Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 16-31 dicembre 2015


La Russia avvia la consegna dei sistemi antimissilistici S-300 all'Iran

MOSCA - Il vice primo ministro russo, Dmitry Rogozin, ha confermato che la consegna del sistema antimissilistico S-300 in Iran è iniziata. La distribuzione del sistema di difesa aerea, ha spiegato Rogozin, aprirà nuove opportunità di cooperazione con l'Iran nel settore tecnico e militare, nonché in altri campi. Il contratto da 800 milioni di dollari per cinque sistemi difensivi S-300 era stato siglato nel 2007. La fornitura fu poi congelata a seguito delle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite alla Repubblica Islamica. Gli accordi sul nucleare siglato lo scorso aprile tra le potenze mondiali e l'Iran, oltre agli sviluppi geopolitici regionali, hanno spinto i due paesi a rinegoziare la consegna.

(Agenzia Nova, 31 dicembre 2015)


Legge contro il negazionismo, sì o no?

Molto si è parlato in questi mesi di una legge che punisca il negazionlsmo della Shoah, attesa prossimamente da una nuova verifica al senato dopo il via libera della camera dei deputati. Un'iniziativa che non ha fatto Il pieno nella comunità degli storici. Per quale motivo?

di Marco Coslovich, storico

Il negazionismo sembra dilagare su internet. Una valanga di siti alimentati da pseudo storici, specialisti d'accatto, opinionisti intossicati dai veleni della xenofobia, razzisti con evidenti complessi di inferiorità razziale, sembrano far da cornice a quella cosiddetta corrente storiografica che ha messo in dubbio l'esistenza delle camere a gas ad Auschwitzt», nonché la pianificazione della morte per milioni di ebrei e migliaia e migliaia di zingari. Su questa cosiddetta storiografia e sulle sue sfumature - sì, perché come tutte le "scuole di pensiero" che si rispettino, il negazionismo conosce anche una versione moderata e perbenista, la scuola revisionista - ci sarebbe molto, veramente molto da dire, ma oggi il problema. che bussa alle porte del nostro parlamento (c'è una legge che si sta discutendo in proposito), è un altro: hanno pieno diritto di parola questi "studiosi"? E giusto pensare che possano sguazzare liberamente su internet senza colpo ferire? La libertà di opinione è prigioniera di se stessa. Se non si concede a tutti fa carachiri. Ci deve essere anche la libertà della menzogna, per quanto spudoratamente e inverosimile essa possa essere. Ci deve essere anche la libertà di dire sciocchezze totali e madornali. Ma resta difficile accettare che la libertà di parola diventi libertà di negare la libertà. Sì, perché quando la menzogna dilaga e ha un seguito, fa proseliti e rischia di diventare un'onda. inarrestabile di neonazisti inneggianti, la cosa si fa seria e la libertà di pensiero avvelena se stessa.
   L'iter parlamentare deve quindi andare avanti e si tratta di un percorso non facile. E pur vero che la nostra legislazione adottando una legge che inetta fuorilegge i negazionisti non farebbe che adeguarsi ad un gran numero di paesi europei che ce l'hanno già da tempo. Ma, come nascondercelo, la questione resta aperta e non si può pensare di risolverla solo a colpi di bazooka legislativi. Anzi, si tratta di vedere, secondo me, i risvolti che essa sottende.
   Prima di tutto il fatto che qualcosa deve essere sfuggito di mano se l'aria di opinione, chiamiamola così, dei negazionisti è aumentata. Cosa bolle in pentola tra le pieghe della nostra società se questo pseudo pensiero trova seguito? È un sintomo sul quale riflettere ed è tutto da interpretare. Aver dato vita a un Giorno della Memoria per ricordare ciò che è avvenuto in Europa dietro i fili dei campi di concentramento nazisti non è bastato. Scrivere e pubblicare libri sullo sterminio nazista e sulla memoria dei sopravvissuti non è servito a nulla? Produrre film e documentari sulla deportazione e sull'internamento non ha avuto effetto alcuno? L'attività che molte associazioni svolgono nelle scuole per sensibilizzare gli studenti sul tema dello sterminio a che cosa è servito? Organizzare convegni di studio e dibattiti sulla persecuzione antisemita e sulla morte della democrazia non è, ancora, servito a nulla? Il rigurgito razzista che come bava avviluppa il negazionismo è forse il prodotto di spinte ancora più sotterranee. L'Europa fa fatica ad accettare una effettiva pluralità etnica e culturale. Vittima già troppe volte di guerre e contrasti sanguinosissimi, posta di fronte alle più recenti ondate immigratorie, la vecchia pancia europea ribolle e rigetta. Allora c'è in questo senso un primo quesito: perché la cultura democratica non è in grado di offri.re risposte più adeguate ai proolemi gravi che l'immigrazione, le diversità di cultura, di fede, di tradizione ci pongono? Perché la democrazia non riesce a dare risposte più vive, ricche, articolate, posta di fronte ai problemi del!' accoglienza e dell'integrazione? Perché siamo sopraffatti dai latrati di chi predica il rigetto, costruisce muri, discrimina a priori, persegue e imprigiona? Possiamo solo cedere alle minacce dell'integralismo islamico e trovare in questo la giustificazione alla nostra inettitudine? Credo che la parte più avveduta e intelligente tra quelli che da lungo tempo si occupano di questi problemi abbia cominciato a farsi un'idea. Giuseppe Laras, presidente del Tribunale rabbinico centro nord Italia, ha scritto una lettera al Corriere della sera (15 ottobre u.s.), nella quale lamenta che ci siamo adagiati su una sorta di ritualizzazione della memoria dello sterminio. Ha proposto a questo proposito il termine di "shoaismo ", che non sarà bello come espressione, ma sicuramente è molto efficace. Auschwitz rischia di diventare un sepolcro imbiancato, una sorta di feticcio così lontano e irremovibile e irraggiungibile dalla realtà che rischia appunto di diventare sfuggente, evanescente, remotissimo e intoccabilissimo. Il pamphlet di Elena Loewenthal Contro il Giorno della Memoria è in questo senso straordinariamente fecondo di spunti critici e di penetranti riflessioni. Mi si perdoni la franca brutalità, ma gli ebrei devono scendere dal piedistallo del loro disumano dolore e farsi parte viva e operante sull'onda della memoria della Shoah. Ecco che qui fa capolino un tema ancora arduo e di non facile digestione: la comparazione. Come poter anche solo mettere lontanamente a confronto la violenza totale e fredda delle camere a gas con qualsiasi altro sterminio, eliminazione, genocidio di massa? Sembra ed è e resta impossibile. Ma in questo gioco, se così si può definire, l'unicità della crudeltà rischia di conferire una certa grandezza al male, una sua metafisica possanza e intanto le serpi del negazionismo continuano a strisciare subdole sotto l'erba troppo verde dei nostri monumenti che ricordano le vittime.

(Pagine ebraiche, gennaio 2016)


Lo storico autore gira più volte intorno al problema, ne esamina meticolosamente alcuni aspetti e alla fine non dice niente. E' tipico di certi intellettuali, oltre che di moltissimi politici. Una delle sue poche affermazioni: "Mi si perdoni la franca brutalità, ma gli ebrei devono scendere dal piedistallo del loro disumano dolore e farsi parte viva e operante sull'onda della memoria della Shoah." Forse non si è accorto, lo storico, che una parte non trascurabile degli ebrei lo sta già facendo da diversi anni: sono gli ebrei che lavorano e combattono per difendere e tenere in vita lo Stato d'Israele. Dal "loro disumano dolore" di ieri, provocato da quelli che li buttavano nel fuoco, sono già scesi da un pezzo; adesso lottano per difendersi dall'umano, fin troppo umano dolore di oggi, provocato da quelli che vogliono buttarli in acqua. Quella del Mediterraneo. M.C.


Fatah attacca l'Anp per aver impedito gli scontri tra palestinesi e forze di sicurezza israeliane

GERUSALEMME - Per la seconda volta la scorsa settimana, gli agenti di sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) hanno impedito ai manifestanti di marciare verso Beit El, svincolo a nord di Ramallah, e di ingaggiare scontri con le forze di sicurezza israeliane. Lo riferisce la "Jerusalem Post". La protesta di mercoledì è stata organizzata da Fatah in occasione del 51esimo anniversario del suo primo attacco contro Israele. Venerdì scorso, gli agenti dell'Anp avevano usato la forza per disperdere decine di manifestanti che intendevano marciare verso Beit El per scontrarsi con i militari israeliani di stanza in quell'area. La protesta è stata organizzata da varie fazioni "nazionali e islamiche" nella zona di Ramallah. Alcuni fra manifestanti e giornalisti hanno accusato i poliziotti di aver aggredito i dimostranti e hanno chiesto l'apertura di un'indagine. Alti funzionari di Fatah, che hanno partecipato al sit in, hanno espresso "grande indignazione" per la condotta della polizia dell'Anp.

(Agenzia Nova, 31 dicembre 2015)


Giovani palestinesi disperati

di Marcello Cicchese

Il Secolo XIX pubblica oggi una lettera in cui si dice che i palestinesi responsabili di attacchi a militari e civili israeliani non devono essere considerati terroristi, ma "rappresentanti di una rivolta disperata della gioventù".
   Forse questa volta è vero. Forse è vero che questi giovani arabi residenti in Israele sono disperati. Non era vero nelle rivolte precedenti: allora la speranza c’era. Allora ci credevano. Credevano davvero che quelle stragi spettacolari di ebrei, quei sacri suicidi fatti nel nome di Allah sarebbero stati un sacrificio necessario per arrivare infine alla cancellazione dell’ignominiosa “Naqba”, cioè la catastrofe di uno Stato ebraico sulla sacra terra dell’Islam. Gliel’avevano fatto sperare, i capi: gliel’avevano promesso: Israele deve sparire e Israele sparirà. Bisogna solo insistere, fiduciosi nella certezza della vittoria. “Siete nel vostro diritto, - dicevano - lo dice anche l’Onu, lo dice l’Unione Europea, lo dice perfino Obama. Insomma lo dicono tutti”.
   La speranza allora c’era, ma quale? Quella di veder sparire lo Stato ebraico d’Israele. I capi palestinesi l’avevano fatto capire ai giovani: “Dobbiamo dire che vogliamo uno stato nostro accanto al loro perché solo così i capi del mondo ci prenderanno in considerazione, ma dobbiamo anche far sapere fra di noi che l’obiettivo finale è quello di buttare a mare gli ebrei: solo così troveremo giovani disposti ad immolarsi per la sacra causa, e solo così troveremo la simpatia dei moltissimi nel mondo che più che essere interessati al nostro benessere sono interessati a vedere colpiti e umiliati gli antipatici ebrei”.
   La speranza tramontata è quella di vedere una volta per tutte sconfitto, distrutto e umiliato uno stato ebraico che si permette di governare sugli arabi in una terra che - dicono tutti - appartiene a loro di diritto. Un diritto che per qualcuno è religioso, per altri è politico, ma che comunque è considerato un diritto arabo inalienabile. Questo è falso, sul piano religioso e sul piano politico.
   E' proprio con questa falsità che si sostiene l’ultima forma che ha preso l'antisemitismo nel mondo: l’antisemitismo giuridico. Su che cosa insistono oggi tutti quando parlano di ebrei? Sulla loro devianza religiosa? sulla loro anomalia etnica? Sulla loro avarizia? Se ne parla ancora, certo, ma non sono questi i punti importanti. Oggi lo scandalo per tutti ha un nome solo: occupazione. Questo concetto in se stesso non è né religioso, né etnico, né etico: è un concetto giuridico. E parlare di occupazione da parte di Israele è giuridicamente falso, sia sul piano biblico, sia sul piano del diritto umano.
    In quei giovani palestinesi è tramontata forse per sempre, o forse si è offuscata per un certo tempo, la speranza di veder sparire Israele. Hanno finito di sperare in quello che gli hanno promesso i loro capi, sia quelli di Hamas, sia quelli di Fatah.
   Per il loro bene non avrebbero dovuto coltivare questa speranza. Sono criminali quelli che li hanno spinti a gesti omicidi e autodistruttivi alimentando in tanti modi questa irraggiungibile aspettativa. Questi giovani avrebbero dovuto essere esortati ad accettare un semplice fatto: che lo Stato ebraico d’Israele esiste, ha tutta l’intenzione di continuare ad esistere e ha tutto il diritto di governare sulla terra che va dal Giordano al mare. Quanto agli arabi che risiedono su quella terra, se ne accettano il governo hanno il diritto di vivere dignitosamente la loro vita come minoranza accolta nell’ambito di una legislazione che lo consenta. Situazioni simili si trovano da tutte le parti nel mondo, anche nella nostra Italia, dove da decenni è presente in Alto Adige una minoranza di lingua ed etnia tedesca che vive meglio di tanti altri “puri italiani” di lingua e di etnia. Questo avrebbe dovuto fare il mondo, se avesse davvero cercato il bene della minoranza araba sulla terra d’Israele. Si è continuato invece e si continua ancora ad aizzare questa minoranza contro il governo ebraico favorendo false speranze e impedendo uno sviluppo pacifico ed armonioso delle varie etnie all’interno di uno stato ebraico.
   Della disperazione dei giovani accoltellatori arabi e dell’angoscia degli ebrei israeliani che devono perennemente aspettarsi una coltellata nella schiena da parte di qualche giovane arabo "disperato", i responsabili sono molti. Non ci vuole molto per esserlo. Basta dire, con un sospiro di compassione proaraba e sdegno antiebraico: “territori occupati”.

(Notizie su Israele, 31 dicembre 2015


Alcune domande scomode sulla Palestina su cui riflettere

Egregio signore/a, sarebbe così gentile da rispondere a qualche domanda? Se lei è così sicuro che la "Palestina" sia stata fondata molti secoli fa, ben prima della presenza degli ebrei e abbia lasciato tracce nella storia, beni culturali da conservare, eredità da difendere, certamente lei sarà in grado di rispondere alle seguenti domande:
Quando è stata fondata e da chi?
Quali erano i suoi confini?
Qual era la sua capitale?
Quali erano le sue città più importanti?
Qual era la base della sua economia?
Qual era la sua forma di governo?
Può citare almeno un leader palestinese prima di Arafat e di Amin Al Husseini, il muftì di Gerusalemme amico di Hitler?

