Via Martiri Palestinesi è una strada nuova in Cinisello Balsamo. Il corso della strada Via Martiri Palestinesi è visualizzata sulla mappa. Dove si trova la strada Via Martiri Palestinesi in Cinisello Balsamo? Cerchi un Via Martiri Palestinesi appartamento in strada? Cerchi indicazioni per lo stradale Via Martiri Palestinesi in Cinisello Balsamo? Qui (a lato) potete trovare la mappa e la posizione esatta della nuova strada.
In Cinisello Balsamo ci sono molte strade. Lo stradale Via Martiri Palestinesi si trova nella zona Cap Cinisello Balsamo. Sulla mappa si può vedere dove la Via Martiri Palestinesi stradale situata in Cinisello Balsamo e come trovare lo stradale Via Martiri Palestinesi in Cinisello Balsamo
(Notizie su Israele, 15 aprile 2015)
Sapevate che in Italia cè un comune che dedica una strada a quelli che si sono fatti saltare in aria per ammazzare quanti più ebrei è possibile? Noi no. Adesso lo sappiamo.
Rabbi Barbara Aiello: "Ecco come celebriamo la Pasqua ebraica a Serrastretta"
SERRASTRETTA - Ha apparecchiato la tavola con la più bella collezione di "menorah" (candelabri della tradizione ebraica) e ci ha invitato nuovamente nella sua Sinagoga di Serrastretta, questa volta per celebrare "Il seder di Pesach", ovvero la Pasqua ebraica. Rabbi Barbara Aiello, la prima rabbina donna riformata d'Italia, è di rientro dagli Stati Uniti, dove è nata e dove si reca periodicamente per far rifiorire il giudaismo. Nel 2006 a Serrastretta, paese d'origine dei suoi antenati, ha fatto poi sorgere "Ner Tamid del sud", un punto di riferimento per tante famiglie che non sapevano di avere antenati calabresi e tradizioni ebraiche. Così nella sua Sinagoga, che ogni anno ospita tanti stranieri ma anche italiani curiosi di riscoprire le proprie origini, ha raccolto le persone a lei più care per celebrare la Pasqua....
(il Lametino, 15 aprile 2017)
Cosè la Silicon Wadi
Oltre alla Silicon Valley californiana, esiste un altro luogo, sulle sponde del Mediterraneo, noto per l'alta concentrazione di aziende tecnologiche.
Silicon Wadi
In tutto il mondo si conosce Silicon Valley, la zona della California in cui si trovano un altissimo numero di sedi e laboratori di aziende ipertecnologiche. Pochi però sanno che c'è un luogo molto simile nel mar Mediterraneo, di preciso in Israele, e che per questa ragione è noto come Silicon Wadi. Wadi, infatti, è il termine ebraico che significa valle e quest'area si estende soprattutto nei dintorni di Tel Aviv.
L'industria tecnologica israeliana ha iniziato a crescere a partire dagli anni Sessanta, ma nel 1990 il governo ha iniziato a rendere le condizioni più favorevoli ad aumentare gli investimenti da parte di aziende e soggetti stranieri, fatto che ha contribuito a un ulteriore sviluppo di questo settore.
Oggi, la Silicon Wadi risulta essere uno dei distretti mondiali con la maggiore concentrazione di industria ipertecnologiche. Il tutto in un paese, Israele, che conta una startup ogni 2mila abitanti.
Ma come mai in Israele proliferano così tanto le startup? Alcuni esperti hanno visto nella mentalità locale una delle risposte. Secondo Tom Bronfield di The Elevator e Inbal Arieli di Startup Nation, le persone qui non hanno paura di rischiare i propri capitali e di puntare a fare le cose in grande.
Oggi nella Silicon Wadi sono presenti uffici di numerose aziende tecnologiche provenienti da tutto il mondo, come IBM, Motorola, Intel, Hewlett Packard e Cisco.
(The Post Internazionale, 15 aprile 2017)
Israele nega il visto al direttore di Human Rights Watch. L'accusa: fa propaganda
Le autorita' israeliane hanno negato un visto di lavoro al direttore di Human Rights Watch (Hrw) per Israele e Palestina Omar Shakir, perche' "l'ong non e' una vera organizzazione umanitaria e fa propaganda palestinese". Lo riferisce la stessa Hrw in una nota. "Siamo stanchi di porgere l'altra guancia", ha spiegato ai media il portavoce del ministero degli esteri israeliano Emmanuel Nachshon. "L'organizzazione - ha aggiunto - opera in maniera evidente ed inequivocabile contro lo Stato d'Israele, in un modo totalmente sbilanciato".
(il 24 internazionale, 15 aprile 2017)
La portaerei nucleare Vinson e la sua flotta
di Marco Maggioni
È salita a livelli altissimi la tensione tra Corea del Nord e gli Usa proprio nel giorno delle celebrazioni a Pyongyang per l'anniversario della nascita del fondatore del Paese, Kim Il-Sung. La ricorrenza è ritenuta da molti il momento più probabile per il sesto test nucleare del regime che potrebbe arrivare già nella notte italiana. Per questo motivo, Donald Trump ha inviato nella zona il gruppo aeronavale della portaerei Carl Vinson, già presente nell'area. La portaerei americana, classe Nimitz e a propulsione nucleare, è da febbraio in Estremo Oriente: insieme alla flotta di cacciatorpedinieri Aegis ha partecipato alle attività di routine e addestramento nel mar delle Filippine, parte della prima missione nel Pacifico occidentale dal 2015 e del piano sulla libertà di navigazione con la presidenza Trump.
(Corriere TV, 15 aprile 2017)
Il pericoloso declino della tolleranza
In Europa tra il 2014 e l'anno successivo, i Paesi nei quali i governi hanno usato intimidazioni o molestie religiose sono saliti da 17 a 27 e quelli in cui hanno utilizzato qualche forma di forza contro le comunità sono passati da 15 a 24.
di Danilo Taino
La questione religiosa sta diventando drammatica nel mondo. Persino in Europa. Su 198 Paesi considerati da un nuovo studio del Pew Research Center, nel 2015 il 25% aveva in essere restrizioni governative elevate o molto elevate a qualche religione: nel 2007 la quota era il 20%. Le Nazioni che presentavano invece livelli alti o molto alti di ostilità sociale nei confronti di alcune confessioni sono salite, nello stesso periodo, dal 20 al 27%. Nel complesso, se si calcolano tutti i livelli di limitazione religiosa leggi, politiche, atti di individui o organizzazioni o gruppi sociali Pew calcola che il 40% dei Paesi ne fosse afflitto nel 2015 in modo significativo o molto significativo, in netto peggioramento rispetto a un anno prima, quando la quota era al 36%. Sempre sul totale dei 198 Paesi, in 105 di essi alcune comunità religiose hanno sperimentato molestie da parte del governo nel 2015, in salita dagli 85 dell'anno prima.
Preoccupante la tendenza in Europa: tra il 2014 e l'anno successivo, i Paesi nei quali i governi hanno usato intimidazioni o molestie religiose sono saliti da 17 a 27 e quelli in cui hanno utilizzato qualche forma di forza contro le comunità sono passati da 15 a 24. In particolare, Francia e Russia hanno avuto ciascuna più di 200 casi di interventi di forza: per la violazione del divieto di coprire il volto in luoghi e uffici pubblici nel caso francese, per avere esercitato la religione in luoghi vietati in quello russo. Pew nota che l'arrivo di un grande numero di rifugiati ha acutizzato il problema in Europa, soprattutto in alcuni Paesi dell'Est. E ha creato tensioni sociali. In 32 Paesi europei ci sono state ostilità (non legate all'attività dei governi) contro i musulmani rispetto ai 26 del 2014. Quelle contro gli ebrei sono rimaste diffuse in 33 Paesi (32 un anno prima). A livello globale, nel 2015 i cristiani sono stati molestati dai governi o a livello sociale in 128 Paesi (107 nel 2007); i musulmani in 125 Paesi (97); gli ebrei in 74 (51). Nel complesso, le Nazioni nelle quali si sono registrate limitazioni o intimidazioni alla libertà religiosa sono passate da 152 a 169 tra il 2007 e il 2015. I governi più repressivi sono nell'ordine quelli di Egitto, Cina, Iran, Russia, Uzbekistan. I Paesi che presentano la maggiore ostilità sociale sono invece Siria, Nigeria, Iraq, India, Israele. I numeri dicono che la tolleranza è pericolosamente in caduta.
(Corriere della Sera, 15 aprile 2017)
Gerusalemme - Accoltellata a morte studentessa inglese
La giovane è stata aggredita sulla metropolitana di superficie. Ad agire un arabo israeliano con «problemi mentali»
GERUSALEMME - Una ragazza britannica di 21 anni, Hanna Baldon, che seguiva un corso di studi all'Università ebraica di Gerusalemme, è morta ieri dopo essere stata accoltellata sulle metropolitana di superficie vicino a Piazza Tzahal, nella Città vecchia. L'aggressore, arrestato dalla polizia, è un 57 enne arabo-israeliano di Ras al-Amud «con problemi mentali». Era stato dimesso di recente da un ospedale psichiatrico.
Un portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, ha riferito che l'uomo, identificato come Garnil Tarnimi, ha tentato il suicidio quest'anno ingoiando una lametta e nel 2011 era stato condannato per aver molestato sua figlia. L'attacco ha indotto il macchinista a una frenata d'emergenza che ha sballottato i passeggeri: una donna incinta sulla trentina e un cinquantenne sono rimasti leggermente feriti. L'aggressione è avvenuta poco prima delle 13: la giovane ha subìto diversi fendenti con un coltello da cucina. Dopo essere stata soccorsa, è morta in ospedale.
Anche se sembra più legato al disagio mentale che a un movente politico, l'attacco è arrivato nel Venerdì Santo in una Gerusalemme blindata e in massima allerta per possibili attentati sotto Pasqua, con 1.500 agenti di rinforzo da altre città a vegliare sui pellegrini e turisti. I Territori palestinesi, Gerusalemme e altre città di Israele hanno assistito a un'ondata di violenza nella quale, dal primo ottobre 2015, hanno perso la vita 260 palestinesi, 41 israeliani, due americani, un giordano, un eritreo e un sudanese. Gli attacchi anti-israeliani sono spesso compiuti da giovani palestinesi armati di coltello. L'intensità delle violenze negli ultimi mesi ha avuto la tendenza a diminuire. Ma di recente il numero uno dello Shin Beth Nadav Argaman ha detto che la «calma relativa attuale» in Cisgiordania e nello Stato ebraico è «illusoria».
In un messaggio di condoglianze, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha scritto che «il terrorismo dell'islam estremista colpisce nelle capitali del mondo. Purtroppo oggi quel terrorismo ha colpito anche nella capitale di Israele, Gerusalemme». Il presidente Reuven Rivlin ha detto che «il terrore non distruggerà mai le nostre vite».
(Avvenire, 15 aprile 2017)
Confessioni sull'islam dell'imam sotto scorta della banlieue parigina
Hassen Chalghoumi: "Ho dovuto nascondere la mia famiglia e cambiare il loro nome perché combatto l'islam radicale"
di Giulio Meotti
Hassen Chalghoumi
ROMA - La linea 148 dell'autobus a Parigi si snoda attraverso le periferie di Bobigny, Drancy e Le Blanc-Mesnil. Sono quasi otto chilometri attraverso la banlieue. Da qui, da Drancy, è arrivato Samy Amimour, uno degli attentatori che hanno ucciso 89 persone in un concerto rock a Parigi il 13 novembre 2015, assassinando giovani come lui. Ma fino al giorno prima, Amimour guidava l'autobus sulla linea 148, come impiegato della Ratp, l'autorità pubblica di trasporto della capitale francese. Un suo vicino di casa era l'imam Hassen Chalghoumi. La madre di Amimour andò da lui nel 2012 chiedendo aiuto, dopo aver osservato la radicalizzazione del figlio. Chalghoumi le disse di informare la polizia. Dopo poco, Amimour scomparve in Siria.
L'imam Chalghoumi è nato in Tunisia ed è francese dal 2000. Per gli islamisti radicali che lo vogliono morto è "l'imam degli ebrei". I suoi ammiratori, tanti, lo chiamano "l'imam dei Lumi", perché Chalghoumi coniuga fede e repubblicanesimo (ha paragonato il burqa a una prigione). E' stato uno dei primi a dire che un'ondata di orrore stava per sommergere la Francia. Per questo, Chalghoumi, che è anche presidente della Conferenza degli imam di Francia (alternativa a quella dominata dai Fratelli musulmani), oggi tiene i suoi sermoni col giubbotto antiproiettile. Non solo, ma in questa intervista al Foglio spiega che la protezione attorno a lui è stata incrementata. "Per difendere la mia parola devo vivere con attorno quattordici poliziotti francesi, armati fino ai denti, che mi seguono ovunque vada. Ho dovuto anche portare via la mia famiglia in un altro paese e far cambiare loro nome per salvarli dalle minacce. Questa è la situazione che non può continuare in Francia". Qualche anno fa, con David Pujadas, l'imam ha scritto un libro intitolato "Agissons avant qu'il ne soit trop tard: islam et République". E' troppo tardi? "Sono totalmente pessimista, sono anni che denuncio la radicalizzazione dei musulmani, e poi ci sono stati gli attacchi a Charlie Hebdo e quelli a Parigi all'Hyper Cacher e al Bataclan. Speravamo che ci fosse un cambiamento, ma non c'è stato. Ci sono state alcune azioni, ma poca cosa. Paesi stranieri, come Turchia, Algeria, Marocco, Qatar e Arabia Saudita, controllano sempre di più migliaia di musulmani francesi. E queste elezioni francesi ci mostrano che non possiamo sperare in alcun cambiamento, almeno per ora. Non c'è svolta nelle scuole, nelle famiglie, i genitori dicono ai bambini che i non musulmani non andranno in Paradiso. Che futuro può esserci?". Già, che futuro per la Francia? "Fra dieci, quindici anni se non facciamo il necessario, sarà troppo tardi", continua Chalghoumi al Foglio. "Il nazionalismo avanza. Tutti cercano soluzioni. Dopo la Seconda guerra mondiale non c'era tutto questo nazionalismo. La mia paura è che ci sarà un confronto fisico fra le comunità, tanti attacchi, e la guerra civile. Gli stessi musulmani hanno paura. E nel 2015, migliaia di ebrei hanno abbandonato la Francia a causa degli attacchi". Pochi giorni fa, a Belleville, undicesimo arrondissement, la comunità ebraica si è svegliata con un altro fatto terribile di cronaca. Lucie Sarah Halimi è stata aggredita nel suo appartamento da un musulmano che, al grido di "Allahu Akbar", l'ha accoltellata e gettata giù dalla finestra. Non ha dubbi sulla matrice antisemita il figlio Yonathan, che da Israele ha detto: "Non c'è dubbio che mia madre sia morta perché ebrea. Si deve fare conoscere la verità". Domenica scorsa si è tenuta una marcia nel quartiere della vittima, alla quale hanno partecipato il presidente del Concistoro Joél Merguì, il Rabbino capo Haim Korsia e lo storico Georges Bensoussan.
"A Drancy, il quartiere dove vivo, c'è un ghetto islamico, il sindaco cerca di fare qualcosa, ma cosa abbiamo fatto per i vari Samy Amimour, il kamikaze del 13 novembre?", dice al Foglio Hassen Chalghoumi, imam della banlieue parigina sotto stretta protezione della polizia francese. Che fare, dunque? "La prima cosa da fare per la Francia è investire nell'istruzione, perché sfortunatamente la scuola non fornisce alcuna speranza. L'Isis dà più futuro e speranza a questi giovani, gli promette il paradiso se combattono per l'islam. La cultura deve permeare la scuola, assieme alla scienza e alla storia, per valorizzare le comunità musulmane. Il numero 'O' è stato inventato dagli arabi. Devono saperlo i nostri giovani. Gli arabi non conoscono neppure la storia positiva della loro cultura, quello che di buono hanno dato al mondo. Inoltre, la Francia deve fermare la predicazione esterna nell'islam francese, e questo non è stato fatto. L'insegnamento deve cambiare promuovendo imam di stato, imam francesi, e spazzare via l'ideologia dell'odio che viene portata qui dagli imam radicali, e chiudere tutte le moschee salafite e dell'islam radicale. Dobbiamo essere forti in Francia ora, senza paura. Fermare tutto quello che promuove l'odio. Dobbiamo riconquistare i giovani, fare loro capire che sono prima francesi e poi musulmani, renderli orgogliosi della loro storia, identità e nazionalità. Come fedele, non posso pensare che sia tutto finito, ma che sia possibile il cambiamento e la resistenza a favore del bene". Ma vista dalla linea 148, la Francia non sembra sorridere al futuro.
(Il Foglio, 15 aprile 2017)
Allarme attentati a Rimini: aeroporto e hotel controllati con cani antiesplosivi
Controlli speciali antiterrorismo sono scattati a Rimini in concomitanza con i primi voli da Israele, in aeroporto e nelle strutture alberghiere. Le misure di sicurezza hanno visto impegnato il reparto mobile, la polizia a cavallo, la digos e i reparti speciali, con il cane Olly, dell'unità cinofila di Ancona, già impiegato in numerose operazioni antidroga e antiesplosivi.
L'operazione preventiva è stata disposta con gli arrivi da Tel Aviv della compagnia Israir, approdata al Fellini con i primi turisti in occasione della Pasqua ebraica che quest'anno terminerà il 18 aprile. Controlli massicci sono stati effettuati anche nei principali luoghi di culto e negli hotel che hanno ospitato i vacanzieri israeliani, servizi che hanno ritenuto necessaria anche la temporanea modifica della viabilità.
(altarimini, 15 aprile 2017)
Basta con le menzogne su Israele
Lettera a "Left"
Basta con le menzogne su Israele. Vada a vedere cos'è e cosa ha fatto Israele in 70 anni in un'area dove regnavano la povertà, la sporcizia, le malattie, le faide tra tribù e dove, negli anni 50, sotto l'occupazione Giordana, gli arabi urinavano e insozzavano tutti i luoghi santi che non fossero i loro. Chieda ora agli arabi israeliani se vorrebbero vivere sotto la bandiera palestinese o sotto Hamas. Hamas, che intercetta gli aiuti internazionali destinati alla popolazione per armarsi e costruire tunnel e dare pensioni e vitalizi alle famiglie di assassini. A chi sa, e non è infarcito di menzogne e antisemitismo, è chiarissimo chi è la vittima e chi il carnefice (...). Cosa dovrebbe fare l'Occidente? Stare dalla parte di Hamas e Co.? Gli arabi hanno detto sempre no (...). il loro antisemitismo lo affermano ogni giorno, a parole e con i fatti. E in Occidente finalmente si può riaffermarlo e farla franca, travestendo l'antisemitismo da antisionismo, perché Israele è diventata un'ossessione, il solo "cancro" da sconfiggere (...). Si concentri il mondo civilizzato sulle vittime delle barbarie perpetrate da sempre nel mondo arabo/islamico (...).
Paola Vinzio
(left, 15 aprile 2017)
Le omissioni sono del giornale. La successiva risposta è la banale ripetizione del solito clichè.
Siamo all'ultima Pasqua
"In Europa il cristianesimo sta letteralmente morendo". Dalla Scozia alle Alpi, è il grande oblio della fede
Il nuovo rapporto Pew parla chiaro: "In cinque anni persi sei milioni di cristiani in Europa. Quasi due milioni nella sola Germania"
In Olanda chiuderan- no due terzi delle chiese cattoliche, metà nella Scozia ovest. Il protestante- simo scandinavo è in un coma profondo
In Inghilterra e Francia ci sono più fedeli musulmani il venerdì dei cattolici la domenica. A rischio 108 chiese di Bruxelles
Chiuderà il 75 per cento delle parrocchie in Austria, la più radicale trasfor- mazione dai tempi dell'imperatore Giuseppe Il
Qualche anno fa il vescovo luterano Jobst Schoene disse di temere che l'Europa si stesse "avvicinando a una situazione simile al tragico destino del cristianesimo in Nordafrica nei primi giorni dell'islam". In epoca romana, le terre che oggi comprendono l'Algeria e la Tunisia, per fare un esempio, erano interamente cristiane e produssero personaggi come Tertulliano e Agostino, e questo cristianesimo sembrava essere ancora fiorente quando l'islam vi arrivò alla fine del VII secolo. Due secoli più tardi, il cristianesimo si era estinto, sostituto dalla civiltà arabo-islamica. L'Europa sta facendo la stessa fine? Quando Schoene usò quelle parole fu tacciato di isteria. Ma qualcosa di simile si intravede dall'ultimo, dettagliatissimo rapporto del Pew Research Center che ha fatto il giro del mondo.
Il tema è quello che Sheena Ashfeld e Noel Timms hanno chiamato "The unchurching of Europe". "Per anni i bambini nati da donne di fede cristiana hanno superato il numero dei neonati di ogni altra fede, ma non andrà così a lungo: ci si attende infatti che l'islam conquisti il primato entro il 2035", secondo lo studio appena pubblicato dal Pew Research Center sulla diffusione delle diverse religioni. "Dal 2010 al 2015, le donne cristiane hanno dato i natali a 223 milioni di neonati, circa 10 milioni in più di quelli nati da donne islamiche. Gli autori del Pew Research Center si attendono però l'inversione totale di questa tendenza entro il 2060, quando le madri di fede islamica daranno alla luce 232 milioni di neonati, circa sei milioni in più delle loro controparti cristiane. Questa inversione sarà causata in parte dal fatto che la popolazione cristiana in alcune parti del mondo - come l'Europa - è relativamente anziana, visto che nei prossimi anni nel Vecchio continente il numero dei decessi supererà quello delle nascite. La popolazione globale di fede islamica, al contrario, è relativamente giovane e concentrata in regioni con maggiori tassi di fertilità".
L'elaborazione del prestigioso pensatoio americano si basa su un precedente rapporto dal quale si evinceva già che la popolazione complessiva di fede islamica raggiungerà numericamente quella cristiana nel 2070, per poi superarla nei decenni successivi. Poi, seppure residuale, c'è il fattore "conversioni": "Dal 2015 al 2020, il cristianesimo soffrirà le maggiori perdite a causa delle conversioni; attraverso questo processo conquisterà cinque milioni di adepti e ne perderà 13 milioni, soprattutto a favore del gruppo dei non credenti". Ma riguarda l'Europa il capitolo più sconcertante del rapporto del Pew.
"Il cristianesimo sta letteralmente morendo in Europa", ha detto al Wall Street Journal Conrad Hackett, il capo dei ricercatori che hanno stilato il documento del Pew. "Nella maggior parte dei paesi, tra cui l'Inghilterra, la Germania e l'Italia, le morti di cristiani sono state superiori alle nascite dal 2010 al2015". Di quanto? "Le morti hanno superato le nascite per sei milioni dal 2010 al 2015", si legge. "Nella sola Germania ci sono stati circa 1,4 milioni di decessi in più. Questa diminuzione naturale nell'Europa cristiana che invecchia è unica rispetto ad altre parti del mondo. La popolazione cristiana dell'Europa dovrebbe ridursi di circa 100 milioni di persone nei prossimi decenni, passando da 553 milioni nel 2010 a 454 milioni nel 2050. Entro il 2050, quasi un quarto degli europei (23 per cento) non avrà alcuna affiliazione religiosa. Al contrario, tra i musulmani non vi è alcun paese europeo in cui, nello stesso periodo, il numero dei morti ha superato quello delle nascite. Anzi: in Germania, Regno Unito, Italia, Russia e Francia ci sono stati almeno 250 mila neonati in più rispetto ai morti".
Ovunque si guardi, dalla luterana Svezia alla cattolica Francia, il cristianesimo in Europa rantola. Non a caso nel 2003 i costituenti europei, riuniti qualche settimana fa a Roma per celebrare il Trattato, non riuscirono neppure a inserire la parola "cristianesimo" nel preambolo della Costituzione. La chiesa nazionale inglese, l'anglicanesimo, è da tempo oggetto di divertimento e di scherno. In Galles, la maggior parte delle cappelle sono state trasformate in residenze private di architetti e arredatori blasonati.Nei Paesi Bassi, della religione restano solo i canali televisivi finanziati dallo stato.
E' un fenomeno che ogni anno si accresce di statistiche tragiche. Parrocchie che chiudono, centinaia di chiese oggetto di "scristianizzazione", indici di frequenza domenicale sempre più bassi, sacerdoti che svaniscono. Nel 1999 il cardinale spagnolo Rouco Varala parlò di "un continente moralmente disperato", in cui "grande è il rischio di una progressiva e radicale scristianizzazione e paganizzazione". Un rischio che da allora è diventato realtà. L'arcivescovo di Bordeaux, Pierre Eyt, sempre in quell'anno disse: "L'anima europea è ormai naturalmente non cristiana".
Il cristianesimo nell'Europa del nord è stato già espugnato dall'ateismo e il protestantesimo versa in un coma a dir poco profondo. La religione sembra riposare nel cuore, occulta, per farsi oscurare, in pubblico, dalla civiltà secolarizzata.
Phil Zuckerman ha trascorso quattordici mesi in Scandinavia, parlando di religione con centinaia di danesi e svedesi. Sociologo che insegna al Pitzer College di Claremont, in California, Zuckerman ha riversato le sue scoperte sulla religione in Danimarca e Svezia in "Società senza Dio" CN ew York University Press). E ha concluso che "la religione non era tanto una questione personale privata, ma piuttosto una non questione". Zuckerman ha trovato ciò che egli definisce l"'oblio più totale".
Uno studio condotto Gallup International rivela che la Svezia è il paese meno religioso d'occidente. La chiesa di San Giacomo a Stoccolma, costruita con una capacità di 900 fedeli, oggi la domenica non ne ospita più di 30. Solo il cinque per cento degli svedesi frequentano la chiesa regolarmente. "In Danimarca", ha detto un pastore a Zuckerman, "la parola 'Dio' è una delle più imbarazzanti che si possano pronunciare. Si preferisce girare nudi per la città che parlare di Dio". Di recente, migliaia di persone hanno lasciato la chiesa di Danimarca a seguito di una campagna pubblicitaria promossa a livello nazionale dalla Società atea del paese. Tra aprile e giugno 2016, diecimila persone hanno lasciato la chiesa-il più alto numero di ritiri registrati. Il presidente della Società atea, Anders Stjernholm, ha detto all'Independent: "Siamo lieti che i danesi abbiano colto l'occasione di esprimere ciò che realmente vogliono". Anche la chiesa di stato norvegese ha perso più di 25 mila membri in un mese dopo che ha lanciato un sistema di registrazione online. Chi avesse voluto, avrebbe potuto iscriversi o, nel caso, disiscriversi. Solo il 20 per cento dei norvegesi si dichiara religioso e solo il tre per cento va in chiesa per pregare più di una volta al mese. Il tasso di battesimi, dal 1960 a oggi, è sceso del 36 percento, e lo stesso vale per le cresime. I matrimoni religiosi vanno anche peggio: dal 1960 a oggi sono scesi in picchiata dal 85,2 al 35,1 per cento. Nei giorni scorsi sono arrivati dati simili dalla Svezia. Più di 90 mila persone hanno scelto di uscire dalla chiesa svedese durante lo scorso anno: quasi il doppio rispetto all'anno precedente.
L'anglicanesimo sta collassando, ma anche il cattolicesimo inglese versa in uno stato pietoso. E' notizia di pochi giorni fa che la diocesi cattolica di Salford ha annunciato la chiusura di venti chiese nella cosiddetta area di "Greater Manchester". I piani di ristrutturazione propongono anche la fusione di circa cento parrocchie nella diocesi. Il vescovo di Salford John Arnold ha detto che "la popolazione cattolica si è dispersa ed è decaduta". Lo spettacolare declino della chiesa nel Lancashire potrebbe vedere più di 70 parrocchie chiuse entro il prossimo anno.
Ian Dungavell, direttore della Società vittoriana, ha criticato la politica "intransigente" della chiesa cattolica nell'abbandono delle chiese. Più di settemila persone hanno firmato la campagna "Save The Churches" del Sunday Telegraph, che è stata sostenuta da politici, celebrità e leader della chiesa, tra cui il cardinale Cormac MurphyO'Connor, leader della chiesa cattolica in Inghilterra e Galles. Nella diocesi cattolica di Leeds, sette chiese sono state chiuse in un mese dopo una consultazione che ha concluso che le congregazioni con meno di duecento fedeli non sono più sostenibili.
Negli anni Settanta, le cattedrali britanniche hanno iniziato a chiedere ai visitatori di pagare un biglietto a causa della crisi economica e di fedeli, ma inviando il messaggio disastroso che questi edifici fossero musei, piuttosto che luoghi di vita e di culto. In Inghilterra si stima che entro il 2020 il numero dei musulmani che partecipano alla preghiera raggiungerà almeno i 683 mila, mentre il numero dei cristiani che vanno a messa la domenica scenderà a 679 mila. Damian Thompson sullo Spectator ha speculato che "l'anglicanesimo scomparirà entro il 2033". "Il nuovo paesaggio culturale delle città inglesi è arrivato; il panorama omogeneo di una religione cristiana di stato è in ritirata", ha detto Ceri Peach della Oxford University, Se quasi la metà dei musulmani britannici ha meno di venticinque anni, un quarto dei cristiani ne ha più di sessantacinque. "In vent'anni, i musulmani praticanti saranno più dei cristiani praticanti", ha detto Keith Porteous Wood, direttore della National Secular Society. Tra il 2012 e il 2014, la percentuale di britannici che si identificano come anglicani è scesa dal 21 al 17 per cento, una diminuzione di 1,7 milioni di persone, mentre, secondo un sondaggio condotto dal rispettabile Nat Cen Social Research Institute, il numero dei musulmani è cresciuto di quasi un milione. I fedeli cristiani stanno diminuendo a una tale velocità che entro una generazione il loro numero sarà tre volte inferiore a quello dei musulmani che vanno regolarmente in moschea di venerdì.
I leader cattolici si stanno preparando a chiudere metà delle parrocchie in tutta la Scozia occidentale. L'arcidiocesi di Glasgow, di gran lunga la più grande del paese, si aspetta di avere soltanto 45 sacerdoti nel giro di due decenni, sufficienti per meno della metà delle sue parrocchie attuali. Con decine di sacerdoti vicini alla pensione e solo due seminaristi attualmente in formazione per sostituirli, l'arcivescovo Philip Tartaglia ha annunciato decisioni drastiche. Il decanato del sud, a Glasgow, rischia di perdere almeno sette delle sue dodici parrocchie, secondo un documento interno.
Il cristianesimo in Germania sta ogni anno perdendo sacerdoti, chiese e fedeli. Nel 1963 furono ordinati 400 sacerdoti, nel 1993 il numero scese a 238 e nel 2013 a 98. Nel 2015 la cifra si è nuovamente dimezzata, arrivando a 58 nuove ordinazioni. Lo ha rivelato un'inchiesta della Suddeutsche Zeitung, Il numero di parrocchie dal 1995 al 2015 è sceso di un terzo. L'agonia del cattolicesimo tedesco è dimostrata anche dalla fuga dei fedeli. Con più di 23,7 milioni di membri, il cattolicesimo è il più grande gruppo religioso in Germania e abbraccia formalmente il 29 per cento della popolazione. Eppure la gente sta abbandonando la chiesa in massa: nel 2015 in 181.925 hanno fatto formalmente apostasia.
Si stima che oggi in Francia, per un musulmano praticante, ci siano tre cattolici praticanti. Ma se si approfondisce questa analisi, il rapporto viene invertito. Confrontando solo la frequenza settimanale alla preghiera del venerdì in moschea e alla messa domenicale in chiesa, lo scenario è chiaro: il 65 per cento dei cattolici praticanti ha più di 50 anni. Al contrario, il 73 per cento dei musulmani praticanti ne ha meno di 50. La tendenza indica che attualmente in Francia c'è un giovane cattolico praticante ogni tre giovani musulmani praticanti. In Francia, la più importante "figlia della chiesa", meno del cinque per cento della popolazione frequenta regolarmente la messa. In un sondaggio per la Fondation du patrimoine, il 71 per cento dei cattolici intervistati si dichiara favorevole a che le chiese vengano convertite ad altri usi civili (biblioteche, librerie, caffè). Una statistica che suona come la fine del tabù. Patrice Besse, direttore di un'agenzia immobiliare specializzata nella vendita di edifici storici, ritiene che "le diocesi venderanno da un quarto alla metà delle loro chiese in vent'anni". I comuni, che in Francia secondo la legge del 1905 sono tenuti a conservare gli edifici di culto, ne venderanno altre duemila.
I cattolici nei Paesi Bassi stanno "abbracciando la visione di un futuro senza chiese", ha detto la Radio Vaticana. Delle settemila chiese esistenti in Olanda, quattromila figurano come monumenti, e le altre, sempre più disertate dai fedeli, cambiano destinazione d'uso. Il cardinale Willem Eijk, arcivescovo di Utrecht, ha detto ai fedeli di prepararsi per la chiusura di circa un migliaio di parrocchie cattoliche, due terzi di quelle presenti in Olanda. Nonostante la chiesa cattolica sia il più grande gruppo religioso del paese, tra il 23 e il 28 per cento della popolazione, la frequenza settimanale alla messa è di circa l'1,2 per cento della popolazione olandese. Nessun altro paese in Europa fa peggio. Ogni anno 60 edifici di culto chiudono nei Paesi Bassi, oppure sono venduti o demoliti. Dal 1970 al 2008, 205 chiese cattoliche sono state demolite in Olanda e 148 convertite in librerie, ristoranti, palestre, appartamenti e moschee. Si calcola che delle restanti chiese, il 25 per cento sia nelle mani di congregazioni con meno di 100 fedeli. Sono anch'esse destinate a scomparire. I leader cattolici del paese stimano che due terzi delle loro 1.600 chiese saranno fuori uso in un decennio, e 700 chiese protestanti olandesi verranno chiuse entro quattro anni. "La chiusura delle chiese in Europa riflette il rapido indebolimento della fede in Europa", scrive il Wall Street Journal.
Anche i cattolici di Bruxelles vanno incontro alla chiusura della maggior parte delle chiese della città. La diocesi cattolica di Bruxelles prevede di fondere le parrocchie e chiudere le chiese locali. Così alcuni cattolici hanno scritto una lettera a monsignor Jozef De Kesel e al suo ausiliare, Mons Jean Kockerols, chiedendo loro di rinunciare ai piani. In totale, 108 chiese di Bruxelles sono a rischio. A Watermael Boistfort, gli ottomila metri quadri della chiesa di San Hubert saranno convertiti in appartamenti.
Anche nella cattolicissima Austria, il 75 per cento delle parrocchie si avvia alla chiusura. L'arcidiocesi di Vienna, che è una delle più grandi d'Europa e si estende dalla frontiera ceca fino alle Alpi meridionali, subirà radicali riforme, riducendo le sue 660 parrocchie a 150 nei prossimi anni. Si tratta della "più radicale riorganizzazione dell'arcidiocesi di Vienna da quella dell'imperatore austriaco Giuseppe II duecento anni fa". Le principali ragioni di queste misure sono la crescente carenza di sacerdoti e il costante calo del numero dei cattolici, specialmente di quelli che partecipano regolarmente alla messa.
Fu Goethe, non un Papa, a scrivere: "La lingua materna dell'Europa è il cristianesimo". Forse questa lingua tornerà a essere vigorosa in futuro. Forse le comunità nigeriane e ghanesi terranno davvero vivo il cristianesimo a Londra e a Parigi. Forse. Ma per ora di questa lingua in Europa sopravvive soltanto un sospiro.
(Il Foglio, 15 aprile 2017)
Il trionfante cristianesimo europeo, di cui lattuale papa fornisce lultima versione cattolica aggiornata, ma che ha trovato espressione storica anche nel protestantesimo e nell'anglicanesimo, è destinato a declinare e non è da rimpiangere. Il messaggio di Cristo presente nella predicazione del Vangelo non ne subirà danno. Anzi. Cristiani non si nasce, la fede cristiana non si eredita. M.C.
Il fotografo ebreo che nascose 6000 negativi ai nazisti
Lo sterminio degli ebrei è stato terribile, una piaga per il mondo. Oggi i negativi, le immagini di quei momenti sono venuti allo scoperto tramite un fotografo.
di Simona Bernini
Foto di Henryk Ross
L'invasione della Polonia è cominciata nel 1939 con la follia di Hitler verso il popolo ebraico. Una follia che portò alla morte di moltissimi ebrei per mano di Hitler. Uno dei primi ghetti fu creato in una città polacca, ovvero Lodz. Proprio a Lodz, una delle città più grandi della Polonia, le fabbriche erano tantissime e molto importanti. Lodz è anche la città dove visse il fotografo Henryk Ross. Il fotografo documentò gli istanti dell'invasione in foto, in negativi. Il fotografo, non sapendo se sarebbe stato deportato o ucciso, decise di sotterrare quei negativi. Sono in totale 6000 negativi che documentano la rabbia e le persecuzioni naziste ai danni degli ebrei e non solo.
Poco prima dell'invasione della Polonia, Ross era un fotografo che si occupava di sport e di cronaca. Nel 1939, l'anno dell'invasione polacca fu assunto dal Dipartimento di Statistica dove doveva assolvere un ruolo ben preciso. Il suo compito era documentare con foto quello che avveniva. Tutti dovevano sapere cosa stesse succendendo ai polacchi. Il suo compito era mostrare come gli ebrei di origine polacca venissero sfruttati nelle fabbriche.
La passione per il suo lavoro lo portò a scattare foto di diverso tipo. Le sue foto raccontano la vita in Polonia, come vivevano i polacchi durante l'invasione, cosa facevano, qual era il loro stato d'animo. Per questa ragione, portava il suo accessorio, la macchina fotografica ovunque andasse, a prescindere dall'orario di lavoro. Il fotografo Ross girava per il ghetto raccontando la vita, quello che succedeva e raccontando con immagini le violenze, le brutalità che qui si perpetravano di volta in volta. Ha fotografato di tutto: da scene di brutalità sino a serrature a crepe nei muri. Ha raccontato la sua Polonia e l'invasione subita.
In seguito, avendo paura di essere ucciso o deportato, li nascose, li sotterrò. Nascose tutti i 6000 negativi sperando che prima o poi qualcuno avrebbe scoperto la verità e raccontato quelle assurde e terribili atrocità. Il ghetto venne liberato dai russi nel 1945. Tra i 2000 ebrei, solamente 877 sopravvissero. Lo stesso Ross era uno dei sopravvissuti e quindi potè raccontare quanto successo. I suoi negativi erano distrutti per via della muffa, ma qualcuno era ancora in buone condizioni.
(notizie.it, 15 aprile 2017)
UNRWA costretta a cambiare per sopravvivere. Furore palestinese
E' scontro aperto tra UNRWA e Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a causa della decisione da parte della Agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi di cambiare sostanzialmente alcuni paragrafi nel suo statuto e alcune linee guida sull'insegnamento che secondo la ANP «migliorano l'immagine di Israele» e che «rappresentano un grave affronto al popolo palestinese».
Il punto del contendere che ha spinto la ANP a minacciare di tagliare tutti i ponti con la UNRWA è la decisione da parte dell'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi di correggere le linee guida dell'agenzia tra le quali quelle che riguardano i libri di testo che fino a oggi accostavano il nome di Gerusalemme alla sola storia palestinese e non a quella ebraica e a quella cristiana, la decisione di introdurre nelle scuole gestite dalla UNRWA libri di testo che parlano dello Stato di Israele al posto di quelli vecchi dove Israele non veniva nemmeno menzionato e altre modifiche sostanziali che secondo i palestinesi favoriscono Israele e danneggiano la causa palestinese...
Migliaia di persone hanno partecipato oggi a Khan Yunes (a sud di Gaza) ad una manifestazione organizzata da Hamas in cui sono state lanciate dure critiche nei confronti del presidente palestinese Abu Mazen.
Alcuni dimostranti l'hanno accusato fra l'altro di essersi schierato al fianco di Israele nel blocco della Striscia.
All'origine delle rinnovate tensioni vi sono tagli imposti di recente dal governo dell'Autorità palestinese ai fondi destinati alla Striscia di Gaza. Per domani Hamas ha organizzato un'altra dimostrazione di protesta a Jabalya, a nord di Gaza.
Sempre domani - in assenza di nuovi finanziamenti - la corrente elettrica per la popolazione di Gaza sarà ulteriormente razionata e sarà così ridotta a sole quattro ore quotidiane. Nei prossimi giorni è comunque attesa sul posto una delegazione proveniente da Ramallah che cercherà di sanare i contrasti fra il governo dell'Ap e l'esecutivo di Hamas a Gaza.
(swissinfo.ch, 14 aprile 2017)
A Hamas conviene scaricare la colpa su Abu Mazen, il quale a sua volta scaricherà la colpa su Israele. E la causa di tutto sarà l'«occupazione». Come al solito.
Altri raid aerei "anonimi" in Siria, è la campagna muta di Israele
Continuano gli strike discreti per contenere i trasferimenti di armi sofisticate da parte del governo di Damasco al gruppo libanese Hezbollah.
di Daniele Raineri
ROMA - Ieri nelle prime ore del mattino c'è stato un altro round di bombardamenti israeliani in Siria, contro obiettivi vicino alla capitale Damasco. Come di consueto, è difficile verificare cosa è stato colpito, perché il governo di Israele in quattro anni e più o meno cinquanta raid aerei ha ammesso il suo coinvolgimento soltanto in un'occasione, il 17 marzo scorso. Anche il governo siriano non tiene molto a dare la notizia, per non proiettare un'immagine di vulnerabilità e anche per non dover impegnarsi in rappresaglie impensabili in questo momento - se attaccasse Israele, rischierebbe di aprire una faida bombe contro bombe proprio quando è in momento di debolezza estrema per colpa della guerra civile. Fa parte di quella guerra di informazioni, omissioni e falsificazioni che ieri ha fatto dire al presidente siriano Bashar el Assad, in una delle interviste che concede un paio di volte al mese, che non c'è stato nessun attacco chimico il 4 aprile a sud di Idlib, "è al 100 per cento una fabbricazione". "La nostra impressione è che gli Stati Uniti, che lavorano al fianco dei terroristi, abbiano creato questo attacco chimico per avere un pretesto per colpire. I video - ha detto Assad - non sono una prova sufficiente, tutti possono falsificare video, non è nemmeno chiaro se quei bambini sono stati uccisi a Khan Sheikhoun o se sono davvero morti". Il presidente siriano non è nuovo a queste prese di posizioni totali: nega anche l'esistenza dei barili bomba, un tipo di arma il cui uso in migliaia di occasioni è stato documentato ogni oltre possibile dubbio.
Questi bombardamenti israeliani in Siria seguono un pattern: colpiscono i trasferimenti di armi sofisticate da parte del governo di Damasco al gruppo libanese Hezbollah, che in questi anni è diventato così potente che il giornale americano Wall Street Journal in un articolo del 3 aprile lo ha definito "il chiaro vincitore della guerra siriana". Tra le armi sofisticate che il governo del presidente Bashar el Assad e gli alleati iraniani passano a Hezbollah, approfittando del fatto che sono tutti nello stesso territorio e condividono le stesse basi, ci sono anche quantitativi di armi chimiche - secondo una denuncia del ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman l'8 dicembre scorso. Di questo pattern seguito dagli israeliani nei bombardamenti fa parte anche uno stratagemma usato dai piloti che suona tecnico ma è molto utile per evitare complicazioni diplomatiche: gli aerei israeliani arrivano da ovest, quindi dal Mediterraneo, sorvolano il Libano e sganciano le bombe senza entrare nello spazio aereo siriano: si tratta di speciali munizioni equipaggiate da un sistema, lo Spice 1000, che permette loro di planare nell'aria in orizzontale anche per una distanza di 100 chilometri prima di cadere sull'obiettivo. Questo vuol dire che gli aerei israeliani non sono costretti nella maggior parte delle volte a violare lo spazio aereo siriano e i militari russi, che sorvegliano e difendono quel pezzo di cielo, non sono costretti a intervenire o a spiegare perché non sono intervenuti.
I raid aerei aprono due finestre su due questioni taciute. La prima è che Israele, per identificare e localizzare i trasferimenti d'armi e i convogli, dispone di un apparato di sorveglianza sulla Siria molto sensibile, con uno zoom (metaforico) molto ravvicinato, in grado di cogliere una messe di dettagli - ma per ora questa messe è segreta, anche se il governo israeliano ha confermato la strage chimica del 4 aprile. La seconda questione è quella della rappresaglia siriana, che è stata minacciata più volte. Il 17 marzo, dopo un raid più in profondità del solito, il governo siriano aveva detto che il prossimo attacco israeliano avrebbe scatenato un lancio di missili Scud di risposta sulle installazioni militari e sulle città d'Israele. Per ora non è successo nulla, e se questo silenzio durerà allora sarà stato un bluff da parte dal governo siriano.
Prima della guerra il gruppo Hezbollah era un figlioccio del governo siriano e subiva il rapporto di forza. Ora la situazione si è rovesciata: è il gruppo a dettare condizioni e il governo siriano - che gli deve la sopravvivenza, come anche a Russia e Iran - a obbedire. Secondo il Wall Street Journal, i libanesi hanno diritto di veto sulle nomine all'interno della gerarchia assadista e si spingono fino a proporre la strategia della guerra: assieme all'Iran, l'anno scorso hanno ottenuto che la campagna per prendere Raqqa, capitale di fatto dello Stato islamico, fosse rimpiazzata con la campagna per prendere Aleppo - dove l'Isis non c'è - come è avvenuto l'anno scorso.
(Il Foglio, 14 aprile 2017)
La memoria si salva a colpi di pedale
Giovanni Bloisi percorre in sella la strada tra Milano e Gerusalemme toccando i luoghi dello sterminio del popolo ebraico. Tappe a Fossoli, Ferrara, Urbisaglia e ora la Grecia: meta lo Yad Vashem, dove
incontrerà il presidente israeliano. Ma anche segni di speranza come l'ex colonia fascista di Sciesopoli, nella bergamasca, divenuta nel dopoguerra asilo per ottocento bambini ebrei orfani e che ora attende il recupero e la valorizzazione.
di Adam Smulevich
Giovanni Bloisi
Di sé dice: "Sono un lento viaggiatore in bicicletta". In realtà Giovanni Bloisi è molto di più. E a bordo del suo fedele destriero, pedalata dopo pedalata, sta tenendo alto il valore di una memoria distante anni luce da celebrazioni e retorica. Fino all'ultima tappa, Gerusalemme, dove il 24 aprile prossimo (Yom HaShoah, il giorno ebraico dedicato al ricordo) incontrerà il presidente israeliano Reuven Rivlin in occasione di una cerimonia allo Yad Vashem. Non è Gino Bartali ma che polmoni e che gran cuore il signor Giovanni, partito dalla Lombardia e arrivato dopo alcune settimane fino al tacco dello Stivale. Una breve sosta a Brindisi, giusto per riprendere fiato. E quindi l'imbarco su una nave che l'ha portato in Grecia, dove sta macinando ancora diversi chilometri prima di salpare una nuova volta verso Est. Stavolta con destinazione le coste di Israele.
Nel suo itinerario luoghi di memoria molto diversi tra loro: campi di concentramento come Fossoli, vicino a Modena, che fu anticamera al lager per migliaia di ebrei italiani (da qui partì tra gli altri Primo Levi); campi di internamento come Urbisaglia, in provincia di Macerata, dove furono tenuti prigionieri valorosi esponenti dell'antifascismo; luoghi dove si tornò a sperare come Santa Maria al Bagno, frazione di Nardò non distante da Lecce, dove un vasto gruppo di ebrei scampati al massacro fu accolto prima di partire per Haifa.
Ma anche, a sottolineare l'attualità di una riflessione consapevole in tal senso, poli di nuova progettualità e narrazione come il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano in costruzione a Ferrara nelle vecchie carceri di via Piangipane (vi fu detenuto Giorgio Bassani) o come il Memoriale della Shoah al Binario 21 della stazione centrale di Milano, dai cui partirono i convogli della morte. Senza dimenticare, a breve distanza, il Giardino dei Giusti sul Monte Stella. Tante, tantissime scolaresche in questo cammino che abbraccia i drammi del Novecento, con tutto il loro carico di laceranti questioni e interrogativi, da molteplici punti di vista.
Pedala con una missione, Giovanni. Far conoscere al più ampio numero di persone possibile l'emozionante vicenda di Sciesopoli, ex colonia fascista nel comune di Selvino (Bergamo) che dal 1945 al 1948 accolse 800 bambini ebrei orfani che avevano perso i loro genitori nelle persecuzioni e nei campi di sterminio. Disperati e disastrati nel corpo così come nello spirito, gli ospiti di Sciesopoli furono riportati alla vita grazie all'altruismo di alcuni educatori e grazie all'impegno di un gruppo di ex combattenti della Brigata Ebraica, oltre che di varie organizzazioni ebraiche internazionali, italiane e milanesi e di quelle nate durante la Resistenza. Significativo anche il contributo della popolazione locale, che generosamente si spese per alleviare sofferenze e privazioni. «Questo viaggio di Giovanni, come tutti gli altri che ha compiuto in passato, non vuole essere un giro turistico per luoghi pittoreschi, ma un viaggio della Memoria per il popolo ebraico oltre che per la democrazia e la pace» dichiara lo studioso Marco Cavallarin, in prima linea ormai da vari anni per condividere il messaggio e la lezione di Sciesopoli. Sotto il fascismo, la colonia era utilizzata dal regime per l'educazione e la formazione dei Figli della Lupa. Una vera e propria caserma rivolta a quelle nuove generazioni che, nei piani del regime, si sarebbero rivelate preziose per nutrire l'apparato bellico. Caduto il regime, finita la guerra, Sciesopoli diventa invece un punto di riferimento imprescindibile per giovani vite già così profondamente marchiate da quella stagione di odio.
E il settembre del 1945 quando una delegazione composta da Raffaele Cantoni (presidente della Comunità ebraica di Milano), Moshe Ze'iri (membro della Compagnia ingegneri dell'esercito britannico Solei Boneh) e Teddy Beeri (membro anch'egli della Solei Boneh) ottiene dal Comitato di Liberazione l'ex colonia. Il tempo richiesto per una minima organizzazione di base e le porte dell'istituto tornano ad aprirsi. Stavolta per un nobile scopo. «Un paradiso a lungo sognato, un castello da fiaba» scrive Aharon Megged nel 1997 nel suo libro-testimonianza Il Viaggio verso la Terra Promessa.
Oggi Sciesopoli è nell'insieme un complesso fatiscente, dove niente funziona e tutto (o quasi) cade letteralmente a pezzi. Bloisi, un ex consulente Enel che già aveva percorso migliaia di chilometri nell'Europa dell'orrore, arrivando in bici fino ai cancelli di Auschwitz-Birkenau, ha voluto farsi carico di questa sfida quanto mai urgente. A colpirlo i ripetuti appelli lanciati in rete da Cavallarin, tra i principali animatori del comitato "Salviamo Sciesopoli".
La tenda, un sacco a pelo, pantaloni tecnici, giacca a vento, un fornellino per riscaldare il cibo. Sono questi i compagni di viaggio di Giovanni, spinto da una tenacia e da una determinazione che ha pochi eguali. «Studiare e rivivere la storia in sella a una bicicletta è tutta un'altra cosa» confessa, mentre prende fiato tra una tappa e l'altra.
Suggestiva la conclusione che ha voluto per questa straordinaria avventura: al ritorno in Italia renderà infatti omaggio ad alcune vestigia di Bartali, il campione "Giusto", che hanno trovato collocazione al Museo del Ghisallo.
Per il momento Giovanni pedala in Grecia, nei luoghi in cui intere comunità ebraiche furono annientate dalla Shoah. È da Rodi ad esempio che iniziò l'inferno di Sami Modiano, uno degli ultimi Testimoni della Shoah ancora in vita. Oggi di quel mondo che fu vitale e fiorente resta una traccia lontana, un ricordo sempre più sbiadito. Giovanni, con l'esempio quotidiano e col sudore sulla fronte, sta provando a riaccendere la luce.
(Avvenire, 14 aprile 2017)
Il rifugio italiano dei giovani ebrei braccati da nazisti e ultrà islamici
Mirella Serri racconta in "Bambini in fuga" una storia poco nota dell'ultima guerra, Il ruolo del Gran Muftt e l'aiuto della gente.
di Marcello Sorgi
C'è qualcosa dell'orrore dei nostri tempi, che spinge a leggere tutto d'un fiato il nuovo libro di Mirella Serri (Bambini in fuga, Longanesi, pp. 256, € 17,60). Anche se la storia è ambientata tra gli Anni Trenta e i Quaranta, lo sfondo sono il nazismo tedesco e l'antisemitismo islamico, e i protagonisti, vittime designate di una sentenza di sterminio già scritta, sono un gruppo di adolescenti ebrei, guidati verso la salvezza dal loro coraggioso «madrich», maestro, Josef Indig, e da un'indomita poetessa, Recha Schweitzer, che convincerà i genitori a separarsi dai loro figli, pur di salvarli.
Eichmann
E quel qualcosa è la descrizione dell'odio razziale, culturale, religioso, e forse soltanto psichiatrico, che può spingere a pensare, e a organizzare minuziosamente, una strage di giovanissimi. Bambini da abbattere, «primi a dover essere eliminati», perché non crescano e non diventino «schifosi ebrei» e perché toglierli di mezzo significa «uccidere il futuro». Chi si interroga e cerca di capire da dove nasce la furia del terrorismo contemporaneo troverà nella follia così freddamente descritta da Mirella Serri in queste pagine molte ragioni per riflettere.
Il delirante disegno dell'eliminazione dei giovanissimi ebrei prende corpo nella Germania nazista e si sviluppa nei primi Anni Quaranta, complice il collaboratore di Hitler tra i più feroci, Adolf Eichmann, coordinatore della macchina della deportazione di massa nei campi di concentramento, il vero autore della tela di ragno che prevede la cattura dei piccoli, nascosti per tempo nel castello sloveno di Lesni Brdo, e poi a Nonantola, vicino Modena, grazie al preveggente e razionale allarme della Schweitzer e al generoso impegno del «madrich» Indig.
l maestro riuscirà a farli rifugiare a Villa Emma, un'imponente residenza di campagna con 46 stanze, abbandonata da tempo dal suo proprietario, il costruttore ebreo Carlo Sacerdoti, dove la comitiva dei ragazzi arriva nel luglio 1942.
Senza quest'alternativa, purtroppo, sarebbe stato realizzato il piano di un altro ordinario esempio di crimine verso l'umanità, di cui il nazismo diede varie prove e lasciò tracce storiche.
Amin al Husayni
Ma non solo di questo si tratta: infatti, a complicare la vicenda, entra in scena un altro personaggio imprevedibile, il Gran Muftì di Gerusalemme Amin al Husayni, esponente dell'islamismo radicale e impegnato a collaborare con la Shoah, legato da una relazione poco chiara, anche sentimentale, con l'Alto commissario inglese per la Palestina Ernest Richmond. Husayni, in collaborazione con i nazisti, ha un ruolo più coperto, ma non meno centrale, nel tentativo di limitare o bloccare, l'espatrio degli ebrei verso la Palestina, per loro luogo di salvezza. Va tenuto presente che l'immigrazione ebraica, in fuga dalla Germania verso il Medio Oriente, dal 1922 al 1931 era passata da 84 mila a 175 mila unità, raddoppiandosi e allarmando con questa escalation la popolazione stanziale araba. Agli occhi allucinati del Muftì, l'unica soluzione era l'eliminazione fisica degli ebrei. Da Berlino, dove si era acquartierato per lavorare a fianco di Hitler e Eichmann, Husayni cercava con ogni mezzo di fermarne l'esodo, compreso quello dei bambini e ragazzi rifugiati a Nonantola, giungendo perfino a arruolare una divisione autonoma di 88 musulmane, di stanza nei Balcani, per precludere loro l'ultima via di speranza.
