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Notizie 16-30 aprile 2022


Cisgiordania: spari da auto, uccisa una guardia israeliana

Nei pressi dell'insediamento di Ariel. Aggressori fuggiti

TEL AVIV - Una guardia civile israeliana è stata uccisa nei pressi di Ariel, uno dei maggiori insediamenti ebraici in Cisgiordania. Lo ha fatto sapere il portavoce militare secondo cui un'auto con targa israeliana e 3 passeggeri a bordo si è avvicinata all'ingresso dell'insediamento ed ha aperto il fuoco con un fucile automatico. L'auto si è poi data alla fuga e l'esercito ha avviato estese ricerche per individuarla e bloccarla.
Hamas ha salutato l'attacco come "un'operazione eroica per concludere il mese sacro del Ramadan". "Questo fa parte della risposta del nostro popolo agli attacchi ad Al-Aqsa", ha affermato il portavoce del movimento che governa Gaza, Hazem Qassem, riferendosi agli scontri tra manifestanti palestinesi e polizia nel complesso della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, in cui ci sono state decine di feriti.

(ANSA, 30 aprile 2022)
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I due soldati erano di guardia all’ingresso della città di Ariel, che è oramai una città vera e propria con una delle migliori università israeliane ed un grande ospedale. Erano due ragazzi di 23 anni, lui, e 21, lei, nella vita erano anche fidanzati. Non appena iniziarono gli spari dall’auto dei terroristi il ragazzo fece da scudo alla fidanzata, morendo lui, ma salvando lei. Un autentico caso di eroismo, purtroppo poco noto. Nota di Emanuel Segre Amar.

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Arabia Saudita tra le braccia dell’Iran? Israele “allarmato”

Il repentino ritiro americano dal Golfo Persico sta spingendo l'Arabia Saudita tra le braccia degli Ayatollah

di Haamid B. al-Mu’tasim

Il quinto round di colloqui tra Iran e Arabia Saudita si è tenuto nei giorni scorsi a Baghdad, in Iraq, durante i quali le due potenze regionali si sarebbero avvicinate moltissimo alla normalizzazione.
  Dopo che gli Stati Uniti hanno abbandonato il Golfo Persico gli attori regionali hanno scelto strade diverse per la loro sicurezza.
  Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno scelto di avvicinarsi a Israele con gli Accordi di Abramo, mentre l’Arabia Saudita minacciata direttamente dall’Iran e attaccata più volte attraverso i ribelli Houthi nello Yemen, ha scelto purtroppo di arrendersi agli Ayatollah e di cercare con loro una pacificazione che li tenga al sicuro da nuovi attacchi.
  Per questo motivo Riad e Teheran hanno tenuto diversi round di colloqui (cinque fino ad ora) a Baghdad, in Iraq, ritenuto (erroneamente) territorio neutrale.
  Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh ha descritto i recenti colloqui come positivi anche se per il momento non è chiaro né quando si sono tenuti né quali accordi siano stati raggiunti.
  Fino all’Amministrazione Trump gli Stati Uniti erano stati lo scudo degli arabi contro la prepotenza degli Ayatollah iraniani. Fu il Presidente Donald Trump a decidere per primo una uscita graduale degli Stati Uniti dal Golfo Persico.
  Ma è stata l’Amministrazione del Presidente Joe Biden a decidere il deciso e quasi improvviso smarcamento americano dal Golfo con l’improvvisa decisione di ritirare i missili Patriot che difendevano l’Arabia Saudita dai missili iraniani.
  Questa decisione unita al rinnovato entusiasmo americano per un nuovo accordo sul nucleare iraniano hanno letteralmente spinto i sauditi tra le malefiche braccia degli Ayatollah iraniani.
  A Riad sono impauriti e non si fidano abbastanza di Israele per decidere di entrare negli Accordi di Abramo. Così scelgono l’alternativa più pericolosa, quella iraniana.
  Questi ripetuti colloqui hanno messo fortemente in allarme Israele anche se diversi esperti sostengono che i colloqui tra Iran e Arabia Saudita riguardino principalmente la guerra in Yemen e non un avvicinamento tra Riad e Teheran.

(Rights Reporter, 30 aprile 2022)

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Erdogan abbandona Hamas, militanti espulsi dalla Turchia

Herzog e Erdogan
Con l’intento di migliorare i rapporti con Israele, la Turchia ha espulso negli ultimi mesi dozzine di membri del movimento islamico Hamas sulla base di un elenco di persone presentato da Tel Aviv. A riferirlo è il quotidiano saudita Al Sharq al Awsat. Fonti ben informate di Gaza hanno confermato la notizia. Il mese scorso si era saputo dell’arresto a Istanbul di un palestinese, Omar Odeh, avvenuto pochi giorni dopo la visita del presidente israeliano Isaac Herzog in Turchia. Quindi, aggiunge il giornale saudita, arresti e deportazioni si sono moltiplicati e non è stato permesso di rientrare a diversi militanti di Hamas che per anni ha goduto della protezione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
  La Turchia avrebbe spiegato alla leadership di Hamas che sono in gioco importanti interessi economici nel rapporto riallacciato con Israele. Ha aggiunto che non tollererà la pianificazione nel suo territorio di operazioni armate contro Israele. Per questa ragione, Saleh Aruri, considerato il capo militare in esilio del movimento islamico, ha lasciato Ankara. La svolta, tenuta nascosta dietro le quinte, è clamorosa se si tiene presente che  Erdogan è stato impegnato per oltre un decennio in uno scontro politico e diplomatico, a tratti feroce, con Israele.
  L’assalto nel maggio 2010 di un commando israeliano al Mavi Marmara  (10 morti), un traghetto turco diretto a Gaza con a bordo aiuti umanitari ed attivisti, è stato il momento più delicato nelle relazioni tra Turchia e Israele. Erdogan solo dopo diversi anni, e su pressione dell’ex presidente Usa Barack Obama, accettò di chiudere il caso della Mavi Marmara e di rinunciare, in cambio di risarcimenti economici alle famiglie delle vittime, a gran parte delle sue rivendicazioni. Non meno importanti sono state le “umiliazioni” che i due paesi hanno inflitto ai rappresentanti diplomatici delle due parti in alcune occasioni. Più di tutto, Erdogan, un islamista, ha garantito protezione e libertà di movimento nel territorio turco ai rappresentanti di Hamas facendo irritare Israele.
  Le cose sono cambiate negli ultimi due anni. Di fronte a un quadro geopolitico in Medio Oriente mutato dopo gli Accordi di Abramo – che ha normalizzato le relazioni tra Israele e quattro paesi arabi e dato vita a un’alleanza strategica tra Tel Aviv e varie capitali arabe – e a interessi economici rilevanti, il leader turco ha avviato un lento riavvicinamento a Israele culminato a marzo nella visita in Turchia del presidente israeliano Isaac Herzog.
  Dopo aver riallacciato i rapporti con Israele, Erdogan questa settimana si è anche recato in Arabia saudita per una storica visita ufficiale di due giorni su invito della monarchia Saud, sua accesa avversaria fino a qualche mese fa. Nel 2018 le relazioni tra i due paesi avevano raggiunto il punto più basso dopo il brutale assassinio nel Consolato di Riyadh a Istanbul, del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi. Il caso, qualche settimana fa, è stato ceduto dalla giustizia turca alla procura saudita. Una decisione che la compagna, gli amici e i sostenitori del giornalista ucciso hanno descritto come la porta verso l’insabbiamento delle indagini.

(Pagine Esteri, 30 aprile 2022)

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Impennata di arresti cardiaci nei giovani israeliani dopo il vaccino 

Lo studio su «Nature» mostra la correlazione tra iniezioni e malattie cardiovascolari. Aumentate di oltre il 25% le chiamate d'emergenza per la fascia 16-39 anni in seguito all'avvio della campagna d'inoculazione 

di Alessandro Rico 

Alla faccia delle miocarditi da vaccino «rare e lievi», come scrivevano i cardiologi italiani lo scorso settembre. Un nuovo studio, condotto su dati israeliani, proietta ombre inquietanti sulle iniezioni anti Covid tra i più giovani. La ricerca - appena pubblicata su Nature - evidenzia un aumento di oltre il 25% di chiamate d'emergenza per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute, in persone tra i 16 e i 40 anni e in concomitanza con le somministrazioni di prime e seconde dosi. 
  «Covarianza non è causazione», recita un vecchio adagio delle scienze statistiche. Bisogna tenerlo presente, perché gli scienziati di Boston e Tel Aviv non hanno potuto accertare se i pazienti assistiti avessero il Covid o si fossero sottoposti alla puntura a mRna. I risultati, comunque, alimentano i sospetti: l'incremento di gravi problemi cardiaci, registrato tra gennaio e giugno 2021 rispetto al 2019 e al 2020, è «significativamente associato ai tassi di prime e seconde dosi di vaccino» inoculate, ma non alle infezioni da coronavirus. Tra l'altro, persino in Israele, dove il fenomeno sarà stato accentuato dalla minore età media, a confronto con altre nazioni occidentali (30,4 anni contro i 46,5 italiani); dove i National emergency medical services (Esm) collezionano meticolosamente le informazioni sanitarie; persino lì, «alcuni dei casi potenzialmente rilevanti» potrebbero non esser stati «pienamente investigati». Pensate, allora, quanti ne avrà bucati il nostro lacunoso sistema di farmacovigilanza. 
  Veniamo ai dettagli. L'analisi uscita su Nature compara il periodo precedente alla comparsa del Sars-Cov-2 (gennaio 2019 - febbraio 2020), i mesi di pandemia senza vaccini, da marzo a dicembre 2020 e quelli in cui l'avanzata del virus è corsa in parallelo con la campagna vaccinale (gennaio-giugno 2021). Cosa si riscontra? Un «aumento statisticamente significativo, di più del 25%», sia nelle chiamate d' emergenza per arresti cardiaci, sia in quelle per sindromi coronariche acute. L'incremento ha riguardato maschi e femmine tra 16 e 39 anni, benché, tra le seconde, sia stato ancor più consistente: +31,4% per arresti cardiaci, + 40,8% per sindromi coronariche acute. 
  Osservando le cifre, ci si rende conto che «accresciuti tassi di vaccinazione nel rispettivo gruppo d'età sono associati ad accresciuti numeri nei conteggi settimanali delle chiamate per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute». In sintesi: più iniezioni, più crisi di cuore. Invece, «il modello non ha individuato un'associazione statisticamente significativa tra i tassi d'infezione da Covid-19» e le telefonate ai soccorsi. La maggior frequenza di chiamate, da gennaio 2021, «segue strettamente alla somministrazione della seconda dose dei vaccini», mentre un ulteriore aumento, registrato da aprile di un anno fa, «sembra tenere dietro a un incremento delle vaccinazioni con singola dose ai guariti». E una scoperta da sventolare in faccia al governo dei migliori, che con l'apartheid del green pass si è accanito pure su chi aveva già sconfitto il virus. Ignorando le evidenze sull'efficacia dell’immunità naturale e, a quanto pare, esponendo la popolazione più giovane a effetti collaterali gravi. 
  Resterebbe da stabilire se gli eventi infausti, censiti in Israele, debbano essere interpretati come nuove manifestazioni avverse correlate alle vaccinazioni, o se si tratti degli strascichi delle già rilevate miocarditi e pericarditi. L'ipotesi formulata dallo studio di Nature è che l'incidenza di arresti cardiaci e sindromi coronariche acute sia «coerente con la nota relazione causale tra vaccini a mRna» e quelle patologie. Le miocarditi asintomatiche, ad esempio, provocano morti improvvise per arresto cardiaco nei giovani. Altre volte, vengono confuse proprio con le sindromi coronariche acute. Fatto sta che le chiamate d'emergenza sono state più per le donne che per gli uomini, sebbene le infiammazioni cardiache post vaccino risultino di solito più numerose tra questi ultimi. È il segnale di una sottodiagnosi delle miocarditi tra le ragazze? Può darsi. 
  Quel che è certo, è che un esame su una tale mole di dati (30.262 richieste di soccorso per arresti cardiaci e 60.398 per sindromi coronariche acute, di cui, rispettivamente, 945 e 3.945 negli under 40) dovrebbe indurre le autorità a una riflessione. Tecnicamente, si parla di policy implications. L'articolo ne suggerisce un paio. 
  Primo elemento: i «programmi di sorveglianza sui potenziali effetti collaterali dei vaccini e sugli esiti delle infezioni da Covid-19» dovrebbero incorporare le informazioni raccolte dai centri d'emergenza, per individuare prontamente eventuali tendenze allarmanti e indagarne le cause. 
  Seconda e ancora più rilevante raccomandazione: «È essenziale accrescere la consapevolezza, tra i pazienti e i clinici, riguardo ai sintomi», come i dolori al petto e la dispnea, che sono indici di sofferenze al cuore, al fine di «assicurare che il potenziale danno sia minimizzato». Un compito «particolarmente importante nella popolazione più giovane». Il contrario di ciò che è stato fatto nel nostro Paese, martellato dal proselitismo e dal telemarketing sanitario. Come se somministrare un vaccino equivalesse a vendere un folletto. Non ci illudano la parziale tregua nelle restrizioni e la sospensione del certificato verde - del suo impiego, mica della validità del codice a barre. Se in autunno ripartirà il tran tran sulle dosi a tappeto, dovremo pretendere prudenza e verità. Non propaganda.

(La Verità, 30 aprile 2022)

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Giovani ebrei americani e israeliani a confronto sull’identità ebraica e Israele

Un quadro a tinte fosche

di Roberto Zadik

Studenti ebrei americani
Il 25 aprile, il sito Ynetnews ha pubblicato i dati non proprio incoraggianti di un recente sondaggio condotto dall’American Jewish Commitee (Comitato Ebraico Americano). Lo studio ha coinvolto, per la prima volta, i due Paesi in cui vive la maggioranza degli ebrei nel mondo, gli Stati Uniti e Israele. Il focus è sui giovani fra i 25 e i 40 anni.
  Cos’è emerso da questa ricerca? Secondo le cifre pubblicate nell’articolo, firmato dal giornalista Ithamar Eichner, il 28 percento degli interpellati americani, a causa della spirale di antisemitismo degli ultimi anni, proverebbe dei sentimenti confusi verso Israele anche se i giovani di entrambi i paesi, più gli israeliani con 89 percento che gli americani, 72 percento, hanno evidenziato la necessità che ci siano legami diplomatici stretti fra le loro due patrie.
  Fra i dati più inquietanti, emersi dallo studio, solamente un quarto degli intervistati ebrei americani sentirebbe una grande responsabilità verso Israele mentre il 18 percento ha dichiarato totale indifferenza verso lo Stato ebraico.
  Il 76 percento dei coetanei israeliani ascrive la causa di questo sentimento, espresso dagli intervistati statunitensi, alle crescenti campagne di demonizzazione di Israele mentre, riguardo al conflitto con i palestinesi, il 52 percento degli americani e solamente il 24 percento degli israeliani pensa che ci sia una soluzione possibile.
  Dal sondaggio, entrambi gli interpellati, americani e israeliani, condividono elementi in comune, notando una tendenza preoccupante fra gli ebrei statunitensi, derivata anche dalle campagne antisraeliane nelle loro università, a nascondersi e a rimettere in discussione la loro identità ebraica.
  Antisemitismo, demonizzazione, paura per il futuro, questo è quanto echeggia nella maggioranza delle dichiarazioni elencate. Come ha detto Avital Leibovitch, direttrice dell’American Jewish Commitee in Israele, “dobbiamo continuare a sostenere i nostri fratelli d’oltreoceano che nonostante tutto contribuiscono alla sopravvivenza del nostro Paese”.

(Bet Magazine Mosaico, 29 aprile 2022)

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“La sinistra e l’Europa non esistono. Putin dittatore? Anche Garibaldi fece lo stesso a Napoli”

"Si chiama Nato ma si legge Usa. Pd e Forza Italia sono fratelli".  Intervista a Luciano Canfora

di Umberto De Giovannangeli

Hai voglia ad attaccarlo. Agli opinionisti in divisa militare, alla stampa mainstream che ogni giorno, dai salotti televisivi o dalle prime pagine della quasi totalità dei giornali, stila liste di proscrizione, Luciano Canfora non porge l’altra guancia. Ma ribatte punto su punto, con quel pizzico di tagliente ironia che arricchisce le sue riflessioni storico-politiche.
  In una recente intervista, che ha fatto molto discutere, ha detto: «Ci sono due potenze in lotta, la Nato e la Russia, rispetto alle quali mi sento completamente estraneo, essendo da sempre schierato a sinistra. È sciocco dire che sono putiniano». E sull’uso del termine “dittatore” per definire Putin Canfora dice: «Per ora è il presidente della Federazione russa», chiamarlo dittatore implica invece un “giudizio etico”. E seguendo questa riflessione lo storico parla anche di Garibaldi. «Anche Garibaldi prese la dittatura a Napoli quando portò il Meridione all’unità d’Italia». Argomenti scottanti su cui ritorna con Il Riformista.

- «Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto di non poter fare il tipo di cose che ha fatto con l’invasione dell’Ucraina», proclama il segretario Usa alla Difesa, Lloyd Martin. Seguito a ruota dal primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson, che sentenzia: è lecito colpire il suolo russo con le nostre armi. Come la mettiamo, professor Canfora?
  La mettiamo come da tempo si sforza di fare una persona seria e competente com’è il direttore di Limes, Lucio Caracciolo. Io concordo pienamente con lui: quella in corso è una guerra tra la Nato e la Russia. La Nato, poi… Si scrive così ma si legge Stati Uniti d’America. Cambiano i presidenti ma l’idea che non esistano alleati ma solo vassalli resta imperitura. E noi ne siamo un esempio imperituro. Una guerra che come spiega bene il direttore di Limes, non nasce il 24 febbraio, ma ha le sue radici in tempi addietro, almeno dalla mancata attuazione degli accordi Minsk 2. Stiamo parlando del settembre 2014. E la mancata realizzazione di quegli accordi non può essere imputata solo ai russi. Dire questo è una falsità storica. Caracciolo lo argomenta come fa un bravo geopolitico. E perché osa far questo ecco che viene additato come un sodale di Putin. Siamo de facto in una guerra che ci coinvolge come Europa e come Italia. Una guerra che era per procura ma che sempre più rischia di essere un confronto-scontro diretto, il cui campo di battaglia faccio fatica a pensare che possa limitarsi all’Ucraina. E i fatti degli ultimi giorni, oltre ad improvvide dichiarazioni che si ripetono ormai quotidianamente, inducono a immaginare uno scenario allargato. C’è poi un altro punto dirimente: qual è il vero obiettivo, il fine ultimo di questa guerra Nato-Russia. Non è solo Lucio Caracciolo a porre questo problema, vedo che anche l’ambasciatore Romano, che di diplomazia ne sa qualcosa, ha espresso la preoccupazione che il vero obiettivo della guerra sia la caduta del regime russo. È lecito discuterne senza essere tacciati delle peggiori nefandezze? Naturalmente i nostri facitori di giornale queste cose non le sanno, o fanno finta di non saperlo, e quindi parlano legibus solutus, senza freni. Questa è la miseria di una certa informazione, si fa per dire, italiota di cui abbiamo abbondantemente parlato in nostre precedenti conversazioni.

- Lei parla di una guerra tra la Nato e la Russia. E l’Europa in tutto questo?
  L’Europa semplicemente non esiste. E un ectoplasma politico, priva com’è di una politica estera comune, per non parlare di quella energetica o di difesa. Ma anche questo è un discorso ormai trito e ritrito. Doverlo ripetere è davvero stucchevole, triste, segno di tempi grami.

- Professor Canfora, non c’è da avere un po’ di paura di un pensiero unico interventista che riempie i palinsesti televisivi e le pagine di una stampa mainstream?
  Il problema non è il pensiero unico di cui lei parla. Il problema vero è il “Partito unico italiano”. Un partito che ha una parvenza di articolazioni interne, ma sono un elemento di contorno, di facciata, rispetto al fatto che da tempo ormai non esiste più una dialettica destra/sinistra, soprattutto perché non esiste più una sinistra. Di certo non può definirsi tale il Pd. La conferma, se ce ne fosse stato bisogno, è il coro ad una sola voce sulla guerra. A tenere accesa una fiammella di criticità c’è rimasto il sindacato, o per meglio dire la Cgil, l’associazionismo cattolico e l’Anpi, che proprio per questo viene fatta oggetto di assalti verbali a dir poco vergognosi.

- Perché, professor Canfora?
  Ma perché rifarsi oggi ai valori dell’antifascismo viene visto come un’eresia, i soliti nostalgici del tempo che fu… Si dice: è acqua passata, è archeologia ideologica. Guai dunque a parlare di attualità dell’antifascismo o osare fare una qualche distinzione, che c’è tutta, tra la resistenza partigiana e quella ucraina. Questa è una colpa imperdonabile.

- Vorrei che ci soffermassimo ancora sull’Anpi, bersagliata da più parti…
  L’Anpi è uno strano soggetto. Perché è chiaro che è un quasi partito politico, per la ragione anagrafica che i partigiani non ci sono più. Quello è un nobile riferimento ma che non basta a tenere in piedi una formazione. È come se fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, ci fosse il Partito del Risorgimento italiano, che continuava a campare di rendita sul fatto che si era lottato per avere l’unità d’Italia. In un certo senso, l’Anpi come tale è costretta ad avere una cornice ideale nobilissima, come sarebbe il richiamarsi al Risorgimento del secolo XIX, che però non basta a fare un partito politico, se non mettendo le carte sul tavolo…

- Vale a dire?
  Dicendo che la Resistenza noi la invochiamo come nostro orizzonte perché fu la matrice della Costituzione italiana. E siccome la Costituzione italiana è sempre più sotto attacco, da quando Berlusconi disse che era di tipo sovietico, un partito che non è un partito, un’associazione che però funziona di fatto come partito, con le tessere, i congressi etc.., che si richiama alla Resistenza, di fatto vuol essere il baluardo che difende i valori, i principi, le pratiche descritte nella Costituzione. È un semi partito. E questo mette l’Anpi in una posizione difficile, ovviamente, perché uno alla fine deve diventare un vero partito politico. Il surrogato di ciò che il Pd non è più.

- Perché cos’è oggi il Pd, professor Canfora?
  È il fratello siamese di Forza Italia. O di Italia Viva, o di Azione di Calenda Viva, Forza, Azione…Sono della stessa pasta, la stessa cosa. Un unico partito che non ha alcun interesse a richiamarsi alla sinistra. Fatti loro, non è che li manderemo all’Inferno di Dante Alighieri, per carità. Però, siccome i partiti sono diventati un unico partito, articolato al proprio interno, fuori del Parlamento ci sono delle forze, nobili, che dicono ohibò, ogni tanto. Che vogliono un capire, distinguere, mi riferisco, per l’appunto, a sindacati, movimento cattolico, Anpi che per il fatto stesso di avere questo atteggiamento critico, di voler capire e di non mettersi l’elmetto, sono sotto attacco. Questo è il quadro, dopodiché ognuno prende le scelte che prende.

- Si dice che la pace si fa col nemico. Ma se poi Biden definisce il capo dei nemici, Putin, un “macellaio” per giunta genocida… Lei come la pensa in proposito?
  Io mi permetto di mettere accanto al giudizio di Biden, quello espresso qualche anno fa dal presidente Berlusconi che definì Putin “un liberale attaccato a torto come me”. Quanto a me, la mia lontananza dalla Russia iper capitalista è totale.

- Lei in precedenza ha affermato che siamo de facto in una guerra che ci coinvolge, anche come Italia…
  Non è la prima volta. Perché quando fu attaccato l’Iraq non è che ci fu una formale dichiarazione di guerra, con gli ambasciatori e il resto. Arrivò un attacco frontale con bombe da tutte le parti e ci trovammo in guerra. Però era lontana. Questa è più vicina, ma la sostanza non cambia.

- Ma questo non confligge con il tante volte citato, invocato, bistrattato articolo XI della Costituzione?
  Io non lo cito mai. Anche perché si viene presto redarguiti con un argomento, cioè che la Storia è movimento perenne, la situazione politica, militare, diplomatica è completamente cambiata, è inutile invocare la situazione di 70-80 anni fa. Vedo che spesso s’invoca l’articolo XI, ma a mio modesto avviso è un argomento debole. La cosa vera, semmai, se vogliamo considerare il caso italiano, è che i partiti che siedono in Parlamento, insisto su questo punto, costituiscono ormai un unico partito politico. Articolato, ma pur sempre unico.

(Il Riformista, 29 aprile 2022)

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Panico all’Aeroporto di Tel Aviv. Turisti arrivano con un reperto bellico inesploso

di Luca Spizzichino

Panico all’Aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, dopo che una famiglia americana ha tentato di salire a bordo di un aereo con una vecchia bomba inesplosa nel bagaglio. La famiglia, secondo quanto riferito dall’Autorità aeroportuale, si era recata nelle alture del Golan, nel nord di Israele, dove uno dei bambini ha trovato l'ordigno. La famiglia ha portato quindi il proiettile nel bagaglio, apparentemente come souvenir.
  L'Autorità aeroportuale ha rilasciato successivamente una foto dell'ordigno arrugginito, che sembrava essere parte di un proiettile di artiglieria, avvolto in un sacchetto di plastica.
  La regione, che durante la Guerra dei Sei Giorni e la Guerra del Kippur è stata teatro di aspri combattimenti, è disseminata dei resti di quei conflitti: come mine anti uomo, filo spinato e, per l’appunto, proiettili.
  "Quando sono arrivati ​​per controllare i bagagli, hanno mostrato il pezzo del guscio alla sicurezza", ha detto l'Autorità aeroportuale. "Trattandosi di un pezzo di un proiettile, è stata annunciata l'evacuazione della zona".
  È scoppiato così il panico tra i viaggiatori nel terminal delle partenze quando l'annuncio dell'evacuazione ha suscitato il timore di un attacco. Infatti, in Israele, dopo che una serie di attacchi terroristici in tutto il paese ha ucciso 14 persone, il livello di sicurezza è aumentato.
  Un uomo israeliano di 32 anni si è ferito ed è stato portato in ospedale per le cure. L’infortunio è stato causato dalla fuga. Infatti il signore per scappare è salito sul nastro trasportatore dei bagagli, ci è corso sopra ed è caduto. “Ci sono state molte urla. Sentivo solo che dovevo correre per salvarmi la vita", ha raccontato a Ynet.
  Dopo che la sicurezza ha escluso qualsiasi pericolo, i viaggiatori sono stati ammessi di nuovo nel terminal. La famiglia è stata autorizzata a salire sull'aereo per tornare negli Stati Uniti dopo una breve indagine, ha affermato l'autorità. Senza portare con sé ovviamente il “souvenir”.

(Shalom, 29 aprile 2022)

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Il rabbino vuole che Israele reclami i tesori del Tempio dal Vaticano

"Aspettiamo forse che l'Arcangelo Michele voli a Roma, distrugga il Vaticano e ci restituisca i tesori del tempio?"

di Ryan Jones

"Ti vengono le lacrime agli occhi", si è lamentato Rabbi Yair Zemer Tov parlando nel 2018 del fatto che lo Stato di Israele sa dove si trovano i tesori del tempio rubati e sembra non fare nulla per restituirli a Gerusalemme.
  In un video clip che viene ancora condiviso con entusiasmo sui social media in lingua ebraica, il rabbino insiste sul fatto che lo stato di Israele rinato deve chiedere al Vaticano di restituire la menorah e altri oggetti di valore che furono sottratti dal Tempio nella distruzione di Gerusalemme fatta dai Romani nel 70 d.C.
  “Aspettiamo forse che l'Arcangelo Michele voli a Roma, distrugga il Vaticano e ci restituisca gli oggetti?” chiede il rabbino. “Questi sono gli oggetti più preziosi al mondo per il popolo ebraico. Perché rimangono sepolti nel sottosuolo?
  Il rabbino sospetta effettivamente che ci debba essere una ragione spirituale per cui gli utensili del tempio rimangono nascosti. Dopotutto, la maggior parte di chi possiede manufatti storici leggendari vuole mettere in mostra i propri tesori. Ma non gli oggetti rubati dal tempio di Gerusalemme.
  "Questo solleva molte domande", ha detto il rabbino.
  Gli scettici potrebbero dire che il Vaticano non mostra questi oggetti per il semplice fatto che non li ha. Roma fu saccheggiata più volte e vari invasori potrebbero aver saccheggiato i tesori del tempio e forse distrutti o fusi. Ammesso che siano arrivati ​​anche a Roma.
  Questi scettici indicano a Rabbi Zemer Tov e ad altri prove storiche e una manciata di resoconti di testimoni oculari dai quali risulterebbe che gli oggetti rubati dal Tempio si erano effettivamente diretti a Roma e sono sopravvissuti miracolosamente intatti nel palazzo dell'imperatore Vespasiano, sul quale il Vaticano è stato successivamente costruito.
  La prima e più evidente testimonianza è l'Arco di Tito, che si trova proprio di fronte al Colosseo a Roma. L'arco di trionfo raffigura scene della vittoria sugli ebrei a Gerusalemme nel 70 d.C. Uno dei pannelli scolpiti mostra soldati romani che trasportano la menorah e altri tesori del tempio.
  Giuseppe Flavio, uno storico ebreo che cambiò parte e accompagnò i romani nella loro campagna in Giudea, riferisce inoltre che Vespasiano rivendicò personalmente i tesori del tempio e li inviò alla sua residenza a Roma.
  Ma sono ancora lì? Secondo diversi resoconti di presunti testimoni oculari, lo sono.
  Ci sono gli scritti del Rabbi Benjamin di Tudela del XII secolo, il quale afferma che la grotta dove Tito custodiva i tesori del tempio per suo padre si trova ancora intatta nel cuore di Roma.
  C'è la storia di una Guardia Svizzera vaticana che 35 anni fa scoprì  di essere ebreo e decise di visitare personalmente i tesori dell'antico Israele. La sua credibilità, se non il rapporto stesso, è stata poi confermata dall'ex rabbino capo di Roma [Elio Toaff, ndt].
  E c'è la testimonianza più recente di un ebreo che ha studiato alla Pontificia Università Urbaniana del Vaticano 50 anni fa, il quale ricorda che i suoi maestri arrivarono al punto di mostrargli i tesori del Tempio per dimostrare che gli ebrei non erano più gli eletti di Dio. Secondo quanto riferito, la sua testimonianza è stata così convincente che l'allora ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres, durante una visita in Vaticano nel 2002, negoziò con il papa i tesori del Tempio.
  Ma la testimonianza su cui si basava Rabbi Zemer Tov era quella di Rabbi Yitzchak Chai Bokovza, il rabbino capo della Libia all'inizio del 1900, uno studioso della Torah ampiamente rispettato.
  Nel 1929 il Re d'Italia Vittorio Emanuele III in visita in Libia, che in quel tempo era sotto il controllo italiano. Fu così colpito da Rabbi Bokovza che il Re lo pregò di partecipare al matrimonio imminente di suo figlio e di benedire la nuova coppia. Il rabbino alla fine acconsentì e si recò a Roma. Dopo il matrimonio, il Re riconoscente fece chiedere a Rabbi Bokovza tutto ciò che il suo cuore desiderava. Aveva un solo desiderio: voleva vedere i tesori del tempio.
  Il fatto che Rabbi Bokovza abbia fatto tale richiesta, come riportato nei suoi vari scritti, testimonia già l'allora diffusa convinzione che i tesori del Tempio di Gerusalemme fossero ancora sepolti sotto il suolo di Roma.
  Il re fece pressioni sul papa e al rabbino fu consentito l'accesso alle catacombe nelle profondità del Vaticano.
  Ma proprio mentre la guardia che lo accompagnava stava per tirare indietro il sipario, Rabbi Bokovza lo interruppe, dicendo che aveva "visto abbastanza" e si precipitò fuori. Fece voto di silenzio e morì un mese dopo.
  "È una storia vera", ha insistito Rabbi Zemer Tov, e in effetti numerosi resoconti dell'epoca attestano che è così. "La grande domanda è: perché il rinato Stato sovrano di Israele non ha fatto una richiesta per la restituzione di ciò che appartiene al popolo ebraico?"
  Ha sottolineato che da quando ha ottenuto l'indipendenza, Israele ha fatto ogni sforzo possibile per recuperare ciò che è stato rubato al popolo ebraico dai nazisti. "Ma la cosa a cui teniamo di più, sappiamo esattamente dove si trova, ma nessuno fa nulla per restituircela", sospirò. "Perché rimane nascosto?"

(israel heute, 29 aprile 2022 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Erdogan stringe i rapporti con Israele e sauditi 

Espulsi dozzine di militanti di Hamas dalla Turchia su richiesta di Tel Aviv. Saleh Aruri, capo militare in esilio del movimento islamico, ha lasciato Ankara. 

di Michele Giorgio

Con l'intento di migliorare i rapporti con Israele, la Turchia ha espulso negli ultimi mesi dozzine di membri del movimento islamico Hamas sulla base di un elenco di persone presentato da Tel Aviv. A rivelarlo ieri è stato il quotidiano saudita Al Sharq al Awsat. Fonti ben informate di Gaza hanno confermato la notizia al manifesto. Il mese scorso si era saputo dell'arresto a Istanbul di un palestinese, Omar Odeh, avvenuto pochi giorni dopo la visita del presidente israeliano Isaac Herzog in Turchia. Quindi, aggiunge il giornale saudita, arresti e deportazioni si sono moltiplicati e non è stato permesso di rientrare a diversi militanti di Hamas che per anni ha goduto della protezione del presidente turco Erdogan.
  La Turchia avrebbe spiegato alla leadership di Hamas che sono in gioco importanti interessi economici nel rapporto riallacciato con Israele. Ha aggiunto che non tollererà la pianificazione nel suo territorio di operazioni armate contro Israele. Per questa ragione, Saleh Aruri, considerato il capo militare in esilio del movimento islamico, ha lasciato Ankara. Dopo aver riallacciato i rapporti, molto tesi per anni, con Israele, Erdogan ieri si è recato in Arabia saudita per una storica visita ufficiale di due giorni su invito della monarchia Saud, sua accesa avversaria fino a qualche mese fa.
  Nel 2018 le relazioni tra i due paesi avevano raggiunto il punto più basso dopo il brutale assassinio nel Consolato di Riyadh a Istanbul, del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi. Il caso, qualche settimana fa, è stato ceduto dalla giustizia turca alla procura saudita. Una decisione che la compagna, gli amici e i sostenitori del giornalista ucciso hanno descritto come la porta verso l'insabbiamento delle indagini.

(il manifesto, 29 aprile 2022)

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Draghi la smetta di mandare armi a Kiev

di Andrea Sperelli

Draghi continua a voler mandare le armi a Kiev ma vuole farlo pure in gran segreto. Un Governo che espone il proprio popolo a rischi bellici abnormi e non ha neppure il coraggio di renderlo noto. Ieri il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) ha deciso di condividere la richiesta del ministro della Difesa Lorenzo Guerini e porre il segreto sul decreto del Governo per l'invio di armi. Il motivo non è chiaro ma i rischi ai quali questa decisione espone il Paese sono evidenti e uno è il più preoccupante: lasciare a Putin la libertà di immaginare chissà quali armamenti l'Italia sta inviando a Kiev. Mosca ha mostrato chiaramente di non farsi intimorire, all'Inghilterra che addirittura sprona Kiev ad attaccare oltre il confine russo ha ribattuto senza troppi giri di parole che impiegherebbe qualche ora a radere al suolo Londra.
  Il nostro presidente del Consiglio cosa sta facendo? In base a quale mandato insiste in questa rincorsa agli armamenti da inviare in Ucraina? Le azioni confermano quanto già scritto settimane fa: la sua intenzione di lasciare Palazzo Chigi per accomodarsi alla Nato. Non appare un caso dunque questo iperattivismo sulla scia di Biden e degli Stati Uniti. Ma noi siamo l'Italia e siamo in Europa e dovremo trovare e rivendicare con forza la nostra autonomia da entrambi le potenze che si stanno scontrando: Usa e Russia. Perché è ormai è evidente a tutti - e non servono le rivelazioni della stampa internazionale pubblicate ieri sul coinvolgimento della Cia nel di Zelensky - quanto sia in atto un conflitto alimentato da Biden (che proprio ieri ha chiesto al Congresso di stanziare altri 33 miliardi di dollari per finanziare le armi da inviare a Kiev) e Putin. Gli ucraini sono vittime inconsapevoli di questo scontro.
  Draghi ha deciso in autonomia di schierarci dunque al fianco di Biden? Rinneghiamo la Russia di Putin certamente ma rinneghiamo anche l'Europa? E ha scelto da solo? Vogliamo aiutare il popolo ucraino? Perfetto. Inviamo medici, servizi sanitari, aiuti alimentari, economici. Aiutiamoli esprimendo la nostra miglior pecularietà: la solidarietà. Non le armi. Basta. Se Draghi vuole fare la guerra vada lui ma non esponga un intero Paese - che fra l'altro sarebbe incapace di difendersi - a rischi così abnormi. E abbia almeno il coraggio di rendere noto come stiamo aiutando Biden, non Zelensky. Porre il segreto su un decreto simile e che a farlo sia un Governo nato esclusivamente per far fronte all' emergenza Covid è inammissibile. Si nasconde ciò di cui ci si vergogna non ciò che si ritiene doveroso e necessario. E le armi non sono né doverose né necessarie.