(Right Reporters, 30 dicembre 2015)


2015, l'anno di un leader occidentale nella top-ten degli antisemiti

C'è qualcosa di nuovo sul fronte occidentale. Il leader laburista inglese Corbyn è nella top ten degli antisemiti del Centro Wiesenthal. Le sue iniziative pro boicottaggio d'Israele e le amicizie con Hamas.

di Giulio Meotti

 
Jeremy Corbyn
ROMA - Apri la top ten dei peggiori antisemiti del 2015, pubblicata ieri dal Centro Wiesenthal, e non ti meravigli di trovarci il terrorista di San Bernardino, Syed Farook, ossessionato dagli ebrei. Oppure l'Isis, che ha promesso di non lasciare un solo giudeo vivo in Terra Santa. Oppure l'ayatollah Khamenei, che ha promesso di rendere il sionismo un brutto ricordo entro vent'anni. Poi, all'ottavo posto, leggi quel nome, Jeremy Corbyn, e strabuzzi gli occhi. Il leader del secondo partito inglese nella lista nera dei peggiori antisemiti del mondo? Sì.
   Il Centro Wiesenthal, che prende il nome dal cacciatore di nazisti e diventato il maggiore istituto mondiale di monitoraggio dell'antisemitismo, rinfaccia a Corbyn di aver definito "amici" i membri di gruppi terroristici come Hamas e Hezbollah. Nei giorni scorsi è uscito un video in cui Corbyn parla a una manifestazione contro la guerra a Gaza: il futuro leader del Labour inglese è ripreso a elogiare quella "magnifica dimostrazione", mentre bandiere di Hamas venivano alzate al vento. Corbyn difende anche la "resistenza" di Hamas allo stato ebraico, mentre il direttore della comunicazione di Corbyn, Seamus Milne, incalza sul "diritto a resistere" dei terroristi palestinesi.
   Il nuovo Labour sotto la guida di Corbyn ha già iniziato a boicottare Israele. Lo ha fatto prendendo di mira la compagnia G4S, colosso britannico della sicurezza che fornisce consulenza e assistenza in 110 paesi, comprese le carceri israeliane. Corbyn ha fatto disinvestire il fondo laburista da questa compagnia, mentre i Tory lo accusano, riporta il Financial Times, di fare pressione anche sui fondi pensione britannici perché taglino i propri investimenti nello stato ebraico.
   Numerosi parlamentari laburisti, come Ian Austin, Ruth Smeeth, Wes Streeting, John Woodcock, Lord Mendelsohn, Lord Clarke e la Baronessa Ramsay, hanno scritto una lettera aperta a Corbyn chiedendogli di rivedere la sua decisione di boicottare le aziende sulla base dei loro rapporti con Gerusalemme. Corbyn ha aderito al boicottaggio delle università israeliane "coinvolte nella ricerca militare", definizione a dir poco ampia in cui il leader laburista fa rientrare istituti di ricerca famosi in tutto il mondo come il Technion di Haifa. Corbyn ha anche suggerito un embargo militare nei confronti dello stato ebraico. Molte le amicizie "sbagliate" di Corbyn che gli sono valse l'accusa di antisemitismo. Come quella con il gruppo Deir Yassin Remembered, fondato dal negazionista dell'Olocausto Paul Eisen. Corbyn si è definito "grande amico" di Azzam Tamimi, un accademico islamico che ha difeso gli attentati suicidi contro Israele. Da ultima è emersa una donazione di cinquemila sterline che Corbyn ha accettato da Ted Honderich, che ha difeso l'uso del terrorismo contro Israele; in un articolo sul Guardian del 2011 il professore scrisse: "I palestinesi hanno il diritto morale al terrorismo". O l'amicizia con Stephen Sizer, religioso cacciato dalla Church of England per aver firmato il seguente articolo: "9/11, Israel did it". Senza contare il patronato che Corbyn ha concesso alla Palestine Solidarity Campaign, l'associazione al centro di molte campagne contro Israele e accusata di avere antisemiti dichiarati fra i ranghi. Il leader del Labour non si è mai pentito di essere comparso su Press Tv, la voce del regime iraniano nel mondo.
   Corbyn è reo, infine, di aver sdoganato in Inghilterra Raed Salah, il capo del Movimento islamico bandito il mese scorso da Israele in quanto incitava all'Intifada dei coltelli, religioso che ha accusato gli ebrei di preparare il pane azzimo con il sangue dei "gentili". In questo misto di sindacalismo polveroso, di estetismi alla Bloomsbury e di lotta di classe rinverdita che è il Labour di Jeremy Corbyn, si porta sempre molto bene il disprezzo per Israele.

(Il Foglio, 31 dicembre 2015)


Islamismo, non solo ordine pubblico

La retorica antioccidentale sottaciuta dietro arresti ed espulsioni

"Ho deciso la sua espulsione perché il soggetto manifestava la volontà di commettere azioni terroristiche e l'intenzione di andare nelle zone di conflitto in Siria", ha detto il ministro dell'Interno Alfano commentando la notizia del cittadino marocchino Adil Bamaarouf, da tempo residente a Monselice, in provincia di Padova, espulso per motivi di prevenzione del terrorismo. Bamaarouf era una minaccia per la sicurezza, secondo le autorità italiane. Eppure c'è un dettaglio che non viene mai sottolineato abbastanza dalle Forze dell'ordine, dai politici, dai media. Un dettaglio che unisce le indagini sulle esternazioni del marocchino di Monselice con gli altri arresti per terrorismo avvenuti in questi giorni: per esempio a Bruxelles (dove ieri le autorità hanno vietato i fuochi d'artificio di Capodanno per paura di attentati), ad Ankara, fino alla ricercatrice libica che a Palermo faceva propaganda jihadista sul web (arresto non convalidato dal gip che invece ha applicato l'obbligo di dimora, incredibilmente senza imporre alla reclutatrice alcun divieto di comunicazione con l'esterno). Secondo gli investigatori, Bamaarouf si sarebbe sentito "oppresso e offeso per le iniziative contro i musulmani da parte di cristiani ed ebrei". La vendetta contro il mondo occidentale, secondo il marocchino, si sarebbe dovuta consumare con "l'esplosione di Roma". Il terrorismo e il radicalismo si fondano su una questione ideologica, che è sempre la stessa - l'odio contro l'occidente, contro Israele, contro i cristiani. Farne solo una questione di sicurezza interna è un errore grossolano, oltreché pericoloso.

(Il Foglio, 31 dicembre 2015)


Obama spiava Israele. Per amore degli ayatollah

Sgarbo di Barack al Congresso. Durante le trattative con l'Iran, la Nsa intercettava le conversazioni fra Netanyahu e alcuni deputati Usa.

di Glauco Maggi

NEWYORK - Due anni fa il presidente Obama aveva promesso di lasciar fuori dal programma di spionaggio telefonico, gestito per anni dall' agenzia NSA, i leader stranieri alleati dell'America. Imbarazzato dalle rilevazioni di Edward Snowden che avevano fatto infuriare, tra gli altri, la tedesca Angela Merkel e il francese François Hollande, Barack aveva annunciato pubblicamente che avrebbe smesso di monitorare «gli amici capi di Stato». Storicamente, e a parole anche sotto Obama, Israele è sempre stato tra i più stretti partner internazionali degli USA, ma evidentemente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non era in questa lista «di riguardo».
   Le tensioni nelle relazioni tra Bibi e Barack da tempo non erano un segreto, ma ora uno scoop del Wall Street Journal rivelato che, dietro l'impegno pubblico a non spiare gli alleati, la Casa Bianca ha orchestrato un piano ad hoc per monitorare ogni mossa di Israele negli ultimi due anni. Intenzionato a portare a compimento l'accordo nucleare con l'Iran, Obama voleva sapere minuto per minuto quale fosse la strategia di Netanyahu per far deragliare l'intesa, o addirittura per fermare con un attacco militare i progressi di Teheran nel costruirsi la bomba. La NSA ha così catturato, su ordine del presidente, gli scambi diretti tra il premier israeliano e i suoi più fidati collaboratori, ma non si è fermata a questo. Ha anche allargato il raggio delle spiate fino a rastrellare le com unicazioni private degli uomini di Bibi con i membri del Congresso USA e con gli americani-ebrei rappresentanti delle associazioni Usa di amicizia tra i due paesi, ossia con i soggetti interessati al boicottaggio dell'iniziativa diplomatica di Obama pro Iran.
   In una delle dozzine di interviste del Wall Street Journal ai funzionari Usa al corrente delle operazioni, uno di loro ha ammesso che nell'amministrazione c'era la paura di essere scoperti e accusati di spiare il Congresso. Ma il rischio per Obama valeva la candela, perché le informazioni più delicate potevano essere utilizzate per contrastare la campagna di Netanyahu.
   Per cercare di minimizzare il rischio politico di farsi cogliere come i «mandanti», gli aiutanti di O bama decisero di lasciare alla NSA la scelta su quali fossero le informazioni raccolte da condividere con la Casa Bianca e quali no. «Noi non dicevamo "fallo", e non dicevamo "non farlo"», ha spiegato una fonte al giornale.
   Prima delle rivelazioni di Snowden del 2013 non c'era alcuna remora alla Casa Bianca di spiare gli «amici». Dopo, contemporaneamente all'impegno preso in pubblico dello stop, in discussioni a porte chiuse l'amministrazione aveva compilato una lista di nomi di leader «protetti», tra cui Hollande e Merkel, da non spiare direttamente. Ma era una mezza promessa, perché la NSA poteva continuare a «controllare» i consiglieri principali e gli uomini degli staff dei leader. Invece Netanyahu e Recep Erdogan, il presidente della Turchia, Paese membro della Nato, non erano neppure nell' elenco dei «protetti» perché, questa la motivazione che dava Obama in privato ai suoi, il fatto che la NSA li spiasse serviva «a scopi fondamentali di sicurezza nazionale».
   Lo strappo diplomatico di Obama con Israele, alla luce delle spiate rese note oggi, è destinato a irrompere nella campagna presidenziale. I leader del GOP sono tutti notoria - mente schierati con Netanyahu e condannano la politica obamiana. Trump aveva persino programmato una visita a Gerusalemme, che è stata cancellata solo per il clamore scoppiato in Israele, che ha una forte presenza araba, dopo la sua sparata contro i musulmani. Anche sul fronte democratico c'è da aspettarsi una correzione di linea: gli ebrei sono corteggiatissimi in America prima delle elezioni, e Hillary non può proseguire nel solco anti-israeliano che ha contraddistinto la Casa Bianca di Barack. E le spiate della NSA a danno del maggiore alleato in Medio Oriente, e anche ai membri del Congresso, non possono che sollevare un'ondata di solidarietà per Israele, e di critica contro Obama.

(Libero, 31 dicembre 2015)


Nuova luce su Vichy

Aperto l'accesso agli archivi. La decisione del governo francese aiuterà a eliminare ambiguità e rimozioni. E a consolidare la dolorosa memoria di un periodo torbidissimo. Memoria necessaria per avere giustizia e guardare senza ombre al futuro.

di Anna Foa

Qualche giorno fa, il governo francese ha firmato un decreto che liberalizza totalmente l'accesso agli archivi del periodo di Vichy e del periodo del passaggio alla Repubblica. Il decreto riguarda circa duecentomila documenti, quelli degli archivi del tribunale speciale di Vichy, dei tribunali speciali della Liberazione, delle ricerche dei criminali di guerra, delle inchieste della polizia giudiziaria tra il 1939 e il 1945, delle condanne del dopoguerra per "indegnità nazionale , che erano finora consultabili solo dagli studiosi e dietro richiesta motivata. Ora tutti i cittadini — e non soltanto i ricercatori — potranno avervi libero accesso. Unica eccezione, i documenti secretati la cui richiesta di consultazione potrà essere rifiutata per ragioni di sicurezza nazionale.
   E un gran passo avanti nella ricostruzione della storia e della memoria di un periodo assai nero della storia francese, quello tra il 1940 e il 1944, a lungo rimosso nella memoria collettiva del Paese come una parentesi, uno stato di necessità, qualcosa che poteva essere cancellato dalla gloria della Resistenza. Solo nel 1995 la rimozione fu infine denunciata dal presidente Chirac e il periodo di Vichy fu posto all'attenzione degli storici e a quella dell'opinione pubblica.
   Com'è noto, dopo la caduta della Francia nel giugno 194o la nazione fu divisa in tre zone: quella di diretta occupazione nazista, che comprendeva Parigi e tutto il Nord; quella meridionale dove si formò un governo collaborazionista di Vichy, diretto dal maresciallo Pétain, personaggio di grande prestigio politico e militare; e quella di occupazione italiana, nel sud del Paese, una sottile striscia poi estesa nel 1942.
   Già il 18 giugno 1940 il generale Aperto l'accesso agli archivi Nuova luce su Vichy La decisione del governo francese aiuterà a eliminare ambiguità e rimozioni E a consolidare la dolorosa memoria di un periodo torbidissimo Memoria necessaria per avere giustizia e guardare senza ombre al futuro De Gaulle aveva invitato il popolo francese alla Resistenza e creato a Londra il governo della Francia Libera. Dopo la Liberazione, Pétain fu incarcerato, processato e condannato a morte. La sua pena fu commutata da De Gaulle nel carcere, dove, ormai molto vecchio, morì nel 1951. Con lui furono condannati a morte Pierre Laval, primo ministro del governo dal 1942 al 1944, e molti altri responsabili della politica di Vichy.
   Il governo di Vichy ha svolto una politica di intesa e collaborazione con i nazisti. Per quanto riguarda la questione ebraica, già nell'ottobre del 1940 varò delle leggi antiebraiche simili a quelle tedesche e italiane, perfezionate nel 1941 e seguite da provvedimenti per facilitare l'arresto e la deportazione degli ebrei. Deportazione iniziata nel 1942, e a cui il governo di Vichy concorse attivamente, che riguardò settantaseimila ebrei francesi. Le milizie speciali create dal regime di Vichy, oltre ad arrestare gli ebrei, condussero una guerra diretta contro le forze partigiane. Per tutti questi motivi, l'accusa rivolta ai dirigenti fu quella di alto tradimento e di collaborazione con il nemico.
   Come ha sottolineato una delle maggiori studiose della Shoah in Francia, Annette Wieviorka, questa documentazione consentirà anche una conoscenza più approfondita degli anni del dopoguerra, dell'epurazione e dell'attività giudiziaria, del passaggio insomma dalla Francia di Vichy alla Quarta Repubblica. Sono gli anni in cui alla condanna dei collaborazionisti, molto più ampia che in Italia, si è sovrapposta la tendenza a mantenere la continuità dell'apparato statale, della burocrazia, della magistratura, e in cui è nata la grande rimozione degli anni di Vichy.
   Molte questioni potranno essere messe in luce dalla consultazione di questa grande mole di documenti. Innanzitutto, il ruolo dei collaborazionisti. Lo stesso presidente Mitterrand fu in giovinezza, come è più volte emerso, vicino al governo di Pétain. La continuità dell'apparato dello Stato francese con quello di Vichy, passata la breve era delle epurazioni, fu molto forte.
   Come non ricordare il caso di Maurice Papon, l'alto funzionario di Vichy che sfuggì all'epurazione, fece una brillante carriera fino a diventare nel 1958 prefetto di Parigi — periodo in cui ordinò di sparare su decine di giovani manifestanti algerini nella capitale francese — e fu poi processato nel 1998 e condannato a dieci anni per crimini contro l'umanità per aver organizzato il trasporto ad Auschwitz di milleseicento ebrei? Molte ombre gravano anche sugli arresti dei membri della Resistenza, sui nomi dei delatori. Si spera che ora, con l'apertura generalizzata degli archivi, molti dubbi possano essere sciolti.
   Questo sul piano storico, perché dal punto di vista dell'immagine della Francia, della memoria di quegli anni oscuri, è indubbio che l'apertura degli archivi non potrà che aiutare a togliere di mezzo ambiguità e rimozioni, e a consolidare la dolorosa memoria di uno dei più torbidi periodi della storia della Francia. Una memoria — vorrei aggiungere — necessaria per avere giustizia e guardare senza ombre al futuro.