Nonantola
Sarà a dispetto del fascismo, del nazismo e delle campagne razziali, che l'intera popolazione di Nonantola si organizzerà in una silenziosa resistenza per salvare i ragazzi del «madrich» Josef, aiutandoli e proteggendoli per un anno intero. Ma dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943, tutto si complica, Nonantola viene occupata dai nazisti e i giovanissimi profughi devono essere messi in salvo, nascosti in attesa di cercare di espatriare in Svizzera.
E qui la storia di Villa Emma - quasi dimenticata, come molti altri episodi dei tragici giorni finali della Seconda guerra mondiale, della sanguinosa caduta di fascismo e nazismo e di tante prove di eroismo fornite da connazionali semi-sconosciuti - diventa esempio, italiano ma non solo, di rivolta contro le dittature, di solidarietà, di umanità. In questo senso la vicenda riscoperta da Mirella Serri motiva anche qualche eco più recente e più attuale: in fondo, il conflitto a cui Nonantola fa da teatro, la ferocia della violenza, mista all'odore acre della polvere da sparo, il dolore degli innocenti, sono gli stessi, o quasi gli stessi, che sotto altra veste, ma con parecchie assonanze, ci passano sotto gli occhi in questi giorni.
(La Stampa, 14 aprile 2017)
La preghiera sacerdotale di Gesù
Al termine della sua ultima Pasqua, poco prima di comparire davanti alle autorità per essere processato e condannato a morte, Gesù elevò al Signore questa preghiera:
"Padre, l'ora è venuta; glorifica il Figlio tuo, affinché anche il Figlio glorifichi te, poiché tu gli hai dato potere sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti coloro che tu gli hai dato. Or questa è la vita eterna, che conoscano te, il solo vero Dio, e Gesù Cristo che tu hai mandato, Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuta l'opera che tu mi hai dato da fare. Ora dunque, o Padre, glorificami presso di te della gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dato dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai dato vengono da te, perché ho dato loro le parole che tu hai dato a me; ed essi le hanno accolte e hanno veramente conosciuto che io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. E tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; e io sono glorificato in loro. Ora io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, quelli che tu mi hai dato, affinché siano uno come noi. Mentre ero con loro nel mondo io li ho conservati nel tuo nome; io ho custodito coloro che tu mi hai dato, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio della perdizione, affinché si adempisse la Scrittura. Ma ora io vengo a te e dico queste cose nel mondo, affinché la mia gioia giunga a compimento in loro. Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come neppure io sono del mondo, Io non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Santificali nella tua verità, la tua parola è verità, Come tu hai mandato me nel mondo, così ho mandato loro nel mondo. E per loro santifico me stesso, affinché essi pure siano santificati in verità. Or io non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me per mezzo della loro parola affinché siano tutti uno, come tu, o Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi uno in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno. Io sono in loro e tu in me, affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato e li hai amati, come hai amato me. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche coloro che tu mi hai dato, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai dato, perché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e costoro hanno conosciuto che tu mi hai mandato. E io ho fatto loro conoscere il tuo nome e lo farò conoscere ancora, affinché l'amore, del quale tu mi hai amato, sia in loro e io in loro".
dal Vangelo di Giovanni, cap. 17
Nei prossimi giorni una delegazione di Fatah a Gaza per formare governo di unità nazionale
RAMALLAH - Nei prossimi giorni una delegazione di Hamas dovrebbe recarsi a Gaza per raggiungere un "risultato decisivo" e formare un governo di unità nazionale. Lo ha annunciato oggi un rappresentante del comitato centrale di Fatah, Azzam Ahmad, nel corso di un'intervista all'emittente radiofonica "Voice of Palestine", dichiarando che sono in corso consultazioni dirette ed indirette fra i leader dei due principali partiti palestinesi, Fatah e Hamas, per risolvere la crisi politica. L'obiettivo delle consultazioni è intraprendere "passi concreti per porre fine al conflitto" interno, ha detto Ahmad. Il rappresentante di Fatah auspica che il partito rivale "non lo forzi ad assumere una posizione che complichi ulteriormente la situazione". L'obiettivo finale dei negoziati è formare un governo di unità nazionale nella Striscia di Gaza dove dal 2007 ha assunto il controllo amministrativo Hamas. Le divergenze interne alla leadership palestinese non hanno facilitato i negoziati per il processo di pace in Medio Oriente.
(Agenzia Nova, 13 aprile 2017)
Lugo: un workshop sui rapporti tra Romagna e Israele
Il convegno si è svolto martedì 4 aprile nella sede della Camera di Commercio di Ravenna
Si è svolto martedì 4 aprile, nella sede della Camera di commercio di Ravenna, il workshop "Italia e Israele: due mercati complementari", con l'obiettivo di approfondire le relazioni economiche tra i due Paesi.
L'incontro è stato organizzato dall'azienda Speciale Eurosportello della Camera di Commercio di Ravenna e dall'Associazione italo israeliana della Romagna, con il supporto tecnico di Lugonextlab Srl. Particolare attenzione è stata data alle partnership tra aziende italiane e israeliane e tra i centri di ricerca e trasferimento tecnologico dei due Paesi.
Durante il convegno si è parlato delle esperienze e delle relazioni già in essere o in via di definizione, senza dimenticare le prospettive per il futuro in merito ai rapporti tra Israele e Italia con particolare focus sulla nostra Regione Tra i rapporti esistenti tra i due territori c'è anche il gemellaggio tra il Comune di Lugo e Yoqneam, sottoscritto nel 2006.
Al workshop erano presenti anche il sindaco di Lugo, Davide Ranalli, e Svi Ben-Elya dello Startup village di Yoqneam. Ricordiamo anche il gemellaggio di Cotignola con Be er Yà Akov, sempre in Israele. Dopo i saluti delle autorità l'introduzione è stata fatta da Giovanna Bossi e Marco Macchi dell'Ufficio Commerciale e degli Investimenti dell'Ambasciata di Israele e sono seguiti interventi di Shaul Whertman di Galitalia, Franco Fogacci di Hera, Paolo Masini di Unitec, Daniel Rozenek della Tekapp di Modena, Sara d'Attorre di Aster, Aldo Tomasi del Tecnopolo biomedicale di Mirandola, e Carlo Ventura Direttore del centro di ricerca Swith di Lugo della Fondazione Sansavini di Lugo.
"Questa Amministrazione sta cercando di sfruttare le relazioni internazionali per creare opportunità economiche per il territorio - ha rimarcato il sindaco Davide Ranalli - e queste iniziative sono senza dubbio lodevoli".
"Con questo workshop - ha detto Viviana Ciani, presidente dell'Associazione italo israeliana della Romagna - vogliamo contribuire a consolidare tra i nostri due Paesi una rete internazionale di eccellenze. Questa giornata è per noi un punto di partenza verso l'obiettivo della creazione di un network di tutti i soggetti, che sono tantissimi, che in qualche modo si muovono già in questa prospettiva".
Il progetto ha già un suo gruppo di lavoro, composto da Giacomo Melandri, presidente di Lugonextlab Srl, e Giovanni Casadei Monti, direttore di Eurosportello, affiancati dal direttivo dell'Associazione italo israeliana della Romagna, con la presidente Viviana Ciani, coordinato da Igino Poggiali, con la collaborazione di Shaul ed Eden Whertman ed Einat Baras, famiglia di imprenditori israeliani residenti a Lugo, ma con forti legami familiari e societari in Israele.
Al termine del workshop, il sindaco di Lugo Davide Ranalli e l'assessore alle Relazioni internazionali Fabrizio Lolli hanno ricevuto in Rocca Svi Ben-Elya, accompagnato da Giacomo Melandri e Igino Poggiali.
Il primo cittadino ha omaggiato l'ospite con alcuni volumi che raccontano la storia e le eccellenze di Lugo e della Bassa Romagna.
(Lugonotizie, 13 aprile 2017)
Mareggiata anomala in Iran
Mareggiata anomala in Iran: le onde invadono la città
IRAN - Alcune settimane fa, una mareggiata anomala ha interessato le coste dell'Iran.
L'evento fece particolarmente notizia, in quanto vi furono alcuni morti, feriti e dispersi. Oggi, a giorni di distanza, è giunto in redazione un video del particolare fenomeno oceanografico. Probabilmente, più che di una mareggiata, si tratta di onde anomale. Queste possono essere state generate da una combinazione di fenomeni atmosferici o da frane sottomarine.
(In Meteo, 13 aprile 2017)
Antisemitismo in Italia oggi
Mercoledì 19 aprile 2017 dalle ore 18.00 alle 20.00 presso la Casa della Cultura in via Borgogna 3 a Milano, avrà luogo la decima ed ultima lezione del corso semestrale sull'antisemitismo patrocinato da UCEI, CDEC, Casa della Cultura e INSMLI, tema: "Antisemitismo in Italia oggi".
Docenti: Gadi Luzzatto Voghera, Betti Guetta, Stefano Gatti
L'antisemitismo attraversa più strade, viaggia su canali e media diversi, si esprime con livelli di aggressività differenti e soprattutto con finalità diverse: dall'offesa all'attacco fisico, dalla chiacchiera alla propaganda.
Troviamo esempi di "discorsi stereotipati", dichiarazioni che adottano un linguaggio indiretto e reiterano e amplificano pregiudizi penalizzanti. I cliché antisemiti continuano ad essere presenti: nei discorsi sugli ebrei e nelle raffigurazioni - specie nel web - degli ebrei, contribuendo così ad alimentarne un'immagine negativa composta da luoghi comuni.
Gli episodi di antisemitismo comprendono molteplici tipologie: diffamazione ed insulti, scritte e graffiti sui muri, post antisemiti sui social network, etc. .
La negazione e la banalizzazione della Shoah sono sempre più presenti nei discorsi antisemiti.
Israele è un tema sensibile. Molti simpatizzanti palestinesi accusano i gruppi pro-Israele di abusare del termine "antisemitismo" per stigmatizzare critiche legittime. Incidenti antisemiti si intensificano nei periodi in cui il conflitto in Medio Oriente si riaccende. Il nuovo antisemitismo (uso di stereotipi antisemiti contro lo stato di Israele ed il Sionismo) demonizza lo stato ebraico, e il Sionismo, banalizza la Shoah affermando che gli arabo-palestinesi stanno subendo un nuovo sterminio per mano dei "nazi-sionisti".
I principali responsabili di episodi antisemiti sono esponenti o simpatizzanti del radicalismo di destra e dell'estrema sinistra.
Riteniamo importante fare una riflessione sui "discorsi" che si possono incontrare in rete, sul clima di "libertà", anticonformismo, provocazione che alcuni social network permettono quando non - addirittura - inducono. L'antisemitismo su Internet è in aumento, come si nota nell'aperta espressione di antisemitismo nei forum online, e i siti e i blog antisemiti di varia natura proliferano. Le tesi negazioniste si legano alle teorie del complotto, ed alla propaganda antisionista.
Non siamo di fronte a nuove forme di antisemitismo, a nuove teorie o a nuovi stereotipi contro gli ebrei, bensì al fatto che il web permette, per la sua natura, di accelerare e globalizzare la diffusione di tesi e discorsi antisemiti. E questo fenomeno va monitorato costantemente.
Occorre indagare in modo efficace, tempestivo e imparziale su atti di violenza motivati dall'antisemitismo e perseguire i responsabili, occorre inoltre incoraggiare i dirigenti politici e le personalità pubbliche a pronunciarsi con sollecitudine contro l'antisemitismo.
Occorre attuare programmi di formazione scolastica e culturale per combattere il pregiudizio verso le minoranze e l'antisemitismo.
Il corso è a libera partecipazione e non necessita alcuna iscrizione
(Osservatorio antisemitismo, 13 aprile 2017)
«I nazionalisti religiosi sono peggio degli Hezbollah»: Israele, bufera su Haaretz
Sta suscitando polemiche roventi in Israele, e anche la richiesta di mettere al bando il giornale, un articolo del liberal Haaretz in cui l'opinionista Yossi Klein attacca i partiti e le organizzazioni dei nazionalisti religiosi definendole «peggiori degli Hezbollah». «I nazionalisti religiosi - ha denunciato Klein - sono pericolosi. Più degli Hezbollah, più degli attacchi con le auto o dei bambini con le forbici. Gli arabi possono essere neutralizzati, ma quelli no. Cosa vogliono? Governare il paese e ripulirlo dagli arabi». Nel governo siede ad esempio «Focolare ebraico», guidato dal ministro dell'istruzione Naftali Bennett, partito definito vicino al movimento dei coloni. Difeso a spada tratta dall'editore Amos Shocken, ma non dall'opposizione di centro sinistra, l'articolo non è piaciuto al premier Benyamin Netanyahu che ha chiesto le scuse del giornale ed ha definito i nazionalisti religiosi «il sale della terra». Il ministro della difesa Avigdor Lieberman ha invocato il boicottaggio del giornale: «Non compratelo e non leggetelo più».
(Il Mattino, 13 aprile 2017)
Birkat Kohanim - Benedizione Sacerdotale di Aaronne
Oggi al Kotel è stata impartita la Benedizione Sacerdotale. Decine di migliaia di persone si sono riunite nella piazza di fronte al muro. Questa benedizione al Kotel viene impartita due volte l'anno, alla Festa dei Tabernacoli e a Pasqua. E' impartita solo dai Kohanim. L'atmosfera è molto speciale.
Birkat Kohanim è tratta da Numeri 6:22-27:
«L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
Parla ad Aaronne e ai suoi figli, dicendo: Voi benedirete così i figli d'Israele; direte loro:
L'Eterno ti benedica e ti custodisca!
L'Eterno faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio!
L'Eterno rivolga il suo volto su di te e ti dia la pace!
Così metteranno il mio nome sui figli d'Israele e io li benedirò.»
(Notizie su Israele, 13 aprile 2017)
Le colpe arabe nel fallimento postumo degli accordi di Camp David
di Antonio Donno.
Camp David: Peacemaking and Politics, di William B. Quandt (Brookings Institution Press) è ormai un classico della storiografia sul medio oriente e sul conflitto arabo-israeliano. Perciò, l'iniziativa di ripubblicare quest'opera a distanza di tanti anni (apparve nel 1986) è un'occasione per riconsiderare le occasioni mancate - è proprio il caso di dirlo - non per colpa di coloro che siglarono lo storico accordo, ma di quella parte del mondo palestinese, e arabo in generale, che non ha mai voluto riconoscere l'esistenza dello stato di Israele e, con la successiva uccisione di Sadat, ha voluto cancellare il significato stesso di quel momento fondamentale della storia mediorientale. E questo vale ancor più oggi, di fronte all'ondata di antisemitismo che accusa Israele di essere la causa della crisi mediorientale e della situazione dei palestinesi nella West Bank.
Si dimentica, o si vuol dimenticare, che quell'accordo, benché non riguardasse direttamente il problema palestinese, era tuttavia un passo decisivo verso una possibile pacificazione generale della regione, da cui nel tempo anche quella questione avrebbe potuto trarre giovamento. Il problema è sempre lo stesso: coloro che boicottarono quell'accordo, come in seguito altri dello stesso tipo, non coltivavano alcun interesse a dare vita a uno stato palestinese accanto a Israele, ma al posto di Israele. Il rifiuto di Arafat nel 2000 resta una pietra miliare, una pietra di paragone del rifiuto arabo della presenza stessa degli ebrei nella regione. Tutto il resto è chiacchiera. Ma torniamo al libro di Quandt. William Quandt faceva parte dello staff del White House National Security Council e partecipò direttamente alle trattative. E', quindi, un testimone fondamentale di quel processo. Egli analizza tutte le fasi del negoziato, ponendo particolare attenzione al ruolo del presidente americano, Jimmy Carter.
Infatti, al di là dei problemi che videro Sadat e Begin impegnati nella fase negoziale, che Quandt esamina con grande aderenza ai fatti, un aspetto centrale della sua narrazione riguarda proprio la funzione del presidente americano nelle sue possibilità di indirizzare lo svolgimento delle trattative e, nello stesso tempo, dei suoi limiti. Quest'ultimo aspetto è centrale. Quandt, infatti, non nasconde che Carter "[ ] sovrastimò il ruolo che l'Egitto avrebbe potuto giocare nel creare i presupposti per una sistemazione negoziata della questione palestinese". La ragione è semplice: né la Giordania né i capi palestinesi (né gli altri paesi arabi) desideravano una pace che riconoscesse il diritto di Israele a esistere e la nascita di uno stato palestinese accanto a Israele. E - possiamo aggiungere - neppure Sadat intendeva sprecare soverchie energie su questo tema, desiderando recuperare il Sinai e concludere una pace stabile con Israele, che permettesse al suo paese di impiegare le proprie risorse nello sviluppo dell'economia, non in una guerra continua, e frustrante, contro Israele, con uno spreco di energie umane e materiali incalcolabile.
Così, scrive Quandt, "l'approccio alternativo sarebbe stato semplicemente un gioco d'azzardo". In definitiva, la questione palestinese, conclude Quandt, fu tralasciata - con grande delusione da parte di Carter - perché intrattabile con i diretti interessati e, di conseguenza, perché Sadat e Begin avevano tutto l'interesse di concludere positivamente il negoziato tra i loro due paesi. Sadat pagò con la vita il riconoscimento di Israele, e Israele, da parte sua, rimise in discussione, con l'invasione del Libano - sostiene Quandt - un processo di pacificazione che avrebbe potuto portare anche alla sistemazione della questione palestinese. Considerazione, questa, opinabile, perché l'invasione del Libano fu proprio la conseguenza del rifiuto da parte della dirigenza palestinese di accettare le conclusioni derivate dalla pace israelo-egiziana e dell'inasprimento delle operazioni terroristiche provenienti dal sud del Libano, una regione di confine con Israele in cui l'autorità del governo libanese era del tutto svanita ed era divenuta la base delle operazioni terroristiche dell'Olp contro lo stato ebraico. Quandt mette in risalto il ruolo di Carter, che indubbiamente deve essere riconosciuto.
Dopo la guerra del 1973, la pace tra Egitto e Israele era possibile, ma non inevitabile. Fu la mediazione americana a dare quell'indirizzo unitario al negoziato che altrimenti sarebbe fallito, perché le due parti avevano approcci fondamentalmente differenti ai problemi sul tappeto. La pace del 1978, scrive Quandt, dimostra il ruolo fondamentale degli Stati Uniti in qualità di mediatori nelle dispute internazionali, anche se l'autore non nasconde le difficoltà che un presidente americano incontra in queste occasioni a causa dei margini temporali ristretti legati alla durata della presidenza. Ma la democrazia richiede tutto questo. "Un giudizio su Camp David - conclude Quandt - deve iniziare dalla considerazione su ciò che Sadat e Begin, dati i loro punti di vista e i loro condizionamenti politici, si sono persuasi ad accettare. E, dal punto di vista americano, ci si deve chiedere quanto quei risultati siano serviti agli interessi americani".
(Il Foglio, 13 aprile 2017)
Quel "mostro" d'Israele
Se Boldrini accoglie alla Camera chi incita contro "il regime sionista di assassini nemici dell'umanità"
di Giulio Meotti
Boldrini - Salman
ROMA - Quando la presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, venerdì scorso ha ricevuto a Montecitorio una delegazione palestinese, compresa l'ambasciatrice in Italia Mai Alkaila, ha compiuto una forzatura, ma pur comprensibile nell'ambito di relazioni diplomatiche, nata certamente dalla genuina volontà di rilanciare i negoziati fra israeliani e palestinesi. "Incontro con ambasciatrice Palestina Alkaila che ha denunciato stallo processo di pace", recitava l'account Twitter della presidente della Camera. Ma quando Boldrini ha accolto anche il rappresentante in Italia di al Fatah, Yousef Salman, forse avrebbe dovuto prima informarsi a chi stringeva la mano e chi c'era alla propria sinistra nella photo opportunity. Era sufficiente un breve giro sull'account Facebook di Salman per capire che non si trattava di un politico interessato all'accordo con Israele né uno preoccupato per lo "stallo del processo di pace".
"Nemici della civiltà, della democrazia e dell'umanità": così Salman il 24 marzo ha definito Israele, anzi "l'arroganza sionista". Ovunque ricorrono nei suoi post paragoni fra Hitler e Israele: "Il nazifascismo è stato sconfitto dagli uomini e dalla storia, anche il sionismo lo sarà ", si legge il 13 marzo. "I sionisti ormai si sentono i padroni del mondo, onnipotente, lo stesso sentimento che ebbero i nazisti", in data 27 febbraio. A volte il tono di Salman si accende: "Morte all'occupazione israeliana" (1o ottobre 2016). Lo scorso 23 luglio ha lasciato intendere un paragone fra gli israeliani e gli animali: "Chi ha creato il mondo, non poteva fermarsi a loro (gli animali): loro non si ammazzano stupidamente, non raccontano bugie e falsità, non credono di essere superiori a nessuno, non rubano per hobby e non usano il loro Dio per rubare, liquidare o dominare gli altri". L'11 febbraio 2016, invece, Salman scriveva: "Dio liberaci dai mostri, il filo spinato israeliano ". Ne ha spesso anche per i media italiani: "Rai News 24, la Tv sionista in Italia" (7 maggio 2016) e Piero Marrazzo, "il vigliacco" (26 dicembre 2015, corrispondente Rai da Gerusalemme). Il rappresentante di Fatah in Italia ha condiviso (12 dicembre 2015) anche una "soluzione del conflitto israelo-palestinese". E quale? "Spostare lo stato di Israele negli Usa: gli israeliani sono perlopiù amati dagli americani, gli Usa accoglierebbero gli israeliani nelle loro case a braccia aperte, gli Usa hanno moltissima terra dove poter sistemare Israele come 51esimo stato". Così che "il medioriente sarebbe di nuovo un posto pacifico". Anche l'altro personaggio fatto entrare dalla presidente Boldrini a Montecitorio è davvero poco moderato. Tale Bassam Saleh, segretario di Fatah in Italia, alla sinistra di Boldrini nella foto. In data 16 febbraio, Saleh postava su Facebook: "Il popolo palestinese è chiamato di nuovo a continuare la sua lotta per abbattere il regime sionista di apartheid". Chiaro. Il 2 novembre 2016, Saleh è ancora più diretto nell'invocazione a sradicare Israele: "68 anni fa viene trapiantata una entità estranea nel mondo arabo ".
Il signor Saleh è anche "presidente dell'Associazione Amici dei Prigionieri Palestinesi". No, non sono tanti Mandela di Ramallah ingiustamente incarcerati da Israele, ma terroristi e attivisti dell'Intifada. La stessa ambasciatrice palestinese incontrata da Boldrini, Mai Alkaila, due giorni fa su Facebook ha commemorato Abu Youssef, Kamal Adwan e Kamal Nasser, i tre terroristi palestinesi di Settembre Nero eliminati da Israele in Libano nell'aprile 1973 per la loro partecipazione al massacro degli atleti israeliani di Monaco. Qualche domanda è lecito porsela: a chi stringe la mano, Boldrini? Ieri la presidente della Camera ha fatto entrare a Montecitorio due agnelline, Gaia e Gioia, per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla macellazione degli animali. Ecco, non sarebbe male se Boldrini la sensibilizzasse anche sulla campagna palestinese di incitamento a macellare le ragazzine israeliane. E' la stessa lama da cucina che sgozza Gaia e Gioia.
(Il Foglio, 13 aprile 2017)
Le erbe amare di Pasqua
Dalla tradizione ebraica, un'abitudine salutare
di Caterina e Giorgio Calabrese
«Ciascuno si procuri un agnello per la famiglia [ ... ] In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi ed erbe amare» (Esodo 12, 2-8).
Le erbe amare per quella notte prodigiosa sono ancora utilizzate per Pesach, la festa ebraica che ricorda il passaggio dalla schiavitù alla liberazione. In genere cade in primavera, ma a causa di calendari diversi ancora in uso, non coincide con la nostra Pasqua (quest'anno la settimana santa è iniziata martedì 11). Erbe amare come la schiavitù accompagnate da pane azzimo, il pane della fretta, subito pronto, non lievitato senza fermenti e non soffice. Le erbe amare comunemente usate oggi durante Pesach sono rafano e lattuga. Le erbe amare di primavera sono in tavola anche nelle nostre italiche tradizioni, come nella torta pasqualina della cucina ligure. Questa prevedeva l'uso dei carciofi, molto cari rispetto alle bietole che furono poi impiegate in sostituzione.
Salutari
Le erbe, le verdure e radici amare sono, a ragione, considerate salutari. L'amaro agisce sulle papille gustative e stimola una maggior produzione di saliva, che è ricca di enzimi come le amilasi, utili alla scissione degli amidi. Lo stomaco viene indotto a produrre gastrina, in grado di attivare al meglio il processo digestivo. Vengono infatti stimolati altri organi come fegato, pancreas, cistifellea. Hanno effetto antiossidante che però si perde cuocendole in troppa acqua. L'amaro fa digerire bene, ciò consente una migliore scissione proteica e di conseguenza un migliore assorbimento di nutrienti, compresi i sali minerali che ne aumentano la disponibilità.
È lo stesso principio per cui, a fine pasto specie se è stato un pasto abbondante e pesante, si consuma il digestivo amaro a base di erbe amare talvolta anche con una varietà dal numero elevato. Come tutte le erbe fresche è possibile elaborarle sotto forma di frittate, flan, torte salate che mantengono il sapore amaro e le proprietà salutari anche da cotte. Cicorie, radicchio, catalogna, puntarelle (germogli di una varietà di catalogna detta catalogna spigata) rucola, carciofi, scarola, cime di rapa, contengono parecchie sostanze benefiche come la vitamina C, la pro-vitamina A, clorofilla e inulina, utili a depurare l'organismo in modo naturale. Le erbe amare rinforzano il corpo e in special modo svolgono un'azione antiossidante.
L'inulina
L'inulina è un oligosaccaride formato da catene di fruttosio con una molecola di glucosio terminale. Fa parte di una famiglia di fibre alimentari dette fruttani o frutto-oligosaccaridi.
L'inulina ha un sapore neutro o lievemente dolce, ha una capacità edulcorante di un decimo rispetto al saccarosio (zucchero). come additivo alimentare serve a dare corpo all'alimento senza essere particolarmente evidente il sapore, come per i gelati senza zucchero. Ha una caratteristica di idrorepellenza per questo viene impiegato per evitare l'affioramento del burro di cacao nei cioccolatini. È un carboidrato indisponibile, ovvero non digeribile dallo stomaco umano. È un carboidrato di riserva che radici e rizomi sintetizzano al posto dell'amido, che queste piante non producono e non lo immagazzinano.
L'amaro dell'inulina è però benefico perché passando indigerito dallo stomaco raggiunge l'intestino che viene stimolato a produrre «batteri buoni» ovvero in grado di stimolare una buona funzionalità intestinale. Una ricerca tedesca dimostra che le erbe toniche amare, stimolano la bile e la produzione di acido cloridrico, il sistema nervoso e la funzione del sistema immunitario, così come combattono stanchezza e spossatezza. E non lasciano l'amaro in bocca.
(La Stampa, 13 aprile 2017)
Truffa dell'Israelitico, le accuse prescritte
L'inchiesta False fatture per 8 milioni alla Regione
di Fulvio Fiano
Centosessanta interventi odontoiatrici spacciati per chirurgia plastica, 8,5 milioni di danno alla Regione, i vertici dell'Israelitico a processo. Nessuna assoluzione ma nessun colpevole, perché i reati sono prescritti. Finisce con un niente di fatto l'indagine che nel 2013 scoperchiò la truffa e le false fatture praticate nell'ospedale. Nella seconda tranche rischia il processo anche l'ex dg Antonio Mastrapasqua.
Due giorni fa la parola fine sul processo relativo alla prima indagine è stata pronunciata dal giudice senza che venissero ancora formulate le richieste di condanna. I fatti risalgono al 2007-2009, l'inchiesta è arrivata tre anni dopo e il processo è stato lungo e laborioso. Bandiera bianca e pericolo scampato per Giorgio Coen, legale rappresentante dell'ospedale, Giovanni Spinelli, ex direttore sanitario, e i sette medici Aldo Casti, Marco Pezzi, Renato La Tella, Giuseppe Grasso, Alessandro Bergamo, Andrea Quagliero, Giuseppe D'Ambrosio che avrebbero praticato gli interventi ognuno su decine di pazienti, firmando le cartelle con interventi chirurgici trasformati poi al momento di fatturarli per avere i rimborsi dalla Regione. Alle parti civili, ministero della Salute, Regione Lazio, Asl RmD, resta la sede civile per chiedere il danno, già quantificato dalla Corte dei Conti in 8,5 milioni nella sentenza di condanna del novembre 2015. La Regione aveva intanto bloccato i pagamenti.
Pochi mesi dopo arrivò il secondo e più ampio capitolo, coinvolto anche il direttore generale Antonio Mastrapasqua, per il quale è stato da poco chiesto il processo.
(Corriere della Sera, 13 aprile 2017)
Parashà
Questa settimana lo shabbat cade in uno dei giorni di Pesach (la Pasqua ebraica). In questo periodo nelle sinagoghe si fa una lettura speciale inerente a questa festività e l'usuale lettura della Parashà viene spostata allo shabbat successivo. Di conseguenza anche i nostri commenti saranno spostati alla settimana prossima.
India - Ottomila missili israeliani. Il piano per tenere a bada Cina e Pakistan
NUOVA DELHI - L'India è vicina alla firma di due contratti di difesa che Nuova Delhi intende sottoscrivere con quel paese mediorientale prima della visita del premier Narendra Modi a Tel Aviv, in programma per il prossimo mese di luglio. Lo riferiscono fonti governative citate dal quotidiano "Economic Times". I contratti riguardano l'acquisto di missili anticarro e sistema di difesa aerea navali, secondo le fonti: la natura e l'entità dei contratti, scrive il quotidiano, provano che il rapporto dell'India con Israele va oltre lo status di primo acquirente dell'hardware militare israeliano. I contratti per l'acquisto dei missili anticarro Spike per l'Esercito indiano e dei Barak-8 per la Marina dovrebbero essere firmati entro i prossimi due mesi: il valore complessivo delle transazioni dovrebbe ammontare a 1,5 miliardi di dollari, in cambio di otto mila missili, che verranno consegnati a partire dal 2019. L'acquisto, riferiscono le fonti del quotidiano, è una voce essenziale del progetto da 250 miliardi di dollari per la modernizzazione delle Forze armate indiane entro il 2025, in risposta all'aumento delle tensioni con Cina e Pakistan.
(Agenzia Nova, 12 aprile 2017)
Abu Mazen: il viaggio del Papa in Egitto è atto di coraggio e di pace
Il presidente palestinese lo scrive in una lettera indirizzata al pontefice: "riflette il Suo impegno per la realizzazione della giustizia".
Un atto di coraggio e di pace. Il viaggio in Egitto, confermato da Papa Francesco dopo i tragici attentati della Domenica delle Palme, «è un passo coraggioso che riflette il Suo impegno per la realizzazione della giustizia e della pace». Lo scrive il presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas) in una lettera indirizzata al pontefice.
«Il viaggio - prosegue - incoraggia le voci moderate in tutto il mondo e specialmente nella nostra regione». Abu Mazen auspica che il Papa possa portare «un messaggio di speranza», oltre che di «unità, uguaglianza e coesistenza».
Nella sua lettera, trasmessa tramite l'Ambasciata dello Stato di Palestina presso la Santa Sede, Abu Mazen rivolge al Pontefice il suo messaggio augurale.
«Siamo lieti di apprendere che Lei stia andando avanti con la Sua programmata visita in Egitto, anche dopo i brutali attacchi terroristici contro due chiese a Tanta e ad Alessandria, che hanno ucciso decine di fedeli nella Domenica delle Palme», scrive il presidente palestinese.
«Speriamo - continua Abu Mazen - che Lei possa portare un messaggio di speranza al popolo egiziano, e a tutti i popoli arabi e africani: un messaggio di unità, di uguaglianza e di coesistenza. Crediamo fermamente nelle Sue semplici e tuttavia potenti parole, che l'amore è più forte del male».
Il presidente dello Stato di Palestina conclude augurando al Papa «tutto il meglio per la Settimana Santa» e riafferma la convinzione che la visita papale in Egitto «offrirà all'Egitto, e al resto della nostra regione, un forte messaggio di speranza e di amore». «È nostro desiderio - aggiunge - che Sua Santità continui a pregare per noi, come ha fatto qui in Palestina durante la Sua visita di pellegrinaggio alla Terra Santa nel 2014».
«E qui, affermiamo a Sua Santità che la speranza è ancora profonda nei nostri pensieri e nei nostri cuori che Gerusalemme continui ad essere la città della pace, dell'amore e della giustizia», scrive in chiusura Abu Mazen.
(globalist, 12 aprile 2017)
Il presidente di un inesistente stato, tenuto in piedi per lodio, chiamato "Palestina" manda un messaggio di approvazione al presidente di uno stato creato dal fascismo chiamato "Santa Sede" dove si parla di Palestina, Terra Santa, popolo egiziano, popoli arabi, popoli africani, ma non si parla mai di popolo ebraico e mai naturalmente si nomina, nemmeno di sfuggita, lo Stato d'Israele. E questo tipo di invocazione alla pace che nutre lodio per Israele. M.C.
Perché non esiste ancora uno stato palestinese?
In un video di 5 minuti, i 5 rifiuti da parte araba di uno stato palestinese. Chi desidera davvero la pace non può non tenerne conto.
Se solo Israele permettesse ai palestinesi di avere un loro stato ci sarebbe la pace in Medio Oriente, vero? Questo è quello che si sente ripetere da ambasciatori delle Nazioni Unite, diplomatici europei e dalla maggior parte dei professori universitari.
Ma se io vi dicessi che Israele ha già offerto ai palestinesi uno stato, e non una volta sola ma in ben cinque diverse occasioni? Non mi credete? Rivediamo i fatti.
Dopo il disfacimento dell'Impero Ottomano alla fine della prima guerra mondiale, la Gran Bretagna assunse il controllo della maggior parte del Medio Oriente, compresa l'area che oggi costituisce il moderno stato d'Israele. Diciassette anni dopo, nel 1936, gli arabi si rivoltarono contro gli inglesi e contro i loro vicini di casa ebrei. Gli inglesi crearono una task force, la Commissione Peel, con il compito di studiare le cause della ribellione. La Commissione giunse alla conclusione che il motivo delle violenze era che due popolazioni - ebrei e arabi - volevano governare la stessa terra. La risposta, stabilì la Commissione Peel, era quella di creare due stati indipendenti: uno per gli ebrei e uno per gli arabi. Una soluzione a due stati. La spartizione suggerita era fortemente a favore degli arabi. Gli inglesi offrivano loro l'80% del territorio conteso e agli ebrei il restante 20%. Eppure, nonostante le piccole dimensioni dello stato che veniva loro proposto, gli ebrei votarono a favore dell'offerta. Gli arabi invece la rifiutarono, e ricominciarono la ribellione violenta. Rifiuto numero uno....
(israele.net, 12 aprile 2017)
Israele: pieno supporto a Trump su attacco in Siria
Mosca: "Pronti a riconoscere Gerusalemme Ovest come capitale dello Stato ebraico"
di Rosaria Sirianni
Con l'attacco contro la base aerea di Al Shayrat in Siria l'America punta i piedi e torna protagonista in Medio Oriente, scuotendo nel giro di poche ore il delicato quadro dei rapporti di forza della regione. La mossa di Trump si prefigge numerosi obiettivi di natura tattica. Primo fra tutti, corroborare il potere negoziale degli Stati Uniti sui principali dossier internazionali. Non un cambio di strategia, dunque, ma un messaggio del presidente a Russia, Iran e Cina - oltre che ai propri apparati di intelligence e sicurezza, con conseguenze che Washington potrebbe non aver previsto e, forse, non gradirebbe. Il prezzo da pagare per chi - scrive l'opinionista ed esperto del Medio Oriente del quotidiano britannico "Guardian" Moustafa Bayoumi - "sembra non avere nessuna visione del futuro, neppure dell'immediato".
La posizione di Israele
Tuttavia, l'Unione Europea si schiera a fianco di Trump. E a sostenere gli Stati Uniti c'è anche Israele. In un comunicato diffuso in seguito all'attacco missilistico di Washington sulla Siria il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parla chiaro: "Israele supporta pienamente la decisione del presidente Trump". "Sia a parole che nei fatti il presidente ha inviato un messaggio chiaro e forte: l'uso e la diffusione di armi chimiche non saranno tollerati". "Israele - continua il comunicato di Netanyahu - supporta a pieno questa decisione e spera che questo messaggio nei confronti delle terrificanti azioni del regime di Assad risuoni non solo a Damasco ma anche a Teheran, Pyongyang e ovunque".
Del resto, la posizione del governo israeliano nei confronti di Damasco è cosa nota. Tel Aviv ha sempre considerato l'esecutivo siriano come parte del triangolo sciita di resistenza Hezbollah-Siria-Iran. E vuole la caduta di Bashar al Assad, anche se ciò dovesse far sprofondare la Siria nel caos, rendendola preda di settarismi interni e gruppi fondamentalisti islamici. Netanyahu, secondo la stampa locale, sta spingendo per la creazione di zone cuscinetto lungo il confine siriano con Israele e la Giordania come parte di ogni futura risoluzione internazionale per la guerra civile che imperversa nel paese ormai da sei anni. La ragione è sempre la stessa: tenere a distanza i combattenti iraniani e il gruppo sciita libanese di Hezbollah dal territorio israeliano.
E in effetti, nei giorni scorsi, il direttore generale del ministero dell'Intelligence dello Stato ebraico, Chagai Tzuriel, non ha lasciato spazio a dubbi ulteriori: "Se l'Iran rimarrà in Siria - ha dichiarato - allora sarà una costante fonte di attrito e tensione con la maggioranza sunnita, con i paesi sunniti al di fuori della Siria, con le minoranze sunnite fuori della regione, e con Israele". Secondo Tzuriel, infatti, Tehran intenderebbe creare una sorta di "ponte di terra sciita" che passando per l'Iraq, la Siria e il Libano arrivi fino al Mediterraneo, in modo da tenere la costa israeliana sotto il tiro della sua marina militare.
I rapporti con la Russia
Eppure, ad allentare la tensione di Tel Aviv ci pensa la Russia. Da tempo ormai, Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu sono riusciti a tenere aperto un canale di comunicazione che ha resistito ai bombardamenti israeliani sulla Siria e al sostegno russo ad Assad. Ma c'è un'altra decisione che avvicina moltissimo Mosca e Tel Aviv, e ancora una volta sembra scavalcare gli Stati Uniti: il riconoscimento di Gerusalemme Ovest come capitale di Israele. La notizia, diffusa nei giorni scorsi, è stata ufficializzata attraverso un comunicato del ministero degli Esteri russo. Non è chiaro se la presa di posizione avrà effetti immediati o se Mosca intenda aspettare che Gerusalemme Est sia prima riconosciuta come capitale dello Stato palestinese. Secondo il "Jerusalem Post" il riconoscimento di Mosca entrerà in vigore da subito. E per questa ragione, nei prossimi giorni, l'ambasciatore della Russia in Israele incontrerà i funzionari del ministero degli Esteri.
Da sempre, Israele considera Gerusalemme come sua capitale "unica e indivisibile" ma finora tutte le ambasciate, compresa quella degli Stati Uniti, sono rimaste a Tel Aviv, senza riconoscere formalmente le rivendicazioni israeliane. Trump aveva promesso di spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme Est in campagna elettorale ma almeno per il momento è stato costretto a rimandare la decisione per la forte opposizione degli alleati arabi e il timore che la mossa possa scatenare una rivolta palestinese. Gerusalemme Ovest è riconosciuta come territorio di Israele dalle Nazioni Unite mentre la parte orientale, anche se annessa nel 1967, è rivendicata anche dai palestinesi come propria capitale.
(Internazionale, 12 aprile 2017)
C'è lvanka, la figlia ebrea dietro la svolta di papà Donald
La nuova politica estera che piace a Israele
di Nicholas Farrell
Ivanka Trump
Per sapere chi sarà il prossimo bersaglio della macchina militare più potente al mondo conviene a questo punto seguire Ivanka Trump su Twitter. Ieri a Londra è arrivata la conferma dell'importanza della figlia di Donald Trump da un'intervista rilasciata dal fratello di lei, Eric, al molto affidabile quotidiano inglese The Daily Telegraph. La decisione di bombardare la Siria e, di conseguenza, rovesciare la politica americana nei confronti di Bashar Assad e di Vladimir Putin - ha detto - fu «influenzata» da Ivanka.
Da quando - la sera di giovedì scorso - il Presidente americano ha lanciato i suoi 59 missili Tomahawk contro la base aerea del tiranno siriano Bashar Assad si è speculato molto sul ruolo di Ivanka in quella decisione a causa appunto di un tweet da lei mandato all' ora di pranzo del giorno prima. Diceva: «Affranta e oltraggiata dalle immagini provenienti dalla Siria a seguito dell' attacco chimico ieri». Allo stesso tempo, suo padre stava tenendo una conferenza stampa alla Casa Bianca nella quale diceva: «Assad ha varcato una linea rossa: ha ammazzato bambini innocenti con un gas chimico letale».
Ivanka, 35 anni, capo di un'azienda di moda e gioielli e ora assunta come consigliere stretto di suo padre alla Casa Bianca, usa Twitter di rado. Il Telegraph ha intervistato il fratello Eric, 33 anni, che adesso gestisce la Trump Corporation. Ha anche detto che l'attacco alla Siria era la prova che suo padre non era il pupazzo di Putin, neppure ricattabile, e che non sarebbe mai stato comandato a bacchetta dal presidente russo.
Dietro il drammatico voltafaccia del 45o Presidente degli Stati Uniti c'è anche l'esito dello scontro di opinioni alla Casa Bianca fra Steve Bannon, il Chief Strategist, e il Senior Advisor, cioè il marito di Ivanka, Jared Kushner. Bannon è un cattolico, Kushner un ebreo ortodosso, e Ivanka, 35 anni, quando si è sposata con lui si è convertita all'ebraismo.
Gli avversari di Trump ovviamente sempre disperati di etichettare il Presidente razzista che odia non solo i messicani e i neri, ma anche gli ebrei hanno cercato a tutti i costi di dare dell' antisemita a Bannon, anche se non lo è. L'antisemitismo non c'entra un bel nulla con lo scontro fra lui e Kushner e Ivanka.
C'è però una differenza di visione.
Bannon è isolazionista e non vuole che l'America faccia il gendarme globale se non è assolutamente necessario.
Vuole come ha voluto Trump stesso fino a poco fa evitare conflitti militari con Putin in particolare. Dopo tutto il nemico principale sia dell'America sia della Russia rimane l'islamismo. Kushner invece è molto più pro Israele: vuole fare danni non solo ad Assad ma anche ai suoi alleati: l'Iran e i terroristi di Hezbollah.
Ed ecco perché guarda caso proprio in questi giorni Bannon - l'ex direttore del giornale online di gran successo Breitbart che ha gestito così bene la campagna elettorale trionfale di Trump - è stato licenziato dal suo posto sulla National Security Council.
A Washington girano sempre più voci che fra poco perderà pure il posto di Chief Strategist.
(Libero, 12 aprile 2017)
Iran: Ahmadinejad candidato a sorpresa. Teheran risponde agli Usa di Trump
Ahmadinejad candidato a sorpresa per le elezioni in Iran. Teheran risponde ai raid di Trump e minaccia gli Usa
L'ex presidente conservatore iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, con una mossa a sorpresa ha presentato la sua candidatura per le elezioni presidenziali in Iran del 19 maggio. In un primo momento Ahmadinejad aveva detto di non voler entrare in corsa perché sconsigliato della Guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, e aveva annunciato di voler sostenere la candidatura del suo ex vicepersidente, Hamid Baghaie.
Con Ahmadinejad l'Iran minaccia gli Usa di Trump
Ora la clamorosa svolta. E' impossiibile non sottolineare la cronologia degli eventi. Il via libera alla candidatura di Ahmadinejad arriva infatti a pochi giorni di distanza dal raid degli Stati Uniti in Siria contro il regime di Assad. Damasco è da sempre un alleato fondamentale per l'Iran e l'intervento americano ha scosso molto Teheran. Le speranze di distensione nate dopo l'accordo sul nucleare siglato con Barack Obama sono finite e ora il clima di tensione con Washington è tornato altissimo.
Nelle scorse settimane si era parlato anche di una possibile candidata donna per i conservatori. Ora invece il clamoroso e inaspettato ritorno all'antico. L'intenzione dei falchi era già quella di mettere da parte il troppo "morbido" Rohani ma ora con la candidatura di Ahmadinejad si fa uno step in più. Un nome come quello di Ahmadinejad infatti rievoca subito il programma nucleare iraniano, nonché l'amicizia con i regimi anti americani del Sudamerica.
La candidatura di Ahmadinejad è un chiaro messaggio a Washington. L'Iran non è disposto a sopportare ingerenze americane in Medio Oriente. Il ritorno dell'ex presidente potrebbe davvero portare a sviluppi imprevedibili nei già complicatissimi rapporti tra Usa e Iran.
(Affaritaliani.it, 12 aprile 2017)
Quando la libertà è partecipazione: la rivoluzione di Pesach
Pesach ha impresso una svolta irreversibile alla storia dell'umanità. E ci insegna che per quanto la realtà possa essere corrotta e crudele, potrà essere sempre rovesciata, corretta, redenta. Perché sperimentare un processo di liberazione vuol dire imparare, innanzitutto, la possibilità del cambiamento. E la responsabilità verso le generazioni future. A dispetto di tutti gli antisemitismi, vecchi e nuovi.
di Rav Giuseppe Laras
Egitto, schiavitù, Faraone, liberazione, apertura e chiusura del Mar Rosso: queste sono solo alcune delle parole che ci sovvengono alla mente quando celebriamo Pesach, evento che evochiamo quotidianamente nelle preghiere e ogni Shabbat, oltreché, in particolare, nel mese di Nissàn. A Pesach il Faraone venne sconfitto, i suoi cavalli e i loro cavalieri scaraventati nelle profondità degli abissi marini. Tuttavia, la Torah ci insegna chiaramente che il Male, sia nella storia umana universale sia nella storia ebraica - particolare e specifica -, non è stato definitivamente sconfitto. Il potere del Faraone naufragò sì nelle acque del mare, ma altri poteri non così dissimili si sarebbero manifestati pericolosamente contro Israele a breve e medio termine: "Amalek, Midiàn, Mo'àv, Emorì', e così via. L'intervento divino in Egitto non ha divelto né espunto il Male dal mondo e dalla storia di Israele. La salvezza dalla schiavitù, dall'abbrutimento idolatra e dalla sofferenza fisica e spirituale operata da Dio "be-yad chazaqà uvrizroa netuyah", con mano forte e con braccio disteso, ha instillato negli ebrei (e nostro tramite nella storia umana), una concezione alternativa della vita umana, del suo destino e della sua dignità. Gli eventi che ricordiamo a Pesach hanno trovato ricezione e importanza simbolica e teologica non solo nel cristianesimo, ma anche nell'islàm, per cui Faraone, l'archetipo del tiranno e dell'oppressore pagano, perseguitò i "Banu Israil', i figli di Israele. Nell'Egitto contemporaneo, tuttavia, i faraoni della storiografia egizia - eredità culturale, orgoglio egiziano di oggi - e il Qur'an, il Corano, che ricalca il racconto biblico, sono inconciliabili, e la polarità si accentuò nel momento in cui i moderni egiziani entrarono in guerra contro gli israeliani. Scrive in proposito lo storico dell'islam Bernard Lewis: "Per il
musulmano devoto, i 'Banu Israil' dell'esodo così come è narrato nel Qur'an, hanno poco o nulla a che vedere con gli ebrei, chiamati così all'epoca del profeta e nell'epoca contemporanea. Essi erano i seguaci del profeta Mosè, uno dei molti precursori del profeta Maometto; essi facevano parte perciò della sequenza di rivelazioni che costituisce l'Islàm, di cui la missione di Maometto rappresenta il compimento". Indipendentemente da ciò, se non fosse accaduto quanto noi ebrei, oggi come ieri, celebriamo a Pesach (o se -Hass-ve-shalom!- noi dovessimo dimenticarcene e ridimensionarlo), gli esseri umani si sarebbero in vario modo rassegnati al Male e ai più o meno invasivi e distruttivi rapporti di potere e di subordinazione esistenti, ritenendoli immutabili, inevitabili, giusti e addirittura preferibili rispetto alla libertà, alla sua durissima scuola e ai suoi rischi. "Pesach" ci insegna che il reale può sì essere corrotto e crudele ma che tuttavia esso può essere corretto, rovesciato e redento. Il Signore Dio ha insegnato agli ebrei tutto questo: non ci ha unicamente liberati. Con la rammemorazione continua della "yetziàt mitzraim" (l'uscita dall'Egitto) noi ci inseriamo in questa logica: uniamo reale e ideale; colleghiamo, riattivandoli, grandiosi e prodigiosi fatti passati al nostro presente e al nostro futuro; pervicacemente e concretamente affermiamo che, per la vita religiosa ebraica, liberazione significa investimento sul futuro delle prossime generazioni ebraiche.
Se Pesach ha impresso una svolta irreversibile nella storia dell'umanità, nessuno nega che ampie porzioni dell'umanità, inclusi gli ebrei, abbiamo spesso vissuto nell'indigenza e nell'oppressione, nella malattia e nell'ignoranza, subendo l'esercizio altrui del potere piuttosto che l'amministrazione di equità e giustizia, in contesti di indifferenza e ostilità. Gli ebrei, in particolare, sono colpiti con l'amarissima e mortifera piaga dell'antisemitismo, che ci accompagnerà di generazione in generazione e che oggi sta montando in vari ambienti tra loro diversi ed escludentesi, in maniera subdola, rapida e inquietante. Noi dobbiamo costantemente preparaci a fronteggiare l'antisemitismo, a comprenderne i meccanismi e, ove possibile, a disattivarli. L'antisemitismo non è morto con le armate di Faraone. E purtuttavia in quell'occasione unica, fondante e archetipica, la "debacle" dell'Egitto di Faraone ("Mitzràim"), coincise con la fine delle angustie e delle ristrettezze ("Metzàrim"): dall'esilio diasporico si è giunti, tramite il Sinài, in "Eretz Israel" Quello che Dio ha operato a Pesach si deve declinare in ciò che i nostri padri e le nostre madri fecero a Purìm e a Chanucchà. La sopravvivenza di Israele e della testimonianza di Dio in questo mondo offerta da Israele (attem 'Edài, "voi siete i Miei testimoni") è dunque responsabilità e volere sia di Dio sia, dopo il Sinai, anche di Israele stesso. L'azione umana - l'azione ebraica - è dunque fondamentale nell'ottica dell'Alleanza contratta millenni or sono tra Dio e il nostro Popolo, al di là del mare, sulle alture del Sinài: questo testimoniano Purìm e Channucchà.
Traendolo fuori dall'Egitto, a quel sopravvissuto resto di Israele l'azione divina ha instillato inevitabilmente alcuni caratteri indelebili, ancorché talvolta latenti. Pur in mezzo a sofferenze secolari, celebrando Pesach, ogni ebreo ha affermato e continua ad affermare l'esistenza di un Dio unico, onnipotente, provvidente e buono, che non corrisponde in alcun modo all'ipotesi razionale-accademica circa l'esistenza di un Dio unico forse, ma filosofico e astratto, per forza disinteressato rispetto alle vicende e alle sorti degli uomini: questa affermazione radicale dell'ebraismo sconvolge e sempre sconvolgerà il mondo (e anche taluni ebrei), pur restando per esso una calamita quasi irresistibile. Essere sopravvissuti, nonostante tutto e tutti, come Popolo Ebraico, è inoltre uno smacco a qualsiasi forma di potere e di globalismo, sia pure quello irenista-sincretista-buonista, e rievoca esattamente quanto accaduto, pur a carissimo prezzo, a Pesach. Noi siamo sempre un "resto" di qualcosa che è andato perduto, noi tutti siamo sopravvissuti. L'ebraismo e gli ebrei resteranno quindi sempre una contraddizione palese o latente, nonostante il nostro piccolo numero. E dunque, sia per un motivo sia per l'altro, tristemente, l'antisemitismo di generazione in generazione ci aspetterà acquattato dietro la porta, come fece 'Amalek, subito dopo Faraone e peggio di lui. Ma, di generazione in generazione, il Santo e Benedetto ci salverà dalle loro mani. Noi affermiamo anche questo a Pesach, fedeli a Dio e a noi stessi, esigenti con Lui e con noi. Il che significa che Dio ha vari modi per intervenire nella Storia, celati e manifesti. Quelli manifesti sono, come è noto, riassunti ed evocati dai quattro verbi che aprono la parashà di Vaerà nell'Esodo: "vi farò uscire", "vi libererò", "vi redimerò" e "vi prenderò". L'ultima espressione verbale indica una presa diretta, un afferrare deciso e quasi "in extremis", anche se chi è afferrato è forse titubante e reticente. E questo infonde, nonostante tutto, molta speranza e nuove certezze.
Mo'adim le-simchah! Pesach Kasher ve-Sameach!
(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, aprile 2017)
Razzo dell'Isis colpisce una serra di pomodori in Israele
di Chiara Brandi
La sirena che suona, i residenti che scappano, poi l'esplosione. Erano da poco passate le 11 e trenta del mattino di ieri quando un razzo lanciato dalla Penisola egiziana del Sinai ha rovinosamente distrutto una serra di pomodori nella regione di Eshkol, nel sud di Israele, al confine tra Egitto e la Striscia di Gaza. La polizia ha confermato che fortunatamente i danni sono stati solo materiali, seppur ingenti, e che l'attacco è stato subito rivendicato dall'Isis.
La serra era di proprietà di Chaim Cohen che, sebbene ancora sotto shock, ha riconosciuto l'enorme fortuna nel fatto che nessuna persona sia rimasta coinvolta nella tragedia. "Siamo in grado di affrontare e gestire i danni, l'importante è che non vi siano stati feriti. Purtroppo siamo già abituati a queste emergenze ma supereremo tutto e celebreremo la Pasqua come avevamo programmato", ha dichiarato l'uomo alla stampa locale.
Nelle ultime ore la situazione nella zona sta evolvendo tragicamente: dopo gli attentati di domenica in Egitto contro due chiese copte - che hanno lasciato a terre 43 vittime e oltre 100 feriti - e le minacce ad Israele, è stata chiusa la frontiera tra i due Paesi ma lo stato di allerta resta purtroppo ancora massimo.
