 20 agosto 2024)

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La festa di Tu B’Av dopo il 7 ottobre: sentimenti a contrasto

di Michal Colafranceschi

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È stata una celebrazione diversa dal solito quella di Tu B’Av di quest’anno, caduto proprio il 19 di agosto. In questo giorno, il 15 di Av, a breve distanza dal 9 di Av che rappresenta il giorno di lutto per la distruzione del Beth Hamikdash, abitualmente esplode un’ondata di allegria e vitalità con questa festa, Tu B’Av appunto, dedicata all’amore e all’agricoltura.
  La Mishnà di Ta’anit racconta che in questa giornata i giovani, vestiti di bianco, si riunivano per danzare e conoscersi, abbattendo solo per questo giorno l’antica tradizione che impediva i matrimoni tra tribù diverse, trasformando Tu B’Av in un simbolo di riunificazione. Inoltre, il 15 di Av segnava l’ultima opportunità per raccogliere legna prima del riposo invernale e coincideva con la fine della vendemmia, quando l’uva veniva raccolta per produrre il vino. Questa giornata è diventata un momento di grande gioia per Am Israel, che celebra l’amore in ogni angolo del mondo.
  Quest’anno, però, il significato di Tu B’Av è stato immerso in una tristezza profonda. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, molti giovani sono ancora prigionieri nelle mani di Hamas, lontani dai loro cari e impossibilitati a celebrare Tu B’Av. Da qui è nata la storia di Ziv Abud, una giovane donna che, seduta sul lungomare di Tel Aviv, con il tramonto a farle da sfondo, ha organizzato una cena romantica, stringendo tra le mani una foto di Eliya Cohen, il suo grande amore, ostaggio a Gaza da 318 giorni. Vestita con un abito rosso, Ziv ha preparato un tavolo per due e ha parlato con i passanti, condividendo la sua speranza nel ritorno di Eliya e il desiderio di poter celebrare il matrimonio che lui stava pianificando.
  L’ultimo ricordo che ha del suo amato è legato al Nova Festival del 7 ottobre, pochi istanti prima che i missili iniziassero a cadere, che i colpi di arma da fuoco si avvicinassero e che il terrore esplodesse, con il massacro perpetrato da Hamas con distruzione, uccisioni, stupri, rapimenti. Ziv riuscì a sopravvivere, mentre il suo amato fu portato via a Gaza.
  In questo giorno speciale, Ziv e molti altri giovani vivono un contrasto straziante tra la gioia prevista e la realtà del dolore. Alcuni sono tutt’oggi vittime e ostaggi di Hamas, mentre altri ragazzi lottano tra la vita e la morte lungo i confini di Erez Israel, per assicurare al popolo ebraico di portare avanti la simchà, il sentimento di gioia e speranza, in un momento di grande oscurità.

(Shalom, 20 agosto 2024)

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Corridoio di confine Filadelfia o ostaggi?

Israele non deve ripetere lo stesso errore e rinunciare al corridoio di confine Filadelfia.

di Aviel Schneider

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Il corridoio di confine Filadelfia

GERUSALEMME - L’uomo non può vivere senza un'ancora di salvezza, e per il regime di Hamas a Gaza, il corridoio di confine di 12 chilometri di Filadelfia tra la Striscia di Gaza e il Sinai egiziano era un'ancora di salvezza.  Sotto il corridoio di confine, che Israele ha riconquistato negli ultimi mesi , c'era un gran numero di tunnel per i contrabbandieri. Questo sistema di tunnel serviva ad Hamas come linea di rifornimento e veniva usato per contrabbandare armi e razzi. Israele deve fare attenzione a non ripetere lo stesso errore e a restituire il corridoio di confine in mani straniere. Non c'è alternativa alla presenza di forze israeliane lungo il corridoio di confine egiziano per garantire una reale sicurezza.
Questi 12 chilometri, che per anni sono stati un inferno per Israele, fanno parte della strada più bella di Israele, la Strada 10. La 10, che corre parallela al confine egiziano, è una delle strade asfaltate più lunghe di Israele, a mio avviso sicuramente la più bella del Paese, ma anche la meno percorsa. Per la maggior parte dell'anno è quasi completamente deserta. Le restrizioni di sicurezza vietano il traffico civile incontrollato su questa pittoresca stradina lunga 200 chilometri, che si estende dall'estremità sud-occidentale del confine con la Striscia di Gaza fino a Eilat, dove si congiunge con la Strada 12.
Il corridoio di confine Filadelfia era l'arteria principale per il sangue e l'ossigeno nella Striscia di Gaza. Quasi tutto ciò che esiste nella Striscia di Gaza, armi, razzi, munizioni, sigarette, droghe, banconote, bestiame, persone e tutto ciò che si può pensare è entrato nella Striscia palestinese attraverso il corridoio di confine Filadelfia con la consapevolezza e l'interesse dell'Egitto. L'Egitto non è una democrazia. Nulla avviene lì senza autorizzazione e l'importazione di tali quantità rispondeva alle esigenze del sistema di gestione delle relazioni internazionali del Cairo con Gerusalemme. All'esterno, l'Egitto rispetta il trattato di pace con Israele, mentre nel sottosuolo ha armato il regime di Hamas a Gaza. Per alcune figure chiave della parte egiziana, come Mohammed el-Sisi, il figlio del presidente egiziano, si è trattato di un affare da miliardi di dollari.
Sotto il patrocinio egiziano, è stato portato nella Striscia di Gaza un vasto materiale. I camion hanno attraversato la Striscia. Questo non è possibile senza l'autorizzazione delle autorità egiziane, soprattutto perché Hamas è una propaggine della Fratellanza Musulmana radicale in Egitto, che è osteggiata dal presidente egiziano Fattah el-Sisi. Quello che è successo non può ripetersi.
Per ricordare, prima del ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza nell'estate del 2005, ci sono state diverse considerazioni su come controllare il corridoio di confine Filadelfia. La presenza di forze israeliane sul confine richiedeva un'ampia zona di sicurezza. La larghezza necessaria, fino a 300 metri, avrebbe richiesto la demolizione di migliaia di case a Rafah e nell'area circostante. Un piano prevedeva la creazione di un canale d'acqua lungo 12 chilometri alimentato dal Mediterraneo per prevenire attacchi e tunnel. Alla fine, Israele ha commesso l'errore di ritirarsi completamente dal confine, lasciando il controllo all'esercito egiziano. In cambio, Israele ha permesso il dispiegamento di quasi 1.000 soldati egiziani aggiuntivi nella zona demilitarizzata del Sinai, come stabilito dal trattato di pace. All'inizio del 2008, l'Egitto ha eretto un muro di sbarramento alto 3 metri, poiché Hamas aveva già fatto saltare le precedenti barriere di filo spinato. Ma anche il muro di cemento e acciaio è stato fatto saltare da Hamas in diversi punti, così che decine di migliaia di palestinesi della Striscia di Gaza hanno potuto fare acquisti e camminare sul lato egiziano per giorni, fino a quando il confine non è stato nuovamente chiuso dagli egiziani. Tutto questo è accaduto sotto il Primo Ministro israeliano Ehud Olmert. Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni nel 2009 e ha governato il Paese fino ad oggi, con una breve interruzione (da giugno 2021 a dicembre 2022).
Negli anni successivi Hamas, in collaborazione con le autorità egiziane, ha costruito nella Striscia di Gaza il sistema di mostri sotterranei che Israele ha esposto al pubblico mondiale negli ultimi mesi. Questo spiega come Hamas abbia potuto lanciare migliaia di razzi contro Israele in tutte le sue guerre contro Israele tra il 2009 e il 2014. Il tutto grazie ai tunnel sotto il corridoio di confine Filadelfia. Israele stesso è rimasto sorpreso e ha messo in imbarazzo il suo partner di pace, l'Egitto, che per anni aveva ripetutamente promesso a Israele di non permettere tunnel sotto il corridoio di confine.
Oggi possiamo capire che la preoccupazione per l'intelligence distrae dal vero problema, ovvero l'obbligo delle forze armate israeliane di difendere il popolo anche se l'esercito viene sorpreso. Il nemico ha sconfitto la divisione meridionale di Gaza di Israele il 7 ottobre non grazie all'intelligence, ma perché Israele non aveva il margine di sicurezza e le riserve di difesa necessarie. “L'intelligence e la difesa israeliana hanno fallito a causa della politicizzazione dell'esercito. Invece della logica militare e del pensiero militare, la leadership della sicurezza israeliana ha usato il calcolo politico. Non è questo il loro compito. Il loro compito è sconfiggere Hamas. Questo è il loro compito”, hanno spiegato nei giorni scorsi gli esperti di sicurezza. Gli stessi meccanismi stanno funzionando ora e Israele non deve cadere in questa trappola. Diverse fonti hanno sottolineato che lo Stato Maggiore israeliano è pronto a lasciare il corridoio di confine Filadelfia e dispone di soluzioni per impedire la costruzione di nuovi tunnel in caso di emergenza.  Se questo fosse l'unico modo per liberare gli ostaggi israeliani.
Dobbiamo assumerci la responsabilità dei nostri confini. Yahya Sinwar comprende molto bene questa necessità. Sa come sopravvivere e vuole sopravvivere. Questo è il suo elisir di lunga vita. Ecco perché la prima cosa che vuole è questo ossigeno, senza il quale ha un serio problema. E Israele non deve permetterlo. Yahya Sinwar è uno psicopatico che ha dimenticato il suo guru spirituale. Chi ha reclutato Sinwar è stato Abdallah Yussef Azzam, ideologo islamista palestinese, mente di al-Qaeda e mentore di Osama bin Laden, il padre della jihad islamica. Una delle cose più dolorose per Sinwar è la perdita del suo Paese. Se si rende conto di aver perso un territorio a causa della sua megalomania, questo è il momento di dirgli che ora può o  perdere, o perdere ancora di più. Se Israele rinuncia di nuovo al corridoio di confine, manterrà in vita l'ancora di salvezza per Hamas e Sinwar. Questo non deve accadere, in nessun caso.
I mediatori americani ed egiziani stanno esercitando enormi pressioni su Israele affinché rinunci al corridoio di confine, altrimenti non ci sarà alcun accordo sugli ostaggi. È lecito chiedersi se Israele sia in grado di resistere a queste pressioni. Negli ultimi giorni, parallelamente ai negoziati di Doha e del Cairo per un accordo sugli ostaggi, le forze armate israeliane hanno intrapreso azioni ancora più massicce del solito contro Hamas nella Striscia di Gaza, al fine di esercitare ancora più pressione su Hamas e Sinwar e infine uccidere Sinwar. Non sarà una decisione facile per Israele quando dovrà scegliere tra il corridoio di confine Filadelfia e il rilascio degli ostaggi israeliani.

(Israel Heute, 20 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Hamas e la Jihad Islamica rivendicano l’attentato fallito a Tel Aviv

Ma la polizia e lo Shin Bet pensano ci siano dietro Iran e Hezbollah

Le forze di sicurezza israeliane stanno indagando sulla possibilità che l’Iran e il suo proxy libanese Hezbollah siano collegati al tentativo di attentato suicida di domenica da parte di un palestinese a Tel Aviv, hanno riferito lunedì 19 agosto i media ebraici.
  Hamas ne ha rivendicato la responsabilità, insieme alla Jihad islamica palestinese, anche se l’attentatore non risulta essere affiliato a nessuno dei due. Tuttavia, la polizia e il servizio di sicurezza Shin Bet ritengono che l’attentatore, residente a Nablus in Cisgiordania, possa aver ricevuto indicazioni dall’Iran o da Hezbollah, data la sofisticatezza del suo esplosivo, che alla fine è risultato difettoso, secondo quanto riportato da Channel 12 news e dall’emittente pubblica Kan.

• L’attentato fallito
   Un uomo che trasportava la bomba è stato ucciso nell’incidente di domenica 18 agosto, secondo quanto riferito dalla polizia sul posto. L’attentatore era un palestinese della zona di Nablus, in Cisgiordania, e trasportava l’ordigno esplosivo in una borsa di riserva, hanno riferito i media israeliani in lingua ebraica. Un passante di 43 anni a bordo di uno scooter elettrico è rimasto ferito nell’esplosione.
  Secondo la polizia israeliana, l’ordigno esplosivo, che “probabilmente è stato costruito in Cisgiordania”, era “grande e significativo e se non fosse esploso all’esterno avrebbe ferito molte persone”, ha detto Amar.
  Secondo Channel 12, il terrorista ha camminato per circa un chilometro (0,6 miglia) nel sud di Tel Aviv prima che l’esplosivo di 8 chilogrammi (17 libbre) nel suo zaino esplodesse in un’area non affollata, uccidendolo e ferendo un’altra persona.
  La polizia inizialmente non era sicura che l’esplosione fosse il risultato di un tentativo di attacco terroristico e ha avuto difficoltà ad accertare l’identità dell’uomo morto, di cui “non è rimasto nulla”, ha detto Amar. Ha aggiunto che un rapido controllo di laboratorio ha rivelato che il deceduto proveniva dalla Cisgiordania, e a quel punto la polizia ha concluso che l’esplosione era stata concepita come un attacco terroristico.
  Separatamente, Canale 12 ha detto che il Consiglio di Sicurezza Nazionale ha informato diversi funzionari israeliani attuali ed ex su possibili minacce contro di loro da parte dell’Iran e di Hezbollah.
  Sebbene non vi fossero al momento avvertimenti concreti di un attacco terroristico, la polizia ha dichiarato di aver rafforzato la propria presenza nelle grandi città a seguito di quello che sarebbe stato il primo attentato suicida in Israele dal 2016.
  “Se il terrorista fosse entrato in una sinagoga vicina, sarebbe stata una tragedia terribile”, ha dichiarato il capo della polizia di Tel Aviv Peretz Amar in una conferenza stampa lunedì sera.
  “Si è trattato di un attacco terroristico, con la detonazione di un potente ordigno esplosivo”, hanno dichiarato la polizia e lo Shin Bet in un comunicato congiunto. “I cittadini sono invitati a essere vigili”.
  Secondo il comandante della polizia del distretto di Ayalon, Haim Bublil, l’assalitore potrebbe aver pianificato di colpire la vicina sinagoga o il centro commerciale, ma non è chiaro il motivo per cui la bomba sia esplosa.
  Il portavoce della polizia israeliana Eli Levy ha dichiarato che è stato un “miracolo” che l’incidente non sia stato un attacco con un alto numero di vittime.
  “È avvenuto un grande miracolo. Si tratta di un incidente molto difficile su cui stanno indagando la polizia e lo Shin Bet”, ha dichiarato a Kan News.

• Le rivendicazioni
   In una dichiarazione, le Brigate Al-Qassam di Hamas hanno affermato che le loro “operazioni di martirio” (attacchi suicidi) all’interno di Israele continueranno finché “continueranno i massacri e la politica di assassinio dell’occupazione” – un riferimento alla campagna militare di Israele a Gaza e all’uccisione del leader di Hamas Ismail Haniyeh nella capitale iraniana di Teheran il 31 luglio, mai rivendicata da Israele.
  Il fallito attentato suicida di domenica è avvenuto circa un’ora dopo l’arrivo del Segretario di Stato americano Antony Blinken a Tel Aviv per sollecitare un cessate il fuoco a Gaza.
  Nel frattempo, le autorità israeliane hanno dichiarato che il livello di allerta era stato innalzato a Gush Dan, l’area metropolitana che comprende Tel Aviv, dove le forze di sicurezza stavano effettuando perquisizioni.

