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Notizie 1-15 aprile 2018
Netanyahu: i raid in Siria indicano "tolleranza zero per l'uso di armi non convenzionali"
GERUSALEMME - Il "messaggio internazionale importante che emerge dall'attacco" contro la Siria è: "Tolleranza zero per l'uso di armi non convenzionali". Lo ha dichiarato oggi il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in occasione della riunione settimanale del gabinetto di governo. "Questa politica deve essere espressa anche per prevenire che Stati e gruppi terroristici acquisiscano capacità nucleari", ha aggiunto. Il capo dell'esecutivo israeliano ha riferito, inoltre, del colloquio avuto con l'omologo britannico, Theresa May, con la quale si è congratulata per aver affiancato Stati Uniti e Francia nel compiere i raid contro strutture per la ricerca e lo stoccaggio di armi chimiche in Siria. Netanyahu ha auspicato l'adozione di una politica simile da parte dei tre paesi nei confronti del programma nucleare iraniano.
In precedenza, Netanyahu ha detto: "Dovrebbe essere chiaro al presidente Bashar al Assad che i suoi irresponsabili sforzi per acquisire e usare armi di distruzione di massa, il suo disprezzo per il diritto internazionale e la fornitura di basi all'Iran e i suoi combattenti mettono in pericolo la Siria", ha affermato Netanyahu. Il capo dell'esecutivo ha ricordato: "Un anno fa ho dichiarato il pieno appoggio di Israele alla decisione di Trump di prendere posizione contro l'uso e la diffusione di armi chimiche. La determinazione di Trump e il sostegno di Israele rimangono invariati". Da parte loro, i responsabili della sicurezza israeliani hanno espresso preoccupazione per il futuro. Temono, infatti, che l'amministrazione statunitense consideri il lavoro concluso in Siria e lascino Israele da solo ad affrontare il pericolo della crescente presenza militare in Siria, riporta il quotidiano "Times of Israel". Secondo il quotidiano, i responsabili della Difesa israeliana sono preoccupati che Mosca possa fornire a Damasco sistemi di difesa aerea avanzati in grado di ridurre la supremazia di Gerusalemme sui cieli di Siria e Libano.
I timori di Gerusalemme non sembrano del tutto infondati. Il 14 aprile, infatti, un alto rappresentante dello Stato maggiore russo, ha detto che Mosca potrebbe considerare la fornitura del sistema di difesa aerea S-300 alla Siria, in seguito agli attacchi effettuati da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. "Vorrei sottolineare come diversi anni fa, prendendo in considerazione la richiesta dei nostri partner occidentali, abbiamo deciso di non fornire alla Siria il sistema di difesa aerea S-300. Ora, dopo quanto accaduto questa notte, crediamo di dover riprendere in considerazione la questione, non solo rispetto alla Siria ma anche verso altri paesi", ha dichiarato il generale Sergej Rudskoj, responsabile del direttorato per le operazioni principali dello Stato maggiore russo.
Ad oggi rimane incerto l'uso della contraerea di Mosca nei raid sulla Siria e l'efficacia di quella di Damasco. Il ministero della Difesa russo ha fatto sapere che la contraerea siriana è stata in grado di abbattere numerosi degli oltre 100 missili lanciati dai tre paesi prima che raggiungessero gli obiettivi. Inoltre, Mosca ha dichiarato che 103 missili da crociera, tra cui i Tomahawk, sono stati lanciati sulla Siria e che i sistemi di difesa aerea siriani ne hanno intercettati 71. Da parte sua, il direttore degli Stati maggiori riuniti degli Usa, generale Kenneth McKenzie, ha dichiarato che Stati Uniti, Regno Unito e Francia hanno portato avanti un attacco di precisione lanciando 105 missili contro tre strutture siriane usate come centri di ricerca per lo sviluppo di armi chimiche, senza provocare danni collaterali. McKenzie ha aggiunto che nessun missile si è scontrato con la contraerea siriana e non vi sono notizie sul coinvolgimento di quella russa. Il direttore degli Stati maggiori riuniti ha affermato che Damasco ha lanciato circa 40 missili terra-aria, ma senza una guida appropriata.
Nel corso del suo intervento McKenzie ha evidenziato che il numero dei missili usati nell'attacco di
questa notte è stato il doppio di quelli lanciati lo scorso anno sempre sulla Siria nell'aprile 2017. Uno dei tre obiettivi era un deposito di armi chimiche a Him Shinsar, ad est di Homs, che si ritiene fosse connesso alla produzione di Sarin, raggiunto da 22 missili, mentre su un bunker nella stessa località ne sono stati lanciati sette. Un terzo obiettivo nei pressi di Damasco, il centro di ricerca e sviluppo di Barzah, è stato colpito da 76 missili. Nel corso dell'operazione i missili sono partiti dalla basi nel Mediterraneo orientale, ha concluso McKenzie. Secondo quanto indicato da Washington, Londra e Parigi gli obiettivi dei raid sono stati distrutti, come emerge anche dalle immagini satellitari diffuse da una società israeliana, ImageSat International.
In particolare, gli Stati Uniti hanno lanciato 69 missili da crociera e 19 missili terra-aria Jassm. Il Regno Unito ha lanciato otto missili Storm Shadow dai Tornado e Typhoon. La Francia ha lanciato tre missili Scalp da una fregata nel Mediterraneo e altri nove dai Rafale. Per quanto riguarda le piattaforme coinvolte i missili sono stati lanciati da Mar Rosso, Golfo Persico e Qatar. Dal Mar Rosso hanno fornito sostegno al raid il cacciatorpediniere Arleigh Burke USS Laboon, l'incrociatore missilistico Ticonderoga USS Monterey ed un sottomarino d'attacco. Dal Golfo Persico il cacciatorpediniere Arleigh Burke Higgins (DDG-76) ha lanciato 23 Tomahawk. Dalla base di Al Udeid, in Qatar, è decollata una formazione di bombardieri convenzionali B-1B Lancer, scortati da caccia F-22 Raptor, ed un EA-6B Prowler, aereo da guerra elettronica. Per quanto riguarda l'impegno della Francia, la fregata Fremm Aquitaine ha lanciato tre missili da crociera, mentre quattro Rafale sono decollati dalla Francia e riforniti in volo nel Mediterraneo grazie al sostegno tattico predisposto dagli Stati Uniti. Infine, i quattro Tornado GR4 ed altrettanti britannici sono decollati da Cipro. Durante l'intera durata del raid sulla Siria gli Stati Uniti hanno mantenuto tra Cipro e la costa siriana quattro F-15 ed altrettanti F-16 per eventuale soppressione delle difese.
(Agenzia Nova, 15 aprile 2018)
Guerra fredda sul destino di Damasco
di Maurizio Molinari
L'attacco degli Stati Uniti al regime siriano nasce da due obiettivi convergenti: creare una coalizione internazionale contro l'uso di armi chimiche da parte di Bashar Assad e mettere sulla difensiva la Russia di Vladimir Putin in Medio Oriente.
L'azione militare è stata limitata nell'entità e negli obiettivi perché questo è il cuore del piano disegnato dal Pentagono di James Mattis alla base dell'intesa fra Donald Trump, Theresa May ed Emmanuel Macron: l'intento non è rovesciare il regime.
Ma eliminare le armi di distruzione di massa che Assad ha adoperato contro i civili a Douma la scorsa settimana, a Khain Sheikoun nel 2017 e «in almeno altre 50 occasioni» secondo Nikki Haley, ambasciatrice Usa all'Onu. In un Pianeta disseminato di crisi armate il pericolo più devastante viene dalla possibilità che un tiranno adoperi armi di distruzione e per evitare «che crimini come quello di Douma si ripetano», come afferma Downing Street, le tre maggiori potenze dell'Occidente hanno scelto di agire. Con il risultato di trasformare la linea rossa che Obama si limitò ad enunciare nel 2013 e Trump iniziò a far rispettare nel 2017 - con il primo attacco ad Assad - in una posizione condivisa. E' per questo che altre capitali occidentali - da Ottawa a Gerusalemme - condividono con forza gli attacchi all'arsenale chimico di Assad. La linea rossa tracciata da Trump, May e Macron diventa, de facto, un nuovo fattore nei precari equilibri internazionali.
Ciò significa che le famiglie siriane vittime dei gas del Raiss di Damasco sanno che c'è qualcuno determinato a difenderle. E ciò significa che altri regimi in possesso di armi di distruzione di massa - dalla Nordcorea all'Iran - sanno cosa rischiano nel caso dovessero usarle contro propri cittadini o Paesi vicini.
Ma non è tutto perché l'attacco ad Assad punta anche a mettere sulla difensiva la Russia nel Mediterraneo. Se Putin è tornato protagonista in Medio Oriente grazie all'intervento militare in Siria del settembre 2015 ed ha colto il suo maggior risultato nel salvataggio del regime di Assad, ora Trump lo indica come il protettore di «un criminale» perché gli garantisce difesa aerea, legioni di mercenari e lo scudo del veto al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Ciò significa voler schiacciare Putin sull'alleanza con Assad e l'Iran di Ali Khamenei - presente in Siria con unità scelte, armi sofisticate e schiere di miliziani sciiti - allontanando Mosca dai molti Stati sunniti che corteggia. Un primo risultato in tal senso Trump lo ha colto con la scelta della Turchia di plaudire ai raid. Nell'arco di 24 ore Recep Tayyip Erdogan è passato dalle vesti di alleato di Putin nella spartizione della Siria a sostenitore di Trump nell'attacco ad Assad. Il sostegno di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar al blitz completa il quadro. Trump lavora per rimarginare le ferite fra Paesi sunniti, puntando a unificarli per fronteggiare l'asse Mosca-Damasco-Teheran ben raffigurato dalle manifestazioni dei fan di Assad con i drappi dei tre Paesi. Ciò significa che la Siria diventa sempre di più il terreno di scontro fra due coalizioni rivali: i pro-Assad sostenuti da Mosca e gli anti-Assad sostenuti da Washington. Ecco perché Putin tuona contro Trump parlando di «aggressione contro un Paese sovrano»: punta a sfruttare l'attacco Usa per rafforzare la sua leadership del fronte opposto.
È questo scenario politico-militare che spiega perché il Segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, parli senza mezzi termini di «nuova Guerra Fredda»: il braccio di ferro su Assad è l'epicentro di un duello strategico fra Usa e Russia che ha nel Medio Oriente la regione più a rischio ma si estende fino ad Europa dell'Est, Estremo Oriente e cyberspazio. «Ovunque possono, i russi ci causano seri problemi» afferma un alto funzionario del Dipartimento di Stato. Sono queste le ragioni che rendono possibile una guerra di attrito fra Washington e Mosca destinata a giocarsi in gran parte sullo scacchiere del Mediterraneo. Con la possibilità di azioni militari limitate come quella di ieri sulla Siria, di più estesi conflitti per procura come suggeriscono le crescenti fibrillazioni Iran-Israele e dunque di ricadute a pioggia nelle relazioni internazionali. Soprattutto per quei Paesi, come l'Italia, che appartengono alle alleanze dell'Occidente ma guardano spesso verso Mosca.
(La Stampa, 15 aprile 2018)
"Partita quasi chiusa, Assad vincitore"
Il presidente del Centro studi internazionali: "Regime forte, grazie ai russi"
di Chiara Giannini
«Una puntura di spillo»: così il professor Andrea Margelletti, presidente del Centro di studi internazionali e consigliere del ministro della Difesa definisce l'azione in Siria.
- Quindi un'azione limitata?
«Non è successo niente, per la semplice ragione che le tre potenze mondiali hanno avvertito che avrebbero bombardato con giorni d'anticipo, per cui l'effetto sorpresa se n'è andato. Se c'era qualcosa da spostare, i siriani hanno potuto farlo in tranquillità. E poi se tu vuoi eliminare delle capacità non devi soltanto distruggere i macchinari, ma minare anche chi ha queste capacità, impedendo che possa esercitarle in futuro. Dato che hanno bombardato alle 3 di notte, dentro le fabbriche non c'era nessuno».
- Ci si può aspettare un altro attacco con armi chimiche in futuro?
«No, credo che la partita siriana si stia per chiudere con la totale vittoria di Assad. Rimarranno delle nicchie di zone franche, ma in questi anni, da quando c'è stato l'intervento russo, Assad ha ripreso quasi tutto il territorio strategico che gli interessava».
- Si può temere una reazione russa ai bombardamenti?
«Mosca è stata avvertita di ciò che sarebbe accaduto e ha messo in atto una serie di azioni prudenti per evitare ogni rischio, compresa l'uscita da Tartus. Non ha senso che compia attacchi, in Siria ha mano completamente libera».
- L'operazione è quasi atipica. Non una guerra, ma un'azione militare. Che differenza c'è con quella attuata in Libia?
«In Libia facemmo una campagna militare che durò giorni, in Siria si sono limitati a un attacco durato poco più di un'ora. E poi all'epoca smontammo il dispositivo militare di Gheddafi e disintegrammo le capacità del suo esercito. Ieri si sono colpiti 3, forse 4 obiettivi e niente più. Come detto, l'operazione è finita».
- Perché l'Italia è rimasta fuori?
«Perché non era la nostra partita. Londra è da sempre alleato strategico degli Usa e con l'uscita dalla Ue deve essere sempre più vicina agli Usa per avere un peso. Parigi considera la Siria elemento di interesse».
- Non la considera una prova di forza da parte dei tre Stati?
«No, tu non arrivi dando una puntura di spillo se vuoi dare una prova di forza. Tu arrivi in maniera diversa quando c'è un progetto politico e in Siria non esiste un progetto politico occidentale. Quello che è mancato in quel Paese in sette anni è che l'Occidente non è stato in grado di proporre una singola persona da sostituire ad Assad».
- Per l'attacco in Siria la Francia ha usato nuovi missili.
«Sono gli scalp naval, lanciati da navi classe Fremm oppure Horizon, gittata di mille chilometri. A differenza degli storm shadow, posseduti anche dalla nostra Aeronautica militare, hanno un booster maggiorato. Sono prodotti dall'Mbda, grande azienda della missilistica europea con sede anche a Roma».
(il Giornale, 15 aprile 2018)
La vera guerra tra Israele e Iran dietro il raid ad Aleppo
La deflagrazione, secondo media russi e turchi, ha ucciso 20 persone che si trovavano sul posto ed è stata confermata dall'Osservatorio siriano dei diritti umani
di Massimo Lomonaco
DAMASCO - A meno di 24 ore dai missili alleati sulla Siria, la notte scorsa un'esplosione ha distrutto un deposito di armi iraniano nella base di Jabal Azzan, vicino ad Aleppo. Subito la deflagrazione è stata attribuita ad un raid di Israele, che ovviamente non ha confermato: ma è probabile che 'l'incidente' rappresenti un nuovo capitolo nella battaglia dello Stato ebraico contro il crescente arroccamento - con basi, uomini e armi sofisticate - dell'Iran in Siria. Che a Gerusalemme considerano un pericolo per l'esistenza stessa di Israele.
La deflagrazione, secondo media russi e turchi, ha ucciso 20 persone che si trovavano sul posto ed è stata confermata dall'Osservatorio siriano dei diritti umani. Secondo Al-Arabiya, il deposito era usato dagli Hezbollah e da altre milizie pro Teheran. Anche qui però media affiliati al gruppo sciita libanese hanno smentito l'attacco, sostenendo che si è trattato di "un'esplosione controllata".
Al di là dell'esplosione di Jabal Azzan comunque, secondo molti analisti un confronto finale tra Iran e Israele appare inevitabile. Oggi il premier Benyamin Netanyahu - che ieri ha parlato al telefono con la premier britannica Theresa May - ha ribadito che il messaggio "importante" dell'attacco in Siria è "tolleranza zero per l'uso di armi non convenzionali".
"Ho ripetuto - ha detto alla riunione di governo a Gerusalemme - che la causa principale della destabilizzazione del Medio Oriente è l'Iran e che Assad deve comprendere che quando consente a Teheran, e a chi agisce per conto suo, di stabilire una presenza militare in Siria mette in pericolo sia il suo paese sia la stabilità dell'intera ragione". Due giorni fa Israele ha rivelato che il drone iraniano partito dalla Siria il 10 febbraio ed intercettato dall'aviazione "era armato con esplosivi ed era in missione per compiere un attacco in territorio" dello Stato ebraico. Va ricordato come la base da cui era partito il drone poi abbattuto sia stata colpita in un raid aereo attribuito ad Israele e mai confermato dal governo di Gerusalemme.
Ma se Netanyahu ha espresso immediato sostegno all'operato di Trump e degli alleati, gli analisti israeliani sono un po' più cauti nel giudicarne le conseguenze, visto che l'occidente ha scelto di lasciare Assad al comando. Secondo 'Times of Israel', i capi della sicurezza israeliana temono che l'amministrazione Trump ora "consideri chiuso" il suo lavoro in Siria e che lasci Israele "da solo" a fronteggiare la presenza di Teheran nel paese.
Per Zvi Barel, commentatore di Haaretz, "agli occhi israeliani l'attacco di venerdì notte non risolve il dossier dello Stato ebraico con Siria e Iran". Un altro rischio per Barel è che "parte dell'attesa risposta russa consista nel limitare ad Israele l'uso dello spazio aereo siriano per attaccare obiettivi iraniani".
Per Amos Yadlin, su Yediot Ahronot, un altro pericolo per Israele, in una situazione già di altissima tensione, può venire dalla possibile decisione di Trump di abbandonare l'accordo sul nucleare di Teheran, con la conseguenza che l'Iran riprenda ad arricchire l'uranio: in questo caso, ha scritto, "sarà necessaria un'operazione congiunta per fermare l'avanzamento verso il nucleare. Per questo Israele avrà bisogno del sostegno del più grande e importante dei suoi alleati".
(tio.ch, 15 aprile 2018)
Oggi saranno rilasciati circa duecento migranti africani detenuti nel Negev
GERUSALEMME - I circa 200 migranti africani detenuti in un centro di detenzione nel sud di Israele saranno rilasciati oggi, dopo che lo Stato non ha rispettato il termine stabilito dal tribunale per finalizzare un piano di espulsione per i richiedenti asilo eritrei e sudanesi. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Times of Israel". Lo Stato ha informato l'Alta corte di giustizia che erano in corso i negoziati con un paese terzo, che potrebbe essere l'Uganda, per accettare i migranti espulsi da Israele. L'Autorità per l'immigrazione ha confermato che i circa 200 detenuti saranno rilasciati nel corso della giornata dalla prigione di Saharonim, nella regione israeliana del Negev. Prima dei termini previsti, il procuratore generale Avichai Mandelblit ha informato la Corte che i detenuti saranno liberati. La scorsa settimana, la Corte aveva concesso allo Stato di presentare un piano di espulsione che possa tranquillamente ricollocare i migranti in un paese terzo o liberarli dalla detenzione entro oggi. Israele ha avuto colloqui con l'Uganda e ha affermato che è "altamente probabile" che si concluderà un accordo.
(Agenzia Nova, 15 aprile 2018)
Gaza, scoperto e distrutto un nuovo tunnel nascosto di Hamas
L'esercito israeliano ha scoperto e distrutto un nuovo tunnel di Hamas che da Jabalya nel nord della Striscia arrivava vicino al kibbutz di Nahal Oz in territorio dello stato ebraico. Lo ha annunciato il portavoce militare spiegando che «questo tunnel del terrore metteva in pericolo la vita di centinaia di famiglie israeliane e tra questi donne e bambini». La stessa fonte ha definito il tunnel«lungo e di alta qualità».
Si tratta del quinto tunnel scavato sotto alla linea di demarcazione fra Gaza ed Israele ad essere stato distrutto negli ultimi mesi. Questo in particolare - affermano fonti militari - era molto lungo ed era collegato con una rete di altri tunnel militari all'interno della Striscia.
«Si tratta di un grande successo di intelligence nonché operativo» ha commentato il ministro della difesa Avigdor Lieberman. «Nella costruzione di quel tunnel erano stati investiti milioni di dollari, fondi che potevano essere utilizzati per alleviare le sofferenze della popolazione locale».
Da parte sua il portavoce militare sostiene che «nelle ultime due settimane Hamas ha trasformato la zona prossima ai reticolati di confine in un'area di terrorismo e di combattimenti. Gli scontri violenti avvenuti là - prosegue il portavoce - sono stati un tentativo di mascherare attacchi terroristici che dovevano avvenire sopra e sotto terra».
(Giornale di Sicilia, 15 aprile 2018)
Magris: «L'ebraismo mi ha insegnato il senso della speranza, la fede nel futuro»
Tra i grandi scrittori e protagonisti del nostro tempo, Claudio Magris verrà premiato come Uomo dell'Anno 2018 dall'Associazione Museo D'Arte di Tel Aviv (AMATA). In un'epoca "gommosa", dove tutto si trasforma, dobbiamo riconquistare uno sguardo fecondo e progettuale sulla vita, dice lo scrittore triestino. E combattere sfiducia e pessimismo, senza mai arrenderci.
di Marina Gersony
Considerato tra i maggiori intellettuali del Novecento, germanista, docente universitario e senatore italiano (nella XII Legislatura), tra i primi a rivalutare il filone letterario di matrice ebraica all'interno della letteratura mitteleuropea, Claudio Magris, 78 anni, nato a Trieste, è oggi uno dei grandi saggisti e scrittori del nostro tempo, autore di libri memorabili come Danubio (Vincitore Premio Bagutta), Microcosmi (Vincitore Premio Strega), Alla cieca, Non luogo a procedere (scelto dalla Lettura come miglior libro e miglior autore dell'anno), tutti editi da Garzanti. In occasione del 70esimo Anniversario della Fondazione dello Stato di Israele, l'Associazione del Museo D'Arte di Tel Aviv (A.M.A.T.A) ha deciso di nominare Claudio Magris Uomo dell'Anno 2018. La premiazione si svolgerà il prossimo 8 maggio nelle sale di Palazzo Parigi in zona Brera a Milano alla presenza del Sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, e delle istituzioni. Aperitivo, cena, musica e una breve lectio magistralis del Professor Magris per onorare il suo impegno e la sua carriera nel mondo della cultura e festeggiare i 70 anni della Fondazione dello Stato di Israele. Il Museo d'Arte di Tel Aviv, a cui andranno i proventi della serata, è stato fondato da Meir Dizengoff, il primo sindaco della città. Il Museo è considerato nel mondo dell'arte e della cultura tra le più insigni guide per il contemporaneo.
Per l'occasione, l'abbiamo incontrato. Ecco l'intervista.
- Il secolo scorso è stato definito "Secolo breve" dallo storico britannico Eric Hobsbawm; il filosofo polacco Zygmunt Bauman ha usato l'espressione "Società liquida" per illustrare l'assenza di qualunque riferimento "solido" per l'uomo di oggi; a sua volta, il guru del marketing Theodore Levitt è noto per aver coniato il termine "Globalizzazione" riferito all'economia, concetto che si è poi ampliato inglobando tendenze, idee e problematiche diffuse su scala mondiale grazie ai mezzi di comunicazione. Lei come definirebbe il momento storico che stiamo attraversando?
È difficile dare un nome, tutte o molte definizioni hanno una loro ragione. Per esempio quello che sostiene Hobsbawm, con il quale ho avuto un rapporto di amicizia, è verissimo. È però anche verissimo che da un certo punto di vista il Secolo breve inizia un po' prima del Novecento e finisce non si sa bene quando. Sono convinto che noi oggi ci troviamo nella Quarta guerra mondiale e non nella Terza, come ha detto il Papa. La Terza c'è già stata, la cosiddetta Guerra Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest'ultimo e 45 milioni di morti in quegli anni, tra il 1945 e il 1989 nel mondo. Adesso c'è guerra ovunque, tutti combattono contro tutti, soltanto non si sa bene chi contro chi (ad esempio: Assad è un nostro alleato o un nostro nemico?). Questo momento storico è di enorme frammentazione; una frammentazione colloidale, ossia uno stato quasi intermedio tra lo stato liquido, definizione che mi trova perfettamente consenziente, e uno stato gommoso che continuamente si allarga, si restringe, avvolge tutto e cambia continuamente aspetto.
- Non resta che essere pessimisti, quindi?
Karl Valentin, cabarettista tedesco amico di Brecht, affermò: «Una volta il futuro era migliore». E per la prima volta si ha l'impressione che l'umanità abbia perso l'idea della speranza e del futuro. Non c'è più l'idea che si possa migliorare e correggere il mondo. Penso che questo sia gravissimo. Senza l'idea che il mondo possa essere migliorato, senza un po' di spirito profetico, messianico, tradotto in termini razionali, politici, le cose non funzionano. Ricordo un convegno a Blois, in Francia, nel 1989, organizzato da Jack Lang, allora Ministro della Cultura. Partecipavano scrittori e qualche politico della cosiddetta "Altra Europa". In quei giorni stava esplodendo la grande protesta a Berlino Est. Un giovane regista tedesco, molto impegnato nelle proteste berlinesi, raccontò emozionato quello che stava succedendo. Prima di ripartire, per riprendere il suo posto nella protesta a Berlino Est, disse: «Impossibile fare previsioni su quello che succederà, una cosa purtroppo è certa, il Muro durerà ancora molti anni». Due giorni dopo il Muro non esisteva più e lui era tra coloro che avevano contribuito ad abbatterlo. Anch'io pensavo che non sarebbe mai accaduto. Siamo ciechi conservatori, non riusciamo a credere che la realtà possa cambiare. Invece la realtà cambia, si trasforma, talvolta quasi inavvertitamente, talvolta in misura eclatante. Le cose cambiano, ora in meglio ora in peggio.
- Anche le lingue subiscono una continua trasformazione. Migrazioni, turismo, delocalizzazioni delle aziende, letteratura inclusa, rendono il linguaggio sempre più ibrido. Oggi si parla e si scrive sempre di più in "globish", un inglese corrotto e impastato di Internet, emoticons, pubblicità, musica e fumetti, usato da circa due terzi della popolazione terrestre. Come si evolveranno le lingue in futuro?
È un discorso difficilissimo. Oggi ci troviamo dinanzi, forse per la prima volta nella storia, a una commistione, una mésalliance, un amalgama di nuovi linguaggi. Da una parte si tratta di un processo vitale, quasi corporeo, che poi diventa culturale e s'innesta sulle tradizioni. Dall'altra parte c'è anche un distruttivo e arido processo di perdita, di falsificazione, di omologazione del linguaggio. Personalmente ho simpatia per la trasformazione delle lingue, ma c'è differenza tra la trasformazione dell'italiano nei secoli, creativa e vitale fondata insieme sulla continuità e sull'apertura al nuovo, e rigide e morte formule come scrivere per esempio, «ci sei» con il numero, c6. Questo tipo di trasformazione equivale a una perdita totale di espressività. Per Singer, che ho conosciuto bene - uno dei grandi incontri della mia vita -, la lingua era lo Yiddish. Celebre è il diverbio che ebbe con Menachem Begin proprio su questo tema, riportato dal figlio Israel Zamir. «Begin gli disse che lo Yiddish non sarebbe mai stato come l'ebraico. Era impossibile dare un ordine a un soldato in quella lingua. Com'è possibile gestire un esercito in Yiddish?, gli chiese. Mio padre rispose che lo Yiddish non era destinato all'esercito. Lo Yiddish era una lingua di pace». (Lo scontro tra il Primo Ministro israeliano e Singer è descritto dal figlio di Singer, Israel Zamir, nel memoir Journey to my father, Isaac Bashevis Singer, Arcade Publishing, ndr). Aveva ragione Singer. La letteratura yiddish esprime pienamente le passioni universali come l'amore paterno, l'amore coniugale, la sofferenza, la seduzione, l'orrore o l'infrazione. Colpisce in essa la forza, il senso dell'umorismo, un rapporto con la divinità di assoluta franchezza. Lo dicono tante storie
- Ce ne può raccontare una?
Un uomo molto pio sta tornando di notte allo shtetl e casca in un burrone. Si aggrappa a un alberello, guarda il burrone, sente un fiume rumoreggiare mentre l'arboscello comincia a sradicarsi. Grida: «C'è qualcuno? C'è qualcuno?». A un certo punto sente una voce che dice: «Non temere, Figlio mio. Tu mi sei sempre stato fedele. Ci sono qui io, il tuo Signore». Risponde l'uomo pio: «Non c'è nessun altro?»
Lo Yiddish è una lingua che ha tutta l'immediatezza del dialetto, la rapidità del parlare quotidiano, della casualità, l'intensità dei sentimenti, il senso profondo della vita mescolato al riso, la commistione, talora anche comica e storpiata ma straordinariamente creativa. Ma è anche la lingua della tenerezza. A parte la grandezza e l'intensità umana delle tradizioni ebraiche, mi ha colpito in esse il valore anche etico e religioso di raccontare storie. Religioso perché lega, parola che viene da religere, unire
- Lei scrisse in Microcosmi, nel 1998: «I tedeschi senza ebrei sono un corpo carente di una sostanza necessaria all'organismo; gli ebrei sono più autosufficienti, ma in quasi ogni ebreo c'è qualcosa di tedesco. Ogni purezza etnica conduce al rachitismo e al gozzismo. Il nazismo, come ogni barbarie, è stato anche imbecille e autolesionista, sterminando milioni di ebrei, ha mutilato la civiltà tedesca e distrutto, forse per sempre, quella mitteleuropea». Cosa pensa del mondo attuale, sempre più contaminato e meticcio?
Il diverso è per eccellenza un protagonista, però contemporaneamente - in nome del rispetto per il diverso, ma di un rispetto involontariamente rovesciato nel suo opposto - in Danimarca ad esempio anni fa ho letto che sono stati tolti dalle edizioni scolastiche di Andersen certi riferimenti al Cristianesimo. Questa è la negazione dell'incontro perché per incontrarsi bisogna conoscersi. Una comunità endogamica è un disastro, come ogni autarchia. Naturalmente l'apertura va regolata. Ci vuole buonsenso. Il meticcio è un uomo o una donna con la sua storia. Non va demonizzato, ma neppure esaltato come l'unico ad avere la dignità di esistere.
- Cosa pensa della legge sulla Shoah voluta dal governo nazional-conservatore di Varsavia che prevede fino a tre anni di carcere per chiunque attribuisca alla nazione polacca complicità con i crimini nazisti? (Nel frattempo, dopo le forti tensioni con Israele, il governo ha deciso di congelare «in questa fase» la controversa legge, ndr).
La Polonia credo sia uno dei Paesi più lacerati al mondo. Da un lato esiste una cultura anti-ebraica, e questo è il primo vulnus. Ci sono infinite sfumature nell'antisemitismo; la violenza genocida comincia, alla lontana, con atteggiamenti e frasi di per sé innocue, "sì, certo, gli ebrei, però
". L'antisemitismo può avere molte facce, molti nomi e molte gradazioni, sino all'atrocità. Sotto altri aspetti la Polonia è un Paese che amo molto, che ha accolto con particolare entusiasmo e affinità i miei libri, che ha avuto una storia tragica e anche eroicamente indomita. È un Paese che peraltro ha anche un retaggio antisemita con sfumature diverse, ma tutte pericolose. Purtroppo in questo periodo la politica polacca sta rivelando pericolose tendenze regressive, contro le quali peraltro i primi a protestare sono molti polacchi che hanno coraggiosamente combattuto prima il nazismo e poi il comunismo, come ad esempio - ma è solo un esempio - il mio amico Adam Michnik. In Polonia è nata anche tanta grande letteratura ebraica e tanta riflessione sull'ebraismo. Egon Schwarz, il saggista viennese che ha scritto Keine Zeit für Eichendorff (Non c'è tempo per Eichendorff), scrisse che dopo l'antisemitismo la cosa peggiore è il filosemitismo.
Questo concetto lei lo ha spiegato in occasione della celebrazione del Giorno della Memoria al Quirinale nel 2009.
Ho spiegato perché il filosemitismo è sospetto: può di fatto indicare una cattiva coscienza oppure la preoccupazione di nasconderla, agli altri o a se stessi; suona talora stridulamente come una excusatio non petita, una affannata ostentazione di sentimenti buoni o politicamente corretti. Il filosemitismo rivela spesso insicurezza e imbarazzo nei confronti degli ebrei e può coprire un represso e livido antisemitismo.
- Israele sembra essere sempre di più il capro espiatorio di un profondo antisemitismo. Per citare lo storico Georges Bensoussan, «siamo passati dall'ebreo fautore di guerra, allo Stato di Israele fautore di guerra. La logica intellettuale è sempre la stessa». (Il Foglio, 21 gennaio 2018). Lei cosa ne pensa?
C'è una frase che si sente dire ogni tanto. "Io non sono antisemita, sono anti-israeliano". È una frase che non vuole dire niente. È chiaro che Israele essendo uno Stato ha una vita politica e dei partiti che non necessariamente piacciono a tutti e neppure si piacciono tra di loro. Le frasi che in sé non vogliono dire niente possono diventare slogan micidiali: "sono anti-israeliano" è un'espressione che o non vuol dire niente o indica un pregiudizio che può essere fattore di atrocità. Da una parte non vuol dir niente: si può criticare l'uno o l'altro partito politico di un Paese, senza che ciò implichi alcun pregiudizio nei confronti del Paese stesso; io, ad esempio, ho sempre criticato duramente i vari governi Berlusconi, posso avere ragione o torto in questi giudizi, ma non sono certo anti-italiano e questo vale per ogni Paese. Anche per quel che riguarda Israele, c'è chi votò più volentieri Begin e chi votò più volentieri Rabin. Ma se col pretesto del rifiuto della politica di un determinato governo si insinua il rifiuto complessivo dello Stato, del Paese governato in quel momento dal tale partito, questo è un atteggiamento inaccettabile, che implica certamente pure antisemitismo, consapevole o no. Guai a considerare antisemita ogni critica, giusta o no, di uno o dell'altro governo israeliano, ma anche guai a contrabbandare con questa critica elementi, anche solo sottintesi e dissimulati, di antisemitismo. Per quel che riguarda la straordinaria importanza che ha avuto e ha per me l'ebraismo e la sua cultura, potrei citare tanti episodi. Ad esempio, una volta, mentre ad Eisenstadt stavo discutendo di letteratura ebraica con un rabbino di Vienna, a un certo punto lui mi chiese: «Ma lei non è ebreo vero?». «No», risposi io. «Era solo una domanda», ribadì lui, allargando le braccia come per rassicurarmi.
(Bet Magazine Mosaico, 15 aprile 2018)
Re saudita stanzia milioni di dollari per i luoghi musulmani a Gerusalemme Est e per lUnrwa
RIAD - L'Arabia Saudita ha annunciato oggi la donazione di 150 milioni di dollari a favore dell'amministrazione delle proprietà religiose musulmane a Gerusalemme Est. Lo ha annunciato il sovrano saudita Salman bin Abdelaziz al Saud in occasione del 29mo vertice della Lega araba a Dhahran, ribattezzato dal re "summit di Gerusalemme". "Dedico questo summit del vertice di Dhahran a Gerusalemme in modo che tutti sappiano che la Palestina e il suo popolo rimangono al centro delle preoccupazioni degli arabi", ha spiegato Salman. Il sovrano saudita ha annunciato, inoltre, una donazione da parte di Riad di 50 milioni di dollari all'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi. Pierre Kraehenbuehl, commissario generale dell'Unrwa, ha recentemente spiegato che l'agenzia stava cercando 441 milioni di dollari per continuare a svolgere il proprio operato, ma che soltanto 100 milioni di dollari erano stati promessi dai donatori. All'indomani della risoluzione dell'Onu di condanna del riconoscimento Usa di Gerusalemme come capitale di Israele, lo scorso gennaio il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato un taglio ai fondi annualmente stanziati all'Unrwa.
(Agenzia Nova, 15 aprile 2018)
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«Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli»
«Guardatevi dai falsi profeti i quali vengono a voi in vesti da pecore, ma dentro son lupi rapaci. Li riconoscerete dai loro frutti. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così, ogni albero buono fa frutti buoni, ma l'albero cattivo fa frutti cattivi. Un albero buono non può fare frutti cattivi, né un albero cattivo fare frutti buoni. Ogni albero che non fa buon frutto è tagliato e gettato nel fuoco. Li riconoscerete dunque dai loro frutti. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: "Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in nome tuo e in nome tuo cacciato demòni e fatto in nome tuo molte opere potenti?" Allora dichiarerò loro: "Io non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, operatori di iniquità!" Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà paragonato a un uomo avveduto che ha costruito la sua casa sulla roccia. La pioggia è caduta, sono venuti i torrenti, i venti hanno soffiato e hanno investito quella casa; ma essa non è caduta, perché era fondata sulla roccia. E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica sarà paragonato a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. La pioggia è caduta, sono venuti i torrenti, i venti hanno soffiato e hanno fatto impeto contro quella casa, ed essa è caduta e la sua rovina è stata grande».
Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, la folla stupiva del suo insegnamento, perché egli insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.
Dal Vangelo di Matteo, cap. 7
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«Siria, Putin prudente. Ha una visione. Ma si scontrerà con l'Iran»
Robert Kaplan, analista di politica internazionale: «Il Cremlino non è intervenuto in Siria fino a quando non si è convinto che Obama non aveva intenzione di impegnarsi»
di Massimo Gaggi
«Con l'attacco missilistico Donald Trump e i suoi alleati mandano un messaggio forte a Vladimir Putin e alla leadership iraniana, oltre che ad Assad. Ma l'aggravamento della crisi in Siria è anche frutto dell'atteggiamento ondivago degli Stati Uniti, dei vuoti lasciati in quell'area: le armi chimiche sono state usate alle porte di Damasco subito dopo l'annuncio del ritiro americano». Celebre analista di affari internazionali, autore di ben 18 libri, ma anche giornalista che ha seguito sul campo tutti i conflitti degli ultimi decenni, dai Balcani all'Africa, passando per Iraq e Afghanistan, Robert Kaplan non è affatto impressionato dai «venti di guerra» in Medio Oriente.
- Non la colpisce nemmeno l'uso di armi chimiche da parte di Assad e l'appoggio che il Cremlino continua a garantirgli? O pensa anche lei che siano fake news?
«L'uso dei gas è un crimine da condannare, ovvio. Ma Trump, annunciando il ritiro, ha mandato un segnale interpretato da Assad come un semaforo verde: via libera all'eliminazione delle ultime sacche di resistenza che ancora minacciano il suo regime. Putin ha le sue responsabilità, ma nella partita siriana è stato, in realtà, abbastanza prudente. Nonostante Damasco sia stata nell'orbita d'influenza russa fin dai tempi dell'Urss, dalla metà degli anni Sessanta, il Cremlino non è intervenuto in Siria fino a quando non si è convinto che Barack Obama non aveva alcuna intenzione di impegnarsi in quell'area. E anche nello scontro attuale è evidente che si punta a una guerra solo di parole».
- Cosa la porta ad escludere che ci siano grossi pericoli in vista?
«L'attacco americano è stato concepito in modo da minimizzare il rischio di una rappresaglia russa. La volontà di evitare un allargamento del conflitto è forte tanto a Mosca quanto a Washington. Questo è stato un attacco molto limitato: preciso, di entità contenuta, preannunciato. Il messaggio inviato è il monito ad Assad e a ogni dittatore a non usare armi di distruzione di massa, non è il preannuncio di un allargamento del conflitto. Gli Usa e i suoi alleati non stanno dicendo che faranno la guerra: dicono solo che chi usa armi chimiche deve aspettarsi risposte militari che gli causeranno danni e perdite superiori a quelle da lui inflitte usando questi ordigni».
- Continuerà l'espansione dell'influenza russa nel Mediterraneo oltre l'Egitto?
«Gli Stati Uniti sicuramente pagano il loro caos diplomatico: la Russia ha una strategia precisa. L'Iran anche e pure Israele. L'America non ne ha nessuna: vaga dal disimpegno di un giorno all'attacco militare del giorno dopo. Detto questo, il credito di cui gode Putin in Medio Oriente è legato a come ha difeso Assad: colpendo il dittatore di Damasco si mette sulla difensiva anche il Cremlino. Le ambizioni più pericolose nell'area, però, non sono quelle russe, ma quelle di Teheran che sogna un'egemonia imperiale dall'Iran fino al Mediterraneo. Eccessivo e pericoloso: prima o poi Putin si troverà in conflitto con l'alleato iraniano».
- Il radicale Bolton al posto di un moderato, il generale McMaster, a fianco di Trump. Di nuovo la retorica di «Mission Accomplished», come nelle guerre di Bush. Non la spaventa?
«Bolton è di certo più estremista, ma, per le sue competenze, penso si occuperà soprattutto della questione coreana mentre il Medio Oriente rimarrà terreno per il capo del Pentagono: il generale Mattis è uomo di grandi capacità analitiche, un realista moderato. Ed è il più profondo conoscitore di quell'area per l'attività svolta lì da militare».
- Cosa la colpisce di più di questo conflitto, a confronto con quelli che ha seguito in passato?
«L'effetto di cyberdisruption informativa. Campagne di disinformazione sull'andamento di un conflitto ce ne sono sempre state. Fin dalla Prima Guerra Mondiale. Ma non si era mai visto nulla dell'intensità dei giorni nostri: i media fanno ormai parte del fronte di guerra. Prevalere nella battaglia dell'informazione diventa quasi più importante di una vittoria sul campo».
(Corriere della Sera, 15 aprile 2018)
Il bombardamento in Siria visto da Israele
L'eco degli strike in Siria è stato udito, mediaticamente e politicamente, anche in Israele; nello Stato ebraico ci si aspettava già da diversi giorni l'attacco di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia ed ovviamente l'episodio sta avendo ampio risalto. Già da questa notte le televisioni israeliane hanno iniziato diverse ore di dirette per coprire l'evento e spiegare quali luoghi sono stati bombardati. A Tel Aviv, come ad Haifa e Gerusalemme, tanti tra politici e semplici cittadini hanno da subito iniziato a commentare l'accaduto: come spesso accade in queste occasioni, l'opinione pubblica si è divisa tra favorevoli all'attacco guidato dagli Usa e contrari invece ad altre escalation nella regione.
Del resto, Israele è parte in causa per due motivi: in primo luogo, Tel Aviv è la prima sospettata per il bombardamento che tra domenica e lunedì ha coinvolto la base T4 vicino Homs, in secondo luogo poche ore dopo l'attacco annunciato in diretta da Trump Damasco ha affermato di aver abbattuto un drone israeliano, circostanza però che non è stata al momento confermata.
In attesa del governo, a parlare è la stampa
Haaretz, Jerusalem Post, The Time of Israel e tutti gli altri principali quotidiani israeliani aprono ovviamente con la notizia dell'attacco contro gli obiettivi siriani; le prime pagine online delle testate più seguite in Israele sono monopolizzate da quanto accaduto in Siria nella scorsa notte. Quel che più risalta, rispetto al racconto fatto dai network dei paesi occidentali, è lo spazio riservato alle reazioni iraniane. Haaretz ad esempio dedica a quanto trapelato dal governo di Teheran i titoli principali dopo l'apertura, mentre il The Time of Israel puntualizza la sfida rappresentata da un Iran sempre più rafforzato in Siria. Il perché è presto detto: la distruzione di obiettivi iraniani durante il bombardamento della base T4, i raid ripetuti negli ultimi mesi contro obiettivi di Hezbollah e di Teheran, più volte hanno fatto spostare il mirino della stampa israeliana da Assad direttamente alla Repubblica Islamica.
Poche tracce del presunto drone israeliano abbattuto questa notte, molti invece gli articoli proprio sul braccio di ferro sempre più latente con l'Iran. Su Haaretz, in un articolo dove vengono direttamente prese delle dichiarazioni diffuse dalla Reuters, si sottolineano le parole del presidente iraniano Hassan Rohuani: "Ci saranno delle conseguenze, l'attacco è stato indiscriminato", viene evidenziato nel secondo articolo d'apertura del quotidiano israeliano.
Da Tel Aviv e Gerusalemme nessuna dichiarazione ufficiale, almeno per il momento: in tanti però si aspettano, già nelle prossime ore, un'ufficiale presa di posizione da parte del premier Netanyahu e del suo governo, sempre più convinto del pericolo che corre Israele per via dell'avvicinamento di Hezbollah ed iraniani verso i propri confini nord. Sul presunto attacco chimico di Douma, casus belli degli attacchi odierni, lo stesso Netanyahu non ha espresso considerazioni preferendo nei giorni scorsi lasciare maggiore spazio probabilmente ai proclami soprattutto di Usa, Regno Unito e Francia. Dopo i raid di Tel Aviv, non confermati però dallo Stato ebraico, di domenica e dopo lo strike di questa notte il leader del governo israeliano potrebbe però a breve esprimersi ufficialmente mettendo nel mirino, ancora una volta, soprattutto la leadership iraniana.
Le uniche repliche del governo affidate al responsabile sicurezza di Netanyahu
Soltanto in tarda mattinata sono uscite delle dichiarazioni ad opera di Yoav Gallant, responsabile della sicurezza all'interno del gabinetto del primo ministro: "I bombardamenti a guida Usa - ha affermato alla Reuters Gallant - Sono un segnale molto importante, contro certi crimini è impossibile rimanere a guardare". Nella sua nota, Gallant fa inoltre riferimento all'asse del male: "Iran, Hezbollah e Siria sono l'asse che rappresenta il vero problema della sicurezza per Israele - si legge ancora nel comunicato affidato all'agenzia inglese - Non posso però dirvi, perché non ne sono a conoscenza, se la nostra intelligence abbia fornito o meno indicazioni agli americani per individuare i siti da attaccare".
Lo stesso Gallant ha invece fatto sapere di come il governo israeliano, ed in primo luogo il premier Netanyahu, sono stati informati in anticipo dello strike; secondo la ricostruzione dello stesso membro del gabinetto del primo ministro, negli uffici degli apparati di sicurezza e del governo dello Stato ebraico sono arrivate informazioni circa il bombardamento 24 ore prima del lancio del primo missile. Israele è stato dunque avvisato dell'imminenza dello strike e delle decisioni assunte in merito sia da Trump che dalla May e Macron. Bocche cucite sulle intenzioni future sia di Tel Aviv che degli alleati: non è dato sapere, almeno per il momento, se tanto l'aviazione israeliana quanto quella a guida americana sia o meno pronta a colpire di nuovo.
(Gli occhi della guerra, 14 aprile 2018)
La demonizzazione di Israele: intervista a Niram Ferretti
di Beunida Melissa Shani
Recentemente è stato presentato a Padova, presso la Casa di Cristallo di Antonia Arslan, il saggio "Il sabba intorno a Israele. Fenomenologia di una demonizzazione", scritto dal giornalista, scrittore e ricercatore Niram Ferretti. L'evento è stato organizzato da Maria Teresa Colombo presidente dall'Associazione padovana Italia- Israele.
A margine dell'incontro abbiamo avuto il piacere di interloquire con l'autore e porgli qualche domanda sul libro e, più in generale, sugli ultimi eventi di attualità geopolitica che hanno visto Israele protagonista.
- Nel libro che Lei presenta parla di "demonizzazione" di Israele. In che senso utilizza questo termine e quale scopo vuole raggiungere?
Il termine da me scelto fa riferimento ad una categoria specifica che è quella della demonologia. Infatti, l'antisemitismo classico matura sostanzialmente all'interno della demonologia cristiana dove l'ebreo viene considerato un demone, un concentrato di male, una figura malefica. Questa costruzione simbolica, molto forte e di tipo archetipo, non è mai cessata; noi ritroviamo oggi, nei confronti di Israele quando viene attaccato, la rimessa in campo di stereotipi che appartengono di fatto, sostanzialmente, alla libellistica medioevale. Ad esempio le accuse che vengono rivolte all'esercito israeliano di uccidere intenzionalmente i bambini, di avvelenare i pozzi acquiferi, di espiantare gli organi dei palestinesi uccisi sono riproposizioni dei libelli del sangue in voga nel Medioevo e il cui scopo era appunto quello di criminalizzare l'ebreo in quanto tale così come oggi si criminalizza Israele. Voglio ricordare il caso del 2016 quando Abu Mazen in Parlamento a Bruxelles affermò pubblicamente, raccogliendo numerosi applausi, l'esistenza di un complotto rabbinico per intossicare le falde acquifere della Cisgiordania.
- Si può ritrovare una ragione logica per questo forte astio contro gli ebrei? Lei nel titolo ha scelto il concetto di Sabba rievocando la dimensione stregonesca, perché ?
Diciamo che dobbiamo partire dal fatto che gli ebrei hanno sempre costituito un gruppo identitario molto forte. Pur essendosi, dopo la diaspora, disseminati ovunque, hanno continuato a custodire con grande perseveranza i propri riti e le proprie tradizioni. Questa loro tipicità ha fatto sì che venissero percepiti come un popolo a sé pur partecipando pienamente alla vita dei Paesi in cui vivevano.
Questa condizione di esclusività ha, in tempi diversi, generato una serie di leggende e fantasie che si è, in tempi di forte tensione socioculturale, trasformata in una forte ostilità in grado di raggiungere i livelli della demonizzazione. Non a caso ho scelto il termine Sabba che richiama la stregoneria e il satanismo. Ma quello che è ancora più interessante è l'etimologia della parola, perché sabba nasce da Shabbat. E' una deformazione dello Shabbat ebraico che è il giorno santo settimanale per gli ebrei, durante il quale ci si raduna per celebrarlo. L'idea del raduno così inteso viene, con il tempo, trasformato nel suo opposto con l'intento di rappresentare questo convivio come qualcosa di misterioso e stregonesco con chiare connotazioni negative.
- In quanto tempo ha scritto questo libro? C'è una parte che privilegia e che ritiene sia più essenziale delle altre per il lettore? Qual è la morale?
Per poter scrivere questo testo mi ci sono voluti circa tre anni di preparazione documentaria e di ricerca, ho raccolto dati, informazioni, svolto indagini storiche, fatto interviste. La stesura però è stata piuttosto scorrevole e veloce, ha rappresentato una sintesi del materiale raccolto col tempo. Non credo ci siano delle parti privilegiate o dei capitoli più importanti, vedo questo libro come una struttura architettonica interconnessa in cui ogni parte svolge una sua specifica funzione. Lo scopo è quello di mostrare le modalità in cui negli ultimi cinquant'anni è stata costruita la potente macchina della propaganda anti Israele. Si tratta di svelare e di decostruire quelli che sono i capisaldi di questa propaganda evidenziando quale sia la reale matrice del filoarabismo che la sottende. E' fondamentale che il lettore possa replicare con dati e fatti alle menzogne che vengono costantemente diffuse e che vedono Israele come uno Stato diabolico, una sorta di entità oscura, mentre la realtà è esattamente il contrario.
- Come mai al giorno d'oggi parlare di Islam con sguardo critico è diventato così difficile e la maggioranza dei media italiani sembra essersi appiattita su posizioni politicamente corrette?
Ci sono una serie di motivi. Il primo è dovuto ad una sorta di conformismo ideologico e semplice arrendevolezza a quello che è lo spirito del tempo per cui bisogna sempre, quando si parla di Islam, prendere le dovute cautele e cercare di fare in modo di formare un discorso che non offenda i musulmani in quanto tali. Questo è comprensibile ma sbagliato, perché così facendo non si riesce a comprendere con chiarezza qual è la posta in gioco e nemmeno la reale identità dell'Islam. Il problema della religione islamica è serio ed interpella un numero rilevante di musulmani che si sentono rappresentati dal Corano in un senso assolutista e rigorista all'estremo che contempla la Jihad intesa come guerra aggressiva contro gli infedeli. La stampa fa fatica a parlare di queste cose e cerca di mettere il silenziatore su simili temi perché è un discorso potenzialmente pericoloso, sappiamo tutti che si rischia di essere considerati dall'opinione pubblica islamofobi o alla peggio si arriva a vivere sotto scorta.
- In chiusura, parliamo di un fatto recente che risale al 6 dicembre scorso: la decisione di Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele. Come valuta l' ostilità che si è manifestata in modo plastico all'Assemblea Generale dell'ONU, durante la quale tolta qualche eccezione tutti i Paesi europei hanno deciso di votare contro?
Questa scelta è dovuta ad un pregiudizio storicamente presente nei confronti di Israele e a un filopalestinismo ideologico che interessa l'Europa dalla fine degli anni Sessanta, ricordiamo la Guerra dei Sei giorni del 1967 e la crisi petrolifera del 1974, entrambi snodi fondamentali per la diffusione della mentalità filoarabista che ha così impregnato il paesaggio europeo.
Parliamo più che altro di interessi economici e geopolitici che hanno costituito una pregiudiziale contraria ad Israele e che a tutt'oggi rappresentano una delle matrici della propaganda anti israeliana. Un'altra matrice, quella fondamentale è però di ordine religioso in quanto interpella il rifiuto atavico musulmano di accettare l'esistenza di uno Stato ebraico su un territorio considerato per sempre appartenente all'Umma islamica.
Per quanto invece riguarda la matrice politica si tratta, indubbiamente, di un percorso iniziato tempo fa, basti pensare al progetto che aveva la Francia con De Gaulle di avvicinarsi sempre di più all'area araba e quindi costruire Eurabia, un termine che non hanno inventato né Bat Ye'or né Oriana Fallaci ma che afferiva a una realtà concreta e che rappresentava con chiarezza le intenzioni che animavano le potenze europee sin dalla metà degli anni Sessanta. Possiamo considerare il progetto Eurabia un processo storico-politico di graduale abbandono della cultura occidentale per abbracciare quanto più possibile l'universo musulmano, un disegno strategico che mira a staccare l'Europa dall'alveo occidentale e farla poi confluire quanto più possibile nella dimensione islamica.
(L'informale, 13 aprile 2018)
Il medioevo degli ebrei. Incontri e corsi aperti a tutti nella Sinagoga di Siena
Siena dedica una serie di giornate e presentazioni per approfondire la conoscenza della storia degli ebrei nell'Italia contemporanea. Il cartellone è realizzato da una collaborazione del DEC (UCEI), la Società Israelitica di Misericordia di Siena e CoopCulture, e comprende seminari, conferenze e presentazioni di libri. Il primo appuntamento è martedì 18 aprile (Sinagoga, ore 17.30, ingresso libero) per la prima presentazione in assoluto del libro di Giacomo Todeschini "Gli ebrei nell'Italia medievale (Carocci editore). Dialoga con l'autore Davide Mano. Lo studio approfondisce le modalità con cui la componente ebraica della società italiana ha attraversato i dieci secoli del Medioevo. La storia di questa relazione consente di rileggere la Storia d'Italia alla luce della varietà etnica e culturale che le è propria sin da tempi antichissimi. Todeschini insegna Storia medievale all'Università di Trieste. Si occupa di storia delle teorie e dei linguaggi economici medievali, della dottrina cristiana sull'infamia e sull'esclusione dalla cittadinanza e dal mercato, e del ruolo degli ebrei nel mondo cristiano medievale e moderno. Tra i suoi libri, Ricchezza francescana, Dalla povertà volontaria alla società di mercato (2004), Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal medioevo all'età moderna (2007) e Come Giuda. La gente comune e i giochi dell'economia all'inizio dell'epoca moderna (2011), La banca e il ghetto. Una storia Italiana (2016).
Storia degli ebrei
Sempre in questa settimana, giovedì 19 aprile (Sinagoga, ore 21.00-22.30) si terrà il secondo dei tre incontri con la storia degli ebrei in Italia, curati dal professore Alberto Cavaglion, docente di Storia dell'Ebraismo all'Università di Firenze. Questo breve seminario (l'ultimo appuntamento è mercoledì 2 maggio) parte dall'idea che l'età dell'Emancipazione abbia costituito una svolta radicale nella vita delle comunità ebraiche e dei singoli individui. Il corso analizza le diverse articolazioni regionali, di un percorso diventato unitario solo forse dopo la Grande Guerra. Nel corso delle lezioni verranno descritti diversi nodi tematici: il concetto di Emancipazione e il rapporto fra modernità e tradizione; la partecipazione degli ebrei italiani al Risorgimento; il Sionismo in Italia; gli scrittori ebrei nell'Italia unita; il rapporto con il fascismo; la condizione giuridica dell'ebraismo italiano; la partecipazione ebraica alla Resistenza. (costo del seminario: intero € 30, ridotto studenti € 20).
Ebrei a Siena negli anni terribili
Ultimo appuntamento nel mese di aprile, giovedì 26 aprile (Sinagoga, ore 17.30, ingresso libero) è dedicato a "Gli ebrei di Siena e gli anni terribili 1798-1799: i rituali di commemorazione comunitaria". Conferenza a cura di Davide Mano (EHESS, Parigi) che, per la prima volta, presenterà al pubblico la traduzione dei rituali di commemorazione, istituiti dalla comunità ebraica senese, in seguito al terremoto del maggio 1798 e come risposta al massacro antiebraico, del giugno 1799 a Siena. La conferenza propone una riflessione storica sull'importanza dei rituali comunitari, intesi come esercizi di conferma e strumenti di coesione identitaria che parlano di una capacità storica degli ebrei: quella di sapere immaginare la salvezza, progettare la continuità, anche e soprattutto nei momenti più difficili. La memoria ebraica senese, infatti, ha lasciato testimonianze di assoluto valore culturale, tanti preziosi frammenti di una storia secolare fatta di trasformazioni e di permanenze, e legata in maniera indissolubile con la storia della città. Sguardi inediti sulla vita senese sono offerti dai numerosi manoscritti e libri a stampa ebraici a tema etico, filosofico e storico, dai compendi di preghiere e di norme comportamentali, dai registri di adunanze comunitarie, dalle collezioni di poesie religiose e d'occasione, dalle composizioni musicali sinagogali, dai diari privati, e da molti altri documenti in cui il rapporto con la città si dispiega con regolarità, estrema vivacità e profondo senso di appartenenza.
Rituali di commemorazione
Esempio significativo è rappresentato dai rituali di commemorazione comunitaria, istituiti sul finire del Settecento in seguito al grave terremoto del 26 maggio 1798 e come risposta all'indicibile massacro antiebraico del 28 giugno 1799. Un poema ebraico di ringraziamento composto in memoria del terremoto del 1798 ci descrive il dramma vissuto dalla città fin nei dettagli, con urgente espressività e senso di partecipazione. Un rituale commemorativo, con ordine di digiuno e preghiera notturna, istituito immediatamente dopo i fatti del 1799, ci restituisce invece il dato storico di una comunità che reagisce al trauma indelebile della violenza antiebraica con la forza della pratica religiosa e con gli strumenti della coesione comunitaria.
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SCHEDA
Davide Mano si è laureato in lingue letterature orientali, presso la cattedra di ebraistica all'Università Ca' Foscari di Venezia. Ha conseguito un dottorato in Storia presso la School of Historical Studies dell' Università di Tel-Aviv, con una tesi dal titolo "Tumults in Pitigliano, 1799. Popular resistance and anti-Jewish violence". Da ottobre 2016 è ricercatore presso l'EHESS di Parigi. Mano è anche traduttore dall'ebraico all'italiano. Dal 2012 al 2016 ha lavorato per il dipartimento Archivi del Mémorial de la Shoah a Parigi. Sta attualmente scrivendo il suo primo libro - una storia sociale e politica degli ebrei di Pitigliano nel 1799.