(Salute News, 11 aprile 2017)
Dopo 17 anni oltre 200 imprenditori palestinesi potranno entrare in Israele con le loro auto
GERUSALEMME - Oltre duecento imprenditori palestinesi potranno entrare in Israele a bordo delle loro automobili dopo 17 anni. Lo ha detto oggi il portavoce del ministero degli Affari civili dell'Autorità nazionale palestinese, Walid Wahdan, al quotidiano israeliano "Jerusalem Post". A partire dall'inizio della seconda Intifada, iniziata nel 2000 e conclusa circa dieci anni fa, le autorità di Gerusalemme avevano vietato l'ingresso con i veicoli personali agli imprenditori palestinesi nel quadro del giro di vite contro il traffico di armi. Dopo che Israele ha approvato la decisione, la Federazione delle camere di commercio palestinesi hanno individuato i 270 imprenditori che hanno presentato la richiesta formale per ottenere il permesso, ha chiarito Wahdan. La lista è stata poi inviata all'organismo israeliano che coordina le attività nei Territori palestinesi (Cogat - una sezione del ministero della Difesa israeliano) che l'ha approvata in via definitiva.
(Agenzia Nova, 11 aprile 2017)
Nuova tecnologia israeliana rende immuni dagli attacchi informatici
Un ricercatore dell'Università Ben Gurion ha sviluppato un nuovo metodo che prevede "quasi il 100 % di protezione contro gli attacchi informatici lanciati attraverso video o immagini su internet". Per quanto riguarda la minaccia tecnologica che il Prof. Ofer Hadar vuole combattere, l'università spiega che "qualsiasi video scaricato o visto in streaming oppure le foto sono un potenziale veicolo per un attacco informatico". Il rimedio di Hadar per le vulnerabilità, soprannominato The Coucou Project, comporta l'uso di una serie di algoritmi per bloccare l'infiltrazione nei sistemi informatici e la sottrazione di dati attraverso video o immagini effettuata dagli hacker. La tecnica del professore si basa sulla steganografia, che l'università ha descritto come "un processo che nasconde un messaggio in un vettore appropriato, ad esempio un file di immagine". Come spiegato dallo stesso Hadar su Israel21c:
I risultati sperimentali preliminari mostrano che un metodo basato su una combinazione di tecniche di Coucou Project, si traduce in quasi il 100 % di protezione contro gli attacchi informatici.
Il ricercatore israeliano prevede che le aziende antivirus possano inserire il sistema di protezione Coucou nelle loro applicazioni e nei loro prodotti.
(SiliconWadi, 11 aprile 2017)
Montesilvano - Il vincitore di Masterchef Israele, Massimiliano Di Matteo, in visita in Comune
MONTESILVANO - «E' un onore aver ricevuto dal Comune di Montesilvano il riconoscimento per il lavoro che sto svolgendo. Voglio ringraziare il sindaco Francesco Maragno per l'attenzione dimostrata nei miei confronti». E' quanto affermato da Massimiliano Di Matteo, montesilvanese, vincitore di Masterchef Israele, che oggi in Comune ha incontrato il primo cittadino. E' nel settembre 2015 che Massimiliano Di Matteo ottiene il titolo di Masterchef in Israele, dove vive con sua moglie e i suoi figli. Con un'esperienza di 17 anni a New York, poco dopo essersi trasferito in una citta' a meta' strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, Di Matteo decide di iscriversi all'edizione israeliana del talent show dedicato alla cucina, arrivando dritto in finale, conquistando la giuria con i piatti della tradizione abruzzese, rivisitati in chiave israeliana.
E' quanto viene riportato in un comunicato diramato, poco fa, dal servizio stampa del Comune di Montesilvano. Il contenuto della nota, della quale si riporta testualmente il contenuto completo, e' stato divulgato, alle ore 15, anche mediante il canale web dell'ente, sul quale ha trovato ampio spazio la notizia.
«Erano piu' di 3 anni che non rientravo a Montesilvano - ha dichiarato Di Matteo, che dopo il grandissimo successo ottenuto, e' testimonial per importanti marchi, tiene corsi di cucina ed e' chef a domicilio -. Ricevere questa accoglienza e questo calore dalla mia citta' e' stata una grandissima soddisfazione. Mi piacerebbe poter diventare un vero ambasciatore della nostra tradizione culinaria in Israele. Sto lavorando per portare a Montesilvano e in tutto l'Abruzzo un turismo israeliano ricercato, per far conoscere la storia gastronomica italiana, che punta sulla qualita'».
«Ho incontrato questo giovane montesilvanese eccellente - ha dichiarato il sindaco Maragno, che ha donato a Di Matteo una medaglia raffigurante lo stemma del Comune - con enorme piacere. Di Matteo, con la sua creativita' e la sua passione, sta portando in alto il nome della nostra citta'. E' un professionista pieno di iniziativa e di ottime idee e sono convinto che si possa avviare un rapporto di amicizia e di scambio, proprio grazie a lui, con questo affascinante Paese che e' Israele. A lui vanno i complimenti e la stima a nome di tutta la comunita' per i risultati ottenuti sino ad oggi, e quelli senza dubbio ancora piu' soddisfacenti che sapra' raggiungere in futuro».
(AbruzzoNews, 11 aprile 2017)
L'Assemblea Capitolina apre con il ricordo del rastrellamento del Quadraro
ROMA - L'Assemblea Capitolina si è aperta con il ricordo del rastrellamento nazista della borgata romana del Quadraro avvenuto il 17 aprile 1944. Dopo l'ingresso del Gonfalone del Comune di Roma, decorato con la medaglia d'oro al valor militare, il presidente dell'Assemblea capitolina Marcello De Vito ha letto un messaggio della presidente della Comunità ebraica Ruth Dureghello, che ha ricordato come quella del Quadraro, "luogo singolare, quartiere popolare dove molti resistevano al regime nazifascista, si nascondevano molti ebrei", è stata la seconda retata, con i suoi quasi mille deportati, dopo quella del 16 ottobre 1943, che costò la libertà e la vita a 1022 ebrei. Dureghello ha ricordato che al Quadrato fu preso Michele Ascoli, "ebreo, ma catturato in quanto comunista, simbolo della partecipazione ebraica alla resistenza", ha sottolineato. In aula poi sono scorsi altri frammenti di questa brutta pagina della storia della capitale e del Paese: l'ex senatore Adriano Ossicini, rastrellato anche lui al Quadraro, ha ricordato in un audio la figura del parroco don Gioacchino Rey "che ha provato a avvisare il quartiere del rastrellamento. Ma non è riuscito a salvarli. Era un uomo coraggiosissimo, un uomo della resistenza, che ha creduto e ha combattuto. Non sembrava neanche un prete per quanto era coraggioso", ha spiegato Ossicini.
(askanews, 11 aprile 2017)
Da tutto il mondo sul Lago Maggiore per celebrare la Pasqua ebraica
Una tradizione ventennale: a Stresa e Baveno quattrocento ospiti
di Luca Gemelli
STRESA - Si rinnova la tradizione della Pesach, la Pasqua ebraica, sul Lago Maggiore dove a Stresa e Baveno due alberghi di lusso, il Regina Palace e il Simplon, sono interamente riservati a ospiti provenienti da tutto il mondo. L'appuntamento si ripete da 22 anni al Regina e da 7 al Simplon. Sono complessivamente oltre quattrocento gli ebrei ortodossi che celebrano sulle sponde del Verbano una delle più importanti festività ebraiche, quella dedicata alla liberazione dalla schiavitù in Egitto.
E' una ricorrenza che la tradizione vuole sia trascorsa con la famiglia, per questo nei due alberghi vi sono anche numerosi bambini. Il periodo della festività è quello che intercorre tra il 15o e il 22o giorno del mese di Nisan del calendario ebraico, di cui cade l'anno 5777, corrispondente quest'anno al periodo 10-18 aprile, che casualmente coincide con la Pasqua cattolica.
Per accogliere gli ospiti, gli alberghi vengono sottoposti a una vera e propria trasformazione: ad esempio viene effettuata una pulizia a fondo per eliminare da camere, locali comuni e cucine ogni traccia di cibo lievitato.
La Pasqua ebraica è conosciuta anche come la festa del pane non lievitato. Una simbologia che ricorda l'impossibilità di far lievitare l'impasto durante la fuga dall'Egitto. Sulla produzione degli alimenti vigono le strette regole Kosher. Il via alle celebrazioni è previsto stasera, lunedì 10, con la prima cena Seder, che si ripeterà anche domani: in queste speciali occasioni viene seguito un ordine particolare di portate (7) e preghiere. Nel corso delle due cene vengono narrati il conflitto con il faraone, le 10 piaghe e la fuga dall'Egitto. Il cibo servito è legato alla simbologia con l'uovo sodo per ricordare la distruzione del tempio di Gerusalemme, il sedano che rappresenta la primavera mentre le erbe amare sono la testimonianza del periodo trascorso in schiavitù. In queste occasioni vengono letti brani della Bibbia e storie tradizionali. Un particolare ruolo spetta ai bambini, a cui è affidato il compito di porre domande sulla ricorrenza.
Le prime due giornate della Pesach seguono le stesse regole dello Shabbat, il sabato ebraico (o festa del riposo) durante il quale è vietata ogni forma di lavoro. La definizione di attività lavorativa è però più ampia, così secondo l'ortodossia ebraica stretta il divieto si estende ad attività come l'accensione con l'interruttore delle luci, l'utilizzo del telefono e qualsiasi altra attività connessa all'elettricità. Per questo all'interno degli alberghi che accolgono gli ospiti vengono utilizzati accorgimenti come le porte elettriche fissate sul «sempre aperto».
Durante il periodo di permanenza agli ospiti vengono offerte gite alla scoperta delle bellezze del Lago Maggiore, così come sono organizzate attività per i bambini e nelle sere non riservate alle cene tradizionali vanno in scena spettacoli di intrattenimento. La capacità di gestire eventi per ospiti di religione ebraica ha aperto per i due alberghi nuovi canali commerciali: numerosi sono infatti i matrimoni di tradizione celebrati nel corso dell'anno a Stresa e Baveno.
Sugli ospiti vigila un discreto quanto minuzioso apparato di sicurezza, che coinvolge tutte le forze dell'ordine. Intorno ai due alberghi c'è un cordone di sicurezza che prevede anche il divieto di sosta nelle vie adiacenti le strutture, dove gli ingressi sono presidiati da pattuglie di polizia e carabinieri.
(La Stampa, 11 aprile 2017)
India, paramedici israeliani addestrano personale della Croce Rossa per il primo soccorso
Nel subcontinente il primato mondiale degli incidenti stradali: oltre 125 mila vittime all'anno. Infermieri di Magen David Adom (MDA) - organizzazione nazionale di emergenza israeliana - stanno trascorrendo due settimane di formazione degli istruttori indiani.
ROMA - Istruttori di primo soccorso e paramedici israeliani, Eliaz Mor e Amir Namyot dalla Magen David Adom (MDA) - organizzazione nazionale di emergenza-risposta di Israele - stanno trascorrendo due settimane di formazione degli istruttori in India, che fanno parte della Croce Rossa indiana. Fa parte di un progetto congiunto tra MDA, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) e la Croce Rossa indiano per migliorare la prima risposta in India, un paese soggetto a disastri e incidenti stradali. Le due organizzazioni presero contatti con MDA un anno fa, per una esplicita richiesta di aiuto per la formazione di alto livello di istruttori di primo soccorso indiani, che hanno nuove linee guida per le pratiche necessarie negli interventi di urgenza.
Il primo seminario l'anno scorso. Gli istruttori indiani insegneranno il primo soccorso ai civili indiani sulla base del nuovo programma. "Siamo felici di condividere le nostre conoscenze ed esperienze con gli altri", hanno detto Eliaz Mor e Amir Namyot. "Anche nel mondo di oggi, quando la tecnologia è radicata in tutti i ceti sociali, nessuno può sostituire una mano che preme verso il basso su una ferita sanguinante nei primi minuti di trattamento. Le competenze che questi istruttori stanno imparando sono veri e propri salvavita."
Il record mondiale di vittime. Sullo sfondo di tutto ciò c'è un Paese - l'India, appunto - con 1 miliardo e 300 milioni di persone con il primato mondiale del numero di incidenti stradali incidenti mortali sulle proprie strade, con oltre 125 mila vittime ogni anno. Al secondo posto, in questa drammatica classifica, c'è l'altro colosso asiatico, la Cina, che comunque vanta un numero di abitanti di almeno 200 milioni più popolosa. Del resto, chi ha avuto modo di conoscere anche solo una delle megalopoli indiane - Mumbay, New Delhi o Calcutta - può testimoniare direttamente il livello di pericolo che si corre camminando lungo le strade oppure salendo semplicemente su un taxi o sui tipici Tuk Tuk, le "Api" a tre ruote della Piaggio.
(la Repubblica, 11 aprile 2017)
Israele - La Pasqua tra gli ebrei ultraortodossi.
Durante la celebrazione della Pasqua ebraica si commemora la liberazione dalla schiavitù e l'esodo dall'Egitto di circa 3500 anni fa. La festività dura otto giorni per gli ebrei nel mondo, sette invece nella sola Israele dove quest'anno la settimana di Pasqua inizia ufficialmente al tramonto del 10 aprile.
I due principali comandamenti legati a questa festività sono cibarsi di pane non lievitato ed evitare di nutrirsi di qualsiasi cibo contenente lievito. Di qui il rituale in cui si brucia tutto ciò che contiene questo ingrediente.
Nella città di Bnei Brak, gli ebrei ultraortodossi bruciano gli alimenti lievitati, proibiti durante la settimana della Pasqua ebraica.
L'ebraismo ultraortodosso è una forma molto conservatrice dell'ebraismo ortodosso. I suoi seguaci considerano la loro dottrina estensione di una catena che fa capo a Mosè (che ha guidato l'esodo degli ebrei) e alla Torah (il libro sacro nel quale sono contenute le consegne del Signore date sul monte Sinai)
Oltre a Israele, comunità di ultra-ortodossi sono presenti in Nordamerica ed Europa.
(sky24, 10 aprile 2017)
Egitto in stato d'emergenza. Israele chiude le frontiere
Dopo la strage di cristiani copti, ieri l'Isis ha lanciato un missile dal Sinai contro lo Stato ebraico. Così il Califfo cambia strategia.
di Giordano Stabile
BEIRUT - Erano foreign fighters di ritorno i due egiziani che hanno fatto strage nelle chiese copte nella domenica delle Palme. Tutte e due hanno combattuto con l'Isis in Siria prima di far ritorno in Egitto, arruolarsi nella Provincia del Sinai dello Stato islamico e portare morte e distruzione in patria. Mentre ad Alessandria e Tanta si svolgono i funerali delle 45 vittime innocenti, e Papa Francesco conferma la sua visita il 28 e 29 aprile, nuovi dettagli gettano luce sulla strategia islamista che punta a fare del Sinai una piattaforma del terrore per colpire in tutto il Medio Oriente. Ieri, con un nuovo lancio di razzi verso il Sud di Israele, si è avuto un primo assaggio.
Cambio di strategia
Assediato a Raqqa e Mosul il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi sta pianificando il dopo. Un Califfato a «macchia di leopardo» che non controlla più interi Stati e città, ma si rifugia nei deserti e nelle montagne e di lì continua a destabilizzare i regimi arabi con attacchi contro i civili e azioni militari di più ampio respiro. È così nel deserto libico a Sud di Sirte, in quello fra Siria e Giordania, nelle province rurali dell'Iraq a maggioranza sunnita. Attacchi a catena contro luoghi di culto «miscredenti» e checkpoint di polizia ed esercito, persino campi per rifugiati.
Il Sinai, fra tutte le aree prese di mira, è il più promettente. Confina con Israele, è a un passo dalla Giordania e dall'Arabia Saudita. Alcuni elementi delle tribù Tarabin e Sawarka, che controllano il Nord della Penisola, in rotta con il governo del Cairo, hanno accettato di allearsi con i gruppi jihadisti. In particolare i Tarabin controllano le montagne verso la frontiera con Israele, mentre i Sawarka la zona della città di Al-Arish. Qui le cellule dell'Isis hanno condotto una «pulizia etnica» nei confronti delle centinaia di famiglie copte, con sette esecuzioni, compreso un uomo bruciato vivo, nel giro di tre mesi.
Nelle valli dei monti Hashem El-Tarif, controllate dai beduini Tarabin, si nascondono invece le postazioni di lancio di razzi katyusha usati per colpire Eilat e la punta meridionale di Israele. Ieri un ordigno ha colpito una serra nella località di Eshkol, senza fare vittime, anche se una donna è rimasta sotto choc per l'esplosione. Sono i giorni della Pasqua ebraica e il messaggio, come per la domenica delle Palme, assume anche una risonanza simbolica. Per ora l'Isis egiziano non ha i mezzi per compiere azioni in grande stile, e anche i tentativi di penetrazioni dell'interno, attraverso palestinesi radicalizzati, hanno dato scarsi risultati. Ma per la propaganda islamista è importante dimostrare di poter colpire lo Stato ebraico.
La vicinanza con Israele impedisce poi all'Egitto di dispiegare tutta la sua potenza di fuoco, anche se il governo Netanyahu, in deroga agli accordi di pace del 1979, ha concesso ad Al-Sisi di spostare mezzi corazzati nelle Penisola. Le forze della Provincia del Sinai dell'Isis sono valutate in 3-4 mila uomini, la copertura beduina, l'afflusso di combattenti di ritorno dalla Siria e anche dalla Libia, ne fanno una formazione temibile. I due kamikaze di domenica erano ben addestrati. Il primo, quello che ha colpito a Tanta, era andato in Siria, via Turchia, nel 2013, si era unito all'Isis ed era tornato in patria un anno dopo. Ventisette anni, nome di battaglia Abu Ishaq Al-Masri, era nato nel Delta del Nilo, si era laureato in Economia e aveva lavorato in Kuwait.
Il secondo, quello della cattedrale di San Marco ad Alessandria, aveva 43 anni, nato anche lui nel Nord dell'Egitto, un diploma tecnico, una moglie e tre figli. Anche lui aveva raggiunto la Siria nel 2013, via Libano. Due figli della piccola borghesia rurale, con studi medio-alti ma senza sbocchi lavorativi, il bacino di reclute e simpatizzanti per i gruppi islamisti, in un Egitto che non vede la fine della crisi, con una popolazione che cresce al ritmo del 2 per cento all'anno, oltre metà del cibo da importare, a prezzi sempre più cari per la svalutazione della lira egiziana, l'inflazione ormai al 30 per cento.
E' in questo clima che ì jihadisti vogliono scatenare l'odio e la guerra religiosa contro i cristiani. Per questo Papa Francesco, nonostante le strage e i rischi accresciuti, arriverà in Egitto il 28 aprile «per confermare e aiutare il dialogo», come ha riferito Marco Tasca, ministro generale dei Frati minori conventuali, dopo la visita di ieri del Pontefice. Una sfida all'Isis e alla sua ideologia di «amore per la morte».
(La Stampa, 11 aprile 2017)
"Quel muro ci protegge da immigrati e terroristi"
L'ambasciatore israeliano in Italia: "Giusta la reazione di Trump. La linea rossa è invalicabile"
di Gian Micalessin
L'ambasciatore israeliano Ofer Sachs
«Quello che ci conforta è stata la capacità di Donald Trump di reagire. Colpendo la Siria di Bashar Assad ha lanciato un messaggio al mondo. Ha fatto capire che non si possono superare alcune linee rosse. E questo avrebbe dovuto esser già stato fatto molto tempo fa».
Ofer Sachs, 45 anni, ambasciatore d'Israele in Italia da settembre, dopo 5 anni a Bruxelles come responsabile delle relazioni economiche con la Ue, non gira intorno all'ostacolo ed esprime il suo compiacimento per i 59 missili con cui Trump ha colpito la Siria.
«La posizione di Israele sulla Siria è molto chiara spiega - lasciamo alle grandi potenze come Stati Uniti, Russia e Ue le soluzioni per stabilizzare l'area e ci limitiamo ad agevolare i loro sforzi. Esistono però delle linee rosse assolutamente invalicabili. La prima è l'utilizzo di armi chimiche. La seconda è la presenza di personale iraniano in Siria e Libano. Israele non può accettare situazioni che rappresentano una diretta minaccia alla sicurezza dei suoi cittadini».
- Non esistono, però, prove concrete che quelle armi chimiche siano state utilizzate dal regime di Damasco...
«A noi risulta che Bashar Assad sia senza alcun dubbio l'unico responsabile di quell'attacco».
- Ma da dove è arrivato quel gas?
«Dagli arsenali di Damasco».
- Non sono stati distrutti nel 2014?
«Evidentemente l'accordo non è stato rispettato. La questione dirimente è anche morale. Non possiamo restare a guardare un dittatore che massacra il suo popolo. Non possiamo considerarlo l'interlocutore con cui negoziare il futuro della Siria».
- Il rischio è un caos simile a quello iracheno o libico...
«Scegliere tra il male e il peggio non mi sembra moralmente accettabile. Non vogliamo che la situazione in Siria finisca con la sconfitta dell'Isis».
- La dichiarazione del generale Herzy Halevi, capo della vostra intelligence militare ha fatto discutere. Che significa?
«Riteniamo che sconfiggere l'Isis in Siria non significhi decretarne automaticamente la scomparsa perché risorgerà da un'altra parte. Per questo è inesatto considerare Bashar Assad un antidoto efficace allo Stato Islamico».
- Per il rischio terrorismo avete bloccato quel confine egiziano dove avete già costruito un muro anti-migranti.
«La sicurezza è fondamentale. Quel muro è stato costruito per arginare l'arrivo di decine di migliaia di rifugiati provenienti dall'Africa. Accoglierli tutti per un Paese di otto milioni di abitanti è impossibile. E poi c'è il rischio di infiltrazioni terroristiche. Voi in Europa non avete voluto vedere il problema, ma il rischio seppur marginale - esiste e va considerato».
- Il presidente russo Vladimir Putin è il miglior alleato di Bashar Assad, ma anche un vostro interlocutore.
«È una relazione complessa, ma è indubitabile esiste una relazione molto forte tra noi e la Russia. E lo dimostra il numero d'incontri, molti dei quali legati alla sicurezza, tra i leader israeliani e quelli russi».
- Putin è stato più veloce di Trump nel riconoscere Gerusalemme come capitale. Trump fin qui l'ha solo promesso...
«Sul tempismo russo nulla da eccepire, ma il riconoscimento di Gerusalemme come effettiva capitale d'Israele è già avvenuto. Le delegazioni diplomatiche si spostano quotidianamente da Tel Aviv a Gerusalemme per incontrare i responsabili del governo israeliano. Quindi Gerusalemme è già la capitale di fatto dello Stato d'Israele».
- Matteo Renzi prima del referendum ha scritto ai residenti italiani a Gerusalemme, ma sulla busta ha scritto Palestina invece di Israele. Eppure dice di esser vostro amico...
«È stato un errore banale frutto delle interminabili sfide sull'argomento con i vicini dell'Autorità Palestinese. Alla fine però mi sembra che la maggior parte degli italiani concordi sull'idea che la sola capitale d'Israele è, e sarà sempre, Gerusalemme».
(il Giornale, 11 aprile 2017)
L'lsis smentisce Bergoglio: «Vi vogliamo tutti morti»
Le parole del pontefice offendono i terroristi
di Nicholas Farrell
Secondo i saccenti nostrani in materia, cioè i progressisti, solitamente atei, quando un musulmano si mette ad ammazzare civili occidentali gridando «Allah Akbar» questo non è «terrorismo islamico». Non c'entra «la religione della pace» - ci spiegano - con comportamenti di questo genere e dire il contrario è islamofobia, causata da ignoranza e razzismo. Ovviamente, tante gente normalmente «infedele» all'islam - come me ad esempio, come la maggioranza, scommetto - non è per niente d' accordo. Ma non lo sono neppure i terroristi islamici stessi.
Anzi. Sono arrabbiatissimi con la macchina del fango occidentale che vuole spiegare il loro terrorismo in tanti modi (pazzia, povertà, perversione, ecc.) ma evitando a tutti costi un nesso con la religione islamica. E ce l'hanno anche col Papa che sta per visitare l'Egitto fra poco per lo stesso motivo. A febbraio ha detto: «Non esiste il terrorismo islamico». Nella rivista online dell'Isis - Dabiq - c'è un editoriale lunghissimo scritto in inglese ed intitolato «Break the Cross» ( Spaccate la Croce) sul tema dell'ignoranza occidentale del terrorismo jihadista praticato in nome di Allah.
L'oggettivo dell'editoriale è di «correggere la falsa narrazione» sull'islam e spiegare chiaro e tondo «perché noi odiamo voi e perché noi combattiamo contro di voi». L'Isis, cioè Islamic State in Iraq and Syria, elenca in bianco e nero le motivazioni del suo terrorismo. Innanzitutto, noi occidentali dobbiamo morire perché non ci siamo convertiti all'islam e il Cristianesimo è blasfemia e offesa ad Allah punibile con la morte. Si legge: «Noi vi odiamo, prima e principalmente perché siete miscredenti; rifiutate l'unicità di Allah - anche se non ve ne rendete conto - voi siete colpevoli della blasfemia contro di Lui, pretendendo che Lui ha un figlio, voi fabbricate delle bugie contro i Suoi profeti e messaggeri, e commettete delle pratiche diaboliche di ogni tipo.
Non solo: la vostra miscredenza è la prima ragione per cui noi vi combattiamo; è la nostra fede che ci ordina di combattere i miscredenti finché non si sottomettono all'autorità dell'islam. Le penne dell'Isis si sentono in particolare offese da Papa Francesco perché ha detto più di una volta (più recentemente a febbraio) che non esiste «terrorismo musulmano» e che i jihadisti non sono motivati dalla religione e che i musulmani vogliono la pace e che il terrorismo commesso da musulmano è motivato dalla povertà. La loro unica motivazione invece, scrivono, è la religione come richede Allah nel Corano. «Questa è una guerra divinamente giustificata fra le nazioni musulmane e le nazioni della miscredenza». Ce l'hanno col Papa forse ancora più che con i progressisti probabilmente perché ha più peso spirituale.
Non è vero, dicono, che l'islam autentico secondo il Corano è contro la guerra e la violenza come sostiene il Papa che si nasconde dietro «un velo di buona volontà». Il messaggio dell'editoriale è chiarissimo: il dovere di ogni musulmano è di prender in mano la spada in nome del «più grande obbligo» di ogni musulmano genuino, cioè, la Guerra santa.
Nel frattempo gli attentati contro i cristiani in quelle chiese in Egitto domenica delle Palme vengono definiti - dal governo egiziano per esempio - assalti «contro gli egiziani» - cioè tutti - e dunque non contro solo cristiani. Mi dispiace: ma per capire il terrorismo islamico - ed islamico lo è - mi fido più dei terroristi stessi piuttosto che la sinistra progressista ed atea e persino del Papa.
(Libero, 11 aprile 2017)
Milano - 25 aprile, appello a Sala: «Stop agli anti Israele»
Brigata ebraica in campo, sfila anche Parisi. La lettera al sindaco: «C'è chi vuole cacciarla»
di Alberto Giannoni
Un appello al sindaco di Milano per fermare i boicottatori di Israele nel giorno della Liberazione. L'appello è firmato dall'Osservatorio sulle discriminazioni «Salomon», organizzazione di volontari attivi in particolare nella denuncia dell'antisemitismo. Sul sito degli Amici di Israele è comparsa una lettera, firmata dalla presidente Barbara Pontecorvo, che si rivolge al sindaco, dopo la notizia che al corteo del 25 aprile parteciperà anche una delegazione del «Bds», il movimento per il «Boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele». La Liberazione a Milano è ancora molto sentita e molto strumentalizzata. E il corteo, che tradizionalmente parte da corso Venezia per arrivare in Duomo, da anni è teatro della gazzarra delle frange estremiste dei centri sociali, che in piazza San Babila si ritrovano per contestare in funzione anti-israeliana le insegne della Brigata ebraica. «Noi ci saremo anche quest'anno - garantisce Davide Romano, il segretario degli Amici di Israele che ha riportato alla luce la storia della Brigata - più ne contestano la storia e più aumenta la nostra voglia di affermare la verità di quei cinquemila volontari ebrei e sionisti che lasciarono città come Tel Aviv e Gerusalemme per fare la guerra al nazifascismo. Per questo, contrariamente agli altri anni, stiamo lavorando perché la Brigata Ebraica sia ricordata anche nei giorni precedenti il 25 aprile. Dal Municipio 4 al Circolo della Pallacorda, passando per tante altre occasioni, i nostri contestatori facciano pure: più si mobilitano per negare la Storia, e più abbiamo richieste di raccontarla. I negazionisti vanno combattuti sempre: da quelli che negano la Shoah a quelli che negano la Brigata Ebraica». Ci sarà anche Stefano Parisi, oggi consigliere comunale e leader di Energie per l'Italia. Lo scorso anno partecipò come candidato sindaco anche l'altro candidato, l'attuale sindaco, andando a rendere omaggio alla Brigata. E a Sala l'avvocato Pontecorvo scrive: «La partecipazione del Bds alle manifestazioni per il 25 aprile è volta ad impedire la partecipazione della Brigata Ebraica, ad escludere e non a celebrare la liberazione dal nazismo che i fondatori di quello stesso movimento all'epoca abbracciarono».
(il Giornale, 11 aprile 2017)
La marchesa racconta come scoprì il bagno ebraico alla Giudecca
di Elojsa Burlò
Siracusa - Il bagno ebraico
SIRACUSA - A raccontarlo è la marchesa Amalia Danieli, proprietaria dell'hotel "Casa Bianca Mikvah" in cui è situato il più famoso bagno ebraico di purificazione rituale ancora intatto oggi esistente. Qui gli ebrei, per espiare i loro peccati, usando un rito simile a quello della confessione cristiana, si immergevano nelle vasche piene di acqua. Per l'appunto "Mikvah", che tradotto vuol dire bagno ebraico.
Racconta Amalia Danieli: "Immenso è stato lo stupore del ritrovamento mentre mi accingevo a far eseguire i lavori nello stabile da me acquistato: Un edificio patrizio situato in via della Giudecca, il quartiere più antico di Siracusa. Durante l'ultima fase di ristrutturazione avevo notato che attaccato al cortiletto vi era una costruzione non accessibile e fu questo a destare la mia curiosità. Così, insieme ad un muratore feci un buco nel muro scoprendo una piccola stanza piena di terra. Pulendola, con non poca difficoltà, trovammo una lunga scala che portava alla scoperta della sala posta a 18 metri di profondità, con quattro grosse colonne che sostenevano una volta a crociera. Al centro tre vasche e altre due stanzette attigue, dotate anch'esse di vasche. Nel fondo delle vasche trovai dei cocci. Decisi allora di informare il dottor Giuseppe Voza Sovrintendente ai beni culturali, il quale disse che dovevano essere esaminati. I cocci datavano il luogo a fine 1400. Malgrado questo, non riuscivo a capire cosa rappresentasse la stanza e che funzione avesse. Dopo svariate ricerche su internet riuscii a identificarne la natura "un bagno ebraico di purificazione". Tutto questo era ben distante dalla mia cultura, bisognava indagare a fondo. Decisi di recarmi alla Sinagoga di Roma, ma purtroppo non ebbi molti chiarimenti. Nei mesi a venire vennero due importanti studiosi e a seguire molti altri. Da qui cominciarono interviste e pubblicazioni. Il ritrovamento del bagno ebraico aveva destato una forte curiosità, tanto che la notizia e la storia fu tradotta su "Jerusalem post", un quotidiano israeliano di lingua inglese, con una versione anche in francese. Trascorsi trent'anni decisi di scrivere un libro che racconta sia la cronistoria dello stabile che la storia del ritrovamento. Il titolo è: "Cronaca di una scoperta", dal paradiso senza mele al bagno ebraico di Siracusa, edito da Siracusa Millennio. L'unico libro che ritengo completo a 360 gradi, pur essendoci diverse pubblicazioni, in quanto ricco di citazioni, documenti accompagnati da fotografie, dove narro anche della Sinagoga di San Giovanni Battista conosciuta nel gergo comune come la chiesa di San Giovannello ubicata in piazza del Precursore nel rione della Giudecca".
C'è una considerazione che vuole fare inerente alla Giudecca?
Sicuramente una maggiore attenzione per la pulizia, soprattutto perché questo influisce dal punto di vista turistico, influisce anche la poca chiarezza e il non avere un atteggiamento univoco per quanto riguarda i monumenti. Ancora oggi trovo assurdo che non si possa individuare precisamente una struttura, ad esempio la chiesa di San Giovanni Battista è una sinagoga con una cultura, non si può scrivere nella porta che non è mai stata una sinagoga, non si può dire che il pozzo di San Filippo è un bagno ebraico in quanto non vi sono documenti che lo testimoniano. Ritengo che sia sbagliato mistificare, ad esempio la via Giudecca non è tutta ebraica ma è anche cristiana, e queste due realtà coesistono.
(I fatti Siracusa, 10 aprile 2017)
Lancio di razzo Isis contro Israele
Nello scontro mondiale tra Occidente e Oriente, lo Stato dIsraele è come sempre storicamente unanomalia che rappresenta più di un problema allinterno dello scacchiere internazionale.
Avamposto doccidente e alleato Usa in pieno medioriente, molto vicino e confinante con lEgitto di Al Sisi, in questo momento tra gli obiettivi numero 1 del Califfato Isis e del terrorismo internazionale e soprattutto assai convinto sostenitore dellintervento in Siria contro Assad (che più volte assieme allIran hanno teorizzato la completa distruzione dello Stato israeliano). Ebbene, tutto questo in un clima da guerra mondiale vede questa mattina il lancio di un razzo dal Sinai egiziano verso il sud del Paese, con il governo di Gerusalemme che ha poi ricevuto la conferma e rivendicazione dellIsis dietro a questo attacco. Per fortuna non ci sono state vittime ma resta un dato simbolico nella condizione ormai da obiettivo sotto tiro che Israele rappresenta dal Califfato Islamico. Si temono ora attentati per via della Pasqua ebraica e la decisione di questa mattina del Consiglio Nazionale di Sicurezza è stata categorica: chiusura del confine di Taba con lEgitto per timori di attentati contro israeliani dopo quelli avvenuti ieri contro i cristiani. «Gli israeliani non potranno così passare la frontiera - che resterà chiusa fino alla fine della settimana di Pasqua - e sono stati invitati a rientrare immediatamente in patria qualora si trovassero nella penisola del Sinai», annuncia il governo di Gerusalemme con effetto immediato. La crisi mondiale è sempre più tesa.
(Fonte: ilsussidiario.net, 10 aprile 2017)
Pasqua: Vladimir Putin si è congratulato con la comunità ebraica della Russia
Il messaggio dice, in parte:
"Questa festa è un ricordo di un evento importante nella storia ebraica: la liberazione dalla schiavitù secolare. Le antiche tradizioni di tale evento sono apprezzati e trasmessi da una generazione all'altra. Durante questa festa, gli ebrei ricordano le origini e celebrano i valori del ricco patrimonio culturale e spirituale del giudaismo. Essi sono anche i valori globali perché si basano sugli ideali eterni della giustizia, la bontà e la preoccupazione per i nostri vicini.
È positivo che ci siano stati così tanti eventi positivi nella vita della comunità ebraica della Russia. Si stabiliscono nuovi centri religiosi ed educativi, aprendo musei e mostre e la promozione di relazioni internazionali. La comunità ebraica sta portando avanti attivamente lavoro filantropico e promozionale, ha notevolmente contribuito a rafforzare la pace interetnica e interreligiosa nel paese, ed è coinvolta nella formazione dei giovani ".
(Agenparl, 10 aprile 2017)
Israele si prepara a una Pasqua di terrore
Stasera al via la ricorrenza, con un rischio attentati (come sempre) altissimo
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - È Pasqua di terrore. Ieri l'orribile fantasma si è presentato di nuovo, stavolta ai confini, in Egitto, Netanyahu ha subito condannato la strage di cristiani copti, e promesso, come già avviene, un'alleanza contro il terrore. Gli attacchi sono avvenuti proprio negli ultimi momenti delle preparazioni per la serata dell'apertura della Pasqua ebraica che comincia stasera e che per una settimana intera ricorda, cancellando il cibo normale dalla mensa, la fuga degli ebrei dall'Egitto. Stavolta sono stati gli egiziani a pagare il prezzo dell'odio islamista: dal Sinai è stato facile per l'Isis passare alle città dove il boccone dei civili è più tenero e più facile, specie quando si tratta di cristiani copti. I copti sono forse i più antichi cristiani del mondo e tale è diventata l'abitudine a vederli perseguitati e massacrati (come nel dicembre, quando donne e bambini furono fatti a pezzi in una chiesa del Cairo).
L'odio terrorista per i copti non fa notizia, c'è un'abitudine collaborazionista, come per l'omicidio sistematico di mezzo milione di sunniti da parte di Assad e, naturalmente, per il terrorismo in Israele. Un esempio: durante le ore in cui tutto il mondo insorgeva per l'attacco che a Stoccolma ha fatto 4 morti, nella West Bank un'auto guidata da un terrorista palestinese si è lanciata su due giovani soldati: Elchai Teharlev, 20 anni, che stava portando il caffè ai suoi compagni, è stato ucciso, e un altro ragazzo è stato ferito. Sabato scorso un ufficiale di polizia e due civili sono stati attaccati con un coltello a Gerusalemme. In queste ore si avverte la popolazione, laconicamente, che i giorni di Pasqua sono una leccornia speciale, sia gli ebrei sia i cristiani sono in pericolo, le forze dell'ordine sono mobilitate, l'ingresso dall'Autonomia Palestinese bloccata.
Si è avuto sentore sui giornali italiani degli attacchi a Gerusalemme? Niente affatto: Israele, in questa Pasqua di libertà per l'ennesima volta si trova solo. In questo Paese che è il numero 11 nell'elenco dell'Onu che studia la soddisfazione di popoli (gli americani sono il numero 14) si combatte, dalla nascita, un'immane lotta di sopravvivenza dal terrorismo e la gioia per l'incredibile avventura della costruzione dello Stato ebraico, che fa di questo Paese l'episodio più felice della vita del popolo ebraico da quando, nel 70 dopo Cristo con la distruzione di Gerusalemme, iniziarono la diaspora e le persecuzioni in tutto il mondo. È un'avventura miracolosa: in Israele un incredibile 44,4% della popolazione è stato vittima o ha parenti e amici vittime di attacchi terroristici nei primi 19 mesi della seconda Intifada. Ma se nel 2002, nel mezzo di quella fase, il 92% disse di aver paura per sé o per la propria famiglia, il 76,6% disse che «comunque sapremmo cosa fare» e il 78,2 che «ci sarà sempre qualcuno intorno pronto ad aiutarmi in caso di difficoltà».
È vero: il senso di solidarietà e la quieta percezione del terrorismo non come di un episodio casuale e episodico ma qualcosa a cui essere sempre fisicamente e moralmente preparati, è un risultato di settant'anni di assedio terrorista e un esempio per tutti Paesi che cominciano purtroppo a sorseggiare questo amaro calice. I confini di Israele sono nel corso di questa Pasqua ancora più elettrici del solito, i terroristi sul confine egiziano, fra cui Hamas, hanno visto avanzare una stagione molto pericolosa quando Trump ha stretto la mano a al Sisi e a Adbullah di Giordania, e hanno subito risposto. Assad dopo l'attacco ai suoi Sukoy ha ora un atteggiamento imprevedibile, non a caso in queste ore i confini del Golan sono stati rafforzati, e certamente gli Hezbollah sono agitati. Nelle loro mani i centomila missili puntati su Israele, mentre al sud Hamas tiene la popolazione civile sotto tiro. Eppure questa generazione è la più fortunata della storia ebraica, e tale si sente: intorno al tavolo si festeggia il fatto di essere capace per la prima volta nella storia di combattere, di attuare sui nemici una straordinaria deterrenza per quanto l'odio islamico sia potentissimo e i palestinesi seguitino a educare la loro gente alla distruzione degli ebrei. «Ma cosa c'è di diverso?» chiede ogni anno il bambino che canta la canzone con cui si apre il seder. Molto è cambiato, molto davvero nella storia degli ebrei.
(il Giornale, 10 aprile 2017)
Inizia stasera la Pasqua ebraica
«Ricordiamo la nostra libertà, prima persa e poi ritrovata»
di Federica Gieri Samoggia
Rav Alberto Sermoneta
E' una delle feste più complesse, ma è anche quella che, forse, tocca di più il cuore dell'ebraismo: è la Pesach, la Pasqua ebraica. La traduzione è 'passare oltre', a ricordo del passaggio dell'angelo della morte che, di notte, andò oltre le case ebraiche per uccidere i primogeniti degli egiziani. Otto giorni (sette in Israele) che, con la comparsa delle stelle di oggi, lunedì 10, e fino alle stelle di martedì 18, scandiranno il cammino di ogni ebreo che, attraverso riti e simboli, «rivivrà l'uscita dalla schiavitù d'Egitto, perché solo attraverso il costante ricordo della perdita della libertà - spiega rav Alberto Sermoneta -, noi possiamo apprezzarne in pieno il valore». Una festa «solenne come il sabato» che, con l'uscita dall'Egitto degli ebrei e il successivo esodo, racconta di «un'acquisita libertà; una libertà - sottolinea il rabbino capo - che al centro pone il rispetto del prossimo e delle sue tradizioni. La vera schiavitù in Egitto non era tanto materiale quanto morale, perché agli ebrei venne tolta la loro individualità».
Ecco perché con la Pesach e la lettura dell'Haggadah durante la cena del Seder (ordine, ndr ), «celebriamo il momento in cui abbiamo conquistato il diritto a essere un popolo libero». Suggellando la cena del Seder con «l'augurio: l'anno prossimo a Gerusalemme». Caratteristica della Pesach, è la totale assenza di chametz, cibi lievitati. Un 'allontanamento' che prelude ad una grande pulizia della casa, 'liberata' da ogni forma di lievitato e culmina la domenica sera, vigilia di Pesach, con la ricerca del chametz per la casa (10 pezzettini di pane nascosti, ritrovati e poi bruciati). «Durante la Pesach - osserva rav Sermoneta - ogni gesto presuppone che venga tramandato di generazione in generazione, facendo sì, però, che il racconto nasca da una sollecitazione dei figli a porre domande».
Rientrati dalla preghiera serale in sinagoga, le famiglie ebraiche si riuniscono per la cena del Seder che si caratterizza anche per la messa in tavola di cibi simbolici: tre azzimi (pane non lievitato e basso, indice di umiltà); un vasetto con un impasto di frutta dolce (l'impasto dei mattoni in Egitto); sedano (cresce sottoterra e, da maturo, getta fuori le foglie) da intingere in un mix di aceto o acqua e sale (le lacrime delle madri ebree cui gli egiziani uccidevano i figli maschi); erbe amare; zampa di agnello e uova sode (simbolo di vita e solidità degli ebrei). «La festa di Pesach - conclude il rabbino - è considerata l'inizio delle redenzione del popolo ebraico che, nel corso secoli, si è augurato che di Pesach possa avvenire la salvezza di tutta l'umanità».
(il Resto del Carlino, 10 aprile 2017)
Dopo il duplice attentato alle chiese copte, Israele chiude la frontiera con l'Egitto a Taba
Israele ha chiuso con effetto immediato il valico di confine di Taba con l'Egitto per il timore di attacchi a israeliani dopo gli attentati di ieri al Cairo e ad Alessandria contro due chiese copte, mentre si celebrava la messa per la domenica delle Palme. Oggi inizia la Pasqua ebraica e già ieri Tel Aviv aveva esortato i suoi cittadini a non recarsi nel Sinai egiziano o a lasciare "immediatamente" la regione. "Il sanguinoso attacco riflette ancora una volta la capacità terrorista dell'lsis", ha scritto in un comunicato l'ufficio antiterrorismo del governo israeliano. "Alla luce della gravità della minaccia, l'ufficio consiglia a tutti gli israeliani attualmente nel Sinai di partire immediatamente e di ritornare in Israele".
L'ufficio antiterrorista israeliano aveva già emesso il mese scorso un "warning" simile sul Sinai, una destinazione popolare fra gli israeliani durante le vacanze pasquali. La chiusura della frontiera - la prima da tempo - non riguarda i cittadini di altri Stati ma solo gli israeliani. La decisione - è stato spiegato - è stata presa alla luce di "informazioni concrete" su un attacco programmato contro cittadini israeliani nella area del Sinai.
Il valico di frontiera di Taba si trova a poca distanza di Eilat, nel sud del paese, che è la porta per la Penisola del Sinai. La scelta di impedire il passaggio ai cittadini dello stato ebraico è stata presa dal ministro dei trasporti Yisrael Katz, insieme a quello della difesa Avigdor Lieberman e a esponenti dell'apparato di sicurezza. Katz, oltre ai trasporti, ha anche il portafoglio dell' lntelligence e dell'energia atomica. Taba per gli israeliani resterà chiusa fino al 18 aprile, fine di Pasqua ebraica.
Egitto: lsis minaccia altre stragi, al Sisi dispiega le forze speciali
Stato di emergenza, in Egitto, dopo i due attentati di ieri alle chiese copte del Cairo e di Alessandria, che hanno segnato con morte e terrore le celebrazioni della domenica delle Palme. L'lsis ha rivendicato gli attacchi, messi a segno da due cittadini egiziani. Ha minacciato altri attentati contro "i miscredenti che pagheranno con il sangue dei loro figli, che scorrerà a fiumi".
Un problema grosso per il presidente al Sisi, che vede ancora una volta rimessa in discussione dai fatti quella sicurezza che aveva ripetutamente garantito agli egiziani al prezzo, alto, di una militarizzazione del Paese. Ieri contro i vertici del Cairo è esplosa l'ira della gente che a Tanta ancora affollava l'area antistante la chiesa di San Giorgio, la prima a essere colpita : "Il governo non ci protegge", hanno urlato di fronte all'imponente barriera di forze di sicurezza arrivate troppo tardi, sebbene fossero riuscite a disinnescare due ordigni esplosivi nella moschea Sidi Abdel Rahim di Tanta. E al-Sisi, in serata, ha ordinato il dispiegamento di unità speciali dell'esercito per garantire la sicurezza nei luoghi più sensibili dell'Egitto; e ha dichiarato 3 mesi di stato di emergenza: comporta la sospensione del diritto alle manifestazioni di ogni genere e le adunate di oltre cinque persone, consente fermi per un periodo indeterminato, estende i poteri delle forze di polizia, permette procedimenti giudiziari per civili a opera di tribunali militari.
Intanto, il presidente ha incassato la solidarietà dei paesi europei - dall'Italia alla Germania, alla Francia - e degli Usa, della Turchia e quella 'bipartisan' di Israele e Palestina.
La comunità copta in Egitto
La comunità dei cristiani copti in Egitto conta circa il 10% della popolazione e l'attentato di oggi arriva a pochi mesi di distanza da quello del dicembre scorso, quando 25 persone furono uccise e 49 ferite nell'attentato della Cattedrale di San Marco, la più grande chiesa copta della capitale egiziana che si trova nel distretto Al Abbasiya del Cairo.
Solo dal 2013 vi sono stati una quarantina fra aggressioni di cristiani e attacchi a chiese, in pratica un episodio al mese, con decine di morti. L'epicentro delle violenze è l'Egitto rurale e in particolare la regione di Minya, il turbolento governatorato con il mix esplosivo di un 35% di popolazione cristiana e un forte radicamento jihadista.
(Fonte: RaiNews, 10 aprile 2017)
Trump dovrebbe utilizzare l'acqua per concludere negoziati di pace
GERUSALEMME - Il ministro dell'Agricoltura israeliano, Uri Ariel (partito Bayit Yehudi), ha inviato un messaggio al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, tramite il quotidiano "Jerusalem Post": "gli Stati Uniti dovrebbero perseguire la pace tra Israele, i palestinesi e i paesi limitrofi utilizzando come strumento negoziale l'acqua, una delle risorse più preziose e scarse del Medio Oriente. Ariel ha avanzato una proposta di "pace economica", lo stesso termine usato da Netanyahu quando tornò alla presidenza del Consiglio dei ministri israeliana otto anni fa. Il progetto, sottolinea la "Jerusalem Post", suona sorprendentemente simile ai piani del defunto presidente Shimon Peres per un "Nuovo Medio Oriente". "E 'sbagliato non fare nulla", ha detto Ariel. "Ciò che si può prendere in considerazione è la pace economica: attingere a fondi a livello mondiale, dalla Giordania e dall'Egitto, e investire in Giudea e Samaria, comprese le zone sotto l'Autorità nazionale palestinese". La Cisgiordania, ha detto Ariel, potrebbe conseguire la prosperità come canale di transito per il gas, l'energia elettrica e l'acqua israeliane verso la Giordania: risorse di cui il regno hascemita ha tanto più bisogno oggi, che si trova a fronteggiare il massiccio afflusso di rifugiati siriani.
(Agenzia Nova, 10 aprile 2017)
Lorgoglio del Negev
Grazie al calcio, Beer Sheva ha messo la testa fuori dal guscio
Alona Barkat, proprietaria e presidentessa dell'Hapoel Beer Sheva
"Noi rappresentiamo la rivalsa delle periferie, il riscatto del Sud". Così spiegava un tifoso dell'Hapoel Beer Sheva a Pagine Ebraiche lo scorso autunno. Tifoso arrivato insieme ad altre migliaia di concittadini a Milano per vedere la sua squadra di calcio israeliana giocare - e vincere - contro l'Inter, in quello che è stato un nuovo capitolo della sorprendete parabola del Beer Sheva squadra ma anche della città stessa: l'Hapoel, come già raccontato su queste pagine, lo scorso anno ha infatti vinto il campionato, riportando dopo quarant'anni nel Negev il titolo e facendo esplodere di gioia un'intera realtà, spesso presa in giro - più o meno bonariamente - all'interno del Paese.
Alla domanda sul come sia vivere a Beer Sheva, una città che in Israele molti descrivevano come un posto dove "vai, concludi i tuoi affari, e levi le tende il più velocemente possibile", risponde: "Se vieni da fuori e guardi Beer Sheva pensi sia una città brutta. In realtà qui noi abbiamo tutto, siamo felici, se la conosci dall'interno non manca nulla, ci sono prospettive. È cambiata negli ultimi anni così come è cambiata la nostra squadra. Siamo passati dall'essere l'anonima città del Sud, che invidia Tel Aviv, a una realtà viva, che nel calcio riesce a stare davanti ai miliardari del Maccabi (Tel Aviv, squadra più vincente d'Israele)". Beer Sheva, nel colpo d'occhio generale, rimane una città bruttina. Ma nonostante l'estetica, gli studenti non fuggono più come in passato. Amitai, studente di scienze politiche, spiega che "un tempo nel weekend la città si svuotava. Tutti tornavano a casa. Ora molti rimangono e si passa insieme il tempo a Beer Sheva. Chi torna invece da mamma e papà, viene preso in giro e bollato come mammone".
Ma Beer Sheva non è solo una città universitaria. E soprattutto un esempio della periferia di Israele, quella più emarginata e meno abbiente. Luogo di immigrazione russa e misrachi, realtà a lungo economicamente depressa, con una disoccupazione più alta rispetto al nord e strade e abitazioni a tratti fatiscenti; un luogo che faceva difficoltà ad attirare investimenti, incanalati verso quella Silicon Wady che gravita attorno a Tel Aviv e che costituisce il cuore pulsante della Startup nati on. Ora ( dagli anni duemila), come si diceva, il vento sembra essere cambiato, tanto che nel 2015 il governo ha ideato un progetto volto a rendere la città un centro dell'high tech israeliano (l'idea è di portare circa 2500 lavoratori a lavorare nell'area, attraverso alcuni incentivi, tra cui sulla casa). Ma di nuovo a segnare la strada di questo cambiamento sembra essere stato la squadra dell'Hapoel Beer Sheva: l'arrivo nel 2007 di Alona Barkat - prima, e al momento unica, donna a guidare una squadra di calcio israeliana - ha segnato la storia della società, riportando l'entusiasmo tra i gamalim (i cammelli, come si sono autosoprannominati i tifosi del Beer Sheva) e gli investimenti sia in termini economici sia sociali. Nonostante gli errori iniziali, la Barkat ha portato l'Hapoel in alto, addirittura più in alto di tutti, risvegliando l'orgoglio dell'intera città: in centomila hanno festeggiato quest'estate la vittoria del campionato.
Una città che si definisce una comunità, come recita una lista pubblicata online che elenca cinquanta motivi per cui è bello vivere a Beer Sheva. Ad esempio perché "fornisce tutti i servizi di una grande città metropolitana, ma la gente non ha perso l'atteggiamento da piccola città. Qui è ancora possibile conoscere tutti i tuoi vicini.
(Pagine Ebraiche, aprile 2017)
"Assad è il nostro nemico, non Israele"
Lo dicono i feriti siriani curati in Israele. La testimonianza di un medico arabo druso delle Forze di Difesa israeliane.
Sette feriti siriani - due bambini, quattro donne e un uomo - aspettano nel dolore che scenda il buio per attraversare il confine ed entrare in territorio nemico. Loro sono siriani, il territorio "nemico" è Israele. Sotto un debole chiaro di luna, i membri del corpo medico delle Forze di Difesa israeliane fanno passare rapidamente i pazienti attraverso quella che è una frontiera ostile e li caricano su ambulanze blindate dirette verso ospedali israeliani attrezzati per la terapia intensiva. E' una scena che si ripete continuamente dal 2013, quando l'esercito israeliano ha iniziato a prendersi cura dei civili siriani feriti nei feroci combattimenti interni che imperversano a pochi chilometri di distanza. In questo modo silenzioso e discreto Israele ha già curato circa 3.000 pazienti, per il 20% bambini: un numero destinato ad aumentare con l'inasprirsi degli scontri nella vicina Siria a seguito del recente attacco con armi chimiche e del conseguente attacco missilistico statunitense....
(israele.net, 10 aprile 2017)
Gaza: Israele avvisa Onu su imminente crisi umanitaria
Israele ha avvertito l'Onu sulla incombente crisi umanitaria a Gaza a causa dei forti problemi alle sue infrastrutture.
Il generale israeliano Yoav Mordechai capo del Coordinamento di governo per i Territori (Cogat) in una lettera inviata al rappresentante dell'Onu Nikolay Mladenov ha sottolineato le responsabilità dell'Autorità nazionale palestinese per l'attuale situazione e per non cercare di risolvere i problemi.
Per Mordechai circa il 96% dell'acqua non è considerato potabile e la continua mancanza di elettricità ha causato ore di blackout nella Striscia che sono da addossare all'operato di Hamas. "Invece di preoccuparsi del benessere dei residenti - ha insistito Mordechai - Hamas li danneggia e crea difficoltà agli organismi internazionali che lavorano duramente per supplire alle mancanze" energetiche.