(Bet Magazine Mosaico, 20 agosto 2024)

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Kamala sceglie un sostenitore del terrorismo come “collegamento” con gli ebrei americani

di Daniel Greenfield

“Al Congresso sta aumentando la pressione affinché Biden faccia di più per fermare l’assalto di Israele a Gaza?”, gli venne chiesto in un’intervista del 2021, mentre infuriavano i combattimenti per fermare gli attacchi di Hamas contro Israele.
“Spero che possa usarlo come leva per convincere gli israeliani a fermarsi”, rispose Ilan Goldenberg, futuro consigliere di Kamala per il Medio Oriente e nuovo “collegamento” con la comunità ebraica.
Un’Amministrazione Kamala potrebbe essere peggiore per gli ebrei dell’Amministrazione Obama?
Una prima risposta è arrivata con l’annuncio che la campagna Harris-Walz aveva scelto Ilan Goldenberg come PROPRIO “collegamento” con la comunità ebraica. Freedom Center Investigates aveva già tracciato il profilo di Goldenberg quando era consigliere di Kamala per il Medio Oriente.
Membro del team di Kerry sotto Obama, i cui attacchi faziosi contro Israele e il cui sostegno all’Iran e ai terroristi islamici in Israele hanno contribuito a provocare l’attuale crisi regionale, Goldenberg ha trascorso gli anni precedenti al 7 ottobre facendo tutto il possibile per far sì che l’attacco di Hamas si realizzasse.
E il periodo successivo in cui ha ricoperto il ruolo di consigliere di Kamala e ha imposto sanzioni agli israeliani.
Ilan Goldenberg aveva precedentemente sostenuto un accordo in cui “Hamas avrebbe mantenuto alcune delle sue capacità militari” e sostenuto che “metà delle cause profonde sono azioni israeliane, in particolare concentrandosi su Gaza. E l’altra metà è dovuta alla scelta di Hamas di usare la violenza e armarsi in risposta”.
Aveva perorato un maggiore flusso di denaro a favore di Hamas e sostenuto che Israele avrebbe dovuto consentire ai lavoratori di Gaza l’ingresso nel paese. “Una volta c’erano 25.000, 100.000 abitanti di Gaza che lavoravano all’interno di Israele. Deve accadere di nuovo”. Ciò ha portato al 7 ottobre.
La nuova “liasion” ebraica di Kamala si è opposta a ogni singola mossa pro-Israele da parte sia dei repubblicani che dei democratici, che si trattasse di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, riconoscere le alture del Golan o persino tagliare gli aiuti al programma “pay-to-slay” dell’Autorità Nazionale Palestinese. Invece, ha sollecitato mosse anti-Israele tra cui un riconoscimento unilaterale di uno Stato “palestinese” sul territorio di Israele.
Ilan Goldenberg era stato un acceso sostenitore dell’Iran Deal e aveva partecipato a un evento organizzato da NIAC: Iran Lobby. Aveva sostenuto che “In seguito a un accordo nucleare di successo, le relazioni degli Stati Uniti con l’Iran dovrebbero passare da quelle di un avversario a quelle di un concorrente”.
E Ilan Goldenberg faceva parte del team responsabile e difensore dell’opposizione dell’Amministrazione Obama a Israele presso l’ONU.
Un recente articolo su Tablet di Michael Doran del “Center for Peace and Security in the Middle East” aveva descritto Goldenberg come colui che ha svolto un “ruolo molto entusiasta” nel programma dell’Amministrazione Biden per sanzionare gli ebrei in Israele. Finora quelle sanzioni hanno preso di mira un allevamento di capre israeliano, un fornaio israeliano che ha sparato a un terrorista e una madre israeliana di 8 figli, che ha lavorato con i sopravvissuti di aggressioni sessuali e ha guidato le proteste contro le politiche di Biden che hanno premiato Hamas.
Invece di essere associato alla comunità ebraica, Goldenberg era legato a gruppi anti-israeliani tra cui “J Street”, “Peace Now” e “Israel Policy Forum”: che hanno accolto con favore la sua nomina. Goldenberg aveva una rapporto flebile con gruppi ebraici, ma aveva partecipato a un evento per NIAC, Iran Lobby, ed è stato un vigoroso sostenitore dell’accordo che ha rafforzato il terrorismo iraniano.
Ma tutto questo potrebbe non essere l’aspetto più inquietante della mossa della vicepresidente Kamala Harris.
I precedenti contatti ebraici erano solitamente coinvolti nella vita comunitaria ebraica e potevano parlare di una varietà di questioni. Ilan Goldenberg è semplicemente un attivista anti-israeliano i cui unici problemi sono dare potere all’Iran e a Hamas. Kamala ha riassunto la comunità ebraica nel gruppo a sostegno del suo programma anti-israeliano senza nemmeno riconoscere che ci sono ebrei americani.
Un collaboratore di Kamala ha dichiarato che Goldenberg sarebbe stato “il principale collegamento della campagna con i leader e le parti interessate della comunità ebraica e avrebbe consigliato la campagna su questioni relative alle relazioni tra Stati Uniti e Israele, alla guerra a Gaza e al Medio Oriente in senso più ampio”.
Non c’è menzione di nulla che potrebbe interessare agli ebrei americani all’interno dei confini nazionali.
Gli ebrei americani non sono il governo israeliano o una sua estensione. E tuttavia per Kamala, questo è tutto ciò che sono. L’assistente di Kamala non è riuscito a pensare agli ebrei americani se non in termini di politica estera.
I portavoce di Kamala nella comunità ebraica sostenevano che, poiché suo marito è di origine ebraica, lei capisce gli ebrei. Se non altro, gli ebrei americani le sono apparentemente estranei.
Invece di scegliere qualcuno della comunità ebraica o uno dei suoi assistenti politici, Kamala ha scelto qualcuno la cui unica funzione sarà quella di giustificare le sue politiche anti-israeliane alla comunità ebraica e che filtrerà ogni tentativo della comunità ebraica di contrastarle.
Cosa possono aspettarsi gli ebrei americani da Ilan Goldenberg e, in una certa misura, da Kamala Harris?
Durante le operazioni militari del 2021 contro Hamas, Goldenberg ha spiegato perché Biden stava solo fingendo di sostenere Israele. “Quello che Biden ha deciso di fare per il momento è dire privatamente agli israeliani di fermarsi o di fermarsi presto, continuando a sostenerli pubblicamente. Questo lo aiuta a costruire un sostegno politico… ma quando arriverà un momento, si spera presto… in cui Biden dirà, ‘OK, basta, dovete fermarvi o la nostra posizione pubblica inizierà a cambiare. La nostra posizione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove vi abbiamo difeso, inizierà a cambiare. Dovete fare in modo che tutto questo finisca’”.
“Ma se avesse iniziato semplicemente criticandolo pubblicamente, penso che la convinzione, almeno nell’Amministrazione Biden, sia che potrebbe essere stato effettivamente l’occasione per il primo ministro Netanyahu di opporsi agli Stati Uniti e dire che ‘non prendiamo ordini dagli Stati Uniti. Dobbiamo fare ciò che è meglio per la nostra sicurezza’ e in un certo senso usare il disaccordo con gli Stati Uniti come un grido di battaglia politico per se stesso in patria. E quindi penso che questo sia uno dei motivi per cui l’Amministrazione Biden ha scelto, almeno all’inizio, di sostenere pubblicamente Israele”.
Bugie, inganni e manipolazioni con lo scopo di rafforzare Hamas e distruggere Israele.
Ogni singolo “rabbino” presente nel raduno virtuale “Jewish Americans for Kamala Harris” organizzato da Haile Sofer, ex consigliere di Kamala, e dal suo Jewish Democratic Council of America, era un attivista anti-Israele. Sofer e la JDCA, che in precedenza avevano salutato la richiesta del senatore Schumer che Israele smettesse di combattere Hamas, hanno celebrato la nomina di Goldenberg.
La campagna di Kamala e i suoi alleati politici stanno guidando una rottura fondamentale con Israele, anche prima delle elezioni, mascherandola con discorsi allegri a vantaggio di alcuni dei loro donatori.
La nomina di una delle figure di politica estera più ostili e persistenti come “collegamento” con la comunità ebraica invia un messaggio potente: questa amministrazione sarà anti-Israele tanto quanto lui e che Kamala riconfigurerà il proprio rapporto con gli ebrei americani attorno alle sue politiche anti-Israele. Nemmeno Obama è arrivato a tanto. Cosa ci dice il fatto che Kamala lo stia già facendo adesso?

(L'informale, 20 agosto 2024 - trad. Niram Ferretti)

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La vendetta che non c’è stata e le trattative

Le rappresaglie annunciate – e non realizzate

di Ugo Volli

Sono passate quasi tre settimane dall’eliminazione a Beirut del numero due di Hezbollah, Fouad Sukar, e di quella a Teheran di Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas; quasi un mese dall’attacco dell’aeronautica militare israeliana contro il porto di Hodeida nello Yemen. È stata una serie di colpi durissimi ai satelliti dell’Iran, per cui ciascuno di loro ha promesso vendetta. Lo hanno fatto anche gli ayatollah, con dichiarazioni infuocate del leader supremo dell’Iran Ali Khamenei. Si è a lungo discusso sulla forma che avrebbe avuto la rappresaglia di questo “asse del male”; si sono sprecate dichiarazioni pro e contro: c’è stata un grande stato d’allarme da parte di Israele; gli Usa hanno spedito in Medio Oriente un terzo della loro flotta; vi sono state missioni diplomatiche per indurre a miti consigli gli ayatollah, respinte con sdegno da loro. Ma almeno fino al momento in cui questo articolo viene scritto (domenica sera), niente è successo se non il consueto scambio di colpi fra Israele, che mira a eliminare capi militari e risorse strategiche di Hezbollah e i terroristi libanesi, che puntano invece piuttosto su case e automobili civili. Il lento e minuzioso lavoro di smantellamento delle risorse militari di Hamas è proseguito, contrastato da agguati e da pochi lanci di missili ormai incapaci di raggiungere bersagli significativi.

• PERCHÉ NON È ACCADUTO
   Insomma non c’è stata la catastrofe prevista. Hezbollah ha detto che per reagire aspettava la conclusione delle trattative sul cessate il fuoco promosse dagli Usa, l’Iran ha sostenuto che si sarebbe vendicato al momento più opportuno, gli Houti hanno ripetute le solite minacce apocalittiche. È un’inazione che costa all’asse del male una notevole perdita di faccia. Perché non è successo niente? Non certo perché Iran e soprattutto (per via della vicinanza geografica) Hezbollah manchino dei proiettili con cui potrebbero bombardare Israele facendo probabilmente gravi danni. E neppure per la presenza americana che non ha dissuaso gli ayatollah a cercare di farlo ad aprile. Quel che è successo è probabilmente che alcuni colpi, come la reazione israeliana di aprile molto moderata ma abbastanza penetrante da mostrare la capacità di colpire in profondità e poi il bombardamento stesso di Hodeida, non più vicino dei siti atomici dell’Iran, hanno convinto gli ayatollah che non era nel loro interesse scatenare un conflitto aperto, che avrebbe sì potuto far molto male a Israele, ma avrebbe forzato la posizione americana in favore dello Stato ebraico e avrebbe comportato la distruzione del programma nucleare di Teheran e lo smantellamento di Hezbollah. Un classico caso di deterrenza. È possibile che questa guerra inizi davvero, perché l’Iran si potrebbe decidere a volerla (ma allora non sarebbe più vista dal mondo come una reazione, bensì un’iniziativa nuova e una pericolosa escalation) o perché Israele di fronte a una minaccia incombente potrebbe ritenere necessario un attacco preventivo come accadde nella Guerra dei Sei Giorni. Ma per il momento la guerra segue altre strade più tortuose e indirette.

• IL NEGOZIATO
   Una di queste è la trattativa per il cessate il fuoco, voluta con tutte le forze dall’amministrazione Biden. Bisogna dire che a Israele questo negoziato non conviene. Da quel che si capisce gli Usa e i due “mediatori” (che non sono affatto a metà fra le parti, dato che il Qatar è il più diretto protettore di Hamas e l’Egitto ha assunto una posizione più chiaramente antisraeliana via via che emergevano i tunnel di Rafah e la sua complicità con Hamas) vorrebbero che Israele cedesse in cambio di una piccola parte degli ostaggi (una trentina “vivi o morti”, secondo Hamas) non solo una quantità di condannati esperti e pericolosi che darebbero nuova linfa al terrorismo, come hanno fatto quelli scambiati per Gilad Shalit, fra cui lo stesso Sinwar; ma anche concessioni sul terreno tali da rischiare di rendere inutili i terribili sacrifici compiuti da Israele per difendesi da Hamas.

• QUEL CHE VUOLE HAMAS
   Riprendendo una sintesi di fonte israeliana, ci sono tre ostacoli principali sul cammino per raggiungere un accordo sugli ostaggi. Hamas vuole sopravvivere e riarmarsi per mantenere il controllo della Striscia di Gaza. Per questo ha bisogno in primo luogo che Israele si ritiri dal “tubo dell’ossigeno” del corridoio Philadelfi (il confine fra Gaza e l’Egitto), in modo che più razzi, armi ed esplosivi fluiscano dall’Egitto. Hamas vuole poi anche consentire a tutti, compresi i terroristi armati, di tornare nel nord di Gaza in modo da ristabilirvi il suo dominio: una possibilità che Israele ha cercato di evitare in tutti i modi, in particolare istituendo a metà della striscia un filtro sorvegliato dalle truppe, il corridoio Netzarim. Infine, Hamas vuole un impegno scritto con garanzie internazionali che, qualunque cosa succeda, Israele non riprenderà alcuna azione militare contro di loro a Gaza. In sostanza, Hamas vuole poter dire che ha vinto la guerra e anche vincerla davvero, perché secondo queste condizioni, si ritroverebbe subito nella condizione di potersi riarmare e di riprendere l’offensiva quando lo ritenesse vantaggioso.

• IL CONTROLLO DELLA STRISCIA
   La questione di chi governerebbe Gaza sarebbe in questo caso poco significativa: nell’Autorità Palestinese e soprattutto negli “innocenti civili di Gaza” ci sono evidenti e permanenti simpatie per Hamas, che la riporterebbero al potere anche dopo elezioni o un commissariamento dell’Autorità Palestinese; un corpo di pace internazionale sarebbe totalmente inefficace di frenare i terroristi, come si vede anche in questi giorni con l’Unifil in Libano; i finanziatori e i fornitori d’armi, Iran in testa, sono pronti a sostenere il riarmo. I paesi occidentali hanno mostrato, cercando di impedire l’ingresso israeliano a Rafah, la ripulitura di Filadelfi, le operazioni che l’esercito israeliano ha fatto in questi mesi, di non volere la distruzione di Hamas, in cui peraltro non crede l’opposizione israeliana e anche certi settori delle agenzie di sicurezza e dell’esercito. E però solo un controllo di sicurezza israeliano, protratto per parecchi anni, renderebbe impossibile la ripetizione del 7 ottobre.

• IL DIFFICILE COMPITO DEL GOVERNO DI ISRAELE
   Oggi fra la resa nelle trattative che richiede Hamas, appoggiato dall’amministrazione Biden, dall’Europa e naturalmente da Russia, Cina e paesi musulmani, vi è solo la volontà della maggioranza degli israeliani e l’azione del governo, che viene spesso attaccata per questo soprattutto con una campagna violentissima contro Netanyahu. Il quale, da abile ed esperto politico qual è, mentre cerca di dare tempo all’esercito perché continui il suo difficile lavoro sul terreno, non si contrappone frontalmente alle pressioni americane, ma cerca di far vedere che i veri nemici della pace ancora oggi sono Hamas e i suoi protettori. Chi ama Israele non può che sperare che abbia successo.