(Avvenire, 31 dicembre 2015)


Aumenta l'immigrazione in Israele nel 2015

Francesi e ucraini si trasferiscono in massa in Israele. Si tratta del più alto numero di immigrati dal 2003.

Più di 30.000 persone hanno scelto di trasferirsi in Israele nel 2015, un numero così elevato non veniva registrato dal 2003, anno dell'ultimo picco di immigrazione. I dati sono stati pubblicati dal Ministero per l'Assorbimento dell'Immigrazione e dall'Agenzia Ebraica che hanno segnalato un incremento del 10% rispetto al 2014.
La maggior parte dei nuovi arrivati per il secondo anno consecutivo proviene dalla Francia (7900 persone) con gli attentati terroristici e i gesti intimidatori contro le comunità ebraiche identificati come la causa principale dello spostamento di massa. Sono 7000 invece gli immigrati provenienti dall'Ucraina, circa il 15% in più rispetto allo scorso anno. Gli arrivi dall'Europa dell'Est si attestano intorno alle 15000 unità. Oltre agli ucraini sono giunti in Israele circa 6600 russi.
Per quanto riguarda i paesi dell'Europa Occidentale circa 9330 persone si sono trasferite in Israele con un aumento del 6% rispetto al 2014. Calano invece gli arrivi dagli Stati Uniti: sono 3768 i nuovi olim (coloro che hanno effettuato l'aliyah, la "salita" in Israele), circa cento in meno di quanti se ne contavano un anno fa.
La destinazione più popolare rimane la metropoli Tel-Aviv. Seguono Netanya, Gerusalemme e Haifa. Circa la metà dei nuovi arrivati ha un'età inferiore ai 30 anni.
Il Ministro dell'Immigrazione Ze'ev Elkin ha accolto positivamente i dati e ha definito la situazione "una splendida finestra di opportunità". "Il numero degli immigrati è cresciuto del 50% negli ultimi due anni. Noi dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per far sì che queste persone vengano assorbite dalla società e dobbiamo incoraggiare altra gente a fare l'aliyah".

(Progetto Dreyfus, 30 dicembre 2015)


"No a bandiera e inno sul podio". E Israele rinuncia ai campionati

di Cosimo Cito

KUALA LUMPUR - Una brutta storia di vento, mare e burocrazia. A Langkawi, dove da domenica scorsa fino al 3 gennaio si svolgono i Mondiali giovanili di vela, due ragazzi israeliani, Yoav Omer e Noy Drihan, e il loro allenatore, Meir Yaniv, non sono mai arrivati. Non accolti per via di una storia di visti e di una storiaccia, piuttosto, di cattivi rapporti tra i governi di Malesia e Israele, il primo che non riconosce il secondo e che per accettare i due velisti, campioni del mondo uscenti nell'RS:X (in pratica il windsurf), avrebbe imposto condizioni umilianti, inaccettabili. Come, ad esempio, la rinuncia alla bandiera e all'inno sull'eventuale podio. La federazione israeliana avrebbe risposto picche, nulla, i ragazzi restano qui. Già in Oman, al mondiale seniores dell'ottobre scorso, Sachar Zubari e Nimrod Mashiah si videro rifiutato l'ingresso nel sultanato e Maayan Davidovich fu costretta ad adoperare un secondo passaporto, austriaco, per gareggiare. Un disastro tutto politico al quale la federazione internazionale, guidata dall'italiano Carlo Croce, non ha saputo opporre resistenza. Ieri Max Sirena, ex skipper di Luna Rossa, ha postato su Facebook un duro atto d'accusa: «È il momento di mettere da parte gli interessi che vanno al di là dello sport, chiedo a chi di dovere di darsi da fare».

(la Repubblica, 30 dicembre 2015)


Ecco perché il Califfato ha paura di colpire Israele

di Fiamma Nirenstein

L'Isis non è invulnerabile, e questo messaggio non era affatto scontato per l'Occidente terrificato di fronte alla sua crudeltà ai limiti dell'impossibile. Adesso ci sono due eventi che lo testimoniano. Il primo è la riconquista di Ramadi da parte delle forze irachene. Fino ad ora solo i curdi Peshmerga erano riusciti a battere Daesh, ora dopo un anno terribile i militari sunniti della regione sono riusciti a stanare gli uomini di Al Baghdadi anche se con l'aiuto degli aerei americani. Inoltre, quanto valga la vittoria è difficile dirlo: ritirarsi non vuol dire essere eliminati. In secondo luogo, un coraggioso giornalista ed ex parlamentare tedesco, Jürgen Todenhofer, che ha passato dieci giorni dietro le linee dell'Isis, ci fa sapere che lo Stato islamico ha una paura vera: l'esercito israeliano. «Esso sa che l'IDF è troppo forte per loro». Todenhofer spiega che l'Isis, come del resto hanno già scritto molti analisti, vuole trascinare allo scontro sul suo territorio americani, inglesi, francesi, e pensa di batterli, ma sa che gli israeliani conoscono ogni segreto e hanno profonda esperienza del terreno, possiedono tecniche molto avanzate, aerei capaci di colpire, determinazione e capacità.
   «Daesh non ha paura degli inglesi o degli americani, ma teme gli israeliani: mi hanno detto che l'esercito israeliano è il vero pericolo, perché sa combattere una guerra di guerriglia». Il 26 dicembre, dopo che l'Isis si era astenuta dalla questione israelo-palestinese, persino ignorando la Moschea di Al Aqsa, il califfo Abu Bakr al Baghdadi ha lanciato il suo grido di guerra: «Dio ha riunito gli ebrei di tutto il mondo in Israele, questo ci facilita. Ogni musulmano ha l'obbligo del Jihad. Ebrei, non godrete la Palestina... essa sarà il vostro cimitero». È probabile che questo richiamo sia legato alle critiche per aver ignorato I palestinesl mentre sono impegnati nell'attacco terroristico ai cittadini israeliani ormai in corso da 100 giorni. Inoltre, la bandiera antisemita è quella che rende meglio nel creare simpatia. Al Baghdadi conta sul fatto che in Sinai i gruppi come Ansar Bait al Maqdis hanno giurato fedeltà, i suoi accoliti crescono nonostante la reazione egiziana la sua forza è stata provata dall'attacco all'aereo russo del 13 ottobre. A Gaza, ormai sono anni che una fazione salafita gareggia con Hamas. Al nord in Israele, nel distretto di Nazareth, è da poco stata scoperta una cellula operativa nel facilitare passaggi con la Siria e nel preparare attentati dentro lo Stato ebraico. Il Golan è sede di fazioni armate. Abbastanza per preoccupare il governo di Gerusalemme? Israele non si sbilancia. L'ex generale dell'aviazione Amos Yadlin dice che l'Isis non rappresenta un pericolo militare, mentre gli hezbollah con i loro missili e l'appoggio dell'Iran sono un rischio immediato.

(il Giornale, 30 dicembre 2015)


A Gerusalemme est è scattata la caccia all'uso del narghilè

Basta fumo anche nei locali ad esso destinati.

di Michele Giorgio

 
GERUSALEMME - Misure volte a tutelare la salute o molestie con finalità politiche? Raed ed Saada se lo domanda da diversi giorni, da quando gli ispettori israeliani del comune di Gerusalemme, gli hanno fatto una multa di 5mila shekel (circa 1.200 euro) perchè il narghilè figura nel menù del ristorante nel giardino coperto del suo albergo, il Jerusalem Hotel, a poche decine di metri dalla Porta di Damasco. «È stato un controllo improvviso, mai avvenuto negli ultimi anni, al mio hotel e in decine di albeghi, ristoranti e caffè della zona araba della città», racconta Saada. «Gli ispettori mi hanno detto che il comune sanzionerà severamente i locali pubblici (palestinesi, ndr Giorgio) che continueranno a violare il divieto di fumare», prosegue Saada «noi però ci chiediamo perché, proprio ora, le autorità israeliane abbiano deciso di far rispettare questo divieto. E si accaniscono contro i narghilè che rappresentano una fonte di guadagno sicuro per decine di hotel e caffè nel settore arabo della città». Da quando gli ispettori israeliani hanno cominciato la crociata anti-narghilè a Gerusalemme Est, molti caffè hanno visto precipitare i loro incassi giomalieri, anche del 50%. Il Jerusalem Hotel potrebbe chiudere il ristorante. «Non riusciamo a reggere», spiega Saada «i costi aumentano e ora che i turisti stranieri e i palestinesi amanti della pipa ad acqua non vengono più, incassiamo troppo poco per andare avanti».
  Fumare è nocivo, provoca malattie gravi. E i danni causati del fumo passivo sono significativi. Anche il narghilè è pericoloso per la salute. Allo stesso tempo questo strano e bellissimo aggeggio di vetro è il simbolo di una tradizione che va indietro di diversi secoli, è parte della cultura araba e non solo. Tanti turisti, anche quelli che non fumano, amano sedersi nei caffè popolari del Cairo, di Gerusalemme, di Istanbul, di Tehran e di tante altre capitali e città e provare ad aspirare, magari soltanto una volta, il fumo emanato dai tabacchi fruttati («maassel ). Sono davvero pochi quelli che, in visita a Khan el Khalili al Cairo, hanno preferito non immergersi nella magica atmosfera del caffè Fishawi, uno dei regni del narghilè. In quel fumo profumato il premio Nobel Naguib Mafouz trovò l'ispirazione per scrivere alcune delle pagine più appassionanti dei suoi romanzi. «Certo il fumo fa male ma il narghilè è parte della nostra cultura. Al mio caffè ci viene proprio chi vuole fumare, palestinese o turista. Da quando sono cominciati i raid (degli ispettori comunali) ho perduto gran parte dei clienti palestinesi, non vengono più, il narghilè se lo preparano a casa. A queste condizioni chiuderemo presto», ci dice Maher, proprietario assieme ai fratelli di un piccolo caffè dalle parti della Spianata delle moschee. Nafez, un cameriere, è convinto che gli israeliani stiano infliggendo «una punizione collettiva ai palestinesi». «Con il pretesto della salute pubblica colpiscono i nostri locali, la nostra economia, il nostro lavoro. In questo modo pensano di spegnere l'Intifada (cominciata a inizio ottobre, ndr) e la resistenza all'occupazione», afferma. Altri palestinesi parlano di un nuovo passo della campagna di «de-arabizzazione» di Gerusalemme Est. Altri ancora dicono che gli israeliani farebbero meglio ad interessarsi dei problemi nella zona ebraica della città, come la corruzione. Ieri la Corte Suprema ha condannato a 18 mesi di carcere l'ex sindaco di Gerusalemme ed ex primo ministro Ehud Olmert, colpevole di essersi intascato una tangente da oltre 100 mila euro. Da parte sua Raed Saada ricorda che alberghi, ristoranti e caffè palestinesi hanno subìto colpi durissimi negli ultimi anni. «Siamo costretti a vivere con le briciole della torta turistica, perché i tour operator israeliani controllano il settore. L'occupazione, e tensioni vecchie e nuove fanno il resto».
  I richiami alla cultura araba sotto attacco a Gerusalemme Est giungono mentre raccoglie adesioni ancora insufficienti l'appello per salvare un tempio della cultura palestinese, il Teatro al Hakawati. In passato i suoi cancelli spesso sono stati chiusi "per ragioni di sicurezza" dalla polizia, ora rischiano di restare sigillati a causa di un debito di 150mila dollari con l'assicurazione israeliana Migdal. La storia dell'al Hakawati è iniziata una quarantina di anni fa per iniziativa dell'attore Francois Abu Salem: il figlio di un diplomatico ungherese e di una donna francese, cresciuto fra Beirut, Gerusalemme est e Parigi dove ebbe modo di conoscere il Theatre du Soleil. Assieme ad altri artisti trovò la sede giusta, a pochi metri dall'American Colony Hotel, e diede vita ad programma di spettacoli che univano arte e politica. Dopo aver attraversato mari agitati per quattro decenni, ora il teatro al Hakawati rischia di affondare. La salvezza potrebbe arrivare dall'Unione europea.

(il manifesto, 30 dicembre 2015)


L'autore dell'articolo e il giornale su cui scrive sono decisamente anti-israeliani (e anche in questo caso si avverte), ma la realtà che qui si descrive è di un certo interesse, anche perché i temi su Israele trattati dai media di solito sono altri. In particolare, resta confermato che a Gerusalemme ogni problema di salute o di ordine pubblico coinvolgente israeliani arabi (così bisogna chiamarli, non palestinesi, che sono i cittadini di un'altra "nazione") è sempre visto come conseguenza della politica di "occupazione" di Israele. M.C.



Datagate: spiate le conversazioni tra Netanyahu e deputati Usa

Le intercettazioni potevano servire per contrastare la campagna del primo ministro israeliano contro l'accordo nucleare con l'Iran.