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(toscanaliberi.it, 14 aprile 2018)
Gino Bartali, l'eroe silenzioso che salvò ottocento persone
di Lucio Cristino, Antonio Violet e Matteo Delicato.
OSIMO - Quando lo fermarono per un controllo dimenticarono di ispezionarne la bicicletta. Mai avrebbero immaginato che sotto il sellino, nel telaio, nascondesse documenti falsi che avrebbero salvato la vita a 800 persone: 800 ebrei che, grazie alle gambe di Gino Bartali, sarebbero riusciti ad espatriare prima di essere uccisi.
Era il 1943 e quel segreto, raccontato da Bartali al figlio Andrea, è diventato notizia solo pochi anni fa, perché "il bene si fa in silenzio". E' il segno di un campione che si fa eroe.
Quel messaggio di tolleranza, nell'Italia che ha paura della diversità, torna a Osimo alla vigilia della tappa del Giro d'Italia.
(ETV Marche, 14 aprile 2018)
Iran: il paese è ricco, la gente è povera
Le contraddizioni di un regime che ha bisogno di trovare nemici esterni per garantirsi la tranquillità all'interno
di Luca D'Ammando
Sono mesi che qualsiasi notizia riguardante il Medio Oriente vede tra i protagonisti diretti o indiretti l'Iran. Oltre al coinvolgimento sul fronte siriano, Teheran ha avuto un ruolo nelle sconfitte dello Stato Islamico in Iraq, nella crisi del Qatar, nella situazione di instabilità dell'Afghanistan, nella guerra in Yemen e nella crisi politica in Libano. Eppure parliamo di un Paese a stragrande maggioranza sciita - orientamento minoritario rispetto a quello sunnita - che non ha un esercito tra i più forti dell'area e viene da dieci anni di sanzioni economiche. Com'è possibile allora che abbia raggiunto un livello di influenza fuori dai suoi confini tanto rilevante?
Prima di tutto l'Iran è stato uno dei paesi del Medio Oriente che più ha beneficiato degli interventi militari statunitensi in Afghanistan per combattere il regime sunnita dei talebani e in Iraq per destituire il governo di Saddam Hussein, anch'esso sunnita. Di fatto gli Stati Uniti non hanno fatto che asfaltare autostrade geopolitiche per le ambizioni della Repubblica Islamica. Fondamentale poi per aumentare l'influenza nei paesi vicini è stata la creazione di milizie sciite, sul modello di Hezbollah in Libano. Un esempio è l'Organizzazione Badr in Iraq, nata nel 1982 contro il regime di Saddam Hussein e impiegata negli anni per combattere gli americani e poi lo Stato Islamico. Inoltre per un lungo periodo Teheran ha potuto anche contare sulla generale passività dei suoi nemici. Da una parte gli Stati Uniti di Barack Obama, sostenitore di progressivo ritiro militare dal Medio Oriente, e dall'altra l'Arabia Saudita. Solo di recente le cose sono cambiate: Trump distribuisce moniti e minacce al regime di Teheran, con la promessa di stracciare prima o poi l'accordo sul nucleare voluto da Obama e siglato a Vienna il 14 luglio 2015, mentre i sauditi hanno cominciato a rispondere mossa su mossa all'Iran, guidati dalla smisurata ambizione di Mohammed bin Salman.
Eppure l'aggressiva politica estera degli ultimi anni sembrerebbe mal conciliarsi con le posizioni del governo iraniano guidato da Hassan Rouhani, considerato un moderato. In realtà è sempre più forte l'influenza degli ultraconservatori, i quali alimentano buona parte della sua retorica con l'odio nei confronti degli Stati Uniti e di Israele. Uno spirito ultranazionalista sembra percorrere il paese, come reazione alle politiche di Stati Uniti e Arabia Saudita. È evidente poi che il regime iraniano vive profonde contraddizioni interne. Revocate in gran parte le sanzioni con l'accordo di Vienna, la produzione di petrolio è ripartita alla grande. I buoni numeri della macroeconomia (il Fondo monetario, ha stimato per il 2018 e 2019 una crescita rispettivamente del 4 e del 4,3%) sembrano non aver avuto conseguenze sull'iraniano qualunque, che vive sempre con cinquemila dollari l'anno in media ed è pienamente cosciente delle ingenti spese per sostenere Assad in Siria. Un sacco di soldi che il regime investe per mantenere esercito, consiglieri militari e armamenti, seguendo una politica di potenza e di dominio nell'area che contrasta con le condizioni reali interne. Non è un dato da trascurare il fatto che il 60% della popolazione abbia meno di trent'anni, il che rende quel popolo particolarmente pronto alla rivoluzione (è statisticamente dimostrato che le tendenze rivoluzionarie sono proporzionali all'età media della popolazione). E, se è vero che i moti di piazza scoppiati alla fine del 2017 sono stati in realtà supportati e cavalcati da gruppi di pasdaran, basiji, hezbollah, non è improbabile pensare che nuove rivolte interne possano mettere seriamente in crisi il regime. Infine la strategia di Teheran in Medio Oriente, che si basa sull'appoggio a gruppi e milizie sciite che combattono in suo nome in diversi paesi, è di fatto l'«esportazione del caos», per citare la definizione dell'analista Jonathan Spyer. E se l'esportazione del caos ha avuto successo nel mettere in difficoltà i nemici su vari fronti, difficilmente può portare a un controllo duraturo del Medio Oriente.
(Shalom, marzo 2018)
Usa, Francia e Gran Bretagna lanciano l'attacco in Siria: colpito centro di ricerche
Missili su un sito vicino alla capitale. Damasco: ne abbiamo intercettato un terzo. Putin condanna il blitz: un'aggressione. La Turchia approva i raid.
di Giordano Stabile
Usa, Francia e Gran Bretagna hanno lanciato prima dell'alba un attacco missilistico contro il centro di ricerche di Barzeh, pochi chilometri a Nord di Damasco. Il sito è sospettato di aver sviluppato armi chimiche e biologiche e di essere usato anche come deposito per stoccarle. La tv di Stato ha mostrato il fumo che si levava dalla zona.
L'attacco arriva a una settimana dal sospetto raid con agenti chimici sulla città ribelle di Douma, quando morirono dalle 43 alle 70 persone, secondo gli attivisti dell'opposizione. Damasco e Mosca hanno negato di aver condotto attacchi chimici e hanno accusato i ribelli di aver "inscenato" l'attacco per innescare l'intervento americano.
Il presidente americano Donald Trump ha annunciato la rappresaglia in diretta tv. L'ambasciatore russo ha replicato che "ci saranno conseguenze". Almeno sei "forti esplosioni" sono state udite a Damasco nelle primissime ore del mattino. "Ho ordinato alle forze armate di lanciare attacchi di precisione su obiettivi legati alle capacità chimiche del dittatore siriano Bashar al-Assad", ha detto il leader Usa dalla Casa Bianca,
La tv di Stato ha citato "fonti militari" che affermano di aver "abbattuto o deviato" 13 missili in arrivo, circa "un terzo del totale". Fonti occidentali non ufficiali parlano di un "centinaio" di missili, non soltanto sulla capitale. L'Osservatorio per i diritti umani, vicino all'opposizione, sostiene che sono stati colpiti in tutto tre centri di ricerche, due vicini a Damasco, e uno nella provincia di Homs, oltre a una "base militare", sempre nella provincia di Damasco.
Un anno fa, dopo un sospetto attacco con gas sarin a Khan Sheikhoun, gli Stati Uniti attaccarono con 59 missili Tomahawk la base aerea di Shayrat, in provincia di Homs. Sembra che anche il raid di questa mattina sia stato condotto da missili da crociera, forse lanciati da sottomarini. La Siria non ha comunicato se ci sono state vittime e quante. La Russia aveva ripetuto nei giorni scorsi che avrebbe risposto all'attacco se fossero "state messe in pericolo le vite dei soldati russi" che stazionano nelle basi militari siriane. Al momento non si hanno notizie di vittime.
Gli obiettivi
Mano a mano che passano le ore emergono nuovi dettagli sugli obiettivi colpiti. Sarebbero tre i centri di ricerca militare finiti nel mirino a Damasco, e testimoni sul posto riferiscono di esplosioni in posti diversi della città; poi sarebbero stati colpiti altri due siti sospettati di attività legate allo sviluppo di armi chimiche nella provincia di Homs e in quella di Hama, a Misyaf; e infine sarebbero stati bombardati anche i centri di comando della Quarta divisione meccanizzata e della Guardia repubblicana, sul Monte Qasyoun vicino a Damasco: sono due unità d'élite dell'esercito che hanno partecipato all'assalto finale a Douma, quando c'è stato il sospetto attacco chimico. I militari siriani hanno diffuso foto di rottami di ordigni che sostengono di aver abbattuto in zona e sembrano in effetti missili da crociera.
I Tornado britannici
In particolare i Tornado britannici hanno colpito con "missili a lungo raggio Storm Shadow" un deposito di armi chimiche nella provincia di Homs, "a 80 chilometri a Ovest" del capoluogo". Lo Storm Shadow è un missile semi-furtivo sviluppato da Francia, Gran Bretagna e Italia, con una portata di 560 chilometri. È stato lanciato dai Tornado al largo delle coste siriane, senza entrare nello spazio aereo siriano.
Le difese anti-aeree
I russi confermano che non hanno attivato le loro difese ma "la maggior parte dei missili" sono stati intercettati dalle difese siriane (coadiuvate dai militari russi). In totale fra i 100 e i 120 missili sono stati lanciati verso la Siria da sottomarini e forse navi. Il ministero degli Esteri siriano ha definito l'attacco "un fallimento" e "una vergogna" per gli Stati Uniti e i suoi alleati.
Le reazioni regionali
La Turchia ha approvato i raid contro le armi chimiche e li ha definiti "appropriati". Il riallineamento sulle posizioni americane in Siria, dopo il vertice Putin-Erdogan-Rohani ad Ankara che aveva delineato la spartizione a tre del Paese, arriva forse come in cambio del non intervento Usa ad Afrin ma anche in attesa del via libera per attaccare i curdi a Manbij. Anche Israele ha definito "appropriati" i raid e ha avvertito che potrebbero essercene altri in caso di nuovo utilizzo di armi chimiche.
Assad si mostra a Damasco
Poche ore dopo l'attacco missilistico, il presidente siriano Bashar al-Assad ha raggiunto i suoi uffici alla presidenza siriana e la tv di Stato ha mostrato le immagini del suo arrivo per rassicurare la popolazione. Media emiratini e britannici avevano diffuso nei giorni scorsi la voce che il raiss fosse fuggito nel Nord della Siria o addirittura a Teheran e rumours in questo senso sono circolati anche questa mattina.
Putin condanna l'attacco
L'attacco senza un mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu è una violazione del diritto internazionale: lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin, citato dalla tv filo-Cremlino Russia Today. La Russia ha intenzione di chiedere una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
La Turchia approva i raid: risposta appropriata
La Turchia approva i raid definendoli «una risposta appropriata» all'attacco chimico a Douma. In una nota, il ministero degli Esteri scrive: «Accogliamo con favore questa operazione che ha alleviato la coscienza dell'umanità davanti all'attacco di Douma, di cui è ampiamente sospettato il regime». Nella nota, Ankara ricorda tra l'altro che il presidente siriano Bashar al Assad si è già macchiato di «crimini contro l'umanità e di crimini di guerra».
Israele: colpito l'Asse del Male
Poco dopo è intervenuto il governo di Benjamin Netanyahu che ha parlato di "importante avvertimento all'Asse del male formato da Iran, Siria ed Hezbollah". L'uso di armi chimiche, secondo il ministro Yoav Gallant, "sorpassa una linea rossa che l'umanità non può più tollerare". Fonti dell'Esercito israeliano hanno riferito all'agenzia Reuters che Israele era stato avvertito dei raid tra le 12 e le 24 ore prima dell'attacco, e ha precisato di "non aver collaborato alla individuazione degli obiettivi militari".
(La Stampa, 14 aprile 2018)
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Putin: "Atto di aggressione"
L'azione degli Stati Uniti e dei loro alleati in Siria "non resterà senza conseguenze". L'avvertimento arriva dall'ambasciatore russo a Washington, Anatoly Antonov, dopo i raid condotti dagli americani insieme a britannici e francesi contro obiettivi del regime. "Tutta la responsabilità sta a Washington, Londra e Parigi - dice in una nota - Gli Stati Uniti, Paese che ha il più grande arsenale di armi chimiche, non ha il diritto morale di accusare altri Paesi". Dopo l'intervento dell'ambasciatore, anche il presidente russo Vladimir Putin ha commentato gli attacchi, definendoli "un atto di aggressione contro una nazione sovrana".
"La Russia condanna fortemente l'attacco in Siria, dove i militari siriani stanno aiutando il governo legittimo nella guerra contro il terrorismo - afferma Putin in una nota diffusa dal Cremlino - Con le loro azioni, gli Stati Uniti stanno peggiorando sempre di più la catastrofe umanitaria in Siria, portando sofferenze ai civili". Il presidente russo ha quindi avvertito che le ultime operazioni potrebbero provocare "una nuova ondata di rifugiati da quel Paese e dalla regione intera".
Gli Stati Uniti, accusa ancora Putin, hanno lanciato "un'aggressione contro uno Stato sovrano che è in prima linea nella lotta contro il terrorismo", sottolineando che i raid sono stati condotti "in violazione della carta delle Nazioni Unite e dei principi del diritto internazionale".
Anche l'Iran ha condannato "fortemente" i raid, avvertendo che ci saranno "conseguenze regionali". Secondo quanto si legge sul canale Telegram del portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, "gli Stati Uniti e i loro alleati, senza alcuna prova e prima anche di una presa di posizione dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), hanno condotto questa operazione militare contro la Siria e sono responsabili delle conseguenze regionali di questa azione avventurista".
(Adnkronos, 14 aprile 2018)
I viaggi della speranza sulla rotta Italia-Sion
Foto e filmati dell'Aliya Bet: 250mila gli ebrei che salparono illegalmente tra il '45 e il '48
Molti si sposavano, moltissime erano in attesa di un bambino. Le foto in mostra al Memoriale della Shoah fino a giugno raccontano anche la gioia, le feste e la vita, nonostante tutto, dei viaggi della speranza verso Israele partiti dalle coste di tutta Italia, i «ritorni illegali» nella Palestina sotto Mandato britannico dei rifugiati ebrei riusciti a sfuggire alle persecuzioni e ai campi di sterminio.
Correvano gli anni tra il 1945 e il 1948, non era ancora arrivato il 14 maggio di settant'anni fa, giorno della dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele. «Tendiamo una mano di pace e di buon vicinato a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli, e facciamo loro appello affinché stabiliscano legami di collaborazione e di aiuto reciproco col sovrano popolo ebraico stabilito nella sua terra» aveva declamato con solennità Ben Gurion. I lunghi anni del mai sedato conflitto arabo- israeliano testimoniano come tutto sia andato in direzione contraria.
«Navi della speranza. Aliya Bet dall'Italia 1945- 1948» riporta ai sentimenti di allora, tra le speranze pacifiche e serene di un tempo ingenuo e lontano. La mostra si affaccia sui vagoni piombati e i binari del Memoriale, nel luogo in cui tante deportazioni avvennero nell'indifferenza. Documenta con schiettezza come l'Italia delle leggi razziali del 1938 sia diventata, pochi anni dopo, luogo della salvezza per duecentocinquantamila ebrei in fuga dai Paesi dell'Est Europa, dall'orrore e dalla diaspora. La rotta Italia- Sion, capovolgimento che è stato come un desiderio di redenzione del popolo italiano, coinvolto in modo più o meno consapevole nell'Olocausto.
«Aliya Bet» raccoglie le foto e i filmati ripresi nei poveri campi profughi dentro la mussoliniana Cinecittà, tra le nevi di Selvino, nei kibbutz improvvisati in Puglia, tra i centri sfollati di Santa Maria di Leuca, Santa Cesarea, Tricase, nel porto di La Spezia durante lo sciopero della fame per la nave «Fede» bloccata dai veti britannici. «La Spezia Porta di Sion» è scritto sulla targa che si trova ancora sul molo. «Caino, dov'è tuo fratello Abele?» chiede un manifesto di propaganda per l'immigrazione, iconografia che nella mostra parla come il bel viso del padovano Enrico Levi, primo eroe a fare l'impresa, capitano della prima nave salpata dall'Italia per la Terra Promessa.
«La mostra fa bene agli italiani. Non tutto il mondo ha agito come l'Italia per favorire l'arrivo degli ebrei in Israele» commenta Ofra Farhi, vice ambasciatore di Israele in Italia, che rievoca la vicenda di Ada Sereni, una donna, madre e moglie appassionata, che in Italia fu a capo dell'intera operazione Aliya Bet, lavorando d'intesa con Yehuda Arazi, che da Tel Aviv coordinava l'arrivo degli ebrei.
Aliya Bet è una formula suggestiva. «Aliya è la salita, come gli ebrei chiamano l'immigrazione in Israele, perché Gerusalemme è posta in alto, e la Bet, seconda lettera dell'alfabeto ebraico, è l'iniziale dell'espressione illegale», spiega Fiammetta Martegani, una delle curatrici. Così la mostra, che arriva dal Museo «Eretz Israel» di Tel Aviv, dove è stata visitata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua versione milanese ha come sottotitolo provocatorio «Immigrazione illegale». Operazione gigantesca, con navi in partenza dalle coste frastagliate della Penisola, porti rifugio dai veti che arrivavano dall'Inghilterra.
Una storia infinita e attuale, pur nella differenza ontologica tra la Shoah e ciò che di mostruoso accade ancora oggi in Siria e non solo, perché, ricorda il neo presidente Roberto Jarach, «il Memoriale è anche luogo d'accoglienza per i profughi, in arrivo soprattutto dai conflitti in Africa e in Medio Oriente: negli ultimi tre anni ne sono stati ospitati ottomilacinquecento».
Sui pannelli della mostra Primo Levi evoca le suggestioni del ritorno: «In coda al treno viaggiava con noi verso l'Italia un vagone nuovo, stipato di giovani ebrei, ragazzi e ragazze, provenienti da tutti i paesi dell'Europa orientale. Nessuno di loro dimostrava più di vent'anni, ma erano gente estremamente sicura e risoluta: erano giovani sionisti, andavano in Israele, passando dove potevano e aprendosi la strada come potevano. Una nave li attendeva a Bari: il vagone l'avevano acquistato, e per agganciarlo al nostro treno, era stata la cosa più semplice del mondo, non avevano chiesto il permesso a nessuno; l'avevano agganciato e basta. Si sentivano immensamente liberi e forti». Sono parole de «La Tregua» e nel libro respira di gioia anche il cuore dell'uomo che ha vissuto Auschwitz.
(il Giornale, 14 aprile 2018)
Hamas rimanda i suoi a farsi sparare dagli israeliani
Un morto e centinaia di feriti
Un manifestante palestinese di 28 anni è stato ucciso dai soldati israeliani alla barriera di confine tra la Striscia di Gaza e lo Stato ebraico nel terzo venerdì della "Grande marcia del ritorno". Lo ha reso noto il ministero della Sanità di Gaza, precisando che oltre 700 persone sono rimaste ferite nelle proteste, 175 delle quali a causa di proiettili veri. Sedici tra le persone colpite - sostengono ancora le fonti palestinesi - sarebbero operatori sanitari o giornalisti.
Le proteste, organizzate dal movimento terrorista islamico Hamas, hanno preso il via il 30 marzo e culmineranno il 15 maggio in concomitanza con la Giornata della Naqba, ossia la «catastrofe», celebrata ogni anno dai palestinesi all'indomani dell'anniversario della nascita di Israele e della prima sconfitta militare degli arabi contro le forze di difesa ebraiche.
Gerusalemme ha dichiarato che un ordigno è esploso nella Striscia di Gaza durante le proteste dei palestinesi. Varie persone sono rimaste ferite, secondo un portavoce. Sui social network e dai media sono state diffuse fotografie di persone che calpestano e danno alle fiamme bandiere israeliane.
Dal 30 marzo negli scontri con gli israeliani sono morti 34 palestinesi (di cui almeno 20 jihadisti), quasi tremila i feriti.
(Libero, 14 aprile 2018)
La morale di Israele
"Siamo l'unica democrazia che combatte il nemico sulla soglia di casa". Parla il filosofo Asa Kasher.
di Giulio Meotti
Il 26 dicembre 1994, l'esercito israeliano distribuì il suo primo "codice etico" a tutte le unità. La lettera che accompagnava il testo proclamava che quel testo "costituisce la posizione dei vertici dell'esercito sullo spirito dell'Idf", L'idea di dare a Israele un codice militare etico, paragonabile a quello cristiano della "guerra giusta", era venuta un anno prima al generale Ilan Biran ed era stata poi adottata dall'allora capo di stato maggiore, Ehud Barak. Fu quest'ultimo, il soldato più decorato della storia israeliana, il futuro primo ministro e ministro della Difesa, a ordinare a un comitato di saggi di scrivere quel manifesto che prenderà il nome di "Spirito dell'Idf",
A guidare quel comitato fu messo Asa Kasher, il filosofo morale dell'Università di Tel Aviv che fino a quel momento era stato l'unico accademico a insegnare etica nei college militari. Un impegno iniziato negli anni Settanta. Fu Yitzhak Rabin, allora primo ministro, a volere Kasher alla testa del comitato. Tutto il suo lavoro accademico da allora è stato teso a risolvere i dilemmot, i dilemmi che Israele affronta nella sua intestina guerra al terrorismo. Nel 2003, Kasher metterà il suo nome su un altro documento controverso, quello scritto assieme al generale Amos Yadlin dal titolo "The ethical fight against terror", in cui siNel 1994 Kasher ebbe da Rabin e Barak il compito di scrivere le regole di condotta etiche dell'esercito israeliano.
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giustificava la campagna di assassinii mirati con cui Israele ha fermato la Seconda Intifada. "Affrontammo un tragico dilemma", spiegherà Yadlin, capo dell'intelligence militare. "Un terrorista entrerà in un ristorante e farà esplodere venti persone, ma se facciamo saltare in aria la sua auto, tre persone innocenti in macchina moriranno". Come giustificare tutto questo?
E pensare che Kasher era nato nell'estrema sinistra della cultura israeliana. Questo filosofo dell'etica è stato fra gli animatori di Yesh Gvul: ("c'è un limite") durante la prima guerra del Libano, ovvero il primo gruppo di obiettori di coscienza dell'esercito, e ha sempre vantato come mentore Yeshayahu Leibowitz, il papa laico e coscienza terribile di Israele, il filosofofustigatore di costumi, di politiche, di "occupazioni". Una sorta di Spinoza.
Kasher, che ha vinto il Premio Israele (il massimo riconoscimento nello stato ebraico), è oggi considerato il più grande filosofo in Israele nel campo dell'etica. Alcuni dicono che è l'autorità morale più rispettata della sua generazione. Oltre al suo lavoro nel mondo accademico come esperto di linguistica pragmatica di fama mondiale, Kasher è stato presidente di diversi importanti comitati pubblici. I suoi scritti sull'etica medica, i media e la scienza sono considerati pietre miliari. Eppure, nonostante tutta la sua attività pubblica, Kasher difficilmente appare nei media. Ha accettato di parlare al Foglio dopo i tragici fatti di Gaza, dopo tre settimane di assedi al confine meridionale di Israele, con 60 mila persone respinte al reticolato, i tanti morti palestinesi e i titoli di giornale in occidente sul "massacro" commesso dalle truppe di Gerusalemme. E' in discussione lo "spirito" messo a punto da Kasher.
Gli chiediamo cosa significhino le regole di ingaggio che ha Israele in medio oriente. "La decisione fondamentale che deve essere presa, quando hai di fronte un nemico che deliberatamente commette atrocità contro di te, è se adattare i tuoi valori e le tue norme a quelle del nemico, o mantenere intatti i tuoi standard morali. La decisione morale presa da Israele è chiara: rispettare la dignità di chiunque, perché siamo una democrazia e perché siamo lo stato-nazione del popolo ebraico. Rispettare la dignità umana di chiunque, compresa, prima e su tutto, quella dei nostri cittadini e dei nostri soldati. Non abbiamo modulato i nostri valori su quelli immorali dei nostro nemici, ma adattiamo la nostra difesa alle sfide create dagli stessi nemici. Così a volte i nostri comandanti e le nostre truppe agiscono come ufficiali di polizia di fronte a sommosse, a volte invece sono combattenti di fronte a nemici combattenti".
Nelle scorse settimane, Israele è stato accusato di aver ucciso "indiscriminatamente" oltre trenta
"Non è facile fermare migliaia di persone che vogliono varcare un confine. Non esiste distinzione netta fra combattenti e "civili".
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palestinesi facendo un "uso sproporzionato" della forza. Poi, un rapporto del centro Meit Amir per l'intelligence ha diffuso l'identikit delle vittime a Gaza: 26 su 32 erano membri di organizzazioni terroristiche. L'ottanta per cento dei palestinesi rimasti uccisi. Che ne pensa del lavoro fatto al confine con Gaza?
Nell'attesa di una inchiesta morale, etica e professionale sull'esercito, possiamo valutarne il lavoro svolto soltanto dal quadro generale. E io sono felice che l'esercito non abbia usato la forza indiscriminata contro i palestinesi di Gaza che approcciavano la barriera difensiva per infiltrarsi nei centri abitati israeliani. Non è facile fermare decine di migliaia di persone che si avvicinano a un recinto per distruggerlo e procedere in Israele. Le attività di Gaza, bisogna ricordarlo, sono organizzate, sostenute e potenziate da Hamas, un'organizzazione terroristica impegnata nella distruzione di Israele. Le loro attività sono bellicose, mai innocenti. Tuttavia, poiché usano bambini e adolescenti, dobbiamo fare del nostro meglio per ridurre al minimo le vittime tra coloro che sono veramente innocenti. Date le dimensioni e la natura dell'attività di Gaza, il numero di vittime non sembra essere sproporzionato, ma in effetti, se emergessero prove affidabili che una persona di Gaza venga colpita quando non è coinvolta in ostilità pericolose, dovrebbero essere tratte delle lezioni al fine di migliorare le attività militari".
In che modo Israele evita vittime civili? "Innanzitutto, chiariamo la nozione di 'civile'", prosegue Kasher conversando con il Foglio. "Non c'è spazio per la distinzione cruda tra i combattenti in uniforme militare e tutti gli altri che sono 'civili'. La distinzione è tra coloro che sono coinvolti in ostilità pericolose contro gli israeliani e quelli che non lo sono. Uno di Gaza che è presente non lontano dal confine non è così pericoloso o immediatamente pericoloso. L'esercito non agisce contro di lui usando fuoco letale. Una persona che è direttamente coinvolta in uno sforzo per distruggere la recinzione è pericolosa e potrebbe essere colpita. Non possiamo tollerare che una recinzione venga distrutta, perché non possiamo tollerare la libera circolazione degli abitanti di Gaza in Israele, tanto più che sono in numero di migliaia e arrivano sotto le bandiere del 'ritorno' in Israele. Si noti che l'unico modo per impedire a migliaia di persone di Gaza ormai in Israele di catturare israeliani e colpire le loro case comporterebbe numerose vittime tra gli infiltrati. Preferiamo fermarli al confine, fuori da Israele, piuttosto che dentro al territorio israeliano. Minimizzare le perdite di infiltrati è una manifestazione del nostro principio di rispetto della dignità umana". Cosa rende unico l'esercito israeliano, anche a paragone con molti eserciti occidentali? "Bisogna parlare di due aspetti, uno relativo alla situazione attuale e un altro generale. Le pratiche di guerra sono condivise da tutte le democrazie occidentali, come Israele, Italia, Stati Uniti e Regno Unito. Tuttavia, solo le truppe israeliane sono schierate molto vicino ai centri di popolazione israeliana, alle città, ai villaggi, da un lato, e molto vicino alle forze e alla popolazione ostili di Gaza, d'altra parte. Si può ammirare il coraggio
"Se i palestinesi da Gaza entrassero in Israele ci sarebbero molte vittime fra gli infiltrati. Così dobbiamo fermarli al confine".
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e l'integrità professionale delle truppe americane o europee che combattono in Afghanistan, ma non combattono nelle vicinanze delle loro case e dei loro concittadini. In secondo luogo, e non meno importante, l'etica militare israeliana è diversa da quella di ogni altra forza militare del mondo democratico. Tra i valori israeliani ne abbiamo due che sono unici. Uno è la santità della vita umana, dei cittadini di Israele, dei soldati e dei nemici non combattenti. Uccidi una persona solo se è necessario farlo. Un secondo è chiamato 'purezza delle armi', che significa purezza morale dell'uso delle armi o semplicemente limitazione dell'uso della forza. Coinvolge la distinzione tra persone pericolose e altre, tra la popolazione nemica, considerazioni di proporzionalità quando rilevanti, e si basa sull'idea generale di cercare di minimizzare le calamità della guerra. In generale, ci fidiamo degli standard dei nostri comandanti. Abbiamo buone ragioni per presumere che le loro attività siano etiche, morali e legali. Tuttavia, facciamo molto più che istruire comandanti e truppe. Introduciamo metodi professionali e organizzativi che hanno lo scopo di elevare gli standard etici e morali dell'attività. Un esempio è l'unità indipendente di esperti in 'Operation Research', che ha il compito di trovare il modo migliore di condurre un'operazione programmata di uccisione mirata, dove 'migliore' significhi non solo in termini di probabilità di colpire il terrorista designato, ma anche nel senso di minimizzare il danno collaterale. Quindi gli standard dell'operazione non sono solo quelli dei piloti, che sono molto alti. Un altro esempio è visto in ogni battaglione da combattimento. Uno degli ufficiali dello staff del comandante è un 'ufficiale della popolazione', il cui compito è quello di aiutare i comandanti a minimizzare i danni a persone non pericolose in una zona di battaglia".
La manipolazione mediatica, politica e intellettuale è stata in grado di trasformare l'esercito israeliano in un simbolo di sopruso, di occupante, di bullo contro chi resiste a mani nude. "Poniamo la domanda in modo diverso: quante manifestazioni hanno avuto luogo in Europa negli ultimi due o tre anni in solidarietà con i palestinesi e quante ce ne sono state in solidarietà con la popolazione siriana che è stata vittima di numerose atrocità, compreso l'uso di sostanze chimiche? I governi hanno interessi locali e internazionali da servire. Le folle hanno sentimenti crudi e affiliazioni politiche da manifestare, sullo sfondo di un'intera industria di bugie gestite dai palestinesi con l'aiuto, deliberato o non intenzionale, di parti della stampa.
"I media occidentali non sono affatto i guardiani della verità, ma collaborano spesso all'industria palestinese delle menzogne".
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Non sono i guardiani della verità, della giustizia e della libertà. Per quanto la stampa e le folle non abbiano un effetto pernicioso immediato sulle attività governative o sul benessere degli ebrei, non possiamo ignorare l'atteggiamento ostile nei nostri confronti. L'antisemitismo è un ingrediente dell'atteggiamento ostile. Ci sono chiare espressioni antisemite in Hamas, ma il leader del partito laburista del Regno Unito conta i leader di Hamas tra i suoi amici. Combattere l'antisemitismo è un dovere di ogni persona decente e dello stato di Israele".
Da più di vent'anni, Asa Kasher lavora all'etica militare israeliana. Che bilancio trarre? "Beh, l'orgoglio non è una virtù, giusto?", conclude il filosofo israeliano con il Foglio. "Tuttavia, sono stato felice di vedere che il codice etico, inclusi i valori unici della 'vita umana' e della 'purezza delle armi', così come i classici valori etici militari, sono comunemente implementati dai comandanti e dalle truppe. Nella misura in cui il mio lavoro ha influenzato il comportamento degli israeliani in uniforme, sono lieto di sapere che implementando il codice etico molte vite sono state risparmiate, sia dei combattenti israeliani sia dei non combattenti palestinesi. E' difficile allora resistere alla tentazione di essere orgogliosi".
(Il Foglio, 14 aprile 2018)
«Tutti gli svizzeri in Israele dovrebbero registrarsi presso l'ambasciata»
L'escalation della crisi siriana tocca anche Israele, dove vivono circa 18'000 svizzeri. Erich Bloch, rappresentante sul posto dell'Organizzazione degli svizzeri all'estero, teme un peggioramento della situazione ed esorta i suoi concittadini a prepararsi.
di Balz Rigendinger
Spirano venti di guerra nella crisi siriana. Dopo le minacce, Stati Uniti e Russia, stanno tentando di evitare un conflitto armato. La possibilità di un lancio di missili americani sulla Siria, come annunciato da Donald Trump, rimane tuttavia di attualità. La portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, ha sottolineato che Washington sta conducendo colloqui con Israele, Arabia saudita, Francia e Gran Bretagna.
Inoltre, dopo la conquista dell'ultimo bastione ribelle nella Ghouta orientale da parte dell'esercito siriano, gli osservatori ritengono che il presidente Baschar al-Assad prenderà di mira altre regioni, in particolare quella di Daraa, nelle immediate vicinanze di Israele. "La liberazione della Ghouta orientale significa la fine della minaccia per Damasco. Ora, per il governo siriano sarebbe logico spostare le sue forze verso sud", afferma Bassam Abu Abdallah, direttore del Centro di studi strategici di Damasco.
Un'offensiva in prossimità della frontiera giordana e della zona demilitarizzata lungo le alture del Golan, occupate da Israele, rischia però di accelerare l'escalation. Il confine israeliano è infatti a poca distanza. Lo Stato ebraico ha già annunciato che non tollererà la presenza di forze pro-iraniane nei pressi della frontiera. Un'offensiva siriana nella regione di Daraa potrebbe così indurre Israele a intervenire nella guerra in modo ancor più risoluto.
swi: Come è la situazione attuale in Israele?
Erich Bloch: Poco chiara. Ci sono intensi movimenti aerei, ma non sappiamo se si tratta di velivoli israeliani o statunitensi. Abito a Netanya, a circa 30 chilometri da Tel Aviv. Elicotteri, aerei da combattimento e droni stanno accerchiando il Paese. Al nord, l'esercito è in stato di allarme. Si notano movimenti di truppe.
- Come sta reagendo la popolazione?
Malgrado la forza militare dell'esercito israeliano c'è un sentimento di inquietudine, che si riflette anche nello stato d'animo delle persone. La forte presenza di polizia ed esercito contribuisce da un lato alla sicurezza, dall'altro è però sinonimo del pericolo all'interno del Paese, e con questo intendo la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Prossimamente, Israele celebrerà i 70 anni della sua creazione, ciò che la popolazione araba continua a descrivere come una "catastrofe".
- Come valuta gli attuali sviluppi?
Tutti i protagonisti di questa crisi sono sotto pressione. Il primo ministro israeliano Netanyahu deve far fronte ad accuse di corruzione, che un giorno o l'altro gli creeranno dei problemi. Anche il presidente americano Trump è sotto pressione a causa delle sue vicende e il presidente siriano al-Assad è dipendente dalla Russia. Il presidente russo Putin, appena rieletto, deve urgentemente migliorare la sua immagine un po' offuscata. Difficile dire quali saranno le ripercussioni su Israele in caso di un attacco militare dell'Occidente in Siria. Al momento non siamo in grado di valutare come sarà il Medio Oriente.
- In Israele vivono 18'000 svizzeri. Come sono organizzati e come si stanno preparando?
Gli svizzeri vivono principalmente nelle grandi città e in alcuni kibbutz al nord. Per loro è sicuramente sensato registrarsi presso l'ambasciata elvetica a Tel Aviv. Ciò vale soprattutto per gli svizzeri nei kibbutz di Chanita e di Baram. Per quanto concerne le regioni nei pressi della Striscia di Gaza, penso in particolare al kibbutz di Magen e agli abitanti di Sderot e Ashkelon. In generale, tutti gli svizzeri in Israele dovrebbero registrarsi presso l'ambasciata.
Secondo Erich Bloc, l'Organizzazione degli svizzeri all'estero (OSE) in Israele è bene informata e ha allestito un dispositivo di emergenza. La persona di contatto è Erich Bloch: eblochisr@yahoo.de.
(swissinfo.ch, 13 aprile 2018)
Torna alla luce il film che anticipò di venti anni l'Olocausto
SI chiama "La città senza Ebrei": e fu girato in Austria nel 1924. Prefigurò quello che qualche anno dopo si sarebbe tragicamente verificato.
"La città senza Ebrei" (Die Stadt ohne Juden): è questo il titolo della pellicola restaurata dall'archivio cinematografico austriaco: una tragica premonizione di quello che sarebbe stato il Nazismo.
Fu scoperta per caso in un mercato delle pulci di Parigi nel 2015 e oggi è di nuovo visibile. Venne girata nel 1924 in Austria negli anni che seguirono la Prima guerra mondiale quando il partito nazista era stato bandito e Adolf Hitler, in prigione in Germania, lavorava al suo libro Mein Kampf
Profetico
A ispirare la pellicola fu il romanzo satirico dello scrittore e giornalista ebreo austriaco Hugo Bettauer. Raccontava uno scenario distopico in cui per assecondare le pulsioni della massa convinta che gli Ebrei fossero la causa dei loro guai, un governatore si vide costretto a espellere tutti loro dalla città. "È orribile espellere gli Ebrei", rivela a un certo punto "Ma bisogna assecondare quello che mi chiede il popolo".
Nel film, agli Ebrei della città è imposto di partire entro Natale. I più poveri partirono a piedi, scortati da soldati con le baionette, incamminandosi lentamente attraverso la neve, alcuni con le stampelle, altri con rotoli della Torah presi dalle sinagoghe. Altri ancora partirono in treno.
Dalle parole ai fatti
Il libro, come il film, era in realtà un appello alla convivenza in anni di crescente intolleranza e razzismo. Il periodo era infatti complicato: dopo la Prima guerra mondiale, molti Ebrei sfollati stavano arrivando a Vienna e la popolazione non li accoglieva di buon grado.
Nonostante questo, quando nel 1924 il film fu presentato nelle sale, ebbe grande successo. Ma che i tempi fossero bui lo conferma il fatto che l'anno successivo, Hugo Bettauer fu ucciso da un nazista dopo una campagna di odio contro di lui. La sua professione di giornalista irriverente non piaceva. E il suo indirizzo privato fu pubblicato sui giornali, accompagnata dalla raccomandazione che "una tale persona non dovrebbe far parte della società".
Correva l'anno 1925. Dieci anni dopo Hitler avrebbe promulgato le famigerate leggi di Norimberga aprendo ufficialmente la strada all'Olocausto.
(Focus, 13 aprile 2018)
La cultura ebraico-romanesca a tavola : una storia millenaria
Cena con il rabbino Riccardo Di Segni: carciofi alla Giudia «assolutamente kosher», alicette e indivia, coda alla vaccinara. Disquisendo, con la signora Italia, di ciò che si può mangiare e ciò che non si deve, secondo la Bibbia.
di Lilli Garrone
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Cucina giudaico-romanesca: l'abbacchio allo scottadito
L'abbacchio allo scottadito è senza dubbio uno dei piatti più emblematici della tradizione culinaria romana. Una ricetta che vanta centinaia di anni di storia ed affonda le sue radici nelle abitudini delle antiche popolazioni del Lazio, dedite all'allevamento ed alla pastorizia. Abbacchio è infatti il termine romanesco per indicare quello che è in realtà l'agnello da latte (di appena un anno di età), protagonista indiscusso della storia e della cucina della Capitale. Nell'antichità l'abbacchio era considerato un piatto povero, destinato agli abitanti del ghetto ebraico e ai romani meno abbienti, poiché identificato da tutti come carne di basso livello. Oggi invece le costolette di agnello sono considerate un piatto più che prelibato, preparate secondo una ricetta lunga decenni. Perché vengono chiamate "allo scottadito"? Perché devono essere servite e mangiate ben calde, il che sicuramente vi farà rischiare di scottarvi le dita!
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Metti una sera a cena da Reginella al Ghetto. Con il rabbino capo Riccardo Di Segni che chiude la polemica sui carciofi alla Giudia e decreta che sono assolutamente Kosher: tutto sarebbe nato, infatti, da una polemica di carciofini sott'olio arrivati in Israele e quindi con qualche «vermetto». Sott'olio e avariati . Così, come ripete Italia Tagliaccozzo, 80 anni e tra le prime a cucinarli «qui da noi non si sono mai visti».
Fare cultura attraverso il cibo
Si celebra così la cultura ebraico-romanesca a tavola ospiti del titolare Angelo Di Porto e con le parole di Riccardo Di Segni ci si immerge in una storia millenaria, dai primi capitoli della Bibbia alle tradizioni durate fino ad oggi. Perché fare cultura attraverso gli ingredienti e le antiche ricette sapientemente trasmesse da madre a figlia e talora rubate alla tanto criticata suocera, portatrice, però, di valori di famiglia: «Ognuno può dire quello che vuole aggiunge Italia Tagliacozzo ma ciascuno di noi porta nel piatto la storia della propria famiglia».
«Recuperiamo tradizione e qualità»
Pioniera e imprenditrice nel campo della moda, altra sua grande passione, tre figlie, 9 nipoti e 4 bisnipoti, nonna Italia si è infatti rimessa in gioco e guida la «Taverna del Ghetto»: «Vogliamo recuperare la tradizione e la qualità della materia prima nella cucina ebraico romanesca - aggiunge - con la consapevolezza di essere custodi di alcune tra le più antiche ricette della tradizione».
«No al capretto nel latte della madre»
E di una tradizione antichissima parla Riccardo Di Segni: di regole alimentari che si rifanno ai libri del Vecchio Testamento come le carni che si possono mangiare e non mangiare (no al maiale, ma anche alla lepre e soprattutto no a insetti e vermi); tra i pesci quelli con pinne e squame, mai insieme carne e latte: «Non cucinerai mai il capretto nel latte della madre» come recita la Torah. Metti una cena con un menu da tradizione e fantastico: dalle alicette e indivia ai carciofi alla Giudia, dalle mezze maniche Verrigni al sugo di coda alla Vaccinara ai ravioli ripieni di Bottarga, dal baccalà alla romana alla tradizionale crostata di ricotta e visciole . E tutto con vino israeliano bianco e rosso.
(Corriere della Sera, 13 aprile 2018)
Ebrei romani in festa per 70 anni fondazione Stato Israele
Il 18 aprile performance e mostre, presenti Raggi e Zingaretti
ROMA - Esibizioni, performances e mostre in tre dei luoghi chiave dell'ebraismo romano per festeggiare i 70 anni della fondazione dello Stato di Israele, con una "festa gioiosa" che celebra "i valori della democrazia e della libertà" del Paese. Questa l'iniziativa presentata oggi dalla Comunità ebraica di Roma, che in occasione della ricorrenza promuove e organizza un grande evento che si svolgerà nel quartiere ebraico della Capitale il prossimo 18 aprile, realizzato con la collaborazione dell'Ambasciata d'Israele in Italia e con il supporto di Acea e di Valeur Group.
Israele "è un modello di democrazia per tutto l'occidente, di valori di pace e di libertà che è giusto riconoscere e condividere con tutta la cittadinanza. Da qui l'idea di creare un evento unico e gioioso con iniziative di carattere culturale", attività ludiche e artistiche, per una "grande festa con ospiti nazionali e internazionali", ha dichiarato la presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello, presentando le iniziative in conferenza stampa. Per la Comunità ebraica di Roma, "il legame con Israele è un legame profondo che ha radici non solo storiche, ma culturali e soprattutto religiose, e dal 1948 Israele rappresenta un baluardo e una garanzia di esistenza di tutti gli ebrei nel mondo".
Sul palco centrale in piazza Gerusalemme, daranno inizio alla festa, insieme alla presidente Dureghello, il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, l'Ambasciatore dello Stato di Israele Ofer Sachs, il sindaco di Roma Virginia Raggi e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. A presentare l'evento sarà il giornalista David Parenzo. Tra le varie esibizioni, per la prima volta suoneranno in Italia i Maccabeats, progetto musicale nato nel 2007 di 14 elementi dell'Università Yeshiva di New York, diventato fenomeno mondiale di musica ebraica. Sempre a Piazza Gerusalemme, a un anno dalla scomparsa del fotoreporter David Rubinger, riproduzioni di alcune tra le sue fotografie saranno proiettate sulle facciate dei palazzi. Nell'ambito delle celebrazioni, è prevista l'apertura gratuita del Museo Ebraico di Roma, che inaugurerà alle ore 21 la mostra "The Promised Land. Verso Israele, il paese latte e miele": circa 100 fotografie che ritraggono la vita della nascente società dello Stato di Israele. Verrà anche esposta per la prima volta la dichiarazione originale della nascita dello Stato di Israele del 1948, uno degli otto esemplari originali esistenti al mondo. Contemporaneamente, presso il Palazzo della Cultura, il Centro di Cultura Ebraica presenterà il libro "Il Sionista Gentile" di Carlo Giacobbe. Subito dopo, alle 22.30, il Centro Ebraico Pitigliani presenterà "Ben Gurion, Epilogue" di Yariv Mozer, un film che presenta un ritratto mai visto di David Ben Gurion. Infine, nel Palazzo della Cultura vi sarà una mostra dell'artigianato ebraico e made in Israel, che vedrà la partecipazione di molte associazioni e artisti.
"Le nostri grandi sfide non sono finite, ma le imminenti celebrazioni per i 70 anni di Israele sono una grande opportunità per rilassarsi per qualche minuto e guardare al passato con grande orgoglio prima di tornare a lavoro", ha sottolineato l'ambasciatore d'Israele in Italia Ofer Sachs nel suo intervento alla conferenza stampa, ringraziando la comunità ebraica di Roma per il continuo supporto per Israele "che non diamo per scontato".
Programma
(ANSA, 13 aprile 2018)
Israele negozia con Russia e America per evitare scontri in Siria
Quel patto implicito che Israele ha stretto con la Russia che ora un po' vacilla (vicino al Golan)
di Paola Peduzzi
MILANO - Il governo di Israele sostiene l'idea di un intervento militare americano ed europeo in Siria: vuole che siano validate le linee rosse che impediscono l'utilizzo delle armi chimiche in medio oriente e non vuole che l'Amministrazione Trump ritiri le proprie forze dalla Siria, perché questo significherebbe "una manna strategica", scrive il Wall Street Journal, per un nemico come l'Iran, una minaccia esistenziale. Allo stesso tempo però, Israele vuole mantenere saldo il suo rapporto con la Russia, e sta cercando di fare da mediatore per ottenere una de-escalation dei toni tra russi e americani. Nella notte tra mercoledì e giovedì, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha parlato con il presidente russo, Vladimir Putin: Mosca vuole che sia rispettata la sovranità della Siria e chiede che non si dia il via a operazioni che "potrebbero destabilizzare ulteriormente la situazione nel paese"; Gerusalemme però insiste sul fatto che la presenza in massa degli iraniani in Siria è inaccettabile. Secondo un articolo pubblicato dal quotidiano russo Kommersant, a Mosca molti sostengono che Netanyahu stia svolgendo un ruolo importante di intermediazione tra Putin e Donald Trump, anche se i più sono convinti che un'operazione militare ci sarà in ogni caso.
Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha detto che esistono le prove dell'attacco chimico in Siria e che, in contatto continuo con Washington, si sta organizzando un blitz militare che sia "efficace". Israele conta sul fatto che il coordinamento ci sia anche con la Russia: sempre secondo Kommersant, il Cremlino sta aspettando che il Pentagono fornisca la lista dei target da colpire in modo da evitare ogni eventuale scontro con le forze russe presenti in Siria. Per questo ci sono contatti tra i generali russi e americani e anche con la Nato, attraverso il canale ora più promettente per la Russia: la Turchia.
Secondo Alexey Khlebnikov, analista al Russian Council sulla politica mediorientale di Mosca, con tutta probabilità la mediazione di Israele sta funzionando: il Cremlino è quasi certo che le sue basi in Siria non saranno colpite, e il fatto che Trump abbia superato il limite temporale che aveva annunciato - 24-48 ore, ed era lunedì - fa pensare che ci sia stato più metodo e coordinamento nella preparazione delle operazioni. Ci sono anche altri paesi che stanno intervenendo come intermediari (o si candidano a esserlo): l'agenzia di stampa russa Tass ha sottolineato il ruolo della Giordania nella direzione della de-escalation, mentre il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha detto di voler parlare con Putin: ha già avuto una conversazione con Trump, e sottolinea di voler mantenere le proprie relazioni con Russia, America e Iran.
La questione iraniana è dirimente, e presto anche le cancellerie europee che lavorano nell'ombra per salvaguardare il deal sul nucleare che Washington vorrebbe smantellare dovranno prendere qualche decisione importante (il 12 maggio Trump dovrà dire se conferma o no il blocco delle sanzioni incluso nell'accordo: aveva annunciato a gennaio che non l'avrebbe confermato). Per Israele, come si sa, l'Iran è più che dirimente, è una questione di vita o morte: Ali Akbar Velayati, gran consigliere della guida suprema Ali Khamenei invitato a Damasco in settimana per una due-giorni sullo status di Gerusalemme, ha detto riferendosi a Israele che "questi crimini non resteranno senza risposta". Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano ha ribadito:
"L'aggressione del regime di Israele contro la Siria è una violazione della sovranità nazionale e della integrità territoriale del paese e va contro ogni regola e principio internazionale". Teheran si riferiva all'attacco di lunedì contro la base aerea T-4 vicino a Palmira in cui sono morti "alcuni consiglieri militari iraniani": anche la Russia, in controtendenza rispetto al passato, ha denunciato il blitz in modo molto duro. Questi toni aggressivi non sono sfuggiti al governo di Netanyahu che, da molti anni, mantiene un equilibrio realista nei suoi rapporti con Mosca.
Da quando le forze russe sono entrate in Siria, Putin ha di fatto ignorato i ripetuti attacchi di Israele contro le installazioni militari iraniane in Siria: c'è un patto tacito tra Russia e Israele sul rispetto della richiesta di Netanyahu di evitare qualsiasi avvicinamento da parte delle Guardie della rivoluzione iraniane al territorio israeliano, cioè verso le alture del Golan. Per dare seguito a questo patto, il premier di Gerusalemme ha tenuto una linea ben più morbida di americani ed europei nei confronti della Russia. Per esempio non sostenne la risoluzione dell'Onu contro l'annessione della Crimea e nelle settimane scorse non si è unito alle espulsioni coordinate di diplomatici russi chieste dal Regno Unito dopo l'utilizzo di gas nervino a Salisbury, Come ha detto Dan Shapiro, ambasciatore israeliano in America fino all'anno scorso, "la politica israeliana ha avuto come obiettivo evitare conflitti con la Russia su molte questioni che hanno creato frizioni tra Mosca e l'occidente".
Ora però questo equilibrio cui Netanyahu si è dedicato a lungo e con pazienza assieme al suo ministro della Difesa, Avigdor Lieberman (che parla bene il russo), rischia di vacillare. Prima dell'attacco chimico a Duma, il regime di Assad aveva annunciato per l'inizio di maggio un'operazione coordinata con russi e iraniani per riconquistare Deraa, nel sud della Siria, e Quneitra, nel sud-ovest, nella parte siriana delle alture del Golan. La presenza dell'Iran nei pressi di Quneitra non è ufficiale (del resto Teheran ha ammesso di aver subìto perdite sul campo siriano soltanto due volte), ma di recente le forze associate al regime di Assad hanno rimpolpato la loro presenza proprio lì, mentre l'esercito siriano ha piazzato uomini e cannoni nella "no-man's area" che corre lungo il confine con Israele. Per Israele non si tratta di una provocazione, ma di un rischio di guerra imminente, tanto che Lieberman ha detto che qualsiasi avvicinamento iraniano sarà impedito, "a qualsiasi costo". La Russia è finora stata decisiva nell'evitare l'avanzamento iraniano, ma ora che lo stesso Trump vuole togliere il velo da tutte le alleanze, anche Israele potrebbe dover rinunciare al "lusso", come lo chiama Shapiro, dell'equilibrio con Mosca: il primo alleato globale di Israele è l'America.
(Il Foglio, 13 aprile 2018)
La prevedibile conclusione del "patto implicito" tra Russia e Israele sembra già annunciata nel seguente articolo che riflette la posizione russa. Ne anticipiamo la frase finale: "... se Israele può avvicinarsi all'Iran, essendo presente nel nord dell'Iraq, che confina con l'Iran, Teheran ha lo stesso diritto di diventare "vicino di casa" di Israele in Siria e di dislocare le sue basi". M.C.
"Trump ama bluffare, Washington non è nelle condizioni di bombardare la Siria"
Le "48 ore" per prendere una decisione sulla Siria annunciate lunedì dal presidente americano Donald Trump su un bombardamento o meno sono scadute. Gli Stati Uniti non hanno preso misure decisive.
Tuttavia Donald Trump ha pubblicato un tweet controverso, sottolineando di non aver mai detto quando gli Stati Uniti avrebbero colpito la Siria.
"Possiamo colpire presto, ma possiamo intervenire non subito. In ogni caso, sotto la mia guida, il Paese ha sconfitto con successo il gruppo terrorista dello "Stato Islamico" nella regione. Dov'è il nostro "grazie, America"? si afferma nel tweet dell'inquilino della Casa Bianca.
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Tuttavia il giorno prima Donald Trump aveva pubblicato un altro tweet, in cui invitava la Russia a prepararsi a distruggere i missili americani che sarebbero volati nel cielo siriano. Di conseguenza resta ancora aperta la questione dell'inizio di una guerra americana su larga scala in Siria.
Che tipo di misure militari possono prendere gli USA contro la Siria? Quali saranno le conseguenze per la regione? Può il presidente americano dichiarare guerra ad un altro Stato? Alle domande di Sputnik risponde il politologo americano di origine iraniana Alexander Azadegan, professore di geopolitica all'Università della California, direttore del sito Imperia News:
"Secondo la Costituzione americana, il Congresso può dichiarare guerra, non il presidente. Il problema è che ora abbiamo una "presidenza imperiale". Fin dai tempi di Richard Nixon e dai tempi della guerra in Vietnam, il ruolo del presidente è sempre più rilevante, in contrasto con le richieste dei padri fondatori degli Stati Uniti.
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Per quanto riguarda il possibile attacco, dovrei notare che i lettori di Sputnik sono molto perspicaci e capiscono che a Trump piace bluffare. Nel suo tweet Trump ha minacciato seriamente la Russia. Ma in realtà le sue dichiarazioni non hanno alcun supporto pratico. Pertanto queste azioni sono solo minatorie, è una sorta di offensiva psicologica per seminare paura. Washington non è nelle condizioni di attaccare ora. Ricordate quando in precedenza gli Stati Uniti hanno sganciato 59 "Tomahawk" contro obiettivi in Siria? 28 missili sono stati abbattuti dalla contraerea siriana, le forze aeree nel suo insieme non hanno subito il colpo. Gli Stati Uniti non faranno azioni che faranno fare di nuovo brutta figura. Inoltre la contraerea siriana è diventata molto più forte grazie all'assistenza militare della Russia.
Washington, ovviamente è molto spaventata dalla presenza militare russa in Siria, che ha basi permanenti. La Russia non lascerà la Siria per gli stupidi errori commessi da Washington negli ultimi 10-15 anni. Gli Stati Uniti sentono che stanno perdendo il controllo. Gli Stati Uniti hanno già lasciato l'Iraq, che in seguito si è avvicinato all'Iran. Gli Stati Uniti stanno subendo perdite significative su molti fronti nella regione, quindi non credo che inizierà una nuova guerra in Siria.
È importante notare che per la prima volta nella storia vediamo come gli americani sono presenti illegalmente in Medio Oriente. In particolare in Siria, dopo aver stabilito almeno due basi, da dove forniscono assistenza ai combattenti dell'ISIS per salvarli quando è nell'interesse degli Stati Uniti. La Russia e l'Iran si trovano in Siria legalmente, in qualità di alleati. Ovviamente, in caso di attacco da parte degli americani, difenderanno la Siria. Se attaccheranno all'improvviso i militari iraniani, i siriani li difenderanno e contrattaccheranno.
In questa situazione, c'è un momento molto delicato: l'Iran, essendo presente in Siria, diventa "vicino" di Israele. Se il numero di militari iraniani e basi aumenta in Siria, allora aumenterà la minaccia contro Israele. Pertanto il recente attacco dell'aviazione israeliana sulla base aerea era diretto esclusivamente contro i soldati iraniani. La risposta dei militari iraniani alla situazione è abbastanza logica: se Israele può avvicinarsi all'Iran, essendo presente nel nord dell'Iraq, che confina con l'Iran, Teheran ha lo stesso diritto di diventare "vicino di casa" di Israele in Siria e di dislocare le sue basi".
(Sputnik Italia, 13 aprile 2018)
L'Europa spaccata sulla Siria. Solo Macron e May in guerra
Germania e Italia escludono un intervento armato ma garantiranno un sostegno logistico alle operazioni
di Fiamma Nirenstein
Ogni ora potrebbe essere quella in cui si decide se i missili americani colpiranno gli obiettivi siriani. Ma non è detto che sia quella fine del mondo che viene profetizzata dalla maggior parte dei media.
È vero, Donald Trump grida, twitta risoluzioni che andrebbero presentate con giacca e cravatta, minaccia, usa espressioni poco fini all'orecchio educato dei giornalisti e degli intellettuali europei. Ma su questo piove un giudizio politico esagerato e minaccioso, poco elaborato, e quindi, in una parola, molto conformista. L'Europa si muove con più cautela ma capisce che Trump ha ragione quando minaccia di colpire Assad: la Germania resta fedele al suo storico ritegno post seconda guerra mondiale, e la Merkel promette solo di «segnalare» l'uso di armi chimiche, ma Macron, anche se ancora non ha deciso, lascia pensare che al solito la Francia mobiliterà l'esercito, e Theresa May ha spostato due suoi sottomarini verso la Siria. L'Italia senza governo condanna l'uso di armi chimiche, ma non si schiera sulla falsariga di Berlino.
Nice (carini), new (nuovi), smart (intelligenti), i missili annunciati che «arriveranno in Siria» contro «quell'animale che usa il gas per uccidere» sono già in realtà da quelle parti. L'avvertimento alla Russia fa sentire sull'orlo di una crisi bellica mai vista e gli animi eccitati danno del pazzo a Donald Trump. Ma non è affatto pazzo: se esaminiamo le sue decisioni, in 16 mesi ha rovesciato la politica di Obama, ma non ha rovesciato l'ordine mondiale in senso bellicistico. La guerra c'era, la presenza russa e iraniana l'hanno resa fatale perché Assad è peggiore dell'immaginabile, e per necessità ambedue lo sostengono. Trump annuncia una reazione degli Usa e dei loro alleati contro un dittatore che oltre ad aver fatto fuori centinaia di migliaia di persone, ha fatto uso di un'arma abbietta, che non solo uccide, ma uccide fra tormenti anche bambini e neonati. Duma è stata «liberata» col gas, Assad e i suoi festeggiano per le strade la strage. Trump da presidente della più grande potenza mondiale, prende responsabilità dell'uso del gas. Contesta alla Russia il suo sostegno ad Assad, segnala la sua insofferenza per le alleanze strette con lui e critica la Turchia, che ha appena partecipato a un summit di spartizione.