(Shalom, 19 agosto 2024)

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L’“accordo” con Hamas promosso dagli USA è una trappola per Israele e favorisce l’Iran

di Giovanni Giacalone

Il nuovo “accordo” per un cessate il fuoco a Gaza promosso dall’amministrazione statunitense non sembra includere il controllo israeliano sul corridoio Filadelfi né la presenza delle IDF nel corridoio Netzarim della Striscia di Gaza centrale per impedire il ritorno dei terroristi di Hamas a nord, come richiesto dal Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.
Come spiegato dal Times of Israel, i funzionari statunitensi hanno precedentemente affermato che il ritorno delle forze armate di Hamas nel nord di Gaza costituirebbe una violazione dell’accordo. Tuttavia, i mediatori ora hanno proposto una clausola che dà a Israele il diritto di riprendere le ostilità militari contro Hamas se le armi dovessero essere spostate nel nord di Gaza.
L’articolo del Times of Israel ha anche spiegato che, secondo fonti di sicurezza israeliane, il ritiro dal corridoio Filadelfi per sei settimane non consentirebbe a Hamas di riarmarsi in modo significativo. Inoltre, Israele ed Egitto implementerebbero degli accordi riguardanti il confine tra Gaza ed Egitto.
Le ragioni strategiche e tattiche per cui questo “accordo” consentirebbe a Hamas di riarmarsi e riprendere il potere a Gaza sono state perfettamente spiegate da Seth Frantzman in una analisi per il Jerusalem Post ed è difficile non essere d’accordo con lui.
Di fatto, sei settimane sono un lasso di tempo enorme e Hamas riacquisterebbe facilmente le forze e inizierebbe a colpire di nuovo Israele. A quel punto, l’IDF dovrebbe rispondere e la guerra ricomincerebbe. Solo uno sprovveduto può seriamente credere che abbandonare i due corridoi non rafforzerebbe Hamas e che non ci sia una evidente ragione se l’organizzazione terroristica vuole che l’IDF si ritiri da questi luoghi.
Lasciare che Hamas si riorganizzi e si riarmi non farà altro che prolungare il conflitto e mettere a repentaglio altre vite israeliane, comprese quelle di coloro che sono appena tornati a sud. Inoltre, che dire delle centinaia di soldati dell’IDF che sono morti durante la campagna per sradicare Hamas? Sono morti per niente? E poi, ci si può fidare dell’Egitto? Considerando tutti i tunnel che sono stati trovati tra Gaza e il territorio egiziano?
Sfortunatamente, questa è solo una parte del problema, perché con Yahya Sinwar ancora in vita, Hamas potrebbe di fatto rivendicare la vittoria, poiché Israele passerebbe dall’obiettivo di “sradicare Hamas” a quello di lasciarlo sopravvivere e riprendere il controllo della Striscia.
È anche importante tenere presente che, durante la riorganizzazione, Hamas cercherebbe molto probabilmente di ritardare il più possibile il rilascio degli ostaggi ancora in vita, perché questa è l’unica leva che ha l’organizzazione terroristica per evitare la distruzione.
Un altro problema costante è l’Iran. L’eliminazione di Ismail Haniyeh a Teheran è stata un duro colpo per il regime iraniano. Accettare un simile “accordo” porterebbe il regime da una posizione di estrema debolezza a una di forza, presentandosi al mondo come “magnanimo” per non aver risposto all’eliminazione del leader terrorista palestinese sul proprio suolo in cambio della “pace” a Gaza, quando sappiamo tutti molto bene che il regime iraniano ha tutto l’interesse a salvare e riarmare il suo delegato palestinese a Gaza. Di fatto questo non è un problema per l’attuale amministrazione statunitense che sta perseguendo una politica di appeasement con l’Iran, ma va sicuramente contro gli interessi di Israele.
Va inoltre aggiunto che dopo aver sentito per mesi la dirigenza israeliana parlare di una lotta globale contro il terrorismo islamista, contro Hamas “che non è più solo un’organizzazione terroristica ma anche un’ideologia transnazionale”; sul fatto che se Israele capitola, poi toccherà al resto dell’Occidente, sarebbe piuttosto singolare vedere Netanyahu stringere un accordo con Hamas. Soprattutto perché l’organizzazione terroristica palestinese adesso si trova in una posizione di estrema debolezza. Ci sono paesi che, in un momento in cui Israele è stato costantemente preso di mira da gran parte della comunità internazionale, hanno messo a rischio la propria sicurezza interna per schierarsi con esso contro il terrorismo islamista. Questi paesi potrebbero iniziare a riflettere se ne valeva la pena.
L’Amministrazione Biden e altri membri della comunità internazionale interessati alla “pace” dovrebbero piuttosto fare pressione su Hamas affinché liberi gli ostaggi senza condizioni, data l’attuale debolezza di Hamas (grazie alla campagna militare israeliana) invece di spingere per una trappola che porterebbe altri terroristi assetati di sangue sul campo pronti a uccidere gli israeliani. Tuttavia, ciò non sta accadendo.
Ricordiamo che Israele è uno Stato democratico sovrano, mentre Hamas è un’organizzazione terroristica inserita nella lista nera di Stati Uniti, Canada, UE e Regno Unito. Questo “accordo” sarebbe un suicidio politico per Netanyahu, una minaccia importante per la sicurezza di Israele e potrebbe anche avere ripercussioni su quei partner internazionali che si schierano con Israele contro il terrorismo islamico.
Questo “accordo” è solo un modo per l’Amministrazione Biden di salvare il regime iraniano e mantenere in vita Hamas. Donald Trump è stato molto chiaro quando ha consigliato a Netanyahu di terminare Hamas il più velocemente possibile e che questo è l’unico modo per uscire dalla palude.

(L'informale, 19 agosto 2024)

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Paralimpiadi 2024 Israele: quando la vittoria è la vita stessa

di David Fiorentini

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Cala il sipario sui Giochi Olimpici di Parigi 2024, un’edizione storica per la delegazione israeliana che raggiunge un nuovo record di medaglie, ben 7, un oro, cinque argenti e un bronzo.
Ma lo spettacolo non finisce qui, è già in partenza la squadra paralimpica dello Stato ebraico, con 28 fantastici atleti pronti a scendere in campo per i Giochi Paralimpici che si terranno dal 28 agosto all’8 settembre.
  Dal taekwondo, al tennis in carrozzina, fino al canottaggio, 28 incredibili storie da diversi background, che dimostrano la strabiliante resilienza di chi di fronte alle peggiori avversità ha trovato la forza di rialzarsi e raggiungere le massime manifestazioni sportive mondiali.

• NUOTO
  Israele porterà cinque talentuosi nuotatori ai Giochi, tra cui i gemelli Marc e Ariel Malyar di 24 anni. Alle Paralimpiadi di Tokyo 2020, Marc ha vinto tre delle nove medaglie di Israele, portando a casa l’oro nei 200 metri misti individuali e nei 400 metri stile libero e un bronzo nei 100 metri dorso nella classe di disabilità S7. Entrambi i fratelli sono nati con una paralisi cerebrale e hanno scoperto il loro talento durante una sessione di idroterapia presso il centro sportivo di Ilan Haifa.
  Altri campioni in carica di ritorno in vasca sono Ami Dadaon, vincitore dell’oro nei 200 metri e nei 50 metri stile libero e argento nei 150 metri misti individuali nella divisione S4, oltre che detentore del record mondiale nei 100 metri stile libero, e Iyad Shalabi, oro nei 100 metri e 50 metri dorso nella classe S1, che tra l’altro è stato il primo cittadino arabo israeliano a vincere una medaglia individuale alle Paralimpiade.
  Infine, la nuotatrice Veronika Girenko, tornerà per la terza edizione a competere nel dorso, rana, stile libero e misti individuali nella divisione S3.

• TENNIS IN CARROZZINA
  Tra i giocatori di tennis in carrozzina, spicca il portabandiera Adam Berdichevsky, sopravvissuto al massacro del 7 ottobre nella sua casa nel Kibbutz Nir Yitzhak, dove i terroristi di Hamas hanno ucciso sette persone. Berdichevsky ha perso una gamba nel 2007 durante un incidente in barca in Thailandia e ha gareggiato sia in singolo che in doppio nel 2016 e nel 2020.
  Dopodiché, gareggeranno il tennista numero 3 al mondo, Guy Sasson, campione in carica dell’Australina Open 2024, e due debuttanti: Maayan Zikri e Sergi Lysov.

• GOALBALL
  Un altro sport molto seguito dal Comitato Paralimpico Israeliano è il goalball, riservato ad atleti con disabilità visive, a cui parteciperà la squadra femminile, composta dalla portabandiera Lihi Ben David, Noa Malka, Lihi Ben David, Roni Ohion, Gal Khamrani, Uri Mizrahi ed Elham Mahmid.

• CANOTTAGGIO/KAYAK
  Per il canottaggio due di coppia, debutteranno Shahar Milfelder e Saleh Shahin, la prima è stata diagnosticata con un cancro aggressivo all’età di 16 anni e le è stata asportata gran parte del bacino, il secondo, di origine drusa, è stato ferito durante un attacco terroristico nel 2005 mentre prestava servizio come guardia di sicurezza al checkpoint di Karni al confine con Gaza. La coppia è data tra i favoriti in seguito alla promettente medaglia d’argento vinta alla scorsa edizione della Coppa del Mondo di Canottaggio 2024.
  Nelle categorie individuali invece, figureranno Shmulik Daniel, reduce da una grave lesione spinale mentre prestava servizio nell’esercito nel 2005 e alla sua seconda Paralimpiade, Moran Samuel, argento a Tokyo e bronzo a Rio, e le due kayakiste debuttanti, Talia Eilat, bronzo agli Europei 2023, e Kfar Sirkin, medico e quarta agli Europei 2022.

• BOCCE
  Nadav Levy, nato con paralisi cerebrale, è alla sua terza partecipazione come giocatore di bocce, dopo aver vinto l’oro ai Campionati Europei 2023.

• PARA-BADMINTON
  Campioni agli Europei di Para-Badminton nel 2018, tornano per il doppio Nina Gorodetsky e Amir Levi.

• CICLISMO A MANO
  Per il ciclismo a mano, scende in pista Amit Hasdai (nella foto in alto), quarto agli Europei 2023 e alla sua prima gara paralimpica. Hasdai è stato gravemente ferito durante l’Operazione Scudo Difensivo nel 2002, a soli 19 anni.

• TAEKWONDO
  Per Israele, competeranno il due volte campione del mondo paralimpico, Assaf Yassur, e Adnan Milad, i quali hanno perso le mani dopo essere rimasti gravemente fulminati.

• TIRO A SEGNO
  Infine, per il tiro al segno, tornerà per la seconda volta Yulia Chernoy, immigrata in Israele dal Kazakistan a 19 anni e che ha vinto il bronzo nel tiro libero a 50 metri ai Campionati del Mondo in Australia nel 2019 e che ha gareggiato come canottiera alle Paralimpiadi del 2016.
  Una nutrita delegazione, tra debuttanti e campioni in carica, la cui partecipazione ai Giochi di Parigi è un inno alla vita e alla sportività, che sicuramente sarà un messaggio di speranza per i milioni di israeliani che li sosterranno da casa.

(Bet Magazine Mosaico, 19 agosto 2024)

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Meno consenso, più coraggio

A cura di Giulio Meotti

Cohen ha incarnato una politica in cui la parola “consenso” veniva pronunciata prima di discutere qualsiasi cosa che potesse essere controversa. Secondo Mr. Consensus, il mondo dovrebbe essere connesso attraverso l’Onu, il Fondo monetario internazionale e l’Ue

Immaginate, è l’11 settembre 2001 e ho 31 anni” scrive Ayaan Hirsi Ali su Commentary. “Mi sono stabilita nei Paesi Bassi, dove mi sono assimilata alla cultura olandese. Vivo la vita di una trentunenne olandese media. Vivo a Leida. Vado ad Amsterdam per lavoro. Condivido un appartamento con il mio ragazzo. Guido una macchina. Vado in vacanza. Ero arrivata in Olanda nel 1992, una rifugiata dalla Somalia, e in soli nove anni riesco a vivere una vita non diversa da quella di tutti i miei amici olandesi. Quando ho iniziato il mio lavoro presso un think tank socialdemocratico ad Amsterdam, erano felici di avermi. Ero una storia di successo di integrazione razziale e sociale. Mi ero laureata in Scienze politiche all’Università di Leiden; stavo discutendo con i miei colleghi sull’eredità di vari primi ministri olandesi. E’ stato in questo think tank che ho incontrato per la prima volta un uomo che era la perfetta rappresentazione di un tipo che in seguito avrei considerato ‘Mr. Consenso’. Il suo nome era Job Cohen ed era il presidente del consiglio di amministrazione. Quando ho iniziato l’incarico, era appena diventato sindaco di Amsterdam e innegabilmente era un uomo dell’establishment. Ha celebrato il matrimonio civile dei futuri sovrani ed è stato particolarmente amico di lei. All’epoca Cohen sedeva in molti dei consigli di amministrazione più importanti della nazione, non solo nei think tank, ma anche nel mondo dell’arte e della politica. Era al centro dell’intersezione dove politica, mondo accademico e cultura si incontrano. Era estremamente rispettato e, cosa più importante per lui, una figura rispettabile. La sua politica era saldamente nel mezzo: quel ‘vecchio centrosinistra’ che ora sembra decisamente bizzarro. Ha incarnato e sostenuto una politica in cui la parola ‘consenso’ veniva pronunciata prima della discussione di qualsiasi cosa che potesse essere lontanamente controversa. Era il signor Consenso. E ce n’erano molti, molti in tutta Europa e negli Stati Uniti che si comportavano proprio come lui.
  Mr. Consensus e i suoi cloni hanno incarnato la leadership in occidente dal periodo che va dal crollo del comunismo sovietico nel 1989 all’11 settembre. Ciò a cui abbiamo assistito, nei due decenni successivi, è una crisi del mondo creata da Mr. Consensus e le conseguenze delle sue decisioni o la loro mancanza. Per capire perché l’occidente è andato in declino sotto la sua guida nell’ultimo quarto di secolo, è necessario comprendere la sua visione del mondo. Prima dell’11 settembre ero una grande ammiratrice del suo tipo di politica, di tutto ciò che riguarda il consenso. Per me, vivere in una società in cui il compromesso era il re e l’esito di qualsiasi conflitto poteva essere caratterizzato dal fatto che ‘entrambe le parti hanno vinto’ è stato incredibilmente avvincente. Mi ha convinta. Un’altra caratteristica di Mr. Consensus è il suo amore per la ‘collaborazione’. Dopo la caduta del Muro di Berlino e l’emergere di un ordine unipolare con gli Stati Uniti al timone, Mr. Consensus, così abituato ad avere le due potenze dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti su entrambi i lati, si è battuto per il multilateralismo. Quando sono andata al think tank, sono stata inserita nel portafoglio dell’immigrazione. Era il campo politico più ricercato. Volevo fare qualcosa di più ambizioso dell’immigrazione. E di certo non volevo essere il candidato simbolico della diversità. Ma sono stata lusingata da Job Cohen, che mi ha detto che ero un ottimo esempio di integrazione!
  Le cose sono cambiate dopo l’11 settembre. Ho iniziato a scontrarmi con i miei colleghi del think tank. Tutti iniziarono a sostenere che forse l’America se l’era cercata. Nixon, Israele, il petrolio: solo una lista infinita di ragioni per cui Bin Laden e al-Qaeda avevano attaccato gli Stati Uniti. Ma man mano che il tempo passava e ottenevamo sempre più informazioni sui 19 uomini che dirottarono i quattro aerei, divenne chiaro per me che l’attacco non era una risposta alla politica estera americana. No, questi uomini erano guidati da una visione politica teocratica del mondo che era completamente estranea alla società occidentale: l’islamofascismo. Questo è stato il mio primo conflitto con i miei colleghi del think tank. La mia prospettiva è stata respinta completamente perché era una narrazione che minava la loro politica di consenso. Si sono trovati nella morsa della dissonanza cognitiva mentre lottavano per afferrare l’idea che la politica al di fuori dell’Olanda o forse dell’occidente post Guerra fredda potrebbe non riguardare solo l’identificazione di interessi estranei e concorrenti e la resa a concessioni che renderebbero tutti felici. Alcune persone non vogliono concessioni. Alcune persone sono semplicemente tue nemiche. Odiano te e la tua società e faranno tutto il possibile per degradarti e distruggerti. Un massimalismo che Mr. Consensus non riesce a calcolare.
  Sulla scia dell’11 settembre, poiché ero una giovane immigrata nera, ingenua, tutti nei media olandesi hanno immediatamente iniziato ad attaccarsi a me per ottenere la mia opinione su queste cose. E ovviamente l’ho data. Ho scritto i risultati della mia ricerca, citando i migliori lavori accademici disponibili. Ho detto loro che i lavoratori ospiti migranti provenienti da paesi musulmani mandavano i loro figli in scuole per soli musulmani, ascoltavano solo i canali radiofonici e televisivi dedicati agli insegnamenti musulmani e si sposavano solo all’interno delle loro comunità. Ero una rifugiata, non una lavoratrice ospite, ed ero scappata dalla mia famiglia, quindi non ero soggetta allo stesso soffocante controllo sociale che la maggior parte dei musulmani subiva in Olanda. Ma potevo capire perché coloro che erano rimasti intrappolati nel ghetto stavano fallendo. In quel periodo nei Paesi Bassi emergeva un altro politico. Il suo nome era Pim Fortuyn, ed era un chiaro oppositore di Mr. Consensus. Fortuyn ha definito l’islam arretrato e ha sostenuto che la società olandese sarebbe cambiata irreparabilmente dall’immigrazione di massa dai paesi islamici. E quando i giornalisti mi hanno chiesto riguardo ai commenti di Fortuyn, non ho potuto essere in disaccordo con lui. Per aver detto queste cose sono stata minacciata da molti musulmani nei Paesi Bassi e in Europa, compresi i membri della mia famiglia allargata. E il partito socialdemocratico di cui facevo parte, il partito al governo del paese, si è trovato in una situazione scomoda. Da un lato mettevo in imbarazzo i socialdemocratici dando punti al loro avversario. Dall’altro, sono stati costretti a fornirmi la protezione della polizia dalla minaccia di quegli stessi musulmani che Pim Fortuyn aveva identificato come arretrati. Quindi la leadership del partito di centrodestra del paese mi ha chiesto di unirmi a loro e ho accettato. Passando al partito di centrodestra, avrei potuto difendere le idee della libertà di parola, dell’emancipazione delle donne, della libertà di coscienza, del libero mercato, della libera stampa: tutte queste cose che hanno reso grande l’Olanda.
  Quasi un quarto di secolo dopo, in occidente ci sono persone che sono legate al dogma islamista più che mai. Sono nelle nostre università, nelle nostre strade e nelle nostre istituzioni politiche, dove ora dettano la politica e minacciano di influenzare le elezioni se non ottengono ciò che vogliono. La realtà, che Mr. Consensus nega, sta travolgendo tutti in Europa occidentale. L’immigrazione illegale non ha portato all’utopia ma sempre più al traffico di droga e di esseri umani. La leadership emersa per far fronte a queste crisi, e che ho visto personificata per la prima volta in Cohen tanti anni fa, ha messo da parte la vecchia saggezza secondo cui un leader deve affrontare la realtà che trova sul campo e non il risultato che desidera. Secondo Consensus, il mondo è e dovrebbe essere connesso attraverso le Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale e l’Ue. Il loro ruolo di primo piano si basa sulla convinzione che attraverso il commercio, gli aiuti, la migrazione umanitaria e pianificata, saremo protetti da tutte le forze che cercano di sovvertire le nostre società e ci augurano del male. Indulgendo in questa fede infondata nel solo soft power mentre si affamano i nostri bilanci per la difesa nazionale, ci troviamo disposti a contemplare concessioni all’Iran, alla Cina, a Putin e persino a Hamas! L’ex sindaco di Amsterdam ha recentemente rilasciato un’intervista che mi ha incuriosito. Si è ritirato dalla politica e vive nella bellissima e verdeggiante città di Haemstede, nel lusso tranquillo fuori Amsterdam. E’ il capo della Fondazione volontaria per l’eutanasia. Un giudice della Corte suprema dei Paesi Bassi di nome Huib Drion immagina un mondo in cui la morte possa essere provocata nel momento scelto dal consumo di due piccole pillole. Cohen si è ritirato in un quartiere protetto che rimane in ogni sua forma tradizionale ed europeo. Viaggia in macchina. Non sa davvero, o forse non gli interessa, cosa succede adesso nei quartieri.
  Mr. Consensus e i suoi cloni hanno preso una decisione dopo l’altra che collettivamente hanno alienato le loro popolazioni e le hanno rese insicure. Hanno di fatto abolito il Dio cristiano e lo hanno sostituito con un astratto ‘buonismo’ in nome del consenso. Per loro, essere ateo, come lo ero io in passato, significava essere ai livelli più alti dell’intelligenza raggiungibile. Mentre ci sono radicali nelle strade che dichiarano guerra alle fondamenta stesse del nostro sistema occidentale, Mr. Consensus si comporta con aristocratica indifferenza. Ha scelto di non credere a nulla. Questo tipo di leadership deve scomparire. Abbiamo bisogno di un cambio di paradigma. Dobbiamo porre l’accento sulla restaurazione. Dobbiamo sfidare Mr. Consensus e ritenerlo responsabile. Gli islamisti e gli utili idioti che si definiscono ‘woke’ e scandiscono i loro slogan di morte sono stati in grado di prosperare nel vuoto morale creato da Mr. Consensus. Non abbiamo la pillola di Drion nella tasca posteriore. E non la vogliamo. Vogliamo qualcosa di più forte. Più potente. Piuttosto che Mister Consenso, troviamo Mister Coraggio”.

