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Notizie 16-30 aprile 2021


Così la Conferenza di Sanremo aprì la strada allo Stato di Israele

A Villa Devachan, nel 1920, il summit dei vincitori della Grande Guerra Fra le questioni sul tavolo, soprattutto i destini dell'ex impero ottomano e della Palestina.

di Paolo Battifora

Un summit, come si direbbe al giorno d'oggi, delle maggiori potenze di allora per spartirsi territori e reciproche aree di influenza. Un consesso dei vincitori della Prima guerra mondiale in vista dell'imminente trattato di pace, che sarebbe stato firmato il 10 agosto 1920 a Sèvres.
   Sanremo, 19 aprile 1920: immerso in un parco rigoglioso, il castello Devachan, sontuosa dimora fatta erigere dal conte Orazio Savile di Mexborough, Lord d'Inghilterra, accoglieva in un gran salone gli insigni ospiti, ivi convenuti per decidere i futuri destini dell'area mediorientale. Presieduto da Francesco Saverio Nitri, presidente del consiglio italiano, il convegno vide la partecipazione del premier inglese Lloyd George, di quello francese Alexandre Millerand, dei rappresentanti di Giappone, Grecia, Belgio e, in qualità di osservatore, dell'ambasciatore americano a Roma Johnson Underwood. Non invitate ai lavori, numerose rappresentanze nazionali raggiunsero ugualmente la cittadina del ponente ligure, nel vano tentativo di perorare la propria causa. A distanza di un secolo, e con lo sfasamento di un anno a causa della pandemia, Sanremo ha voluto ricordare lo storico evento, che ha contribuito alla nascita dello stato di Israele: per celebrare questo anniversario, il sindaco Alberto Biancheri ha ricevuto l'ambasciatore d'Israele Dror Eydar, scoperto una targa nell'atrio di villa Devachan e annunciato il gemellaggio con la città israeliana Netaya. Quale rapporto tra il consesso sanremese e la proclamazione, nel 1948, dello stato israeliano? Con buona pace del presidente statunitense Wilson, propugnatore alla conferenza di pace di Versailles dell'altisonante principio dell'autodeterminazione dei popoli, furono logiche spartitorie, interessi economici e precipue mire geo-politiche a indirizzare le mosse delle potenze uscite vincitrici dalla Grande guerra. Davanti a loro si profilava lo scenario di un moribondo impero ottomano, le cui spoglie facevano gola a molti. La trionfale entrata a Damasco, nell'ottobre 1918, al fianco del colonnello inglese Thomas Edward Lawrence, immortalato sullo schermo da Peter O'Toole nel celebre film di David Lean, aveva illuso Feisal: il figlio dello sceriffo hascemita dell'Hegiaz aveva infatti creduto di poter coronare il sogno di dar vita a un grande regno arabo comprendente Iraq, penisola araba e Palestina.
    Così non fu perché Feisal, e i milioni di arabi votati al panarabismo, ignoravano quel che era avvenuto nel maggio 1916, quando, a guerra ancora in corso, Francia e Inghilterra, con il consenso della Russia, pervennero all'accordo segreto di Sykes-Picot, in cui vennero stabiliti i criteri della futura spartizione del morente impero ottomano. Frazionamento dal quale anche l'Italia avrebbe tratto giovamento, con l'acquisizione di aree territoriali attorno a Konya e all'odierna città costiera di Antalya e la possibilità di sfruttare il bacino carbonifero di Eraclea. Adusi a lusingare il mondo arabo, spinto alla rivolta anti-turca con la promessa della costituzione di un grande stato nel Medioriente, gli inglesi non si peritarono peraltro di rendere pubblica la famosa dichiarazione Balfour (2 novembre 1917), che sanciva la disponibilità del governo di Sua Maestà a favorire la fondazione di una non meglio precisata National Home per il popolo ebraico in Palestina.
    Un precedente che avrebbe pesato come un macigno nella disputa per il territorio. Ci penserà poi Mustafa Kemal "Atatürk" a scompaginare definitivamente il quadro: ribellatosi alle gravose imposizioni delle potenze occidentali, accettate dal debole sultano, e chiamato il popolo turco alla difesa del patrio suolo, il generale ribelle darà vita alla moderna Turchia, primo stato laico del mondo musulmano, proclamando nel 1922 la repubblica e abolendo nel 1924 il califfato. Dal convegno sanremese emerse la volontà di attivare, nell'area mediorientale, una serie di mandati, dalla differente tipologia, che sotto la supervisione puramente nominale della Società delle Nazioni avrebbero in realtà garantito gli interessi di Francia e Inghilterra. In un'atmosfera lussuosa, tra palme, tripudi floreali e alberghi già omaggiati da teste coronate, si chiudeva così il convegno di Sanremo, città che sarà più volte meta dell'esiliato Mehmet VI, ultimo dei sultani ottomani spazzato via dalla Storia.

(Il Secolo XIX, 30 aprile 2021)


Israele. Decine di morti e feriti al monte Meron per il pellegrinaggio

Durante le celebrazioni della ricorrenza ebraica Lag Ba'omer, al Monte Meron, nel nord di Israele un incidente ha causato almeno 44 vittime e oltre 150 feriti. Domenica lutto nazionale. Decine di morti e feriti al monte Meron per il pellegrinaggio.

Almeno 44 morti e oltre 150 feriti, decine dei quali in condizioni gravi: questo il bilancio, ancora provvisorio, di una ressa che si è creata durante le celebrazioni ebraiche di Lag Ba'omer, ai piedi del monte Meron, nel nord-est di Israele.
A dispetto di quanto riportato inizialmente dalle agenzie di stampa sembra che non sia stato il crollo di una gradinata di una tribuna l'origine dell'incidente.
Stando a quanto riferito dal Magen David Adom (MDA, la Croce Rossa israeliana) potrebbe essere stata la caduta di alcune persone in un passaggio molto stretto ad aver provocato il panico generale. Con molte persone finite poi schiacciate.
Su Twitter l'account ufficiale della Magen David Adom (MDA, la Croce Rossa israeliana) ha spiegato inoltre, attraverso il portavoce Zaki Heller, che "i paramedici della MDA stanno curando decine di pazienti di cui 20 in condizioni critiche". Sul posto, inoltre, "sono stati inviati elicotteri per evacuare i feriti".
Come ogni anno in occasione della festività ebraica di Lag ba-Omer (che ricorda la ribellione ebraica del 132 d.C contro le legioni romane) giovedì oltre 100mila ebrei osservanti si sono recati sul monte Meron per pregare sulla tomba Shimon Ber Yochai, un celebre rabbino del secondo secolo d.C. Secondo la tradizione questi è l'autore del testo mistico dello 'Zohar' (lo splendore). Da anni questo evento è il più affollato in Israele, richiamando a volte fino a mezzo milione di persone. L'anno scorso, a causa del coronavirus, era stato annullato. Quest'anno, col miglioramento della situazione sanitaria e la campagna di vaccinazione avanzata nel Paese che ha immunizzato già metà della popolazione, era stato autorizzato, ma con numerose limitazioni che però non hanno resistito alla pressione della folla immensa. Le autorità avevano autorizzato la presenza di 10mila persone, ma secondo i giornali locali ce n’erano almeno 100mila.
Un altro disastro era avvenuto sul monte Meron anche nel 1911. Allora decine di persone morirono nel crollo di un edificio vicino alla tomba del rabbino.
Le radio israeliane stanno trasmettendo appelli di cittadini in cui si chiedono informazioni sui propri cari dispersi sul Monte Meron. Nella calca - come testimoniano foto sui media e sui social - sono andati smarriti molti cellulari di chi si trovava sul posto. Sul terreno sono stati lasciati cappelli, occhiali, scarpe ed anche carrozzine.
Il Magen David Adom, il pronto soccorso, ha lanciato un appello agli israeliani affinché donino sangue. "Ne siamo a corto - ha detto un portavoce dell'organizzazione - stiamo aprendo punti in tutto il paese in modo che le persone possano venire ed aiutarci in questo disastro".
In visita sulla scena della tragedia, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato per domenica un giorno di lutto nazionale. Sul posto il premier ha trovato gruppi di contestatori che urlavano e hanno lanciato bottiglie.

(Avvenire, 30 aprile 2021)


*


Le testimonianze degli Italkim

“Evitiamo che questa tragedia si ripeta”

di Daniel Reichel

Grande dolore e amarezza. Sono le reazioni a caldo raccolte da Pagine Ebraiche in queste ore in cui Israele è segnata dal lutto. Alle 00.50, racconta Yael Bengio, che si occupa del coordinamento dei volontari del Magen David Adom (servizio medico d’emergenza israeliano), ha ricevuto la prima chiamata per il crollo di alcune strutture. “Noi – spiega – avevamo già sul posto con diverse unità dispiegate, ambulanze, moto e un centro di controllo in loco per coordinare ogni eventuale situazione di crisi”. Il personale medico era già in preallerta, aggiunge Bengio, perché si sapeva che sarebbe stato un raduno con migliaia di persone. “Avevamo fatto sopralluoghi nei giorni precedenti per avere ben chiara la situazione sul terreno, e c’erano due postazioni: una in basso al monte Meron e una in alto. Eravamo pronti a soccorrere eventuali feriti, che in una manifestazione così grande erano inevitabili. E abbiamo risposto immediatamente anche a quella che si è trasformata in una vera emergenza”. “Da giorni si parlava con preoccupazione di questo evento – aggiunge il presidente dell’associazione Amici del Magen David Adom Sami Sisa – Ogni anno questi assembramenti per Lag Ba Omer mettono in allarme le autorità vista l’enorme partecipazione. Non dico che fosse una tragedia annunciata, ma il timore per una possibile disgrazia c’era”.
    Anche dopo la tragedia, dice Bengio, sul luogo sono rimaste molte persone per continuare le celebrazioni legate a Lag Ba Omer – ossia il trentatreesimo giorno dell’Omer in cui si interrompe il periodo del lutto – e per rendere omaggio a Rabbi Shimon Bar Yochai, riconosciuto come l’autore di uno dei libri fondamentali della Kabbalah: lo Zohar. La sua tomba a Meron in Galilea è diventata luogo di pellegrinaggio e il 18 di Iyar viene riconosciuto come Yom Hillula, un giorno di celebrazioni gioiose e allegre. Funestato quest’anno da questa tragedia. Nel paese rimane ora il lutto e la necessità di riflettere sull’accaduto, come rileva rav Michael Ascoli. “La prima reazione a questa tragedia è di profondo dolore. Poi, pensando all’accaduto, mi è tornata in mente che ci sono dei precedenti, nella Mishnah”. Ovvero, spiega il rav, un divieto deciso dai Maestri e legato a portare al Tempio il Lulav quando il primo giorno di Sukkot cade di Shabbat. La decisione di vietare questa pratica fu presa per evitare che si formasse la calca e quindi situazioni di pericolo. “Mi sembra chiaro il parallelo con l’oggi. Anche qui siamo in una situazione in cui questi raduni, giustificati o meno, espongono le persone al pericolo e devono per questo essere semplicemente aboliti. Spero che altri la pensino in questo modo e si possa arrivare a legiferare una disposizione di questo tipo. Abbiamo dimostrato – aggiunge rav Ascoli – di non essere capaci di gestire questo evento in sicurezza e quindi dobbiamo prendere misure più drastiche”.
    “È terribile pensare che proprio nel giorno in cui per la tradizione ebraica si interrompe il periodo del lutto avvenga una tragedia di queste dimensioni. – la riflessione Raphael Barki, presidente del Comitato Italiani all’Estero – So che degli amici di mia figlia avevano intenzione di andare con le famiglie al monte Meron. Doveva essere un momento di gioia al termine di un periodo così grigio. È invece. Purtroppo tutto questo è anche un monito a tenere sempre alta la guardia”.

(moked, 30 aprile 2021)


Bellocchio e il caso Mortara dopo la rinuncia di Spielberg. “Una ricostruzione storica"

Il regista gira “La conversione" sul bambino ebreo rapito dalla chiesa nel 1858

Una notte a Bologna, nel 1858, quando era potuto succedere che un gruppo di soldati agli ordini dell’Inquisitore entrasse nella casa del commerciante ebreo Momolo Mortara e strappasse dalle braccia del padre il figlio Edgardo, di sei anni, in lacrime, con l'obiettivo di portarlo a Roma. La ragione del rapimento risaliva al segreto battesimo con cui la governante cattolica della famiglia Mortara aveva provato, anni prima, a sottrarre il bimbo alle conseguenze letali di una grave malattia. Venuto a conoscenza dei fatti, l’inquisitore della città aveva ordinato che il piccolo venisse preso in custodia per essere educato in un monastero secondo i principi cristiani. La legge della Chiesa stabiliva, all'epoca, che nessun bambino cattolico potesse essere allevato da genitori ebrei. Una storia esemplare. Se l'avesse raccontata Steven Spielberg, così come aveva annunciato nel 2014, si sarebbe detto che il regista americano volesse portarla sul grande schermo per due ragioni fondamentali, l'attenzione, sempre vivissima, per le proprie radici ebree e per i retaggi antisemiti, e la presenza di un protagonista ragazzino, caratteristica ricorrente di tante sue opere. La sceneggiatura avrebbe dovuto prendere le mosse dal libro di David Kertzer Prigioniero del Papa Re, mentre per il cast erano già stati fatti i nomi di Mark Rylance e Oscar lsaac. Succede, invece che Spielberg, dopo aver a lungo cercato il piccolo protagonista, getti la spugna e si dedichi ad altro. Al suo posto entra in scena Marco Bellocchio, che durante il viaggio americano per promuovere Il Traditore, viene a sapere della rinuncia. A partire dalla stessa vicenda, il film, scritto con la regista e sceneggiatrice Susanna Nicchiarelli e con lo scrittore Stefano Massini, si intitolerà La conversione: «La storia di Edgardo Mortara - ha fatto sapere Bellocchio - si intreccia con svolte storiche cruciali, tra cui la caduta del potere temporale della Chiesa».
   Prodotto da Rai Cinema con la Ibc di Beppe Caschetto e con laKavac Film di Simone Gattoni, La conversione sarà girato a Bologna, Roma e altre città europee: «L'approccio alla questione - ha dichiarato l'ad di Rai Cinema Paolo Del Brocco - sarà quello di una persona agnostica. Ciò che ha interessato Bellocchio è il mistero di una conversione che affonda le radici in una terribile violenza perpetrata ai danni di un bambino. Una violenza dovuta al fanatismo religioso e alla convinzione secondo cui, in nome della religione, tutto si possa fare». Al centro della narrazione, basata sullo studio di documenti originali, con la collaborazione della storica Pina Todaro, si muoveranno, oltre al giovane Edgardo, i suoi genitori, il Papa Pio IX, l'inquisitore Gaetano Feletti e il fratello Riccardo che aveva combattuto, con valore, nella presa di Porta Pia. Divenuto sacerdote e deciso, per molti anni, a rifiutare i contatti con la famiglia d'origine, Mortara morì 90enne, nel 1940, a Liegi, in tempo per assistere agli orrori del nazismo e dell'odio antisemita.
    Nel destino del piccolo Edgardo c'è la denuncia delle deviazioni del potere temporale dello Stato Pontificio, poco prima della sua definitiva capitolazione. Il gesto durissimo compiuto dall'ultimo Papa Re divenne bandiera della campagna rivoluzionaria di Mazzini e di Garibaldi, estremo esempio di un'intrusione, di un'amputazione di libertà, in contrasto aperto con il modello di Stato laico e moderno cui avrebbe dovuto tendere l'Italia in via di proclamazione. Tutti temi in linea con l'ispirazione bellocchiana, con il suo sguardo problematico sulla religione e sull'uso della coercizione come strumento per affermarne i principi.

(La Stampa, 30 aprile 2021)


“Io, araba, vicepresidente dell’Università ebraica: la mia nomina un segnale alla società”

di Daniel Reichel

Storica nomina all’Università ebraica di Gerusalemme, la più antica e gloriosa istituzione accademica d’Israele, che ha scelto come sua vicepresidente la professoressa Mona Khoury-Kassbari. È la prima volta, comunica l’ateneo, che un incarico di vertice viene affidato a un rappresentante della comunità araba. “Sono molto orgogliosa di questa nomina. Una donna araba alla vicepresidenza di una delle università migliori del mondo. È un fatto raro. Sicuramente è la prima volta per l’Università ebraica ed è un messaggio importante a tutta la società”, racconta Khoury-Kassbari a Pagine Ebraiche. Raggiunta a poche ore dall’ufficializzazione della sua nomina, la professoressa esprime la propria soddisfazione per il nuovo incarico. “È importante anche perché è la prima volta che un’università israeliana nomina una vicepresidente che si occupi di rafforzare la diversità e l’inclusione”.
    Questo infatti sarà il compito principale del suo mandato: portare all’interno dell’università personale e studenti provenienti da comunità sottorappresentate nel mondo accademico. E quindi si parla dalle realtà arabe, del settore haredi, fino dalla minoranza etiope. “Per una maggiore integrazione – spiega Khoury-Kassbari, già preside della Scuola Paul Baerwald per la formazione di assistenti sociali – in primo luogo serve investire nel sistema educativo”. E porta se stessa, per quanto riguarda la minoranza araba, come esempio: cresciuta a Haifa, in un quartiere che definisce disagiato, ha iniziato il suo percorso nella scuola pubblica. “Poi ho avuto la fortuna di passare a una scuola privata. Senza questo salto non avrei mai pensato di avere delle possibilità di entrare nel mondo accademico. La mia famiglia non aveva i soldi per mantenermi e quindi ho dovuto lavorare all’interno della scuola per potercela fare. E in ogni caso sono pochi gli studenti che possono permetterselo”. Per questo, aggiunge, servono maggiori investimenti nel “sistema educativo arabo che si trova in una situazione molto problematica. Servono insegnanti, serve formazione. Serve tutto ciò che è utile a superare le diseguaglianze”. Aggiunge che su questi binari l’università potrà poi “aumentare i numeri di studenti arabi e permettere loro di completare con successo la carriera accademica”.
    Dopo essersi laureata presso la Scuola Paul Baerwald, aver studiato a Chicago e Toronto, Khoury-Kassbari è tornata all’Università ebraica con l’incarico di consulente per aumentare l’accesso degli arabi all’istruzione superiore. Per questo ha ben chiare quali siano le difficoltà di questa importante minoranza d’Israele (che costituisce il 20% della popolazione totale). Ma alle spalle ha anche un proficuo dialogo con il mondo haredi. “Posso dire con orgoglio che la nostra scuola per assistenti sociali ha il numero più alto di studenti haredi rispetto alle altre scuole. Abbiamo fatto molti sforzi per portarli da noi, abbiamo aperto un canale di confronto diretto, chiesto di cosa hanno bisogno e cercato di venire incontro alle loro specifiche esigenze”.
    Per Khoury-Kassbari costruire un rapporto diretto con gli studenti sarà una delle chiavi del suo incarico. “La prima cosa che voglio fare è nominare dei nostri studenti come ambasciatori che vadano nelle scuole a parlare con i ragazzi e con i loro genitori per raccontare cosa vuol dire frequentare l’Università Ebraica, un polo d’eccellenza”. Altro elemento è sensibilizzare le famiglie soprattutto del nord che hanno alcuni pregiudizi su Gerusalemme. “C’è ancora chi pensa che qui sia pericoloso per i propri figli, ma io vivo da 25 anni a Gerusalemme e posso testimoniare che va tutto bene”. Questione sicurezza a parte, per portare all’Università giovani provenienti dai ceti meno abbienti serviranno investimenti sui dormitori e aperture di nuove borse di studio. “Chi proviene da famiglie povere ha bisogno di questi strumenti”. E incanalare i ragazzi verso lo studio, aggiunge, è un modo per sottrarli alla delinquenza. Un problema, quello della criminalità, particolarmente sentito nel mondo arabo israeliano, tanto da essere stato definito un’emergenza sociale dal Presidente Rivlin. A riguardo, Khoury-Kassbari evidenzia come la mancanza di prospettive spinga molti a prendere strade sbagliate. “Il crimine organizzato sta diventando un problema enorme nel settore arabo. Dobbiamo affrontarlo con uno sforzo comune della polizia, delle municipalità locali. Tutti dobbiamo lavorare insieme per risolvere il problema. E dobbiamo guardare a lungo termine. E quindi, torniamo alla questione del sistema educativo: se non si vede alcun futuro per i propri studi, il crimine diventa una soluzione per la propria vita”.
    La nuova vicepresidente riconosce che c’è un processo positivo di integrazione in corso tra gli arabi israeliani. In questo settore sono sempre di più i professionisti qualificati. “Ma la mia nomina non può essere usata per generalizzare. L’Università ebraica ha fatto un passo molto importante. Non sono però sicura che altre istituzioni avrebbero fatto lo stesso. E non posso dimenticare che alla Knesset oggi ci siano persone che dicono ad alta voce e senza vergogna che gli ebrei non possono sedere con gli arabi. Quindi un attimo a parlare di integrazione.. Certo vorrei che un giorno tutto il paese si comportasse come la mia università”.

(moked, 29 aprile 2021)


Il capo di Pflzer e quei due ragazzi ebrei scampati allo sterminio

di Giovanni Morandl

I miracoli esistono, non ci credete? Chiamiamoli prodigi o semplicemente disegni, qualcosa di così grande da far smarrire.
    Fino a poco tempo fa non era possibile dare un significato ad un episodio poco significativo, accaduto nel febbraio del '43, quando a Salonicco una ragazza ebrea venne catturata dai tedeschi in una delle tante retate che cancellarono gli ebrei da quella città. Una fine che era già scritta per lei, perché o sarebbe stata uccisa subito davanti ad un plotone o sarebbe stata spinta su un treno piombato per la deportazione e le camere a gas di Birkenau. Ma ecco realizzarsi il disegno, che salvò quella giovane donna, grazie ad una somma di denaro con cui il cognato corruppe un ufficiale tedesco, che la liberò.
    Ma il disegno non era ancora completato perché prevedeva un'altra circostanza. Accadde quando i nazisti entrarono nel ghetto di Salonicco e un giovane ebreo forse avvertito o forse per un caso riuscì a fuggire e a nascondersi fuori città.
    Per capire che cosa accadde a Salonicco in quel tempo si pensi che prima della guerra ci vivevano 58 mila ebrei e oggi sono poco più di mille. Quelli che mancano finirono nei forni. Qual è la conclusione di queste due storie? Che quei due ragazzi che erano riusciti a salvarsi, passata la guerra si incontrarono, si innamorarono e fecero un figlio, il cui nome è Albert Bourla, che è il veterinario greco diventato presidente della Pfizer, che 77 anni dopo le retate naziste di Salonicco avrebbe trovato il vaccino anticovid.
    Un disegno realizzato insieme con un turco di fede islamica, tutt'e due emigranti, Albert Bourla negli Stati Uniti e Ugur Sahin, in Germania. E così il cerchio del disegno si è chiuso.

(Nazione-Carlino-Giorno, 30 aprile 2021)


Così a Sanremo nacque il nuovo Medioriente

Un secolo fa nella cittadina ligure le grandi potenze misero le basi dell’attuale geografia politica. E agli ebrei garantirono una nazione.

di Umberto Gentiloni

La conferenza che si tiene a Sanremo (18-26 aprile 1920) si colloca in una terra di mezzo, sospesa tra i primi accordi siglati a Versailles e i lasciti delicati dell’equilibrio del primo dopoguerra. Un secondo tempo per dirimere questioni spinose che non avevano trovato spazio nell’impianto originario della pace del 1919 o che non erano state affrontate per timore di lacerare l’intesa tra le potenze vincitrici. Nel Castello Devachan si riunisce il Consiglio supremo di guerra alleato, il presidente del consiglio Francesco Nitti fa gli onori di casa. Le delegazioni sono ridotte all’essenziale, i vertici degli esecutivi, per favorire uno scambio rapido di valutazioni e indicazioni operative. Il clima nella città ligure è condizionato dai tempi nuovi e dalle aspirazioni di chi arriva in rappresentanza di mondi che si affacciano sul mare nostrum legati in modo indissolubile alla fine dei grandi imperi. Ne scrive lo stesso Nitti nelle sue memorie: «la numerosissima rappresentanza dei greci guidata ancora una volta da Venizelos, i rappresentanti ebrei pochi ma molto abili, gli armeni che avevano grande fiducia nel successo delle loro aspirazioni e grande facondia nel manifestarle. Meno insistenti e più attendisti nonché presenti a giusto titolo gli ottomani e il nuovo re di Siria, Faysal (F.S. Nitti, Meditazioni dall’esilio , Napoli, 1947)». Tutti in trepidante attesa sugli esiti del confronto tra i vincitori. Il Presidente del consiglio aveva preso il posto di Orlando nel giugno 1919, dopo aver svolto il ruolo di ministro del tesoro nell’ultimo anno del conflitto. Con ostinazione si muove per rilanciare un ruolo internazionale dell’Italia, pur in presenza di un duplice condizionamento negativo: la crisi sociale e conflittuale che attraversa la penisola nell’incerto quadro post bellico e il peso dell’occupazione di Fiume, il pericoloso monopolio di «una nostra piccola questione adriatica» sull’insieme degli equilibri mediterranei. La sua critica è rivolta ai predecessori incapaci di uscire dalle ristrette compatibilità legate agli assetti del confine orientale. Un’analisi impietosa che è alla base dell’iniziativa di Sanremo e del potenziale rilancio italiano in chiave mediterranea: «Durante la Conferenza di Parigi i rappresentanti dell’Italia si disinteressarono di quasi tutti i problemi che riguardavano la pace dell’Europa, la situazione dei popoli vinti, la distribuzione delle materie prime, l’ordinamento dei nuovi Stati e il loro rapporto col vincitore per concentrare lo sforzo su Fiume, cioè su un punto in cui l’azione dell’Italia aveva una fondamentale debolezza» (F.S. Nitti, L’Europa senza pace , Firenze 2014). Questioni di fondo connesse alle debolezze della pace, alle sue conseguenze economiche, alla presenza di un carattere punitivo anti tedesco incapace di costruire un quadro di riferimento stabile. Le premesse dell’appuntamento di Sanremo richiamano un più generale disegno di presenze nello spazio vuoto lasciato dal tramonto degli imperi. I risultati possono essere riassunti in due piani, uno rivolto al passato, l’altro al futuro. Il primo risponde alla richiesta della Germania di raddoppiare il proprio esercito, passare dai centomila uomini previsti e consentiti (Versailles) ai duecentomila utilizzabili per sedare i primi disordini nella Ruhr. L’ipotesi viene respinta e spedita al mittente con un’apertura franco britannica a una futura conferenza comune per valutare le richieste inoltrate da Berlino. Il secondo piano è rivolto al futuro, nelle linee guida che porteranno al controverso trattato di Sèvres con l’impero ottomano e alla politica dei mandati e delle partizioni in Medioriente. Una scelta che va ben al di là delle giornate di aprile di oltre un secolo fa: l’articolo 22 della Carta della Società delle Nazioni prevede il mandato di tipo A. Una sorta di lasciapassare, una via di mezzo tra la colonizzazione e l’indipendenza, se ne discuterà molto negli anni e nei decenni a venire. La Siria e il Libano vengono così affidati a un mandato francese, mentre la Mesopotamia (l’Iraq) e la Palestina completa (a est e a ovest del Giordano) finiscono sotto mandato inglese. Primi passi di un nuovo Medioriente che sono alla base delle presenze che segneranno la regione nella seconda metà del Novecento a partire dalle scelte dell’Onu dopo il 1945 (basti il richiamo alla controversa risoluzione 181 sulla partizione del mandato britannico). Uno strano destino per una Conferenza semi dimenticata (si fatica a trovarne traccia nelle sintesi di storia del Novecento), mentre viene celebrata in altri contesti.
   Nelle parole dell’Ambasciatore israeliano Dror Eydar (di stanza a Roma dal settembre 2019) l’emozione per le celebrazioni odierne: «la Conferenza del 1920 rappresenta un passaggio chiave per gli equilibri della regione; fissa per la prima volta nel diritto internazionale il principio della ricostruzione di un focolaio nazionale ebraico, l’embrione dello stato che vedrà la luce nel 1948». Un filo sottile di storia che passa dalla cittadina ligure: altrimenti non capiremmo le ragioni dell’inaugurazione, pochi giorni fa, di una piazza Sanremo nel centro di Netaya a nord di Tel Aviv.

(la Repubblica, 29 aprile 2021)


La Conferenza di Sanremo: l’origine della legittimità giuridica dello stato di Israele

di Ugo Volli

Tutti quelli che si occupano di Israele conoscono la “dichiarazione Balfour”, il primo riconoscimento moderno del diritto del popolo ebraico a costituire una “casa nazionale” (“national home”, cioè una patria) in Terra di Israele. Ma si trattava di una lettera, non di un trattato o di una deliberazione ufficiale, inviata il 2 novembre 1917, dunque in piena guerra mondiale, dal ministro degli esteri britannico Arthur James Balfour al “dear Lord Rotschild”, cioè a Lionel Walter Rothschild che era in quel momento il più illustre rappresentante della comunità ebraica inglese, senza peraltro alcun incarico ufficiale. L’impegno politico del governo britannico ad assicurare agli ebrei il diritto a una patria, fu certamente fondamentale. Ma era una volontà politica, che poteva cambiare e dopo qualche anno effettivamente si ridimensionò molto, per l’interesse della Gran Bretagna a tenersi buoni gli arabi.
   Il momento effettivamente importante, sul piano giuridico, fu un altro: due anni e mezzo dopo, tra il 19 e il 26 aprile 1920 al Castello Devachan di Sanremo, si riunì il “Consiglio supremo di guerra alleato”, composto da Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia e Giappone, per decidere sulla sistemazione postbellica di quello che oggi si chiama “Medio Oriente” e allora “Levante”. Erano presenti i primi ministri di Francia, Inghilterra, Italia e gli ambasciatori dei paesi extraeuropei. Si decise di costituire tre mandati: Siria, Mesopotamia e Palestina. Quest’ultimo mandato era attribuito alla Gran Bretagna sulla base delle condizioni della Dichiarazione Balfour. E’ a Sanremo, insomma, che il diritto del popolo ebraico a costituire una patria venne ufficialmente deciso dalle potenze vincitrici della guerra, sulla base del Trattato di Versailles del 1919. Successivamente, il 24 luglio del 1922, la decisione di Sanremo divenne una delibera ufficiale della Società delle Nazioni (l’ONU di quegli anni).
   In esso si stabiliva fra l’altro che (art. 3) il Mandatario, cioè la Gran Bretagna “sarà responsabile di porre il paese in condizioni politiche, amministrative ed economiche tali da garantire l'istituzione della casa nazionale ebraica, come stabilito nel preambolo, e lo sviluppo di istituzioni di autogoverno, e anche per la salvaguardia della vita civile e religiosa e dei diritti di tutti gli abitanti della Palestina, indipendentemente dalla razza e dalla religione.” Inoltre (Art. 4) “Un'agenzia ebraica appropriata sarà iconosciuta come ente pubblico allo scopo di cooperare [...] in questioni economiche, sociali e di altro tipo che possono influenzare l'istituzione della casa nazionale ebraica […] L'organizzazione sionista [...] sarà riconosciuta come tale agenzia. E ancora (Art. 6) “L'Amministrazione della Palestina, pur assicurando che i diritti e la posizione di altre sezioni della popolazione non siano pregiudicati, faciliterà l'immigrazione ebraica in condizioni adeguate e incoraggerà, in cooperazione con l'agenzia ebraica di cui all'articolo 4, l’insediamento da parte di Ebrei sulla terra, comprese le terre demaniali e le terre abbandonate non necessarie per scopi pubblici.”
   Insomma, le basi legali della costruzione dell’insediamento ebraico (Yishuv) e poi dello Stato di Israele, nascono da qui. Si tratta di principi che sono ripresi nello statuto delle Nazioni Unite (Carta di San Francisco) del 1945. Su questa base giuridica fu poi presa la delibera dell’assemblea generale del novembre 1947 che stabiliva la fine del mandato britannico e la divisione del suo territorio. Come è noto, l’organizzazione sionista accettò allora la divisione, ma gli arabi la rifiutarono e scesero in guerra per distruggere Israele. Ma la legittimità dello stato di Israele sui territori del Mandato Britannico nasce proprio dalla Conferenza di Sanremo e dagli Sviluppi successivi. Per questo, 101 anni dopo, questa è una ricorrenza che merita di essere ricordata e festeggiata.

(Shalom, 29 aprile 2021)


Il sionismo durante e dopo la prima guerra mondiale

Il testo di questo articolo, estratto dall'Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "Sionismo", risale a un periodo che va tra il 1936 e il 1938. E’ interessante leggere come questo argomento sia stato trattato in un tempo e sotto un regime in cui il filosionismo non era certamente molto diffuso. Il testo tra l'altro conferma, ancora una volta, che la nascita dello Stato ebraico non fu una conseguenza della Shoah.
Il risalto in colore è stato aggiunto.


Palestina degli anni '30
E' evidente che con questo nome s'intendeva
anche una zona a est del Giordano


Nel periodo della guerra mondiale l'attività sionistica pratica dovette naturalmente subire un arresto; d'altro canto si iniziarono quelle trattative col governo inglese che condussero prima (agosto 1917) alla formazione della Legione ebraica, che poi partecipò accanto alle milizie degli alleati a varie battaglie in Palestina, e quindi alla dichiarazione Balfour (2 novembre 1917), preparata da un'intensa attività esercitata specialmente da Hayyim Weizmann che aveva, durante la guerra, reso segnalati servigi all'Inghilterra, e dai suoi collaboratori. In tale dichiarazione Arthur James Balfour, ministro inglese degli Esteri, affermava che il governo inglese intendeva favorire la creazione e lo sviluppo in Palestina di una sede nazionale (national home, «focolare nazionale») per il popolo ebraico, salvi restando i diritti dei non Ebrei in Palestina e quelli degli Ebrei nei vari paesi. Dichiarazioni analoghe fecero in seguito gli altri governi alleati (l'Italia il 9 maggio 1918).
  Prima ancora che la guerra finisse, una commissione sionistica, accompagnata da un rappresentante del governo inglese, si recava in Palestina per gli studi preliminari. Il 24 luglio dello stesso anno veniva posta la prima pietra dell' università ebraica sul Monte Scopo presso Gerusalemme.
   Terminata la guerra, il sionismo agì attivamente per ottenere l'effettiva costituzione della sede nazionale ebraica. Il 24 aprile. 1920 il consiglio delle Potenze decideva, a Sanremo, che la dichiarazione Balfour fosse inclusa nel trattato di pace con la Turchia e che il mandato sulla Palestina venisse affidato all'Inghilterra. Il 1o luglio dello stesso anno veniva insediato, quale alto commissario della Palestina, sir Herbert Samuel, ebreo. Il trattato di Sèvres, stipulato con la Turchia il 10 agosto, comprendeva la clausola della sede nazionale ebraica.
  L'elaborazione del testo del mandato fu lunga e difficile. Un movimento, condotto da capi arabi, tendeva a impedire che la sede nazionale venisse costituita: l'opposizione araba ebbe anche episodi di violenza.
   II testo del mandato, approvato a Londra il 24 luglio 1922 dal Consiglio della Società delle nazioni, ripete il contenuto della dichiarazione Balfour; stabilisce, fra l'altro, per la potenza mandataria l'obbligo di mettere il paese in condizioni tali da assicurare l'adempimento delle clausole della dichiarazione stessa; costituisce una rappresentanza ebraica (Jewish Agency) riconosciuta come ente pubblico, per cooperare con l'amministrazione inglese della Palestina tutto quanto riguarda la creazione della sede nazionale ebraica, con l'obbligo all'amministrazione del paese di facilitare l'immigrazione ebraica, vigilando a che non sia recata offesa o danno alle altre parti della popolazione. La potenza mandataria deve assumere la responsabilità dei Luoghi Santi; come lingue ufficiali della Palestina vengono stabilite l'inglese, l'arabo e l'ebraico; come giorni di riposo per i membri delle varie comunità i giorni festivi di ciascuna di esse.
   Il lavoro ebraico intanto proseguiva non senza gravi difficoltà nel campo politico e in quello pratico. Gl'immigrati, provenienti parte non piccola dalla borghesia e dalla classe intellettuale dell'Europa orientale, si adattarono mirabilmente alle esigenze della vita agricola e del lavoro materiale: le vecchie colonie erano in incremento e nuove se ne fondarono. Tra le regioni bonificate e colonizzate nei primi anni dopo la guerra è particolarmente notevole la vallata di Esdrelon. Il 1o aprile 1925 veniva inaugurata l'università ebraica sul Monte Scopo. Da segnalarsi è l'attività del Qeren ha-yesod (fondo di costruzione) istituito nel 1920 con lo scopo di raccogliere 25 milioni di sterline per mezzo di un'imposta straordinaria a cui veniva invitato ad assoggettarsi ogni singolo ebreo mediante prelevamento di un decimo del suo capitale o del suo reddito annuo. Nei primi quindici anni di vita, e cioè fino al giugno 1935, questa istituzione ha raccolto ed erogato oltre 5 milioni di sterline. In politica prevalsero le tendenze moderate e concilianti del Weizmann, il quale, mentre sosteneva il principio della necessità della collaborazione con l'elemento arabo, favoriva l'allargamento della Jewish Agency, nella quale entrarono anche elementi non sionisti in senso stretto, rappresentanti delle varie istituzioni della diaspora, sì da fare di quella come una rappresentanza generale del popolo ebraico; tendenze contrarie avevano, e hanno tuttora, i «revisionisti», capitanati da Vladimiro Jabotinski, i quali ritengono che solo con la prossima creazione di uno stato ebraico in Palestina si possa risolvere il problema ebraico, mentre i seguaci del Weizmann, detti «sionisti generali», pensano piuttosto a una collettività palestinese binazionale, ebraica e araba.
   Allo sviluppo agricolo, segnato dalla fondazione di nuove colonie (alcune delle quali a sistema cooperativo) nelle varie parti della regione, e a quello urbano, rappresentato, oltreché dalla città di Téll Abib (Tel Aviv), popolata ora da oltre 100 mila abitanti (2000 nel 1914), dalla costruzione di nuovi quartieri ebraici a Gerusalemme e a Haifa (la quale ultima città è fornita di un ottimo porto, inaugurato nel 1933) si è aggiunto recentemente quello industriale, segnato particolarmente dall'attività della società elettrica Ruthenberg e di imprese per l'estrazione del potassio dal Mar Morto. La questione araba, sempre aperta, ebbe alcuni episodi sanguinosi, specialmente nel 1929, in cui parecchi centri ebraici furono improvvisamente assaliti dagli Arabi, contemporaneamente quasi alla prima riunione del consiglio della Jewish Agency. In seguito a tali avvenimenti, vennero inviate dal governo inglese delle commissioni per l'accertamento dei fatti. Alcune affermazioni contenute nelle relazioni, che sembravano dare interpretazioni assai restrittive alle clausole del mandato relative all'immigrazione ebraica, suscitarono malcontento e proteste da parte dei sionisti: il Weizmann, alla fine del XVI congresso, che in quell'anno ebbe luogo a Zurigo, si ritirò dalla presidenza dell'organizzazione sionistica e della Jewish Agency; in seguito al XVII congresso (Basilea 1931) la presidenza fu assunta da Nahum Sokolow che la tenne fino a che, nel XIX congresso (Lucerna, agosto-settembre 1935), essa fu ripresa dal Weizmann.
   Negli ultimi anni l'immigrazione ebraica, per quanto contenuta entro angusti limiti dalla potenza mandataria, raggiunse cifre assai elevate: un forte contingente le fu dato dall'emigrazione dalla Germania, in conseguenza delle leggi ostili ai «non ariani», ossia agli ebrei.
   L'istruzione e l'educazione sono impartite in circa 300 scuole di vario grado, con una popolazione scolastica complessiva di circa 30.000 alunni, poste sotto la sorveglianza dell'organizzazione sionistica. L'università ebraica, con annessi vari istituti scientifici, è in continuo incremento; con l'inizio dell'anno scolastico 1935-36 sono state costituite le facoltà di matematica e scienze naturali. Essa ha presso di sé la Biblioteca Nazionale che possiede attualmente oltre 300 mila volumi. Anche le arti (musica, pittura) e le lettere sono in piena efficienza: nell'anno ebraico 5696 (settembre 1934-settembre 1935) sono stati pubblicati in Palestina circa 500 libri ebraici. La popolazione ebraica della Palestina è di oltre 300 mila anime, che costituiscono il 25% della popolazione totale.

(Enciclopedia Italiana Treccani, Vol. XXXI, pag. 865)


Libertà e giustizia unirono ebraismo e socialismo

La ribellione del Ghetto di Varsavia. Tra gli eroi varsaviesi di quella grande pagina di resistenza contro la barbarie nazista, alla vigilia della Pasqua ebraica, molti erano socialisti

di Antonio Matasso

Il 19 aprile 1943, vigilia della Pasqua ebraica, gli ebrei polacchi radunati nel Ghetto di Varsavia si ribellarono contro i nazisti, i quali nell'anno precedente avevano deportato o ucciso circa trecentomila delle persone ristrette in quello che gli occupanti chiamavano cinicamente "Quartiere residenziale ebraico" (Jüdischer Wohnbezirk in Warschau). Tra gli eroi varsaviesi di quella grande pagina di resistenza contro la barbarie nazista, molti erano socialisti. Fin dalle origini del socialismo, è esistita una sinistra che rivendicava la propria appartenenza all'ebraismo, affermando la sostanziale coincidenza dei suoi valori, libertà e giustizia, con quelli del movimento socialista internazionale. Questo elemento lega particolarmente la nostra comunità umana e politica di socialisti italiani ai compagni polacchi. Diversi grandi protagonisti della storia del Psi e del Psdi, infatti, sono nati in famiglie di estrazione ebraica: tra i tanti, Anna Kuliscioff, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani, Angelica Balabanoff, Felice Momigliano, Pio Donati, Riccardo Momigliano, i fratelli Ugo Guido e Rodolfo Mondolfo, Elia Musatti e Paolo Vittorelli, solo per citarne alcuni. Anche il padre del socialismo liberale Carlo Rosselli ed il socialista cristiano Livio Labor, erano figli di ebrei. Ma nei territori dell'ex Confederazione polacco-lituana annessi all'Impero russo era stato addirittura costituito un vero e proprio partito politico degli ebrei socialisti, il Bund, che tenne il suo congresso fondativo a Vilnius nel 1897 e si collegò alla fazione menscevica di Julij Martov, su posizioni anti-bolsceviche. Nel dicembre del 1917, a Lublino, in vista della nascita della Seconda repubblica di Polonia, la sezione polacca, già nei fatti autonoma, divenne un partito separato rispetto a quello dei compagni lituani e russi, assorbendo nel 1920 anche il Partito socialdemocratico ebraico della Galizia ex austro-ungarica. I bundisti fondarono associazioni sindacali e conquistarono diverse amministrazioni locali, collaborando spesso col Partito socialista polacco.
   A cavallo tra le due guerre, il cardiologo Marek Edelman fu appunto un fervente attivista del Bund. Egli divenne il leader della rivolta del Ghetto nel 1943, dopo l'uccisione a maggio dello stesso anno del primo capo dell'insurrezione, l'altro socialista Mordechai Anielewicz. Anche la sola donna presente tra i principali animatori della sollevazione, Zivia Lubetkin, vantava trascorsi nel sionismo socialista, al pari del marito Yitzhak Zuckerman. Era un convinto bundista Maurycy Orzech, economista e giornalista per l'organo ufficiale del Bund polacco, "Forverts", ancora oggi pubblicato negli Stati Uniti: un nome che in yiddish significa "Avanti", poiché sia la testata dei socialisti italiani, sia quella degli ebrei polacchi, si rifacevano al "Vorwärts" della socialdemocrazia tedesca. Orzech riuscì a scampare alla distruzione del Ghetto, ma fu comunque arrestato dalla Gestapo e ucciso nell'agosto del 1943.
   Le centinaia di bunker realizzati dagli eroi di Varsavia consentirono a quella povera gente *** di resistere per più di un mese, ritardando il programma dei nazisti, che prevedeva di liquidare tutti gli ebrei in tre giorni. Anche quando la repressione ebbe il sopravvento, il 16 maggio 1943, nei giorni successivi singoli ebrei nascostisi tra le rovine continuarono ad attaccare le pattuglie naziste e il personale ausiliario locale collaborazionista. Tra aprile e maggio di settantotto anni fa l'Europa assistette così alla prima rivolta urbana in un territorio occupato dalla Germania hitleriana: ciò ispirò ancora altre insurrezioni, nei ghetti di Bialystok e Minsk, come nei campi di sterminio di Treblinka e Sobibór. Il destino dei superstiti fu particolarmente infelice: Edelman, che nel Ghetto assediato era riuscito perfino a compiere interventi salvavita con attrezzature improvvisate, restò a vivere in Polonia dopo la guerra, segnalandosi come oppositore del regime comunista e subendo per questo alcune persecuzioni (fu anche internato dopo la proclamazione della legge marziale nel 1981, ad opera di Wojciech Jaruzelski); Zuckerman, che anni dopo testimoniò al processo Eichman, dovette riparare con sua moglie Zivia Lubetkin in Israele, dove i due fondarono un kibbutz. Tutti loro, insieme agli ebrei di ogni credo politico ed agli esponenti della resistenza polacca coinvolti nell'insurrezione, custodirono la memoria di quei giorni, impedendo le strumentalizzazioni: il comandante Edelman, per esempio, rifiutò di presenziare alle celebrazioni orchestrate dalla dittatura polacca nel 1983, organizzate in un paese dominato «ovunque dall'umiliazione della coercizione». Sempre quest'ultimo, nel 1989, partecipò ai cosiddetti colloqui della "Tavola rotonda", come consulente per la politica sanitaria di Solidarno§c, sindacato sostenuto anche dai socialisti italiani e di cui era da tempo attivista.
   Come rendere un tributo, dunque, ai morti e ai perseguitati in nome della libertà, nel mondo di oggi? Forse dovremmo pensare al gesto ciclopico del compagno Willy Brandt, che cinquant'anni fa, nel 1970, si inginocchiò davanti al monumento ai caduti della rivolta del Ghetto. Fu un atto che non era stato previsto, ma che il cancelliere tedesco compì per il suo innato senso di umanità. Lo stesso che lo aveva portato ad opporsi al nazismo, più apertamente di chiunque altro. Brandt ritenne che proprio uno come lui, che aveva subito sulla propria pelle le persecuzioni e l'esilio, che era stato vittima del nazismo, doveva inginocchiarsi e chiedere perdono per i crimini commessi in nome della Germania. Un gesto laico e ad un tempo di grande significato religioso, tanto per l'ebraismo quanto per il cristianesimo: prendere su di sé il dolore prodotto da chi ha sterminato gli ebrei e costretto lui stesso a fuggire da apolide, per un lavacro di perdono e redenzione, che colleghi per sempre passato e futuro. Qualunque cosa ne dica un soggetto della risma di Trump, i grandi leader si inginocchiano, eccome! I negazionismi, semmai, sono forme di codardia. E anche se Brandt apparteneva a quella tipologia di tedeschi non convenzionali e forse "poco tedeschi", oggi la gran parte della società civile teutonica non si sente fiera di quei "nonni" che fecero saltare in aria la bella Grande Sinagoga neoclassica di Varsavia, con la cui distruzione i nazisti pensavano di aver scritto simbolicamente la parola fine sul Ghettto e sull'ebraismo europeo. Il ponte tra ricordo e avvenire di Brandt parla però anche a noi italiani. Siamo in un paese in cui le destre hanno collocato il ricordo della grave tragedia delle Foibe, di proporzioni non paragonabili all'Olocausto, a breve distanza dalle Giornata della memoria del 27 gennaio. Quasi che il problema fosse di contrapporre ad una memoria cara alla sinistra, una ritenuta di segno opposto. La logica di Brandt era oltre, avanti (non a caso!), universale. Torniamo con la mente a Varsavia perché sia quel sacrificio di sangue e liberazione, sia il successivo atto di omaggio, ci ammoniscano sempre ad una dimensione più umana della nostra esistenza e al coraggio della libertà.