Come ha scritto il famoso storico militare Victor Davis Hanson viviamo, per Trump, in due mondi: quello fattuale, e quello dell'ansia e delle fantasie zelote, come del resto tipico dell'antiamericanismo. Se si pensa a quel che è stato il mondo in questi anni, il conflitto lo domina: sei guerre mediorientali, 20 anni di terrorismo palestinese che si sviluppa in terrorismi di ogni genere fino alla guerra islamista dell'Isis, l'11 settembre, i genocidi del Rwanda, della Cambogia, dei Balcani, le minacce nucleari di Pakistan e Corea del Nord, la marea degli immigrati che ha distrutto i confini europei, la guerra russa in Ucraina e in Crimea. Trump si è trovato in un mondo terremotato, e ha agito: l'Isis è distrutto, la Nato è meglio finanziata, i sauditi stanno riformandosi, Israele è tornato un alleato. Il mondo non rischia affatto di prendere fuoco più che al tempo di Obama: semmai sia la Nord Corea sia l'Iran, i due Paesi più pericolosi, ci pensano due volte prima di giocare pesante.
Se Trump usa i suoi missili contro Assad, starà attento a evitare obiettivi russi. Quanto all'Iran, la variante israeliana gioca per suo conto: nel giorno della memoria della Shoah, Netanyahu ha ribadito che il popolo ebraico non accetta che un Paese che giura la sua distruzione sieda sui suoi confini e costruisca le sue strutture per la guerra. Anche Israele, se gli iraniani dovessero rispondere come promesso all'attacco all'aeroporto T4 in Siria, starà attento, agendo, a evitare i soldati russi di stanza in Siria. È difficile immaginare che Assad come Saddam Hussein nel '91 risponderà a un attacco americano colpendo Israele. Se dovesse accadere, Assad sa che ha concluso la sua carriera.
(il Giornale, 13 aprile 2018)
Il regime di Assad controlla Douma e Ghouta e sposta i suoi jet nelle basi russe
La polizia militare di Mosca si insedia nella città colpita dai gas. Le navi di Putin lasciano Tartus per timore di un attacco.
di Giordano Stabile
Le forze di Bashar al-Assad conquistano l'intera città di Douma e la polizia militare russa prende il controllo dell'area dove sabato 7 aprile c'è stato il sospetto attacco chimico, mentre gli ispettori dell'Opac sono in arrivo a Damasco e già domani potrebbero compiere le prime ispezioni. E' uno sviluppo che permette a Mosca di guadagnare tempo e agire sul piano diplomatico, riallacciare i contatti con gli Stati Uniti, sfruttare la mediazione turca di Recep Tayyip Erdogan, e intanto rafforzare la difesa attorno alla capitale siriana.
La giornata di ieri si è aperta con la resa dei combattenti di Jaysh al-Islam, che per 54 giorni hanno resistito all'offensiva denominata «Acciaio di Damasco». In un altro momento sarebbe stato il trionfo per Assad, perché la Ghouta orientale era l'ultima importante sacca di resistenza dei ribelli, difesa da almeno 15 mila miliziani trincerati alle porte delle capitale. Ieri mattina gli ultimi 2 mila combattenti, compreso il comandante Issam Buwaydani, hanno consegnato le armi pesanti alla polizia militare russa. Poi sono stati condotti ai pullman diretti, come al solito, verso la provincia di Idlib.
Ora tutta la zona interessata dall'attacco chimico è sorvegliata dai militari di Mosca che sostengono di aver condotto «ispezioni» assieme alla Mezzaluna rossa siriana. Ma per capire che cosa davvero è successo nella tarda serata di sabato scorso bisogna aspettare il lavoro degli ispettori dell'Opac, in arrivo nella capitale: tra oggi e domani potrebbero svolgere un primo sopralluogo. Anche l'Oms ha chiesto «immediato accesso» a Douma, anche perché ha raccolto una serie di testimonianze sul posto che riferiscono di 500 persone colpite da «agenti chimici», con 43 morti. I servizi americani avrebbero confermato che sono state trovate «tracce di cloro e agenti nervini» nel sangue delle vittime ma il dipartimento di Stato appoggia comunque l'indagine dell'Onu per «verificare».
Il sospetto attacco chimico ha messo in secondo piano il successo del regime. Assad ha rilasciato una intervista alla agenzia di Stato Sana, per spiegare come «alcuni Paesi occidentali alzano la voce e minacciano azioni appena raggiungiamo la vittoria sul campo». Il raiss ha poi visitato una scuola per smentire le voci su una sua «fuga» da Damasco. Resterà probabilmente nella capitale anche in caso di attacco. Forze siriane e russe hanno concentrato attorno al palazzo presidenziale uno scudo anti-aereo sempre più fitto, con 130 lanciatori di tutti i tipi - S-200, 300, 400 a lungo raggio e Pantsir S-1 a medio raggio - «in grado di lanciare 3600 missili in dieci minuti contro tutti i tipi di bersagli», cioè cacciabombardieri e missili da crociera Tomahawk.
I movimenti della Nato comunque allarmano Mosca. Nel caso di un massiccio dispiegamento di forze d'attacco il dispositivo russo, in fin dei conti limitato, finirebbe per soccombere. Tutti i jet siriani ancora efficienti sono stati concentrati nelle basi russe, meglio protette, e la Marina russa ha fatto uscire dal porto di Tartus le tre fregate, più altre otto navi, che erano ancorate ai moli fino a ieri. Sarebbero state bersagli troppo facili e ora invece, impegnate in manovre davanti alla costa siriana, possono ostacolare le mosse di Trump.
(La Stampa, 13 aprile 2018)
Quanto vale la vita di un civile palestinese?
Molto per Israele, pochissimo per Hamas. Per il resto del mondo, dipende da chi si può incolpare
Quanto vale la vita di un civile palestinese? Dipende a chi lo si chiede. Per Hamas, la via dei civili palestinesi è a buon mercato. Hamas usa spesso i civili palestinesi come scudi umani, come hanno riconosciuto persino le Nazioni Unite e come Hamas stessa ha ammesso in più di una occasione. Per Israele, la vita umana in generale ha un enorme valore, come dimostra la scrupolosità con cui protegge i propri civili e militari, sia arabi che ebrei. Israele attribuisce un alto valore anche alla vita dei civili palestinesi: sia per ragioni etiche, sia perché viene costantemente criminalizzato quando tali vite vengono perse in un conflitto, indipendentemente da chi abbia messo a rischio quelle vite e indipendentemente da quanto Israele abbia cercato di fare per risparmiarle....
(israele.net, 13 aprile 2018)
Israele- Polonia, tra i due presidenti scontro a Auschwitz
La legge sulla Shoah
di Andrea Tarquini
BERLINO - Durissimo scontro verbale tra i presidenti di Israele e Polonia sullo sfondo simbolico di Auschwitz, nella giornata del ricordo. I capi di Stato dei due Paesi, Reuven Rivlin e Andrzej Duda, erano i protagonisti della cerimonia. E il presidente venuto da Gerusalemme ha fermamente chiesto all'esecutivo polacco di ripensare la legge sulla Shoah (che punisce con pene fino a tre anni chi parli di partecipazione di polacchi all'Olocausto) di ripensare tutto a fondo. La Polonia deve avviare uno studio completo di quanto accadde allora, ha detto il presidente israeliano, aggiungendo: «Abbiamo un profondo rispetto per l'esame di coscienza compiuto dal popolo polacco ma anche un profondo disaccordo ci divide. Esigiamo che la Polonia si assuma la responsabilità di uno studio completo dell'Olocausto e degli eventi di allora». Duda ha risposto sulla difensiva: «Non abbiamo intenzione di bloccare le testimonianze dei superstiti, sappiamo che la macchina della morte nazista non avrebbe realizzato il suo piano tremendo senza trovare il suolo fertile dell'odio contro gli ebrei». Egli ha anche parlato di singoli cittadini polacchi che «meritano solo condanna» per come si comportarono. «Ma i campi di sterminio non erano polacchi».
(la Repubblica, 13 aprile 2018)
"Mia nonna Mireille Knoll è stata uccisa a Parigi, io sono comandante in Israele"
Da Parigi a Gerusalemme, la storia di Keren Brosh
di Giulio Meotti
ROMA - "Ma mère a été égorgée". Mia madre è stata sgozzata. Con queste parole terribili, rivolte alle telecamere di France 2, i figli di Mireille Knoll hanno confessato come è stata assassinata a Parigi due settimane fa l'anziana ebrea sopravvissuta alle retate naziste. E il Monde racconta gli ultimi giorni di questa pensionata costretta dal Parkinson a muoversi su una sedia a rotelle. Tutti conoscevano uno dei suoi due carnefici, Yacine M. La madre di Yacine venne a far visita a Mireille per supplicarne l'aiuto e ritirare una denuncia ai danni del figlio. Mireille scrisse al giudice per intercedere a nome del ragazzo che, un giorno, l'avrebbe uccisa soltanto perché ebrea. Ci vivono altri ebrei in quel palazzo. Al quinto piano c'è Felix Jastreb, che guida l'associazione dei 1.642 bambini ebrei deportati nell'undicesimo arrondissement. Gli ebrei dialogavano molto con i musulmani locali. Ma ogni settimana, il presidente della sinagoga di rue de la Roquette, Serge Benaim, vedeva le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza installate di fronte al palazzo, le scritte contro gli ebrei che dovevano essere cancellate sempre più spesso. La polizia quel giorno scopre Mireille a letto, il corpo carbonizzato e undici coltellate. "Non c'è traccia di difesa" dice la polizia. Yacine ha strangolato Mireille per quindici secondi prima di darle fuoco gridando "Allahu Akbar". Mentre le fiamme stavano ancora devastando l'appartamento della Knoll, Yacine e il suo compagno di classe Alex erano già scesi a bere qualcosa all'Avenue Café all'angolo.
La nipote di Mireille, Keren Brosh, ieri ha scritto su Yedioth Ahronoth, il più importante quotidiano israeliano, un lungo articolo per ricordare la nonna e raccontare la propria storia. "Quando vivevamo in Francia, con nonna Mireille camminavamo ai Giardini del Lussemburgo, compravamo un gelato - con la panna montata, poiché questo è l'unico modo per mangiare il gelato - andavamo a vedere film, spettacoli, musei. La nonna sapeva come vivere, amava vivere. Dopo che suo marito, nonno Kurt, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, è deceduto, ebbe relazioni con altri". Keren ha lasciato la Francia nel 1997 alla volta di Israele. "La mia sorella maggiore Noa fu prelevata a scuola. Mia madre sapeva che sarebbe arrivato prima o poi", l'antisemitismo. Un giorno la madre chiese a Keren, che aveva sette anni: "Ti piacerebbe trasferirti in Israele?". "Per me, Israele era una vacanza, la spiaggia, il sole, le pita che il nonno mi avrebbe fatto. Ma la realtà che ci aspettava non era facile. Non conoscevo l'ebraico, mi sentivo estranea, un giorno sono tornata a casa e ho detto a mia madre di fare le valigie e tornare in Francia". Keren non si arrese. "Mi sono unita all'esercito e sono diventata comandante di una unità dell'intelligence. Le mie esperienze da comandante mi hanno forgiato e mi hanno reso quello che sono oggi. Sono andata al corso di ufficiali e ho prestato servizio in diverse posizioni nell'esercito. Quest'anno, saranno dieci anni e sono ancora entusiasta di salutare la bandiera israeliana. Oggi servo come ufficiale nel corpo di intelligence. Per nonna Mireille, ero 'la nipote ufficiale'. Era così orgogliosa. Per lei, ero nella forza d'élite di Sayeret Matkal". Il corpo scelto d'Israele. "Nel 1942, da bambina, mia nonna fu salvata dalla deportazione e non fu mandata in un campo di sterminio. Sopravvisse all'Olocausto ma è stata uccisa a causa dell'antisemitismo. Provo a immaginare i suoi ultimi minuti, lo sguardo nei suoi occhi, la mancanza di comprensione di ciò che sta accadendo, mentre silenziosamente chiedeva perché. Con questa sensazione vado a dormire e mi sveglio".
Una storia rivelata in Israele il giorno di Yom HaShoah, la giornata del ricordo in cui il paese si ferma per due minuti al richiamo, pietrificante, delle sirene. Antisemitismo nelle strade di Francia. Antisemitismo di stato dall'Iran. Antisemitismo da Hamas al confine con Gaza. E quella nipote che indossa la divisa olivastra di Tsahal. Ieri Karen Brosh era alle commemorazioni ad Auschwitz con il presidente israeliano Reuven Rivlin. La miglior risposta all'antisemitismo.
(Il Foglio, 13 aprile 2018)
Israele si prepara alla guerra
L'allerta è altissima. Netanyahu vuole fermare l'Iran, ma teme Hezbollah in Libano
Israele oggi, 12 aprile ore 10, si è fermata. Un minuto di silenzio accompagnato da una lunga sirena per ricordare le vittime dell'Olocausto. Un suono fisso, penetrante, non l'allarme aereo ondulato che nelle ultime giornate sembrava possibile in un quadro mediorientale in rapido deterioramento. L'allerta è alta. E le forze armate israeliane pronte a colpire di nuovo in Siria contro l'Iran, ma anche contro il dittatore Assad. Ieri sera, a Yad Vashem il memoriale ai sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti e dai loro complici, il premier Netanyahu ha parlato del passato ma anche e soprattutto delle sue paure, tutte concentrate nel "pericolo Iran". Il premier indagato per corruzione e, per questo, in difficoltà non meno del suo "amico" Trump, non molla la presa. I militare di Tel Aviv, in genere cauti, fanno da battistrada. Israele, dicono, non può, non deve consentire all'Iran di stabilire una presenza militare articolata in Siria. I leader dell'antica Persia che con lo scià era uno dei maggiori alleati di Israele nel mondo oggi chiedono la distruzione di questo paese.
Negli ultimi anni per almeno 26 volte missili e caccia bombardieri con la stella di Davide hanno colpito le istallazioni degli alleati di Assad. Oggi Netanyahu e i suoi generali vorrebbero che fossero gli americani, accompagnati o meno da altri paesi dell'Alleanza atlantica, a eliminare ciò che considerano un pericolo. Il premier israeliano e i suoi consiglieri non temono Assad che come suo padre prima di lui per anni garantiva stabilità e relativa tranquillità nonostante uno stato di guerra tra i due paesi. Minacciano, ma non auspicano, la fine del suo regime. Al contrario, una Siria in rovine, fallito come stato, è troppo debole per costituire una minaccia seria a Israele. "Ho un messaggio per i leader dell'Iran: Non mettete alla prova Israele", ha ripetuto Netanyahu a Yad Vashem. Poco prima ne aveva parlato con il leader russo Putin. Israele non "permetterà il radicamento" dell'Iran in Siria. Dunque, "fermate Teheran". Come unica risposta: "Non agite per destabilizzare ulteriormente la situazione in Siria". Evitate nuovi bombardamenti. Lo stesso messaggio riservato alla Casa Bianca. Alla qualche chiede anche di denunciare l'accordo sul nucleare iraniano che, invece, non dispiace alla maggioranza dei militari israeliani.
Della pericolosità della situazione i due leader avevano parlato faccia a faccia poche settimane fa a Mosca. Tra Putin e Netanyahu sembra essere nato uno strano rapporto di amore-odio e il premier è stato chiaro sia per quanto concerne la presenza iraniana in Siria che per la situazione in Libano. Israele non "può tollerare l'ammassamento di armi da parte di Hezbollah" e soprattutto l'"allestimento di fabbriche che consentono ai terroristi" di costruire i missili in Libano. "Nell'ultimo conflitto abbiamo assistito a scene in cui la gente di Beirut faceva il bagno mentre i nostri cittadini a Tel Aviv erano chiusi nei rifugi" - ha ricordato da Tel Aviv il ministro della difesa Lieberman. "Nel prossimo tutta Beirut si dovrà rifugiare".
I tanti giocatori di questa grande partita mediorientale sono tutti consapevoli dei rischi. E anche se Netanyahu, premier dell'unica potenza nucleare regionale, alza la voce sa bene che il suo paese non uscirà indenne da un'eventuale guerra con l'Iran e i suoi alleati in Libano. L'Intelligence militare di Tel Aviv, senza fare dichiarazioni ufficiali, ricorda che l'Iran è a portata dei cacciabombardieri e dei missili israeliani e che difficilmente quelli iraniani potrebbero superare le difese israeliane. Sommergibili nucleari sono in navigazione sia nel Mediterraneo che nei pressi del Golfo arabo o persiano. Armi convenzionali e non. Per Israele, il pericolo vero, è costituito dall'arsenale di Hezbollah in Libano. Almeno centomila missili di ogni tipo capaci di colpire l'intera superficie di Israele e non soltanto le città settentrionali come Haifa.
(L'HuffPost, 12 aprile 2018)
«Perché il mondo civile tace come fece con l'Olocausto. E dopo, ci chiederete scusa?»
Il politico: Israele ha il diritto assoluto a proteggersi. In Europa: articoli indignati, discorsi magniloquenti, ma nessuno ha mosso un dito in sette anni.
di Yair Lapid
Scrivo queste parole alla vigilia del Giorno della memoria in Israele, che commemoriamo ogni anno una settimana prima della nostra Festa dell'Indipendenza. È una ricorrenza che mi tocca nel profondo dell'animo. Mio padre è sopravvissuto all'Olocausto, scampato miracolosamente dal ghetto di Budapest. Mio nonno fu ucciso nel campo di concentramento di Mauthausen in Austria. Mia nonna fu assassinata ad Auschwitz, in Polonia. Allo scoppio della guerra, vivevano tutti sotto lo stesso tetto di una casa tranquilla a Novi Sad, in Serbia, finché i nazisti, accompagnati dai fascisti ungheresi, li sparpagliarono per l'Europa e li massacrarono.
Fino all'ultimo, rimasero convinti che il mondo ancora sano di mente, il mondo civile, sarebbe intervenuto per liberarli; che almeno uno dei vicini di casa, i loro vecchi compagni di scuola, si sarebbe alzato per dire: «Basta! Mi rifiuto di restare a guardare mentre vengono trucidate persone innocenti!». Non è mai successo. Il mondo civile ha vinto la guerra, è vero, ma non facciamoci illusioni, non è sceso in guerra per metter fine al genocidio degli ebrei, bensì perché temeva le mire espansionistiche di Hitler.
Un anno prima di morire, nel 2007, mio padre pronunciò il discorso principale nel Giorno della Memoria dell'Olocausto. Disse: «Stasera, sei milioni di vittime ci parlano dalla tomba e ci dicono: non credevamo che potesse accadere. Ci siamo affidati alla bontà del prossimo. Eravamo certi che la follia avesse i suoi limiti. Ma quando ci siamo accorti di esserci ingannati, era già troppo tardi. Non fate come abbiamo fatto noi! Il mondo civile e illuminato ci consiglia di accettare compromessi e di assumerci anche notevoli rischi, se questo può servire alla pace. E nel Giorno della memoria noi chiediamo al mondo civile e illuminato: che succede se noi rischiamo la nostra vita e sacrifichiamo la nostra gente, e ci fidiamo di voi - e poi qualcosa va per il verso storto? E allora? Ci chiederete scusa, ci direte che vi siete sbagliati?».
Sono passati undici anni e quel messaggio è valido ancora oggi. In Siria si uccidono i bambini con le armi chimiche e in Europa si pubblicano articoli indignati, si fanno discorsi magniloquenti, ma nessuno ha mosso un dito negli ultimi sette anni. Mentre scrivo, non è ancora chiaro se, e fino a che punto, gli Stati Uniti reagiranno, ma anche quello sarà troppo poco e troppo tardi. Israele ha passato gli ultimi sette anni a mettere in atto iniziative umanitarie efficaci, di cui però si sa ben poco: noi andiamo a prendere i feriti in Siria, specie i bambini, e li curiamo nei nostri ospedali. Nello stesso momento a Gaza i capi di Hamas, un'organizzazione terroristica sanguinaria, si servono dei civili per tentare di far breccia in territorio israeliano e sferrare attacchi. È innegabilmente un doppio crimine. Contro Israele e contro la loro stessa popolazione. E su questo l'Europa non solo tace, ma anziché condannare gli aggressori, condanna gli aggrediti.
Perché l'Europa continua a tacere sulla Siria e a ignorare i fatti di Gaza? Il mondo sa che Assad, con il sostegno dell'Iran e di Hezbollah, non presterà ascolto alle sue ammonizioni. I valori occidentali e democratici sono per costoro fonte di ilarità. Israele, invece, prende molto sul serio il suo ruolo di unica democrazia occidentale in Medio Oriente. Noi sappiamo ascoltare.
Israele non è disposto a nessun compromesso sulla sua sicurezza: noi abbiamo il diritto assoluto a proteggere noi stessi. Se i nostri amici vogliono essere presi sul serio, dovranno prendere atto della reale situazione. Ma dovranno fare anche un'altra cosa: intervenire in Siria
(Corriere della Sera, 12 aprile 2018 - trad. Rita Baldassarre)
Damasco studia le contromosse: rapire soldati Usa e droni contro Israele
L'attacco potrebbe scatenare un nuovo conflitto tra lo Stato ebraico e Teheran. E il fronte sciita annuncia rappresaglie; non resteremo con le mani in mano.
9 aprile
La data del raid israeliano contro la base T4 in Siria nella quale Teheran custodiva una flotta di droni.
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5 metri
L'apertura alare del Mohajer, drone iraniano di ultima generazione individuato dai satelliti israeliani in territorio siriano.
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di Giordano Stabile
Americani e russi duellano a colpi di tweet e dichiarazioni ma la reazione ai raid americani potrebbe arrivare dall'Iran e trascinare la Siria in una guerra aperta con Israele, tanto che ieri Vladimir Putin ha chiesto a Netanyahu di «non intervenire». Le forze di Bashar al-Assad e i consiglieri iraniani hanno continuato i loro spostamenti verso le basi russe meglio protette. E sono proprio questi movimenti a dare le indicazioni sul duello fra le due superpotenze e fra i loro alleati regionali.
Oltre a essersi svuotati di aerei civili, i cieli siriani si sono svuotati anche di quelli militari. I jet e gli elicotteri d'assalto siriani sono stati spostati dalle basi nel centro del Paese a quelle russe vicino a Tartus e Lattakia. Mosca, e soprattutto Teheran, temono un'ondata di raid prolungata, in grado di annientare le forze aeree siriane e iraniane. Per questo l'ambasciatore russo in Libano, Alexander Zasypkin, ha avvertito ieri mattina sulla tv di Hezbollah Al-Manar che «se gli americani colpiscono, noi colpiremo le basi di lancio dei missili», navi e sottomarini.
I media vicini al regime, come Al-Masdar, riferiscono che sono arrivati nelle basi russe alcuni Su-35 dotati di missili antinave Kh35. Ma è il fronte sciita in questo momento che spinge più di Mosca per il confronto aperto. Dopo le minacce a Israele arrivate dal consigliere di Ali Khamenei, Ali Akhbar Velayati, ieri è toccato all'imam iracheno Moqtada al-Sadr, che ha avvertito: «Non resteremo con le mani in mano se i nostri luoghi santi in Siria saranno minacciati». Vicino a Damasco c'è il santuario di Sayyida Zeinab. La sua difesa è stata una delle ragioni, e neanche l'ultima, dell'intervento prima di Hezbollah e poi delle milizie sciite irachene. Le stesse milizie hanno già minacciato di rappresaglie i soldati americani in Iraq, e anche nel Nord-Est della Siria, in caso di attacco americano. Washington teme soprattutto agguati con mine improvvisate, imboscate, sequestri.
I soldati rapiti potrebbero essere usati come mezzo di pressione ma l'Iran ha altri strumenti di rappresaglia. In Siria, oltre a quattromila consiglieri dell'unità d'élite Al-Quds, ha trasferito una flotta di droni sempre più pericolosi. Erano l'obiettivo del raid israeliano di lunedì, sulla base T4. Nel bombardamento è morto anche il comandante, Hamed Rezaei. Rezaei aveva rafforzato il dispositivo in maniera impressionante. L'Intelligence israeliana, con l'aiuto dei satelliti, ha individuato nuovi velivoli, compresi il Mohajer, con un'apertura alare di 5 metri, e il Saegheh, capace di lanciare missili guidati.
Velayati, ieri in visita nella Ghouta orientale appena riconquistata, ha minacciato di vendicare il «crimine israeliano». Lo Stato ebraico lo ha preso sul serio, teme un blitz con i droni e ha reagito con estrema decisione. «Il regime di Assad e lui stesso spariranno dalle mappe se gli iraniani tenteranno di colpire Israele dal territorio siriano», hanno avvertito i vertici militari. «Non metteteci alla prova», ha aggiunto il premier. Putin ha chiamato Netanyahu e lo ha invitato a «non agire». Lo stesso raiss, secondo media arabi del Golfo, è in fuga verso un bunker segreto, anche se va detto che non ha mai lasciato Damasco, neppure quando i colpi di mortai dei ribelli cadevano accanto al palazzo presidenziale.
L'attacco americano potrebbe quindi innescare una sotto-guerra, condotta da Israele per smantellare la presenza iraniana e impedire che la Siria diventi la «base logistica» di Teheran. Anche perché il blitz è destinato a seppellire l'accordo sul nucleare firmato da Barack Obama e inviso a Donald Trump quanto a Netanyahu. Una nuova ondata di sanzioni, sperano gli israeliani, metterebbe in ginocchio l'economia iraniana, già scossa dai venti di guerra, con il rial, la moneta locale, che si è svalutata del 20%, e la gente che fa incetta di oro, dollari e persino Bitcoin.
(La Stampa, 12 aprile 2018)
Il mondo del fumetto racconta gli orrori dell'antisemitismo
Apre oggi al Museo Le Nuove la mostra "1938-2018" sulle leggi razziali
di Ada Treves
TORINO - «Gli autori di fumetti, spesso considerati rappresentanti di un'arte minore, quasi una ruota di scorta culturale rispetto ad altri media e altri linguaggi, sono invece molto sensibili e attenti» dice Roberto Genovesi, direttore artistico di «Cartoons on the Bay», e ideatore della mostra 1938-2018, «Ottant'anni dalle Leggi Razziali in Italia». Il mondo del fumetto ricorda l'orrore dell'antisemitismo.
Appuntamento centrale nel programma del festival internazionale della televisione per ragazzi e dell'animazione cross-mediale della Rai, che torna a Torino con un programma dedicato al rapporto tra musica e animazione, viene inaugurata oggi al Museo Le Nuove in un anno denso di anniversari importanti. Fra i 170 anni passati dalle lettere patenti con cui Carlo Alberto concesse i diritti civili prima ai valdesi e poi agli ebrei, e i settant'anni della Costituzione, c'è il ricordo delle Leggi razziste: «La risposta degli artisti - continua Genovesi - è stata eccellente, abbiamo ricevuto 155 tavole, tutte opere inedite, che vanno a comporre la più grande mostra collettiva su questo tema. Credo che sia un risultato importante. Peculiarità demoniaca del nazismo e del fascismo è stato anche il tentativo di giustificare uno sterminio non per conquistare risorse economiche o spazio vitale ma per liberarsi della presenza di esseri umani considerati inferiori. La persecuzione del popolo ebraico è stata un atto anche antropologicamente velenoso, inconcepibile, che in Italia si nutrì del consenso popolare, nella più totale indifferenza». Pensata per evitare che il ricordo si affievolisca, la mostra è stata costruita con il contributo di grandi autori del fumetto italiano: si va da Bruno Bozzetto, il maestro dell'animazione italiana che in questa edizione verrà inserito nella Hall of Fame di Cartoons on the Bay, a Mauro Biani, da Giorgio Cavazzano a Cinzia Leone e Tuono Pettinato. Pensata anche come un modo per parlare ai giovani con un linguaggio immediato e di sicura efficacia, si integra con un percorso didattico rivolto alle scuole primarie e secondarie, che coinvolge le scuole specializzate di animazione e fumetto anche grazie alla collaborazione con l'Arf! festival, coinvolto da Genovesi per «contagiare» di fumetto il festival italiano dell'animazione.
Il programma
Per Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica torinese che ha conferito il suo patrocinio alla mostra: «È un'iniziativa certamente interessante e originale, un modo un po' diverso di richiamare l'attenzione sulle Leggi razziali, sulle quali tra l'altro nei prossimi mesi verrà avviato un sostanzioso programma di attività che vede impegnati, insieme alla Comunità, il Polo del 900 e l'Università di Torino. Vogliamo portare le istituzioni pubbliche e private a mettere a disposizione di tutti la documentazione in loro possesso su come sono state applicate le leggi razziali nell'ambito della loro realtà. È importante che ognuno faccia finalmente i conti con un passato che finora è stato spesso rimosso e negato, o comunque presentato in forma edulcorata». La mostra ha il patronato della Presidenza del Consiglio, che l'ha inserita nelle sue iniziative ufficiali e Mario Uzzeo, di Arf! Festival ha dichiarato: «É una collettiva che ci ricorda che non bisogna mai abbassare la guardia verso quei fascismi che tendono a trovare terreno fertile nelle menti di chi dimentica».
(La Stampa - Torino, 12 aprile 2018)
L'avanzata strategica di Israele nei Balcani
di Chiara Clausi
Le relazioni tra Israele e i Balcani si fanno sempre più strette. Entro quest'anno lo Stato ebraico punta a concludere un accordo per vendere aerei da combattimento F-16 in Croazia, mentre in Macedonia è presente una società israeliana che sta addestrando piloti di elicotteri militari. E già nel 2016 la cooperazione fra intelligence aveva sventato un attacco durante la partita di calcio Israele -Albania. I Paesi balcanici ricevono informazioni da parte di Israele sui loro jihadisti di ritorno dalla Siria. Ma i rapporti non sono limitati alla sicurezza. Il numero di turisti israeliani (per lo più diretti a Belgrado per lunghi fine settimana) nel 2017 è aumentato del 171 per cento rispetto al 2016, in parte perché non sono più propensi ad andare in Turchia. I leader di Macedonia, Serbia, Bosnia ed Erzegovina e Albania sono stati tutti in visita ufficiale in Israele. E il Kosovo ha fatto pressioni affinché lo Stato ebraico riconoscesse la sua indipendenza. Per Eliezer Papo dell'Università Ben Gurion, molti leader dei Balcani occidentali considerano i loro Paesi come Israele: «Circondati dai nemici, ma determinati comunque a prosperare».
«Gli israeliani hanno investito quasi 1,8 miliardi di euro in Serbia dal 2000)) scrive The Economist. «E i loro consulenti politici sono spesso assunti per consigliare i partiti della regione durante le elezioni». Il sito Balkan Insigh: riporta l'importante partnership tra Albania e Israele. Già nel 2015 il premier di Tirana Edi Rama, in visita a Gerusalemme, diceva che «l'Albania è pronta a collaborare con il suo alleato Israele per contribuire alla sicurezza del Paese». L'accordo aveva anche espresso la volontà di cooperare in vari settori: «energia, agricoltura, gestione delle acque, turismo e cultura».
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IL PARERE DI EFRAIM INBAR
Direttore del Begin-Sadat Center for Strategie Studies di Ramat Gan (Israele).
Le relazioni tra Israele e Paesi balcanici sono buone. Lo Stato ebraico ha con essi rapporti commerciali e collabora per porre argine all'influenza nella regione di Turchia e Iran. Altro terreno di cooperazione è la lotta all'immigrazione e alle infiltrazioni di militanti islamici. Anche con la Grecia ci sono ottime relazioni: il premier Benjamin Netanyahu l'ha visitata meno di un anno fa. Israele compie regolarmente esercitazioni militari sul suo territorio. Lo Stato ebraico, come i Balcani, non vivono una situazione idilliaca e devono affrontare sfide strategiche. Peraltro il Mediterraneo orientale è essenziale per l'economia israeliana: il 90 per cento del traffico commerciale proviene da tali Paesi. Fondamentale è la collaborazione in tema di sicurezza.
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(Panorama, 12 aprile 2018)
Colloquio telefonico Putin-Netanyahu: focus su un possibile intervento militare nel paese
MOSCA - Israele non attacchi la Siria, evitando azioni in grado di destabilizzare il paese e la regione. È questa la richiesta avanzata dal presidente russo, Vladimir Putin, al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in un colloquio telefonico avvenuto nella giornata di oggi. Secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa russa "Sputnik", la conversazione tra Putin e Netanyahu ha riguardato gli sviluppi più recenti in Siria. In particolare, il presidente russo e il premier israeliano hanno discusso dell'attacco missilistico contro la base dell'aeronautica siriana T-4 a Tiyas, nella provincia di Homs, avvenuto il 9 aprile scorso. Questa è la principale installazione dell'aeronautica siriana nel governatorato di Homs, circa 150 chilometri a nord-est di Damasco. Secondo Russia e Siria, il raid sarebbe stato condotto da caccia di Israele. Tuttavia, le autorità dello Stato ebraico non hanno ancora commentato l'incursione su Tiyas.
Il colloquio tra Putin e Netanyahu assume particolare rilevanza alla luce degli ultimi sviluppi in Siria e dello storico legame tra Israele e gli Stati Uniti. Appare, infatti, sempre più probabile un'operazione militare guidata dagli Usa contro il governo siriano, che gli Stati Uniti considerano responsabile del presunto attacco chimico su Douma. Tra il 7 e l'8 aprile scorso, la località, in piccola parte controllata dall'opposizione nell'area di al Ghouta a est di Damasco, è stata colpita da armi chimiche. Il presunto attacco chimico ha causato più di 70 morti e oltre 1.000 feriti tra gli abitanti di Douma.
(Agenzia Nova, 11 aprile 2018)
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Lieberman dichiara che Israele non accetterà il predominio dell'Iran in Siria
GERUSALEMME - Israele non accetterà il predominio dell'Iran nella regione. Lo ha affermato ieri il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, intervenendo sulla questione del presunto bombardamento di Gerusalemme sulla base siriana T-4 all'alba di lunedì mattina, 9 aprile. Lo riferisce il quotidiano "Times of Israel", sottolineando che Lieberman sembra aver indirettamente chiesto alla Russia di impedire un incremento della presenza dell'Iran nella regione. "So per certo una cosa: non permetteremo il trinceramento dell'Iran in Siria", ha affermato. "Non abbiamo altra scelta", ha aggiunto Lieberman, affermando che "accettare il radicamento iraniano in Siria significherebbe accettare che l'Iran ci sta mettendo un cappio al collo. Non possiamo permetterlo". Per quanto riguarda il presunto attacco contro la base T-4 di cui Mosca e Damasco hanno accusato Gerusalemme, Lieberman ha "mantenuto la posizione ufficiale di ambiguità" sottolinea "Times of Israel". "Non so cosa sia successo o chi abbia attaccato la base T-4", ha affermato Lieberman.
Funzionari israeliani hanno ripetutamente messo in guardia contro le attività destabilizzanti dell'Iran in Siria e hanno definito la presenza permanente nel paese arabo come una "linea rossa" contro cui Gerusalemme è pronta ad agire militarmente. La preoccupazione di Israele è che l'Iran ed il movimento libanese Hezbollah usi il confine siriano per minacciare Israele e compiere attacchi contro civili e truppe israeliane. Pur non citando un paese in particolare, che sembrerebbe essere la Russia, Lieberman ha indicato chi potrebbe arginare la presenza iraniana in Siria e nella regione. "Ci sono quelli che sono in grado di impedire (il radicamento iraniano) senza l'uso della forza militare, e spero che quelle figure agiscano (e) facciano la cosa giusta in loro potere per impedire il radicamento dell'Iran senza scontri inutili", ha detto Lieberman. La Russia, il principale intermediario nella regione, è infatti alleata del presidente siriano, Bashar Assad, dell'Iran e di Hezbollah nella guerra civile siriana. Infine, riferendosi al possibile ritiro dalla Siria delle truppe statunitensi, Lieberman ha detto che gli Stati Uniti "hanno i propri interessi e le proprie politiche, e rispetteremo ogni decisione che deriverà dalla Casa Bianca".
(Agenzia Nova, 11 aprile 2018)
Israele, le radici nello studio
di Rav Roberto Della Rocca
La nascita dello Stato di Israele avvenuta 70 anni fa ha radicalmente cambiato la coscienza e la percezione che gli ebrei hanno avuto di sé e della relazione con il resto del mondo per molti secoli.
Lo Stato ebraico è stato il prodotto di un movimento di pensiero ebraico, minoritario e spesso contrastato, che costituisce ancora una grande sfida intellettuale, sociale e religiosa per l'intero ebraismo sviluppatosi nel corso dei secoli come realtà diasporica.
L'esistenza di uno Stato ebraico non costituisce una sfida solo per la Diaspora, costretta a ridefinire ogni giorno la propria ragione d'essere. Il fatto di avere uno Stato costringe gli ebrei, in particolare quelli israeliani, a confrontarsi con l'intera vicenda storica e identitaria dell'ebraismo.
Queste nuove prospettive indicano che il programma sionistico non significa la fine, ma l'inizio di nuove sfide e interrogativi per il pensiero ebraico.
In che modo è vissuto oggi lo Stato dalle diverse correnti religiose?
Qual è il messaggio rivolto all'oggi, con il ritorno del popolo ebraico in Eretz Israel dopo tanti secoli di diaspora? La fondazione dello Stato costituisce per tutti l'inizio della Redenzione?
Lo Stato di Israele è definito nelle nostre preghiere "l'inizio del germoglio della nostra redenzione". Ciò che da altri popoli verrebbe vissuto soltanto come una entità politica, per il popolo ebraico ha assunto connotazioni e significati più complessi. La distinzione netta tra i momenti laici e i momenti religiosi è una lettura della realtà estranea alla Tradizione ebraica per la quale non esiste una dicotomia tra il "hol" (laico) e il "kodesh" (sacro). Si tratta, dal punto di vista della Tradizione, del riconoscimento della miracolosa sopravvivenza ebraica e della realizzazione di quello che era stato il sogno di decine di generazioni.
In questa direzione gli interrogativi si allargano: chi è l'ebreo diasporico oggi? E il rifondarsi dell'ebraismo come nazione-Stato attraverso la realizzazione politica del sionismo ne accentua il carattere particolaristico o universalistico? Israele è oggi Stato ebraico, Stato degli ebrei o Stato degli israeliani? L'evento stesso della rinascita di Israele come Stato costituisce una sfida all'ebraismo, composto non solo da fede e valori comuni, ma anche da un sistema normativo - la Halakha - che si è articolato nei secoli sulla prospettiva che vedeva il popolo ebraico come incapace di fatto di assumere funzioni socio-politiche indipendenti.
L'establishment e i vari circoli israeliani e diasporici hanno saputo far fronte a questa sfida, elaborando, in assenza di un pensiero politico tradizionale, modelli nuovi e funzionali? Il rapporto tra politica e religione, tra Stato e Halakhà, tra democrazia ed etica ebraica attraversa l'identità non solo di Israele, ma di tutto il popolo ebraico, in Eretz Israel e nella diaspora. Oggi, sempre più, gli unici protagonisti della discussione interna e forse i soli vettori dell'identità ebraica sono, ahimè, tematiche come la celebrazione della Shoah e una certa ostentazione retorica dello Stato di Israele.
Sicuramente due temi forti, importanti, che non lasciano indifferente nessun ebreo, che fanno leva sui sentimenti e il vissuto di ognuno di noi. La Shoah è il dolore della memoria, è la paura del suo ritorno, ma è anche un tema che troppo spesso contribuisce a lavare le coscienze di coloro che ritrovano il loro ebraismo solo pochi giorni all'anno, di quelli che si commuovono per ciò che è stato, dimenticandosi del corpo vivo dell'ebraismo, di tutto ciò che ancora l'ebraismo "è", qui e ora. Finendo così per consegnare la responsabilità di una vita ebraica "militante" e attiva a mani altrui, visto che è molto più difficile costruire una vita ebraica giorno dopo giorno che non rimpiangere ciò che altri hanno tentato di distruggere.
E che dire di Israele? Un sogno per tutti, certo. Una speranza e una realtà, ovviamente. Una contraddizione. Ma anche una spada per coloro che lo trasformano in un'arma a sostegno di battaglie ideologiche e strumentali. Troppi di noi hanno costruito proprio dietro a questi temi una identità ebraica povera, senza preoccuparsi di capire e di studiare, senza consapevolezza, senza umiltà. Finendo così per generare una identità fragile e fratturata, facilmente sovrastabile dal contesto circostante che con la forza di uno tsunami può annullarla. Il nostro approccio allo Stato di Israele, come all'ebraismo in generale, è per molti un approccio di natura letteraria, romanzesca, alla propria identità, che genera una visione della vita ebraica quasi fosse una realtà virtuale, una gloria del passato. Dobbiamo iniziare a sviluppare una visione dell'identità ebraica attuale e autonoma, una concezione qualitativa, che sostituisca quella caratterizzata da etichette preconfezionate.
Mi spiace, ma non bastano cerimonie commemorative, un viaggio ad Auschwitz, una testimonianza, per sentirsi ebrei. Non basta inneggiare ad Israele senza sforzarsi di conoscerne la storia, la lingua, la cultura, la letteratura, i dibattiti, le yeshivòt, i kibuzzim, i mercati. Non basta parlare a vuoto di sostegno a Israele, come se fosse una coppa riposta in una bacheca, come fosse un trofeo impolverato da sbandierare quando ormai, da ebrei in via di assimilazione, ci ricordiamo distrattamente chi siamo e da dove veniamo. Queste sono scorciatoie identitarie, un pret-a-porter ebraico facile da indossare e a poco prezzo. Affinché l'amore e il legame con lo Stato di Israele sia considerato importante nella vita dei nostri figli, esso deve comprendere una sincera dimensione di contenuti maturi e non rimanere a un livello infantile.
Dobbiamo pertanto continuare ad affrontare questi delicati argomenti come temi di studio e di approfondimento, con contributi di grandi autorità ed esperti del campo, per poter affrontare, con cognizione di causa e con maggiore consapevolezza, dibattiti e discussioni.
Quando si interpretano eventi, sia piccoli che straordinari come la nascita e l'esistenza dello Stato di Israele, in un'ottica sovrannaturale che ha significati che trascendono le leggi della storia, a noi uomini non è consentito restare immobili. Lo Stato di Israele ci ripropone quell'incessante dialettica che accompagna il destino del popolo ebraico dove la storia si incontra con lo spirito, l'immanente con il trascendente e il tempo delle lacrime con il tempo delle risa.
(Pagine Ebraiche, aprile 2018)
L'algoritmo dello zucchero ne predice gli effetti sul nostro organismo
Messo a punto da Eran Segal del Dipartimento di Computer Science e matematica applicata del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele: «La nostra ricerca ha dimostrato la necessità di personalizzare la nutrizione, certificando come gli individui abbiano una differente risposta all'assunzione di glucosio nel cibo».
di Giovanni Caprara
La nutrizione sta diventando una scienza sempre più vasta, articolata e importante sul fronte della nostra salute. Sino ad arrivare a indagare come i cibi possono influenzare il nostro codice della vita, cioè il Dna: da qui è nata la nutrigenomica. Ma nel panorama delle ricerche acquistano sempre più peso discipline apparentemente lontane come la matematica, la computer science e altre, dimostrando quanto possa essere efficace l'interazione fra tante conoscenze nell'aiutarci a decifrare il bene e il male di quello che mettiamo nel piatto, indicandoci quindi le vie migliori da seguire. Otto grandi specialisti internazionali provenienti da cinque Paesi impegnati su questa complessa e affascinante frontiera animano il Forum "La nuova era della nutrizione: dai meccanismi molecolari alla salute umana" organizzato dalla Fondazione Ibsa con l'Istituto Europeo di Oncologia presso il Campus Ifom-Ieo di Milano.
Personalizzare la nutrizione
Una delle indagini più interessanti che hanno portato a un risultato presentato al Forum riguarda la realizzazione dell'algoritmo dello zucchero attraverso, il quale si può cogliere l'effetto nel nostro organismo generato da questa sostanza sempre più indicata come un rischio, se non un veleno, per il nostro benessere. Il protagonista di questo risultato, giudicato prezioso come strumento di valutazione, è Eran Segal del Dipartimento di Computer Science e matematica applicata del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele. «La nostra ricerca - spiega Segal - ha dimostrato la necessità di personalizzare la nutrizione, certificando come gli individui abbiano una differente risposta all'assunzione di glucosio nel cibo. Per misurarla abbiamo messo a punto un algoritmo che utilizza dati clinici e informazioni riguardanti il microbioma, riuscendo a predire la risposta individuale al glucosio. Nei nostri studi abbiamo dimostrato che il consumo di dolcificanti artificiali può alterare la composizione del microbioma e, negli esperimenti condotti, si è visto come possa indurre una intolleranza al glucosio favorendo lo sviluppo del diabete. Questo algoritmo - aggiunge Segal - è ora disponibile e crediamo che tutti ne possano beneficiare».
Nutrizione, salute e microbi
Nel gruppo dello scienziato israeliano ci sono esperti di biologica computazionale, intelligenza artificiale e modelli probabilistici: insieme analizzano ed elaborano le grandissime quantità di dati clinici che la tecnologia consente di raccogliere. La ricerca del gruppo si concentra in particolare sullo sviluppo di modelli quantitativi per tutti i livelli di regolazione genica e sullo studio delle relazioni tra nutrizione, salute e microbi intestinali negli individui. «Il nostro obiettivo - aggiunge Segal - è identificare gli elementi che possono innescare le malattie, cercando di capire come modificare il microbioma per migliorare la salute. Ci sono ancora molte sfide: ad esempio conoscere la via da seguire per colonizzare, con specifici batteri, persone diverse, scoprendo quelli più appropriati per ogni persona. E in questa sfida anche l'algoritmo dello zucchero è importante».
Gli ospiti del Forum
Benessere, invecchiamento e malattie sono i tre elementi ai quali la ricerca guarda, andando a caccia dei fili che li uniscono e che il Forum condotto da Pier Giuseppe Pelicci, direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale dello Ieo, esplora partendo dalla nutrizione. Tra gli esperti internazionali protagonisti del Forum ci sono Rafael de Cabo del National Institute on Aging di Baltimora (Usa), che indaga gli effetti dei cibi sui processi dell'invecchiamento; Satchidananda Panda del Salk Institute - Regulatory Biology Laboratory di La Jolla in California, esperto di metabolismo e impegnato a studiare, tra le altre cose, come utilizzare gli smartphone per valutare l'estensione del disturbo circadiano tra gli adulti; Miguel Ruiz-Canela dell'Università di Navarra (Spagna), specialista nel campo degli effetti della nutrizione su varie malattie croniche, in particolare patologie cardiovascolari, obesità e depressione.
(Corriere della Sera, 11 aprile 2018)
Maxim Vengerov a Milano il 10 aprile e l'11 a Torino
Torna uno dei più grandi violinisti di tutti i tempi
di Fiona Diwan
Il suo leggendario Stradivari del 1727 vola ed è come fosse un pezzo del suo corpo, un'estensione sensibile e vibratile che ondeggia e si flette come il ramo vivo di un giunco. Dopo un fermo di anni (dal 2007) e un intervento chirurgico alla spalla, la sua agilità e virtuosismo lasciano sbalorditi. Più grande di prima, se può essere possibile, Maxim Vengerov, è puro miracolo, una magia ritrovata dopo l'abbandono temporaneo del violino, il lungo periodo sabbatico, la stanchezza di anni di viaggi da stacanovista dell'archetto. Nato in Siberia nel 1974, precisamente a Novosibirsk, è stato il violino «numero uno» al mondo. Figlio di musicisti, enfant prodige e una carriera folgorante da super-virtuoso con le orchestre top, debuttò alla Scala a 17 anni con Giulini nel Concerto di Mendelssohn, fino al «duetto» con Kavakos per l'Istituto Negri-Weizman nel 2006.
Emigrato in Israele nel 1990, una famiglia tutta di musicisti (il padre continuerà a suonare l'oboe anche in Israele), Maxim completa i suoi studi alla Jerusalem Academy of Music e dopo la bagrut va alla Tzavà, arruolandosi nell'esercito israeliano. «Israele è nei miei geni, è parte di me, il mio cuore e la mia anima appartengono a Israele. La mia famiglia emigrò quando avevo 16 anni, con la prima grande ondata migratoria dalla Russia, dopo la caduta del Muro di Berlino. Avevamo bisogno di un senso di speranza e grazie a Dio c'era - e c'è - questo Paese, un luogo con cui mi sono sentito subito in sintonia», ha dichiarato Vengerov in un'intervista a Times of Israel. «E' difficile spiegare alla gente cosa questo significhi: tu cerchi di chiarirlo ma è inutile. Sebbene io oggi non viva in Israele per via del mio lavoro, io sento tuttavia che questa è la mia gente e un giorno la speranza è che io possa vivere qui la mia vita e costruire qui la mia casa».
Seguendo le orme dei suoi maestri Rostropovich e Barenboim, Vengerov studia direzione d'orchestra e negli ultimi anni - a causa del fermo forzato del problema alla spalla- si esibisce anche come direttore con le principali orchestre, tra cui Berliner Philharmoniker, New York Philharmonic, London Symphony Orchestra, BBC Symphony Orchestra, Orchestra del Teatro Mariinskij, Chicago Symphony Orchestra. «Suonare non mi stancherà mai, - ha dichiarato in numerose interviste - dato che il violino è la mia lingua madre. Solo che il perimetro della musica non si esaurisce nei pochi centimetri di uno strumento ad arco o nella solitudine di una recital. Ho voluto seguire le orme di Rostropovich, il mio padre musicale, colui che mi fatto diventare adulto dischiudendomi lo scrigno della sua saggezza».
E il 10 aprile questo concerto a Milano. Quattro bis, il Teatro Dal Verme gremito, standing ovation ripetuta per il musicista assente da Milano da 12 anni. Un exploit commovente, quello del concerto del 10 aprile per le Serate musicali, insieme con la pianista Polina Osetinskaya. Il grande solista ha sedotto il Dal Verme con le Sonate op. 78 e op. 108 di Brahms, un Brahms dal respiro ampio e interiore, prima di volare nel vortice scintillante dei Palpiti di Paganini, un fuoco d'artificio di sovracuti. E infine, una pioggia di applausi per la generosità dei quattro bis: un Kreisler sublime con Caprice Viennois e Tambourin Chinois, ancora la Danza Ungherese n. 2 di Brahms, e infine una soave e celestiale Méditation da Thais di Massenet. Non a caso il Washington Post ha scritto recentemente di lui: «Vengerov suona con una facilità così innata che la difficoltà dei brani eseguiti non si registra davvero come tale. La sua tecnica prodigiosa è accompagnata da una grande dose di cuore. Non c'è niente di cerebrale nel suo approccio; piuttosto egli sembra comprendere istintivamente la musica e la porge con calore».
(Bet Magazine Mosaico, 11 aprile 2018)
Allarme Iran, Israele pronto alla reazione
I vertici militari israeliani intendono fermare a tutti i costi la presenza iraniana in Siria e preparano i piani per un'azione offensiva. La decisione spetta ora alla politica, dopo che tutti i responsabili degli apparati di sicurezza dello Stato ebraico si sono trovati d'accordo sulla necessità di impedire che le forze sciite controllate da Teheran si avvicinino troppo al confine con Israele. Lo scrive Haaretz, ricostruendo le discussioni e le analisi in corso in questi giorni, soprattutto dopo il vertice di Ankara della scorsa settimana tra Russia, Iran e Turchia sulla situazione in Siria.
Il vertice ha sollevato grande preoccupazione in Israele, dove l'impressione è che Mosca stia sostenendo le continue azioni militari iraniane in Siria, anche se queste comportano un pericoloso avvicinamento al confine con lo Stato ebraico. Del resto, ricorda Haaretz, sia il ministro della Difesa Avigdor Lieberman che il capo di stato maggiore Gadi Eisenkot hanno più volte affermato negli ultimi mesi che Israele è pronto ad agire per difendersi dalla aumentata presenza militare iraniana in Siria.
(Il Mattino, 11 aprile 2018)
Trump colpisce Assad, ma in Siria non ha alleati
Lettere ad Aldo Cazzullo
Caro Aldo,
se gli Stati Uniti intervengono in Siria dopo l'ultimo attacco chimico a Douma, non si peggiora ulteriormente la drammatica situazione dei civili?
Dario Scala
Da giorni si parla di un possibile attacco degli Stati Uniti in Siria. Ma un attacco potrà davvero fermare il regime di Damasco? O l'ombrello di forze internazionali a difesa di Assad è ormai troppo ampio e resistente?
Carla Stefani
Pochi giorni fa il presidente francese aveva promesso impegno nella difesa dei curdi, in Siria. Nulla però sembra muoversi. Che cosa potrebbe cambiare, davvero, con un attacco aereo Usa?
Dario Conti
Cari lettori,
la risposta di Trump all'attacco chimico di Assad potrà anche essere terribile; e forse anche doverosa, considerato il crimine contro l'umanità commesso in Siria. Ma c'è un problema strategico irresolubile. Gli americani possono anche colpire Assad e danneggiarlo. Ma non hanno sul terreno amici da appoggiare. Perché contro il dittatore siriano ci sono le milizie islamiche.
L'Occidente in Siria non ha alleati. Assiste impotente a una serie di guerre per procura. I russi sono intervenuti a puntellare un regime amico e a rivendicare un ruolo nel Medio Oriente sguarnito da Obama e da Trump. Gli iraniani collaborano con Assad e con i russi, lungo un asse sciita che da Teheran passando per Damasco conduce alla Beirut degli Hezbollah e alla Gaza di Hamas. Israele colpisce le milizie filo-iraniane, legittimamente preoccupato di avere gli ayatollah sul suo confine orientale. La Turchia, dopo aver sostenuto di fatto l'Isis, perseguita gli eroici combattenti curdi che l'Isis l'hanno sconfitto. (Poi ci sono i sauditi, che appoggiano le milizie sunnite e nell'altra guerra civile infinita, in Yemen, combattono i ribelli sciiti sostenuti dall'Iran). Ognuno insomma in Siria ha i propri amici. Tranne Trump e l'Europa. Ci sarebbero i curdi da proteggere; ma la Turchia è un Paese strategicamente troppo importante per andarle contro, e poi fa parte della Nato, e trattiene l'ondata di profughi che si riverserebbe sulle coste greche. Un rebus senza soluzioni. E dopo sette anni di guerra le sofferenze della popolazione siriana sono ormai indicibili.
(Corriere della Sera, 11 aprile 2018)
Israele elogia il suo cecchino
Polemiche su un video in cui alcuni soldati esultano quando un tiratore scelto abbatte un arabo.
di Andrea Morigi
Alla frontiera fra Israele e la Striscia di Gaza, presso il valico di Kissufim, il 22 dicembre scorso, un gruppo di manifestanti palestinesi si avvicinano alla recinzione che divide i due territori e la prende a calci, nel tentativo di sfondarla per entrare illegalmente nello Stato ebraico. A quel punto, «dopo aver tentato di disperdere i rivoltosi, un colpo è stato tirato in direzione di un palestinese noto per essere il loro leader», spiega l'esercito israeliano.
L'episodio non avrebbe ottenuto gli onori della cronaca se non fosse stato ripreso con una telecamera e successivamente diffuso sul web da un commilitone del tiratore scelto, suscitando furiose polemiche. Nel video si vede un uomo palestinese, oltre la barriera di separazione, che si accascia a terra in seguito a uno sparo, nell'esultanza dei militari: «L'hai filmato? Che video! Qualcuno è stato colpito alla testa», dicono alcune voci fuori-camera, aggiungendo: «Evvai! Figlio di
».
Una rivolta violenta
In realtà, «il video mostra solo una parte della risposta a una rivolta violenta, durata almeno due ore, con lanci di sassi e tentativi di sabotare la barriera di sicurezza», ha dichiarato l'esercito. I soldati avrebbero cercato di sedare degli scontri, con avvertimenti verbali e richiami a fermarsi, sparando in aria e usando mezzi di dispersione antisommossa. I richiami all'ordine non sarebbero stati ascoltati e «una singola pallottola è stata sparata contro un palestinese, che si trovava a pochi metri dalla recinzione, sospettato di stare capeggiando la sommossa», ha aggiunto l'esercito, secondo il quale, comunque, il bersaglio è stato soltanto ferito a una gamba e non è affatto deceduto, contrariamente a quanto sembra suggerire la parte avversa.
Intanto le forze armate israeliane hanno annunciato un'inchiesta, perché le riprese non erano autorizzate e «ciò non corrisponde al comportamento corretto che ci si aspetta da un soldato israeliano. Gli autori saranno trattati di conseguenza».
L'Olp chiede un'inchiesta
Per l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, si renderebbe invece necessaria l'apertura di un'inchiesta immediata da parte della Corte penale internazionale sui presunti crimini di guerra commessi dalle forze israeliane. Ma il ministro alla Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, elogia il cecchino. che, a suo avviso «dovrebbe ricevere una medaglia».
Da due settimane, sul confine della Striscia di Gaza, l'esercito israeliano ha sparato sui dimostranti palestinesi, uccidendone oltre 30 e ferendone centinaia. Il 30 marzo gli abitanti dell'enclave governata dai terroristi di Hamas hanno iniziato la Marcia del ritorno, con cui ogni venerdì fino al 15 maggio manifesteranno per chiedere il ritorno dei profughi palestinesi nei territori che attualmente fanno parte dello Stato di Israele.
(Libero, 11 aprile 2018)
Il cecchinaggio dei media su Israele
Un video da Gaza e la tragica forza morale di un paese che processa se stesso
Ieri il video amatoriale che mostra un cecchino israeliano che spara a un palestinese nella Striscia di Gaza ha fatto il giro di tutti i siti che contano (la Repubblica lo aveva in apertura). Nel filmato, ripreso attraverso il mirino del fucile di precisione di un commilitone, si vede un uomo avvicinarsi alla barriera che separa l'enclave da Israele. Poi il comandante dà l'ordine di aprire il fuoco e il cecchino aspetta per la presenza di un bambino. Infine spara e il palestinese, ferito alla gamba, si accascia a terra. Seguono le parole dei soldati: "Wow, che video!", "qualcuno è stato colpito in testa", "un video leggendario", "è volato in aria". L'esercito ha confermato l'autenticità del video e ha aperto un'inchiesta. Un'inchiesta, appunto. Israele ha un esercito sottoposto a una tensione senza eguali fra i paesi democratici e civili, assediato a Gaza come sul Golan, costretto in una notte a bombardare postazioni di Hamas a sud e degli iraniani a nord. Eppure, Israele ha la forza di processare se stesso, come tante volte è già successo prima, con una stampa agguerrita che non ne fa passare una ai vertici militari e politici.