(Il Foglio, 19 agosto 2024 - trad. Giulio Meotti)

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USA – La stanchezza degli ebrei usati come una clava politica

Gli ultimi dieci mesi sono stati difficili per gli ebrei americani. Sul Forward, Nora Berman ha scritto: «La guerra ci ha allontanato da parenti e amici, ha diviso le nostre sinagoghe e persino le app per gli appuntamenti sono in subbuglio, con profili in guerra pieni di emoji schierati. Ma la cosa peggiore è il modo in cui la nostra identità ebraica – e le reali minacce antisemite che affrontiamo – è diventata uno strumento politico, sfruttato sia a destra che a sinistra».
  La scorsa settimana il candidato alla vicepresidenza, il senatore JD Vance, ha insinuato che Kamala Harris sia stata convinta a non scegliere il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro come suo compagno di corsa perché è ebreo. Nonostante Shapiro, quella stessa sera, avesse proclamato durante un comizio per Harris di essere orgoglioso del proprio ebraismo, tra gli applausi. Trasformare la questione profondamente personale di come gli ebrei gestiscono i potenziali conflitti tra la propria identità personale e quella pubblica in un referendum sulla vitalità politica degli avversari non è appannaggio solo della destra. I Democratic Socialists of America (DSA) si sono vantati, su X: «La scelta di Walz ha dimostrato al mondo che DSA e i suoi alleati a sinistra sono una forza che non può essere ignorata». E hanno aggiunto che la pressione della sinistra ha fatto sì che Harris rinunciasse a scegliere «un potenziale vicepresidente che ha legami diretti con l’IDF e che ha sostenuto ferocemente il genocidio in corso in Palestina». Per la cronaca: Shapiro ha “solo” completato un progetto di servizio scolastico in Israele come volontario non militare in una base dell’esercito, oltre al lavoro in un kibbutz e in una pescheria. Ed è favorevole al cessate il fuoco e alla soluzione dei due Stati.
  Ma, scrive Berman, essere una pedina politica è parte dell’esperienza ebraica: usati dai partiti di tutto lo spettro politico per rappresentare i mali o i successi che ritenevano utili al momento questa volta ci si confronta con una realtà diversa, sia per quanto accaduto il 7 ottobre e per la conseguente guerra di Israele contro Hamas, ma anche, e soprattutto, per il ruolo dei social media. Tutto viene trasmesso sui nostri telefoni 24 ore su 24, 7 giorni su 7, spesso senza contesto e con una retorica volutamente aggressiva. Scrive Berman che è inevitabile: ciò che coinvolge gli ebrei è una questione grande e complessa e viene sfruttata (e amplificata) sui social media. Gli ebrei sono stati trasformati in un’idea, che viene usata come una clava.Tutti sono diventati esperti di Medio Oriente e hanno opinioni sempre più polarizzate sugli ebrei: la destra e la sinistra USA si sfidano su chi sia il migliore protettore degli ebrei e chi il più grande perpetratore dell’antisemitismo.
  Trump ha detto ripetutamente che gli ebrei che votano per i democratici sono «sleali nei confronti di Israele» e dovrebbero farsi «esaminare la testa». Dopo che Alexandria Ocasio-Cortez – le cui critiche a Israele non l’hanno resa particolarmente popolare tra gli ebrei americani – ha ospitato una conversazione in livestream sull’antisemitismo e l’antisionismo con due esperti ebrei, la DSA ha ritirato il suo appoggio, definendo la sua sponsorizzazione del panel «un profondo tradimento».
  La repubblicana Elise Stefanik durante l’interrogazione ai presidenti delle università sull’antisemitismo, nel dicembre 2023, è riuscita a trattare gli ebrei contemporaneamente come vittime, menti del movimento anti-DEI (Diversity, Equity, Inclusion) che griderebbero all’antisemitismo per far licenziare una donna nera, e strumento politico spuntato di un politico ambizioso. Ha fatto in modo che la realtà di ciò che gli ebrei realmente provano sparisse: l’antisemitismo è reale ed è in aumento.
  E gli ebrei sono esausti non solo a causa dell’antisemitismo, ma anche perché spesso le accuse di antisemitismo vengono tirate fuori per motivi che poco hanno a che fare con la loro sicurezza. È un’accusa che si sta svuotando di significato, più viene usata come insulto e più verrà percepita come falsa, e pericolosa. Si chiede Berman: «Come possiamo, come comunità, elaborare il lutto e affrontare questa guerra profondamente dolorosa quando il nostro essere ebrei continua a essere politicizzato per un numero apparentemente infinito di cause? Come possiamo affrontare adeguatamente le questioni politiche che ci stanno a cuore – tra cui non solo Israele e l’antisemitismo, ma anche i diritti riproduttivi e la giustizia climatica, se la nostra identità non è vista come parte della nostra umanità, ma come un argomento politico? A questo punto, ogni volta che vedo qualcuno che parla a nome degli ebrei, o un titolo di giornale su ciò che pensano gli ebrei, vorrei chiudere il mio computer portatile, spegnere il telefono e dormire. Non voglio più preoccuparmene, è questo il risultato più pericoloso di tutti».

(moked, 18 agosto 2024)

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Reuven, l’ufficiale dell’IDF che il 7 ottobre ha corso per 12 kilometri

Il giovane ufficiale dell’IDF che il 7 ottobre ha corso per 12 kilometri fino al confine con Gaza per combattere i terroristi È stata la corsa più difficile che abbia mai fatto”: il sottotenente Avichail Reuven racconta la sua storia eroica, che Netanyahu ha condiviso brevemente con il Congresso il mese scorso con una standing ovation.

FOTO
Il sottotenente Avichail Reuve

Quando il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si è rivolto al Congresso degli Stati Uniti alla fine di luglio, ha nominato quattro soldati israeliani che, a suo dire, sono stati degli eroi dopo il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas. Il primo di questi soldati è stato il giovane ufficiale dell’IDF, il sottotenente Avichail Reuven, che quel sabato ha corso per 12 chilometri fino al confine con Gaza per aiutare a combattere i terroristi.
Reuven si trovava a casa dei suoi genitori nella città meridionale di Kiryat Malachi il 7 ottobre quando è stato svegliato dalle sirene. All’epoca stava ancora frequentando l’addestramento per ufficiali, ma dopo aver sentito la notizia di una massiccia infiltrazione di terroristi nelle comunità di Gaza al confine con Israele, decise di andare ad aiutare anche se non era stato chiamato.
“Ho detto a mio fratello e a un amico che mi sarei recato al confine. Ho detto che se fosse successo qualcosa, avrei semplicemente ucciso i terroristi. Mi sembrava che i ragazzi ridessero un po’ di me”, ha raccontato. Mi hanno detto: “Sei pazzo ad andare, non c’è motivo di venire con te”. Ho anche cercato amici con una macchina per andarci, ma non ho trovato nessuno, così ho deciso che sarei andato all’interscambio e avrei cercato di trovare un passaggio”.
Reuven indossò la sua uniforme, ancora umida di bucato, e si è fblinkn avviato con il suo fucile e il suo berretto rosso da paracadutista. Non sapendo esattamente dove stesse andando, Reuven ha aspettato allo svincolo principale vicino a casa sua che qualcuno si fermasse per dargli un passaggio, ma nessuno lo ha fatto, così ha deciso di iniziare a correre.
“È stato difficile, correre con l’uniforme bagnata, con le sirene per tutto il tempo e i razzi che cadevano nella zona”, ha raccontato. Dodici chilometri e un’ora dopo, Reuven si è ritrovato di nuovo sull’autostrada, accaldato e assetato, ma determinato ad andare avanti. “È stata la corsa più difficile che abbia mai fatto. È stata la corsa più lunga che abbia mai fatto in uniforme, con il caldo. Un incubo”, ha detto.
Dopo aver camminato ancora un po’ lungo l’autostrada, Reuven ha finalmente trovato un passaggio con un civile il cui figlio era stato al festival musicale Supernova, dove i terroristi di Hamas hanno ucciso circa 360 persone e preso più di 40 ostaggi durante la loro furia nel sud di Israele. Reuven ha raccontato che ancora oggi non conosce il nome dell’uomo, ma l’autista gli ha dato dell’acqua e lo ha lasciato ad uno svincolo fuori Ashkelon quando ha capito che non avrebbe potuto raggiungere il luogo del rave e aiutare suo figlio senza un’arma.
Allo svincolo, Reuven è riuscito a prendere un altro passaggio, con un’auto della polizia, fino a un posto di blocco vicino a Zikim, la sede di una base di addestramento dell’IDF che era tra i siti infiltrati dai terroristi quel giorno.
“Ho discusso un po’ con gli agenti di polizia. Ho detto loro: ‘Io entro. Se non con voi, entro da solo”, ha raccontato Reuven, aggiungendo che mentre parlava con loro è arrivato il vice comandante di un battaglione di ricerca e soccorso di Zikim, che ha chiamato solo Alexander, e i due sono entrati insieme nella base.
Poiché erano nel pieno dell’addestramento di base, molti dei soldati della base di Zikim non erano completamente addestrati, così quando sono arrivati i terroristi, i comandanti della base hanno riunito tutti in due rifugi antiatomici e si sono avvicinati alla recinzione per combattere i terroristi. Sei comandanti e un soldato dell’addestramento di base sono stati uccisi durante i combattimenti. Reuven e l’altro comandante si sono uniti alla battaglia non appena sono arrivati.“Qui c’era il caos più totale. Metà della base era bruciata. Si sentivano molte grida e si vedevano i terroristi correre per tutta l’area”, ha raccontato Reuven.
Lui e un altro comandante hanno unito le forze per combattere i terroristi e hanno raggiunto un rifugio antiatomico dove erano in attesa circa 30 soldatesse dell’addestramento di base, una delle quali era ferita. Reuven le ha curato la ferita. “Ho detto loro: “Ascoltate, ho bisogno di tre ragazze forti. È per questo che vi siete arruolate in un’unità di combattimento. Ora è il vostro momento di dimostrare che siete delle combattenti”.
Poi ha detto ai tre soldati di stare all’ingresso del rifugio antiatomico e di sparare in testa a tutti i terroristi che avessero visto. Poi si è diretto verso un secondo rifugio antiatomico per controllare i tirocinanti maschi, dove c’erano altri soldati feriti. Per le due ore successive, ha corso per la base combattendo contro i terroristi e raccogliendo barelle e acqua per i soldati nei rifugi antiatomici.
Alla fine, Reuven ha incontrato il col. (ris.) Erez Eshel, che aveva raggiunto Zikim dalla sua casa di Ma’ale Adumim. “Incontro un giovane soldato impegnato in una missione e non capisco chi sia. Non so il suo nome”, ha detto Eshel, aggiungendo di aver salvato il numero di telefono di Reuven con il nome ‘Sabato, soldato di Simchat Torah’.
“È completamente dentro, sa maneggiare la sua pistola, è calmo, è concentrato e può gestire qualsiasi cosa. È un vero super soldato”, ha detto Eshel. I due sono rimasti ancora un po’ a Zikim prima di dirigersi verso le vicine Yiftah, Kfar Aza e, infine, Kibbutz Be’eri, una comunità di circa 1.000 residenti di cui 101 civili sono stati uccisi il 7 ottobre, insieme a 31 membri della sicurezza. Complessivamente, i terroristi hanno ucciso circa 1.200 persone, per lo più civili, e preso 251 ostaggi durante l’attacco di Hamas a Israele quel giorno. L’IDF ha trascorso i giorni successivi a combattere i terroristi e ad arrestare o uccidere gradualmente tutti coloro che erano rimasti in Israele.
“Non dirò che è l’unico soldato che ho preso, ma è l’unico soldato che ha resistito a tutti i combattimenti fino a domenica mattina presto, quando l’ho collegato alla sua compagnia”, ha detto Eshel. Eshel ha raccontato al comandante della scuola ufficiali dell’IDF nel sud di Israele, nota come Bahad 1, ciò che Reuven ha fatto il 7 ottobre, e il comandante lo ha riferito a Netanyahu. Reuven ha completato il suo addestramento da ufficiale con distinzione e ha accompagnato Netanyahu negli Stati Uniti il mese scorso, dove ha ricevuto una standing ovation quando il primo ministro ha condiviso la sua storia durante il discorso alla sessione congiunta del Congresso.
“Nelle prime ore del 7 ottobre, Avichail ha sentito la notizia della sanguinosa furia di Hamas. Ha indossato la sua uniforme, ha preso il suo fucile, ma non aveva un’auto. Così ha corso per otto miglia fino al fronte di Gaza per difendere il suo popolo”, ha detto Netanyahu ai legislatori statunitensi.
“Avete sentito bene. Ha corso per 12 kilometri, è arrivato in prima linea, ha ucciso molti terroristi e ha salvato molte vite. Avichail, tutti noi onoriamo il tuo straordinario eroismo”. Reuven è ora un comandante di compagnia per i paracadutisti in addestramento di base, e insiste nell’includere lunghe corse nel processo di addestramento dei suoi soldati. Reuven è il secondo figlio di nove nati da immigrati israeliani provenienti dall’Etiopia. Durante l’adolescenza ha faticato a finire la scuola superiore ed è stato classificato come giovane a rischio. Per questo motivo, non aveva i requisiti per essere reclutato nell’IDF come paracadutista, ma Reuven era determinato e ha lottato per il suo posto nell’unità.
Reuven ha dichiarato non intende ritirarsi dall’IDF a breve. “Voglio continuare a lavorare nell’esercito. È la mia missione, è ciò in cui credo”, ha detto.