(Avanti!, 29 aprile 2021)


Dice Ugur Sahin

I dati fondamentali di Israele, i vaccini ai bambini, le fabbriche e le varianti. Parla Mr BioNTech

di Daniel Mosseri

BERLINO - Né camicia né camice. Per ricevere virtualmente i rappresentanti della stampa estera accreditati in Germania, Ugur Sahin indossa una t-shirt. Lo scienziato, che insieme alla moglie Özlem Türeci ha fondato a Magonza l’azienda farmaceutica BioNTech che ha scoperto il vaccino anti Covid distribuito assieme a Pfizer, ha modi semplici e diretti. “Io e mia moglie siamo medici, per cui siamo soddisfatti quando al di là della ricerca riusciamo a fare stare meglio le persone”. La soddisfazione deriva dal ricevere continui messaggi di persone anziane che possono finalmente riabbracciare i propri nipoti, “e questo fa piacere”. Ma le sfide non finiscono mai. Oggi a spronare lui e la moglie, spiega, è la circostanza che molti non hanno ancora ricevuto l’iniezione: “Non dobbiamo perdere la concentrazione”.
    Il medico non si sottrae alla sfilza di domande che gli sono rivolte, e la sensazione è che anche fra i colleghi ci sia chi voglia togliersi qualche dubbio personale prima ancora che giornalistico. Così Sahin ribadisce una volta ancora che il suo vaccino è sicuro ma che non si può abbassare la guardia, soprattutto nel periodo di dodici giorni tra la prima e la seconda dose, quando è ancora possibile ammalarsi di Covid. E la guardia deve sempre restare alta: ricevere due dosi di BioNTech non significa mettersi alla spalle una volta per tutte l’incubo del coronavirus.
    “Dopo otto mesi dalla seconda immunizzazione, abbiamo osservato un notevole calo degli anticorpi”; ecco perché entro undici, massimo dodici mesi dalla prima iniezione servirà un richiamo. La conversazione si sposta sulle donne in gravidanza: la ricerca in materia non è completa ma gli studi indicano che dal vaccino non deriva alcun danno all’embrione mentre è evidente come le gestanti infettate dal Covid-19 corrano rischi più alti di complicazioni anche gravi. “Ecco perché ha senso immunizzarsi”. A ogni domanda, Sahin risponde partendo da Israele. Lo scienziato tedesco nato ad Alessandretta, in Turchia, 56 anni fa e immigrato in Germania al seguito del papà impiegato presso la Ford a Colonia ringrazia a più riprese lo stato ebraico per aver messo a disposizione di BioNTech i dati sugli effetti della vaccinazione di massa. Unendo quei numeri alle risposte fornite a uno stuolo di giornalisti curiosi, Sahin tratteggia i contorni della nuova normalità. Una normalità in cui anche i bambini saranno vaccinati contro il virus “perché anche loro si ammalano gravemente di Covid e di long-Covid: per fortuna in pochi ma abbastanza per preoccuparsene”. In un futuro non troppo lontano “dovremo continuare a difenderci da chi non vuole o da chi non può vaccinarsi” oppure da chi non produce sufficienti anticorpi.
   Aspettiamoci dei focolai, spiega Sahin: saranno più o meno grandi ma saranno sotto controllo “e l’emozione associata oggi a questa emergenza sparirà”. E le varianti del virus? Lo scienziato ricorda che BioNtech è stato sviluppato pensando alle mutazioni: Sahin è in primo luogo un oncologo e la lotta contro il cancro lo ha allenato a sfidare un nemico versipelle. “Abbiamo testato il vaccino su trenta varianti e vediamo da Israele come sta rispondendo a quella britannica, la più diffusa al mondo”. La conclusione è affidata alla (geo)politica. Con l’Italia il medico si è complimentato per aver dato l’esempio con un lockdown severo: “Imitata dagli altri paesi, ha permesso all’Europa di passare un’estate tranquilla”. Quanto all’Europa, ogni frizione con la Commissione è acqua passata: “Negli ultimi cinque mesi abbiamo lavorato bene insieme”. La prossima sfida è aprire centri di produzione di vaccini in ogni continente: “In ogni stato non servirebbero”. Come vede la sua vita? “Ho avuto la fortuna di aver fatto il liceo (Gymnasium, in tedesco) e di essere andato all’università”.

(Il Foglio, 29 aprile 2021)


Morto lo storico della Shoah, Francesco Maria Feltri

di Brunetto Salvarani

E' improvvisamente scomparso a soli sessantatré anni Francesco Maria Feltri. Sicuramente c'eravamo incrociati allo Studio teologico interdiocesano di Reggio Emilia, nella seconda metà degli anni Settanta, dove per qualche tempo ha frequentato corsi, senza però portarli avanti. Ma ci conoscevamo già, e ci saremmo ritrovati anche al Centro studi religiosi della Fondazione San Carlo... Molte passioni comuni, a cominciare da quelle per gli studi biblici, che affrontava con estrema acribia (la sua Bibbia era consunta, diversamente colorata a seconda delle fonti del Pentateuco), e per l'ebraismo, che lui sin da allora scelse di declinare nella modalità che più gli era congeniale, quella storica.
    Erano, quelli, anni assai vivaci di postconcilio vissuto e affrontato a viso aperto, e di impegno ecclesiale a tutto campo: per lui, dapprima nella sua San Faustino, e poi in giro per l'Italia, per formarsi e informarsi a dovere. Da quei primi passi in provincia, Feltri di strada ne farà parecchia, con umiltà e impegno quotidiano, sino a guadagnarsi la fama (del tutto meritata) di essere uno dei massimi esperti italiani del nazismo e della Shoah, su cui aveva scritto vari saggi, tra cui Il nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei, Giuntina, 1995; Per discutere di Auschwitz, Giuntina, 1998, e La notte dei poeti assassinati. Antisemitismo nella Russia di Stalin, Sei, 2009. Docente di Italiano e Storia in alcuni istituti superiori della sua Modena (veniva da una famiglia di studiosi e intellettuali di vaglia, il suo imprinting è quello), si è dedicato anche alla manualistica scolastica, firmando un numero significativo di testi per le superiori, apprezzatissimi e diffusi. I suoi interessi l'avevano portato inoltre a organizzare molti viaggi di studio in Polonia, Repubblica Ceca, Paesi Baltici, Turchia e Israele, giungendo a collaborare non solo con istituzioni per la memoria sul territorio nazionale, tra cui la Fondazione Fossoli di Carpi e il Centro di documentazione della deportazione ebraica di Milano, ma anche su scala internazionale, dal celebre museo dello Yad Vashem di Gerusalemme alla Fondazione Anne Frank di Amsterdam e con istituzioni per la memoria sul territorio emiliano.
    Non solo. La sua vocazione alla divulgazione di alto livello l'ha condotto a diventare un protagonista della bella esperienza delle Graffette di Sassuolo (quanti i libricini da lui firmati, sui più svariati argomenti storici!), di tutte le Università popolari della zona, di tanti comuni che facevano a gara per averlo fra i loro relatori su temi non di rado spinosi e controversi. Si può dire che per Feltri l'insegnamento e la diffusione della cultura in ogni strato della società, senza alcuna schizzinosità, abbiano rappresentato una sorta di missione quotidiana. Gli innumerevoli messaggi a metà fra il cordoglio e lo stupore che da ieri campeggiano nelle chat e sui social sono lì a dimostrarlo.
    Carissimo Checco, mancherai a tanti, non solo alla tua famiglia. E queste poche righe, buttate giù con infinita tristezza, sono appena un incompleto ritratto di un uomo appassionato e pieno di interessi, curioso e capace di tessere molteplici relazioni, amicali e intellettuali. Che ancora parecchio avrebbe avuto da donare al suo pubblico, e da riflettere a voce alta di fronte ai giovani, contro ogni pregiudizio e ingiustizia e ogni forma di antisemitismo.

(Avvenire, 29 aprile 2021)


Amore e lutto in morte di un artigliere israeliano

Il romanzo di Piattelli si svolge durante la guerra del Kippur: un soldato ebreo resta ucciso e la sua promessa sposa lo piange senza pace

di Claudio Toscani

Israele ottobre 1973, guerra del Kippur (così è detto il giorno dell'espiazione): Egitto e Siria, in coalizione con altri stati arabi, attaccano proditoriamente la terra promessa da Dio ai discendenti di Abramo. Scontro sanguinoso, devastante, in cui sono però gli assalitori ad avere la peggio. Ciò non toglie che i singoli, vincitori o vinti, abbiano di che piangere i loro morti. A Tel Aviv, in una famiglia dell'ex capitale israelita, si soffre la perdita del ventenne artigliere Jonatan, ucciso da un cecchino siriano sulle colline del Golan. In particolare, Ahuva, sua promessa sposa, piomba in un dolore attonito e infinito che le guasterà la vita Non c'è modo, infatti, durante tutto l'animato itinerario del romanzo di Ghila Piattelli, Resta ancora un po' (Giuntina, pagine 204, euro 15), di distoglierla dalla brutale perdita dell'amato, nonostante accetti di unirsi in matrimonio con Zvika, un medico incontrato durante un viaggio a Firenze. In Italia si era illusa di mettere in pausa il suo primo ma incancellabile amore e a nulla serve che Zvika le voglia veramente bene e la renda madre di Yoni. E Yoni, più che una nuova persona, resterà un abbreviativo di Yonatan, destinato a essere un figlio a metà tra l'indimenticata ossessione di un fantasma e la dura realtà di una spesso trascurata esistenza. II quadro non è molto più affollato, se si salva un discreto numero di zü, nonni e altri parenti, e se si eccettuano sia la bizzarra Giuditta, madre di Ahuva, sempre in cerca di un cimitero a lei idoneo per passarvi l'eternità, sia Erez, il fraterno amico di Jonatan quand'era in vita, che sarà l'incessante, irreprensibile guardiano della giovane vedova inchiodata al ricordo del suo sposo perduto. Suggestiva la struttura del libro che si caratterizza per uno scandito alternarsi di "prima" e "terza" persona, una rete di risonanze che originano da medesime realtà ma come intonate da strumenti diversi, se non discordi, che collaborano a una singolare storia tra inventività e vita vissuta: una, la voce di Yoni (l'io che guida il lettore attraverso sensi e sentimenti moltiplicati a seconda che siano il suo personale sentire o l'esperienza dei vari personaggi): l'altra, un narratore esterno che sa il prima e il dopo dei fatti e delle intenzioni e mette sull'avviso ciò che accade o sta per accadere, determinando conferme o attese, certezze o suspense.
   La fusione tra chi racconta in diretta e chi si mantiene invece sempre al dà della pagina al corrente di tutto, si snoda lungo una serie di stop and go tra effetti prima delle cause. Ciò lega il lettore a un libro di rara potenza letteraria dove, tra l'altro, ciò che in ultima di copertina è definito «romanzo israeliano in lingua italiana», è che si parla spesso di comuni radici morali e religiose.

(Avvenire, 29 aprile 2021)


Ritorna la propaganda anti-Israele: "I palestinesi vittime di apartheid"

L'accusa di persecuzione è ridicola per chi conosce la società israeliana: un miscuglio di razze, religioni ed etnie

di Fiamma Nirenstein

È dal 1975, quando l'Onu votò con maggioranza arabo-sovietica la dichiarazione «sionismo uguale razzismo» che è stata poi cancellata nel '91, che si ripete il tentativo di spacciare il conflitto israelo-palestinese per una scelta del popolo ebraico di dominare e discriminare il mondo arabo e musulmano in nome di principi suprematisti, e appunto, razzisti. La scelta propagandistica è molto redditizia, perché cosa c'è di moralmente peggiore al mondo, dopo il nazismo, del razzismo? Il sistema di apartheid sudafricano non a caso ormai defunto e sconfitto dalla buona volontà internazionale è un parametro internazionale di tutti i mali, ed è universalmente buono e giusto ergersi contro quell'infamia. Il tentativo di infettare Israele con questa accusa consta adesso di un nuovo documento di Human Rights Watch, 217 pagine di vecchie accuse ben riciclate (l'organizzazione, come scrive il presidente di «NGO Monitor» Gerald Steinberg ha un budget di 90 milioni di dollari in donazioni anche italiane alle varie Ong talora legate al gruppo terrorista Fronte di Liberazione Palestinese) a cura di Omar Shakir, direttore del settore israeliano e palestinese. Esse sostengono, con l'aiuto di organizzazioni come Al Haq, Pchr, Al Mezan, Al Dameer che «Israele perseguita la popolazione palestinese» per «assicurare la dominazione israeliana». Il testo riproduce parti delle accuse già usate per indurre l'International Criminal Court a perseguire Israele per crimini di guerra, e da B'tselem, organizzazione israeliana che sostiene che c'è «un regime di supremazia ebraica dal Giordano al Mediterraneo (molto generoso verso il piccolissimo Stato Ebraico ndr) e questo è apartheid».
   L'accusa, se non si inserisse in un clima mondiale che mette le ali verso una rinnovata criminalizzazione d'Israele, sarebbe da ridere se si ha in mente la società israeliana e se ne conosce la mescolanza di razze, religioni, etnie sulle spiagge e per le strade, nei mall in cui arabi ed ebrei guardano le vetrine insieme, gli ospedali dove giacciono in letti contigui curati da medici arabi e ebrei; più del 20 per cento della popolazione totale, gli arabi sono rappresentati alla Knesset da partiti differenziati e da membri del Parlamento liberi nelle strade e nelle istituzioni, le università sono frequentate da giovani di ogni etnia, dottori avvocati, giudici della corte suprema, comandanti della polizia e delle forze di sicurezza sono arabi, il giudice che accusò Moshe Katzav, allora presidente della Repubblica di crimini sessuali e lo mandò in carcere era George Kara, giudice arabo.
   Il rapporto di Hrw fornisce notizie false quando parla di transfer di popolazioni inermi, attribuisce alle divisioni territoriali peraltro concordate a Oslo fino a una soluzione fra le due parti il carattere di imposizioni razziali, cancella ogni diritto del popolo ebraico a un suo Stato quando cancella il diritto (come di qualsiasi Stato sovrano) a un'immigrazione, specie dopo le terribili persecuzioni subite a causa dell'antisemitismo. L'idea che uno Stato Ebraico sia di per sé razzista per la «legge del ritorno» è una delegittimazione della sovranità più che un'accusa. Il report ignora anche che le misure di cautela non sono gesti di discriminazione dell'etnia o della religione, ma di cautela dopo tanto terrorismo.

(il Giornale, 28 aprile 2021)


La preistoria orientale del Mossad. Intervista a Matti Friedman

di Ugo Volli

Matti Friedman è un giornalista importante. Ebreo canadese, immigrato in Israele negli anni Novanta, ha scritto per il New York Times, per l’Associated Press da Israele, ma anche dal Libano, dall’Egitto, da Mosca. È anche uno scrittore, che applica i metodi del giornalismo a episodi significativi e poco noti della storia contemporanea di Israele. Il suo primo libro, The Aleppo Codex del 2014, raccontava come un thriller la storia complicata dell’arrivo in Israele del più antico codice della Bibbia ebraica, quello che per secoli era rimasto custodito nella Sinagoga di Aleppo, su cui probabilmente aveva studiato Maimonide, e che ora sta al “Santuario del Libro” al Museo ebraico di Gerusalemme. La casa editrice Giuntina ha appena pubblicato la traduzione italiana di un altro suo bel libro del 2019, Spie di nessun paese, che racconta le imprese di quattro giovani ebrei provenienti dai paesi arabi, che fra il 1948 e il 1949 furono fatti infiltrare in Libano per dare ai dirigenti ebraici informazioni vitali sulle mosse dei nemici che cercavano di soffocare sul nascere lo Stato di Israele. Fu forse la prima grande missione spionistica israeliana, l’inizio di una storia importante. I loro nomi: Yitzhak Shoshan, Yakuba Cohen, Havakuk Cohen e Gamliel Cohen: quattro ragazzi, che durante l’ultimo periodo del mandato britannico di Palestina, prima che nasca Israele, arrivano più o meno clandestinamente a Haifa, allora divisa dalla guerra. Provengono dalla Siria, dallo Yemen, uno da Gerusalemme, si sono arruolati nel Palmach, la forza militare clandestina di élite dell’insediamento ebraico. Poi sono stati coinvolti in un gruppo ancora più segreto, l’”Alba” o “sezione orientale”. Vengono mandati in missione a Beirut, dove si infiltrano avventurosamente e restano per parecchi mesi sotto falsa identità. Con l’autore parliamo della loro avventura.

- Matti Friedman, il suo libro sembra una spy-story, si legge come un romanzo. Quanto in esso è storia e quanto è inventato?
   “È tutto vero. Non ho inventato niente. Ho usato i metodi del giornalismo investigativo, parlando con i testimoni, facendo una lunghissima intervista a uno dei protagonisti, Yitzhak Shoshan, che ho trovato ancora vivo e molto lucido, benché molto anziano. Ho cercato i documenti negli archivi. Ho ispezionato i posti. Anche i dialoghi e i pensieri dei protagonisti sono quelli che mi sono stati riferiti.”

Quattro ragazzi che diventano spie per uno stato che non c’è ancora. Perché lo fanno?
   “Sono ragazzi poveri, che sfuggono a un destino di miseria e di oppressione. Erano nati al livello più basso della scala sociale di paesi arabi. Erano ebrei ed ebrei poveri. Vogliono il riscatto, la libertà. Sanno di quello che è successo in Europa, vogliono combattere per sfuggire al genocidio, anche per aiutare anche gli ebrei europei a salvarsi. Sono generosi, credono nel futuro, sentono l’impegno a partecipare. Capiscono di vivere un’occasione storica, vedono che per la prima volta da tempi immemorabili uno stato ebraico è possibile. Cercano la dignità.”

- E come fanno a realizzare la loro missione?
   Sono coraggiosi e forti, non hanno paura del pericolo. Cioè sì, hanno paura, quando sono soli in mezzo ai nemici, a un soffio dalla morte e basterebbe una parola sbagliata, un gesto, uno sguardo a perderli. Ma sanno vincersi, tengono i nervi a posto. Fin dall’inizio della loro missione, a Haifa, incontrano gente che li sospetta, che vuol vedere se parlano ebraico, se sanno fare i gesti della preghiera musulmana, dato che dicono di essere arabi in fuga. Per mesi tengono un chioschetto nel centro di Beirut, da cui osservano e riferiscono, ma sono anche visibili a tutti. Hanno rapporti con tanta gente, attirano l’attenzione, devono parlare con molti per ottenere informazioni, ma non attirare l’attenzione. Soprattutto devono evitare che qualcuno verifichi le loro storie, che sono esili. E’ un rischio costante. All’inizio non hanno niente, né armi né strumenti di comunicazione. Poi installano una radiotrasmittente, che però è un pericolo, se venisse vista per caso li tradirebbe.”

- Sono ebrei orientali, quelli che in Israele si chiamano “mizrachi”. Spesso si considera che all’inizio siano stati discriminati dalla società israeliana.
   “Sì, c’era discriminazione. Anche nel loro gruppo. Loro e gli altri agenti dell’”Alba” erano ebrei proveniente dai paesi arabi, perché conoscevano lingua e cultura araba. I loro capi però erano askenaziti e loro nella “storia ufficiale”, come la chiamo io, hanno avuto poco spazio. C’è stata discriminazione allora e anche dopo, bisogna ammetterlo.”

- I suoi interlocutori, in particolare Yitzhack Shoshan che è stata la sua fonte, si lamentano di questa condizione?
   “No. Non ho trovato amarezza o rancore, tutt’altro. Certo, non hanno avuto statue o riconoscimenti solenni, ma non se lo aspettavano. Era un momento in cui ciascuno faceva quel che poteva per la salvezza collettiva. Shoshan mi è sembrato un uomo fiero del suo contributo, contento di come sono andate le cose, soddisfatto dei risultati dello stato di Israele.”

- È' un aspetto di Israele di cui si parla poco.
   “All’estero, soprattutto in America, questa presenza ebraica orientale non è capita a sufficienza, si parla genericamente di sefarditi, ma la Spagna, cioè in ebraico Sefarad, da cui deriva il nome sefardita, non c’entra nulla con l’ebraismo siriano, libanese, iracheno o persiano. Ma la società israeliana si è parecchio rimescolata e oggi l’influenza mizrachi è evidente nell’identità di Israele: nella musica, nella cucina, ma non solo lì. L’integrazione c’è.”

- Torniamo alla nostra vicenda. Da queste esperienze che lei racconta nasce il mitico Mossad.
   “Si, a un certo punto “Alba” viene chiusa, anche i miei personaggi passano altrove, e l’apparato informativo di Israele viene ricostruito con criteri più professionali e missioni più ampie. E di qui nasce il Mossad e le altre agenzie di informazione di Israele.”

- … che hanno grandissimi successi e grandissime storie. In questi giorni si è ricordata di nuovo la figura di Eli Cohen, che riuscì a infiltrare i livelli più alti della difesa siriana.
   “Sì, anche Cohen era un uomo simile per origine e atteggiamento ai miei eroi. Era ebreo egiziano, nato ad Alessandria, ma la sua famiglia veniva da Aleppo, come quella di Shoshan. Ma erano passati quasi quindici anni e lui aveva un appoggio, una copertura, degli strumenti che nel ‘48-49 non c’erano affatto. Era anche di un altro livello sociale, aveva una preparazione universitaria. Rischiava però allo stesso modo e purtroppo fu catturato. Diciamo che quel Mossad per cui lavorava lui era qualcosa come un’”Alba” 2.0.”

- E oggi? I servizi segreti israeliani compiono ormai missioni diplomatiche, il direttore del Mossad va a parlare con capi di stato e di governo, come un super-diplomatico.
   “I servizi svolgono lavori politici riservati ma anche azioni segrete vere e proprie. È sempre stato così. Anche sul piano spionistico il Mossad ha avuto ancora di recente grandissimi successi. Pensi all’Iran. Ma siamo in un altro mondo rispetto a quello della mia storia.”

Che reazioni ha avuto il suo libro?
   “In Israele mi hanno scritto in tanti, molti mi hanno detto: ma lei non ha parlato di mio padre, o di mio nonno, che ha una storia bellissima, eƒarmenia l’hanno raccontata… Insomma c’è stata una bella partecipazione, molta fierezza. Negli Stati Uniti molti, anche ebrei, non sapevano nulla non solo di queste imprese, ma anche dei mizrachim in generale. Aspetto ora di vedere che cosa direte in Italia, dove il mondo mizrachi lo conoscete. Mi farebbe molto piacere venire da voi a presentare il libro, quando si potrà.”

(Shalom, 28 aprile 2021)


Pfizer e miocardite: Israele indaga

Israele sta indagando su un piccolo numero di casi di infiammazione del cuore tra le persone che sono state vaccinate con Pfizer. I funzionari sanitari hanno detto che a 62 persone su 5 milioni a cui è stato somministrato il vaccino hanno sviluppato la miocardite, una condizione caratterizzata da gonfiore del cuore. Pfizer ha dichiarato di non aver visto un'incidenza più elevata di malattia più di quanto ci si aspetterebbe normalmente nella popolazione, ma gli esperti stanno indagando per esserne sicuri. Le prime analisi suggeriscono che la condizione si verifica più frequentemente negli uomini sotto i 30 anni d'età e nelle persone a cui sono state somministrate entrambe le dosi.

(il Quotidiano, 28 aprile 2021)


Il rapporto di Human Rights Watch redatto da un propagandista anti-israeliano è falso

Per HRW, Israele commette un crimine se persegue palestinesi per il loro "attivismo" in al-Qaeda e altre organizzazioni terroristiche, mentre i palestinesi hanno il diritto legale di organizzarsi per architettare l’assassinio di ebrei.

Scrive Ben-Dror Yemini: Immaginiamo per un momento che un funzionario iraniano scriva un rapporto che condanna la Svezia per i diritti umani, o che un membro dell’estrema destra suprematista americana scriva una condanna del partito democratico degli Stati Uniti. Qualcuno prenderebbe sul serio un documento del genere? Eppure ci si aspetta che tutti prestino attenzione a A Threshold Crossed (Una soglia varcata), il nuovo rapporto che condanna Israele scritto da Omar Shakir, direttore dell’ufficio israelo-palestinese di Human Rights Watch (HRW).
    Shakir è un provocatore e un agitatore che da più di dieci anni fa propaganda contro il diritto di Israele ad esistere. In effetti, risiedeva in Israele fino a quando la Corte Suprema non gli revocò il visto di soggiorno quando venne a galla la portata delle sue attività contro l’esistenza stessa dello stato d’Israele. Gli è stato anche negato l’ingresso in Bahrain quando voleva partecipare a una conferenza della FIFA solo per convincere l’organizzazione a boicottare la nazionale di calcio israeliana. L’odio smisurato di Shakir per Israele spicca persino a confronto dell’ostilità consolidata di altri organismi che si definiscono “organizzazioni per i diritti umani”. Già nel 2010 Shakir esortava i palestinesi a lasciar perdere la rivendicazione dell’autodeterminazione e adottare invece la terminologia dell’apartheid e dei diritti universali con l’obiettivo di creare un unico stato “bi-nazionale” (ed eliminare l’unico stato ebraico al mondo). Nel 2015 ha firmato una petizione contro la visita in Israele di un gruppo di musulmani che avrebbero dovuto essere ospiti dell’Hartman Institute di Gerusalemme. Inutile dire che Shakir è un chiaro sostenitore del movimento BDS per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, un’organizzazione i cui leader non cercano nemmeno di mascherare il fatto che non si adoperano per la pace, ma per l’eliminazione di Israele....

(israele.net, 28 aprile 2021)


L’Impero Ottomano e gli Armeni: breve storia di un grande massacro

Riceviamo da un fratello in fede la segnalazione di un suo articolo su un tema tornato oggi di attualità: la strage degli Armeni. Lo presentiamo volentieri ai lettori e ne ringraziamo l’autore. NsI

di Tommaso Todaro

I più lontani cenni storici del “Paese di Ararat” e del “Regno di Ararat” si trovano nei primi libri della Bibbia, ma il termine Armenia è entrato nell’uso comune fra il II e il V secolo d.C.
Una sintetica quanto incisiva descrizione delle miserrime condizioni di quelle terre agli inizi del XIX secolo ci è offerta da Gabriel Aivarovskyi che negli Anni ’30 dell’800 dirigeva a Parigi una rivista franco-armena dal titolo La Colombe du Massis, Messager de l’Arménie definita una
«Terra misconosciuta, in gran parte deserta di popolo, devastata, ruinata del tutto. Gli abitanti vivono nella più squallida miseria, ovvero dispersi nel mondo poco meno degli Ebrei …  popolo… chiuso tra barbare genti …»
Solo a partire dalla prima metà del XIX secolo, quelle terre recondite e montuose cominciarono a destare la curiosità del mondo occidentale, ma le notizie pubblicate erano poco numerose e frammentarie.
In Italia la prima opera circostanziata sulla materia fu quella di Giuseppe Cappelletti, dedicata a Carlo Alberto e redatta sulla scorta degli scritti di P. Luca Iugigì, monaco armeno di S. Lazzaro in Venezia e di alcuni classici armeni.
Nel 1839 La Nuova Antologia pubblicò, a firma di Attilio Brunialti, un lungo e minuzioso articolo dal titolo L’Armenia e gli Armeni, molto esauriente sotto l’aspetto storico, etnografico e geo-politico.

(Nuovo Monitore Napoletano, 3 dicembre 2019)


Così quattro spie "arabe" salvarono lo Stato ebraico

Matti Friedman racconta la storia dei primi "mistaravim" che si infiltrarono cancellando la propria identità.

di Fiamma Nirenstein

Da quando tutto il mondo ha visto Fauda sullo schermo tv, i «mistaravim» sono ormai di famiglia. Sono agenti israeliani che sanno non solo l'arabo alla perfezione, ma che nel linguaggio, nel comportamento, nel gusto del cibo e nelle esclamazioni, anche parlando nel sonno, sono in tutto e per tutto capaci di arabizzarsi, appunto di «diventare come arabi».
   Mistaravim. Chi ne vuole capire lo sfondo storico, politico, filosofico, il nodo di avventura, rischio e ideologia che li riguarda può adesso leggere Spie di nessun Paese di Matti Friedman (Giuntina, in libreria dal 29). È proprio nell'avventura e nel pericolo mortale continuo e nell'eroismo che i quattro mistaravim delle origini dello Stato raccontati da Friedman si giocano tutto: la loro stessa origine familiare e sociale, il loro cuore, il più alto senso della patria ebraica e insieme del legame col mondo arabo. E, fa capire Friedman, la patria non li ha mai ringraziati né li ringrazia abbastanza: sono sempre «mizrachim», orientali, patriarcali, religiosi, in un universo la cui cultura ha il segno genetico della storia europea, anzi, di quella del socialismo. Niente racconta la loro importanza storica nella costruzione dello Stato, spesso ignorata, della loro origine e della loro espulsione dal mondo dei genitori, descritta in modo appassionato, commosso, trascinante, da Friedman, scrittore israeliano ormai famoso e innestato nell'impegno letterario tipico della narrativa israeliana nel solco di Oz, Grossman, Yeoshua... L'origine dei mistaravim è geniale, casuale e insieme azzardata come lo sono tutte le cose di Israele. Matti Friedman l'ha rimessa insieme con pazienza, prima di tutto incontrando a Tel Aviv, novantenne, uno dei protagonisti, Yitzchak Shoshan, nelle sue varie incarnazioni: Zaki Shasho, Abdul Karim... e costruendo con documenti classificati o pubblici, con racconti e con i libri di storia d'Israele, i percorsi mirabolanti del primo nucleo arabo di spie. I suoi protagonisti sono quattro ragazzini magri, affamati, coraggiosi, sionisti e di linguamadre araba, dolci ma irti di spine mortali proprio come i proverbiali sabre israeliani, i fichi d'India della terra che divenne lo Stato Ebraico nel 1948. Ma allora, loro erano già sotto copertura a Beirut e ad Aleppo, chiamati non più col nome ebraico ma con quello dell'identità araba assunta, di nuovo mangiavano la polvere in cui erano nati per carpire i segreti necessari a vincere le guerre fatali d'Israele.
   I protagonisti sono veri e subito li vediamo in fotografia: Gamliel Cohen, nato a Damasco, nel '48 ha 25 anni, è il più intellettuale, quello che ha sofferto più di tutti della discriminazione che l'élite ashkenazita ha indubbiamente praticato nei confronti della cultura mizrahi degli ebrei immigrati dai paesi arabi: gli europei erano laici, socialisti, paritari con le donne, disinvolti nei comportamenti sessuali. Questi, religiosi o almeno di ispirazione familistico-conservatrice, poco abituati a considerare alla pari il genere femminile, affezionati alla scala sociale e di sapienza dei loro Paesi d'origine. Gamliel è anche il più elegante e cauto, non vuole compiere attentati o uccidere, ma lo fa se necessario. Ed è il primo che incontriamo nel suo passaggio in veste di ragazzo palestinese a Haifa, allora ancora in mano araba, mentre rischia di essere catturato. Basta dire che sei di Gerusalemme e parlare con accento diverso, o rispondere con un riferimento geografico sbagliato, un indirizzo, un nome, una canzone...
   Già la storia si riempie di ragazzini, come i nostri quattro che vanno verso Beirut, uccisi con un colpo alla testa al primo sospetto: mistaravim improvvisati e scoperti perché sprovveduti e sfortunati, poveri ragazzi ebrei di origine araba... Le avventure cominciano subito, figlie delle difficoltà continue nel realizzare le operazioni richieste dal Centro a Tel Aviv: la solitudine è la compagna delle grandi decisioni.
   Con Gamliel troviamo Yitzhak, nato a Aleppo, occhialini tondi, una faccia da povero, 23 anni nel '48. È quello che alla fine è vissuto più a lungo e più felice. Poi c'è Havakuk Cohen, nato in Yemen, 20 nel '48, che, dopo tante imprese grandiose, sposa appena tornato a casa la donna del suo cuore e compagna di lavoro, Mira; ma nel 1951 va nel deserto, al confine della Giordania, dove qualcosa va storto e il contatto incontrato nottetempo lo uccide e lo lascia sulla sabbia. Come erano stati vicinissimi nella vita, lo segue sposando la sua donna l'altro giovane superagente Yakuba Cohen, di Gerusalemme, 23 anni nel '48, descritto come «il selvaggio» e invece talmente disciplinato verso il Paese da aver seguitato a servire in ruoli e incarichi segreti fin quando a 78 anni lo chiamano di nuovo nel 2002, tempo dell'Intifada.
   I magnifici quattro, armati e determinati, vengono inseriti nella sezione araba del Palmach, gruppo d'élite che nel nuovissimo e disperato esercito israeliano deve riuscire a salvare l'Yshuv (da cui nascerà Israele) dal pericolo non solo arabo, ma anche nazista: è il tempo dell'alleanza dello sceicco Al Husseini con Hitler, e la guerra delle forze tedesche fino a El Alamein è anche una promessa di distruzione degli ebrei intenti alla costruzione di Israele. Anche gli inglesi fanno del loro meglio per ostacolare gli ebrei, e i nostri eroi li troviamo gettati a Beirut con puntate in Siria e in Giordania, e la parola caos non descrive a sufficienza il loro stato. Non hanno ricevuto nessun training, non sanno dove vivranno, sono affamati e doloranti, il governo approfitterà genialmente della massa dei profughi palestinesi che invitata dagli arabi si scaraventa fuori dei confini israeliani, per mandarli a spiare e agire in quel magma. Non sanno bene cosa faranno, e quando saranno là avranno una terribile difficoltà ad essere informati su cosa succede a casa loro: data la passione del mondo arabo nel mostrare i muscoli, mentre durante la guerra del '48 i nemici di Israele inaspettatamente perdono, i quattro sono sommersi da spaventose notizie di sconfitta di Israele. Solo col tempo riceveranno una radio con cui mandare al comando una quantità di informazioni svariate, di ogni genere. Dovranno, sul campo, compiere operazioni spericolate e al limite dell'umano, disinformati, affamati (aprono un chiosco con panini e caramelle vicino a una scuola non per copertura, ma per sopravvivenza!), abbandonati e carichi di un forte senso di contraddizione, perché in fondo sono tornati a rivivere la loro infanzia, cui sono affezionati e che ora devono sconfiggere in nome del sionismo. Si infilano anche in storie di donne che quasi li fanno scoprire, ma la carne è debole... Dopo aver bloccato con una sanguinosa esplosione un attacco in stile libanese di un camion pieno di esplosivo, aver compiuto svariate operazioni da soli e con gli inglesi che momentaneamente, con tutte le vergogne che hanno attuato per fermare gli ebrei al tempo della Shoah dal venire in Israele, sono i loro amici contro i tedeschi, preparano persino l'esplosione di uno stravagante grande yacht corazzato di Hitler nel porto di Beirut...
   Ma quando i nostri torneranno a casa di nuovo si trovano a dover compiere una capriola cognitiva. Sono ancora israeliani? O sono diventati arabi? Certo che sono israeliani, e lo vogliono, ma il Palmach non esiste più, uno di loro viene persino arrestato perché creduto un nemico arabo, il loro mondo si ricostruisce su una identità sfilacciata e soprattutto su una quantità di giovani come loro, nati nei vicoli delle città arabe, che ci hanno lasciato la pelle.
   Il nostro autore dice due cose diverse, e io concordo con una delle due: se Israele avesse riconosciuto subito che una sua parte importante era costituita dalla cultura di origine araba, questo avrebbe limitato l'ingiustizia sociale. La seconda che Friedman sottende è che Israele lungi dall'essere un Paese coloniale, nasce da una scelta sbagliata del mondo islamico stesso, quella di aver espulso due milioni ebrei dal mondo arabo per vendetta alla nascita dello Stato, provando così che Israele è parte dell'area: se Israele avesse fatto sua questa storia, sembra suggerire Friedman, avrebbe spinto il mondo arabo a accogliere lo Stato ebraico, senza poterlo accusare di colonialismo. Ma questo, purtroppo, non è vero. Le menzogne su Israele nascono su un albero altissimo, che dà molti frutti di ogni colore, e da cui molti non scendono mai.

(il Giornale, 27 aprile 2021)


Accordi di Abramo: per le donne e gli uomini che piantano alberi

di Alessandro Saggioro

Qualche giorno fa, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, a Roma si è tenuta una piccola ma significativa cerimonia. Alla presenza della sindaca Virginia Raggi, l'Ambasciatore del Bahrain, Nasser Mohamed Yousef Al Belooshi, e l'Ambasciatore d'Israele in Italia, Dror Eydar, hanno voluto incontrarsi per piantare un albero al Bioparco. Ne ha riferito su «Shalom» il 20 aprile Ariela Piattelli, notando l'eccezionalità dell'evento, che si colloca nell'alveo degli Accordi di Abramo: l'avvio di un'iniziativa bilaterale che ha riavviato i rapporti fra i due Paesi, accendendo una scintilla di relazioni pacifiche, al contempo diplomatiche e sostanziali. Il verificarsi a Roma di un momento così simbolico mette in rilievo la necessità che le dinamiche di pace in Medio Oriente non siano un fatto regionale, di limitata portata e peso politico: non sfugge il peso degli USA di Trump nel costruire relazioni diplomatiche nell'area, così come il perdurare di situazioni di enorme difficoltà. Lo spostamento nel cuore 'mediterraneo' dell'Unione Europea serve a rilanciare e riprogrammare un'iniziativa, quella degli accordi di Abramo, che è stata apprezzata e criticata da molti e per i più diversi motivi.
   Stiamo però, intanto, al livello simbolico dell'evento romano, per poi ragionare del potenziale sostanziale che si innesta su di esso e che ne è la vera ragione di essere.
   D'altra parte, l'idea di piantare alberi è tutt'altro che peregrina e superficiale. In un lucido editoriale su «la Repubblica» di venerdì 23 aprile (p. 24), Stefano Mancuso ricorda che nelle battaglie per il clima un fattore indispensabile consiste nel cominciare dagli alberi. Solo permettendo che sempre più alberi possano assorbire CO2 si può immaginare di invertire la rotta della cosiddetta catastrofe climatica. Ma se, come è noto, a livello globale si stanno moltiplicando le iniziative per ridurre la produzione di CO2, contemporaneamente si deve tenere conto della necessità di interrompere la deforestazione e di promuovere la piantumazione estensiva. Solo con gli alberi si rende possibile un ipotetico bilancio positivo, che la sola riduzione della produzione non potrà mai garantire.
   Il nesso fra ambiente e pace è al centro di quel meraviglioso racconto metaforico, vero e proprio manifesto poetico dell'ambientalismo pacifico, che è L'uomo che piantava alberi, di Jean Giono (ed. or. 1953). In una terra inaridita dallo sfruttamento e impoverita di risorse, un solitario cinquantenne realizza un progetto che assurge alle dimensioni del mito: pianta ogni giorno cento semi e lo fa per molti anni, trasformando il paesaggio da triste e desolato in fertile e felice.
   Piantare gli alberi, allora, non significa solo ridurre la CO2 ma anche rigenerare l'ambiente a favore dell'umanità del futuro, tenendo conto degli errori del passato, cambiando da subito l'approccio alla realtà, riformulando nelle azioni concrete la sostenibilità del nostro stare nel mondo, fra l'altro standoci insieme pacificamente. La sfida è quella di garantire alle generazioni future non solo risorse adeguate, ma anche condizioni migliori di quelle che ciascuno di noi ha trovato, per poter permettere loro di fare meglio.
   Fra gli alberi più importanti da piantare ritengo vi siano quelli della formazione. Se vogliamo tradurre in azione ambientale il messaggio di Jean Giono dobbiamo piantare alberi; se vogliamo cogliere la metafora alta del pensatore francese dobbiamo capire che si tratta anche di coltivare nelle scuole e nelle università la consapevolezza e la responsabilità necessarie a far crescere la naturale predisposizione alla relazione pacifica. Qui, negli accordi di Abramo, voglio cogliere lo spunto per ragionare del moltiplicarsi delle opportunità di contatto in un mondo in trasformazione. L'accensione di relazioni diplomatiche e politiche significherà presto anche possibilità di elaborare e sviluppare progetti di collaborazione nei più diversi ambiti fra cui quello formativo e educativo. La possibilità di studiare insieme è tutt'altra cosa che lo studio semplice, perché crea l'humus per la conoscenza reale, che non è fatta solo di dati e di formule, ma anche di relazioni e di processi. L'età della pandemia ha costretto un'intera generazione allo studio solitario in casa. La futura libertà comporterà anche un profondo ripensamento e superamento di queste condizioni forzate e il rilancio di sistemi di formazione interattiva e integrata, in cui il rapporto fra docenti e discenti sia riprogrammato e di nuovo promosso come chiave indispensabile per andare incontro al futuro.
   L'Europa può dare molto a queste riflessioni e alla possibilità di costruzione. Intanto la complessità della storia europea, fatta di guerre, contrasti, persecuzioni ma anche della costruzione di un orizzonte condiviso per la realizzazione di una pace duratura dopo i conflitti mondiali che qui hanno avuto scaturigine, sta a testimoniare che tutto il mondo vive sulla strada di processi intrapresi e perfettibili. Si pensi alle riflessioni sulla libertà religiosa e sui diritti umani che si intersecano con quelle relative alla sicurezza e al benessere e che in ogni paese europeo sono al cuore stesso della vita democratica e ne sono la sfida permanente.
   Nel campo della formazione l'Unione Europea ha dato luogo a programmi di scambio di portata crescente nel tempo.
   L'Europa può dunque essere contesto di incontro primario, non esclusivo e non esaustivo, per chi viene da paesi che devono ricostruire una relazione pacifica duratura. Il contesto universitario potrà così essere anche luogo di incontro per le generazioni che guideranno il mondo di domani in una dimensione globale in cui anche il network di relazione possa essere strumento di costruzione sostenibile di una nuova dimensione globale pacifica, interattiva, operativa. Gli accordi di pace permettono, come la riduzione delle emissioni di CO2, un ridimensionamento delle cause del conflitto. Ma la riduzione da sola non basta: serve la piantumazione di nuovi alberi per mirare al riassorbimento della CO2 già in essere. E così oltre a firmare accordi di pace si deve pensare a costruire relazioni operativamente efficaci per favorire la ricostruzione complessiva di un reale mondo in convivenza pacifica.
   Se i giovani alberi seminati dal pastore Elzéard Bouffier ricordavano per contrasto a Jean Giono le vite spezzate nelle drammatiche battaglie della prima guerra mondiale cui aveva partecipato in prima persona, oggi essi possono rappresentare, in positivo e a buon diritto, le future generazioni: in un mondo diverso, in cui torni la speranza, come nella immaginaria cittadella inventata dall'autore francese, e che, con il trascorrere degli anni, «era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare» (p. 39 ed. it.).
   Il gesto dei due ambasciatori di Israele e del Bahrain di piantare insieme un albero a Roma ripercorre tradizioni antiche, rinnovate oggi nel quotidiano da tante iniziative: con l'indicazione "Semi di pace" si trovano innumerevoli progetti, associazioni, eventi che materialmente piantano alberi e rendono possibili incontri nel rispetto della memoria e nella necessità di guardare al futuro. Si pensi alla festa di Tu bi-Shevat, le cui origini si perdono nella notte dei tempi ma che è tutt'oggi vissuta e capita proprio dai bambini per il suo significato profondo, concreto, solidale, intrecciandosi con una rete di parallelismi transnazionali a livello globale. Si pensi anche all'Albero della vita, che nel cuore del deserto del Bahrain è luogo di incontro pacifico di persone di diverse comunità e fedi che vi si recano in pellegrinaggio: anche le sue origini misteriose sono difficili da rintracciare e un piccolo museo all'aperto racconta gli sforzi degli studiosi di botanica per capirne l'origine. Gli alberi dunque trasmettono messaggi, sono portatori di significati e di valori: e ci parlano della storia, così come esprimono il senso dell'incontro e della relazione.
   L'albero piantato da Dror Eydar e Nasser Mohamed Yousef Al Belooshi rappresenta allora una bella storia possibile: quella di un incontro, vissuto sul suolo romano, e qui radicato, che porta nuova linfa e respiro ad un progetto di pace che è sotto gli occhi del mondo intero.

(Shalom, 27 aprile 2021)


Il report che inchioda lo Stato ebraico. "Colpevole di apartheid e persecuzione"

di Giordano Stabile

Israele commette crimini di «apartheid» e persecuzione nei confronti dei palestinesi. A scrivere nero su bianco la parola della vergogna è Human Rights Watch, la ong internazionale con sede a New York, da quarant'anni in prima linea nella difesa dei diritti umani. Un'accusa bruciante contenuta nelle 213 pagine dell'ultimo rapporto, dal titolo «La soglia oltrepassata: autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione», che sarà diffuso oggi in tutto il mondo. Per il governo del premier incaricato Benjamin Netanyahu, alla ricerca di una maggioranza, è un colpo duro. E arriva dopo che la Corte penale internazionale dell'Aja ha deciso di aprire un'inchiesta per «crimini di guerra», in relazione soprattutto alle operazioni a Gaza del 2014. Accuse rispedite al mittente, come con tutta probabilità saranno quelle di Hrw. Resta il fatto che lo Stato ebraico è sotto il fuoco delle critiche, da ogni lato, come non accadeva da anni. Il successo nella campagna di vaccinazione contro il Covid viene messo in ombra, mentre si riaccende lo scontro su Gerusalemme.
   La «soglia oltrepassata», secondo Hrw, è quella che porta a uno Stato di apartheid e al razzismo per legge. E' la pietra tombale al sogno di «due popoli, due Stati». Secondo il rapporto la «realtà odierna è quella di un'unica autorità, il governo israeliano, che gestisce l'area dal fiume Giordano al Mediterraneo, popolata da due gruppi pressappoco delle stesse dimensioni, ma che privilegia sistematicamente gli ebrei israeliani e reprime i palestinesi». Il processo di Oslo è di fatto finito e una serie di passi hanno portato a questa realtà di un solo Stato, dove però i popoli non godono degli stessi diritti. In particolare, la legge approvata nel 2018 sullo «Stato-nazione del popolo ebraico», voluta da Netanyahu e dalla destra religiosa. Ma Hwr cita anche «il crescente corpus legislativo che privilegia gli abitanti degli insediamenti nella West Bank e che non si applica ai palestinesi che vivono nello stesso territorio», l'espansione degli insediamenti e delle vie di collegamento in una «chiara volontà di mantenere il predominio degli ebrei israeliani».
   Tutto ciò, secondo Hwr, si può ascrivere al «razzismo». Molte voci critiche, puntualizza Kenneth Roth, direttore esecutivo della ong, «hanno avvertito per anni che l'apartheid faceva capolino dietro l'angolo, se la traiettoria del governo israeliano sui palestinesi non fosse cambiata: questo studio mostra che le autorità israeliane hanno già svoltato l'angolo e oggi stanno commettendo i crimini contro l'umanità di apartheid e persecuzione». Fra gli abusi denunciati ci sono «la restrizione di movimento da Gaza», la «confisca di oltre un terzo del territorio nella West Bank», il «trasferimento forzato di migliaia di palestinesi dalle loro case», il diniego «dei diritti di residenza a centinaia di migliaia di persone», la sospensione dei «diritti civili di base» a milioni di palestinesi, specie nei Territori.
   Le autorità israeliane hanno poi adottato politiche per mitigare quello che considerano una «minaccia demografica», in particolare a Gerusalemme, con l'obiettivo dichiarato di «mantenere una solida maggioranza ebraica» e l'indicazione di precisi target. E proprio la Città Santa è di nuovo al centro di scontri fra ultraortodossi e palestinesi. A preoccupare, come sottolinea lo storico arabo-israeliano Sami Abou Shahadeh, è la presenza dei «fanatici kahanisti, aizzati dai parlamentari Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, alleati di Netanyahu», giovani estremisti che gridano «morte agli arabi».
  L'irruzione alla Knesset del movimento ultranazionalista che si ispira al rabbino newyorchese Meir Kahane è un altro segno dei tempi. Mentre sull'altro fronte regna l'immobilismo. Il presidente Abu Mazen sta per annunciare l'ennesimo rinvio delle elezioni, proprio perché non ha ricevuto garanzie sulla partecipazione degli elettori palestinesi a Gerusalemme.

(La Stampa, 27 aprile 2021)


Una sottile tecnica per diffondere sui media di mezzo mondo articoli che stravolgono completamente la realtà dei fatti consiste nel riportare le parole altrui, meglio se sono quelle di una organizzazione internazionale (nota per altro per le posizioni sempre violentemente contro Israele). Ad eventuali osservazioni Stabile potrebbe così rispondere che quelle non sono parole sue. La mancanza di qualsiasi commento nell’articolo di Stabile dimostra che oggi La Stampa, giornale che fu autorevole in anni lontani, da quando alla direzione è arrivato Massimo Giannini si è infilato nel filone del manifesto e del fatto quotidiano. Emanuele Segre Amar


Iran: un nastro audio inguaia Zarif e mostra al mondo chi comanda a Teheran

Ennesima fuga di notizie dall’Iran. Questa volta è un nastro audio nel quale il Ministro degli esteri iraniano attacca a spada tratta le Guardie Rivoluzionarie, il defunto Generale Soleimani e persino la Russia.

di Franco Londei

È una vita che sosteniamo che in Iran comandano le guardie rivoluzionarie, come uno stato nello stato agiscono sul fronte economico e su quello militare senza chiedere il permesso a nessuno.
    Non è certo quindi una novità. Ma se a dirlo è il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif la cosa assume tutto un altro significato.
    In un nastro audio trapelato non si sa come di cui parla oggi il New York Times, Zarif critica duramente il defunto Generale Qassem Soleimani, capo della potentissima Forza Quds ucciso dagli americani nel gennaio dello scorso anno.
    Il ministro degli esteri iraniano racconta che Soleimani e la Russia cercarono in più di una occasione di sabotare il primo accordo sul nucleare iraniano.
    Tra le altre cose, nel nastro Zarif critica Soleimani per aver permesso agli aerei da guerra russi di sorvolare l’Iran per bombardare la Siria, per aver spostato attrezzature militari e personale in Siria usando la compagnia aerea di proprietà statale Iran Air all’insaputa del governo e infine per aver dispiegato Forze di terra iraniane in Siria.
    Zarif ha detto che la Russia non voleva che l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) avesse successo e “ha messo tutto il suo peso” dietro la creazione di ostacoli perché non era nell’interesse di Mosca che l’Iran normalizzasse le relazioni con l’Occidente.
    A tal fine il Generale Soleimani si sarebbe recato diverse volte a Mosca per decidere con i russi come fare a demolire i risultati ottenuti sul JCPOA dalla diplomazia.
    «Nella Repubblica Islamica governa il settore militare» afferma perentoriamente Zarif nell’audio.
    Questa ultime dichiarazioni esplosive, contenute nel file audio trapelato, sono state forse quelle che più di tutti hanno spinto i tanti oppositori di Zarif a chiederne le dimissioni.

 Compromessi i negoziati per un nuovo accordo nucleare?
  In molti sostengono che dopo questa (ennesima) fuga di notizie la credibilità di Zarif sia ridotta ai minimi termini e che quindi i neonati negoziati per riprendere il vecchio JCPOA siano falliti prima ancora di cominciare.
    A beneficiarne per motivi diversi sarebbero i Guardiani della Rivoluzione Islamica, che non vogliono accordi che rallentino la loro corsa all’arma nucleare, e Israele che considera qualsiasi accordo un modo per gli iraniani di guadagnare tempo e arrivare così all’arma atomica.
    Al di la delle conseguenze interne di questa ennesima fuga di notizie in Iran, quello che appare chiaro è che la Repubblica Islamica è totalmente nelle mani delle Guardie Rivoluzionarie, sia a livello politico che a livello militare.
    Quello che dice il Ministro degli esteri iraniano non è niente che possa sorprendere, ma il fatto davvero straordinario è che sia un personaggio così importante come Zarif a dirlo.
    Il nastro fatto trapelare contiene una serie di accuse alle Guardie Rivoluzionarie davvero al limite dell’incredibile e dimostra quanto potere abbiano i pasdaran.
    L’ex vice-presidente iraniano Mohammad Ali Abtahi ha paragonato, come gravità, questo nastro al furto di documenti segreti sul nucleare perpetrato a Teheran dal Mossad.