(swissinfo.ch, 9 aprile 2017)
Ebrei in America, tra libertà e nuovi razzismi
Cimiteri vandalizzati, allarmi bomba, svastiche sui muri di templi e scuole. Gli Stati Uniti sono ancora una terra di libertà e sicurezza per gli ebrei del mondo? Sì, dicono storici e analisti. Malgrado le cronache, siamo ancora molto lontani dai livelli di antisemitismo di Paesi come la Francia.
di Anna Lesnevskaya
Nathan, 30 anni, si chiede se Brooklyn sia ancora lo stesso quartiere che ha accolto i suoi bisnonni in fuga dai pogrom russi. La stessa domanda se la pone Ester, 56 anni, di origine siriana, i cui nonni lasciarono Aleppo nel 1946, per essere accolti tra le braccia muscolose e accoglienti degli States. Anche Sabrina, famiglia originaria di Mashad, cresciuta a Milano e da poco espatriata nella comunità persiana di Long Island (NY), si chiede che cosa stia succedendo nel bengodi americano, da sempre terra di libertà per tutte le minoranze, patria comune di tutti i fuggiaschi, ebrei in primis. Dall'inizio dell'anno non è passata una settimana senza che un'organizzazione ebraica negli USA non abbia ricevuto minacce e comunicazioni minatorie. Non passa giorno che l'Anti Defamation League (ADL) non aggiorni la propria mappa di luoghi o enti colpiti: i casi si estendono dalla East Coast al Pacifico, dal Nord al Sud. Stando alle cronache, nel mese di febbraio, due cimiteri ebraici, uno a St. Louis e l'altro a Filadelfia, hanno subito atti vandalici e profanazioni, una specie di Carpentras americana, come è stata chiamata l'escalation, in riferimento al famigerato caso del cimitero vandalizzato nel 1990, nel Sud della Francia. I sei milioni di ebrei americani - la comunità più vasta dopo quella di Israele - sembrano aver riscoperto da un giorno all'altro il pericolo del vecchio antisemitismo. Allarme, preoccupazione, certo. Storici e analisti minimizzano e ridimensionano, ma il fatto c'è e chiede di essere decodificato. Gli Stati Uniti sono ancora una grande terra di libertà o si stanno trasformando in un paradiso perduto? Gli analisti segnalano che, in realtà, il fenomeno non è nuovo, l'avversione nei confronti degli ebrei ha radici lontane nella recente storia americana; ma stavolta c'è un dato di novità, sottolineano. Ovvero che la vittoria di Donald Trump sembra aver legittimato quei gruppi di Suprematisti bianchi dell'estrema destra neonazista (che lo hanno votato in massa), sdoganandone la xenofobia e la violenza. E senza voler cedere all'allarmismo, molti esponenti di Congregation ebraiche sostengono che la Casa Bianca non stia facendo abbastanza per condannare l'antisemitismo. Mentre l'FBI indaga sulle responsabilità, la Comunità ebraica americana è polarizzata: i falchi del campo repubblicano - che hanno tifato per Trump - fanno quadrato e rinfacciano quest'impennata dell'antisemitismo ai progressisti. Secondo i dati dell'ADL, dai primi di gennaio ad oggi, circa la metà dei Centri Comunitari Ebraici (JCC) negli USA, precisamente 72 su 151, hanno ricevuto telefonate o mail minatorie per un totale di circa 150 episodi in due mesi. In alcune organizzazioni, infatti, l'allarme bomba è scattato diverse volte, causando evacuazioni e provocando l'angoscia e la rabbia degli iscritti. Asili, palestre, corsi di cucina per anziani, tutto questo si trova nei JCC, dove gli ebrei statunitensi, spiega la scrittrice Jennifer Weiner sul New York Times, portano avanti da sempre le normali attività della quotidianità ebraica. Infatti, scrive Weiner, i JCC erano stati pensati proprio per facilitare l'integrazione degli ebrei nella società Usa.
Il disprezzo antiebraico negli Usa non è mai stato così forte dal 1930, ha dichiarato Jonathan Greenblatt, direttore dell'ADL, durante una conferenza a New York intitolata "Never is now!" (mai è adesso). «La nostra comunità, non vedeva un tale livello di antisemitismo in politica e discorsi pubblici dal 1930. Purtroppo, questo coincide con l'aumento dell'odio verso altre minoranze». Greenblatt ha anche passato in rassegna gli attacchi antisemiti durante la campagna presidenziale del 2016. «L'antisemitismo ha continuato a proliferare. Secondo alcune statistiche divulgate dall'FBI, gli ebrei soffrono di crimini religiosi due volte di più che gli altri gruppi religiosi. Tuttavia, niente di paragonabile con quanto accade nella vecchia Europa e in particolare in Francia, dove l'antisemitismo ha superato da tempo il livello di guardia.
A febbraio una mail minatoria è arrivata anche al Jewish Center, che ospita una delle sinagoghe di riferimento dell'Upper West Side di Manhattan, quartiere liberal, situato a pochi passi da Central Park. Come ci racconta Rav Yosie Levine, rabbino Modem Ortodox, «alcuni dei membri sono preoccupati, ma nessuno ha ancora cambiato il proprio stile di vita a causa di queste minacce. Non dobbiamo essere allarmisti, - dice Rav Levine. - Non ce n'è motivo e non c'è un solo posto in questo Paese dove finora mi sia sentito in pericolo in quanto ebreo». Levine aggiunge, tuttavia, che non ricorda di aver mai sentito che un cimitero ebraico negli USA sia stato profanato. Finora. Come è invece accaduto il 20 febbraio quando un intero sobborgo di St. Louis (Missouri), si è risvegliato scoprendo che quasi 200 monumenti funebri al cimitero ebraico di Chesed Shel Emeth erano stati buttati a terra. Per una triste coincidenza, è il cimitero dove sono sepolti gli avi della giornalista Ariana Tobin che raccoglie per il sito ProPublica i dati sulla recente impennata di crimini d'odio in America. Le tombe di questi emigrati dall'Est Europa sfuggiti all'Olocausto sono rimaste indenni. Ma la giovane Tobin ha raccontato il suo stupore quando i genitori le hanno parlato di voler investire il denaro contante e le monete d'oro per dotarsi di un fucile, nel caso "la situazione peggiori". Lo scempio si è ripetuto il 26 febbraio al cimitero ebraico di Mount Carmel a Filadelfia (Pennsylvania), con più di 100 tombe vandalizzate. E ancora, il 2 marzo una dozzina di tombe è stata profanata al cimitero di Vaad Hakolel a Rochester (New York). A questo si aggiungono diverse sinagoghe vandalizzate, come quelle di Chicago (4 febbraio) e di Ohio (6 marzo), con numerose svastiche e altre scritte antisemite rinvenute in giro per gli States che, accanto a frasi tipo "bruciate gli ebrei", inneggiavano a Trump ( come è avvenuto in un bagno di una scuola a Newton, Massachusetts).
«Non ricordo un altro periodo in cui i Suprematisti bianchi si sentissero a tal punto i benvenuti alla Casa Bianca», ha detto in un'intervista Oren Segal, Direttore del Centro Studi sull'Estremismo dell'ADL, a New York. I media hanno documentato come Richard Spencer, leader del movimento ultranazionalista Alt-right, abbia gridato a una conferenza, dopo la vittoria di Trump alle presidenziali, "Heil Trump!", sulla falsariga del saluto nazista. L'organo di stampa di riferimento di Alt-right è il sito Breitbart News fondato inizialmente con istanze-paravento filoisraeliane, ma che finì per veicolare retorica antisemita. Breitbart era diretto da Steve Bannon prima che questi diventasse stratega di Trump alla Casa Bianca.
(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, aprile 2017)
«Gerusalemme capitale di Israele»
«La Russia è pronta a riconoscere» subito «Gerusalemme Ovest capitale di Israele e la parte est quale capitale del futuro Stato palestinese». Lo ha dichiarato il ministero degli Esteri di Mosca secondo quanto riferisce il «Jerusalem Post» sottolineando come nessun altro Stato riconosca alcuna parte di Gerusalemme quale capitale di Israele. Gerusalemme Est, o la città vecchia, è stata conquistata al termine della Guerra dei Sei Giorni nel giugno del 1967 dagli israeliani; lì sorge il luogo più sacro per gli ebrei, il muro del pianto, ciò che resta del tempio di Gerusalemme distrutto dalle legioni romane di Tito nel 70 d.C., sulla cui sommità sorge la spianata della moschee, terzo luogo sacro per l'Islam dopo La Mecca e Medina. Secondo fonti del quotidiano «l'ambasciatore russo a Tel Aviv è pronto a incontrare funzionari del ministero degli esteri israeliano nei prossimi giorni per discutere la decisione di Mosca e le sue implicazioni».
(Libero, 9 aprile 2017)
Gerusalemme ovest capitale di Israele? No grazie, Russia
di Roberto Giovannini e Riccardo Ghezzi
Gerusalemme ovest sia capitale di Israele, la parte est vada alla Palestina. Così ha parlato la Grande Madre Russia. In questa presa di posizione, molti analisti hanno visto un avvicinamento tra Netanyahu e Putin, dopo l'incontro dello scorso marzo e una telefonata avvenuta proprio ieri. Di più: è stato ipotizzato addirittura che Israele stia per costituire un asse con la Russia, scavalcando gli Usa di Trump.
Niente di più falso: il riconoscimento di Gerusalemme ovest come capitale di Israele non è affatto un "favore" a Netanyahu, anzi. Israele ritiene che la sua capitale sia Gerusalemme unita e indivisibile, stessa opinione degli Usa da almeno 30 anni.
Gli Stati Uniti, pur avendo ancora mantenuto l'ambasciata a Tel Aviv, riconoscono infatti Gerusalemme come capitale di Israele.
La Russia, affermando di voler assegnare Gerusalemme est allo stato di Palestina, non fa altro che sottrarre ad Israele luoghi sacri anche per la cultura ebraica come il Kotel (Muro del Pianto) e il Monte del Tempio. Di peggio, ci sarebbe solo il mancato riconoscimento dell'esistenza stessa di Israele.
Il riconoscimento di Gerusalemme Ovest come capitale di Israele da parte dei russi va anche letto come un tentativo di inserire questioni esterne ad una situazione allo sbando, che sia una concessione o un ammonimento.
Di fatto, la presa di posizione russa su Gerusalemme coincide con le tante farneticanti risoluzioni ONU che considerano la Città Vecchia, il Kotel e tutta la parte orientale della città "territorio palestinese occupato". A fronte dell'inesistenza di un "territorio palestinese" nel 1966 - o in qualunque era precedente - e a fronte del fatto che quella linea armistiziale ("confini del 1967") fu siglata tra Israele e Giordania e non rappresenta, in base al diritto internazionale, alcun confine.
Quello che cambia è il percorso politico: nel caso delle risoluzioni ONU (non solo quella dell'UNESCO) si può parlare tranquillamente di negazionismo, nel caso del riconoscimento russo di Gerusalemme Ovest di un passo avanti (meglio una parte, che niente). Le reazioni alla notizia, sulla stampa israeliana, sono sembrate abbastanza tiepide. Ma il tempismo è stato pessimo, comunque la si pensi. Lo status della capitale di Israele con lo sfacelo in Siria non c'entra niente. Una dichiarazione del genere si presta molto facilmente ad essere letta, specialmente in quella parte del mondo islamico (e palestinese) contrario all'esistenza di Israele, come una provocazione inaccettabile. Un tentativo di utilizzare un argomento ultra sensibile per i propri scopi personali. Gettare benzina sul fuoco in un momento del genere potrebbe essere l'ennesima decisione sciagurata di una situazione già di per sé complicatissima.
(L'informale, 7 aprile 2017)
Il vero "affare" Dreyfus
Torna in libreria il testo con cui Lazare ricostruì l'errore giudiziario. Ma a colpire oggi è la coscienza di assistere alla prova generale del Novecento, in cui i pretesti nascondono ragioni geopolitiche e finanziarie.
di Riccardo De Benedetti
Forse è lo scrittore Charles Péguy a descrivere con esattezza il ruolo di Bernard Lazare, quando in La nostra giovinezza, del 1902, anno della morte, e a caso quasi concluso, afferma: «La grande massa degli ebrei non ha mai teso al proprio grande, anche se triste, destino, se non quando è stata costretta con la forza. Nella grande crisi in cui erano caduti Israele e il mondo, il profeta era Bernard Lazare». La crisi a cui si riferiva Péguy era proprio I'affaire Dreyfus che nell'ultimo decennio dell'Ottocento coinvolse la società francese, politica e istituzionale, popolare e culturale, in un esperimento di violenta polarizzazione tra colpevolisti e innocentisti. Il capitano Dreyfus, ebreo, veniva accusato e condannato, sulla base di prove inattendibili, per aver passato a potenze straniere informazioni sui dispositivi di difesa della Francia. La campagna contro Dreyfus fu condotta con particolare accanimento dai giornali cattolici e nazionalisti ("La Libre Parole" di Drumont il famoso autore di un libello di successo, La France juive, 200 edizioni in 25 anni; "La Cocard e", "La Croix" e decine di altri), suscitando il riemergere del limaccioso sentimento plebeo fatto di paure e fobie mai del tutto superate.
Nelle piazze della Francia del 1894 si gridava "morte agli ebrei!", come per secoli lo si era fatto attribuendogli pestilenze, catastrofi naturali, carestie e malanni vari. Tornava in auge un capro espiatorio facile e da sempre a portata di mano, reso fin troppo disponibile dalla debolezza dello stesso mondo ebraico. Diviso tra coloro pienamente assimilati nella società, anzi, fin troppo, tanto da occuparne i piani alti della finanza e dell'economia, e gli esclusi che non partecipandovi finivano per essere due volte oppressi: prima dalla loro posizione sociale, che condividevano con la maggioranza della popolazione francese ugualmente sfruttata e poi dal resto dei loro stessi correligionari, ai quali il meglio che gli si potesse attribuire era l'indifferenza, il peggio la volontà di cancellare frettolosamente ogni segno della loro appartenenza (la prosa di Proust che descrive le evoluzioni dei salotti parigini è, al riguardo, più di una cronaca immaginaria).
In questa complessa stratificazione di problemi, che certo non risparmiava i cattolici, che comunque dovevano fare i conti con la loro finanza e con le loro élite, ugualmente indifferenti alle sorti di quello che una volta si chiamava il "popolo minuto", l'opera di Bernard Lazare getta una luce tagliente e rigorosa. La ricostruzione dell'errore giudiziario che condanna il capitano Dreyfus viene fatta entrando nel vivo della polemica, con una determinazione nell'affrontare lo stesso Drumont, il capofila dell'antisemitismo francese del tempo, stupefacente. Ci saranno poi gli Zola, i Péguy e i molti altri che prenderanno posizione, ma quella di Lazare rappresenta la prima e migliore ricostruzione delI'affaire.
La strategia di Lazare è doppia. Da una parte riconosce "teoricamente" le "necessità" dell'antisemitismo: costruire un nemico interno per rafforzare la lotta con l'esterno, vale a dire un altro nazionalismo, quello tedesco essenzialmente. E dall'altra smontare il "caso" nella sua fattualità, svelandone la costruzione fittizia; le manovre disinformanti; i rapporti tra persone, gruppi e luoghi nei quali si costruivano prove inesistenti e si anticipavano condanne non ancora emesse al di là di ogni corretta procedura, tanto che, nelle intenzioni di Lazare, la difesa di Dreyfus non si doveva distinguere dalla difesa della libertà e della giustizia tout court. Diciamo che il caso Dreyfus nella penna di Lazare, e con gli occhi di ciò che successe dopo, ha rappresentato la prova generale dell'antisemitismo novecentesco, ma anche della possibilità di combatterlo con metodo e intelligenza, nella quale i cattolici non hanno fatto una bella figura. Non tanto per effetto di un giudizio retrospettivo che impone quello di oggi su ciò che comunque andrebbe valutato con gli occhi del momento, quanto per il fatto che è direttamente un ebreo a contrastare gli antisemiti, a svelarne le vere ragioni, e a chiarire che il "dagli al banchiere ebreo" è un modo per evitare di trovarsi nelle piazze il grido di "dagli al banchiere cattolico". Dove Lazare fa capire benissimo che il rafforzativo "teologico", le accuse al popolo deicida nascondono, più che un discutibile teologema, una vera e propria truffa, a svelare la quale avrebbero dovuto essere per primi proprio i cattolici.
(Avvenire, 9 aprile 2017)
Israele - Le celebrazioni della Liberazione
Per guardare al futuro bisogna guardare al passato
Miri Regev, Ministro della Cultura di Israele
E' stato approvato il piano del governo per celebrare i 50 anni dalla liberazione della Giudea, Samaria, Valle del Giordano, e le alture del Golan.
"La guerra dei sei giorni - ha detto Benjamin Netanyahu - è stata una delle più grandi vittorie nella storia di Israele. Una vittoria che ha significato molto per Israele che ha riconquistato un pezzo del passato ed ha completamente cambiato Questo ci ha portato indietro a parti della nostra patria e ha cambiato completamente la nostra situazione strategica. Il mezzo secolo rappresenta una tappa importante che celebreremo come si deve con una serie di eventi.
Quello principale si terrà luogo presso Kfar Etzion e ringrazio il ministro della Cultura Miri Regev (Likud) e il ministro dell'Istruzione, Naftali Bennett (Jewish Home) per la loro collaborazione nella promozione di queste celebrazioni ".
Regev ha ringraziato Netanyahu per le sue parole e disse: "Queste celebrazioni interessano ogni israeliano, dal momento che queste terre sono state e sempre saranno il cuore di Israele. Queste sono le aree in cui il nostro padre Abramo visse, questi sono i luoghi dove la nostra nazione ha avuto inizio. Ogni luogo trasuda di storia ebraica. La nostra profonda connessione con queste aree è al di sopra di ogni disaccordo politico. Israele riceve grande sicurezza strategica dalle alture del Golan e dalla catena montuosa in Giudea e Samaria. I coloni che vivono in queste aree sono riempiti con la visione e gli ideali sionisti.
"Quest'anno, Israele celebrerà la liberazione di Gerusalemme, Giudea e Samaria, Valle del Giordano, e le alture del Golan", ha detto Bennett. "Una nazione che si preoccupa per il suo futuro dovrà sempre guardare al suo passato, e continuare l'eredità dei suoi padri."
(Italia Israele Today, 9 aprile 2017)
In frantumi le Bibbie degli ebrei
La «Notte dei cristalli» nel novembre 1938 non fu solo un assalto a cose e uomini ma puntò alla distruzione dei testi sacri.
di Giulio Busi
Il primo problema è come chiamarla, quella notte d'inferno. Kristallnacht, la «Notte dei cristalli», non si dice forse così? Profonda, interminabile pece, con le sinagoghe che bruciano, i libri della Torah strappati, trascinati per strada, gli ebrei ammassati, vilipesi, battuti.
In autunno, le notti in Germania durano a lungo. Quella tra il 9 e il 10 novembre 1938, di notte, non è più finita. Per il giudaismo tedesco, antico di secoli, che risaliva ai castelli e ai borghi del medioevo, la mattina non è mai venuta. Troppa distruzione, uno schianto senza riparo, che segna la fine irreversibile di tutto quanto era esistito sino ad allora. Se ci riflettete bene, i cristalli vi sembreranno troppo poco. Non si sono rotti solo i vetri. Non è stato un frenetico San Silvestro, trasceso in eccesso. Un mondo intero è finito in fiamme, incenerito, in un sabba sguaiato. Dagli anni Ottanta del secolo scorso, sulla stampa e nei libri di storia in tedesco, si usa di solito il termine Novemberpogrom, ovvero il «pogrom di novembre», per non perpetuare la definizione riduttiva di «Notte dei cristalli», che quasi certamente deriva dagli stessi nazisti. Ma anche se usate un termine più appropriato, la vera natura dell'evento rischia di rimanere nascosta, inafferrabile.
I fatti sono noti. Il 7 novembre, un ebreo polacco diciasettenne, Herschel Grynszpan, spara a un funzionario dell'ambasciata tedesca a Parigi, che muore per le ferite due giorni dopo. La notte del 9, gli uomini delle SA e delle SS, secondo un piano concordato a livello nazionale, conducono attacchi mirati a negozi e imprese ebraiche, incendiano le sinagoghe, e mobilitano i vigili del fuoco affinché evitino alle fiamme di estendersi alle proprietà degli "ariani". Gli ebrei vengono rastrellati nelle loro case, spesso costretti a dar fuoco ai templi, a cantare inni nazisti, a insozzare i loro stessi oggetti rituali. Sono condotti in cortei umilianti in giro per le città, picchiati, spediti in decine di migliaia nei campi di detenzione. Le scene si ripetono il giorno successivo, e si estendono all'Austria. Qual è lo scopo di una simile, macabra azione collettiva, che riempie di rovine i centri storici? «Kurfürstendamm sembra un campo di battaglia», scrive inorridito l'ambasciatore lettone. È la strada più elegante di Berlino, con i suoi negozi sfavillanti, ora fracassati e razziati. Dal 1933, dalla presa di potere nazista, gli ebrei sono oggetto di violenze e intimidazioni quotidiane. Ora, però, le dimensioni stesse degli eventi proiettano la brutalità su di una scala che sembrava inimmaginabile. Perché?
Capire, misurare il significato profondo delle devastazioni del novembre 1938 è lo scopo del volume di Alon Confino, portato in libreria da Mondadori. Secondo Confino, a saperla interpretare, quella notte contiene un messaggio eloquente. Sinagoghe, negozi, case ebraiche, l'elenco di quanto viene stravolto è terribile ma, in un certo senso, non sorprende. Perché, però, anche la Bibbia? Come mai i nazisti hanno distrutto pubblicamente i rotoli della Torah, perché hanno profanato il libro che è anche alla base della religione cristiana? Il significato di un'azione simbolica - questo è il ragionamento - va cercato nell'immaginario collettivo. Le fiamme di novembre servono a mostrare, spudoratamente, quello che i nazisti vogliono, ovvero una Germania senza ebrei. E senza Bibbia ebraica. Confino è molto sottile nel dipingere il carattere amorfo, illogico, oscillante dell'immagine che i nazisti hanno dell'ebraismo. È un coacervo di razzismo pseudoscientifico, di pregiudizi religiosi, di atavico anti-giudaismo cristiano, di invidia sociale, di paura della modernità.
«Ebreo» diviene così un contenitore che può accogliere tutto e il contrario di tutto, dal contagio comunista all'ingordigia capitalistica, dalla corruzione diabolica alla cospirazione mondiale anti-tedesca. L'ebreo è lo specchio rovesciato in cui guardarsi, che suscita, allo stesso tempo, disprezzo e paura. Quella nazista è una comunità emozionale, che deve fare i conti con un'identità tedesca fragile e storicamente incerta. «Il potere attribuito agli ebrei - scrive Confino - quali artefici di qualunque cosa era una fantasia che poggiava sull'angoscia». L'unico modo di liberarsi dall'ansia della storia, diviene così azzerare il passato, ed eliminare il popolo che più d'ogni altro rappresenta la continuità e la tenacia della memoria. Confino è convinto che i roghi di Bibbie, che accendono il novembre 1938, significhino il desiderio d'incenerire le basi giudaiche del cristianesimo. Rimosso il retaggio ebraico, negata l'ebraicità stessa di Gesù, cancellati gli ebrei dal suolo della nazione tedesca, la nuova storia può davvero cominciare. Confino allarga in cerchi successivi la propria indagine, dal 1938, verso gli atti di fondazione del governo nazista, nel 1933. Se fosse risalito ancora più indietro, ai primi anni Venti, avrebbe potuto parlarci di due libri sorprendenti e tragici: La città senza ebrei, dell'austriaco Hugo Bettauer - uscito nel 1922 e trasposto in film, nel 1924, da Hans Karl Breslauer - e Berlino senza ebrei di Artur Landsberger, pubblicato nel 1925. Sono due taglienti e paradossali racconti di cosa sarebbe successo se gli ebrei fossero stati cancellati dalle metropoli europee. Non c'è bisogno di dire che entrambi gli scrittori erano, anch'essi, di origine ebraica, e che pagarono carissima la loro preveggenza. Bettauer fu ucciso da un estremista di destra nel 1925, Landsberger si tolse la vita nell'ottobre 1933, dopo essere stato ripetutamente attaccato dai nazisti. L'intolleranza si accanisce contro chi riesce a intuirla, smontarla, esporla in tutta la sua meschina stupidità.
Alon Confino, Un mondo senza ebrei. L'immaginario nazista
dalla persecuzione al genocidio, Mondadori. Milano, pagg. 334, € 22
(Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2017)
Nuove proteste a Gaza contro i tagli agli stipendi dei dipendenti pubblici
GERUSALEMME - Una nuova ondata di manifestazioni di protesta ha avuto luogo questa mattina a Gaza contro i tagli agli stipendi dei dipendenti pubblici palestinesi. Lo riporta il quotidiano libanese "The Daily Star", secondo cui decine di migliaia di persone sarebbero scese in piazza a Gaza City. La decisione di ridurre del 30 per cento i salari degli impiegati pubblici nella Striscia di Gaza è stata presa in settimana dall'Autorità palestinese (Anp) e ha già provocato dimostrazioni di protesta nei giorni scorsi. Questa mattina i manifestanti sono tornati a chiedere al presidente palestinese Mahmoud Abbas di rimuovere i vertici del governo. Alcuni, inoltre, hanno annunciato l'inizio di uno sciopero della fame.
(Agenzia Nova, 8 aprile 2017)
Lia Levi: "Shalom, cinquant'anni per ricordare che con Israele possiamo difenderci"
La scrittrice e giornalista racconta l'ebraismo italiano: "Tramandiamo la memoria ai ragazzi"
di Ariela Piattelli
Lia Levi dopo aver diretto per trent'anni la rivista «Shalom» ora si occupa anche di incontrare i ragazzi delle scuole
ROMA - Da bambina scrisse una lettera a se stessa: «Cara Lia, ricordati che da grande devi fare la scrittrice». Lia Levi aspettò più di sessant'anni prima di diventare una tra le voci letterarie della memoria dell'ebraismo italiano. Nata nel '31 a Pisa da una famiglia piemontese, con l'emanazione delle leggi razziali del '38 vive le conseguenze dell'esclusione degli ebrei dalla vita pubblica. E di quel dramma racconterà nei suoi libri. Nel '67 fonda il mensile di informazione e cultura ebraica Shalom, e dopo una lunga carriera giornalistica, con il suo primo romanzo Una bambina e basta, pensato per gli adulti, Lia conquista inaspettatamente l'attenzione dei più giovani, a cui dedicherà molte opere.
- Come ha iniziato a conoscere il mondo?
«La mia era una famiglia ebraica borghese, più legata alle tradizioni che alla religione. Ero una bambina timida e a Torino frequentavo una scuola pubblica. Un giorno mia madre mi disse che non potevo più andarci. Erano state emanate le leggi razziali. Non mi spiegò le ragioni, ma nell'atmosfera di artificiosa normalità che celava ciò che stava accadendo, io percepivo l'angoscia. Così ho conosciuto il mondo. Poi ci spostammo a Roma, con l'8 settembre, i miei genitori decisero di nascondere me e le mie sorelle in convento. Ci restammo sino alla Liberazione».
- Ed è sulla memoria delle leggi razziali che lei torna costantemente nei suoi libri.
«L'ispirazione arrivava da li. Per questo sono diventata scrittrice, dovevo raccontare quella storia. Ho iniziato con Una bambina e basta, dove affronto anche il tema della difficoltà di comunicazione tra adulti e bambini. È un breve libro con la grande storia nelle pieghe, e ha fatto sì che ci fosse un processo di identificazione dei ragazzi. Con il mondo dei giovani c'è stato un avvicinamento naturale. Poi con loro è stato un crescendo».
- Nel '67 ha fondato «Shalom», che ora compie cinquant'anni. Come nacque quell'esigenza?
«Lavoravo all'ufficio stampa della Comunità Ebraica di Roma e con lo scoppio della Guerra dei Sei Giorni vivemmo un periodo di grande angoscia. In molti temevano che Israele fosse spazzata via. Alberto Baumann lanciò l'idea di fondare un giornale per spiegare le ragioni dello Stato d'Israele. Così nacque Shalom, che diressi per trent'anni, e a cui collaborarono, oltre a una schiera di giornalisti promettenti, anche firme affermate, come Aldo Garosci, Giorgio Israel, Tullia Zevi, Alberto Nirenstein, e Arrigo Levi. L'anima politica di Shalom fu Luciano Tas, il mio compagno di vita. È stato tra le personalità più significative della storia ebraica italiana».
- Quali sono i fatti più importanti raccontati da «Shalom» negli anni della sua direzione?
«L'operazione Entebbe, quando gli israeliani liberarono gli ostaggi fu un grande riscatto per gli ebrei nel mondo. Titolammo "Le selezioni di Auschwitz sono finite ad Entebbe", era un modo per sottolineare che con lo Stato d'Israele gli ebrei potevano difendersi. Poi raccontammo la ferita dell'attentato alla sinagoga di Roma nell'82. Shalom fece sentire la sua voce, lanciando un "J'accuse" a gran parte del mondo politico e della stampa italiana, che contribuirono all'atmosfera antisemita e antisionista in cui si consumò l'attentato. La rivista aveva anche l'obiettivo di occuparsi di cultura: fummo i primi a dare spazio ai grandi scrittori ebrei: Roth, Singer, Yehoshua e tanti altri».
- Lei ha iniziato a scrivere libri a più di sessant'anni. Perché non l'ha fatto prima?
«Da bambina leggevo moltissimo e tutto. Quando scrissi la lettera a me stessa, avevo paura che i libri nel mondo non bastassero. Ho scritto sempre narrativa, ma la tenevo per me. Facevo parte della schiera degli scampati, e mi sembrava blasfemo raccontare la mia storia, drammatica ma non tragica. Poi ho iniziato a pubblicare negli Anni 90 quando in Italia si tendeva a minimizzare il ruolo delle leggi razziali, che portarono alla Shoah. Questo mi spinse a raccontare la mia memoria».
- Quale memoria vuole tramandare?
«È la memoria di un ebraismo sopraffatto dalle leggi razziali, dove incombe sempre la Shoah. Non l'ho vissuta, ma ne conosco l'atmosfera, la scure che piombò su di noi. Attingo al pozzo della mia memoria che non ha fondo, e così prendono forma i miei personaggi, da Dino, professore ebreo specializzato in Pindaro (L'albergo della Magnolia), a Regina e Corinna (Tutti i giorni di tua vita), donne ebree degli Anni 20, e a Leone, un bambino timido come me, che con coraggio fa un salto per salvarsi dai nazisti».
- Pensa che con il Giorno della Memoria si corra il rischio di una banalizzazione del ricordo?
«Io sono in polemica con tutti quelli che criticano il giorno della memoria. Secondo me è molto importante, perché è un modo di elaborazione, in cui si inseriscono ogni anno giovani e narrazioni sconosciute. Penso ad esempio al cinema che ha elaborato in questi anni molte storie nuove sulla Shoah. La banalizzazione è un rischio, è vero, ma anche quella si combatte con la conoscenza e con l'elaborazione. Gli incontri con le scuole sono diventati una dimensione della mia vita, e parlo con giovani che vogliono conoscere la storia».
- Adesso sta lavorando ad un nuovo romanzo. Può anticiparne il tema?
«Sto scrivendo un romanzo liberamente ispirato a Luciano Tas. Era un carattere poliedrico. Da bambino era un piccolo genio, saltò due classi e andò avanti. Fu anche un oppositore di natura. Per me è una sfida letteraria, perché mira a ricreare la sua complessità. La chiave di racconto è legata ai problemi del nostro tempo: si tratta dell'eterno dilemma di chi è in grave pericolo, è meglio restare e nascondersi o fuggire al di là della linea di confine?».
- Che cosa rappresenta l'ebraismo italiano oggi?
«Ciò che è sempre stato. L'ebraismo è il pepe della società in cui è vivo. La discussione è il suo elemento caratterizzante, e contribuisce alla vitalità culturale di un Paese. Come spiega il grande rabbino britannico Jonathan Sacks, l'ebraismo è una religione fatta di dibattiti e domande».
(La Stampa, 8 aprile 2017)
Italia e Israele - Il gemellaggio Sorrento-Eilat
Sorrento
Eilat
Vantano entrambe una storia millenaria, ma hanno in comune soprattutto la vocazione turistica. Sorrento si prepara a gemellarsi con Eilat, città dello Stato di Israele che sorge sulle rive del Mar Rosso. L'iniziativa è partita dall'amministrazione comunale di Eilat, la quale ha già approvato una risoluzione in merito.
Finalmente ci siamo. Il gemellaggio tra le città di Sorrento ed Eilat avverrà il 2 maggio nella cittadina della splendida costiera in provincia di Napoli. Alle cerimonie, che dureranno tre giorni, presenzierà - tra gli altri- anche il vice ambasciatore di Israele in Italia, Dan Haezrachi, oltre al presidente dell'Associazione Italia-Israele di Napoli Giuseppe Crimaldi. Il sindaco di Sorrento, Giuseppe Cuomo, ha interpellato l'ambasciata italiana a Tel Aviv che ha confermato l'interesse da parte della città di Eilat ad intraprendere relazioni con l'area sorrentina. Per questo sono stati avviati dei contatti tra le due amministrazioni, con il coinvolgimento, in particolare, dell'ufficio Relazioni internazionali dell'ente di piazza Sant'Antonino.
Ora, dopo le verifiche effettuate, il Comune di Sorrento ha concluso l'accordo per il gemellaggio.
La delibera del Consiglio comunale di Sorrento relativa al gemellaggio è stata già trasmessa alla Regione Campania, al dipartimento per gli Affari regionali della presidenza del Consiglio dei Ministri ed al ministero degli Affari Esteri. "Il gemellaggio con Eilat - ha dichiarato il sindaco di Sorrento Giuseppe Cuomo - potrebbe aprire la strada ad un turismo di incoming verso Sorrento di grande interesse per le attività economiche locali. Flussi favoriti anche dall'attivazione, lo scorso anno, di un volo di linea diretto tra Napoli e Tel Aviv e l'imminente inaugurazione di un nuovo scalo aeroportuale proprio ad Eilat".
(Italia Israele Today, 8 aprile 2017)
Aerei: Israir collega Rimini e Tel Aviv
Atterrato il primo Airbus 320 della compagnia israeliana
RIMINI - E' atterrato all'aeroporto Fellini di Rimini il primo Airbus 320 della compagnia israeliana Israir, proveniente da Tel Aviv, con 171 turisti giunti a passare le feste pasquali in Romagna.
"Quando si lavora con una logica di sistema si ottengono risultati importanti per l'intero territorio", commenta l'amministratore delegato di AIRiminum 2014, Leonardo Corbucci.
"L'esperienza e i numeri di Verona, con circa 100mila passeggeri per la tratta Verona-Tel Aviv, stanno a testimoniare che quando si agisce in maniera coordinata e sistemica si ottengono spesso risultati importanti per l'intero territorio. Ieri al 'Fellini' abbiamo assistito ad un diverso modello di turismo, con esigenze diverse cui la Romagna dovrà abituarsi nei prossimi anni: le circa 40 prenotazioni da Tel Aviv per il noleggio auto lo stanno a dimostrare".
(ANSA, 8 aprile 2017)
Trump e il ritorno al passato: Stati Uniti gendarmi del mondo
L'America lancia un avvertimento a dittatori e terroristi. E sul Medioriente cancella i tentennamenti di Obama
di Fiamma Nirenstein
Gli Stati Uniti sono tornati. È una svolta mondiale l'evento di ieri mattina alle 3,45, quando Trump ha deciso che l'attacco chimico di Assad a Khan Sheikhoun nella provincia di Idlib, tanti morti bambini, e 546 feriti, era un insopportabile peso per gli Usa e per il mondo intero, e ha risposto.
È finita la festa, la grande kermesse sciita-russa che aveva così bizzarramente occupato lo spazio egemonico della maggioranza sunnita ragionevole in Medio Oriente non potrà più esagerare nel disprezzo delle più elementari regole di decenza della nostra epoca con la scusa, per altro molto ben sostanziata delle atrocità di Daesh. È vero, lo Stato Islamico è altrettanto orribile. Ma non di più di quello che è successo a Idlib. Trump ha agito velocemente, senza preavviso, come si deve per evitare che le chiacchiere possano distruggere la riuscita e lo spirito dell'azione, tutte le beffarde osservazioni sulla sua passione per Twitter si infrangono sulla pragmaticità dei tempi giusti e dell'accuratezza del tiro. A Shayrat, il campo di aviazione da cui si sono alzati gli aerei carichi di Sarin, si è abbattuta la dose davvero notevole di 59 missili Cruise Tomahawk, roba forte, dopo, per altro, gli avvertimenti per evitare stragi specie di militi russi.
L'attacco cambia lo stato morale e strategico del mondo: prima di tutto, è proibito davvero usare le armi di distruzione di massa. Non sono solo chiacchiere come fu con l'accordo fallito del 2013, che a Obama servì di fatto a scansarsi dalle responsabilità di bloccare Assad dall'uso delle armi chimiche (aveva già ammazzato più di mille persone a Damasco). Adesso è davvero proibito, e non solo ad Assad ma anche per esempio agli hezbollah, agli Iraniani, alla Corea del Nord, a altri dittatori delinquenti di avventarsi come lupi affamati sulla popolazione civile con gas e simili. Perché? Perché altrimenti, manda a dire Trump, ti spariamo.
Trump dunque, quando diceva «America first» non invocava l'isolamento, ma al contrario la condivisione di una morale comune accettabile dall'americano medio.
Trump ha anche notificato qui che la sua amicizia coi russi è sottoposta regole. Che non travalica i parametri morali comuni, che non funziona quando Putin sostiene un dittatore impazzito (l'intelligence israeliana ha studiato bene Assad, e lo definisce uno psicopatico in senso tecnico); per ora la Russia protesta con un certo ritegno, nessuno crede né che il gas fosse di Daesh né che il fatto che l'Onu freni abbia un qualche significato. Anzi, un prodotto collaterale della vicenda può essere una rimessa in riga del Consiglio di Sicurezza. Lavrov ha certo detto che l'amicizia ne verrà danneggiata, e allora? E allora probabilmente poco o niente, anche perché il presidente russo per quanto intelligente e attivo, sa bene la sua Guerra Fredda è imperfetta, non è forte come un dittatore sovietico. Assad, altro risultato, può piantarla di agire come una belva sanguinaria decisa a regnare comunque: il suo tempo come rais sta per finire. E gli hezbollah, resi dagli iraniani fra i maggiori giocatori, possono pensare che i missili che passano ora dal territorio siriano nelle loro mani per distruggere Israele quando gli iraniani decideranno, possono essere fermati.
Trump con questo gesto restituisce forza al processo di pace fra Israele e i palestinesi, perché collateralmente scoraggia il terrorismo, rafforza i sunniti moderati, manda un serio avvertimento all'Iran per il rispetto degli accordi sul programma nucleare, avverte i russi che nessuno ha dato a Putin la patente per una nuova egemonia sovietica in Medioriente. Avverte così anche l'Isis che il suo spettacolo di orrore non continuerà a lungo. Di là dall'oceano non c'è più ormai il giovane presidente che amava dire «we are very concerned», siamo molto preoccupati, e poi non faceva niente. Forse il festival di orrore onnicomprensivo, in cui alle decapitazione e alla vendita delle donne ha fatto da contrappasso l'uso delle armi chimiche, si avvia al tramonto.
(il Giornale, 8 aprile 2017)
"L'America è tornata e Israele ne è grato"
Parla l'ambasciatore Ofer Sachs: "Ora il mondo libero ha bisogno degli Stati Uniti. Europa, svegliati!"
di Giulio Meotti
L'ambasciatore israeliano Ofer Sachs
ROMA - Se per gli Stati Uniti la "linea rossa" dell'uso di armi chimiche in Siria è lontana un oceano, per Israele è una minaccia nel cortile di casa. Di fronte al primo attacco con gas in Siria quattro anni fa, Israele distribuì 3.700 maschere antigas al giorno. Da allora, l'uso della "bomba nucleare dei poveri", così sono chiamate le armi chimiche a Damasco, si è fatto sempre più disinvolto, fino alla strage di Khan Sheikhun. Per questo ieri il premier israeliano, Benjamin Netanyanu, ha offerto "pieno sostegno" all'attacco militare americano. Il viceministro per la Diplomazia, Michael Oren, ha detto che c'è "un nuovo sceriffo" in città, intendendo che "l'attacco indica che l'America è tornata" e che "i nostri nemici comuni devono avere paura". "Penso che Trump abbia già fatto molta strada per ripristinare la credibilità americana in medio oriente", ha detto Dore Gold, ex stretto consigliere di Netanyahu.
"C'era uno standard morale in Siria che era stato violato assieme a ogni linea rossa e la nuova Amministrazione ha preso la decisione giusta", dice al Foglio l'ambasciatore israeliano in Italia, Ofer Sachs. "E' il segnale che il mondo occidentale doveva dare a Bashar el Assad molti mesi fa. Il mondo libero guidato dall'America non può accettare l'uso di armi chimiche contro i civili".
In Siria, ma più in generale in medio oriente, si viene da otto anni di appeasement e disimpegno sotto due mandati di Barack Obama. Chagai Tzuriel, direttore generale del ministero dell'Intelligence di Israele, ha definito il rifiuto di Obama di usare la forza nel 2013 dopo un attacco chimico a Damasco come "il momento chiave nella regione". "Quando c'è un vuoto, l'islam radicale e i regimi radicali entrano al posto degli americani", continua al Foglio l'ambasciatore israeliano in Italia, Ofer Sachs. "L'America ha un ruolo di leader globale e noi israeliani siamo incoraggiati dalla decisione presa due giorni fa".
Il ministro israeliano dell'Intelligence, Yisrael Katz, ha definito lo strike "un importante messaggio all'asse iraniano". "Teheran ha firmato accordi con Europa e Stati Uniti e allo stesso momento ha fomentato il terrorismo" continua Sachs. "L'Iran è il potere che sta destabilizzando la regione, che finanzia e arma i gruppi islamisti radicali per estendere il suo potere sulla regione. Quando le sanzioni sono state eliminate l'Iran ne ha approfittato, basta pensare all'esperimento missilistico di due settimane fa". I paesi arabi pure plaudono allo strike di Trump in Siria.
"Questa è la seria, credibile e affidabile America che i suoi alleati del Golfo vogliono vedere", ha detto ieri al Financial Times Abdulkhaleq Abdulla, un analista politico a Dubai. "Sono stati attacchi mirati, ma messaggi significativi per tutti, e sono stati ascoltati forte e chiaro". "I paesi arabi 'moderati' comprendono che l'Iran danneggia e destabilizza e crea caos e impedisce un futuro migliore per tutti loro", continua l'ambasciatore israeliano Sachs. "Con l'Egitto, l'Arabia Saudita e altri paesi c'è ora la possibilità di comunicare e costruire ponti". E l'Europa? "Non è riuscita a trasformare le parole in azioni. Gli Stati Uniti sono stati i soli a prendere una decisione concreta. L'Europa non sta facendo molto, quindi spero che la nuova Amministrazione a Washington possa spingerla ad assumersi un ruolo diverso".
Yaakov Amidror, ex consigliere per la Sicurezza nazionale israeliana, ha detto al Financial Times di ieri che "le probabilità di un attacco (contro Israele, ndr) da parte di Iran o Hezbollah sono minori di prima. Ora si è capito che, a differenza della precedente Amministrazione, questa è pronta ad agire". Sachs è d'accordo. "Israele sta cercando di mantenere i suoi confini al sicuro, in Siria, in Libano, e abbiamo cercato di evitare che alcuni armamenti finissero in mani sbagliate. Israele sta osservando ora il risultato di questo game change da parte degli americani. Non penso che nell'immediato ci sarà un impatto su Israele. C'è solo da aspettare e vedere la reazione della regione intera". E la Russia? "Non dobbiamo spostare la colpa degli attacchi sui civili da Assad alla Russia. Il colpevole è il regime siriano. Finalmente abbiamo visto una reazione morale dal mondo occidentale, l'Onu deve imparare la lezione. E' stata ristabilita una linea rossa e per questo siamo grati all'America".
(Il Foglio, 8 aprile 2017)
Putin ha riconosciuto Gerusalemme Ovest come capitale di Israele, scontentando quanto meno i palestinesi; Trump ha bombardato la Siria di Assad, facendo giubilare il governo israeliano. Si direbbe che le due potenze mondiali facciano a gara in fatto di benevolenza verso lo Stato ebraico. L'Israele di oggi sembra sperare nel re d'America contro il re di Persia come quello di ieri sperava nel re d'Egitto contro il re d'Assiria.
Tu confidi nell'Egitto, in quel sostegno di canna rotta, che penetra nella mano di chi vi si appoggia e gliela fora; così è il faraone, re d'Egitto, per tutti quelli che confidano in lui (Isaia 36:6).
M.C.
Attenti: hanno "normalizzato" Trump
di Marcello Foa
Verrebbe da dire: c'era una volta Trump.
C'era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un'America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un'America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi esattamente l'opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell'Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell'America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin.
Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l'establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l'America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto, le sue idee, quel progetto di America.
Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente , gli effetti auspicati. E non mi riferisco solo alle manifestazioni di piazza, all'opposizione isterica della stampa, alle sentenze dei giudici (a proposito: ricordate l'articolo di Kupchan? Era profetico). Trump non è stato capace di resistere al boicottaggio che proveniva dall'interno delle istituzioni e dall'apparato dell'intelligence e della difesa. E chissà a quali altre pressioni e minacce. Si è lasciato avvinghiare, inghiottire da quel mondo che prometteva di combattere. Tutto in appena due mesi e mezzo dal giorno del suo insediamento.
L'errore più grande lo ha commesso quando ha accettato che uno dei suoi consiglieri più fidati, Flynn, si dimettesse. Un commentatore acuto e davvero indipendente quale Paul Craig Roberts lo aveva capito subito: quel cedimento era devastante, perché spaccava il fronte dei fedelissimi ma soprattutto perché rompeva la posizione di Trump sul "caso Russia", che poteva diventare così un caso nazionale. Della serie: Se Flynn si dimetteva c'era qualcosa da nascondere. E allora via con le pressioni. Ancora oggi mancano prove concrete sulle ipotetiche collusioni con Mosca per condizionare il voto, ma il "deep state" lo ha fatto diventare il Caso Nazionale con toni maccartisti, paventando persino un impeachment nell'arco di qualche mese. Un impeachment sul nulla, ma questo era secondario.
Flynn era la mente della nuova politica estera e di sicurezza dell'Amministrazione Trump. Un'Amministrazione che si è via via riempita di ministri, consiglieri ed esperti appartenenti alla vecchia guardia. All'inizio quelle nomine, poco coerenti, parevano una concessione obbligata al Partito repubblicano che controlla il Congresso, nella supposizione che le redini sarebbero rimaste nelle mani del presidente. Ma si è rivelata una falsa speranza. E quando, l'altro ieri, l'altro suo più fedele collaboratore, lo stratega politico Bannon è stato estromesso dal Consiglio di sicurezza nazionale, l'accerchiamento si è concluso. Il segretario di Stato Tillermann si è rapidamente allineato all'establishment e ora a guidare la politica estera e di difesa, a consigliare il presidente sono gli esperti della Washington di sempre.
E si vede: la distensione con il Cremlino appare sempre più lontana; anzi proprio i ministri della nuova amministrazione alimentano la retorica antirussa con le stesse argomentazioni e lo stesso tono di Obama. Il Trump di qualche mese fa avrebbe preteso la verità sull'uso del gas in Siria, quello di oggi, invece, ha proclamato - senza ombra di dubbio - che molte linee rosse erano state superate. Proprio come Obama nel 2013. Peccato che allora, in seguito, si scoprì che a usare il sarin erano stati i "ribelli" moderati per far cadere la colpa su Assad e provocare l'intervento della Nato. Sarin la cui consegna sarebbe stata autorizzata da Hillary Clinton. Ed è molto verosimile che anche la strage dell'altro giorno sia stata provocata dai "ribelli" per fornire agli Stati Uniti un pretesto per intervenire.
Solo che nel 2013 Obama si fermò all'ultimo minuto, il Trump di oggi no. Ha fatto tutto in fretta, senza riscontri oggettivi sulle responsabilità di Assad, evidentemente mal consigliato. O consigliato benissimo, dipende dai punti di vista. Intanto l'Isis e i fondamentalisti islamici che combattono Assad ringraziano: la distruzione della base siriana avrà un solo effetto concreto, quello di indebolire l'esercito siriano e dunque di rimettere in discussione una vittoria che sembra certa. E' così che si combatte lo Stato Islamico? Non ci prendano in giro: così lo si favorisce,perché l'obiettivo di Washington è il cambio di regime a Damasco anche a costo di vedere trionfare in Siria il peggior integralismo islamico.
Non è un caso che a salutare l'interventismo della Casa Bianca siano stati proprio Hillary Clinton e John McCain. L'impressione è che l'agenda Trump sia già stata sconfessata a beneficio di quella irresponsabile e interventista portata avanti negli ultimi 15 anni dai neoconservatori.
Se ciò fosse vero, significherebbe che Trump è stato "normalizzato". E per la pace nel mondo sarebbe una pessima notizia.
Resta una sola flebile speranza: che si tratti di un riposizionamento transitorio e non di una resa. Che l'uomo sia capace di riscattarsi. Ma probabilmente, a questo punto, più che una speranza è un'illusione.
(il Giornale - blog, 8 aprile 2017)
I gaviesi vendevano viveri ai poveri lucrando molto più degli ebrei che prestavano soldi
Gavi
Un ebreo, di cui non viene fatto il nome, visse a Gavi nel 1471: gli fu ordinato di presentarsi entro due giorni dal cancelliere del Ducato di Milano, pena una pesante multa. Forse si trattava del banchiere Benedetto, alias Tedesco, che, con la moglie Bona, nel 1472 si trasferì ad Alessandria e fu accusato di aver portato via i pegni dei debitori. I due furono seguiti nella gestione del banco a Gavi da Benione, che, a sua volta, aveva firmato una condotta con il Comune nel 1471. In seguito Benione e Benedetto entrarono in lite e furono processati.
Lo stesso Benione (Bignono) e suo figlio ebbero una controversia con Maestro Colombo di Mirandola, di fronte ai rabbini nel Ducato di Milano: pomo della discordia furono affari matrimoniali e, più tardi, le parti si sottoposero anche ad un arbitrato, ma, poiché Benione ed il figlio si rifiutarono di accettare il lodo scaturitone, furono scomunicati.
Nel 1550, nonostante l'ordine di espulsione degli ebrei, le autorità genovesi concessero al medico di Gavi l'autorizzazione di restare nella località, continuando la propria attività.
Da una lettera di Vito Levi, che, nel 1565, si rivolse ai Serenissimi Signori riferendo che gli ebrei di Gavi e di Novi avevano rifiutato il denaro offerto loro da altri correligionari, che volevano lavorare anch'essi in tali località, si apprende dell'esistenza allora a Gavi di banco di pegno gestito da un ebreo.
Nel 1567 i cittadini di Gavi chiesero che Alessandro Nantua fosse autorizzato a stare nella località, nonostante l'ordine di espulsione, per il suo ottimo comportamento nei confronti di tutta la popolazione e il Nantua stesso indirizzò una petizione in tal senso al Senato, posto che dal 1548 esercitava con grandissima satisfatione di tuto quel populo [ ] quel arte che generalmente sogliono tuti li hebrei di prestar denari [ ]. Nel 1570 al Nantua furono così concessi tre anni di residenza, ad onta dei decreti vigenti. Due anni dopo, il Doge e i Governatori mandarono una lettera ai podestà di alcune località, tra cui Gavi, per denunciare gli abusi da parte dei cristiani che per avidità fornivano ai poveri generi alimentari a prezzi esosi: in una di tali missive veniva osservato esplicitamente che il guadagno dei cristiani superava di molto quello degli ebrei. Nel 1578 il podestà di Gavi informò le autorità genovesi che tre fratelli ebrei, Angelo, Lazzaro e Anselmo Nantua, figli di Alessandro, erano stati autorizzati a vivere a Gavi con molta soddisfazione della terra e massime dei poveri. Poco dopo, il podestà si rivolse al Senato, sostenendo che era necessario avere un banco a Gavi.
Nel 1582 furono emanate alcune disposizioni riguardanti il comportamento da tenersi da parte degli ebrei di Gavi durante il periodo della Settimana Santa (divieto di qualsiasi rapporto con i cristiani per due settimane) ed il prestito su pegno, che poteva solo essere fatto su pegno mobile e al 15%.
Da questo stesso anno Vita Poggetto e famiglia furono autorizzati a vivere e ad essere attivi a Gavi, Novi e Ovada.
Nel 1587 gli israeliti di Gavi ricevettero dalle autorità genovesi l'ordine di portare il segno distintivo giallo o di andarsene entro due mesi: l'anno successivo il podestà ricevette (ed eseguì) l'ordine di prendere informazioni sugli ebrei locali, in attesa che venissero prese ulteriori decisioni.
Il cardinale Enrico Caetani, Camerlengo pontificio, concesse nel 1589 una tolleranza per tenere banco a Gavi ai fratelli Angelo e Lazzaro de Nantua e, nel 1591, il primo dei due indirizzò una petizione al Senato chiedendo di essere autorizzato a commerciare, insieme ad altri correligionari, in granaglie ed altri generi alimentari provenienti da Lombardia, Piemonte, Monferrato e regioni limitrofe, a patto di non esercitare l'attività feneratizia. L'anno successivo alcuni membri del Comune indirizzarono una lettera al Doge e ai Governatori, informandoli del comportamento violento di uno degli ebrei locali nei confronti del Cancelliere G.B. Mayda e di uno dei Consoli di Parodi e delle difficoltà in cui versava la popolazione per colpa di coloro che non portavano il segno ben visibile.
Alcuni giorni più tardi, però, Lazzaro e Angelo Nantua furono difesi di fronte al Senato, risultando vittime dell'accusa calunniosa di possedere armi proibite, avanzata dai Consoli di Gavi, e dell'ingiusta confisca dei beni da parte del podestà. Il Senato decretò lecite le armi confiscate, mentre Lazzaro Nantua, condannato a tre anni di esilio per la lotta armata ingaggiata contro il Mayda, ricevette un lasciapassare per comparire di fronte alla corte a difendersi dalle accuse. Nel frattempo, era stata decisa l'asta dei pegni non riscattati, portati agli ebrei di Gavi dai cittadini di quella località, di Voltaggio e di Parodi.
Contemporaneamente, il Senato indirizzò un decreto ai podestà di una serie di località, tra cui Gavi, ordinando che gli ebrei abbandonassero il Dominio entro tre mesi, pena il carcere e la confisca dei beni, che sarebbero stati incamerati dal Tesoro. Alcuni giorni dopo, risultavano essere stati espulsi Lazzaro e Angelo Nantua e, in seguito, una lettera anonima partì da Gavi per Genova, per informare il Senato che il figlio tredicenne di Lazzaro Nantua, Alessandro, era morto per le sciabolate infertegli da tale Andrea Como. I cittadini chiesero al podestà di far intervenire il braccio straordinario contro l'assassino di Alessandro, mentre, più tardi, anche il Senato raccolse informazioni sull'episodio, esortando il podestà ad adoperarsi per far luce sul delitto.
Nel frattempo, i Consoli di Gavi si erano rivolti al Senato, pregandolo di permettere agli ebrei locali di rimanere, dato il danno che la loro assenza avrebbe provocato nella popolazione bisognosa, obbligandola a chiedere prestiti ai cristiani.