(Israele 360, 18 agosto 2024)

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Un rivivere dai morti

II CRONACHE, cap. 36
  1. Caldei incendiarono la casa di Dio, demolirono le mura di Gerusalemme, diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi, e ne distrussero tutti gli oggetti preziosi.
  2. E Nabucodonosor deportò a Babilonia quelli che erano scampati dalla spada; ed essi furono assoggettati a lui e ai suoi figli, fino all'avvento del regno di Persia
  3. (affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia), fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati; infatti esso dovette riposare per tutto il tempo della sua desolazione, finché furono compiuti i settant'anni.
  4. Nel primo anno di Ciro, re di Persia, affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia, l'Eterno destò lo spirito di Ciro, re di Persia, il quale, a voce e per iscritto, fece pubblicare per tutto il suo regno questo editto:
  5. "Così dice Ciro, re di Persia: 'L'Eterno, l'Iddio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra, ed egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque tra voi è del suo popolo, l'Eterno, il suo Dio, sia con lui, e parta!'”.
MATTEO, cap. 1
  1. Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abraamo.
  2. Abraamo generò Isacco; Isacco generò Giacobbe; Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli;
  3. Giuda generò Perez e Zerac da Tamar; Perez generò Chesron; Chesron generò Ram;
  4. Ram generò Amminadab; Amminadab generò Nason; Nason generò Salmon;
  5. Salmon generò Boaz da Raab; Boaz generò Obed da Rut; Obed generò Isai;
  6. Isai generò Davide, il re. E Davide generò Salomone da quella che era stata moglie di Uria;
  7. Salomone generò Roboamo; Roboamo generò Abiia; Abiia generò Asa;
  8. Asa generò Giosafat; Giosafat generò Ieoram; Ieoram generò Uzzia;
  9. Uzzia generò Iotam; Iotam generò Acaz; Acaz generò Ezechia;
  10. Ezechia generò Manasse; Manasse generò Amon; Amon generò Giosia;
  11. Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli al tempo della deportazione in Babilonia.
  12. Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Sealtiel; Sealtiel generò Zorobabele;
  13. Zorobabele generò Abiud; Abiud generò Eliachim; Eliachim generò Azor;
  14. Azor generò Sadoc; Sadoc generò Achim; Achim generò Eliud;
  15. Eliud generò Eleazar; Eleazar generò Mattan; Mattan generò Giacobbe;
  16. Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale nacque Gesù, che è chiamato Cristo.
  17. Così da Abraamo fino a Davide sono in tutto quattordici generazioni; da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici generazioni e dalla deportazione in Babilonia fino a Cristo quattordici generazioni.
  18. La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
  19. Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente.
  20. Ma, mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie, perché ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo.
  21. Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”.
  22. Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
  23. “Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che, interpretato, vuol dire: “Dio con noi”.
  24. E Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l'angelo del Signore gli aveva comandato; prese con sé sua moglie
  25. e non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio, al quale pose nome Gesù.
MATTEO, cap. 2
  1. Essendo Gesù nato a Betlemme di Giudea, all'epoca del re Erode, dei magi d'Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo:
  2. “Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo”.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato e tutta Gerusalemme con lui.
  4. Radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Essi gli dissero: “In Betlemme di Giudea, poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. 'E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele'”.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparsa
  8. e, mandandoli a Betlemme, disse loro: “Andate, domandate diligentemente del bambino e, quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché venga anche io ad adorarlo”.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono e la stella che avevano visto in Oriente andava davanti a loro, finché, giunta al luogo dov'era il bambino, vi si fermò sopra.
  10. Essi, vista la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
  11. Ed entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per altra via.
  13. Quando furono partiti, ecco un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché Erode cercherà il bambino per farlo morire”.
  14. Egli dunque si alzò, prese di notte il bambino e sua madre e si ritirò in Egitto;
  15. là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: “Chiamai mio figlio fuori dall'Egitto”.
  16. Allora Erode, vedendosi beffato dai magi, si adirò gravemente e mandò a uccidere tutti i maschi che erano in Betlemme e in tutto il suo territorio dall'età di due anni in giù, secondo il tempo del quale si era esattamente informato dai magi.
  17. Allora si adempì quello che fu detto per bocca del profeta Geremia:
  18. “Un grido è stato udito in Rama; un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più”.
  19. Ma dopo che Erode fu morto, ecco un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse:
  20. “Alzati, prendi il bambino e sua madre e vattene nel paese d'Israele, perché sono morti quelli che cercavano la vita del bambino”.
  21. Ed egli, alzatosi, prese il bambino e sua madre ed entrò nel paese d'Israele.
  22. Ma, udito che in Giudea regnava Archelao invece d'Erode, suo padre, temette di andare là e, essendo stato divinamente avvertito in sogno, si ritirò nelle parti della Galilea
  23. e venne ad abitare in una città detta Nazaret, affinché si adempisse quello che era stato detto dai profeti, che egli sarebbe stato chiamato Nazareno.
GIOSUÈ, cap.6
  1. Poi i figli d'Israele bruciarono la città e tutto quello che conteneva; presero soltanto l'argento, l'oro e gli oggetti di bronzo e di ferro, che misero nel tesoro della casa dell'Eterno.
  2. Ma a Raab, la prostituta, alla famiglia di suo padre e a tutti i suoi Giosuè lasciò la vita; e lei ha dimorato in mezzo a Israele fino al giorno d'oggi, perché aveva nascosto i messaggeri che Giosuè aveva mandati a esplorare Gerico.
RUT, cap 4
  1. E tutto il popolo che si trovava alla porta della città e gli anziani risposero: “Ne siamo testimoni. L'Eterno conceda che la donna che entra in casa tua sia come Rachele e come Lea, le due donne che fondarono la casa d'Israele. Spiega la tua forza in Efrata, e fatti un nome in Betlemme!
  2. Possa la progenie che l'Eterno ti darà da questa giovane, rendere la tua casa simile alla casa di Perez, che Tamar partorì a Giuda!”.
ESODO, cap. 25
  1. Mi facciano un santuario perché io abiti in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
GENESI, cap. 35
  1. Poi partirono da Betel. C'era ancora un certo tratto di strada prima di arrivare a Efrata, quando Rachele partorì: ebbe un parto difficile.
  2. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere, perché ecco un altro figlio”.
  3. E mentre l'anima sua se ne andava, perché stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; ma il padre lo chiamò Beniamino.
  4. Rachele morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme.
  5. Giacobbe eresse una pietra commemorativa sulla sua tomba. Questa pietra commemorativa della tomba di Rachele esiste tuttora.
GEREMIA, cap. 31
  1. Così parla l'Eterno: “Si è udita una voce in Rama, un lamento, un pianto amaro; Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata dei suoi figli, perché non sono più”.
  2. Così parla l'Eterno: “Trattieni la tua voce dal piangere, i tuoi occhi dal versare lacrime; poiché la tua opera sarà ricompensata”, dice l'Eterno, “essi ritorneranno dal paese del nemico;
  3. e c'è speranza per il tuo avvenire”, dice l'Eterno, “i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini.
    PREDICAZIONE
   di Gabriele Monacis

 Gabriele Monacis
  Haifa, agosto 2024

(Notizie su Israele, 18 agosto 2024)


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Israele ridimensiona l’ottimismo su un accordo con Hamas. Ma Biden insiste

Dopo tanti anni siamo tornati alla fallimentare “Obama’s vision”: meglio un cattivo accordo [per Israele] che nessun accordo

di Sarah G. Frankl

Un alto funzionario israeliano ha dichiarato all’emittente pubblica Kan che a Doha sono stati effettivamente compiuti progressi su diversi aspetti controversi dell’accordo sugli ostaggi in corso di negoziazione.
Tuttavia, il funzionario fa notare che questi progressi sono stati fatti solo tra Israele e i mediatori.
Non è ancora chiaro come Hamas risponderà a questi nuovi accordi.
Un gruppo di negoziatori israeliani di livello inferiore rimarrà a Doha nel fine settimana per continuare i colloqui con i mediatori e un altro gruppo di livello inferiore si recherà al Cairo domani per incontri simili.
Il Qatar e l’Egitto hanno talvolta diviso i negoziati per far sì che il primo si concentri sugli aspetti relativi agli ostaggi e il secondo sul ritiro delle truppe israeliane dalle aree chiave all’interno e intorno a Gaza, come i corridoi Netzarim e Philadelphi e il valico di Rafah.
Le delegazioni di livello inferiore mireranno a colmare le lacune rimanenti prima che i negoziatori più importanti si riuniscano nuovamente alla fine della prossima settimana al Cairo per cercare di finalizzare un accordo.

- MA BIDEN INSISTE E LANCIA UN MONITO
   Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden avverte Israele e altri attori di non intraprendere azioni che potrebbero minare il cessate il fuoco e l’accordo per il rilascio degli ostaggi che la sua amministrazione sta cercando di finalizzare.
“Oggi ho ricevuto un aggiornamento dalla mia squadra di negoziatori sul campo a Doha e ho dato loro l’ordine di presentare la proposta globale di ponte presentata oggi, che offre la base per giungere a un accordo finale sul cessate il fuoco e sul rilascio degli ostaggi”, ha dichiarato Biden in un comunicato.
“Ho parlato separatamente con l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim, e con il presidente dell’Egitto, Sissi, per esaminare i significativi progressi compiuti a Doha negli ultimi due giorni di colloqui, ed essi hanno espresso il forte sostegno del Qatar e dell’Egitto alla proposta degli Stati Uniti come co-mediatori in questo processo”, continua il presidente.
“I nostri team rimarranno sul posto per continuare il lavoro tecnico nei prossimi giorni e gli alti funzionari si riuniranno nuovamente al Cairo prima della fine della settimana. Mi riferiranno regolarmente”.
“Ho inviato il Segretario Blinken in Israele per riaffermare il mio fermo sostegno alla sicurezza di Israele, per continuare i nostri intensi sforzi per concludere questo accordo e per sottolineare che, con il cessate il fuoco completo e l’accordo per il rilascio degli ostaggi ormai in vista, nessuno nella regione dovrebbe intraprendere azioni per minare questo processo”, aggiunge Biden.
È ancora una volta la “Obama’s vision”: meglio un cattivo accordo [per Israele] che nessun accordo

(Rights Reporter, 17 agosto 2024)

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Ex ostaggio: perché devo vivere questa esperienza?

È stata trattenuta dai terroristi di Hamas per diverse settimane: l'ex ostaggio Mia Shem sta ancora lottando con le conseguenze di questo trauma.

FOTO
Mia Shem

GERUSALEMME - L'ex ostaggio di Hamas Mia Shem soffre ancora per le esperienze vissute nella Striscia di Gaza. Ha dichiarato all'emittente televisiva “Kanal 13” che vede le immagini della sua guardia. “Vado a letto e lo vedo davanti a me. Lo vedo e ho paura. Non riesco a dormire, il mio respiro è lento”.
Durante la prigionia, ha sognato di essere a casa. Ma poi si è svegliata in un tunnel del terrore. “Ecco da dove viene la paura di dormire e di svegliarsi da un'altra parte”.

• Fluttuazioni di energia e domande difficili
  Ha anche paura di guidare un'auto e di essere colpita all'improvviso. “È una cosa che c'è sempre. Non appena il sole tramonta, gli impulsi si intensificano”. Deve anche affrontare forti fluttuazioni: Ci sono momenti in cui è piena di energia, ma nel giro di un secondo ha la sensazione di non riuscire più a stare in piedi.
Trova questo stato insopportabile: “A volte mi chiedo: 'Perché? Perché? Perché non mi hanno sparato il 7 ottobre? Perché devo vivere questa esperienza?”.
Tuttavia, può guardare a uno sviluppo positivo: il suo braccio, ferito durante il rapimento, è quasi completamente guarito. Descrive la sua guarigione come un “miracolo” e “soprannaturale”. “Non ci ho nemmeno fatto caso. Ma all'improvviso ho potuto tenere il cellulare in mano”.
Mia Shem è stata rilasciata alla fine di novembre nell'ambito di uno scambio di ostaggi. La 21enne era stata il primo ostaggio a comparire in un video di propaganda di Hamas a metà ottobre. I terroristi l'avevano rapita dal Nova Festival.

(Israelnetz, 17 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Tra guerra e salvezza: l’evacuazione  di bambini malati di cancro da Gaza con l’assistenza di Israele

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che giovedì 11 bambini malati di cancro sono stati evacuati dalla Striscia di Gaza per ricevere cure mediche . Questa è stata la prima evacuazione medica dal territorio da quando l’offensiva israeliana ha chiuso il valico di Rafah con l’Egitto lo scorso maggio. I bambini hanno attraversato il valico di Kerem Shalom, diretti in Giordania, accompagnati ciascuno da una scorta femminile.
  Israele attualmente controlla tutti i punti di trasferimento in entrata e in uscita da Gaza, nel mezzo della guerra contro il gruppo terroristico Hamas, e ha consentito a un numero limitato di pazienti di lasciare l’enclave per ricevere cure. Lo sforzo è stato coordinato da Israele, Egitto, Stati Uniti e altri partner internazionali, secondo quanto affermato dall’esercito israeliano in una dichiarazione. Questa evacuazione è avvenuta dopo settimane di crescente pressione su Israele affinché permettesse ai palestinesi vulnerabili di lasciare Gaza, dove una guerra prolungata ha decimato il sistema sanitario.
  I gruppi umanitari sperano che questa evacuazione apra la strada a una nuova rotta per i palestinesi gravemente malati e feriti che cercano cure mediche all’estero. Tuttavia, non è ancora chiaro dove saranno trattati i pazienti e se le autorità israeliane prevedano ulteriori evacuazioni.
  Questi sforzi riflettono la complessità della situazione: nonostante il conflitto e le tensioni politiche, esistono canali di cooperazione umanitaria che mirano a salvare vite umane , soprattutto quelle dei bambini, considerati le vittime più vulnerabili della guerra. Tuttavia, queste iniziative avvengono in un contesto di grande difficoltà, segnato da continui combattimenti e tensioni politiche tra Israele e i territori palestinesi.

- DETTAGLI SULL’EVACUAZIONE
   Come riportato dal Times of Israel, Nermine Abu Shaaban, coordinatrice dell’evacuazione dei pazienti per l’OMS, ha confermato che i bambini sono stati trasferiti attraverso il valico di Kerem Shalom in Israele e diretti nella vicina Giordania per le cure. Sette dei bambini sono stati trasportati in ambulanza, mentre i restanti in autobus. L’evacuazione è stata organizzata dall’OMS in collaborazione con due enti di beneficenza statunitensi.
  Uno dei bambini trasferiti, Mecca Zorab, di 2 anni, è già stata sottoposta a tre interventi chirurgici nella Striscia di Gaza, dopo la scoperta di un tumore alla testa tre mesi fa. Sua madre, Fatima, è stata vista mentre teneva e baciava la mano della piccola, distesa su una barella in ambulanza con un tubo respiratorio. Avendo un altro neonato di cui prendersi cura, Fatima non può accompagnare la figlia; la nonna della bambina ha quindi preso il suo posto.
  Israele consente a ogni paziente di essere accompagnato da una scorta femminile, controllata dai servizi di sicurezza, che può portare con sé una borsa di vestiti, un telefono cellulare e un caricabatterie.
  Intanto il ministro della Difesa Yoav Gallant ha confermato le evacuazioni, dichiarando che l’operazione, «condotta insieme a COGAT e all’IDF, ha evacuato bambini e pazienti che necessitavano di cure mediche in Giordania, a seguito di una missione umanitaria simile condotta diverse settimane fa».
  La maggior parte degli ospedali a Gaza ha chiuso dopo aver esaurito carburante o scorte, oppure a causa di raid delle forze israeliane contro terroristi che utilizzavano le strutture. Israele ha presentato prove che Hamas e altri gruppi terroristici si rifugiano negli ospedali . Il Ministero della Salute di Gaza ha affermato che circa 28.000 pazienti necessitano di cure mediche fuori Gaza.
  Careeman al-Farra, cinque anni, anche lei inclusa nell’evacuazione di giovedì, ha ricevuto una diagnosi di tumore del sangue da neonata e in precedenza aveva ricevuto cure fuori Gaza. Sua madre ha detto che il tumore è tornato poco prima della guerra. «Non c’era un posto pulito dove stare o dove essere ben nutrita per aiutarla con le sue condizioni mediche – ha dichiarato Zaher al-Farra –. Abbiamo cercato di fornirle queste cose, ma è stato difficile perché siamo stati sfollati da un posto all’altro».