(Il Tempo, 29 aprile 2022)

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Draghi-Covid-Guerra. Cocktail letale per l'informazione

Oggi c'è la censura ambientale: nelle redazioni sanno già cosa si aspetta il padrone. Colloquio con Marco Travaglio.

L'establishment e i suoi giornali sono da sempre governativi. Uniche eccezioni con il primo esecutivo Prodi e i due guidati da Conte Sul conflitto ucraino sta esplodendo tutto. Con il paradosso di una stampa al 99% con l'elmetto e la mitraglietta che marcia seduta sul sofà

di Giulio Gambino

- Il giornalismo in Italia è libero?
  «No».

- Perché?
  «Vale la famosa battuta: "In Italia si vendono più giornalisti che giornali". Non è mia purtroppo, non ricordo chi l'abbia detta».

- Ma sono i giornalisti che si vendono o gli editori che impongono la linea {e quindi i giornalisti li emulano)?
  «È come la domanda che si faceva ai tempi di Tangentopoli, sei un corruttore o sei un concusso? Di Pietro con la sua praticità risolse la questione con la dazione ambientale. Qui c'è una censura ambientale che si respira nell'aria».

- A te è mai capitato che qualcuno ti abbia censurato?
  «Con me nessuno si è mai permesso, e quando ne avvertivo le avvisaglie me ne andavo, oppure venivo cacciato perché non obbedivo. Non ho esperienza di censure negli ultimi 13 anni, da quando cioè lavoro in proprio al "Fatto", però ormai credo che nella stampa mainstream non ci sia più nemmeno bisogno di dare ordini o di imporre veti dai piani alti.
  Nei piani medio-bassi si sa già quello che si aspetta il padrone e si anticipano gli ordini, che non arrivano nemmeno perché ormai sono inutili».

- Perché oggi il giornalismo ha sempre minore credibilità?
  «Per una serie di concause. Per esempio il fatto che non esista un solo grande editore che abbia come unico interesse di fare un buon prodotto e di venderlo. O il fatto che la politica sia così mischiata all'economia e che i grandi gruppi economici siano così disastrati e assistiti dallo Stato: tutti famosi liberali-liberistl sempre col cappello in mano davanti a Palazzo Chigi a chiedere provvidenze pubbliche in cambio di soffietti a quasi tutti i governi, o almeno a quelli che fanno i loro interessi e quelli delle loro lobby».

- Siamo anche il Paese dove politici e giornalisti fanno l'una e l'altra cosa in scioltezza ...
  «Non è un caso che gli unici governi che hanno avuto contro la gran parte dell'informazione sono stati il primo governo Prodi e i due governi Conte. per il resto l'establishment e i suoi giornali sono sempre stati governativi, chiunque ci fosse a palazzo Chigi. Dopodiché non è affatto escluso che all'interno di questo mondo ci siano poi singoli giornalisti che cercano di fare il loro mestiere, di resistere, ma nella somma finale finiscono nei resti».

- Quali sono oggi i giornali che reputi liberi?
  «Non sono nessuno per dare dei giudizi. Ma è un fatto che gli unici giornali che non appartengono a editori "impuri" sono Il Fatto Quotidiano, La Verità, Tpi e Il Manifesto, che però ha un problema: i soldi pubblici dai quali in parte dipende».

- Quale ritieni che sia la differenza tra il Fatto e gli altri giornali tradizionali?
  «È semplice: nessuno ci dice cosa dobbiamo scrivere e cosa no. Ogni volta che decidiamo di prendere una posizione non abbiamo nulla da guadagnarci né da perderci. Hanno provato in tutti i modi ad attribuirci padroni o padrini, ma non sono mai riusciti a trovarne mezzo. Abbiamo le nostre idee, dalle quali dipendono le nostre posizioni politiche. Chi si avvicina di più alle nostre idee ha il nostro plauso, chi è più lontano delle nostre idee ha la nostra riprovazione».

- Qualche esempio?
  «Mi sono fatto l'antinfluenzale e tre dosi di vaccino anti-covid, ma qualche imbecille diceva che ero un no vax soltanto perché, da liberale, sono contro l'obbligo vaccinale e ritengo che ciascuno debba sottoporsi a un trattamento sanitario consultando il suo medico, non il suo governo. Noi - che siamo tanto 5Stelle-contiani secondo qualche imbecille - se i 5Stelle votano a favore delle armi in Ucraina, diciamo che sbagliano, perché siamo contrari. I 5Stelle danno non so quanti voti di fiducia al governo Draghi, E noi abbiamo sempre detto che non avrebbero neanche dovuto entrarci».

- Cosa ne pensi di chi ti dice queste cose?
  «Non me ne importa assolutamente niente. Anche il condizionamento psicologico di chi non scrive una certa cosa per evitare una certa accusa non mi tange. Non me ne frega nulla di quello che dicono di noi. Tanto le accuse le inventano comunque, anche se fai il bravo. Noi siamo sempre stati anti-putiniani - e continuiamo a esserlo, ovviamente - eppure ci sentiamo dare lezioni di anti-putinismo da Repubblica, che fino a 5 anni fa pubblicava un inserto mensile a cura della propaganda del Cremlino con quelle - non saprei come definirle - fellatio a Putin, al suo regime, al patriarca Kirill. Purtroppo io mi ricordo tutto ... ».

- Il clima è preoccupante: il dibattito è infuocato e sempre più devoto al linciaggio ...
  «L’Italia era già un Paese praticamente rovinato dal punto di vista della libera informazione, ma poi il cocktail letale Draghi-Pandemia-Guerra ci ha dato il colpo di grazia, con un ulteriore giro di vite che ha vieppiù ristretto le già minuscole feritoie nel muro del pensiero unico. Viviamo in una permanente militarizzazione del pensiero, da Paese di guerra. Fino all'altroieri non potevi nemmeno dire che il vaccino era una buona cosa ma non ti immunizzava dal contagio, perché il presidente del Consiglio, totalmente incompetente in materia, aveva spacciato il Green Pass per una garanzia di vivere in ambienti immuni dal contagio. Dopodiché mi risulta che, con tre dosi di vaccino, si è preso anche lui il Covid. Me ne dispiaccio, sono felice che sia asintomatico, ma mi auguro che abbia capito che nel luglio dell'anno scorso aveva detto una solennissima sciocchezza. Il guaio è che chi lo faceva notare passava per nemico del popolo e della scienza».

- C'entra il cosiddetto pensiero binario?
  «Sì, anche se poi non è neanche binario, è monolitico: perché hai due sole alternative, ma se scegli la seconda sei un porco, e non puoi mai discutere, distinguere, sfumare. Guarda cosa è accaduto nel dibattito sulla Francia tra Le Pen e Macron. Un'alternativa diabolica, dove entrambe le opzioni inorridivano un sacco di francesi, ma anche di italiani, me compreso: perché mai era riprovevole astenersi, non scegliere nessuno dei due, cioè - come dicevano gli studenti della Sorbona - «né la peste né il colera». Senza dire di questo provincialismo per cui noi dobbiamo sempre partecipare alle elezioni altrui. Il Pd è una vita che vince le elezioni in America, in Francia, in Germania, però non riesce mai a vincerne una in Italia. Questo è il suo problema. E allora si consola oltre confine, dove non lo conoscono».

- Fino a un ventennio fa esisteva una contro-informazione più evidente, anche in Rai se vuoi. Dov'è finito quel pubblico?
  «Dal punto di vista della visibilità del pensiero critico, siamo messi molto meglio di allora. All'epoca eravamo comunque prigionieri di un altro falso pensiero binario: il centro-sinistra e Berlusconi, per cui gli anti-berlusconiani dovevano votare il centrosinistra, e poi quando il centrosinistra andava al governo faceva le stesse cose di Berlusconi, solo più educatamente. Nessuna legge di Berlusconi è stata mai cancellata dal centrosinistra. Le prime leggi vergogna del caimano le ha cancellate il governo Conte I, con la spazzacorrotti, il reddito di cittadinanza e il decreto dignità contro il precariato. Un governo che tutti dipingono come governo di destra, quello M5S-Lega, è stato il governo più innovativo e anche progressista (al netto dei decreti sicurezza) che io abbia mai visto. Finché Salvini non si è fatto cooptare dal sistema, ha cominciato a difendere i Benetton, il Tav Torino-Lione e a rinnegare la sua natura anti-establishment, che era stata la sua fortuna ... ».

- Anche la Meloni è succube del sistema?
  «Bè il suo asservimento incredibile alle politiche atlantiste parla chiaro. Oggi è presentabile chiunque si metta a 90 gradi davanti a Biden, chi non lo fa è uno stronzo, indegno di governare. per questo c'è il boom dell'astensione: perché chi non si allinea al pensiero unico non si sente più rappresentato da nessuno. Però i non allineati in questi anni hanno avuto molta più scelta rispetto a quella che c'era ai tempi del falso bipolarismo Berlusconi-centrosinistra».

- Eppure oggi l'informazione pubblica riflette poco o nulla quello che pensa la maggior parte del Paese ...
  «Sulla guerra sta esplodendo tutto, con il paradosso di una stampa e una politica al 99 per cento con l'elmetto e la mitraglietta, tutta gente che marcia seduta sul sofà, e poi i sondaggi di un Paese che sta da un'altra parte, per la pace e per il negoziato. in grande maggioranza addirittura contro l'invio delle armi in Ucraina, non solo contro il 2 per cento del Pil in spesa militare. È una ribellione clamorosa rispetto non solo al sistema dei partiti, ma anche al sistema dell'informazione, che è assolutamente speculare a quello dei partiti, quasi tutti a rimorchio della Nato, cioè degli Usa, che stanno cercando di trasformare la guerra criminale, ma regionale, di Putin per il Donbass in una guerra mondiale. E non escludo che ci riescano».

- Perché dici?
  «Lo stiamo vedendo. Questa è una guerra per il Donbass, la manovra su Kiev un diversivo. A furia di inviare armi - violando la Costituzione e per la prima volta nella nostra storia, senza averle mai mandate a nessun altro Paese aggredito che non fosse nostro alleato - finiremo per moltiplicare i massacri e rischiare molto di più l'escalation verso la guerra mondiale, cioè nucleare. Adesso, con la presa di Mariupol, credo che qualcuno stia cominciando a capirlo. Lo capiscono i governi più liberi, quello tedesco e quello francese. Il nostro, insieme alla Polonia, è la Bielorussia degli Stati Uniti.

- Questo governo serve maggiormente gli interessi Usa?
  «Lo abbiamo sempre saputo: una delle ragioni per cui hanno buttato giù Conte è che proseguiva la tradizione della politica estera multilaterale di Moro, Andreotti, Craxi, Prodi. Al suo posto hanno messo l'Amerikano con la K».

- A proposito di America, che fine ha fatto quella classe politica e giornalistica fieramente anti-americana, contraria cioè all'appiattimento e alla subalternità verso gli Usa?
  «Nella nostra politica estera noi siamo sempre stati nel migliore dei casi multilaterali, nel peggiore dei casi doppiogiochisti. Ricordo quando per obblighi Nato Reagan dovette avvertire Craxi e Andreotti del raid a Sirte per eliminare Gheddafi, dopo avere trovato le impronte digitali del regime libico nella strage aerea di Lockerbie. L’avevano individuato, prepararono il blitz notturno, avvertirono l'Italia, anche perché era coinvolta la base di Sigonella, e Craxi e Andreotti avvertirono Gheddafi e lo fecero scappare. Questi sono gli aspetti deteriori della nostra politica estera doppiogiochista. E poi ci sono gli aspetti migliori: quelli di un Paese che dopo il 1989 ha cominciato giustamente a guardarsi intorno e a capire che i nostri mercati naturali sono quello russo e quello cinese, non certo quello americano che è saturo e concorrenziale. Questo è un ragionamento che faceva Andreotti quando diceva che la Nato avrebbe dovuto sciogliersi insieme al Patto di Varsavia, e che faceva Macron un anno fa, quando parlò della morte cerebrale della Nato».

- Chi sta dando il peggio di sé nell'informazione?
  «Vedo giornalisti che ritenevo dotati di cervello dire delle cose che credevo si sarebbero vergognati a dire. Sono affascinato dalla rubrica quotidiana dei grandi giornali che non riescono a non parlare di Orsini almeno 10 volte al giorno. Mi domando: ma che gli ha fatto 'sto Orsini? È vero che ha mostrato la cartina dell'allargamento della Nato a est, ma è una cartina reperibile anche senza Orsini».

- Chi ha deciso di prendere Orsini al Fatto?
  «L’ho deciso io quando lo stavamo intervistando sul suo primo linciaggio e, in quel mentre, ricevette una telefonata da qualcuno del suo giornale di allora, Il Messaggero, che gli comunicava la non pubblicazione della sua rubrica settimanale che teneva da anni, perché parlava di Ucraina dicendo cose vere, quindi proibite. Mi sono detto: se un professore ha problemi a far conoscere le sue idee, il Fatto è nato apposta per dargli un rifugio, quindi nel caso in cui avesse voglia di scrivere per noi, eccoci qua. Ho fatto con lui quello che abbiamo fatto in questi anni con tutti gli altri censurati. Naturalmente parlo di persone che abbiano dei titoli per parlare, ovviamente. Non siamo una buca delle lettere. Però siamo una specie di accampamento aperto a tutti quelli che hanno qualcosa da dire e non sanno più dove dirlo».

- Condividi l'analisi di Santoro sulla necessità di parlare in maniera critica anche dell'Ucraina e di Zelensky?
  «È quello che scrivo tutti i giorni, sin dal primo giorno della guerra. Mi sembra il minimo sindacale del giornalismo. Mi è capitato di leggere un pezzo de Linkiesta, dove alla vigilia dell'invasione russa Zelensky era dipinto come un imbecille, un pagliaccio, un incapace: se era considerato un coglione fino al 23 febbraio, può essere mai che sia diventato Churchill dal 24? Fino a quel giorno aveva sondaggi forse anche peggiori di quelli di Biden, e meditava di non ricandidarsi nemmeno alla presidenza. Aveva fallito, in un Paese sempre più corrotto, impoverito e indebitato, e forse preferiva ritirarsi in una delle sue ville in giro per il mondo a godersi le sue cospicue sostanze ben nascoste nei paradisi fiscali (come documentato da molti giornali, anche italiani, sulla scorta dei Pandora Papers). Trovo bizzarro che le stesse cose che si dicevano prima non si possano più dire oggi. Dirle adesso non significa affermare che è stata l'Ucraina ad attaccare la Russia, vuol dire semplicemente fare informazione».

- Vale lo stesso sulla polveriera del Donbass, dove vengono commesse gravi atrocità da entrambe le parti da almeno otto anni ...
  «Se il battaglione Azov, che dal 2014 fino all'altro giorno era il padrone di Mariupol, è stato denunciato per 8 anni da Onu, Osce e Amnesty lnternational per torture, crimini di guerra, stragi, sevizie, oltre che per quei simpatici simboletti a forma di svastiche e croci uncinate stilizzate sulle divise, perché non ne dobbiamo parlare adesso? Sono diventati improvvisamente buoni anche i nazisti? E Orsini diventa un fascista solo perché ha detto una cosa ovvia, e cioè che per un bambino è meglio vivere sotto una dittatura che morire sotto le bombe? Mi ha ricordato Max Catalano: "È meglio sposare una donna ricca, bella e giovane che una donna brutta, povera e vecchia". Se non puoi più dire nemmeno le ovvietà perché sennò Gramellini ti dà del filo-fascista e del paraculo, lui che sul servizio pubblico di Rai 3, a spese del nostro canone, ha elogiato il comandante filonazista del battaglione Azov paragonandolo ai giusti tipo Schindler, c'è qualcosa che non funziona».

- Ritieni che sugli Usa e sulla Nato esista una sorta di auto-censura preventiva?
  «Noi dovremmo poter dire tutto, non siamo in guerra, almeno che si sappia. Io non sono belligerante, non sono neanche membro della Nato, non me ne frega niente della Nato. L'ho detto una sera dalla Gruber e Severgnini stava per svenire: "Ma come, Biden è la nostra leadership!". Io non ho nessuna leadership, penso con la mia testa. "È nostro alleato!". E chi se ne frega. A parte che alleato non vuol dire padrone, se un tuo alleato sbaglia devi essere libero di dirglielo, altrimenti non stai nella Nato, stai nel patto di Varsavia. E invece sembra di essere a Mosca, con questa bell'arietta di censura, perché ci sono cose che non puoi dire visto che in Ucraina c'è la guerra. Ma chi lo dice, dove sta scritto? Bisogna poter dire tutto, sempre. Altrimenti non si capisce perché c'è questa guerra. E soprattutto, se non capisci perché c'è questa guerra, non riesci a capire come si fa a farla finire, che poi è il vero problema che abbiamo in questo momento».

- C'è chi dice che sei uno tra i migliori giornalisti italiani.
  «Non esageriamo. lo ho sempre la sindrome dell'impostore. E penso che il degrado generale dell'informazione abbia creato una sopravvalutazione anche nei miei confronti. A me pare di essere abbastanza normale, non credo di fare delle cose straordinarie. Se fossi vissuto in un'altra epoca, se fossi diventato direttore all'epoca in cui i direttori erano Montanelli, Scalfari, Pintor, Feltri, Anselmi, Rinaldi, Furio Colombo, Padellaro, Scardocchia, probabilmente sarei il ventesimo, il quarantesimo».

- Sarebbe utile una legge che limiti la possibilità di possedere i giornali ai soli editori puri?
  «Certo. dovrebbe proibire a ogni editore di giornale di avere altri interessi se non quelli dell'editoria. A lui e ai suoi parenti stretti, altrimenti riciccia fuori il solito Paolo Berlusconi al posto di Silvio. Ci vogliono anche una legge antitrust e una legge sulle rettifiche e contro liti temerarie. Leggi che alleggeriscano un po' la pressione sui giornalisti. se e quando verranno fatte, a quel punto vedremo quanti sono i giornalisti liberi che fanno i servi perché sono costretti dal sistema e quanti invece sono proprio nati così».

- Cosa ne pensi dell'Espresso in vendita?
  «Passare da De Benedetti agli Agnelli-Elkann a lervolino: non saprei quale dei tre editori sia peggio. È una bella lotta».

- Dopo la direzione al Fatto hai in mente altro, chessò, tipo un programma tv?
  «No, macché programma ... per fare un programma bisogna che un segretario di partito o un presidente del Consiglio telefoni alla Rai, oppure devi comunque dare delle rassicurazioni a quegli editori impuri. Devi pagare dei pedaggi, non fa per me. E non me ne frega niente. E poi, anche se fosse tutto libero, il mio mestiere non è la televisione. lo la soffro, ci vado perché è utile far circolare le idee e la testata del Fatto, ricordare al grande pubblico che comunque una piccola oasi di libertà esiste. Ma, se dovessi scegliere fra la tv e la carta stampata, non avrei dubbi: carta stampata tutta la vita.

(il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2022)

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Israele si ferma in ricordo della Shoah

Alle 10 in punto (le 9 in Italia) Israele si è fermata, come ogni anno, al suono delle sirene in ricordo dei 6 milioni di ebrei sterminati dai nazisti e dai loro complici.
  
Ovunque fossero, gli israeliani hanno interrotto le loro attività: in silenzio si sono levati in piedi chinando la testa in rispetto della Memoria celebrata durante 'Yom ha-Shoah', giorno di dolore e di lutto tra i più solenni del calendario nazionale.
  Lungo le strade cittadine o le principali del Paese le auto in viaggio, gli autobus, hanno accostato e i passeggeri sono scesi rimanendo in silenzio e sull'attenti. Da ieri sera bar e ristoranti hanno chiuso e la radio e la tv hanno trasmesso per lo più documentari legati al tema della Shoah.
  Il ricordo è cominciato a Yad Vashem, il Museo della Memoria di Gerusalemme, con una cerimonia ufficiale in cui sei sopravvissuti hanno acceso altrettante fiaccole in ricordo dei 6 milioni di ebrei uccisi. Il premier Naftali Bennett in quell'occasione ha detto che «la Shoah non ha precedenti nella storia umana e che anche le peggiori guerre di oggi non sono l'Olocausto e non sono ad esso comparabili». Le cerimonie continueranno anche oggi sia a Yad Vashem sia alla Knesset.

(RaiNews, 28 aprile 2022)

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Il reportage. L’anima d’Israele lungo il confine russo-ucraino

Viaggio nel Paese rimasto “neutrale” sul conflitto in corso. A causa di profonde ragioni storiche che lo legano alle due nazioni. Ma anche per la necessità di proteggere gli ebrei di oggi.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Il visitatore che sbarca all'aeroporto di Tel Aviv ha l'immediata impressione che Israele viva in una bolla molto lontana dalla guerra in Ucraina, ma in realtà è vero l'esatto opposto: si tratta di un conflitto che entra nelle sue viscere, rivela le sue paure e mette a dura prova la ragione stessa per cui, 74 anni fa, venne creato.
  L'impressione della lontananza viene dal fatto che in un Paese abituato da sempre a discutere senza interruzione di guerra e terrorismo, il conflitto in Ucraina si affaccia raramente nelle conversazioni nei caffè di Netanya e Tel Aviv. Non tutti giorni è fra le prime notizie del notiziario radio delle 8 del mattino su Reshet Beth - il più ascoltato - e capita anche che non arrivi sulle prime pagine dei giornali più venduti. È una coltre di silenzio rafforzata dal martellare dei temi a cui gli israeliani sono più abituati - dagli scontri con i palestinesi a Gerusalemme, ai razzi di Hamas da Gaza fino alla sorte del negoziato nucleare Usa-Iran - e nei quali continuano ad immergersi conoscendone a memoria dettagli, scenari, retroscena e personaggi.
  L'unico momento nel quale Israele discute a voce alta del conflitto che lacera l'Europa è quando il premier Naftali Bennett fa la spola con Kiev e Mosca, incontra Zelensky e Putin, lavora ad una mediazione che assegna allo Stato ebraico il ruolo di una "neutralità" tanto insolita quanto rivoluzionaria per una nazione che ha combattuto sulla propria esistenza alcuni dei conflitti più feroci della Guerra Fredda, sempre schierata con l'Occidente contro dittatori, regimi e terroristi arabi sostenuti, armati e finanziati dall'Urss.
  Ma proprio questa "neutralità" è la cima dell'iceberg, ovvero l'enorme somma di valori, ricordi, interessi ed emozioni che dimostra il legame unico di Israele con entrambi i Paesi in guerra. Il primo e fondamentale motivo è che almeno il 15 per cento degli oltre 9 milioni di israeliani è originario dall'ex Urss, in gran parte si tratta di russi ed ucraini, e ciò fa dello Stato ebraico "l'unica nazione russofona fuori dai confini della disciolta Unione sovietica" come Vladimir Putin ama ripetere in pubblico. L'unica non-ex-sovietica dove, a Netanya, è stata eretta una statua al Soldato Russo protagonista della Grande Guerra Patriottica contro il nazifascismo. Ciò significa che ogni israeliano conosce, lavora, studia con almeno un russo o un ucraino, se non lo è lui stesso. Per non parlare delle origini del movimento sionista nel "Pale of Settlement" - che includeva l'Ucraina - spazzato dai pogrom della Russia zarista o le sue infinite interazioni - patti, convergenze occasionali e lacerazioni dolorose - con i gruppi rivoluzionari che generarono bolscevichi e menscevichi. Non c'è terra più legata alle origini di Israele della Russia, Ucraina compresa.
  Se nel 1903 il poeta Haim Bialik scrive nella regione ucraina della Volhyna il poema sul feroce pogrom nella moldava Kishineff, Shalom Aleichem ambienta in Ucraina il racconto su Anatevka da cui nascerà Il violinista sul tetto, Yosef Agnon nasce a Buchach, Rabbi Nachman crea a Breslov il suo movimento di hassidim e il grande rabbino Israel bel Eliezer - il Baal Shem Tov - vive e studia a Podolia è perché nel triangolo fra Leopoli, Kharkiv e Odessa c'è uno spazio immanente di storia, vita e fede ebraiche che è sopravvissuto fino ad oggi. A dispetto degli orrendi massacri con cui i nazisti, affiancati dai volontari ucraini, eliminarono durante la Seconda Guerra Mondiale la quasi totalità degli oltre 2,5 milioni di ebrei che vi vivevano nel 1941, quando l'"Operazione Barbarossa" - l'invasione tedesca dell'Urss - ebbe inizio. Pogrom zaristi, massacri cosacchi, eccidi nazisti ed antisemitismo sovietico fanno della terra ucraina uno degli angoli d'Europa dove negli ultimi secoli sono stati assassinati più ebrei. La melodia Dona, Dona, che quasi ogni bambino israeliano conosce, racconta di un angelo che dopo aver volteggiato in cielo sceglie a caso un capretto - per evocare il sacrificio - annunciandogli che "andrà al macello" perché "questa volta tocca a te". Ovvero, il peggio è in agguato per ognuno di noi.
  Ma ciò non toglie che è proprio in Ucraina, come in Russia, che l'ebraismo contemporaneo ha le sue radici. Lo confermano le origini famigliari di un numero impressionante di leader politici, ufficiali e imprenditori israeliani, la popolarità dell'ex dissidente Natan Sharansky, nato a Donetsk, e i pellegrinaggi dei seguaci di Nachman di Breslav - centinaia di migliaia - che hanno continuato ad arrivare a Kiev fino quasi all'inizio del conflitto. Per non parlare delle dozzine di rabbini Lubavitch che, dalla fine dell'Urss, erano tornati in Ucraina con le loro famiglie per far risorgere l'ebraismo nella terra di Babyn Yar, l'orrenda strage compiuta da nazisti e polizia ucraina nel settembre 1941, quando in 48 ore vennero sterminati e gettati nelle fosse comuni 33.771 ebrei di ogni età. Il confine fra Russia e Ucraina passa dentro l'identità di milioni di ebrei divenuti israeliani e quando il conflitto è iniziato, la lacerazione ha dilagato. Se la maggioranza della popolazione - il 67 per cento secondo i sondaggi - è schierata senza esitazioni con il Paese aggredito ed il municipio di Tel Aviv si è illuminato con i colori giallo-blu dell'Ucraina, la scelta del governo Bennett è stata di incarnare l'interesse primo, e fondamentale, dello Stato: salvare, proteggere gli ebrei in pericolo. Non solo gli almeno duecentomila cittadini ucraini ma anche gli oltre seicentomila che ancora vivono in Russia. Nessun Paese al mondo è altrettanto esposto nei Paesi protagonisti del conflitto iniziato il 24 febbraio scorso.
  A suggerire che il cuore del Paese batte per l'Ucraina è la scelta dei proprietari del "Bar Putin" sulla centralissima Rechov Yafo di Gerusalemme che hanno velocemente modificato l'insegna in "Bar Zelensky". Ma è la "neutralità" formale che consente a Israele di accogliere ebrei ucraini in fuga dalla guerra ed ebrei russi in fuga dalla repressione di Putin come anche quegli oligarchi ebrei, da anni residenti in Gran Bretagna, a cui il governo di Londra nell'arco di pochi giorni ha applicato ferree sanzioni e tolto tutto, inclusa la possibilità per i figli di andare a scuola. Il risultato è una aliyà - immigrazione verso Israele - con numeri ancora imprecisi ma assai significativi. Secondo l'Agenzia ebraica siamo già a 8.800 immigrati ucraini, 5.800 russi e 400 bielorussi, ma sono stimati in "decine di migliaia" quelli che hanno iniziato il processo di immigrazione, passando dai campi di accoglienza creati nei Paesi che confinano con la zona di guerra.
  A gestirli sono volontari madrelingua russi, uomini e donne immigrati loro stessi dall'Urss anni fa, che ora si trovano ad aiutare chi allora scelse di rimanere. Vestono magliette blu, portano le insegne con la stella di David: vanno e vengono in continuazione dall'aeroporto "Ben Gurion" protagonisti di un ponte aereo che fa venire le lacrime agli occhi a quei sopravvissuti della Shoà che, guardandoli, si chiedono "come sarebbe stata diversa la Storia se anche allora avessimo avuto un luogo dove andare". Come dice Sharansky: "Quando c'era l'Urss essere ebreo era una dannazione, significava non poter studiare o emigrare, oggi invece essere ebreo significa avere qualcuno che viene a soccorrerti sul confine della guerra". Per gli israeliani è la prova della necessità dell'esistenza dello Stato, della sua vocazione originaria, la dimostrazione che ad oltre cento anni dal primo Congresso sionista di Basilea e dalla pubblicazione del testo "Lo Stato ebraico di Teodoro Herzl", il bisogno di avere uno Stato-rifugio, capace di proteggere gli ebrei, non potrebbe essere più attuale. Ma non è tutto perché la "neutralità" che consente a Israele di avere canali aperti tanto con Kiev che con Mosca ha anche un'altra genesi che sa di realpolitik: la presenza militare russa in Siria. "Da quando i russi sono arrivati nel settembre 2015 abbiamo con loro un accordo strategico de facto - spiega una fonte diplomatica israeliana - che ci consente con l'aviazione di operare contro obiettivi iraniani e filo-iraniani". Il timore israeliano è duplice: una rottura con la Russia capace di far evaporare l'intesa sulla Siria o il ritiro dei russi consentirebbe di trarne vantaggio all'Iran, nemico giurato numero 1 di Gerusalemme.
  Ecco perché il premier Bennett misura i termini sull'Ucraina, lasciando al ministro degli Esteri Yair Lapid declamare davanti alle tv le posizioni più anti-russe sui "crimini di guerra commessi". In un equilibrio difficile che vede Israele votare all'Onu contro la Russia - sull'invasione e sull'espulsione dal Consiglio Diritti umani - e anche sedersi a Ramstein al tavolo della "Global Nato" ma senza partecipare alle sanzioni economiche. Come spiega Elliott Abrams, veterano del Dipartimento di Stato oggi al "Council on Foreign Relations" di New York, "Israele è lo Stato occidentale con migliori relazioni con il Cremlino". Ecco perché Victoria Nuland, sottosegretario di Stato Usa, ammonisce Israele "a non diventare il paradiso dei soldi sporchi che finanziano le guerre di Putin" mentre il Cremlino si scaglia contro Lapid accusandolo di "parlare di Ucraina solo per far dimenticare il dramma dei palestinesi".
  "La verità è che siamo alleati stretti degli Stati Uniti - spiega un'alta fonte diplomatica a Gerusalemme - ma non possiamo dimenticare di avere al Nord un confine diretto con l'esercito russo". È una situazione senza precedenti nella vita dello Stato ebraico che spiega l'importanza di un saggio pubblicato nel 2000 da Vittorio Dan Segre - storico e scrittore italiano, divenuto in Israele collaboratore di Shimon Peres e quindi ambasciatore in più Paesi africani - sul tema "neutralità e coesistenza in Medio Oriente" dove spiegava che la vocazione naturale del progetto sionista era "non appartenere a schieramenti" perché "gli ebrei sul Sinai ricevettero i Dieci Comandamenti per custodirli e trasmetterli all'umanità intera". Senza eccezioni.

(la Repubblica, 28 aprile 2022)
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Il cauto "neutralismo" politico di Israele contrasta fortemente con il pressoché totale allineamento della diaspora ebraica italiana alla narrazione filogovernativa antirussa sostenuta da tutti i media "importanti". Il compatto adeguamento acritico alla tesi di una martellante, sfacciata, menzognera, mai vista prima d'ora propaganda di regime risulta addirittura sconcertante a un osservatore non prevenuto. M.C.

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Israele - Ora il premier pagherà il cibo per la famiglia

l primo ministro israeliano Naftali Bennett, imprenditore milionario, ha dichiarato che da ora in poi pagherà lui le spese per il cibo della sua famiglia. Nei giorni scorsi era scoppiata una bufera dopo che un servizio tv aveva rivelato di come avesse speso oltre 7 mila dollari al mese dei contribuenti per gli asporti. «È conforme alle regole ma d'ora in poi pagherò io» ha detto il premìer.

(Corriere della Sera, 28 aprile 2022)

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Missili israeliani sulla periferia di Damasco: 9 morti

Nelle stesse ore l'esercito entra a Jenin

di Michele Giorgio

Il bilancio è pesante: nove morti e alcuni feriti. È stato l'attacco più letale lanciato da Israele, nella notte tra martedì e mercoledì, contro la Siria dall'inizio dell'anno. E può essere letto in due modi. Il governo Bennett ha reagito al peggioramento dei rapporti con Mosca - a causa del maggior appoggio, rispetto a due mesi fa, offerto da Israele all'Ucraina - sfidando Vladimir Putin che pure da anni consente i bombardamenti israeliani in Siria dove opera l'aviazione russa in appoggio alle forze armate siriane. Oppure le ultime tensioni tra Mosca e Tel Aviv non hanno avuto alcun impatto sulle relazioni tra i due paesi e Putin continua a garantire a Israele piena libertà di azione nei cieli siriani.
  I media statali siriani hanno dato risalto al raid subito che ha preso di mira, con missili, obiettivi imprecisati alla periferia di Damasco. Non è chiaro se i missili siano stati sganciati da aerei o lanciati da rampe di terra. Il ministero della difesa siriano ha detto che sono partiti dal nord di Israele poco dopo la mezzanotte e che la maggior parte è stata abbattuta. Quelli andati a segno hanno causato danni materiali e diverse vittime. I media ufficiali parlano di nove morti, cinque soldati e quattro civili. Fonti locali aggiungono che il raid, su diversi sobborghi di Damasco, avrebbe preso di mira depositi di armi di milizie alleate dell'Iran. Nelle stesse ore l'esercito israeliano è entrato nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, dove, in uno scontro a fuoco, ha ucciso un diciottenne palestinese, Ahmed Massad.
  NESSUN COMMENTO da parte di Israele che ha lanciato centinaia raid in Siria contro, afferma, postazioni di combattenti legati all'Iran e spedizioni di armi dirette alle milizie filo-Tehran. L'attacco missilistico dell'altra notte potrebbe essere stato un messaggio alla Repubblica islamica nel momento in cui i negoziati sul programma nucleare iraniano sono di nuovo fermi. Appena due mesi fa, prima dell'offensiva russa contro l'Ucraina, le trattative a Vienna per il rilancio dell'accordo internazionale Jcpoa sembravano vicine al risultato sperato da tanti - ma non da Israele - con l'approvazione degli Stati Uniti. La guerra in Ucraina e il conseguente scontro duro tra Washington e Mosca - entrambe devono garantire il Jcpoa - hanno avuto un riflesso immediato sulle trattative in Austria. E nelle ultime settimane le parti coinvolte hanno posto nuove condizioni. L'Iran si dice pronto a concludere i colloqui e accusa l'Amministrazione Biden di aver avanzato «richieste eccessive» per ritardare il rilancio dell'accordo. Gli Stati uniti affermano che Teheran vuole concessioni «oltre la portata del Jcpoa». Un riferimento alla richiesta iraniana di togliere i Guardiani della Rivoluzione iraniana dalla lista FIO statunitense delle organizzazioni terroristiche straniere. Una possibilità contro cui si batte Israele che ha chiesto aiuto ai suoi alleati negli Usa per fare pressioni sulla Casa Bianca. Biden, aggiunge Teheran, sarebbe riluttante a fare le concessioni necessarie perché teme di fornire munizioni agli avversari repubblicani in vista delle elezioni di medio termine a novembre.
  INTANTO ha destato clamore l'intervista in cui l'ex deputato Ali Motahari afferma che i dirigenti politici iraniani inizialmente intendevano «sviluppare una bomba atomica» ma furono fermati da una fatwa dell'ayatollah Khamenei che vieta lo sviluppo di armi nucleari. Smentisce tutto l'Organizzazione per l'energia atomica dell'Iran secondo la quale il programma nucleare iraniano «non è mai stato concepito per essere militarizzato».