L'esercito israeliano non è composto da angeli, ma da esseri umani, è un esercito popolare, fatto dalla sua gente, gente che commette errori, ma che deve adempiere a un mandato morale anche in guerra. Ma questo non emerge dai titoli sparati dei media. Una strage chimica in Siria. Un cecchino israeliano a Gaza. Tutto si equivale.
(Il Foglio, 11 aprile 2018)
E' in gioco l'esistenza di Israele
di Mirjam Rosenstein
Fino al 15 maggio gli organizzatori della "Marcia del ritorno" vogliono assediare il confine con Israele, con sempre crescenti folle (i leader parlano di "milioni") da Gaza, ma anche dalla Cisgiordania. Il loro obiettivo dichiarato è il "ritorno" di cinque milioni di palestinesi nel territorio israeliano da loro rivendicato entro i confini del 1949.
Questa "Marcia del ritorno" porta con sé, a più livelli, un'enorme potenzialità esplosiva per la situazione in Medio Oriente. Nel suo obiettivo, la soluzione dei due Stati è definitivamente accantonata. Non sono all'ordine del giorno compromessi territoriali, ma la fine de facto di Israele come stato-nazione ebraico.
Questo corrisponde pienamente al programma di Hamas. L'organizzazione terroristica islamista, che rifiuta in linea di principio l'esistenza di Israele, ha ormai preso il controllo della "Marcia del ritorno", rafforzando così la sua posizione rispetto alla relativamente moderata OLP e all'Autorità Palestinese. Forze palestinesi realisticamente pronte al compromesso, dopo i ripetuti fallimenti di riconciliazione interna, sono ulteriormente emarginate, e il processo di pace già stagnante potrebbe definitivamente fermarsi.
Israele è sospinto dalla "Marcia del ritorno" in un dilemma strategico. Se cede all'assalto, sanziona la sua fine come stato-nazione ebraico dopo 70 anni dalla fondazione. Se intraprende contromisure militari, nella prevista escalation programmata dagli organizzatori fino alla data del 15 maggio ci sarebbero molte più vittime da parte palestinese. E la reputazione di Israele in tutto il mondo ne verrebbe catastroficamente danneggiata.
Per gli stati nemici di Israele, come in particolare l'Iran, un deterioramento della situazione potrebbe essere una gradita occasione per intensificare la loro dichiarata politica di annientamento dello Stato ebraico attraverso il sostegno politico e la spedizione di armi. La recente retorica bellicosa del presidente turco Erdogan ne ha offerto un primo assaggio.
E' probabile che tutto questo rientri nel calcolo di Hamas e di altri nemici di Israele, e che sia proprio questo l vero obiettivo finale della "Marcia del ritorno". Per evitare che l'obiettivo di questo calcolo si avvicini, e la situazione ai confini di Israele diventi fuori controllo e alla fine porti a una nuova guerra in Medio Oriente, il governo federale tedesco dovrebbe attivarsi, nell'ambito delle sue possibilità, invitando entrambe le parti alla moderazione. Il Ministero degli Esteri ha già sottolineato in un comunicato i legittimi interessi di sicurezza di Israele, al confine con i territori palestinesi.
Inoltre, il governo federale potrebbe agire sul finanziamento UNRWA a Gaza, in larga misura tedesco, per arrestare il sostegno politico e materiale ai militanti palestinesi e concentrarsi sui suoi compiti fondamentali umanitari. Inoltre, il governo federale dovrebbe, in forma diplomatica e pubblica, rendere chiara la sua posizione di base secondo cui il diritto all'esistenza di Israele come stato ebraico e democratico resta intoccabile, indipendentemente da quale parte sia messo in dubbio.
(Die Welt, 11 aprile 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Così i sopravvissuti della Shoah ricominciarono a vivere con l'aiuto dell'Italia
La mostra sull'Aliya Bet a Milano
di Eliana Di Caro
Da La Spezia a Taranto, da Vado Ligure (Savona) a Santa Maria di Leuca, da Civitavecchia a Metaponto (Matera): furono tanti i porti sparsi per l'Italia da cui partirono clandestinamente 34 pescherecci carichi di ebrei sopravvissuti allo sterminio nazista, su un totale di 56 imbarcazioni salpate in Europa, per compiere l'Aliya Bet, alla lettera "salita", il viaggio degli ebrei nella Terra promessa.
Una interessante mostra che si apre al pubblico domani 11 aprile (giornata della Memoria in Israele) a Milano, al Memoriale della Shoah, racconta la storia dell'accoglienza e del sostegno che gli italiani offrirono ai profughi ebrei dal 1945, quando - finita la guerra - per gli scampati alla Soluzione finale si apriva un capitolo nuovo e ignoto, al 1948, anno in cui fu proclamato lo Stato d'Israele. Come documentano le immagini, già esposte nel museo Eretz di Tel Aviv e recuperate con un lungo lavoro di ricerca dalle famiglie dei sopravvissuti, parte dei 250mila ebrei in fuga verso l'Europa centrale approdarono in Italia. Dove, grazie anche al supporto della Brigata ebraica, furono sistemati in campi profughi e, in qualche caso, in strutture in cui si viveva come in un kibbutz, per essere preparati alla vita che avrebbero fatto nel futuro Stato di Israele. Così accadde per esempio ai ragazzini di Sciesopoli, la colonia della Bergamasca in cui circa 700 orfani della Shoah furono educati e cresciuti dal sionista Moshe Zeiri: cambiarono il loro nome, impararono la lingua ebraica, ricominciarono a vivere, come racconta magnificamente Sergio Luzzatto ne I bambini di Moshe (Einaudi).
La prima nave partì da Monopoli (Bari) il 21 agosto 1945. Era la Dalin guidata dal padovano Enrico Levi, e a bordo ospitava 37 ebrei. Furono oltre 21mila, nel corso dei tre anni, i salvati che fecero il viaggio della speranza.
Clamoroso il caso dei due piroscafi bloccati dai britannici a La Spezia, nel 1946 (la Palestina era allora sotto mandato britannico): con oltre mille persone a bordo, il Fede e il Fenice rimasero un mese fermi, e i profughi fecero lo sciopero della fame per ottenere dal governo inglese le autorizzazioni necessarie. In uno dei quattro filmati che si possono vedere in mostra alla Fondazione della Shoah, c'è la testimonianza di alcuni di loro che ricordano come fosse difficile digiunare dopo la loro esperienza, e di come gli italiani ogni giorno sostenessero la loro battaglia ("piangevano e ci portavano del cibo, non potevano sopportare l'idea che non mangiassimo", racconta un profugo).
La mostra andrà poi a Roma e, si augura la vice ambasciatrice di Israele Ofra Farhi, anche nel Sud Italia. "Certamente - sottolinea Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah dove si potrà visitarla fino alla fine di giugno - Milano ha avuto un ruolo importante, essendo stata un punto di coordinamento, grazie all'attività di Raffaele Cantoni (poi presidente delle Comunità ebraiche, ndr), e smistamento. È nel solco di quella memoria e di quello spirito che dal 2015 la nostra sede ha ospitato 8.500 profughi in fuga dall'Africa e dal Medio Oriente".
(Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2018)
Gaza, fa discutere la bandiera nazista alla 'Marcia del Ritorno'
Durante le recenti proteste, alcuni militanti palestinesi hanno esibito la bandiera con la svastica
di Salvatore Santoru
Negli ultimi giorni si è parlato molto dei tragici episodi che hanno interessato la striscia di Gaza. Andando maggiormente nello specifico, diversi manifestanti palestinesi sono stati uccisi dai raid dei militari israeliani durante la 'Marcia del Ritorno'. Tale repressione ha scatenato molta indignazione da parte dell'opinione pubblica e dei media filo-palestinesi, mentre alcuni opinionisti ed analisti israeliani hanno sostenuto che si è trattato di atti di difesa da una possibile invasione degli stessi manifestanti.
La bandiera con la svastica issata da alcuni militanti palestinesi
Comunque sia, c'è da dire che effettivamente la versione ufficiale della "manifestazione pacifica" diffusa da diversi media mainstream ha diversi punti che non reggono.
Diversi militanti palestinesi si sono resi protagonisti di lanci di pietre, cori inneggianti all'antisemitismo e hanno bruciato ben 10mila gomme [VIDEO]. Inoltre, come riportato da diversi media internazionali e dallo stesso esercito israeliano, alcuni militanti palestinesi hanno fatto sventolare per alcune ore una bandiera nazista con tanto di svastica e ciò è avvenuto poco lontano dalla barriera di confine.
La narrazione egemone del conflitto israelo/palestinese
Indubbiamente, il conflitto israelo/palestinese risulta essere una delle tematiche più discusse e 'polarizzanti' all'interno dell'opinione pubblica occidentale e mondiale. Su di esso sono molto diffuse diverse [VIDEO] e trasversali 'narrazioni' che risultano essere alquanto influenzate da 'bias' di stampo ideologico. Difatti, da una parte vi è la 'narrazione filo-israeliana' che spesso sostiene in modo acritico qualunque politica fatta dal governo dello stato ebraico e dall'altro la 'narrazione filo-palestinese' che sostiene a tutti i costi la causa palestinese ma minimizza e/o non parla dell'estremismo e del terrorismo di alcuni settori radicali degli stessi movimenti palestinesi, specialmente di matrice islamista.
Il fatto è che al giorno d'oggi la 'narrazione dominante' pare che sia quella filo-palestinese ed è una narrazione che giustamente critica gli errori e le violenze compiute dallo stato ebraico ma che, allo stesso tempo, non raramente distorce i fatti e legittima le tante strumentalizzazioni (spesso di matrice islamista) che si fanno sulle stesse istanze palestinesi, a cominciare da quelle di Hamas.
(blastingsnew, 10 aprile 2018)
Un libro che riporta alla luce un fatto storico poco conosciuto
Sarà presentato giovedì 19 aprile nella sede del Circolo degli Esteri a Roma
Nel libro "Un Debito di Gratitudine" l'autore Menachem Shelah focalizza un aspetto legato alla storia dell'occupazione italiana della Dalmazia dove migliaia di ebrei fuggiti dallo Stato indipendente di Croazia cercano una via di scampo per non essere trucidati dalle milizie, filo naziste, ustascia di Pavelic e non essere consegnati ai tedeschi. Nell'introduzione del volume l'autore così si definisce: "Sono uno degli scampati all'eccidio, uno di coloro che gli italiani si rifiutarono di consegnare ai carnefici tedeschi e ho voluto raccontare questa storia, farla conoscere al pubblico e in tal modo cercare di pagare, almeno in parte, il mio debito di riconoscenza". Un altro superstite Yossef Lapid, nella presentazione del libro, scrive che "Menachem Shelah ha reso un servizio molto importante alla verità storica (e così anche all'immagine dell'Italia e del popolo italiano) facendo luce su questo finora sconosciuto episodio che minacciava di cadere dimenticato nell'abisso delle tenebre che avvolgono i giorni della seconda guerra mondiale". La sopracitata "verità" storica evidenzia come tra il 1941 e il 1943 alcuni alti funzionari del MAE, con l'autorizzazione dello stesso Ministro Ciano e il nulla osta di Mussolini, assieme a ufficiali superiori dell'Esercito Italiano operante in Jugoslavia, si erano opposti con successo alle insistenti richieste tedesche e ustascia di consegnare gli ebrei croati rifugiatisi nella zona sotto controllo militare italiano e in Dalmazia. Al riguardo il Prof. Antonello Biagini (ordinario di Storia dell'Europa orientale alla Sapienza) scriveva nel 1991: "II volume di Shelah tratta il tema in questione con grande equilibrio e onestà intellettuale La gestione militare della questione ebraica e la sua evoluzione si configurano come uno dei grandi punti d'attrito nei rapporti interni alle forze d'occupazione" dell'ex-Jugoslavia.
Il libro è stato presentato nel luglio scorso nella Sala Moro a Montecitorio. È stato tradotto in italiano a cura dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito e stampato a Roma nel 2009.
(Circolo degli Esteri a Roma, 10 aprile 2018)
I laburisti israeliani rompono i contatti con Corbyn: non contrasta l'antisemitismo
In una lettera il leader Avi Gabbay accusa Corbyn di aver dimostrato "ostilità verso la comunità ebraica"
Una brutta spaccatura: con una lettera dai toni molto duri, il partito laburista israeliano ha annunciato la sospensione dei rapporti con il leader laburista britannico Jeremy Corbyn, accusato di non contrastare l'antisemitismo. Lo riferisce Haaretz, citando un portavoce del leader laburista israeliano Avi Gabbay.
Nella missiva, Gabbay accusa Corbyn di aver dimostrato "ostilità verso la comunità ebraica", di "aver permesso azioni e dichiarazioni antisemite", e "non aver contrastato l'antisemitismo" che lo circonda. Secondo Gabbay, le dichiarazioni pubbliche del leader laburista britannico portano "un carico di odio verso Israele". E Corbyn ha superato "la pericolosa linea fra le legittime critiche al governo israeliano e l'antisemitismo".
Il passo senza precedenti, che arriva alla vigilia della giornata in cui Israele ricorda l'Olocausto, giunge dopo forti tensioni fra Corbyn e la comunità ebraica britannica. A fine marzo l'associazione dei deputati britannici ebrei e il Consiglio delle comunità ebraiche nel Regno unito hanno manifestato a Londra davanti al parlamento contro il leader laburista. A riaccendere le tensioni era stata la scoperta di un post di Corbyn che sei anni prima aveva difeso su Facebook l'autore di un murale dai toni antisemiti. Il leader politico si era scusato, ma la polemica non si è esaurita.
(globalist, 10 aprile 2018)
"Sicilia, radice ebraica viva"
Incontro a Palermo
di Daniele Ienna
L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane dialoga con la Regione Siciliana. Accade così che, proprio a Palermo, a Palazzo d'Orleans, il vicepresidente dell'UCEI, l'avvocato Giulio Disegni, incontri il presidente Nello Musumeci. Nella riunione, a porte chiuse, si è discusso di cultura ebraica siciliana, di ieri e di oggi, e della possibilità di rimodulare l'Intesa Regione-UCEI.
"È stato un incontro assai gradevole, anche per i temi che abbiamo affrontato" dichiara il presidente Musumeci, che aggiunge: "È nostra intenzione intensificare gli scambi culturali con l'UCEI. Sono convinto che, valorizzando le radici ebraiche della Sicilia e il relativo patrimonio artistico-culturale, possiamo sviluppare ulteriormente il turismo nell'Isola. Con una recente delibera abbiamo previsto interventi infrastrutturali per i luoghi di culto, non solo per quelli di religione cattolica. Ho, quindi, dato disponibilità al vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane di valutare l'opportunità di partecipare al prossimo bando, che sarà pubblicato nelle settimane future. Con il vicepresidente Disegni ci siamo ripromessi di continuare questo dialogo e sono convinto - conclude Musumeci - che possiamo anche rimodulare il Protocollo di intesa, siglato nel 2005, tra la Regione Siciliana e l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane".
Non nasconde la sua soddisfazione il vicepresidente Disegni (che nelle scorse ore ha anche incontrato il sindaco Leoluca Orlando e l'assessore Emilio Arcuri con il rav Gadi Piperno sulle possibilità di procedere nella ristrutturazione della futura sinagoga di Palermo concessa in comodato a settembre scorso dalla curia arcivescovile): "L'incontro con il presidente Musumeci è stato molto proficuo. Abbiamo parlato di tanti temi che partono dall'antica presenza ebraica in Sicilia, con il capitolo doloroso dell'espulsione degli ebrei nel 1493, preceduto circa venti anni prima dall'eccidio degli ebrei di Modica. Oggi - continua Disegni - la presenza ebraica in Sicilia è caratterizzata, oltre che da persone, anche da molti beni culturali, patrimonio della collettività. Con il presidente Musumeci abbiamo parlato anche dei rapporti con lo Stato di Israele e del turismo che per la Sicilia ne può derivare. L'incontro si è concluso con il ricordo dell'ottantesimo delle Leggi antiebraiche, che ricade quest'anno. Musumeci ha mostrato interesse alle iniziative che l'UCEI ha in programma di portare in anche in Sicilia". Alla domanda del giornalista se si può pensare alla creazione di un museo dell'ebraismo siciliano, Disegni risponde: "Oggi potrebbe sembrare quasi un'utopia, ma non lo è. Non è escluso che si possa pensare, magari con la Regione, a un progetto del genere".
(moked, 10 aprile 2018)
Israele oggi: le componenti dell'innovazione israeliana
COMUNICATO STAMPA
Giovedì 12 aprile 2018 alle ore 17.30, presso la Biblioteca della Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Via Pian de' Giullari 36/A, il Consigliere d'Ambasciata Rafael Erdreich parlerà su "Israele oggi: le componenti dell'innovazione israeliana". La conferenza, corredata da immagini e grafici, è in italiano, ed è promossa dall'Associazione Italia-Israele di Firenze in collaborazione con l'Ambasciata d'Israele a Roma.
La prima parte della conferenza del Consigliere Erdreich è dedicata alla ricerca scientifica e all'innovazione tecnologica: lo Stato d'Israele è uno dei Paesi più avanzati del mondo sotto questo profilo, ma a sua volta il progresso tecnologico poggia su un ampio sistema di istituti di ricerca scientifica.
Viene poi presentato il sistema universitario israeliano, sia dal punto di vista della ricerca che da quello didattico, e infine viene esposto il ruolo dell'esercito, che svolge anch'esso una funzione nella ricerca e nella innovazione tecnologica, oltre che di coesione sociale.
Per informazioni: firenze.assitaliaisraele@gmail.com
(Associazione Italia-Israele, 10 aprile 2018)
Trump: «Gas, Assad va punito». Raid di Israele, minacce russe
Il presidente Usa annuncia «decisioni in 48 ore». Mosca: niente tracce di armi chimiche. Gerusalemme bombarda. Washington vuole una indagine indipendente. Ma c'è il veto del Cremlino.
di Valeria Robecco
NEW YORK - Scambi di accuse e minacce di azioni militari tengono banco nell'ennesimo capitolo del conflitto siriano, che da guerra per procura sta assumendo i contorni di scontro tra potenze. Sullo sfondo in un bilancio sempre più drammatico di vittime tra la popolazione civile. Una «decisione importante verrà presa nelle prossime 24-48 ore», tuona il presidente Donald Trump, che dopo il presunto attacco chimico a Duma ha puntato il dito contro il leader del Cremlino Vladimir Putin «per il sostegno all'animale Assad», E avverte di «un alto prezzo da pagare» per «l'odioso attacco» contro civili innocenti. Se dietro c'è «la Russia, la Siria, l'Iran o tutti loro insieme, lo scopriremo» aggiunge. Tra le ipotesi al vaglio potrebbe esserci quella di un blitz congiunto con la Francia: Trump si è sentito al telefono con il collega Emmanuel Macron, riferisce la Casa Bianca, e i due hanno concordato di «coordinare una forte risposta comune».
La notte scorsa è stato effettuato un raid aereo in una base siriana nel governatorato di Homs, dove sono morte 14 persone, e inizialmente la tv di stato ha ipotizzato si fosse trattato di un'operazione militare americana. «In questo momento il dipartimento della Difesa non sta conducendo attacchi aerei in Siria», commenta il portavoce del Pentagono, Chris Sherwood. Mosca afferma che non c'è traccia dell'uso di armi chimiche e il video diffuso dopo l'attacco è una bufala organizzata dai ribelli per provocare un intervento degli occidentali. Oltre ad accusare Israele di aver compiuto l'incursione contro la base aerea T-4. Secondo il ministero della Difesa l' attacco è stato effettuato da due caccia FlS dell'aeronautica israeliana con otto missili. E il ministro degli Esteri Sergej Lavrov mette in guardia gli Stati Uniti dal condurre raid militari in Siria: «Lo sapete, abbiamo degli obblighi nei confronti di Damasco». Gli Usa però ribadiscono che tutte le opzioni rimangono sul tavolo, e sulla possibilità di un'azione militare il capo del Pentagono James Mattis dice: «Non escludo nulla ora».
Intanto Trump si è riunito con i vertici militari alla Casa Bianca per discutere l' eventuale risposta, e dopo aver affermato la settimana scorsa di volersi ritirare dalla Siria, ora potrebbe cambiare i piani. Anche perché ieri si è insediato il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, il falco conservatore ex ambasciatore al Palazzo di Vetro che potrebbe convincere il commander in chief a rimanere per non lasciare il Paese nelle mani di Russia e, soprattutto, Iran (come sostenuto anche dal Pentagono). Il braccio di ferro tra Washington e Mosca continua in Consiglio di Sicurezza Onu, dove si è tenuta una riunione di emergenza. Gli Usa chiedono una nuova inchiesta indipendente, con l'istituzione di una commissione per identificare i responsabili degli attacchi chimici, ma è improbabile che possa ottenere il via libera russo.
(il Giornale, 10 aprile 2018)
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Niente giustificazioni per" Animal Assad"
I russi negano la strage di civili con armi chimiche, Trump minaccia una rappresaglia e si prende un giorno per pensare, Israele bombarda gli iraniani in Siria e dice: il rais di Damasco è "l'angelo della morte",
di Daniele Raineri
ROMA - All'ottavo anno di guerra civile non potrebbe essere più chiaro di così: nessuno pensa a un regime change in Siria per cacciare il presidente Bashar e! Assad. Chiunque avesse voluto provarci avrebbe potuto sfruttare le occasioni offerte dagli sconvolgimenti e dalle atrocità nei sette anni precedenti. E' vero invece l'opposto: ormai tutti i leader più importanti del mondo pensano che Assad resterà al suo posto. Il presidente Donald Trump vuole ritirare i soldati americani dalla Siria-e comunque quei soldati stanno nella parte di Siria controllata dai curdi, che sono nemici dei ribelli colpiti con le armi chimiche. Il presidente russo Vladimir Putin è un grande alleato di Assad. L'Unione europea tratta sottobanco con il rais siriano. Il principe saudita Bin Salman ammette nelle interviste che Assad sarà presidente a Damasco ancora a lungo. Parlare di un'operazione "false flag", quindi di un bombardamento con armi chimiche compiuto da una mano non meglio specificata per far ricadere la colpa sul governo siriano e così manipolare l'opinione pubblica verso il regime change, non ha davvero senso. A farlo sono rimasti soltanto i complottisti fanatici separati dalla realtà e le agenzie di stampa delle capitali direttamente interessate, Mosca e Damasco, ovviamente per deflettere le responsabilità. Ma per loro è sempre così dopo ogni attacco grave con armi chimiche in Siria (o in Inghilterra). Nell'agosto 2013 dissero che la strage nella Ghouta era stata un'operazione false flag. Nell'aprile 2017 insinuarono che la strage di Khan Sheikhoun fosse una false flag. Adesso sostengono di nuovo la teoria dell'operazione false flag. A parte questi tentativi dolosi di offuscare i fatti, nei tre giorni passati tra l'attacco che sabato sera a Duma ha ucciso cinquanta civili e oggi sono uscite notizie significative. Ecco quali.
Trump si è dato una finestra di 24-48 ore per prendere una decisione su come reagire e ha detto che ci sarà "un grande prezzo da pagare per questo attacco". "Se sono stati i russi, la Siria, l'Iran, o tutti e tre assieme, lo scopriremo. Tutti pagheranno un prezzo". Nell'aprile 2017 dopo il bombardamento chimico sul villaggio siriano di Khan Sheikhoun ordinò il lancio di una salva di missili Cruise contro la base da dove era partito l'aereo che aveva sganciato il sarin. La rappresaglia uccise sei soldati, risparmiò intenzionalmente la struttura di potere che regge "Animai Assad" e non cambiò il corso della guerra civile. Ieri fonti del governo americano hanno detto che secondo i primi accertamenti sulla strage di Duma si tratta di nuovo di agente sarin. E' stato anche il primo giorno alla Casa Bianca per John Bolton, il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale che ha fama di essere un falco spiccio e favorevole agli interventi militari.
Israele ieri notte ha colpito per la terza volta la base militare T-4, nel deserto vicino Palmira, e ha ucciso quindici soldati di cui quattro iraniani. Questo raid non c'entra con il massacro di Duma, fa parte di una lunga serie di bombardamenti cominciata nel 2013, ma è possibile che gli iraniani in Siria stessero trasferendo materiale prezioso in previsione di un possibile attacco americano, che si siano in qualche modo esposti e che gli israeliani abbiano approfittato dell'opportunità per colpirli. Per farlo gli aerei hanno bucato le difese aeree della Siria, gestite dalla Russia, proprio mentre in teoria erano in massima allerta. Era dal 10 febbraio, quando un jet israeliano fu abbattuto dopo un raid sulla stessa base, che Gerusalemme non lanciava attacchi aerei in Siria e questa volta sembra che gli aerei israeliani si siano limitati a lanciare missili cruise da sopra il confine libanese, senza entrare e senza esporsi troppo. Il ministro israeliano per la Sicurezza, Gilad Erdan, ha detto che "Assad è l'angelo della morte e il mondo starebbe meglio senza di lui" e ha invitato i governi occidentali a punirlo con durezza. L'atteggiamento di neutralità distaccata tenuto da Israele nei primi anni della guerra in Siria è ormai un ricordo.
La Russia ha cambiato posizione sui continui bombardamenti di Israele in Siria. Ieri mattina per la prima volta il ministero della Difesa russo ha identificato con un rapporto esplicito e dettagliato il bombardamento israeliano. Israele colpisce con frequenza le installazioni militari iraniane in Siria e ha compiuto più di cento raid a partire dal 2013, ma finora la Russia aveva evitato di dirlo per mantenere una certa ambiguità che conviene a tutti, anche all'Iran e a Damasco. Ora l'ambiguità è finita e il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha dichiarato che il bombardamento israeliano sulla T-4 "è uno sviluppo molto pericoloso". Se Israele pensava che la Russia avrebbe agito come un cuscinetto per prevenire una guerra con l'Iran in Siria deve ricredersi.
Infine, il giorno dopo la strage con armi chimiche i ribelli asserragliati dentro Duma hanno accettato la resa, hanno rilasciato centinaia di ostaggi e hanno accettato un trasferimento a nord. Erano seimila, con decine di pezzi di artiglieria. In un altro sobborgo di Damasco, a Darayya, meno di mille ribelli resistettero per più di tre anni. Il prezzo da pagare dall'esercito siriano per espugnare Duma sarebbe stato molto alto, con buona pace di chi sostiene che "non c'era un motivo tattico di usare le armi chimiche". L'accordo di capitolazione inoltre è stato raggiunto soltanto grazie ai mediatori russi. Con l'attacco chimico di Duma il governo siriano ha infierito sugli assediati, ha galvanizzato i suoi sostenitori e ha messo la firma siriana - e non russa - sulla resa dell'ultima grande enclave ribelle della capitale.
(Il Foglio, 10 aprile 2018)
La speranza di pace fra ebrei e palestinesi
Lettera a "La Gazzetta del Mezzogiorno".
Se ne parla drammaticamente poco ma i morti palestinesi, disarmati, sotto il fuoco immemore dell'esercito israeliano. Ricordiamo che all'origine di questa catena di odio, di morte, di dolore ci siamo come sempre noi europei. Non aver fatto nulla per bloccare l'ascesa di Hitler favorendo poi l'emigrazione ebraica in medio Oriente fregandosene dei dissidi che si andavano inevitabilmente a creare. Ma bisogna superare tutto questo partendo dal concetto "Due popoli, due stati" ricordando che Gesù era al tempo stesso ebreo e palestinese. Segno di contraddizione anche in questo. La speranza di pace è alla base di tutto. E' speranza per le generazioni future che lasciamo in eredità ai nostri figli ed ai nostri nipoti.
Gabriele Pirè, Bari
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 10 aprile 2018)
Riuscire a condensare in così poche parole così tante sciocchezze è unimpresa che lascia a bocca aperta e disorienta chiunque volesse obiettare: non si saprebbe da che parte cominciare. Lasciamo le cose così. Una sola conclusione: in certi casi la cattiveria intelligente è meno perniciosa della bontà stupida. M.C.
Otto missili, l'aria diventa bollente. Salman e i sunniti con l'Occidente
Due blocchi contrapposti. Regge l'asse Putin-Erdogan-Rohani. Vacilla il legame particolare tra ex sovietici e Stato ebraico.
di Fiamma Nirenstein
Ci sono voluti due jet fighter F15 (probabilmente e «secondo fonti straniere», Israele tace) e i loro otto missili sparati all'alba perché' almeno per una parte, il macellaio Assad ricevesse una sventola dopo le sue stragi di bambini. All'inizio tutti hanno parlato di reazione americana, dato che Trump aveva fatto la voce grossa; poi si è suggerito che fosse stata la Francia. Ma mentre Onu e Ue si riempivano di esclamazioni di orrore e gli schermi tv delle immagini di quei bambini piccolissimi in preda alle sofferenze del gas che in molti casi li ha portati alla morte, diventava chiaro che né la Francia né gli Usa avevano agito. E c'è da credere alla smentita di Trump: avrebbe avuto tutto l'interesse a contraddire la sua inutile dichiarazione sulla decisione di lasciare la Siria, che poi si è rimangiata. Invece il gesto valoroso l'ha compiuto Israele, da solo, per necessità e per scelta.
Non è certo stato solo perché il rabbino capo Ytzhak Yossef aveva detto domenica dopo le stragi: È« un genocidio di donne e bambini. Gli ebrei hanno fatto esperienza del genocidio subito. Abbiamo l'obbligo morale di non restare in silenzio e di provare a fermare il massacro». Questa sensazione è importante per un popolo che ha sofferto l'inverosimile strage degli innocenti della Shoah e il cui giorno della memoria si celebra giovedì prossimo. Ma è l'intera situazione geopolitica dell'area che viola tutte le linee rosse morali e strategiche che lo Stato ebraico si può permettere e mette a rischio la sua sicurezza.
Israele ha già colpito più volte la Siria dal 2007, quando distrusse il reattore atomico in costruzione. L'aeroporto T4 è quello già colpito due mesi fa quando un drone iraniano molto sofisticato ha violato il suo spazio aereo. Poteva contenere una macchina fotografica, una bomba, del gas nervino. Di certo c'erano oltre ai siriani cinque iraniani, uccisi nel raid. L'Iran vi esercita il suo potere su intensivi traffici bellici. L'aeroporto è diventato il maggiore punto di passaggio: le armi in buona parte sono dirette nelle mani dei Hezbollah che minacciano Israele dal Libano, ma anche da nuove basi sul Golan siriano. Gli iraniani sono protetti dalla Russia e sicuri quindi di godere di uno scudo invincibile: la Siria è una base indispensabile per minacciare Israele e garantire la propria espansione in tutto il Medio Oriente, prima di tutto in Irak e in Yemen.
Le stragi di Assad fanno poco effetto ai russi, Putin ha fatto della Siria la base della sua supremazia in Medio Oriente, un chiaro segnale di vittoria sugli Stati Uniti, falliti da quando Obama dopo la sua solenne «linea rossa» sulle armi chimiche, voltò le spalle fuggendo.
Stavolta la situazione è diversa. Israele rischia grosso: la Russia, che non aveva mai reagito, stavolta lo ha fatto, e Lavrov, il ministro degli Esteri, ha classificato il gesto come «un'azione pericolosa». Attenzione, dice Mosca, il nostro delicato rapporto per cui Netanyahu ha libero accesso a Putin può saltare: volete confrontarvi con noi? Non violate le regole del gioco. Gli aerei russi potrebbero rispondere al fuoco. La Russia vuole rispetto per la sua scelta su Ankara, ha fatto di iraniani e turchi il proprio asse mediorientale.
Una scelta sovietica che oggi è sfidata non dagli Usa quanto da Mohammad bin Salman, il saudita che osa dire che «Khamenei è l'Hitler dei nostri tempi» e che ogni attacco terrorista alla fine porta la firma della Fratellanza Musulmana. Curioso, ma oggi Israele ha come alleati i musulmani sunniti di Egitto, Giordania, Golfo... Trump forse ripensa al suo annunciato ritiro dal campo. L'aria si scalda.
(il Giornale, 10 aprile 2018)
La parola «ebreo» per offendersi tra ragazzini
di Ernesto Ferrara
FIRENZE - Sabato sera, bus numero 31 dell'Ataf. Tre ragazzini sui 13-14 anni nelle ultime file discutono e berciano tra loro, commentano le immagini di uno smartphone, Si tratta, a quanto sembra di capire ai passeggeri presenti dal vocio un po' volgare che i tre non fanno nulla per nascondere, di qualcosa che ha a che vedere con un locale notturno, forse una discoteca o chissà. Ma quel che colpisce è che in un dialogo che dura circa 5 minuti prima che scendano, i tre non smettano di rivolgersi l'uno all'altro usando il termine "ebreo". «Oh ebreo!», «Oh, massei un ebreo!», «Sta' zitto ebreo». Come fosse un intercalare. O una consuetudine giocosa del loro modo di comunicare. Nessuno di loro sembra usare "ebreo" conoscendone il significato, associandolo alla fede. Non sembrano neonazisti. Eppure usano "ebreo" come un insulto. In modo sciatto, banalizzante, inconsapevole. Per questo forse meno grave? È così moralista indignarsi per la manomissione a cuor leggero di parole dalla storia tanto densa? Scuola e famiglie sanno ancora insegnare la "manutenzione" delle parole e del loro significato?
(la Repubblica - Firenze, 10 aprile 2018)
Se Israele può contare solo su stesso
Stati Uniti, Russia e persino i paesi arabi capiscono le preoccupazioni di Israele per la situazione in Siria. Ma non si muoveranno in sua difesa.
Il supposto uso di armi chimiche da parte del regime del presidente Bashar Assad contro la sua stessa popolazione ha riportato l'attenzione dei mass-media su quello che è lo scacchiere veramente pericoloso in Medio Oriente: la Siria.
Anche se questa non è la prima volta che l'esercito siriano fa uso di armi chimiche, si tratta comunque di uno sviluppo particolarmente preoccupante perché indicativo della crescente impudenza con cui si muove Assad. Incoraggiato dalle sue vittorie nella guerra civile, si sente abbastanza sicuro da usare tutti gli strumenti a sua disposizione, comprese le armi chimiche che aveva solennemente promesso di distruggere, pur di eliminare le ultime sacche di resistenza al suo potere....
(israele.net, 10 aprile 2018)
Netanyahu in visita a Sderot
Il premier: "Faremo male" ai palestinesi che attaccano Israele
GERUSALEMME - Il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito che Israele "farà male" ai palestinesi nella Striscia di Gaza che tenteranno di attaccare Israele, dopo i recenti scontri alla frontiera.
"Abbiamo una regola chiara e semplice che ripetiamo costantemente: se qualcuno tenta di attaccarvi, alzatevi e attaccatelo. Non permetteremo che ci facciano del male qui, alla frontiera con Gaza. Siamo noi che faremo male a loro", ha esclamato il premier in un comunicato.
Netanyahu ha fatto queste dichiarazioni nel corso di una visita a Sderot, città del Sud di Israele che in passato è stata bersaglio di numerosi attacchi di razzi lanciati dalla Striscia di Gaza.
(askanews, 9 aprile 2018)
A Catania uno slancio alla conversione all'ebraismo
di Flora Bonaccorso
Il Rav Piperno, referente per le comunità ebraiche del Mezzogiorno, oggi è stato in visita a Catania. In serata si è recato presso la Parrocchia San Luigi, sita nel popolare quartiere di Viale Mario Rapisardi. Qui, da alcuni mesi con cadenza settimanale, si riunisce un gruppo di persone e famiglie, proveniente da tutta la provincia etnea, per pregare e studiare la Torah. Dalla parrocchia di San Luigi sono giunte al Rav Piperno diverse richieste di conversione all'ebraismo: è questa la ragione principale della sua visita, ma non crediamo sia l'unica; tra l'altro, un Rabbino di Gerusalemme lo ha accompagnato.
(MessinaWeb, 9 aprile 2018)
Le autorità palestinesi non hanno pagato gli impiegati di Gaza
Momento di grande tensione fra Abu Mazen e Hamas
GAZA CITY - L'Autorità palestinese non ha versato gli stipendi ai suoi dipendenti nella Striscia di Gaza controllata da Hamas, il suo rivale.
"Gli stipendi sono stati pagati in Cisgiordania ma non a Gaza", ha riferito all'Afp Arif Abu Jarad, capo del sindacato dei dipendenti dell'Autorità palestinese nell'enclave sotto blocco israeliano. "C'è rabbia fra i dipendenti della Striscia di Gaza", ha aggiunto annunciando una riunione d'urgenza.
Un funzionario del ministero delle Finanze a Ramallah, in Cisgiordania, ha confermato che gli stipendi non sono stati pagati a Gaza. Gli impiegati hanno atteso invano davanti alle banche a Gaza, secondo un fotografo dell'Afp.
I funzionari di Gaza hanno già subito tagli agli stipendi nei mesi scorsi, che li hanno spinti a indire uno sciopero. Le fonti palestinesi non hanno precisato se il mancato pagamento è una misura provvisoria o definitiva in un momento in cui regna una viva tensione fra l'Anp presieduta da Abu Mazen e Hamas. Il mese scorso Abu Mazen ha accusato Hamas di aver ordito il fallito attentato per assassinare il Primo ministro dell'Autorità palestinese, Rami Hamdallah, mentre effettuava una rara visita nella Striscia di Gaza.
(askanews, 9 aprile 2018)
"Sono tutti legati a Hamas. Tutti ricevono soldi da Hamas"
"Bisogna capire che non ci sono innocenti nelle marce del ritorno dalla striscia di Gaza. Sono tutti legati a Hamas. Tutti ricevono soldi da Hamas". Lo ha detto domenica il ministro della difesa israeliano Avigdor Liberman. Ed ha aggiunto: "Coloro che cercano di sfidarci al confine e di violarlo appartengono all'ala militare di Hamas. La marcia non è guidata da persone che vogliono la pace, e non si sentono appelli alla pace in queste manifestazioni. Non si sente parlare di economia o di coesistenza. Tutti i discorsi riguardano la distruzione di Israele e il ritorno dei cosiddetti profughi palestinesi a Tel Aviv, Haifa e Giaffa. L'unica ragione per cui la Lega Araba ha reagito è che questo tipo di eventi suscitano disordini all'interno dei loro paesi".
(israele.net, 9 aprile 2018)
Una svastica a Gaza tra i vessilli palestinesi. E Netanyahu attacca
ISTANBUL - C'era anche una bandiera con la svastica venerdì a Gaza, come messaggio e segno di protesta dei dimostranti, sventolata davanti ai terrapieni dei soldati israeliani oltre la barriera di recinzione che divide la Striscia dal confine. I manifestanti l'hanno esposta assieme a due bandiere palestinesi. L'immagine è stata rilanciata con insistenza sui siti web israeliani e il premier Benjamin Netanyahu sul suo profilo Facebook si è detto indignato: «Io rendo omaggio ai soldati di Israele che ci proteggono tutto il tempo anche da parte di quanti pretendono di agire nel nome dei diritti umani mentre ostentano un vessillo nazista. Ecco la nuda verità: essi parlano di diritti umani, ma in pratica vogliono schiacciare lo Stato ebraico».
(la Repubblica, 9 aprile 2018)
Cosa c'è dietro alla marcia di Gaza
Soltanto l'appello di Hamas alla distruzione di Israele
Scrive il Times of lsrael (1/4)
Giusto nel caso qualcuno se ne fosse dimenticato, nel 2005 Israele si è ritirato unilateralmente dalla striscia di Gaza sulle linee precedenti la guerra del '67, ha sgomberato migliaia di civili israeliani dalle loro case e ha smantellato tutte le strutture militari che aveva creato nella striscia. A Gaza non c'è più nessuna presenza fisica d'Israele e Israele non avanza nessuna rivendicazione territoriale sulla striscia di Gaza.
Giusto nel caso qualcuno se ne fosse dimenticato, Hamas, un'organizzazione islamista terroristica che mira dichiaratamente alla distruzione di Israele, ha preso il potere a Gaza nel 2007 con un sanguinoso colpo di stato contro le forze del presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Dopo aver tentato invano di piegare Israele terrorizzandolo con la tattica degli attenti suicidi che hanno seminato stragi nelle città israeliane durante la cosiddetta Seconda intifada, dopo che ha preso il controllo su Gaza, Hamas ha proseguito il tentativo di terrorizzare Israele lanciando indiscriminatamente migliaia di missili e razzi al di là del confine. Non fosse stato per il sistema di difesa antimissilistica "Cupola di ferro" e per le puntuali reazioni delle forze di difesa israeliane contro rampe e arsenali, buona parte di Israele sarebbe stato ridotta in macerie secondo le speranze di Hamas. Hamas ha anche incessantemente scavato tunnel per infiltrazioni terroristiche che passano sotto il confine: un'altra via escogitata dai terroristi che Israele, a quanto pare, sta gradualmente chiudendo grazie all'azione delle sue forze armate e a nuove tecnologie e barriere sotterranee.
Giusto nel caso qualcuno se ne fosse dimenticato, Hamas ha cinicamente e implacabilmente sfruttato gli abitanti di Gaza - gran parte dei quali l'avevano votata nelle elezioni del gennaio 2006, mai più riconvocate - ammassando razzi ed esplosivi a ridosso o persino all'interno di moschee e scuole, lanciando razzi dalle aree residenziali, scavando i tunnel a partire da case e istituzioni civili. Hamas ha usato a questo scopo tutti i materiali che possono essere utilizzati per la fabbricazione di armi e fortificazioni, costringendo Israele ad applicare un severo blocco di sicurezza sulle importazioni a Gaza le cui conseguenze ricadono sugli abitanti palestinesi.
La decisione di organizzare e fomentare manifestazioni di massa al confine nel quadro della cosiddetta "marcia del ritorno" che mira allo scontro con le truppe israeliane schierate a difesa dei confini, sostenendo ipocritamente e in malafede che si tratta di una campagna "non violenta", non è che l'ultima versione dell'uso cinico che Hamas fa degli abitanti di Gaza come scudi umani (in mezzo ai quali infatti anche venerdì scorso ha infilato terroristi armati che hanno aperto il fuoco contro gli israeliani). Giusto nel caso qualcuno se ne fosse dimenticato, invocare un "diritto al ritorno" in Israele per decine di migliaia di profughi palestinesi, e milioni di loro discendenti, non è altro che un appello per la cancellazione di Israele".
(Il Foglio, 9 aprile 2018)
Forse dovremmo ringraziare Hamas per la "marcia del ritorno"
Ci dicevano: ritiratevi sulle linee del '67 così cesseranno gli attacchi e il mondo riconoscerà il vostro pieno diritto a difendervi. Si è visto...
Israele si è ritirato dalla striscia di Gaza nel 2005, demolendo 21 fiorenti comunità ebraiche e sgomberando a forza 8.000 ebrei dalle case in cui vivevano. Israele ha persino riesumato i resti dei defunti ebrei dalle loro tombe, attuando in questo modo la disgustosa intimazione del celebrato poeta palestinese Mahmoud Darwish: "Andatevene, e portatevi via i vostri morti".
L'idea era quella di "disimpegnarsi". I pacifisti garantivano pubblicamente che d'ora in avanti avremmo visto riconosciuta dal mondo la nostra piena legittimità di reagire al terrorismo, come si farebbe con il terrorismo proveniente da un paese confinante. In effetti la comunità internazionale ci applaudì per un'intera decina di cinque minuti prima di tornare a ripetere le sue solite accuse e condanne. I bombardamenti da Gaza sulla popolazione d'Israele iniziarono immediatamente dopo il ritiro, le nostre comunità di confine finirono subito sotto la minaccia di attacchi e sequestri, la macchina del terrore che era stata fino ad allora tenuta sotto controllo dalla presenza israeliana si trasformò in un mostro. Non era passato nemmeno un anno dal ritiro israeliano quando i terroristi, penetrati da Gaza in Israele attraverso un tunnel di 3 km scavato fra Rafah e Kerem Shalom, uccisero due soldati e ne sequestrarono un terzo, Gilad Shalit. Dopo il ritiro, nel giro di alcuni anni buona parte del Negev israeliano e della piana costiera d'Israele fino a Tel Aviv e addirittura fino a Haifa è finita nel raggio della gittata dei razzi di Hamas. Con il ritiro israeliano, la striscia di Gaza è diventata zona di guerra aperta. In questi tredici anni ci sono stati ben cinque round di combattimenti, tre dei quali particolarmente ampi, costati la vita a centinaia di soldati e civili e decine di miliardi di shekel ai contribuenti israeliani. Alla faccia del "disimpegno"....
(israele.net, 9 aprile 2018)
Siria, strage di civili nella Ghouta. "Il regime ha usato bombe chimiche"
La denuncia dei ribelli: "A Douma oltre cento morti". Cade l'ultimo bastione dei miliziani. L'Occidente reagisce: vergogna. Ma Damasco nega e Teheran accusa: "Un complotto".
di Glordano Stabile
GERUSALEMME - A un anno dal raid americano che ha punito il regime siriano per l'attacco chimico a Khan Sheikhoun, Bashar al-Assad lancia l'assalto all'ultima città ribelle sotto assedio nella Ghouta orientale e ordigni con sostanze proibite fanno strage di civili. A Douma, lungo la linea di difesa dei ribelli, gli edifici e i bunker sono stati martellati per 24 ore dai jet e dagli elicotteri, finché alcuni barili bomba, forse riempiti di cloro, hanno devastato due palazzi pieni di sfollati alla ricerca disperata di un riparo nelle cantine. Il cloro è più pesante dell'aria e satura gli ambienti sotto il livello del suolo: in una stanza sovraffollata e senza finestre può fare strage. Ed è stato così nella notte fra sabato e domenica, quando almeno 100 persone sono rimaste uccise. I tentativi di soccorrerle sono stati inutili. I Caschi bianchi, volontari vicini ai ribelli, si sono trovati di fronte a «scene strazianti» e hanno diffuso fotografie di bambini con gli occhi sbarrati e la bava alla bocca, immagini che hanno suscitato un'ondata di indignazione in tutto l'Occidente. Trump ha definito Assad «un animale» e lasciato intendere che un altro raid contro il regime è nell'aria. Trump, che pretende la riunione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ha anche chiesto che Douma venga aperta agli ispettori, ma la zona è in fiamme. Jaysh al-Islam, gruppo ribelle appoggiato dai sauditi che controlla Douma dal 2012, ha chiesto all'Occidente di intervenire. I ribelli chiedono anche aiuti umanitari: gli ospedali sono sopraffatti dall'emergenza, in grado di curare i soffocati «soltanto con farmaci anti-asma».
Uno dei pochi medici sul posto, Tawfiq Dumani, denuncia l'uso «di cloro in un primo attacco, miscele di gas nervino e sarin in un altro». Anche Basel Termanini, vicepresidente un'altra ong, la Syrian american medicai society, parla di «agenti misti». Non è un dettaglio da poco, perché se fosse accertato l'uso di sostanze nervine la rappresaglia scatterebbe di sicuro, come hanno detto Usa e Francia. L'Osservatorio siriano per diritti umani, con base a Londra e vicino all'opposizione filo-turca, è più prudente, propende per il cloro o «fumo causato da ordigni convenzionali».
Il regime siriano nega. Per l'agenzia Sana i ribelli «sono al collasso e i loro organi di propaganda hanno organizzato un finto attacco per dare la responsabilità al governo», mentre l'Iran parla di un «complotto» architettato per innescare l'intervento occidentale. Ma per il ministro israeliano Gilad Erdan la strage «mostra l'ipocrisia della comunità internazionale che si concentra su Israele alle prese con Hamas mentre a dozzine di civili innocenti sono uccisi in Siria».
I palestinesi hanno una visione opposta. Fonti vicine alla leadership dell'Anp sottolineano che «questo attacco è una benedizione per Israele», in quanto distrae il mondo «dai massacri a Gaza». Gli insorti filo-sauditi avevano concordato la resa dieci giorni fa. L'evacuazione era cominciata, ma venerdì tutto si è bloccato. Assad ha posto come condizione il rilascio di centinaia di civili sciiti, sequestrati nel dicembre del 2013 ad Adra, e da allora tenuti prigionieri a Douma. Jasyh alIslam vuole invece consegnarli soltanto dopo che i suoi combattenti saranno al sicuro.
A quel punto l'aviazione ha scatenato una serie di raid terrificanti, con almeno 160 vittime in totale. L'esercito ha sfondato l'ultima linea di difesa a Est, fra Al-Riyhan e le cosiddette «fattorie di Douma», i ribelli hanno perso mezza città e si sono asserragliati nei quartieri più popolati. Senza l'intervento americano sono destinati a soccombere. Ieri sera hanno chiesto di nuovo la mediazione russa. Damasco sostiene di aver raggiunto un accordo per il loro trasferimento verso il confine con la Turchia, a Jabal al-Zawiya, «entro 48 ore». Potrebbe essere la fine della Ghouta orientale, a meno che Trump non scateni l'inferno dal cielo.
(La Stampa, 9 aprile 2018)
Siria: Israele ha bombardato la base militare T-4
La Russia e la Siria hanno accusato i jet da combattimento israeliani di aver condotto attacchi contro una base aerea siriana, situata nei pressi di Homs, nel territorio centro-occidentale della Siria, dopo aver inizialmente attribuito la responsabilità del raid agli Stati Uniti.
Lunedì 9 aprile, l'esercito russo, che sta combattendo in Siria al fianco del presidente Bashar Al-Assad, ha dichiarato che due jet da combattimento israeliani F15 avrebbero condotto raid aerei contro la base aerea T-4. Stando a quanto affermato dal Ministero della Difesa russa, gli attacchi sarebbero stati condotti dallo spazio aereo libanese e la difesa aerea siriana sarebbe riuscita ad abbattere 5 degli 8 missili sparati contro il territorio siriano. Poco dopo, anche l'agenzia di stampa nazionale siriana SANA, citando alcune fonti militari, ha dichiarato: "L'aggressione israeliana contro la base T-4 è stata condotta da aerei F-15, che hanno sparato alcuni missili dai cieli libanesi". Al momento, Israele non avrebbe rilasciato alcun commento ufficiale in merito alla questione.
Precedentemente, la televisione di stato siriana aveva annunciato che, nella notte tra domenica 8 e lunedì 9 aprile, le forze di difesa siriane avrebbero intercettato 8 missili sparati contro la base T-4, situata nel villaggio di Tiyas, nel governatorato di Homs. Il bilancio delle vittime dell'attacco, che era stato in un primo momento attribuito agli Stati Uniti, sarebbe di 14 morti e numerosi feriti. In questo contesto, la televisione nazionale ha annunciato: "È stata perpetrata un'aggressione contro la base aerea T-4. Numerosi raid aerei, che probabilmente sono stati condotti dagli Stati Uniti, hanno colpito la struttura".
T-4 è la più grande base militare che si trova nel territorio siriano. Da questa partono regolarmente le truppe russe per colpire le aree che si trovano sotto il controllo dei ribelli, secondo le informazioni fornite dall'agenzia di stampa Reuters. Oltre a ciò, la struttura è situata all'interno di un'area desertica di importanza strategica, dal momento che vi si trovano i principali giacimenti di gas.
Da parte sua, il Pentagono aveva respinto formalmente la responsabilità dell'accaduto, affermando che, in questo momento, non starebbe conducendo attacchi aerei in Siria. In questo contesto, il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti aveva dichiarato in un comunicato ufficiale: "In questo momento, il Dipartimento della Difesa non sta conducendo attacchi aerei in Siria. Continuiamo a monitorare la situazione da vicino e a sostenere gli sforzi diplomatici in corso per attribuire la responsabilità a coloro che utilizzano le armi chimiche, in Siria e in qualsiasi altro luogo".
L'attacco sarebbe avvenuto dopo che, il giorno precedente, domenica 8 aprile, gli Stati Uniti avevano ammonito il governo del presidente siriano, Bashar Al-Assad, affermando che avrebbe dovuto "pagare a caro prezzo" l'uccisione di decine di persone, nell'attacco chimico condotto contro la città di Douma sabato 7 aprile, se questo fosse stato confermato. In questo contesto, attraverso il suo account Twitter, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva dichiarato: "Numerosi morti, tra i quali donne e bambini, in un insensato attacco chimico in Siria. L'area dell'atrocità è bloccata e circondata dall'esercito siriano, che la rende completamente inaccessibile al mondo esterno. Il presidente Putin, la Russia e l'Iran sono responsabili di sostenere l'animale Al-Assad. Ci sarà un caro prezzo da pagare".
Nella notte tra sabato 7 e domenica 8 aprile, la Syrian American Medical Society (SAMS), una organizzazione di soccorso medico operante in territorio siriano, ave riferito che due attacchi chimici avevano colpito il territorio del Ghouta orientale. Una bomba al cloro aveva colpito la città di Douma, subito dopo, un secondo attacco con "agenti misti", tra i quali gas nervino, era stato lanciato contro un edificio poco distante, causando la morte di 49 persone. Il governo siriano aveva immediatamente negato la responsabilità dell'attacco e il suo principale alleato, la Russia, aveva definito "falsi" i report sull'accaduto.
Se la responsabilità degli Stati Uniti nell'attacco del 9 aprile fosse confermata, si tratterebbe della seconda volta che Washington avrebbe colpito una base aera siriana in risposta a un attacco chimico. Il 6 aprile 2017, il presidente americano aveva riferito che il suo Paese aveva colpito la Siria, in risposta all'attacco chimico condotto dalle forze fedeli ad Al-Assad qualche giorno prima. In questo contesto, Trump aveva dichiarato: "Questa notte ho ordinato un attacco militare contro la base aerea siriana dalla quale è stato lanciato l'attacco chimico" e aveva aggiunto: "È nell'interesse per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti impedire e scoraggiare la diffusione dell'uso di armi chimiche mortali".
Il 4 aprile 2017, le forze del regime siriano di Bashar Al-Assad avevano colpito la città di Khan Sheikhoun, situata nel governatorato di Idlib, nel nord-ovest della Siria, causando la morte di 90 civili. Durante l'attacco sarebbero state utilizzate armi chimiche, in particolare il gas sarin. Il 26 ottobre 2017, le Nazioni Unite avevano pubblicato un report nel quale attribuivano la responsabilità dell'attacco alle forze del regime siriano.
(Sicurezza Internazionale, 9 aprile 2018 - trad. Laura Cianciarelli)
Medio Oriente: siamo a un passo dalla guerra tra Israele e Iran?
E' stata una nottata agitata sui cieli del Medio Oriente. Prima un attacco a una base aerea siriana che ospita anche militari iraniani di cui viene incolpato Israele, poi un attacco (questa volta realmente israeliano) a obiettivi di Hamas nella Striscia di Gaza.
Il quotidiano Haaretz fa notare, questa volta giustamente, che mentre fino ad oggi Israele è rimasto fondamentalmente ai margini degli sconvolgimenti avvenuti in Medio Oriente, ora sembra prendere una parte molto attiva.
L'uccisione di militari iraniani in Siria potrebbe essere la scintilla di un conflitto tra Iran e Israele che appare sempre più inevitabile visto che a Teheran non ne vogliono sapere di abbandonare la Siria come invece chiedono da Gerusalemme....
(Rights Reporters, 9 aprile 2018)
Da Israele tre startup per il risparmio idrico
La crisi idrica è uno dei maggiori problemi mondiali. Se poi aggiungiamo che un rapporto dell'NPR (National Public Radio) stima che circa 2,1 miliardi di litri d'acqua vengono persi ogni anno, si riesce a comprendere quanto sia grave questo problema. Israele, che da sempre combatte contro la carenza d'acqua e la desertificazione, ha fatto del risparmio idrico il proprio cavallo di battaglia.
Tre startup israeliane mirano ad affrontare proprio questo problema offrendo soluzioni per la riparazione o prevenzione delle perdite.
Aquarius Spectrum
Con sede a Tel Aviv, Aquarius Spectrum sviluppa un sistema di software e sensori che lavorano in modo armonioso per monitorare le condutture idriche delle utenze.
I sensori comunicano con il software per avvisare le aziende di servizi idrici quando viene rilevata una perdita.
Il rilevamento delle perdite in tempo reale è ancora una nuova tecnologia. In precedenza, il rilevamento delle perdite era una scienza inesatta. Anche le riparazioni erano economicamente costose soprattutto perché era difficile individuare la posizione esatta della perdita.
Come spiega Jacob Maslow per il TheTimesOfIsrael, i sensori creati da Aquarius Spectrum risolvono il problema delle perdite. I sistemi di monitoraggio possono essere installati su idranti e tubi senza alcun problema. Ogni notte, i sensori effettuano misurazioni e inviano i dati a un server cloud. Il software utilizza degli algoritmi per determinare la distanza tra la perdita e il sensore.
Una volta trovata la posizione, un esperto potrebbe utilizzare l'apparecchiatura di ispezione video per determinare la causa e la posizione esatta del problema.
Il sistema di monitoraggio dell'azienda non solo può aiutare a rilevare e correggere le perdite prima che diventino un problema serio, ma può anche localizzare la posizione del danno senza dover scavare un'intera strada.
LeaksStop
La startup israeliana LeaksStop mira a fermare le perdite nei tubi che possono causare danni costosi nel lungo periodo.
Una sorta di box viene montato sulla linea principale dell'acqua e modula la pressione idrica quando il rubinetto non è in uso.
LeaksStop è in grado di prevenire le infiltrazioni e le perdite d'acqua. Basti pensare a ciò che accade quando proprietari sono fuori per le vacanze e serve anche come un avvertimento precoce se c'è qualcosa che non va nell'impianto idraulico.
Il sistema utilizza algoritmi per modulare la pressione e rilevare potenziali perdite. Quando qualcosa non funziona, il sistema invierà un avviso tramite SMS.
LeaksStop può anche aiutare a prevenire la formazione di nuove perdite. Meno pressione sui tubi significa meno usura dell'impianto.
Curapipe
Con sede ad Ashkelon, Curapipe spera di contribuire a risolvere un problema che affligge molti sistemi idrici in tutto il paese: le perdite dai tubi.
La soluzione di Curapipe è di inviare nelle tubature dei piccoli oggetti spugnosi per pulire la rete idrica. L'approvvigionamento idrico viene sospeso per alcune ore mentre la pressione dell'acqua spinge questi oggetti all'interno del sistema.
(SiliconWadi, 9 aprile 2018)
Paul McCartney ha vinto un prestigioso premio isreaeliano
di Mattia Luconi
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Paul McCartney ieri e oggi
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Paul McCartney è stato proclamato vincitore del premio Wolf, un riconoscimento israeliano assegnato dal 1978 dalla Fondazione Wolf a scienziati ed artisti che si sono distinti per il bene dell'umanità e dei rapporti fra i popoli.