NEW YORK - Le intercettazioni della National Security Agency (NSA) dei leader stranieri hanno incluso anche conversazioni private tra alti ufficiali israeliani, tra cui il premier israeliano Benyamin Netanyahu, deputati al Congresso Usa e gruppi ebraici americani. Lo riferisce il Wall Street Journal che cita ex ed attuali funzionari Usa.
Secondo la Casa Bianca - rivelano le fonti al giornale - le intercettazioni potevano essere valide per contrastare la campagna di Netanyahu contro l'accordo nucleare con l'Iran.
Le intercettazioni della Nsa rivelarono alla Casa Bianca come Netanyahu e i suoi consiglieri fecero trapelare dettagli sui negoziati tra Usa e Iran in merito all'accordo sul nucleare che loro stessi appresero attraverso le operazioni di spionaggio israeliane, scrive il Wsj.
Il rapporto della Nsa - rivelano le fonti al giornale - permise all'amministrazione Obama di 'sbriciare' dentro i tentativi di Israele di spingere il Congresso Usa ad opporsi all'accordo. L'ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Ron Dermer, venne descritto come colui che istruiva i gruppi ebraici americani sulle argomentazioni da usare con i deputati del Congresso mentre i funzionari israeliani facevano pressioni per farli opporre all'intesa.
Il premier Netanyahu, dunque, rimase una priorità nelle operazioni di intercettazioni, secondo il rapporto del Wsj, nonostante l'impegno due anni fa del presidente Obama di porre un freno alle intercettazioni sugli alleati.
"Non svolgiamo nessuna attività di intelligence straniera a meno che non ci sia uno scopo di sicurezza nazionale specifico e valido. Questo è valido per i cittadini e i leader mondiali", è il commento di un portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale alla Casa Bianca sul rapporto del Wall Street Journal.

(tio.ch, 30 dicembre 2015)


L'Anp respinge la proposta della Turchia di prendere la striscia di Gaza sotto il proprio controllo

GERUSALEMME - L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha respinto oggi la proposta avanzata nei giorni scorsi dalla Turchia di porre la striscia di Gaza sotto il proprio controllo. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem post". Sabato 26 dicembre il quotidiano turco "Hurriyet" aveva riferito che la Turchia aveva chiesto il libero accesso alla striscia di Gaza al fine di fornire aiuti ai palestinesi come condizione posta a Israele per ripristinare normali relazioni diplomatiche. Mohamed Shtayyed, alto funzionario di Fatah e stretto collaboratore del presidente dell'Anp Mahmoud Abbas, ha detto "speriamo che ciò non sia vero. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sa molto bene che la striscia di Gaza è parte dei territori palestinesi e non una repubblica indipendente".
Shtayyed ha poi ricordato che l'Anp mantiene strette relazioni con la Turchia, tanto che il presidente Abbas nell'ultimo anno si è recato cinque volte in visita in Turchia. Contrarietà alla possibilità che la Turchia ponga la striscia di Gaza sotto la sua tutela è stata espressa anche dalla stampa egiziana che definisce questa ipotesi "una provocazione". Musa Abu Marzouk, un alto funzionario di Hamas, ha annunciato nella notte tra lunedì e martedì che il suo movimento è fortemente contrario a qualsiasi tentativo di "sottomettere" la striscia di Gaza.

(Agenzia Nova, 29 dicembre 2015)


In Galilea arrivano “dollari al-Baghdadi”

La polizia indaga; si profila una pista siriana.

All'indomani delle minacce espresse contro Israele da Abu Bakr al-Baghdadi, lo Stato islamico si e' inopinatamente manifestato in Alta Galilea: piu' di preciso, nei pressi di un asilo nido di Sdeh Eliezer. Si tratta di un tranquillo villaggio agricolo israeliano, con 700 abitanti, non distante dal Golan e dal Libano.
Di prima mattina, durante una ispezione di routine, una guardia civile ha scoperto accanto ai reticolati dell'asilo quello che in apparenza sembrava un mazzetto di banconote da 100 dollari. Ma a differenza dell'originale vi era sovarimpressa in bella mostra la immagine di al-Baghdadi. Sul tergo c'erano una scritta in arabo e l'immagine di un combattente ucciso.
In Galilea si vivono giornate di tensione: non solo per le minacce dell'Isis, ma anche per una temuta reazione degli Hezbollah alla uccisione a Damasco (imputata ad Israele) di un proprio alleato militare, Samir Qantar.
La guardia si e' allora rivolta alla polizia che in breve tempo ha scoperto altre banconote in diverse localita' della zona compresa fra il confine con il Libano e il lago di Tiberiade. Nella considerazione che potesse trattarsi di un espediente propagandistico di arabi israeliani sostenitori dello Stato Islamico, la polizia israeliana ha immediatamente avviato un'inchiesta.
Ma un esame piu' approfondito delle banconote ha rivelato che, a sorpresa, il testo in arabo polemizzava con l'Isis e che accanto alla immagine di al-Baghdadi figurava un altro miliziano islamico: Abu Muhammad al-Julani, leader della fazione anti-Assad Jabhat al-Nusra, che combatte contro il regime di Bashar Assad.
Ha cosi' preso piede le ipotesi che le banconote siano state lanciate dall'aviazione siriana per persuadere i combattenti islamici nel Golan siriano a deporre le armi, e che una folata di vento le abbia portate poi fino ai cancelli dell'asilo nido, nel bucolico villaggio della Galilea.

(ANSAmed, 29 dicembre 2015)


Gasdotto tra Israele e Turchia: pessima idea

di Daniel Pipes

La notizia che Israele e la Turchia sono in procinto di ripristinare totalmente le relazioni diplomatiche dopo anni di tensioni mi fa sorridere cinicamente e mi induce a preoccuparmi ancora dell'ingenuità israeliana.
   Negli anni Novanta, i due Stati intrattennero stretti rapporti, quando la loro visione comune del mondo li induceva a forti legami militari, a scambi commerciali e socio-culturali gratificanti. In un articolo del 1997, ho scritto che questo asse era "potenzialmente in grado di alterare la mappa strategica in Medio Oriente, rimodellare le alleanze americane lì esistenti e ridurre l'isolamento regionale di Israele".
   Ebbene, quest'asse fu saldo per altri cinque anni, fino a quando il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Adalet ve Kalkinma Partisi, o AKP) vinse le elezioni turche del 2002 e spinse la Turchia a muoversi in una direzione islamista. Tra le innumerevoli conseguenze, questo comportò un allontanamento di Ankara da Gerusalemme e un miglioramento nelle relazioni con Hamas, a Gaza. Sotto la leadership di Recep Tayyip Erdogan, il governo turco ha compiuto un passo dopo l'altro per screditare gli israeliani e deteriorare le relazioni tra i due Stati, fino ad arrivare all'incidente della Mavi Marmara, la nave sponsorizzata indirettamente da Ankara che nel 2010 faceva rotta verso Gaza.
   In risposta, gli israeliani fecero tutto il possibile per far funzionare di nuovo le cose, addirittura scusandosi e offrendosi di pagare un risarcimento alle famiglie delle vittime turche a bordo della Mavi Marmara. Ma finora, esse non l'hanno accettato.
   Poi, il 24 novembre Erdogan ha commesso il terribile errore di abbattere un aereo russo che aveva violato per soli 17 secondi lo spazio aereo nazionale turco. Va notato, che quest'azione non è senza precedenti, perché nel 2014 furono compiute 2.244 violazioni dello spazio aereo greco da parte degli aerei militari turchi.
   L'aggressione quasi gratuita ha scatenato le ire del presidente russo Vladimir Putin. Ciò che è accaduto in seguito ricorda una scena nel cortile di una scuola dove un bulletto importuna imprudentemente un altro bullo più robusto di lui. Erdogan ha trovato in Putin un degno avversario, che ha dimostrato di saper rischiare e di essere disposto a pagare un prezzo elevato in termini economici per vincere la sua causa.
   Il presidente turco ha rapidamente compreso di aver irritato lo stesso orso che ha sconfitto i turchi nel corso dei secoli (1568-1570, 1676-1681, 1687, 1689, 1695-1696, 1710-1712, 1735-1739, 1768-1774, 1787-1791, 1806-1812, 1828-1829, 1853-1856, 1877-1878, 1914-1918). Egli ha poi fatto quello che tendono a fare i bulletti, vale a dire correre dai vecchi amici - soprattutto dalla Nato e in misura minore da Israele (e dall'Egitto) - desideroso di appianare le divergenze con loro.
   Un articolo pubblicato dal Wall Street Journal sui negoziati tenutisi in Svizzera tra Israele e la Turchia segnala un certa disponibilità da parte di Ankara, a chiudere il contenzioso sulla Mavi Marmara, a porre fine alle attività di Hamas sul suolo turco e (cosa più importante) a discutere i termini di un accordo per la costruzione di un gasdotto per trasportare gas naturale da Israele alla Turchia.
   Quest'ultimo punto è pienamente condivisibile da Ankara, perché il gas israeliano permetterebbe di ridurre la dipendenza dal gas russo. Non serve però gli interessi di Israele. Una volta cessata la minaccia russa, gli islamisti turchi riprenderanno le loro vecchie abitudini, compresa la loro forte ostilità verso Israele. (E già Erdogan dopo i negoziati si è incontrato con Khaled Meshaal, un leader di Hamas.) Ma poiché a lungo termine un gasdotto renderebbe Israele ostaggio della Turchia, questa idea sembra davvero imprudente.
   Nonostante Israele abbia una fama da duro, Gerusalemme tende a essere troppo ottimista (si pensi agli accordi di Oslo del 1993 o al ritiro da Gaza del 2005), creando grossi problemi a Washington. Pertanto, per quanto possa sembrare allettante l'idea di un gasdotto tra Israele e Turchia, gli americani dovrebbero sconsigliare un'iniziativa del genere e opporsi a essa.

(L'Opinione, 29 dicembre 2015 - trad. Angelita La Spada)


Nogarin: "Cori antisemiti e fascisti dalla curva ascolana"

Il sindaco di Livorno scrive al ministro Alfano e ai vertici del calcio: "Slogan indegni, perché nessuno ha preso provvedimenti?"

LIVORNO - Cori "ingiustificabili, offensivi, indegni" che hanno spinto il sindaco di Livorno, Filippo Nogarin a scrivere al ministro dell'interno, e ai vertici del calcio. Nogarin si riferisce ai cori "provenienti dal settore dei tifosi piceni ('boia chi molla', 'duce duce e 'livornesi ebrei') e scrive al ministro Angelino Alfano e ai presidenti della Figc, Carlo Tavecchio, e della Lega B, Andrea Abodi, per segnalare i cori di matrice antisemita e "riconducibili all'apologia di Fascismo", partiti dal settore ospiti durante la gara allo stadio "Armando Picchi" tra Livorno e Ascoli del 23 dicembre scorso.
"Un match storicamente ad alta tensione tra due tifoserie di opposta fazione - scrive il sindaco - e che in passato ha visto spesso seguire alle schermaglie verbali scontri sia dentro sia fuori dello stadio, niente può giustificare in alcun modo slogan altamente offensivi e indegni provenienti dal settore dei tifosi piceni,. Quello che davvero stupisce è come nessun provvedimento sia stato preso ai sensi dell'articolo 62 del Noif (le norme organizzative interne della Figc, ndr)'. Mi permetto di segnalare questo increscioso episodio all'attenzione del ministro Alfano e dei presidenti federali Tavecchio e Abodi - conclude Nogarin nella lettera - chiedendo di valutare se e come prendere provvedimenti a questo riguardo e mi permetto di sollecitare una più rigorosa applicazione della norma».

(Nazione-Carlino-Giorno, 29 dicembre 2015)


Stop alla disinformazione: Licenziamenti di massa nelle redazioni dei quotidiani online

Giro di vite nelle redazioni di diversi giornali, a farne le spese decine di titolisti.

Dopo centinaia di titoli sbagliati e migliaia di mail e lettere di protesta ricevute i direttori di Repubblica, Rainews, Corriere della Sera e molti altri media nazionali hanno ceduto alle pressioni di diversi cittadini che nei giorni scorsi si erano lamentati per come venivano riportati, in forme totalmente stravolte, gli attentati commessi dai terroristi palestinesi in Israele.
Troppe volte la cronologia dei fatti veniva ribaltata, rovinando così anche l'autorevole immagine dei giornali chiamati in causa, e veniva utilizzato un registro linguistico che lasciava intendere che fossero gli israeliani la parte violenta. In molti, troppi, titoli i terroristi palestinesi diventavano "attivisti" o "assalitori" e venivano magicamente "uccisi" mentre le reali vittime, gli israeliani, erano allo stesso tempo "morti". Per mano di chi? Perché?...-

(Progetto Dreyfus, 27 dicembre 2015)


Da Repubblica alla Cnn, i media oscurano gli israeliani vittime dell'Intifada

Porta di Giaffa, Gerusalemme, la notte prima di Natale. Due cittadini israeliani sono assassinati da un terrorista palestinese, ucciso a sua volta dalle forze di sicurezza. Ma secondo molti media europei, la storia è andata diversamente. Intanto una mostra a Parigi glorifica i terroristi.

di Giulio Meotti

ROMA - Porta di Giaffa, Gerusalemme, la notte prima di Natale. Due cittadini israeliani sono assassinati da un terrorista palestinese, ucciso a sua volta dalle forze di sicurezza. Ma secondo Repubblica, Cnn, Cbs, New York Times e il sito del Corriere della Sera, la storia è andata diversamente. "Four die in violent stabbing at Jaffa Gate", cioè "quattro persone muoiono in un violento episodio di pugnalamento" per la Cnn, mentre la Cbs è persino più parca nella conta: "2 Palestinians killed after stabbing attack in Jerusalem". L'ufficio del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha protestato con l'emittente televisiva americana e la headline è stata modificata: "2 Israelis dead after stabbing attack in Jerusalem; 2 Palestinian assailants killed". "Crediamo che sommare due terroristi con due vittime in 'quattro morti' non è soltanto giornalismo disonesto, è incitamento", accusano dall'ufficio di Netanyahu.
  L'Associated Press e il New York Times non sono state da meno, descrivendo i terroristi palestinesi come vittime di Israele. "2 Palestinians killed following stabbing attack in Jerusalem". Poi modificata in: "2 Palestinian attackers killed, 2 Israelis die in Jerusalem". Ma come, i terroristi vengono "uccisi" e gli israeliani "muoiono"? Su Repubblica e Corriere della Sera da nessuna parte compare la parola "terrorista" e tutti parlano di "150 vittime", mettendo assieme aggressori e aggrediti, i terroristi palestinesi e i civili israeliani, in una sorta di orrenda equivalenza morale. La Repubblica ha persino una immagine in cui si vedono Maria e Giuseppe in cammino verso Betlemme, ma vengono fermati dal "muro" costruito da Israele. "Nuove violenze in Israele", annuncia il Tg3 in seconda serata.
  Giorno dopo giorno, da tre mesi, i media hanno così oscurato la vera storia di questa "Terza Intifada": 170 attentati contro Israele, 25 vittime e 270 feriti gravi. Senza contare i 2.225 attacchi con le pietre nelle strade. 127 i palestinesi uccisi, di cui 88 terroristi colti in flagrante, e gli altri negli scontri con l'esercito. Il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, ha fatto intanto installare barriere di cemento a ogni fermata dell'autobus. Secondo dati pubblicati ieri dall'Israel Trauma Coalition, ottomila israeliani sono sotto trattamento medico per aver sviluppato la "Ptsd", la sindrome da stress post traumatico. Per ogni israeliano ucciso, 27 testimoni dell'attentato o feriti finiscono in riabilitazione fisica e psicologica. Come racconta il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, ci sono israeliani così traumatizzati che ora escono per strada con un giubbotto antiproiettile. Un manuale ha consigli pratici su come sopravvivere a un attentato: indossare un cappello "rafforzato", per attutire i colpi dei coltelli; portare zaini per proteggersi da dietro; quando non si ha un porto d'armi, girare con spray o armi bianche.
  A Parigi, intanto, Medici senza frontiere ha inaugurato la sua mostra alla Maison des Métallos. L'esibizione, "In between wars", finanziata dal comune socialista di Anne Hidalgo, definisce "martiri" i terroristi palestinesi. Il capo degli ebrei di Francia, Roger Cukierman, ha così commentato: "Stiamo ancora piangendo i 130 morti e Medici senza frontiere chiama i terroristi 'martiri'. Scioccante".
No, il problema è che non sciocca più.