- ALLARME POLIO A GAZA: UN’AZIONE URGENTE NECESSARIA
   Il conflitto ha anche contribuito alla diffusione di malattie letali come la poliomielite, che rappresenta una grave minaccia per la popolazione di Gaza. Gli operatori umanitari delle Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme, sottolineando l’importanza di un intervento immediato per fermare la trasmissione del virus.
  Secondo un aggiornamento congiunto dell’OMS e dell’UNICEF, saranno necessari almeno due cicli di vaccino antipolio orale per bloccare la diffusione del poliovirus. Questo avvertimento è arrivato dopo che il Global Polio Laboratory Network ha identificato il poliovirus di tipo 2 derivato dal vaccino in campioni di acque reflue prelevati a Khan Younis e Deir Al-Balah il 23 giugno scorso.

- PARALISI: UNA TRAGICA CONSEGUENZA
   A fine luglio, le autorità sanitarie di Gaza hanno riportato tre casi di paralisi, con campioni inviati in Giordania per ulteriori analisi. Sebbene la “paralisi flaccida acuta” possa avere molte cause, l’OMS non esclude che il poliovirus sia all’origine di questi casi, anche se i risultati definitivi sono ancora attesi. (La paralisi flaccida acuta – PFA – è una sindrome a inizio rapido e improvviso, caratterizzato da paresi o paralisi degli arti con possibile concomitante interessamento dei muscoli respiratori e della deglutizione, che raggiunge il massimo grado di severità nel giro di 1-10 giorni).
  L’OMS aveva già avvertito che, nonostante l’elevata copertura vaccinale contro la poliomielite a Gaza prima della guerra, i mesi di conflitto hanno creato «l’ambiente perfetto» per la mutazione del virus vaccinale in una forma più virulenta, capace di provocare paralisi tra i non completamente immunizzati.

- OSTACOLI ALLA CAMPAGNA DI VACCINAZIONE
   Le agenzie ONU sono preoccupate per i possibili ritardi nella consegna del vaccino e delle attrezzature necessarie per la catena del freddo, fondamentali in un contesto segnato da combattimenti intensi e instabilità. Le tensioni regionali legate al conflitto a Gaza minacciano di complicare ulteriormente le operazioni di vaccinazione.
  In risposta a questa emergenza, le Nazioni Unite hanno fatto appello per la realizzazione di pause umanitarie che permettano di vaccinare i bambini e ridurre il rischio di trasmissione. Il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha già approvato la distribuzione di 1,23 milioni di dosi del nuovo vaccino orale antipolio di tipo 2 (NOPV2), destinato a immunizzare oltre 640.500 bambini sotto i 10 anni a Gaza.
  Per garantire il successo di questa campagna di vaccinazione di massa, le agenzie ONU hanno insistito sulla necessità di un accesso sicuro e duraturo, nonché sulla protezione degli operatori sanitari. Attualmente, solo 16 dei 36 ospedali di Gaza sono «parzialmente funzionanti», mentre solo 48 delle 107 strutture sanitarie primarie restano operative.

- UN SISTEMA SANITARIO AL COLLASSO
   Il conflitto ha avuto un impatto devastante sul sistema sanitario di Gaza, riducendo drasticamente i tassi di immunizzazione e aumentando il rischio di malattie prevenibili. Questo, unito alla scarsa qualità dell’acqua e alla distruzione dei servizi igienico-sanitari, aggrava ulteriormente la situazione.
  La copertura vaccinale di routine contro la poliomielite a Gaza è scesa dal 99% nel 2022 a meno del 90% nel primo trimestre del 2024. Senza un’azione rapida e coordinata, la poliomielite potrebbe tornare a flagellare una popolazione già stremata da anni di conflitti.

- GLI OSPEDALI ISRAELIANI E IL PROGRAMMA “SAVE A CHILD’S HEART”
   Gli ospedali israeliani, in particolare quelli situati vicino a Gaza, curano regolarmente bambini provenienti dai Paesi arabi, inclusi i territori palestinesi. Questi pazienti vengono trasportati in Israele per ricevere trattamenti avanzati per ferite da conflitto, malattie gravi o condizioni croniche non gestibili nelle strutture locali, spesso sovraccariche o danneggiate dal conflitto.
  Ad esempio, l’ospedale Wolfson di Holon, vicino a Tel Aviv, è noto per il suo programma “Save a Child’s Heart” (SACH), che offre interventi chirurgici cardiaci salvavita a bambini da tutto il mondo, inclusi molti provenienti dai territori palestinesi.
  A novembre 2021, il programma “Save a Child’s Heart” aveva portato in Israele più di 4.500 bambini da oltre 65 Paesi, con circa il 50% provenienti dall’Autorità Nazionale Palestinese, dalla Giordania, dall’Iraq e dal Marocco, oltre al 30% dall’Africa e il resto da Asia, Europa orientale e Americhe. (Fonte: Wikipedia).

- LA DISPUTA TRA GALLANT E NETANYAHU
   Lo scorso luglio è emersa una disputa pubblica tra il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e il primo ministro Benjamin Netanyahu riguardo alle cure mediche per i bambini di Gaza. Gallant aveva proposto di allestire un ospedale da campo vicino al confine con Gaza per compensare la chiusura del valico di Rafah, che impediva ai palestinesi di ricevere cure all’estero. Tuttavia, Netanyahu ha bloccato l’iniziativa, suscitando critiche da parte del Ministero della Difesa, che lo ha accusato di mettere in pericolo vite umane per motivi politici. La disputa riflette le tensioni interne al governo, con Gallant che aveva precedentemente proposto di inviare i bambini malati all’estero, proposta inizialmente accettata da Netanyahu ma mai attuata.

- BAMBINI SENZA CONFINI TRAUMATIZZATI
   Nel conflitto israelo-palestinese, i bambini rappresentano le vittime più vulnerabili . Durante le recenti escalation di violenza, come il conflitto tra Israele e Hamas nel 2023, centinaia di bambini palestinesi e israeliani hanno perso la vita, e molti altri sono rimasti feriti. A Gaza, dove la densità di popolazione è elevata e le infrastrutture sono gravemente compromesse dai bombardamenti, i bambini spesso si trovano intrappolati nelle aree di conflitto, senza vie di fuga sicure.
  L’impatto psicologico sui bambini è altrettanto devastante. Molti soffrono di disturbi post-traumatici da stress (PTSD) , ansia e depressione, vivendo in costante paura di nuovi attacchi. Le scuole, un tempo considerate rifugi sicuri, sono state talvolta colpite, privando i bambini del diritto all’istruzione e di un senso di normalità. In Israele, i bambini vivono sotto la costante minaccia dei razzi lanciati da Gaza, e anche se il sistema Iron Dome riesce a intercettare molti di questi attacchi, il trauma psicologico di vivere in una zona di conflitto è profondo.
  Le organizzazioni internazionali, come UNICEF e Save the Children, continuano a lanciare appelli per la protezione dei bambini in questo conflitto, sottolineando l’importanza di garantire loro accesso a cure mediche, sostegno psicologico e un ambiente sicuro per crescere. Tuttavia, fino a quando la violenza non cesserà, i bambini continueranno a essere tra le principali vittime di questo conflitto irrisolto.

(Bet Magazine Mosaico, 17 agosto 2024)

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Olavi Syvanto e i primi credenti messianici di lingua ebraica a Beersheva

Olavi Syvanto è stato una forza trainante nella fondazione e nella crescita della comunità messianica nel sud di Israele. È scomparso il 1° luglio.

di Gershon Nerel

GERUSALEMME - Nel 1966, quando ero ancora un adolescente, conobbi a Beersheva una speciale coppia finlandese cristiana: Olavied Esther Syvanto. Frequentavano regolarmente le mie stesse funzioni dello Shabbat pomeridiano, nei locali dell'Alleanza Cristiana e Missionaria (C&MA) nel vecchio quartiere turco, al numero 15 di Patriarchs Street. A quel tempo Beersheva era una piccola città polverosa e in rapido sviluppo nella parte settentrionale del deserto del Negev. I beduini venivano spesso in visita e al mercato. L'area urbana si riempì profeticamente di migliaia di olim (nuovi immigrati) che si riversavano nella città desertica, soprattutto dal Nord Africa, dall'Europa orientale, dall'India e dal Pakistan. La mia famiglia è arrivata a Beersheva dalla Romania nel 1964.

- UNA MINI-COMUNITÀ
  Nell'agosto del 1964, anche Warren e Linda Graham , giovani missionari americani, si stabilirono nel sito C&MA di Beerscheva con i loro figli piccoli. La loro visione era quella di condividere il messaggio del Signore Yeshua con gli israeliani. Olavi e la sua famiglia, allora con tre figli - Kari, Helena e Anneli e più tardi anche il figlio minore Jonathan - sostennero i Graham come meglio poterono. Insieme ad alcune altre famiglie del quartiere, tra cui Tibi e Marcella Vardi e Larry ed Eila Goldberg , formammo una piccola comunità di lingua ebraica. Ci riunivamo nella grande casa turca della missione. La partecipazione media alle riunioni del fine settimana era di circa 12-15 persone.
  Tuttavia, gli studi biblici e le riunioni di preghiera infrasettimanali, che si tenevano nella piccola cappella di pietra in fondo al cortile murato, erano frequentati solo da una mezza dozzina di persone. Warren, il pastore americano, che all'epoca parlava a malapena l'ebraico, insisteva senza timore nel tenere le sue lezioni bibliche in un ebraico stentato. Olavi cercava cautamente di assisterlo linguisticamente. Solo dopo diversi anni di coraggiosi sforzi, Warren riuscì a parlare correntemente l'ebraico.
  Durante le funzioni, Linda, l'energica moglie di Warren, suonava il pianoforte e talvolta un piccolo organo di legno. Tutti insieme cantavamo canzoni ebraiche tratte dall'innario Shir Chadash (Nuovo Canto). Questo libro, che conteneva 212 canti, la maggior parte dei quali tradotti in ebraico dall'inglese e dal tedesco, era stato compilato da Bernice Cox Gibson , un'altra missionaria americana della C&MA. Nella compilazione di Shir Chadash, stampato a Gerusalemme nel 1957, Gibson fu assistita da Ruth Laurence , una missionaria britannica che lavorava nel Paese sotto il Mandato britannico dal 1927.
  Ruth Laurence, comunemente nota come “Laurie”, si trasferì a Beersheva negli anni Cinquanta. All'epoca aveva circa 50 anni e faceva parte della piccola comunità cristiana del luogo. Laurie parlava correntemente l'ebraico e viveva nel suo piccolo appartamento a Shikun Gimel, un nuovo quartiere della Beersheva moderna costruito principalmente per gli olim, fuori dal fatiscente quartiere turco. Da lì, sempre con le sue lunghe gonne, si recava regolarmente alle riunioni della comunità, sia in estate che in inverno, con la sua pratica bicicletta. Laurie ha scritto due libretti in ebraico per bambini: Dalla bocca degli asini e Conversazioni nelle stalle del re - Da un cavallo. Quando è andata in pensione, si è trasferita nell'Oxfordshire, in Inghilterra.
  
- DALLA FINLANDIA A BEERSHEVA PASSANDO PER LA SVEZIA
  Olavi nacque in Finlandia nel 1935 e si trasferì nello Stato di Israele con i genitori finlandesi e la loro famiglia nel settembre 1949, all'età di 14 anni, stabilendosi a Tiberiade. Questo avvenne due anni dopo che suo padre Kaarlo aveva già visitato il Paese per cercare in anticipo un luogo adatto per vivere. La visione di Kaarlo era quella di distribuire Bibbie, il Tanakh e il Nuovo Testamento, principalmente in ebraico ma anche in altre lingue, a seconda delle necessità, alla crescente e variegata popolazione di Olim sparsi in tutto il Paese.
  Nel 1954, all'età di 19 anni, Olavi sposò Esther in Svezia, poi tornarono in Israele come coppia e si trasferirono nel kibbutz Netzer Sereni, vicino a Rehovot. Lavorarono nel kibbutz per circa due anni e impararono l'ebraico, ma alla fine dovettero partire. Mentre Esther e i bambini rimasero con la madre in Svezia tra il gennaio 1958 e il giugno 1959, Olavi fece il servizio militare obbligatorio in Finlandia. Poco dopo tornarono in Israele.
  Il pastore Leigh Irish , che aveva sostituito il pastore Griebenow alla guida del centro C&MA di Gerusalemme, venne a sapere da Kaarlo Syvanto che Olavi stava cercando un lavoro. Senza ulteriori indugi, Irish invitò Olavi a trasferirsi a Beersheva - per rimanervi e lavorare principalmente come tuttofare nella Casa della Bibbia, che aveva bisogno di molti lavori di ristrutturazione. La Casa della Bibbia era stata aperta da Bernice Gibson nel 1957. A quel tempo, la città contava già 40.000 abitanti.

- NEL NEGEV

Olavi Syvanto (a destra) con l'autore Gershon Nerel a Omer nel 2022. Foto Gershon Nerel
Nel 1959, Olavi e la sua famiglia si trasferirono nel vecchio e piccolo edificio della Casa della Bibbia, in via Rambam 39. Negli anni Cinquanta e Sessanta, si trovava dietro un alto muro di pietra, con uno stretto cortile di fronte all'ingresso. Bibbie in varie lingue e versetti della Bibbia erano esposti in una piccola vetrina nel muro che dava sulla strada. Olavi era responsabile del negozio e di rispondere a tutti i tipi di domande e ai visitatori che volevano parlare della Bibbia, ecc. Tuttavia, non era un missionario ufficiale della C&MA. Nel corso degli anni, molte delle spese del negozio biblico sono state coperte dalle generose donazioni di credenti in Finlandia.
  Negli anni '70, il vecchio edificio turco fu demolito e fu costruito un nuovo edificio a tre piani. Dal 1964 Olavi e la sua famiglia vivevano in una nuova casa a Omer, un sobborgo di Beersheva.
  Di tanto in tanto, davanti alla Casa della Bibbia si svolgevano manifestazioni anti-missionarie di ebrei ortodossi. I dimostranti urlanti e vestiti di nero hanno lasciato segni indelebili su alcuni dei figli di Olavi dai capelli biondi. I piromani hanno distrutto anche i libri e la vetrina del negozio è stata infranta due volte. Più tardi, un ebreo ortodosso con la barba lunga, andò da Olavi e si scusò: “Non posso credere che noi ebrei che abbiamo vissuto la Notte dei cristalli in Europa ti stiamo facendo questo nel nostro Paese”.
  Dall'inizio degli anni '60, Olavi “curò gli interessi” della C&MA a Beersheva (William F. Smalley, Alliance Missions in Palestine, Arab Lands and Israel 1890-1970, New York 1971, p. 532). Durante la sua lunga collaborazione con la C&MA, Olavi aveva anche imparato l'inglese.
  
- DALLO STILE AMERICANO A QUELLO LOCALE
  Prima che i Graham arrivassero a Beersheva, i missionari della C&MA, il Rev. Laird Kroh e sua moglie, vivevano nella loro casa di missione al 15 di Patriarchs Street (1953-1962). Non riuscivano a comunicare in ebraico e le funzioni religiose erano tutte in inglese. I pochi olim indiani che vi partecipavano parlavano tutti inglese.
  Un numero maggiore di olim si recò alla casa della missione, soprattutto per le celebrazioni natalizie, principalmente per il rinfresco festivo. Le riunioni settimanali della congregazione si tenevano la domenica mattina alle 10:00, quando gli israeliani erano al lavoro. La Pasqua veniva celebrata secondo il calendario cristiano generale. Il sito era allora definito una “chiesa americana”, non un luogo per la gente del posto.
  Queste cose sono cambiate gradualmente dopo l'insediamento dei Graham. Passo dopo passo, l'ebraico è diventato la lingua franca delle attività nella proprietà. Olavi fu un grande sostenitore di questo processo. Ad esempio, le lezioni e le altre attività per i bambini, alcuni dei quali provenivano anche dal vicinato, si svolgevano in ebraico. I genitori li mandavano a queste attività perché volevano semplicemente avere del tempo libero per loro stessi. Olavi andava a prendere i bambini a casa con il minibus della missione.
  Le riunioni di Shabbat sostituivano le funzioni domenicali e i sermoni erano incentrati sulle festività ebraiche. Dopo che il dottor Tom Adler , uno psichiatra ebreo messianico, e sua moglie Bianca si unirono alla congregazione, il gruppo che si riuniva si chiamò ufficiosamente “Assemblea di Beersheva” , senza avere uno status giuridico proprio. Il dottor Adler è morto in Nuova Zelanda.
  