Tra le motivazioni del premio emerge che Paul McCartney è «uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi. Un'artista incredibilmente versatile, in grado di spaziare dal rock più fisico alle melodie di un'intimità ossessionante e straziante. I suoi testi hanno una gamma altrettanto ampia, da quella ingenua e affascinante a quella commovente e persino disperata. Ha toccato i cuori di tutto il mondo, sia come Beatles che nelle sue band successive, tra cui i Wings».
McCartney condividerà il premio con il conduttore Adam Fischer, che il comitato del premio ha definito come un «eloquente difensore dei diritti umani - in particolare - la sua protesta contro gli sviluppi politici nella sua nativa Ungheria».
Sono stati annunciati anche altri sette vincitori nei campi della matematica, della chimica, della fisica e dell'agricoltura. I premi (che consistono in 100.000 $) saranno consegnati dal presidente isreaeliano Reuven Rivlin durante una cerimonia speciale che si terrà alla Knesset di Gerusalemme, alla fine di maggio.
(Spettakolo!, 9 aprile 2018)
Lieberman: ipocrisia sulla morte del reporter
In Siria mezzo milione di morti ma il Consiglio sicurezza non si è riunito
Sono motivate da "ipocrisia" le richieste giunte da più parti per un'indagine sull'uccisione, venerdì al confine con Israele, del fotoreporter di Gaza.
"Questa è la marcia dell'ipocrisia, è la marcia della follia a cui siamo abituati". Lo ha detto il ministro della difesa Avigdor Lieberman alla radio militare. "In Siria sono morte mezzo milione di persone, di cui 48 civili la scorsa notte. Ma il Consiglio di sicurezza Onu non è convocato e la Lega araba fa finta di niente. È pura ipocrisia".
(ANSAmed, 8 aprile 2018)
Il governo inglese finanzia le scuole palestinesi che insegnano lo jihad e l'antisemitismo
di Paolo Castellano
Il 2 aprile un'inchiesta del Sunday Times ha svelato che nel 2017 il governo britannico diede 20 milioni di sterline alle scuole palestinesi che, secondo diversi gruppi di osservazione, incoraggiano lo jihad, omettono i riferimenti agli accordi di pace con Israele e glorificano il martirio.
Materie scolastiche incentrate sulla guerra agli ebrei
Come riporta il The Times of Israel, tutto è partito dall'inchiesta dell'Istituto per il monitoraggio della pace e della tolleranza culturale nell'educazione scolastica (IMPACT-se) che ha analizzato i testi scolastici adottati dall'Autorità Palestinese in cui "si esortano i giovani palestinesi a compiere atti di violenza".
Tra le varie materie, ai giovani studenti vengono insegnate la fisica dietro le fionde che vengono usate per lanciare le pietre ai soldati israeliani, la glorificazione del martirio e gli ideali di guerra.
«Il percorso di studio induce i giovani studenti palestinesi a usare la violenza in modo più ampio e sofisticato», ha sottolineato l'IMPACT-se. «Il discorso educativo è basato sul nazionalismo e sul martirio religioso e questo messaggio viene veicolato attraverso la scienza, la letteratura, la storia e testi di educazione religiosa».
«L'istruzione appoggia totalmente e dichiaratamente lo jihad che viene presentato come una sorta di strategia difensiva. L'obiettivo degli studi è quello di insistere sulla demonizzazione di Israele per giustificare razionalmente la guerra contro lo Stato ebraico», hanno aggiunto gli analisti del IMPACT-se.
33mila sterline per gli stipendi dei maestri palestinesi
Durante un'audizione in parlamento, il ministro inglese per lo Sviluppo internazionale, Alistair Burt, ha rivelato che i contribuenti inglesi stanno finanziando con 33mila sterline gli stipendi degli insegnanti palestinesi che utilizzano i nuovi metodi di studio.
Poco tempo dopo, Burt ha pure affermato che "tutte le loro scuole - quelle dell'Autorità Palestinese - nella Cisgiordania stanno usando il curriculum di studi riformato nel 2017. Sono inoltre coinvolti impiegati e maestri a cui i fondi pubblici inglesi pagano uno stipendio".
La parlamentare Joan Ryan, presidente dell'associazione Amici laburisti di Israele, ha criticato i finanziamenti alle scuole che usano il sopraccitato programma scolastico.
«È assolutamente terribile che i soldi dei contribuenti inglesi supportino l'insegnamento di un curriculum di studi che incita alla violenza e al terrorismo e che per di più aumenta l'antisemitismo», lei ha detto. «Il governo deve immediatamente sospendere tutto l'aiuto all'Autorità Palestinese finché non si impegnerà a revisionare all'ingrosso e urgentemente i programmi scolastici».
Il dipartimento per lo Sviluppo Internazionale con una dichiarazione ha risposto al Times dicendo che "il supporto britannico sta aiutando circa 25mila giovani palestinesi ad andare a scuola ogni anno. Il governo inglese condanna fortemente tutte le forme di violenza e incitamento alla violenza.
La riforma scolastica dell'Autorità Palestinese
Ad agosto, l'Autorità Palestinese ha introdotto un nuovo percorso di studi scolastici per i gradi 5-11. In un'analisi pubblicata a ottobre, l'IMPACT-se ha trovato che "la radicalizzazione è pervasiva attraverso il nuovo percorso di studi, raggiungendo un'estensione mai vista finora".
Il sacrificio della vita veine incoraggiato anche per le ragazze in un contesto di eguali diritti e gli eroi sono coloro che "hanno sacrificato la loro anima".
"Loro (gli eroi) insegnano alle persone che è molto più dolce diventare martiri piuttosto che passare una lunga vita nell'umiliazione", si legge in un testo in lingua araba del 5 grado, secondo la traduzione effettuata dai membri dell'IMPACT-se.
"Dare la vita , il sacrificio, il combattimento, lo jihad e la lotta sono i più importanti significati dell'esistenza", un altro testo suggerisce.
(Bet Magazine Mosaico, 8 aprile 2018)
Cyberattacco contro l'Iran
L'infrastruttura Internet iraniana ha subito un attacco informatico su larga scala venerdì sera, secondo il ministro dell'Istruzione e delle comunicazioni dell'Iran Mohammad Javad Azari Jahromi. Lo riferisce il "Jerusalem Post". Secondo le notizie del quotidiano israeliano, l'attacco, che ha sfruttato una debolezza degli switch Cisco, ha preso di mira i data center di diversi provider di servizi Internet iraniani e ha fatto crollare siti Web, hanno riportato i media iraniani. Sono stati interessati anche i servizi Internet di altri Paesi.
La rete iraniana è stata oggetto di un famoso attacco da parte del virus Stuxnet, creato e diffuso dal Governo statunitense in collaborazione col governo israeliano. Lo scopo del software era il sabotaggio della centrale nucleare iraniana di Natanz. In particolare, il virus era stato prodotto per disabilitare le centrifughe della centrale, impedendo la rilevazione dei malfunzionamenti e della presenza del virus stesso. L'operazione di sviluppo e diffusione dell'arma informatica - operazione denominata «Giochi olimpici» - era iniziata sotto l'amministrazione di George Bush Junior e poi proseguita, in maniera più incisiva, sotto Barack Obama, letteralmente ossessionato dalle cyberguerre.
(Libero, 8 aprile 2018)
Eroi italiani
La partecipazione ebraica alla Grande Guerra fu l'occasione per appropriarsi dello status di cittadini riconosciuto nel1848.
di Ada Treves
Gabriele, partito per la Grande Guerra due settimane dopo la morte del padre divenne Tenente maggiore nell'artiglieria di montagna e a causa dei gas asfissianti austriaci tornò con i polmoni compromessi. Fu comunque inviato in Libia.
Cesare, convinto interventista, partì volontario per il fronte nel momento decisivo del conflitto. Morì nella nona battaglia dell'Isonzo, nel 1916.
Anche Italo, «ragazzo del '99», era partito volontario: diventò Sottotenente di fanteria e ricevette due croci di guerra al valor militare. Questo non impedì che venisse deportato a Flossenburg, dove diventò il prigioniero 40041.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Gabriele, Cesare e Italo sono solo alcuni dei tanti ebrei italiani che si impegnarono per la patria, durante la Prima Guerra Mondiale, e la mostra fotografica «1915-1918 Ebrei per l'Italia», realizzata dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano ( Cdec) e presentata all'Archivio di Stato di Torino grazie alla collaborazione con la Comunità ebraica e con l'Istituto Salvemini ne racconta le vicende.
In tutta Europa migliaia di ebrei si trovarono a combattere su fronti contrapposti: oltre 600 mila erano impegnati in Russia, circa 350 mila nell'esercito Austro-ungarico ( che comprendeva anche triestini e fiumani), 100 mila tedeschi, 50 mila inglesi e altrettanti francesi. In Italia i circa 5400 ebrei che si trovarono a combattere interpretavano il conflitto come l'ultima delle guerre risorgimentali, un'occasione che permetteva loro di appropriarsi definitivamente dello status di cittadini ottenuto per la prima volta a Torino nel 1848, grazie alle Regie patenti concesse da Carlo Alberto.
Come voluto dai curatori - lo storico Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Cdec, e Daniela Scala - a ogni tappa alla mostra, itinerante, viene aggiunto un pannello con le storie degli ebrei locali. A Torino sono stati David Sorani e Baruch Lampronti, che cura anche l'allestimento, a occuparsene, individuando i discendenti di coloro che combatterono per la Patria e recuperando così storie e materiali.
«Forse è una caratteristica molto ebraica: sono abituato a trasformare i vincoli in risorse - ha spiegato l'architetto Lampronti - e qui l'allestimento è semplice, lineare, integra una postazione multimediale e un video. Poi al coinvolgimento dei discendenti anche il nuovo pannello dedicato ad alcuni ebrei torinesi coinvolti nella Grande Guerra racconta storie importanti».
Gabriele si chiamava Gabriele Fubini: dopo essere stato rimpatriato dalla Libia, fu dichiarato mutilato di guerra e nel 1939 a seguito dell'emanazione delle «Disposizioni relative al personale militare di razza ebraica» venne collocato in congedo assoluto.
Cesare, che si chiamava Jarach, prima di partire volontario era uno degli allievi prediletti di Luigi Einaudi. Economista politico, aveva portato avanti parallelamente attività scientifica e carriera istituzionale, animato dagli ideali liberali e patriottici della tradizione risorgimentale di Cavour.
C'erano anche Cesare Amedeo Sacerdote, di cui restano numerose lettere alla famiglia, che nel maggio del '18 morì colpito da una scheggia di granata, e Adolfo Samuele Fubini, ufficiale medico.
Italo, invece, che di cognome faceva Momigliano, aveva due fratelli, Aldo e Dante, che diversamente da lui erano stati precettati. Congedati tutti e tre con onore e iscritti nell'albo degli ufficiali in congedo che non sopravvissero alla Shoah.
(La Stampa - Torino, 8 aprile 2018)
Ci costringono ad accogliere pure gli orchi che vogliono distruggerci
La nostra civiltà sta andando contro la vita e la ragione. Prima permettiamo che i bimbi siano uccisi nei ventri delle madri, poi pensiamo di sostituirli con i migranti. Anche quelli che ci odiano.
di Silvana De Mari
Jacques Hamel, 86 anni, il parroco della chiesa di SaintEtienne - d u Rouvray, vicino a Rouen, è stato sgozzato nel 2016 perché stava celebrando la Messa e perché, pare, si era rifiutato di inginocchiarsi davanti agli assalitori. L'ottantacinquenne Mireille Knoll è stata assassinata con particolare ferocia pochi giorni fa per la colpa di essere ebrea. Occorre una particolare ferocia per pugnalare e ancora pugnalare un corpo anziano, un corpo fragile, per uccidere un «nemico» inerme nell'ultima parte della vita. Occorre una particolare ferocia per uccidere intenzionalmente bambini, come i bimbi ebrei della suola ebraica di Tolosa. Occorre una particolare ferocia per inneggiare sui social alle loro morti. Occorre parlare di questa ferocia, non negarla, occorre parlarne, non inventarsi che si tratti di isolati squilibri mentali, occorre capire cosa la alimenta, perché è evidente che è alimentata, occorre alzare muri di cinta per proteggere le vite fragili. I gessetti colorati mettiamoli via.
Un continente che non protegge le proprie frontiere, che permette a chi non lo ama di diventarne cittadino, espone gli inermi al martirio. Amo moltissimo gli immigrati che amano la nazione che li accoglie, Magdi Cristiano Allam, Souad Sbal, il cardiologo pachistano che ha operato mio marito, Azer Sharif e la comunità copta di Torino. Non amo coloro che non la amano. Nessun popolo deve essere costretto ad accogliere chi non lo ama, chi lo odia. Non esiste questo obbligo. Senza muri a proteggerli, gli inermi saranno attaccati. Chi costruisce ponti tra aspiranti carnefici e quelli che diventeranno loro vittime sta compiendo in azione che si chiama favoreggiamento.
Sto leggendo questo libro e volevo condividere questa citazione. «La Magli si spinge fino ad affermare che essendo "le migrazioni l'arma principale per giungere in breve tempo alla disintegrazione delle singole culture" deve esserci un qualche burattinaio: "Non conosciamo i nomi di coloro che ci lavorano ma esiste sicuramente un centro direttivo, fornito di imponenti mezzi psicologici, propagandistici e finanziari, che sollecita e aiuta milioni di persone ad abbandonare il proprio Paese, l' Africa soprattutto, per dirigersi verso l'Italia e l'Europa. Contemporaneamente sono state date le istruzioni opportune a tutte le istituzioni politiche, sociali e religiose, per predisporre i popoli oggetto dell'invasione al dovere dell'accoglienza, con un martellamento incessante da parte degli strumenti di comunicazione di massa, dei politici e, almeno per quanto riguarda l'Italia, anche con una predicazione aggiuntiva e intimidatoria da parte della Chiesa"» (da Traditi, sottomessi, invasi di Antonio Socci).
Ci dicono che i migranti non sono un danno, ma un dono. E chi li percepisce come danno, chi ritiene che sia un danno all'economia italiana dover dissanguarsi per mantenerli, esattamente come è un danno grave per l'economia africana questa emorragia di uomini forti, è accusato di essere razzista e stupido.
In compenso il bimbo è presentato come danno, non come dono. A Roma è stato rimosso con incredibile solerzia il cartellone di pro vita che osava presentare il feto per quello che è: un creatura umana.
I due fenomeni sono correlati: una civiltà che permette che i propri figli siano uccisi nel ventre delle madri a spese della comunità, come se la loro esistenza fosse una malattia, senza informare le madri dei possibili effetti collaterali (il rimpianto, un rimpianto intollerabile) e contemporaneamente impone l'introduzione di estranei da mantenere minimizzando il fatto che molti di loro non siano benevoli, è una società che ha perso il senso del reale.
Nel frattempo raccomando il libro di Antonio Socci, un libro imperdibile.
(La Verità, 8 aprile 2018)
La nostra società ha perso il senso del reale perché ha perso il senso del bene e del male. Aborti e matrimoni omosessuali sono considerati un bene, non un male: conquiste di una superiore civiltà. Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro! (Isaia 5:20) avverte la Scrittura. Non possiamo continuare a chiamare bene il male e sperare di evitare i guai: le due cose i sono inseparabili. M.C.
Mantovano, terra d'ebrei
di Giulio Busi
Separati, differenti, spesso discriminati. La vicenda ebraica in Italia s'è svolta, nei secoli scorsi, quasi sempre all'insegna della diversità. Ma quando la si va a misurare, giorno per giorno, documento per documento, questa separatezza diviene una nozione disomogenea, da rivedere e quantificare caso per caso. Diversi per fede e orgogliosamente leali a un antico, non negoziabile rapporto con il divino, gli ebrei italiani hanno saputo mantenere, in ambiente maggioritario cristiano, una propria, autonoma legge religiosa, ben consapevoli del prezzo che questo avrebbe comportato. Allo stesso tempo, il loro livello d'integrazione nella vita economica della Penisola è stato piuttosto alto, ben superiore alla loro importanza demografica.
Certo, una simile interazione economica ha subito grandi arretramenti - si pensi all'espulsione da tutta l'Italia meridionale, iniziata nel 1492 e completata nel 1541- e si è scontrata con la volontà di segregazione, culminata nell'istituzione dei ghetti, dal primo esempio veneziano del 1516 fino alla politica instaurata da Paolo IV nel 1555. E tuttavia ... In uno studio su una manciata di comunità ebraiche fiorite in area mantovana, Ermanno Finzi raccoglie un dossier di simili "tuttavia", tratti dai secoli d'oro del giudaismo di quei luoghi. Marcaria, San Martino dell'Argine, Gazzuolo e Bozzolo: sono tutte realtà minori, sottoposte per lo più al dominio di rami collaterali dei Gonzaga, e poi passate sotto il governo asburgico. Si tratta di comunità che si sono per lo più dissolte nel corso del Novecento, ma che un tempo hanno avuto una loro vivace vita religiosa ed economica. I numeri sono piccoli, ma il significato storico non è trascurabile. "Tuttavia" significa infatti, nel caso dell'ebraismo italiano, che quanto non è possibile nei centri maggiori può essere talora praticabile in periferia. Agire sul territorio, condurre i propri commerci, far parte, in qualche modo, di un tessuto sociale: sono gli indicatori di quella, certo parziale, normalità che caratterizza la vicenda ebraica nel nostro Paese e la distingue da molte altre diaspore europee.
La lingua dei documenti è spesso umile ma concreta, calata nella quotidianità. Si prendano per esempio i lasciti testamentari, esaminati da Finzi. Non è raro imbattersi in donazioni, anche significative, elargite da testatori ebrei a istituzioni religiose cristiane, e persino al locale Monte di pietà. Si dirà che si tratta di destinazioni di convenienza. Ma proprio questo è il punto. La consuetudine, il mantenimento di rapporti a livello personale, il riconoscimento dell'altro. Per quanto gravata da molte restrizioni, la posizione degli ebrei all'interno di queste piccole realtà padane era quasi sempre prospera e rispettata. Non da tutti, certo, e non sempre. Eppure, anche vista da qui, da quelli che sono stati definiti i territori dei Gonzaga delle nebbie, la vicenda ebraica si lega indissolubilmente a quella maggioritaria. Dobbiamo capire che c'è un'unica storia italiana. E che, senza l'elemento ebraico, quell'unica storia non la si può scrivere. Le differenze, le screziature, i conflitti non vanno stralciati o taciuti. Bisogna mostrarli, ricostruirli, comprenderli nella loro realtà fattuale. Tuttavia, o nonostante che dir si voglia.
Ermanno Finzi, E alla fine non rimase nessuno. Storia degli ebrei di Marcaria, San Martino dall'Argine, Gazzuolo e Bozzolo, Istituto Mantovano di Storia Contemporanea
(Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2018)
Amiamoci gli uni gli altri
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato per noi l'amore di Dio: che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo affinché, per mezzo di lui, vivessimo. In questo è l'amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi, e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi.
Dalla prima lettera dell'apostolo Giovanni, cap. 4
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Arabia Saudita e Egitto chiedono ad Hamas di fermare le proteste
GERUSALEMME - L'Arabia Saudita e l'Egitto avrebbero chiesto all'organizzazione islamista palestinese Hamas di porre fine alle proteste della "Marcia di Ritorno". Lo ha detto un funzionario del ministero degli Esteri egiziano, chiedendo di restare anonimo, al quotidiano israeliano "Jerusalem Post". L'Egitto, in cambio, avrebbe assicurato l'apertura su base regolare del valico di frontiera di Rafah. La stessa fonte ha detto che l'accordo sarebbe stato diretto dai sauditi: "La situazione nella Striscia di Gaza sta diventando esplosiva; c'è il timore che la rabbia palestinese si riversi contro l'Egitto nelle prossime settimane". I funzionari sauditi ed egiziani, prosegue il quotidiano israeliano, avrebbero già avviato dei contatti diretti con i leader di Hamas per riportare la calma a Gaza. Mentre Israele ed Egitto hanno firmato un trattato di pace nel 1979, non esiste alcun contatto ufficiale tra Israele e l'Arabia Saudita. Tuttavia, la recente decisione di Riad di consentire ai voli India Air tra Tel Aviv e Mumbai di sorvolare il proprio spazio aereo, sembra indicare una tendenza generale a un avvicinamento tra Israele e il più grande Stato sunnita della regione.
(Agenzia Nova, 7 aprile 2018)
Europa: La rapida espansione della dhimmitudine
di Judith Bergman
- Uno degli aspetti più preoccupanti di questa dhimmitudine che si sta espandendo rapidamente è l'applicazione de facto delle leggi islamiche sulla blasfemia. Le autorità locali europee utilizzano i "discorsi di incitamento all'odio" per impedire qualsiasi giudizio critico nei confronti dell'Islam, anche se l'Islam rappresenta una idea, non una nazionalità né un'appartenenza etnica. Lo scopo convenzionale della maggior parte delle leggi contro i discorsi di odio è quello di proteggere le persone dall'odio e non dalle idee.
- Il Foreign Office britannico, che sembra ignorare la disperata lotta delle donne iraniane per la libertà e che è rimasto vergognosamente in silenzio durante le recenti proteste popolari contro il regime iraniano, ha distribuito sorprendentemente alle sue dipendenti il velo islamico invitandole a indossarlo. E questo mentre almeno 29 donne iraniane sono state arrestate per aver contestato l'uso dell'hijab, e probabilmente sono state sottoposte a stupri e ad altre torture, come avviene nelle carceri iraniane. Ciononostante, le parlamentari britanniche e lo staff del Foreign Office hanno celebrato iniquamente il velo come una sorta di strumento contorto di "empowerment femminile".
- Le misure contro il jihad sono state ostacolate dai leader occidentali ovunque subito dopo l'11 settembre. Il presidente George W. Bush ha dichiarato che "l'Islam è pace". Il presidente Obama ha rimosso ogni riferimento all'Islam nei manuali di addestramento dell'FBI che i musulmani consideravano offensivi. L'attuale leadership di New York City ha ammonito i newyorkesi, subito dopo l'attacco a Manhattan dell'ottobre 2017, a non collegare l'attentato terroristico all'Islam. La premier britannica Theresa May ha affermato che l'Islam è una "religione di pace".
Sebbene l'Europa non faccia parte del mondo musulmano, molte autorità europee sembrano tuttavia sentirsi obbligate a sottomettersi all'Islam in modi più o meno sottili. Questa sottomissione volontaria sembra essere senza precedenti: storicamente parlando, dhimmi è un termine arabo che designa un non musulmano conquistato, il quale accetta di vivere come un cittadino "tollerato" di seconda classe, sotto il dominio islamico, sottomettendosi a un insieme di leggi speciali e umilianti e di richieste degradanti da parte dei suoi padroni islamici.
In Europa, la sottomissione alle richieste dell'Islam, nel nome della "diversità" e dei "diritti umani", avviene volontariamente. Ovviamente, questa sottomissione all'Islam è molto paradossale, poiché i concetti occidentali di "diversità" e di "diritti umani" non esistono nei testi fondanti dell'Islam. Al contrario, questi testi stigmatizzano nei termini più forti e suprematisti coloro che rifiutano di sottomettersi al concetto islamico della divinità, Allah, come infedeli che devono convertirsi, pagare la jiziya - la tassa sulla "protezione" - o morire.
Uno degli aspetti più preoccupanti di questa dhimmitudine che si sta espandendo rapidamente è l'applicazione de facto delle leggi islamiche sulla blasfemia. Le autorità locali europee utilizzano i "discorsi di incitamento all'odio" per impedire qualsiasi giudizio critico nei confronti dell'Islam, anche se l'Islam rappresenta una idea, non una nazionalità né un'appartenenza etnica. Lo scopo convenzionale della maggior parte delle leggi contro i discorsi di odio è quello di proteggere le persone dall'odio e non dalle idee. Sembrerebbe quindi che le autorità europee non abbiano alcun obbligo giuridico di perseguire le persone per le critiche mosse all'Islam, soprattutto perché la legge islamica della Sharia non è parte integrante della normativa europea. Ma lo fanno fin troppo volentieri.
L'esempio più recente di questo tipo di dhimmitudine arriva dalla Svezia, dove un pensionato è stato condannato per aver definito l'Islam su Facebook una ideologia "fascista". La disposizione di legge in base alla quale l'uomo è stato accusato, (Brottsbalken [Codice Penale] capitolo 16, § 8,1 ), parla esplicitamente di "incitamento" (testualmente in svedese: "hets mot folkgrupp") contro gruppi di persone per la loro "razza, colore della pelle, nazionalità, origine etnica, fede o preferenza sessuale". Tuttavia, la disposizione legislativa non criminalizza le critiche alla religione, all'ideologia o alle idee, perché le democrazie occidentali, quando erano vere democrazie, non criminalizzavano il libero scambio delle idee.
La dhimmitudine in Europa si manifesta anche in molti altri modi. In occasione della giornata mondiale dell'hijab, un evento annuale che si svolge a febbraio, istituita nel 2013 da Nazma Khan - la quale è originaria del Bangladesh e immigrata negli Stati Uniti - "per combattere ogni forma di discriminazione contro le donne musulmane attraverso la sensibilizzazione e l'istruzione", molte parlamentari britanniche hanno deciso di indossare l'hijab. Tra queste c'erano Anne McLaughlin, la laburista Dawn Butler - ex ministra ombra per le Donne e le Pari opportunità - e Naseem Shah. Inoltre, il Foreign Office britannico, che sembra ignorare la disperata lotta delle donne iraniane per la libertà e che è rimasto relativamente in silenzio durante le recenti proteste popolari contro il regime iraniano,[1][1] Il segretario agli Esteri Boris Johnson si è limitato a dire:
"...ci dovrebbe essere un dibattito significativo sulle questioni legittime e importanti, che i manifestanti stanno sollevando e speriamo che le autorità iraniane lo permettano. (...) Le persone dovrebbero essere in grado di avere la libertà di espressione e di manifestare pacificamente nel rispetto della legge. (...) Noi (...) chiediamo a tutti gli interessati di astenersi dalla violenza e di osservare gli obblighi internazionali sui diritti umani". ha distribuito sorprendentemente alle sue dipendenti il velo islamico invitandole a indossarlo. Secondo l'Evening Standard, una e-mail interna inviata allo staff diceva:
"Ti piacerebbe provare a indossare un hijab o capire perché le donne musulmane indossano il velo? Partecipa al nostro evento. Velo gratis per tutte quelle che decidono di indossarlo per tutto il giorno o parte della giornata. Le donne musulmane, insieme alle credenti di molte altre religioni, scelgono di portare l'hijab. Molte vi trovano liberazione, rispetto e sicurezza. #StrongInHijab. Join us for #WorldHijabDay".
E questo mentre almeno 29 donne iraniane sono state arrestate per aver contestato l'uso dell'hijab, e probabilmente sono state sottoposte a stupri e ad altre torture, come avviene nelle carceri iraniane. Ciononostante, le parlamentari britanniche e lo staff del Foreign Office hanno celebrato iniquamente il velo come una sorta di strumento contorto di "empowerment femminile".
L'episodio sopra citato non sorprende affatto: la Gran Bretagna è piena di alcuni degli esempi più sconcertanti di dhimmitudine. Gli stupri di massa di minori perpetrati in molte città inglesi da parte di bande musulmane vanno avanti da anni e le autorità ne sono a conoscenza, ma non mettono fine a questi crimini per paura di apparire "razzisti" o "islamofobi".
La dhimmitudine emerge chiaramente anche negli sforzi compiuti dalle autorità britanniche per scusare o
spiegare le consuetudini praticate dalle comunità musulmane britanniche. Il comandante della polizia Ivan Balchatchet, responsabile della lotta contro i crimini d'onore, le mutilazioni genitali femminili (MGF) e i matrimoni forzati, ha scritto di recente una lettera in cui afferma che il motivo per il quale non è stata
ancora inflitta alcuna condanna nei confronti di coloro che praticano le MGF (che sono state dichiarate illegali nel 1985), nonostante si stimi che in Inghilterra e nel Galles 137 mila donne e ragazze hanno subito tali mutilazioni, è che il reato ha "numerose sfumature". Balchatchet si è in seguito scusato per questa dichiarazione:
"Mi scuso per questa lettera (...) Le MGF sono l'orribile abuso di bambine. È inaccettabile che non ci siano stati casi perseguiti con successo. Occorre collaborazione, è qualcosa che deve cambiare".
Allo stesso modo, secondo dati recenti, centinaia di casi di violenze "d'onore" e di matrimoni forzati che avvengono a Londra restano impuniti. Le cifre mostrano che tra il 2015 e il 2017, la polizia ha registrato 759 crimini "d'onore" e 256 matrimoni forzati solo nella capitale
britannica - ma soltanto 138 persone sono finite sotto processo. Diana Nammi, direttrice esecutiva della Iranian & Kurdish Women's Rights Organisation, che offre rifugio alle vittime, ha dichiarato:
"Ciò che rende il fenomeno così allarmante è che le cifre ottenute grazie alla trasparenza nella pubblica amministrazione mostrano che, allo stesso tempo, dal momento che i matrimoni forzati sono penalmente punibili dal 2014, molte più persone in pericolo chiedono aiuto".
La dhimmitudine peraltro non porta "solo" a perpetrare diffusamente stupri su minori, mutilazioni genitali
femminili e delitti "d'onore" davanti agli occhi deliberatamente ciechi delle autorità nazionali, ma anche a ostacolare gli sforzi antiterrorismo. In una recente intervista alla televisione di stato svedese Svt, Peder Hyllengren, un ricercatore dello Swedish Defense College, ha dichiarato:
"Diversamente da altri paesi europei, si rischia di essere considerati razzisti. Qui, tale questione è controversa quanto l'importanza che assume la lotta contro il nazismo e l'estremismo di destra. Ma in
Svezia ci è voluto molto tempo prima di ammettere che parlare di jihadismo è come parlare di nazismo".
Hyllengren è troppo severo con la Svezia: le misure contro il jihad sono state ostacolate dai leader occidentali ovunque subito dopo l'11 settembre, quando il presidente George W. Bush dichiarò che "l'Islam è pace". Il presidente Obama ha rimosso ogni riferimento all'Islam nei manuali di addestramento dell'FBI che i musulmani consideravano offensivi. La premier britannica Theresa May ha affermato che l'Islam è una "religione di pace". L'attuale leadership di New York City ha ammonito i newyorkesi, subito dopo l'attacco a Manhattan dell'ottobre 2017, a non collegare l'attentato terroristico all'Islam.
Più recentemente, Max Hill, un avvocato della Corona incaricato dal Parlamento britannico di guidare una commissione indipendente per la revisione delle leggi anti-terrorismo, ha affermato che è fondamentalmente "sbagliato" usare l'espressione "terrorismo islamista" per descrivere gli attacchi compiuti in Gran Bretagna e altrove. Secondo quanto riferito dall'Evening Standard, Max Hill ha detto che la parola terrorismo non dovrebbe essere collegata a "nessuna delle religioni del mondo", piuttosto dovrebbe essere usata l'espressione "terrorismo ispirato dal Daesh". L'anno scorso, Max Hill aveva opinato che alcuni jihadisti di ritorno dalla Siria e dell'Iraq avrebbero dovuto sottrarsi a qualsiasi azione giudiziaria perché "ingenui".
In Germania, la dhimmitudine ora è un fenomeno talmente profondo che di recente il ministro della Famiglia ha affermato che le aggressioni sessuali da parte dei migranti musulmani potrebbero essere evitate invitando nel paese le madri e le sorelle degli immigrati islamici già arrivati in Germania. Questa è stata la risposta del ministro tedesco a una interrogazione presentata al Bundestag in merito a quali "concrete misure educative e di prevenzione del pericolo" il suo ministero stava pianificando per "proteggere e informare a lungo termine le donne e le ragazze degli attacchi fisici e sessuali potenzialmente fatali aumentati in misura sproporzionata e perpetrati dal 2015" da parte dei migranti. Ecco la patetica risposta del ministro:
"...Da un lato ciò riguarda gli alloggi in cui vivono i giovani rifugiati non accompagnati. E ovviamente (...) sì (...) anche la cultura maschilista dalla quale essi spesso provengono. (...) Nei loro paesi di provenienza, tale cultura non è tenuta nascosta e si tenta di parlarne, e ovviamente di influenzarli, è abbastanza ovvio. (...) Abbiamo qui la relazione di un esperto, il professor Pfeiffer, il quale fornisce dei punti di partenza molto precisi (...) noi dobbiamo lavorare con i giovani e sappiamo che i ricongiungimenti familiari sono importanti (...) lui [il professore] dice che la stessa cosa vale per i giovani uomini autoctoni e per quelli provenienti da altri paesi, sono più facili da gestire se hanno vicino a loro le madri e le sorelle".
L'Europa è piena di altri esempi recenti di dhimmitudine, offerti da innumerevoli attori statali e commerciali. C'è stata la rimozione di un crocifisso da parte in un giudice tedesco che presiedeva un processo a carico di un afgano accusato di aver minacciato un altro musulmano che voleva convertirsi al Cristianesimo; il brand di abbigliamento H&M ha ritirato dei calzini dal mercato la cui stampa ricorderebbe la parola "Allah" scritta in arabo capovolta, dopo alcune lamentele da parte di musulmani; un tribunale francese ha fatto cadere le accuse di istigazione all'odio a carico di un sospetto omicida musulmano, che aveva confessato di aver ucciso la sua vicina di casa ebrea, una donna di 66 anni da lui torturata prima di essere defenestrata al grido di "Allahu Akbar". Secondo quanto riferito, due anni prima dell'omicidio, l'uomo aveva chiamato "sporca ebrea" la figlia della vittima.
E la lista è lunga. Sheikh Yusuf Qaradawi, il leader spirituale dei Fratelli Musulmani, che ha affermato che l'Europa sarà conquistata non con la spada, ma con la dawa, probabilmente non potrebbe essere più felice. L'Europa si genuflette per esaudire il suo desiderio.
(Gatestone Institute, 7 aprile 2018 - trad. Angelita La Spada)
La "grande marcia del ritorno" palestinese, una vittoria della propaganda nazista
di Riccardo Ghezzi
Fallita l'Intifada promessa dai palestinesi dopo la decisione del presidente statunitense Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e di spostare l'Ambasciata da Tel Aviv, sta fallendo anche la "grande marcia del ritorno" voluta da Hamas nella Striscia di Gaza. Dei 30.000 partecipanti annunciati in pompa magna dai media di tutto il mondo ne sono rimasti poco più della metà, ma al di là della partecipazione numericamente degna di un corteo studentesco italiano anche la macchina della propaganda messa in moto con grande organizzazione si sta inceppando. La risposta dell'esercito israeliano è stata efficace, l'abbattimento di una decina di terroristi e miliziani di Hamas, schedati e identificati come tali, ha messo a tacere ogni tentativo di incolpare Israele della morte di civili o bambini palestinesi. Non ci sono stati omicidi di innocenti, nonostante alcuni organi di informazione e persino esponenti politici si ostinino con encomiabile testardaggine a credere e far credere il contrario.
Cos'è rimasto, quindi, ad Hamas? La brillante idea di bruciare pneumatici con l'obiettivo di creare una nube tossica al fine di rendere difficoltosa la visuale ai cecchini israeliani, ma l'unico risultato sarà quello di produrre inquinamento nella Striscia di Gaza mettendo a rischio la salute dei palestinesi stessi, e proseguire con la propaganda di stampo nazista.
Il Jerusalem Post ha pubblicato la foto, diffusa dall'esercito israeliano, di una bandiera con la svastica sventolante vicino a due bandiere palestinesi. Non c'è affatto da stupirsi, considerando che la propaganda filopalestinese sugli ebrei che sparano nella schiena dei bambini sembra presa in prestito da Goebbels in persona.
Certo, ci sarebbe da chiedersi per quale motivo facebook decida di avvisare che il video potrebbe contenere immagini di violenza contro "un bambino o un adolescente" ma è importante non censurarlo perché "potrebbe contribuire alla sua salvezza", dando credito alla propaganda filopalestinese e alimentando odio nei confronti di Israele ed ebrei. Lo stesso facebook che ha notificato ai gestori della pagina "Amici di Israele" la rimozione di un link della testata Il Foglio basandosi su segnalazioni in massa ricevute da gruppi organizzati di antisionisti.
(L'informale, 7 aprile 2018)
Scontri da Gaza
WASHINGTON - L'esercito israeliano afferma che le proteste lungo la linea di demarcazione israelo-palestinese fanno parte di un piano di Hamas: incitare i manifestanti; danneggiare la recinzione e fare ingresso in Israele; condurre attacchi terroristici contro civili israeliani. Nel primo venerdì di protesta il leader dell'ufficio politico del movimento palestinese che amministra Gaza, Hamas, Ismail Haniyeh, aveva affermato: "Questo è l'inizio del ritorno per tutti i palestinesi". Nei giorni scorsi i media arabi hanno riportato la circolare diffusa dai dirigenti di Hamas che hanno versato un indennizzo a tutti i manifestanti che venerdì sono rimasti feriti negli scontri con l'esercito israeliano e per le famiglie dei palestinesi morti finora a Gaza. Secondo l'emittente televisiva "al Arabiya" si tratta di fondi ottenuti da Hamas grazie i finanziamenti degli ultimi sponsor ancora vicini al gruppo che amministra Gaza dal 2007, come Qatar e Iran. Per molti anni, il Qatar ha rappresentato un soggetto finanziatore e alleato dell'organizzazione palestinese che guida i territori della Striscia di Gaza, tanto che il precedente leader del gruppo, Khaled Mashaal, è stato per anni ospite a Doha.
(Agenzia Nova, 7 aprile 2018)
Se la Palestina è uno stato, come alcuni dicono o vorrebbero, allora quello che il suo governo sta facendo è un tentativo di penetrazione violenta della sua popolazione nello stato confinante. Questo è un atto di guerra. Chi lha voluta ne porterà le conseguenze. M.C.
2018, antisemitismo in Germania
La comunità ebraica chiede di controllare la crescita dell'antisemitismo nelle scuole tedesche.
di Guido Capizzi
BREMA - Furono posti in evidenza nello scorso autunno (v. LCF n. 149 del 21 ottobre 2017) l'incremento di episodi contro giovani e famiglie d'origine ebraica nella Francia, in città con complicate condizioni delle periferie e la crescente simpatia per la destra xenofoba del Front National di Marine Le Pen uscita sconfitta dalle elezioni presidenziali e per altri movimenti filonazisti. Fenomeni preoccupanti che nei Paesi europei hanno trovato linfa in Polonia e Ungheria, dove gruppi e partiti di stampo nazista raccolgono sostegni e voti grazie alla crisi economica, alla mancanza di lavoro, all'aumento delle migrazioni e alla smarrita capacità di pensiero. Una storia già vista e la cui pericolosità sembra sfuggire.
Qui, in terra tedesca con una recente difficoltosa soluzione per nominare un governo dopo elezioni con la sconfitta dei maggiori partiti abituati a guidare il Paese, magari alternandosi, nelle ultime settimane di marzo la comunità ebraica ha sollecitato le scuole primarie a porre attenzione al bullismo religioso che si sta incrementando anche tra i ragazzi più giovani. Chi rappresenta gli ebrei ha fatto presente, infatti, che durante le pause di ricreazione e di gioco accadono manifestazioni di abuso antisemita.
Un allarme bullismo religioso tra i giovani, dove vittime designate sono ragazze e ragazzi di religione ebraica.
Il presidente del Consiglio generale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, ha dichiarato in una intervista all'emittente televisiva ZDF di sostenere la proposta formulata da un sindacato di polizia che intende elaborare statistiche nazionali per tracciare i casi di bullismo religioso nelle scuole. Anche Israel national news ha evidenziato il fatto sottolineando che il fenomeno è preoccupante.
Schuster auspica che insegnanti e studenti si disponessero a iniziare l'indagine statistica "sugli atti antisemiti e violenti" nelle scuole. Un metodo che evidenzierebbe una chiara fotografia di quello che sta accadendo nelle scuole tedesche.
La richiesta è scaturita anche dopo una recente indagine giornalistica che ha provocato forte indignazione in Germania. La stampa tedesca ha, infatti, scoperto che una giovane ragazza ebrea è stata vittima di atti di bullismo da parte di una compagna musulmana in una scuola elementare di Berlino. La giovane ebrea avrebbe anche ricevuto minacce di morte perché non crede in Allah. Questo allarmante incidente, ripreso anche questa settimana dal padre della ragazza in un'intervista al quotidiano Berliner Zeitung, ha acceso i timori già da tempo evidenti per la crescita dell'antisemitismo in Germania, 80 anni dopo la Shoah.
"Non è solo un caso isolato", ci ha detto Marina Chemivsky che dirige il gruppo di sorveglianza sull'antisemitismo di Berlino.
Sempre più spesso il termine "ebreo" viene utilizzato come insulto tra i giovani ragazzi delle scuole elementari: lo dicono molti maestri di Berlino. Analisti di geo-politica sostengono che il sentimento anti-ebraico stia aumentando a causa dei flussi migratori del 2015: allora un milione di immigrati, in prevalenza musulmani, chiesero asilo alla Germania.
Marina Chernivsky ci ha detto che il problema, però, non riguarda soltanto i nuovi arrivati di origine musulmana. Le preoccupazioni della comunità ebraica tedesca originano anche dalla considerazione "che nei Paesi di questi nuovi immigrati l'antisemitismo e l'anti-israelismo sono molto diffusi".
Josef Schuster ha dichiarato al Tagesspiegel che "finché gli ebrei avranno paura di andare a scuola temendo di subire un abuso antisemita ci sarà qualcosa di sbagliato in questo Paese".
Paese dove ti capita di incontrare anche "negazionisti", come il presidente dell'associazione berlinese degli amministratori scolastici, Astrid-Sabine Busse, che dubita sul fatto che il bullismo religioso sia un serio problema per gli scolari: "Non registriamo spesso questi tipi di incidenti antisemiti" ha detto al Tagesspiegel.
Eppure, secondo una classifica del Centro ebraico, la Germania è al secondo posto per diffusione di immagini e post antisemiti nel web. Fatto non imputabile soltanto ai giovani e ai ragazzi.
(La Città Futura, 7 aprile 2018)
A Gaza tra il fumo nero dei copertoni e i cecchini israeliani alla frontiera
Ancora un venerdì di sangue con sette palestinesi morti e mille feriti. I militari: Hamas costringe i militanti a venire con mogli e figli.
di Giordano Stabile
NAHAL OZ (Israele) - Il fumo nero, denso, si leva dietro i filari di aranci, si sente l'odore acre. Dietro la curva si vede il terrapieno del confine, a ridosso della recinzione, con le camionette dell'esercito che vanno su e giù. Due, tremila persone si accalcano nello spazio stretto fra le case del villaggio di Juhor al-Dik e la frontiera. Una zona di morte perché i soldati israeliani hanno l'ordine di sparare se i dimostranti cercano di forzare il confine. Dal lato israeliano le case dell'insediamento di Nahal Oz sono ad appena seicento metri. Dopo le tre il fumo diventa più denso, i palestinesi continuano a incendiare copertoni di auto, camion per creare una coltre spessa e impedire la visione ai cecchini, ai bordi dell'abitato, invisibili. La mattina era trascorsa senza incidenti di rilievo ma ora i cannoni ad acqua non bastano più a spegnere le fiamme né a contenere i manifestanti, che premono, in mezzo alle nuvole nere. Si sentono i colpi secchi dei fucili. Poi le sirene delle autoambulanze, che fendono la folla fin quasi alla recinzione.
Il venerdì è di nuovo di sangue. In sei manifestazioni al confine, almeno 20 mila persone, si contano a sera sette morti, compreso un ragazzo di 16 anni, e oltre 1000 feriti. È un altro Venerdì Santo, è la settimana della Pasqua ortodossa, che segna anche la fine della Pesah ebraica. Cominciata e finita malissimo. Le forze armate israeliane, la polizia, con i corpi speciali dalle divise nere, si sono preparati per sette giorni, hanno adattato le tattiche di contenimento, l'intelligence si è infiltrata per capire dove ci sarebbe stata la pressione più alta, e Naha Oz era uno di questi. Nelle retrovie c'è un impressionante apparato di camionette, blindati, camion dei pompieri, bulldozer. I soldati in rinforzo indossano i giubbotti antiproiettile e attraversano i frutteti. «Ogni vittima è una vittoria per Hamas», ammette il colonnello Jonathan Conricus responsabile delle sicurezza in questo settore: «Cerchiamo di sparare soltanto se non c'è altra possibilità per fermare le infiltrazioni. A seicento metri abitano cittadini israeliani, non possiamo permetterci alcun rischio».
L'Onu ha ribattuto che le armi da fuoco possono essere usate soltanto «nell'imminente rischio di essere feriti o uccisi». Ma Hamas, insiste il colonnello Cornicus, «gioca con le vite delle persone, paga le famiglie dei feriti, ha imposto a tutti i suoi militanti di venire con mogli e figli: è un tragico show a scopo propagandistico». I militari israeliani sottolineano che la mobilitazione è in calo, da 35 mila a 20 mila dimostranti, e il consenso per Hamas sta cedendo. Ma le voci che arrivano dalla Striscia sono di stanchezza sì, ma anche di disperazione che non promette niente di buono: «Ci hanno rubato tutto, la terra, la libertà, il futuro: tanto vale che ci ammazzino tutti». I militanti di Hamas partecipano, certo, alle manifestazioni ieri è arrivato anche il leader Yahya Sinwar, ma «assieme alla loro gente». La protesta andrà avanti e la giornata decisiva sarà il 15 maggio, quando la protesta diventerà «gigantesca».
Per i soldati israeliani è la più strana delle Intifade. «Quelli giocano con la vita, non gliene importa nulla: sono loro i responsabili delle morti», insistono. Non c'è battaglia, è un tiro al bersaglio. I due mondi non sono mai stati così lontani. Gaza, uno dei Paesi più poveri del mondo, ormai senza acqua potabile, perché gli egiziani hanno inondato i tunnel con acqua di mare, e le falde adesso sono salate. Dall'altra parte ci sono i soldati di leva di uno Stato che ha appena superato come Pil pro capite la Francia e la Gran Bretagna. La guerra, con i rischi da questo lato ridotti quasi a zero, sembra soprattutto un scocciatura, ma lascia i suoi segni. «Quando ho fatto il militare - racconta Sagui Gavri, uno dei pilastri della Ong Hearts for peace - ero un cecchino. C'era la prima Indifada. Puntavi il fucile e potevi vedere il volto dell'uomo che avevi nel mirino. Ero addestrato a farlo, in automatico. Non ci pensi, in quel momento, ci devi fare i conti dopo».
Gavri, già durante il servizio, si è fatto spostare al reparto medico. E lì ha scoperto la sua vocazione, fino a diventare cardiologo pediatra. «In dieci anni abbiamo curato 700 bambini palestinesi - racconta -. È il minimo che posso fare per Gaza: di là c'è una disperazione totale». Il nonno di Gavri è stato il fondatore dell'insediamento di Nir Am, negli Anni Trenta, attaccato alla Striscia. «Parlava arabo - ricorda -, trattava con i capi beduini e si era guadagnato il loro rispetto, tanto che gli avevano dato il titolo di moukhtar. Il massimo conflitto era allora per il furto di qualche mucca. Un altro mondo, che non tornerà più».
(La Stampa, 7 aprile 2018)
Gaza, pacivendoli e nazismo
Chi sono i pacivendoli? Il termine è mutuato dalla parola "pacifinto" cioè finto pacifista con una aggravante. Riprendendo da un nostro articolo del 2012 possiamo affermare che un pacivendolo e tecnicamente più subdolo di un finto pacifista: «pacivendolo è colui che si autodefinisce "pacifista" ma che, andando ben oltre il termine di "pacifinto", cerca di vendere il concetto che lo sterminio di un popolo possa portare la pace nel mondo. Insomma, un genocidio mascherato da "atto di pace"».
Non è un caso che ieri durante gli scontri lungo il confine tra Israele e Gaza sia comparso il simbolo nazista tra le bandiere palestinesi. Il termine "sterminio" abbinato alla parola "ebrei" è perennemente presente nella narrativa islamica, la distruzione dello Stato Ebraico in quanto "casa degli ebrei" prima ancora che nazione è l'obiettivo primario dell'islamo-nazismo come dimostrano Iran e Turchia....
(Rights Reporters, 7 aprile 2018)
Se questo è un padre
Ha perso il figlio e i nipoti nella strage degli ebrei di Tolosa. "Sarò l'ultimo Sandler di Francia"
di Giulio Meotti
Un vento pungente soffia a Tolosa la mattina del 19 marzo 2012. Jonathan controlla che le sciarpe dei bambini siano ben annodate e poi li bacia. Arié ha sei anni. Gabriel ne ha tre e non lascia mai il ciuccio. Sul marciapiede che costeggia la scuola Ozar Hatorah, Jonathan Sandler tiene per mano i figli. Fra poco inizia la preghiera ebraica. "Ogni giorno è un'offerta che Dio fa agli uomini" ripeteva loro. Le macchine rallentano, si fermano, gli studenti escono, poi ripartono. Le mani che si salutano, i baci che volano. "A stasera". "Buona giornata, tesoro". Alcune gocce di pioggia. Poi lo scooter.
Gabriele Arié si voltano, ammirano i motori che fanno rumore, e quello ne faceva tanto. L'uomo, Mohammed Merah, punta la canna dell'arma contro Jonathan. E spara. "Cosa stanno facendo i miei nipoti?
L'esecuzione dura 36 secondi. Quattro ebrei uccisi. Il terro- rista voleva conquistare il paradiso facendo di quella scuola un inferno.
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Stanno urlando, piangendo, cercando di scappare, chiamando la madre per chiedere aiuto? Non so nulla di questi momenti. Nessuno è accanto a loro". Queste parole sono di Samuel Sandler, il padre di Jonathan e il nonno di Arié e Gabriel. Ha scritto un libro che è una pietra per lapidare coscienze, Souviens-toi de nos enfants, appena pubblicato da Grasset, e che ripercorre la storia del primo, grande massacro islamista ai danni degli ebrei di Francia. Ne verranno altri, troppi.
Questi momenti, gli ultimi frammenti della loro vita, mi ossessionano. La mia immaginazione continua a ricostruire mentalmente quella mattina. Sento sibilare la prima pallottola. Vedo la folla paralizzarsi, per poi capire che la morte è in agguato, e allora tutti urlano a pieni polmoni, si precipitano nelle macchine, si nascondono dietro i bidoni della spazzatura, tra i cespugli. Gabriel e Arié vedono puntare l'arma contro i loro volti. Il mostro ha detto qualcosa? Punta la pistola alla tempia di Arié, il più grande dei due. Il proiettile attraversa la sua testa e Arié si schianta contro il padre. Gabriel non si muove più".
Qualche settimana prima gli avevano tagliato per la prima volta i bei riccioli marroni. La tradizione ebraica impone di aspettare i tre anni prima di tagliarsi i capelli. "I suoi genitori mi avevano mandato una sua foto. Era così orgoglioso di non essere più un bambino. L'assassino non ne sa niente, guarda Gabriel, a bocca aperta. Un bambino, solo in mezzo alla folla. E, in questo momento, sono certo che le grida intorno stanno raddoppiando. L'assassino ha eliminato tre ebrei. E' convinto di ottenere il paradiso facendo diventare la scuola un inferno. Il mostro va nel cortile, dove cattura colei che è scappata meno velocemente degli altri: Myriam Monsonego, otto anni. La afferra, punta la pistola ma l'arma si inceppa, la ricarica mentre tiene i suoi capelli biondi tra le dita, punta ancora la canna alla tempia e la uccide. Cerca altre prede facili, preferibilmente piccole. L'assassino spara da lontano. Il proiettile ferisce Aaron Bijaoui, quindici anni, dato per morto, a faccia in giù. Sta piovendo, le gocce cadono nelle pozzanghere di sangue. L'uomo torna al motorino e se ne va. Questa mattina non ci sarà alcuna preghiera alla Ozar Hatorah School. Sotto il cielo buio, quattro cadaveri sull'asfalto. L'esecuzione è durata trentasei secondi".
Da quella carneficina di sei anni fa esatti, Samuel Sandler vive come sotto anestesia. E' come un fantasma, le sue emozioni sono cancellate, le risa soffocate, gli stati d'animo sempre pigri, indolenti. "Anche le parole dei miei cari si sono trasformate in bisbigli che riesco a malapena a sentire. L'assenza di Jonathan, Gabriele Arié mi perseguita. Myriam, mia moglie, e io condividiamo il lutto, muto, rifugiandoci nelle preoccupazioni della vita quotidiana per allontanarci, insieme, dall'abisso che si trova davanti a noi. Poco dopo l'omicidio, mia moglie mi ha detto che si è pentita di aver dato la vita a Jonathan. Se avesse saputo che suo figlio sarebbe morto da martire, avrebbe preferito che non fosse mai nato. Che pensiero terribile. A differenza di Myriam, riesco a vivere, nonostante la nostra morte, perché il ricordo della loro
La madre di Jonathan rimpiange il giorno in cui è nato, il padre trova forza nei ricordi. "Mi aggrappo a essi, fino al ridicolo".
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vita mi conforta. Mi aggrappo ad esso. Fino al ridicolo. Ho comprato la nostra macchina diciotto anni fa e Jonathan mi aveva accompagnato. E' anche un po' per fargli piacere che avevo accettato questo colore blu anatra. Sarebbe ora di cambiare, ma mi rifiuto, perché mi piace stare seduto dove Jonathan ha messo la testa e ha allungato le gambe".
Ogni tre mesi, Sandler va a trovare la sorella maggiore di Jonathan, Jennifer, e suo marito Michael a Gerusalemme". Anche Eva, la madre di Arié e Gabriel, ora vive a Gerusalemme. "Meravigliosa Eva che al sacrificio della sua famiglia risponde con la preghiera. Trova significato nella pietà e la invidio. Liora, sua figlia, la sorella di Arié e Gabriel, ha sette anni. L'assenza è inchiodata nei nostri cuori. Il nostro lutto è solitario, taciturno. Non schiarisce. Nel tempo, ci allontana dai nostri cari. Non posso più piangere i morti, né confortare i vivi. La lotta non è mai finita. Non è scritto nella Bibbia che la luce dei malvagi debba essere estinta? Dando questa mia sepoltura scritta, accendo la fiamma dei loro ricordi per sempre".
Sandler ha scritto Souviens-toi de nos enfants assieme a Emilie Lanez, un giornalista del Point. "Sono stato il primo Sandler a nascere in Francia e sarò l'ultimo Sandler a viverci", scrive questo padre e nonno. I suoi genitori erano ebrei tedeschi fuggiti in Francia nel 1937. Messi in un campo di internamento all'inizio della guerra, riescono a scappare dal treno che li doveva condurre in un altro campo e da lì ad Auschwitz e poi per il camino, dove passarono a milioni. Il resto della famiglia verrà rastrellato e non tornerà più. "Mia madre non mi parlerà mai dello sterminio della famiglia. Non riderà più. Ho dieci anni quando mia sorella Léa inizia a raccontarmi dei campi di sterminio. Vuole che capisca perché mia madre è sempre triste e non può più piangere. Molti anni dopo, verrà il mio turno sul piangere i morti". Negli anni Cinquanta, i Sandler aprirono un ristorante popolare che vendeva cibo kosher e avevano una clientela di sopravvissuti, tra cui l'allora studente Elie Wiesel.
La famiglia vive in albergo e l'arredamento in cui il bambino cresce sarà quello delle stanze incollate l'una all'altra, con numeri sulle porte e tanti estranei sulle scale. Jonathan Sandler nasce nel 1981. Vuole diventare rabbino e va a vivere a Gerusalemme. Fino a quando, nel dicembre 2011, Yaakov Monsonego, il direttore della scuola Ozar Hatorah, il padre della piccola Miriam che aveva istruito Jonathan a Tolosa, gli offre un incarico come insegnante. "Io e mia moglie siamo rassicurati dal sapere che d'ora in poi vivranno in un paese sicuro, lontano dalla guerra in medio oriente", scrive Samuel Sandler. "In Francia, nella nostra repubblica laica e pacifica, nulla può accadere a loro". Oggi questo padre-nonno in lutto rifiuta il ruolo di costruttore di ponti. "Non posso sopportare di essere l'ebreo gentile i cui figli sono stati assassinati e che
I figli di Mireille Knoll hanno detto che "il futuro degli ebrei d'Europa è in pericolo ed è necessario prepararsi alla alyah" (partire per Israele).
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da allora ha tenuto conferenze e discorsi sulla riconciliazione e sulla pace, non voglio più essere quel dolce nonno".
Dopo Tolosa, gli ebrei francesi hanno preso in massa la strada dell'esilio. "L'Europa si sta svuotando degli ebrei, 60 mila sono partiti in dieci anni". Lo ha appena detto lo storico Marc Knobel al quotidiano Le Monde. Racconta Knobel che "dal primo ottobre 2000, nel giro di due settimane, 75 atti antisemiti furono commessi contro ebrei o istituzioni ebraiche, pari a quelli del 1998 (81 atti) e del 1999 (82 atti). Alla fine del 2000, il ministero dell'Interno ne registrò 744, dieci volte di più rispetto agli anni precedenti". Da notare il 2000, l'anno della Seconda Intifada. In Israele e in Europa iniziò allora la caccia selvaggia all'ebreo. Poi arriva la strage di Tolosa. "Divenne chiaro che poteva essere pericoloso mettere i bambini nelle scuole ebraiche".
Poi le uccisioni di Sarah Halimi nel 2017 e di Mireille Knoll pochi giorni fa. Stesso quartiere popolare, due donne anziane e sole, entrambe assassinate dagli inquilini della porta accanto. "Significa che gli anziani possono essere uccisi a casa dai vicini". Mireille la pugnalano, la strangolano e la bruciano nel letto. I due figli di Mireille Knoll, Daniel e Allan, hanno detto al Figaro che "il futuro degli ebrei in Europa è in pericolo. E' necessario prepararsi per un alyah in Israele o partire per un altro continente".
Knobel si lancia in una previsione: "Molte persone se ne andranno. Sessantamila persone se ne sono già andate in dieci anni da una comunità di 500 mila persone". Il padre di Myriam Monsonego ha parlato pochi mesi fa per la prima volta. All'Afp, Yaakov disse di essere rimasto in Francia per i bambini rimasti, per la scuola, per insegnare loro: "Non era pensabile porre fine a tutto questo". Tutti pensavano che una cosa simile non potesse mai succedere. "Il collegio era aperto di notte come il giorno. Eravamo convinti che questo non sarebbe mai potuto succedere a noi". La fede li sorregge: "Siamo convinti che la bambina non sia un kleenex che è stato gettato nella spazzatura. Ma che esiste, e che lì ci uniremo tutti un giorno o l'altro". Un giorno, non oggi, saremo in grado anche di comprendere davvero il terremoto fisico e morale che quest'ultimo omicidio di Mireille Knoll avrà significato per la terza più grande comunità ebraica al mondo. Intanto gli ebrei che non lasciano il paese si spostano, in massa, al suo interno.