(Il Foglio, 29 dicembre 2015)


Incontro trilaterale Grecia-Cipro-Israele previsto per il 28 gennaio a Nicosia

NICOSIA - La data sembra essere stata concordata durante la riunione trilaterale di preparazione dei rappresentanti dei tre paesi, che si è svolta a Gerusalemme a dicembre, con i segretari generali degli Esteri. La riunione si è incentrata sullo sviluppo dell'energia, l'emergenza immigrazione clandestina, la lotta al terrorismo, il turismo, l'ambiente, la gestione delle risorse idriche, la ricerca e la tecnologia. Nel corso dell'incontro i rappresentanti hanno "discusso questioni regionali e internazionali, sia in Medio Oriente che nel Mediterraneo orientale". Il premier greco Tsipras ha detto che lo scopo dei colloqui trilaterali Grecia-Cipro-Israele sarà quello di decidere misure specifiche di rafforzamento della cooperazione, "iniziative da mettere in pratica e che non devono rimanere solo su carta".

(Agenzia Nova, 29 dicembre 2015)


Israele: un pacemaker per il cervello


 
Sottotitolo
Un team di ricercatori guidato dal Prof. Matti Mintz dela Facoltà di Psicologia e Neuroscienze dell'Università di Tel Aviv è riuscita a ripristinare le funzioni specifiche del cervello, sostituendo la parte danneggiata con un chip. Lo studio potrebbe essere utile negli interventi clinici per ripristinare i meccanismi dei riflessi, come ad esempio la deglutizione, danneggiati dopo un ictus.
Questa innovazione ha ottenuto il secondo posto al concorso dei migliori progetti neurali durante l'ultima convention dell'American Society for Neuroscience di Chicago dal 17 al 21 ottobre 2015.
Spiega il Prof. Mintz:

L'obiettivo del progetto è stato quello di esaminare la possibilità di sostituire una piccola regione del cervello con un chip sintetico. L'ostruzione di un vaso sanguigno nel corpo può essere superato bypassando l'arteria ostruita, ma il cervello non controlla un flusso sanguigno bensì un flusso di informazioni. Abbiamo voluto verificare se fosse possibile costruire un bypass per trasmettere questa informazione elettronica quando una delle aree del cervello risulti danneggiata.

Il Prof. Mintz spiega di aver collegato questo chip con gli ingressi e le uscite del sistema danneggiato, verificando se fosse possibile riattivare il funzionamento del cervello.

Lo studio è stato completato lo scorso anno con grande successo. Siamo riusciti a costruire questo bypass elettronico e a dimostrare che funziona.

Continua il Prof. Mintz:

Per ora non siamo nella fase di applicazione clinica. Il progetto ha individuato gli elementi essenziali, come ad esempio gli elettrodi e la protezione da poter fornire al fine di garantirne l'uso a lungo termine.

Secondo il Prof. Mintz, la prima applicazione è il ripristino o la sostituzione di piccole regioni del cervello che hanno una funzione vitale, come la deglutizione. In futuro si potranno sostituire regioni più grandi del cervello.
Il progetto dura da quasi 12 anni e a cui hanno collaborato anche gli studenti del Prof. Mintz, il Dott. Roni Hogri, il Dott. Aryeh Taub, il Dott. Ari Magal, il Prof. Yossi Shacham, Hagit Messer-Yaron, il Dott. Mira Marcus-Kalish e tra i ricercatori italiani, il Prof. Paolo Del Giudice e il Dott. Siméon Bamford.

(SiliconWadi, 29 dicembre 2015)


L'Isis ripiega ma non è una vittoria

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - A causa della perdita di Ramadi lo Stato Islamico (Isis) termina l'anno in condizioni peggiori rispetto a come lo aveva iniziato ma la sua sconfitta appare ancora lontana perché il Califfo combatte con la tattica delle tribù del deserto: ritirarsi e limitare i danni per preparare la rivincita.
   La conquista di Ramadi, in maggio, aveva consentito ad Abu Bakr al-Baghdadi di insediarsi a 100 km da Baghdad, vantando il controllo della regione sunnita dell'Anbar e portando una minaccia diretta al governo di Haider al-Abadi che ora ottiene un riscatto, militare e politico, dimostrando di disporre di contingenti di terra capaci di riconquistare le regioni perdute. Se al-Abadi promette che «nel 2016 Isis sarà espulsa dall'Iraq» è perché punta a ripetere a Fallujah e Mosul lo stesso tipo di offensiva di terra - sostenuta dai raid della coalizione occidentale - che ha avuto successo a Ramadi. Ma proprio da Ramadi il consigliere comunale Ibrahim al-Osej, volto di spicco della comunità sunnita, suggerisce cautela al premier: «I combattenti di Isis rimasti in città sono meno di un battaglione» ovvero neanche 400 unità rispetto alle migliaia che c'erano nelle scorse settimane. Ciò significa che il complesso governativo di Hoz è caduto perché il Califfo, davanti alla schiacciante superiorità irachena, ha ritirato gran parte dei suoi effettivi, lasciando a difesa un manipolo di jihadisti votati al suicidio. E i rimanenti combattenti di Isis si trovano ora nei quartieri della periferia, mischiati alla popolazione civile. La maggioranza dei jihadisti si è dissolta nel nulla oppure, come racconta Saad al-Dulaimi profugo con tutta la sua famiglia, «si sono ritirati facendosi scudo con i civili». Ciò significa che a Ramadi Isis ha ripetuto la tattica adottata in precedenza a Tikrit, in Iraq, ed in altre località minori in Siria, come Kobane: quando la battaglia volge al peggio i jihadisti abbandonano il centro urbano, si dileguano nelle aree periferiche e da Iì nei villaggi e quindi nel deserto, confondendosi con la popolazione e con i profughi al fine di tornare a raggrupparsi altrove, per ricominciare a combattere. Puntando a riconquistare le stesse aree perdute.
   E' una tattica che viene dalle tribù del deserto per le quali ciò che più conta non è il possesso di città o territori ma il controllo di risorse, prima fra tutte quelle degli uomini armati, addestrati, fedeli. Salvare i propri mujaheddin significa consentire al Califfato di poter continuare a battersi, dunque a sopravvivere: in Siria e Iraq se necessario oppure altrove in Libia, nel Sinai, in Giordania o in Libano. AI-Baghdadi crede nella «guerre permamente» per estendere la propria egemonia sull'Islam e la persegue continuando a battersi ovunque possibile. Ecco perché il dato da tener presente nella battaglia di Ramadi è l'esiguo numero di jihadisti trovati morti nel complesso di Hoz oppure catturati dai governativi. E' come se lo Stato Islamico si fosse dissolto nel nulla, lasciandosi dietro sono un pugno di kamikaze che si sono battuti con ogni trucco ed arma fino all'incontro con il «martirio». Tanto più che a 60 km di distanza c'è Fallujah, ancora in mano al Califfato, dove si annuncia la prossima prova di forza fra governativi e jihadisti che si battono con obiettivi opposti: i primi vogliono riconquistare il territorio perduto, i secondi salvare armi ed effettivi per preparare il riscatto militare.
   Ciò spiega anche la capacità del Califfato di sopravvivere in Siria all'offensiva concentrica delle coalizioni guidate da Stati Uniti e Russia: i comandanti militari di al-Baghdadi, quasi tutti veterani di Saddam Hussein, preferiscono controllare le vie di comunicazione rispetto ai centri urbani perché consentono di operare, incassare profitti e dominare il deserto con minore impegno di forze. Ciò significa che le incombenti offensive della coalizione anti-Isis contro Mosul e Raqqa devono prendere in considerazione anche lo scenario che il Califfo decida di abbandonarle, per trasferirsi altrove.

(La Stampa, 29 dicembre 2015)


La guerra non si vince più

La riconquista di Ramadi non è una vittoria, come dice Maurizio Molinari, per la semplice ragione che "in Medio Oriente nessuno vince mai una guerra", come ha detto Carlo Panella nell'agosto dell'anno scorso, quando continuavano a piovere missili di Hamas su Israele. Riproponiamo oggi un suo magistrale articolo che a quel tempo avevamo raccomandato ai lettori dicendo che "meriterebbe di essere non soltanto letto, ma studiato e commentato. NsI