- UN FILANTROPO
  Olavi era un uomo tranquillo, serio, amichevole e leale. La sua testimonianza evangelistica sulla verità della Bibbia era sincera e convincente. Gli piaceva particolarmente parlare dell'imminente adempimento delle profezie della fine dei tempi riguardanti Israele. Ripeté pazientemente questi temi per decenni. Ha proclamato il Vangelo del Messia principalmente su base individuale, attraverso amicizie personali e contatti con persone di ogni tipo.
  Olavi, per esempio, fece amicizia con i miei scettici genitori nel dicembre 1973, poco dopo la fine della guerra dello Yom Kippur, Olavi venne a trovare mio padre che era venuto a visitarmi nella penisola del Sinai. Vestito con un'uniforme dell'IDF che aveva ricevuto da mio padre, Olavi volle incoraggiarmi sul posto, mentre prestavo servizio nel Corpo medico dell'IDF non lontano dal Canale di Suez.
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Olavi (a sinistra), Gershon con la giacca, il padre di Gershon (a destra).
Sinai, dicembre 1973, per gentile concessione di Gershon Nerel

Olavi non solo visitò e parlò con molti altri olim, ma entrò anche in contatto con i beduini che spesso venivano a Beersheva. Di tanto in tanto si recava in qualche tenda beduina e cercava di fare amicizia con la gente, che a quel tempo, molto più di oggi, era nomade. Uno di questi beduini, Sallah , professò addirittura la fede nel Signore Yeshua e fu battezzato nel pozzo ornamentale tra la casa della missione turca e la porta di via dei Patriarchi.
  Il lavoro di routine della missione di Beersheva veniva interrotto di tanto in tanto dalla partenza dei missionari stranieri per le vacanze. Queste assenze non erano semplici vacanze. Sebbene fornissero tempo per le riunioni di famiglia, venivano anche utilizzate per tenere conferenze, promuovere il lavoro missionario e raccogliere donazioni. Soprattutto durante le vacanze dei missionari in America, Olavi era il fedele custode delle proprietà della C&MA a Beerscheva. Era lì per rispondere alle domande e risolvere i problemi.
  
- UN CONTRIBUTO SPECIALE
  Un progetto unico che Olavi avviò fu la revisione del Nuovo Testamento ebraico di Franz Delitzsch. Ha proposto a mia moglie e a me di rivedere alcune parole arcaiche nella traduzione ebraica di Delitzsch. Dopo un'attenta riflessione e preghiera, abbiamo accettato la proposta e abbiamo iniziato a lavorare sull'aggiornamento di parole e termini che negli ultimi 150 anni hanno cambiato significato o hanno assunto nuove connotazioni e sfumature dall'ebraico moderno. Siamo stati particolarmente soddisfatti del fatto che lo stile e la sintassi dell'ebraico classico del NT di Delitzscher fossero molto vicini al Tanakh. Questo ha fornito un collegamento linguistico naturale tra il Tanakh e il Nuovo Testamento
  Nel 2003, dopo circa un decennio, l'intero lavoro di revisione è stato completato. Questo periodo ha incluso anche le consultazioni con Mirja Ronning , sorella di Olavi. Ho chiamato la nuova edizione “ Versione del NT del Negev” perché è stata creata da Olavi nel Negev.
  Essendo una persona pratica, Olavi si occupò anche della pubblicazione della nuova edizione, che fu stampata insieme al Tanakh. Olavi non solo sapeva esattamente dove trovare la carta più fine e sottile in Finlandia e come fare la rilegatura con il colore da noi suggerito, ma ha anche trovato i fondi necessari. Oggi, dopo più di 20 anni in cui la “versione Negev” è disponibile gratuitamente, è ancora felicemente utilizzata dalla mia congregazione messianica e da altri amici in Israele.
  
- FINE PACIFICA
  Olavi è morto serenamente nel sonno il 1° luglio 2024 a Omer. È stato sepolto quattro giorni dopo a Beersheva. Aveva 89 anni ed è stato amato e stimato da molti.

(Israel Heute, 17 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Negli anni scorsi abbiamo riportato diversi articoli di Gershon Nerel. Ne citiamo soltanto uno: “Gli ebrei messianici nella storia e nell’epoca presente”. Altri possono essere trovati usando la chiave “Cerca” in alto a destra.

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Il comico prende di mira una coppia di israeliani: i due costretti ad andarsene

di Michelle Zarfati

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Sembra che gli israeliani ormai non possano neppure più andare a vedere uno spettacolo di stand up Comedy senza essere derisi e umiliati. È ciò che è successo ad una coppia, quando il comico americano Reginald D Hunter, ha deriso una coppia di israeliani durante uno dei suoi spettacoli del Festival Edinburgh Fringe, secondo quando riportato da una recensione apparsa sul Telegraph lunedì.
Hunter, che era già stato coinvolto in una vicenda legata all’antisemitismo nel 2006, ha raccontato nel corso del suo spettacolo di un aneddoto avvenuto con sua moglie in cui il comico avrebbe detto a lei: “Mio Dio, essere sposato con te è come essere sposato con Israele”. Anche se la maggior parte del pubblico ha riso in risposta alla battuta, la coppia di israeliani, seduta in prima fila, ha gridato: “Non è divertente”.
Quando i due hanno preso la parola, dicendo di non trovare divertente la freddura del comico, poiché offensiva, il pubblico ha cominciato ad insultare i due a suon di “Palestina libera” e altri slogan del genere.
Durante il triste spettacolo, il comico ha rincarato la dose, dicendo alla coppia: “Potete dire che non fa ridere, ma se lo dite a una stanza piena di gente che ride, fate la figura degli stupidi”.
Hunter avrebbe inoltre deriso i due fino alla fine. Secondo la stampa locale infatti, il comico avrebbe continuato a fare battute offensive anche dopo che il pubblico ha spinto la coppia ad andarsene. La campagna contro l’antisemitismo – un ente inglese di beneficenza, guidato da volontari, e volto ad esporre e contrastare l’antisemitismo – ha definito l’incidente “estremamente preoccupante”, sottolineando come “fare battute sugli ebrei e perseguitarli in uno show sia qualcosa di sbagliato e nauseante. Spettacoli del genere non possono essere travestiti da commedia”.
Hunter, che è apparso in vari programmi della BBC, era già noto al pubblico per le sue battute provocatorie sugli ebrei. Nel 2006 il comico aveva detto che la vera Shoah era quella ruandese e non quella ebraica come detto da sempre. Tuttavia, eventi di questo genere si erano già verificati qualche mese fa in Inghilterra. A febbraio, un uomo israeliano era stato buttato fuori da un teatro di Londra, durante lo spettacolo del comico Paul Currie, dopo che si era rifiutato di applaudire alla bandiera palestinese. Durante lo spettacolo, Currie aveva tirato fuori bandiere ucraine e palestinesi chiedendo al pubblico presente in sala di alzarsi e applaudire, cosa che l’uomo israeliano si era rifiutato di fare. Quando gli era stato chiesto perché, l’uomo aveva risposto : “Mi è piaciuto il tuo spettacolo fino a quando non hai tirato fuori la bandiera palestinese”. In risposta, Currie avrebbe urlato all’uomo “ di uscire immediatamente dal suo spettacolo” mentre diversi membri del pubblico facevano il tifo per il comico gridando “Free Palestine”.

(Shalom, 16 agosto 2024)

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Gaza - Colpiti oltre 30 obiettivi da Israele nelle ultime 24 ore

GERUSALEMME - L'aeronautica militare israeliana ha colpito oltre 30 obiettivi nella Striscia di Gaza nelle ultime 24 ore. Lo hanno reso noto le Forze di difesa di Israele (Idf) in un rapporto mattutino, spiegando che sono stati presi di mira edifici e infrastrutture utilizzate da gruppi terroristici palestinesi, nonché cellule di miliziani armati.
Nel frattempo sono proseguite le operazioni dell’esercito a Rafah e Khan Yunis, nel sud della Striscia, e nei pressi del corridoio di Netzarim, nell’area centrale. In particolare, le Idf hanno riferito che a Khan Yunis è stata bombardata con l’artiglieria una zona da cui in precedenza erano stati lanciati dei razzi verso il nord dello Stato ebraico. Sempre a Khan Yunis, i militari della Brigata paracadutisti hanno fatto irruzione in un edificio, al cui interno hanno trovato armi, lanciarazzi e ordigni esplosivi.
Nella parte centrale della Striscia di Gaza, i riservisti della Brigata Harel hanno invece individuato diversi cunicoli e ucciso alcuni miliziani con un drone. Le Idf hanno anche reso noto che la Marina militare ha eliminato con bombardamenti dalle sue navi “un certo numero di terroristi che rappresentavano una minaccia per le truppe che operano nella Striscia di Gaza”.

(Agenzia Nova, 16 agosto 2024)

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Attacco al villaggio palestinese, condanna unanime: «Estremismo contrario ai nostri valori»

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Ferme condanne da parte di tutto l’arco politico israeliano per quanto accaduto in Cisgiordania, nel villaggio palestinese di Jit, attaccato da un gruppo di estremisti israeliani. Dal primo ministro Benjamin Netanyahu al presidente dello stato Isaac Herzog, la censura della violenza è stata unanime. «I responsabili di ogni atto criminale saranno arrestati e perseguiti», ha affermato Netanyahu. Secondo alcune ricostruzioni, decine di estremisti, alcuni a volto coperto, hanno lanciato bombe molotov e appiccato incendi nel villaggio. «Si tratta di una minoranza estremista», ha sottolineato Herzog, che danneggia «il nome e la posizione di Israele nel mondo. Questa non è la nostra via, e certamente non è la via della Tora e dell’ebraismo. Le forze dell’ordine devono agire immediatamente contro questo grave fenomeno e assicurare i trasgressori alla giustizia», ha concluso il presidente, invitando a non sottovalutare la minaccia.
  Nell’attacco a Jit è stato ucciso il 23enne Rashid Sada. Sulle dinamiche della sua morte sta indagando l’esercito. Intervistato da ynet, il capo del villaggio Naser Sada ha denunciato l’azione come terrorismo. «Quattro auto e quattro case sono state date alle fiamme. Ci siamo svegliati con l’odore degli incendi, con i bambini spaventati. Se i nostri giovani non fossero usciti per cercare di respingere i violenti, il disastro sarebbe potuto essere maggiore», ha affermato Sada al media israeliano. Il giovane rimasto ucciso è un suo parente. «È uscito per cercare di reagire ed evitare che la sua casa venisse bruciata. È stato colpito senza alcun motivo».
  Jit è considerato un villaggio abbastanza tranquillo, scrive Itamar Eichner di ynet. «La maggior parte dei suoi abitanti lavora nel commercio e nell’agricoltura. Le organizzazioni terroristiche di solito non vi operano. Le forze di sicurezza sono rimaste inorridite dalle violenze della scorsa notte, e un funzionario ha detto che sono avvenuti senza un motivo apparente», riporta Eichner.
  «Mentre i nostri soldati combattono sui vari fronti per difendere lo Stato di Israele, un manipolo di estremisti, che non rappresentano i valori dell’insediamento in Samaria, si ribellano e attaccano civili innocenti», ha dichiarato il ministro della Difesa Yoav Galant. Oltre a condannare le violenze, Gallant ha ribadito il proprio sostegno a Tsahal, Shin Bet e polizia «affinché affrontino con severità la questione. I disordini di questi estremisti sono contrari a ogni imperativo morale e ai valori dello Stato di Israele». Dichiarazioni simili sono arrivate dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, secondo cui quanto accaduto a Jit «non ha nulla a che fare con gli insediamenti. Sono criminali da condannare».
  Fuori dal coro, la posizione espressa dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. «Ho detto al capo di stato maggiore che il fatto di non dare la possibilità ai soldati di sparare a qualsiasi terrorista che lanci pietre provoca eventi», come quello di Jit. «Allo stesso tempo, è inequivocabilmente vietato farsi giustizia da soli», ha dichiarato Ben-Gvir. «Chi deve occuparsi del terrorismo e della deterrenza, anche contro i terroristi del villaggio di Jit, è l’esercito».
  Una fonte all’interno delle forze sicurezza, riporta ancora Eichner su ynet, ha definito gli incidenti «come gravi e senza un innesco. Secondo la fonte, negli ultimi mesi questo tipo di attività allarmanti sta aumentando e si sta intensificando».
  Dall’opposizione, il leader del partito centrista di Unità nazionale Benny Gantz ha parlato di «una manciata di persone che dovrebbero stare dietro le sbarre. Stanno minando i principi dell’ebraismo e dello Stato d’Israele». Yair Golan, capo di una nuova alleanza tra i partiti di sinistra, ha puntato il dito contro l’esecutivo di Netanyahu: «Non si tratta di una minoranza estremista o un problema minore, ma di un gruppo violento che gode di un enorme sostegno da parte del governo».

(moked, 16 agosto 2024)

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A Kherson ritrovata una fossa comune e resti umani di vittime della Shoah

di Olga Flori 

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In Ucraina, a Henichesk, le autorità russe hanno ritrovato i resti umani di 61 ebrei (50 adulti e 11 bambini) assassinati durante la Shoah. Lo riporta il sito Ynet.
La città di Henichesk, nell’Oblast di Kherson, è sotto il controllo russo dal 2022. Qui le autorità del Cremlino stanno conducendo un’indagine per genocidio sui resti rinvenuti eseguendo un accurato scavo archeologico e analisi genetiche sui resti ossei riesumati, secondo quanto riportato dal canale televisivo Vesti Crimea.
Un portavoce della Commissione investigativa russa che si sta occupando di supervisionare gli scavi ha spiegato a Ynet news che i resti ossei rimessi in luce si trovavano all’interno di una trincea anticarro della seconda guerra mondiale scavata per difendersi dal nemico nazista. I tedeschi però raggiunsero Henichesk da un lato diverso della città e la fossa venne così utilizzata per gettarvi centinaia di corpi di vittime di esecuzioni, molte delle quali erano di religione ebraica.
All’inizio del Novecento a Henichesk vivevano oltre quattromila ebrei. La popolazione di religione ebraica si ridusse notevolmente nel tempo e nel 1939 nella città si contavano solo 947 ebrei. Si tratta di numeri indicativi influenzati anche dall’arrivo di rifugiati e di altri individui di religione ebraica che i nazisti trasferirono forzosamente nella città.
I dati archivistici suggeriscono che nell’area in cui sono già stati ritrovati i 61 corpi sarebbero stati sepolti migliaia di cadaveri che potrebbero tornare alla luce nel corso degli scavi archeologi russi.