(il manifesto, 28 aprile 2022)

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Durissimo attacco israeliano in Siria. Quattro militari morti

Colpiti un carico di munizioni destinato a Hezbollah e alloggiamenti per “personale” iraniano nella periferia di Damasco. E le difese russe che fine hanno fatto?

Il ministero della Difesa siriano ha dichiarato questa mattina che quattro soldati sono stati uccisi e altri tre feriti in un attacco missilistico israeliano su Damasco.
  Secondo il canale di notizie saudita Al Hadath l’obiettivo dell’attacco era un carico di armi destinato a Hezbollah.
  Fonti locali riferiscono che i missili israeliani avrebbero colpito un’area dell’Aeroporto Internazionale di Damasco riservata ai carichi di materiale provenienti dall’Iran.
  Le stesse fonti affermano che ad essere attaccati sono stati anche aree nei sobborghi della capitale siriana destinati ad ospitare personale militare iraniano.
  L’ultimo attacco israeliano in Siria era avvenuto il 14 aprile quando ad essere colpiti da diversi missili erano state postazioni dell’esercito siriano nei pressi di Damasco.

• CHE FINE HANNO FATTO LE DIFESE RUSSE?
  In questo susseguirsi di attacchi israeliani che sembrano prendere di mira sempre più spesso postazioni dell’esercito siriano piuttosto che iraniane o di Hezbollah, la costante è la scomparsa delle difese russe.
  Non che anche prima siano mai riuscite a fermare gli attacchi israeliani in Siria – centinai negli ultimi anni – ma almeno ci provavano. Adesso i missili israeliani affondando nel burro.
  Nelle ultime ore si era sparsa la notizia che voleva i militari russi e le attrezzature di difesa aerea richiamati in Russia a causa delle difficoltà nel conflitto con l’Ucraina.
  Al momento, sebbene sia altamente probabile, questa notizia non ha trovato conferme ufficiali. Tuttavia il silenzio siriano che segue gli attacchi israeliani è tipico di chi sa di essere colto con le mani nella marmellata e di non avere difese.
  Oltre a ciò, la Russia garantiva protezione alla Siria ma non alle truppe iraniane in Siria o ad Hezbollah. Ebbene, gli ultimi due importanti attacchi israeliani in Siria sono stati portati contro obiettivi chiaramente siriani e non sembra che la Russia si sia particolarmente “offesa” per questo. Che la Russia stia veramente abbandonando la Siria?

(Rights Reporter, 27 aprile 2022)

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Tensioni israelo-palestinesi: un gioco di azione e reazione propagandistica

di Nello Del Gatto

Chi segue le vicende mediorientali in questi giorni ha la sensazione di continui déja-vu. Scontri tra polizia e manifestanti sulla Spianata delle Moschee o Monte del Tempio, marce di estremisti ebrei dinanzi ai luoghi musulmani, esposizione di bandiere e striscioni pro-Hamas nei luoghi sacri islamici, razzi da Gaza e conseguente risposta militare di Israele sulla Striscia, blocco degli accessi per i palestinesi. Un copione che si ripete troppe volte, che per un breve lasso di tempo sembrava sopito e che l’anno scorso, a maggio, ha portato allo scontro armato tra la Striscia e l’esercito israeliano, che ha lasciato quasi trecento vittime totali.
  In nessun altro luogo del mondo, l’applicazione della terza legge della dinamica sull’azione e reazione, anche se è difficile stabilire se uguale, inferiore o superiore, avviene come qui in termini politici. Quasi come se le parti si aspettassero azioni. Per ragioni diverse.

• IL DECLINO DELL’AUTORITÀ NAZIONALE PALESTINESE
  Dal lato palestinese, la situazione è alquanto chiara. Il governo in carica e, soprattutto, l’amministrazione statale (se di Stato si può parlare applicato all’Autorità nazionale Palestinese), ha perso gran parte del sostegno popolare. Le folle infiammate da Arafat sono un lontano ricordo. Fatah a guida Abu Mazen è solo un lontano ricordo del movimento che per anni ha portato in giro per il mondo, nei consessi internazionali e nei teatri di guerra e nelle piazze del terrore, le istanze del popolo palestinese.
  Oggi Fatah e l’ottuagenario leader di Ramallah hanno perso il consenso che avevano, soprattutto per essere considerati corrotti, collusi con l’oppressore, attaccati alle poltrone e incapaci di mantenere le promesse. Come quelle di tenere elezioni, che mancano dal 2006 e che sono state cancellate all’ultimo l’anno scorso aumentando la frustrazione popolare.
  C’è una intera generazione di giovani che in Palestina non ha mai votato, che si convince e abbraccia la lotta armata perché vede questa come unica via verso la nascita dello stato palestinese. E questo, anche grazie al grande, in senso quantitativo, lavoro comunicativo sotterraneo che Hamas e i suoi sodali hanno fatto fuori dalla Striscia. Soprattutto nelle università, dove negli ultimi tempi hanno trovato terreno fertile fra i giovani scontenti.

• VIOLENZA COME STRATEGIA PROPAGANDISTICA
  Hamas sa che lanciare razzi contro Israele è una mossa comunicativa. I danni che riesce a provocare (volontariamente o involontariamente) sono irrisori, sia per le capacità belliche dello Stato ebraico, sia per un arsenale che, seppur fornito, a volte dà l’impressione di essere inadeguato.
  Nessuna azione terroristica, nessun lancio di razzi contro civili o militari, nessun uso di armi può essere tollerato: Hamas lo fa perché sa che così dimostra di essere l’unico baluardo difensore verso l’autodeterminazione palestinese. Propaganda. La stessa a cui si attiene Israele quando, di risposta, bombarda obiettivi militari di Gaza, per dare una risposta ad una popolazione che vede un governo governare senza maggioranza, che comincia a rimpiangere i tempi dell’uomo forte Netanyahu, durante i quali si sono registrati pochi casi del genere.
  Provocazioni. Come quelli dei gruppi estremisti di destra, coloni, che non riconoscono neanche lo stato di Israele, e che hanno annunciato di voler sacrificare un agnello sul Monte del Tempio come si faceva al tempio di Cristo e prima. Lo Shin Bet, i servizi interni israeliani, non li ha neanche fatti finire di parlare che ha arrestato immediatamente i sei che avevano annunciato il sacrificio, che poi vorrebbero anche ricostruire il tempio, il terzo, sul luogo dove Isacco sarebbe dovuto essere sacrificato da suo padre Abramo. Dopotutto i rabbini ebrei vietano ai fedeli di andare a pregare sul Monte. Questo perché, poiché non ci sono mappe dettagliate di come doveva essere il tempio distrutto prima dagli assiro Babilonesi nel 586 a.C. e poi dai Romani nel 72 d.C., si rischia di calpestare suolo sacerrimo.
  Eppure, solo l’annuncio è bastato ad altri “propagandisti” di professione per innalzare i toni, mischiandosi tra i fedeli musulmani sulla Spianata per le preghiere di Ramadan. Infiltrati terroristi hanno brandito e sventolato bandiere di Hamas, innalzato striscioni inneggianti alla guerra Santa, accumulato e lanciato pietre contro fedeli, ebrei e poliziotti, creato barricate, sparato fuochi di artificio contro gli agenti. Aspettandosi la ovvia reazione degli agenti di polizia.
  Provocazioni dentro e fuori, con la chiusura ai palestinesi dei check point se non a donne, bambini e over 50; marcia della destra ebraica sotto il naso dei musulmani alla porta di Damasco vietata, bloccata e deviata dagli agenti. Il tutto contornato dalla solita ridda di accuse, reciproche, e di condanne da parte dei paesi arabi. Gli stessi che però negli ultimi tempi hanno mostrato grande insofferenza verso le politiche di Ramallah, e che invece si sono avvicinati a Israele.

• PROSPETTIVE PER IL PROSSIMO FUTURO
  La fine del periodo delle feste religiose più importanti (Ramadan per i musulmani, Pasqua per gli ebrei), che quest’anno è coinciso, dovrebbe portare un allentamento delle tensioni. Difficile che si possa arrivare a una terza intifada o ripetere quanto successo a maggio scorso, anche se sotto il fuoco cova molta cenere rappresentata dagli stessi irrisolti problemi e dalle risposte non date da governi inesistenti.
  Israele deve affrontare una nuova crisi politica nella quale Netanyahu è sempre più avanti e sfrutterà questo momento con la propaganda del “si stava meglio quando si stava peggio”. L’Autorità Nazionale Palestinese deve inventarsi qualcosa per riprendere il consenso soprattutto tra i giovani con iniziative che dovrebbero rosicchiare consensi ad Hamas e simili e andare alle elezioni. O, come chiedono in molti, avere il coraggio di sciogliersi, facendo ricadere la patata bollente su Israele.

(Affari Internazionali, 27 aprile 2022)

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La vera storia della Brigata ebraica

Chi la fischia in corteo dovrebbe leggere il filosofo Jonas che ne raccontò le imprese

di Alessandro Gnocchi

Come ogni anno, la Brigata ebraica è stata fischiata al corteo del 25 aprile di Milano. Speriamo sia soltanto ignoranza e non pregiudizio razzista. Per la prima c'è rimedio, per il secondo quasi mai. Gli analfabeti di andata e di ritorno potrebbero, ad esempio, leggere il discorso che il filosofo Hans Jonas tenne in occasione del Premio Nonino 1993. È intitolato Razzismo e si può leggere in appendice al saggio Il concetto di Dio dopo Auschwitz ( edito dal Melangolo ).
  Prima di entrare nel merito alcune informazioni. Hans Jonas è un filosofo tedesco, naturalizzato statunitense, allievo di Martin Heidegger e compagno di studi di Hannah Arendt. Ha scritto volumi fondamentali sullo gnosticismo e sull’etica nell'età tecnologica, trattando temi cruciali come la clonazione, l'eutanasia, l'eugenetica.
  All'ascesa del nazismo, Jonas decide di cambiare aria e si trasferisce prima in Inghilterra e poi in terra d'Israele. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si arruola. Nel 1940 è in armi. Nel 1944 entra a far parte della appena costituita Brigata ebraica (prima esistevano brigate a prevalenza ebraica, ma nessuna esibiva la stella di David). La Brigata ebraica risale l'Italia da Taranto a Udine, contribuendo in misura decisiva alla Liberazione del nostro Paese. Il viaggio della Brigata prosegue fino alla Germania ormai sconfitta. Non sarà l'ultima guerra di Jonas, che ha partecipato anche alla guerra arabo-israeliana del 1948. In seguito si trasferirà a New York, diventando cittadino americano.
  Hans Jonas ha raccontato i suoi anni in divisa, e in particolare il periodo dei combattimenti in Italia. Il suo discorso del 1993 è un capolavoro di
  umanità ed equilibrio. C'è spazio naturalmente per la condanna del razzismo italiano ma anche la consapevolezza che tale razzismo non aveva corrotto l'intera popolazione. Per questo, Jonas ha scritto di aver sempre sentito un legame stretto con l'Italia.
  Tornasse ora, vedrebbe gli spregevoli razzisti italiani in azione nel Paese che la Brigata ebraica ha salvato impugnando le armi e rischiando la vita. Il filosofo potrebbe toccare con mano come il razzismo contemporaneo utilizzi le parole dell'antirazzismo: per questo è così difficile da contrastare. L'antisemitismo infatti si nasconde dietro alla solidarietà per il popolo palestinese.
  Chi contesta i liberatori, perché ebrei, suscita soltanto nausea. Per i pecoroni fischianti che si aggregano senza neppure saperne il motivo, proponiamo in questa pagina una parte del discorso di Hans Jonas.

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«Risalimmo lo stivale da Taranto fino a Udine»

Hans Jonas era tra i combattenti con la stella di Davide: ecco cosa vide durante la Liberazione. Estratto dal discorso del 1993.

di Hans lonas

Quando, nel dicembre scorso, la notizia della decisione della Giuria mi ha raggiunto a casa mia in America, il piacere della sorpresa è stato per un attimo offuscato dalla voce ammonitrice del mio recente voto di non fare più viaggi transatlantici nel mio novantesimo anno o in quelli che verranno. Solo per un momento. Poi il mio sguardo cadde sul nome fra parentesi, «Udine» vicino «Percoto» -, e con la forza di una convinzione invincibile, contro ogni consiglio di prudenza, capii che dovevo andarci!
  Perché per la casualità della storia quel nome segna una pietra miliare nella mia vita e racchiude uno dei suoi più indimenticabili ricordi. Fu a Udine, all'inizio dell'estate del 1945, che la Seconda Guerra Mondiale finì per me - cinque anni da soldato contro Hitler nello scenario Mediterraneo. Qui dopo la resa della Germania il mio reparto, il Gruppo Brigata Ebraica dell'ottava Armata Britannica, si fermò a riposare nel suo lungo viaggio da Taranto verso il Nord. Eravamo tutti volontari della popolazione ebraica della Palestina (sotto mandato britannico), molti provenienti da paesi europei di lingua tedesca caduti sotto la dominazione nazista. Avevamo insistito per avere un'identità riconosciuta come forza combattente ebraica e in realtà eravamo facilmente riconoscibili da insegne come la Stella di David sulle nostre uniformi.
  Così accadde ancora e ancora, nel nostro lento avanzare lungo l'Italia, che ebrei sopravvissuti, uscendo dai loro nascondigli - per la maggior parte donne - ci salutassero e ci raccontassero le loro storie. Da loro ricevemmo la prima idea della vera portata dell'orrore dell'Olocausto, ma anche ascoltammo storie commoventi di coraggiosa pietà e umanità fra gli italiani, a cui essi dovevano la loro sopravvivenza - un necessario antidoto contro l'oltraggio crescente dei nostri cuori. La più commovente di queste storie mi fu raccontata personalmente qui a Udine e la riporto al suo luogo di origine in questa visita dopo circa mezzo secolo, in modo che la luce, nel buio, non sia dimenticata.
  Una mattina alcuni di noi passeggiavano nell'indaffarata piazza del mercato, quando due anziane signore ci avvicinarono. Quando scoprimmo che parlavano fluentemente il tedesco, toccò a me ascoltare la loro storia. Erano sorelle di Trieste, appartenenti a una benestante famiglia Austro- Ebraica, cittadine italiane dal 1919, una vedova, l'altra nubile, che avevano vissuto assieme tranquillamente nella loro città natale fino ai primi anni della guerra. Poi, un giorno, sentirono che anche a Trieste si era cominciato a radunare gli ebrei per deportarli in Germania. In tutta fretta, fecero due valigie, presero contante e gioielli, e corsero alla stazione dove comperarono i biglietti per un luogo dove nessuno le conoscesse e potessero trovare rifugio. Mentre si avvicinavano all'ingresso del binario raggelarono. Vicino al controllore stava una di quelle temute guardie fasciste a controllare i documenti di identità. Immobili e prossime alla disperazione, notarono un dirigente delle ferrovie che faceva loro segno di nascosto, seguendo le sue indicazioni mimate passarono attraverso un cancello non vigilato e riuscirono a salire sul treno. Udine andava bene per fare un tentativo: nessuno le conosceva e non conoscevano nessuno. Trovarono una soffitta non arredata in affitto, la presero, e, come inizio, si accontentarono di questo rifugio. Alcuni giorni dopo, un furgone si fermò sotto la casa, furono scaricati due letti, portati fino alla loro porta e consegnati con il messaggio orale che sua eminenza l'Arcivescovo aveva saputo della loro situazione e desiderava rendere un po' più confortevole la loro nuova dimora.
  Nei lunghi mesi che seguirono, le due donne, straniere non registrate, senza tessere annonarie, furono costrette a vendere, pezzo dopo pezzo, i loro gioielli per comperare cibo al costoso mercato nero. Un giorno vennero a sapere di una venditrice che in un'altra parte della città aveva del lardo da vendere. Le loro riserve si stavano esaurendo, ma l'occasione era troppo rara per lasciarsela sfuggire. Un altro gioiello fu venduto in tutta fretta e giunsero in tempo per comperarne un prezioso chilogrammo - ad un prezzo esorbitante, naturalmente. A tarda notte, nello stesso giorno, sentirono bussare alla porta. Spaventate aprirono - davanti a loro stava il cinico operatore del mercato nero che disse: «Perdonatemi, per favore. Non sapevo chi foste quando vi ho venduto quel lardo questa mattina. Mi è stato detto dopo e sono venuta a scusarmi. Da voi non voglio denaro», gettò loro una busta con tutte le loro banconote, si girò e scomparve. Finita quella storia, il narratore aggiunse «e ora, forse, capirete perché noi due non emigreremo in Palestina (dato che noi della brigata Ebraica invitavamo tutti i sopravvissuti che incontravamo), ma desideriamo vivere fra gli italiani». Da parte mia, ho conservato questa storia per tutta la vita come una sacra fede.
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Dal testo della conferenza intitolata «Razzismo», letto a Percoto in occasione del Premio Nonino del 1993

(il Giornale, 27 aprile 2022)

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Israele: rinvenuta rara forchetta di bronzo del periodo talmudico

di Jacqueline Sermoneta

Forchetta
di bronzo
Scoperta nel sito archeologico di un villaggio ebraico di 1.500 anni fa, a nord d’Israele, una rara forchetta di bronzo, risalente al periodo talmudico (IV – VI sec).
  L’oggetto, secondo quanto riportato dall’Israel Nature and Parks Authority, è stato rivenuto esattamente nel Parco Nazionale di Korazim, poco distante dal Mare di Galilea.
  In questo luogo, negli ultimi anni, sono state promosse attività per permettere a famiglie e giovani di partecipare ai lavori di scavo. “Una ragazza – ha spiegato l’archeologo Ahia Cohen-Tavor - mi ha detto di aver trovato qualcosa di interessante. Non mi aspettavo di vedere una forchetta. Non era mai capitato. A volte si trovano semplici coltelli di ferro, ma in genere gli utensili sono molto rari”. Gli archeologi, infatti, ritengono che gli oggetti utilizzati più comunemente fossero i cucchiai di legno, che però non si sono conservati.
  Lo studioso ha anche aggiunto che la forchetta, decorata con una tecnica complessa, era probabilmente considerata un bene molto prezioso.
  Nell’area archeologica sono stati portati alla luce anche un orecchino con pendenti, frammenti di ceramica e vasi di vetro.

(Shalom, 27 aprile 2022)

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Giorgetti in Israele per l'oro azzurro

Il ministro a Gerusalemme prova a rilanciare Eastmed, la pipeline finora accantonata in favore del Nord stream 2. Incontri anche con la società che produrrà chip in Brianza.

di Gianluca Baldini

Anche Israele è interessato alla realizzazione del gasdotto Eastmed. Ad assicurarlo è il ministro italiano dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, dopo il suo incontro a Gerusalemme con Karine Elharrar, ministro israeliano di Infrastrutture nazionali, energia e risorse idriche. Il vicesegretario federale della Lega è stato nel Paese mediorientale due giorni, il 24 e il 25 aprile.
  «Israele si conferma partner importante per diversificare approvvigionamento energetico anche tramite Gnl», ha detto. «La crisi che stiamo vivendo non è solo economica», ha ricordato Giorgetti riferendosi all'invasione russa in Ucraina. «Dobbiamo riflettere sul fatto che, in un futuro prossimo, la posizione dell'Italia nel Mediterraneo è centrale e può essere la porta strategica per il passaggio del gas e di altre fonti energetiche verso l'Europa», ha sottolineato. In effetti, la Lega si sta battendo da tempo per rimettere in pista l'ipotesi della costruzione del gasdotto da 1.900 chilometri che porterebbe energia passando da Israele, Cipro, Grecia e l'Italia.
  L'interesse verso quest'opera si è riacceso con lo scoppio della crisi russo ucraina. Prima del conflitto, infatti, ad Eastmed era stato preferito Nord stream 2, infrastruttura energetica ritenuta più interessante per le necessità europee.
  Il gasdotto voluto dalla Lega e in particolare dal deputato Paolo Formentini aveva perso attrattiva durante la pandemia, quando il prezzo del metano era sensibilmente sceso e il progetto era stato messo da parte anche dagli Stati Uniti. Ora però le carte in tavola sono cambiate e tutto il Parlamento appare compatto sulla realizzazione di Eastmed,
  Sempre in Israele, Giorgetti ha incontrato anche Ramat Gavriel, vicepresidente di Tower Semiconductor, società che a fine di quest'anno avvierà la produzione in Brianza con il gruppo italo-francese Stm e che da poco è stata acquisita dalla statunitense Intel. Il ministro ha sostenuto che l'alleanza tra Stm e Intel potrebbe rappresentare «la strada per lo sviluppo della produzione semiconduttori per l'Italia», ricordando che «il governo italiano farà la sua parte».

(La Verità, 27 aprile 2022)

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La Comunità Ebraica di Roma e AS Roma insieme per aiutare i senzatetto della Stazione

di Luca Spizzichino

Iniziativa di solidarietà della AS Roma, insieme alla Comunità Ebraica, la Caritas e i Roma Club. Nelle scorse settimane, delegazioni di queste diverse realtà si sono recate presso la Stazione Termini per distribuire ai senzatetto coperte, guanti e cappelli per far fronte al freddo che ha colpito la Capitale. Per la CER presenti il Vicepresidente Ruben Della Rocca, l'assessore allo sport Roberto Di Porto, il presidente della Deputazione Ebraica Piero Bonfìglioli. La rappresentanza della Caritas era guidata dal Direttore della sede di Roma Giustino Trincia. A rappresentare la società giallorossa è stato Francesco Pastorella, direttore del Roma Department, che ha spiegato a Shalom l'importanza di queste iniziative. «Riteniamo l'AS Roma una piattaforma sociale e cerchiamo di affrontare le problematiche della città, dando anche un buon esempio ai nostri ragazzi». Della Rocca ha sottolineato la volontà della Comunità di partecipare a questo tipo di attività: «Sentiamo il richiamo della Roma, che non è soltanto una società di calcio, ma un emblema della città, e non ci sottraiamo dalle nostre responsabilità». Della Rocca ha ricordato anche l'importanza del Maccabi e della Deputazione Ebraica, sempre in prima linea quando si tratta di aiutare il prossimo.

(Shalom Magazine, aprile 2022)

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Storie italiane della Brigata Ebraica

di Davide Romano*

L’impatto della Brigata Ebraica sull’ebraismo italiano è stato per decenni sottovalutato, troppo spesso relegato al ricordo di tanti singoli correligionari. Probabilmente le comunità ebraiche erano troppo prese dalle difficoltà pratiche del Dopoguerra prima, e dal ricordo della Shoah dopo, per rilanciare queste splendide pagine di storia. Ma negli ultimi decenni, grazie al sempre più diffuso amore per Israele e per il sionismo delle Comunità ebraiche italiane, anche questo è cambiato: dal 2004 infatti, i rappresentanti dell’ebraismo italiano partecipano ai cortei del 25 aprile sotto le insegne della Brigata Ebraica.
  Ma partiamo dall’inizio. Da uno sconosciuto paesino della Calabria. Più precisamente dal campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza. Dove a seguito delle leggi razziali gli ebrei non italiani furono imprigionati prima degli altri correligionari. Fu in questo luogo di costrizione, dove comunque era permesso pregare con tanto di rotoli della Torah, che nasce una delle storie più curiose legate alla Brigata Ebraica. Con la risalita degli Alleati e la liberazione di quel campo, infatti, l’intero Aron ha Kodesh (armadio sacro) fu portato dai soldati delle compagnie ebraiche dell’esercito britannico sempre più su – città dopo città - fino a Milano. Qui ebbe una seconda vita, dopo il 25 aprile del 1945. Dove? La storia è talvolta ironica, e infatti il Comitato di Liberazione Nazionale concesse alla comunità ebraica l’ex sede dei Fasci di Combattimento (sezione Amatore Sciesa) in via Unione 5, dove sorse la prima sinagoga milanese del dopoguerra. Il rabbino del nuovo Bet Ha Midrash milanese fu Rav Frostig Adler, che aveva svolto la stessa funzione nella sinagoga del campo di Ferramonti. Fu l’unico tempio di Milano per qualche anno, fino a quando la sinagoga di via Guastalla fu restaurata. I rotoli della Torah furono portati dal rabbino di Genova, Pacifici.
  Prima di Milano però, vale la pena raccontare le tappe cronologicamente precedenti. L’incontro degli ebrei romani con soldati provenienti dalla terra di Sion è rimasto un ricordo vivido e struggente, che data al giugno del 1944. Quando i combattenti ebrei palestinesi entrarono nella sinagoga di Roma portando la stella di Davide, furono in molti a commuoversi e non credere ai propri occhi. A proposito della presenza di combattenti ebrei a Roma, il soldato Yaacov Foa racconta:
  “Ci fu reso noto che a Roma e nei dintorni si erano organizzati giovani ebrei sotto la guida di soldati venuti dalla Palestina prima di noi. Molti di loro erano sopravvissuti alle persecuzioni, alle razzie dei nazi-fascisti, erano stati colpiti duramente dalla perdita dei loro cari. Essi stavano cercando una soluzione per la vita: inserirsi nei tentativi di ricostruire una Italia nuova o partecipare agli sforzi di realizzare il sogno di rinsaldare il focolare ebraico in Eretz Israel, insieme alle migliaia di ebrei profughi che cominciavano ad arrivare in Italia dai campi di concentramento e di sterminio […] I soldati che ci avevano preceduto aiutarono in tutte le maniere […] organizzarono riunioni, lezioni di ebraico, ma anche sistemarono posti di rifugio, di raccolta, scuole, case per bambini rimasti senza famiglia.”
  Per quanto riguarda Napoli, la storia è ancora più curiosa: visto che le prime truppe di soldati sionisti palestinesi sbarcarono addirittura nel settembre 1943, e i volontari della 739esima e della 745esima compagnia costruirono ben tre ospedali militari nella città. I volontari sionisti si spesero molto per prestare assistenza ai profughi e il loro ricordo rappresenta ancora una forte emozione in chi li ha incontrati.
  Come è giusto, chiudo questo pezzo con un po’ di ironia ebraica, ringraziando chi ci contesta ogni 25 aprile: grazie alle loro azioni tutti i media hanno dovuto spiegare la storia dei soldati della Brigata, aiutandoci in un’opera di divulgazione altrimenti assai difficile.
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* Direttore del Museo della Brigata Ebraica

(Shalom, 25 aprile 2022)

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Shoah: presentato a Gerusalemme libro 'Siamo qui, siamo vivi'

ANCONA - È stato presentato nei giorni scorsi a Gerusalemme, davanti al presidente dello Stato di Israele, Isaac Herzog, il libro "Siamo qui siamo vivi", scritto dal giornalista pesarese Roberto Mazzoli con prefazione di Liliana Segre. Il libro pubblicato da San Paolo nel 2017, è stato tradotto dalla casa editrice Gefen e già distribuito nelle scuole israeliane. La presentazione è avvenuta a ridosso del 25 aprile, festa della Liberazione italiana, perché la storia della famiglia Sarano raccontata nel libro si intreccia con la guerra partigiana che nelle Marche vide una nutrita presenza di ebrei poi confluiti nella Brigata ebraica. Il libro ha riportato alla luce il diario inedito di Alfredo Sarano, segretario della Comunità ebraica di Milano, che nel 1944 riuscì a nascondere le liste di oltre 14mila ebrei milanesi, salvandoli così in larga parte dai campi di sterminio nazisti. In seguito Sarano, con la sua famiglia composta da sette persone, fuggì a Mombaroccio sulle colline di Pesaro. Qui furono nascosti da alcuni contadini del posto, i Ciaffoni, e vennero protetti dai frati francescani che aprirono le porte del convento del Beato Sante per dare rifugio a diverse decine di perseguitati. Ma la salvezza della famiglia Sarano è legata anche alla figura di Erich Eder, giovane comandante della Wehrmacht di fede cattolica che, dopo aver compiuto un voto davanti all'urna del Beato Sante, scelse di non deportare nessun ebreo. Per quel gesto oggi Eder è riconosciuto tra i "Giusti" nel giardino internazionale Gariwo.
  Una storia talmente straordinaria che nei prossimi mesi uscirà un documentario di Daniele Ceccarini. Nel 2023 è previsto l'inizio delle riprese di un film prodotto da Arman Julian, produttore indipendente di Los Angeles.

(ANSA, 25 aprile 2022)

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"Se questo è il Messia, io mi converto all'Islam"

Ancora una volta il tema del Messia e della speranza di salvezza riaffiora nella politica nazionale di Israele.

La lleader della coalizione Idit Silman è stata persuasa a lasciare il governo da rabbini che parlavano della salvezza e della venuta del Messia?
  I principali media laici israeliani sono rimasti piuttosto perplessi la scorsa settimana nel vedere quanto facilmente la politica dello stato ebraico possa essere scossa da discorsi sulle speranze messianiche e sulla salvezza nazionale.
  Due settimane fa, la leader del gruppo parlamentare Idit Silman ha innescato un terremoto politico quando ha lasciato bruscamente l'attuale governo di unità.
  Silman è un membro del partito di destra Yamina, del primo ministro Naftali Bennett, e in seguito ha dichiarato di non poter più sedere in una coalizione con partiti di sinistra e islamisti, il che, secondo lei, danneggerebbe il carattere ebraico di Israele.
  Secondo il portale di notizie in lingua ebraica Srugim, Silman è stata incoraggiata a fare questo passo drastico da alcuni rabbini, che le hanno detto che indebolendo la coalizione, avrebbe sostenuto la salvezza nazionale di Israele.
  Un giornalista di spicco della testata giornalistica mainstream Ynet ha reagito alla notizia: “Ora capisci come lo Stato di Israele può essere scosso come una nave in un mare in tempesta solo perché alcuni rabbini dicono a una donna che lei è il Messia. E lei ci ha creduto».
  Lo stesso editorialista ha osservato che mentre Silman "si guarda allo specchio e vede il Messia, Netanyahu vede allo specchio l'asino su cui il Messia entra in scena", il che ovviamente è un chiaro riferimento a Gesù e al modo in cui è entrato in Gerusalemme prima della sua morte sacrificale.
  Un altro editorialista mainstream del quotidiano di sinistra Ha'aretz ha twittato che se il Messia si presenta sotto forma di Idit Silman, "allora sono pronto a convertirmi all'Islam".
  L'andirivieni solleva una domanda interessante: in che misura la nostra politica moderna influisce o interferisce con i piani di salvezza di Dio?
  Il mondo cristiano tende a pensare che indipendentemente dalle nostre azioni, la volontà di Dio si compie a suo tempo e quindi la politica ha poca rilevanza per il grande piano di salvezza.
  I rabbini tendono dall'altra parte, soprattutto in un mondo in cui Israele è rinato. Il giudaismo insegna spesso che la volontà divina può essere accelerata, ritardata e persino alterata attraverso l'azione e l'intervento umano. Un esempio biblico spesso citato a questo riguardo è l'intercessione di Abramo per le città peccaminose di Sodoma e Gomorra, o la decisione di Dio di lasciare che Israele vaghi nel deserto per 40 anni sulla base del rapporto delle dieci paurose spie, invece di entrare subito nella Terra Promessa.

(israel heute, 25 aprile 2022 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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E' comunque un fatto emblematico che Israele è l'unica nazione al mondo in cui l'argomento "messia" entra nell'attualità politica. Non è così per le nazioni "cristiane". M.C.

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Altro che mediatore: per Israele quello con Putin è un matrimonio

Quando anche Israele sarà considerato filoputiniano, e di conseguenza degno di disprezzo, forse anche ebrei e amici d'Israele appassionati difensori delle "libertà democratiche" e convinti sostenitori del globalismo a trazione americana schierato contro i russi si chiederanno se era nell'interesse di Israele, e anche dell'Italia, appoggiare il bellicismo angloamericano. "Dillo, avanti, dillo che sei a favore di Putin. Non lo dici? esiti? allora è chiaro: sei un filoputiniano": è quello che adesso chiedono gli intrattenitori televisivi di regime a ospiti che sulla guerra russo-ucraina si azzardano a tentare di ragionare. E la domanda finirà per essere rivolta politicamente anche allo Stato d'Israele. In questo articolo autori da sempre schierati contro Israele, come Umberto Giovannangeli, Ugo Tramballi e altri, rinfacciano al governo di Israele di non essere abbastanza antiputiniano. Saranno da ricercare in Ucraina, tra i combattenti del battaglione Azov, i veri amici di Israele? M.C.

Motivi interni che s’intrecciano con l’assunto secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”. Questo combinato disposto spiega il rapporto tra Israele e Russia. 

• ALTRO CHE EQUIDISTANZA
  Il primo ministro d’Israele, Naftali Bennett, all’inizio della guerra mossa da Putin all’Ucraina, si era dato molto da fare per accreditarsi come “mediatore” tra Mosca e Kiev. Ma un “mediatore” per essere minimamente credibile deve essere davvero con le carte in regola. Un “mediatore” credibile non può avere troppi interessi in comune con una delle due parti in conflitto, soprattutto quando questa parte è quella dell’aggressore. Ma così è. E questo spiega la freddezza con cui i governanti d’Israele hanno scaricato l’accorato appello al presidente dell’Ucraina, Vlodomir Zelensky, che nel suo video-discorso alla Knesset (il Parlamento israeliano) aveva esortato un sostegno militare, in armi, evocando, lui ebreo, la “soluzione finale” che, a suo dire, Putin sta mettendo in atto in Ucraina. Ma neanche l’evocazione della Shoah ha smosso i governanti israeliani.

• LE RAGIONI DI QUELLA “STRANA ALLEANZA”.
  Globalist le mette a fuoco con alcuni preziosi contributi. Come quello di Michael Hauser Tov. Che su Haaretz rivela: “ Dato il rifiuto ufficiale di Israele di fornire assistenza militare all’Ucraina, una delegazione ucraina ha cercato di acquistare armi da uomini d’affari privati israeliani, secondo fonti presenti a un incontro con il gruppo, anche se è improbabile che tali transazioni si concretizzino. La delegazione, che è stata in Israele per circa una settimana, ha recentemente discusso i modi per condurre affari di armi al di fuori dei canali ufficiali da stato a stato in un incontro con un ex ufficiale superiore delle forze di difesa israeliane, che ora possiede una società di consulenza sulla sicurezza. Gli ucraini hanno chiesto in quell’incontro se potevano comprare armi e munizioni da commercianti privati, secondo le fonti che hanno partecipato. L’ufficiale ha detto loro che non è coinvolto in queste questioni, ma che qualsiasi accordo del genere richiederebbe l’approvazione del ministero della Difesa. Il comitato del ministero della Difesa che rilascia le licenze per l’esportazione di armi è improbabile che approvi qualsiasi accordo di esportazione privata in Ucraina in questo frangente, secondo i funzionari del ministero degli Esteri che prendono parte alle discussioni tenute dal comitato. Due fonti ucraine di alto livello hanno detto che Israele ha congelato tutte le licenze di esportazione di armi all’Ucraina quando è iniziata l’invasione russa. Il ministero della Difesa, che ha una politica di astensione dal commentare gli accordi sulle armi, ha rifiutato di rispondere all’affermazione. I membri della delegazione ucraina hanno anche incontrato la scorsa settimana il ministro degli Esteri Yair Lapid, il ministro degli Interni Ayelet Shaked, il ministro delle Costruzioni e degli Alloggi Zeev Elkin e il presidente della Knesset Mickey Levy. Mentre hanno anche richiesto incontri con i funzionari della difesa israeliana, sembra che tali incontri non abbiano avuto luogo. I membri anziani della delegazione sono Serhiy Shefir, che è uno degli aiutanti anziani del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy; Olha Vasylevska-Smahliuk, un membro del parlamento ucraino; e Hennadii Nadolenko, un ex ambasciatore ucraino in Israele. Shefir era precedentemente il direttore dello Studio Kvartal 95, la società di intrattenimento in cui Zelenskyy, un ex attore televisivo e comico, è salito alla fama”. Così Hauser Tov.