di Carlo Panella

In medio oriente nessuno vince mai una guerra, siano guerre simmetriche o asimmetriche, mai una vittoria definitiva, assoluta. Sia il Kippur, o lo Shatt el Arab, lo Yemen, la Siria o il Kurdistan. Mai una luce nel tunnel del conflitto tra Israele e Palestina che inizia nel lontano 1920, con la prima rivolta araba contro i sionisti e che vide ancora nel 2003, un inferocito Abu Mazen in una memorabile riunione alla Mukhata mandare a quel paese Yasser Arafat della "Intifada delle Stragi" urlandogli: "Sei l'unico al mondo che non sa vincere una guerra di liberazione!". Destino gramo che oggi lo stesso Abu Mazen condivide con il defunto rais.
La risposta corrente a questa anomalia è banalmente condivisa: tutto ruota attorno alla forzatura dell'impianto di Israele in Palestina, al ritorno dopo 2.000 anni di diaspora del popolo ebraico nel territorio tra il Giordano e il mare, al comprensibile rigetto arabo di un pezzo d'Europa, nel cuore dell'islam.
Ma non è così. E' una risposta falsa. Parziale. Meccanica. La riprova è semplice: non spiega perché ha sempre perso il "partito arabo-palestinese" disposto a chiudere una pace con Israele. Componente che ha avuto i suoi campioni negli anni 20 nel re dell'Iraq Feisal al Hashemi e nel re di Transgiordania Abdullah al Hashemi, compagni d'arme di Lawrence d'Arabia, e successivamente nella potente famiglia palestinese dei Nashashibi, nel premier iracheno Nouri al Said, in re Hussein di Giordania e infine, addirittura, in Anwar el Sadat e Abu Mazen.
La ragione vera è spiazzante. Sideralmente estranea alla concezione della politica e quindi della guerra radicata in occidente. In estrema sintesi: l'Apocalisse. E non è uno scherzo.
Di pulsione verso l'Apocalisse è impregnato tutto lo schema politico di Khomeini che pone la "fede nell'Ultimo Giorno" nel preambolo della sua Costituzione islamica.
Apocalisse che rende urgente, subito, la costruzione dell'Uomo Nuovo coranico. Utopia condivisa. La peggiore, perché forgiata, per la prima volta nella modernità, nel corpo di una fede millenaria. Un Uomo Nuovo coranico che può maturare solo "con la morte dell'ultimo ebreo". Di nuovo. E non è un caso. L'Apocalisse di cui la Nakba (la Catastrofe), ovvero la nascita di Israele nel 1948, è stato, appunto, il primo segno: l'Armaggedon, la battaglia nei pressi di Nazareth tra Gog e Magog (e, di nuovo, non è uno scherzo), come sostiene ad abundantiam Hamas e una diffusa pubblicistica araba.
Di incombenza dell'Apocalisse, hic et nunc, è intriso il lessico e il messaggio di Osama bin Laden e dei vari salafiti e jihadisti, discepoli di Sayyid Qutb. A essa bisogna rifarsi per comprendere la follia sanguinaria di Abu Bakr al Baghdadi e dei miliziani del suo Califfato dello Stato islamico.
Di pulsione verso l'Apocalisse è impregnato tutto lo schema politico di Ruhollah Khomeini che pone la "fede nell'Ultimo Giorno" nel preambolo della sua Costituzione islamica.
Ma se questa è la partita, questo lo scenario, se il traguardo è l'Uomo Nuovo, sul corpo straziato e vinto della donna, dell'ebreo, dello Yazidi, e del cristiano, non ci sono mediazioni, compromessi o Westfalia possibili.
Al massimo una Hudna, una tregua temporanea al più di 10 anni come prescrive il Canone coranico, prima che il jihad riprenda. Perché deve riprendere. Perché jihad non si traduce con guerra e neanche con guerra santa. Ma con l'ineffabile ciclopico sforzo salvifico per affrontare nella grazia di Allah il Giudizio dell'Ultimo Giorno. Spada alla mano.
La stessa dirigenza sionista di Israele ha impiegato quasi 70 anni per prendere atto di avere completamente travisato le motivazioni, la Weltanschauung dell'avversario arabo e palestinese. Convinta, come era per la sua formazione culturale europea, che il problema fosse il possesso della terra. Che il conflitto fosse tra due nazionalismi legittimi. Quindi è stata disposta per ben sei volte, nel 1936, nel 1938, nel 1948, nel 1967, nel 1979 e nel 2001, ad accettare o offrire un compromesso prima agli arabi e poi ai palestinesi, nella formula nota come "Pace contro Territori". Ma, prima il Gran Mufti alleato di Hitler, che eliminò prima dalla scena palestinese i Nashashibi e mandò a uccidere re Abdullah di Transgiordania, poi Nasser, infine Arafat e oggi Hamas, hanno sempre rifiutato ogni compromesso, mirando solo alla distruzione di Israele.
E fu proprio la scelta della leadership israeliana - incredibile se vista con gli occhi di oggi - di appoggiare Hamas per contrastare l'Olp di Arafat, il punto di svolta di Israele, che tardivamente comprese che il conflitto in cui era impegnato da 70 anni era sì intriso di nazionalismo, ma che la sua ricomposizione era impossibile per ragioni teologiche. Millenaristiche.
Ragioni che finiscono a impregnare di sé anche la tattica e la strategia militare palestinese e jihadista, a partire dalla recente pratica del martirio - incomprensibile senza un riferimento apocalittico cogente- per arrivare sino alle demenziali scelte militari di Hamas e di jihad islamica di questi giorni.
"Appoggiare e favorire Hamas per anni è stato un errore fatale". Questa frase di Yitzhak Rabin è fondamentale oggi per capire il gorgo tra Israele e Hamas.
"Appoggiare e favorire Hamas per anni è stato un errore fatale". Questa frase di Yitzhak Rabin è dunque fondamentale oggi per capire il gorgo tra Israele e Hamas.
Nei fatti, per quasi un decennio tre premier, Menachem Begin, Itszaac Shamir e lo stesso Rabin, impregnati di logica politica europea, equivocarono a tal punto la natura e strategia di Hamas che ne favorirono il radicamento in Cisgiordania e a Gaza.
La ragione dell'appoggio del governo di Gerusalemme a Hamas era iscritta tutta nella logica degli accordi di Camp David del 1979 tra Menachem Begin e Anwar al Sadat. Ipocritamente dimenticati dalla pubblicistica occidentale, quegli accordi chiudevano l'unica guerra araba condotta da Sadat non con il fine di "distruggere l'entità sionista", ma di recuperare al territorio nazionale egiziano il Sinai, di definire uno status quo definitivo tra Israele e Egitto e di risolvere la questione palestinese escludendo i "terroristi dell'Olp". Valutazione comune di Gerusalemme e del Cairo.
La road map definita da Sadat e Begin nel 1979 non riguardava soltanto i rapporti tra di due stati, ma anche una soluzione saggia ed equilibrata - tutta "europea" - della questione dei Territori occupati da Israele nel 1967. Il baricentro era semplice e accorto: favorire la formazione di una classe dirigente palestinese attraverso un sempre più marcato esercizio di effettive autonomie amministrative locali suffragate dal voto popolare. Un "nation building" graduale. Obiettivo focale - e di interesse comune per Begin e Sadat - era di contrapporre alla Olp terrorista e sradicata dal territorio, una nuova generazione di rappresentanti palestinesi educati alla amministrazione delle città e dei villaggi.
Una soluzione tutta dentro la "logica di Westfalia", di solido compromesso, fatta fallire nel giro di tre anni dall'irrompere delle forze jihadiste e apocalittiche.
In questa prospettiva, i governi israeliani del Likud e del Labour concessero appoggio pieno alle "Village Leagues", nuove strutture di base palestinesi imperniate sulle moschee in cui egemoni erano i Fratelli musulmani (che daranno vita ad Hamas solo nel 1988). Il principio trainante era favorire il dispiegarsi del loro welfare islamico per un percorso armonico di miglioramento delle condizioni di vita dei Territori, gestito da una prima generazione di leader palestinesi non terroristi eletti a capo di strutture amministrative autonome.
Per comprendere questo fraintendimento pieno dei leader israeliani della natura di Hamas, che spiega perché ancora oggi, fuori Israele, molti non mettano bene a fuoco né Hamas, né la questione palestinese, si deve leggere la bellissima orazione funebre che nel 1956 Moshe Dayan dedicò al suo giovane amico Roy Rotenberg, rapito, torturato e ucciso da fedayn palestinesi di Gaza (vedi qui sotto). Parole intrise di omerica pietas, di intima comprensione delle ragioni del nemico "rinchiuso dentro i cancelli di Gaza", che ancora una volta, inseriscono il conflitto in una drammatica questione di terra, di una patria ambita da due popoli in lotta feroce tra di loro.
Una colpa enorme ebbe anche l'Europa nel 1980, quando il premier italiano Francesco Cossiga ruppe con gli Stati Uniti e con Israele e riconobbe di fatto l'Olp e Arafat come legittimi rappresentanti della Palestina.
Questa è stata la percezione che Israele ha avuto sino agli anni Duemila. E questo spiega il "fatale errore" di Begin, Shamir e Rabin nei confronti di Hamas.
E che sia essenzialmente una tragica questione di terra è quanto credono tutt'oggi coloro (e penso agli amici Adriano Sofri e Gad Lerner) che non riescono a comprendere quello che Israele, seppure in ritardo, ha compreso. Ma non è così. Non è soltanto questo. E' altro. E terribile. Un orrore che emerse alla luce proprio quando Anwar al Sadat nel 1981 pagò con la vita per avere abbandonato il rifiuto apocalittico di Israele e cercato il compromesso per l'Egitto e per il popolo palestinese.
Quell'attentato, in cui fu coinvolto Ayman al Zawahiri, segnò l'inizio di al Qaida. Fu il punto di svolta mai ricordato in Europa e nemmeno dai tanti Amos Oz, Yehoshua e Grossman - le coscienze infelici di Israele - in cui fallì una straordinaria occasione di pace tra arabi ed ebrei che aveva però il torto di essere sottoscritta dalla destra nazionalista israeliana di Begin e dal "faraone" Sadat.
Il dramma, di cui oggi paghiamo tutti le conseguenze, è che quell'attentato e l'abbandono della logica europea di compromesso definita da Begin e Sadat, fu favorito da complici insospettabili. In primis la Lega araba che espulse l'Egitto per tradimento, ispirata da un Arafat che applaudì la morte del traditore Sadat. Ma una colpa enorme ebbe anche l'Europa che nel settembre del 1980, presidente il premier italiano Francesco Cossiga, con la dichiarazione di Venezia ruppe con gli Stati Uniti e con Israele e riconobbe di fatto l'Olp e Arafat come legittimi rappresentanti della Palestina.
Il Vecchio continente era affamato di petrolio (balzato a 100 dollari a causa della rivoluzione di Khomeini del 1979) e barattò il suo appoggio ad Arafat con la sua implicita opposizione al piano di pace Begin-Sadat. Scelta infausta che impose definitivamente la demenziale leadership di Arafat sulla questione palestinese con conseguenze devastanti: incluso il suo tentativo di impadronirsi del controllo del Libano nel 1982 e il suo appoggio all'annessione del Kuwait tentata da Saddam Hussein nel 1990.
Il "rifiuto arabo di Israele" (con buona pace di Maxime Rodinson e Sergio Romano) è in realtà irrisolvibile, dal lato palestinese, essenzialmente a causa di un apriori teologico e apocalittico, incarnato già dal Gran Mufti (ma da lui non strutturato, a causa della sua crassa ignoranza) perfettamente enucleati dallo Statuto di Hamas: "Hamas crede che la terra di Palestina sia un sacro deposito (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell'islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell'islam sino al giorno del giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell'islam fino al giorno del giudizio?
Questa è la regola nella sharia, e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani la hanno consacrata per tutte le generazioni dell'islam fino al giorno del giudizio".
Il Profeta dichiarò: "L'Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno".
"Dobbiamo instillare nelle menti di generazioni di musulmani l'idea che la causa palestinese è una causa religiosa, e deve essere affrontata su queste basi. La Palestina include santuari islamici come la moschea di al Aqsa, che è collegata alla Santa Moschea della Mecca da un legame che rimarrà inseparabile fino a quando i Cieli e la Terra non passeranno, dal viaggio del Messaggero di Allah fino alla stessa moschea di al Aqsa, e alla sua ascensione da essa".
In questa concezione apocalittica, netta e inequivocabile è la posizione e il destino degli ebrei - non degli israeliani! degli ebrei - secondo un hadith riportato da al Bukhari el Muslim, i più autorevoli raccoglitori dei "Detti" del Profeta non contenuti nel Corano, baricentro dello Statuto di Hamas: "Il Profeta dichiarò: 'L'Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo nascosto dietro di me - vieni e uccidilo; ma l'albero di Gharqad non lo dirà, perché è l'albero degli ebrei'".
Scritto dallo sheik Yassin nel 1988 questo Statuto è tanto noto, quanto considerato poco più che folclore macabro da dotti analisti e dalle cancellerie europee. Un pleonasma retorico.
Sorte non dissimile da quella che ebbe il "Mein Kampf" nel 1938 di Monaco.
Questo dettato apocalittico è invece la radice vera e insuperabile del rifiuto arabo di Israele, che si manifestò in nuce - ma nemmeno i sionisti la compresero - sin dal 1920, con la leadership del Gran Mufti di Gerusalemme. In piena, totale sintonia apocalittica col suo prezioso e ammirato alleato, quell'Adolf Hitler che lo ospitò a Berlino, non per comune convenienza strategica anti inglese, come sostiene Sergio Romano, ma per "la profonda condivisione delle nostre prospettive e strategie, inclusa la soluzione del problema ebraico", come declamò lo stesso Gran Mufti.
Solo se si guarda a questo nodo non negoziabile e teologico, si comprende la follia di una posizione araba che ha sempre rifiutato ogni spartizione binazionale del mandato britannico sulla Palestina, dalla Commissione Peel, al Libro Bianco, alla risoluzione Onu del 1947.
Solo se si legge lo Statuto di Hamas si comprende l'apparente mistero della sciagurata leadership di Yasser Arafat che univa nella sua stessa persona - con genialità maligna - l'ispirazione nazionalista e la disponibilità al compromesso sulla terra che oggi è incarnata da Abu Mazen, con il rifiuto massimalistico e teologico di Hamas. Sino alla follia del rifiuto degli accordi di Taba del gennaio 2001 con i quali Ehud Barak premier gli riconsegnava il 95 per cento dei Territori.
Solo così si comprende la perversa santificazione araba del martirio e la ferocia dell'unico movimento di liberazione al mondo che nasconde le proprie batterie di missili dentro o accanto a moschee, scuole e ospedali.
Infine, ma non per ultimo, solo se si intende la pregnanza di un mandato apocalittico pregnante - qui e ora - si comprende la perversa santificazione araba del martirio, così come la ferocia dell'unico movimento di liberazione al mondo che nasconde le proprie batterie di missili dentro o accanto a moschee, scuole e ospedali.
Una verità così complessa, contorta e inquietante che lo stesso Israele ha faticato a metterla a fuoco. Non prima della Intifada delle Stragi iniziata nel 2001.
Ma sbaglia chi pensa che tutto questo riguardi solo lo specifico della Palestina, di Gaza e di Hamas. In realtà, i 4-5 milioni di musulmani uccisi da musulmani negli ultimi 50 anni - un numero di vittime comparabile con la Prima guerra mondiale - sono vittime di un meccanismo similare. Lo sono le migliaia di sciiti massacrati dai sunniti in Iraq, Pakistan e Afghanistan, e viceversa. Così come lo sono le 18 mila vittime degli ultimi tre anni di attentati di kamikaze. Tutti musulmani uccisi da musulmani.
Con le due fasi della decolonizzazione (la prima, dai turchi, iniziata nel 1918, la seconda dagli europei, consolidata negli anni 50), si è dimostrato che ogni conflitto in terra d'islam non puó essere ricomposto in un alveo politico, secondo lo schema di Westfalia. A partire dai massacri di centinaia di migliaia di morti innescati dalla divisione dell'India e del Pakistan del 1948, per arrivare - per via breve - sino ai Boko Haram e alle stragi di cristiani e Yazidi dei miliziani del Califfato di Mosul di oggi, si è verificato che le tante, ovvie, comuni, tensioni razziali, etniche, tribali o religiose che coinvolgono i popoli musulmani, vengono prima enfatizzate, poi cronicizzate dalla concezione islamista della storia così ben sintetizzata nello Statuto di Hamas.
Ogni guerra per la "terra" diventa guerra per la "vera fede" e per il suo trionfo nell'Ultimo Giorno.
Nel nome di una Apocalisse non più solo immanente, ma imminente.
Domani…

(Il Foglio, 12 agosto 2014)


"L'unico paese che l'ISIS teme in Medio Oriente è Israele"

Lo riferisce un giornalista tedesco che ha trascorso dieci giorni con i jihadisti dello "Stato Islamico".

Secondo il giornalista tedesco Jurgen Todenhofer, che ha potuto trascorrere dieci giorni nello "Stato Islamico", c'è un solo paese mediorientale che eserciti potere deterrente sul gruppo jihadista che ha conquistato ampie porzioni di Siria e Iraq, e quel paese è Israele.
In una recente intervista al britannico Jewish News, Todenhofer rievoca il suo breve periodo dietro le linee nemiche durante il quale ha potuto parlare con diversi combattenti e dirigenti dell'ISIS. "L'unico paese che l'ISIS teme è Israele - dice Todenhofer, già membro del parlamento tedesco, nell'intervista a Jewish News - Mi hanno detto che sanno che l'esercito israeliano è troppo forte per loro"....