Nel 1593 l'arciprete di Gavi fece pervenire a Lazzaro Nantua l'ordine di presentarsi all'Inquisitore, entro tre giorni, senza averne ricevuto previa autorizzazione dal podestà: ne seguì una serie di lettere tra quest'ultimo e le autorità genovesi, che, tra l'altro, lo invitarono a recarsi a Genova dall'Inquisitore. Nello stesso periodo, i Consoli di Gavi chiesero al Senato di confermare agli ebrei l'autorizzazione a restare, per i benefici che la popolazione traeva dalla loro attività (prestito a basso interesse e donazioni di denaro alla comunità e al Monte di Pietà). Dopo essersi informato sugli ebrei di Gavi, il Senato concesse loro di restare per alcuni mesi nella località, previo il rispetto dell'obbligo del segno, ma allo scadere del termine stabilito, Lazzaro Nantua ricevette il permesso di rimanere per ulteriori quaranta giorni.
Nel 1594 Vita Poggetto, in forza di un arbitrato, impose ad Angelo Nantua ed al fratello, ancora a Gavi, di pagare una somma di denaro ad Anselmo Carmi e, un anno dopo, il podestà di Gavi informò il Senato che gli ebrei locali non portavano il segno giallo, prestavano ad usura ad onta della proibizione e vestivano come i cristiani e che, in particolare, Angelino Nantua portava un cappello di taffettà di color d'oro,[ ] di tal bellezza che più presto gli resta di pompa che altro, poiché anco a christiani esso collore è lecito portare.
Nel 1596 vi fu un contenzioso tra Angelo Nantua e il podestà per quattro scudi prestati a quest'ultimo, ma, l'anno successivo, il Nantua fu assassinato.
Nel 1598 l'ordine di espulsione contro gli ebrei, decretato da Genova, fu ricevuto in tutta una serie di località del Dominio, tra cui Gavi.
Due anni dopo, Gentile, moglie di Lazzarino Nantua, presentò una supplica, perorando la causa del marito, in prigione per debiti e ridotto in povertà, dopo la morte del fratello Angelo. Nel 1601 Lazzaro Nantua iniziò un procedimento legale contro il suo padrone di casa per un contenzioso sull'affitto e per il sequestro dei beni effettuato da quest'ultimo: risultando in ordine con i pagamenti, il Nantua ottenne di riavere i propri beni.
Sette anni più tardi, una coppia cristiana attestò la locazione di una casa, che divideva con Lazzaro Nantua, il quale non era in grado di pagare l'affitto.
La documentazione sulla presenza ebraica a Gavi si chiude dopo ulteriori tre anni, quando Lazzarino era ormai in tali condizioni di povertà, che il Senato gli condonò le multe impostegli dal podestà, perché non era in grado di comprarsi il regolamentare cappello giallo.
Un ulteriore accenno agli ebrei a Gavi risale, infine, al 1614, quando quattro correligionari tedeschi, in viaggio per Genova per acquistare palme e cedri, furono tenuti segregati in un luogo separato, per paura che diffondessero la peste.
(Alessandria Oggi, 8 aprile 2017)
Israeliani e Palestinesi, la pace attraverso la cruna di un ago
di Marisa Labanca
In un territorio storicamente conflittuale, delle donne israeliane e palestinesi uniscono creatività e tradizione per dimostrare, semplicemente con ago e filo, che raggiungere la pace è possibile. Miriam Givon, stilista israeliana, e Rehan Abu Sabha, ricamatrice palestinese, sono le menti creative di Two Neighbors (letteralmente "due vicini di casa"), brand di moda femminile con sede a Giaffa (pochi chilometri a sud di Tel Aviv). Tutto è iniziato circa otto anni fa a Beit Jala, piccola città di confine tra Israele e i territori palestinesi. Qui la fondazione Center for Emerging Futures, creata da una coppia di americani, organizza periodicamente degli incontri tra israeliani e palestinesi. E proprio in una di queste riunioni ha preso forma l'idea di unire la professionalità delle sarte israeliane, che hanno imparato a cucire a 13 anni nell'ex Unione Sovietica, con la profonda tradizione delle ricamatrici palestinesi, un'arte che coltivano sin da bambine e tramandano di generazione in generazione. Il risultato è un'azienda completamente artigianale che realizza a mano abiti dal taglio moderno impreziositi da splendidi ricami, in un mix di antichità e innovazione. Two Neighbors, che ha tra i finanziatori anche i fondatori del Center for Emerging Futures, è un modello di business sociale: promuove la pace e l'integrazione tra due popoli, ed è fonte di reddito per le donne che ci lavorano. Le sarte e le ricamatrici vengono pagate con salari equi, mentre i profitti aggiuntivi servono per finanziare le cooperative femminili e rimborsare gli investitori. L'obiettivo della società è raggiungere un profitto costante così che, in un futuro non troppo lontano, la proprietà possa essere trasmessa interamente alle lavoratrici. Il sogno di queste donne è dimostrare che lavorando insieme, verso obiettivi comuni, la pace è possibile
(Video D Repubblica, 7 aprile 2017)
Gran Bretagna post Brexit rafforza i legami commerciali con Israele
Gran Bretagna post Brexit rafforza legami commerciali con Israele. La Gran Bretagna cercherà di rafforzare i legami economici con Israele in seguito alla decisione del Regno Unito di lasciare l'Unione Europea, riferisce il The Times Of Israel.
Secondo il rapporto, un team composto da due o quattro funzionari di ogni paese si è riunito durante la fine del mese di marzo, per continuare a soddisfare gli accordi economici.
Durante la sua recente visita in Israele, il Ministro degli esteri britannico Boris Johnson si è vantato degli stretti legami esistenti tra i due Paesi e di qui l'intenzione di negoziare un nuovo accordo di libero scambio.
In una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Johnson ha sottolineato i crescenti legami commerciali bilaterali.
Negli ultimi anni Israele e Regno Unito stanno vedendo un crescendo di accordi di cooperazione nel campo della scienza e del commercio, solo per citarne alcuni. E secondo Sharren Haskel, che fa parte del comitato della Scienza e della Tecnologia presso la Knesset (Parlamento israeliano) ha riferito il The Guardian, che "una delle principali aree di cooperazione è sicuramente la cyber-sicurezza, settore in cui Israele sta ricevendo il 20% degli investimenti da tutto il mondo".
(SiliconWadi, 7 aprile 2017)
Attacco Usa in Siria: le reazioni internazionali tra favorevoli e contrari
I 59 missili cruise lanciati la scorsa notte verso la base aerea siriana da cui si presume sia partito l'attacco con armi chimiche nella provincia di Idlib ha diviso la comunità internazionale.
PAESI CONTRO Russia - Il Cremlino, principale alleato del presidente siriano Bashar al Assad ha reagito in maniera molto secca all'attacco Usa. Per Mosca si tratta di un'"aggressione contro uno stato sovrano in violazione delle norme internazionali". La Russia ha annunciato lo stop della collaborazione militare con gli Usa e, in particolare, delle comunicazioni per evitare scontri nello spazio aereo siriano. Mosca ha inoltre chiesto una riunione urgente del Consiglio di sicurezza Onu. Iran - L'Iran, altro alleato di Damasco, ha "condannato con forza" l'attacco come "ogni attacco unilaterale". Ha inoltre giudicato che quello dell'attacco chimico di Khan Sheikun è stato soltanto un pretesto.
PAESI A FAVORE Unione Europea - Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha twittato che "l'attacco Usa dimostra che è necessaria una soluzione contro i barbarici attacchi chimici". Tusk ha inoltre assicurato che "l'Unione europea collaborerà con gli Stati Uniti per mettere fine alle atrocità in Siria". Italia - Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha affermato che l'attacco Usa è stato una "risposta motivata a un crimine di guerra". Francia e Germania - In un comunicato congiunto il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno detto che il leader di Damasco Bashar al Assad ha "la sola responsabilità" di quanto è accaduto dopo il sospetto attacco chimico. Gran Bretagna - Londra ha espresso "pieno sospegno" al raid Usa, giudicandolo "una risposta appropriata al barbaro attacco con armi chimici". Ha inoltre chiarito che l'azione americana ha lo scopo "d'impedire ulteriori attacchi". Turchia - La Turchia ha giudicato "positivo" il raid americano e ha chiesto l'istituzione di una "no-fly zone" sulla Siria. Arabia Saudita - Riyad ha lodato l'azione del presidente Usa Donald Trump come "coraggiosa" in un momento nel quale "la comunità internazionale aveva fallito nel porre un termine alle azioni del regime". Israele - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele "sostiene pienamente" il "messaggio chiaro e forte" inviato con l'attacco amerricano. Ha aggiunto che il messaggio dovrebbe "avere eco non solo a Damasco, ma anche a Teheran, Pyongyang e altrove". Giappone - Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha espresso "sostegno alla risolutezza del governo Usa nel non tollerare la diffusione e l'uso di armi chimiche". Cina - Pechino ha offerto una reazione prudente, influenzata anche dal fatto che il presidente Xi Jinping è in questo momento negli Stati uniti per il primo summit con Trump. Una portavoce del ministero degli Esteri ha chiesto agli Usa di evitare un "ulteriore deterioramento della situazione", ma ha anche condannato "l'uso di armi chimiche da parte di ogni paese, organizzazione o individuo in ogni circostanza e per ogni scopo".
(RaiNews, 7 aprile 2017)
Una full immersion nell'ecosistema imprenditoriale d'Israele
Un viaggio intenso tra startup, incubatori, venture capital e imprese organizzato dagli studenti dell'entrepreneurship club del mba di Sda Bocconi
di Tomaso Eridani
Israele è da anni ormai rinomata come terra promessa anche per le startup e per questa ragione gli studenti dell'Entrepreneurship Club del Mba di SDA Bocconi hanno organizzato l'Israel Trek, un viaggio a 360o nel mondo dell'imprenditorialità del paese a cui hanno partecipato quasi 50 loro colleghi della scuola.
"Da qualche anno il club organizzava viaggi a Berlino e abbiamo pensato a un cambio. Israele, nonostante le sue dimensioni ridotte, ha sviluppato un'importante cultura startupper ed ha avuto molto successo nei campi dell'innovazione e dell'imprenditorialità e ci sembrava una meta ideale," spiega Elyse Krumholz, statunitense, vice presidente dell'Entrepreneurship Club. "Abbiamo voluto organizzare un viaggio per capire come si sviluppa un ecosistema che sprona l'imprenditorialità e ispirare i partecipanti per i loro progetti futuri. Un viaggio che fosse a tutto tondo - con incontri legati ai primi passi, come i finanziamenti, fino a quelli con startup di successo."
Al viaggio hanno partecipato 47 studenti, per la maggior parte del Mba full time e con qualche partecipante di altri master come il Master in Public Administration e l'Emba. Con un'anteprima con la visita in SDA Bocconi del Ministro Consigliere dell'Ambasciata d'Israele Rafi Erdreich che ha parlato ai partecipanti di innovazione e tecnologia in Israele e come il paese ha promosso un ambiente favorevole all'imprenditorialità.
Il viaggio è partito poi con un assaggio turistico e culturale d'Israele, con visita al Mar Morto e poi ai siti più importanti di Gerusalemme. Il secondo giorno lo study tour vero e proprio è partito con una visita alla Tel Aviv Stock Exchange e con un incontro con Startup Nation Central. A seguire un incontro con Intesa Sanpaolo e poi con The Floor, un hub per gli imprenditori fintech d'Israele. Nel pomeriggio un incontro con uno dei fondatori di ironSource, una startup di che offre servizi agli sviluppatori di app, per concludere con una serata di networking con imprenditori, studenti della Tel Aviv University e alcuni alunni Bocconi.
Il terzo giorno ha visto il trasferimento ad Haifa per un incontro con i venture capitalist di TerraLab. Nel pomeriggio trasferimento alla Carmel Forest per un incontro con la non profit KKL, che si occupa dello sviluppo, della bonifica e del rimboschimento di terre in Israele. L'ultimo giorno è partito con un incontro con Catalyst Private Equity e si è concluso con una visita agli uffici Google di Tel Aviv e l'incontro con il responsabile Start-Up Nation Department.
"Il gruppo è rimasto molto coinvolto e c'era un ottimo spirito partecipativo. Le varie visite e incontri sono state infatti molto stimolanti," dice Tanya Mathanda, canadese, responsabile comunicazione del Club. "E' stato molto interessante vedere come la cultura startup viene coltivata in Israele e lo spirito comunitario che favorisce tale cultura."
"Siamo rimasti tutti molto impressionati da quello che abbiamo visto e l'opportunità di incontrare e interagire con questi leader è stata un'occasione unica. Incontrare il fondatore di una startup di successo come ironSource per me è stato particolarmente stimolante," dice Elyse. "Ed è stato anche una grande soddisfazione per noi del Club riuscire ad organizzare da soli con successo uno study tour così intenso, che ha coinvolto quasi metà della classe Mba."
(Via Sarfatti 25, 6 aprile 2017)
Serata conviviale del Lions Club Asti Host e Associazione culturale Italia-Israele di Asti
Giovedì 6 aprile il Lions Club Asti Host ha organizzato un incontro con tema "Israele - La Start UP Nation", ospite di eccellenza il Prof. Dario Peirone di Torino, attualmente Ricercatore Universitario presso il Dipartimento di Economia e Statistica "Cognetti de' Martiis" dell'Università di Torino, in Economia e gestione delle imprese,
Il tema della serata è stato affrontato in maniera brillante ed esaustiva illustrando nel dettaglio come l'economia di Israele si sia sviluppata recentemente in modo brillante soprattutto sul settore della ricerca e sviluppo grazie a scelte strutturali coraggiose fatte per attirare investimenti dall'estero valorizzando le competenze interne ed avendo obbiettivi chiari e precisi, senza dispersione di risorse.
«Tutti gli esperti sono esperti di qualcosa che è stato. Non esistono esperti di qualcosa che sarà». Sono parole profetiche quelle di David Ben Gurion, colui che ha fondato Israele. Profetiche perché oggi il Paese è considerato la patria dell'innovazione e delle startup, primo tra sessanta Paesi per capacità d'innovazione, investimenti in ricerca e sviluppo, cyber security, imprenditoria, ricerca scientifica, spesa per l'educazione, qualità delle istituzioni scientifiche e competenze in information technology (dati IMD World Competitiveness Ranking 2014). Lo Stato ebraico vanta attualmente il più alto numero di aziende high tech per abitante: quasi cinquemila per otto milioni di persone.
Israele è questo, un Paese da osservare, da studiare, anche da copiare. Perché è un esempio del cambiamento attuabile, dell'innovazione alla portata di tutti, della connessione tra istituzioni e privati, della voglia di fare, anzi di correre.
Vivace dibattito alla fine dell'esposizione grazie alla partecipazione di ospiti molto competenti e partecipativi che hanno contribuito alla riuscita dell'evento.
(AT News, 7 aprile 2017)
Auto contro i soldati, morto un israeliano
di Massimo Lomonaco
TEL AVIV - In un nuovo attacco con un'auto lanciata a tutta velocità vicino ad una stazione di autobus, un soldato israeliano di 20 anni è rimasto ucciso ed un altro ferito nei pressi di Ofra, in Cisgiordania.
Il conducente palestinese, identificato in Malek Ahmad Mousa Hamed (21 anni), di Silwad - la cui famiglia è ritenuta vicina ad Hamas - è stato arrestato dalle forze di sicurezza.
L'attacco ha preceduto di poche ore l'annuncio da parte di Mosca - definito dai media israeliani «sorprendente» - di «vedere Gerusalemme Ovest come capitale di Israele» se la parte Est della città lo fosse del «futuro Stato palestinese», nel riaffermato impegno ai «principi approvati dall'Onu sulla questione ìsraelo-palestìnese». Finora - hanno ricordato i commentatori- nessuno Stato ha riconosciuto alcuna parte di Gerusalemme come capitale di Israele, principio stabilito invece dallo Stato ebraico nel 1950 prima e nel 1980 dopo.
Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Emanuel Nahshon ha detto che Israele «sta studiando la dichiarazione russa su Gerusalemme e che in questo momento non ci sono commenti». Israele ha sancito Gerusalemme «capitale unica e indivisibile» dello Stato ebraico.
Per quanto riguarda l'attacco di Ofra, secondo le ricostruzioni ufficiali, l'auto con targa palestinese si è avvicinata dapprima alla stazione dei mezzi pubblici e poi ha accelerato investendo i due soldati che, a quanto sembra, erano in procinto di fare l'autostop dietro dei blocchi di cemento. Il primo militare, Elichai Taharlev, figlio di un rabbino, è apparso subito in gravissime condizioni, mentre il secondo - di cui non è stato diffuso ancora il nome, ma si sa che ha 19 anni - è stato trasportato cosciente in ospedale per le cure e il suo stato non sembra destare preoccupazioni.
Hamed - che secondo gli investigatori ha progettato l'attacco di ieri mattina - nel 2015 ha trascorso quattro mesi nelle carceri israeliane per aver tentato di entrare in maniera clandestina in un insediamento ebraico in Cisgiordania. Uno zio di Hamed - citato dal Jerusalem Post- ha escluso che si sia trattato di «un attentato» quanto piuttosto di «un incidente stradale». Il generale Yoav Mordechai, coordinatore israeliano per le attività di governo nei Territori - che ha la responsabilità dell'ordine- ha congelato tutti i permessi di ingresso in Israele per i membri della famiglia di Hamed e le forze di sicurezza hanno perquisito la casa a Silwad interrogando le persone.
L'evento di ieri - preceduto da altri nei giorni scorsi - ha fatto rialzare subito la tensione nella regione, visto che in Israele si è a pochi giorni dalla Pasqua ebraica che si festeggia per una settimana a partire da lunedì sera 10 aprile. Le misure di sicurezza sono state rafforzate e altre saranno messe in atto in occasione della festa stessa che sarà accompagnata - come di consueto - dalla chiusura dei Territori.
Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha detto che Israele «non consentirà mai al terrorismo di indebolirlo. Resteremo fermi nella difesa del nostro Stato e della nostra terra». Da Gaza Hamas - che proprio ieri ha annunciato di aver impiccato tre palestinesi condannati per collaborazionismo con Israele - si è congratulata per l'attacco di Ofra definendolo «una reazione ai continui crimini dell'occupazione israeliana». Su Facebook, il portavoce di Hamas Hazem Qassim ha sostenuto che «l'Intifada di Gerusalemme va avanti e avrà fine solo con la libertà».
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 7 aprile 2017)
"Assad intercettato da Israele, sue le bombe chimiche. Trump ha agito"
Intervista al politologo Usa Edward Luttwak
Edward Luttwak
di Alberto Maggi
- Come spiega l'attacco Usa in Siria?
"Con otto anni di Obama alla Casa Bianca c'è stato l'uso continuo della parola inaccettabile. Anche il Papa ha detto più volte che quello che stava accadendo in Siria era inaccettabile. E sicuramente anche altri leader mondiali hanno detto così. Nel caso di Trump quando lui dice che è inaccettabile poi agisce. Molto semplice".
- Ci saranno altri raid Usa?
"Gli Stati Uniti hanno bombardato la base da cui è stato lanciato l'attacco chimico di qualche giorno fa".
- Ma non è sicuro che sia stato Assad...
"Il ministro della Difesa dello Stato di Israele aveva avvisato due giorni prima gli Usa: sapevano per certo che Assad aveva ordinato un attacco chimico dal momento che il regime stava perdendo il controllo di quella zona. Quindi Assad ha dato l'ordine di utilizzare le armi chimiche ed è stato intercettato dagli israeliani che lo hanno comunicato agli americani. Trump ha quindi deciso di danneggiare pesantemente la base da cui è stato lanciato l'attacco chimico. Se i siriani faranno un'altra azione perderanno un'altra base. Ne avevano cinque e ora gliene sono rimaste quattro".
- Putin ha protestato duramente, che cosa farà ora la Russia?
"Gli Usa hanno informato i russi e gli hanno dato la possibilità di telefonare ai loro tecnici nella base per uscire. Hanno detto 'stiamo agendo' e gli hanno dato solo il tempo per consentire alla loro gente di prendere l'automobile e andarsene. Non più di questo. Non hanno consultato i russi e non hanno chiesto il permesso, hanno solo notificato".
- E Putin?
"Può protestare e dire che è inacettabile, facendo come il Papa e Obama. Se poi vuole attaccare le navi Usa nel Mediterraneo, allora buona fortuna a lui".
- Ora Trump è il padrone del mondo?
"No, semplicemente dopo otto anni di non presidenza per l'assenza causata dalla latitanza di Obama e della sua Amministrazione, ora c'è una presenza alla Casa Bianca. Da Trump fatti, da Obama parole accorate seguite dal nulla. Come il Papa".
- Che cosa cambierà ora nei rapporti con Iran e Turchia?
"L'Iran ha ottime ragioni per stare zitto, mentre i turchi sono dei grandi fanfaroni".
- Cioè?
"Molte volte hanno detto che ciò che faceva Assad era inacettabile. Sono dei fanfaroni inutili con enormi difficoltà e riscono ad agire solo in un villaggio siriano vicinissimo alla loro frontiera. Sono stati ridimensionati come Paese di bassissime capacità".
- E Israele?
"Ha sempre agito come voleva in Siria. Ogni volta che doveva e voleva intervenire, quando Assad cercava di dare missili agli Hezbollah, lo ha fatto bombardando. Anche Israele notifica ai russi, nulla di più. Quando le forze israeliane decidono di entrare in Siria con gli aerei, i velivoli russi atterrano e restano nella base di Lattakia. I russi non si alzano in volo per evitare l'umiliazione di venire abbattuti. Non c'è nessun controllo dello spazio aereo, semplicemente spengono i radar e stanno fermi. Ovviamente gli israeliani non attaccano la base dove ci sono i russi".
- Europa grande assente (come al solito)?
"Beh, certamente la Mogherini avrà detto che è inaccettabile".
(Affaritaliani.it, 7 aprile 2017)
"Inorriditi da Idlib? Eppure non è una novità, nel paese dove sono cresciuto"
I terzomondisti lo chiamavano socialismo nazionale arabo, ma era nazional-socialismo (completo di antisemitismo).
La tragedia della Siria dura da sei anni e ormai fa parte della nostra dieta quotidiana globale. Non passa giorno senza che i mass-media internazionali ci ricordano di questa guerra e dei suoi orrori, da ultimo l'attacco con armi chimiche contro i civili a Idlib. Più di 320.000 persone sono state uccise, in questi anni di guerra civile, metà della popolazione è sfollata dalle proprie città o profuga fuori dal paese. Drogati di notizie catastrofiche, ma impotenti, declamiamo le nostre opinioni su questa sciagura che incarna il fallimento dell'Occidente e di quell'entità ancora denominata "comunità internazionale". L'amministrazione Obama minacciò un intervento militare contro il regime siriano se fossero state usate armi chimiche contro la popolazione civile. La stessa minaccia venne ripetuta da Londra e da Parigi. Come sappiamo, il regime ha effettivamente utilizzato quelle armi, per la prima volta nel 2012. Di fronte all'impunità concessa dalla comunità internazionale, non solo il regime siriano ha continuato a usare armi proibite, ma il loro uso si è allargato ormai anche ai jihadisti...
(israele.net, 7 aprile 2017)
Mezza lira per i lavori forzati, così il duce umiliava gli ebrei
Parla la nipote di un uomo costretto a spalare la terra lungo il Tevere. "Mio zio ci mostrò l'assegno e infuriato lo strappò".
di Arlela Piattelli
L'assegno di Lit. 0.50 corrisposto a Pavoncello Anselmo di Leone. Deportato, l'uomo morì
ROMA - Un assegno di una mezza lira. Erano pochi soldi, anche negli Anni, ma abbastanza per beffarsi degli ebrei ai lavori forzati. L'assegno è stato scoperto a Roma e rappresenta un documento storico unico. È stato emesso dalla Banca Nazionale del Lavoro ad Anselmo Pavoncello come retribuzione per il lavoro a cui il regime fascista lo costringeva, sulle sponde del Tevere, durante l'estate del 1942. Pavoncello era lo zio materno di Fortunata Di Segni, detta Ada, moglie di Pacifico Di Consiglio, ovvero «Moretto», la cui storia è raccontata nel libro Duello nel ghetto di Maurizio Molinari e Amedeo Osti Guerrazzi.
Alberto Di Consiglio, il figlio di Ada e Moretto, ha ritrovato l'assegno, mai incassato, testimonianza dell'ulteriore umiliazione a cui furono sottoposti gli ebrei italiani durante il fascismo. «Ho ricordi precisi di quando lo zio ricevette questo assegno», racconta Ada, 88 anni. «Durante la guerra, quando c'erano i bombardamenti, ci riunivamo in strada per parlare e passare il tempo. Un giorno, mentre eravamo tutti assieme, arrivò zio Anselmo con il volto turbato, ci disse che aveva ricevuto un assegno per il lavoro coatto, svolto per un'intera stagione, in mezzo alla sporcizia del fiume: ce lo mostrò, noi notammo la cifra irrisoria, e poi infuriato lo strappò. Mia madre gli disse che era importante conservarlo, e che un giorno sarebbe servito per raccontarne la storia. Per lui l'assegno fu una vera umiliazione».
Un'umiliazione quanto lo era stato il lavoro a cui venne costretto assieme agli altri ebrei romani, che se si fossero rifiutati di farlo sarebbero stati arrestati dai fascisti. «Quando lo zio era ai lavori forzati, mia nonna era talmente preoccupata per lui che un giorno mi chiese di accompagnarla a vedere cosa faceva», racconta Ada. «Andammo di nascosto, non volevamo farci vedere da lui, altrimenti si sarebbe sentito ancor più umiliato. Lo guardavamo da lontano, mentre spalava la terra e la gettava nel fiume. Faceva caldissimo, portava un fazzoletto in testa e una canottiera. Era assieme ad altri ebrei romani e c'era una guardia con un fucile a controllarli. Tornammo a casa, mia nonna era disperata e piangeva».
Era il periodo che precedeva la fine per gli ebrei, un periodo di totale precarietà in cui la pericolosità era palpabile. Per Anselmo, come per tutti gli ebrei romani, la situazione precipitò poi velocemente: «L'ambiente era pesante e la situazione paradossale: gli ebrei perseguitati agli occhi di molti sembravano dei privilegiati, perché non erano in guerra», spiega lo storico della Shoah Marcello Pezzetti. «Per questo il regime adotta il lavoro obbligatorio come una sorta di risarcimento per il presunto privilegio. Così facevano anche vedere ai tedeschi che il problema ebraico lo risolvevano in casa».
Quando Anselmo non poté più lavorare, si organizzò per portare qualche soldo a casa, facendo il venditore ambulante al Colosseo. «Un giorno venne a trovarci nel convento dove eravamo nascosti», continua Ada. «Avevo 14 anni, ci lasciò dei soldi, capiva che era a rischio, cominciava a essere diffidente. Fu l'ultima volta che lo vidi. Qualche giorno dopo mamma mi disse che lo avevano preso i fascisti. Lo portarono al carcere di Regina Coeli, assieme a suo fratello Angelo».
Anselmo fu deportato a Fossoli, poi ad Auschwitz, e fu ucciso a Dachau. «Non conoscevo il suo destino alla fine della guerra», dice Ada. «Con la Liberazione gli americani ci lanciavano sigarette, io le conservavo in una valigetta per lui. Lo amavo come un padre, era un uomo buono. Fu dopo un anno dalla fine della guerra che un sopravvissuto ci disse che lo aveva visto morire».
L'assegno è l'unico ricordo che Ada possiede di suo zio, e fu Moretto a ricomporne i pezzi dopo tanti anni: «Moretto, che aveva la passione di conservare tutto, lo prese e lo incorniciò. Temeva che andasse perduto e capì che era un documento importante, una testimonianza», chiude Ada. «Adesso lo regalerò a mio nipote Roberto, e spero che lui faccia lo stesso con i suoi nipoti. Aveva ragione mia madre a chiedere a zio Anselmo di conservarlo».
(La Stampa, 7 aprile 2017)
La sponda di Putin con Netanyahu "Gerusalemme Ovest capitale"
Il leader russo cerca una via per puntellare Damasco. "È inaccettabile accusare qualcuno finché non viene condotta una indagine internazionale".
di Giordano Stabile
BEIRUT - È nella telefonata di ieri fra Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu, più che nei veti incrociati all'Onu, la chiave di lettura della partita siriana. Lo Zar ha condannato come «mostruoso» l'attacco chimico a Khan Sheikhoun, ma ha difeso ancora con tutte le sue forze l'alleato Bashar al-Assad, e accusato gli Stati Uniti di correre alle conclusioni senza «prove effettive» della responsabilità del regime nel massacro. Un fatto «inaccettabile». Putin è stato però molto attento anche nel rassicurare Israele. Una strage deliberata con armi chimiche suona ancora più sinistra in chi ha viva la memoria delle camere a gas. Con una «mossa del cavallo», inaspettata, scavalcando persino l'alleato storico dello Stato ebraico, l'America, ha offerto un'apertura storica al premier israeliano: il riconoscimento di Gerusalemme Ovest come capitale di Israele.
Il ministero degli Esteri russo ha poi precisato che il riconoscimento va di pari passo con la soluzione «due popoli, due Stati» e quindi arriverebbe con la nascita di uno Stato palestinese, che rivendica la parte orientale della Città Santa. E il comunicato in inglese è apparso ancora più prudente della versione in russo. In ogni caso, la Russia sarebbe la prima grande potenza a farlo, la seconda nazione in assoluto dopo il Costa Rica. Israele considera Gerusalemme come sua capitale «unica e indivisibile», ma finora tutte le ambasciate, compresa quella Usa, sono rimaste a Tel Aviv. Fonti vicine a Netanyahu hanno fatto sapere al Jerusalem Post che lo spostamento dell'ambasciata russa da Tel Aviv sarebbe prossimo. Finora Mosca, ricorda il Jp, aveva sempre sostenuto che Gerusalemme dovrebbe eventualmente finire sotto un regime internazionale permanente.
La mossa di Putin sembra far parte di una difesa concertata di Assad. L'alleato storico si ritrova a vacillare, con i missili Cruise Usa pronti a partire dalle navi nel Mediterraneo. L'attacco chimico ha accelerato tutto. Israele è stata la prima a puntare il dito contro Assad come «responsabile diretto» della strage. Un atteggiamento inusuale. Quando sa, Israele di solito non dice. Ma la presa di posizione così netta ha avuto conseguenze forse al di là di quanto aspettato. E non è un caso che, dopo una discussione accesa fra Putin e Netanyahu, sia arrivato l'annuncio su Gerusalemme. Putin si aggrappa a piccoli segnali, come l'immediata solidarietà mostrata da Israele, unico tra i paesi occidentali, dopo l'attentato di lunedì: a Tel Aviv è comparsa una grande bandiera russa sulla facciata del Comune.
Mosca deve disinnescare il possibile "strike" in tutti i modi. Con la diplomazia e mostrando i muscoli. Le tv annunciano una mega esercitazione col sistema anti-aereo S300 in grado in intercettare «un massiccio attacco con missili Cruise». All'Onu viene presentata una bozza sulla Siria che chiede alla «missione di inchiesta dell'Opac» di visitare «al più presto il luogo del presunto incidente a Khan Sheikhoun per condurre indagini». E si chiede «a tutte le parti in Siria di permettere senza alcun ritardo un accesso libero e sicuro». Mentre da Damasco Assad avverte «non c'è alternativa alla vittoria, altrimenti la Siria sarà spazzata via dalle mappe geografiche». A quale prezzo? I ribelli ieri hanno denunciato un nuovo attacco chimico, con bombe al cloro, che sarebbe avvenuto ad Al-Lataminah, un villaggio a Nord di Hama.
(La Stampa, 7 aprile 2017)
VIta da ambulante nell'era Bolkestein
Una giornata con Manuel che vende souvenir all'ombra di San Pietro. E che si sente minacciato dalla
direttiva Ue: «Se passa, le nostre licenze saranno carta straccia».
di Giuliano Malatesta
ROMA - «Algo para la suegra?», qualcosa da regalare alla suocera? domanda Manuel con una invidiabile pronuncia spagnola, sfoderando quello che dovrebbe essere uno dei suoi cavalli di battaglia. Una coppia di giovani turisti sudamericani rallenta davanti al suo banchetto, sorride senza fermarsi e allunga nuovamente il passo. In una soleggiata prima mattina di fine marzo via della Conciliazione appare un luogo sin troppo pacifico. In giro si scorgono solo potenziali venditori che stanno militarmente prendendo possesso del territorio, in attesa di dar inizio alla caccia: guide turistiche, incantatori di serpenti, salta-file, promotori di agenzie di viaggio. E poi naturalmente ci sono loro, gli urtisti, o come vengono soprannominati a Roma i ricordari, o madonnari. Ambulanti ebrei che fanno oramai parte della storia della città e che da centocinquant'anni vendono chincaglieria religiosa per conto di Dio. Grazie ad una bolla papale risalente alla seconda metà dell'Ottocento che autorizzò le licenze ai soli commercianti di religione ebraica, ancora confinati all'interno del ghetto. «Forse speravano in una conversione in un secondo momento», dice semiserio Manuel Zarfati, 39 anni, urtista dal 1999, quando ereditò la licenza dal nonno seguendo un'antica e consolidata tradizione dinastica. «Questo lavoro è parte integrante della storia della mia famiglia, credo di averlo nel Dna, ma più passa il tempo più sembra che le istituzioni si stiano impegnando al massimo per scoraggiarci. Prima, nel 2015, con l'ordinanza dell'ex sindaco Marino, ci hanno impedito di lavorare davanti al Colosseo, facendo improvvisamente precipitare i nostri incassi almeno del 50 per cento e ora vogliono darci il colpo di grazia con la Bolkestein. Se davvero dovesse passare la nostra licenza diventerebbe carta straccia».
Sono circa le otto del mattino e Manuel, grazie anche all'aiuto del suo aiutante indiano, «regolarmente assunto con il jobs act», ha appena finito di montare il banco. «Quaranta minuti per allestire la vetrina, seguendo sempre un rigido schema, trenta per rimettere le cose nel furgone». Le "cose" sarebbero un variegato puzzle di cianfrusaglie per metà ecclesiale e per l'altra metà sgraziato omaggio all'immaginario da Impero Romano: riproduzioni del Colosseo in qualsiasi forma e misura, l'immancabile lupa, piatti con stravaganti incisioni dedicate alla romanità, elmi, caschi da gladiatore in metallo e naturalmente santini, rosari e affini. Più qualche soldatino con la faccia da calciatore, che non guasta mai. «Tutto made in Italy», assicura. Tranne i due prodotti più venduti: calamite e portachiavi, che sono poi anche i più economici. Questi ultimi, racconta, si comprano direttamente in uno dei lugubri negozi che circondano piazza Vittorio, epicentro della confusa Chinatown capitolina.«Una volta si vendevano oggetti più sofisticati, candelabri, roba di alabastro, c'erano le diapositive, prima dell'avvento di internet anche molti libri. Oggi invece c'è un turismo di minore qualità e di conseguenza i gusti sono diventati più trash. Noi ci adeguiamo. Onestamente se io fossi uno straniero non so se mi comprerei qualcosa in un banco come il mio».
Gli urtisti romani con regolare permesso di commercio sono poco più di un centinaio(112 per l'esattezza, divisi in due categorie, Al e A2) e si tramandano le licenze di generazione in generazione. Sono come una grande famiglia, dove tutti si conoscono e si rispettano, e su cui vigila silenziosa la comunità ebraica più antica della Diaspora. La leggenda vuole che il loro nome derivi da quell'impercettibile urto che, con la cassetta piena di santi, di Madonne e di rosari, un tempo portata al collo con una cinghia di tela, gli ambulanti davano ai pellegrini di piazza San Pietro per attirare la l'attenzione e attaccare bottone. Durante il fascismo furono costretti ad andare in giro con la divisa e un berretto dove campeggiava l'acronimo Sfva (Sindacato fascista venditori ambulanti). Poi con l'occupazione nazista si trasformarono in abusivi e continuarono a campare vendendo sottobanco sigarette ai tedeschi. Il benessere arrivò negli anni Sessanta, con il via libera alla seconda tranche di licenze e l'arrivo dei turisti. «Da quando negli anni Ottanta hanno introdotto le postazioni fisse, il lavoro è diventato più semplice ma anche noioso», dice Manuel, che ha avuto la fortuna di lavorare con tre differenti Papi. «Wojtyla è stato il Pontefice più rivoluzionario, Ratzinger credo il più teorico, mentre Bergoglio sembra il più carismatico». Un carisma da rockstar che permette agli urtisti di portare ancora uno stipendio a casa. «Ma non parliamo di grandi cifre, in media circa 1.500 euro al mese, calcolando che il lavoro è stagionale e che di inverno può capitare di lavorare una giornata intera e vendere appena un paio di rosari. E se inizia a piovere, la roba cinese la puoi anche buttare ... ». Ma dopo «diciotto anni di vita da ambulante» scegliere un'altra strada non sarebbe affatto semplice. «Non ho intenzione di cambiare, a meno che non arrivi la Bolkestein. Quella direttiva è una follia, in sostanza sarebbe come distruggere le zanzare con la bomba atomica». Eppure, aggiunge, «c'è ancora qualcuno che si ostina a definirci una lobby. Ma da noi girano solo i bruscolini».
Il giorno che incontriamo Manuel tra via della Conciliazione e dintorni stanno lavorando contemporaneamente una decina di urtisti, in base a una rigida turnazione. Si incontrano, si salutano, prendono il caffè insieme, alle volte si aiutano scambiandosi oggetti mancanti. «Tra di noi c'è solidarietà, cerchiamo di essere corretti e di mantenere i prezzi standard. Poi, certo, quando arriva il turista ognuno prova a lavorarci sopra ... ». Secondo una antica legge non scritta del commercio da strada, il turista raramente si ferma a fare acquisti davanti alla prima bancarella che incontra. In gergo tecnico il suo comportamento viene definìto "gioco a rimbalzo". È qui, fa capire Manuel. che entra in gioco l'abilità dell'ambulante, quel mix di furbizia, simpatia e scaltrezza che a fine mese può fare la differenza. «Devi saper parlare le lingue, almeno in maniera maccheronica, essere paziente, usare una determinata terminologia, che si apprende soltanto sul campo, con l'esperienza, e naturalmente essere simpatico senza risultare troppo invadente». In molti contesti il calcio può essere di aiuto. «Soprattutto con i sudamericani. Ci cascano spesso». Nel caso dei rapporti con le donne, invece, abbondano gli antichi cliché sull'italian lover. «Storie ne girano parecchie», sorride. «È come nella vita. Un po' di faccia tosta aiuta sempre».
Nel frattempo la luce ha oramai abbandonato la città e il pomeriggio sta per volgere al termine. I ritmi di un urtista in fondo seguono i cicli circadiani. È tempo di bilanci («oggi ho incassato un centinaio di euro») e di cominciare a chiudere la baracca. Due ragazze però sembrano in avvicinamento. C'e' ancora spazio per un ultimo approccio. Manuel fa un veloce passetto in avanti e parte spedito: Algo para la suegra?
(la Repubblica, 7 aprile 2017)
Squadra ebraica al torneo delle parrocchie
La prima volta che partecipa il team della comunità romana
di Luca Monaco
Quando il calcio diventa solidale: i migranti scendono in campo insieme ai detenuti a fine pena e ai volontari del servizio civile delle Acli. Per la prima volta, anche la Comunità ebraica giocherà una partita di Fair-play nell'ambito dell'ottava edizione del torneo interparrocchiale di calcio a cinque "San Giovanni Paolo II", promosso dall'Unione sportiva delle Acli di Roma con il patrocinio della Regione Lazio, del Comune, del Coni e del Vicariato di Roma. Oltre 30 formazioni provenienti da tutti i quartieri della città, specie i più periferici, come Tor Bella e San Basilio, si sfideranno nei centri sportivi affiliati alle Acli. La competizione prenderà il via subito dopo Pasqua e si concluderà nel mese di luglio. «È un'edizione speciale - afferma il presidente dell'Us Acli di Roma, Luca Serangeli - che vede per la prima volta coinvolta la Comunità Ebraica di Roma che ringrazio per la disponibilità. Il nostro torneo attraverso il calcio crea degli importanti ponti di dialogo e condivisione». Chissà se a spuntarla saranno i rifugiati dei centri di accoglienza, i detenuti dell"'Isola solidale" o i volontari delle Acli. Di sicuro, anche quest' anno, vincerà lo spirito di solidarietà.
(la Repubblica - Roma, 7 aprile 2017)
La bandiera della Brigata ebraica non parteciperà alla celebrazione del 25 Aprile a Cagliari
Il Presidente dell'Associazione Chenàbura@sardos pro Israele, Mario Carboni, della Federazione Italia Israele, anche a nome di altre Associazioni sarde ha inviato una lettera alla Presidenza del Comitato 25 aprile di Cagliari per comunicare che non parteciperanno alla sfilata nel giorno della Liberazione per questioni politiche e di sicurezza, organizzando autonome attività in ricordo della Brigata ebraica e dei resistenti e caduti ebrei nella lotta per la Liberazione dal nazifascismo.
Carboni spiega in una lunga lettera indirizzata a Marco Sini, presidente del Comitato 25 aprile di Cagliari, le ragioni della mancata partecipazione alla ricorrenza, evidenziando che nelle precedenti edizioni si sono verificati episodi di provocazioni e insulti da parte di ben identificati gruppuscoli, fortunatamente assolutamente minoritari, in grado comunque di creare tensioni e mettere in discussione oltre la sicurezza fisica dei partecipanti anche lo stesso spirito della Liberazione che vuole ricordare perchè rimanga indelebile nelle mente degli uomini e delle donne di tutto il mondo la nefasta azione del nazifascismo che in Europa ha provocato tanto dolore e immense tragedie.
(Buongiorno Alghero, 6 aprile 2017)
Insediamenti ebraici e territori contesi: è terra di Israele da difendere
di Ruben Spizzichino
Ancora una volta la Corte Suprema israeliana torna a dividere Israele e il mondo ebraico. Poche settimane fa abbiamo assistito a un nuovo straziante episodio che ha mobilitato la società israeliana: il ritiro da Amona. Tanti gli israeliani accorsi nella zona per difendere i diritti dei loro fratelli, ma non è bastato. Ancora una volta siamo costretti a vedere ebrei sradicati da ebrei.
Sono molti gli intellettuali che si riempiono la bocca con i famigerati territori occupati (sulla carta contesi), convinti che gli insediamenti siano il vero cancro d'Israele, l'unico ostacolo alla pace. Alcune di queste persone, le vediamo battersi e impegnarsi durante la settimana della Memoria, diffondendo e ripetendo senza sosta e con un pizzico di retorica il mantra "Non ci può essere futuro senza Memoria". Ebbene la storia degli insediamenti è abbastanza chiara e molto dovremmo imparare da questa.
Per "insediamenti" si intendono le città o villaggi dove gli ebrei si sono stabiliti in Giudea e Samaria (Yehuda veShomron - Cisgiordania) e nella Striscia di Gaza, da quando Israele conquistò la regione nella guerra del '67. Nella maggior parte dei casi, gli insediamenti sono situati in luoghi dove erano già presenti comunità ebraiche prima della nascita dello Stato. Dopo la miracolosa sconfitta inflitta ai danni della coalizione araba nella guerra dei sei giorni, le preoccupazioni strategiche hanno portato entrambi i principali partiti politici di Israele, Labour e Likud, a sostenere e incentivare gli insediamenti in tempi diversi. I primi insediamenti sono stati costruiti sotto i governi laburisti 1968-1977, con l'obiettivo esplicito di garantire la sicurezza nelle regioni strategiche della Cisgiordania.
La seconda fase degli insediamenti è iniziata nel '68 a Hebron, una città con una cospicua presenza ebraica, interrotta a causa del pogrom perpetrato dagli arabi nel 1929. Un massacro senza precedenti. L'ultimo gruppo di ebrei, oggi considerati "coloni", si trova nella West Bank, a pochi chilometri dai villaggi arabi, gli stessi villaggi che vietano l'ingresso ai cittadini israeliani ebrei. Va ricordato, poi, che il 60% degli israeliani che vivono in Cisgiordania, risiede in soli cinque blocchi di insediamenti - Ma'ale Adumim, Modiin Ilit, Ariel, Gush Etzion, Givat Ze'ev - che si trovano tutti nel giro di sole poche miglia dalla linea armistiziale del 1949, altrimenti nota come "linea verde".
Assistiamo a una demonizzazione continua dei territori contesi, a volte sostenuta da ebrei in cerca di protagonismo. Convinti che il vero problema dello Stato ebraico sia questo e che la delegittimazione d'Israele sia una conseguenza dovuta, non comprendono (o forse lo comprendono bene) di fare il gioco dell'antisionista: considerare l'intero Israele un'unica colonia e quindi destinata a essere sradicata.
I nemici di Israele affermano che gli insediamenti sono un ostacolo alla pace. In realtà è esattamente il contrario e la storia ce lo ha già dimostrato. Nel 1949-1967, quando agli ebrei era proibito di vivere in Cisgiordania, gli arabi rifiutarono, nella maniera più assoluta di fare la pace con Israele. Nel 1967-1977, il partito laburista, che stabilì alcuni insediamenti strategici nei territori, incentivò gli arabi a optare per la collaborazione e la pace più che per il terrorismo. Nel 1978, in seguito alla visita del presidente egiziano Anwar Sadat a Gerusalemme, Israele congelò gli insediamenti, con la speranza che il mondo arabo aderisse al processo di pace di Camp David. Ma nulla di tutto ciò avvenne. In un altro vertice di Camp David nel 2000, Ehud Barak offrì di smantellare la maggior parte degli insediamenti e di creare uno Stato palestinese in cambio della pace, Yasser Arafat rifiutò. In breve, la documentazione storica mostra che, ad eccezione di Egitto e Giordania, gli Stati arabi e i palestinesi sono stati intransigenti, indipendentemente dal ruolo degli insediamenti.
Nell'agosto 2005, Israele ha evacuato tutti gli insediamenti nella Striscia di Gaza e quattro in Cisgiordania nell'ambito del piano di disimpegno avviato dal primo ministro Sharon. Questo è stato un cambiamento drammatico per tutta la società israeliana. Ebrei cacciati dai loro stessi fratelli.
Israele ha dato tutto il territorio a Gaza e evacuato alcuni insediamenti in Cisgiordania senza alcun accordo con i palestinesi, che ora hanno piena autorità sulla popolazione all'interno di Gaza. Invece di ottenere la pace in cambio territori, Israele ha ricevuto ancora più terrore. Hamas, privo di una supervisione israeliana, è salito al potere, ha negato i diritti basilari alla popolazione e invece di utilizzare ingenti fondi per costruire le infrastrutture per il futuro Stato di Palestina (?) ha investito il denaro in armi, tunnel, reclutamento di terroristi e ville con piscina per i capi.
Che cosa abbiamo ottenuto in seguito al ritiro dagli insediamenti nella Striscia di Gaza? Un abbonamento fisso con i Qassam di Hamas. Gaza è diventata l'incubatrice del terrorismo palestinese. Il Sud d'Israele è perennemente sotto attacco. Ma ormai è tardi per rimpiangere Gush Katif.
(Unione Giovani Ebrei Italiani, 5 aprile 2017)
Nasce East Med, il nuovo gasdotto che collegherà Israele all'Italia
di Paolo Mauri
Il piano prevede un investimento privato di 6/7 miliardi di dollari per la costruzione di un gasdotto sottomarino di 2200 km, il più lungo al mondo, entro il 2025. La nuova linea collegherà, se tutto andrà secondo i piani, la zona del Mediterraneo Orientale all'Italia e quindi all'Europa, che vede arrivare questa importante risorsa principalmente dai giacimenti della Russia e del Mare del Nord; giacimenti che sono destinati ad esaurirsi in una manciata di lustri a causa dello sfruttamento ormai decennale. La nuova connessione alle riserve dell'offshore cipriota e israeliano rappresenta così, secondo l'Ue, una importante fonte di diversificazione che garantirà l'approvvigionamento di gas per le prossime decadi. "Supportiamo il progetto East Med e auspichiamo il rapido completamento della fase di studio" ha detto Miguel Arias Cañete, Commissario Europeo per l'Energia e il Clima, aggiungendo che confida che il piano riceverà il finanziamento adeguato dall'Unione Europea che lo considera un progetto di interesse comunitario. Per questo Bruxelles ha già finanziato gli studi di fattibilità del progetto che sono stati condotti dalla IGI Poseidon, una joint venture "50 - 50" formata dalla italiana Edison e della greca Depa Group.
Il Ministro dello Sviluppo Economico Calenda ha affermato che l'infrastruttura è un progetto prioritario per il nostro Paese, considerata la volontà di eliminare il carbone come fonte energetica e di costruire una linea di approvvigionamento di gas naturale sicura. Toni entusiastici da parte del Ministro delle Infrastrutture Nazionale, Energia e Acqua di Israele Yuval Steinitz, che durante la conferenza stampa di presentazione di Tel Aviv ha dichiarato che "Questo è l'inizio di una meravigliosa amicizia tra quattro paesi del Mediterraneo". Sicuramente la diversificazione delle fonti è importante in chiave strategica, soprattutto assicurarsi fonti energetiche non ancora sfruttate come quelle dell'offshore di Cipro o del fan del Nilo, ma crediamo che la concorrenza russa tramite il Turkish Stream ed il Tap (è notizia recente che Gazprom è interessata a inserirsi nel gasdotto adriatico vista la bocciatura di South Stream), oltre che quella americana e delle monarchie del Golfo si farà sentire: forti interessi politici stanno infatti spingendo per la costruzione in Italia di nuovi rigasificatori, oltre ad aver visto, recentemente, l'approdo a Livorno di una metaniera colma di gas shale proveniente dagli Stati Uniti, primo, e per il momento unico caso nella storia.
(Il Primato Nazionale, 6 aprile 2017)
«L'islamica Pd rinneghi chi boicotta Israele»
Appello a Sumaya: si dissoci dalle campagne d'odio. Fi: episodio grave
di Andrea E. Cappelli
Il caso
La consigliera comunale Pd Sumaya Abdel Qader ha partecipato all'evento organizzato dall'associa- zione del movimento che boicotta Israele
Le reazioni
I membri della Comunità ebraica chiedono a Sumaya di «chiarire la sua posizione in maniera forte contro chi aizza lo scontro di civiltà e l'odio tra i popoli
L'invito
Sumaya ha affermato di essere stata Invitata all'evento dall'associazione «Per I Diritti Umani», che però nega di aver effettuato l'invito
La presenza della consigliera comunale Pd all'evento organizzato dall'associazione che boicotta Israele ha suscitato molte reazioni, provenienti dalle realtà associative più disparate. Compresa la Comunità ebraica di Milano, che attraverso un comunicato chiede che la consigliera faccia chiarezza: «Prendiamo atto con favore delle dichiarazioni della consigliera comunale Sumaya Abdel Qader, laddove sottolinea di non fare parte del movimento Bds (movimento per il boicottaggio contro Israele, nda). Ma non basta; dalla Francia alla Gran Bretagna al Canada sempre più governi condannano pubblicamente questi gruppi, il cui unico scopo è andare contro l'intero popolo di Israele in maniera indiscriminata e razzista».
Secondo la Comunità ebraica, le politiche di Bds «spesso sfociano in vero e proprio antisemitismo». Ora, i membri della Comunità ebraica chiedono a Sumaya di «chiarire la sua posizione in maniera forte contro chi aizza lo scontro di civiltà e l'odio tra i popoli, invece che il dialogo. Vogliamo la conferma che la consigliera sia diversa da quelle persone intrise di rancore, e non riteniamo accettabile che possa tacere davanti a chi muove campagne di odio non contro un governo, ma contro un intero popolo. Non è questa la tradizione della nostra città che ha fatto della diversità e della tolleranza un modello per l'intero Paese». Ora, dopo l'appello degli Amici di Israele - riportato su Libero di ieri - anche la Comunità ebraica chiede a Sumaya un impegno concreto, dissociandosi in maniera netta dall'operato del Bds.
A questo proposito, martedì la consigliera Pd ha affermato di non far parte in alcun modo del movimento, e di essere stata invitata all'evento dello scorso 10 dicembre dall'associazione «Per i Diritti Umani». I membri di quest'ultima specificano però di non aver mai invitato la consigliera Pd alla serata (incentrata sulla proiezione del docufilm di Napoliflash24: «Palestina, pace e libertà», a cura di Raffaele Cofano e Simona Caruso ). «L'Associazione per i Diritti Umani di Milano - scrivono - si vede costretta a dissociarsi dai ciò che è stato scritto nell'articolo, dato che non ha mai invitato la consigliera Ab del Qader. Siamo attivi sul territorio da più di 4 anni e cerchiamo di essere attenti nel tutelare tutti, i diritti e i doveri e non facciamo "imboscate" a nessuno». Tramite alcune verifiche è risultato che in realtà ad invitare Sumaya quella sera sia stato un «gruppo informale» dal nome simile, il «Gruppo di attivisti per i diritti umani». Un simpatizzante degli "attivisti" ci conferma di aver invitato la consigliera Pd, specificando che l'evento pubblico non è stato organizzato da Bds. Secondo questa versione, alcuni membri Bds presenti all'incontro avrebbero reperito le fotografie della serata per poi pubblicarle sulla loro pagina Facebook (Coordinamento BDS Lombardia). Ora tutte le immagini che ritraevano Sumaya sono repentinamente scomparse dal profilo social martedì pomeriggio. Ne restano solo 5, più una descrizione: «BDS Milano ha presentato il 10 dicembre, nello spazio ChiAmaMilano: Palestina, Pace e Libertà, il docufilm di Napoliflash24». Il movimento quindi continua a rivendicare la paternità dell' evento.
Sulla questione interviene anche Gianluca Comazzi (Fi): «È gravissimo che un'esponente di punta del Pd abbia partecipato a un'iniziativa che può essere ricondotta al movimento per il boicottaggio di Israele. Mi aspetto che il coordinatore regionale del Pd prenda provvedimenti nei confronti della sua consigliera, che finora ha sempre coccolato».
(Libero - Milano, 6 aprile 2017)
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Sumaya coi «Bds». Gli ebrei: «Chiarisca»
Polemiche sulla consigliera Pd ospite a un evento del gruppo che boicotta Israele. «lo mi devo fidare della buona fede di Sumaya. É una figura adatta per dialogare col mondo musulmano», così il sindaco Beppe sala in campagna elettorale.