(Rights Reporter, 27 aprile 2021)


Come ti smonto i cliché antiebraici

Un saggio che ribalta i luoghi comuni

di Susanna Nirenstein

Gli interrogativi che pone la Shoah sono ancora molti, scrive Georges Bensoussan nel suo L’eredità di Auschwitz (Einaudi). Quello che è certo è che non sia stata l’incarnazione di un male assoluto e folle, che vi sia una linea di continuità tra l’antigiudaismo cristiano e la cesura della civiltà europea rappresentata dall’annientamento nazista, l’antisemitismo di matrice comunista, l’antica idea di inferiorità ebraica dell’islam e la minaccia iraniana di distruggere Israele. Dalle parole scaturiscono fatti, e le parole (e i fatti) dell’avversione per gli ebrei si aggirano ancora tra noi e sono in netta crescita: se nell’Europa fuori dall’Italia il fenomeno è culminato recentemente in aggressioni e terrorismo, anche nella Penisola è in aumento.
    Da questa presa d’atto e dalla volontà di rispondere alle falsità antisemite che generano odio nasce L’ebreo inventato. Luoghi comuni, pregiudizi, stereotipi , edito da Giuntina, a cura di Saul Meghnagi e Raffaella Di Castro, un arazzo tessuto dagli interventi dei curatori e di Gadi Luzzatto Voghera, Roberto Della Rocca, Daniele Garrone, Riccardo Di Segni, Livia Ottolenghi, David Bidussa, Claudio Vercelli, Fiona Diwan, Davide Jona Falco. Il filo rosso che attraversa tutta la trama non mira tanto a rispondere, con frasi concise e semplici, ad accuse poco legate alla realtà storica e tutt’al più estrapolate da elementi manipolati della tradizione (siete diversi; vi considerate il popolo eletto, superiori; il vostro è un Dio della vendetta, il nostro dell’amore; avete ucciso Gesù; avete usanze barbare, come la circoncisione; siete avari; siete chiusi; ci date di antisemiti se siamo antisionisti; gli israeliani fanno ai palestinesi quel che i nazisti facevano agli ebrei; gli ebrei, prima della nascita di Israele, nei paesi arabi stavano benissimo; vi sentite più ebrei che italiani), ma a smontare questi cliché ricorrenti attraverso il percorso della conoscenza, e dunque ricapitolando cosa c’è davvero nelle vicissitudini e nei testi ebraici. Partiamo comunque dai dati: in Italia l’11% della popolazione dalle ultime ricerche viene identificato come antisemita “pura”, ovvero persone che rispondono in maniera sistematica negativamente a tutte le questioni che riguardano ebrei, Israele, Shoah; il 33% viene invece identificato come “ambivalente”, ovvero con pregiudizi solo su alcuni temi: dunque il 44% degli italiani ha evidenti preconcetti antisemiti. Tanti. Se poi ci si aggiunge che nel 2019 su Twitter sono stati registrati 63.724 tweet relativi agli ebrei e di questi 44.448 valutati come ostili, non c’è davvero da pensare ai soliti confortevoli “italiani brava gente”.
    Nel libro c’è in varie voci la storia degli ebrei, il loro rapporto con la nazionalità e il luogo di residenza, o quello con Israele. Particolarmente commoventi e appassionati i brani che rivendicano l’amore e la compassione del Dio d’Israele scritti da Roberto Della Rocca e in un altro capitolo da Raffaella Di Castro: dalla lettura di queste pagine appare chiaro come l’“elezione del popolo di Israele” non abbia nulla a che fare con una presunta convinzione di superiorità, e quanto sia condizionata viceversa solo da un comportamento coerente con i dettami della Torà, e ad azioni meritevoli nei confronti dello straniero, dei più deboli, contesto in cui Dio chiede all’ebreo del patto di essere “santo”. Interessanti e esaustivi anche i capitoli sugli ebrei visti come popolo deicida, sull’avarizia e l’usura, sulla convivenza nei paesi islamici. Un libro da leggere concentrati.

(la Repubblica, 27 aprile 2021)


Quel milione di fantasmi armeni ostaggio della realpolitik e dello choc di civiltà

di Giulio Meotti

ROMA - “I dati dicono che ritorneremo sotto la Mezzaluna o la Russia. Noi viviamo perché i Russi ci lasciano vivere in cambio della sudditanza geopolitica e ideologica, statale ed ecclesiale”. Ci parla così Zhirajr, un armeno che vive in Francia. E non si può non comprendere quanto sia stato storico il gesto dell’Amministrazione Biden di riconoscere il genocidio di un milione e mezzo di armeni, il “Grande Male” come lo chiamano i superstiti della campagna di pulizia etnico-religiosa condotta dai Giovani turchi. Un genocidio ostaggio della storia e della realpolitik.
   L’America non poteva lasciare la questione armena allo storico padre-padrone russo, ricordando che fu Henri Morgenthau, ambasciatore americano a Costantinopoli dal 1913 al 1916, a far conoscere al mondo quanto avveniva, gli armeni annegati e gettati nei burroni, il massacro di madri e figli nel cortile della scuola tedesca di Aleppo, gli orfani buttati nei fiumi…
   Tutti i paesi europei hanno riconosciuto il genocidio e Papa Francesco è stato il primo pontefice a parlare di genocidio. “Il trauma del genocidio è uno dei pilastri dell’identità armena”, ha detto ieri al Wall Street Journal Benyamin Poghosyan, presidente del Center for Political and Economic Strategic Studies di Yerevan. I nonni di Poghosyan sono sopravvissuti al massacro, ma hanno perso tutti i parenti stretti.
   La Turchia non lo riconoscerà mai, perché la moderna Turchia post Califfato fu costruita su quel peccato originale, la distruzione degli armeni, ma anche degli assiri e dei greci del Ponto. Un popolo ostaggio dello choc di civiltà. “Il Nagorno-Karabakh sta nuovamente diventando un paese dell’islam e riprende il suo posto sereno all’ombra della Mezzaluna”, ha detto il presidente turco Erdogan dopo la vittoria azera contro gli armeni dell’Artsakh, l’autoproclamatosi Repubblica armena che azeri e turchi hanno smembrato lo scorso autunno in una guerra di aggressione. Un disastro demografico, se pensiamo a cinquemila soldati uccisi, quasi tutti ventenni, in una popolazione di tre milioni e in forte declino demografico, che riporta i superstiti sotto l’ombra del “Grande Male”.
   Israele, che con gli armeni ha un destino comune di perseguitati, di popolo-diaspora e di stato circondato da nemici, nell’ultima guerra ha armato gli azeri in chiave anti-Iran e non ha mai riconosciuto il genocidio armeno, sebbene siano ebraiche le prime testimonianze letterarie del genocidio (il romanzo “I quaranta giorni del Mussa Dagh” di Franz Werfel) e lo stesso Hitler, nel pianificare la Shoah, dirà: “Chi si ricorda degli armeni?”. Ed erano passati appena venticinque anni.
   “E’ tempo che America e Israele riconoscano il genocidio armeno”, scriveva a fine marzo sul giornale israeliano Jerusalem Post Emily Schader del Tel Aviv Institute. “In una mancanza moralmente imperdonabile, Israele e molte altre nazioni hanno fallito o addirittura rifiutato di riconoscere il genocidio armeno commesso dai turchi ottomani contro i cristiani armeni. Mentre in Germania il negazionismo dell’Olocausto è illegale, in Turchia è illegale affermare il genocidio armeno e il mondo intero è complice nel permetterlo. Il momento del riconoscimento è adesso”.
   La Germania – che fu già complice del genocidio del 1915 perpetrato dall’alleato ottomano – oggi è equidistante dall’Armenia. Il Regno Unito ha cercato di riallacciarsi al “Grande Gioco” utilizzando l’“ariete turco” in chiave anti russa. La Francia è l’unico paese dove la questione armena ha un peso storico, politico e culturale dirimente. E così, un secolo dopo, mentre l’Armenia si lecca le ferite di una nuova guerra, mentre assiste alla cancellazione del proprio patrimonio storico e cristiano finito in mani azere, il “Grande Male” continua a essere il pegno di quella “soluzione finale” del primo popolo cristiano della storia che i turchi non riuscirono, per fortuna, a portare a termine.

(Il Foglio, 27 aprile 2021)


Per ricordare la conferenza del 1920 è stata inaugurata a Netanya 'Piazza Sanremo’

Sulle note di ‘Che sarà’ dei Ricchi e Poveri ma soprattutto degli inni nazionali italiano e israeliano, ieri sera la cerimonia si è svolta alla presenza del Sindaco di Netanya, Miriam Feirberg Ikar e dell’Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti.

Si svolgerà mercoledì prossimo al Castello Devachan di corso Inglesi, la cerimonia per il centenario della ‘Conferenza di Sanremo’ che vuole ricordare l’incontro internazionale del Consiglio supremo di guerra alleato che si tenne nella località costiera italiana di Sanremo nel Castello Devachan, tra il 19 e il 26 aprile 1920.
   Alla conferenza parteciparono i rappresentanti delle quattro nazioni vincitrici della prima guerra mondiale, il primo ministro britannico David Lloyd George, il primo ministro francese Alexandre Millerand, il presidente del Consiglio italiano Francesco Nitti e l'ambasciatore giapponese Keishirō Matsui. Nella riunione si determinarono i mandati che queste nazioni avrebbero assunto nei confronti dei territori derivanti dalla spartizione dell'Impero ottomano nel Vicino Oriente. La cerimonia si svolge in ritardo di un anno a causa del lockdown del 2020 e vedrà la presenza, nella città dei fiori, dell’Ambasciatore d’Israele in Italia Dror Eydar. A ricevere l’Ambasciatore, il Sindaco di Sanremo Alberto Biancheri.
    Intanto, ieri sera in Israele, si è svolta una cerimonia che ha dato lustro a Sanremo e alla sua conferenza del 1920. A Netanya, capitale della circostante pianura di Sharon a 30 km a nord di Tel Aviv e 56 km a sud di Haifa, è stata infatti inaugurata ‘Piazza Sanremo’, proprio per ricordare la conferenza del 1920. Sulle note di ‘Che sarà’ dei Ricchi e Poveri ma soprattutto degli inni nazionali italiano e israeliano (e con il contorno di altre canzoni italiane), ieri sera la cerimonia si è svolta alla presenza del Sindaco di Netanya, Miriam Feirberg Ikar e dell’Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti.
   Nel corso della cerimonia è stata ricordata Sanremo ed è anche stato salutato dal Sindaco di Netanya il suo collega italiano, Alberto Biancheri. Nella nuova piazza intitolata alla città ponentina, campeggia da ieri una aiuola piena di fiori ed una scritta 'Sanremo' su una sorta di mongolfiera, sovrastata da un tricolore illuminato. Intanto, mercoledì nel corso delle celebrazioni nella città dei fiori, verrà anche scoperta la targa realizzata a memoria di quell’incontro che rappresenta una pagina memorabile nella storia delle relazioni internazionali e le cui decisioni diedero vita allo Stato ebraico.

(SanremoNews, 26 aprile 2021)


Fatah e Hamas. Altro che Israele, i palestinesi si spiano tra loro

di Fabio Scuto

Fatah e Hamas si fanno la guerra, ma stavolta invece che mettere mano al kalashnikov hanno messo in azione le tastiere dei computer. Facebook ha disabilitato gli account utilizzati dal Preventive Security Service - l'intelligence interna dell'Autorità Palestinese - usati per spiare giornalisti, attivisti per i diritti umani e oppositori politici in Cisgiordania, Gaza, Siria e, in misura minore in Turchia, Iraq, Libano e Libia. Il gigante dei social media ha anche bloccato operazioni di spionaggio "politicamente motivate" da parte di un gruppo con base a Gaza e affiliato ad Hamas, il partito che governa la Striscia dal 2007. Con le elezioni amministrative palestinesi fissate per il prossimo mese - le prime dopo 16 anni - le due principali componenti della politica palestinese si stanno sfidando senza esclusione di colpi, al punto che quasi certamente anche questa volta il voto verrà posticipato in una data da destinarsi.
    Operando dalla Cisgiordania, gli agenti della sicurezza palestinesi hanno utilizzato "malware a bassa sofisticazione mascherato da applicazioni di chat sicure" per infiltrarsi nei dispositivi Android e raccogliere informazioni da essi, inclusi "registri delle chiamate, posizione, contatti e sms". Il PSS aveva anche creato una falsa App dove i giornalisti erano invitati a presentare articoli relativi ai diritti umani per la pubblicazione. Il servizio di intelligence ha poi utilizzato falsi account spacciandosi per giovani donne "sostenitrici di Hamas, Fatah, vari gruppi militari, giornalisti e attivisti" per creare un clima di fiducia con le persone prese di mira e indurle così a installare software dannoso. Operazioni di spionaggio informatico sono state lanciate da Gaza dal gruppo Arid Viper contro altri palestinesi, soprattutto persone associate a gruppi pro-Fatah, organizzazioni governative palestinesi, personale militare e della sicurezza, gruppi di studenti in Cisgiordania. Il gruppo ha utilizzato oltre un centinaio di siti web che ospitavano malware per IOS e Android per rubare le credenziali. Facebook ha rimosso gli account affiliati sia al PSS che a Arid Viper, bloccato i domini associati alla loro attività, ma è inevitabile: presto ne verranno creati altri.

(il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2021)


Scontri a Gerusalemme, sale la tensione in Israele

di Sharon Nizza

GERUSALEMME – Un vortice di eventi partito da Gerusalemme si è propagato fino alla Striscia di Gaza nei giorni scorsi aumentando la tensione tra israeliani e palestinesi. Nella notte di venerdì, sono stati lanciati 36 razzi verso le cittadine israeliane al confine con la Striscia – in parte intercettati dal sistema Iron Dome - provocando la reazione dell’aviazione israeliana che ha colpito postazioni militari di Hamas, considerata responsabile dei lanci da Gaza. Sabato il capo di Stato maggiore Aviv Kohavi ha annullato in extremis un’attesa missione negli Stati Uniti, dove si sarebbe dovuto recare oggi a parlare di nucleare iraniano (sono invece partiti il capo del Mossad Yossi Cohen e quello della Sicurezza Nazionale Meir Ben Shabbat).
   A innescare il ciclo della violenza, una serie di episodi a Gerusalemme che ha portato a scontri accesi tra la polizia, giovani palestinesi ed ebrei appartenenti all’estrema destra nel corso della settimana scorsa. La scintilla è stato il transennamento dell’area di fronte alla Porta di Damasco in città vecchia, uno dei luoghi di ritrovo più popolari per la popolazione palestinese locale, in particolare nei giorni del Ramadan. La polizia sostiene che si tratti di misure standard, necessarie a garantire il passaggio ordinato delle migliaia di fedeli che si recano alla Moschea di Al Aqsa, ma non si ha memoria di tali restrizioni nel passato. Poi la settimana scorsa alcuni video virali di giovani palestinesi che aggrediscono ebrei osservanti, parte di un nuovo trend di bullismo su Tiktok, hanno portato giovedì a una manifestazione promossa dall’organizzazione di estrema destra Lahava, degenerata in cori “morte agli arabi”. Le serate dell’Iftar, il pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, sono diventate momento di scontri pesanti tra polizia e manifestanti, con scene di guerriglia urbana cui non si assisteva da anni a Gerusalemme e numerosi arresti e feriti.
   La nottata di lanci da Gaza ha portato sabato a una riunione di emergenza dei vertici politici e di sicurezza che è uscita con un messaggio chiaro, sottolineato dal Capo di Stato maggiore e frutto della mediazione egiziana con Hamas: al silenzio si risponderà con il silenzio. Il fatto che sabato sera siano stati lanciati altri quattro razzi dalla Striscia di Gaza, intercettati o caduti in aree disabitate, senza che vi sia stata una risposta israeliana, è indicativo di quanto poco interesse vi sia a un’escalation. Nel frattempo, il sindaco di Gerusalemme Moshè Lion ha convocato un tavolo di dialogo con i rappresentanti dei quartieri della città appartenenti alle diverse confessioni religiose, in un tentativo di ripristinare la calma.
   La tensione di questi giorni va inquadrata anche nell'ambito di un altro scenario, ossia l'imminente possibilità che le elezioni legislative palestinesi – previste per il 22 maggio – vengano posticipate a data da definirsi. Da una settimana infatti si fanno sempre più insistenti voci secondo cui il presidente Abu Mazen potrebbe annunciare a breve un rinvio delle elezioni, temendo una disfatta a causa della frammentazione interna con cui il suo partito, Fatah, si presenta al primo appuntamento elettorale dopo 15 anni. Un’ipotesi assolutamente respinta da Hamas, che si presenta invece con un fronte unitario e mira a rafforzare la propria presa sulla Cisgiordania, oltre a quella che dal 2007 ha sulla Striscia di Gaza da cui ha epurato i rivali di Fatah. È proprio sul voto a Gerusalemme che la partita delle elezioni potrebbe sfumare: i palestinesi puntano il dito contro Israele che impedirebbe il voto ai palestinesi di Gerusalemme Est (anche se finora non ha espresso nessuna posizione ufficiale in merito, ma tra gli analisti israeliani è opinione comune che, per preservare lo statu quo, Israele potrebbe venire in aiuto ad Abu Mazen, fornendogli la scusa per il rinvio).
   Hamas presenta un’equazione: disordini a Gerusalemme significano instabilità anche nel Sud d’Israele. Al contempo un messaggio di propaganda elettorale per i palestinesi e di allerta per Israele. Tra Covid, crisi economica, situazione politica in bilico per entrambi – Netanyahu non è ancora riuscito a formare un governo dopo le quarte elezioni in due anni – gli esperti osservano come non sia interesse di nessuna delle parti a infiammare ulteriormente il quadro. Ma la tensione rimane alta e che gli eventi sfuggano al controllo della realpolitik rimane una possibilità sempre concreta.

(la Repubblica, 26 aprile 2021)


Abusava di cannabis». Salvo dal processo l'assassino antisemita

Uccise la vicina ebrea al grido «Allah è grande». Ma non finirà alla sbarra. Esplode la protesta

di Francesco De Remigis

È scontro diretto tra l'opinione pubblica francese e la magistratura. Ieri decine di piazze si sono riempite in tutto l'Esagono. Manifestazioni pacifiche contro la decisione della Corte di Cassazione che ha confermato una delle più controverse letture dei fatti degli ultimi anni: quelli relativi all'omicidio della pensionata ebrea Sarah Halimi, 65 anni, picchiata selvaggiamente da un vicino di casa il 4 aprile 2017 e infine scaraventata dalla finestra per motivi religiosi.
    Ritenuto «colpevole» dai giudici, ma «penalmente irresponsabile», Kobili Traoré non sarà processato. Perché 3 perizie e 7 esperti concludono che, al momento dei fatti, «era sotto l'effetto di un episodio psicotico acuto». Causa: abuso di cannabis. La Francia insorge dopo il sigillo della suprema corte, che il 14 aprile ha confermato una sorta di infermità mentale momentanea, generata dagli stupefacenti. Pur riconoscendo il carattere antisemita dell'azione, e nonostante la fedina penale del killer lunga due pagine (senza episodi di rilevanza psichiatrica prima dell'omicidio), tutto viene messo nel calderone del delirio da abuso di droga.
    Comitati cittadini e rappresentanti della comunità ebraica contestano il «No» al processo per il 27enne musulmano, perché, mentre infieriva, gridava «Allah Akbar» («Allah è grande»). La sorella della vittima sta provando a intraprendere un'azione legale in Israele, per portare a processo Traoré al di fuori dell'Esagono. E mentre si attende un pronunciamento della Corte europea dei diritti dell'uomo, in 22mila ieri a Parigi si sono uniti attorno allo slogan «Senza giustizia, non esiste la Repubblica»; in migliaia davanti al tribunale di Marsiglia. Poi a Strasburgo, Nizza, Bordeaux, Montpellier. Decine di cortei in venti città d'Europa, Roma compresa e pure a Tel Aviv, per chiedere alle ambasciate «verità e giustizia» per Sarah; ed evitare che si ripetano azioni simili senza conseguenze.
    «Decidere di assumere stupefacenti e poi "impazzire" non dovrebbe rimuovere la responsabilità penale», ha detto Emmanuel Macron a Le Figaro. «Vorrei al più presto una modifica alla legge»; in consiglio dei ministri arriverà il 25 maggio provando a colmare la vergogna di un dramma nella tragedia.
    In una specie di Arancia Meccanica in salsa antisemita, Traoré prima aggredisce la vittima nel sonno. Poi il musulmano in preda al «delirio» la copre di insulti e, non domo, la getta dalla finestra. «Ho ucciso il demonio». L'uomo viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, dove vive da 4 anni. Gli specialisti ritengono la sua capacità di discernimento annullata dalla marijuana: «Poteva arrivare fino a 15 spinelli al giorno». Per la legge francese, ciò comporta un'assenza di responsabilità complessiva. L'articolo 122-1 è in chiaroscuro: chi è sotto gli effetti di un disturbo psichico o neuropsichico, tale da abolire il controllo delle azioni, non è penalmente responsabile.
    La sindaca di Parigi. Anne Hidalgo, ieri al Trocadéro, annuncia l'intitolazione di una strada alla 65enne. Dalle piazze, la palla è già nel campo della politica. «Se si riconosce l'irresponsabilità dell'assassino, si ammette l'impunità di fatto di chi assume sostanze illecite», tuona l'avvocato dei figli della donna. Il fratello di Sarah parla di «errore giudiziario, non diventi un affaire Dreyfus». Macron assicura modifiche al codice penale. Ma ieri, di fronte a una Francia indignata, è intervenuto anche il Consiglio superiore della magistratura per difendere le toghe: «L'istituzione giudiziaria deve poter continuare a giudicare, libera da pressioni, con completa indipendenza e imparzialità».

(il Giornale, 26 aprile 2021)


Napoleone oltre il mito. Intervista a Riccardo Calimani

di Daniele Toscano

“Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza” chiedeva Alessandro Manzoni nella nota poesia “Il 5 maggio” in riferimento a Napoleone Bonaparte. Eppure la “sentenza” ancora non è stata ben definita, tanto che dall’inizio dell’anno in Francia si discute dell’opportunità o meno di celebrare il bicentenario della morte di Napoleone che ricorre il prossimo 5 maggio. Da una parte, gli sono stati rivolti epiteti come misogino, schiavista, genocida, icona del suprematismo bianco; dall’altra, viene considerato un paladino dei diritti, dell’Europa contemporanea, dei valori risorgimentali. La decisione finale di Emmanuel Macron è stata di voler celebrare l’anniversario, ma le diverse tesi continuano a contrapporsi. Un dibattito che coinvolge anche il mondo ebraico, che con Napoleone ha vissuto il passaggio di un’epoca. 
   ““Le valutazioni su Napoleone sono molteplici e non possono prescindere da una distinzione tra un approccio generale e una visione ebraico-centrica” riferisce a Shalom Riccardo Calimani, storico dell’ebraismo italiano ed europeo. Il punto di partenza che suggerisce è che non si possa estrapolare nessun personaggio dal proprio contesto storico.  ““Napoleone è stato tanto un abilissimo condottiero, quanto un personaggio spregiudicato dal punto di vista morale, una dimensione che come ebreo non posso trascurare: in quanto tale, considero i conquistatori, gli uomini soli al comando come pericolosissimi”.
   Il ragionamento di Calimani si sviluppa tra analisi storica e riflessione morale: propone una valutazione a 360° di Bonaparte e coniuga le diverse vicende con la dimensione ebraica. “ “Napoleone aveva grandi capacità intellettuali e militari, ma mancava di una forte etica, elemento che dal punto di vista ebraico è molto rilevante nel connotare le doti umane, in particolare proprio l’uomo di governo. Ha cavalcato la retorica della rivoluzione francese e l’ha usata per portare avanti le sue conquiste: irradiava i principi di “Liberté, Égalité, Fraternité” come una forza dirompente nei Paesi governati da regimi opprimenti, ma era un mito di facciata. Con la coscienza critica che si può avere oggi, possiamo contestualizzare meglio i fatti e dare una valutazione meno impulsiva”.
   Il rapporto su Napoleone e gli ebrei si presenta ricco di spunti. Francis Kalifat, il Presidente eletto del Conseil Représentatif des Institutions juives de France – CRIF, ha dichiarato a Shalom che Napoleone per gli ebrei francesi ““resta colui che ha dato loro la possibilità di ottenere i diritti civili, sulla scia delle innovazioni garantite dalla rivoluzione francese. Gli ebrei guardano gli aspetti positivi legati alla loro emancipazione. Senza contare che la Francia vive ancora sulle basi giuridiche impostate da Napoleone”.
   
Effettivamente l’impatto di Napoleone sulla popolazione ebraica francese è stato molto positivo, a partire proprio dal prosieguo che ha garantito al processo di emancipazione avviato con la rivoluzione francese, a cui aggiunge la convocazione del “Grand Sanhédrin” (1806-1807), che rappresenta l’istituzionalizzazione dell’ebraismo nazionale. Ma non solo: grazie al suo intervento, nel 1797, è stato aperto il ghetto di Venezia (la città di Calimani), in vigore dal 1516; inoltre, nella sua campagna in Medio Oriente, proclamò ““la Palestina unica nazione degli ebrei che sono stati privati della terra dei loro padri da millenni di bramosia di conquista e di tirannia”, tanto da portare Jacques Attali a definirlo un sionista ante litteram.
   Ma questi provvedimenti devono comunque essere indagati più a fondo. ““L’apertura del ghetto di Venezia e il Sinedrio di Parigi costituiscono due punti assai eloquenti – sottolinea Calimani – il primo lo fa apparire come un liberatore, ma l’apertura era semplicemente un effetto collaterale contingente della conquista della Repubblica di Venezia, che cessava la sua esistenza plurisecolare; la convocazione del sinedrio parigino invece era strumentale e serviva per irreggimentare gli ebrei nella sua politica di potenza”.
   E le presunte posizioni “proto-sioniste”? “Anche le aperture a uno stato ebraico in Palestina lasciano intuire il desiderio di estendere la longa manus della sua influenza: Napoleone non avrebbe fatto nulla se non fosse stato a suo vantaggio. La sua spregiudicatezza lo portava a ragionare solo nell’ottica del successo, sprezzante delle vite altrui, che invece costituiscono un necessario punto di riferimento per l’ebraismo”.
   Una serie di riflessioni che impongono un approccio distaccato e razionale. Non si possono negare le svolte incentivate da Napoleone, che hanno migliorato la vita degli ebrei di diverse aree europee, ma non vanno neppure dimenticate le contingenze che le hanno favorite: Bonaparte ha garantito una brusca accelerazione nel rompere gli equilibri preesistenti, ma bisogna distinguere un’autentica simpatia da una strumentalizzazione. ““Proprio perché non siamo idolatri, non dobbiamo farci abbagliare dal mito – conclude Calimani – “È invece opportuno ragionare sul particolare contesto storico in cui Napoleone si è inserito, favorendo pure significativi progressi”.

(Shalom, 26 aprile 2021)


Asher e gli eroi della Brigata: “Fieri di avervi liberati”

“Abbiamo dato agli italiani la possibilità di essere liberi. E siamo contenti di questo”. Sono le semplici parole dietro cui si celava il grande cuore di Asher Dishon, ex soldato della Brigata Ebraica recentemente scomparso all’età di 97 anni. Dishon era nato nel 1923 a Vienna e si era trasferito 15enne in un kibbutz nell’allora Palestina mandataria, il futuro Stato di Israele. Da soldato della Brigata era stato protagonista nella battaglia sul fiume Senio, decisiva ai fini dello sfondamento delle linee tedesche. Più volte avrebbe visitato il cimitero alleato di Piangipane dove riposano alcuni membri di quell’eroico gruppo combattente composto di circa 5mila volontari. Nel 2015, in visita in Israele, l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi volle incontrarlo. A lui si riferì nel suo discorso alla Knesset: “Senza gente come voi – gli disse – l’Italia non ci sarebbe stata”. Nel 2018 Dishon, insieme ad altri reduci, era stato insignito della medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza conferita in precedenza dal Parlamento italiano.

(moked, 25 aprile 2021)


25 aprile, così la Brigata Ebraica liberò ebrei e italiani. Parla Dureghello

La storia ci insegna che non bisogna mai perdere la speranza, avere fiducia. Ma non nel lavoro degli altri, bensì nella parte di lavoro che ciascuno di noi può fare”. Conversazione con Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma, sul giorno della Liberazione, il ruolo della Brigata Ebraica nella resistenza e l’esempio di Israele nella lotta al Covid.

di Rossana Miranda

Il 25 aprile, anniversario della liberazione dell’Italia dall’incubo nazi-fascista, è una data importante anche per gli ebrei italiani e per gli ebrei romani in particolare. È la data che segna la fine della pagina più buia della storia del ‘900 e della storia del popolo ebraico, e l’impegno di una resistenza attiva che è stata decisiva per il ritorno alla libertà.
    Come ricorda in una conversazione con Formiche.net Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma, la Festa della Liberazione ha un significato importante non soltanto per gli ebrei, che hanno subito nella propria pelle la devastazione di un odio disumano, ingiustificato e terribile, ma per tutto il popolo italiano, che ha patito grandissima sofferenza e gravi perdite durante la Seconda Guerra Mondiale.
    “Una resistenza alla quale anche gli ebrei romani hanno partecipato attivamente – sottolinea Dureghello -. Questa è l’occasione di ricordare che gli ebrei non furono soltanto vittime, anzi, si batterono insieme ai loro compagni, non ebrei, per i valori di democrazia e libertà nei quali poi ci siamo riconosciuti sotto la Costituzione”

 Il ruolo della Brigata Ebraica
  Importante e decisivo il contributo della Brigata Ebraica, come spiega la presidente della Comunità Ebraica di Roma: “Un’orda di uomini, alcuni dei quali erano fuggiti alle deportazioni, che dalla allora Palestina mandataria, oggi Israele, si unirono all’esercito inglese per venire a combattere in Italia e in Europa contro il nemico nazifascista. Non fu una scelta banale né tanto meno scontata. Molti di loro persero la vita, in particolar modo nel fronte dell’Emilia Romagna, per sfondare l’esercito tedesco che si stava ritirando e sconfiggere definitivamente il fascismo”.
    Fra tutti, indimenticabile Enzo Sereni, nato a Roma, molto attivo nella vita comunitaria e nella politica: “Scappò nell’allora Palestina, oggi Israele, per sfuggire alle persecuzioni fasciste, le leggi razziali e le deportazioni. Si arruolò nella Brigata Ebraica per tornare a combattere in Italia. Morì nel campo di sterminio. Un esempio unico, che non può essere dimenticato né confuso con scelte che fecero altri, schierandosi dalla parte opposta”.
    L’anniversario della Liberazione d’Italia è un momento per ricordare chi ha sacrificato la propria vita nella battaglia contro il nemico oppressore, per rendere onore alla Brigata Ebraica e gli ebrei italiani che hanno combattuto la resistenza. “Altri hanno fatto scelte diverse – ricorda Dureghello –, che non possono essere ricondotte alla Festa della liberazione. Finché l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani non avrà ben chiaro i valori intorno ai quali ci vogliamo riunire, resteremo molto distanti. Non ammettiamo che si possa difendere la causa di terroristi o sostenere che si debbano liberare dalle carceri israeliane chi si è macchiato di crimini terribili. Noi continueremo a sfilare sotto la bandiera con la stella di Davide, che era la bandiera in cui si riconosceva anche la Brigata Ebraica. Nessuno può impedircelo e su questo non scenderemo mai a compromessi”.

 L’esempio di Israele
  Sul modello di Israele nella gestione della pandemia e la campagna vaccinale, Dureghello ha fatto scuola: “Innanzitutto, un grande investimento nella ricerca scientifica e tecnologica. Il fatto che questo investimento sia destinato a garantire il miglioramento della qualità della vita, all’interno di una società democratica, multietnica, multiculturale, multireligiosa, che accoglie e rispetta la propria popolazione, qualunque siano le caratteristiche. E affronta le difficoltà in modo unito. Al di là di chi sia alla guida politica del Paese, credo che la grande forza è quella coesione. Di fronte ad un grande nemico comune, com’è il virus, il Paese si riunisce e procede unanimemente verso una direzione”. Un modello con una visione di lungo periodo con la vita e il benessere dei cittadini al centro.
    Anche se è impossibile fare un confronto tra le due situazioni, c’è qualche lezione da imparare dal passato. Per Dureghello la storia ci insegna che serve “uscire dalla sfera individuale, dei nostri personali bisogni, ritrovare nella comunità una responsabilità collettiva e solidale, battersi per salvare le vite di altri, riconoscendosi all’interno di valori comuni, che partono dalla tutela della vita della salute del bene dell’altro e del rispetto reciproco. Questo sarebbe un primo passo per affrontare le sfide di questo tempo”.
    La presidente invita ad “impegnarsi per non perdere quel patrimonio che i nostri nonni ci hanno lasciato. Nonni che hanno saputo resistere e combattere un nemico ben più terribile e che l’hanno fatto lasciando a noi un’eredità significativa, che è la vita e l’umanità che vogliamo condividere. Fermo restando che le due situazioni non sono paragonabili, c’è però anche in questo caso una resistenza da mettere in campo, una resistenza attiva, fatta di senso di responsabilità, di comportamenti corretti e di rispetto degli altri”. “La storia – conclude – ci insegna che non bisogna mai perdere la speranza, avere fiducia. Ma non nel lavoro degli altri, bensì nella parte di lavoro che ciascuno di noi può fare”.

(Formiche.net, 25 aprile 2021)


Israele: trovata un'iscrizione alfabetica di 3,450 anni fa che riscriverebbe la storia

La più antica iscrizione alfabetica, mai scoperta, risale a ben 3.450 anni fa che colmerebbe ”il vuoto” della trasmissione della scrittura.

di Angelo Perrone

Un team di archeologi dell’Istituto di Archeologia dell’Università Ebraica di Gerusalemme ha realizzato una scoperta a dir poco eccezionale: un frammento di una ciotola nel sito di Tel Lachish, con un’ iscrizione alfabetica ritenuta una delle più antiche mai ritrovate. Il sito archeologico di Lachish, nel centro sud di Israele, è uno dei più rilevanti nel Levante meridionale, area comprendente l’odierno Israele, il Libano e la Palestina, per quanto riguarda l’età del bronzo e la successiva del ferro. Ma perché questo piccolo frammento riveste un ruolo così importante nella ricostruzione dell’origine della scrittura? A spiegarlo è Felix Höflmayer, uno dei ricercatori autore della scoperta, che sottolinea come le prime prove di scrittura, basata su sistema di lettere che rappresentano i suoni, vennero scoperte nella penisola del Sinai e nella Valle del Nilo. Si tratta di testi risalenti a circa 3.900 anni fa. Fino ad oggi era comunemente accettato che i simboli alfabetici fossero apparsi nel sud del Levante, invece, solo nel XIII secolo, cioè circa ben 3.300 anni fa. Il divario di seicento anni tra i due periodi ha da sempre incuriosito gli esperti. Ma l’iscrizione di Lachish, databile 3.450 anni, rappresenta, ora, un tassello mancante al puzzle dell’origine della scrittura rappresentando ”l’anello mancante” tra le due epoche fino ad oggi inspiegabilmente lontane.
   I caratteri iscritti, distribuiti in diagonale su due diverse linee, stanno mettendo a dura prova gli studiosi che cercano di decifrarli. Il testo infatti, è troppo breve e incompleto. Per gli esperti la prima tipologia di scrittura alfabetica si diffuse nel Levante meridionale verso la fine della media Età del Bronzo ed era già usata almeno nella metà del XV secolo a.C. a Tel Lachish. L’arrivo è riconducibile al periodo nel quale la dinastia degli Hyksos governò, insieme, sia l’Egitto settentrionale che il Levante per oltre cento anni e fino al 1550 a.C. Gli Hyksos erano una popolazione dell’Asia occidentale, forse discendente dagli antichi emigrati provenienti proprio del Levante. Si tratta di un fattore che indica come i rapporti commerciali tra il Levante e l’area egiziana fossero favorevoli anche per la diffusione, in maniera del tutto pacifica, della scrittura alfabetica.
   Dunque l’uso del primo alfabeto non sarebbe avvenuto attraverso rapporti di forza, contrariamente a quanto ritenuto finora. In passato, infatti, molti archeologi credevano che l’alfabeto primitivo non fosse stato introdotto nella terra di Canaan fino al XIV o XIII secolo a.C., in una fase nella quale l’Egitto dominava direttamente l’odierna Palestina e dove aveva imposto con la forza il sistema amministrativo e, di conseguenza, la scrittura. Ma il manufatto di Lachish, che è più antico di oltre cento anni rispetto a questa fase, dimostra come la scrittura alfabetica fosse già giunta, in quell’epoca, nel Levante ben prima della conquista violenta egiziana. Per gli esperti il frammento di ceramica proviene da una ciotola importata dalla vicina isola di Cipro. Nulla di strano, visto che all’epoca la città di Lachish rappresentava un importante centro cananeo dove provenivano i traffici dall’intero Mediterraneo orientale. Ma cosa c’è scritto su questi frammenti di ceramica? Per gli esperti che hanno proposto una prima interpretazione, la lettura da destra a sinistra, consentirebbe di leggere le prime tre lettere come «’bd»,forse «ebed» e potrebbe indicare la parola ”schiavo”. Si tratta una radice comune nelle lingue di origine semitica.

(Scienze Notizie, 25 aprile 2021)


Tafferugli a Gerusalemme nonostante appello alla calma

GERUSALEMME – Nuovi tafferugli hanno visto contrapporsi palestinesi e forze di sicurezza alla periferia della Città Vecchia di Gerusalemme, dopo un appello alla calma del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Gli scontri sono stati però meno intensi rispetto ai giorni scorsi, secondo un giornalista dell’Afp sul posto.
Sei palestinesi sono rimasti feriti, cinque dei quali sono stati curati sul posto, ha detto la Mezzaluna Rossa palestinese.
A Gerusalemme centinaia di agenti di polizia sono stati dispiegati alla periferia della Città Vecchia per evitare ulteriori violenze dopo giorni di scontri che hanno coinvolto ebrei di estrema destra, palestinesi e forze dell’ordine, le più gravi da alcuni anni a questa parte.
Scontri, ma senza gravi conseguenze, sono avvenuti alla Porta di Damasco, uno dei principali accessi alla spianata della moschea situata nella Città Vecchia, dopo l’ultima preghiera della giornata, in questo mese di Ramadan. I palestinesi hanno lanciato bottiglie d’acqua alla polizia che ha risposto con granate assordanti. I giovani palestinesi hanno anche bruciato cassonetti nelle strade adiacenti alla Porta di Damasco. Circa 100 palestinesi hanno anche lanciato pietre e molotov al valico di Qalandiya tra Gerusalemme e la Cisgiordania occupata, secondo quanto riferito dalla polizia.

(ANSA, 25 aprile 2021)


Israele - Delegazione in Usa per ribadire il no agli accordi di Vienna

Decine di razzi dalla Striscia di Gaza su Israele. In risposta raid israeliani su obiettivi Hamas. Scontri ed arresti a Gerusalemme. Il premier Netanyahu ha convocato d'urgenza una riunione con il ministro della difesa Benny Gantz, e al termine della quale ha detto di aver dato ordine "di prepararsi ad ogni scenario"

Una delegazione di sicurezza ad alto livello parte oggi per gli Stati Uniti per illustrare all'amministrazione Biden le ragioni dell'opposizione israeliana ai colloqui di Vienna sui progetti nucleari iraniani. La delegazione, ha precisato la radio militare, è guidata dal capo del Mossad Yossi Cohen e dal consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat.
Doveva farne parte anche il capo di stato maggiore gen. Aviv Kochavi, ma ha preferito rinviare la partenza a causa delle tensioni con Hamas dopo i ripetuti lanci di razzi da Gaza verso Israele.
Secondo l'emittente Israele è giunto alla conclusione che è molto ridotta la propria capacita' di influenzare la politica di Biden sul nucleare iraniano. in ogni caso, ha aggiunto, la delegazione chiarirà che Israele non si sentirà vincolato da intese che fossero raggiunte a Vienna.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha lanciato un appello alla calma in seguito a diverse notti di scontri a Gerusalemme est fra ebrei, palestinesi e forze dell'ordine.
La situazione ha indotto il premier Benjamin Netanyahu a convocare d'urgenza una riunione con il ministro della difesa Benny Gantz e gli alti gradi dell'esercito.
Netanyahu ha avvertito che l'esercito è "pronto ad affrontare qualsiasi scenario" nella striscia di Gaza, dove almeno 30 razzi sono stati lanciati dai palestinesi in direzione di Israele nella notte fra venerdì e sabato.
A Gerusalemme est sono state spiegate alcune centinaia di agenti di polizia per evitare altri disordini. Sono state fermate diverse persone.
Almeno dieci palestinesi sono stati arrestati negli scontri avvenuti in serata con la polizia israeliana a Gerusalemme, nella zona della Porta di Damasco, riferiscono i media israeliani aggiungendo che sei sono rimasti feriti.
Le forze dell'ordine sono impegnate anche al checkpoint Qalandiya, in Cisgiordania, dove un centinaio di palestinesi ha lanciato bombe molotov e sassi in direzione degli agenti.
Sempre secondo i media israeliani, alcune centinaia di palestinesi stanno protestando lungo la striscia di Gaza per i disordini a Gerusalemme e le crescenti tensioni con Israele.

(RaiNews, 25 aprile 2021)


Roma - «Blitz» della Comunità ebraica alla celebrazione dell’Anpi

Dopo anni di rifiuti dei partigiani a accogliere i rappresentanti della Brigata ebraica, un gruppo di volontari ebrei si è presentato dietro al palco dell’Anpi al grido di «Porta San Paolo è anche nostra». Poi spintoni e qualche schiaffo con gli antagonisti

ROMA - «Blitz» della Comunità ebraica a Porta S.Paolo, nel corso dell’annuale celebrazione del 25 Aprile dell’Associazione nazionale partigiani. A rendere nota l’iniziativa, Riccardo Pacifici ex presidente della Comunità Ebraica Romana: «Porta San Paolo è anche nostra. Con un blitz ed insieme ad un gruppo di volontari ebrei di Roma ci siamo ripresi Porta San Paolo ed abbiamo deposto una Corona sulla lapide che ricorda il sacrificio di coloro che hanno combattuto per la libertà Partigiani , truppe Alleate e Soldati della Brigata Ebraica. Per quest’ultimi abbiamo recitato un Kaddish ed intonato l’Hatikvà (Inno nazionale dello Stato d’Israele) ed abbiamo poi ricordato da cittadini italiani, tutti i partigiani e cantato l’inno nazionale italiano. Il tutto nel cuore di Porta San Paolo e dietro il palco allestito dall’Anpi romana sorpresi ed increduli per la nostra presenza. A onor di verità non ci hanno detto nulla e ci siamo scambiati con tutto staff del loro servizio d’ordine gli auguri di buon 25 Aprile. Stiamo tornando. Da oggi questo sarà il nostro slogan stanchi doverci rinchiudere. Non dobbiamo più nasconderci ed è bene che si sappia che la Città di Roma ,così come ogni piazza in Italia è anche nostra. Personalmente dedico questo blitz a tre valorosi uomini. Zi Moretto, Roberto “Pucci” e al Partigiano , già presidente Anpi, Massimo Rendina che sempre ricordava i soldati della Brigata Ebraica ogni 25 aprile . Onore ad ognuno di loro e che sia il ricordo delle loro azioni di benedizione».
    L’azione dei volontari ebrei sembra aver messo un punto alle polemiche di tutti questi anni, in cui le bandiere di Israele e la presenza di ebrei alle manifestazioni del 25 Aprile venivano sistematicamente allontanate e rifiutate dall’Anpi, sebbene alla Liberazione avessero partecipato oltre duemila partigiani ebrei. I tentativi di organizzare una manifestazione unitaria fra gli eredi dei partigiani sono sempre naufragate fra le reciproche accuse. Anche nel 2019, ultima manifestazione prima del Covid, le celebrazioni per la Festa della Liberazione a Roma sono state separate. Da una parte l’Anpi, che ha sfilato da largo Bompiani, alla Garbatella, fino a Porta San Paolo. Dall’altra la comunità ebraica che, alla presenza di una delegazione del governo e del presidente del World Jewish Congress, Ronald Lauder, ha ricordato i caduti della Brigata Ebraica prima alla Sinagoga Beth e poi al cimitero del Commonwealth a Testaccio. Ad accogliere i ministri la presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, il Rabbino Capo Riccardo Di Segni e il presidente dell’Ucei Noemi Di Segni. Poco distante, su via Ostiense, in mezzo alle tante bandiere rosse del corteo dell’Anpi, sventolavano gli stendardi della Palestina. Mentre a Milano proprio i manifestanti filopalestinesi avevano contestato i rappresentanti della Brigata Ebraica al grido di «assassini», «fascisti» e «uscite dal corteo».
    Ma nel corso della celebrazione ci sono stati momenti di tensione, sempre a Porta San Paolo, fra alcuni antagonisti che avrebbero voluto deporre fiori sulla lapide dei caduti per la Resistenza e il servizio d’ordine dell’Anpi che ha impedito loro il passaggio: spintoni, insulti, qualche schiaffo.

(Corriere della Sera, 25 aprile 2021)


La storia di Mosè Di Segni, il medico del battaglione Mario

di Donato Moscati

C’è una via a Serripola, una frazione di San Severino Marche, dedicata ad un medico ebreo romano, un medico che ha combattuto per la liberazione dal nazifascismo, quel medico aveva il nome di Mosè Di Segni. Abbiamo chiesto a Rav Riccardo Di Segni, terzo figlio di Mosè, di raccontarci la storia di Resistenza del padre.
   Mosè Di Segni è un pediatra che si è pagato gli studi scrivendo per «Il Giornale d’Italia» e proprio la conoscenza con un giornalista lo porterà a scappare dalla retata del 16 ottobre 1943. Alla fine del 1936 viene chiamato come medico militare nella guerra di Spagna, fino al 1938 quando con le leggi razziali viene radiato sia dall’esercito che dall’ordine dei medici con il permesso di poter esercitare solo per gli ebrei. “Come consigliere della Comunità ebraica di Roma si sentiva nel mirino dei nazisti – racconta Rav Riccardo Di Segni - tanto che durante la giornata dell’oro, quando il comandante della polizia tedesca chiamò il presidente della comunità per ordinare di consegnarli 50 chili d'oro altrimenti avrebbe preso 200 capifamiglia in ostaggio, la polizia fece una perquisizione a casa sua e capì che da lì a poco qualcosa sarebbe successo”. Mosè così chiama il suo amico giornalista che lo informa che la perquisizione non era su ordine della autorità italiane ma di quelle tedesche.
   “Mio padre ebbe così la conferma di essere uno degli obiettivi dei tedeschi così telefonò a sua moglie Pina dicendole di prendere i due figli e alcune cose e prepararsi a scappare” In poco tempo capisce dove poter andare: la destinazione è San Severino, più precisamente Serripola, dove c’è un suo amico farmacista che può aiutarlo e che lo può nascondere in un fienile.
   Pensando che le donne fossero meno a rischio, la moglie Pina torna a Roma per prendere qualche indumento più pesante per affrontare l’inverno. Era il 15 ottobre 1943, la stanchezza del viaggio si fa sentire ed indecisa se restare a Roma e ripartire l’indomani mattina o ripartire subito, ripartì subito. Il 16 ottobre 1943 i tedeschi compiono il grande rastrellamento in tutta la città. Anche l'abitazione dei Di Segni, a piazza Benedetto Cairoli, a pochi passi dal Ghetto è tra gli obiettivi, ma è vuota..
   Nelle Marche si forma una banda partigiana che fa parte della Brigata Garibaldi, il Battaglione Mario, di cui Mosè diviene medico e custode delle memorie redigendone il diario ufficiale.
   Il Battaglione Mario è una formazione partigiana diventata una forza costituita da ex prigionieri alleati, slavi, antifascisti, ex confinati politici ed ebrei ma anche eritrei, somali ed etiopi.
   Il fienile dove Mosè con sua moglie e i figli Frida di sei anni ed Elio di tre erano nascosti era diventato una vera e propria infermeria da campo e il luogo dove il battaglione si riuniva per prendere delle decisioni.
   “Ci fu un evento drammatico, uno scontro importante dove anche mio padre combatté e per il quale ricevette nel 1948 la medaglia d’argento al valor militare. Un giorno dei primi di Luglio mentre mio padre non c’era ci fu un attacco fascista, al fienile-casa dove stavano mia madre e i miei fratelli e grazie al parroco che chiamò i partigiani i fascisti scapparono. Mio padre raccontava molto poco di quel periodo. Ci ha lasciato i diari ufficiali dove raccontò di scontri di ogni tipo, degli inglesi che paracadutavano dei soldati da infiltrare e che venivano salvati dai partigiani o catturati dai nazifascisti. Ci furono molti atti di sabotaggio e anche la liberazione di un campo di prigionia”.
   Nel 2011 San Severino Marche ha conferito la cittadinanza onoraria ai fratelli Frida, Elio e Riccardo Di Segni, figli di Mosè "Questo riconoscimento cementa e rinverdisce il nostro legame con San Severino, che è stato mantenuto sempre vivo attraverso il ricordo di nostro padre - ha sottolineato Riccardo Di Segni -. Siamo custodi di una memoria che deve essere tramandata alle nuove generazioni. Bisogna stringersi attorno alla storia, riscoprire quei valori buoni che hanno consentito all’Italia di superare periodi terrificanti per costruire un’Italia migliore".
   Mosè Di Segni non divenne solo il medico della Brigata ma anche il medico dei bambini del paese, un paese che all’inizio lo guardò con diffidenza ma che poi ne riconobbe il valore, che ne capì la sua partecipazione per la libertà e il suo amore per la Patria che lo aveva rinnegato.