(israele.net, 29 dicembre 2015)


«Chi offende l'Islam verrà colpito»

Le raccapriccianti email della sposa di Samy Amimour. «Presto la Francia saprà cos'è la guerra in casa».

di Alessandra Zavatta

«Finché si continua a offendere l'Islam e i musulmani sarete potenziali bersagli. Non solo i poliziotti e gli ebrei, ma tutti». L'agghiacciante messaggio è stato inviato per posta elettronica ad un amico da Kahina, la giovanissima moglie di Samy Amimour, uno dei tre attentatori che il 13 novembre scorso ha fatto strage degli spettatori che al teatro Bataclan ascoltavano il concerto degli Eagles ofDeath Metal. «Sono così orgogliosa di mio marito e ti scrivo per lodarne il sacrificio», spiega tre giorni dopo l'assalto sull'account email intercettato dagli investigatori che stanno indagando sugli attentati di Parigi e sulle 130 vite spezzate dalla jihad scatenata nel cuore dell'Europa. La filosofia di Kahina è banale quanto spaventosa: «Tu ci uccidi, io ti ammazzo, tu ci combatti, io ti combatto».
   Con Samysi erano incontrati sull'autobus. Lui, autista per la Rapt, la società che gestisce i trasporti nell'Ile-de-France. Lei, studentessa modello che sui pullman per Saint-Denis ripassa la lezione prima di entrare in classe. È bella, si fa notare. Con Samy diventano amici, molto assidui nei social network. Finché si innamorano. Nel 2013 fanno capolino i primi «messaggi estremisti» inviali su Internet. Nel 2014, quando Amimour vola a combattere con l'Isis, Kahina lascia Parigi e la scuola, lo raggiunge e lo sposa. Si stabiliscono prima a Raqqa, in Siria, e poi a Mosul, in Iraq. È entusiasta: «Ho un appartamento arredato con cucina, due bagni, tre camere da letto, e non pago affitto né elettricità e acqua. Non ho visto un solo mendicante! Sai perché? Perché la proprietà è così ben distribuita che tutti vivono bene».
   Ma la realtà è fuori la porta: «Una volta ero al suk e abbiamo sentito un rumore tremendo, una grande esplosione!». Sono le bombe della coalizione. E da allora iniziano le minacce all'Occidente: «Mandano i loro aerei, in Francia e altrove si vive bene, qui la gente muore, è ingiusto. È una guerra contro l'Islam, non contro il terrorismo. Presto, se Allah lo vorrà, la Francia e l'intera coalizione sapranno che cosa è la guerra in casa».
   E la guerra a Parigi, arriva il 13 novembre. Kahina è «orgogliosa» che uno degli attentatori del Bataclan sia suo marito. «Sono fiera del suo sacrificio - scrive - Sapevo tutto fin dall'inizio. Ho incoraggiato mio marito a terrorizzare il popolo francese. Niente sarà più come prima. Avrei voluto saltare in aria con lui». Forse a trattenerla è stato il figlio di Samy che portava in grembo, poi nato subito dopo la strage.

(Il Tempo, 29 dicembre 2015)


Léon Werth l'amico ebreo che ispirò Saint-Exupéry

Scrisse un diario dell'esodo di tanti da Parigi nel 1940 mentre i tedeschi erano alle porte e ne affidò una copia all'autore del "Piccolo Principe" che cercò di farlo pubblicare negli Usa. Non uscì mai e se ne persero le tracce fino al 1992. Ora esce in traduzione italiana.

di Fulvio Panzert

0 A volte libri, che sono dei "piccoli classici" nel loro genere, hanno rischiato di andare perduti per sempre. Eppure il destino e la ricerca hanno fatto sì che venissero fatti conoscere per la forza nel comprendere un periodo cruciale della storia, come quello riguardante la seconda guerra mondiale e, in particolare, dello sterminio ebraica. Divenne un caso editoriale, anche in Italia, il ritrovamento del capolavoro di Irenè Nemirowsky, Suite francese. Adesso se ne affianca un altro, un libro assai singolare, 33 giorni (Bompiani, pp. 158, euro 15, tradotto da A. Pezzotta) che fa riferimento all'esodo di Parigi mentre ormai i tedeschi erano alle porte. Lo racconta Léon Werth che agli inizi del giugno 1940 inizia un viaggio con la sua vecchia Bugatti per raggiungere la località in cui trascorre le sue estati, nel Canton Giura. È un viaggio che normalmente dura nove ore, ma in quelle condizioni ci vollero trentatré giorni. Werth sottolinea: «II lettore mi voglia scusare se riferisco questo discorso. Ma non sto scrivendo un romanzo e non sono io a scegliere i miei personaggi». La narrazione è, giustamente e in maniera naturale, intervallata da notazioni più personali, pur se riferite alla realtà sociale: «Per il momento mi sembra che la Francia abbia smesso di pensare, nel senso più semplice del termine. Ipnotizzata da Hider e da Stalin, la Francia ha smesso di usare la propria testa. Quando un popolo non sa ancora pensare o ha smesso di farlo, un Hider, uno Stalin pensano al suo posto».
   Non potendo pubblicare il suo manoscritto nella Francia di Vichy, in quanto ebreo, Léon Werth affida la copia dei 33 giorni al suo grande amico Saint-Exupéry, di cui parla anche nel libro. Per Werth c'è un'unica cosa che conta veramente: «L'unica mia preoccupazione è portare con me Terra degli uomini. Non perché sia un'edizione di lusso. Non è che sia maniaco delle tirature limitate. Ma perché me l'ha regalata Saint-Exupéry, perché la carta di pregio e le pagine non tagliate non parlano di ricchezza e di vanità, ma di amicizia. Perché con la sua grafia aerea Saint Exupéry vi ha scritto delle parole acui la mia amicizia si disseta come a una fonte, parole di cui sarei fiero, se l'amicizia non fosse superiore all'orgoglio«.
   L'amico prende a cuore il libro e lo porta con sé negli Stati Uniti, proponendolo a una libreria che durante la guerra pubblicava traduzioni di libri francesi. Viene accettato, ma poi non verrà mai pubblicato. Del testo si perderanno le tracce per decenni, fino a che viene ritrovato e pubblicato nel 1992, anche perché l'interesse era alto, visto che esisteva la prefazione, pubblicata anche in rivista, che Saint-Exupéry aveva scritto per il libro, affermando che «la Francia è una rete di messaggi che mi sorregge» e tra questi sostanziale ed essenziale è quello con Werth. Parlando della sua avventura nel deserto sottolinea che «è per questo, caro Léon Werth che durante la mia traversata avevo tanto bisogno di rassicurarmi sulla tua presenza in quella casa del Giura che ben conoscevo, affrnché fosse salvato uno dei punti cardinali del mio mondo. Solo allora, nomade lontano dall'impero della tua amicizia senza frontiere, potevo sentirmi non emigrante, ma viaggiatore .
   E proprio da quella 'prefazione' prenderà spunto Saint-Exupéry per una delle sue opere maggiori, Lettera a un ostaggio.
   
(Avvenire, 29 dicembre 2015)


Vichy e la guerra sporca la Francia svela i segreti

Aperti al pubblico gli archivi dei 4 anni di collaborazionismo con la Germania di Hitler. Spiccano i documenti delle "brigate speciali" incaricate di dare la caccia a ebrei e partigiani.

La Francia apre gli archivi di Vichy, spalanca la memoria del suo passato più difficile a tutti, non soltanto agli storici e ai ricercatori, ma ai cittadini, ai figli dei deportati, ai nipoti dei partigiani fucilati, ai figli e nipoti dei delatori, delle spie, dei poliziotti e gendarmi della Francia che collaborò con la Germania nazista di Hitler. Il decreto che autorizza la consultazione degli archivi della polizia e della giustizia del regime di Vichy del maresciallo Pétain e di quello della «transizione» dalla Francia occupata alla République, è stato firmato dal premier Manuel Valls il 24 dicembre ed è entrato in vigore da ieri.

 La verità dopo 70 anni
  Da ieri si possono consultare gli atti dell'arresto di Jean Moulin, il capo della resistenza francese, catturato il 21 giugno 1943 alla periferia di Lione, da ieri qualsiasi cittadino francese potrà leggere i rendiconti della polizia della retata del Vél' d'Hiv', la notte più buia della storia di Francia, quando, tra il 16 e il 17 luglio 1942 più di 13mila francesi, quasi tutti ebrei, oltre 4mila bambini, furono arrestati a Parigi. Meno di cento tornarono dai campi di sterminio. Alla retata parteciparono 7mila gendarmi, francesi anche loro. Per gli storici, ma anche per tanti semplici cittadini, la decisione di aprire gli archivi è un gesto storico, di «liberazione». Annette Wieviorka, una delle maggiori storiche francesi del periodo della seconda guerra mondiale, ha salutato una decisione che consentirà di «moltiplicare gli studi non soltanto sulla guerra, ma anche sul periodo immediatamente successivo. Si potranno rinnovare gli studi sull'epurazione e sulla transizione tra il periodo dell'occupazione tedesca e del regime di Vichy e il ritorno alla République». I documenti ormai accessibili a tutti (e finora consultabili soltanto su richiesta motivata da parte di ricercatori) sono «gli archivi dei tribunali speciali di Vichy, gli archivi relativi alle ricerche dei criminali di guerra nazisti, gli archivi dei tribunali speciali della Liberazione». Semplici cittadini potranno leggere anche i verbali delle inchieste realizzate dai servizi della polizia giudiziaria tra il 3 settembre 1939 e l'8 maggio 1945. Altro aspetto finora poco studiato che l'apertura degli archivi consentirà di chiarire è quello delle «condanne per indegnità nazionale» pronunciate alla fine della guerra da alcuni «tribunali civici». Le condanne prevedevano anche il ritiro della nazionalità, decisione applicata anche agli ebrei prima della guerra e di cui si discute ferocemente anche oggi, dopo la proposta di François Hollande di voler ritirare la nazionalità ai francesi condannati per terrorismo.
  E' stato lo storico Gilles Morin a lanciare lo scorso maggio una petizione indirizzata al presidente della Repubblica per togliere tutti i lucchetti alle carte di Vichy. Sull'arresto di Jean Moulin, per esempio, Morin si aspetta nuove scoperte: «fino ad oggi abbiamo avuto soltanto testimonianze, adesso potremo leggere i verbali del processo, le note della polizia e anche quelle del Consiglio della resistenza».

 I rapporti con la Gestapo
  E ancora di più: si potranno sfogliare i documenti sulle brigate speciali francesi incaricate di catturare i partigiani, i comunisti, gli ebrei. Per la storica Sophie Coeuré, potranno emergere «nuove conoscenze anche sui meccanismi del funzionamento della Gestapo a Parigi, sui rapporti tra i differenti poteri e amministrazioni, e infine sul modo in cui i francesi, immediatamente dopo il '45 hanno dato la caccia ai criminali di guerra in Germania e in Austria».
  Ci sono voluti 50 anni alla Francia per riconoscere la macchia di Vichy. Il 16 luglio 1995, pochi mesi dopo essere stato eletto all'Eliseo, Jacques Chirac ruppe con la tradizione di ambiguità dei suoi predecessori che avevano sempre occultato la «parentesi» di Vichy in nome dell'unità nazionale. «Quel periodo nero è una macchia indelebile nella nostra storia, un'ingiuria al nostro passato - disse Chirac - la follia criminale dell'occupante fu, lo sappiamo tutti, assecondata dai francesi, assecondata dallo Stato francese. La Francia, patria dei Lumi, patria dei Diritti dell'Uomo, terra d'asilo, la Francia, quei giorni, compiva l'irreparabile».

(Il Messaggero, 29 dicembre 2015)


Israele-Brasile, gelo diplomatico

Brasilia non accredita l'ambasciatore Dayan

Il governo israeliano userà tutti i canali a sua disposizione per far sì che Dani Dayan venga confermato ambasciatore in Brasile. A dichiararlo, nel corso della riunione di inizio settimana a Gerusalemme dell'esecutivo, il viceministro degli Esteri Tzipi Hotovely. Nessun altro nome verrà presentato a Brasilia, ha dichiarato Hotovely, scegliendo dunque la strada dello scontro con il governo brasiliano. Dall'altra parte dell'oceano il nome di Dayan, noto come uno dei leader del movimento che rappresenta gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, non piace. Il presidente brasiliano Dilma Rousseff l'aveva fatto sapere a Gerusalemme sin dall'inizio ma il Premier Benjamin Netanyahu auspicava in una risoluzione pacifica della questione. Invece, dal giorno della nomina (in agosto) di Dayan ad ambasciatore, la Rousseff si è trincerata dietro al silenzio, optando per non dare nessuna risposta in merito all'accreditamento dell'ambasciatore indicato da Gerusalemme. Secondo Brasilia - e i movimenti di sinistra (sia israeliani che brasiliani) che si sono mobilitati contro la nomina - accettare Dayan significherebbe approvare indirettamente la politica degli insediamenti israeliani. "Lo Stato di Israele non accetterà il rifiuto di un ambasciatore per ragioni ideologiche e useremo i mezzi diplomatici per ribadirlo nel modo più chiaro possibile", ha dichiarato Hotovely. Tra le questioni che preoccupano Gerusalemme, la possibilità che, in caso di mancata conferma di Dayan, la scelta di Brasilia crei un precedente contro le persone che vivono negli insediamente e la loro possibilità di rappresentare Israele all'estero.

(moked, 28 dicembre 2015)


Bosnia, l'Islam radicale alle porte d'Italia (nel cuore dell'Europa)

dall'inviato Andrea Pasqualetto

BUŽIM (Bosnia Erzegovina) - La strada si fa stretta, sterrata, le case diradano. Velika Kladusa è alle spalle e non rimane che salire affidandosi al vecchio Murat che conosce bene questa triste montagna di confine: «La terra di Bilal è lassù, bisogna tenere gli occhi aperti».
  Altri cinque chilometri di sassi e buche ed ecco spuntare su un prato scoperto lo scheletro di un edificio in costruzione. È il centro di preghiera salafita voluto dall'imam Husein Bosnić che tutti chiamano Bilal, il più grande reclutatore europeo di jihadisti. Così, almeno, lo considerano varie procure che hanno trovato tracce tangibili del suo passaggio in Svezia, Austria, Slovenia, oltre che a Roma, Cremona, Bergamo e Pordenone. Indagato anche in Italia dall'antiterrorismo di Venezia per aver promosso la Guerra santa e radicalizzato musulmani prima moderati come i «bellunesi» Ismar Mesinovic (poi morto in Siria) e Munifer Kalamaleski, Bosnić è stato arrestato e condannato il mese scorso a 7 anni dal tribunale di Sarajevo. Per «attività terroristica attraverso il reclutamento di persone della comunità salafita, diventati parte dell'Isis allo scopo di compiere attentati terroristici», scrive nell'atto d'accusa il procuratore Dubravko Čampara che gli ha dato la caccia per lungo tempo. E che la settimana scorsa ha ottenuto l'arresto di 11 sospetti terroristi che stavano pianificando un attentato a Sarajevo «puntando a uccidere oltre 100 persone».
  A Bosanska Bojna, in questa landa isolata di Nord Ovest, il predicatore ha comprato otto ettari di terra «usando denaro arrivato dal Qatar che gli ha versato 200 mila dollari», aggiunge sospettoso Čampara. La scelta del luogo non è casuale. Si tratta infatti di un'area di confine molto particolare: di qua c'è la Bosnia, Stato extracomunitario e cuore musulmano d'Europa, di là la cattolica Croazia e l'Unione europea. Dal gennaio 2016 la repubblica croata sarà anche area Schengen e quindi le persone potranno circolare più liberamente verso gli altri Stati membri. L'Italia poi è a portata di orizzonte: 210 chilometri, Trieste.