• L’AFFAIRE PEGASUS
  Lo disvela Antonio Palma, in un documentato report su fanpage.it:  “Le strette relazioni instaurate negli anni tra Israele la Russia e le conseguenti scelte del governo israeliano di fatto hanno aiutato in parte Mosca contro l’Ucraina e indebolito Kiev. Lo rivela una inchiesta giornalistica congiunta del Guardian e del Washington Post, secondo la quale Israele si sarebbe rifiuta a più riprese di vendere propri sistemi di hacking ad alta tecnologia a Kiev proprio per non inimicarsi la Russia. In particolare il riferimento è allo spyware Pegasus, uno strumento di alta tecnologia in grado di hackerare qualsiasi telefono cellulare e intercettare conversazioni telefoniche ma anche di leggere messaggi di testo o visualizzare le fotografie di un utente.

• PEGASUS E I RAPPORTI ISRAELE-RUSSIA
  Si capisce che in una situazione di conflitto, Pegasus potrebbe rivelarsi uno strumento fondamentale per controllare le comunicazioni nemiche e quindi avere vantaggi strategici fondamentali. Secondo l’indagine giornalistica, che si è avvalsa delle testimonianze di persone a conoscenza diretta della questione, Kiev per circa tre anni avrebbe cercato in tutti i modi di ottenere la tecnologia israeliana ma il governo di Tel Aviv avrebbe sempre rifiutato la vendita. Il gruppo NSO che realizza lo spyware e che è regolamentato dal ministero della difesa israeliano, non è mai stato autorizzato a commercializzare o vendere lo strumento all’Ucraina. I motivi dietro al rifiuto ovviamente non sono mai stati ufficializzati da Israele ma il sospetto concreto è che la decisione di Israele dipenda dalla volontà di non indispettire la Russia che ha sempre visto la vendita di una tecnologia del genere a un proprio rivale come un  attacco diretto. Del resto l’intelligence di Mosca e israeliana da lungo tempo collaborano e inoltre anche in passato, dopo aver venduto Pegasus all’Estonia, Tel Aviv aveva avverto i funzionari estoni che non avrebbe permesso di utilizzare lo spyware contro obiettivi russi.

• ISRAELE HA RIFIUTATO LA VENDITA DEL SUO SISTEMA MISSILISTICO A KIEV
  Tel Aviv non ha mai commentato la questione, a parte una nota secondo la quale “lo stato di Israele approva l’esportazione di prodotti informatici esclusivamente a enti governativi, per uso legittimo e solo allo scopo di prevenire e indagare su criminalità e lotta al terrorismo”. Israele del resto sia prima sia dopo l’inizio della guerra in Ucraina si è posta su una condizione di neutralità tra i due Paesi e si è rifiutato di vendere a Kiev anche il suo sistema di difesa missilistica Iron Dome. Un atteggiamento che ha spinto Zelensky a contestare apertamente il governo israeliano durante il suo discorso al Parlamento israeliano chiedendo conto del motivo per cui non ha voluto dare armi all’Ucraina né applicato sanzioni ai russi”, rimarca ancora Palma.

• I “RUSSI D’ISRAELE”
  E veniamo alle ragioni interne. Demografiche ed elettorali.  Le inquadra molto bene Emanuele Pipitone su Geopolitica.info: “La comunità russofona in Israele è la terza più grande al di fuori della Russia. A questo gruppo definibile etnico linguistico appartengono i milioni di cittadini sovietici, soprattutto russi, bielorussi ed ucraini, che a partire dal 1967, grazie alla cosiddetta “legge del ritorno”, hanno avuto la possibilità di lasciare le loro terre di origine per fare aliyah e trasferirsi in terra d’Israele. Numeri che, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il 25 dicembre 1991 e fino ai primi anni Dieci del 2000, hanno raggiunto dimensioni da capogiro. Si parla infatti di più di 1 milione e mezzo di nuovi cittadini israeliani parlanti russo. Pur non raggiungendo le dimensioni del secolo scorso, annualmente, ancora decine di migliaia di cittadini, in maggioranza ucraini e russi, di religione o di origine ebraica si trasferiscono in Israele. Tuttavia, nell’ultimo decennio si assiste a una timida controtendenza che, sebbene non riesca ad eguagliare le emigrazioni in terra d’Israele, prova a controbilanciare con un’immigrazione verso la Russia e l’est Europa.  La comunità russofona israeliana, la terza più importante nel paese, gioca un ruolo molto importante all’interno della società e della politica del Paese. L’esempio per eccellenza è tangibile nel ruolo che il partito Yisrael Beitenu (Nash dom Israel in russo) di Avigdor Lieberman, detiene all’interno dell’attuale compagine di governo. Lieberman, nato nel 1958 a Chisinau, si è sempre impegnato per la difesa degli interessi della comunità russofona israeliana.

• LE RELAZIONI RUSSO – ISRAELIANE
  La diretta vicinanza politica tra Mosca e Tel Aviv si evince anche dall’affluenza che i cittadini aventi doppia cittadinanza russa/israeliana hanno manifestato nell’ultima tornata elettorale russa del 2018. Infatti, il 72% degli aventi diritto ha dato la preferenza al partito Russia Unita di Vladimir Putin. L’anno precedente, nel 2017, la Knesset decretò Giornata della Vittoria in Europa sul nazifascismo come festa nazionale, alla presenza di numerosi veterani di quella che fu l’Armata rossa”.
  Sul piano esterno, va rimarcato che La Russia è anche una delle poche potenze che può tenere a bada l’Iran e le sue ambizioni da potenza egemone regionale. Come ha scritto il New Yorker, «l’Iran, come la Russia, ha forze in Siria che stanno aiutando a sostenere il regime di Bashar al-Assad. Ma Mosca ha consentito a Israele di contenere l’espansione della forza iraniana, temendo che in futuro possa diventare un potenziale rivale in grado di manipolare Assad. Anche per questo motivo Putin ha impedito all’esercito siriano di usare missili antiaerei S-300 contro Israele».

• I TIMORI SULL’ACCORDO CON L’IRAN 
  Sul tema è d’aiuto l’approfondimento di Emanuela Borracino su Terrasanta.net: “Restano i motivi che hanno reso Bennett estremamente cauto nel criticare Putin, pur avendo votato a favore della risoluzione di condanna dell’Onu. Secondo i diplomatici britannici e francesi presenti ai colloqui di Vienna sotto l’egida dell’Onu l’accordo con l’Iran sarebbe «imminente» e le delegazioni avrebbero fretta di concludere e far incontrare gli Usa e l’Iran (che finora non si sono parlati vis-a-vis per il rifiuto di Teheran) perché la guerra in corso in Ucraina pone crescenti ostacoli al dialogo di Stati Uniti e nazioni europee con la Russia.

• LIBERTÀ DI AZIONE (CONGIUNTA) NEI CIELI DELLA SIRIA
  Oltre al timore israeliano sull’accordo con l’Iran, pesa il debito contratto con Putin in Siria. «L’unico modo in cui Israele può portare avanti i suoi attacchi aerei sugli obiettivi iraniani in Siria – commenta l’analista ed ex ambasciatore Usa in Israele Martin Indik in un recente articolo apparso su Foreign Affairs – è che la Russia chiuda un occhio sulla violazione di Israele dello spazio aereo siriano: è questo il motivo per cui l’ex premier israeliano Netanyahu è andato dieci volte in Russia a baciare l’anello di Putin tra il 2015 e il 2020, incassare la collaborazione del presidente russo e assicurarsi che le operazioni aeree russe ed israeliane in Siria non si disturbino a vicenda». Così Borracino.
  Almeno dal 2015 c’è un accordo tacito fra la Russia e Israele per cui l’aviazione con la stella di David può sorvolare il Libano e la Siria, passando illesa sopra i missili russi, e colpire bersagli militari iraniani e di Hezbollah. Uno di questi raid è avvenuto il 7 marzo, a guerra ucraina già iniziata e la risposta russa è stata, come sempre, nulla. In pratica, Mosca, pur proteggendo il regime di Assad, consente a Israele di difendersi, impedendo ai suoi nemici di armarsi troppo.

• LA “SPERANZA BIANCA”
  Ugo Tramballi, storica firma in politica estera del Sole24Ore, conoscitore come pochi del “pianeta Israele”, oggi analista dell’Ispi, vale sempre la pena leggerlo. 
  “La Russia è senza dubbio un avversario dell’Occidente: con i suoi comportamenti è sempre più vicino alla definizione di “nemico”. Dopo aver mestato nelle elezioni americane, sta aiutando tutti i partiti sovranisti del vecchio continente per affondare i sistemi liberali europei. Ma Putin è “l’ultima grande speranza bianca” per una possibile pacificazione del Medio Oriente. Non solo nel contesto Siria-Turchia-Iran. La Russia è la sola ad avere il potere d’imporre a israeliani e palestinesi il ritorno al negoziato. Se non ci fosse già così troppa carne al fuoco nella regione, probabilmente Putin lavorerebbe per quell’obiettivo sfuggito ai presidenti americani da Jimmy Carter in poi: una pace fra Israele e Palestina. Difficilmente gli israeliani potrebbero dire no a Putin; ancor meno i palestinesi avrebbero il coraggio di continuare nel loro massimalismo suicida come hanno sempre fatto con le proposte americane.
  Per decenni Haim Weizmann aveva corteggiato gli inglesi per la promozione della Yishuv ebraica in Palestina, ottenendo la prima dichiarazione a favore di uno stato: il ”focolare ebraico” della Dichiarazione Balfour nel 1917. All’inizio degli anni ’40, quando subentrò a Weizman alla guida dell’Agenzia Ebraica, David Ben Gurion capì che dopo la guerra il potere sarebbe stato degli americani e cercò la loro amicizia. Ora tocca alla Russia.
  Nell’estate 2015, quando i turchi abbatterono un jet russo al confine siriano, Bibi Netanyahu corse immediatamente a Mosca per creare le condizioni affinché un incidente del genere non potesse accadere con gli israeliani. Fu attivata una linea rossa tra i leader, e le informazioni sui raid israeliani in Siria e Libano fluirono come la Moscova davanti alle mura del Cremlino. Dall’inizio del 2017 sono state 200 missioni e Mosca è sempre stata informata.
  Dal 2015 Netanyahu è stato 10 volte in Russia fra Sochi e la capitale. All’ultima parata della Vittoria nella piazza Rossa, è anche salito sul mausoleo di Lenin accanto a Putin e ai suoi generali. Prima di partire per Mosca, uno dei suoi ufficiali gli aveva ricordato una massima che s’insegna alla scuola di guerra israeliana: “Devi sempre ricordare la prima lezione di storia militare: non scherzare con i russi”.
  Lo scritto di Tramballi è del 21 settembre 2018. Ma sembra oggi.

(globalist, 25 aprile 2022)

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Cinque cose da sapere sull’ondata terrorista in Israele

di Ugo Volli

1. Niente più stragi, per il momento
  L’attacco terrorista è iniziato due settimane fa con alcuni attentati omicidi: A Beer Sheva, a Hedera, a Bnei Berak, a Tel Aviv. Ha preso di sorpresa gli apparati di sicurezza, che inizialmente non sono riusciti a bloccare gli assassini. Poi però le forze dell’ordine hanno ritrovato la loro tradizionale capacità di prevenzione del terrorismo, e negli ultimi giorni i palestinisti non sono più riusciti ad assassinare altri israeliani. Non perché non ci abbiano provato, ma perché sono stati prevenuti con operazioni nei santuari del palestinismo, come il campo profughi di Jenin. E perché vi è stato un massiccio schieramento della sicurezza nei luoghi più sensibili, come la città vecchia di Gerusalemme, dove per esempio un tentativo di attacco omicida nei confronti dei fedeli che tornavano a casa dal Kotel attraverso il quartiere arabo (la via più rapida per arrivare a diversi quartieri storici dei charedim) è stato bloccato dall’intervento della polizia. Altri attentati falliti si sono avuti altrove, per esempio a Haifa. Si può solo sperare che la prevenzione e la reazione rapida delle forze dell’ordine continuino a evitare gli omicidi.

2. La mobilitazione sul Monte del Tempio
  Forse per compensare il fallimento di questi attacchi, ma certamente per amplificare l’ondata terrorista, i palestinisti sono ricorsi a una vecchia parola d’ordine: “la moschea di Al Aqsa è in pericolo”. Ad essa segue sempre il tentativo di provocare disordini con la polizia sulla spianata del Monte. Il pericolo, questa volta, non sarebbe una manovra ingegneristica israeliana per far crollare la moschea, come altre volte i palestinisti hanno sostenuto, ma la sua dissacrazione attraverso il sacrificio pasquale che “gli ebrei” progetterebbero. In realtà la quasi totalità dei rabbini ritiene ancora oggi improponibile il rinnovamento dell’antico sacrificio di un agnello per Pesach, che era prescritto fino a che esisteva il Tempio e poi fu proibito, perché non esisteva più il luogo consacrato dove farlo e non era possibile ottenere il grado di purità rituale necessario. Solo qualche piccolo gruppo contraddice questa normativa e prova a compiere il sacrificio o vi si prepara. Ma la polizia impedisce tutti questi tentativi. Vi sono alcune centinaia di ebrei che salgono sul Monte, e magari mormorano qualche preghiera, dato che farlo in maniera aperta è ancora proibito dalla polizia. Ma non si vede in che cosa tutto ciò turbi la sacralità del luogo. Chi lo fa, eventualmente, sono i ragazzi arabi che non nascondono di giocare a calcio sulla spianata e perfino all’interno della moschea, come molte foto e filmati documentano. E ancor di più quelli che accumulano nella moschea pietre per lanciarle sulla polizia e sugli ebrei che pregano al Kotel, come di nuovo è facile vedere dalle immagini.

3. Gli scontri
  Gli ebrei che sono saliti al Monte, lo mostrano ancora le immagini, erano pacifici, disarmati, per nulla aggressivi, scortati e sorvegliati dalla polizia. Esercitavano un diritto che è garantito a tutti dalle leggi. Ma i media arabi hanno definito la visita, breve e innocua, un “assalto”. Contro di loro hanno eretto barricate di pietra, li hanno bersagliati di slogan ingiuriosi e soprattutto di grossi sassi. Prima e dopo la loro visita, la sassaiola si è rivolta contro le forze dell’ordine. Le quali hanno reagito, arrestando molte decine di violenti. L’hanno fatto però con grande efficacia, tanto da non permettere che negli scontri fossero coinvolti le decine di migliaia di fedeli convenuti per le preghiere del Ramadan.

4. Le conseguenze internazionali
  Gli scontri erano chiaramente preparati, come mostra la quantità di pietre accumulate nella moschea in previsione della “battaglia”, l’uso degli altoparlanti per incitare alla guerriglia urbana, gli appelli della stampa e delle forze politiche palestiniste. La buglia propagandistica dell’”assalto dei coloni alla moschea” è stata raccolta però solo dai media di Hamas e Fatah e dai loro alleati storici (almeno a parole) come Turchia, Iran e Giordania. Se la speranza era quella di rinnovare l’odio contro Israele nelle masse dei paesi arabi che ormai si stanno abituando alla normalizzazione dei rapporti, ciò è certamente fallito. Bisogna solo sperare che le provocazioni non si accentuino, in particolare nei prossimi giorni quando ancora si sovrapporranno la festività ebraica di Pesach e il Ramadan.

5. L’impatto sula politica israeliana
  Il carattere organizzato e di massa di questi ultimi attacchi e l’appoggio dimostrato dalle organizzazioni palestiniste (non solo Hamas, anche Fatah, presieduta da Abbas, nonostante la condanna solo verbale e diretta al pubblico occidentale degli omicidi) mostrano il fallimento delle aperture tentate dal governo Bennett, su pressione dell’amministrazione americana. La lista araba unita, di matrice islamista, che siede al governo ed è determinante per la sua sopravvivenza, ha annunciato la propria autosospensione dalla maggioranza. Si tratta di una mossa a tempo e dunque solo propagandistica, dato che il Parlamento israeliano è chiuso per le vacanze pasquali. Ma essa mostra come le crepe della coalizione si stiano allargando: non è possibile tenere assieme ancora a lungo chi appoggia i manifestanti violenti e chi difende la polizia e lo stato di diritto. Questo è però un problema che maturerà nelle prossime settimane e mesi. Per ora è importante che l’ondata terrorista si spenga.

(Shalom, 19 aprile 2022)

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Gerusalemme: chiuse le visite degli ebrei sulla Spianata

Dopo i violenti scontri

TEL AVIV, 24 APR - La polizia israeliana ha annunciato la chiusura delle viste degli ebrei sulla Spianata delle Moschee (il Monte del Tempio per gli ebrei). La decisione - che arriva dopo i violenti scontri tra manifestanti palestinesi e polizia delle passate settimane - resterà in vigore per i prossimi 10 giorni, in pratica oltre la fine di Ramadan. Nel frattempo il ministro della Diaspora Nachman Shai ha ammonito che lo status quo del luogo si sta deteriorando a causa dell'aumento delle visite sul posto degli ebrei e che questo potrebbe avere pesanti conseguenze. "Ci sono sempre più ebrei - ha spiegato alla tv Kan - che vanno sul Monte del Tempio. E ci sono alcuni che si fermano e pregano: cosa che è proibita". "C'è - ha aggiunto - un deterioramento e una escalation anche sullo status quo. Il prezzo che pagheremo più avanti, tutti noi, sarà pesante".
  Secondo i dati, nella settimana della Pasqua ebraica si è raggiunto il record di 4.625 visitatori ebrei sul posto. La Spianata-Monte del Tempio è il primo luogo santo dell'ebraismo e il terzo dell'islam dopo Mecca e Medina. Quest'anno la Pasqua ebraica è coincisa con il mese sacro di Ramadan.

(La Sicilia, 24 aprile 2022)

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Emirati Arabi: convocato l'ambasciatore israeliano

di Elisabetta Norzi

Per la prima volta dagli Accordi di Abramo, che nel settembre 2020 hanno normalizzato i rapporti tra le monarchie del Golfo ed Israele, e dopo l'ulteriore consolidamento delle relazioni nel corso dei sei mesi di Expo, con scambi che già superano un miliardo di dollari, i rapporti tra Abu Dhabi e Tel Aviv vacillano.
  A seguito degli scontri scoppiati a Gerusalemme, il ministro degli Esteri emiratino, Abdullah bin Zayed, ha convocato l'ambasciatore israeliano Amir Hayek, primo diplomatico di Tel Aviv ad Abu Dhabi, per le azioni della polizia contro i palestinesi, ed ha invitato il suo omologo israeliano, il ministro Yair Lapid, ad allentare la tensione intorno alla Moschea di Al Aqsa, evitando di violare la santità di questo luogo di culto, il terzo più importante per i musulmani dopo La Mecca e Medina. 
  E mentre Reem Al Hasheemy, ministra emiratina per la Cooperazione internazionale, ha ribadito la necessità di fornire piena protezione ai fedeli, di rispettare il ruolo della Giordania come custode dei luoghi santi di Gerusalemme e di promuovere un ambiente appropriato per riaprire i negoziati che portino all'istituzione di uno Stato palestinese indipendente, è arrivata una dichiarazione congiunta dal Comitato ministeriale arabo sulla questione palestinese.
  "L'escalation israeliana a Gerusalemme minaccia di innescare un ciclo di violenze che mette in pericolo la sicurezza nella regione e nel mondo", si legge nel documento, pubblicato dopo l'incontro d'emergenza che si è svolo in Giordania in questi giorni, tra i ministri di Emirati Arabi, Arabia Saudita, Territori palestinesi, Egitto, Qatar, Marocco, Algeria e Tunisia.
  Il Comitato ha invitato la comunità internazionale, in particolare il Consiglio di sicurezza dell'Onu, a "muoversi immediatamente ed efficacemente – si legge ancora nella dichiarazione - per fermare le pratiche illegali e provocatorie israeliane a Gerusalemme".
  E il 5 maggio, giorno dell'indipendenza di Israele, gli Emirati Arabi, secondo la stampa israeliana, avrebbero cancellato la propria partecipazione al cosiddetto Peace Fly-by, che prevedeva il sorvolo sul Paese degli aerei delle compagnie emiratine Etihad e Wizz Air insieme a quelli israeliani. Notizia seccamente smentita da Abu Dhabi in questi ultimi giorni: le compagnie di bandiera emiratine, ha riportato l'agenzia di stampa nazionale, non hanno mai confermato la propria adesione alle celebrazioni.

(Rtv San Marino, 24 aprile 2022)

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Scoperta “tavoletta della maledizione”

Potrebbe contenere la più antica prova del nome ebraico di Dio

Gli archeologi che lavorano in Cisgiordania affermano di aver scoperto una piccola “tavoletta della maledizione” con un’iscrizione in ebraico antico contenente il nome di Dio. La tavoletta è appena più grande di un francobollo, incisa con lettere antiche in una forma primitiva dell’ebraico. Queste parole invocano Dio e gli chiedono di maledire una persona che infrange la sua parola.

• LA “TAVOLETTA DELLA MALEDIZIONE” CON ISCRIZIONI IN EBRAICO ANTICO
  La data di creazione della tavoletta deve ancora essere verificata, tuttavia i suoi scopritori ritengono che risalga ad almeno 3.200 anni. Se ciò fosse confermato, ci troveremmo di fronte alla più antica iscrizione in ebraico. E sarebbe la prima a contenere il nome ebraico di Dio. Altri archeologi ritengono che sia però affrettato affermarlo, poiché il ritrovamento deve ancora essere valutato. Avvertono persino che la tavoletta potrebbe non essere vecchia come affermano i suoi scopritori.
  Il team ha trovato la tavoletta della maledizione in cima al Monte Ebal, appena a nord della città di Nablus, nel dicembre 2019. Gli scopritori hanno annunciato la scoperta in una conferenza stampa a Houston, in Texas, il 24 marzo 2022.
  La tavoletta con il nome ebraico di Dio è un pezzo di foglio di piombo piegato alto circa 2,5 cm e largo 2,5 cm. Ha quaranta lettere proto-alfabetiche, incise in una prima forma di ebraico o cananeo sulla superficie esterna e interna della tavoletta.
  L’iscrizione consiste in una maledizione che recita così: “Maledetto, maledetto, maledetto, maledetto da Dio Yahweh“. Il nome Yahweh è una forma di tre lettere del nome ebraico di Dio che corrisponde alle lettere YHW.
  Il team di ricercatori ha trovato la tavoletta con il nome ebraico di Dio attraverso un processo di lavaggio dei sedimenti con acqua. Questo cumulo di sedimenti era probabilmente il materiale di scarto dagli scavi dell’antica struttura in pietra detta “l’Altare di Giosuè”, alta su un crinale di una montagna. Alcuni esperti pensano che la struttura potrebbe essere il luogo in cui la figura biblica Giosuè sacrificò animali a Dio. Altri pensano che sia un altare sacrificale dell’età del ferro, diverse centinaia di anni dopo.
  La stratigrafia del sito suggerisce che la tavoletta risalga al 1200 a.C. circa. e dal 1400 a. C. Grazie all’analisi degli isotopi chimici del piombo utilizzati nella pastiglia, si sapeva che proveniva da una miniera in Grecia. Secondo le affermazioni degli scopritori, questo oggetto è l’unico esempio noto di una “tavoletta della maledizione” trovata nel sito. Oggetti come questi sono comuni nei siti ebraici in luoghi risalenti al periodo ellenistico e romano molto più tardo, dopo la fine del IV secolo a.C.

• ALCUNE DOMANDE DOPO LA SCOPERTA
  Se la data potrà essere verificata, l’iscrizione sulla tavoletta della maledizione porterebbe indietro di diverse centinaia di anni la prima data conosciuta per l’alfabetizzazione tra gli antichi israeliti. Fino ad ora, la prova più antica era l’iscrizione di Khirbet Qeiyafa, risalente al X secolo a.C. Alcuni archeologi avvertono che esiste un “enorme divario” tra la descrizione del ritrovamento del Monte Ebal e le affermazioni dei ricercatori sulle implicazioni per gli studi biblici e l’archeologia.
  Un’analisi dettagliata delle affermazioni non sarebbe possibile fino a quando non sarà pubblicato un documento accademico sulla scoperta. I dubbi nella comunità scientifica sorgono perché la tavoletta della maledizione non è stata trovata durante uno scavo ma in un cumulo di macerie. Questo risale a uno scavo negli anni ’80.
  Quegli archeologi contestano anche la datazione proposta, sottolineando che il confronto del sito del Monte Ebal corrisponde ad altri siti datati mediante analisi al radiocarbonio. Questa analisi suggerisce che potrebbe risalire all’XI secolo a.C., forse due secoli o più dopo quanto affermato. Inoltre, gli stessi archeologi suggeriscono che anche la decifrazione dell’iscrizione sulla tavoletta potrebbe essere oggetto di interpretazione.

(FocusTECH, 24 aprile 2022)

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Bennett: “L'Onu deve smettere di appoggiare l'agenda dei terroristi”

Il primo ministro Naftali Bennett ha espresso disappunto per la risposta delle Nazioni Unite alle recenti violenze palestinesi contro Israele, in una conversazione telefonica avvenuta ieri sera con il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. “La comunità internazionale non deve servire l’agenda delle organizzazioni terroristiche”, ha avvertito Bennett. Il premier israeliano si è detto deluso dal fatto che le Nazioni Unite non abbiano condannato Hamas per aver lanciato razzi contro Israele. Secondo quanto riporta una nota dell’ufficio di Bennett, il primo ministro ha affermato che Israele è una “forza stabilizzatrice” senza la quale decine di migliaia di musulmani non potrebbero pregare alla moschea di Al Aqsa a Gerusalemme. Facendo riferimento agli scontri avvenuti in questi giorni sul sito della Spianata delle moschee (Monte del Tempio per gli ebrei), Bennett ha dichiarato che i rivoltosi “hanno preparato in anticipo pietre e bottiglie molotov da utilizzare dall’interno della moschea”.
  Bennett e Guterres hanno anche discusso degli sforzi del governo israeliano a sostegno di un negoziato tra Russia e Ucraina. Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha incontrato lo scorso 22 aprile gli inviati dell’amministrazione statunitense Yael Lempert, vicesegretario di Stato ad interim per gli affari del Vicino oriente, e Hady Amr, vicesegretario aggiunto per gli Affari israeliani e palestinesi, invitando tutti i leader della regione ad agire in modo responsabile per cercare di portare calma. Gli inviati sono giunti nella regione come parte di uno sforzo degli Stati Uniti per porre fine alle tensioni tra Israele e i palestinesi, in particolare a Gerusalemme e in Cisgiordania.

(Nova News, 24 aprile 2022)

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La tua parola è una lampada al mio piede

PREDICAZIONE
Marcello Cicchese
gennaio 2008
Dalla Sacra Scrittura

SALMO 119
  1. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero.
  2. Ho giurato, e lo manterrò, di osservare i tuoi giusti giudizi.
  3. Io sono molto afflitto; Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
  4. Signore, gradisci le offerte volontarie delle mie labbra e insegnami i tuoi giudizi.
  5. La mia vita è sempre in pericolo, ma io non dimentico la tua legge.
  6. Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono allontanato dai tuoi precetti.
  7. Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, esse sono la gioia del mio cuore.
  8. Ho messo il mio impegno a praticare i tuoi statuti, sempre, sino alla fine.

(Notizie su Israele, 24 aprile 2022)

 
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Gerusalemme, terzo venerdì di Ramadan: scontri tra palestinesi e polizia israeliana

Nel terzo venerdì del Ramadan - che coincide con la fine delle celebrazioni per la Pasqua - sono avvenuti nuovi scontri nella Città Vecchia di Gerusalemme, sulla Spianata delle Moschee (il Monte del Tempio, per gli ebrei), tra manifestanti palestinesi e polizia israeliana.
  Fin dalle 4 del mattino, i palestinesi hanno lanciato pietre verso il Muro del Pianto, costringendo gli agenti ad intervenire, secondo quanto riferito dalla polizia israeliana: da lì è partito un fitto scambio di lanci ad altezza uomo di pietre, fuochi d'artificio e proiettili di gomma.
  Usati, dagli israeliani, anche droni con gas lacrimogeno.
  E' iniziato così un altro venerdì di passione, ennesima tappa dell'escalation di violenza tra palestinesi e Israele, compresi gli attentati delle scorse settimane in centro a Tel Aviv, la peggior ondata di violenza dall'anno scorso, costata finora la vita a 36 persone.
  Secondo la polizia israeliana, una parte dei manifestanti di venerdì mattina a Gerusalemme aveva il volto coperto e issava bandiere di Hamas, che giovedì aveva chiamato i palestinesi alla "mobilitazione".
  La Mezzaluna Rossa ha riferito che sono almeno 31 i feriti tra i dimostranti, di cui 14 ricoverati in ospedale, due in condizioni gravi. Anche un agente è stato ferito, colpito al volto da una pietra.
  In totale, nell'ultima settimana, sono oltre 200 i feriti, per lo più palestinesi, degli scontri sulla Spianata delle Moschee, a ridosso della Moschea Al Aqsa e nei dintorni.
  Una situazione di altissima tensione che - nei giorni scorsi - ha scatenato una reazione a catena, con lanci di razzi da parte di gruppi armati palestinesi dalla Striscia di Gaza su Israele, attacchi israeliani di ritorsione su Gaza e un tentato assalto da parte di gruppi di ebrei ultranazionalisti al quartiere musulmano della Città Vecchia di Gerusalemme.

(euronews, 23 aprile 2022)

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Israele ha deciso di chiudere il suo confine con Gaza

Dopo gli attacchi degli ultimi giorni

Dopo che negli ultimi giorni c’è stato un aumento degli attacchi tra la Striscia di Gaza e Israele, con lanci di razzi da parte di gruppi armati palestinesi e bombardamenti dell’esercito israeliano, Israele ha deciso di chiudere il valico di Erez, l’attraversamento che collega Gaza a Israele e permette a migliaia di pendolari palestinesi di andare al lavoro. Haaretz scrive che l’esercito israeliano ha fatto sapere che l’attraversamento non sarà riaperto nemmeno domani, quando in Israele ricomincerà la settimana lavorativa.
  Quella in corso in questi giorni tra Israele e Gaza è stata definita «la più grande escalation» dai tempi della guerra combattuta dalle due parti nel maggio del 2021. In Israele e nei territori palestinesi la tensione è molto alta da giorni a causa di una nuova serie di attacchi terroristici compiuti da palestinesi e dalla concomitanza della Pasqua ebraica col Ramadan, il mese sacro per i musulmani, cioè periodi in cui spesso emergono rivendicazioni territoriali e identitarie.

(il Post, 23 aprile 2022)

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L’enigma di Israele sull’Ucraina e le implicazioni per il Golfo

Gli Stati del Golfo potrebbero scoprire che, come Israele, hanno meno opzioni di quante sembri

di James M. Dorsey

Gli Stati del Medio Oriente vedono la loro capacità ridotta di camminare su una linea sottile nel conflitto in Ucraina. Israele è un esempio calzante, poiché le tensioni con l’Iran in Siria e i palestinesi a Gerusalemme divampano, e sia la Russia che gli Stati Uniti segnalano impazienza per i suoi tentativi di scavalcare la recinzione.
  Gli Stati Uniti hanno avvertito che aumenterebbero la pressione sui Paesi che non sanzionano la Russia, ma non hanno ancora individuato Israele, sede di importanti comunità ebraiche ucraine e russe che includono vari oligarchi.
  Al contrario, negli ultimi giorni la Russia ha reso evidente la sua irritazione nei confronti dello Stato ebraico.
  In tal modo, Mosca sta giocando sui timori israeliani che la Russia possa tornare sui suoi passi sulla sua tacita acquiescenza agli attacchi israeliani contro obiettivi iraniani e di Hezbollah in Siria, rafforzare il sostegno all’Iran e sostenere i palestinesi che si stanno scontrando con le forze di sicurezza israeliane a Gerusalemme.
  Camminando su una linea sottile, Israele ha respinto le richieste ucraine per la vendita di armi e l’accesso alla tecnologia di sorveglianza israeliana. Tuttavia, ha fornito assistenza all’intelligence condivisa dell’Ucraina, ha votato per una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che condanna l’invasione russa e ha convinto gli Emirati Arabi Uniti a fare lo stesso. Israele ha anche votato per una risoluzione dell’Assemblea che sospende l’adesione della Russia al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.
  Tuttavia, l’affermazione del Ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid secondo cui la Russia ha commesso crimini di guerra in Ucraina ha ribaltato l’equilibrio a Mosca.
  In una dichiarazione, il ministero degli Esteri russo ha accusato le osservazioni di Laipd come “un tentativo mal camuffato di sfruttare la situazione in Ucraina per distrarre l’attenzione della comunità internazionale da uno dei più antichi conflitti irrisolti: quello israelo-palestinese”.
  Poco dopo, l’ambasciatore russo in Israele, Anatoly Viktorov, ha detto a una stazione televisiva israeliana che Israele e la Russia erano “ancora” amici ma che Mosca si aspettava una “posizione (israeliana) più equilibrata”.
  Il giornalista israeliano Zvi Bar’el ha osservato che “‘ancora’ è la parola chiave, quella che ha Israele in un complesso dilemma sulla questione ucraina”.
  Per aumentare la pressione, l’ammiraglio Oleg Zhuravlev, vice capo del Centro russo per la riconciliazione delle parti opposte in Siria, ha rivelato che un sistema di difesa aerea Buk M2E di fabbricazione siriana e russa, aveva recentemente intercettato un missile guidato lanciato da un israeliano Aereo da combattimento F-16 nello spazio aereo siriano. La divulgazione ha costituito un avvertimento che la Russia potrebbe non tollerare più futuri attacchi israeliani contro obiettivi in Siria.
  Fonti militari israeliane hanno suggerito che Israele potrebbe intensificare i suoi attacchi nella convinzione che la sua finestra di opportunità in Siria potrebbe chiudersi in un momento in cui le forze iraniane potrebbero diventare più predominanti in Siria con la Russia che sposta truppe e mercenari in Ucraina.
  Il Presidente iraniano Ebrahim Raisi ha avvertito questa settimana che le sue forze armate non lascerebbero Israele attaccare se avesse preso provvedimenti contro la repubblica islamica.
  “Dovete sapere che se provate a intraprendere qualsiasi azione contro la nazione iraniana… le nostre forze armate non vi lasceranno in pace”, ha detto Raisi durante una parata militare in occasione della Giornata nazionale dell’esercito, suggerendo che l’Iran potrebbe attaccare la nazione israeliana metropoli, Tel Aviv.
  In uno scatto simile all’arco di Israele, questa settimana il Presidente russo Vladimir Putin ha condannato l’escalation di violenza di Israele nella moschea Al-Aqsa di Gerusalemme in una telefonata con il presidente palestinese Mahmoud Abbas. Putin ha assicurato ad Abbas che la Russia avrebbe sostenuto i palestinesi nelle sedi internazionali.
  Inoltre, Putin ha chiesto in una lettera al Primo Ministro israeliano Naftali Bennett di trasferire il controllo della Chiesa di Sant’Alexander Nevsky a Gerusalemme alla Russia.
  La chiesa, situata nella Città Vecchia di Gerusalemme, avrebbe dovuto essere consegnata alla Russia come parte di un accordo due anni fa per ottenere il rilascio di un cittadino israelo-americano detenuto in Russia con l’accusa di droga.
  Le giustificazioni israeliane dei suoi tentativi di percorrere una via di mezzo sulla scia degli sforzi di mediazione tra Putin e il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy si stanno esaurendo mentre le prospettive svaniscono per una fine negoziata della guerra in tempi brevi.
  I funzionari israeliani riconoscono che quando, piuttosto che se arriverà la spinta, Israele non avrà altra scelta che allinearsi con gli Stati Uniti e l’Europa. “La situazione di Israele è diventata più complicata”, ha ammesso un funzionario israeliano.
  Indubbiamente, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita stanno monitorando da vicino come Israele gestisce quello che equivale a un campo minato geopolitico.
  Come Israele, i due stati del Golfo hanno cercato di tracciare un percorso indipendente, rifiutando le richieste degli Stati Uniti di aumentare la produzione di petrolio per ridurre i prezzi e sfogando la rabbia per le varie politiche statunitensi.
  Tuttavia, in ultima analisi, gli Stati del Golfo potrebbero scoprire che, come Israele, hanno meno opzioni di quante sembri.