Dal 2000 al 2015, interi quartieri francesi si sono visti trasformare a causa dell'antisemitismo come dopo una pulizia etnica: Stains è passata da 250 a 50 famiglie, Saint-Denis da 350 a 100, La Courneuve da 300 a 80, Le Blanc Mesnil da 300 a 100, Pantin da 1200 a 700, Rosny sous Bois da 300 a 200, Bondy da 300 a 100, Livry Gargan da 200 a 130, Aulnay sous-Bois da 600 a 100, Villepinte da 300 a 70, Clichy da 400 a 80, Neuilly sur Marne da 275 a 100 ... E' un terremoto senza precedenti. Ma è anche un libro di speranza quello di Samuel Sandler: "Il dolore non trionferà sulla memoria". Però questa speranza non sembra riguardare la Francia.
Yoav Hattab, Yohan Cohen, François-Michel Saada e Phillipe Braham, i quattro ebrei assassinati nel supermercato Hyper Cacher di Parigi, sono stati sepolti nel cimitero Givat Shaul di Gerusalemme.
Quasi tutti gli ebrei uccisi sono sepolti a Gerusalemme. Come se, anche nella morte, la Francia non fosse degna di ospitarli.
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Serge Cwajgenbaum, segretario generale del Congresso ebraico europeo, nella sua eulogia a Gerusalemme disse che le quattro vittime erano state seppellite in Israele per evitare che le loro tombe potessero essere profanate in Francia. E anche perché Israele è il luogo in cui "arriverà prima la pace del mondo", ha detto Nicole Yardeni, responsabile della comunità ebraica di Tolosa.
La prima che ha deciso di seppellire una vittima in Israele è stata la madre di Ilan Halimi, Ruth, otto anni fa: "E' mio dovere di madre offrire a mio figlio un riposo che giudico impossibile qui. Perché è qui, su questa terra di Francia, che Ilan è stato affamato, picchiato, ferito, bruciato. Come riposare in pace in una terra dove si è tanto sofferto? Questa domanda, alla quale né le mie figlie, né il mio ex marito hanno saputo rispondere, ci ha convinti che Gerusalemme doveva essere la sua ultima dimora". Accanto a Halimi e alle quattro vittime dell'Hyper Cacher a Gerusalemme riposano anche le quattro vittime dell'attacco alla scuola ebraica di Tolosa.
"Morte agli ebrei", c'è scritto oggi nei muri di Francia. Ma non è soltanto uno slogan. Ci sono già stati undici omicidi antisemiti in Francia dal 2000. Secondo un rapporto, il 40 per cento del mezzo milione di ebrei che attualmente vivono in Francia, all'incirca 200 mila persone, sta anche valutando la possibilità di trasferirsi in Israele. La metà del contingente militare francese è stata dislocata dopo il 2015 per proteggere i siti ebraici, in particolare le scuole. Lo scorso settembre, la femminista e autrice francese Elisabeth Badinter ha pubblicato sull'Express un appello a "non lasciare che gli ebrei combattano da soli". Sfortunatamente, sembra che sia così. Secondo un sondaggio Ipsos, sei francesi su dieci sono "indifferenti" alla fuga e alla piaga dei loro concittadini con la stella di Davide.
Tutto allora riporta alla frase terribile che chiude il capolavoro impastato di strazio e d'amore di Samuel Sandler: "E ricordo i vecchi tempi, i nostri". I bei tempi perduti degli ebrei di Francia.
(Il Foglio, 7 aprile 2018)
Al Ghetto di Roma: i carciofi alla giudia sono sicuri
I ristoratori nel quartiere ebraico della Capitale rispondono al Rabbinato d'Israele. I nostri carciofi rispondono alla tradizione casher
Ai ristoratori del Ghetto di Roma non va proprio giù. I carciofi alla giudia sono sicuri, e per come è fatto fin dal 600 risponde ai dettami casher. D'altronde, la pensa così anche Rabbino di Roma. Anche ieri i ristoranti nella zona ebraica della Capitale erano pieni, soprattutto di turisti, e la pubblicità negativa, involontaria, del Rabbinato d'Israele non sembra aver avuto effetto.
Il punto in questione e' che nei carciofi potrebbero essere presenti piccoli vermi o parassiti che rendono la pianta erbacea 'proibita' in base alle rigide regole della 'casherut'.
I ristoratori che abbiamo sentito ieri al Ghetto però sono sicuri del fatto loro. La liceita' del carciofo alla giudia "nasce da due peculiarita': il prodotto e la maniera di pulirlo. Gli ebrei romani hanno entrambe le cose". La prima riguarda il fatto che per fare il vero carciofo alla giudia occorre la varieta' detta 'romanesca', che ha una corolla stretta tale da impedire l'ingresso e l'annidarsi dei vermi. La seconda e' il modo di pulirlo, che da sempre e' lo stesso: prima si tolgono le foglie piu' dure, poi si mette il carciofo a bagno nell'acqua limonata e dopo lo si immerge nell'olio caldo per renderlo croccante.
"Gli ebrei romani - sottolineano ancora i ristoratori - sanno benissimo quali scegliere e come prepararli". E poi i carciofi in Israele, insistono a Roma, sono di qualita' differente e trattati in maniera molto diversa da quella nostrana.
(Radio Colonna, 7 aprile 2018)
Nella mia ultima visita al Museo Ebraico di Roma, la guida ci ha spiegato che esistono gli ebrei ashkenaziti, gli ebrei sefarditi e gli ebrei romani. Si spera vivamente che nella controversia in corso il rabbinato romano faccia sentire alta la sua voce, rivendichi la sua autonomia e proclami apertamente che i carciofi alla giudia romani non si toccano. I rabbini israeliani avranno le loro ragioni per dire che i carciofi alla giudia fatti in Israele sono impuri: motivo in più per dire agli ebrei osservanti la casherut che lunico posto in cui possano gustarseli senza pericoli di contaminazione è il ghetto ebraico di Roma. Gerusalemme resta sempre il centro del giudaismo internazionale, ma in fatto di carciofi alla giudia, la diaspora giudaica romana è insuperabile. Provare per credere, come ha fatto chi scrive. E può testimoniare che i carciofi alla giudia del ghetto romano sono autentica poesia culinaria. M.C.
Mengele, l'angelo della morte che visse due volte
Il romanzo di Olivier Guez sulla fuga del medico nazista
di Susanna Nirenstein
Per tre anni Olivier Guez , ebreo, giornalista, sceneggiatore nato a Strasburgo nel 1974, esperto di Germania nel dopoguerra, si è svegliato ogni mattina pensando a Josef Mengele; ha vissuto, rivendica, con questo criminale nazista di una mediocrità abissale, lottando contro lui e gridando il suo nome nella notte. Quel che voleva fare era rintracciare, in fondo alla sua fuga infinita, la psicologia del medico tedesco che per due anni, dal maggio' 43 al 17 gennaio' 45, ha incarnato il processo delle selezioni sulla banchina ferroviaria di Auschwitz, scegliendo chi mandare a morte nelle camere a gas e chi spedire ai lavori forzati, vagliando i convogli in entrata per scoprire eventuali gemelli con l'ordine Zwillinge heraus! (gemelli un passo avanti), la sua ossessione, visto che voleva scoprirne, quale medico primario di Birkenau, il segreto genetico per aumentare la prolificità della pura razza germanica. Bambini e adulti su cui sperimentò tutto, compreso il cambio dei colore degli occhi e l'unione dei corpi con organi in comune formando dei siamesi artificiali, o monitorando la morte per fame di neonati, uccidendoli alla fine dei suoi test con una iniezione di fenolo nel cuore, cercando anche individui con anomalie fisiche che potessero essere utilizzati per ricerche: questi ultimi dopo esser stati visitati venivano uccisi a colpi di arma da fuoco, i loro corpi dissezionati, le ossa inviate a Otmarvon Verschuer, direttore dell'Istituto per la ricerca biologico-razziale che a fine guerra tornò in cattedra.
Il loro scopo era dimostrare che la superiorità dei nordici era dovuta a fattori di ereditarietà. Mengele non è finito mai nelle mani dei cacciatori di nazisti e da questo libro capiamo tappa per tappa come ha fatto. Le connivenze, la famiglia alle spalle. Il governo tedesco nel 1956 gli ridette addirittura il suo documento di identità.
La sua inafferrabilità divenne un mito ammantato di una definizione epica, l'Angelo della morte. Per Guez occorreva destrutturare la leggenda e calarsi nella sua miseria. È di pochi mesi fa il bel libro di Bettina Stangneth La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, una ricostruzione fattuale dei delitti commessi dell'ingegnere della deportazione e dello sterminio degli ebrei; ora Guez sceglie un metodo opposto, una storia documentata ma romanzata - sulle orme di A sangue freddo di Capote - che si svolge all'indomani della fuga di Mengele, dal rilascio del falso documento di identità a Termeno in Alto Adige e soprattutto dal suo viaggio sulla North Kìng, la nave che, sotto il nome Helmut Gregor, meccanico italiano di lingua tedesca, lo porta da Genova a Buenos Aires. Gli ex camerati gli hanno promesso un arrivo facilitato in quella comunità di ex nazisti che in Argentina apre bar, giornali, locali Nuova Ba varia. Un universo protetto da Juan e Evita Perén, privilegiato e nostalgico, privo di rimorsi, che l'accoglierà, gli farà riprendere incredibilmente le sue vere generalità e lo proteggerà a lungo.
Se può essere di consolazione, la sua esistenza non sarà sempre dorata. Dalla cattura di Eichmann in poi, la fuga si farà sempre più affannata, disperata, solitaria, malata, in Paraguay prima, in Brasile poi, dove lo seguiamo passo passo. La mente malefica di Mengele è messa a nudo. Il risultato è compatto, disturbante. Non c'è, come non ci poteva essere, redenzione.
(la Repubblica, 7 aprile 2018)
Perché i palestinesi protestano soltanto a Gaza?
La minuscola e sovrappopolata Striscia vista da vicino
di Rolla Scolari
MILANO - Un fumo nero e denso si è alzato oggi dalla Striscia di Gaza, lungo la barriera che divide il piccolo territorio palestinese da Israele. Da giorni i social media arabi parlano di "protesta dei copertoni". E da giorni si ammassano gomme negli stessi luoghi lungo il confine da dove venerdì scorso sono partite manifestazioni e tentativi di oltrepassare la barriera, e migliaia di persone si sono riunite. Una parte è entrata nella cosiddetta "area di accesso ristretto" - 300 metri di terreni agricoli abbandonati ritenuti dall'esercito israeliano off-limits. Diciotto persone, undici delle quali secondo i portavoce militari israeliani erano miliziani dei gruppi armati della Striscia, sono rimaste uccise venerdì scorso da proiettili di gomma e munizioni, mentre il ministero della Sanità di Gaza ha parlato di altre tre vittime. Da venerdì, con i feriti deceduti in ospedale, sono morti 25 palestinesi. E' per impedire la visuale ai tiratori scelti di Tsahal che oggi a Gaza hanno bruciato decine di copertoni, creando un fumo spesso, cui gli israeliani hanno riposto con cannoni ad acqua e dissipatori di fumo.
A poche centinaia di metri da quella barriera, da una parte, quella israeliana, ci sono le prime basse villette delle comunità rurali che circondano la Striscia, dall'altra, quella palestinese, ci sono tende, tavoli e sedie da fiera di paese dove oltre 30 mila persone venerdì scorso e 10 mila oggi si sono raccolte in protesta. All'origine di quella che è stata definita la "Marcia del Ritorno" nelle terre da cui i palestinesi sono stati allontanati nel 1948, alla nascita dello stato d'Israele, ci sono attivisti civili. Israele accusa però Hamas, il gruppo islamista che controlla Gaza dal 2007 assieme alle sue milizie armate, di aver monopolizzato l'iniziativa. Tra le tende a oltre un chilometro dalla barriera, si mangia: ci sono i baracchini del gelato, quelli dei succhi di frutta. Di venerdì - il giorno di festa nella minuscola e sovrappopolata Striscia di Gaza, impoverita da anni di conflitti, crisi economica e blocco da parte di Israele, Egitto e della stessa Autorità palestinese, la protesta suscita anche curiosità. Altrove, in Cisgiordania, ci sono state manifestazioni di sostegno, come accaduto anche una settimana fa, ma molto limitate nei numeri e nell'intensità. A preoccupare Israele non sono i Territori palestinesi controllati dall'Autorità nazionale del vecchio Abu Mazen: la collaborazione tra le forze di sicurezza palestinesi della Cisgiordania e quelle israeliane ha permesso d'evitare violenze anche nei momenti di profonda crisi, come il recente annuncio del presidente Donald Trump di un riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale d'Israele. Al contrario, a Gaza i vertici di Hamas sostengono e partecipano alla protesta, tanto da aver annunciato compensazioni finanziarie ai feriti negli scontri - da 200 a 500 dollari - e alle famiglie delle vittime, 3.000 dollari.
La situazione economica della Striscia contribuisce ad alimentare la frustrazione di una popolazione che ha poco da perdere. Il territorio rettangolare di Gaza, adagiato sulla costa mediterranea al confine con l'Egitto, è lungo soltanto 42 chilometri, la distanza che c'è tra Milano e Novara. E' largo 12 chilometri, la distanza che c'è in linea d'aria tra il centro di Roma e il Grande raccordo anulare. In 365 chilometri quadrati vivono 1,7 milioni di abitanti: due volte quelli di Torino città. Il 44 per cento della popolazione è sotto i 14 anni e moltissimi giovani non hanno mai messo piede fuori da Gaza, dove dopo l'ultima guerra del 2014 la ricostruzione è rallentata dal blocco di beni e persone imposto da Israele, certo, ma anche dalla chiusura del confine egiziano, dall'incapacità di Hamas di gestire la crisi, con i vertici che investono in forze militari mentre la popolazione ha quattro ore al giorno di elettricità e poca acqua potabile.
A peggiorare un'emergenza economica che è in origine tutta politica, ci sono le rivalità interne palestinesi. L'Autorità di Abu Mazen, che non controlla più la Striscia dal 2007, continua però ad assicurare anche lì stipendi agli impiegati statali. Per indebolire i rivali di Hamas, cui chiede di dissolvere le milizie, l'Anp ha decurtato nel 2017 i salari di oltre 60 mila lavoratori pubblici.
(Il Foglio, 6 aprile 2018)
Lo Stato secondo Golda Meir
Nel 1973 il Primo ministro israeliano definì i quattro obiettivi del giovane Paese
In questo 2018 che celebra i 70 anni dalla nascita d'Israele vale la pena riscoprire i discorsi del passato delle grandi figure che hanno contribuito a costruire la grande democrazia israeliana. Tra queste, Golda Meir, il primo ministro d'Israele dal 196 9 al 1974. Nel 1973 per Yom HaAtzmaut (il Giorno dell'Indipendenza), la Meir pronunciò un discorso di cui riproponiamo un piccolo estratto (tradotto in italiano nella pubblicazione curata da Augusto Segre per l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane del 1974) che apre spunti di riflessione attuali.
«Per 19 secoli gli ebrei hanno vissuto nel mondo come una minoranza dispersa e perseguitata. Le umiliazioni, le espulsioni e le schiavitù sono state il retaggio della nostra gente nei paesi di Europa, del Medio Oriente e del Nord Africa. Durante questi lunghi secoli di sofferenza, la nostra gente si è aggrappata alla speranza del ritorno, lo ha invocato e l'ha sognato. E, in ogni secolo, alcuni sono tornati alla Terra, impedendo così l'estinzione della comunità ebraica locale. Durante il secolo scorso, l'aspirazione al ritorno si è concretata in un movimento di rinascita nazionale. Il sionismo ha proclamato infatti che la vita ebraica poteva essere nuovamente ricostruita dalle fondamenta sulla Terra ebraica: una terra che noi abbiamo trovato per la maggior parte desolata e sterile.
Gli ebrei sono ora operai, agricoltori, soldati. Da una minoranza informe ci siamo trasformati in una società con una lingua propria e proprie istituzioni democratiche. Nel 1948 per la prima volta dal secondo secolo d.e.v., il popolo ebraico è divenuto indipendente sulla Terra: fu infatti ricostruito lo Stato d'Israele che è entrato a far parte della grande Famiglia delle Nazioni. Durante i 25 anni della sua nuova indipendenza, il giovane Stato è proteso, con tutte le sue forze, alla realizzazione di questi quattro principali obiettivi:
- difendere l'indipendenza e assicurare la sopravvivenza della nazione;
- fare dello Stato d'Israele la casa di tutti gli ebrei del mondo, siano essi in cerca di rifugio o di una indipendente identità ebraica;
- sviluppare una comunità umana atta a rispondere alle esigenze di una moderna società democratica, pur preservando gli antichi valori dell'ebraismo;
- sviluppare le risorse materiali e dare al popolo un livello di vita elevato.
La difesa e la sopravvivenza hanno richiesto uno sforzo maggiore, poiché i governi degli Stati arabi si sono sempre rifiutati e continuano a rifiutarsi di riconoscere il nostro diritto di vivere come una nazione indipendente. Essi hanno persistentemente tentato di porre fine all'esistenza di uno Stato di Israele sovrano ed hanno cercato di privarci del diritto di vivere a nostro modo».
(Pagine Ebraiche, aprile 2018)
Il prezzario di Hamas per la rivolta "spontanea" di Gaza
di Dimitri Buffa
Rivolta spontanea per la marcia per il ritorno dei profughi palestinesi? O non piuttosto una ribellione armata finanziata da Hamas?
Gli indizi propendono per "la seconda che hai detto". Ad esempio è stato persino pubblicato una sorta di prezzario ex post sull'account Twitter di Hamas: la rivolta di Gaza era così spontanea che per i morti, meglio "i martiri", alle famiglie sono stati rimborsati 3mila dollari, per i feriti gravi 500 dollari e per quelli meno gravi 200.
Adesso gli odiatori professionisti di Israele per tendenza non potranno più fare finta di niente. La cosa, corredata con il cosiddetto "screenshot" dell'account Twitter di Hamas, ce l'ha fatta sapere ieri pomeriggio Giulio Meotti, giornalista de "Il Foglio" considerato (insieme a pochi altri in Italia, compreso chi scrive) amico di Israele. E d'altronde i 19 morti sono stati classificati dalle forze dell'ordine israeliane così: sette sarebbero operativi delle Brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas, due vengono considerati attivisti del Fronte della liberazione della Palestina; segue un presunto operativo della Jihad Islamica, un altro presunto operativo delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, un ulteriore militante schedato già come operativo delle forze di sicurezza di Hamas, morto con le armi in pugno, poi altri due schedati come attivisti di Fatah, e infine un sospetto operativo di Shada al-Aqsa, fazione militare legata all'Iran e un affiliato di Hamas. Restano fuori dalle schedature di polizia e di Tzahal solo tre militanti che si possono definire in cerca di autore.
Insomma, se quella di Gaza può essere definita come "una rivolta pacifica e spontanea", allora si può dire anche che "dopo le elezioni dello scorso 4 marzo l'Italia presenta un quadro politico stabile e rassicurante".
(L'Opinione, 6 aprile 2018)
Gaza - Israele : la guerra "pacifica dei pneumatici"
di Paola Farina
Già più di diecimila pneumatici sono già accatastati a ridosso di Israele, anche se è difficile fare una stima perché è un continuo, brucia e integra. Il pensiero comune è che sia una guerra morbida, ammesso che il termine sia concesso, non esistono guerre morbide qualunque siano i mezzi, la guerra è guerra. Ad Hamas, Olp & partner dopo aver provato con i tunnel (che con il tempo sono stati individuati e sono in corso d'individuazione e sistematicamente distrutti), con i razzi (che grazie a Iran Dome sono intercettati e respinti di solito al mittente), con gli attentati strage (che grazie alla barriera protettiva sono quasi cessati, barriera che tanti chiamano muro, compreso il Papa che è protetto da un muro...), con i coltelli e con ogni mezzo, non restano che i copertoni d'auto per illudere il mondo che la protesta di Hamas (perché, di fatto, non è quella del popolo di Gaza, il vero popolo di Gaza ne ha le palle piene di questi comandanti...) sia pacifica e che la reazione di Israele sia sproporzionata.
L'obiettivo ufficiale è provocare incendi che impediscano ai militari israeliani di vedere, forse "per dimostrare più pacificamente", quello reale è invece è che il cui fumo impedisca all'esercito israeliano di vedere gli uomini di Hamas che si addentrato in territorio ebraico, non di certo con pacifiche intenzioni. E' evidente che il rogo genererà una colonna di fumo tossico visibile a chilometri che potrebbe impedire agli uomini di IDF (Israel Defence Forces) di intercettare gli intrusi. La nube sarà dannosa per la salute perché contiene composti molto cancerogeni. Quantità tossiche potrebbero poi precipitare al suolo contaminando i terreni agricoli e le falde acquifere nella zona. Il vento potrebbe giocare a favore di Israele e intossicare i palestinesi, come già avvenuto ieri sera durante "le prove". L'ipotesi di un imminente disastro ambientale che potrebbe ripercuotersi sia sugli abitanti di Gaza, sia sugli abitanti israeliani al confine (ebrei, drusi, cristiani e musulmani...) danneggiati dalle emissioni velenose, non hanno scoraggiato Hamas dal programma pacifico di bruciare migliaia di pneumatici.
Ieri sera mentre ricevevo le prime foto e notizie (la grande manovra incendiaria è prevista per oggi, poi siamo tutti nelle mani di D-o, scritto così perché un buon cristiano e un buon ebreo non dovrebbe mai nominarlo...), la televisione israeliana ha cominciato a comunicare notizie d'intossicati palestinesi e di risposte da parte dell'esercito israeliano agli attacchi degli schiavi di Hamas.
Le famiglie di militanti che saranno uccisi o feriti nelle prossime proteste, quando si bruceranno migliaia di pneumatici per auto, ricevono un risarcimento "provvisionale" di 3.000 dollari, secondo il listino prezzi pubblicato dal gruppo dirigente draconiano, chiariamo: defunto 3.000 dollari, ferito grave 500 dollari, moderatamente ferito 200 dollari.
Adesso per favore, i buonisti si risparmino commenti non consoni, sono bastati cinque fric francesi a penetrare il territorio italiano per scatenare un putiferio, tra l'altro nel rispetto dei trattati fra stati confinanti e Israele dovrebbe subire penetrazioni e attacchi da parte di chi cerca la guerra?
(Vicenza Più, 6 aprile 2018)
Ofer Sachs: "Hamas in piazza da sconfitto. Israele reagirà alle provocazioni"
"Quelle di Gaza non sono marce pacifiste per rivendicare un diritto, è solo un altro modo per arrivare al loro obiettivo di distruggerci".
di Vincenzo Nigro
- Lo Stato di Israele si prepara a un altro venerdì di proteste al confine della Striscia di Gaza, il territorio palestinese governato dal movimento islamista Hamas. Ambasciatore Ofer Sachs, siete pronti a fare nuove vittime fra i civili palestinesi per difendere i vostri confini?
«Queste marce organizzate da Hamas sono una provocazione. Hamas non è un movimento pacifista che ha scelto di manifestare pacificamente ai nostri confini per rivendicare i diritti palestinesi. È un'organizzazione terroristica, che da anni prova a colpire Israele con atti di terrore. E adesso ha inventato questa modalità per mandare avanti il suo obiettivo, che è quello di trovare modo di distruggere Israele, non di trovare una soluzione politica».
- Quindi l'esercito continuerà a sparare?
«Se ci saranno provocazioni, ci sarà una reazione dura, come la scorsa settimana. Le IDF (Israel Defence Forces) hanno comunicato chiaramente quali sono i punti da non oltrepassare e sanno distinguere fra militanti armati, terroristi che vogliono entrare dentro Israele per fare attentati e semplici cittadini che vorranno manifestare perché costretti da Hamas. Dei 16 morti di venerdì scorso 10 erano terroristi e militanti di Hamas, non semplici cittadini. Questa volta si preparano a incendiare centinaia di copertoni di auto per creare una enorme barriera di fumo nero per nascondere le attività più pericolose per noi».
- Non credete che le operazioni per fermare la marcia del ritorno possano finire fuori controllo, provocare una nuova guerra generalizzata?
«Non è assolutamente intenzione di Israele: noi vogliamo starcene separati da Hamas ed evitare soltanto che ci attacchino. Crediamo anche che i capi di Hamas non vogliano una nuova guerra con Israele. Perché per 11 anni non hanno mai organizzato marce e manifestazioni "pacifiste" e adesso all'improvviso hanno deciso di farlo? Perché hanno deciso di reagire al fallimento politico, economico e anche del loro progetto terroristico. La situazione a Gaza è disperata, la popolazione è allo stremo, Hamas ha speso milioni di dollari per attività militari e terroristiche che sono fallite. Vogliono un colpevole esterno e non può che essere Israele».
- Ma voi non state facendo nulla per aiutare la situazione umanitaria a Gaza, che effettivamente è disperata. Israele fa mancare perfino i medicinali necessari nella Striscia.
«Non è così, Gaza viene tenuta in vita da Israele nonostante i continui attentati terroristici e le minacce di morte che Hamas ci lancia. Noi abbiamo capito che la loro economia sta collassando perfino dal crollo dei numeri di camion di merci acquistate che entrano nella Striscia. Questa crisi ha due ragioni: primo, continuando ad avere come obiettivo la distruzione di Israele e non il negoziato, i capi di Hamas si sono isolati nella regione. Hanno perso appoggio in molti stati arabi. Secondo punto: stanno fallendo la riconciliazione con Fatah, con Abu Mazen, e questo non fa che peggiorare le loro condizioni. Fatah non paga più gli stipendi ai dipendenti pubblici a Gaza, Abu Mazen mantiene sanzioni durissime contro Hamas, che non è capace di gestire un processo politico non violento di riconciliazione nemmeno all'interno del campo palestinese. Contro questo movimento, Israele si difenderà».
(la Repubblica, 6 aprile 2018)
Cari vicini, la colpa non è di Israele: è di Hamas
Guardatevi attorno: ovunque abbia preso il sopravvento l'islamismo estremista, il risultato è distruzione e rovina.
Cari vicini, vivete da anni in gravi difficoltà, lo sappiamo. Non è vero che non ci importa. Sentiamo la vostra sofferenza. Vorremmo che i nostri vicini potessero vivere nel benessere, nella prosperità e con un futuro migliore per sé e per i propri figli.
Poco più di dieci anni fa Israele ha lasciato la striscia di Gaza, ritirandosi fino all'ultimo centimetro. Avrebbe potuto essere un punto di svolta. Per la prima volta, una parte dei palestinesi si è trovata di fronte alla possibilità di avere piena indipendenza. Per la prima volta nella storia, i palestinesi di Gaza avrebbero potuto realizzare i loro desideri. Poteva essere un nuovo inizio.
Ma in breve tempo Hamas prese il controllo sulla striscia. Centinaia di palestinesi vennero uccisi durante quella violenta presa del potere. Il primo passo del regime di Hamas fu quello di cancellare tutti gli accordi con Israele, a cominciare dagli accordi che regolavano gli scambi ai valichi di frontiera. Il blocco non lo impose Israele, lo impose Hamas cancellando tutti gli accordi. Ciò nonostante, da allora e fino ad oggi centinaia di camion di rifornimenti hanno continuato ad attraversare ogni giorno i valichi di confine da Israele verso la striscia di Gaza....
(israele.net, 6 aprile 2018)
Israele dimostra ad Hamas che i suoi confini sono sacri
Lettera al Giornale
Gentile Caputo,
con i recenti scontri di Gaza in cui i soliti antisemiti mascherati in servizio permanente hanno per l'ennesima volta preso i terroristi armati fino ai denti che non esitano a farsi scudo di bambini per innocenti manifestanti, urge gridare che il mondo libero non abbandonerà mai Israele al suo destino e che mai e poi mai un secondo Olocausto sarà consentito. Israele è per sempre, tutti se ne devono fare una ragione. Non sarà consentito a nessuna teocrazia o tirannide mediorientale di minacciare con armi nucleari Israele e non verrà permesso ad Hamas di intimidire il popolo ebraico e quello cristiano che vive nelle Terre Sante nei giorni della Pasqua sia ebraica sia cristiana. Occorre però in Occidente avere più consapevolezza che Israele combatte per la nostra libertà e che il nostro destino e quello di Israele coincidono.
Francesco Squillante
Subbiano (Arezzo)
Convengo con lei, signor Squillante, che l'atteggiamento dell'Occidente nei confronti di Israele, Usa esclusi, lascia molto a desiderare. Ritengo particolarmente vergognoso, e degno di censura, quello dell'Onu, dove non si perde occasione, a tutti i livelli, per condannare lo Stato ebraico per l'occupazione della Cisgiordania, per la costruzione di nuovi insediamenti, per il blocco di Gaza, per qualunque incidente, mentre si chiudono gli occhi su autentici crimini come quelli che vengono commessi quotidianamente in molti altri Paesi, dalla Cina all'Iran al Venezuela. L'opinione pubblica europea di sinistra (e in parte anche di destra) non vuole prendere atto di una realtà che pure dovrebbe essere evidente a tutti: Israele è la sola democrazia del Medio Oriente, il Paese di gran lunga più civile e avanzato della regione, che ha trasformato un deserto in un giardino e creato uno dei più importanti poli tecnologici del mondo. Se, in seguito alla guerra del '67, si è allargato, è soprattutto per rendere i suoi confini difendibili contro un mondo arabo che, Egitto e Giordania escluse, si rifiuta tuttora di riconoscerlo. Ha occupato l'intera Gerusalemme perché è da tre millenni la culla della sua civiltà (cosa sfacciatamente negata dagli arabi), ed è comprensibile che non sia disposta a dividerla nuovamente in due. Se, nonostante i ripetuti tentativi di mediazione internazionale, non ha fatto la pace con i palestinesi sulla base di «due popoli, due Stati», è perché la metà di loro che si riconosce in Hamas, organizzazione che gran parte degli Stati definisce terroristica, ha nel proprio statuto la sua eliminazione e l'altra metà che si riconosce nel Fatah avanza da sempre pretese irricevibili, come il ritorno in territorio israeliano di quattro milioni di discendenti dei profughi della guerra del '48. Solo nel caso di Israele non si vuol riconoscere il fatto che dopo un conflitto perduto questi esodi sono irreversibili, come lo è stato dopo la seconda guerra mondiale quello dei tedeschi della Slesia, della Pomerania e dei Sudeti o quello dei giuliano-dalmati dai territori che abbiamo dovuto cedere alla Jugoslavia. Adesso, dopo anni di relativa tranquillità (purtroppo gli attentati dei lupi solitari arabi, che a noi fanno tanta paura, a Gerusalemme non fanno quasi più notizia) è scoppiato di nuovo il bubbone di Gaza, con un progetto di attacchi fino a metà maggio. C'è chi osserva che la reazione dell'esercito israeliano è stata eccessiva, ma credo che fosse necessario dimostrare fin dal primo giorno che nessun tentativo di varcare il confine sarà tollerato.
(il Giornale, 6 aprile 2018)
Le Iene banchettano anche su Israele
Urlare menzogne in prime time su Gaza non è giornalismo televisivo.
di Giulio Meotti
Il servizio delle Iene, mercoledì in prima serata su Italia 1, è annunciato da Ilary Blasi: "L'esercito israeliano ha iniziato a sparare contro i manifestanti". Teo Mammucari fa la conta dei morti e in sottofondo la Gialappa's: "E solo per una manifestazione". Di ieri la notizia che almeno 15 delle 19 vittime erano operativi dei gruppi paramilitari palestinesi di Hamas, della Jihad islamica, del Fronte popolare, delle Brigate dei martiri di al Aqsa. "La nostra Iena Nina andò a vedere come si vive a Gaza" prosegue Ilary, lanciando il servizio su "Gaza la prigione con il cielo", un capolavoro di mistificazione. Non una parola sui diecimila missili lanciati da Gaza su Israele da quando ha preso il potere, sul golpe di Hamas e i corpi degli oppositori trascinati per le strade, sul terrorismo, sulla mancanza di diritti umani e democrazia e sull'estremismo islamico in quella "Afghanistan sul Mediterraneo", sul capo di Hamas a Gaza Sinwar che giorni fa ha promesso di banchettare con "i fegati degli israeliani", sugli aiuti umanitari che Israele fa passare dal valico di Kerem Shalom, sul leader di Hamas Khaled Meshaal che si stima abbia miliardi di dollari nei conti del Golfo, su Hamas che ha speso 120 milioni di dollari in armi e tunnel dall'ultima guerra anziché costruirci 1.500 case, 24 mila letti di ospedale, sei cliniche mediche e tre impianti per l'acqua, sul fatto che l'unica elettricità che i palestinesi hanno a Gaza gliela passa Israele e che Abu Mazen si rifiuta di pagare le bollette, sul fatto che secondo la Banca mondiale dal 1994 a oggi i palestinesi hanno ricevuto 31 miliardi di dollari in aiuti (ovvero la metà di quelli del Piano Marshall con cui l'America ricostruì tutta Europa) investiti perlopiù in terrorismo. Il servizio delle Iene inizia con i baci e gli abbracci a una famiglia palestinese, "manca soltanto Mohammed, morto durante l'ultima guerra". Le bolle di sapone per i bambini, shukran, i precetti islamici per il velo, l'elettricità che è "un bene di lusso". Immagini di repertorio di missili israeliani che colpiscono la centrale elettrica, una casa prima e dopo il bombardamento, "600 case bombardate e ogni famiglia piange almeno un figlio". La Iena: "Non posso raccontare l'odore, un misto di cadavere macerie sangue". C'è il "drone che li ha visti scappare e li ha colpiti" e "ci sono i segni del loro sangue sul muro". Si parla dei soldati che entrano a casa per vedere se "c'era qualcuno che resisteva, hanno sparato molti colpi contro l'armadio". "Come ti senti a sapere che i soldati dormivano nel tuo letto?", chiede la Iena alla donna. "Non lo userei mai più sapendo che ci hanno dormito loro". Ci sono pure i pupazzi di peluche "decapitati" dai soldati israeliani. "Il messaggio era: 'Vi vogliamo morti'". "Per me la resistenza è la scelta giusta" dice la donna. A nastro le immagini di bambini e bombardamenti. Gente che scappa, missili israeliani, notte, urla. Poi un bignami di storia dal 1948, con "Israele più ricca e meglio armata". La Iena racconta di missili che deliberatamente colpiscono "i bambini che giocano al pallone". Mai un cenno agli scudi umani e alle scuole dell'Onu usate come rampe di lancio dei missili. Ma la giornalista ci tiene a farci vedere come indossa la palandrana islamica "che non fa intravedere le forme". "Mi regalano il mio primo hijab". Si parla dei "famosi tunnel usati per il contrabbando" delle merci (e i missili iraniani e l'esfiltrazione nei kibbutz israeliani?). "Questa terra potrebbe essere uno dei posti più belli del mondo, ma è una prigione. Queste donne mi hanno fatto sentire una di loro". Piange, la Iena, mentre saluta con la musichetta di sottofondo. Al termine del filmato, "Nina di Gaza" è pronta per la nuova "marcia della rabbia" che gli islamisti preparano al confine con Israele. Cari pacifisti e giornalisti, a quando un servizio da una flotilla contro "l'occupazione di Hamas a Gaza"? Allora varrebbe davvero la pena di vederle, le Iene.
(il Giornale, 6 aprile 2018)
Il carciofo della discordia: per il Rabbinato di Israele 'alla giudia non è kosher'.
Secondo il quotidiano Haaretz, per il supremo organo religioso dello Stato, il piatto dell'antica gastronomia ebraico-romana non è compatibile con le regole alimentari. La replica: "Il nostro piatto è lecito per due peculiarità: il prodotto e la maniera di pulirlo. Gli ebrei romani hanno entrambe le caratteristiche".
di Giovanni Gagliardi
Proibito o no? Intorno al carciofo alla giudia, una leccornia fra i simboli della più antica gastronomia ebraico-romana, nel pieno della Pasqua ebraica è in atto una disputa sulla liceità dal punto di vista delle regole alimentari religiose ebraiche. Secondo il quotidiano Haaretz, il rabbinato israeliano ritiene il carciofo nella sua versione alla giudia non 'kosher', quindi proibito, e ne vuole vietare la preparazione in Israele, dove non sono pochi i ristoranti kosher che lo elencano nel menù. Per fonti della comunità ebraica romana invece la 'guerra del carciofo' adombrata dal quotidiano semplicemente "non esiste", perché la specificità del piatto ebraico-romano evita qualsiasi rischio di impurità.
Il punto in questione è che nei carciofi potrebbero essere presenti piccoli vermi o parassiti che rendono la pianta erbacea 'proibita' in base alle rigide regole della 'kasherut', ovvero l'idoneità di un cibo a essere consumato dal popolo ebraico secondo le regole alimentari della religione ebraica. "Il cuore del carciofo - ha spiegato al quotidiano israeliano rabbi Yitzhak Arazi, capo della divisione importazione del Rabbinato centrale - è pieno di vermi e non c'è modo di pulirlo. Non può essere kosher. Non è la nostra politica, questa è la legge religiosa ebraica".
Una via d'uscita possibile sarebbe quella di spaccare il carciofo in quattro, rendendo così più facile il controllo del cuore. Ma questo - è l'obiezione - impedirebbe la tradizionale preparazione del carciofo alla giudia. Ora, scrive Haaretz, alcuni membri della comunità ebraica di Milano hanno chiesto ad un ristorante kosher del luogo - presente anche a Roma - di toglierlo dal proprio menù, in modo da essere sicuri. Ogni pianta è "infestabile", spiegano fonti della comunità ebraica romana, ma ci sono quelle più a rischio e quelle meno. La liceità del carciofo alla giudia "nasce da due peculiarità: il prodotto e la maniera di pulirlo. Gli ebrei romani hanno entrambe queste caratteristiche".
La prima riguarda il fatto che per fare il vero carciofo alla giudia occorre la varietà detta 'romanesca', che ha una corolla stretta tale da impedire l'ingresso e l'annidarsi dei vermi. La seconda è il modo di pulirlo, che da sempre è lo stesso: prima si tolgono le foglie più dure, poi si mette il carciofo a bagno nell'acqua limonata e dopo lo si immerge nell'olio caldo per renderlo croccante. "Gli ebrei romani - sottolineano le stesse fonti - sanno benissimo quali scegliere e come prepararli". I carciofi in Israele, insistono a Roma, sono di qualità differente e trattati in maniera molto diversa da quella nostrana.Quello che inoltre nella comunità ebraica romana si esclude è che ci sia "una guerra in corso tra i due rabbinati" visto che si sta parlando "di prodotti e di modalità di preparazione molto differenti".
Ad ogni modo, al carciofo alla giudia qui a Roma nessuno è disposto a rinunciare: in un recente video di saluti alla comunità per la Pasqua ebraica - periodo d'elezione per il carciofo romanesco preparato alla giudia - da parte del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e del presidente degli ebrei romani, Ruth Dureghello, si vedono entrambi intenti a pulire i carciofi e prepararli per il piatto tradizionale famoso ormai in tutto il mondo. E Di Segni di cucina kosher se ne intende.
Nel marzo del 2010 uscì un libro scritto dal rabbino capo della comunità ebraica romana dal titolo "Beteavon, buon appetito. Incontro di culture e ricette della cucina ebraico-romana".
Il testo, che affronta anche il tema della fusione fra culture, contiene una guida alle regole alimentari della cucina kosher e ben 53 ricette in linea con le regole religiose, grandi piatti di antica tradizione: spaghetti cacio e pepe, pollo con peperoni alla romana, filetti di baccalà fritti, aliciotti con l'indivia, la concia. E l'immancabile carciofo alla giudia. "Il volume - spiegava Di Segni - insegna i piaceri della tavola, dove la gastronomia rappresenta il simbolo culturale di un popolo, ma anche lo strumento di dialogo con la cittadinanza e le altre regioni. Siamo il popolo dei carciofi non solo della Shoah".
(la Repubblica, 6 aprile 2018)
Quanti ebrei lottarono per l'Italia nel 1915-18
di Daniele Silva
TORINO - Prosegue ancora per tutto il 2018 il programma dedicato al centenario della Prima Guerra Mondiale, che proprio un secolo fa vedeva la fine dopo quattro anni. Nel calendario di eventi promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri rientra «1915/1918 Ebrei per l'Italia», una mostra fotografica che inaugura martedì 10 aprile negli spazi dell'Archivio di Stato, in piazza Castello 209. La mostra, curata da Gadi Luzzatto Voghera e Daniela Scala, è organizzata dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea Cdec di Milano, in collaborazione con la Comunità Ebraica di Torino, l'Archivio di Stato e l'Istituto Salvemini, e presenta al pubblico una selezione di istantanee dal patrimonio fotografico del Cdec e da alcune collezioni private. Il tema, come anticipa il titolo, è dedicato alla partecipazione degli ebrei alle vicende militari, che li coinvolge in tutto il continente, spesso su fronti contrapposti. Diverse centinaia di migliaia di ebrei europei sono infatti chiamati da un lato a combattere - 600.000 soldati in Russia, 350.000 nell'esercito austroungarico, 100.000 tedeschi fino ai 5.400 italiani - e dall'altro a prestare assistenza, appoggiandosi sulla rete delle comunità ebraiche del territorio per fornire cibo, vestiti e oggetti utili alle pratiche religiose. L'esposizione racconta tutto questo attraverso le fotografie storiche, con uno sguardo particolare al concetto di cittadinanza, così radicato nella popolazione di origine ebraica dell'epoca, prima dell'avvento del fascismo.
«1915-1918 Ebrei per l'Italia» è a ingresso libero e rimane visibile fino al 4 maggio, dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18.
(La Stampa - Torino, 6 aprile 2018)
Netanyahu fa una pausa sulle alture del Golan
Dopo un periodo non facile, con innumerevoli interrogatori e il dramma dell'espulsione degli immigrati clandestini, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha usato la settimana di Pasqua per fare un viaggio sulle alture del Golan con la moglie Sara e i figli Yair e Avner.
Dopo essere arrivato in un hotel sulle rive del Mare di Galilea, gli è stato servito il pranzo. La coppia Netanyahu ha ordinato pollo alla griglia. Nel pomeriggio sono andati sulle alture del Golan, nella foresta dei cervi presso Odem. Sembra che Benjamin Netanyahu sia rimasto molto soddisfatto. Durante il viaggio ha incontrato molti israeliani che, come lui, partecipavano al consueto viaggio di Pasqua. Di fronte al monte di Odem si è fatto un caffè, a cui hanno partecipato
anche altri escursionisti. Naturalmente non poteva mancare una foto con il Primo Ministro.
In un video Benjamin Netanyahu ha fatto un appello ai cittadini: "Da questa meravigliosa prospettiva nel nord Golan mando i saluti di vacanze felici a tutto il popolo d'Israele, e un saluto speciale ai soldati della Marina, alle forze di terra e al servizio di sicurezza, che hanno contrastato un tentativo di attacco contro le nostre forze. Sono fiero di voi. Chag Sameach (vacanza felice) a voi che ci proteggete in ogni momento, anche in giorno di festa.
(israel heute, 5 aprile 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Gaza - Israele avverte: venerdì tolleranza zero con i violenti
Messaggio per Hamas affidato al capo dei servizi di intelligence dellEgitto
Israele ha affidato al capo dei servizi di intelligence dell'Egitto, gen. Abbas Camel, un messaggio destinato a Hamas. Lo ha riferito la radio militare secondo cui Camel è stato ricevuto ieri a Tel Aviv dal capo dello Shin Bet (sicurezza interna) Nadav Argaman. Questi ha ribadito che Israele non è disposto ad accettare ulteriori provocazioni da parte di Hamas lungo la linea di demarcazione con la striscia di Gaza e che venerdì prossimo i militari sul confine manterranno una "tolleranza zero" nei confronti di dimostranti palestinesi che si abbandonassero a violenze.
In precedenza il gen. Camel era stato ricevuto a Ramallah dal presidente dell'Anp Abu Mazen. Secondo la stampa palestinese, in quel colloquio sono state discusse la realizzazione del passaggio delle consegne di governo a Gaza da Hamas all'Anp, nonché la richiesta palestinese di apportare cambiamenti radicali all' 'Accordo del secolo' con Israele su cui starebbe lavorando la diplomazia statunitense.
(ANSAmed, 5 aprile 2018)
Il nuovo asse imperialista riunito per spartirsi la Siria
Erdogan, Putin e Rohani parlano di pace, ma barano: la guerra continuerà. Trump si chiama fuori (e sbaglia).
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - E' davvero la nemesi di ogni processo di pace il fatto che le sciagure della Siria e la sua risoluzione siano finite ieri nelle mani del gatto, Tayyip Erdogan, della volpe, Hassan Rouhani, e del padre nobile, Vladimir Putin: il mondo del nuovo imperialismo in una sola foto. Il loro incontro ad Ankara ieri ha disegnato un coacervo di interessi acuti e contrastanti, e una volontà evidente di spartizione. Il tutto, segnato dalla bambinesca soddisfazione, peraltro autorizzata dal grande assente, che l'America di Trump sia fuori dal giuoco, errore che Trump ancora non ha capito quanto sia grande, poiché consente l'espansione dei suoi peggiori nemici in un'area volatile e pericolosissima. Trump ha annunciato il suo desiderio di salpare definitivamente le ancore, abbandonando curdi, yazidi, sunniti dissidenti, cristiani ... nelle mani del trio. Dell'Europa non se ne parla nemmeno, in senso proprio. E la strage dei trecentomila continuerà. I tre protagonisti non si sono abbracciati davanti alle telecamere, i loro scopi rimangono contrapposti. L'Iran e la Russia sono i sostenitori di Assad, mentre Erdogan lo odia. Ma Erdogan, che assorda il mondo dando di assassino a destra e a manca, ora dimentica la ruggine con la Russia, fino ad essere uno dei pochi Paesi che non hanno espulso i diplomatici russi dopo l'attacco con gas nervino contro un'ex spia di Putin.
Adesso che cosa vuole la Turchia dal leader russo? Oh, poca roba, il permesso di neutralizzare i curdi, la conclusione positiva della vendita del sistema missilistico S400, fra i più potenti del mondo, e la realizzazione del piano Rosatom per il primo impianto nucleare turco. E l'Iran? Oh niente, solo dominare il Medio Oriente, dall'Iran al Libano e da là, il cielo è il limite ... E la Russia, tutto. Più in generale, i tre Paesi ieri riuniti per chiudere sette anni di guerra mettono in primo piano grossi interessi. La Russia e l'Iran vogliono pieno accesso alla costa, dove si trova la base di Tartus per il dominio russo del Mediterraneo e la base aerea presso Latakia, e per Teheran è importante un chiaro canale di passaggio verso la capitale irachena Bagdad, e fino ai confini con Israele: da là, si espande il dominio sciita, da qua può minacciare Israele anche attraverso gli Hezbollah. Ankara, dopo la pulizia etnica di curdi ad Afrin, mentre Assad con i russi bombardavano Idlib (uno scambio fra gentleman), vuole seguitare a perseguitarli a Manjib, a occidente dell'Eufrate, altra zona curda. È quindi illusorio pensare che le tre forze in campo possano bloccare lo scontro: esso nacque come rivolta sunnita contro lo strapotere sciita di Assad e i suoi amici e resterà. E i curdi non si arrenderanno ai turchi. La guerra continuerà.
Il summit di Ankara è il secondo, dopo un incontro a Sochi, che cerca di contrabbandare l'idea che i tre, prima coinvolti in scontri tra di loro, vogliano adesso discutere un accordo di pace. Alle telecamere parlano, legalisti come sono e democratici, di una «Costituzione» per il popolo siriano; ma nel segreto delle stanze del palazzo di Erdogan certo si è parlato di molto altro. Per esempio, Putin, che non è un appassionato della sopravvivenza di Assad, ha anche qualche conto aperto con l'Islam.
Ha fatto male Trump ad annunciare proprio ieri che se ne andrà dalla Siria: sembra una mossa di paura, che avalla l'abbandono dei curdi, i suoi migliori alleati nella guerra contro l'Isis; o un cedere alla Turchia per la preoccupazione che la Nato possa esplodere; sembra un lasciare campo libero a quell'Iran di cui così giustamente sa criticare le ambizioni atomiche e la violazione dei diritti umani. Insomma, sembra una risposta a un ricatto. E non è vero che sarà un risparmio economico: se i sauditi si ingaggiano in una guerra con l'Iran, il mercato del petrolio va in pezzi.
(il Giornale, 5 aprile 2018)
Lasciare la Siria?
Trump vuole ritirare le truppe dalle zone curde, ma forse è un trucco per farsi pagare di più dai sauditi.
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Forse il ritiro americano è come quello russo, annunciato tre volte e mai realizzato sul serio.
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di Daniele Raineri
ROMA - L'Amministrazione Trump da una settimana manda segnali contrastanti sulla volontà di rimanere con le truppe nel nord della Siria. Per chi nel frattempo l'avesse dimenticato: ci sono duemila soldati americani in Siria da almeno due anni e il loro numero è in aumento, sebbene con molta lentezza. Gran parte del contingente è formato dalle forze speciali che si occupano di dare la caccia ai capi dello Stato islamico - e che tanta parte hanno avuto nella sconfitta militare del gruppo terrorista - ma ci sono anche forze regolari, che aiutano i curdi, aprono basi e aeroporti militari e usano l'artiglieria, qualche volta contro gli assadisti.
Soltanto un mese fa tre generali americani hanno visitato - per un'intensa campagna di pubbliche relazioni - la fascia del paese controllato dalle milizie curde addestrate e armate da loro. Una visita ha avuto per scenario Manbij, città che nelle prossime settimane diventerà il punto di attrito tra l'Amministrazione Trump e la Turchia di Erdogan, e dove è stato invitato anche il New York Times per raccontare l'amicizia solida tra Pentagono e curdi in faccia alla minaccia turca. Un'altra visita, questa volta del capo del Comando Centrale, Joseph Votel, ha avuto invece per fondale il paesaggio spettrale delle rovine di Raqqa, l'ex capitale dello Stato islamico in Siria. Il messaggio americano in entrambi i casi era: abbiamo intenzione di tenere sotto il nostro controllo questa parte della Siria grazie all'aiuto dei curdi, e abbiamo un piano solido per spazzare via i resti dello Stato islamico che ancora circolano nella valle dell'Eufrate e per respingere l'espansionismo dell'Iran e della Russia -che tanto preoccupa Israele.
In questa strategia c'è anche un grosso non detto: gli americani e i curdi controllano la zona dei pozzi petroliferi - perché li hanno strappati battaglia dopo battaglia ai terroristi dello Stato islamico - e quindi di fatto impediscono alla Siria di tornare autosufficiente dal punto di vista energetico, e per questo deve continuare a farsi mantenere, non si sa ancora per quanto, dagli alleati. E' chiaro che la questione dei pozzi di petrolio è importante e che l'America conta di usarla per tornare a essere rilevante nei negoziati. Quando all'inizio di febbraio le milizie assadiste rafforzate da compagnie di mercenari russi (a cui è stato promesso un quarto dei profitti del greggio come paga futura) hanno provato ad attaccare i pozzi sono state respinte da un bombardamento americano violentissimo che ha fatto un centinaio di morti, inclusi i russi. Il Cremlino ha riconosciuto le perdite soltanto settimane dopo, ma era stato chiaro a tutti i numerosi attori interessati alla zona che gli americani intendevano fare sul serio.
Tuttavia giovedì scorso durante un comizio in Ohio il presidente americano, Donald Trump, ha spazzato via questo stato delle cose e ha detto che le truppe americane avrebbero lasciato presto la Siria. Il giorno dopo ha sospeso il finanziamento per i piani di ricostruzione nelle zone controllate da curdi e soldati americani e questa è stata una smentita orrenda dei generali del Pentagono, che avevano appena promesso ai curdi - e di persona - aiuti sostanziosi nel dopoguerra. I giornali americani hanno cominciato a essere perplessi. Should I stay or should I go, chiedevano, come nella canzone dei Clash. Alcuni hanno ricordato a Trump le sue critiche feroci contro Obama, che con la decisione di ritirare in modo prematuro i soldati dall'Iraq nel 2011 aiutò il ritorno dello Stato islamico, che allora attraversava una crisi profonda e sembrava quasi morto. Se ce ne andassimo adesso e non dessimo il colpo di grazia ai baghdadisti, prosegue il ragionamento, faremmo la stesso errore. Altri hanno ricordato che è senza senso distruggere il deal atomico con gli iraniani e imporre di nuovo le sanzioni e poi regalare loro di nuovo il controllo sui pozzi di petrolio siriani e la possibilità di muoversi per la Siria senza nessuno che possa sorvegliare e intervenire da vicino (dalle zone curde). L'impressione generale era che a Trump fosse tornato con prepotenza il riflesso isolazionista che lo porta a evitare qualsiasi coinvolgimento - e qualsiasi guaio - fuori dai confini di casa. Nella tensione sempre presente tra lo staff - che tiene molto a un minimo di coerenza decisionale negli affari di politica estera - e il presidente, ancora una volta ha prevalso quest'ultimo.
C'è un'altra scuola di pensiero sul voltafaccia molto sbandierato di Trump - che mette in imbarazzo i soldati sul fronte siriano e gli alleati che non vogliono che la Siria diventi un protettorato militare dell'Iran - e sostiene che sia tutta una messinscena per negoziare l'appoggio lucroso dei sauditi. L'incontro alla Casa Bianca tra il presidente e l'erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, ha rasentato l'umiliazione per l'arabo, trattato come un bancomat con infinite possibilità di prelievo. Trump ha fatto vedere davanti ai giornalisti e a Bin Salman un cartellone con i contratti sauditi a favore dell'America e tutta l'occasione ha preso una piega da piazzisti d'affari, che probabilmente era giustificata ma era anche grottesca. In breve: Trump dice che vuole ritirare le truppe dalla Siria del nord perché sa che i sauditi vogliono che lui continui la missione militare in quell'area - contro l'Iran - e quindi si aspetta di essere convinto a restare con altre enormi commesse militari.
Ieri il Washington Post ha scritto che il presidente ha dato l'ordine di preparare i piani di ritiro dei soldati. Poi nel pomeriggio italiano la Casa Bianca ha rilasciato una nota in cui si dice che lo Stato islamico è stato "quasi distrutto" ma il ritiro non è mai nominato. Nel frattempo l'invio di trecento marine di rinforzo nella stessa zona è andato avanti come se nulla fosse, senza nessun intoppo. E questo rafforza l'idea che i soldati americani continueranno a stare nel nord della Siria ancora a lungo. Forse il ritiro americano dalla Siria è come quello russo, annunciato tre volte e mai realizzato davvero.
(Il Foglio, 5 aprile 2018)
Lo Shin Bet ha sventato un attacco contro la Marina israeliana
GERUSALEMME - Dieci palestinesi sono stati arrestati lo scorso 12 marzo con l'accusa di pianificare un attacco contro la Marina israeliana. Lo rivela oggi lo Shin Bet, i servizi segreti interni israeliani, citati dal quotidiano "Times of Israel". Uno degli arrestati, Amin Saadi Muhammad Jumma'a, 24 anni, appartenente al gruppo della Jihad islamica, ha dichiarato durante l'interrogatorio di aver ricevuto indicazioni dai suoi comandanti per portare a termine un attacco contro le unità navali della Marina israeliana. L'attacco, se portato a termine, sarebbe stato una vendetta da parte della Jihad islamica per la demolizione di un tunnel lo scorso 30 ottobre, in cui morirono alcuni membri del gruppo. Tutti gli arrestati si trovavano a bordo di una barca da pesca che è stata poi sequestrata e condotta nel porto di Ashdod. Il piano prevedeva che una barca abbandonasse l'area di pesca, mentre una seconda barca avrebbe dovuto lanciare un missile Kornet per causare feriti e morti a bordo dell'unità della Marina israeliana. Infine, una terza barca avrebbe preso in ostaggio i militari feriti e sottratto i corpi di quelli morti, riferiscono le fonti di sicurezza israeliane.
(Agenzia Nova, 4 aprile 2018)
F-35 israeliani sull'Iran?
Due aerei da combattimento israeliani F-35 sarebbero entrati nello spazio aereo iraniano il mese scorso. E' quanto riporta il quotidiano kuwaitiano "Al-Jarida", secondo il quale l"episodio è il segnale di una crescente tensione nella regione che rischia di degenerare in un"escalation militare.
Fonti citate dal quotidiano, il cui articolo è stato rilanciato dalla stampa israeliana, hanno riferito che i due cacciabombardieri "stealth"' israeliani avrebbero attraversato lo spazio aereo di Siria e Iraq prima di raggiungere l'Iran, dove avrebbero individuato obiettivi nelle città di Bandar Abbas, Isfahan e Shiraz.
Nell'articolo si afferma, inoltre, che i due jet da combattimento, avrebbero volato ad alta quota sopra i siti sospettati di essere associati al programma nucleare iraniano. I due F-35 non sarebbero stati rilevati dai radar, compresi quelli russi situati in Siria.
La notizia non ha avuto conferme e potrebbe essere il frutto di una campagna di propaganda tesa a mostrare la vulnerabilità delle difese aeree iraniane e siriane (e russe) al velivolo di Lockheed Martin.
Restando nel campo delle ipotesi la notizia potrebbe indicare la volontà di Israele di testare le capacità "stealth" dei nuovi velivoli non ancora operativi nelle forze aeree di Gerusalemme anche se per una simile missione i due velivoli devono aver potuto contare sul rifornimento in volo offerto da cisterne volanti molto meno "stealth" e non necessariamente recanti le insegne delle forze aeree dello Stato ebraico.
Israele ha ordinato 50 F-35A per sostituire gli F-16 ma l'aeronautica punta ad acquistare almeno 75 velivoli di questo tipo. I 5 già consegnati (altri 4 sono in arrivo) sono basati nel centro di addestramento di Nevatim, nel deserto del Negev, dove saranno basati i due squadroni operativi di F-35 Adir.
Israele ha pagato i velivoli tra 125 milioni (i primi ordinati) e 100 milioni (gli ultimi ordinati) di dollari ad esemplare, acquisto finanziato dai fondi che Washington destina ad Israele per fornire prodotti per la Difesa "made in Usa" e pari a circa 3,8 miliardi di dollari annui.