Ancora un caso, ancora un motivo di imbarazzo per il Pd. L'ultimo episodio che riguarda la consigliera comunale Sumaya Abdel Qader è la partecipazione a un'iniziativa del «Bds», il movimento per il «Boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele». Nel Bds militano dei filopalestinesi che arrivano ad assumere posizioni di aperta ostilità nei confronti dello Stato israeliano. La Abdel Qader, vicepresidente della commissione Cultura, e in passato responsabile cultura dei centri islamici milanesi, il 10 dicembre è intervenuta alla presentazione di un docufilm: «Palestina, Pace e Libertà». Nel suo intervento, fino a pochi giorni fa visibile sul profilo facebook del movimento, la consigliera Pd portava il suo saluto, con parole di circostanza molto apprezzate dai promotori, che avevano pubblicato le foto dell'incontro. La partecipazione stessa della consigliera Pd all'iniziativa di una sigla così controversa era destinata a suscitare reazioni, tenuto conto anche dei precedenti: le discusse dichiarazioni su Brigata ebraica e antisemitismo. La notizia dell'incontro col Bds è comparsa anche sul sito degli Amici di Israele. E il segretario degli «Adi», Davide Romano, al Giornale (che due giorni fa ha dato conto della vicenda) ha detto: «Auspico che Sumaya Abdel Qader colga l'occasione del 25 aprile per riconoscere chiaramente il valore di quei sionisti che sono venuti in Europa per combattere contro il nazifascismo e per la democrazia». Ora è la stessa Comunità ebraica che interviene. Prende atto «con favore delle dichiarazioni della consigliera comunale dove sottolinea di non fare parte del movimento Bds. Ma non basta» - avverte. Gli ebrei ricordano «che il Bds da tempo fa una politica che spicca per le posizioni di rancore anti-israeliano che spesso sfociano in vero e proprio antisemitismo». E visto che la Abdel Qader è vice-presidente della commissione Cultura, le chiedono «di chiarire la sua posizione in maniera forte e chiara contro chi -come il Bds - aizza lo scontro di civiltà e l'odio tra i popoli, invece che il dialogo e la fratellanza». «Lo chiediamo - conclude la comunità - perché vogliamo la conferma che la consigliera comunale della nostra città sia diversa da quelle persone intrise di rancore, e anche perché non riteniamo accettabile che la vice-presidente della commissione Cultura possa tacere davanti a chi muove campagne di odio non contro un governo, ma contro un intero popolo». AIGia
(il Giornale - Milano, 6 aprile 2017)
Gran Bretagna, frasi su nazismo e sionismo: ex sindaco di Londra divide il Labour
Ken Livingstone sospeso per un anno dopo le sue teorie su Hitler e lo Stato ebraico. Ma il partito si divide. Attacco a Corbyn: "Avrebbe dovuto espellerlo".
di Enrico Franceschini
Ken Livingstone, sindaco di Londra dal 2000 al 2008
LONDRA - Non c'è pace per il partito laburista britannico. Ken Livingstone, l'ex sindaco di Londra, è stato sospeso dal Labour per un anno a causa di nuove dichiarazioni su una presunta collaborazione tra il nazismo e il sionismo. Ma la misura disciplinare viene giudicata insufficiente da ampi settori del partito, che chiedono che Livingstone sia espulso per sempre, non semplicemente sospeso per un per un periodo di tempo. "Una punizione inadeguata è una vergogna per tutti noi", commenta Tom Watson, vice-leader laburista.
La polemica mette ancora una volta in discussione la leadership di Jeremy Corbyn. Anche se è stato il Comitato Esecutivo del Labour a decidere il tipo di sanzione nei confronti di Livingstone, non Corbyn, il leader è legato all'ex-sindaco da una simile ideologia: entrambi appartengono all'ala più radicalmente di sinistra del partito. "Non voglio intervenire nel processo disciplinare, ma il comportamento di Kenn dopo avere ricevuto la sanzione potrebbe rendere necessaria un'inchiesta", ha affermato Corbyn quando la contestazione si è fatta più accesa. La mancata presentazione di scuse da parte dell'ex-sindaco, anche davanti alla reazione della comunità ebraica di Londra, che si è detta "offesa e ferita" dalle sue parole, è vista come un ulteriore capo d'accusa. Dunque non è escluso che la sospensione diventi nei prossimi giorni un'espulsione.
Livingstone si era già cacciato nei guai lo scorso anno sostenendo che Hitler era inizialmente "un sionista", ovvero un sostenitore della creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Nei giorni scorsi ha nuovamente espresso vedute analoghe, parlando della "collaborazione" che ci sarebbe stata tra il Terzo Reich e i primi focolai di sionisti, inclusa la fornitura di armi dalla Germania agli ebrei. La maggior parte degli storici smentiscono che il nazismo abbia mai avuto simpatia per gli ebrei e il sionismo. E l'atteggiamento di Livingstone è bollato come antisemitismo dai suoi critici. "E' stato un grande sindaco di Londra, ma oggi sta facendo molto male alla propria reputazione e a quella del Labour", scrive un columnist del Guardian. A questo punto il problema non è più soltanto l'ex sindaco, che del resto non ha alcun ruolo di primo piano nel partito, ma ancora una volta Corbyn: a sua volta oggetto di pesanti critiche, dalla posizione troppo timida sulla Brexit a una linea giudicata troppo radicale per poter vincere le elezioni, come indicano i sondaggi che gli assegnano un distacco di circa 18 punti dai conservatori di Theresa May. E che ora sarà giudicato anche per il modo in cui risolverà il caso Livingstone.
(la Repubblica, 6 aprile 2017)
Arriva Britney a Tel Aviv? I laburisti rinviano le primarie
La scelta del leader slitta di un giorno
TEL AVIV - Il concerto di Britney Spears a Tel Aviv fa slittare di un giorno le primarie del Partito laburista israeliano. La cantante americana suonerà il 3 luglio all'Hayar kon Park, proprio nello stesso giorno in cui il partito - la cui sede è praticamente di fronte al parco-dovrebbe scegliere il nuovo leader. Così l'attuale numero uno laburista Isaac Herzog ha preferito spostare l' evento dal lunedì 3 al martedì 4 luglio.
Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il timore dei laburisti è che i loro sostenitori preferiranno il concerto al voto. Tanto più che è la prima volta che la rock star arriva in Israele. Il portavoce del partito, però, ha negato sul Times of lsrael che la decisione di far slittare la votazione sia causata dall'attenzione generata dal concerto, parlando semmai di problemi tecnici. Da una parte il rischio di ingorghi di traffico provocati da chi intende raggiungere il parco, che potrebbero scoraggiare i potenziali votanti. Dall'altra la difficoltà di trovare abbastanza agenti per garantire la sicurezza e il buon funzionamento dell'evento elettorale. Sì, perché il timore di attentati all'evento pop, vedrà impegnato un gran numero di poliziotti.
A correre per la guida del maggior partito d'opposizione israeliano, contro l'attuale leader Isaac Herzog c'è l'ex leader del partito Amir Peretz, l'ex ministro dell'ambiente Avi Gabai, l'ex colonnello Omer Bar-Lev, il giornalista Eldad Yaniv e il generale in pensione Yom-Tov Samia. Ma c'è tempo fino al 27 aprile per sottoporre la propria candidatura.
(la Repubblica, 6 aprile 2017)
Parashà della settimana: Tzav (Ordina!)
Levitico 6:1-8:36
- Il Signore parlò a Moshè dicendo: "Ordina (tsav) ad Aaronne e ai suoi figli dicendo loro: Questa è la legge del sacrificio" (Lev. 6.1).
Bisogna chiarire che il sacrificio offerto al Tempio, per riparare un errore commesso, questo errore deve essere considerato "involontario" mai premeditato. Per tale ragione secondo Rashì il nome di D-o presente nella legislazione riguardante i sacrifici è il Tetragramma (Yod-he-wav-he), simbolo della Sua misericordia e del Suo perdono. I sacrifici dunque, malgrado le apparenze, sono espressione di sentimenti sinceri verso D-o per cui un uomo che offre un sacrificio vuole educare la propria volontà e purificare il proprio cuore. Difatti i nostri Saggi sostengono che i sacrifici e le preghiere sono strettamente legati ai pensieri (havanà) dell'individuo, per cui se questi sono impropri squalificano la stessa preghiera. Il processo del sacrificio corrisponde ad una logica di pensiero dove ogni gesto è atto a riparare l'errore commesso, provocando nel peccatore una profonda trasformazione spirituale.
Offerte
Le offerte portate al Tempio del Signore sono di specie "vegetale" che esprimono la relazione dell'uomo con la natura e di specie "animale" che mettono in relazione il popolo ebraico con la terra d'Israele. In questa ottica si comprende il legame tra la Terra e il dono della Torah, che non può essere quella "dell'esilio" ma la Torah d'Israele, anche detta "Koah ma'assav". E' questa forza dell'azione che permetterà di respingere l'accusa ipocrita che attraversa la Storia: il furto della Terra d'Israele da parte del popolo ebraico.
La parashà di Tsav esprime un ordine di D-o: quello di essere solleciti, senza indugiare, nel contrastare l'istinto del male che è sempre in agguato nel cuore dell'uomo. Il Signore disse a Caino " se non agirai bene, il peccato sta in agguato alla porta. Esso ha desiderio di te, ma tu puoi dominarlo" (Gen. 4.7).
E quale è il sacrificio con cui si può riparare il peccato commesso? Il sacrificio di "shelamim" (ringraziamento) che porta alla pace (shalom). "Questa è la legge del sacrificio di shelamim che viene presentato al Signore" (Lev. 7.11).
Il midrash Tanhumà riferisce che le Nazioni del mondo, quando hanno appreso l'ordine dato agli ebrei di offrire i sacrifici, avrebbero voluto fare altrettanto. Sono andati allora da Bilam il profeta per chiedere chiarimenti. Bilam ha risposto loro che il Signore parla ad Israele con pace come scritto: "Egli parla con pace al suo popolo e ai suoi fedeli in modo che questi non agiranno con stoltezza" (Sal. 85.9).
In cosa consiste la pace? Nei sacrifici che vengono ordinati agli ebrei perché hanno ricevuto la Torah come scritto: "Il Signore benedirà il suo popolo con la pace" (Sal. 29.11). La risposta di Bilam è eloquente: "Le Nazioni del mondo non sono obbligate a portare sacrifici, perché queste non hanno ricevuto la Torah". Oggi essendo stati i sacrifici sostituiti con la preghiera, è compito del popolo ebraico portare la pace nel mondo con la forza della sua preghiera ed è proprio questo che fa la differenza con gli altri popoli della terra.
Una spiegazione infine sul sacrificio in rapporto al tempo e allo spazio. Il "tempo" del sacrificio viene stabilito da colui che porta il sacrificio come il tempo della preghiera è un tempo stabilito. Ecco ancora il loro legame. Per quanto riguarda lo"spazio" bisogna puntualizzare che il luogo del sacrificio deve essere sul Monte del Tempio unico luogo in cui questi sono permessi. F.C.
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- "Parla ad Aaronne e ai suoi figli e di' loro: Questa è la legge del sacrificio per il peccato. Nel luogo dove si sgozza l'olocausto, sarà sgozzata, davanti all'Eterno, la vittima per il peccato. É cosa santissima" (Lev. 6:18).
I sacrifici cruenti, gli sgozzamenti "davanti all'Eterno", il sangue che scorre a litri per rimettere ordine tra Dio e l'uomo e far sì che i rapporti fra Creatore e creatura procedano "in pace", sono elementi che gli uomini di oggi, nella nostra società occidentale, fanno molto fatica a inquadrare nel loro sistema di pensiero.
Gli ebrei, che dovrebbero essere i più interessati, mostrano di saperne fare tranquillamente a meno. Anzi, verosimilmente sono abbastanza contenti di poterli evitare, e volentieri li sostituiscono con preghiera, pentimento e atti di misericordia.
I cristiani riferiscono tutto al supremo sacrificio di Cristo, e questo è certamente corretto. Ma il problema tuttavia per l'uomo moderno rimane, anzi è aggravato, perché l'uomo non riesce a mandare giù che un Padre potente e amorevole acconsenta a far scorrere il sangue di suo Figlio, lasciando che sia ucciso "per man d'iniqui" (Atti 2:23).
"Noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo e per i Gentili pazzia" (1 Corinzi 1:23), dice l'apostolo Paolo, e le sue parole sono pienamente attuali. Infatti, si potrebbe chiedere oggi ai Giudei se per loro è più scandaloso dire che Gesù è Dio o che il Messia d'Israele è quell'uomo appeso al legno dai Gentili. E ai Gentili si potrebbe chiedere se per loro è più da pazzi dire che Gesù è Dio o che la soluzione definitiva dei problemi politici e morali del mondo si trova in quel Giudeo giustiziato dai Romani.
I sacrifici cruenti s'inquadrano difficilmente nel nostro modo di pensare perché sono un riflesso anticipato di quello scandalo e di quella pazzia che è la croce di Gesù Cristo agli occhi del mondo. Tuttavia, anzi proprio per questo, chi legge e riconosce l'autorità della Bibbia non può fare a meno di meditarvi sopra, fino al punto che questi atti "crudeli" non cessino di essere per lui scandalo o pazzia. "Perché la parola della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi che veniamo salvati è la potenza di Dio" (1 Corinzi 1:18). La rivelazione biblica non è un discorso ben congegnato che si capisce esaminandolo pezzo dopo pezzo, prima una cosa poi l'altra, fino a che si arriva a capire il tutto. Soltanto se si arriva a capire il tutto, si possono capire le parti.
Il quadro giuridico dei rapporti tra Dio e l'uomo
Dall'insieme della rivelazione biblica si ricava che il rapporto tra Dio e l'uomo si muove in un quadro che nella sua essenza non è né mistico né etico, ma giuridico. Il che è tipicamente ebraico. La parola di Dio rivolta all'uomo è sempre una parola d'autorità, anche quando presenta un dono. La frase "Mangia pure del frutto di ogni albero che cresce nel giardino... ma del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che ne mangerai certamente morrai" (Gen. 2:16-17), è come l'ordinanza di un sindaco, fatte salve le dovute proporzioni. Ne discende che chi trasgredisce la norma, anche se nell'immediato non ne subisce le conseguenze, contrae un debito con il potere giuridicamente costituito che l'ha emanata. E prima o poi dovrà pagare.
Una costante emerge allora dalla Bibbia: ogni peccato dell'uomo equivale alla contrazione di un debito con Dio nel quadro del suo sistema giuridico, e in quanto tale dovrà essere pagato all'interno del sistema stesso, senza speranza di poter fare appello a qualche entità superiore, perché non c'è.
Se il peccato è un debito, si capisce allora che cos'è l'espiazione: estinzione del debito. Nella forma prevista dal Legislatore, naturalmente, perché non ci possono essere altre strade.
Il dono ricevuto da Adamo all'inizio della storia, e in lui da tutta l'umanità che ne sarebbe discesa, è la vita. L'estinzione del debito contratto con la trasgressione della norma che accompagnava il dono poteva avvenire soltanto con la restituzione della vita, cioè la morte. "Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini" (Romani 5:12).
Si può citare allora un versetto del Levitico che incontreremo più avanti ed è di fondamentale importanza nel contesto di questo discorso: "La vita della carne è nel sangue. Per questo vi ho ordinato di porlo sull'altare per fare l'espiazione per le vostre persone; perché il sangue è quello che fa l'espiazione, per mezzo della vita" (Lev. 17:11).
Il sangue sparso "fa l'espiazione" perché rappresenta la morte, che è l'estinzione di un debito di vita.
I nostri progenitori
Il debito con Dio contratto da Adamo ed Eva a causa del loro peccato richiedeva la morte, per loro e per tutto il genere umano che ne sarebbe disceso. Il Signore non ha rimesso il debito, ma ha pensato ad un modo di estinguerlo che non significasse la fine del suo progetto. Adamo ed Eva muoiono, quindi personalmente estinguono il loro debito di vita, che invece resta su tutto il genere umano da loro disceso. Sull'umanità dunque pende da sempre un debito paragonabile a quello che ha l'Italia con il sistema finanziario internazionale: è inestinguibile. E come è vero che, a quanto ci dicono, ogni italiano è automaticamente iscritto tra i debitori della finanza internazionale fin da quando è registrato la prima volta all'anagrafe, così è vero, anzi è ancora più vero, che ogni uomo nasce in debito con Dio fin da quando emette i primi vagiti. In altre parole, l'uomo nasce in debito di vita con Dio, e questo si riconosce in modo molto semplice dal fatto che dopo avere ricevuto la vita nella nascita, prima o poi la restituisce nella morte.
E' in quella "progenie della donna" (Gen. 3:15) di cui parla il libro della Genesi che il Signore fa intravedere per la prima volta la sua intenzione di far sì che l'umanità abbia un giorno il modo di saldare il debito con Lui, senza morire per sempre. E' il primo, velato annuncio del Messia.
E' da notare che il primo spargimento di sangue sulla terra è avvenuto per opera di Dio, quando ha ucciso le bestie da cui ha tratto le pelli per coprire Adamo ed Eva. E' il primo segno della volontà di redenzione di Dio attraverso il sangue.
Un servo cieco e sordo, ma amato e riscattato
La chiamata di Abramo fa capire che il progetto di redenzione pensato dal Signore prevede la costituzione di un suo popolo particolare: Israele. Il popolo ovviamente non poteva che essere costituito da peccatori, come la Scrittura mostra chiaramente senza alcuna reticenza, ma il desiderio del Signore era di fare di lui uno strumento santo, cioè diverso e separato dagli altri, per il compimento del suo piano. La santità di Israele, la sua unicità rispetto agli altri popoli, avrebbe dovuto essere espressa dal carattere unico del patto che l'avrebbe legato a Dio.
Questo è avvenuto con la costituzione del primo patto del Sinai, il cui atto giuridicamente valido è presentato nel passo di Esodo 24:3-11. Se questo patto fosse stato osservato, Israele sarebbe rimasto un popolo di peccatori, ma nella sua personalità corporativa sarebbe stato "un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es. 19:6), cioè un "servo del Signore", titolo altamente onorifico.
Il seguito della storia mostra che Israele è rimasto il servo del Signore, ma allora come si spiega che di questo servo, Dio dica: "Chi è cieco, se non il mio servo, e sordo come il messaggero inviato da me? Chi è cieco come colui che è mio amico, cieco come il servo del Signore? (Isaia 42:19).
Come in altri casi, la spiegazione si trova all'origine: nella rottura del primo patto del Sinai. Come nel caso di Adamo, la rottura di quel patto richiedeva la morte del popolo, cioè la sua distruzione. Per l'intercessione di Mosè, la condanna non è stata eseguita, ma il debito di vita non è stato estinto. Dunque, dopo la rottura del patto, Israele ha con Dio un debito in più rispetto agli altri popoli: quello di aver infranto il patto che il Signore aveva stipulato esclusivamente con lui. Con nessun altro popolo Dio ha mai fatto un accordo simile: dunque nessun popolo può essere peccatore come Israele.
Eppure, a questo popolo che ha con Lui un debito che nessun altro ha, il Signore, poco dopo avergli detto che è un servo cieco e sordo rivolge parole come queste:
"Ma ora così parla l'Eterno, il tuo Creatore, o Giacobbe, Colui che t'ha formato, o Israele! Non temere, perché io t'ho riscattato, t'ho chiamato per nome; tu sei mio! ... Perché tu sei prezioso agli occhi miei, tu sei pregiato e io ti amo; io do degli uomini al posto tuo e popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te; io ricondurrò la tua progenie dal levante, e ti raccoglierò dal ponente" (Isaia 43:1-5).
I cristiani evangelici conoscono bene queste parole, ne hanno fatto anzi un bell'inno. Purtroppo però, invece di identificarsi con il Signore nel suo amore per Israele, si identificano con l'oggetto amato dal Signore dimenticando che si tratta di Israele. E senza nemmeno accorgersi di commettere un furto, il credente canta con fervore "io t'ho riscattato, t'ho chiamato per nome", mentre pensa al suo proprio nome, non a quello di Israele. Proprio il credente in Cristo, che sa di essere stato riscattato dalle conseguenze del suo peccato attraverso il sangue di Gesù versato sulla croce, dovrebbe ben capire che cosa significano le parole di Dio rivolte a Israele: "Io ti ho riscattato". E' con la morte del Messia Gesù che viene pagato il debito di vita contratto da Israele al momento della violazione del primo patto del Sinai. I numerosi sacrifici richiesti a Israele nella seconda legislazione, verosimilmente non tutti presenti nella prima, servono a mantenere vivo il ricordo del peccato e il bisogno di estinzione del debito attraverso lo spargimento di sangue. E nello stesso tempo prefigurano il "sangue del patto" che Gesù verserà sulla croce per la salvezza di Israele e di tutta l'umanità. "Questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per la remissione dei peccati" (Matteo 26:28). M.C.
«Israele: diritto ad esistere. Il sionismo come diritto alla nazione»
Sionismo e nazione, serata con il senatore Luigi Compagna
BOLZANO - «Israele: diritto ad esistere. Il sionismo come diritto alla nazione» è il titolo di un incontro programmato per oggi alle 20,30 a Bolzano. Nella sala Antico municipio di piazza Gries 18 - nel sottotetto - interverranno il presidente dell'Associazione Italia-Israele Alto Adige Alessandro Bertoldi, la presidente della comunità ebraica di Merano Elisabetta Rossi Innerhofer e il senatore Luigi Compagna, autore del libro «Theodor Herzl, il Mazzini d'Israele» edito per i tipi di Rubbettino. La serata sarà l'occasione per fare il punto sulla situazione in Medio Oriente e per parlare del sionismo e del suo significato nel contesto orientale.
(Corriere dell'Alto Adige, 6 aprile 2017)
Appendino: "Torino non è contro Israele"
Milano, Torino, Napoli, Modena. L'offensiva del movimento antisionista Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) è solo all'inizio ma si distingue per aggressività e capacità di infiltrarsi nei gangli istituzionali. La strategia ormai è chiara: conquistare il consenso all'interno delle amministrazioni locali, convincendo sindaci, assessori, consiglieri di maggioranza a sostenere iniziative, eventi, convegni organizzati dall'associazionismo palestinista e dai movimenti anti-israeliani. Con la retorica dei "diritti umani" e della "resistenza palestinese", unita ai soliti feticci linguistici dell'occupazione e dell'apartheid, l'impresa non sembra impossibile. I palestinesi soffrono? E' colpa di Israele. I territori contesi in Giudea e Samaria? Si tratta di occupazione illegale degli ebrei in Cisgiordania. Le intifade? Sono atti di resistenza contro gli invasori.
Deformazioni, manipolazioni, menzogne e diffamazioni contro Israele. Così il movimento Bds Italia ha conquistato la fiducia di sindaci che accettano di patrocinare eventi (come a Modena) o ospitano conferenze stampa nelle sale del comune (come a Torino), quando non dichiarano aperto sostegno alla causa (come a Napoli). Oppure l'adesione di consiglieri comunali del partito di maggioranza a Milano...
(Caratteri Liberi, 5 aprile 2017)
L'odio di Assad. La colpa di Obama
Stop all'orrore. A Damasco c'è un Hitler da destituire
di Fiamma Nirenstein
Ha una data di nascita il seme della sofferenza disumana dei bambini che ieri sono morti strangolati dal gas sarin, alla mercé del gas nervino che procura un'agonia fra indicibili sofferenze. Ha una data quella sicumera hitleriana per cui Assad ha deciso di bombardare Khan Sheikun, nella provincia di Idlib nelle ore del mattino di ieri, e poi di inseguire i feriti con altre bombe negli ospedali dove i medici cercavano, in molti casi invano, di affrontare il gas, invincibile nemico dell'organismo umano.
Ma per Assad che ha fatto il 70 per cento dei morti nel conflitto siriano, questa è routine. E lo sta diventando per tutti; che immensa vergogna. Fu quando nel settembre 2013 Obama annunciò con la sua consueta assertività di toni e di principi che l'accordo stretto con Assad di Siria avrebbe consentito di «rimuovere la minaccia senza usare le armi», che il rais siriano si accomodò sulla sua poltrona a Damasco sicuro che avrebbe potuto fare quel che voleva col sostegno di Putin il grande; degli iraniani, icona della mano tesa degli Usa all'islam; degli Hezbollah milizia la cui ferocia si diparte dal Libano per colpire tutto il mondo. Obama con quel discorso rinnegò la promessa da lui fatta di intervenire militarmente se il rais siriano avesse di nuovo superato «la linea rossa» ovvero l'uso delle armi chimiche con cui aveva ucciso mille persone a Damasco. Kerry aveva spiegato come si sapesse benissimo che l'uso del gas sarin e di altre porcherie chimiche usate dall'esercito di Assad avesse ucciso quei civili atrocemente perché erano contro il regime.
Fu allora, nel 2013, che la vicenda siriana acquistò sempre più dimensioni bibliche, che furono incrementate le stragi, che l'abbandono di Obama ha spinto Putin a una decisa politica mediorientale, ha gonfiato l'ondata di profughi terrorizzati che ha travolto l'Europa, ha reso l'Iran una potenza militare in cinque Paesi con un'estensione terroristica negli Hezbollah. Assad si approfittò bene della tregua, prese tutto il tempo a disposizione e ancora di più per consegnare parte delle armi chimiche, si calcola tuttavia che da quell'agosto del 2013 con quello che era riuscito a conservare abbia compiuto un'altra quarantina di attacchi con i suoi Sukoi 22. Da quando la tregua è in atto, ieri è stata una giornata un po' più pesante del solito: i morti sono un centinaio, mentre in genere Assad ha conservato una sua media di 35 morti al giorno, sempre alla ricerca di bersagli come quello di ieri in seno alle quali individua organizzazioni nemiche come Hayat Tahrir al Sham, che ha sede a Idlib, ma sempre allargando l'obiettivo ai civili e anche ai bambini.
L'attacco di ieri è un segnale molto pesante di quanto Assad, da quando Obama decise di non fermarlo, si senta sicuro. Non teme di riempire il mondo di disgusto e di rabbia. Se ne infischia. Anche Trump, avendo condannato l'attacco, non ha tuttavia annunciato nessun cambiamento di rotta politica. L'ipotesi più probabile è che specialmente dopo l'attacco terrorista di lunedì alla Russia di Putin, forse una reazione islamista al suo impegno militare contro l'Isis in Siria, Assad abbia agito, se non con il permesso, almeno certamente senza ricevere nessun divieto dai suoi alleati russi. E non ha nemmeno temuto di avvicinarsi al confine della Siria con la Turchia: tanto gli è favorevole la geopolitica del momento. Ma questo è orribile, come si fa a non conservarne la coscienza e a desiderare una reazione? Come si può intenerirsi per quel povero bambino, figlio di tutti noi, affogato e gettato dai flutti sulla spiaggia, e non per le creature uccise dal gas? I bambini di Idlib sono soli di fronte al mondo, nessuno segnerà una linea rossa dopo il fallimento del 2013, se non muoiono in un attacco chimico o in un bombardamento verranno avvolti, su acque in tempesta, dalla coperta della fuga sunnita che investe l'Europa.
(il Giornale, 5 aprile 2017)
Un ragazzo ebreo perseguitato
Da amici musulmani del suo liceo berlinese multietnico che sorge in un quartiere borghese. Ha dovuto cambiare scuola dopo aver subito gravi minacce.
di Roberto Giardina
Aaron Eckstaedt, direttore del ginnasio ebraico Moses Mendelsson a Berlinox
BERLINO - E' probabile che un paio d'anni fa non se ne sarebbe parlato, ma la situazione a Berlino, e nel paese, è cambiata a causa dell'arrivo di oltre un milione di profughi in poco più di un anno, e della tensione tra Erdogan e la Germania. Uno studente ebreo di 14 anni, nella capitale tedesca, è stato costretto a lasciare il suo ginnasio perché perseguitato e minacciato dai suoi compagni di scuola arabi e turchi. Una notizia che è finita su tutti i giornali nazionali, e data con risalto dalla Suddeutsche Zeitung alla Frankfurter Allgemeine.
Eppure la scuola nel quartiere di Friedenau appartiene alla rete Schule gegen Rassismus, e cerca di integrare ragazzi di etnie e religione diverse. Friedenau è un quartiere borghese, non è una zona turistica, e ai tempi del muro era una specie di colonia di intellettuali, da Günter Grass a Hans Magnus Enzesberger. La madre del ragazzo ha raccontato la vicenda al settimanale The Jewish Chronicle: aveva scelto appositamente quel ginnasio perché era frequentato da arabi e musulmani. Voleva che il figlio, nato e cresciuto a Londra, studiasse in una comunità multietnica. È andato tutto bene, finché il ragazzo non ha confidato a un compagno di essere ebreo, da quel momento è cominciato un mobbing sempre più pesante: un coetaneo gli ha detto che non potevano essere più amici «perché gli ebrei sono assassini».
Pochi giorni dopo alla fermata dell'autobus, due ragazzi l'hanno minacciato con una pistola giocattolo, e l'hanno aggredito, stringendolo alla gola. Gli altri compagni di classe hanno assistito alla scena, ridendo, e senza intervenire. I responsabili scolastici hanno diffuso una nota in cui condannano l'accaduto. Ma ora è stata aperta un'inchiesta. Sembra che siano intervenuti con ritardo nel punire i colpevoli. I ragazzi sono stati denunciati e espulsi. Troppo tardi? Ma la domanda è: comunque, un intervento dall'alto avrebbe reso possibile la convivenza in classe del ragazzo con gli studenti turchi e arabi?
Il quattordicenne è stato iscritto al ginnasio ebraico Moses Mendelsson. Il direttore Aaron Eckstaedt ha dichiarato: «Non è un caso isolato, ogni anno da sei a dieci ragazzi lasciano le loro scuole per iscriversi al nostro ginnasio». «Un atto di antisemitismo rivoltante», ha titolato la Frankfurter Allgemeine. Negli ultimi tre o quattro anni si sono avute aggressioni contro gli ebrei, a Berlino, e in altre città, tanto che la Comunità consiglia di non usare la kippah, e di non farsi riconoscere. In diverse moschee gli iman incitano all'odio contro gli ebrei, e alla lotta contro Israele.
Una situazione che è andata degenerando rapidamente. Gli ebrei non erano più di duemila nella Berlino Est, ai tempi del Muro, poco più di 5 mila all'Ovest. Oggi sono tra i 15 mila e 30 mila, il numero è incerto, perché molti ebrei provenienti da altri paesi d'Europa non vengono registrati come tali. Se il numero è cresciuto, evidentemente non avevano timori di tornare a vivere in Germania, commentano le autorità tedesche.
In questi mesi di campagna elettorale, tuttavia, il fatto che gli ebrei non possano vivere tranquillamente a Berlino diventa strumento di propaganda. Ancora una volta colpa della Merkel e della sua politica dell'accoglienza? Ma i ragazzi musulmani che frequentano il ginnasio di Friedenau non sono profughi. Sono figli di genitori benestanti, e da anni residenti in Germania, e molti sono nati a Berlino. La capitale tedesca è, di fatto, la più grande città turca del Continente, con i suoi 250 mila immigrati dal Bosforo. I turchi sono integrati, una decina di deputati sono di origine turca, ci sono scrittori turchi di successo che scrivono in tedesco, un regista turco ha vinto il Festival di Berlino, ma è bastato che Erdogan sobillasse i turchi di Germania (quasi tre milioni, di cui un terzo con doppio passaporto), perché scendessero in strada a migliaia a manifestare contro il paese che li ha accolti. E il 60% all'ultima elezione ha votato per Erdogan, cioè contro le libertà democratiche del paese ospite. Hanno aggredito il compagno ebreo perché era isolato, il più debole, ai loro occhi. Come sempre gli ebrei sono la spia di un malessere sociale.
(ItaliaOggi, 5 aprile 2017)
La quotidianità del male
di Mattia Feltri
Una donna bionda, fra i quaranta e i cinquanta, la si direbbe la donna più innocua del mondo. A una tv locale parla del Napoli e della Juventus, e del centravanti Gonzalo Higuain. «Odio la Juve, devono fare la fine degli ebrei». Attorno ridono. «Nei forni crematori!». Ridono ancora. Poi ci sono altre storie: i ragazzi ebrei delle medie e dei licei che lasciano le scuole delle periferie parigine per la violenza antisemita dei loro compagni islamici, lo studente ebreo di Berlino insultato e picchiato da coetanei di origine araba e turca, l'associazione ebraica Judisk föreningen che chiude nel Nord della Svezia, arresa alle minacce neonaziste.
Storie degli ultimi giorni, ma ce ne sono a centinaia. Che bizzarria: secondo un sondaggio tedesco, gli immigrati islamici sono per la metà antisemiti; ed è in reazione a loro, agli immigrati, che trovano nuove fortune i neonazisti. In attesa di uno scontro finale, condividono una vecchia passione: l'odio per gli ebrei. Una ricerca del Congresso ebraico mondiale scopre che nel 2016 sui social sono stati scritti 382 mila post antisemiti, uno ogni 83 secondi. Ed lì che si capisce tutto: sui social si scrivono cose così, «chi difende l'Europa e il capitalismo è un ebreo», «peggio dell'ebola, peggio degli ebrei», «mia madre è sbronza persa, sta bestemmiando contro gli ebrei». Come l'innocua donna bionda: con disincanto totale, anche quando non c'entra nulla, senza la passione degli scellerati, un normale antisemitismo quotidiano da caduta del tabù. La banalità, diceva Hannah Arendt.
(La Stampa, 5 aprile 2017)
L'islamica Pd al convegno di chi boicotta Israele
L'associazione ebraica: presenza inquietante, conducono campagne d'odio. Lei: sono stata invitata
di Andrea E. Cappelli
L'incontro
La consigliera comunale del Pd Sumaya Abdel Qader si è fatta fotografare ad un incontro della Bds, l'associazione per il boicottaggio di Israele
Il Bds
«Il Bds è un movi- mento per il boicot- taggio, disinvesti- mento e sanzioni contro Israele, costituito da asso- ciazioni e gruppi in tutta Italia »
La replica
Interpellata sull'argo- mento Sumaya ha detto di essersi pre- sentata all'incontro su invito dell'associazione Per i Diritti Umani e di non essere iscritta a quell'organizzazione
La manifestazione
Il movimento ha fissato per il 25 aprile una manifestazione. L'associazione Amici di Israele, indignata. ha chiesto al Pd milanese di fare chiarezza
Foto pubblicata dall'associazione Bds. Al centro Sumaya
L'accusa arriva dall'associazione Amici di Israele: il Bds, il movimento per il boicottaggio d'Israele, sta estendendo la sua influenza anche a Milano, coinvolgendo la consigliera comunale del Pd Sumaya Abdel Qader. In un articolo pubblicato ieri sul sito dell'Adì» dal titolo «I tentacoli Bds anche su Milano: l'adesione di Sumaya Abdel Qader», si scrive che nel capoluogo lombardo la referente prescelta dal movimento anti - Israele sembra essere quest'ultima. L'esponente islamica del Pd «è sempre stata attenta a non usare parole fuori posto contro Israele, ma si è recentemente fatta immortalare in compagnia del Coordinamento BDS Lombardia», comparendo «praticamente in ogni foto dell'album che fino a metà pomeriggio si poteva trovare all'interno dell'evento Facebook "25 aprile a Milano per la Palestina"», poi rimosso in serata. Sulla pagina l'organizzazione si presenta così: «BDS Italia è un movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, costituito da associazioni e gruppi in tutta Italia che hanno aderito all' appello della società civile palestinese del 2005». Le fotografie citate son state scattate durante la conferenza "Palestina, pace e libertà", svoltasi lo scorso 10 dicembre. L'iniziativa del 25 aprile a cui si faceva menzione (appuntamento alle 13.30 ai giardini di via Palestro) poggia invece su un incomprensibile parallelismo: un corteo per la Palestina all'interno della manifestazione per la Festa della Liberazione. «Come i nostri partigiani - recita il comunicato - anche i palestinesi combattono una lunga lotta di Resistenza per affermare il diritto alla loro autodeterminazione». Palestinesi e partigiani, insomma: chi ci capisce è bravo. A mettere in allerta gli Amici di Israele sono anche le recenti affermazioni di Sumaya sull'antisemitismo (esposte durante una puntata di Otto e mezzo su La 7 e da loro giudicate troppo blande) e alcune dichiarazioni fatte in passato dal marito, che su Facebook aveva parlato di Israele come di «un errore storico, politico, una truffa», che conveniva resettare. Per Davide Romano, segretario generale Adi, «la presenza di Sumaya ad eventi del BDS è inquietante. Siamo dell'idea che le istituzioni debbano essere presenti nella società per creare qualcosa di positivo, mentre BDS si dedica solo all' odio contro Israele; i membri delle istituzioni non dovrebbero legittimare con la loro presenza associazioni come questa». Per Romano «sarebbe stato meglio che la consigliera, lo scorso 10 dicembre, avesse puntualizzato il diritto di Israele ad esistere, se non l'ha fatto ha perso un'occasione. A Sumaya - conclude - riconosco di non aver mai parlato male degli ebrei, ma dovrebbe prendere una posizione netta. Il prossimo 25 aprile può essere l'occasione di chiarire ogni accusa che le viene fatta. Mi aspetto parole di solidarietà verso la Brigata ebraica: 5mila sionisti che a rischio della propria vita combatterono per sgominare il nazifascismo».
Interpellata sulla questione, la consigliera Pd afferma che «rispetto a quanto riportato su una mia presunta partecipazione ad un evento di BDS, preciso di essere stata invitata dall'associazione Per i Diritti Umani. Sottolineo inoltre che non faccio parte del movimento BDS». Sulla vicenda interviene anche Matteo Forte (Milano Popolare): «Alla mia collega Abdel Qader, a cui non ho mai chiesto nemmeno di rispondere delle accuse rivolte al cugino che è stato prigioniero della Cia in Pakistan, continuo solo a chiedere di spiegare quale islam intende rappresentare. E al Pd milanese, visto che l'annovera fra i suoi consiglieri comunali, quale islam vuole legittimare; quello politico e fondamentalista o quello compatibile con una convivenza pacifica?».
L'aggressiva campagna degli "studenti contro il Technion" a Torino
di Riccardo Ghezz
TORINO - Un'amministrazione comunale che concede il patrocinio a iniziative o eventi promossi o organizzati dal movimento Bds si rende semplicemente complice di qualcosa che è illegale in tanti paesi d'Europa e dovrebbe esserlo anche in Italia.
Questo non perché, come la propaganda vittimista vorrebbe far credere, si è a favore della censura, ma semplicemente perché l'Italia si oppone al boicottaggio. Il movimento Bds, ossia Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, non è "un'organizzazione attenta ai diritti umani" ma un progetto che delegittima lo stato di Israele non riconoscendone di fatto il diritto ad esistere.
Sul sito Bds Italia si legge "Il movimento globale BDS per i diritti dei palestinesi, guidato dal BNC (BDS National Committee, il coordinamento n.d.r.), ha descritto costantemente Israele come un regime di "occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid" contro tutti i Palestinesi".
Occupazione, colonialismo, apartheid: assieme a "genocidio", si tratta dei principali feticci linguistici della propaganda antisionista, basata perlopiù su menzogne, manipolazioni, esagerazioni, malafede. Un linguaggio che però fa breccia anche tra i giovani e gli intellettuali, sensibili alla questione palestinese e a una fraintesa "emergenza umanitaria" che nasconde uno scopo meno nobile: incolpare Israele, di tutto. Una violenza cui fa da contraltare il rinfacciato rifiuto dell'uso delle armi, come se la sistematica diffamazione fosse meno pericolosa e grave.
Chi contesta la propaganda Bds è tacciato di "sionismo", vocabolo usato come insulto, e di "rifugiarsi dietro la scusa dell'antisemitismo", poiché "criticare la politica di Israele non significa essere antisemiti". Peccato che talune argomentazioni usate dai Bds nascondano pregiudizi nei confronti degli ebrei (spesso definiti ironicamente e con spregio "popolo eletto" o accusati di massacrare i palestinesi in ossequio al concetto religioso di "terra promessa", se non tacciati addirittura di suprematismo) e ragionamenti complottisti su Israele che di conseguenza fomentano, involontariamente o meno, odio contro l'intero popolo ebraico.
Il movimento Bds non può che scaldare i cuori soprattutto di chi sublima i palestinesi come resistenti oppressi, mentre gli israeliani sarebbero l'icona dei colonizzatori occidentali.
In città come Torino, il supporto delle organizzazioni studentesche, soprattutto universitarie, alle istanze di boicottaggio di Israele è decisivo. L'offensiva si è infatti scatenata in primis nell'ambiente universitario, prima con la petizione anti-Technion di alcuni docenti e poi con la presa di posizione di organizzazioni studentesche.
Lo scorso marzo il senato accademico si è trovato in una situazione delicata: doveva decidere se confermare la collaborazione tra l'ateneo torinese e il vituperato Technion, istituto tecnologico con sede ad Haifa. Il Technion è accusato di qualsiasi nefandezza sulla base dei soliti pregiudizi anti-israeliani. Il peccato più grave sarebbe quello di "collaborare con l'esercito israeliano", fabbricando addirittura droni che vengono utilizzati dalle forze di difesa.
E' errato in partenza l'assunto secondo cui la collaborazione tra università e esercito sia contraria ai diritti umani. In ogni Paese del mondo gli istituti di ricerca o accademici collaborano con i corpi di sicurezza.
Non è però un concetto compreso e condiviso dagli "studenti contro il Technion" che hanno accusato Israele di "apartheid" (beninteso: un paese in cui il 20% della popolazione è costituita da arabi che votano, partecipano alla vita politica, lavorano, hanno rappresentanti in parlamento e gli stessi diritti degli ebrei) e "violazione dei diritti umani".
Proprio con questa denominazione, "studenti contro il Technion", alcuni rappresentati degli studenti hanno chiesto al senato accademico di porre fine alla collaborazione tra ateneo torinese e polo tecnologico israeliano.
Missione fallita: il senato accademico ha stabilito di continuare a collaborare con il Technion, ma fosse dipeso dagli studenti sarebbe finita diversamente. Tra i rappresentati studenteschi, infatti, la maggioranza ha votato per cessare la collaborazione, schierandosi quindi con il movimento Bds.
Una scelta frutto anche della propaganda capillare delle principali organizzazioni studentesche antisioniste: Il Cua, Collettivo Universitario Autonomo, e Progetto Palestina, i cui componenti hanno pure manifestato davanti alla sede dell'università per esercitare pressione contro il senato accademico.
Alla guida degli "studenti contro il Technion" una pasionaria studentessa italo-palestinese.
Catania incontra Israele: "Scambi economici e culturali"
Il sindaco di Catania Enzo Bianco ha ricevuto a Palazzo degli Elefanti una delegazione da Israele guidata da Noemi Di Segni presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Con lei c'erano Shai Hermesh, deputato al Parlamento di Israele e vice presidente del World jewish Congress Israel (Congresso ebraico mondiale), Laurence Weinbaum, Direttore del WJC-Israel e Direttore dell'Israel Council on Foreign Relations (Consiglio d'Israele per le relazioni estere), Ofir Haivri, Capo del Comitato "Anousim" del Governo di Israele, Moshe Leshem, membro del WJC-Israel, Michael Freund Presidente di "Shavei Israel", Rav Pinhas di "Shavei Israel", Gloria Arbib, Segretario Generale Unione Comunità Ebraiche Italiane e Gadi Piperno responsabile del Progetto Meridione Unione comunità Ebraiche Italiane.
Il sindaco Bianco nel suo intervento ha ricordato le forti radici ebraiche della storia e della cultura di Catania ed ha anche sottolineato come la sua personale storia politica sia stata sempre contraddistinta da un grande rapporto di amicizia con Israele e il popolo ebraico.
«Auspico - ha aggiunto il sindaco - che con Israele si possano mettere in atto scambi economici, in particolare nel settore dell'elettronica e dell'alta tecnologia, e culturali considerato anche i recenti incontri tra i comuni di Catania e Tel Aviv. Presto ci sarà anche un volo diretto dal nostro aeroporto per Israele».
Shai Hermesh ha evidenziato la comunanza di cultura mediterranea tra le due sponde del mediterraneo e quindi "la capacità e l'interesse a promuovere progetti comuni, allargando la conoscenza di Israele come partner per una Sicilia che molto sta promuovendo nell'area e che abbiamo colto con grande interesse".
« Questo incontro - ha detto, tra l'altro, Noemi Di Segni - ha l'obiettivo di rilanciare una sinergia istituzionale - tra le autorità competenti localmente, l'Ucei, la Comunità di Napoli, le associazioni come il WJC e Shavei Irael che si adoperano sul piano cultuale e culturale, e gli operatori locali. C'è un "rinascimento ebraico in Sicilia" e questo è un importante inizio.
(NuovoSud, 5 aprile 2017)
L'Avanzata dell'islam. Dalla caccia all'ebreo al cristianicidio
Lettera a "il Giornale"
Oggi, a Parigi, uno studente ebreo non può più, salvo rischiare la vita, frequentare la scuola pubblica, giacché sarebbe perseguitato, insultato e picchiato dagli studenti originari del Maghreb. Non può neppure iscriversi ad istituti ebraici, luoghi privilegiati degli attacchi terroristici. Si comincia sempre dalla caccia agli ebrei e, quando questi sono stati eliminati o costretti all'ennesimo esodo, si passa, come sta succedendo nell'islam asiatico ed africano, a massacrare i cristiani. Alla fine, saranno di turno altri infedeli: laici, agnostici, teisti, atei ... Purtroppo, nel Vecchio Continente affermare queste evidenze non serve a nulla.
Giancarlo Lehner Roma
(il Giornale, 5 aprile 2017)
Non solo la Tap, c'è un altro super gasdotto che approderà in Italia
Parte da Israele, attraversa il Mediterraneo passando per Cipro e Grecia, per riemergere poi sulle coste italiane. Il progetto da sei miliardi di Euro è stato siglato a Tel Aviv e vede una ditta italiana in prima fila
di Alberto Berlini
TEL AVIV - Il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda lunedì ha firmato con i ministri dell'energia di Grecia, Cipro e Israele un accordo per la costruzione di un nuovo gasdotto che attraverso oltre duemila chilometri di condotte sottomarine potrà collegare i giacimenti di gas al largo di Israele con l'Europa trasformando il Mediterraneo orientale in un hub energetico regionale.
Una volta terminato "Est Med Pipeline" sarà il gasdotto sottomarino più lungo e più profondo del mondo ed entro il 2025 dovrebbe trasportare 16 miliardi di metri cubi di gas naturale all'anno. A curare lo studio di fattibilità co-finanziato dall'Unione Europea è proprio una ditta italiana, la IGI Poseidon, una joint venture 50-50 della società energetica italiana Edison e il gruppo greco DEPA.
Un progetto molto ambizioso come ha spiegato il ministro israeliano Yuval Steinitz che ha ricordato inoltre come le banche di investimento statunitensi Goldman Sachs e JP Morgan sono pronte ad investire sul progetto da 6 miliardi di Euro. Con questa mossa vedrebbe Tel Aviv sostituirsi a Mosca come fondamentale partner energetico dell'Europa che attualmente riceve il suo gas principalmente dalla Russia e dai giacimenti del Mare del Nord che si stanno rapidamente esaurendo.
"Sosteniamo con forza lo sviluppo della Regione - ha dichiarato il commissario europeo per l'energia Miguel Arias Cañete - sosteniamo con forza il progetto" riconoscendo al tempo stesso che la Commissione europea non può ancora prendere impegni precisi. Il Ministro italiano per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda ha detto che il progetto Est Med è un progetto prioritario per l'Italia che lavora per eliminare gradualmente il carbone e costruire un approvvigionamento sicuro di gas naturale.
Sul progetto pesano tuttavia pressioni politiche, non da ultimi i contrasti con la Turchia, ma anche l'espansionismo israeliano ai danni dei palestinesi, motivi di confronto con gli inviati della Ue.
(Today, 5 aprile 2017)
L'integrazione passa dalla via di Haifa
La città alle pendici del Monte Carmel è considerata un modello di convivenza tra arabi ed ebrei
Haifa
Nella stazione dei bus di Haifa qualche tempo fa era comparso un cartello scritto a mano in ebraico, arabo e russo: "Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici". Forse uno slogan semplicista, commentava sul Forward la giornalista Naomi Zeveloff, ma "alcuni residenti di Haifa sembravano d'accordo con quanto c'era scritto. E in decine avevano firmato con i loro nomi il cartello, quasi fosse una petizione pubblica per mantenere lo status quo della città".
Haifa, città portuale al nord del Paese e terza per popolazione, è infatti nota per essere una realtà in cui le diverse anime del Paese convivono pacificamente ed è da sempre profondamente refrattaria a farsi coinvolgere in un clima di intolleranza: l'ottanta percento dei suoi residenti sono ebrei (il 25 per cento proveniente dall'Est Europa), il 10 per cento arabi (sia cristiani che musulmani), e il restante 10 per cento è composto da drusi, Bahai (il cui celebre tempio sorge sulle pendici del Monte Carmelo) e non religiosi.
La reputazione di Haifa come "prima città mista" d'Israele, spiegava Zeveloff nel suo reportage, si basa più che sulla sua demografia, sull'elevato grado di integrazione e cooperazione tra arabi ed ebrei, che non ha praticamente eguali nel paese: oltre a una convivenza dettata dai numerosi quartieri misti, gli arabi israeliani ricoprono posizioni chiave all'interno dell'amministrazione cittadina e delle imprese e svolgono le principali professioni, come l'assistenza sanitaria, a un livello che raramente si trova altrove in Israele. La diminuzione delle diseguaglianze sul fronte arabo è una sfida cara, tra gli altri, al Presidente d'Israele Reuven Rivlin e Haifa è stata spesso portata come esempio della strada da percorrere. La sua storia racconta della sua complessità: il primo insediamento risale a 3.500 anni fa, quando era un piccolo villaggio di pescatori. Nel corso dei secoli, sotto cananei, fenici, israeliti, romani, Haifa crebbe, diventando una città florida e ben fortificata. Ma l'assedio crociato del 1100 ne complicò la storia fino al successivo abbandono al momento della conquista ottomana nel 1516. A far rivivere le sue fortune due secoli dopo, nel 1760, il governatore arabo Zahir al-Umar, descritto in diverse cronache come un sovrano tollerante. Preso il controllo della città, la demolì, ricostruendola tre chilometri più a sud-est. Qui fu poi costruito il noto quartiere Wadi Salib: fino alla creazione dello Stato d'Israele, un luogo totalmente arabo, e dove, dopo il 1948, migliaia di sopravvissuti alla Shoah e poi di ebrei marocchini si insediarono. Con il conflitto scoppiato all'indomani della nascita d'Israele, infatti, la popolazione araba palestinese di Haifa e di Walid Salib abbandonò progressivamente le proprie case (circa 70mila persone, mentre in 5mila rimasero), che in parte furono poi confiscate dal governo guidato da Ben Gurion e date a nuovi immigrati ebrei. Come spiega la rivista di sociologia Hakai, a quell'abbandono oggi corrisponde una tendenza inversa: mentre molti giovani professionisti ebrei partono per Te! Aviv, migliaia di giovani arabi istruiti si spostano a Haifa dai villaggi vicini della Galilea per diventare medici, avvocati, ingegneri. Sono attratti dai servizi offerti da Haifa e dalla sua reputazione di città della tolleranza: il 14 per cento degli studenti di medicina nel rinomato Technion è araba, il 25 all'Università di Haifa.
Percentuali più alte rispetto a tutta Israele e ulteriore segno che in città "ebrei e arabi rifiutano di essere nemici.
(Pagine Ebraiche, aprile 2017)
Paura neonazisti in Svezia
Svastiche sul centro ebraico: troppe minacce, chiudiamo
di Monica Perosino
L'Associazione ebraica (Judisk Föreningen) di Umeå nel Nord della Svezia, ha deciso di chiudere dopo le ennesime minacce di matrice neonazista. Fermate le attività, chiusa la scuola, interrotti gli incontri culturali che andavano avanti da 7 anni. Il centro è stato tappezzato di svastiche e imbrattato con messaggi di minaccia - «Sappiamo dove vivete» - così che molti genitori hanno ritirato i bimbi da scuola e i membri dell'associazione hanno iniziato a disertare gli incontri per paura. Secondo i responsabili della Judisk Föreningen dietro gli attacchi ci sarebbe il gruppo neonazista Nordfront, ma la situazione di Umeå «rispecchia quella di molte altre città svedesi, dove l'aumento dei gruppi neonazisti è tangibile e sempre più ebrei definiscono "difficile" e "preoccupante" l'atmosfera». Le città più colpite dall'estremismo dell'ultradestra antisemita sono Umeå, Göteborg e Malmö: l'anno scorso la star della serie tv dano-svedese «The Bridge», Kim Bodnia, ha deciso di lasciare la fortunatissima produzione per «in picco di sentimento anti-ebraico a Malmö», dove si giravano molte delle scene.
(La Stampa, 4 aprile 2017)
Botte e insulti al ragazzino ebreo. Incubo antisemitismo a Berlino
Per quattro mesi il 14enne preso di mira dai compagni di origine araba e turca. L'episodio in una scuola multiculturale che combatte razzismo e discriminazioni.
di Alessandro Alviani
Video diffuso dal quotidiano tedesco Die Welt in relazione al caso di mobbing avvenuto nella scuola di Friedenau. I docenti parlano con gli studenti del caso e in generale di bullismo. Nellarticolo si dice che un ragazzo su tre è a conoscenza di casi di bullismo nella sua cerchia di amici. Nel video gli studenti sono invitati a raccontare casi di cui sono a conoscenza. Nella soprascritta del video si legge: Chi non interviene, si rende complice, ma alcuni ragazzi dicono di avere paura a parlare, perché temono di essere presi di mira.
BERLINO - Un 14enne viene infastidito per mesi dai suoi compagni di scuola, emarginato, insultato, finché, dopo l'ennesima aggressione, stavolta non più solo verbale, ma fisica, i genitori non decidono di ritirarlo dall'istituto. Suona come una deplorevole storia di ordinario bullismo tra teenager, se non fosse per un dettaglio: il giovane è stato denigrato perché ebreo.
Il tutto si svolge a Berlino, città in cui negli ultimissimi anni gli episodi di antisemitismo sono stati tutt'altro che isolati. Teatro della vicenda è un istituto del quartiere di Friedenau che fa parte di un network chiamato «Scuola contro il razzismo»: per aderirvi è necessario che almeno il 70% degli insegnanti e degli studenti si impegnino per iscritto a combattere ogni forma di discriminazione. I genitori del 14enne, che si sono trasferiti a Berlino dalla Gran Bretagna, l'hanno scelta perché attratti dal suo multiculturalismo: molti degli alunni hanno origini turche o arabe. All'inizio funziona tutto bene, finché il giovane non rivela ai compagni di classe di essere ebreo, come ha raccontato sua madre al «The Jewish Chronicle». È a quel punto che il clima cambia: «sei un tipo cool, ma non posso essere tuo amico, gli ebrei sono tutti assassini», gli spiega uno studente. Le denigrazioni vanno avanti per quattro mesi. La direzione scolastica sostiene di aver preso subito provvedimenti, invitando i nonni del ragazzo, sopravvissuti all'Olocausto, a parlare a scuola di antisemitismo. I genitori accusano invece la scuola di non aver affatto reagito. La svolta un paio di settimane fa, quando, presso una fermata dell'autobus proprio davanti la scuola, il 14enne viene preso al collo da due studenti, uno dei quali gli punta contro una pistola giocattolo molto simile a una vera, mentre un gruppo di alunni osserva sorridendo la scena. «È stato terribile, ma in quel momento non ho avuto tempo di rifletterci su, ora penso: "o mio Dio"», ha detto il giovane.
La direzione scolastica ha denunciato i responsabili e si sta impegnando per espellerli. Circa tre quarti degli iscritti all'istituto non parla tedesco come prima lingua, molti hanno origini arabe o turche; ciò vale anche per i ragazzi sospettati delle aggressioni, ha rivelato al «Tagesspiegel» il direttore dell'istituto, Uwe Renkel. Nel frattempo il Comitato centrale degli ebrei in Germania ha chiesto di fare piena luce sulla vicenda, seguita da vicino anche dal governo della città-Stato.