(L'Indro, 23 aprile 2022)

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Israele esce dalla sua neutralità e infastidisce Mosca

di Marco Bolare

L’equilibrio in cui Israele è stato impegnato dall’inizio della guerra in Ucraina sta cominciando a appoggiarsi seriamente alla parte ucraina. Ma a quale costo? Il 20 aprile, Benny Gantz ha annunciato su Twitter di averlo fatto “approvato l’acquisto di dispositivi di protezione per elmetti e giubbotti, che saranno trasferiti alle forze di soccorso ucraine e alle organizzazioni civili”. Il ministro della Difesa israeliano, che afferma di aver informato lo stesso giorno il suo omologo ucraino Oleksiï Reznikov, ha inserito questo passaggio nel quadro del “Gli sforzi umanitari di Israele”ricordando “la creazione di un ospedale da campo, l’assorbimento di immigrati e rifugiati, l’approvvigionamento alimentare e l’aiuto umanitario e medico”.

• SCHERMAGLIA
  Questo contributo allo sforzo militare ucraino segna un cambiamento nella dottrina da parte dello Stato ebraico. Dall’inizio dell’invasione russa, Israele ha rifiutato di aderire alle richieste di materiali formulate da Kiev e sostenute da Washington, suo storico alleato. Questa ambigua neutralità mira in particolare a gestire il suo rapporto strategico con Mosca, partner essenziale per le sue operazioni militari anti-iraniane in Siria. Un punto di equilibrio difficile da trovare per lo Stato ebraico, che ha tra la sua popolazione non meno del 15% di russofoni, ma la cui opinione pubblica è maggiormente dalla parte dell’Ucraina.
  Da parte russa, l’annuncio di Benny Gantz non è passato inosservato. “Stiamo verificando attentamente queste informazioni e, se confermate, risponderemo di conseguenza”, ha avvertito giovedì 21 aprile l’ambasciatore in Israele, Anatoly Viktorov, alla televisione russa. Il rapporto tra Israele e Russia non è la prima scaramuccia dall’inizio della guerra. Il voto israeliano, del 7 aprile, a favore dell’espulsione della Russia dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, aveva puntato a Mosca, dove il ministero degli Affari esteri aveva denunciato ” un tentativo mal camuffato di sfruttare la situazione in Ucraina per distogliere l’attenzione della comunità internazionale da uno dei più antichi conflitti irrisolti, il conflitto israelo-palestinese”.

• IL RISCHIO DI ALIENARE LA RUSSIA
  Due giorni prima, Yaïr Lapid si era già unito al coro delle condanne internazionali, accusando la Russia di “crimini di guerra”.“Un paese grande e potente ha invaso un vicino più piccolo senza alcuna giustificazione. Ancora una volta il terreno è intriso del sangue di civili innocenti”, ha detto il capo della diplomazia israeliana, facendo quasi dimenticare la visita del primo ministro Naftali Bennett a Mosca un mese prima – il primo leader occidentale a incontrare Vladimir Putin dall’invasione del 24 febbraio – e la sua offerta di mediazione, rimasta inascoltata.
  Allineandosi in questo modo con le potenze occidentali, Israele corre il rischio di alienarsi la Russia, che esercita una forte influenza nella regione. Padrone dello spazio aereo siriano, Mosca lascia che l’esercito israeliano bombardi i gruppi filo-iraniani in Siria, ma potrebbe benissimo tornare indietro su questo tacito accordo. Mosca, inoltre, ha lanciato nei giorni scorsi un avvertimento in tal senso? Secondo il quotidiano israeliano Ha’aretzun alto comandante russo in Siria ha annunciato dopo gli attacchi israeliani del 14 aprile che un missile israeliano era stato intercettato da un missile antiaereo siriano di fabbricazione russa.
  Il calcolo dello stato ebraico si preannuncia tanto più rischioso in quanto la Russia riduce il numero dei suoi uomini in Siria, compresi i mercenari di Wagner, per ridistribuirli in Ucraina, lasciando più spazio alle milizie iraniane o alleate dell’Iran, nemico giurato di Israele.

(oggiurnal, 22 aprile 2022)


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Putin chiede una chiesa ortodossa a Gerusalemme… e crea una crisi in Israele

di Isabella Matta

All’inizio dell’anno, un tribunale israeliano ha bloccato il trasferimento di proprietà della chiesa Alexander Nevsky a Gerusalemme, che Vladimir Putin chiede da anni. Il presidente russo ei dignitari della Chiesa ortodossa russa a Mosca sono tanto più amareggiati dal fatto che tutto sembrava sistemato.
  Quando era ancora Primo Ministro, vale a dire fino a giugno 2021, Benyamin Netanyahu aveva ceduto alle richieste russe. L’anno scorso, i servizi catastali del Ministero della Giustizia israeliano hanno stabilito che il controllo dell’imponente edificio doveva essere sottratto ai “Russi Bianchi”, gli esiliati fuggiti dalla rivoluzione bolscevica del 1917, e consegnato alle autorità, gli attuali russi.

• NON ALIENARE PUTIN
  Questo mercato si era concluso in modo a dir poco originale. Binyamin Netanyahu aveva così ringraziato Vladimir Putin per aver graziato una giovane donna israeliana condannata a sette anni e mezzo di carcere mentre faceva tappa a Mosca con 10 grammi di hashish nel bagaglio.
  Questa sentenza, considerata del tutto sproporzionata, ha provocato un’ondata di indignazione in Israele. Infine, Benyamin Netanyahu ha convinto Vladimir Putin all’inizio del 2020 a concedere per la prima volta la grazia a un detenuto straniero di common law. Sempre alla ricerca di una buona trovata mediatica, il premier israeliano ha poi riportato trionfalmente la giovane davanti alle telecamere del suo aereo dopo una visita a Mosca. In cambio, si è impegnato a trasferire a Mosca la proprietà di un intero edificio, che comprende la Chiesa di Alexander Nevsky e la cosiddetta Cattedrale della Santissima Trinità.
  Ma i “Russi Bianchi” fecero appello. Un tribunale israeliano ha stabilito che solo il governo è competente a decidere su questa questione e non un semplice organo amministrativo come il catasto. Risultato: la decisione ora è interamente nelle mani del nuovo premier Naftali Bennett che se la sarebbe cavata bene senza un simile grattacapo. Per risparmiare tempo, ha nominato una commissione ministeriale per l’esame del fascicolo, che però non si è ancora riunito.
  Naftali Bennett si trova ora di fronte a un crudele dilemma. Dall’inizio della guerra, ha praticato un delicato equilibrio tra Russia e Ucraina. Il primo ministro israeliano non vuole voltare le spalle a Vladimir Putin che potrebbe, per rappresaglia, ostacolare seriamente la libertà d’azione dell’aviazione israeliana in Siria contro l’Iran ei suoi alleati, come Hezbollah. Finora i militari russi presenti in forza in Siria si sono astenuti dall’intervenire contro le centinaia di operazioni portate avanti dallo Stato ebraico.

• ISRAELE PRESO NEL FUOCO INCROCIATO
  Cedere alla richiesta del presidente russo non mancherebbe di irritare al massimo anche gli Stati Uniti e gli europei. Israele è già oggetto di critiche per il suo rifiuto di imporre sanzioni alla Russia. “Fare un regalo così simbolico a Putin in questo contesto sarebbe molto mal percepito dai nostri amici e alleati occidentali” riconosce un diplomatico israeliano.
  Dall’altro lato, i russi cominciano a perdere la pazienza. Il destino della chiesa divenne per loro una prova. Vladimir Putin ha inviato una lettera minacciosa a Naftali Bennett. Sergei Stepachine, incaricato della gestione delle proprietà russe in Medio Oriente e vicino al presidente, ha alzato la voce accusando il primo ministro israeliano di rifiutarsi di decidere e di “ per giocare a ping pong “, in altre parole per guidare la Russia in barca.
  Ugualmente sconvolto, il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha ribadito il punto sottolineando che il trasferimento di proprietà della chiesa è considerato da Mosca come “un tema cruciale molto in cima all’agenda delle relazioni tra i nostri due Paesi”. Un avvertimento gratuito per il momento.

(oggiurnal, 23 aprile 2022)

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Pagine della Resistenza ritrovata degli ebrei italiani

«Una fante che illustra il ruolo non secondario svolto da un gruppo perseguitato nella lotta per la democrazia». La storica della Shoah illustra il progetto del Cdec di Milano: un data base e una mostra digitale online dal 25 aprile che raccontano una storia che scarta dal paradigma vittimario

di Lia Tagliacozzo

Una ricerca, un data base e una mostra digitale che sarà online dal 25 aprile: «Resistenti ebrei d'Italia» ne è insieme titolo e oggetto ed è il contributo di studi del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea alle celebrazioni per la Liberazione. «Il 27 gennaio e il Giorno della memoria hanno messo in risalto le vicende ebraiche in modo massiccio ma accreditando per gli ebrei il solo ruolo di vittime - spiega Liliana Picciotto, storica, suo il Libro della memoria (Mursia) sulla deportazione ebraica e Salvarsi. Gli ebrei d'Italia sfuggiti alla Shoah (Einaudi) -. Le facce della medaglia però sono come sempre molteplici».
  Un lavoro che contribuisce infatti a raccontare una storia più articolata di quella del paradigma vittimario che tanta parte ha nella ricostruzione italiana della vicenda ebraica e non solo. È esistita anche nel nostro Paese una partecipazione ebraica significativa all'antifascismo prima e alla Resistenza poi. Il primo dato da sottolineare è come, in Italia, non sia esistita una partecipazione ebraica alla Resistenza in organizzazioni partigiane combattenti specificatamente ebraiche ma si sia trattato di una presenza capillare e diffusa in tutte le formazioni. È ancora difficile definirne la consistenza complessiva, le motivazioni etiche o politiche o la paura delle deportazioni perché fino ad ora gli studi sono stati per lo più biografie specifiche o storie di determinati territori: alcuni lavori hanno indagato per lo più la realtà piemontese, è stato studiato meno cosa sia accaduto nelle altre regioni italiane.
  A QUESTO VOTO inizia a rispondere la prima parte del lavoro del Cdec che ha un orizzonte di ricerca triennale e che riguarda le vicende dei resistenti ebrei in Campania, Lazio e Toscana: «Abbiamo trovato 240 nomi - prosegue Picciotto - ma la previsione è di proseguire e ritrovare ben più del migliaio di persone complessive cui si è sempre pensato in passato. Sono resistenti che hanno lottato contro il fascismo e il nazismo e sembra emergere che si sia trattato di un contributo notevole. È necessario ricordare infatti che gli ebrei in Italia tra il  43 e il 45 non erano più di 40mila di cui oltre 7mila vennero deportati».
  Un contributo significativo anche per l'apporto politico ed intellettuale che annovera nomi importanti dell' antifascismo e della Resistenza tra cui Eugenio Curiel, Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Eugenio Colorni, Umberto Terracini, Leo Valiani. Con il nuovo date base sarà possibile studiare l'apporto numerico dei resistenti dalla provenienza ebraica e ragionare anche sulla relazione con l'identità ebraica, con la sua cultura ed il peso che nella scelta resistenziale ebbe la consapevolezza della persecuzione.
  «Oggi il nuovo portale - spiega ancora Picciotto - mette online profili personali che includono, oltre ai dati anagrafici, le vicende resistenziali e le relative fonti di riferimento mentre la mostra digitale permetterà di approfondire le biografie di 10 uomini e donne: fotografie, documenti e podcast ne racconteranno le storie. Sono stati consultati archivi italiani e stranieri, reperiti centinaia di documenti anche presso archivi privati».
  LE CARTE DI FAMIGLIA sono infatti parte del lavoro e hanno consentito di ricostruire profili inaspettati. «L'obiettivo è mettere a disposizione degli studiosi - prosegue Picciotto - una fonte preziosa per la storia del periodo 1943-1945 e di illustrare il ruolo non secondario del gruppo ebraico, pur così minoritario, socialmente marginalizzato e poi perseguitato, nella lotta per l'Italia democratica. Nella nostra ricerca abbiamo scelto una definizione larga di Resistenza: sia la partecipazione al movimento partigiano vero e proprio sia la Resistenza civile in tutte le sue declinazioni: soccorso individuale o organizzato ebraico ai singoli ebrei in pericolo, oppure atti di coraggio volti alla salvaguardia e alla salvezza di altre persone. Sono inclusi anche coloro che, trovandosi fuori dall'Italia, hanno partecipato alla Resistenza operando da volontari in favore dei servizi segreti britannici o americani impegnati in Italia».
  AD ESPRIMERE IL SENSO della raccolta l'immagine che apre il portale: una foto della liberazione di Pistoia, l’8 settembre 1944, in cui compare Israele Bemporad «che partecipa all'attività partigiana- riporta la libreria digitale del Cdec - dal 17 giugno del 1944 fino al 17 settembre dello stesso anno con il nome di "Lele"». Tra gli altri 240 nomi anche Matilde Bassani Pinzi che - scrive di proprio pugno nella scheda del Cdec - «prende parte all'attività del gruppo socialista clandestino sotto la forma di Soccorso Rosso, diffusione di stampa clandestina, organizzazione delle file antifasciste». Partecipa ad azioni «a Roma e nei Castelli romani», ruba «bolli al comune di Roma per documenti falsi, spionaggio tra le file fasciste, sabotaggio con il gruppo Bandiera Rossa» e, quando viene catturata dai tedeschi, fugge. Storie politiche diverse, come quella di Alessandro Senigallia, fiorentino, che aderì giovanissimo al Partito comunista: dall'esilio in Unione Sovietica alla guerra di Spagna, catturato, viene inviato al confino a Ventotene dove incontra Terracini, Pertini, Rossi. Dopo il 25 luglio del 1943 torna a Firenze ed è a capo dei Gap. Viene ucciso dai fascisti il 13 febbraio 1944.
  La loro storia sarà consultabile, insieme alle altre, all'indirizzo resistentiebrei.cdec.it.

(il manifesto, 23 aprile 2022)

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'Israele risponde al missile da Gaza. Hamas 'minaccia' sulla Spianata'

GERUSALEMME - Israele sta vivendo la più pesante escalation di violenza dalla guerra dello scorso maggio con Gaza che durò 11 giorni. Da mercoledì è ripreso il lancio di razzi — cinque — dalla Striscia. Nella cittadina di Sderot e nei kibbuz lungo il confine sono risuonate le sirene di allarme e la popolazione è corsa nei rifugi. Uno dei razzi ha colpito un cortile. Gli altri sono stati intercettati da Iron Dome. Non ci sono feriti. Le Forze di difesa israeliane hanno reagito ieri bombardando obiettivi militari di Hamas nella Striscia. Forti tensioni anche a Gerusalemme, dove i palestinesi si sono scontrati con la polizia. «Siamo ancora all'inizio della campagna», ha minacciato il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, annunciando che risponderanno «con violenza agli israeliani» che saliranno alla Spianata delle Moschee.

(Avvenire, 22 aprile 2022)

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Gerusalemme, quella bramosia di possesso che continua ad ardere e a insanguinare le sue pietre

A unire gli integralismi presenti nei due campi, palestinese e israeliano, è un sentimento uguale e opposto. Quel sentimento si chiama bramosia di possesso assoluto.

di Umberto De Giovannangeli

Provare a  spiegare l’eterno e irrisolto conflitto israelo-palestinese facendo ricorso alle sole categorie della politica, è quanto meno parziale e, in definitiva, fuorviante. Perché questo conflitto si nutre, come nessun altro al mondo, dei sentimenti più atavici, che affondano le loro radici nella metapolitica, nella religione, in ferite secolari. A unire gli integralismi presenti nei due campi, palestinese e israeliano, è un sentimento uguale e opposto. Quel sentimento si chiama bramosia di possesso assoluto. E di questo sentimento che non conosce compromessi, Gerusalemme ne è, da sempre, il cuore pulsante, la ragion d’essere.

• GLI OPPOSTI SI ALIMENTANO A VICENDA
  Una verità storica che permea il bel reportage di Anshel Pfeffer, storica firma di Haaretz.
  Scrive Pfeffer: “I risultati sono quelli che contano”, ha detto un poliziotto in borghese dall’aria stanca che si aggirava intorno a un gruppo di 50 ebrei che camminavano sul Monte del Tempio mercoledì mattina. Quando un gruppo dopo l’altro è entrato dalla Porta di Mugrabi, sono stati guidati da poliziotti in uniforme, ansiosi di farli passare nel modo più veloce e sicuro possibile. Con cinque giorni di Pasqua quasi finiti, nessun pellegrino ebreo era stato danneggiato nel loro breve mezzo circuito del complesso – e questo era il risultato che contava.
  “Credo veramente nel ‘La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli'”, ha detto Eli Yorav, un insegnante dell’insediamento cisgiordano di Shiloh, citando le parole del profeta Isaia mentre alcune donne in piedi vicino alla Cupola della Roccia gridavano “Allahu Akbar” ai pellegrini. “Apprezzo che anche loro considerino questo luogo sacro, e il mio sogno è che un giorno tutti preghino Dio qui insieme”.Come molti degli altri visitatori ebrei che hanno attraversato il Monte del Tempio pregando in silenzio (tenere in mano i libri di preghiera è vietato ai non musulmani sul sito), ha negato che ci fosse un aspetto politico nel suo pellegrinaggio, o che il sogno di ricostruire il Tempio ebraico significasse necessariamente rimuovere la Moschea di Al-Aqsa.
  Che fossero sinceri o meno, i musulmani che guardavano non ne volevano sapere. Dalla direzione della moschea meridionale del complesso – che ha vari nomi, tra cui Al-Aqsa – dove i giovani palestinesi resistevano ancora, nonostante un massiccio scontro con la polizia israeliana venerdì mattina, una pietra è volata in aria. Qualcuno aveva anche sparso dei piccoli chiodi di metallo sul sentiero, nella speranza di far impigliare i piedi dei pellegrini scalzi. Per la maggior parte degli osservatori israeliani, gli ebrei che salgono sul Monte del Tempio sono pericolosi piantagrane intenzionati a incendiare l’intera regione. Ogni governo israeliano negli ultimi 50 anni ha limitato l’ingresso degli ebrei al sito a poche ore al giorno, dal lunedì al giovedì. Ma anche in questa breve finestra, il potenziale di guai è grande.
  In poco più di tre ore mercoledì, 1.538 ebrei hanno visitato il Monte del Tempio – un numero record in un giorno, ineguagliato nei tempi moderni, ma ancora un numero minuscolo se paragonato alle decine di migliaia di ebrei che stavano pregando di sotto al Muro Occidentale senza alcun piano di avventurarsi oltre. I social media palestinesi sono, come sempre, inondati di speculazioni febbrili sui piani sionisti per “profanare” e “conquistare” Al-Aqsa. Ma in realtà, il governo israeliano stava per chiudere il Monte agli ebrei da venerdì fino alla fine del Ramadan. Un tentativo dell’estrema destra di tenere una provocatoria “parata di bandiere” nella parte orientale di Gerusalemme è stato anche proibito dalla polizia, anche se nel pomeriggio hanno comunque marciato verso il quartiere musulmano della Città Vecchia.
  Più tardi nella mattinata, qualcuno ha cercato di lanciare una molotov dalla moschea, ma è riuscito solo a incendiare uno dei tappeti vicino alla finestra. La polizia israeliana si aspetta un’altra rivolta venerdì mattina, ma per ora non ci sono segni che si estenda oltre il complesso. Nel frattempo, gli alti funzionari dell’Autorità Palestinese fanno a gara con i politici giordani per denunciare con più forza le azioni di Israele – ma questo principalmente perché non vogliono lasciare i titoli dei giornali ad Hamas.
  Tutti vogliono il loro pezzo di Monte del Tempio/Al-Aqsa. I nazionalisti ebrei, i sostenitori di Netanyahu, l’AP, il regno hashemita di Giordania e Hamas. Se Hamas volesse scegliere di fare di questo un casus belli per lanciare razzi su Israele e iniziare un’altra guerra a Gaza, come ha fatto lo scorso maggio, potrebbe farlo. Ma è improbabile che lo faccia.
  Hamas è ancora impegnato a riconsolidare il suo controllo su Gaza, a ricostruire le infrastrutture civili e a rifornire il suo arsenale militare. Non ha bisogno di un’altra guerra ora. Non le servirà politicamente quando la popolazione di Gaza, che soffre da tempo, spera che il lentissimo e graduale allentamento del blocco israelo-egiziano che dura da 15 anni continui. Per ora, i giovani che si rivoltano ad Al-Aqsa per suo conto stanno facendo la loro parte mantenendo le bandiere verdi di Hamas sotto i riflettori. Basta così.
  Al-Aqsa è il simbolo più potente del nazionalismo palestinese. Lo è stato per il secolo scorso – da quando il nazionalismo palestinese è diventato una causa, in risposta al progetto sionista di stabilire la sovranità ebraica nella patria biblica. Ma come per molti simboli, è spesso frainteso come causa principale piuttosto che come significante. È un innesco, ma non è l’intera arma.
  La regola di causalità del conflitto israelo-palestinese secondo cui i disordini sul Monte del Tempio porteranno sempre a un’escalation più ampia è talvolta vera, ma non sempre. Nel conflitto lungo un secolo, un sacco di violenze sono state scatenate da eventi altrove, e non tutti gli eventi violenti intorno ad Al-Aqsa hanno causato un’ulteriore escalation. Recentemente, nel 2015 e nel 2017, ci sono stati scontri sul Monte che sono stati contenuti e non si sono diffusi.
  Ancora più importante, anche quelle grandi conflagrazioni che si può dire siano iniziate sul Monte del Tempio sono state causate da una lunga lista di altre circostanze, alcune delle quali erano chiare al momento e altre sono emerse solo col senno di poi.
  Questo risale alla prima seria sequenza di attacchi nell’agosto 1929 – nota agli israeliani come “gli eventi del 5689” e ai palestinesi come “la rivolta di Buraq” – dopo un tentativo degli ebrei di collocare alcune sedie e una mechitza (una partizione che separa uomini e donne in preghiera) al Muro Occidentale, noto ai musulmani come Muro di Buraq.
  Anche allora, le accuse di ebrei che cercano di impadronirsi di Al-Aqsa sono state usate per fomentare la rabbia pubblica. Ma le cause alla base delle violenze che seguirono, in cui morirono 250 ebrei e arabi, non furono solo la lotta emergente per il controllo del territorio, ma la politica interna palestinese (la rivalità tra i due principali clan di Gerusalemme, gli Husseini e i Nashashibi) e il risentimento per il dominio del mandato britannico.
  Poco più di 70 anni dopo, si dice che l’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon abbia causato la seconda intifada (opportunamente chiamata “l’intifada di Al-Aqsa”), che è durata cinque anni, facendo una controversa visita pubblica al Monte del Tempio. Ma all’epoca, la violenza intorno ad Al-Aqsa era in realtà relativamente minore e i principali scoppi avvenivano altrove. Anche allora, le cause principali non erano legate a Gerusalemme ma alla frustrazione palestinese per la mancanza di progressi negli accordi di Oslo, il fallimento dei colloqui di Camp David tra Ehud Barak e Yasser Arafat, e il desiderio di varie fazioni all’interno dell’AP di affermare la loro influenza.
  Lo stesso vale per il ciclo di combattimenti dell’anno scorso, che ha incluso una guerra di 11 giorni con gruppi militanti a Gaza, rivolte nelle città “miste” di Israele e un lungo e violento mese di Ramadan a Gerusalemme. Le cause iniziali sono state la minaccia di sfratti arabi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est e la polizia pesante intorno alla Porta di Damasco, così come gli scontri intorno ad Al-Aqsa.
  In definitiva, tuttavia, la decisione di Hamas di escalation lanciando razzi da Gaza verso le città israeliane, in quella che ha chiamato “Operazione Spada di Gerusalemme”, era politicamente motivata: Il suo bisogno di dimostrare di essere il principale movimento palestinese, dopo che la decisione del presidente Mahmoud Abbas di cancellare le elezioni palestinesi gli ha negato l’opportunità di farlo alle urne.
  I politici israeliani sono altrettanto cinici nell’usare il simbolo del Monte del Tempio per i loro scopi ristretti. Come leader dell’opposizione, Sharon ha insistito per sfidare il governo di Barak visitando il Monte nel settembre 2000. Otto mesi dopo, come neoeletto primo ministro, ha firmato ordini che proibivano al movimento dei Fedeli del Monte del Tempio di tenere lì la propria funzione durante la Pasqua.
  I moderni politici di estrema destra come Itamar Ben-Gvir, che stanno cercando di agitare le cose sul Monte del Tempio e provocare rivolte che faranno cadere la fragile coalizione di governo, ignorano la scomoda verità che il governo di Benjamin Netanyahu – per il quale servono come procuratori – ha anche chiuso il Monte del Tempio agli ebrei per gli ultimi 10 giorni del Ramadan ogni anno.
  Su entrambi i lati della divisione, ci sono quelli i cui interessi politici sarebbero ben serviti da un’escalation. La Jihad Islamica Palestinese, sostenuta dall’Iran, in competizione con Hamas per guidare “la resistenza”, ha lanciato un razzo da Gaza lunedì, al che Netanyahu ha risposto che questa è la prova che “abbiamo bisogno di formare immediatamente un forte governo di destra che restituisca calma e sicurezza ai civili israeliani”.
  Ma per ora, almeno, né il governo Bennett né Hamas daranno soddisfazione a PIJ o a Netanyahu. A volte, Al-Aqsa è solo un posto per sfogarsi”.
  Fin qui Pfeffer.

• BRAMOSIA DI POSSESSO
  La conquista dei luoghi santi di Gerusalemme, avvenuta con la Guerra dei Sei giorni dell’estate 1967, viene rielaborata in una chiave ideologica che da subito aveva preoccupato i due “eroi” di quella Guerra: il ministro della Difesa, Moshe Dayan, e il capo di stato maggiore di Tsahal, Yitzhak Rabin. A farsi strada è la sacralità di “Eretz Israel”, che in quanto tale non è data come materia disponibile per qualsiasi politico. La Terra è Dio. E’ il trionfo del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, l’humus culturale e ideologica su cui è cresciuta la fortuna politica della destra israeliana. In questa narrazione, la questione della sicurezza, che pure segna da sempre la quotidianità della popolazione israeliana, ha un ruolo tutto sommato secondario. Il punto centrale è che la Terra d’Israele non è negoziabile.
  È una questione identitaria, e dunque metapolitica. Affrontarla significa rileggere la storia d’Israele, dalla sua fondazione ad oggi, e assieme ad essa, quella, non meno complessa e tormentata, della diaspora. Segnata nel tempo da una bramosia di possesso assoluto che ha prodotto guerre, odii secolari, tingendo di sangue le sue pietre millenarie. Gerusalemme.
  “Il problema di Gerusalemme consiste nel fatto che è oggetto di una competizione aspra, crudele e nazionalistica tra gli ebrei d’Israele e gli arabi palestinesi. Per entrambe le parti vincere la competizione significa acquistare una sovranità incontrastata sulla città”. Così Avishai Margalit, tra i più acuti analisti politici israeliani, professore di Filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme, riflette sulla Città Contesa nel suo libro Volti d’Israele (Carrocci).
  “Ciò che rende il problema di Gerusalemme tanto complesso – annota ancora Margalit – è il fatto che l’attuale competizione nazionalistica per la città si svolge sullo sfondo di un’antica e sanguinosa competizione religiosa tra ebraismo, cristianesimo e islam. Per comprendere la profondità del conflitto nazionalistico bisogna afferrare il carattere di quello religioso…”.
  Per questo Gerusalemme è il simbolo di un conflitto che non ha eguali al mondo. Perché come nessun conflitto al mondo racchiude in esso interessi, sentimenti, geopolitica e simbologia, in una dimensione atemporale. Sono dunque gli scrittori coloro che meglio sono riusciti a catturare l’essenza e a raccontare la natura del problema. E tra gli scrittori ce ne è uno che più di chiunque altro ha scavato in quel groviglio di sentimenti, ambizioni, paure, speranze, odio, che da sempre caratterizza l’affaire- Jerusalem. Quello scrittore, scomparso qualche anno fa, è Amos Elon. Gerusalemme – osserva Elon nel suo libro Gerusalemme. I conflitti della memoria (BUR) – conserva uno straordinario fascino sulla fantasia e genera, per tre fedi ostili che si esprimono con parole perfettamente intercambiabili, la paura e la speranza dell’Apocalisse.
  Qui il territorialismo religioso è un’antica forma di cultura. A Gerusalemme, nazionalismo e religione furono sempre intrecciati tra loro; qui l’idea di una terra promessa e di un popolo eletto fu brevettata per la prima volta, a nome degli ebrei, quasi tremila anni fa. Da allora – prosegue Elon – il concetto del nazionalismo come religione ha trovato emuli anche altrove…Oggi, a Gerusalemme, religione e politica territoriale sono una cosa sola. Per i palestinesi come per gli israeliani, religione e nazionalismo si sovrappongono e combaciano. Da entrambe le parti si fondono e ciò che nasce è potenzialmente esplosivo”.
  Tutto su Gerusalemme rimanda a una visione assolutistica che non conosce né concede l’esistenza di aree “grigie”, di incontri a metà strada tra le rispettive ragioni. Un diplomatico, tutto ciò, dovrebbe saperlo e tenere bene in mente. Perché in questo crogiolo di sentimenti e di passioni, anche un fotomontaggio può divenire devastante.Sari Nusseibeh, già rettore dell’Università Al-Quds a Gerusalemme Est, è il più autorevole e indipendente tra gli intellettuali palestinesi. La sua è una delle più antiche famiglie gerusalemite, assieme agli Husseini e ai Nashashibi.
  Del suo libro” C’era una volta un paese. Una vita in Palestina”(Il Saggiatore), questa è la conclusione: “I dualismi di buono e malvagio, bianco e nero, giusto e sbagliato, all’insegna del ‘noi’ e ‘loro’, dei nostri ‘diritti e delle loro ‘usurpazioni’, hanno ridotto a brandelli la Terra santa. La sola speranza ci viene quando diamo ascolto alla saggezza della tradizione, e dalla consapevolezza che Gerusalemme non può essere conquistata o conservata con la violenza. E’ una città di tre fedi diverse ed è aperta al mondo….Negli antichi, intricati vicoli di Gerusalemme, stupore e prodigi sono sempre dietro l’angolo, pronti a ricordarti che questo non è un posto comune che un rilevatore può misurare con la sua asta graduata.
  È una terra troppo sacra per questo”. E per una dichiarazione unilaterale che ne viola saggezza e tradizione. E ne fa il centro di una possibile, devastante, guerra di religione”.
  Una guerra che continua.

(globalist, 21 aprile 2022)

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Quando la preghiera è vista come un crimine e la violenza fanatica come una lodevole virtù

Per mantenere la pace, Israele è costretto ad accettare compromessi anche sulla fondamentale libertà di religione dei suoi cittadini ebrei

di Fred Maroun

Il conflitto arabo-israeliano è pieno di contraddizioni e di fatti sconcertanti, ma per un osservatore esterno come me niente è tanto contraddittorio e bizzarro quanto la situazione sul Monte del Tempio di Gerusalemme, il luogo più sacro per gli ebrei (e terzo luogo sacro per i musulmani, ai quali è noto come Haram al-Sharif).
  Sul Monte del Tempio agli ebrei è proibito… pregare. Sì, pregare. Non importa quanto silenziosamente e con discrezione, agli ebrei non è comunque permesso pregare. In effetti, è vietato pregare sul Monte del Tempio a qualsiasi visitatore religioso che non sia musulmano. Non importa che il Monte del Tempio sia il sito dove sorgeva il primo Tempio degli ebrei distrutto da Nabucodonosor II di Babilonia nel 587/586 a.e.v. Non importa che il Monte del Tempio sia il sito dove sorgeva il secondo Tempio degli ebrei (quello citato anche nel Vangelo cristiano ndr), distrutto dai Romani nel 70 e.v. Non importa che vietare la preghiera sia una palese violazione della libertà di culto e di pensiero. Non importa che sia una norma profondamente anti-ebraica applicata proprio al centro dello stato ebraico.
  Il tutto diventa ancora più bizzarro quando si considera che questa norma altamente discriminatoria è stata accettata da Israele, lo stato ebraico, e viene fatta rispettare dalla polizia israeliana. E questo in base a un accordo raggiunto tra Israele e Giordania dopo la guerra del giugno 1967 durante la quale Israele conquistò la parte est di Gerusalemme, compreso il Monte del Tempio (sino ad allora occupata dalla Giordania ndr).
  Questa stravagante situazione ha conosciuto l’anno scorso una leggerissima evoluzione. Nel luglio 2021, il Times of Israel riferiva che Israele stava “tacitamente permettendo che alcuni ebrei pregassero silenziosamente sul Monte del Tempio”. Ma si tratta di un cambiamento ancora molto incerto. Più o meno nello stesso periodo, il primo ministro israeliano Naftali Bennett si esprimeva a favore della libertà di culto per gli ebrei sul Monte del Tempio, ma poco dopo il suo ufficio faceva marcia indietro dichiarando che “lo status quo resta in vigore”.
  Nell’ottobre 2021, un giudice stabilì che la preghiera ebraica è consentita sul Monte del Tempio finché resta “non percettibile”, ma a seguito di un ricorso del governo israeliano la Corte d’appello ha rapidamente annullato quella sentenza, e il ministro israeliano di pubblica sicurezza Omer Barlev ha ribadito che lo status quo verrà preservato.
  Il 18 aprile 2022, il primo ministro giordano Bisher Khasawneh ha tenuto un discorso in cui rendeva omaggio agli agitatori che “scagliano le loro raffiche di pietre contro i filo-sionisti che profanano la moschea di al-Aqsa”. Come hanno fatto i “filo-sionisti” a profanarla, vi chiederete. Ebbene, come riferisce Times of Israel, “gli agitatori palestinesi lanciano pietre contro gli autobus israeliani diretti verso il Muro Occidentale (“del pianto”) e verso il complesso del Monte del Tempio con l’intento di impedire ai non musulmani di visitare il sito”. In altre parole, altro che preghiere: la semplice presenza di ebrei nel luogo più sacro per gli ebrei costituisce una intollerabile “profanazione” agli occhi anche dei partner di pace arabi di Israele, e opporsi con la violenza a tale presenza è considerata una lodevole virtù.
  Intanto il partito Ra’am, l’unico partito arabo ad aver mai fatto parte di una coalizione governativa israeliana, ha congelato il suo sostegno al governo e ha minacciato di ritirarlo del tutto se le sue richieste non saranno soddisfatte, a cominciare dal ripristino “dello status quo in base al quale gli ebrei sul Monte del Tempio possono visitare, ma non pregare”. Da notare che il leader del partito Ra’am, Mansour Abbas, non è di per sé anti-israeliano, tanto che nel dicembre 2021 ha persino dichiarato che “Israele è e sarà sempre uno stato ebraico”.
  Alcuni arabi cercano di razionalizzare la loro opposizione alla preghiera ebraica sul Monte del Tempio citando il fatto, che secondo l’interpretazione della legge ebraica data da alcuni rabbini, gli ebrei non dovrebbero entrare sulla spianata del Monte del Tempio. Ma non spetta ai non ebrei pronunciarsi su una disputa tra ebrei sulla legge ebraica, e certamente la cosa non giustifica nessuna violenza contro gli ebrei.
  Da un punto di vista morale, la soluzione al problema sarebbe semplice. Chiunque, di qualsiasi religione, dovrebbe poter pregare dove vuole, finché rispetta i diritti degli altri di fare lo stesso. Si tratta di un diritto umano fondamentale riconosciuto a livello internazionale. L’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, afferma: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”. Anche un ateo come me, ben poco propenso a pregare da qualunque parte, capisce questo diritto. Diritti umani non significa permettere agli altri di fare ciò che per noi ha senso; significa permettere a tutti di fare ciò che per loro ha senso.
  Ma dal punto di vista della realpolitik la soluzione è molto meno chiara. L’esercizio di questo fondamentale diritto umano da parte anche solo di un piccolo numero di ebrei fa infuriare gli arabi musulmani, compresi quelli israeliani amichevoli verso Israele, e compresi gli stati arabi che hanno firmato accordi di pace con Israele. Per mantenere la pace interna e la pace con i suoi vicini, Israele è costretto a scendere a compromessi anche sulla fondamentale libertà di religione dei suoi cittadini ebrei. Su questa fondamentale questione di diritti umani fondamentali per gli ebrei, lo stato ebraico si trova alla mercé degli arabi musulmani. Il che è paradossale, considerando che Israele doveva essere l’unico posto sulla Terra in cui agli ebrei fossero garantiti gli stessi diritti di tutti gli altri. Allo stesso tempo, l’ostinata e spesso violenta opposizione araba a diritti umani fondamentali degli ebrei ci ricorda perché Israele esiste. Se i diritti degli ebrei vengono limitati in Medio Oriente anche all’interno dello stato ebraico, si può facilmente immaginare che fine farebbero se Israele non esistesse.
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Da Times of Israel, 20.4.22

(israele.net, 22 aprile 2022)

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Cedere territori non dà la pace

di Fiamma Nirenstein

Quando Hitler sin dai suoi primi inizi, due mesi dopo che Hindenburg gli aveva affidato la costruzione del nuovo governo nel 1933, mise in funzione i primi provvedimenti contro gli ebrei, nessuno poteva immaginare che quello sarebbe stato il seme della gigantesca seconda guerra mondiale che ha gettato l'Europa e il mondo nel sangue e nel caos, e che ha avuto come lead lo sterminio degli ebrei. Fino al 1935 con le leggi razziali, furono promulgati disgustosi provvedimenti che iniziarono con l'esclusione dai pubblici uffici e dall’avvocatura e poi dei medici dalle mutue: le reazioni in Europa furono blande e svariate. In genere, i governi non intervennero, le cancellerie miravano alla pacificazione. L'appeasement desiderato tuttalpiù era fatto di parole di biasimo, anche biasimo acuto, perché no. Qui, anche se come ho già scritto, non voglio disegnare nessuna analogia fra Shoah e stragi compiute dall'esercito russo, tuttavia siamo addirittura a un punto più avanzato rispetto ai segnali di emergenza per la pace europea: chi voleva vedere già avrebbe potuto farlo. I bambini uccisi con le loro mamme, gli uomini uccisi con le mani legate, i finti sentieri di evacuazione che si rivelano trappole, sono certamente episodi su cui la frase «never again» può essere applicata, e la previsione di una guerra totale è del tutto ammissibile dato che le inibizioni sono cadute.
  L’Europa è nata per questo, per bloccare gli orrori della guerra. Altrimenti non ha nessun significato. Germania e Francia, la prima a suo tempo diretto perpetratore dello sterminio e la seconda che ha lasciato che i suoi bimbi ebrei fossero caricati sui treni diretti ai campi di concentramento, dovrebbero essere in prima fila a impedire con la forza che non si torca un cappello ai bambini. Invece non è così. E di nuovo forse sarà solo l'Inghilterra a farsi veramente avanti, come ai tempi di Churchill, unico a capire cosa stava accadendo.
  Qui la guerra non può essere pacificata con profferte per due ragioni che chi vive in Medio Oriente conosce molto bene: perché la parte aggressiva, la Russia, non vuole fare la pace. Vuole soggiogare l'Ucraina. È lo stesso motivo per cui non si riesce a fare la pace coi palestinesi. Il loro è uno scopo ideologico che nel caso di Israele prevede la sua obliterazione. Nel caso della Russia, la resa territoriale e ideologica dell'Ucraina. E gli ucraini non intendono arrendersi. C'è un'altra ragione per cui non è giusto chiedere all'Ucraina di cedere almeno in parte: perché l'uso della forza diverrà ancora più aspro. Anche questo si impara in Medio Oriente, guardando a Gaza. Sarebbe bello che chi dà suggerimenti o perora la pace si ispirasse a principi di realtà storica: la pace si fa con chi la vuole, la violenza è l'arma di chi vuole vincere la guerra che ha deciso di combattere. Non si può far altro che fermarlo, o almeno cercare di farlo, senza perdere la bussola del buon senso e dell'insegnamento per cui, noi sì, dobbiamo sapere cosa significa «never agaìn», Combattere.