(Analisi Difesa, 4 aprile 2018)
Dal ghiaccio fu creato
di Angelica Edna Calò Livne
"L'educazione è una cosa pericolosa. Professori di pedagogia e scienziati furono la chiave del successo di Hitler, senza di loro la sua ascesa e l'influenza inspiegabile su 60 milioni di tedeschi non sarebbe stata possibile". La dottoressa Tamar Katko, docente alla facoltà di Scienza della Formazione al Seminar HaKibbuziam di Tel Aviv, ha tenuto per due ore e mezzo il cuore in sospeso di tutto il pubblico nella sala rotonda del Kibbutz. Sono andata alla conferenza per rispetto all'argomento. Dopo due pellegrinaggi in Polonia con i bogrim dell'Hashomer Hazair, dopo 40 anni di allestimento di cerimonie per il Giorno della Shoah, di film, di studi sulle leggi razziali per la scrittura del nuovo spettacolo "Mamma perché noi non possiamo entrare?" Cosa altro avrebbe potuto raccontarmi? Cosa altro avrei potuto imparare?
Tamar, figlia di sopravvissuti a esperimenti e abusi spietati ad Auschwitz, cresce al suono delle macabre melodie suonate al pianoforte, che il dottor Mengele imponeva a sua madre, splendida sedicenne di Lodz, mentre lui e il suo scellerato staff attuavano i loro esperimenti su esseri umani. Anche lei era un suo esperimento: doveva continuare a suonare senza mangiare e senza riposare, ore e ore. Era arrivata a 23 kg. Continuò a suonare quelle melodie al piano per anni, di notte, mentre il padre, che l'aveva salvata caricandosela sulle spalle durante la Marcia della vita, camminava avanti e indietro per la casa con il capo tra le mani, fino a che Tamar , che aveva 10 anni, su consiglio di psicoterapeuti, la legava con un lenzuolo mentre la madre gridava con gli occhi spalancati.
La domanda sull'ascesa del nazismo è diventata l'ossessione della Katko. Il suo dottorato orbita sulla domanda: come hanno fatto? Come sono riusciti a coinvolgere un'intera nazione? A schiavizzare, sopprimere, perseguitare, bruciare milioni di persone? "La vittoria del nazismo fu prima di tutto una rivoluzione educativa" spiega Tamar che ne corso degli anni ha compiuto ricerche senza posa sui libri di testo per le scuole naziste pubblicati tra il 1933 e il 1945, cercando di decifrare il loro significato, il potere della loro influenza magica e psicologica e il segreto del successo del nazismo sulla base del loro contenuto tendenzioso. Nel suo libro "Creato dal ghiaccio" cerca di comprendere il processo di "stregoneria" su milioni di tedeschi e spiegare come storici, filosofi, scienziati e artisti di fama mondiale, si mobilitarono per attuare il programma di rieducazione della leadership nazista. In quegli anni tutti gli educatori del Terzo Reich dovevano ripercorrere la loro abilitazione all'insegnamento con un programma studiato per prepararsi ai nuovi contenuti sulla purezza della razza. Furono riscritti libri di testo, programmi ministeriali, furono create nuove scuole che, appena terminata la guerra, nel 1945, sparirono completamente in tutta la Germania. Tamar Katko andò a cercare questi testi a Berlino, a Bonn, a Lipsia. Dopo lunghe ricerche trovò una biblioteca a Ginevra dove migliaia di libri scolastici e testi universitari giacevano custoditi con gran cura e in gran segreto. Tamar riuscì a dare alcune risposte ai suoi incubi notturni. "Hitler aveva capito, nel suo malefico genio, che il linguaggio che avrebbe coinvolto maggiormente le élite era il linguaggio della scienza. Con le masse e gli operai, non avrebbe avuto problemi, doveva reclutare gli intellettuali, riformattarli. Non c'era da proporre loro un'agenda politica, ma un'altra religione scientifica che avrebbe generato un nuovo ordine nel mondo. I professori delle più prestigiose università svilupparono seminari e nuovi programmi curriculari e i loro studenti scrissero documenti di ricerca e dissertazioni di dottorato per riscoprire il gene ariano. Prima di tutto, si doveva isolare da altre razze e poi migliorarlo. Per il nazismo gli ebrei erano una mutazione genetica destinata a sparire. Il ruolo degli ebrei era stato quello di preservare la conoscenza del popolo ariano che lo avevano affidato loro quando si erano dovuti nascondere da minacce esterne. Secondo le fonti naziste, per merito di questo popolo extragalattico dalle facoltà soprannaturali, appunto gli ariani puri, gli ebrei avevano imparato a leggere e scrivere mentre la maggior parte delle persone nel mondo era analfabeta. Ora che Hitler finalmente era giunto per riscattare la Germania, il ruolo degli ebrei era finito, dovevano essere eliminati perché troppo pericolosi, perché portavano le conoscenze degli Ariani in un corpo difettoso."
Tamar spiega che questo è ciò che si insegnava nelle università, negli asili infantili, nelle scuole primarie e nei licei. E questi libri arrivavano a casa, nelle famiglie, nei bar, negli uffici. Cosa poteva riempire maggiormente di orgoglio un popolo distrutto dall'inflazione, della sconfitta della prima guerra, della povertà? Il mito del superuomo conquistò il loro ego indebolito. Hitler, riuscì a stregare tutta la popolazione, con l'incantesimo che trasforma il ranocchio in principe
come nelle fiabe dei fratelli Grimm
(moked, 4 aprile 2018)
Fatte alzare perché donne: bocciata la campagna di sensibilizzazione
Metteva in guardia dalla compagnia di bandiera israeliana, incline ad assecondare le richieste dei passeggeri ebrei ultraortodossi.
TEL AVIV - L'Autorità aeroportuale israeliana (IAA) si è rifiutata di autorizzare una campagna di sensibilizzazione che voleva ricordare alle passeggere donne che le compagnie aeree non hanno il diritto di chiedere loro di cambiare posto se un uomo si rifiuta di sedersi accanto a loro.
«Signore, vi preghiamo di prendere posto
e di tenervelo stretto!», recitano i manifesti in cui si vedono semplicemente due sedili vuoti di un aereo. «Chiedere a un passeggero di cambiare posto a causa del suo genere è illegale», ricordano.
Promossi dal Centro per l'azione religiosa di Israele (IRAC), un'organizzazione riformista, i cartelloni avrebbero dovuto essere affissi ai gate dello scalo internazionale "Ben Gurion" di Tel Aviv in occasione della recente Pasqua ebraica.
I manifesti puntano il dito contro un fenomeno per cui a più riprese la compagnia aerea di bandiera El Al ha fatto parlare di sé: l'abitudine di invitare le passeggere a cambiare posto se un ebreo ultraortodosso chiede, per le sue convinzioni religiose, di non sedersi accanto a una donna.
Dopo aver in un primo momento autorizzato i manifesti, l'IAA ha però fatto marcia indietro a quattro giorni dalla festività e ha rifiutato la campagna, riporta il Times of Israel.
I manifesti e il video di sensibilizzazione collegato prendono le mosse da una recente sentenza del Tribunale di Gerusalemme che sancisce che El Al non può chiedere alle donne di cambiare posto su richiesta di passeggeri ebrei ultraortodossi.
A vincerla, supportata dall'IRAC, è stata Renee Rabinowitz, un'81enne sopravvissuta all'Olocausto che nel dicembre del 2015 si era sentita chiedere di spostarsi da un assistente di volo della compagnia di bandiera. Rabinowitz aveva ricevuto una compensazione di 6'500 shekel (circa 1'760 franchi).
(tio.ch, 4 aprile 2018)
Migranti: Israele, emissario del governo inviato in Uganda
Per verificare la disponibilita' allaccoglienza
Un emissario del governo israeliano e' partito oggi per l'Uganda per verificare la eventuale disponibilita' di quel Paese di accogliere migranti eritrei e sudanesi che fossero indotti a lasciare Israele, dove oggi vivono. Lo ha riferito la radio militare secondo cui quell'emissario dovrebbe rientrare domani per riferire al governo.
In precedenza Israele aveva raggiunto un accordo con il Ruanda. Ma esso e' stato poi annullato di fatto dalle autorita' di Kigali che hanno spiegato di non poter accettare migranti africani che fossero espulsi, o anche costretti a lasciare Israele dietro la minaccia di essere altrimenti incarcerati. Ieri il premier Benyamin Netanyahu ha da parte sua annullato una intesa con l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati che prevedeva un graduale ricollocamento di 16 mila migranti in Paesi occidentali. In Israele vivono circa 40 mila migranti africani.
(ANSAmed, 4 aprile 2018)
Lingua ebraica e identità ebraica
di Rav Alberto Moshe Somekh
Il professor Alan Mintz, docente di letteratura ebraica al Jewish Theological Seminary di New York, è deceduto improvvisamente un anno fa all'età di settant'anni. Aldilà del cordoglio suscitato a suo tempo dalla notizia e degli studi da lui compiuti sul contributo fornito dai poeti ebrei americani del primo Novecento alla rinascita della lingua ebraica, la sua figura è per noi degna di nota soprattutto per aver pubblicato un breve articolo dal titolo Seven Theses on Hebrew and Jewish Peoplehood, un autentico manifesto sull'importanza dell'apprendimento dell'ebraico. "L'ebraico rappresenta la struttura profonda della Jewish Civilization'', esordisce lo scritto. Non ho tradotto le ultime due parole: non saprei come rendere Jewish in italiano se non ripetendo "ebraica". Ma i due aggettivi inglesi hanno sfumature differenti e di ciò l'autore era ben consapevole. La sua tesi è che la lingua può unire il popolo assai più di altri aspetti della vita ebraica. In senso diacronico e sincronico. In senso diacronico, i vocaboli ebraici accumulano continuamente nuovi significati senza perdere quelli più antichi. Quando i contadini sionisti erano alla ricerca di una terminologia per i loro lavori agricoli la Mishnah, ancorché redatta 1700 anni prima, era pronta a fornirla. Weahavtà ("e amerai") allude all'Amore di D. comandato nello Shemà', ma anche all'esperienza psicologica dell'amore terreno. "Se tu cerchi bittachòn hai bisogno di bittòchen", mi dicevano negli Stati Uniti: la pronuncia sefardita moderna si applica per indicare la sicurezza militare, mentre quella askenazita ci rimanda alla fiducia in D. Ma la parola è la stessa.
In senso sincronico, la lingua ebraica ha la capacità prodigiosa di creare un ponte fra settori diversi del nostro popolo: non solo fra sefarditi e ashkenaziti, ma anche fra osservanti e laici e fra lo Stato d'Israele e
la Diaspora. Visitando qualsiasi Comunità ebraica al mondo, nel momento in cui ci si presenta parlando l'ebraico si viene subito guardati con assai meno sospetto. Lo stesso accade, in genere, ai controlli aeroportuali allorché si è in procinto di volare per Israele. L'ebraico è un'attestazione vivente sia della nostra vocazione nazionale che di quella universale. E soprattutto si ha l'opportunità di creare nuovi legami e nuove amicizie. Con buona pace persino di alcuni miei illustri colleghi americani che con la Lingua dei Padri hanno non poche difficoltà di comunicazione, essa è un passaporto eccezionale.
La conoscenza dell'ebraico, scrive Mintz, è un marcatore-chiave del successo professionale nell'educazione ebraica, nel rabbinato, nel cantorato e negli studi ebraici accademici a prescindere da ogni tendenza e denominazione. Anche coloro che lo parlano zoppicando, inoltre, hanno la possibilità di contribuire allo sviluppo di quello straordinario laboratorio linguistico che è, e continua più che mai a essere, la lingua ebraica al servizio del pensiero ebraico. Basti pensare alla capacità che hanno le radici triconsonantiche di trasformarsi e reinterpretarsi attraverso l'aggiunta delle vocali: corpi che si lasciano forgiare dalle rispettive anime. Ma c'è un punto ulteriore che ritengo sensibile. Scrive Mintz al quarto dei suoi sette punti: "L'enorme produzione di traduzioni delle fonti ebraiche classiche è sia motivo di celebrazione che di costernazione. Da un lato il fenomeno rappresenta un'ammirevole democratizzazione degli studi ebraici; dall'altro porta a credere che l'originale ebraico sia semplicemente un ostacolo da superare e un mezzo per trasmettere messaggi che possono essere meglio o più rapidamente intesi in inglese" o qualsiasi altra lingua. Il Talmud racconta che in antico la lettura pubblica della Torah era accompagnata da una traduzione (Targum) verso per verso nella lingua allora più compresa: l'aramaico. Ma con un accorgimento. Significativamente il traduttore aveva la proibizione di una versione scritta e doveva svolgere il suo compito rigorosamente a memoria: se avesse avuto a disposizione un testo redatto nella lingua corrente, in breve questo avrebbe sostituito il Sefer Torah originale e certamente la Torah non avrebbe più avuto lo stesso ruolo centrale che il nostro popolo le ha sempre riconosciuto.
In Italia il problema è acuito dall'esiguità numerica dei potenziali lettori. Se si considera che ogni traduzione richiede di ricominciare un'operazione editoriale quasi ex novo e che questa ha dei costi elevatissimi nonostante lo sviluppo raggiunto dalla tecnologia, è naturale domandarsi quanto ne valga la pena. La diffusione degli e-books rappresenta forse una soluzione, ma non elimina tutti i problemi. Occorre anzitutto selezionare attentamente i testi da tradurre, volgendo in lingua italiana solo quelli veramente insostituibili. E soprattutto quelli che siamo in grado di tradurre bene in tempi ragionevoli. Per il resto potrebbe essere assai più remunerativo e produttivo pagare borse di studio anche cospicue ad alcuni allievi promettenti perché si formino adeguatamente in yeshivot o istituzioni accademiche in Israele o negli Stati Uniti. Una volta raggiunta una certa proficiency sui testi in lingua originale, torneranno a fare i Maestri nelle nostre Comunità, sempre che queste ritengano ancora di averne bisogno e di avvalersi della loro opera.
Ma soprattutto diffondiamo fra i nostri giovani la passione per la lingua ebraica. Scrive ancora Mintz: "L'ebraico fornisce uno strumento creativo in cui le contraddizioni e i sovvertimenti della cultura ebraica si prestano a una negoziazione... Anche chi conosce solo alcuni aspetti della lingua, guadagna molto in termini di accesso al tesoro dei testi ebraici... L'ebraico (Hebrew) è la barra direzionale della vita ebraica (Jewish): può essere spinta in svariate direzioni così da arricchire e accelerare una reale identità ebraica (Jewish)".
(Pagine Ebraiche, aprile 2018)
Gaza - Israele avverte Hamas: "Useremo proiettili veri"
di Giordano Stabile
Israele avverte Hamas e dice che sparerà ancora sui manifestanti che cercheranno di forzare la frontiera fra Gaza e lo Stato ebraico. Le dichiarazioni, sia di politici che di militari, arrivano mentre si prepara una nuova marcia di protesta che rischia di trasformarsi in un altro venerdì di scontri con Hamas. Il governo israeliano non intende fare la minima marcia indietro, nonostante le critiche internazionali e interne per «l'eccessivo uso della forza» contro i dimostranti. «Abbiamo fissato regole chiare e non intendiamo cambiarle - puntualizza il ministro della Difesa Avigdor Lieberman -. Chi si avvicina alle recinzioni della frontiera, rischia la vita». Lieberman ha respinto l'accusa di aver colpito manifestanti. «La maggior parte erano terroristi, dell'ala militare di Hamas e della Jihad islamica», ha ribadito: «È stata una provocazione organizzata ad arte da Hamas»,
Anche fonti militari hanno lasciato trapelare ai media israeliani che l'atteggiamento non cambierà: «Continueremo ad agire contro i manifestanti come abbiamo agito lo scorso venerdì». L'uso di mezzi anti-sommossa, come lacrimogeni, cannoni ad acqua, proiettili di gomma, sarà limitato. L'esercito sparerà proiettili veri, anche se è consapevole che potrebbero esserci vittime: «È il prezzo che siamo preparati a pagare per evitare lo sfondamento del confine». Intanto il bilancio da venerdì scorso continua a salire, ora è di 18 vittime, e ci sono ancora 40 persone in gravi condizioni. Ieri un altro palestinese è stato ucciso dal fuoco israeliano a Bureij, nel centro della Striscia, mentre la Lega araba ha chiesto all'Onu di aprire un'inchiesta.
Con la tensione a Gaza che sale di nuovo, è passata in secondo piano la questione dei migranti africani. Il piano per ricollocarli in Europa, e in Italia, attraverso la mediazione dell'Unhcr, è defunto. Lunedì sera il premier lo ha congelato. Ieri Netanyahu ha incontrato una delegazione di abitanti nei quartieri meridionali di Tel Aviv, dove si concentra gran parte dei migranti africani, in condizioni precarie, e dove è aumentata la micro-criminalità. Dopo aver ascoltato le lamentele di quella che costituisce una sua base elettorale, il premier ha dichiarato che l'intesa con l'Onu era «annullata».
Netanyahu aveva trattato con l'Onu senza consultare i Paesi europei, infastiditi da questa fuga in avanti, ma neppure gli alleati del governo e i suoi collaboratori, a parte il ministro dell'Interno Arieh Deri. La destra del Likud è insorta, come pure i partiti conservatori. Anche perché l'accordo prevedeva che per ogni migrante ricollocato, uno ottenesse un permesso temporaneo di lavoro in Israele. Il leader del partito Bayit Yehudi, Naftali Bennet, ha messo l'epitaffio sull'intesa: «Se diamo asilo a 16 mila clandestini Israele diventerà il Paradiso degli immigrati illegali».
(La Stampa, 4 aprile 2018)
Gli utili idioti di Hamas
"Il dilemma di Israele è difendersi senza perdere l'occidente". Interviste con Halevi e Yemini
di Giulio Meotti
ROMA - "Il vittimismo come visione della storia stabilisce automaticamente la giustizia dalla parte dei perdenti anche se questi sono gli aggressori e hanno un piano per distruggere coloro che, a oggi, appaiono come i più forti". Così Yossi Klein Halevi, senior fellow allo Shalem Center di Gerusalemme e commentatore ospitato sui principali media internazionali, come Wall Street Journal e New York Times, commenta i tragici fatti di Gaza di venerdì scorso, quando sedici palestinesi (di cui almeno dieci terroristi di Hamas e del Jihad islamico) sono rimasti uccisi negli scontri con l'esercito israeliano. "Il politicamente corretto ha preso il posto del pensiero critico" continua Halevi al Foglio. "E Israele, circondato da terroristi che vogliono annichilirlo e che ha di fronte la prospettiva di un assalto di massa, è ritratto dai media come l'aggressore". E' il dilemma di Gerusalemme: "Come restare forte in medio oriente e indebolirsi in occidente". Il giorno dopo Gaza, i giornali di tutto il mondo hanno capovolto quei fatti. "Gli scontri di Gaza non sono sui 'due stati e due popoli', ma sulla sostituzione di Israele con uno stato palestinese dal Giordano al Mediterraneo" dice Halevi. "Io rispetto i palestinesi e ascolto i loro leader quando dicono di volermi distruggere, anche se non hanno quel potere oggi. E Israele deve fare di tutto per impedire che lo ottengano. Perché l'occidente non lo comprende? Spero che il giudizio europeo su Israele ogni volta che si difende provenga da una sorta di stupidità e non da qualcosa di peggio, qualcosa che viene dal cuore oscuro del XX secolo". L'opposizione occidentale a Israele nasce da un modello antitetico? "C'è una differenza essenziale fra Israele e i paesi occidentali: noi viviamo in una regione dove i confini difendibili sono un imperativo politico e morale", conclude Halevi. "Gli israeliani non chiederanno scusa per difendersi. Preferisco stare al sicuro che avere la simpatia europea".
Sabato, sul maggiore quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, Ben-Dror Yemini ha scritto una lettera aperta ai vicini palestinesi. "Non sono sorpreso da questi media occidentali, dai Corbyn, dai Sanders e dalla Ue, che simpatizzano con Hamas e li considerano 'pacifici dimostranti', mentre a Gaza gridavano 'Khaybar Khaybar ya Yahud', uccidi gli ebrei" dice al Foglio Yemini. "Agli utili idioti di Hamas dico: condannateli, ordinate loro di disarmare e abbandonare l'odio. Sono queste élite progressiste che controllano i media a rendermi furioso, quelli che cantavano 'pace e umanità' e stavano con Stalin, che come Foucault adorarono Khomeini, che come Chomsky elogiavano i Khmer rossi e ora hanno Hamas". Il dilemma di Israele per Yemini è una condanna, quasi: "Israele sta vincendo la battaglia ma sta perdendo la guerra dell'opinione pubblica. I leader palestinesi non parlano di pace, ma di distruzione. E' il jihad che, dalla Somalia a Gaza, dalla Nigeria al Pakistan, porta ovunque sia distruzione e guadagna adepti in occidente. E' questo che dirò la prossima settimana parlando al Parlamento europeo". Perché chi vuole fare la pelle a Israele non sta assiepato soltanto a Gaza, ma anche nei palazzi del potere e nelle desk room.
(Il Foglio, 4 aprile 2018)
L'arabo che apre a Israele e sfotte Obama l'iraniano
Il potentissimo principe dichiara: lo Stato ebraico ha diritto di esistere. Il nuovo nazismo è a Teheran. Poi prende in giro la politica di Barack.
di Carlo Panella
Mohammed Bin Salman ha 33 anni, è il vero re dell'Arabia Saudita e ha tutte le intenzioni di modernizzarla. Con lentezza, ma con decisione. In teoria MBS (così è chiamato) ne è solo il principe ereditario (e il ministro della Difesa), ma in realtà il re Salman Bin Abdulaziz, suo padre, è malato, malatissimo, incapace di reggere il regno e tutto il potere reale è nelle mani del giovane principe ereditario. Nessun dubbio che sia così, come ha dimostrato il golpe di palazzo del novembre scorso nel quale MBS ha fatto arrestare una decina di principi e decine di alti funzionari, rilasciati, dopo una prigionia d'oro in un hotel e 5 stelle, solo dopo che avevano versato un riscatto di ben 80 miliardi di dollari nelle casse del regno, pur non riuscendosi a scrollarsi di dosso l'accusa infamante di essere corrotti.
Contro gli Sheikh
Non solo, con decisione, ma con lentezza, MBS ha anche iniziato a insidiare frontalmente il potere ideologico degli Sheikh, i discendenti del teologo Mohammed Wahab che sino alla sua ascesa al potere detenevano il monopolio della ideologia di Stato e dell'islam saudita e che sta via via emarginando, con inusuali aperture sia alle altre «scuole sunnite» che - addirittura - agli sciiti. Non basta, MBS accusa anche «alcuni» sauditi «di avere finanziato organizzazioni terroristiche», un'ammissione clamorosa - di nuovo diretta ad alcune Fondazioni Religiose controllate dagli Sheikh - che dimostra la sua volontà di far cessare una politica di sostegno a gruppi terroristici che si dispiega da anni in Afghanistan, Siria e Iraq.
La strategia di MBS a tutto punta fuorché a riforme radicali, soprattutto politiche: sa benissimo che il suo potere reggerà solo se manterrà nelle sue mani i poteri assoluti nel Regno, magari succedendo rapidamente al padre infermo diventando il più giovane re saudita. Ma è una strategia che sul piano estero rivoluziona il Medioriente, che ha un impatto violento su tutti gli equilibri della regione. A partire da una svolta tanto cruciale quanto radicale: il riconoscimento della piena dignità e del pieno diritto a esistere di Israele, una posizione giudicata addirittura blasfema da non pochi maggiorenti sauditi.
In una lunga intervista a The Atlantic, in occasione della sua visita in corso negli Usa - durante la quale è andato non a caso a Hollywood, giudicata dagli Sheikh «la sentina del peccato» - MBS ha infatti detto cose mai udite da un dirigente saudita: «Credo che ogni popolo, non importa dove, abbia il diritto di vivere nella sua nazione pacifica. Credo che gli Israeliani e i Palestinesi abbiano il diritto di avere la propria terra. Ma dobbiamo avere un accordo di pace per assicurare la stabilità per tutti e avere relazioni normali». E MBS - che ha incontrato recentemente in segreto altissimi dirigenti israeliani, fatto mai avvenuto nella storia - sta appunto costruendo tali «relazioni normali» con Israele, sino a concepire un piano che obblighi il riluttante Abu Mazen a firmare un accordo di pace con Gerusalemme abbandonando la sua posizione oltranzista.
Un apertura di credito a Israele funzionale peraltro a combattere quello che MBS definisce «il Triangolo del Male», che ricorda volutamente l'«Asse del Male» di George W. Bush, composto dagli stessi nemici: l'Iran degli ayatollah, la Fratellanza Musulmana e i terroristi islamici. L'attacco all'Iran di MBS è di inusitata violenza e sfida qualsiasi protocollo diplomatico, perché attacca direttamente la Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, che «fa sembrare buono Hitler» e che è l'«Hitler del Medioriente».
Il nuovo califfato
Con discreta capacità d'analisi, MBS accomuna i tre vertici del «Triangolo del Male», iraniani, Fratelli Musulmani e terroristi islamici, nella stessa aspirazione totalitaria: «Vogliono costituire un nuovo Califfato, un governo Universale sotto il loro esclusivo dominio a detrimento della libertà delle nazioni». Per questo sono il nemico da battere da un fronte largo nel quale MBS non disdegna affatto di includere Israele.
È l'esatto capovolgimento della strategia di Barack Obama, al quale MBS riserva una velata ironia per il suo Deal con l'Iran e la sua incredibile benevolenza nei confronti dei Fratelli Musulmani, in Egitto e altrove. Insomma, un partner d'elezione per Donald Trump. E per Israele.
(Libero, 4 aprile 2018)
Il cinese che salvò gli ebrei di Vienna
Ho Feng Shan è lo Schindler d'Oriente che come console nella capitale austriaca, contro la linea del suo Paese, continuò a rilasciare visti per Shanghai.
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La vicenda di questo raccontata in un libro curato da Elisa Giunipero con testi di Salom, Nissim, Giovagnoli, Li Tiangang e la testimonianza di Sonja Muhlberger.
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di Riccardo Mtchelucci
Il male che l'uomo fa vive oltre di lui. Il bene, sovente, rimane sepolto con le sue ossa»: ciò che Shakespeare faceva dire a Marco Aurelio nell'orazione funebre di Giulio Cesare pare non essersi verificato nel caso di Ho Feng Shan, «lo Schindler cinese», il cui eroismo fu rivelato alcuni anni dopo la sua morte consentendo finalmente al memoriale di Yad Vashem di inserirlo nell'elenco dei Giusti tra le Nazioni. Console cinese a Vienna durante la Seconda guerra mondiale, Ho Feng Shan fu uno dei primi diplomatici a impegnarsi per salvare gli ebrei in fuga dal Terzo Reich, fornendo loro passaporti cinesi per sfuggire alle deportazioni. Era arrivato nella capitale austriaca nella primavera del 1937, pochi mesi prima dell'Anschluss diHitler, in una città che all'epoca ospitava la terza comunità di ebrei più grande d'Europa. Ma con l'annessione del paese alla Germania nazista tutte le ambasciate straniere in Austria vennero chiuse e circa 185mila ebrei iniziarono a vivere nel terrore. La rappresentanza diplomatica di Pechino fu sostituita con un consolato generale cinese guidato dallo stesso Ho Feng Shan che in quei mesi cruciali, mentre l'indifferenza generale amplificava la crudeltà delle persecuzioni, si trovò di fronte a un bivio. Mentre il ministero degli esteri cinese gli chiedeva di mostrarsi accondiscendente verso le richieste degli ebrei, l'ambasciatore cinese a Berlino faceva pressioni su di lui affinché assecondasse la politica tedesca, per il bene delle relazioni tra Cina e Germania. Costretto a scegliere tra gli interessi della propria nazione e la salvezza degli ebrei, Ho preferì obbedire alla propria coscienza e commise, proprio come Antigone, quello che nella tragedia di Sofocle veniva definito un «santo crimine»: "crimine" rispetto alla legge, "santo" rispetto alla giustizia che esprimeva. Fece rilasciare un numero imprecisato - ma elevatissimo - di visti per il suo paese, pur sapendo che la maggior parte degli ebrei, una volta usciti dall'Austria, non avrebbero intrapreso un viaggio verso la Cina. Ci riuscì usando uno stratagemma: spiegò al suo collega in Germania che si sarebbe adeguato alle nuove istruzioni non appena avesse ricevuto una chiara direttiva, ma nel frattempo incaricò il suo vice di proseguire con il rilascio dei visti. È impossibile stabilire con esattezza quante persone abbia salvato nell'Austria occupata dai nazisti tra il 1938 e il 1939, anche perché molti non hanno neanche mai saputo di dovergli la vita. Secondo i calcoli più attendibili sarebbero state almeno tremila.
La straordinaria storia di Ho Feng Shan emerge con forza nel volume collettaneo Ebrei a Shanghai. Storia dei rifugiati in fuga dal Terzo Reich (edizioni O barra O, pagine 96, euro 14,00), che racconta un capitolo quasi sconosciuto in Italia della persecuzione antiebraica. Curato da Elisa Giunipero, direttrice dell'Istituto Confucio dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, il libro apre una finestra inedita di grande rilevanza storica sull'esodo compiuto in quegli anni verso l'Estremo Oriente: fra il 1933 e il 1941, subito dopo l'ascesa al potere di Hitler in Germania, circa 18mila ebrei in fuga dall'Europa riuscirono a rifugiarsi a Shanghai, la "Parigi d'Oriente", dove trovarono infine la salvezza. Al termine della Seconda guerra mondiale il numero dei sopravvissuti fu così elevato da far parlare di "miracolo di Shanghai", e gran parte del merito fu proprio di Ho Feng Shan ma anche di Chiune Sugihara, all'epoca console giapponese a Kaunas, in Lituania, nonché del governatore militare nipponico che si rifiutò di consegnare gli ebrei del ghetto di Shanghai ai tedeschi, suoi alleati. Purtroppo, come rileva il giornalista Paolo Salom nella prefazione del libro, l'identità di questo alto ufficiale di Tokyo rimane ancora oggi sconosciuta e ciò non ha consentito di annoverarlo tra coloro che rischiarono per salvare le vite di molti ebrei.
Il volume raccoglie scritti di Agostino Giovagnoli, di Gabriele Nissim, dello studioso cinese Li Tiangang e la testimonianza di Sonja Muhlberger, nata a Shanghai nel 1939 da genitori ebrei tedeschi in fuga dalla Germania nazista. Suo padre fu inizialmente internato a Dachau nel 1938 ma l'anno successivo venne rilasciato e si imbarcò con la famiglia dal porto di Genova alla volta dell'Estremo Oriente. A partire dal 1942, nella Shanghai occupata dai giapponesi alleati dei nazisti, gli ebrei furono costretti a vivere nel cosiddetto ghetto di Hongkou, un quartiere sovraffollato dove vissero in quel periodo anche sedici italiani. Il ghetto avrebbe poi esaurito la sua funzione nel dopoguerra, quando la maggior parte dei residenti si trasferì negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in Israele, iniziando una nuova vita.
La vicenda di Ho Feng Shan ricorda molto da vicino quella di Guelfo Zamboni, console italiano a Salonicco che non si curò dell'alleanza dell'Italia con la Germania e distribuì centinaia di visti agli ebrei offrendo loro rifugio ad Atene. Oppure, in anni più recenti, quella di Enrico Calamai, console italiano a Buenos Aires durante la feroce dittatura degli anni '70, che salvò centinaia di persone in fuga dalla repressione dei militari golpisti. Dopo la guerra, Ho Feng Shan fu ambasciatore prima in Egitto, poi in Messico, in Bolivia e in Colombia. Morì nel 1997, all'età di 96 anni, e purtroppo ancora oggi non viene ricordato in Cina, poiché nel 1949 rifiutò di schierarsi con i comunisti e rimase fedele ai nazionalisti rifugiatisi a Taiwan. Prima di morire, il diplomatico cinese ha raccontato nelle sue memorie cosa lo spinse a rischiare la vita e la carriera per salvare gli ebrei. Rivelò di essere rimasto orfano all'età di sette anni e di aver potuto studiare solo grazie a una missione cristiana, che lo educò al sacrificio e all'importanza di restituire i doni ricevuti. Spiegò di essersi convinto di dover usare quei doni per servire la società, e nel momento del bisogno, di fronte al terribile destino riservato agli ebrei, non poté tirarsi indietro.
(Avvenire, 4 aprile 2018)
Nel cuore di Israele, tra mare e deserto
A un mese dal giro. Abbiamo percorso le prime tre tappe della Corsa rosa che partirà da Gerusalemme il prossimo 4 maggio. Un viaggio nella memoria tra panorami mozzafiato.
di Lorenzo Cremonesi
EILAT - L'inizio è subito storia. Memoria ricca, densa, fatta di pietre e muri centenari, testimoni per nulla muti con incisi i segni delle schegge e le pallottole di guerre antiche e moderne, assieme al protrarsi di tensioni acute, che durano tutt'ora. Era inevitabile, visto che la prima tappa del 101o Giro d'Italia, delle tre che tra un mese esatto si correranno in Israele, parte proprio dal cuore di Gerusalemme. Le abbiamo appena percorse in bici per il Corriere, ben consapevoli che il 4 maggio farà certamente più caldo, assieme all'incognita più grave per i corridori. Ha un nome: «hamsin», ripreso dagli arabi del deserto, che significa «cinquanta» riferito ai gradi del vento torrido che a periodi soffia dal profondo sud del Sahara, arriva al Negev per investire l'alta Galilea e può seccare la gola e la volontà anche del ciclista più agguerrito.
L'altro giorno alla partenza di fronte alle mura della Città Vecchia presso la porta di Jaffa la temperatura era comunque non superiore ai 15 gradi, con una leggera brezza favorevole da nord. È una cronometro non semplice, fatta di strade ben asfaltate, ma ricche di curve e di saliscendi. Alla fine dei 9, 7 chilometri il gps segnava circa 200 metri di dislivello. Comincia sfiorando quella che dal 1948 al 1967 fu la «terra di nessuno», quando Gerusalemme era divisa tra israeliani a ovest e giordani a est. L'intero percorso resta comunque nella parte occidentale. Poche centinaia di metri e si passa di fronte all'hotel King David, poi via veloci verso gli incroci delle strade che portano a Betlemme, ma per girare subito a destra in direzione di Derech Ruppin, il vialone che s'immerge nel verde del parco attorno alla Knesseth (il parlamento). Da una parte gli edifici del governo, dall'altra il Museo d'Israele, dove sono esposti anche i Rotoli del Mar Morto, e il campus alberato dell'Università di Givat Ram. Qui e subito dopo nella larga avenue Ytzhak Rabin sembra il momento migliore per accelerare al massimo. Il tratto finale è più tortuoso. L'arrivo è in Shlomo HaMelekh.
La seconda tappa parte da Haifa per giungere 167 km dopo a Tel Aviv. Prima ci si dirige a nord, quindi a sud, dopo aver aggirato il collinone del Carmelo e le zone verdeggianti presso i vigneti di Zikron Yaakov voluti dai Rothschild quasi 140 anni fa e che i ciclisti israeliani chiamano «la nostra piccola Toscana», dove c'è anche l'unico «strappetto» ripido della giornata. Un percorso facile, veloce, su strade ampie, la maggioranza riasfaltate di recente. Non abbiamo potuto pedalare la cinquantina di km da Cesarea all'entrata di Tel Aviv proprio perché è parte dell'autostrada numero Due, vietata ai ciclisti. Per il Giro ovviamente il traffico verrà bloccato. Qui è il centro della realizzazione del sogno sionista dalla fine dell'Ottocento, si trovano le prime colonie agricole lungo la costa, che oggi sono sede delle nuove compagnie hitech diventate la vera ricchezza del Paese.
Restano comunque immanenti le testimonianze del braccio di ferro secolare per la Terra Santa. Salterà all'occhio quando le telecamere indugeranno sulle mura ottomane di San Giovanni d'Acri, costruite sulle rovine di quelle crociate. I drammi degli ultimi anni si colgono intensi invece sul finale. A Piazza Rabin si corre di fronte al memoriale dello statista assassinato il 4 novembre 1995 da un ebreo estremista che osteggiava gli accordi di pace con Arafat. L'arrivo tappa è sul lungomare, di fronte all'abitazione di Silvan Adams, il miliardario canadese-israeliano innamorato del ciclismo: ha donato milioni di dollari per facilitare il capitolo israeliano del Giro. Proprio di fronte, dalla parte della spiaggia, sono evidentissimi una lapide con i resti abbandonati del Dolphinarium, la discoteca devastata da un kamikaze palestinese di Hamas che uccise 21 giovani, la grande maggioranza ebrei immigrati dalla Russia. Era la sera del primo giugno 2001. L'altro giorno, mentre dalla striscia di Gaza arrivavano le notizie di gravi incidenti con l'esercito israeliano e la morte di almeno 17 palestinesi impegnati nella «marcia del ritorno» organizzata da Hamas, vi siamo arrivati pedalando lungo la ciclabile da Iaffa. Diversi ciclisti di passaggio si fermavano a leggere i nomi in russo dei morti della discoteca sulla lapide.
Beersheva-Eilat sono quasi 230 km. Puro deserto. Ma non piatto. In bici abbiamo calcolato un dislivello complessivo di 1.862 metri. Le strade sono sempre ottime. Si parte su lunghi tratti di falsopiano che progressivamente portano dai 361 metri sul livello del mare a Beersheva al punto più alto, gli 840 metri di Mitzpe Ramon. Il tedio del deserto sassoso si trasforma presto in scenari mozzafiato già arrivando a kibbutz Sde Boker. Qui, su una balconata di rocce bianche affacciate a una wadi profonda, è sepolto David Ben Gurion (1886-1973) con la moglie Paula, il «padre della patria», lo statista d'Israele per eccellenza che tra le altre infinite iniziative volle proprio la colonizzazione del Negev. Poi è tutto un su e giù, sino alla discesa liberatoria verso kibbutz Yotvata e la strada facile al mare. Con il vento che soffia quasi sempre a favore gli ultimo 40 km di discesa dolce verso Eilat sono un sogno da volare. A meno che non arrivi «hamsin» ...
(Corriere della Sera, 4 aprile 2018)
Gaza: i fondali della cosiddetta "Marcia del Ritorno" e la realtà dei fatti
La reazione israeliana all'ennesima messa in scena organizzata da Hamas indigna l'opinione pubblica che preferisce non conoscere la verità
di Niram Ferretti
L'allestimento teatrale della Marcia del Ritorno di venerdì scorso al confine tra Gaza e Israele, messo in piedi dall'impresario del terrore Hamas con la partecipazione di Fatah e della Jihad Islamica, ha prodotto prevedibilmente buoni risultati nell'opinione pubblica internazionale. La stampa si straccia sempre le vesti quando Israele risponde a una minaccia e lo fa aprendo il fuoco o, come nel caso dell'ultimo conflitto a Gaza nel 2014, bombarda l'enclave costiera. I massacri di civili perpetrati dalla Turchia di Erdogan a Afrin, incidono sulla capacità di indignazione collettiva in misura assai minore di quanto accade in Israele. Come da copione.
Scriveva l'anno scorso Angelo Panebianco in un suo editoriale sul Corriere della Sera:
"Come scoprire se si è affermata una egemonia culturale? C'è un modo: se una qualsiasi falsificazione della storia viene messa in circolazione con intenti partigiani e se, dopo un po' di tempo, si scopre che quella falsificazione è penetrata nelle menti di molti, diventando una verità di senso comune, una verità che le persone accettano come ovvia, auto-evidente, allora è possibile riconoscere che una egemonia culturale si è consolidata"
Cinquanta anni di indefessa propaganda anti-israeliana l'hanno felicemente consolidata. Joseph Goebbels sarebbe stato entusiasta della narrativa egemone secondo cui gli arabi-palestinesi sarebbero le vittime e gli israeliani i carnefici. Essa ha conquistato molti cuori e menti e si basa sull'assunto che se un consorzio umano, gruppo, società, nazione è più forte di un altro consorzio analogo che cerca con sue motivazioni di contrastarlo, allora il più debole è da considerarsi dalla parte della ragione in quanto i suoi mezzi di contrasto e opposizione sono inferiori. Tale grottesco sillogismo giustificherebbe chi, durante la strategia della tensione, stava dalla parte del terrorismo rosso o nero contro la struttura dello Stato, "opprimente" e "repressiva", da abbattere con i "poveri" mezzi a disposizione.
La leggenda degli arabi espropriati e defraudati delle loro avite terre dai colonizzatori israeliani appoggiati da ex potenze coloniali come la Gran Bretagna, ha una fattura grossolana, da soap-opera, ed è per questo che conquista. Si fonda su archetipi, su ripartizioni primitive incistate nella psiche. L'arabo palestinese rapinato dal rapace israeliano armato (possibilmente con il naso adunco), è una immagine che conquista il coracon di progressisti dal cuore d'oro, i quali sono sempre in piazza contro Israele e mai contro macellai consumati come Assad o Erdogan o contro il regime teocratico iraniano.
Sedici risultano essere al momento gli arabi-palestinesi uccisi, le vittime dell'"efferatezza" israeliana, del "massacro pasquale" (quanto è piaciuta questa titolazione alla stampa italiana) perpetrato da implacabili e sadici cecchini, i quali, tuttavia, non portavano con sé bandiere della pace, ma mitragliatrici AK-47 e granate. Hanno aperto il fuoco contro i soldati israeliani dietro la barriera di confine, così come si vede chiaramente dal girato delle telecamere di sorveglianza posizionate lungo la barriera. Undici di loro erano miliziani di Hamas ma anche membri della Brigata dei Martiri di Al-Aqsa di Fatah, della Jihad Islamica e di un gruppo salafita. La lorio identità, nota all'IDF, è stata rivendicata anche dai rispettivi gruppi terroristi di appartenenza.
La principale preoccupazione dell'esercito israeliano era il rischio di un ingresso massiccio all'interno dei confini di Israele di migliaia di arabi-palestinesi residenti a Gaza, in modo da evitare che accadesse quello che accadde nel giugno 2011 lungo i confini libanesi e siriani, quando la folla sfondò i cancelli perimetrali ed entrò in Israele con la conseguenza di morti causati sia dal fuoco israeliano che da quello libanese.
Hamas, che sta attraversando la sua crisi politica più profonda da quando ha preso il potere a Gaza nel 2007, è l'istigatore delle provocazioni e delle infiltrazioni terroristiche che hanno causato la risposta decisa di Israele. La Marcia per il Ritorno, slogan ideologico che sottende il ritorno in tutta la Palestina, liberata da Israele usurpatore, macchia da levare sulla pristina purezza del Waqf islamico, come specificato dallo Statuto del gruppo integralista, null'altro è se non un diversivo per distogliere l'attenzione dal regime dittatoriale con il quale viene oppressa la popolazione di Gaza da undici anni a questa parte.
Questa è la realtà che sbuca dietro i fondali e le cortine fumogene della abituale propaganda.
(Progetto Dreyfus, 3 aprile 2018)
Chi e cosa c'è veramente dietro alla protesta di Gaza? Chi ne beneficia?
Parliamoci chiaro, mediaticamente parlando la protesta di Gaza è stata un capolavoro. Nessuno parla più delle stragi di curdi perpetrate da Erdogan (ne parlavano pochissimo anche prima), nessuno guarda a quello che fanno Assad, Putin e Rouhani in Siria, nessuno parla più della minaccia iraniana, ma soprattutto nessuno parla di come Hamas ha ridotto la Striscia di Gaza. I palestinesi sono tornati ad essere un enorme mezzo di distrazione di massa dopo che per mesi erano rimasti sommersi da problemi ben più grandi.
Scrive un giornale degli Emirati Arabi Uniti, il The National: «la persecuzione israeliana contro i palestinesi - dal furto della loro terra ai rapimenti abituali, assassinii, bombardamenti indiscriminati e massacri di soldati scatenati - è sempre avvenuta in un contesto di assoluta impunità, grazie ai sostenitori di Israele». Poi aggiunge: «mentre le famiglie palestinesi a Gaza stavano seppellendo i 15 uomini uccisi dalle pallottole israeliane, le sue forze hanno ancora una volta fatto fuoco sui manifestanti pacifici che chiedono i diritti umani più elementari da uno dei più spietati regimi coloniali della storia»....
(Rights Reporters, 3 aprile 2018)
Cologno al tempo della seconda guerra mondiale
Il direttore dell«Associazione Memoriale Sardo della Shoah» ci trasmette per conoscenza e diffusione una lettera che ha scritto al Sindaco di Cologno Monzese in merito ad una rievocazione storica sponsorizzata da quellamministrazione. NsI
Lettera al Sindaco di Cologno Monzese Angelo Rocchi
Gentile Sindaco
Sono il direttore della Associazione Memoriale Sardo della Shoah, una organizzazione nata nel 2011 in Sardegna e che si occupa di raccogliere materiali e documenti, nonché di organizzare iniziative culturali, scolastiche e non solo sulla Shoah, la storia del Nazismo, del Fascismo, la storia della deportazione nazista e dei crimini nazisti e fascisti in generale, nonché di monitorare e denunciare tutti i casi attuali di antisemitismo, intolleranza, e di negazionismo o di revisionismo storico sulle vicende di quegli anni.
Navigando sul web, sono venuto a conoscenza della iniziativa che la sua amministrazione sta sponsorizzando e patrocinando per le giornate del 21 e 22 Aprile 2018, una (cito testualmente dalle locandine) "pubblica rievocazione in costume della vita in un campo militare della Wehrmacht prima della Liberazione."
Lungi da me nel condannare a prescindere e senza una conoscenza approfondita le "pubbliche rievocazioni" in costume, non posso tuttavia non esprimere il mio sconcerto nello scoprire di quale campo militare e soprattutto di quale reparto della Wermacht la sua amministrazione sta patrocinando la "rievocazione storica in costume".
Si tratta infatti della Waffen Fusiliren Kompanie 36, una compagnia che faceva parte della Waffen Grenadier Division 36.
La Waffen Grenadier Division 36, signor Sindaco? Lei ospita come "rievocazione storica" pura e semplice la vita nel campo militare di un reparto della Waffen Grenadier Division 36?
Temo che le sia sfuggito, purtroppo, qualcosa sulla storia di questo reparto della Wehrmacht, anche a causa probabilmente del fatto che la maggior parte dei testi storici dove viene rievocata la vicenda di questo battaglione non sono purtroppo stati pubblicati in Italia. Tuttavia, le vengo incontro rievocando di seguito:
La divisione in questione ha una storia molto particolare: Dalla fine di maggio 1940 erano presenti nel campo di concentramento di Sachsenhausen, alle porte di Berlino, dei bracconieri che avevano cacciato nella zona di Oranienburg senza alcuna autorizzazione, e che erano stati internati in seguito nel"comando bracconieri di Oranienburg" sotto Oskar Dirlewanger nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Alla fine di una buona riuscita di un processo di "rieducazione" dei prigionieri ai principi del nazionalsocialismo, 55 di questi bracconieri vengono rilasciati ed arruolati come soldati nel cosiddetto "Sonderkommando Dirlewanger"e trasferiti nel Governatorato generale di Polonia, e precisamente a Lublino nella zona di comando del capo della polizia Odilo Globocnik.
Globocnik. Non un nome qualunque. Stiamo parlando di uno degli uomini-chiave dell'apparato di sterminio dei centri di messa a morte della Aktion Reinhard, caro sindaco. Stiamo parlando di uno degli uomini al comando della catena della morte di Belzec, Sobibor e Treblinka. Ovvero, i tre centri di messa a morte dove tra la primavera del 1942 e l'autunno del 1943 verrà eliminata tutta la popolazione ebraica della Polonia ed in parte anche della Francia e dell'Olanda. Questi uomini erano agli ordini di uno dei maggiori sterminatori di ebrei della storia della shoah. Non lo sapeva questo, sindaco? Andiamo avanti
A partire dal febbraio 1942, il comando, che era cresciuto fino a poco meno di 100 uomini, vista la bravura dimostrata nella repressione contro i partigiani fu trasferito in Bielorussia, dove fu assegnato a Curt von Gottberg. A partire dall'11 novembre 1942, portava il nome di "battaglione speciale SS Dirlewanger", nel 1943/1944 divenne "SS Special Regiment Dirlewanger".
Kurt Von Gottberg, signor Sindaco? Sa chi era?
Era specializzato, a partire dall'ottobre 1942, in Bielorussia, nella "lotta" contro i partigiani, ma anche nella repressione di ebrei e rom e sinti. Sa cosa scrisse in un suo ordine Von Gottberg il 7 Dicembre 1942?
"Ogni ebreo, zingaro e partigiano è un nemico da eliminare".
Quindi, ancora una volta, questa divisione si trovava ad aver a che eseguire gli ordini di uno spietato sterminatore di ebrei e rom, Sindaco. Non lo sapeva questo, Sindaco?
Nel luglio del 1944 il reggimento divenne la SS Sturmbrigade Dirlewanger. Fu infine inviata in Germania, dove fino all'ultimo si distinse nella "lotta" contro gli alleati che liberavano l'Europa dal giogo nazista e fascista.
Signor Sindaco, lei ospita una rievocazione storica con un gruppo che porta il nome di una compagnia implicata fino al collo nella shoah e nella Porrajmos, ovvero nel genocidio di ebrei e rom, se ne rende conto?
Volesse avere maggiori delucidazioni, o verificare la veridicità di quanto le riporto, le suggerisco letture come quella del testo di Christian Ingrao: Les chasseurs noirs. La brigade Dirlewanger, Perrin, Parigi 2006.
Oppure il testo di French L. MacLean: The Cruel Hunters. SS-Sonder-Kommando Dirlewanger, Hitler's Most Notorious Anti-Partisan Unit. Schiffer, Atglen 1998.
Cordialmente
Alessandro Matta, direttore Associazione Memoriale Sardo della Shoah.
(Notizie su Israele, 3 aprile 2018)
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Succede a Cologno Monzese il 21 aprile 2018
Qualcuno prova a dare un significato storico a chi si macchiò di stragi, senza troppi scrupoli. Come se un eccidio abbia pure un motivo perché venga compiuto.
di Franco Novembrini
In questi giorni il sindaco leghista di Cologno Monzese ha deciso di allestire in centro al paese un accampamento delle SS per far vedere come vivevano questi poveri soldati fra un massacro e l'altro di ebrei e partigiani e vittime innocenti, magari indicati dai ''ragazzi di Salò'' di violantesca memoria. Il tutto, ovviamente, per motivi culturali a ragazzi che avrebbero, piuttosto, bisogno di conoscere sì la Storia, ma quella vera di chi si ribellò al nazifascismo e spesso pagò con la vita questa decisione che ci avrebbe portato, grazie al loro sacrificio ad avere una democrazia garantita da una Costituzione voluta da Calamandrei, da Pertini e poi difesa da De Gasperi fino a Berlinguer e Moro, di cui ricorre l'infame omicidio dopo la strage della sua scorta ed i cui autori sono tutti liberi e a volte cercano di dare lezioni ai figli e nipoti delle vittime innocenti della loro barbarie.
Ma la storia in Italia non ha mai avuto vita facile. Già dal '43 dopo la fuga del re ''Sciaboletta'' e di alcuni generali, accusati di stragi che facevano concorrenza alle SS hitleriane, i generali Robotti e Roatta, specialmente quest'ultimo trattava per conto del governo Badoglio, la resa dell'Italia nella maniera ipocrita e vigliacca che la Storia ci ha tramandato. Nell'immediato dopoguerra Roatta, oltre ad essere reintegrato e non consegnato agli jugoslavi come criminale di guerra, fu al vertice del Sismi che per anni fu guidato da personaggi che furono molto indulgenti con il ciarpame fascista delle bande criminali come la X Mas e con i golpisti De Lorenzo e i massoni deviati di Licio Gelli.
Ci sarebbe da parlare dell'armadio della vergogna che nascose per decenni le stragi dei nazisti e delle spie repubblichine i cui resti tornarono utili per le stragi, quasi tutte impunite, da partire da Portella della Ginestra per continuare fino a quella di Bologna. Ora il sindaco leghista di Cologno cerca di veicolare come storica una provocazione a ridosso della festa della Liberazione, seguendo di pochi giorni una analogo tentativo e dopo una lunga serie di provocazioni che, come da copione, si manifestano quando la ''casta'' che ci governa e che spesso è sensibile alle indicazioni di stati esteri su chi, come e in che modo debba essere governata l'Italia.
Crediamo che possa configurarsi una specie di preparazione a ben più gravi azioni. Comunque al Sindaco consiglieremmo di fare cosa utile regalando agli studenti il libretto sul fascismo di Umberto Eco e di far leggere nelle scuole alcuni degli ''scritti corsari'' di P.P. Pasolini, pubblicati come articoli sul ''Corriere della sera'' prima che venisse ucciso in maniera poco chiara decine di anni fa.
Un'ultima notazione, ci sembra doverosa, il 21 aprile, data scelta da noto sindaco, non è una data qualunque, ma è stata la prima festa nazionale istituita da Mussolini per festeggiare i natali di Roma ed a cui si partecipava con la divisa di ordinanza del tempo: la camicia nera e l'orbace.
(Giro di vite, 3 aprile 2018)
Il principe saudita bin Salman: "Israele ha diritto a un suo stato"
di Anna Pedri
RIAD, 3 apr - Mai prima d'ora si era sentito parlare un arabo in questi termini. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha detto che Israele ha diritto a vivere in pace su un proprio stato. Una vera bomba diplomatica proprio nel mentre in cui Israele è da più parti accusato di stare mettendo in atto un genocidio nei confronti del popolo palestinese.
La svolta diplomatica in questione è stata pronunciata nel corso di un'intervista rilasciata poco prima che scoppiasse la nuova crisi a Gaza alla rivista americana The Atlantic, durante la quale bin Salman ha anche detto: "Credo che ogni persona, ovunque sia, abbia il diritto di vivere nella sua nazione pacifica, credo che palestinesi e israeliani abbiano il diritto di avere la propria terra". Niente da obiettare, dunque, se Israele esiste e se esiste in quanto patria degli ebrei. Mai un leader arabo, nemmeno il più moderato, ha mai messo insieme le parole "diritto" "stato" e "Israele" in uno stesso concetto.
Le uniche perplessità di natura religiosa che l'uomo forte di casa Saud nutre in merito a Israele riguardano il destino della Spianata delle Moschee, vero fulcro delle proteste della scorsa estate e nucleo attorno a cui ruota il destino di quel fazzoletto di terra sacro alle tre grandi fedi monoteiste. E poi i diritti dei palestinesi, a cui però nell'intervista MBS, diminutivo con cui viene chiamato il principe, non dedica molte parole. Per il resto i sauditi non avrebbero problemi con gli altri popoli e le altre religioni: "Il nostro profeta Maometto sposò una donna ebrea. Non fu un'amica, la sposò". Poi però usa espressioni non certo benevole verso gli iraniani.
Con le dichiarazioni del suo principe ereditario, molto amico del genero ebreo del presidente americano Donald Trump, Jared Kushner, l'Arabia Saudita si avvicina sempre più a Israele, dopo che già il mese scorso Riad aveva aperto dopo due anni di negoziati il proprio spazio commerciale aereo a Israele. Ma questo vento di pace tra le due potenze non sembra essere fine a se stesso.
"Dobbiamo arrivare a un accordo di pace che assicuri stabilità e che normalizzi le relazioni con Israele con cui condividiamo molti interessi" dichiara MBS. Un'espressione che va letta in chiave anti-iraniana, vera ossessione di Tel Aviv e Riad. Bin Salman nel corso dell'intervista ha infatti dichiarato che "il leader supremo iraniano a confronto faccia figurare bene Hitler. Hitler non ha fatto ciò che il capo supremo sta cercando di fare. Hitler ha cercato di conquistare l'Europa.
Il capo supremo sta cercando di conquistare il mondo".
Mai prima d'ora un leader arabo aveva usato senza mezzi termini l'espressione "triangolo del male" riferendosi a Iran, Fratelli Musulmani e terrorismo di matrice sunnita - Isis, Al Qaeda, Hamas, Hezbollah - come se le tre cose fossero un tutt'uno. Bin Salman mette tutto insieme e dice che l'obiettivo di questo "triangolo del male" è ristabilire il califfato. E quando l'intervistatore gli chiede del wahabismo, che risulta essere la religione di stato in Arabia Saudita, MBS risponde secco: "non esiste il wahabismo".
(Il Primato Nazionale, 3 aprile 2018)
La nuova strategia di Hamas
di Jonathan S. Tobin
I palestinesi che hanno organizzato la cosiddetta "marcia del ritorno" dicevano che le dimostrazioni lungo le recinzioni di confine che separano Israele dalla striscia di Gaza sarebbero state pacifiche, con tanto di eventi culturali e danze popolari e la partecipazione di intere famiglie simbolicamente accampate nelle tende. Ma la realtà delle cose è stata molto diversa. Migliaia di giovani palestinesi, molti dei quali noti terroristi di Hamas e altri gruppi armati, hanno tentato di abbattere la recinzione di confine. Non hanno lanciato solo pietre, ma anche bombe molotov e altri ordigni. Hanno appiccato incendi. Secondo le Forze di Difesa israeliane, alcuni hanno tentato di piazzare esplosivi lungo la recinzione.
Evidentemente Hamas ha cambiato tattica. Con l'avvento del sistema di difesa anti-missilistica "Cupola di ferro", il lancio di razzi e proiettili di mortaio contro i civili israeliani non è più molto efficace. La tecnologia israeliana che scopre i tunnel per infiltrazioni terroristiche ha iniziato a neutralizzare anche questa minaccia. Ora Hamas si affida a una nuova strategia più semplice: spingere folle di palestinesi - donne, bambini e anziani mescolati a terroristi armati - a lanciarsi verso la barriera che separa da Israele la striscia di Gaza controllata da Hamas, e attendere le inevitabili vittime civili. Hamas sa bene che nessuno stato sovrano può permettere che il suo confine venga invaso da migliaia di bellicosi "profughi", specie se queste folle verosimilmente non sono altro che la copertura per terroristi pronti a compiere attentati contro gli israeliani. E sanno che Israele verrà invariabilmente condannato per aver ucciso palestinesi "innocenti".
A quanto pare le violente "marce del ritorno" che hanno avuto luogo in almeno sei punti diversi lungo il confine in coincidenza con la Giornata della Terra palestinese (30 marzo), dovrebbero continuare fino al 15 maggio, data in cui Israele commemora la sua dichiarazione di indipendenza di settant'anni fa, e che i palestinesi chiamano "Giornata della catastrofe". Ma queste rivolte arrivano in un momento in cui la dirigenza politica di Hamas a Gaza è in crisi.