Non si tratta di un episodio isolato. Il caso più noto è quello del rabbino Daniel Alter, che nel 2012, proprio a Friedenau, era stato insultato e picchiato per strada sotto gli occhi di sua figlia di sette anni (minacciata a sua volta) da un gruppo di ragazzi arabi dopo aver risposto di sì alla loro domanda «Sei ebreo?».
Secondo l'organizzazione Rias nel 2016 a Berlino gli episodi di antisemitismo sono stati 470, cioè 65 in più del 2015. Nella maggior parte dei casi si tratta di propaganda, insulti o minacce via Internet, ma ci sono state anche 17 aggressioni fisiche. Il direttore del liceo ebraico Moses Mendelssohn di Berlino ha spiegato alla Jewish Chronicle che ogni anno il suo istituto riceve tra le 6 e le 10 richieste di genitori che vorrebbero trasferire lì i loro figli, in quanto in altre scuole sono stati vittime di insulti antisemiti pronunciati soprattutto da ragazzi arabi o turchi.
(La Stampa, 4 aprile 2017)
Israele - Accordo tra sindacati e imprese per la riduzione dell'orario di lavoro
Per la prima volta in 22 anni, l'orario di lavoro in Israele sarà ridotto, passando dalle attuali 43 ore a 42, senza alcuna riduzione salariale. Merito dell'accordo raggiunto lo scorso 29 marzo tra il sindacato Histadrut e l'associazione delle imprese. La riduzione dell'orario sarà applicata dai datori di lavoro, prendendo in considerazione le richieste e le esigenze dei lavoratori. In accordo con il sindacato, e una volta che il nuovo orario sarà entrato in vigore, il salario sarà calcolato sulla base di 182 ore al mese di lavoro, invece di 186, come avviene attualmente. L'accordo include le modifiche anche nelle modalità di lavoro notturno e di lavoro straordinario. La riduzione della settimana lavorativa dovrebbe entrare in vigore già a partire dal mese di luglio 2017, a meno che le parti non concordino su una soluzione alternativa per l'istituzione di fine-settimana lunghi. Soddisfatto il presidente di Histadrut, Avi Nissenkorn, per il quale l'intesa raggiunta favorisce il giusto equilibrio tra lavoro e tempo libero, e avrà un effetto positivo anche in termini di produttività del lavoro. Sulla stessa linea il commento del leader degli imprenditori, Shraga Brosh, per il quale le imprese sono pronte ad affrontare i cambiamenti del mercato del lavoro, consentendo una divisione più corretta e flessibile tra tempo libero e tempo di lavoro per tutti i loro dipendenti. E.C.
(Lavoro, 4 aprile 2017)
Gli anti-Israele in piazza il 25 aprile e quella visita di Sumaya
di Alberto Giannoni
Sumaya Abdel Qader, consigliera comunale Pd
Ci saranno anche i militanti del «Bds» in piazza il 25 aprile. Del movimento per il «Boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele» si è molto parlato per il sostegno del sindaco di Napoli Luigi De Magistris, ma gli anti-Israele stanno cercando appoggi in molti Comuni (spesso trovando sponde). Di ieri è la notizia che il Bds lombardo parteciperà al 25 aprile di Milano, una manifestazione importante e delicata a cui da anni partecipano le storiche bandiere della Brigata ebraica (la formazione militare in quadrato nell'esercito inglese che partecipò alla Liberazione contribuendo ad operazioni importanti). Ieri, inoltre, è spuntato il video dell'intervento a un'iniziativa del Bds (la presentazione di un film) di Sumaya Abdel Qader consigliera comunale Pd ed ex dirigente del Caim (i centri islamici milanesi). Un incrocio che farà discutere, questo fra Pd e Bds. «Auspico che Sumaya Abdel Qader colga l'occasione del 25 aprile per riconoscere chiaramente il valore di quei sionisti che sono venuti in Europa per combattere contro il nazifascismo e per la democrazia», commenta il segretario degli Amici di Israele (I'associazione che ha riportato alla luce la storia della Brigata ebraica) Davide Romano, che è anche assessore alla Cultura della Comunità ebraica.
(il Giornale, 4 aprile 2017)
Via al gasdotto sottomarino Israele-Italia
Coinvolti Cipro e Grecia
di Ariel David
TEL AVIV - È stato lanciato ieri con una dichiarazione congiunta dei Paesi coinvolti il progetto per la realizzazione del gasdotto sottomarino più lungo del mondo, 1900 chilometri dai giacimenti marini israeliani e ciprioti fino alle coste greche e italiane.
Il gasdotto EastMed permetterebbe all'Italia e all'Europa, fortemente dipendenti dal gas russo, di diversificare i propri fornitori, appoggiandosi a due democrazie stabili come Cipro e Israele.
«Il progetto EastMed è strategico perché unisce Paesi che hanno una lunga tradizione di cooperazione e amicizia», ha affermato il ministro per lo Sviluppo economico Carlo Calenda, ospite a Tel Aviv del ministro dell'Energia Yuval Steinitz assieme ai colleghi greco e cipriota e al commissario europeo per l'Energia.
Il gasdotto, che costerebbe circa 6,2 miliardi di euro e trasporterebbe tra 10 e 20 miliardi di metri cubi di gas all'anno, verrebbe realizzato interamente da aziende private con l'appoggio finanziario dell'Ue. Tra le ditte già coinvolte c'è l'italiana Edison, che ha partecipato allo studio di fattibilità.
La fase di pianificazione dovrebbe durare ancora due anni e mezzo, mentre la costruzione del gasdotto proseguirebbe fino al 2025.
(La Stampa, 4 aprile 2017)
Jean Michel Jarre in concerto per salvare il Mar Morto
ROMA - Jean Michel Jarre ha scelto la monumentale fortezza di Masada, in Israele, come scenografia per un concerto a sostegno del Mar Morto, la cui evaporazione costante mette in pericolo la sua stessa esistenza. Il musicista francese, pioniere della musica elettronica con l'album "Oxygène" (1976), invita anche alla "resistenza" contro le politiche alla Donald Trump che non aiutano l'ambiente:
"Questa regione del mondo è una regione che appartiene al mondo, per questo la problematica del Mar Morto è molto simbolica vista da qui. Questo luogo è un luogo in costante pericolo; come il Mar Morto questo luogo e questa regione simbolizzando uno dei centri del mondo. Ciò ci riguarda tutti, su un piano che va oltre le politiche, su un piano semplicemente umano, sul piano della storia, sul piano del nostro futuro.
"Penso davvero che sia tempo di mostrare tutto ciò che l'ecologia ha di entusiasmante e dinamico, di poetico e romantico. Questo progetto, questo concerto, penso e spero che contribuisca a organizzare la resistenza contro tutti i Trump della Terra", ha detto l'artista, che è anche goodwill ambassador dell'Unesco.
"Non sono uno scienziato, non sono un politico, ma in quanto musicista il mio lavoro consiste nel fare rumore. Ho pensato che ciò potrebbe essere una buona idea per fare molto rumore qui", ha concluso il musicista, 68 anni.
Il mar Morto, noto per la sua forte salinità, si trova tra Israele, la Giordania e i Territori Palestinesi: il suo livello scende ogni anno di oltre un metro. Con questo ritmo, una delle meraviglie della natura potrebbe scomparire entro il 2050, avvertono gli esperti.
(RDS, 3 aprile 2017)
Il ministro Calenda in visita in Israele
"Il gas di Leviatano in Italia entro il 2025"
Una partnership per la costruzione di un gasdotto sottomarino lungo 1300 chilometri, il più lungo al mondo, dalla riserva israeliana del Leviatano e di quelle di Cipro, attraverso le acque greche fino ad arrivare in Italia. Per presentarlo si sono ritrovati a Tel Aviv i ministri dei quattro paesi interessati: Yuval Steinitz, titolare del Dicastero delle Infrastrutture, Energia e Risorse idriche di Gerusalemme, il ministro dello Sviluppo economico italiano Carlo Calenda, il collega greco con delega a Energia e Ambiente Giorgos Stathakis e il ministro del Commercio cipriota Yiorgos Lakkotrypis; insieme a loro il Commissario europeo al Clima e all'Energia Miguel Arias Cañete.
"L'approvvigionamento del gas è una sfida fondamentale, e per questo stiamo lavorando a nuove strategie che presenteremo nelle prossime settimane - ha sottolineato Calenda - Questo progetto è una priorità per l'Italia. Siamo qui perché ne abbiamo accertato la fattibilità e la convenienza, ora ciò che dobbiamo fare è accelerare". Il ministro ha evidenziato l'importanza per l'Italia e l'Europa di assicurare la fornitura di gas da fonti diversificate e sicure, così come il fatto che pur essendo il progetto considerato strategico a livello istituzionale, a portarlo avanti siano investitori privati.
Il 2025 l'orizzonte prospettato da Steinitz perché il gasdotto entri in funzione. "Tuttavia è mia convinzione che sia possibile anche anticiparne il completamento di un anno o due". Il ministro israeliano ha inoltre segnalato che le riserve di gas sarebbero molto più cospicue di quanto annunciato fino a questo momento, e anticipato che ulteriori dettagli verranno rivelati nel corso del prossimo G7, che sarà ospitato proprio in Italia.
Tra gli appuntamenti di Calenda nel corso della visita in Israele anche il forum "Smart manufacturing", dedicato all'incontro fra mondo dell'industria e nuove tecnologie: oltre all'amministratore delegato della Israel Innovation Authority Aharon Aharon, e al professore del Politecnico di Milano Marco Taisch, a partecipare saranno figure di riferimento dell'imprenditoria e della ricerca italiana e israeliana.
(moked, 3 aprile 2017)
I migliori cuochi del mondo in Israele in occasione di una tre giorni gastronomica
Nino 'u Ballerino ambasciatore dello street food
"Nino 'u Ballerino"
Gli esponenti più autorevoli del panorama gastronomico internazionale a Gerusalemme all'insegna del confronto e dello scambio di esperienze, in occasione della tre giorni organizzata dall' Israel Master Chef Academy Worldwide.
A rappresentare l'Italia sarà il più famoso street food chef palermitano nel mondo Antonino Buffa ovvero Nino 'u Ballerino, che annovera tra le proprie specialità più acclamate un piatto di origine ebraica: il pane con la milza, cibo di strada per eccellenza, risale a circa 1000 anni fa e rappresenta una delle testimonianze più importanti della presenza yiddish in Sicilia.
Per il focaccere palermitano la trasferta in Israele è un piacevole ritorno: già nel novembre del 2015, infatti, Nino aveva indossato i panni dell'ambasciatore della palermitanità in occasione del 50o anniversario dell' Israel Chefs Association presieduta da Leon Menahem, un evento storico che riuscì a riunire cuochi provenienti da Paesi quali Belgio, Romania e Brasile, in un clima di condivisione e fratellanza.
Anche quest'anno come due anni addietro, non è prevista alcuna competizione culinaria, bensì una kermesse orientata alla comparazione e alla degustazione dei cibi preparati dai top chefs di tutto il mondo.
L'evento, che si terrà dal 4 al 6 aprile, rappresenterà un momento importante di conoscenza e promozione della tradizione gastronomica ebraica, contrassegnata dalla mescolanza di elementi europei, mediorientali e nordafricani.
Non a caso, tra gli organizzatori figura il master chef Jossie Elbaz, vice presidente e project manager dell'Israel Master Chef Academy e giudice gastronomico internazionale.
"Sono felice ed emozionato come due anni fa - ammette Nino- perché si tratta di un evento che va ben oltre la promozione gastronomica: noi tutti vi partecipiamo per mostrare al mondo come il cibo possa veicolare valori altissimi come la pace, la cooperazione e la fratellanza, convinti che il dialogo tra popoli possa condurre ad esperienze straordinarie".
(Lora, 3 aprile 2017)
Israele: ecco il vero volto di Banksy!
Lartista di strada inglese sorpreso durante le preparazioni di una mostra.
ISRAELE - Tra gli artisti di strada contemporanei Banksy è tra i più celebrati e apprezzati, ma cosa sappiamo del writer inglese? Praticamente nulla, il suo volto e la reale identità infatti sono sconosciuti alle grandi masse, fattori che negli anni hanno contribuito a donare il fascino del mistero all'artista.
La svolta potrebbe però essere arrivata a Tel Aviv, durante i preparativi di un'esposizione del writer di Bristol al centro commerciale di Herzliya Marina. Una donna infatti è riuscita a immortalare Banksy negli attimi dell'allestimento della mostra.
Stencil in mano e aria sorpresa stampata sul volto, l'artista ha cercato di coprirsi il viso appena s'è accorto della presenza della videocamera, ma ormai era tardi e la clip è stata successivamente diffusa. Non sarà sicuramente il diretto interessato a confermare l'identità dell'uomo ripreso a Tel Aviv, ma poco a poco i dubbi attorno all'identità dell'artista britannico stanno svanendo.
Video
(kikapress, 4 aprile 2017)
Hamas vuole modificare la sua Carta di fondazione
Una bozza di documento pubblicata domenica dal sito di notizie libanese Al Mayadeen ha rivelato l'intenzione di Hamas di modificare la sua Carta di fondazione del 1988. L'affermazione di riconoscere uno stato palestinese sui "confini del '67" non significherebbe riconoscere Israele. Nel documento, che dovrebbe essere ufficialmente reso pubblico nei prossimi giorni dal capo del politburo di Hamas, Khaled Mashaal, si legge che "è possibile concordare uno stato entro i confini del 1967 senza che ciò implichi necessariamente il riconoscimento di Israele né abbandonare la Palestina storica. La liberazione della Palestina storica - prosegue il testo - è il dovere del popolo palestinese, la resistenza all'occupazione è un diritto legittimo e la lotta armata è una scelta strategica". "Hamas - chiarisce il documento - non rinuncerà a qualsiasi parte della terra di Palestina indipendentemente da motivi, circostanze o pressioni e da quanto tempo duri l'occupazione. Hamas rifiuta qualsiasi alternativa alla liberazione completa della Palestina dal fiume al mare". Per la prima volta nella storia di Hamas, il documento tenta di fare una distinzione tra Israele e sionismo, da una parte, e popolo ebraico dall'altra, affermando di non essere "in conflitto con gli ebrei per la loro religione". Nel documento, Hamas riconosce l'Olp (di cui non è membro) come struttura nazionale palestinese, ma rinnova i suoi attacchi all'Autorità Palestinese.
(israele.net, 3 aprile 2017)
Israele, entra in servizio il sistema di difesa David's Sling
Gli Stati Uniti hanno sviluppato o finanziato congiuntamente tutti e tre i livelli di difesa missilistica di Israele. Il problema della strategia di logoramento Enormous overkill.
di Franco Iacch
David Sling Weapon System
Il David Sling Weapon System, sviluppato congiuntamente da USA ed Israele, è operativo. La capacità operativa del sistema di difesa missilistica è stata annunciata ieri, durante una solenne cerimonia presieduta dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed alla presenza dei rappresentanti del direttore della Missile Defense Agency statunitense, il vice ammiraglio James D.
"Chi cercherà di minacciare la nostra esistenza sarà colpito. Deteniamo la migliore tecnologia del settore e continueremo ad essere pionieri in questo campo. In un momento di ristrettezza economica, il governo ed il popolo di Israele sono grati per il supporto continuo da parte degli Stati Uniti".
Il David Sling Weapon System è stato sviluppato congiuntamente dalla israeliana Rafael e dal suo partner statunitense Raytheon. Il David's Sling è il più moderno sistema integrato di difesa entrato in servizio. L'ultima versione è ritenuta in grado di intercettare anche i missili da crociera ed i droni. Gli Stati Uniti hanno sviluppato o finanziato congiuntamente tutti e tre i livelli di difesa missilistica di Israele: Iron Dome (corto raggio), David's Sling (medio raggio) ed Arrow (lungo raggio).
Israele: la negazione dello spazio aereo
L'architettura Iron Dome e David's Sling, precedentemente nota come Short-Range Ballistic Missile Defense, utilizza lo stesso radar sviluppato da Elta Systems. La differenza sostanziale tra i due sistemi è la testata del missile. A differenza della testata esplosiva del Tamir dell'Iron Dome, il David's Sling è armato con il missile a due stadi Stunner della famiglia hit-to-kill, progettato cioè per distruggere le minacce con l'energia cinetica da impatto. L'Iron Dome ha un raggio d'azione tra i 4 ed i 75 chilometri. Il David's Sling può ingaggiare bersagli in entrata da un minimo di 40 ad un massimo di 300 chilometri.
L'Arrow Weapon System è progettato per rilevare, identificare, rintracciare, discriminare ed eliminare un obiettivo che viaggia rapidamente attraverso lo spazio. Il 19 gennaio scorso, l'aviazione israeliana ha dichiarato la capacità operativa iniziale del nuovo sistema di intercettazione Arrow-3.
Volando quasi il doppio dell'Arrow-2, la versione 3 del sistema, pesante la metà del precedente vettore, è progettata per identificare i missili balistici iraniani. Rispetto al precedente sistema, l'Arrow-3 aumenta di quattro volte la capacità di distruggere le minacce avanzate. Può essere lanciato in anticipo dopo il rilevamento delle minacce ed impegnare obiettivi ad altitudini maggiori al di fuori dell'atmosfera terrestre rispetto ai sistemi precedenti.
Lo scorso settembre, Stati Uniti ed Israele hanno siglato un nuovo programma di assistenza militare pari a 38 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. L'attuale memorandum, fissato a 3,1 miliardi di dollari l'anno, scadrà nel 2018. È il più grande accordo di assistenza militare estero mai siglato nella storia degli Stati Uniti. A partire dall'esercizio di bilancio 2019, gli Stati Uniti garantiranno finanziamenti per 3,8 miliardi di dollari l'anno. Il nuovo Memorandum Of Understanding, scadrà nel 2028. Israele chiedeva aiuti militari con budget ritoccato a 4,5 miliardi di dollari l'anno. I 38 miliardi di dollari saranno cosi divisi: 33 miliardi in forniture militari ed i restanti cinque per la difesa missilistica. Fino ad oggi, l'intero asset missilistico di difesa di Israele veniva finanziato separatamente dal Congresso su base annua per oltre 600 milioni di dollari. Nel nuovo programma di assistenza militare, Israele sarà obbligata a reinvestire le somme ottenute nell'industria americana. Cancellata, quindi, la possibilità, ancora in vigore, di investire parte delle somme ottenute dagli Usa nelle industrie israeliane. Il programma di assistenza militare non può essere rinegoziato.
Enormous overkill
Israele, probabilmente, è l'unico paese protetto interamente da un sistema di difesa ABM, Anti-ballistic Missile System, in grado di discriminare una minaccia. E' certamente uno dei più costosi al mondo. Gli intercettori della rete di difesa di Israele, lanciati sempre in coppia per evitare malfunzionamenti, hanno dimostrato la loro efficacia, ma tali caratteristiche hanno un prezzo esorbitante, se paragonato alle minacce come i razzi Qassam. Il divario economico si fa ancora più evidente qualora un intercettore del costo di milioni di dollari, venisse lanciato contro un drone. Episodio già avvenuto e confermato dal Pentagono. Quella che inizia ad essere definita Enormous overkill, è una strategia di logoramento che prevede l'adattamento della tecnologia civile a buon mercato e facilmente reperibile da scagliare contro i costosi sistemi di fascia alta progettati per la guerra convenzionale tra stati. Se venisse applicata su larga scala, la strategia Enormous overkill potrebbe portare un paese sull'orlo del dissesto finanziario.
(il Giornale, 3 aprile 2017)
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Il nuovo sistema di difesa israeliano invia un chiaro messaggio all'Iran
GERUSALEMME - Lo sviluppo operativo del sistema di difesa missilistica israeliano David's Sling, la "Fionda di David", può essere adattato all'intercettazione di missili da crociera, missili antiaerei e i droni. Lo hanno reso noto funzionari della Difesa israeliani citati dal quotidiano "Haaretz". Il nuovo sistema integra la rete di difesa balistica israeliana opponendo una contromisura efficace contro i missili balistici a medio raggio; assieme al sistema Arrow, sviluppato per intercettare i missili a lungo raggio, e all'Iron Dome, che intercetta razzi e missili a corto raggio, la difesa aerea di Israele è ora un complesso organico completo. Concepito già negli anni Ottanta, il David's Sling è frutto di un processo di sviluppo iniziato nel decennio successivo, in risposta alle minacce regionali dell'epoca: in particolare, i missili Scud lanciati contro Israele dall'Iraq di Saddam Hussein durante la guerra del Golfo, nel 1991. La minaccia dei razzi lanciati da Hezbollah, invece, è più recente, e si è palesata con la Seconda guerra del Libano del 2006: fu per contrastare questa minaccia, più pressante e immediata, che Israele sviluppò e adottò l'Iron Dome. Il "know how" maturato da Israele grazie ai tre programmi di sviluppo ne hanno fatto una potenza mondiale nel campo balistico: un risultato che non sarebbe stato possibile senza l'assistenza tecnologica e finanziaria statunitense. I progressi della difesa balistica israeliana costringono i suoi avversari regionali - l'Iran, Hezbollah e, in una certa misura, Hamas e la Jihad islamica - a imbarcarsi in un nuovo round nella corsa agli armamenti tecnologici nel tentativo di aggirare le difese di Tel Aviv.
(Agenzia Nova, 3 aprile 2017)
Napoli-Juve - Una tifosa: "Gli juventini devono fare la morte degli ebrei!"
Napoli-Juve gara correttissima con uno spettacolo sugli spalti davvero eccellente, alcuni soggetti però continuano a distinguersi negativamente.
di Francesco Gregorace
Napoli-Juve è stata, come ha dichiarato anche Chiellini, una delle gare più corrette degli ultimi 20 anni. I tifosi sugli spalti sono stati esemplari ed hanno dato una risposta a tutti coloro i quali si aspettavano chissà quale inciviltà da parte dei napoletani. Napoli ed il suo pubblico ha dimostrato sportività, lealtà e civiltà, sostenendo la propria squadra sino all'ultimo secondo e regalando uno spettacolo sugli spalti davvero eccellente. Non tutti i tifosi però riescono a capire cos'è lo sport.
Oggi vogliamo mostrarvi un'intervista raccolta fuori dal San Paolo, davvero scioccante. Il motivo per il quale vogliamo sottolineare questi comportamenti, non è certo quello di 'accusare' i tifosi partenopei, anzi l'opposto. Il 99,9% dei supporters del Napoli hanno dimostrato d'essere superlativi ieri, il restante 0,1% va emarginato totalmente. Non è accettabile sentir dire che "gli juventini dovrebbero morire come gli ebrei, nei forni crematori". Molti napoletani hanno preso giustamente le distanze da queste frasi davvero assurde.
(Calcio web, 3 aprile 2017)
Il gasdotto East-Med, "priorità" del summit G7 di Roma
ROMA - Il progetto del gasdotto East-Med è una "priorità" e sarà presentato al summit sull'energia del G7, previsto a Roma la prossima settimana. E' quanto si legge sul profilo Twitter dell'ambasciatore d'Italia a Tel Aviv, Francesco Maria Talò, in occasione del quadrilaterale in corso oggi in Israele. Alla riunione ministeriale odierna stanno partecipando il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, il responsabile del dicastero dell'Energia e delle risorse idriche israeliano, Yuval Steinitz, e gli omologhi di Grecia, George Stathakis, e Cipro, Georgios Lakkotrypis. Italia, Israele, Grecia e Cipro hanno avviato nei mesi scorsi le trattative preliminari per la costruzione del gasdotto East-Med, che porterebbe in Italia il gas del giacimento offshore israeliano Leviathan, passando attraverso le acque di Cipro e Grecia. Il progetto dovrebbe essere realizzato dalla società italiana Edison, controllata dalla francese Edf, in collaborazione con la greca Depa. Il gasdotto sottomarino East-Med sarà il più esteso e più profondo al mondo: lungo 2.200 chilometri e profondo 3 chilometri, ha ricordato il ministro. Il costo previsto dell'infrastruttura è di circa 6-7 miliardi di dollari. Il gasdotto East-Med "credo che possa essere costruito entro i prossimi cinque o sei anni", ha affermato Steinitz nel corso di una recente intervista rilasciata ad "Agenzia Nova".
(Agenzia Nova, 3 aprile 2017)
Irua - "Il pluralismo è la nostra forza. I giovani ne facciano tesoro"
Si è concluso in queste ore Irua (in ebraico, evento) il grande appuntamento dedicato ai giovani dell'Italia ebraica, organizzato dall'Area Cultura e Formazione dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, con la collaborazione dell'Unione giovani ebrei d'Italia e diverse associazioni ebraiche. Quattro giorni alle porte di Firenze con attività, incontri, riflessioni concentrati sul futuro dell'ebraismo e sul ruolo e le aspettative delle nuove generazioni. "In questi giorni si è respirata una bellissima atmosfera - sottolinea rav Della Rocca, direttore dell'Area Cultura e Formazione - Tutti gli incontri sono stati di altissimo profilo con un'ottima partecipazione dei ragazzi. È stato emozionante celebrare shabbat insieme, con duecento giovani provenienti da tutta Italia, con minaghim diversi, gradi di religiosità differenti ma con valori da condividere: nonostante una diversa adesione alle mitzvot , tutti hanno cantato insieme per shabbat. Si sentiva chiaramente che i valori che condividiamo sono più forti e grandi di ciò che ci divide". "Non si percepivano le divisioni - conferma rav Jacov Di Segni, scelto come rabbino di riferimento del gruppo e tra i più giovani rabbanim d'Italia - Come ha detto rav Della Rocca, questo appuntamento ha cercato di unire tutti e le teffilot di shabbat lo hanno dimostrato. È stata anche una delle prime volte che in Italia è stato organizzato un Tish con le storie hassidiche raccontate da Miriam Arman".
Grande la partecipazione di ragazzi provenienti da piccole Comunità ebraiche e da realtà dove queste ultime neanche esistono: giovani provenienti da Trento fino a Sannicandro, passando per Firenze e Roma, si sono ritrovati a condividere momenti di riflessioni, come quello guidato da Daniel Segue, educatore esperto in dinamiche istituzionali, comunicazione interpersonale non violenta e in psicologia positiva, che li ha messi alla prova chiedendoli di immaginare l'ebraismo italiano nel 2025. In tantissimi di sabato hanno poi seguito il confronto tra rav Della Rocca e il medico Giuseppe Mallel, su "la sessualità dal punto di vista halakchico e medico". "Facendo una battuta possiamo dire che il tema della sessualità attira sempre attenzione - spiega il direttore dell'Aera Cultura e Formazione dell'Unione - È una questione importante all'interno della tradizione ebraica: deve esserci in ciascun ebreo un equilibrio tra corpo e spirito, non deve esserci una dicotomia tra cuore e testa ma devono andare avanti insieme. Nell'ebraismo poi il sesso non è mercificazione, dobbiamo rispettare il nostro corpo, noi stessi e gli altri".
Altro appuntamento molto seguito, l'incontro tra Daniel Funaro e Simone Mortara, moderato da Daniel Segre sul tema "L'ebraismo di fronte a nuove forme identitarie: problemi e prospettive". "Ciascuno ha presentato la sua visione in modo coerente e pacato - sottolinea rav Della Rocca - e la cosa più importante è che c'è stato un vero dibattito, un confronto tra visioni diverse e che è sempre rimasto in una cornice di rispetto reciproco. Il mio sogno - prosegue il rav - è che questo Irua possa essere un punto di partenza per molti giovani, che hanno in passato usato i social network per aggredirsi, per ostentare e mostrare le proprie posizioni, per superare questo approccio, sedersi allo stesso tavolo e parlare. È giusto e normale che ci siano posizioni diverse, e questo pluralismo è garantito dal fatto che ci sono delle norme che ci permettono di confrontarci con un ebreo diverso, con un grado diverso di osservanza, ma comunque parte del popolo ebraico. Dobbiamo imparare di più a negoziare, a costruire ponti senza mai far venire meno i nostri paletti fondamentali".
Per Della Rocca l'appuntamento di Irua - a cui i ragazzi di Milano hanno partecipato in pochi e, sottolineano gli organizzatori, questo è un elemento che deve fare riflettere - è stato un laboratorio importante "e adesso devono essere i giovani, Ugei in testa, a raccogliere la sfida, con il supporto dell'Unione e delle Comunità, e continuare ad approfondire questi temi. Le iniziative dall'alto non possono funzionare e un Ugei forte e rappresentativa è importante per il futuro dell'ebraismo italiano".
(moked, 2 aprile 2017)
"Il cristianesimo in Iraq è finito"
"Eravamo un milione e mezzo, oggi siamo 250 mila"
da l'Independent (23/3).
Il cristianesimo è morto in Iraq", ha detto il vicario di Baghdad Canon Andrew White, a capo dell'unica chiesa anglicana in Iraq prima di uscire dal paese nel 2014. "I cristiani provenienti dall'Iraq e dalle aree dell'Isis dicono tutti la stessa cosa, non c'è modo di tornare indietro. Essi ne hanno abbastanza. C'erano circa 1,5 milioni di cristiani (il sei per cento della popolazione) in Iraq nel 2003, ma oggi ne restano 250 mila". Anche padre Emanuel Youkhana, capo della chiesa Siro orientale, ha detto che non vede un futuro per i cristiani a Mosul. C'erano circa 35 mila cristiani a Mosul una decina di anni fa, oggi ne restano venti. White ha anche difeso le misure di Trump per limitare il viaggio dal medio oriente verso gli Stati Uniti, lodando il nuovo presidente per voler aiutare "i cristiani perseguitati" nella regione. "Ho cercato di invitare alcuni jihadisti a cena una volta. Mi hanno detto che sarebbero venuti, ma anche che avrebbero dovuto tagliarmi la testa. Non pensavo che sarebbe stato un bel modo di finire una cena". C'era poca scelta per i cristiani davanti all'Isis. "Convertirsi, scappare, o morire". I cristiani iracheni erano una delle ultime comunità al mondo a parlare l'aramaico, la lingua di Gesù.
(Il Foglio, 3 aprile 2017)
Per un Pesach in sicurezza
"Non c'è dubbio che le organizzazioni terroristiche, in particolare Hamas, cercheranno di minacciare la stabilità e di effettuare nuovi attacchi. Il nostro obiettivo è quello di consentire a tutta Israele di passare delle festività tranquille". A parlare un alto funzionario dello Shin Bet, il servizio di intelligence interno di Israele, dopo l'attacco palestinese sventato la scorsa settimana a Gerusalemme, nei pressi della Porta di Damasco. Una zona sensibile, teatro purtroppo di ripetuti attentati terroristici come dimostra la cronaca delle scorse ore: sabato un palestinese di 17 anni, armato di coltello, ha infatti ferito tre persone, tra cui un poliziotto, aggredendoli proprio vicino alla Porta di Damasco. In uno scontro con le forze di sicurezza israeliane, l'aggressore è poi stato ucciso. E la guardia rimane alta, a maggior ragione, come spiegavano dallo Shin Bet, in prossimità della festività di Pesach. Il gruppo terroristico di Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha annunciato che si vendicherà contro "gli agenti israeliani nelle prossime ore e nei prossimi giorni" come risposta all'uccisione di un suo ufficiale che, secondo il movimento terroristico, sarebbe stato eliminato da Israele.
Alle minacce - arrivate anche dai terroristi libanesi di Hezbollah - Gerusalemme ha risposto oggi presentando David's Sling, il sistema di difesa anti-missile che andrà ad affiancare Iron Dome e Arrow, fornendo una protezione completa dall'intera gamma delle minacce balistiche alla sicurezza del paese. Il sistema è progettato per intercettare missili da crociera e balistici dalla gittata compresa tra 40 e 300 chilometri. Alla cerimonia hanno preso parte il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, e funzionari della Difesa Usa. La "tecnologia d'avanguardia" del sistema d'arma David's Sling contribuirà a proteggere lo Stato ebraico, ha affermato Netanyahu. "Ribadisco che chiunque voglia colpirci sarà sconfitto, e chi minaccia la nostra esistenza sta mettendo a rischio la propria vita", ha aggiunto il premier. Il sistema antimissile David's Sling rappresenta "un'importante pietra miliare" della cooperazione nel settore della difesa israelo-statunitense, ha precisato Netanyahu.
(moked, 2 aprile 2017)
Inaugurata a Tel Aviv la IV edizione di "Cinema Italia"
Con "Veloce come il vento" di Matteo Rovere, presente in sala, si è aperta nella Cinemateque di Tel Aviv la quarta edizione di "Cinema Italia" festival dei film italiani in programma fino al 9 aprile e che, oltre Tel Aviv, avrà proiezioni anche a Gerusalemme, Haifa, Holon, Rosh Pina e Sderot.
Diretta da Ronny Fellus e Dany Muggia, la rassegna è stata organizzata dalla collaborazione tra l'Istituto italiano di cultura di Tel Aviv, quello di Haifa, la società Adamas, l'Istituto Luce Cinecittà, il Comune di Tel Aviv, quello di Haifa e le Cinemateque di Israele con il patronato dell'Ambasciata italiana, guidata da Francesco Maria Talò. "Cinema Italia" è composto di due parti: la prima è dedicata al cinema contemporaneo con film usciti nel 2016; la seconda è invece una retrospettiva del cinema classico italiano con 5 opere restaurate di Roberto Rossellini e 'Kaos' dei fratelli Taviani per ricordare il 150/mo anniversario della nascita del premio Nobel Luigi Pirandello. Tra le pellicole proposte "Fuocoammare" di Gianfranco Rosi, vincitore dell'Orso di Berlino, "Fai bei sogni" di Marco Bellocchio, "Pericle Nero" di Stefano Mordini (presente al festival), "Le ultime cose" di Irene Dionisio (anche lei in arrivo in Israele), "Fiore" di Claudio Giovannesi, "Indivisibili" di Edoardo De Angelis e il campione di incassi di ogni tempo "Quo Vado" di Gennaro Nunziante. Per Rossellini, ecco tra gli altri "Roma Città aperta", "Germania Anno Zero" "Stromboli, terra di Dio".
"Cinema Italia" sarà anche occasione di incontri tra una delegazione di registi, agenti e produttori italiani e distributori israeliani al fine di stringere nuove collaborazioni. «La selezione dei film di quest'anno - ha detto Massimo Sarti, direttore dell'Istituto italiano di cultura a Tel Aviv - illustra l'inesauribile senso di autoironia dell'Italia anche quando si occupa delle conseguenze sociali ed umane di una crisi economica ancora non finita». Dani Muggia ha sottolineato che la proposizione delle opere proposte di Rossellini, «accuratamente restaurate dalla Cineteca di Bologna», nasce dalla convinzione che «sia importante non solo per i cinefili veterani ma anche per le giovani generazioni».
(Italia Israele Today, 2 aprile 2017)
Netanyahu: nuovo sistema di difesa ora operativo
La Fionda di Davide, contro missili di media gittata
TEL AVIV - Un nuovo sistema di difesa da attacchi missilistici, la 'Fionda di Davide', è entrato in funzione oggi in Israele: lo ha annunciato oggi il premier Benyamin Netanyahu, durante la seduta settimanale del governo. "E' un annuncio importante per i nostri cittadini - ha affermato - che già hanno constatato l'importanza di un altro sistema difensivo, l'Iron Dome, efficace contro i missili a breve gittata lanciati da Gaza". La 'Fionda di Davide' è stato invece concepito per intercettare in volo missili di media gittata e, secondo Netanyahu, è di una "importanza estrema".
A giudizio degli analisti, la 'Fionda di Davide' è particolarmente idoneo a contrastare possibili attacchi missilistici degli Hezbollah libanesi.
(ANSA, 2 aprile 2017)
Molto, molto felici di essere israeliani
Nella classifica sulla felicità dei Paesi del mondo Israele registra un ottimo risultato, trovandosi undicesimo
Nonostante il conflitto con i palestinesi, nonostante la questione sicurezza, l'avere al confine paesi in guerra (e non la pacifica svizzera o l'Austria) gli Israeliani sono fellcl, tanto da essere all'undicesimo posto nella speciale classifica del World Happiness Report 2017, che indaga appunto la felicità del cittadini del diversi paesi del mondo. L'Italia, per intenderci, si trova ben distante da Israele, solamente al 48eslmo posto.
E dal confronto tra il valore attuale e quello dei risultati precedenti che emerge in tutta la sua forza il senso del World Happiness Report 2017, nato nell'aprile del 2012 in supporto del "High Level Meeting on happiness and well-being" delle Nazioni Unite. La Norvegia sale dal quarto al primo posto, seguita a breve distanza da Danimarca, Islanda e Svizzera, la popolazione della Cina non è più felice di quanto lo fosse venticinque anni fa, e gli Stati Uniti, terzo Paese fra i membri Ocse, è ora al quattordicesimo posto, con un delta decisamente negativo. E invece in alto, molto in alto Israele, che per il secondo anno consecutivo si posiziona all'undicesimo posto di questa speciale classifica della felicità. L'Italia, invece, è al quarantottesimo posto. Nonostante il conflitto con i palestinesi, nonostante la questione sicurezza, dunque gli israeliani si dicono più felici dei cittadini del Bel Paese. Un dato che si può spiegare con il benessere e la solidità economica su cui può contare lo Stato ebraico: il Paese è in constante crescita mentre il tasso di disoccupazione è a livelli molto bassi (4,3 per cento, in Italia è al 12). "Gli esperti di psicologia sociale di solito mettono la Danimarca in cima alla lista dei più felici del mondo - scriveva nel 2016 il giornalista Nahum Barnea, commentando la classifica dei paesi più felici del mondo - In effetti la vita in Danimarca è felice: tutto è rilassato, piacevole, equilibrato. In Israele d'altra parte la vita è bella: interessante, dinamica, coinvolgente. E per gli israeliani, a quanto pare, è preferibile una vita bella". Secondo la professoressa Zahava Solomon, dell'Università di Tel Aviv, per capire gli israeliani bisogna tenere presente come da un lato
siano costantemente consapevoli e temano la propria potenziale scomparsa, vista la situazione geopolitica in cui si trovano; dall'altra, sono senza paura: proprio perché hanno tanti motivi per averne, non temono nulla, spiegava Solomon in un'intervista. La quinta edizione del World Happiness Report, sviluppato e aggiornato dai ricercatori del Sustainable Development Solutions
Network e dell'Earth Institute della Columbia Universiry grazie al supporto della Fondazione Ernesto llly - che ha per obiettivo coltivare e sviluppare conoscenza, etica e sostenibilità come valori assoluti usando la ricerca come metodo per raggiungere verità e progresso dell'uomo - è quanto di più lontano ci possa essere dalla percezione "leggera" che il suo nome potrebbe suggerire a lettori poco attenti. La felicità, considerata misura adeguata a valutare il progresso di una società, è diventata il vero obiettivo della politica sociale. L'Ocse nel 2016 si è impegnata a ridefinire la narrativa della crescita per non ridurla a un mero dato economico, con l'intento di rimettere al centro degli sforzi governativi il benessere delle persone e Helen Clark, alla guida del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, si è recentemente dichiarata contro la "tirannia del Pil", sostenendo che è la qualità della crescita di un paese, non il suo prodotto interno lordo, a mostrare se lo sviluppo è sia umano che sostenibile.
Israele, che nel primo report si collocava al quattordicesimo posto, è ora da qualche edizione stabilmente all'undicesimo, nonostante ci sia rispetto agli scorsi anni una variazione positiva, che ne aumenta il distacco rispetto ai valori del paese campione - che i ricercatori hanno chiamato "Dystopia'' - che ha, per ogni ambito considerato, i valori della peggiore valutazione nazionale media del biennio 2014-2016.
(Pagine Ebraiche, aprile 2017)
Il ministro Calenda domani a Tel Aviv per il forum economico bilaterale
ROMA - Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, prenderà parte domani a Tel Aviv all'evento "Italy and Israel - Forum on smart manufacturing". Lo riferisce l'ambasciata d'Italia a Tel Aviv attraverso il profilo Twitter. Il forum si concentrerà sulle opportunità offerte dal piano nazionale Industria 4.0. All'incontro prenderanno parte tra gli altri l'amministratore delegato dell'Autorità per l'innovazione israeliana, Aharon Aharon, ed imprenditori israeliani ed italiani. Il piano nazionale Industria 4.0 "prevede un insieme di misure organiche e complementari in grado di favorire gli investimenti per l'innovazione e per la competitività. Sono state potenziate e indirizzate in una logica 4.0 tutte le misure che si sono rilevate efficaci e, per rispondere pienamente alle esigenze emergenti, ne sono state previste di nuove", si legge sul sito internet del ministero dello Sviluppo economico.
(Agenzia Nova, 2 aprile 2017)
Faceva torte di giorno e salvava ebrei di notte
La storia di Margaret Kearney Taylor
di Cristina Sanchez Aguilar
Nel museo Yad Vashem di Gerusalemme ci sono sette spagnoli riconosciuti come Giusti tra le Nazioni, persone che rischiarono la propria vita per salvare gli ebrei che cercavano di sfuggire alle grinfie di Hitler. Nomi come Angel Sanz-Briz, l'angelo di Budapest, Martin Aguirre y Otegui o Sebastian Romero Radigales riempiono di orgoglio i concittadini che passeggiano lungo il muro di onore del giardino dei giusti.
L'ingresso dell'Embassy in una fotografia del 1940
Ma una circostanza tanto marginale come la chiusura della mitica sala da tè Embassy, al numero 12 del madrileno Paseo de la Castellana - che il 31 marzo chiude le sue porte dopo 86 anni di attività - ci ha messo sulle tracce di due persone anonime del muro, che tuttavia misero a rischio la propria vita per aiutare a fuggire migliaia di ebrei che passarono per la Spagna, paese chiave nelle vie di fuga verso l'America e l'Africa. Una di queste persone è proprio la fondatrice della sala, l'irlandese Margaret Taylor che, stabilitasi in Spagna, utilizzò il suo elitario luogo di riunione dei personaggi importanti dell'epoca per offrire riparo in incognito ai rifugiati. L'altra è il dottor Lalo Martinez Alonso, un galiziano che falsificava documenti e trasferiva gli ebrei in automobili con targa diplomatica. Dovette fuggire con la sua famiglia a Londra quando fu scoperto dalla Gestapo. «Entrambi non sono tra i giusti delle nazioni» afferma Patricia Martinez de Vicente, figlia di Lalo, che ha scoperto tutto quel piano tra i documenti del padre dopo la sua morte e lo ha raccontato nel libro La clave Embassy, edito da La Esfera de los Libros nel 2010.
Margaret Taylor negli anni quaranta fece del luogo d'incontro dei funzionari delle ambasciate e delle classi alti madrilene una copertura per salvare ebrei. Appena giunta dalla Francia, dopo aver vissuto nella sua Irlanda natale e in India per molti anni, andò a vivere nella zona più signorile di Madrid, perché le ricordava i suoi amati Champs-Elysées. Durante una delle sue passeggiate si rese conto che ciò che mancava in quella zona era un luogo d'incontro con cibo buono e ottime bevande. Si mise quindi all'opera: lei stessa comprava la farina, faceva le torte, i famosi tramezzini, che sono sopravvissuti negli anni, i nuovi cocktail portati da Parigi.
A colpire di più in questa vicenda è che, dietro alla storia di questa donna di alto rango e dall'aspetto fragile, si nascondeva un piano in cui almeno quattro ebrei al giorno si mescolavano ai funzionari tedeschi della vicina ambasciata e ogni pomeriggio facevano uno spuntino insieme. «Un ebreo polacco, scortato dalla cucina, s'intrufolava in un qualunque gruppo di amici. Non parlava la loro lingua, ma sorrideva. E se tremava troppo, gli davano un paio di whisky», scrive Martìnez de Vicente.
I commensali mescolavano il famosissimo cioccolato con crostini senza rendersi conto che il loro vicino di tavola era arrivato due giorni prima, mezzo morto di fame e pieno di pidocchi, diretto a casa di Margaret, che viveva al secondo piano dello stesso edificio dove si trovava la sala da tè. Non sapevano neppure che il mezzo di trasporto in cui era stato nascosto era un'autovettura con targa diplomatica britannica. E neanche che quella donna irlandese da messa quotidiana nel Cristo de Ayala, ottima padrona di casa dei bon vivants, conviveva con quel vicino di tavola, e con il resto degli ebrei, nel suo appartamento: li nutriva il resto degli ebrei, nel suo con lo stesso cibo raffinato che mangiavano i commensali dell'Embassy, dava loro abiti e scarpe nuove e li faceva uscire dall'edificio in pieno giorno con la polizia, la Gestapo, i funzionari, gli ambasciatori, gli altri residenti e persino i cuochi che guardavano. «I rifugiati arrivavano a qualsiasi ora alla porta del numero 12 del Paseo de la Castellana. Margaret li accoglieva amichevolmente nella sua abitazione. Il giorno scelto per continuare il loro viaggio scendevano dalla scala comune, collegata alla cucina dell'Embassy», racconta Patricia Martinez de Vicente. «Sicura e senza esitazioni, Margaret Taylor salutava tutti sulla porta con un God bless you ("Dio ti benedica")», ricorda la scrittrice, che definisce l'irlandese «una donna unica che non ha avuto il riconoscimento che si meritava per tutte le vite che ha salvato». Basti pensare che dal 1939 alla fine della guerra entrarono in Spagna circa 200 rifugiati al giorno e molti di loro fecero una sosta nella casa della Taylor.
Il suo amico, il galiziano Lalo Martinez , medico dell'ambasciata britannica a Madrid e volontario della Croce rossa nella guerra civile - alla quale sopravvisse «credo per il fatto di non appartenere a nessun partito, perché mio padre diceva che un malato è un malato, non importa da che parte sta» sottolinea la figlia - fu l'esecutore di tutto il piano che aveva come centro operativo la sala da tè. «Era incaricato di andare al carcere di Miranda de Ebro, dove venivano portate le persone prive di documenti arrestate al confine con la Francia». Con certificati medici falsi, a volte con un'ambulanza della Croce rossa e altre con un'auto con targa diplomatica britannica, il dottore si adoperava per far uscire, uno a uno, gli ebrei dal carcere. «Grazie al cognome Martinez e ai documenti che confermavano lo stato di salute dei detenuti nella maggior parte cechi e polacchi - convinceva senza problemi i secondini a liberare gli ostaggi. Spesso, per esempio, per evitare contagi», spiega Patricia Martinez de Vicente.
Camuffati, i rifugiati venivano condotti da Lalo all'appartamento di Margaret, se continuavano il viaggio verso Gibilterra, o a Vigo, se la loro via di fuga era il Portogallo. «Mio padre utilizzò la sua casa galiziana per dare rifugio agli ebrei». La custode della casa, che è ancora in vita, ricorda che «arrivavano morti di fame» e lei, affannata, cucinava zuppa galiziana per tutti. In Galizia, ricorda Patricia, suo padre aveva «una spalla impareggiabile; lo zio Rogelio, un sacerdote che lo aiutava a nascondere i rifugiati per portarli fino al Portogallo». Nel 1942 Lalo dovette però porre fine al suo impegno. La Gestapo era venuta a sapere tutto e lui, con la scusa della luna di miele con la sua amata Moncha, scappò dalla Spagna e andò a Londra, passando per il Portogallo.
Neanche Lalo è un giusto tra le nazioni, la sua storia sarebbe rimasta sconosciuta se non fosse stato per l'Embassy, per la sua chiusura e per il ritrovamento casuale da parte di sua figlia del diario intitolato 1942, in cui scrisse tutti questi segreti. È vero però, riconosce con orgoglio la figlia, che il Comune di Madrid gli dedicherà una strada.
(L'Osservatore Romano, 2 aprile 2017)
Francia, studenti ebrei in fuga dalle scuole delle periferie
I ragazzi sono fatti oggetto sistematico di manifestazioni, anche violente, da parte dei loro compagni islamici
di Ernesto Galli della Loggia
Un cimitero ebraico profanato a Saverne, in Francia
Per avere un'idea del clima in cui tra un mese si voterà in Francia torna utile un libro a più voci appena pubblicato in quel Paese Réflexions sur l'antisémitisme (editore Odile Jacob) di cui dà notizia l'ultimo numero di Commentaire, la rivista fondata da Raymond Aron. Dalle cui pagine si apprende che a partire dalla guerra del Golfo gli studenti ebrei francesi delle scuole medie e dei licei situati in molti quartieri di periferia, o comunque nelle zone con una forte percentuale di popolazione immigrata maghrebina, sono fatti oggetto sistematico di manifestazioni, anche violente, di razzismo antisemita da parte dei loro compagni islamici.
Fino al punto si leggeva addirittura in un rapporto ufficiale tenuto a lungo nascosto e reso pubblico solo nel 2005 che «oggi come oggi in Francia gli studenti ebrei non possono più di fatto frequentare alcun istituto scolastico pubblico». Le autorità cercano di correre più o meno ai ripari: ma poco esse possono contro aggressioni che avvengono quasi sempre non negli edifici scolastici ma nei loro dintorni.
Si è verificato quindi un continuo spostamento di giovani ebrei verso le scuole private laiche o cattoliche. Inizialmente anche verso quelle ebraiche, fintanto però che tali scuole sono apparse come un ovvio obiettivo di eventuali attacchi da parte del terrorismo islamista. In alternativa, allora, hanno preso forma uno di questi due fenomeni: o l'agghiacciante dissimulazione da parte degli allievi ebrei della propria identità, resa nota solo al dirigente della scuola; ovvero, più spesso, l'iscrizione degli stessi in istituti scolastici situati in quartieri meno «pericolosi»: all'insegna di un separatismo scolastico a base «residenziale», da tempo silenziosamente adottato anche dai ceti borghesi medio-alti alla ricerca di una migliore qualità dell'insegnamento.
Tutto ciò in Europa, all'inizio del XXI secolo: a futura memoria.
(Corriere della Sera, 2 aprile 2017)
Valico Erez, Hamas consente il transito ad organizazzioni umanitarie
GERUSALEMME - Il movimento palestinese di Hamas consentirà agli operatori delle organizzazioni umanitarie attive nella Striscia di Gaza di uscire dall'enclave. Lo rende noto il gruppo che dal 2006 amministra Gaza. Lo scorso 26 marzo Hamas aveva chiuso il valico di Erez "a tempo indeterminato" per svolgere le indagini sull'uccisione di Mazen Faqha, 38 anni, considerato il responsabile dell'ala militare di Hamas (Brigate al Qassam) in Cisgiordania, ucciso il 24 marzo da ignoti nell'enclave palestinese. La decisione di Hamas deriva dal "riconoscimento della necessità di aiuto umanitario a Gaza", si legge in un comunicato del ministero dell'Interno palestinese, precisando che "sarà permesso ai lavoratori stranieri dell'Onu e della Croce Rossa il libero movimento in entrata e uscita da Gaza".
(Agenzia Nova, 1 aprile 2017)
Dal "ghetto di Riva" agli affreschi nelle chiese
In Trentino, nel medioevo, nuclei e famiglie ebraiche anche a Mori, Strigno, Rovereto. La situazione altoatesina
BOLZANO - Non sappiamo se i pochi sopravvissuti ai roghi trentini siano fuggiti presso altre comunità dei dintorni, obbedendo a quanto scritto nello Zohar: "chi dimora in una città dove vivono uomini malvagi, e non può compiere i precetti della Torah né ha successo nella Torah, deve affrontare un cambiamento di luogo: si deve sradicare da là e trapiantarsi dove vivono uomini buoni, studiosi della Torah, che ne osservano i precetti". Gli esuli dovevano cercare una comunità con almeno dieci uomini (Minian) di età adulta: tale è il numero richiesto per poter celebrare la preghiera pubblica. Di presenze ebraiche in regione ce n'erano molte. Basti pensare al ghetto di via Mirabella 5, ora Casa Tranquillini, a Mori, (dal '200 al '600) e al ghetto di Strigno (Valsugana), presso palazzo Wolkenstein, chiamato ancor oggi "ex Ghetto degli Ebrei". A Rovereto una via nel centro storico ne ricorda la presenza mentre in val di Non sono numerosi i cognomi ashkenaziti e sefarditi, alcuni provenienti dalla numerosa comunità ebraica di Odessa, sul Mar Nero. Qualcuno ipotizza che perfino il toponimo Val di Rabbi derivi da "rabbi", studioso. Famoso era il ghetto di Riva del Garda: la presenza ebraica è testimoniata dal 1430 fino a fine Settecento passando alla storia per via della stamperia di Jacob Marcaria, protetta stranamente dal cardinale Cristoforo Madruzzo, e dai cui torchi uscirono una quarantina di testi in ebraico, tra cui due edizioni della Misnah con commenti di Maimonide e di Obadiah ben Abraham Yare.
In Alto Adige, oltre alla comunità diBolzano - tracce della sinagoga sono emerse in via Cappuccini - si sa di famiglie presenti a Bressanone, Vipiteno, Renon, Castelrotto e Lana. La comunità di Merano s'ingrossò a partire dalla metà dell'Ottocento, con il medico Rafael Hausmann, ideatore della famosa cura dell'uva. Alla fine del secolo nella città del Passirio risiedeva una novantina d'Ebrei ma un altro migliaio, provenienti dalla Mitteleuropa, ogni anno vi passava un periodo di ferie o di cura nel sanatorio della Fondazione Königswarter. Una sinagoga era allestita nel sanatorio; un'altra, tuttora funzionante, sorse nel 1901. Ebrei erano i finanziatori dei consorzi di bonifica dell'Adige, della costruzione delle ferrovie Mori-Arco-Riva, della Bolzano-Caldaro, di quella della Val Venosta e della funicolare della Mendola. Altri gestivano fabbriche a Vilpiano, a Gries a Colle Isarco; altri ancora si occupavano di banche ed alberghi, specialmente a Merano. Se in Trentino bisogna inseguire i toponimi delle vie, in Alto Adige si aprono a noi gli affreschi che narrano degli ebrei, con i loro caratteristici cappelli a punta. Citati come presenze dell'Antico Testamento come nel chiostro di Bressanone, si trovano anche nella chiesa di S. Giuditta e Quirico a Termeno, nella chiesa di Terlano (La pioggia della manna nel deserto, 1410-20), nella cappella del cimitero di Riffiano (1415), a Castel Roncolo (i tre ebrei Josua, re Davide e l'ebreo Maccabeo, facciata della Casa estiva, 1395) e nella chiesa di San Vigilio a Maia Bassa (tre curiosi ebrei che fanno capolino da una balconata). In questo viaggio ci facciamo accompagnare dal catalogo "Simon e Sarah a Bolzano" (Ed. Fondazione Castelli di Bolzano-Athesia, 2012).
Il cappello a punta - presente nelle pitture a partire dalla metà del XII secolo come segno distintivo dell'abbigliamento degli ebrei -, la barba folta ed i tipici "boccoli" (peot) sono elementi iconografici che tracciano la storia della presenza ebraica nella nostra terra ma anche il sentimento antisemita che per secoli ha insanguinato le nostre contrade.
(Trentino, 1 aprile 2017)
I bambini di Grugliasco
di Alessandra Baldini
NEW YORK - Peter Tannenbaum verrà dalla California, Felicia Wax, Sara Guttman e Haim Frenkel da Israele. Un filo rosso lega i "bambini di Grugliasco" che giovedì 6 aprile si incontreranno per la prima volta da adulti sul prato della loro infanzia. L'iniziativa del comune nell'area metropolitana torinese punta i riflettori su una pagina semi dimenticata dell'immediato dopoguerra. Una storia di 70 anni fa che tanti paralleli offre con un dramma dei nostri giorni: le migrazioni nel Mediterraneo. Matematico dell'Università di California, Peter è nato a Genova nel 1946 e arrivò ancora in fasce nel campo allestito dall'UNRRA (l'organizzazione che sarebbe poi diventata l'IRO e poi l'UNHCR, l'agenzia Onu per i rifugiati) nei padiglioni dell'ex ospedale psichiatrico femminile di Grugliasco.