(il Giornale, 22 aprile 2022)
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I paragoni fatti sono tutti superficiali, attaccati a vecchi schemi di interpretazione non più adatti a capire il nuovo che sta accadendo oggi nel mondo su diversi piani. “La violenza è l'arma di chi vuole vincere la guerra che ha deciso di combattere”, dice l’autrice, ma con maggiore forza si potrebbe dire che “La menzogna è l’arma di chi vuole vincere la guerra che ha deciso di combattere”. E la menzogna oggi è molto più efficace della violenza, perché con le attuali tecniche di informazione e manipolazione si possono trovare collaboratori disposti a partecipare alla guerra a costo zero, perché totalmente convinti della giustezza della causa. La propaganda che presenta la guerra a Putin come difesa della libertà è un capolavoro di manipolazione ideologica globalista, che ottiene i suoi più preziosi risultati proprio presso gli ex liberal occidentali. Molti di loro sono andati ormai troppo avanti per riuscire a tornare indietro e ricredersi. M.C.

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Israele colpisce il centro di Gaza: è la più grave escalation da maggio 2021

Dall'enclave palestinese sono partiti almeno 5 razzi verso lo Stato ebraico, che ha risposto con bombardamenti nel centro del territorio controllato da Hamas.

Escalation di scambi di fuoco tra Israele e la Striscia di Gaza, ai massimi dalla guerra di 11 giorni dello scorso anno. Dall'enclave palestinese sono partiti almeno 5 razzi verso lo Stato ebraico, che ha risposto con bombardamenti nel centro del territorio controllato da Hamas. È la seconda volta in una settimana, dopo le violenze della Spianata delle moschee.
  Gli attacchi hanno colpito il centro di Gaza dopo la mezzanotte, hanno riferito testimoni e fonti della sicurezza, dopo quasi un mese di violenze mortali in Israele e nei Territori Palestinesi. Il razzo di Gaza non ha causato feriti: un frammento è caduto nel cortile di una casa nella città israeliana meridionale di Sderot, ha spiegato la polizia. Si tratta del secondo lancio questa settimana da Gaza, il primo a colpire Israele da mesi.

• Israele, razzi colpiscono il centro di Gaza nella notte: è la più grave escalation da maggio 2021
  L'ala armata del movimento islamista Hamas, che governa Gaza, ha lanciato in risposta diversi razzi terra-aria contro gli aerei israeliani, hanno detto i funzionari di Hamas e per risposta i jet israeliani hanno colpito a sud della città di Gaza. Ore prima, la polizia israeliana aveva impedito a folle di manifestanti ebrei ultranazionalisti di avvicinarsi al quartiere musulmano della Città Vecchia a Gerusalemme est, per scongiurare altre violenze israelo-palestinesi dopo settimane di spargimenti di sangue. La tensione è alta in occasione della Pasqua ebraica, in coincidenza con il mese sacro musulmano del Ramadan.

• Gaza, raid aerei di Israele dopo il lancio di un razzo
  Il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres si è detto «profondamente preoccupato per il deterioramento della situazione a Gerusalemme». Guterres è in contatto con le parti per spingerle «a fare tutto il possibile per abbassare le tensioni, evitare azioni incendiarie e retorica».

(La Stampa, 21 aprile 2022)

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Israele e Gaza vivono la peggiore crisi dal 2021

La tensione è alta in occasione della Pasqua ebraica, che coincide quest’anno con il mese sacro musulmano del Ramadan

Marcia delle bandiere a Gerusalemme
Sale la tensione a Gerusalemme. Nella notte, da Gaza sono stati sparati almeno quattro missili diretti verso il sud di Israele ma intercettati dal sistema antimissilistico Iron Dome. L’aviazione israeliana ha reagito colpendo nella Striscia due obiettivi militari di Hamas, senza però provocare decessi e feriti.
  Ai boati delle bombe seguono gli scontri tra fedeli islamici e reparti della polizia israeliana in quello che si presenta come la peggiore escalation di tensione dallo scorso anno. Nel maggio del 2021, infatti, per 11 giorni consecutivi ci sono stati scontri aerei e di artiglieria tra Hamas e Israele. Il conflitto, allora come oggi, ha avuto come casus belli la “marcia delle bandiere”, quando gruppi di giovani israeliani di estrema destra hanno marciato lungo la Spianata delle Moschee con bandiere che mostravano la Stella di David, il simbolo della religione ebraica, per affermare il controllo israeliano su tutta Gerusalemme.
  Nella giornata di ieri 20 aprile, si è tenuta una simile iniziativa organizzata dall’estrema destra israeliana, che però non ha ricevuto l’autorizzazione dalla polizia. Le forze dell'ordine hanno quindi bloccato il corteo composta da circa 500 persone, che da via Giaffa si stava dirigendo verso la Porta di Damasco, simbolo della Gerusalemme palestinese, per scongiurare altre violenze dopo settimane di spargimenti di sangue.
  La tensione è alta in occasione della Pasqua ebraica, che coincide quest’anno con il mese sacro musulmano del Ramadan. E come lo scorso anno, anche oggi 21 aprile gruppi di giovani palestinesi si sono barricati nella moschea al-Aqsa e da là si confrontano con gli agenti lanciando sassi e sparando fuochi di artificio ad altezza d'uomo. L’azione dei miliziani del movimento islamico di Hamas ha ricevuto il sostegno del leader del gruppo, Ismail Haniyeh, che ha annunciato come i combattenti siano pronti a rispondere con violenza agli israeliani che salgono al Monte del Tempio, ovvero la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, terzo luogo più sacro dell’islam.
  E riferendosi al raduno ultranazionalista organizzato a Gerusalemme Est, il leader di Hamas ha lanciato un monito ai coloni israeliani poiché subiranno una sconfitta anche in merito alla “politica di incursione”. Il movimento islamico Hamas ha avvertito la “leadership dell’occupazione” di assumersi la responsabilità di mosse pericolose e provocatorie.
  Nel frattempo aumentano gli arresti dei palestinesi (più di 400 nelle ultime settimane), che vedono la chiusura dei valichi con la Cisgiordania dal pomeriggio di oggi, in concomitanza con la fine della Pasqua ebraica. Da domani ai palestinesi sarà comunque consentito di raggiungere la Spianata delle Moschee, nel terzo venerdì del Ramadan.

(Today, 21 aprile 2022)

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Che fine ha fatto la mediazione di Israele per la guerra in Ucraina

Altre priorità. Le questioni interne sono diventate più urgenti della Russia

di Davide Lerner

ROMA - Che fine hanno fatto i tentativi di mediazione di Israele in Ucraina? La domanda è lecita dopo che il primo ministro dello stato ebraico,
  Naftali Bennett, si era recato in pompa magna a Mosca lo scorso 5 marzo per incontrare il presidente russo Vladimir Putin, proponendosi come interlocutore delle parti in guerra. Il premier, un religioso, aveva giustificato la violazione del sabato ebraico col fatto che il viaggio avrebbe permesso di "salvare vite umane", ma da allora di vite ne ha salvate ben poche. A porte chiuse, le fonti più vicine a Bennett ammettono la paralisi degli sforzi diplomatici sul fronte ucraino e ne danno una semplice spiegazione. Cioè che nello stato ebraico è in corso una crisi sul piano della sicurezza che assorbe tutte le energie del premier, al momento impegnato a evitare un'escalation con i palestinesi e a riportare la calma sul fronte domestico.
  In meno di un mese, Israele è stata colpita da quattro attentati che hanno fatto 14 vittime all'interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti. Circa 16 palestinesi hanno perso la vita in operazioni delle forze di sicurezza israeliane nei territori occupati. Poi è salita la tensione anche a Gerusalemme.

• L’UNICO RISULTATO
  Dalla fine del mese scorso il premier, che il 28 marzo si è anche ammalato di Covid, ha interrotto i tentativi di mediazione fra Russia e Ucraina. Il flusso continuo di telefonate ai rispettivi leader, che aveva fatto seguito al viaggio a Mosca, è venuto meno. Ad aggiungere un ulteriore motivo di distrazione c'è stata la defezione di una parlamentare all'opposizione di Benjamin
  Netanyahu, che ha privato il governo Bennett di una maggioranza alla Knesset facendo balenare lo spettro di nuove elezioni. «Il primo ministro dice in conversazioni private che ha abbastanza problemi per occuparsi anche di Ucraina», spiega Nadav Eyal, commentatore israeliano di punta e autore di Revolt, La ribellione nel mondo contro la globalizzazione (La Nave di Teseo).
  Conta anche quanto dice via WhatsApp Fyodor Lukyanov, analista russo vicino a Putin; cioè che «al momento non c'è soluzione diplomatica, i russi insistono su concessioni territoriali e gli ucraini dicono di no. Punto. Qualcuno dovrà sicuramente mediare e turchi e israeliani sono in prima fila, ma non prima che entrambe le parti giungano alla conclusione che l'opzione militare non può portare più vantaggi». Dall'ufficio del premier israeliano rivendicano comunque risultati ottenuti come intermediari fra Kiev e Mosca, in particolare l'apertura dell'ospedale da campo "Kochav Meir" a Mostyska, 50 chilometri a ovest di Leopoli, dove sarebbero già stati curati fino a tremila pazienti. Secondo fonti governative israeliane la struttura avrebbe ricevuto il via libera anche dei russi, in seguito a rassicurazioni sulle finalità esclusivamente sanitarie. Certo è che l'inaugurazione di un ospedale è una consolazione quasi beffarda. Il ministro della Salute Nitzan Horowitz si è recato in visita personalmente condannando «massacri e crimini di guerra russi».

• SCONTRI SULLA SPIANATA
  Come se non bastasse la peggiore ondata di attentati dal 2015-2016, a Pasqua sulla scrivania di Bennett è arrivata anche l'escalation annuale con i palestinesi nel quadrilatero più sacro per ebrei e musulmani a Gerusalemme: la Spianata delle moschee, nota agli ebrei come "Monte del tempio".
  Il sito è stato sede del Tempio ebraico di Re Salomone nonché del secondo tempio, distrutto dai romani nel 70 d. C. Oggi però ospita sia il Duomo della roccia, con la sua suggestiva cupola dorata, che la moschea di Al Aqsa, il terzo luogo più sacro in assoluto per la religione islamica. Da qui Maometto sarebbe asceso al cielo con il suo cavallo alato e, secondo la tradizione, Abramo si sarebbe dimostrato pronto a sacrificare il figlio Isacco per volere divino prima di essere fermato dall'intervento di un angelo. Diversi fattori accendono le tensioni nel periodo di Pasqua, che quest'anno coincide col mese del Ramadan: il sito, che di regola è precluso ai non musulmani a parte in rare finestre settimanali, viene aperto a brevi visite di fedeli israeliani. Il pellegrinaggio viene invece negato a tanti palestinesi della Cisgiordania a cui le forze israeliane non rilasciano permessi per entrare a Gerusalemme, citando motivi di sicurezza.
  L'anno scorso gli scontri sulla Spianata avevano fatto da anello di congiunzione fra le tensioni nel quartiere gerosolimitano di Sheikh Jarrah e la guerra di Gaza, che causò oltre 250 morti fra i palestinesi e 13 fra gli israeliani.
  Quest'anno ci sono stati un centinaio di feriti lievi fra i palestinesi in seguito a sassaiole e scontri con la polizia, ma un razzo lanciato lunedì da Gaza verso Israele non sembra aver scatenato una nuova guerra.

• FUORI DALLA NEUTRALITÀ
  Al di là della crisi di sicurezza, ci sono altre ragioni che spiegano l'apparente, momentaneo tramonto della mediazione israeliana. Dopo aver mantenuto una posizione ambigua nelle prime settimane di guerra, forse per guadagnare la fiducia di Mosca come interlocutore, Israele si è riallineata sulle posizioni occidentali. «Se nel gabinetto di governo c'era davvero chi sperava che la trovata diplomatica della mediazione ci avrebbe permesso di mantenere la neutralità, ormai si devono essere resi conto che era un'illusione», dice Eran Ezion, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale di Tel Aviv. «Israele deve collocarsi là dove appartiene: senza ambiguità all'interno del campo liberal-democratico».
  Con qualche ritardo, dovuto fra l'altro al ruolo importante giocato dalla Russia in Siria, lo Stato ebraico si è mosso proprio in questa direzione. Il ministro degli Esteri Yair Lapid il 5 aprile ha condannato senza giri di parole i fatti di Bucha.
  «Le immagini e le testimonianze dall'Ucraina sono orribili. Le forze russe hanno commesso crimini di guerra contro una popolazione civile indifesa. Condanno duramente questi crimini di guerra», ha detto.

• NE APPROFITTA LA TURCHIA
  Due giorni più tardi, in occasione del voto presso l'Assemblea Generale delle Nazioni unite sulla partecipazione della Russia al Consiglio per i diritti umani, Israele ha votato a favore della sospensione. La decisione non è passata inosservata a Mosca: il ministero degli Esteri russo ha subito accusato Israele di sfruttare la guerra in Ucraina per distogliere l'attenzione dall'occupazione della Cisgiordania e dall'assedio su Gaza.
  «Abbiamo preso nota di un altro insulto anti russo del ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid il 7 aprile nel contesto del sostegno del suo paese a una risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni unite che sospende l'appartenenza della Federazione russa al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite», recita piccato il comunicato.
  «È degno di nota il fatto che Israele persegua la più lunga occupazione nella storia mondiale del dopoguerra con la tacita connivenza dei
  principali paesi occidentali e con il sostegno de facto degli Stati Uniti». Lunedì, durante una chiamata con il leader palestinese Abu Mazen, Putin avrebbe anche espresso vicinanza a Ramallah rispetto alle vicende della Spianata delle moschee di Gerusalemme, un altro segnale di freddezza nei confronti di Israele.
  Le settimane delle telefonate a ripetizione con Putin e Zelenskyy sembrano lontane. Così come gli appelli del primo ministro ucraino affinché Gerusalemme diventi sede di negoziati fra le parti (dimentica, per inciso, che né il suo paese né l'Unione europea a cui vuole aderire la riconoscono come capitale israeliana).
  Nel frattempo, malgrado gli scarsissimi margini negoziali, Ankara si è imposta sulla scena della mediazione. Lunedì il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha promesso di ospitare nuovamente gli omologhi di Russia e Ucraina Serghei Lavrov e Dmytro Kuleba in Turchia. Sempre che possa servire a qualcosa.

(Domani, 21 aprile 2022)

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Israele. Da sabato sera via le mascherine

di Luca Spizzichino

Dopo due anni, in Israele non sarà più obbligatorio indossare la mascherina nei luoghi chiusi a partire dalle ore 20.00 di sabato sera.
  Questo è quanto ha dichiarato l’ufficio del primo ministro Naftali Bennett mercoledì. La decisione è stata presa in accordo con il ministro della Salute Nitzan Hororiwitz, e dovrà essere approvata dal comitato sanitario della Knesset.
  L'annuncio del premier israeliano è arrivato due giorni dopo che un giudice statunitense ha annullato i requisiti federali sull’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale sui trasporti pubblici. Tuttavia saranno ancora richiesti "in luoghi ad alto potenziale di contagio", tra cui elenca ospedali, le case di riposo e i viaggi aerei. L’utilizzo delle mascherine sarà obbligatorio anche per chi va in quarantena.
  "Abbiamo superato il Faraone e l'Omicron ", ha twittato Bennett. "Quest'anno — Mimuna senza maschere", ha scritto, riferendosi alla popolare celebrazione ebraica marocchina che segue Pesach.
  La decisione di annullare l’obbligatorietà delle mascherine è arrivata in un momento in cui in Israele si registra un progressivo calo dei contagi, dei casi gravi e dei decessi di settimana in settimana.

(Shalom, 21 aprile 2022)

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Francia: le istituzioni ebraiche invitano a votare per Macron contro Le Pen

È polemica

Emmanuel Macron e Marine Le Pen durante il faccia a faccia televisivo del 20 aprile 2022
In una dichiarazione congiunta, il rabbino capo di Francia, Haïm Korsia, ed Élie Korchia, presidente dell’istituzione rappresentativa degli ebrei di Francia, hanno chiesto agli ebrei francesi di votare a favore del presidente uscente per il secondo turno delle elezioni presidenziali. In particolare denunciano la volontà di Marine Le Pen di vietare la macellazione rituale.
  “Sono in gioco le nostre libertà individuali, la nostra diversità sociale, la nostra tradizione e la stabilità del nostro Paese”, ha affermato il CRIF nella sua dichiarazione. “il CRIF chiede di causare una sconfitta elettorale a Marine Le Pen e di votare in modo massiccio per Emmanuel Macron”.
  “Per la prima volta, c’è una reale possibilità che un candidato di estrema destra possa vincere le elezioni”, ha detto Korchia a Le Monde.
  Come durante le due precedenti elezioni presidenziali in Francia, i principali gruppi ebraici del Paese hanno invitato gli ebrei a votare contro la candidata di estrema destra Marine Le Pen. Ma questa volta l’appello ha innescato un dibattito a livello comunitario sul ruolo delle istituzioni ebraiche francesi che ha messo in evidenza la crescente polarizzazione degli ebrei francesi. Altre istituzioni e figure ebraiche hanno criticato l’approvazione come una mossa eccessivamente partigiana da parte di due gruppi che si sforzano di rappresentare tutti gli ebrei francesi.

• No alla macellazione kasher e halal per il benessere animale (ma sì alla caccia e alla corrida)
  La posizione del Rassemblement National sulla macellazione rituale era già stata espressa dal presidente ad interim Jordan Bardella agli inizi di aprile, prima del primo turno di elezioni. Ora, a qualche giorno dalle elezioni che decideranno chi sarà il presidente fra Macron e la Le Pen, è tornato a ribadirla martedì 19 aprile a Franceinfo.
  “La carne che sarà macellata sul territorio francese sarà macellata con previo stordimento in nome della dignità animale e della sofferenza degli animali”, ha spiegato. I musulmani ed ebrei potranno “importare carne kosher o halal che sarà macellata secondo un rito perfettamente religioso” in altri paesi e ritiene che “non sia ipocrita” autorizzare tali importazioni mentre la pratica sarà vietata in Francia.
  Interrogato invece su un eventuale divieto della corrida e della caccia in nome di questa stessa dignità animale, il presidente della RN ha assicurato che nessuno dei due sarà vietato e che la corrida sarà semplicemente vietata ai minori. “Ci sono alcune tradizioni che sono tradizioni culturali, che sono tradizioni francesi, tradizioni europee da diversi anni”, giustifica Jordan Bardella, a proposito della corrida.
  Riguardo alla caccia, “Marine Le Pen ha detto che l’idea non era quella di vietare tutto ciò che non ci piaceva”, ha detto, confidando di essere scioccato, “a titolo personale”, da certe pratiche come la caccia. Il presidente della RN ritiene che ci siano tutti gli stessi “grandissimi sforzi normativi da compiere, in particolare nella distribuzione delle aree [perché] molto spesso le zone di caccia sono anche zone di svago, soprattutto per le famiglie che vogliono fare una passeggiata nei fine settimana e penso che sia un argomento da aprire con gli attori attorno al tavolo”.

(Bet Magazine Mosaico, 21 aprile 2022)

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Germania, “l’antisemitismo ha raggiunto il centro della società”

Lo sostiene un rapporto dell'intelligence interna tedesca, secondo cui l'antisemitismo si propagherebbe soprattutto grazie a internet e resterebbe inoltre diffuso in tutte le aree estremiste.

L'antisemitismo ha raggiunto il cuore della società tedesca ed è diffuso anche al di là dei settori più estremisti, come hanno anche dimostrato le manifestazioni contro le misure anti-covid. A dirlo è il nuovo report del Bfv, l'Ufficio per la protezione della costituzione (l'intelligence interna tedesca).

• “Crimini in aumento”
  “Il numero di crimini antisemiti continua ad aumentare costantemente, e questa è solo la punta dell’iceberg”, dichiara in un comunicato ufficiale il presidente del Bfv, Thomas Haldenwang, che poi aggiunge “è spaventoso che le narrazioni antisemite possano talvolta arrivare al centro della società tedesca e servire da collegamento tra discorsi sociali e ideologie estremiste. Lo abbiamo visto sempre più spesso nelle proteste contro le misure anti-covid o nelle manifestazioni sul conflitto in Medio Oriente, e lo stiamo notando anche in casi isolati in relazione alla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina”.

• Internet come strumento di diffusione
  Secondo il nuovo rapporto dell'intelligence interna, che copre il periodo dall'estate 2020 all'autunno 2021, l'antisemitismo si propaga soprattutto grazie a internet e resta inoltre diffuso in tutte le aree estremiste: estrema destra, galassia Reichsbuerger, estremismo di sinistra, islamismo ed estremismo straniero.

(Ticinonews, 20 aprile 2022)

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La Cina si oppone a qualsiasi azione unilaterale per cambiare lo status quo storico di Gerusalemme

Il 20 aprile il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha presieduto una conferenza stampa ordinaria nel corso della quale un giornalista di AL Jazeera ha fatto una domanda sulla posizione cinese relativa all’escalation del conflitto tra Palestina e Israele avvenuta negli ultimi giorni. Wang Wenbin ha indicato che la Cina segue molto da vicino la crisi tra Palestina e Israele, soprattutto il peggioramento della situazione a Gerusalemme. Il portavoce ha aggiunto che la Cina si oppone a qualsiasi azione unilaterale per cambiare lo status quo storico di Gerusalemme ed auspica che le parti coinvolte sappiano mantenere la calma per evitare che la situazione vada fuori controllo.
  “La Cina ritiene che la questione palestinese non dovrebbe essere marginalizzata né dimenticata e che le ingiustizie storiche durate oltre 50 anni non dovrebbero più continuare”.

(CRI online, 20 aprile 2022)

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Israele, razzi da Gaza e nuovi raid aerei: con Hamas è escalation, i rischi legati al Ramadan

di Cristiana Mangani

La tensione è alta da giorni, da quando è iniziato il Ramadan. È stato un fine settimana di violenze intorno a un luogo sacro di Gerusalemme. Poi, ieri, le sirene hanno cominciato a suonare nel sud d'Israele: dalla striscia di Gaza, in un territorio controllato da Hamas, è stato lanciato un razzo verso il kibbutz Kissufim ed Ein Hashlos, che è stato intercettato dal sistema di difesa aerea Iron Dome, ma ha comunque provocato qualche ferito. E così, dopo mesi, Israele ha effettuato nuovi attacchi aerei in territorio palestinese.
  Il missile è caduto in mare al largo di Tel Aviv. E l'esercito israeliano ha confermato che «un razzo è stato lanciato dalla Striscia di Gaza nel territorio israeliano, ed è stato intercettato dal sistema di difesa aerea Iron Dome». Ore dopo, l'aviazione israeliana ha comunicato di aver colpito un sito di produzione di armi di Hamas per rappresaglia. E Hamas, a sua volta, ha affermato di aver utilizzato la sua "difesa antiaerea" per contrastare i raid, che - secondo testimoni e fonti di sicurezza di Gaza - non hanno causato vittime. Nessuna fazione nell'enclave di 2,3 milioni di abitanti ha rivendicato l'attacco missilistico. Anche se Israele ritiene Hamas responsabile di tutto.

• LE VIOLENZE 
  L'attacco segue a un fine settimana di violenze israelo-palestinesi dentro e intorno al complesso della moschea al-Aqsa di Gerusalemme, dove sono rimaste ferite più di 170 persone, per lo più manifestanti palestinesi. Fonti diplomatiche hanno annunciato che oggi il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite terrà una sessione per discutere proprio dell'aumento delle violenze. Anche perché episodi di questo tipo avvenuti lo scorso anno, nello stesso periodo, si sono trasformati in una guerra di 11 giorni con lanci di razzi da parte di Hamas e risposta da Israele.
  L'aumento delle tensioni coincide con il mese sacro musulmano del Ramadan e la festa ebraica della Pasqua. Il complesso della moschea di Al-Aqsa è noto agli ebrei come il Monte del Tempio. È il luogo più sacro dell'ebraismo e il terzo più sacro dell'Islam. I palestinesi si sono arrabbiati per le ripetute incursioni al sito da parte di fedeli ebrei, ai quali è permesso entrare ma non possono pregare lì. Il governo di Naftali Bennett ha dichiarato più volte che le forze di sicurezza israeliane hanno “mano libera” per trattare con i manifestanti. Però Hamas ha dichiarato, domenica scorsa, che «al-Aqsa è solo nostra» e ha giurato di difendere il diritto dei palestinesi a pregare in quel luogo. Ma come sempre accade in quella terra martoriata gli scontri a fuoco a Gaza e gli scontri di al-Aqsa sono solo la risposta dei quattro attacchi terroristici che si sono consumati alla fine di marzo in territorio ebraico da parte di palestinesi e arabi israeliani che hanno causato 14 vittime, per lo più civili. Ventitré palestinesi sono stati uccisi nelle violenze dal 22 marzo, compresi gli assalitori che hanno preso di mira gli israeliani. Tra questi anche Hanan Khudur, una ragazza palestinese di 18 anni morta lunedì dopo essere stata colpita dalle forze israeliane la scorsa settimana nel villaggio di Faquaa, vicino alla città di Jenin.

• LA SITUAZIONE 
  Israele ha riversato ulteriori forze nella Cisgiordania occupata. Ned Price, un portavoce del dipartimento di stato degli Stati Uniti, ha dichiarato che Washington è «profondamente preoccupata» per l'escalation delle tensioni e che alti funzionari statunitensi sono in contatto in queste ore con le loro controparti di Israele, dell'Autorità palestinese e delle nazioni arabe. «Abbiamo esortato tutte le parti a preservare lo status quo storico» nel complesso di al-Aqsa ed evitare passi «provocatori», ha affermato il portavoce. Mentre la Giordania  - ha riferito il ministero degli Esteri di Amman - ha convocato l'incaricato d'affari israeliano «per consegnare un messaggio di protesta per le violazioni illegittime e provocatorie israeliane nella moschea benedetta di al-Aqsa».
  La Giordania funge da custode dei luoghi santi a Gerusalemme est, inclusa la Città Vecchia, che Israele haha occupato nel 1967 e successivamente ha annesso con una mossa non riconosciuta dalla maggior parte della comunità internazionale. Bennett lunedì ha denunciato quella che ha definito una «campagna di incitamento guidata da Hamas» e ha affermato che Israele sta facendo ogni cosa per garantire che persone di tutte le fedi possano pregare in sicurezza a Gerusalemme. «Ci aspettiamo che nessuno creda alle bugie e incoraggi la violenza contro gli ebrei», ha detto il primo ministro, con un riferimento palesemente rivolto alla Giordania, sebbene non l'abbia mai nominata. Bennett sta affrontando una crisi politica in patria dopo che la sua coalizione ha perso la maggioranza di un seggio alla Knesset, il parlamento israeliano da 120 seggi, a quasi un anno dalla nascita del suo governo. E domenica, Raam, il primo partito arabo-israeliano a far parte di un governo di Gerusalemme, ha dichiarato che avrebbe sospeso la sua adesione a causa delle violenze intorno alla moschea.

(Il Mattino, 20 aprile 2022)

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Israele, da sabato stop all'obbligo delle mascherine al chiuso

Il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, e il suo ministro della Salute, Nitzan Horowitz, hanno annunciato, in una nota congiunta, che da sabato mattina non ci sara' piu' l'obbligo di indossare la mascherina in ambienti chiusi.
Lo riportano i media israeliani.

(AGI, 20 aprile 2022)

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Israele vuole ospitare incontro tra Putin e Zelensky: la mossa che spiazza l’Europa

di Eugenio Palazzini

ROMA – Israele vuole ospitare a Gerusalemme un incontro tra Putin e Zelensky. Proprio ora che i negoziati tra Russia e Ucraina sono in stallo, messi in stand by da più di venti giorni. Mai come adesso i rappresentanti di Kiev e Mosca sembrano lontani da un tavolo delle trattative che a metà marzo appariva quantomeno concreto. Ma nel grande gioco delle potenze c’è chi tenta di percorrere un’improbabile, ad oggi, via del compromesso. Israele tenta così il sorpasso sulla Turchia, arbitro (auto)designato della cruenta partita in atto.<

• ISRAELE PRONTA A OSPITARE INCONTRO TRA PUTIN EZELENSKY
  Difficile ma non impossibile che Tel Aviv riesca nell’intento, se consideriamo che l’agenzia russa Tass apre stamani proprio con questa notizia: “Israele è disponibile a ospitare un incontro tra Putin e Zelensky”. E’ d’altronde quanto dichiarato dall’ambasciatore israeliano in Russia, Alexander Ben Zvi, in un’intervista rilasciata proprio alla Tass. “Tuttavia, loro (Putin e Zelensky) devono prendere una decisione“, ha specificato il diplomatico. Secondo Ben Zvi, per il governo di Israele sarebbe “un grande onore” ospitare colloqui tra il presidente russo e quello ucraino. “Saremo felici di ospitare un tale incontro a Gerusalemme”, ha dichiarato l’ambasciatore.
  Allo stesso tempo Ben Zvi apre a incontri tra le delegazioni di Russia e Ucraina, da tenersi sempre a Gerusalemme. Perché “quello che è stato fatto in Turchia può essere fatto anche nel nostro Paese”, ha detto, sottolineando che il primo ministro israeliano Naftali Bennett e il presidente russo Vladimir Putin mantengono contatti regolari tra loro. Ma “non posso dire quando avverrà esattamente il loro prossimo (contatto)”, ha inoltre aggiunto il diplomatico di Tel Aviv. Di sicuro a inizio marzo il premier israeliano volò a Mosca per incontrare il leader russo e discutere della guerra in Ucraina, poi in apparenza il dialogo si è arenato.

• A COSA PUNTA ISRAELE
  Come detto, non è affatto scontato che Israele riesca ad andare a meta. Quel che è certo è che Tel Aviv punta a ottenere il massimo, che potrebbe essere traducibile con tre obiettivi da centrare: scongiurare un possibile nuovo accordo sul nucleare iraniano, ottenere il via libera (definitivo) di Mosca ai bombardamenti in Siria, emergere come unico e decisivo mediatore. Soprattutto in quest’ultimo caso a perdere sarebbe ancora una volta l’Europa, incapace di ritagliarsi quel ruolo di arbitro tanto auspicato (e tentato) agli albori del conflitto da Francia e Germania.

(Il Primato Nazionale, 20 aprile 2022)

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La saga degli ebrei del Portogallo tra partenza e ritorno

Nascosti per secoli, hanno resistito. Nel piccolo comune di Belmonte, patria di Pedro Álvares Cabral, scopritore del Brasile, circondato dalle montagne nel distretto di Castelo Branco, non lontano dal confine spagnolo, il candeliere Hanukkah a nove rami convive singolarmente nella piazza principale con una moltitudine di croci, statue e chiese. Testimonianza della presenza all’interno della popolazione di “Cripto-ebrei” In cui si “marrano”secondo il nome più usato in Spagna....

(oggiurnal, 20 aprile 2022)
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Israele ha bombardato la Striscia di Gaza in risposta al lancio di un razzo verso Tel Aviv

Martedì mattina Israele ha bombardato la Striscia di Gaza in risposta al lancio di un razzo proveniente da Gaza. L’attacco, ha detto l’esercito israeliano, ha colpito un sito di produzione di armi usato dal gruppo radicale palestinese Hamas: sembra che non abbia provocato morti, così come il razzo lanciato da Gaza, sembra in risposta ai violenti scontri tra palestinesi e polizia israeliana avvenuti negli ultimi giorni nel complesso della moschea di al Aqsa, a Gerusalemme.
Gli scontri a Gerusalemme avevano provocato decine di feriti e avevano fatto temere l’inizio di un nuovo conflitto, anche perché successivi a una serie di attentati terroristici compiuti da palestinesi in Israele.

(il Post, 19 aprile 2022)

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Cinque cose da sapere sull’ondata terrorista in Israele

di Ugo Volli

1. NIENTE PIÙ STRAGI, PER IL MOMENTO
  L’attacco terrorista è iniziato due settimane fa con alcuni attentati omicidi: A Beer Sheva, a Hedera, a Bnei Berak, a Tel Aviv. Ha preso di sorpresa gli apparati di sicurezza, che inizialmente non sono riusciti a bloccare gli assassini. Poi però le forze dell’ordine hanno ritrovato la loro tradizionale capacità di prevenzione del terrorismo, e negli ultimi giorni i palestinisti non sono più riusciti ad assassinare altri israeliani. Non perché non ci abbiano provato, ma perché sono stati prevenuti con operazioni nei santuari del palestinismo, come il campo profughi di Jenin. E perché vi è stato un massiccio schieramento della sicurezza nei luoghi più sensibili, come la città vecchia di Gerusalemme, dove per esempio un tentativo di attacco omicida nei confronti dei fedeli che tornavano a casa dal Kotel attraverso il quartiere arabo (la via più rapida per arrivare a diversi quartieri storici dei charedim) è stato bloccato dall’intervento della polizia. Altri attentati falliti si sono avuti altrove, per esempio a Haifa. Si può solo sperare che la prevenzione e la reazione rapida delle forze dell’ordine continuino a evitare gli omicidi.