(Shalom, 25 aprile 2021)


Israele, dal Comites un laboratorio teatrale per gli italiani a Tel Aviv

“Non ci siamo mai fermati, nonostante questo anno difficile per via della pandemia. Quando non è stato più possibile vederci di persona ci siamo ritrovati su Zoom e nelle ultime settimane poter tornare a incontrarci è stata una grande gioia”. Giordana Sermoneta – attrice e regista italiana in Israele – racconta così l’ultimo periodo di attività del progetto Laboratorio Teatrale, ideato nel 2019 per coinvolgere gli italiani in Israele nella scrittura di una commedia, con l’obiettivo finale di portarla in scena.
    Sermoneta si è trasferita in Israele da Roma nel 2016. Dopo un primo periodo di adattamento, ha deciso di tornare a perseguire la passione che l’aveva accompagnata per tutta la vita in Italia, quella del teatro: è così che è nata l’iniziativa del laboratorio teatrale che negli scorsi mesi, grazie al sostegno del Comites Tel Aviv, ha ricevuto per il secondo anno consecutivo il finanziamento del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) in collaborazione con l’ambasciata italiana, con un importo superiore del 30% rispetto alla stagione precedente. Nel frattempo, spiega Sermoneta, che è stata tra gli altri una delle fondatrici nel 2008 di una compagnia teatrale semi-professionista dedicata alla lingua e cultura giudaico-romanesca, il lavoro di scrittura è terminato. Finalmente, complice anche la possibilità di tornare a vedersi di persona, si comincia a montare.
    “La nostra attività ha rappresentato davvero un sostegno psicologico e un supporto per tutti noi in questo periodo complicato, un modo per mantenere dei legami e distrarsi dalle difficoltà legate al coronavirus”, spiega.
    Il gruppo ha deciso di concentrarsi su un tema caro a tutti i partecipanti: le vicende, le sfide e le soddisfazioni degli italiani trapiantati in Israele. “Per raccontare storie di immigrati nuovi e di lungo corso ma anche di diversa provenienza geografica, abbiamo scelto di ambientare la commedia in un condominio abitato da diverse famiglie italiane,” racconta Sermoneta. Il gruppo si incontra una volta a settimana, ogni volta in una casa diversa. Per andare in scena ci vorrà ancora qualche mese.
    “Speriamo presto di trovare uno spazio adeguato alle prove, per simulare un palcoscenico,” continua la regista.L’obiettivo finale è di portare la rappresentazione a teatro. “Ci sembra giusto aspettare che riapra pienamente il turismo dall’Italia, in modo da avere la possibilità di portare più pubblico. Il mio sogno per il futuro sarebbe trovare un vero e proprio spazio permanente per attività in italiano, dal laboratorio teatrale ai corsi per bambini e ai tornei di carte. Un posto in cui ritrovarci tutti”, conclude Sermoneta.

(Il Denaro, 25 aprile 2021)


Turismo: apertura in sicurezza in Israele

di Francesca Sirignani

Israele è un Paese che permette di passare dalle verdi foreste mediterranee della Galilea alle distese desertiche del Negev in poche ore. A questi paesaggi si aggiungono le pianure che costeggiano il mare Mediterraneo, le riserve naturali e le colline di Gerusalemme, nonché il Mar Morto e il Mar Rosso. Una terra ricca di tradizioni antiche e talvolta diverse che si sovrappongono e si stratificano, in una convivenza non facile ma certamente molto interessante. A prescindere dall’interesse religioso, storico, archeologico, naturalistico, politico o semplicemente turistico, Israele è un Paese all’avanguardia, dotato delle strutture più moderne dove convivono misticismo, tecnologia, scienza, religione, bellezze naturali e tanto divertimento. Il ministro del turismo Orit Farkash-Hacohen e il ministro della Salute Yuli Edelstein hanno, finalmente, concordato un quadro per l’apertura di Israele ai gruppi di turisti stranieri vaccinati. A partire dal 23 maggio 2021, infatti, Israele aprirà le sue porte ai turisti stranieri dopo più di un anno. Nella prima fase, i gruppi saranno ammessi in base alle linee guida che saranno pubblicate a breve dai Ministeri.
    Gli accordi sono stati raggiunti in seguito al lavoro della task force istituita dai ministeri, tra cui il capo della sanità pubblica Sharon Alroey-Price, Ph.D., e il Commissario COVID, il professor Nachman Ash, nonché i professionisti del Ministero del turismo. Secondo lo schema, il 23 maggio inizierà ad arrivare un numero limitato di gruppi che potrà essere accresciuto progressivamente in base alla situazione sanitaria e allo stato di avanzamento del programma.
    I viaggiatori individuali saranno poi ammessi in Israele in una seconda fase, in considerazione del progredire della situazione sanitaria. Tutti i visitatori saranno tenuti a sottoporsi a un test PCR prima di imbarcarsi sul volo per Israele e un test sierologico dovrà essere eseguito all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion, così da dimostrare di aver ricevuto la vaccinazione. Nel frattempo proseguiranno le trattative avviate con vari Paesi per raggiungere accordi per la convalida dei certificati vaccinali, così da annullare la necessità del test sierologico. Uno schema dettagliato delle attività verrà distribuito nei prossimi giorni.
    Il ministro della Salute, Yuli Edelstein dichiara “Israele è il primo Paese vaccinato, e i cittadini israeliani sono i primi a fruire di questo risultato. Dopo aver aperto l’economia, è tempo ora di consentire la ripresa del turismo in modo attento e oculato. Aprire al turismo è importante essendo stato questo uno dei settori più danneggiati durante l’anno COVID – 19. Continueremo a cercare di adeguare le normative in base allo sviluppo della situazione sanitaria “. Il ministro del turismo, Orit Farkash-Hacohen, commenta: “Sono lieta che questi importanti primi passi vengano indirizzati all’industria del turismo. È tempo che il vantaggio unico di Israele quale Paese sano e sicuro inizi a sorreggere il comparto turistico nella ripresa dalla crisi economica, e non soltanto a sostegno delle economie di altri Paesi. Solo aprire i cieli al turismo internazionale farà davvero rivivere l’industria del turismo, inclusi ristoranti, hotel, siti archeologici, guide turistiche, autobus e molti altri che sostengono i lavoratori del comparto e le loro famiglie. Continuerò a lavorare per la piena apertura del turismo in Israele, il che aiuterà enormemente l’economia e creerà posti di lavoro per molti israeliani”. Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio Nazionale del Turismo israeliano aggiunge: “Israele ancora una volta ha dato prova di reagire al meglio anche a questi eventi e a questo periodo particolarmente complesso traendone grandi opportunità e iniziative. Siamo felici di riaprire al turismo e non vediamo l’ora di accogliervi tutti nel nostro meraviglioso Paese! Aspettiamo con grande gioia tutti gli amici italiani”.
   Approfittare delle calde e secche giornate primaverili ed estive che si protraggono da aprile fino a ottobre, per camminare su una terra che è madre della storia, è un’esperienza unica e affascinante. Basta farsi coinvolgere dalla bellezza incantatrice di questo Paese religioso, culturale e dai suoi incantevoli paesaggi e scenari mozzafiato per arricchire la propria memoria di splendidi ricordi.

(WeeklyMagazine,25 aprile 2021)



Il segno del profeta Giona (5)

di Marcello Cicchese
  1. E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo:
  2. "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita alla mia faccia".
  3. Ma Giona si alzò per fuggire a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; pagò il prezzo e s'imbarcò per andare con loro a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno gettò un grande vento sul mare, e vi fu sul mare una grande tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie che erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Alzati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi si dissero l'un l'altro: "Venite, tiriamo a sorte, per sapere a causa di chi ci capita questa disgrazia". Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora gli dissero: "Dicci dunque a causa di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? da dove vieni? qual è il tuo paese? e a quale popolo appartieni?"
  9. Egli rispose loro: "Sono ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra asciutta".
  10. Allora quegli uomini furono presi da una grande paura, e gli dissero: "Perché hai fatto questo?" Poiché quegli uomini sapevano che egli fuggiva lontano dalla faccia dell'Eterno, perché lo aveva detto a loro.
  11. E allora gli dissero: "Che ti dobbiamo fare affinché il mare per noi si calmi?" Il mare si faceva infatti sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: "Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare per voi si calmerà; perché io so che questa gran tempesta vi piomba addosso per causa mia"
  13. Ma quegli uomini ci davano dentro per raggiungere la terra asciutta; ma non ci riuscivano, perché il mare diventava sempre più tempestoso contro di loro.
  14. Allora gridarono all'Eterno e dissero: 'Deh, Eterno, non lasciare che periamo per la vita di quest'uomo, e non imputarci il sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quello che hai voluto".
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furono presi da una grande paura dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.
Sulla nave i marinai avevano ascoltato con attenzione il racconto della fuga di Giona, e ne erano rimasti molto impauriti. Nello svolgersi di questa scena tutto è grande. Dio getta sul mare un grande vento (v.4); sul mare si scatena allora una grande tempesta (v.4); i marinai sono presi da una grande paura ascoltando il racconto di Giona (v.10); e alla fine sono "presi da una grande paura dell'Eterno".
  La grandezza di tutta la scena comincia col gesto di Dio che getta sul mare il vento e termina col gesto dei marinai che offrono un sacrificio a Dio. E il tutto si svolge in un'atmosfera in cui domina la paura. I marinai cominciano ad aver paura della tempesta; poi sono "presi da grande paura" quando ascoltano parlare dell'Iddio del cielo da Giona; poi sono di nuovo "presi da grande paura" quando sperimentano l'azione di Dio che calma improvvisamente il mare da cui erano sballottati. Proprio come Giona aveva detto loro.
  Ma in quel momento per loro Giona non ci sarà più.
  Le particolarità ritmiche nei racconti biblici hanno quasi sempre un senso che deve essere ricercato con un'osservazione attenta e rispettosa della forma. Il termine originale che nei tre versetti 5, 10 e 16 abbiamo sempre tradotto letteralmente con paura, nella Nuova Riveduta è tradotta in tre modi diversi: paura, spavento, timore. Si dirà che in questo modo si rende meglio il significato all'interno della frase in italiano, ma si rende peggio il senso ritmico che svolge l'uso ripetuto della medesima parola all'interno di tutto il racconto. E questo ha un significato.
  Tornando ai marinai, li ritroviamo perplessi dopo la risposta di Giona alla domanda: che ti dobbiamo fare? In sostanza, il fuggiasco aveva detto loro: "dovete uccidermi!" Gettarlo in mare infatti non significa altro che ucciderlo. I marinai non lo fanno. Perché? Lo faranno dopo, ma perché non l'hanno fatto subito? Che cos'è che li ha trattenuti?
  Uno dei marinai avrebbe potuto dire: Beh, se proprio deve mettere a posto i rapporti col suo dio, perché non ci si butta da solo in mare? Perché dobbiamo farlo noi?
  Un altro avrebbe potuto replicare: E tu avresti lasciato che si buttasse in mare? Ma che dio è quello che ordina a un uomo di uccidersi per calmare la sua ira. Ha detto che poi il mare si calmerà, ma come facciamo a esserne sicuri? Sarà stata la disperazione in cui è sprofondato, quel disprezzo di sé che coglie quando ci si sente indegni. Ma noi dobbiamo opporci a questo suo istinto autodistruttivo; e se necessario, essere anche più buoni del suo dio. Che a dire il vero adesso mi sembra anche un po' strano. Dobbiamo vincolarci tutti a un impegno ben preciso: o tutti o nessuno. L'ospite è sacro, e lui è nostro ospite, anche se ci rimborsa le spese.
  Un altro dei marinai più esperti avrebbe forse cominciato a dire che secondo lui, stando ai suoi calcoli, il picco della tempesta era già stato raggiunto, e che se avessero saputo resistere ancora un po', probabilmente il mare si sarebbe calmato da solo. Senza bisogno - avrebbe detto - di stare a sentire le parole di Giona e del suo dio, e quindi senza commettere un immotivato omicidio, di cui poi forse dovremo rendere conto davanti a qualche dio più buono di quello di Giona. In fondo lui non ci ha fatto niente, perché dovremmo ucciderlo?
  I marinai alla fine si convinsero che non bisognava dare retta alle parole di Giona e ripresero a "darci dentro" (chatar) per raggiungere "la terra asciutta". Le traduzioni italiane del verbo chatar sono diverse: remavano con forza, cercavano a forza di remi, davano forte nei remi. Sono tentativi di rendere il senso di un verbo che solo qui ha questo significato, e in ogni caso non fa riferimento esplicito ai remi. Nel libro di Ezechiele viene usato quattro volte (8:8; 12:5,7,12) con il significato di "fare un foro", e precisamente in un "muro"; e anche negli altri casi ha il senso di uno sfondamento per passare da una parte a un'altra, quasi sempre per sfuggire a un pericolo.
  Questo fa capire la forza disperata con cui i marinai lottavano cercando di "forare il muro" della tempesta per uscire dal mare nemico e raggiungere... la "terra asciutta". In realtà il testo parla soltanto di "asciutto", e certamente intende la terra, ma in un senso salvifico, in contrapposizione alla mortifere acque del mare.
    Poi Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo siano raccolte in un unico luogo e appaia l'asciutto». E così fu. Dio chiamò l'asciutto «terra», e chiamò la raccolta delle acque «mari» (Genesi 1:9, 10).
    I figli d'Israele invece camminarono sull'asciutto in mezzo al mare, e le acque formavano come un muro alla loro destra e alla loro sinistra (Esodo 14:29).
    Egli cambiò il mare in terra asciutta; il popolo passò il fiume a piedi; perciò esultiamo in lui (Salmo 66:6).
Su quella nave in viaggio da Giaffa a Tarsis si svolge dunque una scena epica in cui compaiono i tre protagonisti fondamentali della Bibbia: Dio, Israele e le nazioni. Israele è rappresentato da Giona, le nazioni dai marinai e Dio... dal mare. Giona si trova in conflitto con Dio, e anche i marinai sono in conflitto con Lui , perché lottano contro il mare. E' Dio infatti che agita il mare con il vento che vi ha gettato sopra, e il suo servitore Giona ha fatto sapere ai marinai che cosa avrebbero dovuto fare affinché il suo Dio ordinasse al mare di calmarsi. Ma loro, invece di credere a quella parola di Dio arrivata attraverso Giona, si affidano al loro umano senso di giustizia e si rifiutano, in un primo momento, di osservarla. Decidono di tentare tutto il possibile con le loro forze per raggiungere la terra asciutta, che per loro significa salvezza... "ma non ci riuscivano, perché il mare diventava sempre più tempestoso contro di loro".
  Tradurre quel "contro di loro" con un generico "minaccioso", come fanno le due Rivedute evangeliche, è fuorviante. Il mare si sarebbe calmato per loro, aveva detto Giona ai marinai, ma loro non gli danno retta e aumentano i loro sforzi per "forare il muro" della tempesta con le proprie forze. Il mare allora cresce in tempestosità e si mette contro di loro. E' Dio che fa la voce grossa.
  All'inizio della storia, quando quei marinai pagani avevano visto che non c'era più nulla da fare, sta scritto che "ognuno gridò al suo dio" (v.5), ma la presenza a bordo di quel fuggiasco ebreo ha fatto cambiare le cose e alla fine tutti "gridarono all'Eterno" (v.14), cioè all'Iddio del cielo di cui aveva parlato Giona.
  E sia pure con titubanza, si sottomettono tutti a quella parola, scaricandosi in un certo qual modo del peso dovuto a un atto che appariva essere un omicidio: "Perché tu, o Eterno, hai fatto quello che hai voluto". In altre parole: se lo buttiamo giù la colpa è Tua. E Dio non si offende, perché le cose stavano effettivamente così. Era proprio questo, ciò che Dio aveva voluto.
  Ma perché Dio ha voluto questo? Cerchiamo di capirlo con una lettura teocentrica della Bibbia, cioè esaminando il modo di agire di Dio, prima di osservare qual è la reazione degli uomini. Giona conosce il Signore, lo teme, il che nel linguaggio biblico è come dire che lo ama. Si è trovato in disaccordo con Dio per il modo in cui avrebbe voluto trattare quelli che secondo lui sono avversari da combattere. Ma è proprio a lui che Dio chiede di andare dai pagani assiri a consegnare loro una sorta di formale intimidazione. Avrebbe dovuto essere contento: andare a "gridare a loro" in faccia quanto sono malvagi. E quanto il Dio d'Israele è arrabbiato contro di loro per come si comportano. Giona però vi vede una provocazione: teme che invece di colpire subito i malvagi niniviti, come secondo lui bisognava fare, Dio con questo avvertimento voglia dare a quei pagani la possibilità di essere perdonati. E non si sbaglia, cosa che conferma la sua intima conoscenza di Dio.
  Giona però non ci sta. E fugge. Decide di allontanarsi dal suo Dio mettendosi in mare su una nave pagana. Forse pensava di far trovare Dio davanti al fatto compiuto e di convincerlo, in questo modo, a lasciarlo andare senza pensare più a lui. Ma si sbaglia. Forse il pensiero di Dio su Giona poteva essere questo: tu adesso stai su una nave che si trova sopra il mare; e ti vuoi allontanare da me; e non mi parli. Io allora ti farò scendere da sopra il mare; ti porterò in fondo al mare; e lì ti ritroverò. E da lì potremo riprendere il colloquio interrotto.
  Ai marinai pagani, partecipanti involontari di questa contesa, avviene qualcosa di spaventoso. Scaricano in mare Giona... e di botto il mare si calma. Perché spaventoso? Avrebbero dovuto abbracciarsi tutti e piangere di gioia, come avviene sempre tra gli uomini in questi casi. Ma i marinai sentono di partecipare a qualcosa che non è soltanto "fra di loro". Avvertono la vicinanza di Qualcuno che prima non conoscevano: quell'Iddio del cielo che ha fatto il mare e la terra asciutta di cui aveva parlato loro l'ebreo Giona. E quei marinai pagani, che prima invocavano le loro demoniache divinità, adesso "offrono un sacrificio all'Eterno, e fanno dei voti". Giona, servitore di Dio in fuga, alla fine è stato costretto a compiere, suo malgrado, uno dei servizi che il Signore aveva pensato per lui.

(5) continua

(Notizie su Israele, 25 aprile 2021)


 

Oltre 30 razzi contro Israele. Violento attacco dalla Striscia di Gaza

L'IDF ha risposto colpendo obiettivi di Hamas che Israele ritiene responsabile di tutto quanto avviene nella Striscia di Gaza

di Sarah G. Frankl

È stata una lunga notte quella vissuta dalla popolazione del sud di Israele. Sono infatti oltre 30 i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza contro la parte meridionale dello Stato Ebraico.
È stato il peggior assalto terroristico contro Israele da parte di Hamas degli ultimi mesi, durato per tutta la notte fino alle prime luci dell'alba.
Le sirene hanno suonato in numerose comunità israeliane vicino alla Striscia, tra cui Ashkelon e i consigli regionali di Eshkol, Sdot Negev, Sha'ar Hanegev e Hof Ashkelon.
Il sistema di difesa Iron Dome ha intercettato almeno cinque missili diretti contro le case. Gli altri sono caduti in aree aperte.
Nessun israeliano è rimasto ferito negli attacchi e non sono stati riportati danni gravi.
Due gruppi terroristici della Striscia di Gaza si sono assunti la responsabilità del lancio dei razzi: la Brigata dei martiri Al-Aqsa collegato a Fatah e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina Brigate Abu Ali Mustapha.
Tuttavia, come più volte sottolineato, Israele considera Hamas responsabile di tutto quello che avviene nella Striscia di Gaza. E infatti la risposta israeliana è stata incentrata su obiettivi di Hamas.
Ad essere colpiti sono state infrastrutture del gruppo terrorista, diverse postazioni lanciarazzi, alcuni tunnel sotterranei e depositi di armi che Hamas riteneva essere segreti.
Il comando del fronte interno delle forze di difesa israeliane inizialmente aveva ordinato ai residenti nelle aree minacciate di rimanere vicino ai rifugi.
Inoltre aveva ordinato la chiusura della spiaggia di Zikim, vietato i raduni all'aperto e il lavoro agricolo vicino alla barriera di sicurezza. Questa mattina le limitazioni sono state tuttavia rimosse.
Il violento attacco di questa notte arriva quando Israele stava allentando le restrizioni dovute al COVID e quindi psicologicamente pesa moltissimo sulle popolazioni che hanno dovuto passare la notte nei rifugi.
Era dallo scorso settembre che non si verificava un attacco così violento.

(Rights Reporter, 24 aprile 2021)


Decine i feriti negli scontri tra arabi e ultrà ebrei

di Fiammetta Martegani

TEL AVIV - Da anni non si vedevano scontri così duri a Gerusalemme tra arabi e ultra ebrei. La tensione era già molto forte in città: è Ramadan, e i palestinesi protestano da giorni contro le restrizioni sanitarie che limitano l'accesso alla Spianata delle Moschee. Inoltre, sui social stanno circolando video contrapposti: da una parte le immagini di aggressioni avvenute nei giorni precedenti ad ebrei ortodossi, dall'altra filmati che mostrato aggressioni contro i palestinesi. Quando l'altra notte, nella zona intorno alla Porta di Damasco, gli ultra ebrei hanno indetto una manifestazione al grido di «Morte agli arabi», la violenza è esplosa. La polizia è intervenuta con i cannoni ad acqua. Sono 105 i palestinesi rimasti feriti. Feriti anche 20 agenti. Una cinquantina i dimostranti arrestati. II sindaco di Gerusalemme, Moshe Lion, ha detto di essere «impegnato da giorni nel dialogo con i rappresentanti dei rioni arabi» per fermare la spirale di violenza, e ha rivolto un appello alla calma. Il presidente palestinese Abu Mazen ha condannato l'accaduto, accusando però il governo israeliano di essere «pienamente responsabile di questo grave deterioramento».

(Avvenire, 24 aprile 2021)


Il dilemma della sinagoga

La comunità ebraica si spacca sul ripristino del tempio distrutto nel ;38 . «Così si cancella la memoria di ciò che è stato». Ricostruirla o conservare i segni della furia nazista? Il caso che divide Amburgo

di Paolo Valentino

BERLINO - C'era una volta una sinagoga. Era la più grande del Nord Europa. Vi potevano pregare fino a 1.200 fedeli. Sorgeva ad Amburgo, nel Grindel Viertel, un quartiere dove la vita ebraica era così vibrante da essere conosciuto come la «piccola Gerusalemme». Poi arrivarono i nazisti, con il loro retaggio di morte e distruzione. Nella notte del pogrom del 1938 il tempio venne assaltato e dato alle fiamme dagli sgherri di Hitler, un anno dopo gli ebrei sopravvissuti dovettero farne rimuovere gli ultimi resti.
   Ottantatré anni dopo, la comunità ebraica amburghese vuole ricostruire com'era e dov'era la Grande Sinagoga sulla ex Bornplatz, ora ribattezzata piazza Joseph Carlebach in memoria di un rabbino deportato e ucciso dai nazisti insieme alla sua famiglia. Ma quello che si voleva come un salto di qualità «nella ricostruzione dell'identità ebraica e nella riconciliazione della città con la sua storia», è diventato un tema esplosivo e lacerante, che spacca all'interno la stessa comunità israelita. È un dibattito che tocca la vita ebraica e la lotta all'antisemitismo, la memoria della Shoah e il futuro, il potere dei simboli e, non ultima, la funzione dell'architettura.
   Tutto è cominciato nell'ottobre del 2019, poche settimane dopo l'attentato alla sinagoga di Halle, quando un giovane neonazista uccise due persone, ma per fortuna non riuscì a entrare nel tempio, in quel momento pieno di fedeli. Solo il caso evitò una strage di massa. Lo shock fu enorme nell'intero Paese, dove da anni attacchi e violenze contro gli ebrei continuano ad aumentare, al punto che perfino l'autorità federale preposta alla lotta all'antisemitismo ha consigliato agli israeliti di non andare in giro con la kippah.
   L'idea di ricostruire l'edificio venne lanciata dal rabbino capo del Land di Amburgo, Shlomo Bistritzky. «Bisogna dare un segnale. Dobbiamo restituire alla vita ebraica la sua normalità e il posto che le appartiene nella vita della città», spiega il rabbino, che insieme al capo della comunità Philipp Stricharz ha proposto di far rinascere una copia conforme dell'antica sinagoga, costruita nel 1906, sullo stesso spazio, oggi vuoto, dove un mosaico di pietre ne ricorda la pianta. Il progetto è andato avanti, appoggiato da un voto unanime del Consiglio comunale di Amburgo e sostenuto dall'impegno del Bundestag a co-finanziarlo con 65 milioni di euro se anche il Senato di Amburgo si impegnerà a stanziare la stessa cifra. Di più, il governo federale ha già messo a disposizione 600 mila euro per uno studio di fattibilità, che dovrebbe essere completato entro la fine dell'anno.
   Ma non tutta la comunità ebraica, sia ad Amburgo che all'estero, ha accolto bene il progetto della nuova sinagoga. A guidare il fronte del dissenso è soprattutto Miriam Rürup, oggi direttrice del Centro Moses Mendelssohn per gli studi euroebraici di Potsdam, dopo aver guidato fino allo scorso anno l'Istituto per la Storia degli ebrei tedeschi di Amburgo. Rürup bolla i piani di ricostruzione come «revisionismo storico». Teme che rifare com'era il vecchio tempio, oltre a cancellare il luogo del ricordo che oggi è diventata la piazza, venga interpretato come «la parola fine sulla memoria dell'Olocausto», un addio alla cultura del ricordo e non ultimo una rinuncia al fronte critico cori la storia che è anche proprio dell'architettura.
   È una posizione condivisa anche da una figura leggendaria della comunità ebraica amburghese come Esther Béjarano, 96 anni, la donna che sopravvisse ad Auschwitz perché suonava la fisarmonica e che ancora oggi porta il suo rap della memoria in giro per le scuole d'Europa: «Non ho bisogno di una nuova sinagoga per sentirmi a mio agio ad Amburgo. La storia non si dimentica. Se rifacessero il tempio così com'era, sembrerebbe che non sia successo nulla, che tutto sia a posto. Sarebbe il segnale sbagliato», mi dice al telefono dalla sua casa di Amburgo.
   Nello scorso dicembre Rürup, insieme ad altri storici ed esperti, ha pubblicato un documento con undici punti critici del progetto della nuova sinagoga, chiedendo di aprire un nuovo e più ampio confronto sulla sua opportunità: «La ricostruzione sarebbe particolarmente problematica poiché renderebbe invisibile il risultato delle azioni criminali e in tal modo più difficile il ricordo». Il documento cita altri esempi di nuove sinagoghe costruite negli ultimi venti anni, come quelle di Monaco e Dresda, dove «edifici contemporanei dimostrano come sia possibile tradurre in un'architettura al passo con i tempi le necessità della comunità ebraica».
   In dicembre la polemica ha anche acquisito una dimensione internazionale, con la firma da parte di 45 accademici e personalità israeliani di una petizione di protesta, nella quale si chiede di lasciare intatto l'attuale mosaico di pietre come luogo del ricordo: «Invece di spendere tanto denaro per una vetrina dell'ebraismo, sarebbe meglio destinare la somma a progetti mirati per lo sviluppo e la promozione della cultura e delle tradizioni ebraiche». Tra i firmatari, l'ex ambasciatore israeliano in Germania, Avi Primor e l'artista Micha Ullman.
   Forti dell'appoggio della maggioranza della comunità ebraica e delle autorità tedesche, Bistritzky e Stricharz vanno avanti. Ma le critiche non sembrano averli lasciati indifferenti. «Al punto in cui siamo — dice quest'ultimo — non è più se, ma come la sinagoga verrà ricostruita. Alcuni attacchi sono sopra le righe, come quello di voler cancellare il passato. Naturalmente una ricostruzione non può far dimenticare ciò che ci è stato fatto. Questo ci è molto chiaro». Il capo della comunità spera che tra cinque, al massimo otto anni, la cupola dorata della Bornplatzsynagoge torni a brillare: «Cl saranno anche la scuola, i caffè, un centro di documentazione sulla cultura ebraica. Il nostro obiettive è mostrare che gli ebrei non sono caduti come un Ufo in Germania, ma che qui è la nostra casa storica e noi apparteniamo a questo luogo».
   Esther Bejarano rimane scettica. «Viviamo tutti insieme ad Amburgo, tante persone di religione diversa. Invece di una nuova e grande sinagoga mi piacerebbe avere un luogo per ritrovarsi tutti e parlare. Questo sì-sarebbe un grande contributo alla lotta contro l'antisemitismo».

(Corriere della Sera, 24 aprile 2021)


«Vite attraverso» Voci di ebrei milanesi del Novecento

L'avvocato progressista Fabio Luzzatto, docente di Diritto che si rifiuta di giurare fedeltà al fascismo e si batte per l'assistenza legale gratuita ai poveri. La scrittrice per l'infanzia Lina Schwarz, membro dell'Unione Femminile Italiana, che diffonde l'antroposofia di Rudolf Steiner in Italia. Mario Davide Levi, bersagliere decorato della Prima guerra mondiale, al momento della Liberazione è vicecomandante delle Brigate Matteotti. Da domani è online «ViteAttraverso. Storie, documenti, voci di ebrei milanesi nel '900» (viteattraverso.milanoattraverso.it), mostra digitale che ricostruisce le storie di otto famiglie ebree milanesi segnate dall'introduzione delle leggi razziali nel 1938. La narrazione si basa su documenti originali degli archivi di Fondazione Intesa San Paolo, ASP Golgi Redaelli e Fondazione CDEC.

(Corriere della Sera, 24 aprile 2021)


Museo della Shoah di Roma, iniziative fra Memoria e Liberazioni

Il programma della Fondazione con mostre in presenza e un concorso per gli studenti Domenica è previsto un incontro sul web al quale partecipa anche Lia Levi.

«Il 25 aprile è la data fondamentale per l'identità democratica del nostro paese e va celebrata da tutti, a prescindere dalle idee politiche. È la festa di chi ha a cuore libertà e democrazia. Il simbolo del riscatto di un paese che si è saputo liberare da un regime che lo aveva trascinato in una guerra infame a fianco del nazismo. Come ente che ha a cuore la memoria, celebriamo questa data raccontando e ricordando». Il presidente della Fondazione Museo della Shoah, Mario Venezia, presenta così l'evento online dal titolo «25 aprile. Le Liberazioni», organizzato domenica per ricordare i tanti significati che il termine Liberazione ebbe per gli italiani.
   Una parola che la Fondazione declina al plurale riportando alla luce quei fatti di cui spesso si perde traccia nel grande solco della ricorrenza nazionale. Il sud, il centro e il nord d'Italia, infatti, furono liberati con diverse modalità e in date differenti, che saranno ripercorse in diretta su Facebook insieme agli storici Isabella Insolvibile e Amedeo Osti Guerrazzi affiancati da Lia Levi, scrittrice e testimone della Shoah che racconterà la sua liberazione. In un webinar che rappresenta solo l'ultima iniziativa di una carrellata di eventi virtuali lunga oltre un anno. «Il 2020 - spiega Venezia - ha rappresentato un'occasione di estrema crescita, stimolata dall'emergenza sanitaria. Tutte le attività sono state ampliate e rimodulate in versione online. Significativo, in particolare, l'impatto della didattica a distanza, che ha coinvolto decine di istituti in tutta Italia e oltre 4 mila studenti. I giovani sono il futuro, una popolazione privilegiata che vuole essere formata e informata su ciò che è accaduto, conoscerne i dettagli, le date, i racconti dei testimoni che hanno costruito con impegno una memoria storica collettiva. Oggi, a poco a poco, stanno scomparendo. Il nostro compito è portarne avanti l'esempio e la memoria».
   Dal vivo e, ora, anche online. Dove - con la zona arancione - è approdata la mostra Dall'Italia ad Auschwitz a cura di Marcello Pezzetti e Sara Berger, ospitata alla Casina dei Vallati e inaugurata nella Giornata della Memoria 2020. Cliccatissimo sui social il video dell'esposizione, dedicata alle persone arrestate in Italia tra il 1943 e il 1944, deportate nel lager polacco. In attesa che lunedì - con la zona gialla - si riaprano le visite al pubblico. E sul web è disponibile anche la versione digitalizzata di 1938. La Storia, mostra (realizzata nel 2017) sulla persecuzione fascista dei diritti degli ebrei. Mentre è in arrivo - a fine maggio, sempre sul sito della Fondazione - l'esposizione fotografica La Guerra in Italia: donne, uomini e territorio, che mostra gli effetti della guerra su luoghi e individui: ebrei, fascisti, alleati, partigiani, tedeschi, deportati e vittime civili. Con le fotografie accompagnate da testi, voci narranti o video-testimonianze.
   Infine i giovani ancora in primo piano. Al liceo Giulio Cesare la Fondazione ha lanciato il «Concorso Luciana ed Enrico Finzi». E per gli under 26 c'è «Radici future», programma di formazione professionale delle nuove guide per la sede espositiva Casina dei Vallati. Futuri custodi di storia e civiltà.

(Corriere della Sera - Roma, 24 aprile 2021)


Ad un passo dalla guerra: Israele, missile siriano precipita vicino al reattore nucleare di Dimona

Il sito ofcs.it, attentissimo - e molto informato - sugli sviluppi di guerra in Medio Oriente, oltre a saper dare i pesi giusti spesso ci indirizza pure: nessun altro organo di informazione italico ha dato la notizia di cui sopra con tale nettezza; anzi in molti casi la notizia è stata bellamente taciuta dalle cronache. Non oso nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto succedere se il missile avesse colpito la centrale nucleare israeliana. E non parlo del disastro in loco, appunto, nucleare. No, parlo della risposta anche solo simmetrica di Israele in Syria. Ed in in Iran, che la supporta, a sud del Paese, con Hezbollah.
Un giorno ci sveglieremo con una vera guerra calda in corso a pochi passi dall'Europa, temo…

(Mittdolcino, 24 aprile 2021)


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Israele, missile siriano precipita vicino al reattore nucleare di Dimona

Polemiche per la mancata intercettazione da parte del sistema di difesa integrato di Gerusalemme

di Davide Racca

Un missile siriano è precipitato vicino al reattore nucleare [israeliano] di Dimona.
È alta la preoccupazione negli ambienti della difesa israeliana dopo la mancata intercettazione di un missile terra aria, lanciato dal sud della Siria, e precipitato a fine corsa nei pressi del reattore nucleare di Dimona, nella zona del Neghev. I fatti risalgono a due giorni fa.
   Stando a quanto riferito, l'aviazione israeliana stava conducendo un raid mirato contro installazioni militari e depositi di armi di gruppi armati filo-iraniani nei pressi di Dumayr.
   In risposta all'azione, la contraerea siriana ha azionato le batterie di missili terra aria Sa-5, uno dei quali, senza aver colpito i cacciabombardieri con la Stella di David, ha proseguito la sua corsa precipitando vicino alla centrale nucleare di Dimona, nel nord del Neghev a circa 300 km da Damasco.
   A seguito dell'accaduto, le Israel defence forces hanno colpito postazioni situate a est di Damasco tra le quali la batteria lanciamissili usata per il lancio dei Sam e altre batterie di "terra-aria".
   Secondo l'agenzia siriana Sana "le forze di difesa aerea del paese hanno subito un attacco missilistico nei pressi di Damasco, che ha provocato il ferimento di quattro militari ed alcune perdite materiali". La Ong Osservatorio siriano per i diritti umani ha parlato di un attacco diretto contro la regione di Dmeir, ad est della capitale, contro una base di difesa aerea dell'Esercito siriano, con vittime o feriti e danni materiali.
   Proprio sabato scorso i media di regime iraniani avevano sollecitato una risposta "occhio per occhio" contro l'impianto nucleare israeliano di Dimona come ritorsione al sabotaggio della centrale di Natanz, per il quale Israele è ritenuto responsabile. Ma secondo il portavoce delle Idf, Hidai Zilberman, "L'intenzione non era quella di colpire il reattore nucleare di Dimona".
   Si parla quindi di un missile sfuggito al sistema di difesa integrato di Israele composto da postazioni "Iron dome" e radar decentralizzate che non sarebbero riuscite a intercettare il vettore, un SA-5 - noto anche come S-200, munito di una testata da 200 chilogrammi e con una gittata operativa di circa 250 chilometri (a seconda della traiettoria di lancio) che a fine corsa è precipitato presso la comunità di Ashalim, a circa 40 chilometri dal reattore di Dimona, senza causare danni o feriti.
   A seguito dell'accaduto, in una conferenza stampa tenutasi a Tel Aviv, il ministro della difesa israeliano Benny Gantz, ha dichiarato che "le Idf hanno lavorato per prevenire un potenziale attacco su beni critici nello Stato di Israele. Un modello SA-5 di missile terra-aria è stato lanciato (dalla Siria). C'è stato un tentativo di intercettarlo, che non è riuscito. Stiamo ancora indagando sull'evento".

(ofcs.it, 23 aprile 2021)


L'ultimo ebreo lascia Kabul

Con i talebani che rischiano di riprendersi il paese, Zablon Simintov ha deciso di chiudere la sinagoga ed emigrare in Israele. Ma sono tanti quelli che hanno già abbandonato le regioni dell'Asia Centrale.

di Davide Cancarini

L'Asia Centrale è sempre stata nota per essere un crocevia di culture e popolazioni. Ma questo inestimabile patrimonio si sta lentamente prosciugando, come dimostra anche la storia di Zablon Simintov, considerato l'ultimo ebreo d'Afghanistan. Nato nel 1959 a Herat, dopo decenni di resistenza ha deciso di gettare la spugna e trasferirsi in Israele. La goccia è stata la decisione degli Stati Uniti di aprire un negoziato con i Talebani, mossa che fa presagire un loro ritorno al potere. A parte una parentesi in Turkmenistan, Simintov ha passato tutta la vita in Afghanistan, commerciando tappeti e gioielli a Kabul e tenendo al contempo attiva l'unica sinagoga del Paese. Che a breve quindi verrà chiusa, ponendo fine a una presenza ebraica che alcuni studiosi fanno risalire a duemila anni fa: a metà del XX secolo la comunità contava quasi 40mila persone. A pesare sulla decisione del 61 enne è stata anche la volontà di riunirsi alla moglie, originaria del Tagikistan, e alle figlie, che vivono dalla fine degli anni 90 in Israele. Ma l'incerto futuro politico e sociale del Paese ha giocato un ruolo di primo piano. Proprio dal Tagikistan è arrivata a fine gennaio un'altra doccia fredda: la scomparsa di Jura Abaev, ultimo ebreo di Khujand, dove a fine anni 80 vivevano 15mila appartenenti alla comunità. Abaev aveva tentato tre volte di stabilirsi in Israele, tornando però sempre sui suoi passi. Un ripensamento che non ha riguardato le decine di migliaia di ebrei che abbandonarono l'area dopo il crollo dell'Urss, per timore del nazionalismo e dell'islamismo strisciante nelle neonate repubbliche. A farne le spese anche l'antica comunità di Bukhara, in Uzbekistan, prima del 1991 composta da oltre 40mila persone, quota a cui ora bisogna togliere almeno uno zero. Intanto un piccolo ma tenace gruppo di ebrei di Tashkent, capitale dell'Uzbekistan, sta provando a impedire che una società di costruzioni demolisca una sinagoga vecchia più di 120 anni. La modernità avanza in Asia Centrale, ma una parte fondamentale della sua identità rischia di andare persa.

(la Repubblica, 23 aprile 2021)


Una nuova guerra navale: Israele punta a cambiare le regole

di Lorenzo Vita

La guerra segreta che si combatte tra Iran e Israele entra anche nel diritto internazionale. Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, infatti, i funzionari dello Stato ebraico hanno avviato da tempo un progetto di revisione delle regole di guerra nel campo navale. Negli ultimi mesi, i funzionari della Difesa israeliana, in particolare quelli dell'avvocatura generale, hanno infatti partecipato a numerose riunioni che hanno avuto come obiettivo quello di definire le nuove regole di ingaggio della guerra in mare. Un settore "regolato" dal Manuale di Sanremo, e che adesso deve adeguarsi ai nuovi conflitti che caratterizzano il dominio marittimo.
   Ciò che interessa maggiormente Israele è il tema dei controlli sulle navi mercantili utilizzati per scopi bellici. L'articolo 67 del Manuale di Sanremo prevede infatti alcune particolari condizioni per poter colpire navi mercantili che battono bandiera neutrale. E queste condizioni riguardano la ragionevole possibilità che venga usate per il contrabbando o violino un blocco, il rifiuto espresso o la resistenza a una perquisizione o cattura, il compimento "azioni militari per conto del nemico" o il loro utilizzo per attività di intelligence e ausiliarie, fino a contribuire in generale qualsiasi tipo di azione da parte del nemico.
   Il testo dell'articolo 67, che viene citato appunto dai funzionari israeliani come il "problema", sembra coprire qualsiasi tipo di condizione. Il quotidiano israeliano pone l'accento sulle difficoltà di provare i sospetti per alcune navi accusate di essere strumenti di contrabbando di armi o di sostegno a gruppi terroristici. Ma fatta una premessa: Israele, così come altre potenze, ha sempre applicato in via analogica - e interpretandolo in maniera estensiva - il concetto di "legittima difesa preventiva" proprio per ispezionare o colpire qualsiasi nave considerata nemica o legata ai suoi avversari. Quindi, come spiegato da fonti di alto livello sentite da InsideOver, il problema è puramente formale: in questo momento c'è la necessità di fornire un quadro giuridico più dettagliato su ipotesi per le quali la Marina israeliana già agisce. Così come agiscono altre marine di tutto il mondo impegnate in aree di crisi.
   Questa necessità nasce anche da un altro fattore particolarmente rilevante, e cioè che formalmente Iran e Israele in guerra non lo sono. E in un'epoca di guerre ibride, asimmetriche e sostanzialmente mai dichiarate, è evidente che risulta sempre più complicato poter definire l'ambito di un'azione navale "nemica". Se non c'è un conflitto, di fatto non c'è nemmeno un nemico. Questione ancora più significativa se si pensa che il Manuale del 1994, come spiegato dalle nostre fonti, nasce in un periodo in cui l'esempio più vicino di guerra combattuta in mare e usato dagli esperti era quello delle Falkland. Quindi uno scenario completamente diverso da quello cui assistiamo oggi.
   In questi mesi la guerra per mare si è combattuta soprattutto con azioni di sabotaggi, attacchi cyber, colpi su mercantili sospettati di essere parte di un sistema nemico o di coprire azioni di guerra da parte del proprio Stato pur non essendoci mai un coinvolgimento diretto. Quindi non si tratta solo di una guerra "segreta" che colpisce mercantili utilizzati come navi militari, ma di una guerra volutamente lasciata in una zona grigia. Zona grigia che però mette a repentaglio la libertà di navigazione e soprattutto che rende estremamente pericoloso il passaggio su rotte di fondamentale importanza per il commercio mondiale.
   La decisone di Israele di puntare su questo aggiornamento legale potrebbe quindi nascere da due diverse esigenze. Da una parte la necessità di evitare di essere accusati di azioni illegali o di mettere a repentaglio la navigazione nelle acque del Mar Rosso o del Mare Arabico o del Mediterraneo orientale. Aggiornare questo insieme di regole, che non sono comunque vincolanti ma solo utilizzabili come parametri di riferimento, potrebbe quindi essere una mossa preventiva per continuare la politica che ha condotto da diversi anni nelle acque più vicine, in particolare contro cargo legati a Teheran. Dall'altra parte, questo tipo di spinta per la nuova regolamentazione potrebbe anche essere preludio di un riconoscimento internazionale di queste azioni, che fornendo un quadro legale chiaro anche per le altre nazioni darebbe ipoteticamente il via anche a missioni multilaterali per il controllo delle rotte e per colpire le navi "nemiche" ma che, tecnicamente, "nemiche" non lo sono.

(Inside Over, 23 aprile 2021)


Il Medio Oriente è vicino, boom delle serie tv israeliane

Impazzano in Italia sulle piattaforme digitali le produzioni che raccontano la vita e la storia recente della nazione ebraica, dalla guerra del Kippur alla questione palestinese

di Fiammetta Martegani

FAUDA, SHTISEL, TEHERAN - Israele chiama Italia. Sono soltanto i titoli di alcune delle serie televisive israeliane che negli ultimi anni, grazie a piattaforme come Netflix e Apple Tv, hanno conquistato il pubblico italiano mostrando le diverse sfaccettature di un Paese e di una realtà così complessa come il Paese israeliano.
   Fauda (Netflix, 2015-2020), ormai alla sua terza stagione, ha cercato di raccontare la complessità del conflitto arabo-israeliano, attraverso le impervie missioni di un'unità speciale delle forze di difesa, i cui soldati sono addestrati per infiltrarsi tra i nemici nei Territori palestinesi e a Gaza. Il grande merito di quest'opera, oltre a uscire dai soliti stereotipi, è stato quello di aver trasformato l'archetipo della lotta tra Davide e Golia in quello di Davide contro Davide, con una rappresentazione decisamente empatica del nemico, a partire dalla scelta di far parlare i protagonisti in entrambe le lingue.
   In Valley of Tears (Hbo, 2020) viene narrata la Guerra di Yom Kippur, consumata nel 1973 lungo il confine siriano. Oltre al violento e sofferente scontro tra i due schieramenti, viene esplorato anche uno dei conflitti maggiori interni a Israele: quello tra ebrei di origine ashkenazita e di origine sefardita. Si tratta di una profonda ferita del Paese, che mostra luci e ombre di una nazione così giovane e ancora alla ricerca della propria identità.
   Un altro momento storico cruciale, che risale ali' estate del 2014, viene descritto in Our Boys (Hbo, 2019), con l'assassinio di un ragazzo palestinese da parte di estremisti ultraortodossi, a seguito del rapimento e dell'uccisione di tre giovani ebrei, per mano di terroristi palestinesi. Partendo dal!' episodio di cronaca (che innescò, a poche settimane di distanza, l'operazione militare "Margine di protezione") in quest'opera si cerca di indagare il punto di vista delle due parti, e come l'eterno sentimento di vendetta sia una delle principali ragioni che impedisce ai due popoli di avviare un dialogo. L'impossibilità di trovare un terreno comune su cui costruire le basi per un Medio Oriente pacificato è uno dei temi principali anche in Teheran (Apple Tv, 2020), che racconta la vita di una giovane hacker, nata in Iran ma cresciuta in Israele, dove il Mossad le affida l'incarico di tornare in patria per manomettere una centrale nucleare iraniana. Durante la missione, però, le cose si complicano, portando a cambiare anche il punto di vista della protagonista, che si trova bloccata nella repubblica islamica con altre donne, come lei, dalla doppia identità: uno spaccato sulla complessità della cultura israeliana, ibrida per definizione, con una rappresentazione dell'eroina che supera il classico paradigma del soldato israeliano, maschio e nerboruto.
   Aldilà dei conflitti esterni, il conflitto intergenerazionale e il rapporto con la fede viene descritto in modo magistrale tramite le vicissitudini di una famiglia. In Shtisel (Netflix, 2013-2021) Akiva, il figlio minore, per ben tre stagioni, tarda ad accasarsi, causando apprensione e malcontento all'interno della comunità religiosa a cui appartiene, per dedicarsi, piuttosto, alla sua vera passione: la pittura, altra attività accettata di malgrado tra gli ultraortodossi. Specialmente dal padre rabbino, con cui discute tra una sigaretta e l' altra da un balcone pericolante in una Gerusalemme al confine tra passato e futuro.
   Un mondo a distanza anni luce da chi in Israele non vive e che, grazie a queste serie tv, può conoscere e capire meglio, attraverso lo sguardo dei protagonisti che, dopo solo un episodio, ci si dimentica da dove vengono, che lingua parlano e per chi pregano, e ci si sente immediatamente parte della loro storia. Che è anche la storia di un intero Paese.

(Avvenire, 23 aprile 2021)


Come fermare le minacce dell'Iran - Intervista all'analista Raz Zimmt

di Ugo Volli

Raz Zimmt è un ricercatore dell'Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale (INSS) dell'Università di Tel Aviv, uno dei maggiori esperti israeliani in politica e strategia iraniana. Di se stesso ama dire che fisicamente vive in Israele, ma virtualmente sta sempre in Iran. "Shalom" lo ha intervistato per avere un quadro della situazione della maggiore sfida politica e militare cui deve fare fronte oggi Israele.

- Raz Zimmt, perché l'Iran vuole distruggere Israele? Perché gli ayatollah investono tante energie contro uno stato con cui non hanno neanche un confine in comune?
  "Ci sono tre ragioni. Una è ideologica e religiosa. Il regime iraniano crede che gli ebrei siano solo uniti dalla religione e non siano un popolo. Dicono di non avere nulla contro gli ebrei, ma considerano il sionismo una congiura imperialista, Israele un'entità abusiva piantata in mezzo al mondo islamico per indebolirlo. La seconda ragione è geopolitica. Israele è il loro maggior rivale nella regione in termini di potenza economica e militare, il principale ostacolo alla loro egemonia. La terza ragione è propagandistica: nel mondo arabo e musulmano c'è ancora una diffusa animosità nei confronti di Israele, e chi mostra di combatterlo gode di molta popolarità. Israele è il nemico per eccellenza, insieme agli Stati Uniti; ma con gli Usa l'Iran ha accettato di venire a patti, con Israele non intende farlo."