I genitori erano sopravvissuti all'Olocausto nascondendosi in una cantina di Budapest sotto l'occupazione nazista. Racconta: «Per oltre due anni coabitarono con altri profughi ungheresi, tutti amici. Gli piaceva parlarmi di quel periodo, di come era bello, che c'era un grande parco dove mia madre mi portava in giro in passeggino. Degli anni di Grugliasco, degli italiani che avevano conosciuto lì, hanno sempre conservato bellissimi ricordi. Fu, nella loro vita, un periodo buono, soprattutto in confronto a quello che avevano passato». La famiglia di Haim veniva dalla Polonia: i genitori Israel e Dora sono morti (la mamma solo quattro anni fa), ma è ancora viva la zia Rachel che era insieme a loro a Grugliasco ed è una delle poche «memorie storiche» rimaste di quegli anni. «Tutti conoscono la tragedia che colpì gli ebrei durante la guerra e che negli anni successivi molti sono riusciti a ricostruirsi una vita. Ma esiste un anello mancante nella storia dei sopravvissuti, tra il momento della liberazione e la ripresa di una vita più o meno normale?», si è chiesto un altro 'bambino di Grugliascò, Eli Rubinstein, in The Italian Renaissance, il libro dedicato al viaggio della sua famiglia, dalla Shoah al Canada, passando per il Piemonte, dove lui vide la luce, nel 1948, al Maria Vittoria di Torino.
Di Grugliasco e delle sue «Vite in Transito» si è occupata la storica Sara Vincon mettendo a fuoco la vicenda di Judith, la madre di Eli, sullo sfondo della grande migrazione che subito dopo la fine della guerra fece passare in Italia oltre 70 mila ebrei alla ricerca di una nuova «Terra Promessa». Oltre 200 bambini nacquero nel 'limbò di Grugliasco mentre i genitori erano impegnati a «imparare di nuovo a vivere». La famiglia di Peter e quella di Felicia finirono in Uruguay; gli Usa e la Palestina, dove stava nascendo lo stato di Israele, erano le mete più richieste. L'appuntamento del 6 aprile vuole chiudere un cerchio. L'Amministrazione guidata dal sindaco Roberto Montà ha voluto ricordare il percorso di rinascita che i sopravvissuti, pur tra mille difficoltà, poterono compiere, organizzando la giornata di incontro e una mostra documentaria e fotografica. Le carte vengono dall'Onu, le immagini le hanno messe a disposizione in buona parte i protagonisti di questa storia: i bambini nati nel campo o lì accolti piccolissimi, seduti in semicerchio, alcuni dei quali giovedì si incontreranno su quello stesso prato, per la prima volta da allora.
(Italia Israele Today, 1 aprile 2017)
"Intifada dei coltelli", ucciso assalitore in nuovo episodio a Gerusalemme
GERUSALEMME - Un assalitore armato di coltello ha colpito due giovani ed un agente di polizia nella città vecchia di Gerusalemme. Lo riferiscono fonti della polizia israeliana, precisando che i feriti sono due giovani di circa 18 anni ed un agente di polizia. L'attacco è avvenuto in Haggai Street, nel quartiere musulmano di Gerusalemme. L'assalitore è stato raggiunto dai proiettili ed è morto. Si tratta del secondo attacco compiuto mediante l'uso di un coltello nell'ultima settimana. Lo scorso 29 marzo le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso una donna palestinese che aveva cercato di accoltellarli fuori dal Damascus Gate, nella città vecchia di Gerusalemme. Secondo le autorità la donna si sarebbe avvicinata brandendo un coltello contro gli agenti, che poi le hanno sparato. Il ministero della Salute palestinese ha fatto sapere che la donna uccisa è Siham Rateb Nimir, una signora di 49 anni originaria di Gerusalemme Est. La donna morta lo scorso 29 marzo era la madre di un giovane, Mustafa Nimr, che è stato ucciso dagli agenti si sicurezza israeliani lo scorso settembre 2016, ad un posto di blocco a Gerusalemme Est. L'episodio di oggi si inserisce nella cosiddetta terza intifada, che è iniziata ad ottobre 2015. La nuova ondata di violenza viene spesso definita come "Intifada dei coltelli", a causa del tipo di arma che viene utilizzata.
La terza intifada, "intifada dei coltelli", è iniziata nel 2015 e segue le due precedenti ondate di violenza perpetrate dagli arabi nei confronti degli israeliani per promuovere la causa palestinese. Durante le prime due intifada, del 1987 e del 2000, gli attentatori hanno utilizzato principalmente le pietre o dell'esplosivo per compiere gli attacchi in territorio israeliano. Probabilmente il ricorso all'utilizzo di armi da taglio deriva dal fatto che i coltelli sono più pratici da portare delle pietre e più efficaci nel loro scopo e sicuramente più facilmente acquistabili di un'arma da fuoco o di una bomba.
Secondo un rapporto pubblicato lo scorso febbraio dal Centro per l'intelligence ed il terrorismo israeliano Meir Amit, che esaminato l'andamento degli episodi di violenza nel corso del 2016, vi è stata una diminuzione di episodi riconducibili alla cosiddetta "intifada dei coltelli" sia su base annuale, con 142 attacchi, che mensile. Nel 2015, secondo il governo israeliano vi erano stati oltre tremila episodi. Nel 2014, prima dell'inizio della terza intifada, e nel 2013, si erano verificati rispettivamente 30 e 21 episodi "significativi". Dall'inizio dell'intifada dei coltelli, nel 2015, il mese in cui si sono verificati più attacchi è stato quello di ottobre del 2015, con 59 episodi di violenza. Da gennaio a marzo del 2016 ci sono stati in media 23 attacchi mensili, diminuiti drasticamente nel mese di aprile dello stesso anno, quando si sono verificati cinque incidenti. Nei mesi di giugno, settembre e dicembre si sono verificati in media circa undici-dodici attacchi.
Per quanto riguarda il numero di militari israeliani morti, nel 2016 sono stati 17. Un dato inferiore a quello del 2015, quando soltanto negli ultimi tre mesi dell'anno - che coincidono con l'inizio della terza intifada - ne sono morti 30, secondo i dati del Centro per l'intelligence ed il terrorismo israeliano Meir Amit. Il rapporto evidenzia che gli attacchi violenti hanno continuano a mantenere un andamento stabile nel 2016, mentre episodi di disordine pubblico sono diminuiti. La maggioranza degli attacchi nel 2016 è stato condotto da assalitori armati di coltello che hanno agito autonomamente, i cosiddetti "lupi solitari", che rappresentano il 61 per cento degli autori degli attacchi. Il 23 per cento degli attacchi è stato compiuto con armi da fuoco, mentre circa l'8 per cento ha utilizzato autoveicoli per compiere gli attacchi (car ramming), ed un restante 8 per cento ha agito con altre modalità.
Secondo il rapporto, il fatto che i "lupi solitari" rappresentino il 61 per cento degli assalitori significa che il movimento palestinese islamista di Hamas, che gestisce la Striscia di Gaza dal 2006, ed altri gruppi terroristici non sono riusciti a controllare l'escalation di violenza. A gravare sull'incremento degli attacchi anche l'indigenza della popolazione e un'autorità che non riesce a rispondere alle sue richieste. Il rapporto dedica una sezione ai tentativi da parte dello Stato islamico e del movimento sciita libanese Hezbollah di creare "capacità terroristiche" in Cisgiordania, sventati dal servizio di intelligence interno israeliano (Shin Bet).
Non vi è alcuna aspettativa che gli episodi di violenza possano diminuire nel corso del 2017, secondo gli autori del rapporto. Alla luce delle recenti dichiarazione del presidente statunitense Donald Trump di spostare la rappresentanza diplomatica da Gerusalemme a Tel Aviv, si potrebbero registrare episodi di violenza da parte dei palestinesi nel caso in cui il trasferimento dell'ambasciata avvenisse davvero. Nell'ottica di contenere e controllare gli attacchi in Cisgiordania ed aiutare l'autorità nazionale palestinese (Anp) a non far deteriorare ulteriormente la situazione, il 5 dicembre 2016 Israele ha consegnato all'Anp cinque veicoli corazzati.
Tra gli attacchi più sanguinosi avvenuti a giugno dello scorso anno vi è quello nel mercato di Sarona, a Tel Aviv, in cui sono morte quattro persone. In quell'occasione gli assalitori, l'8 giugno 2016, i due cugini Ahmed e Khalid Muhamra, originari di Yatta, vicino a Hebron, hanno compiuto un attacco con arma da fuoco. In particolare, i due, vestiti in abiti eleganti per sembrare uomini d'affari, erano entrati in un ristorante di Tel Aviv armati della pistola "Carlo". L'imitazione del mitragliatore svedese Gustav Carl è assemblata nei laboratori di produzione di armi illegali in Cisgiordania.
Alla fine di gennaio scorso un funzionario dell'intelligence di Gerusalemme ha riferito che il costo delle armi prodotte artigianalmente in Cisgiordania è triplicato da maggio a ottobre 2016 in seguito al giro di vite su produzione e vendita portato avanti dalle Forze di difesa israeliane (Idf). Nel periodo compreso tra gennaio e maggio del 2016 il costo della pistola mitragliatore più famosa prodotta in Cisgiordania, la "Carlo", era di circa 527 dollari, mentre attualmente per averne una bisogna pagare circa 1.700 dollari. Durante l'ultimo anno le Idf hanno smantellato 44 presunti laboratori e sequestrato circa 450 armi in Cisgiordania, un dato in crescita rispetto a quello degli anni precedenti, ha dichiarato l'ufficiale. A portare a questo risultato ha contribuito lo sforzo delle Idf nel dissuadere la minaccia terroristica e proteggere i coloni che vivono in Cisgiordania.
(Agenzia Nova, 1 aprile 2017)
Ladany, scampato all'Olocausto: 81 km per 81 anni
L'ex marciatore israeliano festeggia ogni suo compleanno percorrendo una distanza pari alla sua età. Celebra così una vita eccezionale: è sopravvissuto allo sterminio degli Ebrei e agli attentati di Monaco, e ha un by-pass coronarico
"Sopravvivere è un caso, vivere una scelta". Parole di Shaul Ladany, ex marciatore olimpionico della Nazionale israeliana. Uno che ha imparato che la vita non è semplicemente questione di stare su questa Terra. Per lui, ogni passo, ogni metro, ogni km, è una conquista: è sopravvissuto all'Olocausto e agli attentati alle Olimpiadi di Monaco 1972. Ladany ha compiuto 81 anni l'1 aprile, e ha festeggiato il compleanno percorrendo una marcia di 81 km. Lo fa ogni anno. Ogni anno percorre una distanza pari alla sua età, continuando una storia fra le più incredibili dello sport. Nonostante gli anni, nonostante il by-pass coronarico nel suo corpo da due anni.
Nel 1941 Ladany finì insieme alla sua famiglia nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, quando ha sei anni. Scampato grazie all'intervento degli Alleati - fortuna che purtroppo non è toccata a tutti i suoi familiari - si trasferisce in Germania dove coltiva una passione per la marcia. Nel 1972 è alle Olimpiadi di Monaco dove rappresenta Israele. Il famigerato 5 settembre, quando un commando terroristico armato affiliato al movimento di liberazione della Palestina fa irruzione nel villaggio olimpico, Ladany viene svegliato bruscamente nel cuore della notte e riesce miracolosamente ad abbandonare l'edificio prima che venga consumato il massacro del gruppo "Settembre nero".
E' per questo che ogni singolo passo per Shaul Ladany è molto più di un semplice movimento muscolare. E' una conquista che solo lui può sapere quanto possa valere.
(Sport Sky, 1 aprile 2017)
L'ideologia delle calunnie. La guerra della disinformazione
di Bassam Tawil
Uno dopo l'altro, i giovani palestinesi continuano a compiere attacchi terroristici contro gli ebrei. Perché? Potremmo cominciare dall'inizio: la campagna di istigazione, indottrinamento e menzogne che i media palestinesi hanno intrapreso contro Israele. Questa campagna ha avvelenato i cuori e le menti di milioni di arabi e musulmani. E allora, non dovrebbe affatto sorprendere che i giovani palestinesi avvelenati afferrino un'arma e decidano di compiere il lavoro letale che gli hanno insegnato ad apprezzare. L'istigazione contro Israele può essere anche molto sottile. Chi inietta il veleno non sempre invita direttamente i palestinesi ad andare a uccidere gli ebrei. Ad esempio, è sufficiente dire ai palestinesi che gli ebrei "contaminano con i loro piedi sporchi" i luoghi santi dell'Islam, per indurre un palestinese ad andare a uccidere un ebreo.
Oppure quando un leader palestinese accusa ripetutamente Israele di cercare di "giudaizzare Gerusalemme" e di cambiare il suo "carattere arabo e islamico". Ecco come si esortano i palestinesi a "difendere" la loro città dai "perfidi complotti" di Israele.
La retorica viziosa e le fiabe che alimentano i palestinesi forniscono un ampio incentivo e offrono l'ideologia a potenziali terroristi. Mentre i predicatori delle moschee, gli attivisti politici, i giornalisti e i funzionari palestinesi sono da tempo impegnati nell'obiettivo di delegittimare Israele e demonizzare gli ebrei, anche altri palestinesi s'inventano "notizie" per incrementare il numero delle vittime israeliane.
L'epidemia di "notizie false" - o bufale - e i "fatti alternativi", che di recente hanno inondato Internet, non è una novità per la cultura palestinese. In effetti, le "notizie false" sono da lungo tempo una componente essenziale della campagna palestinese volta a delegittimare Israele, demonizzare gli ebrei e anche a menzionare false dichiarazioni. Storicamente, ad esempio, la Giordania occupò illegalmente Gerusalemme [Est] e la Cisgiordania nella guerra del 1948 e mise in atto una pulizia etnica nelle zone abitate dagli ebrei; nella guerra del 1967, gli israeliani non fecero altro che riconquistare i loro territori.
Il numero uno di Apple, Tim Cook, di recente avrebbe fermato che "le notizie false uccidono la mente delle persone". I palestinesi alimentano da tempo le bufale. Si tratta di un metodo collaudato per reclutare terroristi e jihadisti nella lotta contro Israele e gli ebrei. Poiché nell'Islam al jiahid è consentito di "difendere l'Islam", talvolta devono essere fornite narrazioni per dare l'impressione che Islam sia stato attaccato. Non mancano i siti di notizie palestinesi e arabi che pubblicano bufale, propaganda, bugie e disinformazione spacciate per notizie reali. Molti arabi e palestinesi ritengono che questo ciarpame sia informazione basata sui fatti.
Questa è una forma di incitamento alla quale l'Occidente è sordo, soprattutto perché i giornalisti che lavorano per i media mainstream occidentali non vogliono capire ciò che viene detto in arabo o anche in inglese. Questi giornalisti scelgono di chiudere un occhio davanti a questo indottrinamento oppure sottovalutano come si deformano i cuori e le menti dei palestinesi.
Si prenda, ad esempio, una recente notizia pubblicata sui siti di informazione palestinesi, secondo la quale Israele ha spruzzato pesticidi sui terreni agricoli della Striscia di Gaza. Secondo l'articolo, Israele utilizza aerei per distruggere i raccolti palestinesi al fine di rovinare l'economia palestinese e privare gli agricoltori del loro sostentamento.
La scorsa settimana, alcuni siti web di informazione palestinesi hanno tirato fuori una storia che sembra essere uscita direttamente da un film d'azione. Che scopo hanno queste notizie? Fornire scuse per l'uccisione degli ebrei.
La notizia è la seguente: "Un aereo israeliano ha lanciato oggetti sospetti simili a caramelle nei pressi della città palestinese di Jenin, nel nord della Cisgiordania". Stando a quanto riportato nel pezzo, i palestinesi che hanno esaminato le "caramelle" hanno scoperto che contenevano materiale tossico. In altre parole, Israele sta cercando di avvelenare i bambini palestinesi. Quindi non c'è da stupirsi se un adolescente palestinese che sente notizie del genere finisca per uccidere gli ebrei, come è accaduto il mese scorso a Petah Tikva, quando un 19enne palestinese ha sparato sulla folla e ha accoltellato diversi israeliani.
Un'altra vecchia calunnia del sangue che i palestinesi hanno rispolverato da poco e diffuso contro Israele è quella secondo cui gli israeliani stanno inondando le comunità palestinesi di sostanze stupefacenti per propagare la corruzione morale e distruggere la salute dei palestinesi. Questa particolare menzogna aiuta i palestinesi a non assumersi alcuna responsabilità in merito al traffico di droga in Cisgiordania e a Gaza, proveniente dalla Giordania e dall'Egitto.
Nel corso di un recente seminario a Gaza, un gruppo di "esperti" palestinesi ha affermato che "qualcuno con l'appoggio di Israele" è responsabile del fatto che "la Striscia di Gaza è stata sommersa da vari tipi di droghe letali e pericolose".
Accuse false come queste sono state fatte lo scorso anno dalla polizia palestinese nella Striscia di Gaza, sottoposta al controllo di Hamas. Ayman Al-Batnihi, portavoce della polizia a Gaza City, è arrivato a sostenere che l'uso diffuso di stupefacenti è frutto di una "cospirazione" israeliana per distruggere i giovani palestinesi ed impedire loro di impegnarsi nella lotta contro Israele. Inutile dire che il portavoce, come i siti web di informazione palestinesi, non fornisce alcuna prova a sostegno delle sue affermazioni false.
Le calunnie e le menzogne non provengono solo da Hamas. L'Autorità palestinese (Ap), che dipende quasi esclusivamente dai finanziamenti americani ed europei, fornisce "informazioni" del genere ai suoi lettori. Ad esempio, sul quotidiano Al-Hayat Al-Jadeeda, con sede a Ramallah, sotto il controllo dell'Ap, è apparsa una notizia secondo la quale Israele sta "inondando" di stupefacenti gli abitanti arabi di Gerusalemme.
Stando all'articolo, circa 20.000 arabi sono vittime della presunta "cospirazione" ordita da Israele e sono diventati tossicodipendenti. "L'obiettivo di Israele è quello di distruggere i giovani arabi di Gerusalemme e svuotare la città dei suoi abitanti arabi", spiega il report.
Secondo notizie come queste, gli ebrei sembrerebbero anche utilizzare i maiali per perseguitare i palestinesi. I siti di informazione palestinesi informano regolarmente i loro lettori del fatto che Israele rilascia i cinghiali in Cisgiordania per distruggere le coltivazioni palestinesi e cacciare i palestinesi dalle loro case. Questi cinghiali vengono portati dagli ebrei nei villaggi palestinesi come parte di un piano per distruggere i raccolti e intimidire gli abitanti (alcuni dei quali sostengono che i maiali selvatici li attaccano). L'aspetto curioso di questa "bufala" è che i coloni ebrei accusati di utilizzare i maiali per fare guerra ai palestinesi sono per lo più religiosi, le ultime persone al mondo interessate ad avere a che fare con i suini. Questa è solo la punta di un iceberg, quando si tratta di menzogne sugli israeliani di cui vengono quotidianamente imbevuti i palestinesi dai loro leader, giornalisti e mezzi di comunicazione. Questo è anche ciò che i palestinesi pensano quando prendono un coltello per conficcarlo nel corpo di un ebreo.
Si pensava che le calunnie del sangue contro gli ebrei facessero parte del triste passato. Non è così. Questo lascia aperti alcuni interrogativi: dov'è la denuncia da parte delle comunità internazionale delle menzogne che fomentano l'uccisione degli ebrei per mano palestinese? E ancora: la comunità internazionale, ancora una volta nella storia, non riuscirà a dire la verità sull'uccisione degli ebrei?
(Italia Israele Today, 1 aprile 2017)
Lo spazio delle domande racconterà la storia ebraica
Da mercoledì al Museo della Shoah viene riscoperta la quotidianità di Ferrara Altra iniziativa prima dell'inaugurazione ufficiale: «Daremo tante risposte».
di Fabio Terminali
Il Meis (Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah) inizia a fare sul serio, a svelare un potenziale narrativo che lo renderà qualcosa di più di un museo, una volta completato. Mattone dopo mattone (e non è dell'intervento edilizio che si parla: avanza, comunque, permettendo a dicembre l'inaugurazione vera e propria) siamo arrivati a una mostra molto significativa, non a caso la prima con ingresso a pagamento. Si va al cuore dell'identità ebraica, da riscoprire partendo dalla quotidianità, con "Lo spazio delle domande", al via mercoledì alle 16. «Il Meis ci tiene a essere aperto anche in questa fase - spiega la direttrice Simonetta Della Seta -, attraverso un itinerario pensato per dare risposte ad alcuni interrogativi: cosa è l'ebraismo, come vivono gli ebrei ogni giorno, cosa mangiano, dove si incontrano. Con quattro sale e per la prima volta un giardino».
Per il sindaco Tiziano Tagliani è un momento importante perché «questa è una tappa in cui il Meis davvero costruisce la propria presenza e la sua missione: dar un quadro della vita quotidiana che possa rimuovere, tramite la conoscenza, il terreno fertile per ogni possibile pregiudizio». Il rabbino Luciano Caro ricorda che «la cultura ebraica può essere definita la cultura delle domande: nella dialettica con le risposte ci si avvicina alla verità, e non c'è una risposta univoca, la migliore è quella che non ci piace e ci fa pensare. Gli stessi libri della Bibbia - prosegue il rabbino - sono pieni di domande, come quello di Giobbe o l'Ecclesiaste; lo stesso Talmud inizia con un interrogativo».
Nel dettaglio, nella palazzina di via Piangipane si potranno ascoltare le interviste realizzate dal regista Ruggero Gabbai a sette ferraresi sulla loro identità ebraica: Marcella Ravenna e Jose Bonfiglioli, Marcello Sacerdoti e Baruch Lampronti, il rabbino Caro, e il presidente della Comunità ebraica cittadina, Andrea Pesaro, affiancato dal nipote Alessandro. La mostra è poi scandita da una selezione di oggetti, usati per riti collettivi o nel quotidiano. Al centro della prima sala la comunità, dove ci si confronta e si cresce insieme, protagonista della successiva è il matrimonio, con la foto di un rito nuziale ebraico officiato nel 1934 nel Tempio di Via Mazzini. «Sono stati ritrovate a Cincinnati musiche originali che si suonavano nelle sinagoghe di Ferrara», anticipa la Della Seta. Nella terza sala la scena curata dalla Fondazione famiglia Sarzi di Bagnolo in Piano riproduce e fa rivivere l'antica via Mazzini: le botteghe, i luoghi di culto, le storie. Ed ecco gli abitanti di allora sotto forma di burattini che il pubblico può liberamente muovere e far dialogare, immaginando per ognuno un'avventura.
L'esposizione prosegue nel giardino dedicato al cibo: piante di alloro, mirto, timo, lavanda e maggiorana disegnano quattro diversi itinerari, ciascuno associato a un alimento: uova, pesce, carne e latte. I visitatori si trovano davanti a biforcazioni e devono decidere quale strada imboccare, tra odori e sapori.
Al termine della mostra, il 27 settembre, «nulla di quanto mostrato sarà messo in deposito né relegato a parte», aggiunge la direttrice che annuncia, sempre dopo l'estate, una nuova installazione intitolata "Attraverso gli occhi degli ebrei italiani", video di diciotto minuti a volo d'uccello nella tradizione e nella storia.
"Lo spazio delle domande" sarà aperto dal martedì alla domenica in orario 10-13 e 16-18. Ingresso: 7 euro il biglietto intero e 4 il ridotto (titolari di MyFe Card e studenti universitari), gratis i minori di 18 anni.
(la Nuova Ferrara, 2 aprile 2017)
L'ebrea riluttante
Diffidava delle masse e dei nazionalismi, era contraria alla creazione di Israele. Hannah Arendt e il sionismo, una storia di contraddizioni.
Nel '63 a Gershocortina12m Scholem: "E' in questo senso che io non 'amo' gli ebrei, né 'credo' in loro; appartengo semplice- mente a loro".
"Il problema arabo resta quello di sempre ... Lo stato israeliano non s'è mostrato capace di concludere un solo trattato di pace".
"L'unanimità di opinione è un fenomeno alquanto sinistro e una caratteristica della nostra moderna epoca di massa".
Applicava al sionismo le categorie d'analisi che avrebbe poi utilizzato per connotare i movimenti dei regimi totalitari.
di Antonio Donno
"Gli Ebrei, se lo vogliono avranno il loro Stato. Dobbiamo una buona volta vivere come uomini liberi sulla nostra zolla e morire tranquillamente nella nostra propria patria" (Theodor Herzl).
Il 23 giugno 1963, Gershom Scholem, il grande studioso ebreo della Kabbalah, scrisse da Gerusalemme una lettera ad Hannah Arendt, rimproverandola di non avere "amore per il popolo ebraico". Arendt così gli rispose, il 24 luglio dello stesso anno, da New York: "Hai perfettamente ragione - non sono animata da alcun amore di questo genere, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai 'amato' nessun popolo o collettività. [... ] In secondo luogo, questo 'amore per gli ebrei' mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto". Perché mai per un ebreo dovrebbe essere sospetto nutrire "amore per gli ebrei"? L'affermazione di Arendt ci riconduce allo sviluppo del suo pensiero intorno alla storia del popolo ebraico e, in particolare, a come ella aveva vissuto - o meglio, non vissuto - quella storia durante la sua vita personale e di studiosa. La conclusione della lettera a Scholem è rivelatrice:
"Ebbene, è in questo senso che io non 'amo' gli ebrei, né 'credo' in loro; appartengo semplicemente a loro". Questo spiega la sua netta contrarietà alla creazione di uno stato ebraico né in Palestina, né in alcun altro luogo. Si tratta, però, di una spiegazione che deve essere "spiegata".
La vita stessa di Arendt all'interno del mondo intellettuale tedesco costituisce un elemento fondamentale per giudicare la sua concezione dell'ebraismo. Era un'ebrea completamente assimilata nel contesto storico e sociale della Germania al punto da aver abbandonato - o forse anche rifiutato - il suo essere ebrea. Nel commentare le idee di Theodor Herzl, scrisse nel luglio 1942: "La soluzione di Herzl al problema ebraico consisteva, in ultima analisi, nella fuga, ovvero nel mettersi in salvo in una patria". Un giudizio assai riduttivo, perché non si trattava di una fuga, ma del riconoscimento che l'assimilazione non aveva funzionato e che l'antisemitismo sarebbe prosperato proprio nei contesti dell'Europa progressista, come sarebbe accaduto tragicamente di lì a poco. Inoltre, se la "fuga" teorizzata da Herzl e poi dal movimento sionista aveva un obiettivo collettivo di salvezza di un intero popolo, per Arendt, che realizzò la propria "fuga" negli Stati Uniti nel 1941, l'obiettivo era del tutto personale, come per molti altri, e perfettamente comprensibile. Nei due casi la "fuga" era sopravvivenza, anche se gli obiettivi divergevano. E, perciò, suona profondamente ingiusto ciò che scrisse nell'ottobre 1945: "E' un fatto provato che i sionisti non abbiano mai saputo veder chiaro nel futuro degli ebrei emancipati".
Era vero il contrario. Ne Lo Stato ebraico, Herzl aveva descritto proprio la condizione degli ebrei assimilati dell'Europa occidentale. Egli non poteva prendere in considerazione la condizione degli ebrei dell'Europa orientale e della Russia zarista, per il semplice motivo che la sua cultura e il suo stile di vita erano quelli di un ebreo assimilato e perciò ben lontano dalla comprensione dei suoi correligionari di quella immensa area. La genialità del suo libello consiste proprio nella capacità di Herzl di strappare la maschera degli ebrei assimilati e della loro "goffaggine" (per usare un termine di Aharon Appelfeld) nel ritenersi inseriti a pieno titolo nel mondo dei gentili. Del resto, la stessa Arendt non poteva negare la realtà, la realtà degli ebrei che si sforzavano di non essere ebrei. Era proprio la sua stessa posizione. Nel gennaio del 1946 scrisse: "Nell'Europa occidentale questa ambiguità divenne decisiva per il comportamento sociale degli ebrei assimilati ed emancipati. Essi non volevano e non potevano appartenere più al popolo ebraico [. . .]". Era, questa, la migliore descrizione di se stessa, ragion per cui il suo "appartenere semplicemente a loro" era un dato puramente biologico. Ma non per gli antisemiti.
Il 24 marzo del 1930 Arendt aveva scritto una lettera inequivocabile a Karl Jaspers a proposito del problema dell'adesione personale all'ebraicità: "[. . .] Sul terreno dell'ebraicità può crescere una determinata possibilità di esistenza, da me indicata [. . .] come adesione al destino. Questa adesione al destino cresce proprio sul fondamento di un'assenza di terreno, e trova compimento, appunto, soltanto nel distacco dall'ebraismo". Anche quest'affermazione non può che essere considerata autobiografica, come gli eventi successivi avrebbero ampiamente dimostrato. La sua "fuga" verso gli Stati Uniti, oltre che essere dettata dal decisivo problema della sopravvivenza, era il momento culminante del suo distacco dall'ebraismo in quanto condizione esistenziale di un intero popolo. Quel popolo, ora - siamo negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra - marciava dietro le bandiere del sionismo. Su questo tema, la posizione di Arendt è nota, per quanto assai contraddittoria. In una lettera a Jaspers del 30 giugno 1947 scriveva con un certo disprezzo: "Vede, per noi e per molti altri oggi è divenuto del tutto ovvio che, se noi sfogliamo i giornali, veniamo a sapere soltanto ora che cosa succede in Palestina - benché io non abbia alcuna intenzione di andare mai laggiù, e benché io sia quasi fermamente convinta che là tutto andrà storto". Ma, appena poco più di due mesi dopo, il 4 settembre, sempre in una lettera a Jaspers, ammetteva: "[. .. ] I sionisti sono gli unici che possano godere di seria considerazione. [. .. ] Ciò che si è fatto in Palestina è straordinario: non soltanto colonizzazione, ma serio tentativo di fondare un nuovo ordine sociale [. .. ]". Non è facile penetrare nel significato della palese contraddizione di Arendt. E più avanti, nella stessa lettera: "In sostanza, la novità principale è che larghi settori del popolo, e non solo coloro che vivono in Palestina, non solo i sionisti, rinunciano a considerare la sopravvivenza come lo scopo di tutta la propria vita, e sono pronti a morire. E' un fatto totalmente nuovo". In realtà, il sionismo fu una vera e propria rivoluzione nella storia del popolo ebraico, non soltanto una novità. Arendt non ammetterà mai questa verità, per quanto il suo riconoscimento della positività del lavoro sionista fosse un passo avanti nel suo rapporto con il movimento fondato da Herzl.
In sostanza, Arendt, scrivendo di "un nuovo ordine sociale" fondato dai sionisti in Palestina, non poteva che alludere al fatto che il nazionalismo ebraico (il sionismo) aveva raggiunto il suo scopo: la creazione di uno stato ebraico in Palestina, per quanto ella aborrisse il termine "nazionalismo", che giudicava appartenente a un'altra epoca storica. Di conseguenza, "l'edificio crollerà - aveva scritto nel febbraio 1943 - se le nostre menti e le nostre idee non si adatteranno a nuovi fatti e a nuovi sviluppi", senza accennare a quali fatti e sviluppi avrebbero potuto soppiantare il nazionalismo.
Al contrario, in uno scritto del 1952, in occasione della morte di Judah Magnes, Arendt ritornerà a condannare il nazionalismo sionista realizzato nello stato di Israele: "Il problema arabo resta quello di sempre, vale a dire la sola vera questione politica e morale di Israele. Il vittorioso stato israeliano non s'è mostrato capace di concludere nemmeno un solo trattato di pace con i suoi vicini arabi". L'affermazione di Arendt è così sorprendente da lasciare basiti. Arendt dimenticava l'intransigente opposizione araba al piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947, il costante rifiuto arabo di ogni compromesso, l'invasione araba dello stato di Israele subito dopo la sua fondazione, allo scopo di eliminarlo dalla carta geografica del medio oriente, e la continua azione terroristica nei confronti degli insediamenti israeliani. Di più: Arendt denunciava il comportamento di "un popolo che per duemila anni aveva fatto della giustizia la pietra angolare della propria esistenza spirituale e comunitaria [. . .]". "Questa è la misura del nostro fallimento", concludeva, usando il termine "nostro" quasi a immedesimarsi nel fallimento di Israele. Arendt era tornata alle sue precedenti convinzioni, tralasciando, però, un bel po' di storia sulle relazioni arabo-israeliane. Eppure, in un precedente scritto del 1951, aveva esplicitamente ammesso il perdurare dell'ostilità araba, fin dal 19'21, nei confronti dell'insediamento ebraico in Palestina. Una serie di contraddizioni veramente eclatanti.
Eppure, nel 1953, in uno dei suoi quaderni e diari, il quattordicesimo, Arendt aveva spiegato il significato di "sradicamento": "Sradicamento significa vivere in superficie, e questo implica l'essere un parassita e la 'superficialità'. La dimensione della profondità si crea piantando radici, ovvero comprendendo nel senso della riconciliazione". Era stato proprio il sionismo a voler eliminare lo "sradicamento" del popolo ebraico nella diaspora e a impegnarsi a "piantare radici" in una patria ebraica, "riconciliando" la gran parte delle anime dell'ebraismo. Ma, questo, Arendt non intendeva ammetterlo. Anzi, nel maggio del 1948, nel momento in cui nasceva lo stato di Israele, conclusione trionfale del lavoro del movimento sionista, Arendt scriveva, a proposito del grande seguito di massa ottenuto dai successori di Herzl, che gli ebrei davano l'impressione di essere passati dalla "mentalità da Galut" (diaspora) a una da combattimento. Non era un giudizio positivo, quello di Arendt, perché subito dopo commentava: "L'unanimità di opinione è un fenomeno alquanto sinistro e una caratteristica della nostra moderna epoca di massa. [. . .] Una pubblica opinione unanime tende a eliminare completamente coloro che dissentono, perché l'unanimità di massa non è il risultato di un accordo, ma un'espressione di fanatismo e di isteria. Diversamente dall'accordo, l'unanimità non si ferma a temi ben definiti, ma si espande come un'infezione a ogni questione a essi collegata". In sostanza, Arendt applicava al movimento sionista quelle categorie d'analisi che avrebbe utilizzato successivamente per connotare i movimenti di massa tipici dei regimi totalitari che studierà nel suo fondamentale Le origini del totalitarismo, del 1951. In realtà, la storia ha dimostrato che il movimento di massa sionista diede vita a uno stato democratico e pluralista, che non aveva niente a che vedere con i movimenti di massa totalitari. L'esito fu ben evidente già durante i primi decenni di Israele, nonostante la continua minaccia da parte del mondo arabo, e fino ai nostri giorni. L'analisi di Arendt era sbagliata.
Negli anni Cinquanta, Arendt tornerà più volte sul tema dello stato ebraico. Lo farà in modo altalenante tra una debole accettazione e un netto rifiuto, anche se il suo giudizio resterà sempre sostanzialmente negativo. In uno scritto del 1950, Arendt sottolineerà un concetto che, implicitamente o più spesso esplicitamente, aveva espresso più volte negli anni precedenti: "L'esperimento palestinese è stato frequentemente definito come artificiale [. . .]"; e più avanti: "Nessuna necessità economica costrinse gli ebrei ad andare in Palestina negli anni decisivi nei quali l'immigrazione in America era la naturale fuga dalla miseria e dalla persecuzione[. . .]". Un'affermazione che negava legittimità al movimento sionista e al suo progetto nazionale.
(Il Foglio, 1 aprile 2017)
In poche parole, alla luce dei fatti si può dire che la storia di Hannah Arendt è la storia di un'intellettuale ebrea che non ha capito niente di quello che accadeva intorno a lei, nel suo popolo e nel mondo. Accade a molti, ma nel caso degli intellettuali il loro non capire niente appare interessante ad altri intellettuali per il modo in cui maneggiano strumenti filosofici del discorso che sono anche i loro. Detto questo, non considerando utili esercitazioni di questo tipo, chiediamo scusa ai lettori ed esprimiamo il proposito di non riportare più in futuro articoli su Hannah Arendt o sul suo maestro-amante Martin Heidegger. M.C.
Israele costruirà un nuovo insediamento
di Giordano Stabile
Israele ha deciso la costruzione di un nuovo insediamento nei Territori occupati. È la prima volta negli ultimi 24 anni, cioè dagli accordi di Oslo. La decisione si scontra con le pressioni della comunità internazionale che vorrebbe un congelamento per far ripartire i colloqui di pace con i palestinesi. Il premier Benjamin Netanyahu ha giustificato la scelta come una compensazione per lo smantellamento dell'avamposto illegale di Amona, due mesi fa. Agli abitanti aveva promesso «un nuovo insediamento» per convincerli a lasciare le case dopo la sentenza della Corte suprema che aveva imposto la demolizione. Netanyahu ha detto alla Casa Bianca che era ora impossibile, «politicamente parlando», rinnegare la promessa.
Il nuovo insediamento sorgerà vicino a quello già esistente di Shiloh e avrà dimensioni limitate. Altre 2000 case però saranno costruite in insediamenti già esistenti. La Casa Bianca ha criticato la decisione poiché «l'incontrollato» sviluppo degli insediamenti «non aiuta il processo di pace». Più dura la reazione del segretario Onu, Antonio Guterres, che si è detto deluso e preoccupato.
(La Stampa, 1 aprile 2017)
Che una simile decisione produca tanto scalpore e scandalo internazionale è unaltra conferma di un accanimento antiebraico adatto a prepare il clima per quello che verrà. Come prima dellultima guerra mondiale. M.C.
«La Turchia farà pressioni su Hamas per riconoscere lo Stato di Israele»
L'avrebbe detto il ministro degli esteri turco
Il ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu
Il 22 marzo, nel corso di un incontro presso il National Press Club di Washington, il ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha dichiarato che la Turchia avrebbe fatto pressione su Hamas perché abbandonasse la resistenza armata, così da potersi impegnare nei negoziati con Israele e che l'organizzazione si sarebbe mostrato disponibile a riconoscere lo Stato ebraico. Tuttavia, Cavusoglu non ha specificato quando la Turchia ha effettuato tale richiesta ad Hamas.
Lo stesso giorno, il sito web Al-Mayadeen, vicino all'Iran, citando una fonte di Hamas in condizione di anonimato, ha commentato le dichiarazioni di Cavusoglu. La fonte avrebbe dichiarato che la Turchia ha fatto pressioni per il riconoscimento di Israele, ma che comunque Hamas non è obbligato a seguire le sue indicazioni. Nel frattempo, Hamas ha rilasciato una dichiarazione ufficiale, in cui ha smentito la notizia fatta circolare dai media secondo cui il movimento stesse cedendo alle sollecitazioni turche, descrivendo quanto detto come menzogne e false accuse. Il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ha spiegato ad Al-Monitor: "Quanto riportato dai media è falso. Tutti sanno che la posizione di Hamas sulla faccenda è ferma sul rifiuto di riconoscere l'entità sionista. Invito i media a essere più attenti e professionali prima di diffondere notizie e invenzioni che distorcono i fatti, danneggiano Hamas e distorcono le sue posizioni".
Dal canto suo, il ministero degli esteri turco non ha rilasciato ulteriori dichiarazioni che chiariscano il suo annuncio. Di fatto, però, Hamas nel suo comunicato ufficiale non ha denunciato le affermazioni di Cavusoglu, ma ha condannato solo i media che hanno fatto circolare la notizia, rivelando così la possibile riluttanza di Hamas ad avere un confronto diplomatico con la Turchia.
Il membro del Consiglio Rivoluzionario di Fatah e capo del comitato politico al Consiglio Legislativo Palestinese, Abdullah Abdullah, ha dichiarato ad Al-Monitor: "La Turchia sta cercando di convincere Hamas del fatto che il processo di pace e le trattative con Israele non contraddicano la carta palestinese, dal momento che la Turchia ha rapporti stretti con Hamas. E il movimento stesso vuole mantenere buone relazioni con questo paese". Ha poi aggiunto: "I leader militari di Hamas hanno bisogno di soldi e armi dall'Iran perché la Turchia non glieli fornisce. Ma, in generale, Hamas si sente più vicino alla Turchia piuttosto che all'Iran. Per questa ragione farà più attenzione a non irritare la Turchia. Quest'ultima sostiene la Fratellanza Musulmana, a cui Hamas è affiliato. La Turchia si considera tra i principali paesi sunniti concorrenti con l'asse iraniano sciita nella regione".
Questa non è la prima volta che Cavusoglu sottolinea gli sforzi della Turchia, per convincere Hamas a riconoscere Israele. Nel gennaio del 2015, ha affermato che la Turchia è uno dei paesi che maggiormente hanno contribuito a fare la differenza nella linea politica passata e attuale di Hamas. Nelle parole del ministro degli esteri turco: "Siamo convinti che per il raggiungimento di una soluzione politica sia necessario che Hamas riconosca Israele". Hamas non rilasciò alcuna dichiarazione in proposito.
Ahmed Yousef, che ha buoni rapporti con i funzionari turchi ed è un ex consigliere politico di Ismail Haniyeh, vice presidente dell'ufficio politico di Hamas, ha dichiarato ad Al-Monitor: "I turchi cercano una soluzione al conflitto con Israele. Date le relazioni della Turchia sia con Hamas che con Israele, si sta cercando di implementare gli sforzi per raggiungere un accordo che stabilisca uno Stato palestinese secondo i confini del 1967 e si stanno cercando di attenuare le posizioni di Hamas, riducendo la pressione sul movimento e dando l'impressione che Hamas stia esaminando una soluzione politica. Forse la riconciliazione turco-israeliana, avvenuta nel giugno 2016, ha ulteriormente consolidato la mediazione turca tra Hamas e Israele, l'interesse della Turchia per i diritti dei palestinesi e il suo contributo all'allentamento dell'assedio ai danni del movimento, convincendo Israele ad accettare soluzioni politiche".
Hamas e la Turchia si erano scontrate qualche settimana fa, quando il primo ministro turco Binali Yildirim e il suo vice Mehmet Simsek avevano condannato l'attacco palestinese di Gerusalemme del 9 gennaio, che ha causato la morte di quattro soldati israeliani. Lo stesso giorno, Hamas aveva subito espresso la sua disapprovazione per la presa di posizione turca e affermato che la resistenza è un diritto legittimo nella legislazione internazionali e che le azioni di Israele contro il popolo palestinese sono atti terroristici.
Il 20 marzo, durante una conferenza all'Università di Tel Aviv, l'ambasciatore turco in Israele, Kemal Okem, ha annunciato che il suo paese non supporta Hamas, ma piuttosto la gente della Striscia di Gaza, per cui intende ridurre la loro sofferenza.
Ali Bakir, un ricercatore indipendente in Turchia, che è vicino a politici turchi, ha dichiarato ad Al-Monitor: "La Turchia sostiene un processo di pace giusto e la creazione di uno Stato palestinese indipendente, secondo i confini del 1967, e incoraggia tutte le parti a muoversi in questa direzione; Israele dovrà eventualmente mantenere i propri impegni e Hamas dovrà essere d'accordo. Tuttavia, la Turchia può solo consigliare Hamas. Non credo che il movimento ceda alle pressioni turche o che la Turchia abbia fatto pressione per cominciare tale processo, in quanto Israele non ha preso alcun impegno. Hamas sta ancora preparando un documento politico, che è un passo importante e il risultato di un'introspezione e dei negoziati con i paesi della regione, tra cui la Turchia".
Un funzionario palestinese del ministero degli esteri a Ramallah ha detto ad Al-Monitor in condizione di anonimato: "La Turchia, che ha buoni rapporti con Hamas, non nasconde i suoi sforzi per domare l'organizzazione e per migliorare la sua immagine di fronte alla comunità internazionale, con lo scopo di dimostrare che il movimento è in grado di gestire la leadership palestinese, sia bypassando il presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, sia tenendolo dalla parte di Hamas. Prolungando la pace tra Israele e Hamas a Gaza per gli anni a venire, la Turchia sta spianando la strada per un suo potenziale ruolo nella Striscia di Gaza. Il documento politico di Hamas sarà presto rilasciato, e rifletterà una nuova retorica che vuole uno Stato palestinese secondo i confini del 1967".
Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, ha rapporti personali e stretti con Hamas, per lo più con l'ex capo dell'ufficio politico, Khaled Meshaal, che è un ospite costante ad Ankara, l'ultima volta nel mese di dicembre. La Turchia ha accolto diversi ex detenuti di Hamas, che sono stati rilasciati dalle prigioni israeliane, come parte della transazione di scambio avvenuta tra Hamas e Israele nel 2011. Il movimento si è anche congratulato con Erdogan per le misure messe in atto per contrastare il tentativo di colpo di stato avvenuto nel mese di luglio. La Turchia spera che questa armonia con Hamas impegnerà il movimento nel processo di pace, ma l'elezione di Yahya Sinwar, considerato un leader radicale e pro-Iran, alla fine di febbraio potrebbe far fallire i piani della Turchia.
(Sicurezza Internazionale, 1 aprile 2017)
Himmler, ritrovato il telegramma al Gran Muftì di Gerusalemme: "Con voi contro gli ebrei"
ROMA - Himmler, ritrovato il telegramma al Gran Muftì di Gerusalemme: "Con voi contro gli ebrei". La Germania nazista sarà a fianco degli arabi nella loro lotta in Palestina contro gli "ebrei intrusi": è il passaggio decisivo di un telegramma inviato nel 1943 dal capo delle SS e di tutte le polizie del Terzo Reich, Heinrich Himmler, al Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini, e riscoperto ora negli Archivi della Biblioteca nazionale di Israele. In qualche modo il ritrovamento suffraga la dichiarazione del premier Nethanyahu quando aveva accusato il Gran Muftì di aver suggerito a Hitler di "bruciare" gli ebrei, dichiarazione oggetto di polemica per la mancanza di prove documentali.
Scritto in tedesco, il telegramma - il cui testo era noto - conferma quanto già appurato nella storiografia su quel periodo, ma aggiunge un ulteriore tassello alle vicende storiche dell'epoca. "Fin dall'inizio il movimento nazionalsocialista della Grande Germania è stato il portabandiera della battaglia contro l'ebraismo mondiale. Per questa ragione - scrisse Himmler - segue da vicino la lotta degli arabi che cercano la libertà, particolarmente in Palestina, contro gli ebrei intrusi".
Ma c'è un altro dettaglio che segna la particolarità del telegramma: la data, quella del 2 novembre. Lo stesso giorno di 26 anni prima, nel 1917, in piena Prima Guerra Mondiale, il ministro degli esteri inglese, Arthur James Balfour, assicurava a Lord Rothschild il sostegno della Corona Britannica per la nascita di un "focolare ebraico" in Palestina una volta sconfitto l'Impero Ottomano che regnava sulla regione da 400 anni.
"La comune individuazione del nemico e la lotta contro di esso - scrisse ancora Himmler - sta creando una forte base tra la Germania e gli arabi in cerca di libertà in tutto il mondo. In questo spirito, sono lieto di augurarle, nell'anniversario della miserabile Dichiarazione Balfour, un caldo pensiero nella nostra continua lotta fino alla grande vittoria".
Il Muftì già nel 1937 aveva però abbandonato la Palestina sotto Mandato inglese, inseguito da un ordine di cattura per la sanguinosa rivolta araba che colpì in larga prevalenza gli ebrei ma anche leader arabi dissidenti e ovviamente i rappresentanti inglesi. Dal Libano, al-Husseini, raggiunse l'Iraq per poi approdare prima in Italia, ricevuto da Benito Mussolini, e poi in Germania, dove si stabilì fino alla fine della guerra.
Convinto sostenitore dell'alleanza tra movimento arabo e nazifascismo, il Muftì venne ricevuto da Hitler il 28 novembre del 1941 a Berlino in un colloquio che durò un'ora e un quarto e che servì a rinsaldare i comuni punti di vista. Il telegramma - che è stato esposto sul sito web della Biblioteca - è stato ritrovato in connessione con le celebrazioni per il prossimo anniversario, il 2 novembre, dei 100 anni della Dichiarazione Balfour.
Chen Malul, responsabile del Dipartimento della Biblioteca, ha detto, citato dai media, che il telegramma ha fatto un giro vizioso prima di arrivare negli Archivi dell'istituzione. Alla fine della guerra, il documento - ha spiegato - fu sequestrato dall'esercito Usa per poi passare a un membro dell'Haganà, l'armata clandestina ebraica prima della nascita di Israele, che lo donò alla Biblioteca.
(blitz, 1 aprile 2017)
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IL TELEGRAMMA
TRADUZIONE
AL GRAN MUFTI AMIN EL HUSSEINI
Berlino
Il movimento nazionalsocialista della grande Germania ha scritto fin dal suo inizio sulla sua bandiera la lotta contro l'ebraismo mondiale. Quindi ha sempre seguito con particolare simpatia la lotta degli amanti della libertà arabi, soprattutto in Palestina, contro gli intrusi ebrei. L'individuazione di questo nemico e la comune lotta contro di lui costituiscono il solido fondamento del naturale legame tra la grande Germania nazionalsocialista e gli amanti della liberta' maomettani di tutto il mondo. In questo spirito le trasmetto, nell'anniversario dell'infausta Dichiarazione Balfour, i miei più cordiali saluti e auguri per la felice prosecuzione della sua lotta fino alla sicura vittoria finale.
Firmato: Heinrich Himmler
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Le atrocità di al-Husseini a Hitler . "Tu ammazzali in Europa, io provvederò ad ammazzarli qui"
L'incontro a Berlino tra Amin al-Husseini e Adolf Hitler. Un accordo tra la Palestina e la Germania per sterminare gli ebrei
di Niram Ferretti
Il recente ritrovamento presso la Biblioteca Nazionale di Israele di un telegramma scritto da Heinrich Himmler e destinato ad Amin al-Husseini riporta alla ribalta il legame tra il partito nazista e quella che all'epoca era riconosciuta come la principale autorità musulmana in ambito palestinese.
Amin-al-Husseini fu uno dei più solerti promotori dello sterminio ebraico indiscriminato. Si attivò sempre in prima persona e senza consiglieri, come quando si assicurò che 5000 bambini ebrei che Himmler voleva emigrassero in Palestina in cambio del rilascio di 20,000 prigionieri tedeschi, finissero nelle camere a gas. D'altronde aveva personalmente rassicurato il Führer che ci avrebbe pensato lui a fornirgli una Palestina judenfrei, "Tu ammazzali in Europa io provvederò ad ammazzarli qui". Hitler sembrò soddisfatto dell'intesa. Riconosceva già da tempo una certa affinità con l'Islam, ne ammirava la virtù guerriera. Lo spirito "volkish" che animava l'Umma non gli era certo indifferente. Nell'estate del 1942, un reparto speciale delle SS era di stanza ad Atene in attesa che Rommel tornasse vittorioso dal teatro bellico del Nord Africa. A quel punto avrebbe raggiunto gli alleati arabi per aiutarli nella shoah palestinese.
Nel 2015 fece scalpore la dichiarazione di Benjamin Netanyah, secondo il quale era stato il Mufti a proporre a Hilter la Soluzione Finale. Questo strafalcione a cui molti indignati si appigliarono per accusare il premier israeliano di insipienza storica, in realtà evidenziava un fatto irrefutabile, l'amorevole concordanza tra zelo omicida nazista e musulmano quando si trattava degli ebrei e la sua continuità. Pierre André Taguieff ha ben illustrato come l'antisemitismo sia in grado di superare barriere ideologiche e culturali, (estrema destra, estrema sinistra, tradizionalismo, anarchismo) per unire fortemente laddove altro separa. Amin al Husseini rappresenta un raccordo emblematico tra Oriente e Occidente, una vera e propria testa di ponte islamica per la propaganda nazista. Islamismo e nazismo. Un gemellaggio naturale per al Husseni. Scrive Matthias Küntzel nel suo studio seminale, Jihad and Jew Hatred, "Come presidente del Concilio Superiore Islamico (al-Husseini) era la più alta autorità religiosa. Cercò strenuamente di usare la propria posizione religiosa per islamizzare l'antisionismo e fornire una motivazione religiosa per l'odio nei confronti degli ebrei".
L'ebreo responsabile della decadenza dei costumi, soggetto portatore di patologie culturalmente degenerative, nemico della morale, nonché cospirazionista, era il fantoccio agitato dal Mufti davanti alla folla araba, lo stesso che veniva agitato da Hitler nel medesimo periodo.
Nel 1940, al-Husseini scriveva, "La Germania e l'Italia riconoscono il diritto dei paesi arabi di risolvere la questione degli elementi ebraici nello stesso modo in cui la questione ebraica è stata risolta in Germania e in Italia". Il terreno era già stato ampiamente preparato. Nel 1938, in occasione della "Conferenza Parlamentare dei paesi arabi e musulmani" promossa dai Fratelli Musulmani, vennero distribuite ai partecipanti versioni in arabo del Mein Kampf e dei Protocolli dei Savi di Sion.
Fu il Mufti che nel periodo che va dal 1936-39 istigò la rivolta contro l'immigrazione ebraica in Palestina, grazie a fondi provenienti dalla Germania. Ma non tutti i palestinesi erano dalla parte di al Husseni. C'era chi, tra gli arabi, riteneva che con gli ebrei un accordo fosse possibile. Costoro venivano considerati traditori dalle bande del Mufti ed eliminati fisicamente (ciò che accade oggi da parte di Hamas nei confronti di quei palestinesi che vengono accusati, senza alcuna prova, di collaborazionismo con Israele e giustiziati sommariamente). "La rivolta palestinese del 1936-39 fu anche un assalto contro gli oppositori del Mufti. Ci furono più omicidi all'interno della fazione palestinese di quanti ne vennero perpetrati contro gli ebrei e gli inglesi", come scrive Abraham Ashkenasi nel suo Der Mufti von Jerusalem (Dopo la vittoria di Hamas a Gaza nel 2007, il regolamento di conti con Fatah costò 118 morti e più di 500 feriti).
E' interessante notare che quando gli inglesi agirono con determinazione per sedare la rivolta, Der Volkische Beobachter, foglio di propaganda nazista, stigmatizzò la brutalità inglese nei confronti dei "combattenti della libertà" palestinesi. I "combattenti della libertà". Tali e quali anche per la sinistra terzomondista di ieri e di oggi, a riprova di quanto siano accurate le analisi di Taguieff.
Il gemellaggio ideologica tra nazismo, islamismo e sinistrismo è monozigote quando si tratta di rappresentare Israele come l'oppressore e i palestinesi come le vittime. Esso giunge all'oscenità di un'inversione semantica ripugnante, quella di nazificare Israele.
Basta leggere la Carta di Hamas per vedere dove si trova il nazismo, il suo legato. Di nuovo lasciamo parlare Amin al-Husseini, "Il diritto dei paesi arabi di risolvere la questione degli elementi ebraici nello stesso modo in cui la questione ebraica è stata risolta in Germania". I volonterosi esecutori del lascito hitleriano sono sempre all'opera.