2. LA MOBILITAZIONE SUL MONTE DEL TEMPIO
  Forse per compensare il fallimento di questi attacchi, ma certamente per amplificare l’ondata terrorista, i palestinisti sono ricorsi a una vecchia parola d’ordine: “la moschea di Al Aqsa è in pericolo”. Ad essa segue sempre il tentativo di provocare disordini con la polizia sulla spianata del Monte. Il pericolo, questa volta, non sarebbe una manovra ingegneristica israeliana per far crollare la moschea, come altre volte i palestinisti hanno sostenuto, ma la sua dissacrazione attraverso il sacrificio pasquale che “gli ebrei” progetterebbero. In realtà la quasi totalità dei rabbini ritiene ancora oggi improponibile il rinnovamento dell’antico sacrificio di un agnello per Pesach, che era prescritto fino a che esisteva il Tempio e poi fu proibito, perché non esisteva più il luogo consacrato dove farlo e non era possibile ottenere il grado di purità rituale necessario. Solo qualche piccolo gruppo contraddice questa normativa e prova a compiere il sacrificio o vi si prepara. Ma la polizia impedisce tutti questi tentativi. Vi sono alcune centinaia di ebrei che salgono sul Monte, e magari mormorano qualche preghiera, dato che farlo in maniera aperta è ancora proibito dalla polizia. Ma non si vede in che cosa tutto ciò turbi la sacralità del luogo. Chi lo fa, eventualmente, sono i ragazzi arabi che non nascondono di giocare a calcio sulla spianata e perfino all’interno della moschea, come molte foto e filmati documentano. E ancor di più quelli che accumulano nella moschea pietre per lanciarle sulla polizia e sugli ebrei che pregano al Kotel, come di nuovo è facile vedere dalle immagini.

3. GLI SCONTRI
  Gli ebrei che sono saliti al Monte, lo mostrano ancora le immagini, erano pacifici, disarmati, per nulla aggressivi, scortati e sorvegliati dalla polizia. Esercitavano un diritto che è garantito a tutti dalle leggi. Ma i media arabi hanno definito la visita, breve e innocua, un “assalto”. Contro di loro hanno eretto barricate di pietra, li hanno bersagliati di slogan ingiuriosi e soprattutto di grossi sassi. Prima e dopo la loro visita, la sassaiola si è rivolta contro le forze dell’ordine. La quale ha reagito, arrestando molte decine di violenti. L’ha fatto però con grande efficacia, tanto da non permettere che negli scontri fossero coinvolti le decine di migliaia di fedeli convenuti per le preghiere del Ramadan.

4. LE CONSEGUENZE INTERNAZIONALI
  Gli scontri erano chiaramente preparati, come mostra la quantità di pietre accumulate nella moschee in previsione della “battaglia”, l’uso degli altoparlanti per incitare alla guerriglia urbana, gli appelli della stampa e delle forze politiche palestiniste. La bugia propagandistica dell’”assalto dei coloni alla moschea” è stata raccolta però solo dai media di Hamas e Fatah e dai loro alleati storici (almeno a parole) come Turchia, Iran e Giordania. Se la speranza era quella di rinnovare l’odio contro Israele nelle masse dei paesi arabi che ormai si stanno abituando alla normalizzazione dei rapporti, ciò è certamente fallito. Bisogna solo sperare che le provocazioni non si accentuino, in particolare nei prossimi giorni quando ancora si sovrapporranno la festività ebraica di Pesach e il Ramadan.

5. L’IMPATTO SULLA POLITICA ISRAELIANA
  Il carattere organizzato e di massa di questi ultimi attacchi e l’appoggio dimostrato dalle organizzazioni palestiniste (non solo Hamas, anche Fatah, presieduta da Abbas, nonostante la condanna solo verbale e diretta al pubblico occidentale degli omicidi) mostrano il fallimento delle aperture tentate dal governo Bennett, su pressione dell’amministrazione americana. La lista araba unita, di matrice islamista, che siede al governo ed è determinante per la sua sopravvivenza, ha annunciato la propria autosospensione dalla maggioranza. Si tratta di una mossa a tempo e dunque solo propagandistica, dato che il Parlamento israeliano è chiuso per le vacanze pasquali. Ma essa mostra come le crepe della coalizione si stiano allargando: non è possibile tenere assieme ancora a lungo chi appoggia i manifestanti violenti e chi difende la polizia e lo stato di diritto. Questo è però un problema che maturerà nelle prossime settimane e mesi. Per ora è importante che l’ondata terrorista si spenga.

(Shalom, 19 aprile 2022)

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Putin chiede a Israele di tornare in possesso di un pezzo del sito originario del Santo Sepolcro

di Franca Giansoldati

CITTÀ DEL VATICANO – Il presidente russo Vladimir Putin ha ingaggiato una battaglia legale con Israele per tornare in possesso – in qualità di legittimo proprietario – del cortile della antichissima chiesa paleocristiana di Sant'Alessandro, nella Gerusalemme Vecchia. Un sito carico di storia che originariamente venne acquistato dalla famiglia reale russa per costruire, attorno alla metà dell'Ottocento, l'ambasciata russa a Gerusalemme. Gli scavi iniziarono nel 1883 e portarono alla luce i resti della chiesa del Santo Sepolcro originale, nonché i resti della porta del Giudizio di Gesù, oggi proprio accanto al Santo Sepolcro. Insomma un luogo più che simbolico che permette ai visitatori oggi di rendersi conto dell'estensione effettiva dell'antico edificio, come realmente era, al di là delle attuali dimensioni del Santo Sepolcro.
  La disputa che ha aperto la Russia non è indifferente, poiché si tratterebbe di rientrare nella piena disponibilità di un pezzo originario del Santo Sepolcro, praticamente il luogo più importante per il cristianesimo. 
  La Russia ha così chiesto che Israele conceda al suo paese il controllo totale del cortile di Sant'Alessandro facendo riferimento ad una decisione già presa dal precedente governo israeliano. La richiesta è contenuta in una lettera consegnata al primo ministro Naftali Bennett.
  La missiva di Putin è arrivata all'indomani delle accuse che il ministero degli Esteri israeliano, Yair Lapid ha rivolto alla Russia di commettere crimini di guerra in Ucraina. Una dichiarazione che ha portato il ministero degli esteri russo a convocare, domenica scorsa, l'ambasciatore israeliano Alexander Ben Zvi per un richiamo.
  E' chiaro che il trasferimento della proprietà del terreno della chiesa potrebbe causare ulteriori problemi diplomatici tra i due paesi in un momento in cui la Russia è stata sanzionata per la sua invasione in Ucraina.
  L'ex primo ministro Benjamin Netanyahu aveva promesso che la Russia si sarebbe potuta prendere il sito in qualità di legittimo proprietario in quanto successore del governo imperiale russo. Una mossa che di fatto dirimeva una disputa ingarbugliata tra confessioni ortodosse, tra gli ortodossi di Mosca e quelli di Costantinopoli ma che ora contribuisce a far salire la tensione politica tra i due stati.

(Il Mattino, 19 aprile 2022)

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Gli scontri a Gerusalemme stanno mettendo in difficoltà il governo israeliano

I violenti scontri degli ultimi giorni tra palestinesi e la polizia israeliana vicino alla moschea di al Aqsa, a Gerusalemme, stanno mettendo in difficoltà il governo israeliano del primo ministro Naftali Bennett, che da alcune settimane stava già attraversando una grossa crisi politica. Per via delle recenti tensioni, un gruppo parlamentare arabo ha minacciato di uscire dalla coalizione che sostiene il già debole governo, che ora rischia di cadere.
  I primi scontri alla moschea di al Aqsa – il terzo luogo più sacro per l’Islam dopo Medina e la Mecca – si erano verificati venerdì, quando la polizia israeliana era entrata nel complesso dove erano riuniti molti palestinesi a pregare sostenendo di intervenire in risposta a un lancio di pietre e di altri oggetti. Gli scontri si sono ripetuti domenica, quando gli agenti delle forze dell’ordine hanno fatto irruzione nel complesso per disperdere alcuni manifestanti palestinesi che secondo le loro ricostruzioni avevano cominciato ad accumulare pietre poco prima dell’arrivo dei visitatori ebrei (che hanno diritto di visita all’adiacente “Spianata delle moschee”, ma non sono autorizzati a fermarvisi per pregare). In totale negli scontri sono state ferite almeno 150 persone palestinesi e ne sono state arrestate più di 300.
  Le tensioni di questi giorni hanno portato la Lista Araba Unita (Ra’am) a decidere di sospendere la propria partecipazione alla coalizione di governo, che è sostenuto da una maggioranza eterogenea che va dai partiti di sinistra alla destra nazionalista ed è da tempo considerato molto fragile. Ra’am è il primo partito arabo indipendente a far parte di un governo israeliano e visto che le sedute in Parlamento saranno sospese fino al prossimo 8 maggio al momento la sua decisione non avrà alcun effetto sulla maggioranza. Se però Ra’am confermerà la sua decisione di uscire dalla coalizione, l’opposizione avrà una maggioranza di 64 seggi su 120, e potrà provocare facilmente la caduta del governo.
  A inizio aprile, ancora prima dell’annuncio di Ra’am, la stabilità del governo era già stata messa in crisi dalla decisione di un’importante deputata dello stesso partito di Bennett, Idit Silman, di passare all’opposizione: Silman, della destra nazionalista israeliana, aveva citato divergenze irrisolvibili con il resto della maggioranza, culminate in una vicenda che riguardava il cibo che si può consumare negli ospedali pubblici durante il periodo pasquale. Adesso sembra piuttosto difficile che la coalizione di Bennett riesca a riottenere la maggioranza nella Knesset – il Parlamento israeliano – e al contempo non sembrano esserci numeri per formare una coalizione alternativa.
  La crisi politica del governo provocata dalla decisione di Silman e dagli scontri del fine settimana è stata amplificata da una nuova serie di attacchi terroristici che negli ultimi tempi hanno colpito il paese con maggior frequenza.
  A Gerusalemme, a complicare ulteriormente le cose c’è una coincidenza piuttosto significativa: per la prima volta dal 1991 i giorni della Pasqua cristiana – il cosiddetto triduo pasquale – vengono celebrati all’interno della stessa settimana della Pasqua ebraica, che quest’anno si festeggia a sua volta durante il mese sacro per i musulmani, il Ramadan.
  Questa ricorrenza è notevole e unica al mondo per Gerusalemme, città sacra per tutte e tre le religioni: il rabbino Barnea Selavan, intervistato dal New York Times, sostiene che la ricorrenza di questi tre eventi simboleggi le molte culture di Gerusalemme e che in questo momento la città sia una «sinfonia di persone che si rivolgono a Dio». Al tempo stesso, però, l’accavallarsi delle festività religiose rischia di alimentare i numerosi conflitti presenti da decenni in città, come si è visto negli scontri di questi giorni.

(Roccarainola.net, 18 aprile 2022)

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La Lista araba sospende la partecipazione alla coalizione di governo per protesta

Se il governo continuerà ad attuare le sue misure arbitrarie contro il popolo palestinese e musulmano a Gerusalemme, presenteremo le dimissioni collettive", hanno dichiarato i parlamentari.

La Lista araba unita, partito arabo-israeliano, ha deciso di sospendere la propria partecipazione al governo del premier Naftali Bennett come protesta contro le provocazioni e le violenze esercitate dai militari israeliani nei pressi della moschea di Al Aqsa, a Gerusalemme. Lo riferisce il quotidiano panarabo “Al Quds al Arabi”. “Se il governo continuerà ad attuare le sue misure arbitrarie contro il popolo palestinese e musulmano a Gerusalemme, presenteremo le dimissioni collettive”, hanno dichiarato ieri i parlamentari della lista araba (quattro seggi alla Knesset). L’eventuale ritiro della Lista araba unita dalla coalizione di Bennett non influirà immediatamente sul governo, poiché la Knesset è in pausa fino al 5 maggio. Tuttavia, il governo può rimanere al potere solo con una maggioranza di almeno 60 seggi – il numero di cui dispone ora. Nel caso i quattro deputati arabi si ritirassero, il governo andrebbe incontro a un voto di sfiducia che, se approvato, potrebbe portare gli israeliani al voto anticipato, eventualmente il quinto in quattro anni.
  Il governo di Bennett è già in crisi da inizio aprile, quando la deputata leader della coalizione di destra Yamina, Idit Silman, si è dimessa confluendo nelle fila dell’opposizione – 60 seggi, come la coalizione al potere. Si complica quindi la situazione del governo Bennett, che da accordo sarebbe dovuto durare fino all’agosto 2023, quando dovrebbe essere sostituito da uno pressoché uguale guidato però da Yair Lapid, attuale vice-premier e leader del partito Yesh Atid, centrista e laico.

(Nova News, 18 aprile 2022)

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La Giordania convoca un diplomatico dell'ambasciata di Israele

TEL AVIV – Il ministro giordano degli Esteri Ayman Safadi ha convocato l’incaricato di affari dell’ambasciata di Israele ad Amman (vista la temporanea assenza dell’ambasciatore) per estendergli una protesta in seguito alle violenze verificatesi nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme nel secondo venerdì del Ramadan e nei giorni successivi.
  Lo ha riferito la radio pubblica israeliana Kan. In un intervento in parlamento Safadi ha aggiunto che la Giordania è impegnata in sforzi continui per “misurarsi con le misure illegali adottate da Israele per alterare lo status legale e storico nei Luoghi santi di Gerusalemme”. Ieri anche re Abdallah, che si trova in Germania per cure mediche, ha espresso la propria insoddisfazione per la situazione a Gerusalemme e ha esortato Israele a ”cessare le provocazioni”.

(ANSAmed, 18 aprile 2022)

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Nuova Offensiva Globale

Nel discorso del Ramadam il portavoce dello Stato Islamico chiama alla nuova offensiva globale a partire da Gerusalemme, critica Fatah e la Jihad Islamica palestinese ma non Hamas, il che alimenta negli esperti i sospetti che i terroristi stiano usando la Striscia di Gaza come base per le “operazioni”.

di Franco Londei

Poteva mancare lo Stato Islamico nel caotico cumulo di minacce contro Israele che vediamo in questi giorni che dovrebbero essere di festa?
  Dopo il silenzio seguito alla rivendicazione , si rifà sentire lo Stato Islamico in Israele e lo fa per chiedere una escalation di attentati.
  Non solo, critica i “terroristi laici” di Fatah e della Jihad islamica palestinese ma singolarmente non critica Hamas che di solito è sempre nel mirino delle critiche dell’ISIS.
  Nel lungo discorso rilasciato ieri il nuovo portavoce del gruppo jihadista Abu-Omar al-Muhajjir ha chiesto una nuova “offensiva globale” come rappresaglia per la morte del suo leader, Abu Ibrahim al-Qurayshi, avvenuta lo scorso febbraio.
  Proprio commentando i due attacchi terroristici del mese scorso al-Muhajjir ha chiesto agli arabi di armarsi e di portare nuovi attacchi contro Israele come primo passo dell’offensiva globale.
  Ha sostenuto che Gerusalemme potrebbe essere liberata dagli ebrei solo attraverso il ritorno del califfato – e non attraverso una rivolta palestinese o con l’aiuto di «coloro che hanno valori che cambiano secondo gli interessi dei loro padroni romani ( l’occidente)».
  Al-Muhajjir ha salutato gli aggressori arabo-israeliani come «coloro che hanno combattuto e sono stati uccisi per amore di Allah e della religione» e ha criticato i “terroristi laici” di Fatah e della Jihad islamica palestinese, che stanno combattendo per la terra e la patria.
  Ha anche invitato tutti i musulmani nel mondo arabo a opporsi a tutti i leader che hanno relazioni con Israele e vogliono fare pace con esso.
  «I politici musulmani moderni che cercano di liberare Gerusalemme non sono altro che marionette nelle mani di Israele e dell’Occidente», ha detto al-Muhajjir.
  Infine il portavoce dello Stato Islamico ha invitato i sostenitori europei a riprendere gli attacchi in Europa, sfruttando le «opportunità disponibili» fornite dai «crociati che si combattono tra loro» con chiaro riferimento all’invasione russa dell’Ucraina.
  Secondo alcuni esperti sentiti da FL-RR la mancanza di critiche ad Hamas, di solito ai vertici delle critiche dell’ISIS agli altri gruppi, potrebbe lasciare intendere che lo Stato Islamico intenda usare la Striscia di Gaza come base operativa in Medio Oriente.
  Non è possibile al momento sapere se sia realmente così oppure no. Lo Shin Bet ha comunque alzato tutte le antenne perché se Hamas desse “ospitalità” allo Stato Islamico potrebbero cambiare davvero molte cose.

(Rights Reporter, 18 aprile 2022)

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Iran - Raisi: risponderemo alle mosse di Israele

TEHERAN - "Dovreste sapere che il vostro minimo movimento non passa inosservato alle forze armate iraniane e, in caso di qualsiasi mossa, il potere delle nostre forze... prenderà di mira il centro del vostro regime": lo ha detto oggi il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, rivolgendosi alle autorità israeliane. Raisi ha parlato in occasione della Giornata dell'esercito, riporta l'Irna. Raisi ha condannato i recenti attacchi missilistici israeliani alle postazioni militari siriane vicino a Damasco, commentando che le "forze iraniane controllano qualsiasi movimento delle forze israeliane e risponderanno". E poi: "Questo è il destino di tutti coloro che agiscono contro l'Iran, poiché anche gli americani hanno più volte confessato il loro vergognoso fallimento nella loro politica anti-iraniana di imposizione di sanzioni e massima pressione".

(America Oggi, 18 aprile 2022)

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Ucraina, il colpo finanziario di Putin: per l'Europa è l’ora della “exit strategy”

di Fulvio Bellini

Riportiamo questo articolo che certamente può fare a meno di leggere chi, in questo "clima di forsennata propaganda", ha già deciso di accettare in toto la tesi anti-Putin presentata da "un’informazione che ha abbandonato ogni elementare principio di correttezza, onestà intellettuale", per citare l'autore dell'articolo. Non si tratta soltanto di propaganda, ma di vera e propria manipolazione delle menti, a cui troppi sembrano disposti a sottoporsi. NsI

• PREMESSA: MAI VISTA UNA PROPAGANDA COSÌ
  È passato più di un mese dall’inizio dell’operazione militare speciale condotta dall’esercito russo in Ucraina, ed è opportuno fare un primo bilancio di quanto accaduto sotto molteplici aspetti.
  Questo conflitto, come tutti quelli dove sono coinvolte le grandi potenze, è un formidabile “acceleratore politico” che sta mettendo a dura prova gli equilibri tra gli Stati, e i rapporti sociali all’interno dei singoli paesi. Faremo quindi una valutazione di questo primo mese sotto diversi punti di osservazione: quello militare, quello diplomatico, quello economico, quello finanziario, quello monetario nella cornice della geopolitica. Effettuare questo tipo di valutazioni non è affatto banale per un osservatore che scrive in Occidente, in quanto non si può omettere di denunciare il clima di forsennata propaganda che si è impadronita del racconto della guerra in Ucraina da parte dei mass media occidentali, che accusano l’informazione russa di fare quello che loro stessi compiono quotidianamente: pura propaganda appunto.
  Non si tratta più di dare notizia delle vicende belliche, prendendo anche le parti del paese “aggredito”, ma cercando anche di trasmettere a lettori e telespettatori una visione più complessiva della crisi, riportando le posizioni russe anche in modo ridotto e semplificato e chiosando criticandole. È tale il disprezzo che i mass media occidentali hanno dei propri “clienti”, che si è degenerati alla pura parodia: il folle dittatore Putin, tiranno odiato in patria e ovunque nel mondo, ha aggredito senza nessuna ragione l’Ucraina. Il novello Hitler russo ha sfidato l’eroico presidente ucraino Zelensky elevato al ruolo di santo. Giornali e televisioni, non sapendo più cosa raccontare per descrivere il mostro moscovita, hanno pensato bene di affidarsi direttamente all’ispiratore delle veline che ricevono quotidianamente. La Repubblica del 25 marzo: “Ucraina, l’avvertimento di Biden a Putin, «Reagiremo se usa armi chimiche»” (ma siamo ancora alla favola delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein); oppure l’Ansa del 27 marzo: “Biden incontra i profughi ucraini, «Putin è un macellaio»”. È chiaro, quindi, che non abbiamo a disposizione delle notizie da vagliare e analizzare, siamo di fronte ad una selva di mistificazioni di basso livello, che hanno però la forza di essere trasmesse “a reti unificate”, tutti i giorni, da tutti i giornalisti e opinionisti di regime, presi in un sabba di disonestà intellettuale, che si danno spallate a chi “la spara più grossa”, un terreno dove l’informazione italiana tradizionalmente primeggia. Come trovare la via per arrivare ad una visione la più corretta possibile di quanto sta accadendo? Proviamoci.

• IL BILANCIO MILITARE
  Cerchiamo quindi di mettere dei punti fermi nella nostra analisi. L’operazione militare speciale russa in Ucraina ha delle precise ed elementari ragioni di sicurezza nazionale, riguarda l’integrità politica e territoriale non di un paese qualsiasi, ma di una super potenza nucleare, vera vincitrice della seconda guerra mondiale in Europa, e membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, unica istituzione che veramente conta tra tutte quelle che stanno al Palazzo di vetro.
  Quali sono state le minacce che sono giunte ad un livello tale da costringere il Cremlino a tirare una riga rossa invalicabile?
  Sostanzialmente l’espansione ad est della NATO successiva al crollo del muro di Berlino.  A Mosca non erano così ingenui da credere che gli americani non si sarebbero approfittati del ritiro unilaterale dall’Europa per spingersi ad est, è possibile però che gli attori europei avessero sottovalutato la strategia con la quale la NATO avrebbe attuato tale espansione. Occorre infatti notare che la trasformazione dell’alleanza atlantica ha sempre preceduto di qualche anno, oppure coinciso, con l’ingresso dello stesso candidato nella Comunità europea, il cui progetto originario è stato totalmente stravolto trasformandosi in Unione Europea.
  Nel 1973 i paesi europei facenti parte della NATO erano Islanda, Norvegia, Regno Unito, Danimarca, Germania Ovest, Portogallo, Italia e Grecia. Sempre nello stesso anno, i membri della CEE erano Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, Regno Unito, Danimarca e Irlanda. Non vi era una precisa sovrapposizione tra le due organizzazioni, ad esempio un paese importante come la Francia non faceva parte dell’alleanza atlantica, e neppure l’Irlanda. L’espansione della NATO verso est ha invece sempre coinciso con l’ingresso dei paesi orientali nell’unione europea. Elenchiamo di seguito le date d’ingresso nell’alleanza militare dei paesi ex “oltre cortina” riportando tra parentesi l’anno d’ingresso nell’Unione Europa: nel 1999 Polonia (2004), Repubblica ceca (2004) e Ungheria (2004); nel 2004 Bulgaria (2007), Repubbliche baltiche (2004), Romania (2007), Slovacchia (2004) e Slovenia (2004); nel 2009 Albania e Croazia (2013).
  Risulta evidente che tale simmetria rispondeva ad una precisa strategia: a fronte dell’abbraccio dei paesi ex Patto di Varsavia nei confronti degli americani e alleati, la Casa Bianca “affidava” il mantenimento delle nuove “provincie imperiali” a quelle vecchie. Nel crogiolo perverso di appartenenza all’alleanza militare atlantica e di sussidi da parte dei paesi ex CEE, nelle capitali orientali si sono affermati dei regimi formalmente democratici, più o meno corrotti, più o meno fascistoidi, tutti accomunati da una forte russofobia e da uno sfrenato filo atlantismo.
  Gli Stati Uniti possono quindi contare su governi facilmente influenzabili, pronti a provocare Mosca alla bisogna della Casa Bianca. Ai regimi orientali dotati dei due cappelli NATO e UE si voleva aggiungere il presidente ucraino Zelensky, e da bravo ex attore ed ex comico, ha offerto il suo paese quale palco della crisi, e lui stesso come burattino mosso e vocalizzato direttamente dalla famiglia Biden, come ci raccontano le vicende personali di Hunter Biden, figlio di Joe e membro del consiglio di amministrazione della società energetica tra le principali in Ucraina, Burisma Holdings, tra il 2014 e 2019.
  Oggi l’ex tossico dipendente Hunter si dedica alla produzione di armi chimiche come ci informa Il Messaggero del 25 marzo: “Hunter Biden, Russia accusa figlio del presidente Usa: «Coinvolto in gestione laboratori per sviluppo armi chimiche … Mosca alza il tiro della sua offensiva mediatica contro gli Usa accusando il figlio del presidente Joe Biden, Hunter, di finanziare laboratori del Pentagono per lo sviluppo di armi biologiche in Ucraina (in particolare antrace), insieme al miliardario dem George Soros»”. Entrando nel tema militare, cosa ci insegna l’azione russa sul campo. Ad esempio, balza agli occhi di coloro che non sono bendati dalla propaganda, uno stile di conduzione della campagna diverso rispetto a quello classico degli Stati Uniti.
  Quando l’esercito americano attaccò l’Iraq, entrambe le volte, la strategia fu quella dello “strike”: colpire pesantemente con bombardamenti aerei e missilistici prima di avanzare. La strategia americana non fa distinzione tra obiettivi civili e militari, in quanto si parte dal presupposto che ogni casa, ogni strada può essere un nascondiglio per il nemico. E siccome la fanteria americana è di pessima qualità morale e professionale occorre un “lavoro preparatorio” terribile da parte di marina e aviazione prima che le truppe decidano di mettere gli stivali sul terreno. Il risultato di questa strategia, ad esempio, è contenuto nel rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicato sul New England Journal of Medicine nell’articolo del 31 gennaio 2008 “Violence-Related Mortality in Iraq from 2002 to 2006” dove si afferma che 151 mila iracheni sono deceduti di morte violenta tra marzo 2003 e giugno 2006. Lo studio ha rilevato che, a partire da marzo 2003, la violenza è la causa preminente di morte per gli adulti iracheni, la principale per gli uomini tra i 15 e i 59 anni.
  La media giornaliera di morti violente è di 128 iracheni al giorno nel primo anno successivo all’invasione, di 115 nel secondo anno e di 126 nel terzo. Più di metà delle morti in questione sono avvenute a Bagdad. Alla faccia dei corridoi umanitari. Vediamo ora i dati forniti dalla propaganda occidentale sui decessi nel primo mese di operazione speciale russa, accettando dunque dati che possono benissimo essere manipolati in eccesso, lasciamo stare quindi la stampa italiana la quale, lo abbiamo già detto, gareggia a chi la dice più grossa. Secondo il sito Statista nella pagina “Number of civilian casualties in Ukraine during Russia's invasion verified by OHCHR as of March 27, 2022”, pertanto in un mese di guerra, il numero delle vittime civili verificate dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani è di 1.151 morti, cioè 37,12 vittime al giorno, essendo l’invasione iniziata il 24 febbraio. Quindi il concetto di operazione militare speciale andrebbe approfondito, come il funzionamento delle numerose tregue umanitarie offerte dall’esercito russo, il quale, sempre secondo la nostra informazione, sta invece avendo perdite ingenti: Adnkronos del 29 marzo: “Guerra Ucraina, Kiev: «Morti 17.200 soldati Russi»”. Il totale dei morti americani nella seconda guerra in Iraq nei 9 anni di conflitto (2003-2011) fu di 4.396, per cui, dal punto di vista della strategia americana dello “strike”, uccidere 151 mila civili ha una sua bieca utilità. 

• IL BILANCIO DIPLOMATICO
  Sotto questo capitolo possiamo annoverare quei paesi che hanno assunto un ruolo di rilievo nell’opera di mediazione tra le parti in conflitto, e che grazie a questo ruolo tentano di fare un ulteriore salto di qualità nello status di potenze globali (Cina) oppure regionali (Francia e Turchia). Al contrario, l’atteggiamento supino rispetto ai diktat americani ha privato altri paesi d’importanza sulla scena internazionale, ridotti a semplici esecutori di altre volontà, anche se palesemente contrari agli interessi nazionali (Italia e Germania). Altri ancora hanno tentato di giocare un ruolo, ma essendo palesemente compromessi con gli Stati Uniti sono stati giudicati inidonei alla mediazione (Israele). Daremo, quindi, uno sguardo a questi paesi fino alla svolta decisiva fatta da Putin e che molto probabilmente sarà decisiva per le sorti del conflitto e che vedremo a tempo debito. La Cina indubbiamente ha ricoperto la parte più importante in queste settimane. Occorre ricordare da dove prende le mosse la crisi ucraina, come scritto nell’articolo pubblicato il 10 luglio 2021 su Cumpanis “Cosa si sono detti Biden e Putin a Ginevra?” nel quale si ipotizzava di cosa avessero discusso i due leader il 16 giugno 2021, durante il loro incontro a Ginevra, ragionando sui loro principali interessi del tutto conciliabili, quello americano di avere “mano libera” nel Pacifico e quello russo di ricacciare la NATO nei suoi confini precedenti il 1990: “Alla fine del mese (giugno 2021 N.d.R.) il Presidente della Russia ha messo il suo paese al centro di tutte le strategie internazionali; come se nelle sue notti di riposo, fosse apparso in sogno a Putin niente meno che Giulio Andreotti suggerendogli la sua storica e celebre politica dei due forni. L’alta politica è fatta di valutazioni, calcolo e strategie, quindi non deve assolutamente sorprendere se la Russia adotterà proprio la politica dei due forni, Washington da un lato e Pechino dall’altro”.
  E in effetti il Cremlino poteva trarre il massimo vantaggio dalla posizione di mediazione tra i due contendenti, salvo aver sottovalutato che ad entrambi i contendenti era la posizione della Russia che non andava bene. Per la Cina, infatti, è fondamentale che la Russia mantenga un atteggiamento di sostanziale appoggio sia per quanto riguarda il Pacifico, sia per quanto riguarda le “retrovie” nel continente asiatico. La ricerca dell’appoggio, però, non può scadere in quella sorta di subalternità di fatto che, al contrario, avrebbe potuto spingere Putin ad accettare le lusinghe di Biden: la neutralità europea in cambio della neutralità russa nei confronti di un’aggressione USA ai danni della Cina, proposta moralmente indecente ma terribilmente vantaggiosa.
  L’attendismo cinese ha pagato, gli americani hanno deciso di “stanare” Putin attivando il loro uomo a Kiev, Zelensky, e lo scenario diplomatico è cambiato. Pechino si è mostrata come la potenza capace di sorreggere la Russia nel suo scontro con tutto il mondo occidentale sotto ogni profilo: politico, economico e finanziario, costituendosi come solvente mercato di sbocco per il gas russo, offrendosi come esportatore di quei beni che l’embargo europeo ha reso indisponibili.
  L’Unione Europea, gigante economico e nano politico, ha cominciato a sudare freddo, comprendendo chi avrebbe veramente pagato le sanzioni a Mosca: il Tempo del 23 marzo 2022, “Guerra Ucraina, l'appello di Draghi alla Cina: «Non aiuti la Russia»”. Ma a Pechino le opinioni del Proconsole degli Stati Uniti in Italia non hanno un grande ascolto, Pechino ha colto l’occasione per rafforzare i suoi rapporti con Mosca e creare i presupposti per la svolta data da Putin al conflitto. Francia e Turchia si stanno ritagliando la parte di potenze regionali europee capaci di una propria politica anche se entrambe sottoposte al tallone americano della NATO. Fin dall’inizio il presidente francese è uscito fuori dal coro dei vari Johnson, Draghi, Scholz e leader dell’Europa orientale, cercando un dialogo col “malvagio” Putin.
  Quando poi, l’astuto Joe Biden ha voluto misurare quanto Macron fosse “non allineato” con gli altri Gauleiter europei, il presidente francese ha risposto a tono: titola il Fatto Quotidiano del 27 marzo, “Macron prende le distanze da Biden: «Putin macellaio? Non lo chiamerei così»”. Un altro paese che sta marcando una certa indipendenza da Washington è la Turchia, e non è un mutamento di linea banale in quanto da sempre paese NATO di primissima linea nei confronti dell’orso russo. Erdogan, però, ha potuto assaggiare lo scudiscio del padrone americano nei giorni del luglio 2016, quando anche ad Ankara si stava profilando una “rivoluzione colorata” simile a quella ucraina, come sempre griffata “Central Intelligence Agency”. Il Fatto Quotidiano del 29 marzo: “Guerra Russia-Ucraina, Erdogan ai negoziatori: «Possibile trovare una soluzione accettata dalla comunità internazionale»”.
  Occorre infine citare coloro che, per la propria posizione anti russa addirittura più oltranzista di quella americana, non contano nulla in questo delicato momento. Citeremo velocemente l’Italia, unicamente perché ci viviamo, e per notare con stupore e dispiacere che l’abisso morale e intellettuale nel quale è caduta la sua classe politica non sembra trovare mai un fondo. Sono due gli elementi da segnalare sulla diplomazia del Bel Paese: aver creato un modello di capo di governo che si sta replicando, quello del Proconsole americano nella persona di Mario Draghi, incredibile personaggio, di gran lunga il peggiore capo di governo della storia repubblicana, capace di farci rimpiangere un Silvio Berlusconi. Draghi è l’esatto contrario di come dovrebbe essere un responsabile di governo che ha cura degli interessi del proprio paese. Molto più grave, invece, è l’avvento alla cancelleria tedesca di un altro “Mario Draghi”, Olaf Scholz, e del partito social democratico tedesco da sempre particolarmente attento ai desideri USA. Come Draghi, anche Scholz non si esime dall’adottare politiche evidentemente contrarie agli interessi tedeschi: Linkiesta del 23 febbraio «Con lo stop al Nord Stream 2 Scholz ha messo fine alla politica estera merkeliana». In ogni caso la speculazione internazionale, nel mese di marzo, ha ringraziato questi due capi di governo.