- Può cambiare questo atteggiamento?
  "Non credo; è sbagliato farsi illusioni in merito. E' fra le basi del loro progetto politico"

- È possibile che gli ayatollah siano rovesciati?
  "Questo non lo sa nessuno. Dentro il paese ci sono evidenti tensioni sociali etniche e politiche. I giovani sono ostili al regime. La crisi economica è pesante. C'è un movimento di rifiuto, da non confondere con il groppo che i media chiamano moderato, che non è una vera opposizione. Ma il regime è forte e unito, ha la fiducia del corpo militare più potente, le Guardie Rivoluzionarie, mentre le forze contrarie sono poco organizzate, non riescono a mobilitare i milioni di persone che servirebbero. Insomma, se domani mi dicessero che il regime iraniano è caduto, potrei dirne il perché, ma non credo che qualcuno oggi possa sapere se e quando questo accadrà. Anche la politica di massima pressione economica dell'amministrazione Trump, che mirava a scardinare il regime, è in sostanza fallita. Per questo oggi gli Usa cercano un'altra strada."

- Questo è il problema. Perché prima Obama e ora Biden abbandonano gli alleati tradizionali come Israele, per cercare di accordarsi con l'Iran?
   "Non direi che gli Usa vogliono cambiare alleanze. Per Biden oggi altri temi sono più importanti, il Covid, la Cina... C'è accordo negli Usa come in Israele per impedire all'Iran di avere armi atomiche. Il dissenso è su come arrivarci. La politica della massima pressione e l'abbandono dell'accordo JCPOA (The Joint Comprehensive Plan of Action ) da parte di Trump puntava a far cambiare politica all'Iran ed è fallito. L'amministrazione Biden si limita a voler rimandare il problema e pensa che il modo più efficace sia diplomatico. Il vecchio accordo doveva durare una quindicina d'anni, il che è poco in termini assoluti, ma è più di quanto si possa ottenere con altri mezzi. E' probabile per esempio che un bombardamento delle istallazioni iraniane porterebbe solo a un rinvio di un anno o due. Oggi si tratta di vedere se è possibile espandere i termini e allargare i temi dell'accordo, per esempio ai missili"

- Alcuni dicono che l'Iran abbia già la bomba…
  "Non credo proprio. Non si comporterebbero come fanno. Non penso neanche che vogliano avere in mano immediatamente l'armamento nucleare. Probabilmente a loro per il momento basta giungere molto vicino, far sapere che possono arrivarci nel giro di qualche settimana o mese, per usarla come uno strumento di pressione e di assicurazione politica."

- Che cosa dovrebbe fare Israele?
  "Innanzitutto non opporsi frontalmente all'America. Noi non siamo uno stato satellite, possiamo avere seri dissensi con la politica americana, dobbiamo badare da soli alla nostra sicurezza, ma l'alleanza con gli Usa è fondamentale. In secondo luogo bisogna rendersi conto che la sfida con l'Iran e sfaccettata, fatta di molti temi e molti livelli, ognuno dei quali richiede una politica adatta. I problemi principali oggi sono due. Uno è quello nucleare. In Israele siamo tutti d'accordo per impedire all'Iran l'accesso all'armamento atomico,si discute sul modo. Secondo me l'opzione più razionale in questo momento è quella diplomatica e non militare."

- Ma sul terreno c'è già un continuo scontro militare.
  "Sì, questo riguarda la Siria, in parte il Libano dove l'Iran arma Hezbollah e altri luoghi. Io non credo che si possa convincere l'Iran a mutare politica e a smettere di cercare di assediarci. Penso che dobbiamo contrastarlo con la forza, come stiamo facendo da molti anni."

- Insomma la situazione è destinata a restare più o meno come è oggi.
  "Per quanto può vedere un analista come me sì. Ogni idea di far cambiare rotta all'Iran, con le armi o la pressione o la convinzione è solo fantasia, desiderio. La politica iraniana cambierà solo con un mutamento di regime. Ma questo non dipende da noi, solo dal popolo iraniano."

(Shalom, 23 aprile 2021)


Strage di Nizza, complice attentatore arrestato a Caserta

La Polizia di Stato di Napoli e Caserta ha arrestato Endri Elezi, 28enne cittadino albanese colpito da un mandato d'arresto europeo emesso dalle autorità francesi, ritenuto complice di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, autore della strage di Nizza il 14 luglio 2016, in cui morirono 86 persone, tra cui sei nostri connazionali.
L'operazione, coordinata dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione con la collaborazione del Compartimento della Polizia Postale e delle Comunicazioni della Campania, ha portato all'individuazione di Elezi a Sparanise, in provincia di Caserta.
Arrivato in città da alcuni mesi, il presunto complice lavorava come bracciante agricolo e abitava con la moglie e il figlio in zona centrale.
A raccontarlo è stato il sindaco del comune campano, Salvatore Martiello:
"Lo conoscevo di vista, non era un personaggio in vista per qualche motivo particolare, non era un 'sospettabile'. Credo fosse a Sparanise dall'estate scorsa, non da tantissimo tempo".
Che le indagini sulle complicità avute da Mohamed Lahouaiej Bouhlel portassero in Italia non è una cosa nuova.
Già pochi giorni dopo la strage di Nizza, le autorità francesi avevano invitato i loro omologhi italiani a indagare a Bari, dove si pensava che l'attentatore fosse stato aiutato da un tunisino, collegato a una coppia di albanesi arrestati.
Non è stato rivelato se la segnalazione di cinque anni fa e l'operazione di polizia di ieri abbiano qualche collegamento. Fatto sta che ancora una volta l'Italia è entrata nelle indagini in merito al terrorismo islamico in Europa.
L'arresto di Endri Elezi è stato commentato da Piero Massardi, marito di Carla Gaveglio, casalinga di Piasco, rimasta uccisa nell'attentato di Nizza:
"Una notizia che mi coglie impreparato che fa riaffiorare i ricordi. Il dolore come si può immaginare non passa, ma certo questa è una buona notizia anche se aspetto sempre che la Francia chiuda questo capitolo".
Il terrorismo islamico continua a essere una minaccia per l'Europa e continua a passare molto spesso per l'Italia…

(Progetto Dreyfus, 22 aprile 2021)


Elezioni palestinesi, si profila il rinvio. Fatah ci pensa con il beneplacito Usa

Il quotidiano "Al Quds" cita la preoccupazione americana per un rafforzamento di Hamas. Il casus belli per il posticipo o addirittura l'annullamento sarebbe l'eventualità che Israele impedisca l'apertura delle urne a Gerusalemme Est. Qualcuno allude a un patto non scritto tra Abu Mazen e Netanyahu. Ma in caso di stop al voto si temono disordini nei Territori.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME. Si fa sempre più concreta l'eventualità di un rinvio delle elezioni legislative palestinesi fissate per il prossimo 22 maggio. Lo scetticismo sulla materializzazione dell'atteso appuntamento elettorale - il primo negli ultimi 15 anni - era espresso da diverse voci di corridoio sin dalla convocazione ufficiale il 15 gennaio scorso.
   Ora la possibilità del rinvio è ventilata anche dalle massime cariche dell'Autorità Palestinese (Anp), con il beneplacito degli Stati Uniti. A dare il via allo sdoganamento della possibilità del rinvio - che potrebbe tradursi anche in un annullamento - è stato un editoriale venerdì del quotidiano Al Quds, che citava una fonte di Washington secondo cui l'amministrazione Biden "non si opporrebbe alla decisione dell'Anp di posticipare le elezioni", consapevoli delle "numerose sfide che si pongono davanti al Presidente Mahmoud Abbas" (Abu Mazen). E non si parla solo della divisione tra Fatah e Hamas, le due fazioni che non sono mai riuscite negli anni a sanare la frattura emersa dopo le elezioni del 2006 e la conseguente epurazione della leadership di Fatah dalla Striscia di Gaza nel 2007, da allora governata da Hamas. Abu Mazen arriva infatti alle elezioni del 2021 con una rivalità anche "in casa", dal momento che il suo partito Fatah ha subito delle defezioni importanti e sono almeno tre le liste che rivendicano di rappresentare gli ideali del partito di governo.
   Al Quds citava la preoccupazione americana rispetto a un eventuale rafforzamento elettorale di Hamas - riconosciuto come organizzazione terroristica anche dall'Unione Europea - mettendo in pericolo le prospettive di una "soluzione a due Stati". Martedì, invece, Nabil Shaath, uno degli uomini più vicini ad Abu Mazen, ha rilasciato al giornale libanese An-Nahar la prima dichiarazione ufficiale in merito, rivelando che "il rinvio delle elezioni palestinesi è probabile, se la pressione globale su Israele per permettere le elezioni a Gerusalemme dovesse fallire". Il ministro degli Esteri palestinese, Riyad Al Malki, è impegnato proprio in questi giorni in un tour europeo che l'ha visto incontrare lunedì anche l'Alto Rappresentante per la Politica estera dell'UE Josep Borrell. Secondo fonti palestinesi, la decisione verrà presa la settimana prossima, a seguito di un incontro tra i vertici di Ramallah.
   La questione delle elezioni a Gerusalemme Est viene citata ufficialmente come il "casus belli" che farebbe saltare il ritorno alle urne. Il riferimento è all'eventualità che Israele impedisca l'accesso al voto ai palestinesi di Gerusalemme - circa 160,000 aventi diritto. Israele finora non si è espresso in merito e la votazione è stata possibile nelle precedenti tornate elettorali del 1996, del 2005 e alle presidenziali del 2006. Diversi editorialisti israeliani indicano come potrebbe essere proprio Israele, in una sorta di tacito accordo con l'Anp per preservare lo statu quo garantito dalla figura di Abu Mazen, a fornire quindi la scusa ufficiale all'85enne Presidente palestinese per rimandare a un indefinito momento più propizio le legislative.
   "È fondamentale mantenere le elezioni" dice a Repubblica il professore Sari Nusseibeh, già presidente della Al Quds University e candidato nella lista "Futuro" legata a Mohammad Dahlan, arcirivale di Abu Mazen, espulso da Fatah e in esilio ad Abu Dhabi dal 2011. "Le istituzioni palestinesi sono esautorate da tempo, le elezioni sono essenziali per portare avanti le riforme di cui abbiamo bisogno". Secondo Nusseibeh, che vive a Gerusalemme Est, "esiste un accordo che regola la votazione dei palestinesi a Gerusalemme, una parte tramite gli uffici postali e la maggior parte nei seggi in Cisgiordania", a cui i palestinesi di Gerusalemme Est possono accedere. Fare di Gerusalemme Est una questione di principio sarebbe quindi un modo per guadagnare tempo rispetto al dissenso interno che sta montando all'interno di Fatah, che si potrebbe tradurre molto facilmente in una disfatta per Abu Mazen.
   Nel frattempo, secondo quanto riportato dal quotidiano Walla!, l'esercito israeliano si starebbe preparando a una possibile escalation di violenza nei Territori Palestinesi qualora si dovesse concretizzare lo scenario di rinvio del voto, per il quale il 93% degli aventi diritto si sarebbe registrato, secondo i dati del Comitato centrale elettorale palestinese. Nusseibeh non crede che si arriverebbe a scontri significativi, anche se "di certo una mossa del genere da parte di Abu Mazen intensificherebbe l'opposizione interna". Secondo Nusseibeh, in caso di rinvio, Fatah sarebbe spinto a cercare di riportare a casa i ribelli, in particolare la lista guidata da Nasser al Qudwa, nipote di Yasser Arafat, espulso il mese scorso da Fatah per aver espresso una linea critica al partito, e che gode del significativo sostegno di Marwan Barghouti, icona della resistenza palestinese che sconta cinque ergastoli in carcere israeliano come mandante di diversi attentati terroristici nel periodo della Seconda Intifada.
   A un mese dalle elezioni, nessuno è pronto a scommettere su quale scenario si concretizzerà. "Chi non ha paura dei risultati spera si vada avanti", conclude.

(la Repubblica, 22 aprile 2021)


Israele e Marocco si incontrano per rafforzare i legami e la cooperazione

Il ministro per la cooperazione regionale di Israele, Ofir Akunis, ha incontrato, mercoledì, l'ambasciatore designato e il capo dell'ambasciata marocchina per discutere i risultati della normalizzazione dei legami e promuovere un'ulteriore cooperazione reciproca.
   Akunis ha assicurato ad Abdel Rahim Al-Bayoud che avrebbe "lavorato per promuovere la joint venture tra i due Paesi" e che i cittadini israeliani, molti dei quali sono immigrati dal Marocco o hanno origini marocchine, "sono felici ed entusiasti del rapporto che si sta forgiando".
   Il ministro israeliano ha sottolineato che l'accordo di normalizzazione firmato lo scorso anno ha "enormi potenzialità" per il commercio, l'economia, il turismo, la tecnologia e l'innovazione. "L'accordo cambia radicalmente la situazione politica nella nostra regione, creando un'atmosfera completamente nuova in Medio Oriente".
   Secondo il Jerusalem Post, l'ambasciatore marocchino si è dichiarato "felicissimo" di essere ospitato dall'Ufficio per la Cooperazione Regionale. "Questo storico accordo di pace tra i due Paesi ha notevolmente soddisfatto il popolo marocchino che ama Israele. La tradizione ebraica è parte integrante della cultura marocchina", ha detto Al-Bayoud.
   L'ambasciatore ha condiviso le sue aspettative per l'accordo, a partire dal suo intento di "rafforzare le relazioni turistiche tra i Paesi aprendo una linea aerea diretta" dopo il mese di Ramadan in corso.
   Il suo incontro con Akunis è avvenuto dopo che le istituzioni israeliane e marocchine hanno firmato due accordi all'inizio di questo mese per aumentare la cooperazione nell'economia e nell'istruzione, ha osservato il capo della missione diplomatica israeliana in Marocco, David Govrin.
   Il primo accordo è stato firmato tra la Confederazione Generale delle Imprese Marocchine, il più grande gruppo aziendale in Marocco, e una delle principali società tecnologiche israeliane, IBEO, ha spiegato Govrin su Twitter. Un altro accordo è stato firmato dalla National School of Business and Management di Casablanca e dalla School of Management dell'Università di Tel Aviv.
   Nel 2000, il Marocco aveva tagliato tutti i legami con Israele dopo la violenta risposta di quest'ultimo alla Seconda Intifada (Al-Aqsa) e la sospensione dei colloqui di pace con i Palestinesi. Tuttavia, ha ripristinato le relazioni diplomatiche a dicembre nell'ambito di un accordo supportato dagli USA, diventando dallo scorso anno il quarto paese arabo ad accettare la normalizzazione con Israele dopo Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan.

(infopal, 22 aprile 2021)


Articolo complessivamente equilibrato (fatto singolare per questo sito pro-palestinese), a parte quel riferimento alla " violenta risposta di quest'ultimo (Israele) alla Seconda Intifada (Al-Aqsa)". Violenta la risposta di Israele? Nella seconda intifada i palestinesi mandavano i bambini a farsi esplodere per fare strage di ebrei. M.C.


Missile terra-aria siriano non intercettato, comunicano le Forze di Difesa Israeliane

Le indagini preliminari su un incidente con un missile terra-aria lanciato dalla Siria in territorio israeliano hanno indicato che non è stata effettuata alcuna intercettazione effettiva, hanno detto le Forze di Difesa Israeliane (IDF).
In precedenza, le IDF hanno riferito che un missile terra-aria era stato sparato dalla Siria nella regione del Negev meridionale di Israele. Il missile è caduto prima, vicino al Centro di ricerca nucleare Shimon Peres Negev
I militari hanno aggiunto che in risposta ha colpito la batteria da cui è stato lanciato il missile e altre batterie terra-aria in Siria.
La SANA ha riferito in precedenza che i sistemi di difesa aerea siriana hanno respinto un attacco missilistico israeliano avvenuto nell'area della città di Dumayr, circa 45 km a nord-est della capitale Damasco, aggiungendo che almeno quattro soldati siriani sono rimasti feriti a causa dell'attacco.

(Sputnik Italia, 22 aprile 2021)


Perché Israele vuole annullare 10milioni di dosi del vaccino AstraZeneca

Israele ha chiesto di annullare un ordine di vaccini AstraZeneca o, in alternativo, di poter indirizzare 10 milioni di dosi in arrivo ad altri Paesi

Quello di Israele rappresenta oggi uno dei migliori modelli di vaccinazione di massa: la maggior parte della popolazione ha ricevuto entrambe le dosi del trattamento anti Covid, tanto che le restrizioni sono state già allentate e non vige più l'obbligo di mascherina all'aperto. In questo scenario, con l'emergenza sanitaria in parte rientrata, le autorità hanno chiesto di annullare un ordine AstraZeneca.
A differenza di quanto accadeva l'anno scorso, quando nel 2020 la pandemia era al suo culmine e il Governo si era attivato per assicurarsi le dosi (preordinandone un certo numero), adesso il Paese ha deciso addirittura di rinunciare ad alcuni vaccini, prediligendone altri.

- Perché Israele vuole annullare l'ordine di vaccini AstraZeneca?
  "Stiamo cercando di trovare la soluzione migliore. Dopotutto, non vogliamo che i vaccini che arrivano qui debbano essere poi gettati nella spazzatura", ha detto il funzionario, Nachman Ash, a Army Radio (emittente locale), spiegando come i bisogni di Israele siano stati ormai soddisfatti da altri fornitori.
Israele, così, sta cercando di annullare un ordine di 10mila dosi di AstraZeneca, valutando l'invio altrove dei vaccini in cantiere. Durante il suo intervento, Ash non ha fatto alcun riferimento ai rari casi di coaguli di sangue e trombosi su cui gli enti sanitari sono stati chiamati ad indagare e pronunciarsi, ma ha affermato che con le forniture assicuratisi fino al 2022, Israele non ha più bisogno delle 10 milioni di dosi che ha accettato di acquistare da AstraZeneca che, al contrario, potrebbero essere indirizzate dove vi è maggior necessità.
Sulla questione, i funzionari di AstraZeneca non hanno ancora rilasciato commenti.

- Israele vicino al ritorno alla "normalità": quanti e quali i vaccini somministrati?
  "Se qualcuno avesse ancora dubbi su come l'andamento della campagna vaccinale possa influenzare l'allentamento delle restrizioni e il tanto agognato "ritorno alla normalità", basta dare un'occhiata a cosa sta succedendo a Israele per farsi un'idea.
Ad oggi, l'81% dei cittadini israeliani o residenti sopra i 16 anni - la fascia di età ammissibile per il vaccino Pfizer/BioNTech in Israele - ha ricevuto entrambe le dosi.
Dei 5,2 milioni di palestinesi presenti nella Cisgiordania occupata e nella Gaza gestita da Hamas, circa 167.000 hanno ricevuto almeno una dose di vaccino, con rifornimenti provenienti da Israele, Russia, Emirati Arabi Uniti e dal programma globale di condivisione del vaccino COVAX e Cina.
Nella maggior parte dei casi sono stati somministrati i vaccini Pfizer-BioNTech e Moderna.

(Qui Finanza, 22 aprile 2021)


Sullo sfondo le limitazioni

Ramadan di scontri e arresti a Gerusalemme

di Michele Giorgio

Gerusalemme - Proteste palestinesi così ampie come quelle viste nelle ultime sere alla Porta di Damasco di Gerusalemme non si registravano dall'estate del 2014.
In quel periodo a scatenarle fu il piano di alcuni israeliani di estrema destra di vendicare gli omicidi in Cisgiordania di tre adolescenti ebrei che portò all'assassinio di un ragazzo, Mohammed Abu Khdeir.
Questa volta sono state le limitazioni anti-Covid all'ingresso nella città vecchia e sulla Spianata della moschea di Al Aqsa per le preghiere del mese di Ramadan. E anche le intimidazioni gravi da parte di giovani ebrei a palestinesi nel centro di Gerusalemme, alcuni dei quali sono stati picchiati. Azioni a cui i palestinesi hanno reagito con un'aggressione a un giovane religioso ebreo e a un automobilista israeliano. Sullo sfondo c'è la «crisi diplomatica» per il divieto, molto probabile ma non ancora annunciato dal governo Netanyahu, alla partecipazione dei palestinesi di Gerusalemme Est alle elezioni per il Consiglio legislativo palestinese del 22 maggio. L'Anp del presidente Abu Mazen ripete che senza Gerusalemme Est le elezioni non si terranno.
Incidenti fra giovani palestinesi e reparti della polizia israeliana si sono verificati anche ieri al termine delle preghiere serali nelle moschee, quando migliaia di persone hanno lasciato Al Aqsa e si è creato un assembramento alla porta di Damasco. I poliziotti ancora una volta hanno usato il pugno di ferro ricorrendo a granate assordanti, lacrimogeni, cannoni ad acqua, cariche di agenti a cavallo.
Solo nelle ultime ore sono stati arrestati almeno 30 palestinesi, numerosi quelli feriti o contusi. Scontri sono avvenuti anche a Giaffa (Tel Aviv) dove gli abitanti palestinesi contestano l'assegnazione a israeliani ebrei di case arabe confiscate in passato dallo Stato. La scorsa settimana hanno aggredito un rabbino.
L'annullamento delle elezioni palestinesi a causa di un «no» israeliano al voto a Gerusalemme Est, farebbe salire ulteriormente la tensione. Qualche sera fa Nabil Shaath, un consigliere di Abu Mazen, ha detto che se Israele, in violazione degli Accordi di Oslo (1993-94), continuerà a ignorare la richiesta dell'Anp «il voto sarà rinviato». Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri palestinese Riad al Malki è partito per Bruxelles nel tentativo di convincere l'Alto rappresentante Ue per gli affari esteri Josep Borrell a premere su Israele affinché consenta agli abitanti di Gerusalemme Est di partecipare alle elezioni.
Al momento non si sa quando Israele comunicherà la sua posizione. Abu Mazen ha fretta di decidere perché non può annullare le elezioni pochi giorni prima dell'apertura delle urne, finirebbe per alimentare i sospetti, già concreti, di tanti palestinesi riguardo i suoi timori per una vittoria degli islamisti di Hamas. Un sondaggio diffuso ieri indica peraltro una sonora sconfitta del leader dell'Anp alle presidenziali del 31 luglio se, come sembra, si candiderà Marwan Barghouti, popolare prigioniero politico palestinese da 19 anni in carcere in Israele.

(il manifesto, 22 aprile 2021)


Come al solito, nella lotta dei palestinesi fra loro, il modo migliore per coprire interessi di parte è sempre incolpare di tutto Israele. M.C.


Caso Halimi - «La sentenza può favorire manifestazioni di antisemitismo»

A seguito della conferma da parte della Corte di Cassazione francese della sentenza secondo cui Kobili Traore non sarà processato per l'omicidio di Sarah Halimi avvenuto nel 2017, Shalom ha intervistato Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte costituzionale e già Ministro di Grazia e Giustizia.

di Ariela Piattelli

Professore, il timore delle comunità ebraiche e di parte della collettività è che questa sentenza, ritenuta ingiusta, possa creare un precedente importante e rappresentare un avallo per i crimini d'odio e di antisemitismo. Cosa ne pensa?

  Ovviamente non entro nello svolgimento dei fatti e nel merito della decisione da un punto di vista tecnico, non conoscendo né gli uni né l'altra. Dalla lettura della sentenza si comprende che l'imputato è stato ritenuto affetto da un disturbo psichico dovuto all'assunzione di stupefacenti e ha commesso il fatto per motivi legati alla propria religione islamica. La risonanza della decisione potrebbe in effetti condurre in casi analoghi al ricorso all'infermità di mente come motivo di esclusione della responsabilità di chi commetta un crimine a matrice antisemita.

- L'assassino è stato assolto in corte d'appello perché ritenuto "non in sé" dopo aver assunto droghe (marjuana). L'interpretazione della legge, che Macron indignato per la vicenda ha proposto di cambiare, la reputa corretta?

  La Corte di cassazione francese ha ritenuto che l'imputato fosse affetto da un disturbo psichico, dovuto all'assunzione regolare di cannabis. Dalla lettura della sentenza sembra comprendersi che l'autore è stato assolto perché ritenuto affetto da psicosi cronica causata dalla regolare assunzione di stupefacenti e l'omicidio è stato ritenuto il momento dirompente di un delirio già in atto. Non sono in grado di affermare se la legge penale francese sia stata correttamente applicata nel caso concreto. Certamente la decisione potrebbe convincere il Parlamento francese a rivedere le norme in materia di imputabilità, sotto il profilo della loro interpretazione.

- In Italia crede sia possibile una situazione analoga?

  In Italia l'incapacità di intendere e di volere può essere riconosciuta in caso di accertata infermità di mente (art. 88 c.p.). Il fatto commesso sotto l'azione di sostanze stupefacenti non esclude l'imputabilità. Anzi, se l'assunzione è abituale, o preordinata al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa, costituisce un aggravante. Solo ed esclusivamente l'intossicazione cronica effettivamente esistente, ossia l'assunzione di sostanze che provochino alterazioni patologiche permanenti, può escludere l'imputabilità (art. 95 c.p.). In tal caso, tuttavia, è necessario accertare nel processo che: esista uno stato di intossicazione cronica; questa si sia risolta in una vera e propria malattia mentale. Di conseguenza situazioni analoghe potrebbero in concreto verificarsi raramente, secondo l'interpretazione della nostra giurisprudenza.

- Lei che si è battuto per i diritti dell'uomo, e che ha sostenuto le ragioni della comunità ebraica in molte occasioni, pensa che a volte la legge possa entrare in conflitto con valori come quello della lotta all'antisemitismo?

  Non sempre è garantita l'effettiva tutela delle minoranze, in specie quelle religiose, in particolare quella ebraica: basta pensare alle leggi naziste e fasciste prima dell'ultima guerra mondiale in tema di persecuzione antiebraica; alla tragedia della Shoah; alla trasformazione dell'antisemitismo in una forma di antisionismo, tanto da rendere necessarie una convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla discriminazione razziale e una serie di leggi nel nostro ordinamento nazionale. Negli ultimi anni sono aumentate a livello globale le manifestazioni d'odio antisemita. Non è semplice trovare il giusto equilibrio fra libertà personale, libertà di espressione e libertà religiosa. Bisognerebbe però dare maggiore attenzione alla tutela di categorie più deboli e discriminate in riferimento a fatti gravi, non ci si può limitare al solo aumento delle sanzioni. La lotta all'antisemitismo è anzitutto una battaglia culturale e di civiltà, che la nostra Costituzione individua come valore fondante ed essenziale, vietando ogni forma di discriminazione basata sulla razza (concetto, quest'ultimo, che si è dimostrato essere inesistente ma che testimonia le atrocità commesse in suo nome).

- Possono queste vicende fare da apripista a manifestazioni ed atti di antisemitismo?

  Atti di antisemitismo continuano ad avvenire giornalmente, tanto nella forma della violenza fisica contro singole persone, quanto nella veste di azioni offensive verso la comunità ebraica in generale. A ciò si aggiunge il dilagante odio sul web. Il ricorso alla infermità di mente potrebbe diventare frequente in caso di atti terrorismo e di apologia a cosiddetta "matrice islamica" e questa vicenda potrebbe aggravare la diffusione di manifestazioni antisemite in Europa.

- La Francia ebraica ed alcune comunità ebraiche del mondo scenderanno in piazza a manifestare il 25 aprile. Gli avvocati dell'accusa vorrebbero appellarsi alla corte dei diritti dell'uomo ed all'Unione Europea. Crede si possa porre rimedio alla questione? Quali sono gli scenari?

  L'art. 14 CEDU vieta ogni forma di discriminazione che possa impedire il pieno godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Si potrebbe ricorrere alla Corte Europea seguendo due passaggi: affermando prima che nel caso di specie vi sia stata una violazione dell'art. 14 CEDU; sostenendo poi che i rimedi interni all'ordinamento francese non siano idonei a garantire il rispetto del divieto di discriminazione. Non è una via semplice: si dovrebbe provare che la normativa penale francese, in tema di imputabilità e in riferimento ai crimini d'odio, non sia tale da tutelare di fatto il diritto alla vita e alla libertà religiosa delle persone francesi di fede ebraica. Ma è una battaglia che deve essere condotta non solo dalla Francia, ma da tutti in nome della Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite del 1948.

(Shalom, 22 aprile 2021)


M-346 per la Grecia che allarga la cooperazione militare a Israele ed Emirati

La Grecia ha annunciato l'espansione della cooperazione militare con gli alleati della Nato e con le potenze mediorientali per modernizzare le sue forze armate in seguito alle crescenti tensioni con la vicina Turchia.
Il primo ministro Kyriakos Mitsotakis ha visitato ieri la base aerea di Andravida nel sud della Grecia in occasione delle esercitazioni militari INIOCHOS 21 a cui partecipano aerei da combattimento provenienti da Stati Uniti, Francia, Israele, Spagna ed Emirati Arabi Uniti.
  "Non possiamo essere ingenui. Stiamo affrontando una nuova serie di minacce", ha detto Mitsotakis, parlando in un hangar di fronte agli aerei che prendono parte alle esercitazioni, "Il nostro mondo è estremamente complesso e il nostro vicinato, purtroppo, sta diventando sempre più instabile. La Grecia continuerà a rafforzare le sue capacità di difesa e ad aggiornare le sue forze armate".
L'annuncio fa seguito all'accordo annunciato il 16 aprile (ma già da tempo anticipato da Analisi Difesa) del valore di 1,65 miliardi di euro per la costituzione di un centro di addestramento per i piloti da jet fighter dell'Aeronautica Ellenica realizzato dalla società israeliana Elbit Systems.
  Il Centro greco internazionale di addestramento al volo (Greek International Flight Training Center), sarà equipaggiato con dieci aerei M-346, prodotti dalla compagnia italiana Leonardo. Elbit fornirà inoltre i kit di aggiornamento per gli addestratori basici greci T-6 e fornirà simulatori e supporto logistico.
L'accordo è stato siglato dal ministro della difesa greco, Nikolaos Panagiotopoulos, dal direttore generale del Direttorato per gli investimenti nella Difesa e gli Armamenti, generale Theodoros Lagios e dal generale Yair Kulas, capo della direzione del ministero della Difesa israeliano per la cooperazione internazionale in materia di difesa (Sibat).
  L'accordo, della durata di 22 anni, prevede che il centro di addestramento dei piloti di aerei da combattimento, simile a quello israeliano, sarà dotato di 10 velivoli da addestramento Leonardo M-346 di Leonardo.
L'accordo fa seguito al recente vertice tra i ministri degli esteri di Grecia, Cipro, Israele ed Emirati arabi uniti tenutosi a Cipro e che ha sancito una maggiore cooperazione anche nel settore della Difesa e Sicurezza.
  Secondo gli analisti di Banca Akros, per Leonardo questo accordo può valore oltre 300 milioni di euro ed "è una notizia positiva per Leonardo e non ancora scontata dal mercato", ricordando che il gruppo italiano punta a nuovi ordini per circa 14 miliardi di euro per quest'anno.
L'accordo ha fatto da traino al titolo azionario di Leonardo che il 19 aprile ha conseguito una crescita del 3,52 per cento a 7,288 euro, con un massimo toccato a 7,324 euro.

(Analisi Difesa, 21 aprile 2021)


Eylon Penchas: la frontiera del business nel deserto

di Claudia De Benedetti

Eylon Penchas è un investment manager israeliano che ama stupire gli amici, ma soprattutto i competitors con effetti speciali. Da oltre vent'anni lavora nel private equity, è specializzato in start up del settore high-tech. Professionalmente è nato in Bezeq, la compagnia nazionale israeliana di telecomunicazioni dove ha avviato progetti, ora di ordinaria amministrazione, che trent'anni fa erano all'avanguardia e dal grande potenziale come l'e-commerce e le connessioni satellitari.
   Come descriverebbe il suo lavoro? Sorride sornione, senza esitazione risponde: "ogni business ha il proprio DNA ma molte società affrontano i medesimi ostacoli per eccellere. Il mio lavoro consiste nell'affiancare il management, offrire soluzioni semplici, economiche e vincenti".
   Il nonno di Eylon era giudice a Berlino, riuscì a lasciare la Germania e raggiungere la Palestina prima della Shoah, abbandonò la sua attività precedente, divenne carpentiere, anni dopo cominciò a studiare matematica all'Università ebraica e si laureò a 75 anni.
   Cresciuto tra Gerusalemme e Boston, Eylon abita a Herzliya in una casetta in cui la cantina è il luogo più esclusivo: conserva solo vini blasonati pronti per essere stappati alla prima buona occasione. Come ogni israeliano ha svolto il servizio militare come capitano di una unità scelta e da padre di un ventenne è orgoglioso di suo figlio Yoav si è arruolato nei paracadutisti e alla fine dell'anno terminerà il servizio militare. La grande passione di Eylon è la canoa: all'alba raggiunge il Mediterraneo a Herzliya o quando può il Giordano "mi piace affrontare gli elementi naturali, non per cercare di domarli ma per vivere in armonia con il creato, per rispettarlo e godere della sua bellezza".
   "Anche la persona che a primo acchito riteniamo non abbia nulla da insegnarci, può cambiare la nostra vita, ognuno di noi ha un immenso potenziale inesplorato", questo è il mantra di Eylon, il suo chiodo fisso che applica nell'organizzare un evento innovativo e stimolante: "My very special day". Il motto è: "offrire opportunità inesplorate". Il primo passo è la scelta di una cinquantina di persone che non si conoscono, di estrazione, professione ed età decisamente eterogenea. Eylon fissa per tutti l'orario e il luogo dell'incontro e organizza un programma esclusivo di un'intera giornata. Recentemente la destinazione scelta è stata il deserto del Negev. Lo scopo è permettere ai partecipanti di interagire, trovare i minimi comuni denominatori e creare occasioni di collaborazione e business. Ecco gli ingredienti principali per il successo dell'iniziativa: la sosta a Mitzpe Ramon, la marcia nell'estuario di Nahal Paran, gli avvistamenti di stambecchi e gazzelle, la cena sotto la grande tenda beduina in mezzo al nulla, la lezione con il telescopio per scoprire la Via Lattea. A tarda notte il ritorno a Tel Aviv segna la conclusione di una giornata speciale con la promessa di Eylon di svelare a ognuno dei partecipanti i prossimi affari che ha in serbo, nati nel deserto come da tradizione biblica.
   
(Shalom, 21 aprile 2021)


Israele vaccinerà anche i bimbi, dopo l'ok FDA

di Luciana Delli Colli

Israele si prepara a vaccinare anche i bambini. Ad annunciarlo è stato il premier Benjamin Netanyahu, che ha dato anche una tempistica: «Sei mesi». Netanyahu, parlando della nuova campagna vaccinale che coinvolgerà tutta la popolazione, ha quindi confermato l'acquisto di ulteriori milioni di dosi di Pfizer e Moderna. «Mi sono accordato con Pfizer e Moderna per 16 milioni di dosi di vaccino in più per i cittadini di Israele», ha detto Netanyahu nel corso di una conferenza stampa. «Ci stiamo preparando per un' altra campagna di vaccinazione tra sei mesi, quindi preparate le spalle e anche i bambini», ha aggiunto il premier israeliano, aggiungendo che il governo crede che «i vaccini saranno approvati per i bambini per allora». Israele aveva annunciato la volontà di procedere con la vaccinazione dei bambini già un paio di settimane fa. Pfizer, infatti, aveva reso noti i risultati dello studio sui ragazzi tra 12 e 15 anni. E anticipato che la settimana successiva avrebbe avviato lo studio clinico sui bambini dai 2 ai 5 anni. «L'annuncio della Pfizer è una notizia fantastica. Ora - aveva dichiarato il ministro israeliano della Salute, Yuli Edelstein, citato dal Jerusalem Post non resta altro da fare che una rapida approvazione di più acquisti di vaccini (da parte di Israele, ndr), così da poter essere pronti a vaccinare immediatamente dopo l'approvazione della Fda».

(Secolo d'Italia, 21 aprile 2021)


La mano sacra di mio padre

L'orrore e la vita: Liliana Segre consegna ai giovani la testimonianza sulla Shoah

di Paolo Conti

Una bambina di tredici anni, figlia unica, già orfana della madre, è costretta a lasciare per sempre la mano del padre condannato a un destino atroce. Un addio agghiacciante che segna un'intera esistenza ed è insieme il simbolo stesso della Shoah vista con gli occhi di una figlia disperata. Ora, a novant'anni di età, parla ai giovanissimi di oggi: «Mi rivolgo ai ragazzi. Non pensate che i vostri genitori siano sempre fortissimi, non pensate che a loro si possa chiedere tutto. A volte siete voi più forti dei vostri genitori, non siate avari di un abbraccio in più, o nel dire "lo sono qui, posso fare qualcosa per te?"».
   La memoria di una persecuzione è anche in questa commossa, accorata frase destinata a chi è figlio oggi, nella nostra contemporaneità. I genitori non sono onnipotenti, non sono eterni, sono fragili e possono scomparire come l'amatissimo padre di Liliana Segre. Anche se in questo caso ucciso a Auschwitz-Birkenau per la sola colpa di essere ebreo, destino condiviso con altri sei milioni di esseri umani, vittime dello sterminio nazista. Amate i padri e le madri, ci dice Liliana Segre, spesso sono loro ad avere bisogno di voi.
   Il libro di Liliana Segre Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah, edito da Solferino, con la prefazione di Ferruccio de Bortoli, curato da Alessia Rastelli, rappresenta un punto di arrivo e, insieme, di partenza. Di arrivo, perché il volume nella sua prima parte contiene l'ultimo discorso pubblico della senatrice a vita, sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau, pronunciato dopo trent'anni di memoria condivisa delle atrocità che ha vissuto e ha visto: una indimenticabile testimonianza tenuta il 9 ottobre 2020 all'associazione Rondine, ad Arezzo, accompagnata da Ferruccio de Bortoli. Lì, da anni, convivono insieme giovani che arrivano da Paesi in conflitto, e alla guerra sostituiscono il dialogo e la fratellanza. L'arrivo, quindi, è rappresentato dalla densità dei ricordi di Liliana Segre, simbolicamente consegnati alle nuove generazioni. Ma proprio qui c'è anche il punto di partenza, soprattutto quando racconta del crollo del nazismo, della fuga degli aguzzini, della decisione di non raccogliere una pistola abbandonata per terra e di non uccidere il crudelissimo comandante dell'ultimo campo, rimasto in mutande per fuggire: «Fu un attimo importantissimo, decisivo nella mia vita. Capii che mai, per nessun motivo al mondo, avrei potuto uccidere qualcuno. Capii che io non ero come il mio assassino. Non ho raccolto quella pistola e da quel momento - ho finito sempre così, negli anni, la mia testimonianza - sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso».
   Nel racconto ai ragazzi di Rondine Liliana Segre ripercorre tutte le tappe della sua prigionia: il vagone sprangato, «il viaggio verso il nulla durato una settimana», l'abbandono della mano del padre («una mano sacra»), l'addio al proprio nome («non interessa a nessuno, voi d'ora in poi sarete un numero», quello tatuato sul braccio, «così ben fatto che dopo tanti anni il mio si legge ancora perfettamente: 75190»). E poi la fame, il gelo, le camere a gas e i forni crematori, la vita da prigioniera-schiava, la figura del dottor Mengele, «giudice infernale», che decideva della vita e della morte. Il continuo chiedere del padre in giro, un rito che poi si esaurì nella disperazione. E il «sognare di essere fuori di lì, il rumore di un bambino che gioca, un gattino, un prato verde, una nuvola, una qualsiasi cosa bella».
   Nella seconda parte, nella densa intervista rilasciata ad Alessia Rastelli apparsa il 30 agosto 2020 sul «Corriere della Sera» in vista dei novant'anni della senatrice a vita, Liliana Segre riassume la sua esperienza ma soprattutto parla del «dopo», di quando, dopo essere miracolosamente sopravvissuta al lager, è tornata a Milano, col peso dell'impossibilità di raccontare. Un episodio per tutti: «Una professoressa di greco, in classe, davanti a tutti, disse che la mia deportazione era una "esperienza interessante". Fu tremendo. Per anni non parlai. Solo dopo una pesante depressione, intorno ai sessant'anni, capii che dovevo fare il mio dovere».
   Ovvero il dovere della memoria, il racconto destinato ai giovani. Spiega lucidamente nell'introduzione Ferruccio de Bortoli, che è presidente onorario della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano: «La memoria è un atto di giustizia postumo ma è soprattutto un'orazione civile senza la quale si perde la direzione della Storia e si smarriscono anche le stesse ragioni per le quali siamo insieme, come famiglie, come comunità Senza memoria il destino 'è segnato dagli altri. E non sono mai i migliori. Anche per questa ragione non smetteremo mai dì ringraziare Liliana per il suo coraggio e per la sua giovanile forza».
   Una forza che non la abbandona mai. Infatti, lo dice il titolo del libro, ha «scelto la vita». Ancora dall'intervista ad Alessia Rastelli: «Nel lager un passo avanti o indietro poteva cambiare il destino. Sono anziana, ma non sono mai uscita davvero dalla me stessa di allora. E ogni anno che passa mi chiedo: "Ma come ho fatto, ma come ho fatto, ma come ho fatto?" Potrei andare avanti all'infinito ma non ho la risposta».
   Il libro è arricchito da una sezione di approfondimenti. Prima di tutto una nota biografica di Liliana Segre, poi un'accurata cronologia che parte dal 1919, con la fondazione dei Fasci italiani di combattimento da parte di Benito Mussolini, e si conclude con l'inizio del Processo di Norimberga nel novembre 1945. Infine una serie di proposte di lettura, tra saggi storici, raccolte di testimonianze, film e siti di associazioni e di fondi della memoria. Tutto materiale utile a loro, ai giovani, alle nuove generazioni per le quali Liliana Segre ha speso trent'anni di infaticabile testimonianza.
   
(Corriere della Sera, 21 aprile 2021)


Raggi con ambasciatori Israele e Bahrein per albero 'pace'

ROMA - Un albero piantato in segno di pace, non solo per simboleggiare i 51 anni dall'istituzione della Giornata mondiale della Terra ma soprattutto la recente sottoscrizione degli accordi di Abramo, la road map per un futuro di normalizzazione dei rapporti tra stati in Medio Oriente. A promuovere l'iniziativa la Fondazione Bioparco di Roma con le ambasciate in Italia di Israele e del Bahrein.
Insieme, durante la cerimonia questa mattina, Raggi, l'ambasciatore israeliano Dror Eydar, e quello del Bahrein, Nasser Mohamed Yousef Al Belooshi, alla presenza del presidente della Fondazione Bioparco, Francesco Petretti, hanno piantumato un 'acer platanoides' "Crimson King". E' la prima volta, grazie agli Accordi di Abramo, che le diplomazie dei due Paesi promuovono un'azione comune.
   "La piantumazione del nuovo albero all'interno del Bioparco indica la strada da seguire per preservare la nostra Terra e consegnarla ai nostri figli più verde, più sana e più vivibile - ha detto Raggi nel corso della cerimonia -. Ogni nuovo albero è ossigeno per le nostre città, una speranza per il nostro futuro, un passo fondamentale per il nostro Pianeta. La salvaguardia dell'ambiente è un impegno imprescindibile e comune, una responsabilità per oggi e per le future generazioni che necessita anche di un profondo cambiamento culturale e di nuovi approcci e modalità di gestione della cosa pubblica. Anche la presenza degli ambasciatori in Italia di Israele e del Bahrein, per la prima volta promotori di un'iniziativa congiunta a Roma dopo gli Accordi di Abramo, è significativa di un cammino condiviso verso lo sviluppo sostenibile".
   Nell'occasione Raggi ha anche ricordato che grazie a un bando del 2021 Roma Capitale "solo quest'anno pianterà 2.500 alberi che saranno naturalmente manutenuti".
   L'Ambasciatore d'Israele Eydar ha sottolineato: "Fino a non molto tempo fa, gli alberi li piantavamo separatamente, ognuno nel proprio mondo. Dalla firma degli Accordi di Abramo, scopriamo che la distanza tra noi è stata sempre artificiale, e che è molto più quello che ci accomuna di quello che ci divide.
   Oggi piantiamo un albero insieme nella meravigliosa Roma, in onore di un buon futuro comune che attende i nostri figli, perché possano mangiare i frutti della pace e della normalizzazione tra i popoli".
   L'Ambasciatore del Bahrein, Nasser Mohamed Yousef Al Belooshi ha dichiarato da parte sua: "E' giunto il momento di pensare diversamente a come poter salvare questo pianeta. Questo pianeta è la nostra casa e il suo benessere dovrebbe essere la nostra principale priorità. Parte del benessere della Terra implica il vivere in pace. Le guerre non causano solo devastazione sulla specie umana ma anche sulla Terra stessa".