(Shalom, 16 agosto 2024)

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L'aereo privato di Abramovich arriva in Israele, minacciato da nuove sanzioni

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L'aereo, modello LX-RAY, è atterrato all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv secondo un programma internazionale di tracciamento dei voli, senza che sia possibile confermare se Abramovich, proprietario della Chelsea, di origine ebraica, viaggiasse sullo stesso volo e sia entrato in territorio israeliano .
Abramovich è già stato oggetto di sanzioni da parte del Regno Unito, del Canada e di altri paesi insieme ad altri oligarchi russi per la sua presunta stretta relazione con il presidente russo Vladimir Putin, e anche l'Unione Europea (UE) ha annunciato che intende sanzionarlo come parte di un pacchetto coordinato con il Gruppo dei Sette Paesi più sviluppati (G7) contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina.
Questa decisione arriva dopo che sabato la Premier League gli ha tolto il permesso di manager del Chelsea, un altro passo dopo il congelamento dei suoi beni da parte del governo britannico.
L'inclusione di Abramovich nella nuova lista sanzionata coincide con l'apertura di un'indagine da parte del Portogallo per verificare se ci fossero irregolarità nella concessione della nazionalità che gli era stata concessa in quanto discendente di ebrei sefarditi.
Tuttavia, la possibile presenza del magnate in Israele alimenta le polemiche, dopo che media e analisti avvertono che il Paese potrebbe diventare un rifugio fiscale per gli oligarchi russi di origine ebraica che cercano di stabilirsi e investire per evitare sanzioni internazionali.
Lo Stato ebraico non ha ancora imposto sanzioni alla Russia, con la quale mantiene un atteggiamento "misurato" a causa del suo accordo di sicurezza in Medio Oriente, e diversi miliardari ebrei legati dalla loro vicinanza al Cremlino possiedono da anni passaporti israeliani.
Oltre agli investimenti significativi e alle iniziative imprenditoriali nel Paese, alcuni hanno anche contribuito con significative donazioni finanziarie a progetti no-profit di vario genere, sia in Israele che nel resto del mondo ebraico.
Da parte sua, Abramovich ha acquisito la cittadinanza israeliana nel 2018 ed è diventato la seconda persona più ricca del Paese.
Due giorni prima dell'invasione dell'Ucraina, ha fatto una donazione di un milione di dollari al Museo dell'Olocausto di Gerusalemme, Yad Vashem, ma l'istituzione ha deciso di rinunciare al denaro e ha annunciato che avrebbe tagliato i rapporti con il magnate due settimane dopo.
Gli Stati Uniti hanno recentemente esortato Israele ad aderire alle sanzioni contro la Russia e i suoi oligarchi.
Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha assicurato che "Israele non sarà un modo per evitare le sanzioni imposte alla Russia dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali".
Secondo lui, diversi ministeri come quelli degli Affari Esteri, delle Finanze, dell'Economia o dell'Energia stanno esaminando la questione insieme alla Banca d'Israele o all'Autorità aeroportuale.

(Aurora, 16 agosto 2024)

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Il fustigatore di Israele benevolo con Teheran

di Davide Cavaliere

Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, è una vecchia conoscenza de L’Informale.
Venuto fortemente alla ribalta in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, in merito alla quale ha espresso una condivisibile posizione pro-Kyiv, Parsi ha però continuato a essere una delle principali voci dell’antisionismo accademico. 
Ostile a Israele, che considera uno Stato «razzista» e di «apartheid», da lui paragonato alla Serbia di Milošević e al Sudafrica di Vorster, ha sempre malcelato la sua simpatia per il regime iraniano e le sue propaggini, Hamas in primis, che nel 2017 vedeva incamminata sulla via della «moderazione»
Gli interventi di Parsi consistono, principalmente, nel condannare Israele come solo responsabile di tutte le tensioni in corso in Medio Oriente e del mancato raggiungimento di una pace duratura coi suoi vicini arabi. Sostenere tale posizione significa sottostimare o ignorare non solo le responsabilità dei «palestinesi», ma anche il fanatismo religioso e il millenarismo dei nemici islamici dello Stato ebraico. 
L’inveterata avversione del professore per Israele lo ha condotto a paragonare le organizzazioni terroristiche islamo-palestinesi, come Hamas, ai resistenti che lottavano contro l’occupazione nazi-fascista. Nel 2015, sulla sua pagina Facebook, ha condiviso il video della seduta parlamentare del 6 novembre 1985, quando l’allora presidente del consiglio, Bettino Craxi, parlò della «legittimità» della lotta armata palestinese, definendo il contenuto di quel discorso «principi elementari di diritto internazionale». Al contrario, in tempi più recenti, commentando l’eliminazione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha affermato: «Ogni volta che Israele compie omicidi mirati in un Paese terzo toglie un mattone alla costruzione del sistema internazionale». 
Insomma: se i palestinesi sequestrano la neve di un Paese terzo e uccidono un passeggero ebreo, stanno compiendo un atto legittimo in accordo coi «principi elementari di diritto internazionale»; Israele, invece, se elimina il pericoloso capo di una organizzazione terroristica in visita a una teocrazia che vorrebbe un secondo Olocausto, «toglie un mattone alla costruzione del sistema internazionale». 
Se è certamente vero che il diritto internazionale prevede che l’occupato possa resiste militarmente all’occupante, questo non vale per il caso palestinese. Israele, infatti, come si è a lungo spiegato su queste pagine, non «occupa» alcun territorio che non gli spetti legalmente. Inoltre, gruppi armati come l’ex OLP o Hamas, non hanno come obiettivo alcuna «resistenza», bensì la cancellazione stessa dello Stato ebraico e lo sterminio della sua popolazione, come dichiarato esplicitamente nei loro statuti. 
Sempre sul suo profilo Facebook, il 19 novembre 2019, commentando il rigetto statunitense della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 2016, che stabiliva l’illegalità degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria (Cisgiordania), Parsi scriveva: «Ennesimo grande contributo alla pace e al dialogo nella regione di questa pessima amministrazione. Poi ci stupisce che gli umiliati e offesi ricorrano alla lotta armata? Quando invece è esattamente ciò che si vuole provocare, per giustificare una repressione senza limiti, senza fine, senza umanità. Povera Palestina e poveri palestinesi». Israele, dunque, starebbe «provocando» la lotta armata dei cosiddetti «palestinesi», peccato però che quest’ultimi pianifichino il massacro di tutti gli ebrei fin dai tardi anni Venti del Novecento, quando lo Stato d’Israele nemmeno esisteva. 
Parsi si è distinto per il suo aperto sostegno all’Accordo sul nucleare iraniano, il celebre JCPOA, definito come un «successo» di Obama. In un articolo per Il Sole 24 Ore del 2015, riportato per intero sulla sua pagina Facebook, ha definito il regime di Teheran «non più estremista come ai tempi della presidenza di Ahmadinejad» e «pienamente affidabile sulla natura esclusivamente civile del proprio programma nucleare». Tre anni dopo, più precisamente il 30 aprile 2018, Netanyahu mostrò in diretta televisiva parte dell’archivio segreto sul nucleare iraniano che agenti del Mossad, col supporto di alcuni dissidenti iraniani, avevano trafugato a Teheran e portato in Israele. I documenti provavano l’intenzione iraniana di dotarsi di un’arma atomica.
Clamorosi errori nelle analisi, cattivo controllo delle idee e dei concetti, ignoranza brutale dei fatti storici, sistematica incapacità di comprendere la mentalità islamica… questi sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano Vittorio Emanuele Parsi.  
Com’è possibile che un soggetto simile, che considera la Repubblica islamica dell’Iran come un attore più razionale e affidabile d’Israele, passi per un luminare dello studio delle relazioni internazionali da ascoltare con attenzione? Mysterium tremendum

(L'informale, 15 agosto 2024)

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Parashat Vaetkhannan: la nazione e l’alleanza

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

È una delle grandi storie di tutti i tempi e Mosè l’aveva prevista tremila anni prima che accadesse. Eccolo parlare nella parashà di questa settimana: “Vedi, io ti ho insegnato i decreti e le leggi che il Signore, mio Dio, mi ha comandato, perché tu li segua nella terra che stai per entrare a possedere. Abbiate cura di osservarli, perché questa sarà la vostra saggezza e la vostra comprensione agli occhi delle nazioni, che sentiranno parlare di tutti questi decreti e diranno: Certamente questa grande nazione è un popolo saggio e comprensivo!
Quale altra nazione, infatti, ha decreti e leggi come questa Torà che oggi vi presento?” (Deuteronomio 4:5-8)
Mosè credeva che sarebbe arrivato un momento in cui l’idea di una nazione fondata su un’alleanza con Dio avrebbe ispirato altre nazioni con la sua visione di una società basata non su una gerarchia di potere, ma sulla pari dignità di tutti, sotto la sovranità e a immagine di Dio; e sulla regola della giustizia e della compassione. “Le nazioni” avrebbero apprezzato la saggezza della Torà e i suoi “giusti decreti e leggi”.
È successo. Come ho sostenuto molte volte, lo vediamo più chiaramente nella cultura politica e nel linguaggio degli Stati Uniti.
Ancora oggi la politica americana si basa sull’idea biblica di alleanza
. I presidenti americani invocano quasi sempre questa idea nei loro discorsi inaugurali, con un linguaggio che deve le sue cadenze e i suoi concetti al libro di Devarim.
Così, ad esempio, nel 1985 Ronald Reagan parlò dell’America come di “un popolo sotto Dio, dedicato al sogno di libertà che Egli ha posto nel cuore dell’uomo, chiamato ora a trasmettere quel sogno a un mondo in attesa e speranzoso”.
Nel suo discorso inaugurale del 1989, George Bush pregò: “C’è un solo uso giusto del potere, ed è quello di servire le persone. Aiutaci a ricordarlo, Signore. Amen”. Nel 1997, Bill Clinton disse: “La promessa che abbiamo cercato in una nuova terra la ritroveremo in una terra di nuove promesse”.
George W. Bush nel 2001 disse: “Siamo guidati da un potere più grande di noi che ci ha creati uguali a Sua immagine”. Nel 2005, all’inizio del suo secondo mandato presidenziale, dichiarò: “Dal giorno della nostra fondazione, abbiamo proclamato che ogni uomo e ogni donna su questa terra hanno diritti, dignità e un valore incomparabile, perché portano l’immagine del Creatore del cielo e della terra”.
Nel 2009 Barack Obama ha concluso il suo discorso con queste parole: “Che i figli dei nostri figli possano dire che quando siamo stati messi alla prova ci siamo rifiutati di lasciare che questo viaggio finisse, che non siamo tornati indietro né abbiamo vacillato; e con gli occhi fissi all’orizzonte e la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e lo abbiamo consegnato in modo sicuro alle generazioni future”.
Si tratta di un linguaggio esplicitamente religioso, senza paragoni in nessun’altra società democratica del mondo, e si legge come un Midrash sostenuto sul Deuteronomio.
Come è successo? È iniziato con l’invenzione della stampa da parte di Johannes Gutenbergin Mainzin nel 1439, seguita in Inghilterra nel 1476 da William Caxton. I libri divennero meno costosi e più accessibili. L’alfabetizzazione si diffuse. Poi, nel 1517, arrivò la Riforma, con la sua enfasi sull’individuo piuttosto che sulla Chiesa, e sulla sola Scriptura, l’autorità della “sola Scrittura”.
Poi è arrivata la traduzione della Bibbia in volgare. Tendiamo a dimenticare che la Bibbia ebraica è un’opera sovversiva. Non è un libro che predica la sottomissione. Parla di profeti che non temono di sfidare i re e di Saul che perse il suo trono perché disobbedì alla parola di Dio. Quindi le autorità avevano buone ragioni per non rendere disponibile la Bibbia in una lingua comprensibile alla gente. Nel XVI secolo era vietato tradurla in volgare. Nel 1530 apparve la grande traduzione di Tyndale (è stato un riformatore religioso del XVI secolo e uno studioso che tradusse la Bibbia nell’inglese dei suoi giorni). Tyndale pagò con la vita: fu arrestato, dichiarato colpevole di eresia, strangolato e bruciato sul rogo nel 1536.
Tuttavia, come hanno scoperto le tirannie contemporanee, è difficile fermare la diffusione delle informazioni resa possibile dalle nuove tecnologie. Le Bibbie inglesi continuarono a essere stampate e vendute in gran numero, in particolare la traduzione di Ginevra del 1560 che fu letta da Shakespeare, Cromwell, Milton e John Donne, oltre che dai primi coloni inglesi d’America.
La Bibbia di Ginevra conteneva un commento a margine. I suoi commenti erano brevi ma a volte esplosivi. Questo vale in particolare per la storia delle levatrici ebree, Shifra e Puah (Esodo capitolo 1) – il primo caso registrato di disobbedienza civile, il rifiuto di obbedire a un ordine immorale. Il Faraone aveva ordinato loro di uccidere tutti i bambini maschi israeliti, ma loro non lo fecero. Commentando questo fatto, la Bibbia di Ginevra dice che “la loro disobbedienza in questo era lecita”. Quando poi il faraone ordina agli egiziani di annegare i bambini maschi israeliti, la Bibbia di Ginevra commenta: “Quando i tiranni non riescono a prevalere con l’inganno, scoppiano in aperta collera”. Questa non era altro che una giustificazione per la ribellione contro un re tirannico e ingiusto.
Le Bibbie di Tyndale e di Ginevra diedero vita a un gruppo di pensatori noti come Ebraisti Cristiani, tra i quali il più famoso – è stato definito il Rabbino Capo dell’Inghilterra rinascimentale – fu John Selden (1584-1654). Selden e i suoi contemporanei studiarono non solo il Tanach, ma anche il Talmud babilonese, in particolare il trattato Sanhedrin, e il Mishnè Torà di Maimonide, e applicarono i principi giudaici alla politica del loro tempo.
Il loro lavoro è stato descritto in un recente studio, The Hebrew Republic, del filosofo politico di Harvard Eric Nelson. Il quale sostiene che la Bibbia ebraica ha influenzato la politica europea e americana in tre modi. In primo luogo, gli ebrei cristiani tendevano a essere repubblicani piuttosto che realisti. Essi sostenevano l’opinione – sostenuta nel giudaismo da Abarbanel – che la nomina di un re in Israele ai tempi di Samuele fosse un peccato (tollerato) piuttosto che l’adempimento di una mitzvah.
In secondo luogo, hanno posto al centro della loro politica l’idea che uno dei compiti del governo sia quello di ridistribuire la ricchezza dai ricchi ai poveri, un’idea estranea al diritto romano.
In terzo luogo, utilizzarono la Bibbia ebraica – in particolare la separazione dei poteri tra il re e il Sommo Sacerdote – per sostenere il principio della tolleranza religiosa.
Fu questo storico incontro tra i cristiani e la Bibbia ebraica nel XVII secolo che portò alla nascita della libertà sia in Inghilterra che in America. I calvinisti e i puritani che guidarono le rivoluzioni inglesi e americane erano saturi della politica della Bibbia ebraica, in particolare del libro di Devarim.
In effetti, il mondo moderno offre quanto di più vicino la storia possa offrire a un esperimento controllato di libertà. Delle quattro rivoluzioni che hanno segnato la modernità, due, quella inglese (1640) e quella americana (1776), erano basate sulla Bibbia ebraica, e due, quella francese e quella russa, erano basate sulla filosofia secolare, rispettivamente di Rousseau e di Marx. Le prime due hanno portato alla libertà. Le seconde due si sono concluse con la soppressione della libertà: in Francia con il Regno del Terrore (1793-94), in Russia con il comunismo stalinista.
Apprezzando il contributo della Bibbia ebraica alla libertà, John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti, scrisse: “Insisterò sul fatto che gli Ebrei hanno fatto di più per civilizzare gli uomini di qualsiasi altra nazione. Se fossi ateo e credessi in un cieco destino eterno, continuerei a credere che il destino ha ordinato agli ebrei di essere lo strumento più essenziale per civilizzare le nazioni”. Lettera di John Adams a François Adriaan van der Kemp (16 febbraio 1809)
L’ironia è, ovviamente, che non c’è nulla di simile nel discorso politico dello Stato di Israele contemporaneo. La politica di Israele è laica nel linguaggio e nelle idee. I suoi fondatori erano animati da alti ideali, ma dovevano più a Marx, Tolstoj o Nietzsche che a Mosè. Nel frattempo, la religione in Israele rimane settaria piuttosto che fondante per la società.
Certo, c’è chi si rende pienamente conto del significato del Sefer Devarim e della politica dell’alleanza per lo Stato attuale. Il pioniere è stato il defunto professor Daniel Elazar, che ha dedicato una vita intera alla riabilitazione della teoria politica giudaica. Il suo lavoro è continuato oggi, tra gli altri, dagli studiosi del Centro Shalem.
L’importanza di questo aspetto non sarà mai sottolineata a sufficienza. Ogni volta che in passato gli ebrei hanno perso la loro visione religiosa, o quando la religione è diventata una forza di divisione anziché di unione, alla fine hanno perso anche la loro sovranità. In quattromila anni di storia non c’è mai stata, né in Israele né fuori, una sopravvivenza secolare degli ebrei.
È ironico che la cultura politica degli Stati Uniti sia più ebraica di quella dello Stato ebraico. Ma Mosè aveva avvertito che sarebbe stato così. Osservate attentamente le leggi della Torà, disse Mosè, “perché questa è la vostra saggezza e comprensione agli occhi delle nazioni”. Mosè sapeva che i gentili avrebbero visto ciò che gli ebrei a volte non vedono: la saggezza della legge di Dio quando si tratta di sostenere una società libera.
La politica israeliana deve recuperare la visione della giustizia sociale, della compassione, della dignità umana e dell’amore per lo straniero, enunciata da Mosè e mai superata nei secoli successivi.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl

(Bet Magazine Mosaico, 16 agosto 2024)
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Parashà della settimana: Vaetchanan (Io supplicai)

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