• IL BILANCIO ECONOMICO
  In questo mese di guerra abbiamo potuto assistere plasticamente il dispiegarsi di un sistema che ha avuto due anni di rodaggio tra il 2020 ed il 2021 nella vicenda del Covid-19. A base del sistema vi è un’informazione che ha abbandonato ogni elementare principio di correttezza, onestà intellettuale, per approdare alla mistificazione della realtà e all’imbonimento del pubblico televisivo e dei lettori; non si può che essere d’accordo con Giulietto Chiesa: «Noi viviamo in un mondo in cui sessanta milioni d’italiani sono totalmente ingannati tutti i giorni da tutti i canali televisivi (le mistificazioni N.d.R.). Se come accade uscite di qui e parlate con le prime dieci persone che incontrate per strada scoprirete che quasi tutti, se non tutti, risponderanno che Putin è un aggressore, che la Russia ha invaso l’Ucraina, tutti lo pensano; e perché lo pensano? Perché tutti questi giornali, tutte queste televisioni non hanno fatto che ripetere per un anno intero questa falsificazione (l’imbonimento N.d.R.)». Una definizione che sembra scritta ieri mattina, ed invece è stata enunciata da Chiesa nel 2015. Su questa propaganda incessante e forsennata si inserisce la politica dell’era dell’assenza di opposizione, quindi libera di piegarsi ai poteri particolari a discapito di quelli generali. Questa politica stila elenchi di buoni e cattivi senza evidenze oggettive, in regime di totale autoreferenzialità. Sul combinato disposto di propaganda e politica contraria agli interessi nazionali, si poggia la grande speculazione internazionale, nelle diverse forme che assume a seconda delle crisi.
  Nel caso della Pandemia, a fronte di una innegabile realtà fatta di contagi, la propaganda ha convinto la pubblica opinione che solo i vaccini di alcune Big Pharma anglo-americani fossero validi (Moderna, AstraZeneca e soprattutto Pfizer), mentre altri vaccini prodotti in Russia, in Cina e a Cuba non lo fossero; che i brevetti dei vaccini di queste Big Pharma, realizzati con fondi pubblici, non potessero essere divulgati; che la durata di questi vaccini mutasse alla bisogna, 12 mesi nel Settembre 2021 in occasione della campagna per la seconda dose e 5 mesi nel gennaio 2022 in occasione della campagna per la terza.
  Nel caso della crisi ucraina, la propaganda ancor più scatenata ci racconta quotidianamente dell’invasione della pacifica Ucraina voluta dal folle dittatore moscovita, inesistenti quindi 8 anni di guerra e crimini degli ucraini nel Donbass, inesistenti anche le truppe NATO dislocate lungo i confini russi e bielorussi. La politica ha quindi deciso di adottare forti sanzioni economiche e finanziarie con l’obiettivo sbandierato di far crollare il regime putiniano sotto il peso della crisi interna. Quali sono stati i risultati? Vediamoli in rapida successione. Se l’obiettivo doveva essere il crollo del “regime” di Putin, il giornalista Rampini, tutt’altro che un amico di Russia e Cina, ci informa che «Se la Russia può permettersi di avere un atteggiamento intransigente al tavolo delle trattative è perché questa Russia, contrariamente a certe descrizioni un po’ troppo ottimistiche che facciamo in Occidente, non è così isolata come crediamo noi. C'è tutta una parte del mondo che ha un atteggiamento di neutralità o di ambivalenza in questo conflitto, una parte vasta che abbraccia il mondo arabo e l’India, poi c'è una Cina che sta con la Russia, c'è un asse strategico tra Mosca e Pechino, non sono né ambivalenti e né neutrali, hanno usato parole pesantissime. C’è un sostegno economico da parte della Cina. Può darsi che la Cina stia sbagliando i suoi calcoli, non faccio un’esaltazione, ma questa Russia – sottolinea il giornalista – non si sente così isolata perché ha alle spalle un gigante economico come la Cina» (L’Aria che Tira, talk show mattutino de La7 del 30 marzo).
  Se l’obiettivo era di “rapire” i fondi esteri della Banca Centrale russa, come ci informa la Repubblica del 28 febbraio “Le sanzioni occidentali fanno male a Mosca. Il salto di qualità con il congelamento delle riserve estere. Crolla il rublo, la Banca centrale corre ai ripari”, per causare un “default” del debito pubblico di un paese che sostanzialmente non ne ha (Il rapporto debito/PIL della Russia, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, era al 19,3 per cento nel 2020 ed è sceso al 17,9 nel 2021), anche questa mossa è andata a vuoto: “La Russia ha rimborsato le cedole da 117 milioni di dollari sui bond. Default scongiurato” Il Sole 24 Ore del 17 marzo. Se l’obiettivo invece era di rapinare gli antichi ladri dell’immenso patrimonio sovietico e i loro eredi, i cosiddetti oligarchi, al di là delle veridicità di tali azioni (“I sequestri dei beni degli oligarchi potrebbero essere revocati”, Panorama del 18 marzo) ci dovremmo porre la domanda perché in Russia pagano i potenti mentre in Italia pagano le classi meno abbienti? Se, infine, il vero obiettivo delle sanzioni alla Russia era il solito, cioè scatenare la grande speculazione internazionale su nuovi mercati e bastonare l’economia dell’Europa, allora questi risultati sono stati tutti raggiunti.
  Raggiunto l’obiettivo, ad esempio, di far pagare ai cittadini italiani la speculazione sul prezzo del gas liquido americano e quello naturale algerino, speculazione certificata dallo stesso ministro della Transizione ecologica, “Rincari dell’energia, Cingolani: «Colpa della speculazione sul mercato europeo». Ma non parla degli extra-profitti degli importatori”, Il Fatto Quotidiano del 16 marzo. Questa affermazione di Cingolani è assai curiosa, il ministro fa un’affermazione da bancone del bar mentre sorseggia un caffè, perché in qualsiasi altro paese dotato di un minimo di serietà governativa, ci si sarebbe attesi tutt’altra affermazione, ad esempio: “Bloccata la speculazione sul prezzo del gas grazie ad apposito decreto legge”. Se l’obiettivo era quello di far pagare ad automobilisti e trasportatori la speculazione sugli idrocarburi, anche questo obiettivo è stato largamente raggiunto: “La procura di Roma indaga sui carburanti, speculazione e stoccaggi nel mirino”, La Repubblica del 14 marzo. Centrato anche il target di scatenare la speculazione sulle materie prime comprese quelle alimentari “Mercati: la guerra infiamma i prezzi delle materie prime. Prezzi delle materie prime alle stelle, soprattutto quelle energy, in accelerazione dall’inizio del conflitto: petrolio e gas sono rincarati di oltre il 30 per cento. Sugli scudi anche oro, grano e acciaio”, FondiOnLIne.it del 7 marzo.
  Insomma, come da tradizione, quando gli Stati Uniti ordinano alle province imperiali, pardon all’Unione Europea, di applicare sanzioni contro Russia e/o Cina il risultato è sempre lo stesso: “Ucraina, Russia e Unione europea: chi paga il prezzo delle sanzioni? Tra commercio, energia e caro-bollette, le misure contro il Cremlino peseranno più sull’Europa e sull’Italia che sugli Stati Uniti”, Il Giorno del 23 febbraio. Tralasciando il danno dal punto di vista energetico, lo abbiamo già visto, soffermiamoci su quello commerciale contenuto nell’articolo: “Quando la Russia invase e annetté la Crimea nel 2014, l’Occidente mise in atto estese sanzioni commerciali. Nei tre anni successivi, queste misure ebbero effetti molto diversi tra i Paesi occidentali, colpendo soprattutto Ungheria, Polonia, Germania e Paesi Bassi, per nulla gli Stati Uniti. All’epoca, l’Italia perse parecchio. L’ambasciatore italiano a Mosca, Pasquale Terracciano, ha ricordato che nel 2013, prima delle sanzioni, «le nostre esportazioni in Russia sfioravano i 15 miliardi di dollari ma, subito dopo l’adozione delle sanzioni siamo scesi a 7 miliardi, ora risaliti a 11 miliardi». Oggi, in termini commerciali, l’Unione europea rischia di subire un danno maggiore rispetto agli Stati Uniti a causa delle sanzioni economiche. La Russia è il quinto partner commerciale dell’Unione europea, il terzo dell’Italia.
  Al contrario, gli Stati Uniti hanno traffici molto più limitati… Il problema, poi, «è che in ogni caso le sanzioni potrebbero non essere efficaci», spiega Carlo Jean, ex generale di corpo d’armata ed esperto di strategia militare e geopolitica, nonché docente di Studi strategici. «La situazione è diversa rispetto al 2014 perché la Russia è meglio preparata dal punto di vista finanziario. In questi anni, approfittando dell’aumento delle materie prime, ha aumentato le sue riserve di dollari ad oltre 600 miliardi, mentre il suo fondo sovrano è salito da 80 a 200 miliardi di dollari». Insomma, potrebbe resistere a lungo a un “assedio economico”. Se poi la Cina sostiene la Russia come sta facendo, le sanzioni dell’Unione Europea sono principalmente contro l’Unione Europea: non si subisce l’occupazione degli Stati Uniti per settantasette anni “gratuitamente”.

• IL BILANCIO FINANZIARIO
  Se il Bilancio economico per i paesi occidentali non è positivo, quello finanziario è peggiore.
  Ancora una volta l’azione combinata di propaganda e politica favorevole alle speculazioni internazionali sta creando un danno che difficilmente verrà riparato. Ci occuperemo del bilancio finanziario sotto due profili tra loro strettamente collegati: inflazione e crescente debito pubblico. Si potrebbe paragonare il livello inflattivo alla temperatura corporea di un paziente: se la temperatura sale significa che il corpo è vittima di una febbre che a sua volta denuncia una malattia da diagnosticare e curare. Il livello inflattivo delle principali economie occidentali dimostra che le loro economie sono malate e che questa malattia si chiama debito, sia esso pubblico che privato. Soffermiamoci sul dato inflattivo più importante al mondo, quello degli Stati Uniti. Il sito governativo U.S. Bureau of Labour Statistics (una specie di ISTAT americana) ci informa che: “Il tasso di inflazione annuo negli Stati Uniti è accelerato al 7,9% nel febbraio 2022, il più alto da gennaio 1982, in linea con le aspettative del mercato. L'energia è rimasta il maggior contributore (25,6% contro 27% a gennaio), con i prezzi della benzina in aumento del 38% (40% a gennaio).
  Inflazione accelerata per i rifugi (4,7% vs 4,4%); il cibo (7,9% vs 7%, il più alto dal luglio 1981), ovvero il cibo domestico (8,6% vs 7,4%); veicoli nuovi (12,4% vs 12,2%); e auto e camion usati (41,2% vs 40,5%). Tuttavia, l'aumento dei costi energetici dovuto alla guerra in Ucraina deve ancora arrivare”. Qual è allora il tasso inflazionistico statunitense relativo al primo mese di guerra? Secondo il sito Trading Economics si è attestato tra l’8,2 e l’8,3%, è quindi tendenziosa l’idea che gli USA sono sostanzialmente indifferenti, da un punto di vista finanziario, alla crisi ucraina. In passati articoli ci siamo spesso soffermati sullo spaventoso livello del debito federale (ad oggi è 30.364 miliardi di dollari circa), questa volta invece ci soffermeremo sulla recente serie dei deficit annuali: nel 2019 è stato di 984 miliardi di dollari, nel 2020 di 3.132 miliardi e nel 2021 di 2.772 miliardi, a dimostrazione che la volontà politica, con la scusa delle crisi pandemica prima e militare ora, è sempre quella di spendere molto di più di quanto si incassa. Questa maggiore spesa alimenta la madre di tutte le bolle speculative, il dollaro appunto, che non trovando adeguati mercati da aggredire in giro per il mondo, si sta pericolosamente “interessando” alla madre patria; il risultato è l’aumento preoccupante dell’inflazione. Diamo ora un’occhiata all’inflazione del mese di marzo 2022 dell’area euro: il Sole 24 Ore del 3 aprile ci informa che: “Eurozona, il caro energia spinge l’inflazione al 7,5% … Il forte incremento è quasi tutto legato all’energia, che ha registrato un rincaro del 44,7%, dal 32% di febbraio. L’aumento mensile è stato del 12,5%. Tutte le componenti hanno registrato però accelerazioni dei prezzi e i tassi di crescita sono tutti al di sopra dell’obiettivo Bce. I prezzi dei beni industriali (energia esclusa) sono aumentati del 3,4%, dal 3,1% di febbraio (+2,5% su base mensile); quelli dei servizi sono saliti del 2,7% dal 2,5% di febbraio (+0,4% su base mensile)”.
  Cosa non ci dice l’articolo del Sole 24 Ore? A differenza dell’inflazione dell’area dollaro, generata dal dollaro stesso, l’inflazione dell’area Euro è dovuta a precise decisioni politiche prese dall’Unione e dai governi nazionali: applicare sanzioni alla Russia per poter acquistare gas e petrolio in dollari da Stati Uniti e alleati produttori a prezzi decisamente superiori in quanto sottoposti a fortissime tensioni speculative. In altre parole, il prezzo del gas russo fungeva anche da calmieratore delle tensioni inflattive importate dagli Stati Uniti. Questa scelta “suicida” avrà avuto almeno il risultato di causare ripercussioni sulla capacità di esportazione di gas da parte della Russia, perché questo era l’obiettivo sbandierato dai vari Draghi, Letta, Von der Leyen, Scholz eccetera.
  Sembra proprio di no, come ci racconta il Fatto Quotidiano del 28 marzo: “Gas, petrolio e carbone russi mettono d’accordo Cina, India e Pakistan: corsa all’acquisto a prezzi da saldo”. Infine diamo un’occhiata a come viene gestito finanziariamente, da parte di un paese “ottimamente” amministrato come l’Italia, il complesso capitolo degli aiuti a famiglie e imprese per quanto riguarda, ad esempio, il caro energia e carburanti, che abbiamo visto sono una conseguenza delle scelte del governo stesso.
  Il Corriere della Sera del 17 marzo “Il governo taglia di 15 centesimi le accise su benzina e diesel. Le misure nel nuovo decreto”; l’esecutivo diminuisce un importante gettito fiscale (anche gli innumerevoli evasori fiscali fanno benzina) aumentando così il deficit di bilancio. Stesso discorso sul fronte del gas: Bollette, Draghi: “6 miliardi per aiutare famiglie. Interventi per produrre gas italiano”, Sky Tg24 del 18 febbraio, addirittura prima dello scoppio della crisi ucraina. Anche in questo caso è utile osservare l’andamento della finanza pubblica negli ultimi due anni: al 31 dicembre 2021 il deficit è stato di quasi 105 miliardi (AGI del 16 febbraio), a fine 2020 era stato di 160 miliardi (Italia in Dati). In due anni si sono fatti 265 miliardi di maggiori debiti e nei primi mesi del 2022 si sta tagliando una delle principali entrate per poter far partecipare l’Italia al sabba della speculazione su gas e benzina. L’Italia però non sono gli Stati Uniti, ovviamente, e non può far pagare agli altri i propri debiti; al contrario deve pagare i propri e anche quelli degli americani. Come?
  Non solo piegando il collo del paese alla mannaia della speculazione in dollari, ma anche aumentando le spese militari al 2% del PIL. Ad esempio, dettaglio sempre taciuto, non vi sono solo Leonardo oppure Beretta a beneficiare delle commesse militari, si annoverano soprattutto le grandi corporation dell’industria militare a stelle e strisce, anche quando rifila “sole” come il famigerato bombardiere F35 della Lockheed: “Gli F35 sono un bidone. Un documento del Pentagono ammette che l'aereo da guerra più costoso del mondo è vulnerabile, ha difetti nelle ali e rischia di precipitare vicino alle nuvole. L'Italia si è impegnata a comprarne 90, per oltre 12 miliardi”, Espresso del 16 gennaio 2013. Gli anni passano, i costi aumentano, e se assemblati in Italia forse i bidoni diventano campioni: “Gli F-35 in Europa li faremo a Cameri: accordo Usa-Italia”, Il Fatto Quotidiano del 27 marzo 2022.
  La politica finanziaria del governo dei migliori segue quella americana: fare sempre più debiti per aumentare la massa monetaria a disposizione della speculazione, ma anche in Italia l’inevitabile sanzione (ovviamente per noi cittadini) è arrivata, l’Istat certifica un’inflazione a marzo del 6,7%, mai così alta dal 1991; tuttavia sappiamo quanto sia prudente l’Istat nel certificare il progressivo impoverimento dei redditi da lavoro.

• PUTIN FA SCACCO MATTO: IL RUBLO DIVENTA LA MONETA PIÙ PREGIATA DEL MONDO
  Abbiamo visto che, al contrario di quanto ci sta raccontando quotidianamente la propaganda di casa nostra, che ancora ci illudiamo di chiamare informazione, le sanzioni e una pressione mediatica furiosa non stanno scalfendo affatto il Cremlino: “La “Fortezza Russia” è pronta a limitare l’impatto delle sanzioni. Debito bassissimo, autosufficienza e gigantesche riserve di valuta”, titola Il Fatto Quotidiano del 25 febbraio. Al contrario, il combinato disposto di propaganda e politica a favore della speculazione sta agevolando l’impennarsi dell’inflazione sia nell’area dollaro che in quello euro. Questo pesante bilancio per l’Unione Europea, tuttavia, non ha convinto per nulla gli americani ad ordinare al loro burattino Zelensky di venire a buoni consigli al tavolo delle trattative. Alla fine di marzo, allora, Putin ha varato una nuova politica monetaria tesa a salvaguardare il rublo dal deprezzamento subìto nel primo mese di operazioni militari in Ucraina. La prima mossa sembrava non cambiare molto lo scenario, ma invece era un fondamentale presupposto: “Gas in rubli, Putin firma il decreto e fa la voce grossa.
  Ma si potrà continuare a pagare in euro. I contratti per il gas russo restano in vigore e si continuerà a pagare in euro: alla conversione in valuta russa ci penserà Gazprombank”, recita il Sole 24 Ore del 31 marzo. Subito dopo questa iniziativa, il rublo è tornato ad apprezzarsi sui mercati finanziari; soprattutto presso Gazprombank si è creato un sistema di vasi comunicanti che permette a rublo ed euro, e anche rublo e dollari, di scambiarsi a tassi variabili. Da un certo punto di vista il rublo è diventato “convertibile in gas”. Ma è la seconda mossa che rappresenta un vero e proprio cambio epocale nella storia recente delle monete: il 28 marzo 2022 La Banca Centrale russa annuncia che è possibile cambiare rubli in oro al cambio di 5.000 per 1 grammo, cioè 52 dollari per un grammo d’oro russo: “Russian cenbank to restart buying gold from banks, will pay fixed price from March 28. The Russian central bank will restart buying gold from banks and will pay a fixed price of 5,000 roubles ($52) per gramme between March 28 and June 30”, titola Bloomberg del 25 marzo. Milano Finanza del 31 marzo ci dà qualche elemento in più: “La Russia torna agli accordi di Bretton Woods. Una manna per il rublo. Il Paese è il terzo estrattore al mondo di oro e il quinto detentore di riserve, custodite entro i confini e non raggiungibili dalle sanzioni (nonché protetto da un più che adeguato arsenale atomico N.d.R.). La Banca centrale sta rastrellando a sconto tutto il metallo giallo presente negli istituti del Paese usandolo come collaterale del rublo, avverte Cesarano (Intermonte)…
  Il rublo torna al suo valore pre-bellico, che smacco per l'Occidente”. La notizia è veramente recentissima per poter valutare adeguatamente le sue conseguenze, ma una prima impressione sul meccanismo ideato dal Cremlino possiamo azzardarla. Il rublo aggiunge alla convertibilità in gas quella in oro, e nella storia delle monete, facendo mente locale grazie al fondamentale testo di John Kenneth Galbraith “La Moneta”, non ricordo una valuta che avesse una doppia convertibilità in gas ed oro, ergo il rublo in questo momento è la valuta più pregiata del mondo. Al contrario, le altre due monete “antagoniste” nella crisi ucraina, dollaro ed euro, sono valute inconvertibili in oro, rappresentano solo se stesse: la moneta americana non ha nessun valore intrinseco, viene accettata solo perché rappresenta il potere militare degli Stati Uniti; l’Euro ha un valore intrinseco relativo, in quanto rappresenta delle economie di alcuni paesi forti, come Germania e Francia, bilanciate però da altrettante economie deboli come quelle italiane e spagnole.
  Ora, tutte le maggiori compagnie energetiche europee, spesso pubbliche come ENI e SNAM, mentre tengono il cordone ai rispettivi governi che starnazzano quotidianamente contro il diavolo Putin, continuano ad acquistare il suo gas in un luogo finanziario, Gazprombank, nel quale cedendo una valuta “carta straccia” (il dollaro) oppure una valuta a valore parziale (l’Euro) possono acquistare gas e oro attraverso il loro rappresentante monetario: il rublo. Se voi foste un dirigente ENI che potesse operare senza il controllo dei Gauleiter americani, pardon del governo italiano, non vendereste i dollari in cassa a favore di una valuta che rappresenta contemporaneamente gas e oro? Chi non lo farebbe in Europa, e soprattutto chi non lo farebbe nella City e a Wall Street?

• CONCLUSIONI: È L’ORA DELLA “EXIT STRATEGY”
  Il rublo pregiato evidenzia la palese contraddizione dei governi dei Proconsoli come Draghi e Scholz con gli interessi nazionali. Evidenzia altresì quanto sia fragile la politica atlantista dell’attuale commissione europea, costringe tutti a prendere posizione che non può più essere la pantomima propagandistica del mese di marzo.
  Vediamo le reazioni. Gli americani hanno ovviamente accolto malissimo l’iniziativa della Banca centrale russa, che rischia di creare “panico” tra i possessori di dollari che pur di disfarsene sono pronti ad innescare una svalutazione “alla tedesca” del 1923 se non peggio. È tale la rabbia della Casa Bianca, a mio personale avviso, e con lo scopo di bloccare i governi europei già pronti a “vendersi” al rublo, da aver ordinato al criminale Zelensky e ai suoi tagliagole, come il battaglione Azov oppure i mercenari islamici, di organizzare la mattanza di Bucha, guarda caso scoperta il 1 di aprile, tre giorni dopo l’annuncio della Banca centrale russa. Il rublo doppiamente convertibile è un serio “casus belli”, e a Washington stanno valutando seriamente di mandare gli eserciti ausiliari della NATO al macello. Il fronte degli alleati, però, non si sta allineando come desiderato.
  Ad esempio, una rete che rappresenta da sempre l’opinione del sionismo internazionale e dei signori del denaro come La7, permette a Michele Santoro di dire cose che solo qualche giorno prima non sarebbero state permesse su nessuna rete; Santoro a Piazza Pulita: «Fermiamo Putin con un accordo. Ma dite a Biden che la sua linea è sbagliata … Processiamo Putin, ma allora processiamo pure Bush... A Baghdad bambini morti bruciati dai missili … L’Europa faccia un accordo con lui, questo è il momento migliore perché Putin non ha realizzato i suoi obiettivi ed è in difficoltà.
  Ma per offrirgli una via d’uscita l’Europa deve dire a Biden che la sua linea è sbagliata, Biden non vuole la pace. Ma vuole che continuiamo a sostenere la resistenza con le armi», il Corriere della Sera del 1° aprile. Wall Street e la City vogliono i rubli pregiati, e per ottenerli occorre una strategia di uscita dalla crisi ucraina. Qual è poi il pensiero delle classi dirigenti europee, magari riunite nel gruppo Bildenberg, escluse dalla recente pioggia di denaro pubblico riservato alle Big Pharma anglo-americane? Quale potrebbe essere l’opinione di un Werner Baumann, amministratore delegato di Bayer, che non ha potuto incassare 95 milioni di dollari al giorno; Paul Achleitner, presidente di Deutsche Bank, accetterà di non potersi disfare della carta dollari a favore dei rubli?
  Come loro, quali sono i veri interessi dei vari Oliver Bäte Ceo di Allianz, Tom Enders Ceo di Airbus, e dei loro prestigiosi collegi francesi: Henri de Castries attuale presidente di Bildenberg, vice presidente di Nestlé e direttore di HSBC, oppure di Thomas Buberl, Ceo di AXA eccetera, eccetera. Questi personaggi sono tutti d’accordo di perseverare nella politica russofoba e atlantista dei vari Von der Leyen, Draghi, Scholz, adesso che si presenta la possibilità di disfarsi dei dollari per avere la moneta più pregiata al mondo?
  A mio avviso, già nel mese di aprile potremmo assistere ai primi contrasti con gli Stati Uniti sul prosieguo della gestione della crisi ucraina: per il dollaro è suonata la campana.

(l'AntiDiplomatico, 16 aprile 2022)
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Purtroppo è vero che tra gli oppositori alla linea globalista anti-Putin si trovano anche degli antisemiti che vedono in questa azione la mano del "sionismo internazionale", ma Israele s'illude se pensa che il globalismo sovranazionale a trazione americana lo possa difendere dalle mire del "nazionalismo cristiano" russo. Gli americani che combattono la Russia per salvare l'Ucraina sono gli stessi che fanno accordi con l'Iran che vuole distruggere Israele. Non è l'Ucraina che a loro interessa, e nemmeno Israele. Tutto sta cambiando, si dice spesso, anche la forma dell'antisemitismo. Per Israele sarebbe pericoloso non accorgersene. M.C.

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Il "Padre nostro", un insegnamento polemico sulla preghiera

    "Amen, io vi dico, essi hanno già ricevuto la loro ricompensa" (Matteo , 6:2,5,16).
    "E quando pregate, non usate troppe parole come fanno i pagani, i quali credono di essere esauditi per la moltitudine delle  parole" (Matteo. 6:7).

di Marcello Cicchese

L'insegnamento di Gesù sulla preghiera avviene in un contesto polemico. Nel sermone sul monte Gesù parla contro certi uomini di preghiera, contro un certo tipo di pietà. In questo caso dunque, come in molti altri, Gesù entra in polemica non con il "mondo", ma con gli uomini religiosi. Gesù mette in guardia: gli atteggiamenti pii sono pieni di insidie; possono addirittura costituire uno schermo tra Dio e l' uomo.
  Dobbiamo dunque restare vigili, perché è possibile che le Sue parole si rivolgano proprio a noi, uomini di chiesa.
  Ma allora, è pericoloso pregare? Sì, si corrono dei rischi. Dobbiamo esserne consapevoli. La preghiera facile, fluida, scorrevole, "bella", è sospetta. La preghiera a cui Gesù ci invita è impegnativa: ci coinvolge nel profondo del nostro essere.
  La preghiera corre il rischio di diventare un'opera, una nostra opera "giusta" (Matteo 6.1). E le opere nostre - è una regola generale - sono sempre dettate da scopi nostri. Così, per esempio, attraverso la preghiera pubblica posso propormi diversi scopi: far conoscere la mia profonda spiritualità; rimproverare i presenti per la loro pigrizia; dare direttive di comportamento alla comunità; rendere noto il peccato di un fratello (pregando per lui); giustificarmi davanti a me stesso e agli altri (chiedendo al Signore di fare quello che invece dovrei fare io); e così via.
  In altre parole, è possibile che il nostro atteggiamento di preghiera abbia soprattutto lo scopo di influenzare gli altri. Ed è anche possibile che questo scopo sia raggiunto. Ma, dice Gesù, il raggiungimento del nostro scopo costituisce anche la nostra ricompensa; non avremo ricompensa presso il Padre che è nei cieli (Matteo 6,2). Ci siamo dati da soli l'esaudimento. Si è compiuta la volontà nostra, non quella del Padre nostro (Matteo 6,10). La preghiera è rimasta nell'ambito delle nostre decisioni, dei nostri piani, delle nostre possibilità.
  La preghiera corre anche il rischio di trasformarsi in un vuoto ciarlare.
  Lutero, che aveva presente questo pericolo, si esprime così: "Quanto più parca di parole, tanto migliore è la preghiera, quanto più verbosa, tanto peggiore è la preghiera; poche parole e molto significato è cristiano, molte parole e poco significato è pagano".
  In realtà, la moltitudine delle parole sembra denotare qualcosa di più grave di una semplice cattiva abitudine: si direbbe piuttosto che è indice di una relazione distorta tra l'uomo e Dio. L'uomo naturale ha sempre aspirato a mettere le mani sulla divinità, a impossessarsi della sua potenza, a piegarla al suo servizio. Tra le molte pratiche per costringere la divinità a piegarsi al proprio volere, i popoli pagani avevano anche quella di "stancare gli dei", dar loro noia fino al punto di costringerli ad esaudire le loro richieste.
  Preghiere di questo tipo, anche quando vengono elevate in un ambiente cristiano, sono in realtà preghiere pagane. La distorsione di fondo sta nel fatto che anche in questo caso l'azione parte dall'uomo, la preghiera è un'opera sua, un tentativo più o meno abile di convogliare la potenza di Dio verso scopi autonomamente scelti.
  Nella preghiera cristiana invece l'azione parte da Dio. E' Lui che ha un progetto di salvezza per il mondo; è Lui che lo manda ad effetto; è Lui che ci chiama ad entrare in questo piano di salvezza e a pregare affinché esso si attui; è Lui che, adottandoci come figli, ci dà l'ardire di chiamarlo Padre; è Lui che ci fa delle promesse; è Lui che ci invita a chiederne il compimento.
  Il Signore dunque opera per primo e fa delle promesse agli uomini (2 Pietro 1.4); l'uomo credente risponde accogliendo l'opera di Dio e pregando affinché le Sue promesse si compiano.
  Noi lo chiamiamo Padre perché Egli ci ha posti nella condizione di figli; e soltanto da questa posizione possiamo rivolgergli la nostra preghiera.
  Egli ci ha fatto conoscere qualcosa della Sua opera nel mondo, e noi ci associamo a quest'opera chiedendogli, per prima cosa, che il Suo nome sia santificato, che il Suo regno venga, che la Sua volontà sia fatta. Egli ci ha fatto delle promesse; e noi gli chiediamo di essere fedele a Se stesso concedendoci, come ci ha promesso, tutto ciò che ci è necessario per essere suoi discepoli fedeli.
  Al cristiano dunque è lecito pregare soltanto nell'ambito della volontà di Dio e sulla base delle Sue promesse. Ma la volontà di Dio deve essere accettata e le Sue promesse devono essere credute. La preghiera cristiana esige dunque ubbidienza e fede.
  Chi prega nella giusta posizione davanti a Dio non può dubitare: Dio esaudisce la preghiera. Non è necessario fare uso di abili argomenti o profondersi in commoventi slanci sentimentali: Dio non ha bisogno di essere convinto o impietosito. Le molte chiacchiere, le continue ripetizioni verbali sono soltanto indizio di insicurezza sulla legittimità della richiesta e di dubbio sull'esaudimento. E chi dubita, dice Giacomo, è - un "uomo d'animo doppio, instabile in tutte le sue vie" (Giacomo 1.8).
  Con la preghiera dunque il cristiano non s'impossessa della potenza divina, non piega Dio alla sua volontà, non lo pone al suo servizio, ma, al contrario, fa propria la volontà di Dio, si associa ai suoi piani, esprime il desiderio di inserirsi nella sua opera, chiede a Dio la forza di perseverare al suo servizio.
  Se non vogliamo correre il rischio di "domandare male per spendere nei nostri piaceri" (Giacomo 4.3), dobbiamo dunque imparare a pregare secondo la Sua volontà. E la conoscenza di questa volontà ci è data soltanto attraverso l'ascolto responsabile della Parola di Dio e, in particolare, attraverso la meditazione seria ed attenta delle parole con cui Gesù ci invita a pregare . Gesù ci dice:

    Voi adunque orate in questa maniera:
    Padre nostro che sei ne' cieli,
    Sia santificato il tuo nome.
    Il tuo regno venga.
    La tua volontà sia fatta in terra come in cielo.
    Dacci hoggi il nostro pane cotidiano.
    E rimettici i nostri debiti, come noi anchora li rimettiamo a' nostri debitori.
    E non indurci in tentazione, ma liberaci dal maligno;
    perciocché tuo è il regno, e la potenza, e la gloria, in sempiterno. Amen
    *
(da "Credere e Comprendere", novembre 1979)
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* Nell'originale non compariva il testo del "Padre nostro" perché si supponeva che tutti i lettori lo conoscessero bene. Lo riporto qui nella traduzione di Giovanni Diodati del 1640, sia per evitare la scelta di una delle tante traduzioni attuali, sia per ricordare che non soltanto la Bibbia è un libro storico, ma anche le sue traduzioni nelle varie lingue sono parte della storia. Traduzioni come l'inglese King James, la tedesca di Lutero, l'italiana di Diodati hanno segnato intere generazioni. Sulla Diodati alcuni hanno imparato a leggere, o quanto meno hanno arricchito il loro vocabolario. Non era raro, fino a qualche decennio fa, sentire semplici credenti che "pregavano in Diodati", cioè usando espressioni che evidentemente avevano imparato dalla Bibbia. I familiari di una credente prossima alla sua dipartita l'hanno sentita nominare il salmo 23 con le parole "Avvegnaché io camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno", e non erano certo parole che aveva imparato dai giornali o dalla radio. Se le austere traduzioni storiche della Bibbia hanno contribuito a far uscire qualcuno dall'analfabetismo, si può temere che le colorate e piene di immagini traduzioni attuali a portata di clic contribuiscano a far rimanere molti in un analfabetismo biblico da cui sarà sempre più difficile uscire.



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Gerusalemme in fiamme. Scontri sulla Spianata, il rischio dell'escalation

I palestinesi attaccano la polizia e poi si barricano nella moschea Al-Aqsa

COINCIDENZE
In Israele è il momento più delicato da 15 anni, tra Pasqua e Ramadan
GOVERNO IN BILICO
L'ondata di violenze rischia di rendere ancora più fragile l'esecutivo

di Chiara Clausi

Il Venerdì Santo si è macchiato di sangue ieri a Gerusalemme. Violenti scontri tra manifestanti palestinesi e polizia israeliana sulla Spianata delle Moschee, il Monte del Tempio per gli ebrei. Il bilancio è almeno di 150 feriti, 40 sono stati portati in ospedale e almeno due sono in gravi condizioni. Anche tre agenti israeliani sono rimasti feriti.
  Secondo la radio militare i fedeli islamici, che celebravano ieri il secondo venerdì del Ramadan, hanno organizzato un corteo nella Spianata. Hanno brandito bandiere di Hamas e attaccato le forze di sicurezza israeliane lanciando sassi e fuochi d'artificio. Alcune decine di persone si sono poi barricate nella moschea Al-Aqsa. Secondo la polizia l'intervento degli agenti è stato necessario per impedire che sassi cadessero nel sottostante Muro del Pianto. Migliaia di agenti sono stati dislocati a Gerusalemme per mantenere il controllo della situazione.
  La Spianata, o Monte del Tempio, è un luogo sacro per musulmani ed ebrei, ed è al centro di rivendicazioni storiche da entrambe le parti ed è una delle questioni più controverse del conflitto israelo-palestinese. La moschea di al-Aqsa è il terzo luogo più sacro per l'Islam dopo Medina e la Mecca. Qui secondo il Corano il profeta Maometto cominciò il suo viaggio attraverso l' aldilà fino ad incontrare Allah e ricevere gli insegnamenti del libro sacro. A pochi metri si trova il cosiddetto Muro del Pianto, unico resto del Tempio di Salomone, distrutto dai Romani nel 70 d.C. A poca distanza poi, c'è anche la Basilica del Santo Sepolcro, lì dove secondo i cristiani Gesù Cristo è stato seppellito e poi è risorto.
  Le tensioni tra israeliani e palestinesi sono aumentate nelle ultime settimane dopo attacchi terroristici compiuti nello Stato ebraico da militanti di gruppi estremisti. Il più grave, il 29 marzo a Bnei Brak, città ortodossa vicino a Tel Aviv, costato la vita a cinque israeliani. La reazione delle forze di sicurezza, nei giorni successivi, ha portato alla morte di più di 20 palestinesi, soprattutto nel distretto di Jenin. Gli attacchi palestinesi, invece, hanno causato in totale la morte di 12 israeliani e due ucraini.
  È questo il periodo più difficile in Israele da oltre quindici anni. L'anno scorso Hamas, che governa su Gaza, ha lanciato razzi contro Gerusalemme in seguito agli scontri nei pressi della moschea dopo settimane di disordini in città. Ciò ha innescato una devastante guerra della durata di undici giorni.
  La recente ondata di violenza invece arriva in un momento particolarmente instabile. È l'inizio della festa ebraica della Pasqua e coincide con il mese sacro islamico del Ramadan e la festa cristiana della Pasqua. Subito sono arrivate le reazioni agli ultimi disordini. Il leader del partito islamista Ra'am, Mansour Abbas, ha dichiarato di aver informato i suoi partner della coalizione che i violenti scontri a Gerusalemme erano una «linea rossa» che potrebbe danneggiare ulteriormente l'instabile governo. L'attuale esecutivo è stato portato sull'orlo del collasso negli ultimi giorni dopo che un membro del partito Yamina del primo ministro Naftali Bennett si è dimesso dalla coalizione che ha così perso la sua sottilissima maggioranza. La Knesset, composta da 120 membri, è ora bloccata. La coalizione e l'opposizione comprendono 60 seggi ciascuna.
  «Il nostro popolo non è solo nella battaglia per Al-Aqsa. L'intero popolo palestinese e la sua nobile resistenza sono con loro», ha affermato il portavoce di Hamas Fawzi Barhum. «Stiamo lavorando per fornire sicurezza ai cittadini israeliani», ha invece twittato Bennett. Poi è arrivato anche il commento del ministro degli Esteri Yair Lapid: «Israele è impegnato nella difesa della libertà di culto per le persone di tutte le fedi a Gerusalemme», ha affermato.
  Ma la violenza di ieri non finisce qui. Un uomo di 47 anni è stato accoltellato alla gamba in un attacco terroristico a Haifa. Gli agenti giunti all'Hazikaron Garden, vicino al municipio, hanno arrestato una ragazza di 15 anni sospettata dell'aggressione. In precedenza il padre della ragazza aveva chiamato la polizia avvertendo che la figlia intendeva compiere un attacco con il coltello a Gerusalemme in mattinata.

(il Giornale, 16 aprile 2022)

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