(ANSAmed, 20 aprile 2021)


Culle e chiese vuote

"Il crollo delle nascite in occidente è legato al declino del cristianesimo". Parla Philip Jenkins. "L'Italia testa d'ariete di una rivoluzione. Disastro in Russia e anche parte del mondo islamico fa meno figli".

di Giulio Meotti

La bassa fertilità si sta diffondendo in America latina, Asia orientale e persino nel mondo islamico Il Belgio è un tipico caso di paese cattolico che si è laicizzato, fino ad approvare l'eutanasia per i bambini
Nel 2050 sei dei venti paesi più popolosi del mondo saranno africani e nessuno europeo Le chiese europee si rivolgeranno alle minoranze. Già oggi, il 40 per cento del clero in Italia è straniero

Raramente un numero ha avuto tante e così diverse implicazioni per una società, culturali, economiche, umane. Il numero è 2,1. E' il numero di bambini che ogni coppia dovrebbe avere affinché sia stabile la popolazione di un paese. "Le società ad altissima fertilità hanno molti giovani e sono turbolente e instabili, mentre le società a bassa fertilità sono caratterizzate da popolazioni anziane e hanno altri problemi". A parlare così al Foglio è Philip Jenkins, uno dei più rinomati studiosi di religione negli Stati Uniti, docente alla Baylor University e autore di un nuovo libro, "Fertility and faith". Sottotitolo: "La rivoluzione demografica e la trasformazione delle religioni mondiali".
   "Dagli anni 60, a partire dall'Europa, molti paesi in tutto il mondo sono passati a questo modello di bassa fertilità. In Italia, una donna nel 1900 aveva 4,5 figli. Nel 1964, il numero era 2,7 e 1,2 nel 1995. Oggi 1,3. In termini storici, queste cifre sono sorprendentemente basse. E' una rivoluzione sociale con molte implicazioni per la politica, per l'economia, per le relazioni di genere, per gli atteggiamenti morali e molti altri aspetti della vita". La tesi di Jenkins è che denatalità e secolarizzazione vanno sempre assieme.
   "Esiste una stretta relazione tra i tassi di fertilità di una comunità e il grado di fervore religioso. Le società ad alta fertilità, come la maggior parte dell'Africa contemporanea, sono ferventi, devote e religiosamente entusiaste. Viceversa, minore è il tasso di fertilità e minore è la dimensione della famiglia, maggiore è la tendenza a distaccarsi dalla religione. L'Europa è il famoso esempio in cui il calo della fertilità è correlato alla rapida secolarizzazione. Ma ora quel modello di bassa fertilità e fede si sta diffondendo in tutto il mondo, in America latina, Asia orientale e in parte del mondo islamico".
   Le due condizioni marciano in parallelo, con la contrazione religiosa che precede quella demografica. "I tassi di fertilità forniscono un indicatore efficace del comportamento religioso e rapidi cambiamenti dovrebbero servire da campanello d'allarme sull'imminente secolarizzazione e sul declino della religione". Il cambiamento avvenne negli anni Sessanta. "E' iniziato nei paesi scandinavi e nei Paesi Bassi e gli studiosi pensavano che fosse correlato al protestantesimo liberale. Ma i paesi cattolici sono stati colpiti dall'inizio degli anni 70. Quel cambiamento era strettamente correlato al forte declino della pratica religiosa, misurato con la regolare frequenza in chiesa, le vocazioni al sacerdozio o il numero di donne negli ordini religiosi. Man mano che i legami religiosi diminuiscono, le persone definiscono sempre più i propri valori in termini individualistici e laicizzati. Sono più disposti a opporsi alle chiese o alle istituzioni religiose su questioni sociali e politiche di genere e moralità. Anche in paesi un tempo solidamente cattolici come l'Italia, la Spagna, il Belgio o l'Irlanda, assistiamo al progresso della contraccezione, del divorzio, dell'aborto. In molte nazioni, il declino della fertilità è strettamente correlato all'accettazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, che solo pochi decenni fa era quasi impensabile. In tutto il mondo vediamo che man mano che i tassi di fertilità diminuiscono, i diritti dei gay crescono con una forte opposizione verso la chiesa".
   L'Italia offre un esempio del legame tra fertilità e influenza della religione.
   "Iniziò negli anni 70, il periodo in cui la chiesa subì gravi battute d'arresto. Ci fu il referendum sul divorzio nel 1974 e l'aborto nel 1978. Una cronologia che segue fedelmente il declino della fertilità: nel 1976 il tasso era di 2,1, che nel 1981 era sceso a 1,6. Un cambiamento demografico estremo in pochissimi anni, più veloce di qualsiasi cosa mai registrata nella storia. Sia i Paesi Bassi sia il Belgio erano paesi molto religiosi, uno protestante e l'altro cattolico. Ora entrambe sono società a bassissima fertilità e tra le più laiche al mondo e i cambiamenti sono iniziati negli anni 60. Il Belgio è stato un famoso centro della vita spirituale e culturale cattolica, caratterizzato da un'elevata fertilità e da famiglie numerose. Tutto è cambiato negli anni 60. Il tasso di fertilità ha raggiunto il minimo di 1,51 nel 1985. Oggi è inferiore a quello della Danimarca o dei Paesi Bassi. Nel 1964 una donna spagnola aveva tre figli mediamente, un tasso sceso a 1,1 nel 1997. Nello spazio di un sola generazione - tra 1964 e 1995 - l'Italia è scesa da 2,65 a 1,19. Una cifra paragonabile a quella dell'Austria cattolica. Tra il 1955 e il 1971, nove milioni di italiani sono emigrati all'interno del paese, lasciando borghi e piccoli centri per grandi città come Milano e Torino. I successi urbani e industriali si sono riflessi nel crescente spopolamento delle zone rurali, storicamente segnate da alta fertilità. Entro la fine del secolo, grandi aree dell'Italia e della Spagna avranno densità di popolazione basse come la Lapponia e saranno descritti come 'svuotate'".
   Il Belgio, dicevamo. "La partecipazione alla messa domenicale oggi è inferiore al 10 per cento e meno della metà dei genitori fa battezzare i figli. Le vocazioni sono cadute quasi letteralmente nel nulla. Solo il 55 per cento dei belgi si identifica addirittura come cristiano, livello paragonabile a quello della Scandinavia. Anche per gli standard europei, il Belgio è all'avanguardia negli approcci laici e liberali. Nel 1990 il Belgio ha legalizzato l'aborto e nel 2003 è diventato il secondo paese al mondo (dopo i Paesi Bassi) ad approvare il matrimonio gay. Nel 2002 ha approvato l'eutanasia e nel 2014 l'eutanasia dei bambini. Come spesso accade, possiamo mappare il cambiamento demografico e la secolarizzazione in modo molto preciso".
   I paesi occidentali stanno investendo molti soldi per cercare di fermare il collasso demografico. "In generale, i tentativi di aumentare la fertilità possono avere qualche impatto, ma sono molto costosi a fronte di scarsi effetti", ci dice Jenkins. "Le dittature possono avere un certo impatto, come il regime comunista in Romania prima del 1989, che soppresse i diritti delle donne. Ma i governi non possono fare molto per aumentare la fertilità".
   Il Nord America era stata l'eccezione. "Gli studiosi sono rimasti a lungo sorpresi, in quanto gli Stati Uniti erano una società molto avanzata con una alta fertilità e religiosità. L'opposto dell'Europa. Ma nell'ultimo decennio gli Stati Uniti si sono mossi verso quella che si considera una traiettoria normale. Il tasso di fertilità degli Stati Uniti sta scendendo ben al di sotto della sostituzione e oggi è vicino a quello della Danimarca. Quel cambiamento è accompagnato da crescenti segni di secolarizzazione. Se le tendenze continuano, gli Stati Uniti sperimenteranno qualcosa di simile alla rivoluzione demografica europea, anche se con ritardo. Siamo nelle prime fasi di un'autentica rivoluzione religiosa e culturale. I 'Nones', quelle persone che, quando vengono interrogate sulla loro appartenenza religiosa, rispondono 'nessuno', sono oggi un quarto della popolazione, la stessa dimensione del numero degli evangelici e più del numero dei cattolici americani. In termini relativi, il numero di cristiani americani è diminuito drasticamente. E' in corso un forte declino religioso negli Stati Uniti, che assomiglieranno sempre di più all'Europa".
   Quel che accadrà nel mondo islamico non è ancora chiaro, ma si intuisce. "Quando pensiamo all''esplosione demografica' del Terzo Mondo la associamo al mondo islamico. Ma è obsoleto. Alcuni di questi paesi hanno effettivamente tassi di fertilità molto alti, ma altri no. In Indonesia, nel Magreb arabo dell'Africa nord-occidentale e nella stessa Penisola arabica stanno scendendo. C'è un islam a due livelli. Tutto questo è molto importante per immaginare il futuro dell'islam in Europa, poiché paesi come l'Algeria e il Marocco stanno diminuendo rapidamente nella loro fertilità. Ancora più sorprendente, l'Iran nel 1982 aveva un tasso di fertilità di 6,5 figli per donna, oggi è inferiore a 1,7, meno della Danimarca. Sebbene i leader iraniani siano molto fondamentalisti, le persone che governano stanno diventando molto laiche. Anche i livelli di pratica religiosa sono molto bassi in Iran. Il capo delle Guardie rivoluzionarie si è lamentato che delle 60.000 moschee della nazione, solo 3.000 sono frequentate".
   La Russia è un altro caso da manuale. "E' emerso negli anni 90, con le cupe circostanze demografiche dell'ex Unione Sovietica, in cui i tassi di fertilità erano allarmanti. Le cose sono peggiorate durante l'estrema crisi sociale ed economica degli anni 90. Nel 1999 il tasso di fertilità ha raggiunto un minimo storico di 1,17, successivamente rimbalzato a 1,7. La popolazione russa oggi è di 145 milioni di persone e scenderà a 130 milioni entro il 2050. Come avrebbe affermato lo stesso Putin, 'la demografia è un questione vitale. O continueremo a esistere o non lo faremo'. Il legame tra demografia e religione rappresenta una minaccia speciale. In epoca sovietica, le minoranze musulmane si sono dimostrate molto più fertili rispetto agli slavi e ad altre popolazioni europee. Attualmente i musulmani hanno un tasso di crescita di oltre 2,3, significativamente superiore ai popoli slavi. Nel 2018 un numero record di 320.000 musulmani ha frequentato le moschee di Mosca durante l'Eid. I musulmani sono il 15 per cento della popolazione russa. Il Gran Mufti russo dice che sono 25 milioni, o il 18 per cento del totale, e prevede che la percentuale potrebbe superare il 30 per cento entro la metà degli anni 30. Ciò rappresenta una quota musulmana molto più alta della popolazione rispetto a nazioni europee che agonizzano per la minaccia di una 'islamizzazione'. La visione di un futuro prossimo in cui la Russia sarà per un terzo islamica richiede un ripensamento profondo delle narrazioni tradizionali sulla storia di quel paese e la sua pretesa di rappresentare uno dei centri critici della cristianità".
   Il cuore della sfida demografica e religiosa sarà allora l'Africa subsahariana. "Nel secolo scorso, la crescita della popolazione africana è stata uno dei fatti più significativi della storia. La popolazione totale dell'Africa è cresciuta da soli 110 milioni nel 1900 a un miliardo nel 2015, e con un probabile aumento a 2,5 miliardi entro il 2050. Gli africani rappresentavano il 7 per cento della popolazione mondiale nel 1900, rispetto a oltre un quarto previsto per il 2050. Si calcola che proprio in quell'anno tra i venti paesi con la più grande popolazione ci saranno non meno di sei nazioni dell'Africa: Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Tanzania, Uganda e Kenya. Presi insieme, solo quei paesi avranno oltre 1,1 miliardi di cittadini entro il 2050. A parte la Russia, nessun paese europeo comparirà in un simile elenco delle nazioni più popolose".
   E' l'Europa tutta che sta perdendo peso demografico. "Nel 1950 l'europeo medio aveva 29 anni: oggi ne ha 43. In Africa, l'età media della popolazione è cresciuta nello stesso periodo da 19 a 20 anni, cioè non si è quasi mossa. Ciò influisce su ogni aspetto della vita, del lavoro e del governo. La lealtà religiosa è molto forte in tutte le parti dell'Africa. In un sondaggio del 2015, agli intervistati è stato chiesto semplicemente se si sentissero religiosi. In cima alla lista c'erano tre paesi africani - Etiopia, Malawi e Niger, tutti al 99 per cento - e tutte le prime venticinque nazioni si trovavano in Africa, medio oriente o sud-est asiatico. In ognuno di questi venticinque paesi si sono censiti sentimenti religiosi con tassi fino al 95 per cento. All'altro estremo c'erano ventitré nazioni, tutte in Europa e qualche nome asiatico. Alla domanda sul ruolo che la religione ha svolto nella loro vita, l'Africa ha prodotto alcuni dei numeri più alti: 98 per cento in Etiopia, 88 per cento in Nigeria, 86 per cento in Uganda. Quell'entusiasmo religioso può essere espresso in entrambe le grandi religioni. L'islam sta crescendo molto velocemente in alcune aree, specialmente nell'Africa nera, che è ancora una società molto giovane e dall'alta fede e fertilità. Islam e cristianesimo stanno crescendo insieme, molto rapidamente. Spesso si sente parlare di violenze tra musulmani e cristiani in Africa e in gran parte si verificano lungo il decimo parallelo. La Nigeria produce storie terribili di violenza tra musulmani e cristiani. Ma è importante non vederlo solo in termini di una particolare religione violenta o pericolosa. Il fattore principale è demografico. In una società ad altissima fertilità, come la maggior parte dell'Africa, vediamo un 'rigonfiamento giovanile', quando una percentuale molto ampia ha un'età compresa tra i 15 e i 25 anni. E' molto simile all'Europa degli anni 30, quando era facile per i movimenti politici estremisti reclutare giovani per combattere i nemici nelle strade".
   La cristianità si trova di fronte a una sfida epocale. "La crescita della secolarizzazione è stata molto marcata e sarà molto difficile invertire la rotta", conclude Jenkins al Foglio. "Anche i paesi che sono ancora religiosi, come la Polonia, sperimenteranno questo cambiamento in un decennio o giù di lì. Ma allo stesso tempo, l'islam non sta crescendo così velocemente come si temeva, e molti musulmani europei sono essi stessi piuttosto laici. Le chiese europee si rivolgeranno sicuramente alle minoranze. In Italia il 40 per cento del clero è straniero già oggi. La fede diventerà molto più diversificata. Le chiese devono riflettere attentamente su come affrontare le nuove realtà demografiche, non ultimo il problema di una società che sta invecchiando così velocemente".
   Lagos, in Nigeria, negli anni Cinquanta era abitata da 300 mila persone, oggi sono 20 milioni e nel 2050 saranno 40 milioni. Poco meno dell'Italia nel peggior scenario di calo demografico. Nel 1950 il Niger, con 2,6 milioni di persone, era più piccolo di Brooklyn. Nel 2050, con 68,5 milioni, avrà le dimensioni della Francia. A quel punto, la Nigeria, con 411 milioni di persone, sarà molto più grande degli Stati Uniti e potrebbe uguagliare l'Unione Europea. Sono le culle, più che il Covid, a decidere il mondo di domani.
   
(Il Foglio, 20 aprile 2021)


Turisti e pellegrini: Israele si allena

Il Paese sta tornando alla normalità. Dal 23 maggio accoglierà i primi «gruppi» di stranieri vaccinati Padre Francesco Patton: «Chiamati a un grande Sforzo, ma con l'aiuto del mondo ce l'abbiamo fatta»

di Barbara Uglietti

D'istinto, appena usciti dall'aeroporto, abbassano un attimo la mascherina per annusare l'aria, come fossero appena atterrati su un pianeta alieno ad atmosfera rarefatta. Sono israeliani, e Israele la conoscono bene, ma rientrare dopo molti mesi, per loro, espatriati all'estero e tenuti a distanza dalla pandemia, è come arrivare in una dimensione nuova. Riadattarsi alla normalità sarà difficile (a cominciare dalla mascherina che qui, da domenica, non è più obbligatoria all'aperto). E gli expat sono le prime avanguardie di un ritorno all'''era pre-Covid" che prelude alla riapertura dei confini. E che significa turismo e pellegrini. Al Ben Gurion si riaccendono i motori. Degli aerei e della macchina turistica. La data chiave è il 23 maggio: da allora lo Stato ebraico comincerà ad accogliere gli stranieri vaccinati, anche se in numero limitato e solo in gruppi organizzati. La parola d'ordine è prudenza, e l'obiettivo uno solo: evitare che il virus rientri nel Paese. Il governo vuole consolidare i risultati ottenuti con la campagna vaccinale: il 58% della popolazione ha ricevuto la prima dose, il 54 % anche la seconda. E ieri il premier Benjamin Netanyahu ha annunciato la firma di un accordo con Pfizer per l'acquisto di milioni di dosi per il 2022. Israele è al primo posto nel mondo (da mesi) per somministrazioni, e va tenuto conto che una larga fetta della popolazione, il 25%, è sotto i 16 anni, quindi non vaccinabile. In sostanza, quasi tutto il Paese è al sicuro. Settimana scorsa, Eran Segai, biologo del Weizmann Institute of Science di Rehovot, a sud di Tel Aviv (uno dei centri di ricerca più prestigiosi del mondo) ha considerato che lo Stato potrebbe aver raggiunto «una sorta di immunità di gregge». Sarebbe il primo al mondo (si contende il primato con la Gran Bretagna). Ma, a prescindere, «qui abbiamo un' ampia rete di sicurezza», ha sottolineato Segal. E ci si allena ai rientri. Quando il 23 maggio verranno riaperte le porte ai gruppi di turisti - per gli arrivi individuali si andrà più in là, e non c'è ancora una data -, saranno richiesti un documento vaccinale, un sierologico che attesti la presenza di anticorpi, tampone all'imbarco e tampone all'arrivo. L'Italia è in pole position: siamo il quinto mercato turistico, e prima della pandemia Israele era tra le nostre mete preferite (190.700 arrivi nel 2019, in aumento del 27% sul 2018).
  «Va considerato che i gruppi più gestibili, e che quindi offrono più garanzie sotto il profilo sanitario, sono proprio i gruppi di pellegrini - dice padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa -. Sono omogenei e fanno un percorso organizzato, quindi tracciabile. Verrà richiesto il rispetto di un certo protocollo, ma ho incontrato più volte, quest'anno, i rappresentanti del governo israeliano, e hanno predisposto modelli che credo possano funzionare». Certo, molti Paesi sono ancora in difficoltà con la vaccinazione, che è la pregiudiziale per l'ingresso. «Ma un dato positivo - sottolinea padre Patton - è che gli Stati Uniti, ossia il Paese da cui arriva il maggior numero di pellegrini, sono molto avanti. Contiamo poi sul fatto che i Paesi europei si portino a buon punto prima dell' estate: per noi vorrebbe dire che almeno l'ultimo trimestre potrà comprendere arrivi da Italia, Spagna e Polonia, che hanno i numeri più consistenti». Molte aspettative anche sull'Asia, che in pre-pandemia aveva fatto registrare una crescita esponenziale di arrivi - «soprattutto dall'Indonesia, ma anche dalla Cina» - e dal Sudamerica, che però è in forte ritardo sul fronte vaccinale. Nelle aree amministrate dall'Anp, intere comunità vivono con l'indotto dei pellegrinaggi, e tutto si è fermato. «Le parrocchie hanno dovuto affrontare un grosso sforzo caritativo' soprattutto a Gerusalemme, nella Città Vecchia, e a Betlemme - dice il Custode -. Qui in Israele c'è un sistema di cassa integrazione per cui lo Stato paga circa il 70% dello stipendio a chi rimane a casa. E il governo è stato previdente, perché fin dall'inizio, con un calcolo ben fatto, ha indicato come termine della misura il giugno 2021. In Palestina, invece, non esiste una previdenza sociale, e lì la gente si è trovata in difficoltà. Abbiamo potuto dare supporto grazie all'aiuto che ci è arrivato dalla generosità dei cristiani sparsi in tutto il mondo, e usando gli avanzi di bilancio degli anni precedenti, frutto di una buona amministrazione». Poi si è trattato di reinventare un modo per stare vicino ai fedeli. «Ci siamo organizzati attraverso il nostro Christian Media Center, aumentando la proposta in arabo e in altre lingue. E le parrocchie si sono attrezzate per fare catechesi attraverso le piattaforme online». Non sono mancate le sorprese: «La cosa si è rivelata un moltiplicatore di presenze. Un esempio: il parroco di Acco, piccola comunità in Galilea, quando celebrava aveva 15-20 persone. Ebbene: online si è ritrovato con 7.000 persone collegate». Effetti collaterali. Per una volta, molto positivi.

(Avvenire, 20 aprile 2021)


Premier di Israele: un voto diretto può sciogliere l'impasse?

Chi sarà il Premier di Israele? Per ora, la partita è aperta. E certo non priva di colpi di scena. All'approssimarsi dello scadere del tempo, il blocco pro Netanyahu sta facendo di tutto per assicurarsi l'occasione di formare il prossimo esecutivo. Anche se ciò significasse cambiare le leggi fondamentali dello Stato, come dimostra il disegno di legge per l'elezione diretta del primo ministro. Cosa succederà?
   

di Elena Grigatti

Tra due settimane scadrà il mandato conferito a Netanyahu per istituire un governo, dopo che il voto del 23 marzo non aveva prodotto una maggioranza. Giorno dopo giorno, però, si riducono le possibilità del leader di Likud di formare una coalizione. Ma in suo soccorso potrebbe giungere l'emendamento di Shomrei Sfarad (Shas), il partito che rappresenta gli ebrei ultra ortodossi sefarditi e mizrahì. Il suo leader, Michael Malkiel, dovrebbe presentare oggi un disegno di legge che consentirà l'elezione diretta del prossimo primo ministro israeliano. Tutto questo allo scopo di risolvere lo stallo politico in cui si è trovato il paese nel post elezioni. Ma per i media israeliani, il blocco anti-Netanyahu si opporrà alla proposta.

 La proposta
  Secondo Channel 12, il disegno di legge era stato avanzato dal presidente dello Shas, Aryeh Deri, e presentato al premier Netanyahu da Naftali Bennett nel fine settimana. La proposta vorrebbe una consultazione speciale per eleggere il primo ministro e superare così lo stallo politico. In questo modo, si sceglierebbe quale sarà il candidato che dovrà formare l'esecutivo. Per Channel 12, Netanyahu spera che l'iniziativa avrà maggiori chance di essere approvata dalla Knesset di 120 seggi con il sostegno del leader di Yamina. Grazie ai partiti che lo sostengono Netanyahu potrebbe contare già su 52 voti, che diventerebbero 59 con il sostegno di Bennett. Anche se mancherebbero 2 voti per la maggioranza. Ma la manovra viene vista come un tentativo disperato.
Se Bibi dovesse fallire e non riuscisse a trovare un accordo di coalizione, il presidente Reuven Rivlin passerebbe l'incarico a Yair Lapid, leader di Yesh Atid. Quindi tornare alle urne potrebbe cambiare la situazione? Purtroppo tale soluzione, pur creativa, non persuade del tutto i detrattori di Netanyahu. Nemmeno tra le forze di destra. Questo è il caso di Avigdor Liberman, leader del partito Yisrael Beytenu, che stamattina ha espresso la sua opinione tramite i social media. Liberman ha ribadito che: "Cambiare le leggi fondamentali su richiesta è sbagliato". E ha promesso che si opporrà al disegno di legge qualora avvantaggiasse Netanyahu. "Sì per aver cambiato il sistema di governo, no per aver infranto le regole del gioco", ha twittato il leader di centro-destra.

 Premier di Israele a qualunque costo?
  Come ha ricordato Liberman, il leader del Likud aveva fatto lo stesso ai tempi della coalizione con il Blu e Bianco di Gantz. L'anno scorso, infatti, si erano emendate le leggi fondamentali per consentire l'avvicendamento della leadership dei due esponenti. Una delle condizioni imposte da Gantz per entrare nella coalizione guidata dal Likud. Riferendosi a Netanyahu, il capo di Yisrael Beytenu ha accusato: "Niente gli ha impedito di trascinare lo Stato di Israele a un quarto turno elettorale non necessario". In realtà, il punto di disaccordo tra destra e sinistra rimane il processo a Netanyahu. Soprattutto perché implica scelte importanti su questioni fondamentali. Come l'assetto giudiziario e il rapporto tra sistema legale e sistema politico.

 I detrattori
  Ad Army Radio, il deputato Meir Cohen di Yesh Atid ha spiegato che la Knesset non potrà modificare le regole ogni volta che Netanyahu dovrà formare una coalizione. "Dobbiamo rimanere sotto il chiaro percorso parlamentare", ha detto. "Faremo tutto ciò che è in nostro potere per stabilire un governo di unità nazionale". D'altronde, Netanyahu detiene un vantaggio significativo rispetto ad altri candidati come possibile premier di Israele, confermandosi al primo posto nei sondaggi. Del resto, Bibi è il leader del partito che ha ottenuto il maggior numero di voti alle ultime elezioni, nonostante prosegua il procedimento penale a suo carico. Eppure, il blocco di destra pro Netanyahu non è riuscito a ottenere il sostegno necessario per formare un governo. Almeno non finora. Ma come mai?

 Cambiano i giocatori
  Da una parte, per la strenua opposizione del capo dei religiosi sionisti, Bezalel Smotrich, di formare un governo che si basi sul sostegno di Ra'am (Lista Araba Unita). Dall'altra, per l'obiezione del capo di New Hope, Gideon Sa'ar, di entrare in un governo guidato da Netanyahu. Una posizione rispetto alla quale Sa'ar sembra irremovibile. Del resto, nemmeno il leader della Lista Araba Unita sembra ansioso di tornare con in Likud, anzi. Sa'ar si è allontanato da Netanyahu in modo definitivo, e non tornerà mai più. Quanto al leader di Yesh Atid, Yair Lapid, domenica ha riferito che sarebbe molto sorpreso se il presidente Reuven Rivlin non gli conferisse l'incarico di formare un governo. Anche perché prevede che Netanyahu non riuscirà a costruire una coalizione entro il 4 maggio.

 E il presidente?
  "Il presidente dello Stato di Israele non è un sostituto del legislatore o della magistratura", aveva detto Rivlin in un discorso pubblico. "È compito della Knesset decidere sulla questione sostanziale ed etica dell'idoneità di un candidato che deve affrontare accuse penali a servire come primo ministro", aveva aggiunto riferendosi al processo a Netanyahu. Nondimeno, quando l'unica coalizione possibile è un governo delle minoranze il presidente non potrà astenersi, pure in una Repubblica parlamentare. Al contrario, Rivlin sarà chiamato a fare la sua parte per superare l'impasse e porre fine a una crisi politica che rischia di minare l'immagine di Israele.

 La guerra per diventare Premier di Israele
  Di sicuro, lo stallo non verrà superato se non con dei compromessi. Lo dimostrano i colloqui tra esponenti con ideologie diametralmente opposte. Siano essi il leader di Yamina, Naftali Bennett, o quello di Meretz, Yair Golan. Oppure ancora tra il Partito sionista religioso di Itamar Ben-Gvir e Mansour Abbas, leader di Ra'am. "Questa non è una decisione facile sulla base morale ed etica", aveva ammesso Rivlin. Prima di aggiungere: "Come ho detto all'inizio delle mie osservazioni, lo Stato di Israele non è scontato". "Ma sto facendo ciò che mi è richiesto come presidente dello Stato di Israele, secondo la legge e la sentenza della corte, realizzando la volontà dell'unico sovrano: il popolo israeliano". Nel frattempo, gli esponenti del Likud dovrebbero riunirsi lunedì per discutere le possibili strategie nel caso in cui i presidente revochi il mandato a Netanyahu a favore di Lapid o Bennett.

 Netanyahu corteggia gli arabi
  Proprio il leader di Yamina, Naftali Bennett, sembra rappresentare la maggior insidia per Netanyahu, che dovrebbe guardarsi alle spalle. Perché se da un parte Bennett sembra disposto a formare una coalizione con il Likud, dall'altra sta mantenendo buoni rapporti con Lapid di Yesh Atid. Una mossa astuta? Può darsi. Quindi, molto dipenderà dall'abilità di Netanyahu di "attrarre" a sé altri esponenti politici. Ad esempio Abbas, il leader della Lista Araba Unita. In effetti, un sondaggio dell'Israel Democracy Institute condotto a marzo ha rilevato come l'opinione pubblica abbia abbandonato la storica diffidenza in merito agli esecutivi sostenuti dai partiti arabi. Se nel febbraio 2020 solo il 23% degli ebrei israeliani avrebbe accettato una coalizione con questi partiti, oggi circa il 44% dell'elettorato ebraico sarebbe disposto a sostenere un governo con questi partecipanti. Mentre l'80% degli israeliani ritiene che l'anno prossimo verranno indette nuove elezioni. Le quinte in tre anni.

 Premier di Israele: verso le quinte elezioni?
  La forma del prossimo potenziale governo Netanyahu è abbastanza chiara. Al Likud si uniranno gli alleati Haredi Shas e l'ebraismo della Torah unita. Così come il sionismo religioso di estrema destra e il partito Yamina di Naftali Bennett. Il tutto per un totale di 59 seggi alla Knesset, ma non abbastanza per ottenere la maggioranza (61). Pertanto, il primo ministro spera di colmare i due voti di scarto con l'aiuto del Movimento islamico, il partito Ra'am. Sul punto è intervenuto all'ISPI Hugh Lovatt, ricercatore al Middle East and North Africa Program dell'European Council on Foreign Relations (ECFR). Come ha osservato l'esperto: "Indipendentemente da chi alla fine emergerà come prossimo premier di Israele il governo sarà dominato dalla politica di destra".

 Do ut des
  Tuttavia, Netanyahu avrà bisogno del voto di Ra'am soltanto per inaugurare il suo nuovo governo e confermarsi il premier più longevo di Israele. Dal canto suo, Abbas sa di essere usato. Tuttavia, la sua principale preoccupazione non è che Bibi lo tradisca in un secondo momento. Piuttosto, che Netanyahu stia solo flirtando con lui per fare pressioni su Gideon Sa'ar e altri leader di destra affinché si uniscano alla sua coalizione al posto di Ra'am. Pertanto, Abbas ha fretta di assicurarsi che le sue richieste vengano realizzate. Questo spiegherebbe anche gli attacchi Smotrich. Anche se Abbas sta sfruttando appieno il suo momento politico, Smotrich non è sicuro che il Likud sarà così sbrigativo nel liquidare la partnership. Del resto, sarebbe disposto a entrare in una colazione con il Likud, a condizione che non sia Netanyahu il Premier di Israele.

(Periodico Daily, 19 aprile 2021)


Il 19 aprile 1943 la rivolta del ghetto di Varsavia

Gli ambasciatori della Polonia e di Israele con un narciso alla sinagoga di Roma

Con un narciso in ricordo degli ebrei morti durante la rivolta del ghetto di Varsavia, l'ambasciatore della Polonia in Italia, Anna Maria Anders e quello d'Israele Dror Eydar si sono incontrati davanti alla sinagoga di Roma per commemorare insieme l'inizio della ribellione, il 19 aprile 1943, contro la cosiddetta «soluzione finale» ordinata da Himmler. I due ambasciatori, come altri 50 diplomatici dei due Paesi nel mondo, si sono fatti fotografare con un narciso giallo in mano, divenuto simbolo della memoria della rivolta. In questa giornata, 78 anni fa iniziò la più grande rivolta degli ebrei durante la seconda guerra mondiale e anche la prima in cui un gruppo di ebrei si difendeva in modo organizzato.
   Gli ebrei combattenti attaccarono con armi rudimentali le truppe tedesche del comandante Sammern-Frankenegg entrate nel ghetto della capitale polacca per deportarne la popolazione. I tedeschi alla loro prima incursione si dovettero ritirare, fra di loro ci furono morti e feriti. Dopo il primo fallimento, il comando delle truppe tedesche passò a Jurgen Stropp. Fu lui, dopo quasi un mese, il 16 maggio 1943, a soffocare nel sangue la rivolta. Le truppe tedesche rasero al suolo le case e la grande sinagoga di Varsavia e uccisero i sopravvissuti. Durante i combattimenti persero la vita circa 7.000 ebrei e altri 6.000 morirono bruciati nelle case in fiamme o soffocati all'interno dei bunker sotterranei. I rimanenti 50.000 abitanti vennero deportati presso diversi campi di sterminio, per la maggior parte in quello di Treblinka.
   Il rapporto finale riportava: «Il quartiere ebreo di Varsavia non esiste più. L'azione principale è stata terminata alle ore 20:15 con la distruzione della sinagoga di Varsavia… Il numero totale degli ebrei eliminati è di 56.065, includendo sia gli ebrei catturati che quelli del quale lo sterminio può essere provato». Ma l'insurrezione del Ghetto mostrò al mondo che le vittoriose armate hitleriane non erano affatto tali, e che alcune centinaia di uomini potevano tenere in scacco l'esercito tedesco e infliggergli consistenti perdite.

(Il Messaggero, 20 aprile 2021)


Israele arma la Grecia e Leonardo va

Balzo in borsa per l'azienda militare italiana dopo la firma dell'accordo da 1,35 miliardi in cui è coinvolta. Per 22 anni il centro addestramento dell'aviazione ellenica sarà gestito da Tel Aviv.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Festeggiavano ieri i vertici di Leonardo, azienda del settore militare di cui è maggior azionista il ministero dell'Economia e delle Finanze italiano. Il titolo in borsa è salito del 3,52% grazie all'accordo del valore di 1,35 miliardi di euro siglato venerdì da Grecia e Israele che coinvolge anche l'azienda italiana.
   Nel centro di addestramento per l'aviazione ellenica che verrà costruito e gestito per 22 anni dal ministero della difesa di Tel Aviv e dall'appaltatore israeliano Elbit Systems, ci saranno anche 10 velivoli da addestramento M-346 di Leonardo. Sono 300 i milioni di euro che incasserà l'azienda italiana che quest' anno punta a ordini per 14 miliardi di euro.
   La parte del leone sarà di Israele. Il ministro della difesa Benny Gantz non ha nascosto la soddisfazione per il livello di cooperazione raggiunto con la Grecia. «Sono certo - ha previsto che (l'accordo) rafforzerà ulteriormente i rapporti tra Israele e Grecia». Elbit riammodernerà i velivoli T-6 della Grecia e fornirà anche addestramento, simulatori e supporto logistico. Domenica le forze aeree israeliane e greche hanno avviato un'esercitazione congiunta in Grecia proseguendo la collaborazione già vista a Creta quando i piloti delle due parti si erano addestrati insieme ad aggirare una batteria S-300, il sistema di difesa aerea di fabbricazione russa dispiegato anche in Siria e Iran. Nelle scorse settimane si sono svolte anche manovre navali congiunte.
   Israele, Grecia e Cipro hanno avanzato negli ultimi mesi i piani per costruire un cavo elettrico sottomarino da 2.000 megawatt e un gasdotto sottomarino di 1.900 km. Progetto ai quali la rivale Turchia ha replicato inviando navi per la prospezione del gas in acque rivendicate dalla Grecia e di perforazione in un'area in cui Cipro rivendica i diritti esclusivi. Grecia e Turchia, entrambe nella Nato, l'anno scorso sono arrivate vicine a un nuovo conflitto armato ma le tensioni poi si sono allentate.
   L'accordo militare tra Tel Aviv e Atene del valore di 1,35 miliardi di euro rientra indirettamente nella partnership al centro dell'incontro ospitato la scorsa settimana nella città cipriota di Paphos che ha visto aggiungersi ai ministri degli esteri di Cipro, Grecia e Israele - Nikos Christodoulides, Nikos Dendias e Ghabi Ashkenazi - il capo della diplomazia degli Emirati, Anwar Gargash. Una presenza che conferma quanto la sicurezza e gli accordi militari siano i pilastri veri dell'Accordo di Abramo, la recente normalizzazione dei rapporti tra Israele e quattro paesi arabi. La leadership israeliana a Paphos è stata evidente. «Questa nuova partnership strategica si estende dalle rive del Golfo Persico al Mediterraneo e all'Europa. Questo incontro è uno dei risultati dei cambiamenti avvenuti in Medio oriente nell'ultimo anno», ha sottolineato nel suo intervento il ministro degli esteri israeliano Gabi Ashkenazi. «Siamo geograficamente vicini - ha aggiunto - e condividiamo una visione simile del Medio oriente e del suo futuro».
   Ashkenazi non ha mancato a Paphos di ribadire che Israele farà di tutto per impedire che l'Iran possa dotarsi di armi nucleari, lasciando intendere che non esiterà a usare anche la forza militare e che la sua centrale di Dimona non è soggetta a controlli internazionali. Ha sorvolato sul fatto che il suo paese è l'unico in Medio oriente a possedere ordigni atomici. Il suo collega emiratino Gargash ha poi confermato che i rapporti con lo Stato ebraico equivalgono a una «visione strategica alternativa» volta a rafforzare la «sicurezza regionale».
   
(il manifesto, 20 aprile 2021)


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Ecco perché Israele e Grecia fanno volare Leonardo

Il titolo Leonardo sale a Piazza Affari: il mercato guarda alla maxi-commessa compresa nell'accordo tra Grecia e Israele siglato venerdì scorso. Tutti i dettagli.

di Chiara Rossi

Scatta Leonardo a Piazza Affari grazie all'intesa tra Grecia e Israele, il più grande accordo di difesa mai concluso tra i due paesi.
Oggi il colosso della difesa e dell'aerospazio italiano guida al rialzo i titoli a maggiore capitalizzazione di Piazza Affari con un +3,6% a 7,294 euro. A dare slancio al titolo è proprio il maxi-accordo annunciato da Grecia e Israele nel settore della Difesa e che comprende un contratto da 1,65 miliardi di dollari per l'istituzione e il funzionamento di un centro di addestramento per l'aeronautica militare greca (Greek International Flight Training Center) da parte dell'appaltatore israeliano della difesa Elbit Systems per 22 anni.
Il centro sarà dotato anche di 10 velivoli di addestramento M-346 di Leonardo. Stando alle stime di Banca Akros tale commessa può valere per Leonardo più di 300 milioni.

 Scatta Leonardo a Piazza Affari
  Quando il Ftse Mib guadagna lo 0,16%, Leonardo sale del 3,52% a 7,288 euro, con un massimo toccato a 7,324 euro. I titoli traggono beneficio del clima positivo sui mercati europei e della notizia che venerdì scorso Israele e Grecia hanno siglato un maxi-accordo nel settore difesa del valore di 1,65 miliardi di euro.

 L'intesa siglata da Grecia e Israele nella difesa
  L'intesa riguarda la creazione e la gestione di un centro di addestramento per l'aviazione ellenica.
Il ministero della Difesa israeliano ha partecipato a una gara e si è aggiudicato la gara per il contratto greco. La scuola di volo sarà costruita e mantenuta da Elbit Systems per 22 anni.
Il centro di addestramento sarà su modello di quello israeliano e sarà fornito di 10 velivoli da addestramento M-346 di Leonardo.

 Quanto vale l'accordo per l'ex Finmeccanica
  Secondo gli analisti di Banca Akros, per Leonardo questo accordo può valere oltre 300 milioni di euro. "La notizia è circolata per la prima volta a gennaio scorso", ricorda la banca d'affari. "La relazione tra Israele, l'Italia e Leonardo è particolarmente forte. Stimiamo che il contratto per dieci M-346 di Leonardo con i simulatori di volo valga anche più di 300 milioni per il gruppo".
Leonardo ha già collaborato infatti con Elbit sui simulatori, secondo i rapporti dello scorso anno. L'M-346 è chiamato "Lavi" in Israele ed è stato selezionato dal paese nel 2012 per l'addestramento dei piloti.

 L'M-346 di Leonardo
  Come si legge sul sito web di Leonardo, l'M-346 è il più avanzato velivolo a getto per l'addestramento, progettato per avere ampie capacità di formazione, un'affidabilità a lungo termine e per svolgere attività operative a costi ridotti. Al centro di un sistema d'addestramento integrato, l'M-346 rappresenta la soluzione più moderna per addestrare la nuova generazione di piloti. Il velivolo è in servizio con le forze aeree di Italia, Repubblica di Singapore, Israele e Polonia con 72 aerei già ordinati.

 Il parere di Banca Akros
Infine, la notizia "è positiva e non scontata. Leonardo ha un obiettivo di raccolta ordini per circa 14 miliardi di euro quest'anno", conclude l'investment bank.

(Start Magazine, 19 aprile 2021)


"Impazzire" per uso di droga, non giustifica l'omicidio di Sarah Halimi - Le parole di Macron

Il presidente francese Macron ha dichiarato che il paese è determinato a proteggere la comunità ebraica, dopo che la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza, secondo cui Kobili Traore non potrà essere processato, poiché, quando ha commesso l'omicidio di Sarah Halimi, non era nel pieno delle sue facoltà mentali e, quindi, penalmente non responsabile delle sue azioni, avendo fatto uso di marijuana. Lo riporta in un ampio articolo il Times of Israel.
   Macron ha sottolineato che assumere droghe e "impazzire", non deve togliere la responsabilità penale e ha dichiarato "Non spetta a me commentare una decisione del tribunale, ma vorrei esprimere alla famiglia, ai parenti della vittima e a tutti i nostri cittadini ebrei in attesa di un processo, il mio caloroso sostegno e la determinazione della Repubblica a proteggerli".
   Nel 2017 Sarah Halimi, un'anziana signora ebrea ortodossa, è morta dopo che Kobili Traore, suo vicino di casa, prima di buttarla giù brutalmente dalla finestra al grido "Allahu Akbar", l'ha riempita di insulti antisemiti.
   Traore, reo confesso, si trova in una struttura psichiatrica, dopo che l'Alta Corte ha dichiarato che l'uomo, nel momento dell'atto omicida, era in uno stato di delirio, quindi non era nel pieno delle sue facoltà mentali.
   La decisione del tribunale, inoltre, ha provocato la rabbia dei gruppi antirazzisti, convinti che questa sentenza metta a rischio tutti gli ebrei.
   Negli ultimi anni - ricorda il Times of Israel - gli ebrei francesi sono stati ripetutamente presi di mira dai jihadisti, in particolare nel 2012, quando un islamista armato ha ucciso tre bambini e un insegnante in una scuola ebraica nella città meridionale di Tolosa e nel 2015, quando sono state uccise quattro persone in un supermercato a Parigi.
   A seguito dell'ultima sentenza, gli avvocati, che rappresentano la famiglia di Halimi, hanno fatto presente che intendono deferire il caso alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

(Shalom, 19 aprile 2021)


Conversioni sospette

Due donne con un passato equivoco che sostennero di aver trovato la fede

di Paolo Mieli

Il processo
Giovane e molto bella, Celeste venne chiamata la «Pantera Nera». Fu condannata perché le sue delazioni erano «a scopo di lucro»
L'imputazione
Un ufficiale del corpo dei bersaglieri denunciò Elena nel luglio 1944. Gli indizi sul fatto che avesse lavorato per i nazisti erano innumerevoli

Celeste Di Porto, l'ebrea romana che collaborò con i nazisti identificando e mandando a morte qualche decina di suoi correligionari, ed Elena Hoehn, accusata nel dopoguerra di essere stata una spia dei tedeschi, si conobbero in carcere, alle Mantellate, nel giugno del 1946. Tra loro nacque un ambiguo rapporto che è oggetto di un interessantissimo libro scritto da Anna Foa e Lucetta Scaraffia, Anime nere. Due donne e due destini nella tragedia del Novecento (Marsilio). Tra le due, la più conosciuta è senza alcun dubbio la prima, già protagonista di un romanzo di Giuseppe Pederiali, Stella di piazza Giudìa (Giunti). Di lei Anna Foa aveva intravisto le tracce nel corso degli studi che la portarono a scrivere Portico d'Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del 1943 (Laterza).
  Figlia di un venditore ambulante, Settimio Di Porto, Celeste era nata nel 1925. Bellissima (di qui il soprannome «Stella del ghetto»), aveva cominciato a lavorare a quattordici anni come cameriera in una famiglia di conoscenti ebrei, poi nel ristorante «Il Fantino». La trattoria era frequentata dai fascisti della banda di Giovanni Cialli Mezzaroma e tra loro c'era Vincenzo Antonelli di cui la ragazza diventerà amante (pur se, nel processo di cui parleremo in seguito, negherà di esserlo-stata). Sarà Antonelli - nel periodo tra il settembre del 1943 e il giugno' 44, ai tempi in cui la capitale fu sotto il dominio tedesco - ad indicarle la via per guadagnare «soldi facili»: quella di aiutarlo nella caccia agli ebrei da consegnare ai nazisti. All'origine della decisione di dare una mano ad Antonelli in questa spregevole attività potrebbe esser stato, anche, il risentimento nei confronti della parte più abbiente della comunità ebraica. Parte a cui appartenevano i genitori di un suo fidanzato che avevano costretto il figlio a troncare il rapporto con lei, giudicata povera e di facili costumi.
  Al processo, Celeste sosterrà di aver svolto quell'attività di delazione per aiutare alcuni suoi correligionari a sfuggire alla cattura. Nelle mani dei tedeschi finirà - non denunciato da lei - anche suo padre, che prenderà le distanze dalla figlia e troverà la morte ad Auschwitz. Il resto dei suoi familiari sfuggirono alla cattura. Così come - per intercessione di Celeste - una sua compagna di scuola, Rosina Di Veroli, che si salverà e al processo testimonierà a suo favore. In ogni caso già nei primi mesi del 1944 all'interno della comunità ebraica romana si seppe di quel che realmente faceva Celeste, soprannominata da quel momento «Pantera Nera». Il pugile ebreo Lazzaro Anticoli, detto «Bucefalo», da lei denunciato, finì alle Fosse Ardeatine; qualche giorno prima della morte lasciò scritto - sulla parete della cella nel carcere romano di Regina Coeli - di essere stato catturato per «colpa di quella venduta de Celeste». E chiese di essere vendicato.
  Appena gli alleati entrarono a Roma, nel giugno del 1944, Celeste sfuggì all'ira dei suoi correligionari, riparò a Napoli e cambiò nome. In un primo tempo riuscì a nascondersi, poi, per guadagnarsi da vivere, fu costretta a prostituirsi e venne riconosciuta da due persone. Arrestata, fu riportata nella capitale e incarcerata in attesa del processo che iniziò nel 1947. L'inizio del dibattimento non passò inosservato: «Pantera Nera in gabbia davanti a quelli che ha tradito», titolò «Il Tempo»; «La Voce Repubblicana» riferì di una folla che davanti al tribunale ne pretendeva «il linciaggio». Sara Vivanti, unica 'sopravvissuta di una delle famiglie più colpite dagli arresti, raccontò di averla vista nei giorni precedenti l'eccidio delle Fosse Ardeatine mentre partecipava «con una pistola in mano» al saccheggio dei negozi degli ebrei.
  Fu condannata proprio per questo, per aver «collaborato con il tedesco invasore a scopo di lucro» fornendo indicazioni e «materialmente partecipando» all'arresto di numerosi israeliti. Se la sentenza sottolineava la questione de Il lucro (e quasi apparisse ai giudici più importante di ogni altro aspetto della vicenda», scrivono Foa e Scaraffia), è conseguenza delle norme per l'amnistia del 1946, secondo le quali gli unici delitti non coperti dal provvedimento di clemenza erano quelli «particolarmente efferati» o, appunto, commessi «a scopo di lucro». Ma non era da considerarsi «Particolarmente efferata» la denuncia di un ebreo destinato alle Fosse Ardeatine o ad Auschwitz? No, sostenne la difesa, dal momento che Celeste poteva non essere a conoscenza della fine che avrebbero fatto quelli che aveva denunciato. E i giudici - anche in altri processi - accolsero questa tesi.
  Celeste finì in cella con Tamara Cerri, l'amante sedicenne di Pietro Koch capo della feroce banda di seviziatori che dalla loro sede -l a pensione Oltremare in via Principe Amedeo (i locali in cui oggi c'è Radio Radicale)davano una mano alla Gestapo. Koch verrà fucilato a Forte Bravetta il 6 giugno del 1945. In una memoria successiva ritrovata dalle autrici, Celeste, a proposito all'esecuzione di Koch, ricorderà di aver saputo dalle suore che il torturatore «aveva fatto una morte da santo, in perfetta pace con Dio, rassegnato a morire con una forza d'animo superiore». C'era anche, sempre secondo le monache, chi «diceva di invidiare una morte simile» e questo «faceva sperare che Il Signore lo avesse perdonato in tutto facendolo entrare nel Regno dei Cieli». Dalle religiose che assistevano le detenute, in altre parole, la «Pantera Nera» veniva a sapere che ci si domandava se, dopo la fucilazione, ad un notissimo criminale sanguinario (qual era Koch) sarebbero state spalancate le porte del Paradiso.
  Alle Mantellate, Celeste restò due anni. Nel giugno del 1946; incoraggiata dalle suore, incontrò in carcere la coprotagonista di questo libro, Elena Hoehn. Con la quale avrà un rapporto dapprima difficile, poi sempre più intenso. Al termine del processo, la «Stella del ghetto» verrà condannata a dodici anni. Dodici anni immediatamente condonati a sette e alla fine ne sconterà soltanto tre (comprensivi dei due trascorsi alle Mantellate più uno a Perugia). Uscirà di prigione il 12 marzo 1948 e, nove giorni dopo, riceverà il battesimo (madrina la Hoehn) dal vescovo di Assisi. Per poi trovare rifugio a Trento. Sempre accompagnata da Elena
  Elena Hoehn era nata in Slesia nel 1901. Nel primo dopoguerra era giunta in Italia dove aveva conosciuto Luigi Alvino, un commerciante avellinese destinato a diventare suo marito (con rito civile). Un matrimonio di breve durata dal momento che Elena era poi diventata l'amante di un deputato fascista (nonché direttore del Banco di Napoli) molto ascoltato da Mussolini: Giuseppe Frignani. Secondo Armando Droghetti, autore di Elena Hoehn. Protagonista della storia italiana (edizioni 'San Paolo) - la ragazza ebbe all'inizio degli anni Trenta una conversione al cattolicesimo. Foa e Scaraffia mettono in dubbio l'autenticità di questo atto di cambiamento di fede e sollevano interrogativi su come fu possibile che - nonostante la relazione tra lei e Frignani fosse pubblica - la conversione di Elena ottenesse l'«avallo» dell'arcivescovo di Napoli, il cardinale Ascalesi.
  Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Hoehn scoprì che Frignani aveva sposato un'altra donna che gli aveva dato due figli. Elena tornò con il marito, Luigi Alvino, che, nel 1943, accettò di «nascondere» Giovanni Frignani (fratello del suo ex amante). Questo Frignani era il tenente colonnello dei carabinieri che il 25 luglio del 1943, su incarico del re Vittorio Emanuele , aveva arrestato Mussolini. Dopo l'8 settembre i nazisti gli davano la caccia e nel gennaio del 1944 riuscirono a catturarlo nel rifugio predisposto da Alvino e Hoehn, si presume in seguito ad una spiata. Con lui caddero nelle mani dei tedeschi due ufficiali dei carabinieri e, di lì a qualche giorno, l'intera rete che faceva capo al comandante del Fronte militare clandestino, il colonnello Montezemolo. Tutti furono poi trucidati alle Fosse Ardeatine.
  Appena finì la guerra, la Hoehn venne accusata di spionaggio a favore dei nazisti e tratta in arresto. Ma lei - con l'aiuto di personalità del mondo cattolico - seppe trasformarsi in un' «eroina cristiana» portando «in dote» la «conversione di Celeste Di Porto». Foa e Scaraffia sostengono che i racconti di Elena al processo non quadrano, infarciti come sono di ben individuabili contraddizioni. Un dettaglio colpisce le autrici della ricerca: il marito di Elena, Alvino, racconta che la mattina della cattura di Frignani era andato a messa «come sempre senza la moglie». Nessuno riferì di averla mai vista in una chiesa durante le funzioni religiose. Strano che una donna, convertitasi da oltre dieci anni, non andasse mai a messa.
  Romolo Guercio, maggiore dei bersaglieri, non ebbe dubbi e già il 5 luglio del 1944, all'indomani della liberazione di 'Roma, denunciò Elena. Gli indizi sul fatto che avesse lavorato per i nazisti sono davvero innumerevoli, eppure il 3 dicembre del 1946 fu prosciolta dalla Corte d'Appello di Roma. La sentenza la dipinge come una persona di dubbia moralità anche se, a detta dei giudici, nulla autorizzava a «ritenerla capace di architettare il diabolico piano» che avrebbe portato alla cattura e all'uccisione di Frignani. Negli anni successivi Elena continuerà ad occuparsi di Celeste Di Porto e, dopo la conversione dell'amica ebrea (accompagnata da un memoriale che contiene non poche considerazioni antisemite) la condurrà a Trento dove la introdurrà tra i seguaci di Chiara Lubich (1920-2008), la terziaria francescana che nel 1943 aveva dato vita all'importante movimento dei «focolari». Una figura, quella della Lubich, importantissima nella storia del cattolicesimo: basti dire che, dal 2015, è in corso la causa della sua beatificazione. Celeste Di Porto si tratterrà poco tempo dalla Lubich, per un po' resterà in corrispondenza con Elena (chiedendole soldi), poi tornerà a Roma dove si sposerà e continuerà a vivere fino alla morte avvenuta nel 1981.
  Elena invece, ormai accreditata dalla Lubich, si avvicinerà a Igino Giordani, un importante politico e intellettuale cattolico antifascista per il quale, tra il 1949 e il 1953. finanzierà - tramite il marito - il settimanale «La Via». Giordani, scrivono Foa e Scaraffia, avrà con «La Via» il modo per avere finalmente «un giornale tutto suo dove avrebbe potuto esprimere le sue idee di pace e di dialogo con i comunisti», Ad Alvino quel giornale darà l'opportunità di entrare, sia pure «dalla porta di servizio», nel «mondo del potere democristiano».
  Ciò che rende «pericolosamente simili» le due conversioni - quella di Elena e quella di Celeste - è, proseguono Foa e Scaraffia, «che entrambe nell'abbracciare una vita apparentemente intrisa di spiritualità, negano ogni addebito del passato, negano di avere compiuto i delitti che con ogni evidenza hanno compiuto». Chiara Lubich e Igino Giordani e, prima di loro, il vescovo di Assisi - scrivono ancora Foa e Scaraffia - «hanno accolto le due donne a braccia aperte, soprattutto Elena, apprezzandone la generosità e la capacità di impadronirsi dell'ideale focolarino». Laddove, per le autrici, «impadronirsi» è un verbo scelto non a caso. Elena - sostengono Foa e Scaraffia - non riuscì «a imboccare veramente una nuova strada», non fu capace di «fare a meno della menzogna» raccontando a Chiara la sua vera storia. E le due storiche si domandano come mai - dal momento che «i santi dovrebbero leggere nel cuore delle persone» - Chiara Lubich non riuscì ad accorgersi della «falsità di Elena».
  Alla fine degli anni Settanta, Elena tornò sulla scena pubblica testimoniando nell'importante processo contro Robert Katz, il quale - nel libro Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine (Editori Riuniti) - aveva accusato Pio XII di non essere intervenuto per impedire l'eccidio. Testimonianza, quella di Elena, a favore del pontefice. Che contribuì a far condannare Katz. Dopo la morte del marito, la Hoehn andrà a vivere in una propria casa ad Assisi dove morirà nel 2001, all'età di quasi cento anni. Indisturbata, come del resto era accaduto a Celeste Di Porto.