L'organizzazione terroristica, che ha strappato violentemente all'Autorità Palestinese il controllo sulla striscia di Gaza nel 2007, due anni dopo il ritiro di Israele, non si è minimamente occupata dei palestinesi che vi abitano. Gli islamisti saliti al potere con lo slogan "l'Islam è la risposta" si sono resi conto dopo un decennio che è impossibile gestire persino una piccola enclave costiera attenendosi a una rigida teologia musulmana che non lascia spazio né ai compromessi né al pragmatismo. Hamas canalizza tutte le sue risorse nella preparazione di un'altra fallimentare guerra con Israele, invece di investire nel miglioramento della vita dei cittadini di Gaza. I risultati dell'intransigenza di Hamas sono tragicamente evidenti: paralizzante penuria di elettricità, acqua corrente disponibile in media un giorno su quattro, sfruttamento incontrollato delle falde acquifere con conseguenti infiltrazioni di acqua salata, tassi di disoccupazione stellari, ricostruzione dopo i conflitti con Israele in stallo. I tentativi di riconciliazione con la dirigenza di Fatah in Cisgiordania non sono andati da nessuna parte perché entrambe le fazioni si preoccupano più di rafforzare se stesse che di migliorare le condizioni della popolazione palestinese. Hamas sperava di poter continuare a controllare militarmente Gaza mentre l'Autorità Palestinese, finanziata da generosi donatori stranieri (per lo più americani ed europei) avrebbe pagato il conto delle bollette e delle spese per la gestione quotidiana di un'enclave autonoma. Il presidente dell'Autorità Palestinese e capo di Fatah Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha reagito bloccando l'afflusso a Gaza di fondi dell'Autorità Palestinese. Intanto nessuno, in Cisgiordania e a Gaza, prende nemmeno in considerazione la possibilità di indire elezioni democratiche. L'ultima volta che si sono tenute (grazie alla collaborazione di Israele) fu nel 2006 e Hamas prese un sacco di voti.
Ora, date le circostanze, Hamas ha deciso che l'opzione più semplice è lanciare una serie di manifestazioni violente contro Israele, con il risultato di distogliere l'attenzione dai clamorosi fallimenti della dirigenza di Hamas e di garantire a Hamas una nuova rilevanza nella "resistenza" palestinese surclassando Fatah. Naturalmente niente di tutto questo ha nulla a che fare con una reale preoccupazione per il futuro del popolo palestinese di Gaza. Hamas sta usando le manifestazioni per delegittimare e scalzare Israele. Non le importa nulla che la sua gente abbia una speranza di futuro migliore. Le va benissimo che vengano uccisi. Meglio se dagli israeliani.
(Ebrei e Israele - Forum Free, 3 aprile 2018)
Tutti lodino i cento tiratori israeliani schierati sul terrapieno di Gaza
Non hanno difeso solo se stessi e il loro Stato, hanno difeso un'idea universale. Se le torme ululanti di palestinesi avessero superato quel confine nessuno avrebbe più potuto dormire tranquillo, da nessuna parte.
di Camillo Langone
Tutti lodino i cento tiratori israeliani schierati sul terrapieno al confine con Gaza. Non solo il primo ministro Netanyahu, non solo il ministro della difesa Lieberman, non solo gli ebrei, non solo gli ebrei israeliani, non solo l'esercito israeliano (in cui militano, ricordarselo, molti drusi, beduini, arabi cristiani...), non solo i filo-semiti: anche gli anti-semiti. Anche un anti-semita la notte vuole dormire in pace, una volta chiusa la porta del proprio appartamento. E i cento tiratori israeliani non hanno difeso solo se stessi e il loro Stato, hanno difeso un'idea universale. Il terrapieno di Gaza è un archetipo del confine. "Abbattere le frontiere vuol dire consegnare il mondo al caos" avvisa Jean Clair. Se le torme ululanti di palestinesi avessero superato quel terrapieno nessuno avrebbe più potuto dormire tranquillo, da nessuna parte. Tutti lodino i cento tiratori israeliani schierati sul terrapieno di Gaza contro la violenza del numero.
(Il Foglio, 3 aprile 2018)
Scontro Hamas-Israele: l'ombra del Sultano dietro l'uso delle masse? Articolo OTTIMO!
Venerdì scorso abbiamo assistito ad un radicale cambio di strategia da parte dei palestinesi di Gaza, ed in particolare di Hamas. Non potendo più ricorrere liberamente e con successo ai razzi ed ai missili, essendo sempre più lontani dalle posizioni dell'Egitto laico di El Sisi, cercando sponda nell'Iran teocratico e nella Turchia neo-ottomana, i vertici di Hamas hanno deciso di usare le masse contro Israele.
Sì, le masse come ai tempi delle grandi carneficine della Prima guerra mondiale, quando migliaia di uomini venivano mandati incontro a morte certa simultaneamente, per conquistare pochi metri di trincee. Oggi non siamo più nel 1918 ma abbiamo osservato ancora una volta, come 100 anni fa, una massa umana mandata incontro a morte certa per cercare di destabilizzare il confine con Israele.
Il bilancio della giornata di scontri è stato terribile, 16 palestinesi uccisi e circa 1200 feriti. Terribile certo, anche fosse solo stata la perdita di una sola vita umana. Ma cosa sarebbe accaduto se l'esercito di Gerusalemme avesse lasciato fare? Cosa sarebbe accaduto se i tiratori scelti dell'esercito israeliano non avessero cercato di colpire a morte principalmente gli organizzatori, o gli agitatori se preferite, ma avessero atteso che quella massa formata da oltre 20000 persone superasse i reticolati? I morti sarebbero stati centinaia. Così come è evidente la sproporzione tra vittime e feriti. Spesso gli sniper israeliani hanno mirato alle gambe e non al "bersaglio grosso", certo una azione forte ma che anche in questo caso ha evitato una strage.
Gaza oggi è un ambiente sovra-abitato, con una età media estremamente bassa, pari al grado di istruzione dei suoi abitanti, dove la disoccupazione è alle stelle e la prospettiva di un miglioramento della qualità di vita soltanto una chimera.
Questo ambiente è ideale per reclutare decine di migliaia di giovani da arruolare per una nuova guerra per procura, una guerra che potrà dare linfa alla retorica della Turchia neo-ottomana, pronta ad ergersi come paladina dei palestinesi, in contrapposizione all'Arabia Saudita anche oggi nei fatti è un alleato dello stato ebraico.
Ecco, questo noi vediamo, osservando le masse arabe che muovono dalla Striscia verso Israele. Persone che credono di rivendicare diritti ormai inesigibili sulle terre che oggi sono parte integrante di Israele. Persone che invece sono strumento della politica mediorientale di Ankara che vuole ergersi a pilastro dell'Islam non sciita.
Queste masse sono le medesime, seppur di altra nazionalità, che vedremo marciare ed impossessarsi delle terre dei curdi nel nord della Siria, sono le stesse che cercheranno di prendere possesso politico del Kosovo, e che dai sobborghi del Cairo tenteranno di indebolire il potere dei militari in Egitto, per poi occuparsi della Libia (partendo da Tripoli).
Noi vediamo il Sultano dietro i fatti di Gaza, vediamo la volontà di uno stato ebbro di desiderio di "spazio vitale", di prendere possesso di tutto il Mediterraneo orientale, di schiacciare Israele, e di sostituire l'Egitto come guida teologica e politica dell'Islam sunnita mediterraneo.
E' miope non prendere atto delle dichiarazioni di Erdogan, il quale definisce il Primo Ministro di Israele, e lo stesso stato ebraico, entità terroristiche, mentre è proprio la Turchia a perpetrare la sostituzione etnica dei curdi, fin dentro i confini siriani. E' la Turchia che corre veloce verso l'obbligo del velo per le donne, è la Turchia che arresta i giornalisti di opposizione, è la Turchia che reprime ogni protesta che abbia come oggetto il presidente Erdogan, è sempre la Turchia che ricatta l'Europa mediante i flussi migratori come fece Gheddafi molti anni fa, è la Turchia che impedisce a Cipro di disporre del mare che appartiene ai ciprioti, ed è sempre la Turchia che agisce in Kossovo per "portare in patria" (di fatto mediante un rapimento), cittadini turchi accusati di essere seguaci di Gulen.
Non possiamo ignorare questo attivismo turco, non possiamo lasciare Israele ancora una volta solo a combattere anche per la nostra libertà e per i nostri interessi. E' tempo di individuare chi è amico e chi è nemico pensando all'oggi e solamente a questo. Ma che nessuno ci fraintenda, la Turchia non è nostro nemico, il popolo turco non è nostro nemico, è però il caso di riportare il vertice politico della Turchia a più miti consigli, iniziando magari sospendendo ogni pagamento (frutto di ricatto) a favore di Ankara, non facendo dettare a Erdogan la scaletta delle sue visite in Europa o la possibilità o meno di tenere conferenze stampa in occasione di summit con i nostri capi di stato.
Gaza e Turchia sono legate da un solido filo che unisce la Striscia al Palazzo Presidenziale di Ankara, se non comprendiamo questo elemento non potremo mai analizzare in maniera corretta cosa accadrà nei prossimi mesi in Medio Oriente.
(GeoPoliticalCenter, 3 aprile 2018)
A Gaza stabilimento dei tessitori della 'pace economica'
Industriale palestinese con israeliani per creare posti lavoro
di Sami al-Ajrami
GAZA - Al di la' dell'aperta ostilita' fra i leader politici dei rispettivi popoli, tre uomini d'affari - due israeliani ed un palestinese - stanno lavorando per gettare le basi di un progetto locale di ''pace economica'' che gia' nella sua prima fase potrebbe dare un contributo concreto creando migliaia di posti di lavoro nell'impoverita striscia di Gaza. I loro orizzonti sono vasti, e spaziano fra Spagna, Stati Uniti e Norvegia.
La zona in cui l'industriale palestinese Nabil al-Bauab sta ricamando questi sogni e' piu' che deprimente. Il suo stabilimento tessile - peraltro moderno e confortevole - e' molto vicino al quartiere di Sajaya, a est di Gaza, che nel 2014 fu teatro di aspri combattimenti fra Hamas e l'esercito israeliano ed e' tuttora disastrato. Eppure dall'altra parte del confine ha trovato due industriali israeliani - Shlomi Fogel e Jacko Gabbai - che come lui tentano di rafforzare la cooperazione economica israelo-palestinese. Al-Bauab - secondo il giornale economico israeliano Mammon - sta cercando di raggiungere accordi in Spagna con la societa' di moda Zara, mentre Fogel (da tempo fautore della 'pace economica') ha avviato contatti in Usa con i produttori dei blue jeans Jordache, nonche' con le autorita' della Norvegia. L'obiettivo e' di tagliare le stoffe in Israele, in un moderno stabilimento presso Tel Aviv, e di terminare la confezione a Gaza (ad 85 chilometri di distanza). I costi - secondo Mammon - sono concorrenziali rispetto a prodotti simili cinesi e turchi.
In un'intervista con l'ANSA al-Bauab ha descritto come gli sviluppi politici della Regione abbiano influenzato le attivita' della sua azienda. Nel suo ufficio una foto lo mostra accanto a Yasser Arafat: a quell'epoca, ricorda, disponeva di 2.000 dipendenti ed era uno dei fornitori dello staff del leader dell' Olp. Per primo riusci' ad esportare da Gaza a New York, grazie ad un mediatore israeliano. Poi vennero pero' la crisi fra Hamas ed Israele ed il blocco della Striscia. Per sopravvivere i suoi stabilimenti migrarono cosi' in Egitto. Ma nel 2017 la nostalgia ha prevalso ed al-Bauab e' tornato a casa. Ora gestisce uno stabilimento con 400 dipendenti nella zona industriale di Karni, a ridosso della linea di demarcazione con Israele. Per chi viene dai rioni fatiscenti di Gaza City, Karni appare come un miraggio. Per accedervi occorre superare un posto di blocco di sicurezza. Si entra cosi' in una zona moderna e funzionale, che ospita fra l'altro gli stabilimenti della Coca Cola ed i magazzini dell' Unrwa, la agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi. ''Si ha la sensazione di essere all'estero'' affermano i manovali.
''Stiamo lavorando duro - ha detto al-Bauab - per ricevere ordinazioni significative dall'estero. Offriamo in cambio costi competitivi assieme con una qualita' gia' dimostrata da tempo''.
Se i progetti si concretizzassero, in breve tempo potrebbe contribuire ad alleviare le condizioni di miseria della Striscia dando lavoro a 5.000 dipendenti, e ad altri 2.000 che lavorerebbero dalle loro abitazioni. Il giornale Mammon ha gia' anticipato a tutta pagina: ''Si tenta di ricucire un nuovo Medio Oriente''.
(ANSAmed, 3 aprile 2018)
«Migranti in Italia da Israele», Netanyahu si rimangia l'idea
Dopo l'intesa con l'Onu, il primo ministro spiega: «Era solo un esempio». Resta il problema di 16.250 tra eritrei e sudanesi da risistemare.
Un «esempio» del premier Benyamin Netanyahu ha scatenato un caso diplomatico con l'Italia citata come uno dei paesi di destinazione di una quota dei migranti africani, ora nello stato ebraico, su cui Israele ha raggiunto ieri uno «storico» accordo con l'Alto Commissariato dell'Onu (Unhcr). Un'indicazione subito smentita dalla Farnesina che ha negato l'esistenza di un simile accordo, con il premier israeliano costretto a fare marcia indietro: «L'Italia era solo un esempio» di possibile destinazione.
In una conferenza stampa con i giornalisti sull'intesa che riguarda complessivamente 16.250 migranti eritrei e sudanesi (di cui 6.000 nel primo anno) destinati a raggiungere paesi occidentali, Netanyahu aveva detto che Israele era arrivata a un accordo con l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati e che si trattava di «farli uscire», destinandoli «verso i Paesi più progrediti come il Canada o la Germania o l'Italia».
Un vero e proprio fulmine a ciel sereno che ha immediatamente scatenato, nel giorno di Pasquetta, un vorticoso giro di telefonate tra Roma e Israele. E viceversa. Mentre già si rincorrevano le prime dure reazioni della politica, con le prese di posizione di Maurizio Gasparri (FI) e di Roberto Calderoli (Lega), è arrivata la precisazione-smentita della Farnesina: «Non c'è alcun accordo con l'Italia nell'ambito del patto bilaterale tra Israele e l'Unhcr per la ricollocazione, in cinque anni, dei migranti che vanno in Israele dall'Africa e che Israele si è impegnata a non respingere». E stesso siparietto di smentite si è giocato, secondo i media israeliani, con la Germania: fonti dell'ambasciata tedesca in Israele hanno negato che sia stato chiesto di accogliere sul proprio suolo migranti. Reazioni che hanno spinto l'ufficio di Netanyahu a chiarire e precisare: quello sull'Italia si è detto era solo un esempio di un paese occidentale. Il primo ministro non intendeva in modo specifico l'Italia». Fatta l'intesa di massima con l'Unhcr per ricollocare in «paesi terzi» i migranti sudanesi e eritrei, scongiurando il contestato rinvio in Africa, mancano dunque gli accordi con i futuri stati che li accoglieranno. Come ha spiegato la portavoce dell'Unhcr per il Sud Europa, Carlotta Sami. «Solamente previo accordo con il governo italiano ha detto potrebbero arrivare in Italia alcuni rifugiati provenienti da Israele solo a titolo di ricongiungimento familiare con parenti che già vivono qui, si tratta in sostanza di pochissimi e specifici casi».
Saranno le prossime settimane a chiarire dunque quale sia il destino del primo scaglione di circa 6000 persone sul totale di 16.250 che partiranno da Israele in 5 anni. L'altra metà su 37-38mila migranti africani, secondo l'intesa, resteranno in Israele come residenti permanenti. Come ha spiegato il ministro degli interni Arie Deri in conferenza stampa, otterranno visti di lavoro e saranno destinati verso località dove potranno rendersi utili. Sul piano del governo Netanyahu riguardo i migranti illegali africani c'è stato un lungo braccio di ferro politico. Il progetto prevedeva l'espulsione, incoraggiata con una cifra di 3500 dollari a testa, in un paese terzo africano indicato da molti media come il Rwuanda. Per chi non avesse accettato c'era la detenzione fino, successivamente, all'allontanamento coatto. Un piano contro cui si sono scagliati i partiti del centro sinistra e le ong dei diritti umani con manifestazioni nel paese. Ma soprattutto la Corte Suprema israeliana che di fatto ha bloccato il piano del governo dandogli tempo fino al prossimo 9 aprile per giustificare le sue intenzioni. In mancanza, è presumibile che sarebbe scattata la bocciatura definitiva. Oggi la notizia dell'intesa con l'Onu bocciata dalla destra di governo: il ministro Naftali Bennett ha detto che questa favorirà l'immigrazione illegale in Israele.
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 3 aprile 2018)
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Migranti, il governo israeliano e "il carattere ebraico dello Stato"
Le motivazioni alla base dei ripensamenti del premier israeliano Benjamin Netanyahu.
di Alessandro Canella
Il caos sui rifugiati e l'accordo di Israele con l'Unhcr tradisce le tensioni all'interno del governo Netanyahu. Dopo aver firmato l'intesa con l'Alto Commissariato per i Rifugiati, il premier fa marcia indietro a causa delle pressioni dell'ultranazionalista Naftali Bennet, che sostiene l'esclusiva composizione ebraica dello Stato e definisce i migranti "infiltrati". L'intervista alla giornalista Alessandra Fabbretti dell'agenzia di stampa Dire.
Il delicato tasto dell'immigrazione torna al centro dell'attenzione per un equivoco a livello internazionale. Ieri, infatti, aveva suscitato perplessità la dichiarazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, con la quale annunciava il ricollocamento di alcune migliaia di migranti presenti nello Stato mediorientale in alcuni Paesi europei, tra cui Germania ed Italia.
Dal nostro Paese, sempre ieri, è giunta una smentita alle dichiarazioni di Netanyahu: nessun migrante sarebbe stato ricollocato in Italia da Israele.
A chiarire quello che è stato definito "un equivoco" è stata questa mattina Carlotta Sami, portavoce dell'Unhcr, l'agenzia Onu per i rifugiati, in Italia.
"L'accordo siglato ieri tra noi e lo Stato di Israele, che comprendeva oltre 30mila rifugiati sudanesi ed eritrei - spiega Sami - riguardava 16mila persone che sarebbero dovute essere trasferite in altri Paesi con i quali saremmo stati noi a trovare l'accordo con gli Stati che avrebbero dato la disponibilità".
In sostanza, dunque, l'Onu si offriva di facilitare e collaborare al trasferimento da Israele ad altri Paesi.
Da ieri notte, però, Netanyahu ha prima sospeso e poi annullato l'accordo con l'Onu. Un ripensamento improvviso che, in realtà, nasconde le tensioni che si registrano nel governo di centrodestra israeliano, al punto che, secondo la stessa stampa israeliana, le elezioni anticipate non sono un'eventualità così remota.
"Il premier israeliano sta affrontando non pochi problemi con la giustizia - spiega ai nostri microfoni Alessandra Fabbretti, giornalista dell'Agenzia di Stampa Dire - e deve in tutti i modi accontentare tutte le anime del suo partito, in particolare quelle dell'estrema destra".
Alcuni esponenti dell'esecutivo, infatti, hanno fortemente criticato l'accordo di Netanyahu con l'Unhcr, che oltre a 16mila migranti ricollocati prevedeva una quota altrettanto ampia di rifugiati a cui consentire la permanenza temporanea in Israele. Un'opzione, quest'ultima, che è stata definita "il paradiso degli infiltrati" dal ministro dell'Istruzione Naftali Bennett, leader del partito di destra ultranazionalista Bayit Yehudi, che utilizza quindi un termine forte e xenofobo per definire i rifugiati e i migranti giunti in Israele.
Bennett porta avanti l'idea della componente esclusivamente ebrea in Israele e, dal momento che Netanyahu ha bisogno del sostegno di quel partito, non deve sorprendere che al premier israeliano sia stato attribuita la posizione che considera un'eccessiva presenza di immigrati africani come compromettente 'il carattere ebraico dello Stato di Israele'.
(radiocittafujiko.it, 3 aprile 2018)
Netanyahu si trova davanti a un problema nuovo per Israele, che nessuno prima di lui ha dovuto affrontare. E si direbbe che in questo caso anche il navigato Bibi cominci ad arrancare. M.C.
Roma - Jan Karski "Giusto tra le nazioni"
Giovedì 5 aprile, dalle ore 18:00 alle ore 20:30, si terrà un incontro presso l'Istituto Polacco di Roma (Palazzo Blumenstihl, via Vittoria Colonna 1) per ricordare la figura di Jan Karski "Giusto tra le nazioni".
Alcuni anni fa il settimanale americano "Newsweek" inseriva Jan Karski nel novero delle figure eccellenti del XX secolo, riconoscendo la missione da lui compiuta durante la Seconda guerra mondiale come una delle pietre miliari nell'etica della civiltà.
Jan Karski (pseudonimo di Jan Kozielewski, 1914-2000), in qualità di corriere dello Stato clandestino polacco e del governo in esilio della Repubblica Polacca, fu tra i primi a informare il mondo circa la politica nazista di sterminio contro gli ebrei.
Testimone oculare dello sterminio, denunciò agli Alleati e al presidente Roosevelt in persona il terrore tedesco e il genocidio degli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti. I suoi interlocutori, purtroppo, non furono in grado di valutare l'immane tragedia che si stava consumando e il suo appello non venne raccolto. Solo col tempo il nome di Karski è riemerso dalla sabbie mobili della storia. Dimenticato nel dopoguerra in ragione dei nuovi assetti politici mondiali, Jan Karski venne riconosciuto nel 1982 "Giusto tra le nazioni", e tre anni dopo il regista Claude Lanzmann inserì una sua intervista nel celebre film "Shoah" (1985). All'incontro commemorativo presso l'Istituto Polacco di Roma interverrà lo storico Jan Zaryn dell'Università Cardinale Stefan Wyszynski di Varsavia, specialista dei rapporti ebraico-polacchi. In occasione dell'incontro verrà anche esposta la mostra "Jan Karski, una missione per l'umanità".
(com.unica, 3 aprile 2018)
Al confine con Gaza, Hamas chiama alla protesta armata
Quarantacinque giorni di protesta armata: è quanto Hamas ha deciso in vista della celebrazione dei 70 anni di Israele. Preceduta da alcuni giorni di lanci di missili contro il sud dello Stato ebraico, il regime terroristico che governa Gaza ha così proclamato per venerdì 30 marzo, vigilia di Pesach, la Pasqua ebraica, una "Marcia del ritorno" che ha portato circa 30.000 (secondo Times of Israel) tra miliziani e civili palestinesi a ridosso della barriera che segna il confine con Israele, provocando l'esercito israeliano con tentativi di incursione, copertoni bruciati a fare da cortina fumogena per coprire gli spari e il lancio di bottiglie molotov e innescare una reazione. Che non è mancata. L'esercito ha sparato - secondo fonti dell'IDF - "solo per colpire chi ha attaccato i soldati, tentato di varcare il confine o di danneggiare la barriera". Il bilancio è di 15 morti e un centinaio di feriti. Almeno 10 dei palestinesi uccisi sono terroristi di Hamas che hanno guidato la rivolta armata.
La comunità internazionale ha chiesto una indagine indipendente sugli scontri, ma il ministro israeliano Avigdor Lieberman l'ha irrisa, dicendo che Israele non collaborerà con "una palese ipocrisia" e ha invitato le Nazioni Unite "a investigare sul mezzo milione di morti siriani".
Reazione paradossale da parte del dittatore turco Erdogan, che ha accusato Israele di aver perpetrato "una strage a Gaza", dopo aver passato le ultime settimane a bombardare e uccidere centinaia di kurdi nell'enclave siriana di Afrin, compresi bambini. Netanyahu ha replicato giudicando il discorso di Erdogan "un pesce d'aprile".
Sono almeno sei i punti della barriera di confine tra Gaza e Israele che la massa di manifestanti ha cercato di abbattere. L'esercito israeliano ha sottolineato che Hamas "mette in pericolo le vite dei civili e le usa a fini terroristici, è responsabile dei disordini violenti e di tutto quello che avviene sotto i suoi auspici".
L'esercito israeliano ha affermato di vedere "con grande severità ogni tentativo di far breccia nella sovranità israeliana o di danneggiare la barriera difensiva". L'esercito ha poi spiegato di aver "imposto una zona militare chiusa tutto attorno alla Striscia in accordo con la situazione in atto. Con il rinforzo delle truppe, l'esercito, se necessario è preparato a rispondere - ha continuato - ai violenti disordini programmati lungo il confine della Striscia.
Il ministro della difesa Avigdor Lieberman ha avvisato in arabo, sul suo profilo Twitter, che "ogni palestinese che da Gaza si avvicina alla barriera di sicurezza con Israele metterà la propria vita a rischio".
L'analista italo-israeliana Fiamma Nirenstein ha commentato: «La protesta di Hamas ha vari scopi: il primo è legato alla situazione interna di Gaza. L'uso militarista dei fondi internazionali e il blocco conseguente del progresso produttivo ha reso la vita della gente miserabile, nel mentre i confini restano chiusi. È colpa della minaccia che l'ingresso da Gaza di uomini comandati da un'entità terrorista come Hamas comporta per chiunque, israeliani o egiziani. Hamas con la marcia incrementa la sua concorrenza mortale con l'Autorità Palestinese di Abu Mazen, cui ha cercato di uccidere pochi giorni fa il Primo Ministro Rami Ramdallah».
Con la "Marcia del ritorno" si vuole proclamare il "Diritto al ritorno" dei figli, nipoti e pronipoti degli arabi che lasciarono il teatro di guerra nel 1948 quando, all'indomani della proclamazione dell'Indipendenza sancita dalle Nazioni Unite, il neonato Stato di Israele fu attaccato da cinque eserciti arabi coalizzati. I discendenti di coloro che - spontaneamente, sollecitati dai governi arabi o spinti dall'avanzata delle truppe israeliane - lasciarono il territorio si sono nel frattempo decuplicati (in barba a qualunque preteso "genocidio" del "popolo palestinese", come propaganda vorrebbe) e il loro "ritorno" nello Stato di Israele ne decreterebbe automaticamente la fine come Stato ebraico democratico e indipendente.
(Bet Magazine Mosaico, 2 aprile 2018)
«Penso che tutte le nostre truppe meritino un encomio»
Lo ha detto il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman riguardo alle proteste di venerdì scorso nella Striscia di Gaza.
Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha detto ieri che Israele non ha alcuna intenzione di accettare la proposta fatta dall'ONU e dall'Unione Europea di avviare un'indagine indipendente sulle violenze di venerdì scorso nella Striscia di Gaza.
«I soldati israeliani hanno fatto quello che doveva essere fatto. Penso che tutte le nostre truppe meritino un encomio»
Le violenze si sono verificate al confine tra la Striscia di Gaza e Israele durante una grande protesta chiamata "Marcia del Ritorno", a cui hanno partecipato circa 30mila palestinesi. La protesta era prevista da settimane e si è svolta in sei diverse manifestazioni coordinate lungo il confine della Striscia. Israele ha schierato oltre 100 tiratori scelti con il permesso di sparare per rispondere a eventuali atti di aggressione. Alcuni testimoni hanno raccontato che i soldati israeliani hanno sparato sui manifestanti palestinesi disarmati; il governo israeliano ha parlato invece di proteste violente organizzate da Hamas, il partito palestinese radicale che governa nella Striscia di Gaza e che è considerato "gruppo terroristico" da diversi stati del mondo.
Il ministro della Salute palestinese ha detto oggi che il numero dei palestinesi uccisi negli scontri è salito a 17, dopo che una persona è morta in ospedale a causa delle ferite riportate durante gli scontri. Israele ha detto che 10 delle persone uccise facevano parte di Hamas, mentre secondo Hamas sono state solo 5.
(il Post, 2 aprile 2018)
In molti commenti si tralascia di rimarcare che i palestinesi, sospinti da Hamas, con la loro "protesta e i loro tentativi di sfondamento hanno manifestato la loro ferma volontà di non accettare nessuna linea di confine tra il loro costituendo stato palestinese e uno stato ebraico comunque esteso. I progressisti di sinistra, ebrei e non, israeliani e non, che insistono nel dire che bisogna accontentare gli arabi concedendo loro uno stato indipendente accanto a Israele al fine di ottenere la pace, dovrebbero convincersi (ma pochi probabilmente lo faranno) che in questo modo la sospirata pace non arriverà mai. Continuare a sperarlo significa voler vivere cullati da dolci illusioni. Che lo facciano pure, se questo li fa stare più tranquilli, ma per favore, lascino tranquilli anche gli altri smettendo di parlare su questo argomento. M.C.
Erdogan e Mogherini vengono allo scoperto. Due facce della stessa medaglia
Quando il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, ha chiesto una indagine indipendente sui drammatici fatti avvenuti al confine tra Israele e la Striscia di Gaza e quando ha paragonato il tentativo di migliaia di arabi di entrare illegalmente in Israele alla stregua di un Diritto, non ne siamo rimasti meravigliati. Ce lo aspettavamo così come, dopo i silenzi sulle stragi di curdi perpetrate da Erdogan, ci aspettavamo che non appena la Mogherini avesse avuto la possibilità di attaccare la democrazia israeliana non avrebbe perso un solo attimo nel farlo.
«La libertà di espressione e la libertà di riunione sono diritti fondamentali che devono essere rispettati» scrive la Mogherini nel comunicato diffuso sabato sera paragonando il tentativo violento di migliaia di persone di entrare in Israele alla stregua di una manifestazione pacifica....
(Rights Reporters, 2 aprile 2018)
L'antisemitismo in Europa: dal Regno di Castiglia a Mireille Knoll
di Riccardo Ficara
La notizia della morte di Mireille Knoll, l'anziana signora di origine ebraica uccisa da dei ragazzi islamici in casa propria per motivi di antisemitismo, ha scosso l'opinione pubblica dell'Europa tutta. Sembra ancora forte e vivo quel virus che sembrava ormai debellato dell'odio verso gli ebrei, una furia cieca che non risparmia nemmeno un'innocente signora di 85 anni che mai avrebbe pensato, una volta deposto il nazismo, di dover morire per colpa della sua religione.
Proprio in questo, però, sta il punto più caldo della questione: l'antisemitismo non è un unicum, non è stato un momento singolo della storia europea, concentrato in Germania e in Italia negli anni dei totalitarismi nazionalsocialisti e fascisti. L'antisemitismo è parte integrante della storia europea. La prima traccia visibile di antisemitismo è rintracciabile in Spagna.
Negli ultimi anni del XV secolo la Reconquista, ovvero il ricongiungimento della Spagna all'Europa cristiana, sembra alle porte. Per riuscire nell'impresa della conquista del Sultanato di Granada i due principali sovrani della Spagna cristiana, ovvero Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona, si uniscono in matrimonio, dando vita a quello che sarà, da lì in avanti, il Regno di Spagna.
Particolarmente complessa era però la costituzione interna della corte d'Aragona, dove molti dei funzionari intorno al re Ferdinando erano di fede ebraica o talvolta degli ebrei sefarditi convertiti, noti come marrani, termine che dovrebbe già far capire quanto di buon occhio venissero visti dalla popolazione.
Alleandosi con Isabella di Castiglia, fervente e devota cattolica, Ferdinando temeva che i funzionari ebrei di palazzo potessero fargli crollare il terreno sotto ai piedi, mettendolo in difficoltà. Decise allora di formare un'organizzazione ecclesiastica, nota come Inquisizione che incontrò più di una resistenza da parte dell'allora pontefice Sisto IV, che nel 1478 autorizzò la costituzione dell'ordine ma nel solo Regno di Castiglia al fine di evitare che Ferdinando ne disponesse a suo piacimento nel Regno d'Aragona.
A rendere efficiente nel senso politico e antisemitico - oltre che antimusulmano - l'Inquisizione furono, paradossalmente, i Turchi. Il Sultano, approfittando di un momento di debolezza di Venezia, storica rivale dei musulmani nelle acque dell'Adriatico, attaccò Otranto nel 1480, minacciando il Sud di una riconquista. A quel punto Sisto IV fu obbligato ad autorizzare Ferdinando nella costituzione dell'Inquisizione spagnola, in cambio di protezione dal momento che il monarca aragonese era anche Re di Sicilia.
L'Inquisizione spagnola si adoperò poi per contrastare ogni religione diversa da quella cristiano-cattolica, confiscando i beni delle famiglie ebraiche e musulmane, arricchendo le casse dei sovrani spagnoli che avrebbero altrimenti rischiato più volte il fallimento, come invece avvenne sotto il regno di Filippo II, che sommerso dai debiti verso il Banco di San Giorgio di Genova dichiarò bancarotta dopo il fallimento della spedizione dell'Invencible Armada.
A completare il successo della politica di Ferdinando ci fu, nel 1492, la caduta del Sultanato di Granada e l'elezione a papa di Rodrigo Borgia - Alessandro VI - nativo dell'Aragona e principale artefice del riconoscimento in Vaticano dell'Inquisizione spagnola. Paradossalmente, il Borgia fu uno dei principali protettori degli ebrei, ottenendo così ricchi finanziamenti per le opere pontificie.
L'antisemitismo ha dunque radici sociali, economiche e politiche profondissime, ben precedenti alle campagne di odio e repressione vissute in Europa tra i primi anni Trenta e la metà degli anni Quaranta. Ed è importante ricordare che nessuno Stato europeo è stato immune al fenomeno dell'antisemitismo. Perché dimenticarsi di quanto è avvenuto nel corso dei secoli è il primo passo per far sì che accadano altri delitti come quello di Mireille Knoll.
(Secolo Trentino, 2 aprile 2018)
Israele: pane vietato negli ospedali
di Alberto De Filippis
La pasqua ebraica o Pessa'h è una delle festività più sentite in Israele. Dura una settimana e quest'anno va dal 30 marzo al 7 aprile. Nelle case degli ortodossi le dispense vengono svuotate di qualsiasi cibo lievitato. Lo si fa per ricordare la fuga dall'Egitto quando gli ebrei, secondo la tradizione, non poterono trasformare le azzime in pane. Una tradizione religiosa appunto che quest'anno però è stata implementata soprattutto in zone laiche come gli ospedali. Sì, perché mentre fino all'anno scorso le dispense degli ospedali venivano ripulite da pane e cibi lievitati, quest'anno il gran rabbinato d'Israele ha invitato il personale di sicurezza all'ingresso dei nosocomi a verificare che non vengano introdotti cibi non certificati ed eventualmente confiscarli. La richiesta non è per ora vincolante, ma è come se lo fosse perché gli ospedali che la violano rischiano di perdere il certificato di kasherut diventando un ospedale non frequentabile per un'utenza religiosa. Questo dimostra, secondo i critici, il peso sempre maggiore nel governo ebraico degli ultra-ortodossi come il ministro della salute Yaakov Lizman del partito "Giudaismo unito nella Torah".
(euronews, 1 aprile 2018)
Gaza - Israele: 10 dei 16 uccisi erano membri di Hamas-Jihad
L'esercito israeliano ha annunciato di aver identificato come "membri di gruppi terroristi palestinesi" 10 dei morti nei violenti scontri di ieri lungo la barriera di protezione con Gaza. L'esercito ne ha fornito nomi e posizione nei rispettivi gruppi che sono principalmente Hamas e Jihad islamica. L'esercito - citato dai media - ha anche spiegato che i suoi tiratori scelti hanno colpito solo "coloro che hanno mostrato esplicita azione contro le truppe israeliane o che hanno tentato di irrompere dentro o di danneggiare la barriera difensiva".
(ANSAmed, 1 aprile 2018)
Hamas gioca la carta della marea umana per ottenere "protezione internazionale"
I leader di Gaza mandano i civili in prima linea al fine di attirare l'attenzione del mondo
di Giordano Stabile
Israele accusa Hamas di usare i civili «come scudi umani» ma il movimento palestinese risponde che è stata la disperazione a spingere 30 mila persone contro le recinzioni della frontiera e a sfidare i fuoco dei cecchini. Ieri è stato il giorno del lutto, ma anche delle valutazioni sulla nuova strategia che ha permesso di riportare la questione palestinese al centro del mondo. Dietro la bandiera della Marcia del ritorno, la rivendicazione di «tutti i territori della Palestina», c'è una necessità più stringente. Quella di rompere il blocco israeliano, l'assedio che dopo dieci anni ha portato la Striscia di Gaza sull'orlo del collasso.
L'ultimo tentativo diplomatico, condotto dall'Egitto, è fallito di colpo quando, il 13 marzo, un attacco al convoglio del premier palestinese Rami Hamdallah ha segnato alla rottura totale fra Hamas e il presidente Abu Mazen. Quest'ultimo ha accusato i dirigenti di Hamas di essere responsabili, e neppure l'identificazione e l'uccisione dell'attentatore, Anas Abu Houssa, ha fatto chiarezza.
A Gaza sono convinti che sia una manovra del «nemico», cioè Israele, per bloccare la riconciliazione. Il ritiro dei mediatori egiziani ha gettato i dirigenti della Striscia nella disperazione. E da lì è nata l'idea della marcia dei civili, dell'onda umana pronta a rompere il blocco. «La nostra gente - ha sintetizzato ieri il leader Yehiyeh Sinwar - semplicemente non accetta più la continuazione dell'assedio». Anche se il leader politico Ismail Haniyeh ha ribadito che i palestinesi «non concederanno mai neppure un centimetro quadrato della Palestina», l'obiettivo è più realistico rispetto alla volontà di riconquista di tutti i territori perduti dal 1948 in poi. E cioè la riapertura di un negoziato che porti alla fine del blocco, senza dover capitolare. Lo ha fatto capire Salah al-Bardawil, membro dell'ufficio politico, che ha puntualizzato come Hamas «è pronta a incontrare chiunque nel mondo sia disposto a far pressione sulle forze di occupazione, in modo che lascino la nostra terra e il nostro cielo e che l'embargo venga tolto».
La parola d'ordine è ora «protezione internazionale» e se il principio «tutta la Palestina» resta la base per la mobilitazione popolare, a livello politico c'è pragmatismo. «Non siamo stati noi a prendere la decisione di marciare verso il confine - conferma Ahmed Yousef, ex consigliere di Haniyeh -. Sono stati i giovani. Bisognava fare qualcosa che ricordasse al mondo che i palestinesi continuano a soffrire, nei campi profughi, nella diaspora all'estero». L'idea di una Palestina di nuovo unita però non significa cacciare gli ebrei: «Questa è la terra santa delle tre religioni abramitiche, che hanno convissuto in pace per secoli e potranno continuare a farlo». I palestinesi sono consapevoli che Israele non accetterà mai l'idea di un unico Stato, dove gli ebrei rischierebbero di ritrovarsi in minoranza nel giro di pochi anni. Ma sono anche convinti che «la capitolazione di Oslo» mai condurrà alla nascita di uno Stato palestinese. L'idea della «lotta disarmata» è la mossa inaspettata che spezza l'equilibrio.
In realtà l'Intelligence israeliana lo aveva capito nelle scorse settimane. La marcia dei trentamila contro la recinzione era stata organizzata dalla divisione del Popolo di Hamas, Al-Amal al-Jamahiri, e dalla divisione della Gioventù, Al-Kutla al-Islamiya. Due leader energici, Hani Miqbil e Mohammed Haniya, sono riusciti a mobilitare una folla impressionante, nonostante la contro-propaganda di Israele, anche con volantini lanciati da cielo che ammonivano a «non mettere in pericolo le proprie vite». Alla fine, giovedì, è arrivato l'annuncio del dispiegamento dei cecchini e l'avvertimento che chiunque si fosse avvicinato alla recinzione sarebbe stato colpito.
Lo stato maggiore ricordava gli eventi nel maggio del 2011, quando una folla di palestinesi colse di sorpresa i militari e riuscì a superare il confine sul Golan, vicino al villaggio druso di Majdal Shams, in Siria. L'ordine era di impedire che l'episodio si ripetesse. Il generale Eyal Zamir, comandante del Settore Sud, ha accusato Hamas di aver cercato di condurre «attacchi terroristici» sotto la copertura delle proteste di massa.
I militari sottolineano che le vittime sono tutti «giovani uomini», e che almeno 10 facevano parte del braccio armato del movimento. Resta il fatto che la tattica della "muraglia umana" ha messo in difficoltà l'esercito israeliano, dimostrando la necessità di una nuova strategia nella Striscia di Gaza.
(La Stampa, 1 aprile 2018)
Netanyahu elogia i militari dopo gli scontri al confine con la Striscia di Gaza
Venerdì scorso è iniziata la campagna di protesta dei palestinesi che secondo i piani continuerà fino a metà maggio. Durante gli scontri con le truppe israeliane lungo il confine della Striscia di Gaza sono rimasti uccisi 15 palestinesi, mentre circa mille sono stati i feriti.
I militari israeliani ammettono di aver usato le armi da fuoco contro i dimostranti più aggressivi, giustificando le loro azioni con la necessità di proteggere il confine di Stato e allo stesso tempo scaricando la responsabilità per lo spargimento di sangue alle autorità dell'enclave palestinese.
"Tanto di cappello ai nostri soldati a guardia dei confini dello Stato, che hanno garantito la possibilità ai cittadini di Israele di celebrare tranquillamente la festa,"
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ha detto Netanyahu, riferendosi alla festività religiosa della Pasqua ebraica.
"Israele agisce con fermezza e decisione per difendere la propria sovranità e la sicurezza dei suoi cittadini", ha aggiunto.
Anche il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha elogiato i soldati per la determinazione e la professionalità. Ha criticato coloro che hanno biasimato Israele per l'uso sproporzionato della forza e chiedono un'inchiesta per i fatti di venerdì.
"Credono erroneamente che Hamas abbia organizzato il Festival di Woodstock e che dovevamo regalare i fiori," ha twittato il capo del dicastero militare dello Stato ebraico.
La stessa posizione è sostanzialmente espressa nel comunicato del ministero degli Esteri israeliano.
"Le barriere al confine tra Israele e la Striscia di Gaza separano uno Stato sovrano da un'organizzazione terroristica
l'esercito utilizza la forza per scopi difensivi e proporzionalmente contro Hamas, un'organizzazione che esalta le uccisioni e la morte, che da molti anni è orientata a danneggiare i milioni di israeliani".
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(Sputnik Italia, 1 aprile 2018)
Israele pronto a colpire Gaza. "Difendiamo la sovranità''
I militari: 10 dei 16 morti di venerdì erano di Hamas.
ROMA - Dopo un giorno di calma relativa ( ci sono stati comunque scontri e 16 palestinesi feriti) i tamburi di guerra tornano a rullare al confine di Gaza e di fronte alla rinnovata minaccia palestinese di una serie di settimane di fuoco Israele lascia intendere di essere pronto a colpire anche oltre il confine.
All'indomani della marcia dei 30.000 conclusasi con 16 morti e circa 1400 feriti, la tensione resta altissima. L'esercito israeliano tiene la postazione e per bocca del suo portavoce, generale Ronen Manelis, fa sapere che se le violenze continueranno «non si limiterà più, come fatto finora, a puntare chi tentava di violare il confine ma andrà oltre colpendo i miliziani anche in altri posti». La replica di Gaza è duplice: la conferma delle proteste quotidiane calendarizzate fino al 14 maggio (data della nascita dello Stato d'Israele, la Nabka per gli arabi, ma anche dell'annunciato trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme) e lo sfoggio della ritrovata solidarietà nazionale, col presidente Abu Mazen che ha chiuso per lutto scuole, ministeri e negozi della Cisgiordania e ha additato Israele come «pienamente responsabile dell'aggressione a Gaza e della morte dei palestinesi».
Il braccio di ferro che non accenna a mollare riaccende l'attenzione delle cancellerie internazionali (tra i primi a dirsi preoccupati sono stati il governo svedese e tedesco), finora concentrate su altre crisi regionali.
Così, mentre a ridosso della riunione notturna del Consiglio di sicurezza dell'Onu il segretario generale Antonio Guterres chiede «un'indagine indipendente e trasparente» e si appella alla moderazione affinché si eviti «qualsiasi misura che potrebbe portare ad altre vittime e mettere i civili in pericolo», l'Unione europea si dice a lutto per le vittime, ricorda che «l'uso della forza deve essere proporzionato in ogni momento» e auspica un ritorno alla calma. Anche l'Egitto, alleato de facto d'Israele nella guerra contro gli jihadisti in Sinai e guidato da un presidente, Al-Sisi, appena rieletto ma quantomai bisogno di consenso popolare, fa sentire la sua voce e, pur aspettandosi moderazione «da tutte le parti in causa», critica «l'uso della violenza contro civili disarmati che partecipavano a marce pacifiche per commemorare la Giornata della terra».
Si cammina sull'orlo del precipizio. A Gaza, dai funerali delle vittime di venerdì, si levano bandiere palestinesi e invocazioni alla vendetta. Israele non arretra e continua ad accusare Hamas di aver organizzato la «marcia per il ritorno» come una deliberata provocazione e di aver «sfruttato i civili» mandandoli sotto la barriera di confine e mettendo a rischio le loro vite. Una posizione rilanciata dall'ambasciatore israeliano all'Onu Danny Danon che, mentre il ministro degli Esteri palestinese Riad Malki tradisce il disappunto per un intervento del Palazzo di Vetro a sua impressione poco duro, ribadisce la linea dell'esercito: «È un atto di terrorismo organizzato, i palestinesi uccisi sono uomini fra i 18 e i 30 anni, la maggior parte di loro sono attivisti». Tra le sedici vittime, dieci erano membri di Hamas.
Mancano 44 giorni al 14 maggio. La storia degli ultimi 15 anni insegna che una scintilla a Gaza è già un mezzo incendio. Nel pieno delle celebrazioni per la Pasqua ebraica il premier israeliano Netanyahu ha elogiato l'esercito per aver «protetto i confini del Paese e la sicurezza dei suoi cittadini».
(La Stampa, 1 aprile 2018)
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Onu e Ue, solito coro contro Israele
Indagine sulle uccisioni. Gerusalemme rincara: «Colpiremo Hamas dentro la Striscia»
Le violenze suscitate da Hamas al confine con la Striscia di Gaza «sono state una deliberata provocazione», ma se continueranno, Israele estenderà la sua risposta, per colpire i miliziani di Hamas che vi sono dietro. È l' avvertimento lanciato dal generale Ronen Manelis, portavoce dell'esercito israeliano citato dalla stampa locale, all'indomani degli scontri che hanno provocato la morte di 16 palestinesi e il ferimento di quasi 1.500 persone. Manelis ha sottolineato come finora i militari di Israele si sono limitati a puntare coloro che tentavano di violare il confine, ma se gli attacchi dovessero continuare, andranno oltre, colpendo i miliziani «anche in altri luoghi».
Ieri al confine è stata una giornata di relativa calma se confrontata con la violenta giornata precedente, anche se erano migliaia i palestinesi presenti per manifestare. Gli scontri sono stati sporadici e limitati, con un bilancio di sei palestinesi feriti e una trentina di intossicati dai gas lacrimogeni lanciati dai militari israeliani. A Gaza e in altre località della Striscia, contemporaneamente, si svolgevano i funerali delle vittime degli scontri di venerdì. Migliaia di persone hanno partecipato gridando slogan minacciosi all'indirizzo degli israeliani.
L'Unione Europea, per bocca di Federica Mogherini che ne è l'Alto rappresentante per la politica estera, ha chiesto un'inchiesta indipendente sull'uso di munizioni vere contro manifestanti palestinesi. «Mentre Israele ha il diritto di proteggere i suoi confini, l'uso della forza deve essere proporzionato in ogni momento. La libertà di espressione e di assemblea sono diritti fondamentali che vanno rispettati», si legge in una nota firmata dalla Mogherini. «Un ritorno immediato alla calma è essenziale - si legge ancora nella nota-. Tutti coloro che sono coinvolti hanno bisogno di esercitare moderazione ed evitare ulteriori escalation violente e ogni atto che possa mettere in pericolo i civili».
E mentre anche le Nazioni Unite chiedono un'indagine sui fatti, il premier israeliano Benjamin Netanyahu elogia le truppe per avere «protetto i confini del Paese». «Ai nostri soldati dico: ottimo lavoro», ha dichiarato, aggiungendo che «Israele agisce con vigore e determinazione per proteggere la sua sovranità e la sicurezza dei suoi cittadini».
(il Giornale, 1 aprile 2018)
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Ma nessuno dice che il loro obiettivo è sterminare gli ebrei
di Fiamma Nirenstein
Il rischio che la «marcia del ritorno» di Hamas diventi terrorismo di massa e guerra sta diventando concreto; tutto il mondo sa che questo è il fine stesso dell'organizzazione insieme alla morte degli ebrei e la conquista dell'Occidente, sa che qui, con le marce di massa, siamo di fronte a una svolta strategica che è una scintilla terroristica nel pagliaio del Medio Oriente. Ma l'Onu di nuovo biasima Israele allenandosi nel suo sport preferito, anche se stavolta senza riuscire a raggiungere una condanna: però Antonio Guterres, il segretario generale, non fa mancare la richiesta di un'inchiesta internazionale, si associa all'idea tradizionale e sbagliata che Israele abbia usato forza sproporzionata nel controbattere alle manifestazioni di massa sul suo confine, e passa l'idea che abbia ucciso dei palestinesi che marciavano «pacificamente» verso il suo confine. Si qualifica subito come loro difensore il campione dei diritti umani Mohamed Javad Zarif, il ministro degli esteri dell'Iran che detiene il primato del terrorismo internazionale: «I sionisti hanno assassinato dei pacifici dimostranti le cui terre furono rubate mentre marciavano per sfuggire il crudele e disumano confine di apartheid».
Sul proscenio anche l'altro campione dei diritti umani Tayyip Erdogan, il primo ministro turco, i cui soldati hanno quasi concluso la pulizia etnica dei curdi ad Afrin nella Siria del Nord. Hamas è un'organizzazione terroristica che domina dal 2007 tutta Gaza. Chi osa opporsi viene giustiziato. I marciatori, spinti verso il confine con Israele in massa, avevano guardie armate di Hamas anche in mezzo a loro, come testimonia la vanteria che fra i quindici morti, cinque erano suoi esponenti armati. Hamas prese il potere nel 2007 contro Fatah. Gli israeliani si ritirarono fino all'ultimo uomo dalla Striscia, lasciando i cittadini padroni di strutture produttive che sono state fatte a pezzi. Hamas si impegna solo nella guerra. La sua carta vede nel «sionismo mondiale» l'origine di ogni male citando i Protocolli dei Savi di Sion, dice che «Allah è il suo obiettivo, il profeta il suo modello, il Corano la sua Costituzione, la jihad il suo cammino e la morte in nome di Allah il più dolce dei suoi desideri». Hamas ha investito la magna parte dei suoi milioni giunti dall'Iran, dal Qatar e contribuenti simpatizzanti in missili e tunnel. La sua crisi umanitaria non esisterebbe se i fondi fossero andati in imprese e strutture sociali. Invece hanno finanziato la grande impresa terroristica che ha fatto migliaia di morti in Israele. Per altro Israele pure cercava di seguitare a consentire gli aiuti e i traffici necessari alla popolazione. Ma il confine è chiuso, e Hamas è più interessato all'uso terroristico della folla esasperata che al suo progresso.
Dopo aver tentato invano di terrorizzare gli israeliani con l'Intifada, Hamas è passata alla strategia dei missili contro i cittadini del sud. Solo il sistema Iron Dome di difesa missilistica ha evitato la strage. Adesso Hamas muove le folle in un momento in cui Israele festeggia la Pasqua, Abu Mazen è debole e il mondo arabo si piega al nuovo corso inaugurato da Trump in cui l'ambasciata americana viene spostata a Gerusalemme. Non a caso le manifestazioni di Hamas devono rinnovarsi fino al 15 di maggio, giorno dell'indipendenza di Israele e del passaggio dell'ambasciata. La notte Hamas ha lanciato missili. Altri ne verranno, tanto più se l'Onu e il mondo arabo non prendono le distanze subito.
(il Giornale, 1 aprile 2018)
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La marcia di Hamas piace solo a Erdogan
Teheran, Abu Mazen e la Turchia attaccano Gerusalemme. Ma Onu, Russia e i Paesi arabi non ci cascano.
di Carlo Panella
Nel secondo giorno della «marcia del ritorno» irresponsabilmente promossa da Hamas che ha spinto migliaia di manifestanti a tentare di sfondare la barriera che divide la Striscia di Gaza da Israele, non si è ripetuto il pesante bilancio di venerdì (diciassette morti e più di mille feriti) e vi sono state solo decine di feriti. La strumentalità piena di questa marcia, la irresponsabilità di spingere migliaia di civili, inclusi i ragazzini, a invadere il territorio di Israele, la solita ipocrisia palestinese di inserire uomini armati di bombe a mano e molotov tra gruppi di civili disarmati, sono stati comunque colti dalla comunità internazionale che non è cascata questa volta nella trappola propagandistica di Hamas. Trappola nella quale è invece in pieno caduto, al solito, il leader della Anp Abu Mazen (il cui primo ministro Rami Hamdallah peraltro è scappato pochi giorni fa per un soffio ad un attentato mortale a Gaza, sintomo dei rapporti tra le due componenti palestinesi) che ha usato parole di pietra contro Israele e ha proclamato una giornata di lutto nazionale in Cisgiordania.
Inchiesta
L'Onu invece si è prudentemente limitato a chiedere una «inchiesta internazionale indipendente su quanto è accaduto» rifiutandosi così di prendere per buona la versione di Hamas e riconoscendo implicitamente il diritto di Israele a difendere I propri confini.
Blandissima e tutt'altro che empatica con Hamas anche la posizione della Russia: il vice ministro degli Esteri Mìkhail Bogdanov infatti ha sì ricevuto Musa Abu-Marzuk, membro del comitato politico di Hamas, ma si è ben guardato dal prenderne le parti, e ha emesso un comunicato salomonico: «La Russia ha espresso profonda preoccupazione per le notizie sul numero di vittime e feriti a Gaza e per le misure dell'esercito israeliano per frenare le proteste dei palestinesi iniziate venerdì 30 marzo. La Russia esorta le parti palestinesi e israeliane a mostrare moderazione e a non consentire azioni nelle quali persone innocenti possano soffrire». Un monito equidistante, volutamente espresso sia nei confronti dei palestinesi che degli israeliani.
Mossa interna
Nessuna reazione roboante da parte araba e men che meno europea e solidarietà ad Hamas - il fatto è indicativo - solo dagli ayatollah di Teheran e del dittatore turco Tayyp Erdogan. Nonostante il magrissimo risultato propagandistico, Hamas continua a riproporre anche per le prossime settimane questa tecnica di mobilitazione popolare violenta e irresponsabile, col chiaro intento di distrarre i palestinesi dalle pessime condizioni di vita nella Striscia di Gaza, conseguenti solo alla sua strategia di trasformarla in un bunker militarizzato.
Ismail Haniyeh, leader del governo di Hamas ha partecipato - ben protetto e senza esporsi - alla «Marcia» insieme alla dirigenza della fazione islamica e ha dichiarato che essa «segna l'inizio del ritorno dei palestinesi in tutta la Palestina. Siamo qui per dichiarare che il nostro popolo non concorderà mai nel considerare il ritorno solo come uno slogan». Parole vuote quanto irresponsabili.
(Libero, 1 aprile 2018)
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Abraham Yehoshua: "Le proteste sono una provocazione, Hamas ci odia"
''Noi israeliani ce ne siamo andati da Gaza, ci hanno sconfitto, adesso che cosa vogliono da noi? Se solo lo volessero, la Striscia potrebbe essere come Singapore''
di Antonello Guerrera
«Queste manifestazioni sono una pura provocazione, una pura provocazione. Ce ne siamo andati da Gaza, ci hanno sconfitto nel 2005, adesso che cosa vogliono da noi?», Abraham Yehoshua è da sempre uno dei più appassionati messaggeri di pace tra ebrei e palestinesi ma stavolta le sue parole trasudano rabbia e delusione. Le manifestazioni di Gaza iniziate venerdì non sono piaciute affatto al celebre autore di La comparsa e L'amante (Einaudi), che risponde al telefono da Tel Aviv, dove sta celebrando la Pasqua ebraica con la famiglia.
- Yehoshua, perché crede che le manifestazioni siano una provocazione?
«Perché è l'unico scopo di Hamas, che le ha organizzate. Hamas, che governa Gaza, non pensa a risolvere problemi, a costruire strade, infrastrutture, o un dialogo con Israele. No. Hamas condanna la Striscia alla bancarotta e alla disperazione,
mentre ci attacca o provoca. Mandano la gente al confine, ma per che cosa? Che cosa credono di ottenere? È una provocazione, una mera provocazione, che non porterà a niente».
- Non crede però che queste proteste possano essere mosse dalla oggettiva disperazione popolare, al di là del calcolo politico di Hamas?
«Sì, ma è una rabbia provocata da una gestione interna della Striscia. La verità è che Hamas non vuole un dialogo con Israele. Eppure ci hanno battuto, noi israeliani ce ne siamo andati da Gaza e abbiamo ritirato tutti i coloni senza alcuna condizione. Che cosa vogliono? Hanno un governo autonomo, possono fare quel che vogliono nella Striscia, ricevono soldi e aiuti da molti stati ricchi come quelli europei. Gaza potrebbe essere una mini Singapore, se solo lo volessero».
- Ma, al di là delle colpe di Hamas, Gaza è sotto il potente blocco di Israele. Così è difficile diventare come Singapore.
«C'è il blocco perché ci sparano addosso. Se non ci attaccassero continuamente, Israele non sarebbe costretto a rispondere. Perché allora anche gli egiziani bloccano il valico di Rafah, al confine con Gaza? L'Egitto è un Paese arabo e musulmano, in passato ha combattuto per la causa palestinese più dei palestinesi stessi. Eppure anche loro ce l'hanno con Hamas, per molte ragioni».
- Per esempio?
«Perché Hamas offre il fianco ad alcune entità estremiste islamiche. Hamas ha interferito nella politica interna egiziana e avuto contatti con i Fratelli musulmani dell'ex presidente Morsi. L'Egitto blocca Gaza, perché sa che Hamas non vuole risolvere i problemi, ma soltanto aggravarli. A chi servirebbero un'altra guerra, altri morti, altri migliaia di feriti in questo momento, se non ai biechi calcoli di Hamas? Persino il presidente Abu Mazen e i palestinesi della Cisgiordania hanno espresso poca solidarietà nei confronti delle manifestazioni di Hamas al confine con Israele e questo è esemplare. Anche i palestinesi non di Gaza pensano che questa sia una pura provocazione».
- Yehoshua, c'è ancora qualche speranza di pace tra israeliani e palestinesi?
«Finché ci sarà Hamas a Gaza sarà durissima, e la soluzione di due Stati al momento mi pare impossibile, visti anche i tanti coloni israeliani che vivono in Cisgiosrdania. Ma proprio dalla Cisgiordania possiamo iniziare a concedere cittadinanza e pieni diritti ai palestinesi. Cosa non facile, ma dobbiamo provarci. Altrimenti, i palestinesi saranno condannati a un regime di apartheid».
(la Repubblica, 1 aprile 2018)
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