(Corriere della Sera, 20 aprile 2021)


Basta mascherine. Israele fa festa. "Finalmente liberi"

Da ieri non c'è più l'obbligo di indossarle all'aperto. Ma non tutti si fidano: "Attenzione alle varianti".

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Per le strade d'Israele si torna a riconoscersi senza il filtro della mascherina, che dopo un anno cessa di essere obbligatoria all'aperto. Una direttiva che gli esperti reputavano ormai "dovuta", considerato l'abbattimento della curva dei contagi: solo 82 nuovi positivi ieri, un calo del 97% rispetto a gennaio. «Era ora», ci dice il parrucchiere Uzi nel centro di Tel Aviv, dalla cui vetrina si può constatare che anche all'interno l'atmosfera è decisamente rilassata, con più di un cliente a viso scoperto. «Dopo i festeggiamenti di Yom Hatzmaut, venerdì abbiamo cominciato a chiudere un occhio anche qui: abbiamo celebrato l'indipendenza dalla mascherina!».
   «È una vera benedizione, soprattutto ora che il caldo comincia a farsi sentire», ci dice Rotem che sta andando a fare un tuffo in mare. Amos, che attende fuori dal parrucchiere, si cela ancora dietro una bandana, ma ci fa notare che non era al corrente della nuova disposizione: «Tanto comunque dentro la devi indossare...», dice, fino a che Ronen, dal chiosco accanto, non gli urla: «Non sei contento di tornare a respirare?». Lui invece non la indossa nemmeno dentro al suo bugigattolo «perché quando alzo la serranda non si può sostenere che questo sia uno spazio chiuso».
   Camminando per le strade in cui il Covid sembra solo un trauma del passato, le mascherine rimangono il segnale più evidente di quanto la pandemia sia destinata a governare ancora la nuova routine. La maggior parte delle persone girano ancora con la mascherina abbassata, o legata al polso, «che poi se te la dimentichi non ti fanno entrare al super», come osserva Amos. Oppure sull'autobus. Sul 5 il conducente Avi si è rifornito di un pacchetto di emergenza proprio per gli smemorati, «omaggio dell'autista per oggi, ma ci dovrà pensare qualcuno prima o poi, perché con il tempo la gente se la dimenticherà sempre di più».
   Tra i più anziani c'è chi non vi rinuncia per scelta. «Con questa atmosfera da fine emergenza sempre bene essere cauti», dice Hanna che passeggia per le strade soleggiate senza rinunciare alla visiera protettiva. « Per i medici, i benefici dell'indossare le mascherine sono del tutto evidenti. «La vera normalità», dice Arielle, «tornerà quando l'aeroporto comincerà a lavorare come prima del Covid». Ed è proprio l'ultimo passo della ripresa - l'apertura al mondo - che rende ancora molto cauti gli esperti, che temono nuove varianti. Ma con il 70% della popolazione vaccinato o guarito, il Paese si avvicina all'immunità di gregge e le categorie del turismo incoming sono riuscite a ottenere un primo attesissimo pilot per ravvivare uno dei settori più colpiti: per la prima volta dal marzo 2020, il 23 maggio Israele riaprirà ai turisti, anche se con direttive piuttosto rigide. In questa prima fase si parla di ingressi contingentati per gruppi organizzati e vaccinati (o guariti), che dovranno presentare in partenza un tampone negativo e in arrivo effettuare un test sierologico per evitare la quarantena. Gli ingressi di turisti individuali dovrebbero riprendere da luglio.
   
(la Repubblica, 19 aprile 2021)


*


Israele fa sparire le mascherine all’aperto. Sieri e riaperture: un modello da imitare

Come nel resto del mondo le vittime, le sofferenze dei tre lockdown e le ripartenze false. Ma finalmente è arrivata la fine di un incubo.

di Fiamma Nirenstein

Gli antidoti
Pagati a prezzo elevato, ma la vita vale di più. Non lasciatevi andare all'isteria
L'importanza di correre
Stadi, centri commerciali, tende montate per strada. Tutto per le iniezioni

Eccoci di nuovo esseri umani, una faccia, un nome, un sorriso, per la strada senza maschera. Non la chiamerò affettuosamente mascherina. E la fascia chiara che ha cancellato i lineamenti, il segnale di paura divenuto quotidiano e indispensabile: ha dato una mano di calce ai baci, al piacere dell'incontro, anche all'espressione della legittima frustrazione. Ha obliterato la bellezza persino dei bambini. Adesso in Israele per primi nel mondo torniamo a incontrarci, 5 milioni sono vaccinati, un milione guarito su 9 di popolazione complessiva. I tassi di contagio e il numero dei morti bassissimo. E una vittoria meravigliosa, ma non invidiateci: imitateci.
   Prima di tutto, abbiate fiducia nel vaccino, è talmente evidente che in un ambiente con l'immunità di gregge subito la pandemia si ritira, si restringe, consente di nuovo di andare a scuola e prendere gli autobus. Dunque: aprite il vaccino a tutti, sia pure gradualmente qui si è andati dai più vecchi e quindi più fragili fino ai 16enni, e adesso si studia seriamente la possibilità del vaccino ai bambini. Si parla del vaccino senza spaccare il capello sui brevi sintomi delle reazioni, senza agitarci, senza accusare di maligne sperimentazioni Pfizer o Moderna o AstraZeneca. Come in tutte le complicate vicende di Israele la gente è stata la protagonista del processo di guarigione, la sua forza e la sua disciplina, mentre Netanyahu dava il suo meglio capendo che qui si giocava una partita di cui i libri di storia dovranno raccontare.
   Il governo ha comprato i vaccini a prezzo elevato: certo, era meglio pagarli meno. Ma che importa rispetto al prezzo della vita. Questo mentre l'Unione europea non si decideva a un accordo che mettesse in rapido movimento le case farmaceutiche. Appena ne ho avuto bisogno ho potuto ammirare personalmente la mobilitazione del sistema sanitario senza distinzione di mansioni: medici, infermieri, volontari, sia nella verifica delle malattia che nelle distribuzione del vaccino. Il criterio è sempre stato: velocizzare. Stadi, mall, tende montate per strada sono diventate centri per sperimentare modi velocissimi di vaccinare tutti. E stata dura, la sera del 73esimo anniversario della nascita dello Stato sono stati loro, i paramedici e i medici in camice bianco o verde, a cantare la canzone di apertura delle cerimonie nella genuina gratitudine generale.
   Abbiamo fatto tre lunghi periodi di chiusura totale, coi bambini a casa e le mamme e le nonne lontane; i vecchi, persino i sopravvissuti della Shoah, hanno languito in solitudine; abbiamo cercato di fissare l'attenzione dei bambini stanchi e tristi sugli schermi da cui le insegnanti inutilmente facevano del loro meglio; abbiamo intrapreso una battaglia contro schermi, lpad, televisori preservando qualche segno di vita intellettuale e artistica. Tutti hanno protestato contro il governo, l'economia adesso soffre come ovunque di un restringimento anche dovuto ai sussidi che sono stati distribuiti e che a volte invitano la gente a restare a casa invece che a lavorare con più lena, ora che si può. I tentativi di aprire via via in modo «intelligente» sono stati fatti più volte, fra le proteste popolari di chi soffriva i danni spaventosi del Covid, e spesso si è dovuto azzerare e ricominciare da capo. Ma abbiamo ritentato ogni volta di aprire dove era possibile senza tuttavia osare troppo, specie con le scuole e le istituzioni culturali.
   Soprattutto abbiamo inghiottito le lacrime di tanti lutti, abbiamo attraversato tragedie personali impensabili, è stata una guerra che certo porta con sé un grande post trauma anche per la mia stessa famiglia che ha avuto una perdita in Italia e una in Israele. Un importante studio certifica che un bambino su cinque soffre di ansia, e la società israeliana si sta impiegando ad affrontare il problema adesso. Così sarà per tutti. Adesso, al chiuso dobbiamo ancora indossare la maschera. Ma abbiamo una «carta verde» sul telefonino che certifica che siamo stati vaccinati. E’ una forma di controllo sociale? Beh, certo che sì. Ma una guerra, non è forse una forma di costrizione dell'essere umano a mettersi di fronte al proprio destino con un'arma in mano? Certo che sì. Ma è un'emergenza, una forma di lotta per la sopravvivenza.
   Mi si consenta una conclusione personale: chi proviene da Israele ed è vaccinato, non ha diritto a entrare come un europeo? E specialmente se è italiano? Se sì, non è l'ora di deciderlo come gesto di simpatia e di solidarietà per chi ha aperto la strada a tanto lavoro per battere il virus, tutti i virus, anche nel futuro?
   
(il Giornale, 19 aprile 2021)


Evviva! Il vaccino funziona, che altro c’è da dire? Israele su questo punto ormai è il primo della classe. Nessuno dubita che in molti casi la cosa principale sia il funzionamento, ma siamo sicuri che sia così anche in questo caso? “E’ una forma di controllo sociale? Beh, certo che sì”, riconosce l’autrice, ma, come diceva Nino Manfredi, “quanno c’è ‘a salute c’è tutto”, oppure, detto in altro modo, “è una forma di lotta per la sopravvivenza”. Timori per la libertà? Non è il caso di lasciarsi andare all’isteria: la libertà è un bene prezioso che per essere adeguatamente protetto deve essere consegnato e custodito in apposite cassette di sicurezza conservate e gestite a livello centrale. Liberi ma sorvegliati. Sorvegliati affinché si possa continuare ad essere liberi. Tutto torna, è sufficiente aggiornare il concetto di libertà e il gioco è fatto. M.C.


Sul certificato vaccinale: "Servirà per entrare in locali e palestre, un pass per viaggiare"

Com’era prevedibile, in fatto di “Green Pass” le nazioni cominciano a imitare il “modello Israele”. NsI

di Alessia Rabbai

Da oggi sono scaricabili 1,5 milioni di certificati vaccinali per chi ha completato il percorso di vaccinazione contro il Covid nel Lazio. Si tratta di un attestato che al momento ha la validità di qualsiasi altro certificato sanitario, ma che nei prossimi mesi potrebbe rappresentare una sorta di passaporto, di 'Green Pass', necessario per spostarsi e viaggiare, ma anche per accedere a locali, palestre e discoteche, su modello di Israele. In un'intervista rilasciata a La Repubblica, l'assessore regionale alla Sanità Alessio D'Amato, ha spiegato che "il certificato vaccinale potrebbe diventare qualcos'altro da un semplice documento, riportando informazioni già presenti all'interno del sistema sanitario regionale, come l'esito di un tampone molecolare o di un test sierologico".

 "Tra gli obiettivi vaccinare i 30enni a giugno"
  D'Amato spiega che "tra gli obiettivi della campagna vaccinale del Lazio c'è la somministrazione delle dosi tra fine aprile e le prime settimane di maggio per le classi d'età 59-50. Da metà maggio ai primi di giugno i 49-40enni, a fine giugno dai 39 ai 30". L'assessore precisa che: "Ciò dipende dalle disponibilità dei vaccini, intorno al 20 aprile Ema, dovrebbe pronunciarsi su Johnson. Se ci fosse una limitazione questo rallenterà la campagna vaccinale, il monodose sarebbe il più semplice da gestire per le fasce più giovani, ad esempio negli hub drive in".

 Il Lazio dal 26 aprile è zona gialla: cosa cambia
  D'Amato è positivo ed è sicuro che a partire dal 26 aprile "il Lazio tornerà in zona gialla". Con il cambio di colore riapriranno finalmente al servizio al tavolo e al bancone per i clienti bar, ristoranti, gelaterie e pasticcerie. Si potrà nuovamente praticare sport di squadra e le scuole torneranno in presenza al cento per cento. "Ci rassicura il fatto che un gran numero di docenti e personale scolastico è stato vaccinato" spiega D'Amato. Parola d'ordine 'prudenza' chiarisce l'assessore, non sarà un libera tutti: "Resterà il coprifuoco, bisogna valutare passo passo l'andamento epidemiologico".

(fanpage, 19 aprile 2021)


Nucleare Iran: Israele non può più rimanere inerme

di Franco Londei

Ormai è chiaro che l'opzione militare non è più rinviabile. Ma i dubbi sul come fare sono davvero tanti
Anche l'AIEA (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica) ha confermato sabato che l'Iran ha iniziato ad arricchire l'uranio al 60%.
L'Iran in precedenza non aveva mai arricchito l'uranio sopra la soglia del 20% e questa decisione può significare solo che Teheran vuole arrivare il prima possibile ad un ordigno nucleare.
L'arricchimento dell'uranio al 60% avviene nel sito sotterraneo di Natanz, già sabotato diverse volte.
Ma è palese che i sabotaggi non servono ad altro che a rallentare un po' la corsa iraniana all'arma atomica. Per fermarla occorre altro.
Qualcuno (gli americani) sostiene che per fermare l'Iran occorre riattivare il JCPOA. E proprio in queste ore sembrerebbe che qualcosa avvenga in tal senso.
In realtà ormai non è più possibile alcun accordo con l'Iran in quanto sono andati oltre la soglia di non ritorno.
Per fermare la corsa iraniana all'arma atomica può servire solo distruggere totalmente le loro capacità nucleari.
Ma siccome i siti nucleari più importanti (come quello di Natanz) sono sotto terra e ben protetti da tonnellate di cemento armato, le uniche opzioni sono l'uso di bombe anti-bunker oppure seppellire tutto con bombe del tipo Gbu-43. La terza alternativa è meglio non nominarla.
Nel primo e nel secondo caso lo possono fare solo gli Stati Uniti e in tutta franchezza non mi sembra che il Presidente Biden sia interessato a farlo.
L'ideale sarebbe che gli Stati Uniti mettano Israele in condizione di poterlo fare fornendogli tutti i mezzi necessari. Ma anche in questo caso il Presidente Biden non sembra molto propenso.
Non sappiamo se negli ultimi periodi della sua presidenza il Presidente Trump ha fatto qualche "regalo" a Israele, ma credo che non abbia fatto in tempo.
Si potrebbe comunque seppellire tutto con un bombardamento a tappeto e colpendo i siti anche con missili da crociera, ma non si otterrebbe la distruzione completa delle centrali.
La terza innominabile opzione può servire a Israele solo per fare pressione sugli Stati Uniti al fine di ottenere il necessario per portare avanti le prime due opzioni. Non oso pensare a quello che succederebbe se Gerusalemme superasse quella soglia.
Quello che è certo è che ormai l'opzione militare non è più rinviabile. Gli iraniani procedono troppo spediti verso la bomba atomica. E se gli israeliani si fanno qualche remora a usare le armi nucleari, gli Ayatollah di certo non se le faranno. Quindi fanno fermati ad ogni costo.

(Rights Reporter, 19 aprile 2021)


Storia di un'amicizia (forse): Dante e Manoello Romano

di Vittorio Robiati Bendaud*

Scrivere di Dante e degli ebrei del suo tempo significa ricordare Immanuel da Roma, alias Manoello Giudeo. Tuttavia, in via preliminare, occorre accennare a tre letterati ebrei che precedettero l'Alighieri. Il primo è Biniamìn ben Avraham 'Anàv (sec. XIII), fratello maggiore del più celebre Tzidqiah -l'autore dello Shibbolé haLéqet, fondamentale opera di halakhah italiana-. Biniamìn, importante poeta liturgico (autore di selichòth, tra cui quella acrostica Barùkh Eloqé 'Eliòn), compose un'operetta satirica che godette di una certa celebrità, ove poesia e prosa si alternano e in cui viene allestito una sorta di "inferno" per ricchi dissoluti, con vizi, peccatori e punizioni. In Sicilia, a distanza di qualche anno, operò il traduttore A盧・itテケv da Palermo, impegnato sugli originali arabi di Maimonide, in un contesto ebraico fortemente influenzato dal pensiero maimonideo-aristotelico, sin da quando nei circoli rabbinici divampò l'aspra controversia attorno agli scritti di Rabbenu Mosheh ben Maimòn. In una sua opera allegorica, A盧・itテケv (XIII-XIV sec.) descrisse la propria ascesa nell'empireo, ove poté saziarsi del pane dei giusti e bere l'acqua scaturente dalle sorgenti celesti, con cui peraltro si peritò di annaffiare il suo bell'orto siciliano, che gli elargì tredici squisiti e succulenti frutti - ossia i tredici articoli di fede definiti da Maimonide -, da condividere riservatamente con chi sappia gustarli. Infine, nella Spagna degli anni '60 del XIII secolo, Avraham da Toledo (Ibn Waqar) per conto di re Alfonso X di Castiglia tradusse in castigliano dall'originale arabo un testo particolare, noto nel mondo latino come Liber de Scala, che, a detta di certa critica contemporanea, costituirebbe il presunto anello di congiunzione tra Dante e la cultura arabo-islamica (giuntagli comunque indirettamente, mediata, come in questo caso, da ebrei), specie per quanto riguarda la Comedia.
  Non è importante che Dante abbia avuto o meno accesso alle fonti appena ricordate (tenendo sempre presente che i suoi principali modelli e riferimenti poetici furono Virgilio, Omero e Ovidio); è invece significativo - e persino avvincente - che nell'Italia centro-meridionale, alcuni decenni prima del supremo capolavoro dantesco, due autori ebrei avessero vagheggiato in versi di ascese o discese nei regni eterni dei dannati e dei beati. Tutt'altra questione, invece, riguarda il lungo discorso sul linguaggio - razionale o arbitrario, essenziale o convenzionale? -, sulle sue capacità espressive e sulla sua esattezza che Dante affronta nel De Vulgari Eloquentia. Da buon medievale, si diffonde sulla lingua della Creazione; sulla lingua parlata da Dio e da Adamo, e poi da quest'ultimo con Eva e i suoi figli; sulla confusio linguarum successiva a Babele e sull'ebraico, la lingua della Rivelazione. Come ha osservato anche Umberto Eco ne La ricerca della lingua perfetta, nella riflessione dantesca ricorrono questioni e temi sviluppati da mistici e pensatori ebrei quali Avraham Abulafia (che soggiornò a Roma), Yehudah Romano, Hillél da Verona e Mena盧・テゥm Biniamテャn Biniamìn Recanati. Ma, nel caso, chi fu il trait d'union tra questi Maestri e il Poeta divino?
  Giungiamo così al nostro Manoello: romano per nascita e formazione, cugino - guarda caso - dell'appena citato Yehudah, e poi fuggitivo dall'Urbe per motivi ignoti. Nelle sue peregrinazioni, che in qualche modo ne avvicinano l'esistenza a quella esilica di Dante, Manoello venne accolto alla dinamica corte veronese di Cangrande della Scala (la più filoimperiale d'Europa, per splendore e vivacità seconda soltanto a quella siciliana all'epoca di Ruggero d'Altavilla e Federico II di Svevia), proprio negli stessi anni del soggiorno del fiorentino nella città scaligera. I due si conobbero e frequentarono? Furono amici? Queste domande restano prive di una risposta diretta. Tuttavia, Manoello fu legato da vincoli amicali al letterato e giurista Cino da Pistoia (1270-1336) e a Bosone da Gubbio (XIV sec.), politico e uomo di lettere, entrambi poeti e buoni amici di Dante. In particolare, si è conservato un fondamentale scambio di sonetti, successivi al 1321, tra Bosone (Due lumi sono di nuovo spenti al mondo) e Manoello (Io che trassi le lacrime dal fondo) per piangere la morte del Poeta, ritenuta dall'ebreo romano un lutto universale. Questo specialissimo sonetto, assieme ad altri tre e a una "frottola" detta Bisbidis, costituiscono quanto è sopravvissuto della produzione in volgare di Manoello, che si affiancava ai commenti biblici e ai suoi scritti in ebraico.
  Ma c'è molto altro. L'opera principale di Manoello (tra i primi libri ebraici messi a stampa dai Soncino, ancora oggi malvista in certuni ambienti rabbinici) è un prosimetro in ventotto sezioni, le Mahbaròt Immanuel (quaderni/conversazioni), ove il nostro autore introduce per la prima volta nella lingua ebraica il genere letterario, tipicamente italiano, del sonetto. Ancor più, l'ultimo capitolo delle Mahbaròt è intitolato non a caso "Inferno e Paradiso", raccontando di un immaginario viaggio, sulla scorta della Divina Commedia, nei regni oltremondani dei dannati e dei beati, puniti o premiati per il comportamento tenuto in vita, retto o empio, indipendentemente dalla fede di appartenenza. Non dissimilmente da Dante pellegrino, anche Manoello s'intrattiene, nelle viscere della terra, a conversare con i dannati, puniti secondo il modello del contrappasso; ma anche con i beati, in un Paradiso articolato in vari gradi, per essere infine accolto dai Profeti che gli confermano la felicità ultraterrena in virtù della sua opera intellettuale e, specialmente, dei suoi commenti biblici. E anche Manoello, nei regni dei morti, come Dante, ha il suo lampadoforo - il suo Virgilio -, che nelle Mahbaròt si chiama Daniele, ma che sembrerebbe essere proprio Dante Alighieri.
  In conclusione, come scrive Umberto Fortis (Manoello Volgare, Salomone Belforte & C.), Immanuel ben Shelomoh ha-Romì fu il maggiore poeta ebreo dell'età medievale, capace di fondere armonicamente, in un tessuto nuovo e originale, la grande tradizione poetica della scuola giudeo-spagnola (con i suoi eccezionali debiti verso la lingua e la metrica arabe, sia per la poesia liturgica sia per la poesia erotica prodotte dai rabbini) e le esperienze liriche italiane, stilnovistiche e giocose (c'è, infatti, in Manoello un gustoso "ammiccare" che parrebbe talora avvicinarlo a Cecco Angiolieri, la cui riscoperta si deve ampiamente, peraltro, al letterato ebreo pisano Alessandro D'Ancona… ma questa è un'altra storia).

* Vittorio Robiati Bendaud (1983), già principale collaboratore di Rav G. Laras zl, coordina il tribunale rabbinico del centro nord Italia. È autore del saggio La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell'Islam (Guerini, 2018) e de Il viaggio e l'ardimento (Liberilibri, 2020), il cui primo racconto ha per protagonista Manoello Romano.

(Shalom, 19 aprile 2021)


Il modello virtuoso di Israele, da oggi non sarà più obbligatorio indossare la mascherina

Cade oggi in Israele l'obbligo di indossare la mascherina all'aperto, e riaprono completamente le scuole per la prima volta da più di un anno, dopo che 4,9 milioni di israeliani (su 9 milioni totali) hanno ricevuto due dosi di vaccino contro il Covid-19. La mascherina dovrà tuttavia essere indossata nei luoghi pubblici chiusi, e il ministero della Salute continuerà a raccomandarne l'uso anche all'aperto e negli assembramenti.
   Nel frattempo, torneranno a scuola in presenza gli studenti di tutte le età: gli studenti saranno ancora obbligati a portare mascherine al chiuso, ma sara' permesso rimuoverle durante le ore di educazione fisica, durante i pasti e negli intervalli.
   Dopo aver subito una grave terza ondata di infezioni, lo Stato ebraico ha visto nelle ultime settimane un netto miglioramento della situazione sanitaria, con un calo molto significativo dei contagi, dei ricoveri e dei decessi.
   Ieri, 17 aprile, sono stati diagnosticati in Israele 142 nuovi casi di Covid-19 e 16 nuovi decessi. Secondo gli ultimi dati del dicastero della Salute, i casi attivi in tutto il Paese sono attualmente 2.587. Il direttore generale del ministero della Salute, Chezy Levy, ha ammesso il calo dei contagi in un'intervista di ieri all'emittente pubblica "Kan", ma ha invitato i cittadini a non comportarsi come se il Paese fosse completamente al sicuro.
   "C'è un enorme calo di morbilità, ma il mio consiglio è che dove vi sono assembramenti molto fitti la gente indossi la mascherina", ha detto. "Dobbiamo comportarci correttamente per non vanificare i progressi fatti", ha aggiunto. A fronte della riapertura delle scuole, Levy ha lamentato il fatto che circa il 20 per cento degli insegnanti israeliani non abbia ancora ricevuto il vaccino, e questo puo' costituire un rischio a fronte del fatto che i minori di 16 anni non siano vaccinati. La vaccinazione per i ragazzi dai 12 a 15 anni potrebbe cominciare il mese prossimo, ha proseguito il direttore generale.

(Voce Contro Corrente, 18 aprile 2021)


Iran: «colpire la centrale israeliana di Dimona per vendetta contro Israele»

La stampa iraniana e fanatici aspiranti martiri che manifestano davanti alla centrale atomica di Natanz chiedono vendetta per il sabotaggio attribuito a Israele. Colpire la centrale di Dimona.

La stampa iraniana e i fanatici aspiranti martiri non sono contenti dell'annuncio che l'Iran sta arricchendo l'uranio al 60%. O meglio, non lo ritengono sufficiente.
  Questa mattina il quotidiano iraniano Kayhan ha chiesto senza tanti giri di parole che per vendicare il sabotaggio della centrale di Natanz, l'Iran dovrebbe colpire la centrale israeliana di Dimona.
  Non solo, sempre secondo il quotidiano iraniano, a chiedere una "punizione esemplare" sono anche migliaia di giovani iraniani che si sono ritrovati in mattinata davanti alla centrale di Natanz per manifestare solidarietà e per chiedere una immediata risposta contro Israele.
  «Morte a Israele» e «morte all'America» erano gli slogan urlati dai giovani che si sono detti disposti anche a diventare "martiri" pur i colpire Israele.

 Occhio per occhio
  L'Iran dovrebbe agire contro Israele sul principio di "occhio per occhio" dicono gli aspiranti "martiri" davanti alla centrale di Natanz.
  «Hezbollah deve prendere esempio dalla resistenza irachena e da quella yemenita» dice un ragazzo alla TV iraniana che lo intervista. «Deve colpire la centrale israeliana di Dimona con una raffica di razzi e di droni esplosivi».
  «I negoziati con l'occidente sono contro in nostro interesse nazionale» dice un altro aspirante martire. «L'Iran deve andare avanti con il suo programma nucleare e colpire il nemico sionista dove fa più male, cioè la centrale di Dimona. Solo così potremo vendicare il sabotaggio contro la centrale di Natanz».
  C'è solo un piccolo particolare che i poveri aspiranti martiri non sanno: la centrale nucleare di Dimona è uno dei siti più difesi al mondo e non è proprio facile da colpire, come ben sanno i loro cugini di Hezbollah.

(Rights Reporter, 18 aprile 2021)


Il Gran Rabbino sul caso Traoré: "Francia, è tempo di svegliarsi. Fallo ora o sarà troppo tardi"

Francia, svegliati. Non tradire i tuoi valori e le tue conquiste. Scrollati di dosso un'onta che appare intollerabile, una vergogna senza attenuanti. Rav Haim Korsia, Gran rabbino del Paese, lancia un appello a tutti i suoi connazionali. Lo fa dalle pagine di Figaro, il quotidiano più diffuso, commentando l'incresciosa vicenda relativa al 31enne Kobili Traoré, l'assassino di Sarah Halimi, che non subirà alcun processo perché la Cassazione ha stabilito che, al momento di uccidere la donna, fosse incapace di intendere e volere a causa della marijuana assunta poco prima.
   Traoré, il 4 aprile del 2017, era entrato nell'appartamento della sua vicina ebrea, già minacciata in modo esplicito nelle settimane precedenti. L'aveva colpita più volte e poi scaraventata dalla finestra. Nel corso del brutale assassinio aveva pronunciato frasi del Corano, mostrandosi ebbro di gioia per aver ucciso "un demone". Per la famiglia, e per le istituzioni dell'ebraismo francese, nessun dubbio: un omicidio di matrice antisemita e islamista. Una specificità comprovata da varie ricostruzioni, ma ignorata con perseveranza dagli organi giudiziari. Mercoledì scorso l'ultima violenza: Traoré resterà impunito.
   Rav Korsia richiama una frase profetica del ministro degli Esteri inglese Edward Grey, pronunciata nel 1914: "Le luci si stanno spegnendo in tutta Europa. La nostra generazione non farà in tempo a vederle riaccese". Un rischio cui starebbe andando incontro anche la Francia con la sua incapacità di affrontare, in modo consapevole, certi problemi.
   Il Gran rabbino, con riferimento al caso Traoré, parla senza mezzi termini di "uno scandalo" e si domanda: "Com'è possibile che l'assunzione di droghe sia un'aggravante in qualsiasi crimine contro la persona tranne che in presenza di un omicidio antisemita?". E soprattutto, si chiede ancora, "perché si è scelto di rinunciare a un processo, alla ricostruzione di fatti e connessioni; perché non si è data la possibilità di avere giustizia ai familiari, alla vittima, alla società?".
   Il sentimento è di "indignazione profonda" e nulla, insiste il rav, neanche la crisi sanitaria globale con tutte le sue implicazioni, può farlo passare in secondo piano. Per questo si appella a tutti i francesi affinché, "con le vie concesse dal diritto, e nel rispetto assoluto delle leggi della Repubblica", si prenda coscienza e ci si "ripulisca di questo atto disonorevole che mette in pericolo tutti, nessuno escluso".
   La strada auspicata è quella di una riforma giudiziaria che impedisca "la sacralizzazione dell'irresponsabilità e dell'impunità".
   Non c'è infatti dubbio, ricorda rav Korsia, sul fatto che si tratti di "un omicidio antisemita, compiuto alla stregua di un rituale". Come non c'è dubbio sul fatto che se la Francia non si scrollerà di dosso la miopia e l'ipocrisia che la pervadono altri tempi duri arriveranno. E quella luce che ogni giorno di più va spegnendosi la vedranno riaccesa, forse, soltanto le generazioni future.
   Rav Korsia non ci gira intorno: "Francia, svegliati".
   
(moked, 18 aprile 2021)


Libia, sinagoga trasformata in centro islamico

In Libia, un'antica sinagoga abbandonata si sta trasformando in un centro religioso islamico senza permesso. A denunciarlo è l'Organizzazione mondiale degli ebrei libici per bocca di David Gerbi, un ebreo italiano nato in Libia, sul sito ebraico Moked.
«Poiché ora non ci sono ebrei che vivono a Tripoli e poiché il potere è nelle mani delle autorità locali - ha scritto -, si è deciso di violare la nostra proprietà e la nostra storia. Il piano è chiaramente quello di sfruttare il caos e la nostra assenza».
Gerbi ha detto che l'Organizzazione mondiale degli ebrei libici «chiede che questa trasformazione venga interrotta immediatamente e che si lasci intatta la sinagoga di Tripoli con la speranza che un giorno venga ripristinata».
Un tempo la Libia aveva circa 40.000 ebrei. La maggior parte se ne andò in seguito alla costituzione dello Stato di Israele. I rimanenti furono cacciati tra il 1967 e il 1969. Il regime di Muammar Gheddafi cercò di cancellare tutte le tracce della presenza ebraica, distruggendone i cimiteri e convertendo le sinagoghe in moschee.

(Africa, 18 aprile 2021)


Scoperti frammenti biblici in greco di duemila anni fa con "Geova", il nome di Dio

di Roberto Guidotti

GERUSALEMME - Durante gli scavi effettuati dall'Autorità Israeliana per l'Antichità nel deserto della Giudea, sono venuti alla luce nuovi frammenti biblici scritti in greco risalenti al secondo secolo avanti Cristo. A riportare l'importante scoperta archeologica è il portale cmc-terrasanta.com
I nuovi frammenti trovati includono i versetti 16 e 17, capitolo ottavo del libro di Zaccaria. Rispetto alle versioni moderne della Bibbia, nel frammento compare l'espressione "ciascuno al suo prossimo" invece che "l'uno all'altro".
Ma l'aspetto più sorprendente di questi nuovi ritrovamenti - secondo gli studiosi - è la scrittura in ebraico antico del nome di Dio, "Geova" invece dei termini "Dio" o "Signore".
"Duranti gli scavi, - si legge sempre nel sito - sono stati inoltre ritrovati lo scheletro di una bambina mummificata, avvolta in un tessuto, risalente a seimila anni fa, ed un cesto, probabilmente il più antico al mondo, che risale a più di 10.000 anni fa.
Le grotte sparse nel deserto della Giudea nascondono ancora molte informazioni di coloro che hanno cercato rifugio al loro interno, ma le nuove scoperte aiuteranno a comprendere il processo di formazione del testo della Bibbia e la versione odierna".

(La Notizia, 18 aprile 2021)


Una nuova ambulanza del Magen David Adom intitolata al Principe William

di David Di Redash

Dal Regno Unito ad Israele. Una nuova ambulanza intitolata al Principe William per il Magen David Adom sarà "in servizio" dalla fine di aprile a Nazareth. Lo riporta il sito di Jewish News.
   L'occasione è la volontà di fare un omaggio al Duca di Cambridge per la prima visita ufficiale di un membro della famiglia reale in Israele che il principe fece nel giugno del 2018, quando visitò il Memoriale della Shoah di Yad Vashem ed incontrò alcuni sopravvissuti.
   Prima del Duca di Cambridge, fu il Principe Filippo, scomparso il 9 aprile, a recarsi in Israele nel '94, ma si trattò di una visita in forma privata per il riconoscimento dello Yad Vashem di sua madre come Giusta tra le Nazioni: la principessa Alice di Grecia, sepolta a Gerusalemme, si è infatti adoperata durante la guerra per salvare una famiglia di ebrei. La visita del '94, seppur in forma privata, pose fine al divieto, non ufficiale ma vincolate, e applicato negli anni del mandato britannico, per i reali di Buckingham Palace di visitare Israele.
   «Spero che non passerà molto tempo prima di vedere l'ambulanza operativa - ha detto a Daniel Burger, amministratore delegato per il Magen David Adom (MDA) nel Regno Unito -. Sarà bello vedere un'ambulanza che porta il nome di Sua Altezza Reale il Duca di Cambridge per le strade di Israele salvare vite umane».
   «Un esempio di come sia meraviglioso il lavoro di MDA in tutto il mondo» -ha detto Lord Simon Reading, che ha assistito a gli ultimi controlli del veicolo: suo nonno Lord Chief Justice fu l'unico ebreo britannico a diventare marchese, ed ebbe un ruolo chiave nella Dichiarazione Balfour.
   «La visita di Sua Altezza Reale il Duca di Cambridge è stato un momento speciale per tutti noi, sia qui nel Regno Unito che in Israele - conclude Lord Reading - L'ambulanza è un giusto tributo a un evento storico che nessuno di noi dimenticherà mai».

(Shalom, 17 aprile 2021)



Il segno del profeta Giona (4)

di Marcello Cicchese
  1. E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo:
  2. "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita alla mia faccia".
  3. Ma Giona si alzò per fuggire a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; pagò il prezzo e s'imbarcò per andare con loro a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno gettò un grande vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie che erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Alzati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi si dissero l'un l'altro: "Venite, tiriamo a sorte, per sapere a causa di chi ci capita questa disgrazia". Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora gli dissero: "Dicci dunque a causa di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? da dove vieni? qual è il tuo paese? e a quale popolo appartieni?"
  9. Egli rispose loro: "Sono ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra".
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: "Perché hai fatto questo?" Poiché quegli uomini sapevano che egli fuggiva lontano dalla faccia dell'Eterno, perché lo aveva detto a loro.
  11. E allora gli dissero: "Che ti dobbiam fare affinché il mare per noi si calmi?" Il mare si faceva infatti sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: "Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare per voi si calmerà; perché io so che questa gran tempesta vi piomba addosso per causa mia".
C'era anche Giona sulla nave che veleggiava da Giaffa verso Tarsis. La terra d'Israele si allontanava sempre più, ed era proprio quello che Giona voleva: fuggire lontano dalla faccia dell'Eterno. Lontano da tutto quello che in qualche modo glielo ricordava: Gerusalemme, il Tempio, la Torà, i sacrifici. Era diventato ateo? aveva smesso di credere in Dio? o se pure un Dio doveva esserci, pensava forse di doverlo cercare tra quelli adorati dai pagani? No. Giona era stato vicino alla faccia dell'Eterno e proprio per questo adesso se ne allontanava: perché non lo capiva più. O se lo capiva, non gli riusciva di essere d'accordo con Lui.
  Prima di lui era già successo ad Elia, che come lui si era dato alla fuga. E prima ancora era successo a Giobbe, che però aveva reagito in modo diverso: non si era allontanato da Dio, come gli aveva suggerito la moglie, ma era rimasto lì, vicino a Dio, a litigare con Lui, con una furia che cresceva quanto più il suo "Avversario" non gli rispondeva.
  Un giovane cresciuto in una famiglia di evangelici un giorno ha detto in pubblico che lui non pregava più perché tanto - ha spiegato - non sembra che Dio tenga conto di quello che gli chiede, e in ogni caso "fa sempre come gli pare". Tanto vale quindi - non l'ha detto, ma se ne potrebbe dedurre - organizzarsi la vita per conto proprio senza starsi a preoccupare di quello che ne pensa Dio. Non è detto che abbia smesso di credere in Dio, ma a un certo punto ha deciso di smettere di pensarci. Cioè si è allontanato da Lui.
  Nei casi di Giona, Elia e Giobbe c'è un elemento che li accomuna nel disaccordo con Dio: la giustizia. E' un termine che oggi ha un suono quasi lugubre, ma che tuttavia ogni tanto viene ancora usato: "Non vogliamo vendetta, ma solo giustizia", si dice qualche volta, e questo significa una cosa ben precisa: punizione. Senza punizione in certi casi non c'è giustizia.
  Giobbe non capisce un Dio che punisce lui che non se lo merita, mentre Elia e Giona non capiscono un Dio che non punisce chi se lo merita. Per ognuno dei tre casi la cosa si presenta come una questione di vita o di morte. Giobbe non vuole morire, Elia lo desidera, Giona vuole vivere, ma non come prima. Cerca di ottenerlo con la fuga: vuole riprendere in mano la sua vita; e questo significa rompere con la vita di prima, andare lontano dalla faccia dell'Eterno. E' con questo pensiero che decide d'imbarcarsi.
  Una volta sulla nave, il dado è tratto. Giona si trova sul mare dei gentili, staccato dalla terra degli ebrei. La sua vita ora è nelle mani di quei marinai pagani che conoscono il mare e sanno come governare le forze della natura a loro vantaggio. Sanno come dev'essere fatta una nave per poter galleggiare e sanno come sfruttare i venti per condurla dove vogliono. E' contento Giona di essersi imbarcato con loro e di andare con loro a Tarsis. Tarsis sarà per lui il nuovo che desidera: un nuovo che per essere davvero nuovo dev'essere diverso. La vicinanza con Dio gli aveva fatto conoscere qualcosa di grande, ma adesso tutto era diventato troppo grande per lui. Il compito che Dio gli aveva affidato gli appare adesso troppo pesante; non lo capisce; non è d'accordo. E quindi lo rifiuta. Anche lui avrà ragionato come Elia: se il compito che Dio vuole da me è davvero tanto importante e io non riesco a comprenderlo, allora troverà qualcuno più adatto di me.
  Ed è qui che Giona sbaglia. Non ha tenuto in conto la capacità che ha Dio di resistere alla resistenza dei suoi servitori e insistere nel portare avanti il suo progetto senza rinunciare ai suoi servitori che gli vogliono resistere. A portare l'annuncio ai pagani assiri dovrà andarci Giona, e Dio si servirà della sua resistenza per far arrivare la conoscenza di Sè anche ad altri pagani.
  Sulla nave Giona avrebbe voluto cominciare la sua vita "laica" in mezzo ai marinai pagani evitando di sollevare la questione su Dio. Succede facilmente ai religiosi quando sono in fuga dalla loro religione: non ne vogliono più parlare, né della loro né di quella degli altri. Giona aveva scelto la linea del riserbo: dire poco di sé, evitare discorsi sulle divinità, restare a bordo come un anonimo passeggero.
  Ma questo educato equilibrio viene improvvisamente rotto da un preciso intervento di Dio che getta sul mare un forte vento. Come conseguenza si abbatte sul mare una tremenda tempesta, e in mezzo al mare la nave minaccia di sfasciarsi. E' in gioco la vita di tutti, ed è notevole il movimento del "gettito" dall'alto in basso. Dio getta (טול) il vento sul mare; i marinai gettano (טול) in mare le merci per non affondare, pregando ciascuno il suo dio; e alla fine avverrà che per salvarsi i marinai dovranno gettare (טול) in mare l'unico a bordo che non prega il suo Dio: Giona E solo così il problema sarà risolto.
  Ma andiamo con ordine. La prima cosa che Dio ottiene gettando sul mare un forte vento è che Giona è costretto ad uscire dal suo anonimato. Quando il capitano gli chiede di invocare "il suo Dio", lui non risponde, anche perché così si sarebbe scoperto. I marinai allora decidono di tirare a sorte "per sapere a causa di chi ci capita questa disgrazia". Tirano a sorte, e la sorte cade su Giona". Sono pagani, quei marinai, e non si sa a quali divinità pensavano tirando a sorte, ma il fatto è che a rispondere è proprio l'Eterno, il Dio d'Israele. Loro pensavano che se qualcuno ha fatto arrabbiare il suo dio, sarà proprio questo dio ad indicare chi è che l'ha offeso. E così ha fatto l'Eterno: ha risposto chiaro e tondo che il responsabile è lui, Giona, il passeggero salito a Giaffa. Il capitano allora va da lui e gli chiede bruscamente: che lavoro fai? da dove vieni? da quale paese? da quale nazione? E se chiede queste cose è perché evidentemente a bordo non le sapevano: Giona se le era tenute accuratamente per sé.
  E' a questo punto che la storia coinvolge Israele e le nazioni sotto la sovranità di Dio. Giona, il servo di Dio, è colto in fallo dal suo Signore. L'unico sulla nave che conosce Dio e sa perché capita addosso a tutti loro "questa disgrazia" viene svergognato davanti chi non conosce ancora Dio. Così il tentativo di Giona di allontanarsi da quel Dio che su quella nave solo lui conosce ha come risultato di far avvicinare a Dio i marinai della nave che ancora non Lo conoscevano. Sono le vie di Dio.
    "I miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice l'Eterno. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri" (Isaia, 55:8-9).
Ma torniamo sulla nave. Giona non si nasconde più. Qui sta la sua grandezza: è onesto. Sa che non può più traccheggiare e non lo fa. Nella sua scarna dichiarazione dice tre cose fondamentali:
  1. "Io sono ebreo". E' l'unica volta nella Bibbia che si riporta una dichiarazione così netta, e si sa che nella storia questa frase qualcuno l'ha ripetuta prima di essere ucciso.
  2. "Temo l'Eterno". Giona è in fuga da Dio, ma a differenza dei marinai conosce Colui da cui vuole fuggire, e in cuor suo avverte che al centro di tutta la storia c'è il rapporto fra Dio e lui. Dio non si disinteressa di lui; e lui, Giona, non riesce a disinteressarsi di Dio. Voleva fuggire lontano, dimenticare, ma si accorge che Dio non lo dimentica. E allora ammette che anche lui non riesce a dimenticarlo: "temo l'Eterno", dice agli ignari marinai. Non è un'espressione di paura, ma piuttosto di timorosa soggezione davanti a un Dio che manifesta un carattere che Giona forse avrebbe voluto vedere maggiormente in Lui: la giustizia. Lo si capirà da quello che dirà in seguito ai marinai.
  3. "L'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra". Il capitano aveva invitato Giona a chiedere anche lui al "suo dio" di fare qualcosa per opporsi alla furia del mare. Giona gli fa sapere che l'Iddio del cielo", che lui teme, ha fatto il mare e la terra, quindi non c'è autorità superiore alla sua. E forse avrà fatto anche capire ai marinai che se loro chiedono a lui di invocare il suo Dio, lui chiede a loro di smettere di invocare i loro dei, perché la cosa certamente disturba l'unico "Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra".
  Dopo di che spiega agli attoniti marinai che il suo semplice stare a bordo della loro nave è una conseguenza del suo fuggire lontano dalla faccia dell'Eterno. Si direbbe che in quell'occasione il Signore abbia dato alla parola del suo servo un'eccezionale autorità, perché i marinai non solo sono convinti, ma addirittura spaventati. Con l'accoglienza a bordo del fuggiasco possono essere considerati complici della trasgressione di Giona. E' proprio a lui allora che si rivolgono con apprensione chiedendo: "che ti dobbiamo fare affinché il mare per noi si calmi?" perché "il mare si faceva infatti sempre più tempestoso", come se quella confessione avesse reso Dio ancora più infuriato. Non dicono "affinché il mare si calmi", ma "affinché il mare per noi si calmi". Che è come dire: se Dio ce l'ha con te, noi che c'entriamo? Per questo avevano chiesto "che ti dobbiamo fare?", cioè in che modo dobbiamo punirti per distinguere le nostre responsabilità dalle tue?
  Giona si ritrova incastrato in un modo davvero magistrale, da potersi dire addirittura "diabolico", se si dà per assodato che il diavolo è un imitatore di Dio. Nella nostra presunzione di uomini illuminati facciamo fatica ad accettare che Dio abbia delle vie diverse dalle nostre, ed è per questo che poi cadiamo nelle trappole delle vie del diavolo, che metodologicamente è un attento osservatore e imitatore delle vie di Dio.
  In disaccordo con Dio per il modo in cui esercita la giustizia verso i pagani, Giona si era imbarcato su una nave di pagani, per andare con loro in una città pagana, e lì cominciare una nuova vita lontano dalla faccia dell'Eterno. A bordo aveva cercato di mantenere un buon clima di amicizia lasciando da parte ogni riferimento all'Eterno, che i pagani non conoscevano e di cui lui non voleva parlare. E adesso si ritrova a dover parlare di Dio ai pagani; e questi, venuti a conoscenza di chi è Giona e dei suoi rapporti con Dio, per non essere incolpati da Colui che adesso riconoscono anche loro come "l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra", capiscono di dover prendere le distanze da Giona. E così chiedono proprio a lui, che conosce da tempo quel Dio che loro hanno conosciuto soltanto adesso, che cosa devono fare per attenersi alla volontà dell'Eterno.
  L'elevato senso di giustizia di Giona lo costringe a dare l'unica indicazione che gli appare possibile: devono sbarazzarsi di lui. Lui sa qual è la causa di quella tempesta, e l'ha capito subito, a differenza dei marinai. Per questo non è andato con loro a pregare: loro invocavano divinità che non esistono, o tiravano alla cieca sperando che qualcuno sentisse, ma lui era l'unico a sapere chi si sarebbe dovuto invocare, ed era l'unico che in quel momento avrebbe potuto farlo. Ma non l'ha fatto. E' in gabbia. Ci si è messo da solo. Senza volerlo, naturalmente, come accade a tutti quelli che poi finiscono in gabbia.
  Quando si è in torto con Dio, c'è sempre una prima cosa da fare: riconoscere il fatto. Ai marinai dice chiaramente: "io so che questa gran tempesta vi piomba addosso per causa mia". Loro non lo sapevano, perché non conoscevano l'Eterno, lui invece lo sa, perché è ebreo. E da lui vengono a saperlo anche i marinai pagani, che adesso vorrebbero agire in modo conforme alla volontà di Dio, ma non sanno cosa fare. Giona invece lo sa. Allora i marinai lo interrogano, e si può immaginare l'ansietà con cui aspettano la risposta. Forse adesso - pensano - si deciderà, lui che è ebreo, a chiedere al suo Dio di far cessare la tempesta; così sarà esaudito e la nave non affonderà. No, Giona resta fermo: lui non prega. Riconosce il fatto, ma non si pente. Non vuole parlare con Dio; continua a voler rimanere lontano dalla faccia dell'Eterno. E tuttavia Lo conosce.
  Il nodo intorno a cui si avvolge il problema è sempre quello della giustizia. Giona sa che se i marinai di quella nave finiranno in fondo al mare, la colpa è sua, soltanto sua, perché senza la sua presenza a bordo quella tempesta orribile non ci sarebbe stata. Quindi, per non condividere la responsabilità di Giona e lasciare che la giustizia segua il suo corso senza essere suoi complici, i marinai devono fare una cosa sola: gettarlo in mare. In questo modo manifesteranno disapprovazione per il comportamento di Giona e prenderanno posizione davanti a Dio. E per rassicurare i marinai sulla loro sorte, Giona aggiunge qualcosa di più: "gettate me in mare, e il mare per voi si calmerà".
  Ma sarà proprio così? Si saranno chiesti i marinai. Probabilmente non ne erano del tutto sicuri. Giona però conosce l'Eterno da tempo, anche se adesso è in rotta con lui; ed è sicuro che non lo smentirà davanti ai marinai. E sarà così. Ma prima di farne l'esperienza diretta, i marinai dovranno penare ancora un po' nel tentativo di adattare la via di Dio ai loro pensieri.
(4) continua

(Notizie su Israele, 18 aprile 2021)



"Notizie su Israele" compie vent'anni      

                                                                                    Tutto quello che la tua mano trova da fare,
                                                                                    fallo con tutte le tue forze.

                                                                                                                          Ecclesiaste 9:10

La prima pagina di questo sito porta la data del 17 aprile 2001. Inizialmente non era parte di un sito, ma una semplice lettera circolare che si presentava così:
    Lettera circolare a persone che possono essere interessate
    Le notizie provenienti da Israele si fanno sempre più preoccupanti e purtroppo sembra che in Italia l'attenzione sia abbastanza scarsa. Inoltre, le informazioni che compaiono sulla stampa nazionale sono sempre più faziose e certamente non contribuiscono a dare un quadro realistico della situazione. Senza avere particolari pretese, ho pensato che si dovesse fare qualcosa per diffondere anche tra i credenti italiani delle notizie su Israele che siano di stimolo alla riflessione e alla preghiera. L'intenzione è di raccogliere e inviare regolarmente informazioni raccolte in vari modi, prevalentemente dalle pubblicazioni e dai siti internet di lingua inglese e tedesca. Chiedo scusa se mi aggiungo al numero (purtroppo alto) di persone che fanno circolare notizie e avvisi di tutti i tipi, ma spero che l'argomento di cui si tratta mi faccia trovare comprensione. Comunque, chi non gradisse ricevere queste lettere circolari può farmelo sapere e lo depennerò immediatamente dalla lista. Grazie per l'attenzione.
    Marcello Cicchese
Riportiamo allora parte di quello che abbiamo scritto in occasione del decimo anniversario del sito.
    L'iniziativa era di tipo personale (o per meglio dire familiare, perché la collaborazione della moglie è sempre stata fondamentale) e si rivolgeva a "credenti", cioè a cristiani evangelici impegnati. Dopo dieci anni di attività il servizio continua ad avere lo stesso centro, ma si avvale ormai dell'attenzione, del consenso e della diffusa collaborazione di un pubblico molto più vasto che all'inizio. E' stata proprio la risposta dei lettori a trasformare una semplice circolare informativa in un sito internet e ha impedito che l'iniziativa, come diverse altre dello stesso tipo, si esaurisse per stanchezza dopo qualche entusiasmo iniziale. Si può cominciare un lavoro apparentemente per libera scelta, ma se poi si avverte che questo è effettivamente utile, e anche altri lo confermano, allora non si è più moralmente liberi di smettere quando e come si vorrebbe. E dopo che si è fatto tutto quello che era necessario fare, bisogna ricordarsi delle parole di Gesù: "Così, anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è comandato, dite: Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare" (Luca 17:10).
       Il motivo principale che ha fatto partire l'iniziativa è stato il desiderio di combattere l'ignoranza. Anzitutto la propria. Non è gradevole, soprattutto con un tema importante come quello di Israele, su cui si pensa di sapere già tante cose, scoprire improvvisamente di essere molto ignoranti. E' accaduto a chi scrive, e potrebbe accadere ancora a molti altri. Anzi, si spera che proprio questo accada a chi si trova oggi nelle medesime condizioni: cioè nell'ignoranza. Soprattutto quando questa non è riconosciuta come tale, fatto molto più diffuso di quel che si pensi. Per questo, dopo un certo tempo dedicato allo sforzo di colmare almeno in parte la lacuna, si è imposta quasi con forza la necessità di mettere a profitto anche di altri le informazioni e le conoscenze acquisite con il tempo e che continuavano ad aggiungersi.
       Il risultato è il sito "Notizie su Israele" come si presenta attualmente.

    (Notizie su Israele, 17 aprile 2011)




Dedichiamo l'intera pagina di oggi alla ripresentazione, in forma abbreviata, di un articolo scritto nel 2003 per spiegare i motivi per cui ci interessiamo di Israele.


La salvezza viene dai Giudei

di Marcello Cicchese

Il problema di Israele in realtà è stato sempre il problema dell'esistenza di Israele. La ragione del disagio non va cercata in quello che gli ebrei fanno o sono. La gente non li odia perché fanno gli strozzini o hanno il naso adunco: il problema sta nel fatto che ci sono.
   Da una parte questa constatazione può tagliare le gambe agli ebrei di buona volontà, quelli che vogliono avere un comportamento giusto e rispettoso verso gli altri, che cercano di evitare atteggiamenti di superbia che possano ferire, che fanno sforzi per favorire il dialogo e lo stare insieme dei diversi. Tutto questo è buono e lodevole in sé, ma non cambia il fatto che le cose buone può farle soltanto qualcuno che c'è. E più un ebreo si muove, anche per venire incontro al suo prossimo non ebreo, più gli fa sentire che c'è. E questo non fa che aumentare l'avversione del non ebreo ostile.

 UNA MALATTIA DEI GENTILI
  D'altra parte, proprio questa amara constatazione può liberare l'ebreo da un inutile senso di colpa. «Sarò imperfetto, farò molte cose sbagliate, sarò un poco di buono come tanti altri - può pensare - ma se i guai provengono dal fatto che ci sono, allora la colpa non è mia, perché io ho il diritto di esserci, come tutti gli altri».
   Sì, su questo punto gli ebrei possono tranquillizzarsi: il "problema Israele" in realtà è una malattia dei gentili.
   C'è un particolare della vita di Theodor Herzl che fa capire quanto può essere pesante per un ebreo il sentirsi non accolto dall'ambiente circostante, e quanto può essere grande e sincero il desiderio di fare qualcosa per venire incontro alle aspettative degli altri. Riporto alcune notizie della sua vita tratte da "A History of Israel from the Rise of Zionism to our Time", di Howard M. Sachar.
   Herzl non era un religioso, e in gioventù tendeva piuttosto all'assimilazione. Provava anzi un po' di disagio davanti ai comportamenti sconvenienti di certi "cattivi ebrei". Ma il suicidio di un suo caro amico, Heinrich Kana, molto probabilmente dovuto ai disagi legati al suo essere ebreo, lo scosse profondamente. Nella sua attività di giornalista cominciò allora a dedicare sempre più attenzione all'antisemitismo, e nel privato continuò a rimuginare dentro di sé su quello che si poteva fare per eliminare questa piaga sociale. Un'idea che gli venne in mente, e che riportò soltanto nelle sue note, fu «una volontaria e onorevole conversione» di massa degli ebrei al cristianesimo. Immaginava che la cosa sarebbe dovuta avvenire «alla chiara luce del sole, in un pomeriggio di domenica, con una solenne, festosa processione accompagnata dal suono delle campane ... con fierezza e gesti dignitosi». L'autore aggiunge che Herzl lasciò cadere quasi subito quest'idea, ma il semplice fatto che gli sia venuta in mente fa intuire il peso che aveva in cuore, e la sua sincerità nella ricerca di una soluzione che non danneggiasse nessuno.
   Resta la domanda del perché. Perché i gentili non sopportano la presenza degli ebrei come persone, come popolo, come nazione? Anche qui le spiegazioni date sono innumerevoli, ma quella biblica resta la più semplice, ed è anche quella giusta: gli ebrei ricordano Qualcuno. Qualcuno a cui non si vuole pensare perché non si vuole che ci sia. O, se proprio deve esserci, che almeno stia zitto. Si sarà capito che è il Dio d'Israele, l'unico vero Dio, che non solo ha creato i cieli e la terra, ma li ha creati con la sua parola, e quindi ha parlato, e continua a parlare. Cosa che a molti non fa piacere.
   Si capisce allora perché periodicamente si è sempre fatto avanti qualcuno che ha manifestato la "buona intenzione" di beneficare l'umanità risolvendo una volta per tutte il problema nell'unico modo adeguato: sterminando gli ebrei. E questa non è un'idea che sia venuta in mente per la prima volta a Hitler. L'intenzione risale ai tempi biblici. Sentiamo come prega il salmista:
    "O Dio, non restare silenzioso! Non rimanere impassibile e inerte, o Dio! Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto contro di te: le tende di Edom e gl'Ismaeliti; Moab e gli Agareni; Ghelal, Ammon e Amalec; la Filistia con gli abitanti di Tiro; anche l'Assiria s'è aggiunta a loro; presta il suo braccio ai figli di Lot" (Salmo 83:1-8).
Tramano insidie contro il tuo popolo, congiurano, si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto, dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Sembra di assistere a una seduta della Lega Araba. Anche loro, infatti, hanno stretto un patto, che dà tutta l'impressione di essere soltanto contro Israele.
   In questo salmo c'è tutta la spiegazione del "problema Israele". Abbiamo detto che la causa profonda dell'ostilità verso gli ebrei sta nel fatto che ci sono, e infatti qui si dice: "distruggiamoli come nazione". Abbiamo detto che non si vuole che gli ebrei ci siano perché non si vuole che la loro presenza tenga vivo un ricordo, e qui si dice: "... e il nome d'Israele non sia più ricordato!". Abbiamo detto che quello che non vuol essere ricordato è il Dio d'Israele, e qui si dice che i popoli stringono un patto contro di te, cioè contro Dio che ha scelto Israele.
   Il salmista non prega dicendo: "Aiuto, Signore, siamo in mezzo ai guai, liberaci dai nostri nemici", come avremmo fatto noi che pensiamo sempre e soltanto agli affari nostri. Il salmista dice: "I tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa". Quello che succede a noi è un problema tuo, dice il salmista a Dio, perché i nostri vicini stanno congiurando "contro quelli che tu proteggi", e allora se noi andiamo a fondo, sarà il tuo nome che ci va di mezzo. Diranno che non sei un Dio potente, che non sei stato capace di proteggere il tuo popolo, arriveranno fino a Gerusalemme, al monte che tu hai scelto per tua dimora (Salmo 68:16), e faranno quello che vuol fare Arafat (anacronismo calcolato), «poiché hanno detto: Impossessiamoci delle dimore di Dio» (Salmo 83:12). E nel seguito il salmista non chiede al Signore di aiutare il popolo d'Israele, ma di colpire i nemici di Dio. Cattiveria? No, difesa del nome di Dio e desiderio che i popoli vicini, proprio quelli che vogliono far sparire il nome d'Israele dalla terra (tanto da non volerlo nemmeno scrivere sulle carte geografiche del Medio Oriente), si ravvedano e cerchino il nome del SIGNORE, buttando nella spazzatura tutti gli altri nomi. Infatti conclude:
    Copri la loro faccia di vergogna perché cerchino il tuo nome, o SIGNORE! Siano delusi e confusi per sempre, siano svergognati e periscano! E conoscano che tu, il cui nome è il SIGNORE, tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra (Salmo 83:16-18).
Il salmista quindi non va in depressione per l'odio che sente contro Israele, e non si limita neppure a dire a se stesso: "Io ho il diritto di esistere come tutti gli altri", ma in sostanza dice a Dio: "Tu hai il dovere di farmi esistere per tutti gli altri".
   Ma è chiaro che chi osa pregare in questo modo deve anche, coerentemente, lui per primo, cercare e onorare il nome del Signore. E questo è il vero problema di Israele.

 EBREO, GENTILI... E CRISTIANI
  Cominciamo adesso a dire qualcosa su di noi, che ci professiamo cristiani e abbiamo un particolare rapporto con Israele e con gli ebrei.
   Diciamo anzitutto che mentre il dualismo ebrei-gentili è giustificato biblicamente ed è chiaro nella sua formulazione, anche se non sempre nella sua esatta delimitazione, la contrapposizione ebrei-cristiani è ambigua e fuorviante. Anzitutto, entrambi i termini sono di radice ebraica. Se invece di usare la derivazione dal greco si usasse quella dall'ebraico, si dovrebbe parlare di "messianici", invece che di "cristiani", e allora il collegamento con l'ebraismo sarebbe più evidente. Ma a parte questo, non ha senso contrapporre ebraismo e cristianesimo come se fossero due religioni che una volta si combattevano ma adesso hanno finalmente imparato la civile arte del dialogo e della coesistenza pacifica. O meglio, il senso è che quando questo avviene, vuol dire che s'incontrano due religioni create dagli uomini, senza reale collegamento con la rivelazione biblica. All'inizio i cristiani erano tutti ebrei. Solo dopo qualche anno ai cristiani ebrei si sono aggiunti anche i gentili, che adesso certamente sono in larga maggioranza. Ma questo non giustifica una delimitazione di campo tra ebrei e cristiani.
   Prendiamo infatti i principali documenti dei cristiani: i vangeli. Qualcuno forse pensa che i vangeli siano libri da sacrestia, che parlino di chiese, messe, sacramenti, processioni, statue della madonna, cattedrali. Chi li conosce sa invece che non c'è niente di tutto questo. E molti forse sarebbero sorpresi nel sapere che nei vangeli il termine "chiesa" è usato solo 3 volte in due soli versetti, mentre il terrmine "Israele" è usato 30 volte in altrettanti versetti. Un rapporto di 1 a 10. Questo dà una prima idea di questi libri che, contrariamente a quello che si può pensare, hanno un carattere interamente ebraico, anche se sono scritti in greco. Una persona che cominciasse a leggere l'Antico Testamento e proseguisse nel Nuovo fermandosi ai vangeli, potrebbe legittimamente chiedersi: "Ma che c'entrano i non ebrei in tutto questo?". Un ebreo nato in Israele e cresciuto con un'educazione ortodossa, che in età adulta si è deciso infine a leggere i vangeli, non solo vi ha ritrovato un paesaggio a lui ben familiare, ma a un certo momento si è chiesto: "Ma come fanno i gentili a capire questi libri?" E la domanda è comprensibile, perché per veder comparire il primo gentile che occupi un posto significativo nella storia della salvezza si deve arrivare al capitolo 10 del libro degli Atti.
   Riporto un passo del vangelo che dovrebbe essere noto, ma non è molto sottolineato:
    Ed ecco una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: «Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è gravemente tormentata da un demonio». Ma egli non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvicinarono e lo pregavano dicendo: «Mandala via, perché ci grida dietro». Ma egli rispose: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele». Ella però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: «Signore, aiutami!» Gesù rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini». Ma ella disse: «Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle brìciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le disse: «Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi». E da quel momento sua figlia fu guarita (Matteo 15:22-28).
E' un passo tosto. Ci presenta un Gesù che entra a fatica nelle varie iconografie religiose o laiche. C'è da scommettere che il racconto riesce a scontentare tutti. Scontenta i palestinesi, perché vedono una di loro umiliarsi in modo indecoroso davanti a un ebreo; scontenta gli ebrei, perché si sentono chiamare "pecore perdute" e perché non possono lasciare Gesù ai polacchi e al loro Papa, come avrebbero fatto più che volentieri; scontenta gli antisemiti, perché vedono un Gesù che privilegia in modo inaccettabile gli ebrei; scontenta i promotori dei rapporti umani tra israeliani e palestinesi, perché il dialogo si deve fare su un piano di parità e non in quel modo; scontenta infine tutti quelli dal cuore tenero, perché "così non ci si comporta, ed è pure maleducazione non rispondere, e poi, sì, va bene, la donna alla fine è stata esaudita, ma a prezzo di quale umiliazione! Non si fa così!"
   Non è possibile entrare qui nella spiegazione di quel passo del vangelo, ma vale la pena segnalarlo perché è uno di quei passi della Bibbia che si riescono a ingranare in modo legittimo nel contesto solo se si ha una comprensione della rivelazione biblica che tiene conto in modo corretto del posto che occupa Israele nella storia della salvezza.
   C'è anche un'altra donna non ebrea che Gesù ha trattato in modo non proprio conforme a certi canoni di comportamento usualmente accettati: la donna samaritana. Gesù la incontra e le chiede un favore. Lei si sorprende, prima in modo positivo, perché Gesù si degna di rivolgerle la parola, poi in modo negativo, perché certe parole di Gesù sulla sua vita privata avrebbe volentieri fatto a meno di sentirle. E alla fine, dopo aver capito che Gesù era un profeta, gli pone un problema teologico:
    «I nostri padri hanno adorato su questo monte, ma voi dite che a Gerusalemme è il luogo dove bisogna adorare». Gesù le disse: «Donna, credimi; l'ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma l'ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l'adorano, bisogna che l'adorino in spirito e verità». La donna gli disse: «Io so che il Messia (che è chiamato Cristo) deve venire; quando sarà venuto ci annunzierà ogni cosa». Gesù le disse: «Sono io, io che ti parlo!» (Giovanni 4:20-26).
C'è un altro fondamentale errore, molto comune, che deve essere corretto. La Bibbia dei cristiani si divide in Antico e Nuovo Testamento, e, com'è noto, la parola testamento significa patto. Si parla dunque di due patti che Dio ha fatto con gli uomini. Il lettore provi a fare un test con se stesso, e eventualmente anche con altri. Che patti sono? Dove si parla nella Bibbia di questi due patti? Con chi ha fatto Dio i due patti? Forse soltanto a quest'ultima domanda molti si sentirebbero sicuri di poter dare la risposta giusta: l'antico patto è stato fatto con gli ebrei, e non vale più; quello nuovo è stato fatto con i cristiani, e vale ancora. La risposta è sbagliata. Da Abraamo in poi, tutti i patti di cui parla la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) sono stati conclusi sempre e soltanto con il popolo d'Israele. E di tutti questi patti, soltanto uno è da considerarsi superato, ma non per scadenza dei termini o per progresso culturale, come potrebbero pensare i laici illuminati, ma semplicemente perché è stato violato da una delle due parti: il patto con Mosè. Tutti gli altri patti, quelli con Abraamo, con Davide e il nuovo patto, sono sempre in vigore perché sono patti incondizionati, che Dio si è impegnato a mantenere soltanto per essere fedele al suo nome. Non possono essere violati, e quindi sono sempre validi.
   Nell'ultima cena Gesù ha parlato di patto quando ha detto ai suoi dodici discepoli ebrei: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti» (Marco 14:24). Questa frase non è una formula magica che fa cambiare il vino in sangue, anche perché in quel momento il sangue di Gesù stava ancora scorrendo nelle sue vene; questo è un linguaggio tipicamente ebraico, come quello che usò Mosè quando suggellò il patto con Dio al Sinai:
   Allora Mosè prese il sangue, ne asperse il popolo e disse:
    «Ecco il sangue del patto che il SIGNORE ha fatto con voi sul fondamento di tutte queste parole»(Esodo 24:8).
Nella Bibbia ogni patto importante doveva essere suggellato con il sangue, e quindi questo è accaduto anche per il nuovo patto. Dice infatti l'evangelista Luca:
    «Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi» (Luca 22:20).
Il sangue del patto, dunque, è quello di Gesù, ma il contraente umano del nuovo patto, chi è? La risposta si trova nell'Antico Testamento, prima che nel Nuovo:
    «Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d'Egitto: patto che essi violarono, sebbene io fossi loro signore», dice il SIGNORE; «ma questo è il patto che farò con la casa d'Israele, dopo quei giorni», dice il SIGNORE: «io metterò la mia legge nell'intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo. Nessuno istruirà più il suo compagno o il proprio fratello, dicendo: "Conoscete il SIGNORE!" poiché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande», dice il SIGNORE. «Poiché io perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò del loro peccato» (Geremia 31:31-34).
Geremia scrive mentre sta per avvenire il tragico dramma della presa e della distruzione di Gerusalemme, cioè in un momento in cui si poteva pensare che la storia d'Israele sarebbe finita lì. Parla del patto che essi violarono, riferendosi evidentemente a quello del Sinai, e annuncia un nuovo patto. Ed è questo il patto di cui parla Gesù nell'ultima cena, come viene anche attestato dalla citazione del passo di Geremia che si fa in Ebrei 8:8-13. Ma si noti che questo nuovo patto è stato fatto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda, non con i cristiani, non con la chiesa. Fino a quel momento noi gentili non eravamo stati neppure interpellati, non sapevamo niente, eravamo tutti ignoranti, come Pilato. Come lui non avremmo potuto capire chi era Gesù, e come lui l'avremmo condannato a morte.
   L'apostolo Paolo, che qualcuno considera un traditore del popolo ebraico, sottolinea invece che agli israeliti "appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse" (Romani 9:4). Mentre ai gentili dice:
    Ricordatevi che un tempo voi, stranieri di nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, perché tali sono nella carne per mano d'uomo, voi, dico, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo (Efesini 2:11-12).
Noi gentili eravamo dunque senza speranza e senza Dio nel mondo perché eravamo senza Cristo, cioè senza Messia. Ed è a questo punto che viene fuori la caratteristica inattesa del nuovo patto che Dio ha stabilito con la casa d'Israele. Per una precisa volontà rivelata da Dio agli apostoli, questo patto apre la possibilità di estendere anche ai non ebrei la grazia spirituale che è compresa in questo patto: il perdono dei peccati e il dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo, come Dio ha promesso alla casa di Giuda.
    Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell'inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia. Con la sua venuta ha annunziato la pace a voi che eravate lontani e la pace a quelli che erano vicini; perché per mezzo di lui gli uni e gli altri abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito. Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio. Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare, sulla quale l'edificio intero, ben collegato insieme, si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore. In lui voi pure entrate a far parte dell'edificio che ha da servire come dimora a Dio per mezzo dello Spirito (Efesini 2:13-22).
In questo modo abbiamo toccato il punto fondamentale della fede cristiana che avvicina ebrei e gentili, perché inserisce questi ultimi (i lontani) nell'ambito della benedizione promessa ai primi (i vicini): la persona di Gesù, che però nel presente resta ancora una pietra di scandalo e un elemento di divisione.
   «E voi, chi dite che io sia?» chiese a un certo momento Gesù ai suoi discepoli (Matteo 16:15). La risposta fu data, ed era quella giusta, ma solo un ebreo poteva darla: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente» (Matteo 16:16). Solo chi risponde nello stesso modo a questa domanda, entra a far parte di quell'unico corpo di cui parla l'apostolo Paolo.
    Ma se il Messia è già venuto, che cosa si deve fare di tutte le profezie messianiche che parlano di un regno di Israele trionfante e vittorioso? Un giorno tutte inevitabilmente si compiranno, perché il Messia, che una prima volta è venuto come servo sofferente dell'Eterno per espiare i peccati del popolo d'Israele e di tutti gli uomini, un giorno ritornerà come il Leone della tribù di Giuda per regnare sul mondo da Sion. I cristiani evangelici letteralisti non "spiritualizzano" l'Antico Testamento, facendone un'allegoria della chiesa. Quando la Scrittura parla di Israele, intende sempre e soltanto Israele, mai la chiesa, anche se spesso si possono trarre utili analogie e applicazioni pratiche. Per questo i cristiani fedeli alla Bibbia aspettano che le sue parole riguardanti il futuro di Israele si compiano, predicando il vangelo a tutti gli uomini e cercando di occupare il giusto posto nel tempo dell'attesa.

 MA ALLORA VOI VOLETE SOLTANTO CONVERTIRCI!
  L'obiezione che i cristiani s'interessino di Israele soltanto per convertire gli ebrei dev'essere attentamente esaminata. E' assolutamente vero che tutti i cristiani desiderano, o dovrebbero desiderare, che ogni persona, ebreo, musulmano, ateo, cristiano nominale o altro ancora, si ravveda, creda nel Signore Gesù Cristo e sia salvato, perché sta scritto che
    In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati (Atti 4:12).
E' chiaro dunque che un cristiano fedele non si esime mai dall'annunciare il vangelo, tanto meno a un ebreo. Anzi, l'apostolo Paolo dice che il vangelo dev'essere annunciato prima di tutto agli ebrei, poi agli altri.
    Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco (Romani 1:16).
Chiedere a un vero cristiano di non parlargli mai di Gesù equivale a dirgli di stare alla larga. E se richiesto, naturalmente questo avverrà.
   L'annuncio del vangelo è un compito che il cristiano deve e vuole svolgere verso ogni essere umano, senza distinzione, mentre l'interesse per Israele è dettato dalla particolare, unica posizione che questo popolo occupa nella storia della salvezza.

 TRE MOTIVI
  Ci sono almeno tre motivi per cui i cristiani s'interessano di Israele e degli ebrei.

1. Manifestare amore. Gli ebrei avvertono che verso di loro c'è un odio gratuito, cioè un'ostilità che non può essere interamente spiegata da nessuna motivazione razionalmente giustificabile: sono odiati perché ci sono. E anche quando l'ostilità non si concretizza in atti di violenza, la percezione di questi sentimenti di avversione li fa soffrire. Abbiamo detto che questo non dipende dagli ebrei, ma dal rapporto degli uomini con Dio. L'astio contro gli ebrei non è che l'espressione dell'umana ribellione contro Dio, è quindi manifestazione di peccato. I credenti in Gesù sanno di aver ricevuto il perdono dei peccati attraverso il Messia d'Israele, vivono in comunione con Dio e di conseguenza diventano partecipi del suo amore verso il suo popolo. L'amore dei veri cristiani verso Israele è quindi un amore gratuito, cioè un sentimento che non può essere spiegato da nessuna motivazione o interesse razionalmente giustificabili: il popolo d'Israele viene amato soltanto perché c'è, perché è un'espressione della volontà di quel Dio con cui i cristiani vivono in comunione d'amore. Sarebbe una grave perdita per gli ebrei se fossero capaci di percepire soltanto l'odio gratuito contro di loro, senza saper riconoscere e avvertire anche l'amore gratuito di cui sono oggetto. Se è vero che non c'è popolo sulla terra che sia stato tanto odiato, è anche vero che non ce n'è un altro che sia stato tanto amato. E anche se in questo periodo della storia del mondo l'odio è molto più appariscente dell'amore, non è vero che sia più reale.

2. Mettersi dalla parte della verità e della giustizia. Le ingiustizie nel mondo sono infinite, e altrettante sono le menzogne, ma quelle che si commettono contro Israele sono uniche per grandezza, estensione e sfacciataggine. Il credente in Gesù Cristo deve stare sempre dalla parte della verità e della giustizia, quindi è suo compito prendere la parola per difendere chi viene ingiustamente colpito, quando ne ha l'occasione e la possibilità. Questo dev'essere fatto verso tutti, ma si potrebbe dire, con l'apostolo Paolo, prima al Giudeo e poi al Greco. Chi, pur essendo adeguatamente informato, non è capace di riconoscere gli enormi soprusi e le spudorate calunnie che deve subire Israele, ha una coscienza morale assopita e un'intelligenza critica ottusa. E queste forme di rilassamento spirituale un vero cristiano non se le deve permettere.

3. Essere vigilanti. Quello che succede agli ebrei, prima o poi ha delle conseguenze sul resto del mondo. Questo è stato ormai accertato, e vale in primo luogo per il corpo dei veri credenti in Gesù Cristo che il Nuovo Testamento chiama "chiesa". Per poter colpire il popolo d'Israele, l'Avversario spirituale di Dio cerca di confondere e fuorviare prima di tutto quelli che potrebbero essergli d'aiuto, e questi sono proprio gli autentici seguaci di Gesù. In tempi difficili per Israele, i credenti vengono messi sotto pressione in vari modi, soprattutto attraverso false informazioni e false dottrine. Questo è successo in Germania ai tempi del nazismo: le persecuzioni contro i cristiani sono state poche perché pochi sono stati i cristiani che hanno capito quello che stava veramente succedendo, e molti sono stati sedotti da false dottrine che si accordavano con la realtà diabolica che si stava svolgendo sotto i loro occhi. Non sono stati soltanto i "Deutsche Christen", con il loro pervertito "cristianesimo positivo" nazionalsocialsta, a profanare il nome di Cristo: molte altre chiese e movimenti cristiani, anche evangelici, hanno subito l'influsso dell'ideologia del tempo, e se non sempre hanno adottato dottrine perverse dal punto di vista biblico, certamente si sono lasciati trasportare in un'annebbiata atmosfera di torpore che non ha permesso loro di rendersi conto della realtà in cui vivevano. E questo non deve più accadere. O per lo meno, per quel che ci riguarda non vogliamo che accada più. Anche per questo riteniamo nostro dovere interessarci di Israele e, per quanto possibile, aiutare altri a capire quello che succede, in modo da saper prendere al momento opportuno la giusta posizione che le circostanze richiedono.

 UN'ULTIMA OSSERVAZIONE
  Secondo la nostra comprensione della Bibbia, i veri cristiani non devono cercare di costituirsi come forza politica organizzata al fine di esercitare un potere sul resto della società. Devono vivere come semplici cittadini nella società in cui si trovano, assumendosi di volta in volta le responsabilità sociali che a loro competono, ma come comunità devono essere presenti solo come testimoni di Gesù Cristo, e in quanto tali assumere come arma soltanto la parola: la Parola di Dio innanzi tutto, e la parola umana che l'accompagna, ma senza fare ricorso ai consueti mezzi di lotta politica organizzata.
   Certo, questa è una debolezza, ma una debolezza voluta, perché sorretta dalla parola di Dio giunta fino a noi anche attraverso un noto ebreo, nato a Tarso di Cilicia, allevato a Gerusalemme, educato ai piedi di Gamaliele nella rigida osservanza della legge dei padri (Atti 22:3):
    I Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i gentili pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1 Corinzi 1:22-25).


Ieri sera, quando lo Shabbat ebraico era già cominciato, da Israele è inaspettatamente arrivata in redazione una email che qui riportiamo.
    Al Redattore di Notizie su Israele.
    Al termine di questo giorno, quando in Israele è già iniziato lo Shabbat, mi fermo per rivolgerti un pensiero, perché questo non è solo il momento in cui si completa una giornata: oggi si completano vent'anni di vita del sito Notizie su Israele.
    Inoltre, quest'anniversario capita a ridosso di un altro anniversario che è stato appena festeggiato ieri: il settantatreesimo dalla nascita dello Stato di Israele.
    Questo significa che il sito Notizie su Israele ha condiviso una parte considerevole della vita dello Stato di cui si interessa: almeno un quarto di cammino insieme.
    Sento il dovere di ringraziarti perché, lungo tutto questo periodo, ci hai aggiornato con una puntualità ragguardevole, ci hai fatto riflettere sulle cose per cui veramente vale la pena soffermarsi, ci hai invitati a guardare nella direzione verso cui saggiamente puntava il tuo dito, ci hai scossi quando c'era il rischio di essere assuefatti, ci hai offerto degli elementi per pensare. Insomma, grazie a Notizie su Israele possiamo dire di essere ben informati e ben formati.
    Un sito internet di vent'anni è certamente da considerare come qualcosa di non comune, visto che la diffusione di internet non è cominciata tanto prima. Lo stesso potrebbe dirsi del nome Israele, che ci porta molto indietro nel tempo e nella storia dei popoli, quando il mondo era più giovane e diverso da oggi. Si potrebbe dunque dire che questo sito e Israele hanno almeno una cosa in comune: esistono. E la loro esistenza è fondata nel tempo. Questo, ed altro, dovrebbe attirare l'attenzione di un attento osservatore, perché il susseguirsi degli eventi nella vita di un'entità che esiste nel tempo non sono frutto del caso, ma di una precisa volontà. Questo, ovviamente, riguarda questo sito, Israele stesso, ma anche ogni lettore.
    E allora ancora grazie, perché non solo ci hai aiutati a conoscere meglio Israele, ma così facendo abbiamo avuto un'altra preziosa opportunità: quella di guardarci dentro e capire meglio chi siamo e perché siamo qui.
    Gabriele
Non ho parole per ringraziare l'autore. In privato ho tentato di farlo, qui mi limito a dire un sentitissimo Grazie! M.C.

(Notizie su Israele, 17 aprile 2021)


Israele festeggia in strada e da domenica dice addio alla mascherina

A Tel Aviv piazza e lungomare affollati: si celebra l'indipendenza (anche dal virus)

di Massimo Lomonaco

TEL AVIV - Festa doppia per gli israeliani: l'indipendenza dello Stato e libertà dal Covid. Dopo il lockdown dello scorso anno, questa volta - con le restrizioni quasi del tutto tolte - è stato un anniversario completamente diverso. Centinaia di migliaia di cittadini hanno affollato le spiagge per ammirare la parata aerea e poi i parchi per il tradizionale barbecue, simbolo della giornata. Una festa - la 73a dalla fondazione dello Stato - cominciata già mercoledì sera, quando al tramonto le strade di tutto il Paese hanno cominciato a riempirsi per l'inizio delle manifestazioni e delle cerimonie pubbliche.
   Da Haifa a Tel Aviv, da Gerusalemme ad Eilat, a essere celebrato è stato sicuramente l'orgoglio nazionale ma anche la ritrovata socialità, favorita da una campagna vaccinale modello per il mondo intero. Ad oggi il 53% degli israeliani ha ricevuto entrambi le dosi del vaccino Pfizer, con meno di un milione di cittadini ancora da vaccinare. I casi attivi della malattia sono circa tremila, quelli gravi 219. Alcuni esperti ritengono che il Paese sia ormai vicino all'immunità di gregge. Se vige ancora l'obbligo di indossare la mascherina al chiuso, da domenica non lo sarà più all'aperto. La battaglia certo non è ancora finita ma la festa ha mostrato che buona parte della vita di prima sembra essere stata recuperata: ristoranti pieni, strade ingorgate, party all'aperto e sulle terrazze, concerti.
   A Kikar Rabin, la piazza maggiore di Tel Aviv, durante i fuochi d'artificio di mercoledì sera è stato difficile muoversi tra cellulari branditi come macchine fotografiche, gruppi musicali, adulti e bambini illuminati dal Blu-Bianco dei colori nazionali riflessi sulla grande facciata del palazzo del Comune. Ieri mattina il lungomare cittadino era lo stesso ricolmo di persone con il naso all'insù per guardare le piroette in cielo, con gigantesco cuore finale, della pattuglia acrobatica dell'aviazione militare. Ma anche le evoluzioni degli F-15, F-16, F-16I e F-35.
   A marcare la differenza basti ricordare che l'anno scorso, in piena ondata pandemica, gli aerei avevano sorvolato gli ospedali in segno di omaggio agli operatori sanitari e ai malati. E non è neppure un caso che nella cerimonia principale svoltasi sul Monte Herzl a Gerusalemme, con il presidente della Knesset Yair Levin, protagonisti siano stati infermieri e infermiere distintisi nella battaglia al Covid. L'ennesima battaglia vinta per lo Stato ebraico.

(Gazzetta di Parma, 16 aprile 2021)


«Topi e cani»: gli ebrei deformi degli antisemiti

De Angelis indaga l'origine ideologica degli epiteti zoomorfi attribuiti agli ebrei nel Terzo Reich sulla scorta delle denunce letterarie di Kafka, Levi e... del Bardo.

di Roberto Righetto

«Penso ancora adesso che una delle radici del nazismo fosse zoologica»: la frase di Primo Levi è giustamente riportata in esergo nel volume Cani, topi e scarafaggi. Metamorfosi ebraiche nella zoologia letteraria di Luca De Angelis, un'accurata indagine sul processo di disumanizzazione dell'ebreo, avvenuto in Europa già in età moderna, che ha costituito il prodromo ai campi di concentramento. Oltre a Primo Levi, molti sono gli scrittori citati, Kafka e Svevo in primo luogo, i quali intuirono il nesso fra animali ed ebraismo propagandato dall'antisemitismo. Gregor Samsa trasformato in scarafaggio nel famoso racconto La metamorfosi del 1913 è il modello del parassita che i nazisti identificarono con i prigionieri ebrei e che vollero liquidare con il famigerato Zyclon B, veleno con cui si combattevano allora gli insetti nocivi e fastidiosi come le pulci e gli scarafaggi appunto.
  «Le metafore zoomorfiche dell'antisemitismo - commenta De Angelis - evocano l'atmosfera di quotidiano terrore nell'universo concentrazionario», sottolineando come ad Auschwitz la parola Mensch, uomo, non esisteva e al suo posto si usasse Hund, cane. Aggiunge l'autore del saggio: «Le figure del cane e del parassita rimandano a due classici epiteti oltraggiosi e disumanizzanti in bocca agli antisemiti». Scegliendo le sembianze di un Ungenziefer, Kafka in un certo senso scelse di appuntare addosso al suo personaggio la stella gialla: tragica anteprima della Shoah. Un nomignolo, quello del parassita, attribuito agli ebrei già nell'800, in un processo di annientamento che fu prima ideologico e poi fisico. Ma gli ebrei nel clima di poco precedente al dominio del Terzo Reich furono definiti anche "popolo dei topi", tanto che gli ideologi del Fuhrer imbastirono una vera e propria campagna contro il successo in Germania di Topolino. Sull'organo della Pomerania del partito nel 1931 usci una stroncatura del cartone disneyano in cui si poteva leggere: «Mickey Mouse è l'ideale più penoso mai esistito. Il parassita sporco e pieno di sudiciume, il maggiore portatore di batteri del regno animale non può costituire il tipo ideale di animale. Basta con la brutalizzazione giudaica della gente! Abbasso Mickey Mouse! Indossate la svastica!». I nazisti non solo si opponevano all'industria culturale americana che sviava pericolosamente le coscienze dei giovani tedeschi, ma degradavano il topo disneyano a ratto, animale a cui associavano gli ebrei. Se ne accorse Walter Benjamin, che in un articolo divenuto famoso prese le difese di Topolino.
  Che l'armamentario ideologico e propagandistico di cui si servì il nazismo fosse all'opera già da tempo è dunque un fatto e tra i profeti, dell'incubo che si realizzò durante la seconda guerra mondiale, vi furono Heine e Roth, oltre ai citati Kafka e Svevo. Tutti respirarono un clima di profonda ostilità antigiudaica. Il poeta renano già nell'800 racconta di una «metamorfosi canina» e non si liberò mai dalla «paura dell'antisemitismo», sentendosi sempre un emarginato. Così più tardi Italo Svevo, che subì di persona vari episodi di antisemitismo in quella Trieste che nel 1938 sarebbe stata scelta da Mussolini per lanciare anche in Italia le leggi razziali. Ma già ai primi del '900 sul giornale - ahimé - d'impostazione cattolica - "L'Amico" si potevano leggere inviti a rendere Judenrein la città giuliana, la cui aria era «ammorbata di microbi semiti». Il documento più impressionante riportato dal saggio di De Angelis - che in verità avrebbe potuto inserire una disamina più attenta della letteratura cristiana sulla questione da lui analizzata - è il film documentario del 1940 Der ewige Jude di Fritz Hippler, che mette sullo stesso piano gli ebrei e i ratti. Dice la voce narrante: «Come il ratto è il più infimo tra gli animali, l'ebreo lo è altrettanto tra gli esseri umani». Le immagini mostrano i tuguri in cui vivono gli ebrei, sporchi e disgustosi, e puntano il dito contro quegli ebrei che si sono voluti integrare nella società tedesca, infettandola e rendendola impura. Il disegnatore Art Spiegelman, autore del fumetto Maus, ha definito il film «l'opera più sconvolgente sull'antisemitismo». Allo stesso modo un libello del filologo Hans Friedrich Karl Gunther, negli anni Trenta, auspicava la morte di tutti gli ebrei come obiettivo finale, cui si poteva arrivare prima togliendo loro i beni, poi costringendoli ai lavori forzati in campi realizzati ad hoc. Dove? In Polonia, come sarebbe effettivamente accaduto ad Auschwitz.
  Uno dei punti di partenza di questa volontà di annientamento viene fatto risalire da De Angelis al Mercante di Venezia di Shakespeare. Ampio è stato il dibattito fra gli studiosi a proposito dell'antisemitismo del Bardo, ma in questo caso ci permettiamo di dissentire: il famoso discorso in cui Shylock si difende dalle accuse («Non ha occhi un ebreo?...») è un invito palese a considerare e preservare l'umanità del personaggio e, nonostante sia spesso ritratto come una figura odiosa e paragonato a un lupo feroce, questa perorazione alfine rimane impressa in maniera indelebile nel lettore e nello spettatore. Lo sfogo di Shylock riecheggerà poi nel Processo di Kafka: «Non siamo degli esseri umani? Non ci rassomigliamo tutti?». Anche questo romanzo prefigura, come bene ha rilevato il critico letterario Giacomo De Benedetti, «le persecuzioni, le condanne emanate in nome di un principio gratuito, i campi della morte». Il tutto a partire da un pregiudizio folle e insensato, come dimostra il libro di De Angelis, che si può sintetizzare in una verità profonda contenuta in un pensiero di Elie Wiesel: «Tutte le catastrofi sono iniziate dalle parole».

(Avvenire, 16 aprile 2021)


Tempo di guerra. Il rastrellamento e il medico ebreo

Lettera a "il Giornale"

E molto difficile ricostruire, attraverso i flash back di una bambina, all'epoca piccolissima, un episodio accaduto nei giorni di guerra. Tuttavia cercherò di raccontare una vicenda che ricordo in gran parte, completata dai commenti dei miei genitori. Ricordo una stanza, forse la camera da letto dei miei genitori. Mio padre e mia madre e noi sorelline di tre e quattro anni, siamo riuniti davanti alla finestra. I vetri sono ermeticamente chiusi e sbarrate sono anche le persiane in legno. Dalla piazza sottostante salgono rumori inquietanti: urla, scoppi, motori. Noi sappiamo perfettamente cosa sta accadendo: è in corso un rastrellamento da parte dei soldati tedeschi. Chi non ha vissuto quegli episodi non può sapere né immaginare cosa fosse un rastrellamento: si dava la caccia accanita ai giovani che non erano partiti alla chiamata per il servizio di leva, ma anche a uomini maturi sani e robusti, con l'intento di condurli a lavorare nei campi tedeschi o nelle fabbriche in Germania. Nella stanza con noi c'era anche un'altra persona. Naturalmente la conoscevamo bene: si trattava del dottor Kalishack, un medico polacco ebreo che, non so per quale motivo, si trovava a esercitare la professione di dentista nel nostro paese. Ho bene impressa la sua figura bianca e curva davanti alla finestra nel tentativo di rendersi conto di ciò che avveniva nella piazza guardando attraverso le fessure delle persiane. Non dimenticherò mai la paura che emanava dalla sua figura e il terrore che appariva nei suoi occhi dietro le lenti bianche. Poi non ricordo altro, ma so per certo che il dottor Kalishack quel giorno si salvò grazie al rifugio trovato nella nostra abitazione. Queste cose avvenivano frequentemente in quei giorni, ma a pensarci adesso, a distanza di tanto tempo, mi rendo conto del fatto che quel giorno la mia famiglia, soprattutto mio padre, corse un notevole pericolo ospitando, e salvandolo, il medico ebreo.

Liliana Scevola, Vasto (Chieti)


(il Giornale, 16 aprile 2021)


Il sabotaggio di Natanz e l'escalation della guerra segreta tra Israele e Iran

di Eugenio Roscini Vitali

La battaglia segreta tra lo Stato di Israele e l'Iran non è più così segreta: dietro il misterioso incidente che ha colpito la rete di distribuzione elettrica della centrale nucleare di Natanz ci sarebbe ancora una volta la Unit 8200 (Yehida shmonae -Matayim), l'unità dell'Intelligence militare dello Stato ebraico (Aman) responsabile delle attività di spionaggio SIGINT, ELINT, OSINT, e della cyber warfare.
   Dopo varie smentite e l'annuncio di un incidente dovuto ad un malfunzionamento, Teheran ha ammesso che il guasto è stato causato da un attacco israeliano alla rete elettrica dell'impianto di arricchimento di Shahid-Ahmadi-Rochan (Natanz) ed ha identificato come responsabile materiale del sabotaggio una persona che lavorava nella centrale. Secondo il New York Times, che cita fonti dell'intelligence americana, i danni causati dall'esplosione potrebbero costringere l'impianto ad interrompere le attività per almeno nove mesi.
   La struttura "attaccata" domenica mattina è la stessa che lo scorso luglio subì gravi danni a causa di un'esplosione che devastò il padiglione per l'assemblaggio delle centrifughe nucleari. Quell'incidente, che da una prima analisi avrebbe dovuto interrompere le operazioni dell'impianto per un lungo periodo, fu il più rilevante di quella serie di attacchi coordinati che nell'arco di una settimana colpirono il deposito di gas a Parchin, una fabbrica di missili a Khojir, le centrali elettriche di Ahvaz e Shiraz, il polo petrolchimico di Karoun e la fabbrica di ossigeno di Baghershahr.
   L'incidente di Natanz arriva, invece, a meno di una settimana dal caso del cargo iraniano attaccato nel Mar Rosso, il mercantile MV Saviz, ultimo atto di una serie di operazioni via mare che negli ultimi mesi hanno centrato, a fasi alterne, navi mercantili di proprietà israeliana e iraniana. Secondo il New York Times, prima di attaccare il cargo MV Saviz, Israele avrebbe allertato gli Stati Uniti prima con una telefonata fatta per consentire alle unità della US Navy presenti nell'area di allontanarsi.
   Ora sorge spontanea una domanda: e se anche per l'attacco a Shahid-Ahmadi-Rochan fosse stato utilizzato lo stesso protocollo? Certamente, la risposta a questo quesito direbbe molto sullo stato dei rapporti che intercorrono tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l'amministrazione del nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Due per ora i fatti: domenica, a poche ore dall'attacco, arriva in Israele il nuovo segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin; entro fine aprile il capo dell'IDF, Aviv Kochavi, e il capo del Mossad, Yossi Cohen, dovrebbero visitare Washington. In cima all'agenda il dossier sul nucleare iraniano.
   La scorsa settimana, durante le celebrazioni per il Giorno della Memoria dell'Olocausto, Netanyahu si era pronunciato ancora una volta contro un ritorno degli Stati Uniti all'accordo sul nucleare e l'esplosione a Natanz è avvenuta il giorno dopo la Giornata nazionale della tecnologia nucleare iraniana, occasione sfruttata dal presidente Hassan Rohani per ricordare gli ulteriori progressi registrati dal Paese nel programma nucleare, progetto che il regime insiste a definire come destinato esclusivamente a scopi civili.
   La Giornata nazionale della tecnologia nucleare iraniana è stata anche l'occasione per celebrare il potenziamento della capacità di arricchimento dell'uranio, un aumento ottenuto mediante le 30 nuove centrifughe IR-5 installate a Natanz che secondo il presidente Rohani hanno accelerato il processo industriale di almeno dieci volte. L'ennesima violazione dell'accordo nucleare, quindi, una delle tante che l'Iran sta accumulando e che potrebbe utilizzare come merce di scambio in previsione del proseguimento dei colloqui a Vienna, ma che Gerusalemme sembra aver stroncato sul nascere.
   Washington ha già fatto sapere che l'amministrazione Biden non rimuoverà tutte le sanzioni economiche imposte da Donald Trump, ma, eventualmente, solo quelle che non sono in linea con il protocollo l'intesa raggiunto nel 2015. Una decisione che il Generale Mohammad Hossein Bagheri, capo di stato maggiore delle Forze armate iraniane, ha definito "un pugno di ferro dentro un guanto di velluto", un fatto che non cambierà la linea politica strategica dell'Iran, e cioè, "una piena rimozione delle sanzioni".
   Per Israele il fascicolo Natanz rimane comunque aperto: dopo una pausa di due mesi, Benjamin Netanyahu ha convocato per domenica prossima il Consiglio di Difesa; Gerusalemme vuole esaminare le crescenti tensioni con l'Iran e lo sviluppo di possibili scenari, una sorta di dichiarazione di "guerra" che i premier potrebbe aver riassunto in poche semplici parole: "La situazione come esiste oggi non è detto che esista necessariamente anche domani".

(Analisi Difesa, 16 aprile 2021)


Hanno rischiato la vita per salvare gli ebrei

Fra i "Giusti tra le nazioni" anche la famiglia Della Nave che nel 1943, per 16 mesi accolse e nascose in casa gli Zimet.

MORBEGNO - Chi sono i Giusti tra le nazioni? I civili che si sono comportati in modo eroico, rischiando la propria vita pur di salvare anche un solo ebreo dal genocidio. A nord di Morbegno, precisamente a San Bello, al di là del Ponte di Ganda, la famiglia Della Nave ospitò, durante le persecuzioni nazi-fasciste, per sedici mesi, dall'inverno del 1943, gli Zimet, ebrei tedeschi. La storia di questa famiglia è emersa nel 1989, quando Regina Zimet, la figlia, ha consegnato alla biblioteca di Morbegno un libricino.
   Scritto in ebraico conteneva la storia della sua vita (ricavata dalle pagine del diario che aveva scritto in Italia quando aveva dodici anni), la fuga, a otto anni, dalla Germania, poi Milano, Bengasi, Napoli, il campo di concentramento in Calabria, di nuovo a nord nella bergamasca per arrivare, infine, a San Bello. Qui, grazie ad un parroco, gli Zimet conobbero la famiglia Della Nave che li ospitò, nonostante fosse molto povera e avesse poco o nulla da mangiare. Condivisero con loro quel poco che possedevano rischiando ogni giorno la vita, visto che nascondevano degli ebrei. All'inizio gli Zimet rimasero nascosti in casa, ma poi dovettero uscire allo scoperto, fingendosi parenti dei Della Nave, imparando l'italiano e cercando di comportarsi in maniera normale di fronte ai tedeschi. Ecco il motivo per cui i coniugi Giovanni Della Nave e Mariangela Rabbiosi sono stati riconosciuti come Giusti tra le nazioni e i loro nomi compaiono allo Yad Vashem, Ente nazionale per la memoria della Shoah in Israele, fondato nel 1953 per non dimenticare i sei milioni di ebrei morti per mano dei nazisti. Nomi scolpiti sul muro della collina del ricordo, Har Hazikaron, a Gerusalemme, dove ci sono anche Oscar Schindler e Giorgio Perlasca. Nel 2010, a Campovico, una frazione di Morbegno, è stata dedicata loro una via, mentre sulla facciata della chiesa di San Bello vi è una targa che recita: "In memoria della famiglia di Giovanni e Maria Della Nave che in questi luoghi negli anni 1943-1945 con proprio gravissimo rischio offrì asilo clandestino agli ebrei tedeschi Filippo Zimet la moglie Rosalia e la figlia Regina".
   Anche la scuola media "Torelli" di Sondrio ha voluto ricordare questa famiglia, intitolandole un Ginkgo biloba, in occasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio 2019. Questa pianta è diventata simbolo di longevità perché, quando nel 1945 scoppiò a Hiroshima la bomba atomica, distrusse tutto quello che vi era intorno, compreso un Ginkgo biloba che si trovava in un monastero a 800 metri dal centro dell'esplosione. Un anno dopo, dalla radice di quel vecchio Ginkgo, germogliò un ramoscello nuovo che divenne simbolo di speranza e invincibile forza della vita.
   "La memoria è necessaria, dobbiamo ricordare perché le cose che si dimenticano possono ritornare: è il testamento che ci ha lasciato Primo Levi", ha scritto Mario Rigoni Stern.

(il Giorno, 16 aprile 2021)


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