 Il confine di Bosanska
  Proseguiamo sullo sterrato, oltre il «regno» di Bosnić. Fatte quattro curve ecco l'importante frontiera europea: una sbarra arrugginita con appeso un cartello di stop a interrompere la stradina e, dieci metri più in là, un gabbiotto bianco abbandonato dove un tempo forse c'era qualche poliziotto. Fine. Chi volesse evitare divise e dogane qui, fra i boschi di Bosanska Bojna, può farlo. Cittadini, predicatori, ma anche combattenti, terroristi. E soprattutto trafficanti d'armi, visto che la Bosnia è un po' la santabarbara d'Europa per via della guerra degli anni Novanta che ha riempito i Balcani di mitra e munizioni. «I proiettili di Charlie Hebdo sono stati fabbricati a Mostar, alcuni kalashnikov delle ultime stragi arrivano dalla ex Jugoslavia. Parigi ci sta chiedendo collaborazione e verifiche e noi stiamo procedendo», ricorda Igor Golijanin, giovane capo di gabinetto del ministero della Sicurezza che ha alzato il livello di allarme.
  Dalla prospettiva di Bosanska le parole di Bosnić suonano ancor più sinistre: «Si comincia dai boschi, raduniamo i migliori eserciti e cadranno i migliori martiri», «ciò che più rallegra Allah sono i suoi schiavi quando vanno fra gli infedeli e combattono finché non vengono uccisi», «questo significa prepararsi a una legge islamica», «un giorno il Vaticano sarà musulmano».
  Intorno al confine solo sterpaglie, faggi ingrigiti dall'inverno e un paio di casette in legno con i camini che fumano. Da una finestra si affaccia un signore alto e magro che sembra Clint Eastwood. É Zlatko Popovic, funzionario di polizia in pensione: «Non preoccupatevi, non c'entro con la frontiera… Bilal? Eh, è chiaro che lui e i suoi seguaci non sono venuti qui casualmente. In questa terra non ti vede nessuno, non ci sono controlli e sei molto vicino agli Stati del Nord». Bosnić lo sa bene e lo sanno anche i suoi sponsor arabi qatarioti che gli hanno messo in mano i dollari del deserto per realizzare un masjid fra le montagne europee più ruvide e nascoste.

 I dollari del deserto
  «Ci risulta che siano diversi paesi arabi che stanno investendo: Qatar, Emirati, sauditi… spesso attraverso bosniaci salafiti o wahhabiti», indica Golijanin sulla cartina geografica del suo ufficio di Sarajevo puntando il dito sulle valli nordiche.
  Salafiti e wahhabiti significa islam sunnita, radicale, ultraconservatore, intriso della sharia più rigida che non disdegna la Guerra santa. Anche questa è un'eredità della guerra dei Balcani quando in Bosnia arrivarono oltre duemila mujaheddin dai paesi arabi, dalla Cecenia e dall'Afghanistan, per combattere a fianco dei musulmani bosgnacchi, storicamente moderati, contro i cattolici croati, gli ustascia e gli ortodossi serbi. Lì esplosero le anime religiose dell'ex Jugoslavia che secondo l'intelligence ha portato alla nascita di una decina di piccoli villaggi fondamentalisti dove di tanto in tanto sventolano le bandiere nere dello Stato islamico e le donne girano in niqab o in hijab e dove la legge è quella del Corano. «In questi luoghi si arriva da una sola strada visibile dall'alto perché devono vedere chi sale. Si trovano in aree confinanti fra province o fra cantoni o sulla linea della Croazia dove non si sa bene quale sia la polizia competente, rendendo meno efficace l'attività repressiva», spiegano gli uomini del Sipa, le forze speciali di polizia.

 I 10 villaggi
 
    L’enclave salafita più controllata è Gornja Maoca, a Nord Est, altri piccoli centri si trovano fra i boschi più centrali di Teslić, Osve, Maglaj, Gluha Bovica, Mehurići, Zenica, teatro della sanguinosa guerra dei Balcani con i primi tagliagole dell’età contemporanea.
  Golijanin sforna qualche dato: «Abbiamo circa duemila fondamentalisti che, attenzione, non significa terroristi. Al momento ci risultano circa 150 foreign fighters, in un paese con meno di 4 milioni di abitanti. Più di trenta sono morti in Siria, una cinquantina sono rientrati. Il nostro obiettivo è deradicalizzare. Se andate lì fate attenzione».
  Noi siamo a Nord Ovest, nel cantone di Bihać, dove i wahhabiti hanno messo radici a piccoli gruppi fra Velika Kladusa e Bužim, tutti un po’ legati alla predicazione di Bosnić. Il quale dalla prigione di Sarajevo sta delegando molto.
  La riprova ce l’abbiamo proprio a Bosanska. Facciamo appena in tempo a salutare l’agente Zlatko che arriva una vecchia Opel a tutta velocità. L’uomo frena, scende, si agita. Urla in bosniaco qualcosa di molto duro e minaccioso. Ed è pure buio. Non è una bella situazione. Chiede chi siamo, pretende le foto che abbiamo scattato. Poi succede qualcosa di incomprensibile e di colpo si calma e dice pure il suo nome: Hakmed Mustafic. È l’amico fidato di Bosnić. A lui l’imam ha affidato le chiavi della proprietà: «E trentamila euro, che restituirò appena posso. Conosco Bilal da quando era piccolo, è una brava persona, la sua famiglia ha molti problemi adesso». Già: ha 43 anni, quattro mogli e 17 figli da mantenere. «Diciotto, l’ultimo è nato dopo l’arresto. Lasciatelo stare». Bilal e Hakmed sono cresciuti fra le montagne di Bužim, nel villaggio di Šišići, una ventina di chilometri più a Est. Ci andiamo.

 "L'imam era un pastore prepotente"
  La casa di Bosnić è molto grande, su tre piani, meno di uno per moglie, ed è nascosta dai panni stesi su ogni terrazzo: 18 fra bimbi e ragazzi. C'è un altoparlante sul tetto, una scritta araba su un muro, lo stesso dove è stata tolta una bandiera nera con la scimitarra. «Non parliamo, lasciate stare mio papà», dice un tenero bambino.
  Procediamo e arriviamo al villaggio. Sei case, molto fango, un ruscello. Le donne, tutte col velo, entrano in casa. Esce l'uomo più anziano, il quarantatreenne Kasim Šišić, un ex ufficiale dell'esercito bosniaco che è anche il rappresentante di una dzemat, la comunità islamica del posto. Kasim fuma e sorprende: «Ve lo racconto io Bilal, lo conosco da sempre. Lui era un contadino come me, un pastore, figlio di un uomo che era andato anche in Germania a lavorare, faceva le pulizie alla stazione di Stoccarda. Adesso lui sembra un imam, un teologo, e io un contadino stupido. Non mi piace, eravamo uguali. E tutta questa santità non la vedo, soprattutto quando portava le pecore a pascolare sulla mia terra. Da bambino poi era una di quelli che non voleva perdere a pallone». Insomma, non lo ama. «Soffre di un complesso di superiorità. Lo vedi quell'altoparlante? Io dico che quando si abbassano gli ascolti si comincia ad alzare la voce… Non so francamente cosa abbia fatto lui ma non si manda la gente a uccidere».

 Il falegname della sharia
  Šišići chi è meno ostile di Kasim. È il falegname Rasim, che stenta a farsi vedere per ragioni ideologiche. Rasim ha la barba salafita e la sua famiglia osserva la sharia, come Bosnić. Niente alcol, niente televisione, moglie col velo, di sera accompagnata da un parente, vietati il ballo e la musica strumentale e tutto ciò che è immagine, compresa l'arte sacra. «Evitiamo ciò che può allontanare da Allah e corrompere l'anima», semplifica Rasim con un sorriso buono e uno sguardo estatico che evita di incrociare quello dell'interprete: donna, capelli sciolti. E la guerra? «Solo se ti attaccano è consentita».
  A Bužim il 99 per cento della popolazione é di fede musulmana. Il sindaco del paese è il tipo che non t'aspetti: giacca, cravatta e camicia azzurra: «I salafiti sono isolati ma non sono pericolosi. La sharia? Lasciamo fare se non è contro la legge». E la poligamia? «Bosnić ne ha sposata una, le altre sono conviventi. Dirò di più: i suoi figli sono spesso i più bravi della classe».

 L'avvocato: La democrazia ha fallito
  Nel centro della Bosnia, fra le montagne di Vlasic, le forze speciali di polizia del Sipa stanno controllando altri due villaggi salafiti. Nella vicina Travnik a simpatizzare per i salafiti c'è pure un avvocato, Adil Lozo. Non uno qualsiasi: è il legale di Bosnić, sempre lui. Lozo ci accoglie in uno studio semplicissimo preparando un caffè cremoso. Ha il baffo folto e il carattere spigoloso come la sua terra. «La democrazia - dice - ha dimostrato il suo fallimento, i sistemi democratici lo hanno dimostrato. La legge perfetta è la sharia. Nessuno ruba, nessuno tradisce, nessuno uccide. Io a Medina ho visto oreficerie protette da una sola tenda. Bosnić vuole questo e nient'altro».
  E tutti i giovani che ha mandato a morire in Siria? «Non ha mai detto di andare a combattere, le scelte sono personali, e poi in Siria ci sono sei eserciti». Parigi? «Io non so se è stato l'Isis, non credo all'informazione». L'avvocato va oltre le parole del Reisu-l-ulema di Sarajevo, Husein Kavazovi?, massima autorità musulmana del Paese, che ci invita nel centro islamico più autorevole della Bosnia Erzegovina: «Condanno i fatti di Parigi, condanno certi atteggiamenti radicali e quel Bosnić non è un imam». Anche l'ambasciatore italiano a Sarajevo, Ruggero Corrias, riconosce l'esistenza «di una minoranza di comunità radicali e, da queste, numerosi individui si sono recati a combattere in Siria».La Bosnia sembra una silenziosa polveriera. La convivenza pacifica di un tempo è diventata tensione, i rapporti fra popoli sospetti e sempre di più legati alle diverse fedi, un tempo temperate dal laicismo comunista. Un mondo sul quale piovono notizie che allarmano. Bandiere nere, sharia, campi di addestramento per jihadisti «Questi hanno fatto un ottimo addestramento in Bosnia», dice per esempio tale Halabja Faluja, intercettato dal Ros di Trento che sta indagando sullo jihadismo (quello di Padova invece lavora su Bosnić). «Garantisco io, nessun campo», frena Golijanin. Resta comunque un paese da allarme rosso.

 Una cappella e 27 moschee
  A Sarajevo i musulmani sono passati dal 65 per cento dei primi anni Novanta al oltre il 90 per cento. Nel Nord Ovest stesse percentuali e anche oltre. «Abbiamo 27 moschee, una chiesa ortodossa e una cappella cattolica», sintetizza con orgoglio l'imam di Velika Kladusa, Ćoragić Zumret, che si trova però a fare i conti con le minacce dei gruppi integralisti: «Io non li ascolto e dico: nessuna assoluzione per Parigi ma nessuna assoluzione neppure per le molte stragi di civili musulmani. Combatto il radicalismo di Bosnić».
  Se ce l'avesse di fronte cosa gli direbbe? «Fratello Bilal, a cosa ti è servito tutto questo? Allah ti giudicherà, lo insegna il Corano: pagherai per tutte le volte che hai portato qualcuno sulla strada sbagliata».
  Il cielo è grigio, il freddo pungente. Dal minareto si leva lento il salmodiare di un muezzin che sembra il lamento della terra.

(Corriere della Sera, 28 dicembre 2015)


Scampò all'Olocausto grazie ai cristiani, ora crea un fondo anti-Isis

George Weidenfeld
George Weidenfeld, ebreo, 95 anni, non dimentica l'aiuto ricevuto dai cristiani quando era bambino e ha deciso di ripagare il "debito". Il fondo è destinato a far scappare 2mila cristiani mediorientali dagli jihadisti
Nel 1938 George Weidenfeld, ebreo, scampò a morte certa grazie all'aiuto della comunità dei quaccheri che gli diedero da mangiare e lo aiutarono a raggiungere la salvezza, cioè la Gran Bretagna. Ora a 95 anni l'uomo, sopravvissuto all'Olocausto, non ha dimenticato il suo debito e sta finanziando un fondo di salvataggio per 2.000 cristiani mediorientali, minacciati dall'Isis.
"Ho un debito da ripagare", ha spiegato il filantropo che nella vita è diventato un editore di successo e che, all'epoca, beneficiò del "kinderstransport", vale a dire quell'operazione che pochi mesi prima dallo scoppio delle Seconda guerra mondiale mobilitò in inghilterra associazioni umanitarie e religiose (tra cui i quaccheri) per ospitare i bambini ebrei provenienti dalla Germania e dai territori conquistati dai nazisti. "E stata un'operazione generosa e noi ebrei dovrebbero essere grati e fare qualcosa per i cristiani in pericolo", ha ricordato.
Weidenfeld di recente ha sostenuto le spese per noleggiare privatamente un volo per 150 cristiani siriani con destinazione Polonia per permettere loro di cercare un rifugio e farsi una nuova vita, scappando dagli orrori della guerra e dell'Isis.

(TGCOM24, 28 dicembre 2015)


Israele accoglie trentamila ebrei immigrati

2015 anno record. Ai primi posti ebrei da Francia, Ucraina e Russia

L'immigrazione in Israele ha registrato un record degli ultimi 15 anni con l'arrivo di 30 mila ebrei, il 10% in più rispetto al 2014. Lo riferisce il quotidiano Makor Rishon.
L'immigrazione più consistente riguarda la Francia, da dove nel 2015 sono arrivati 7.700 ebrei. Al secondo posto si trova l'Ucraina con 6.800 immigrati e al terzo la Russia, con 6.500.

(ANSA, 28 dicembre 2015)


Leader palestinesi discuteranno sul taglio delle relazioni con Israele

GERUSALEMME - La leadership dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) dovrebbe riunirsi nei prossimi giorni per discutere il futuro delle relazioni con Israele: lo ha detto il segretario generale dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Saeb Erekat, secondo cui l'incontro dovrebbe tenersi entro la fine del mese per discutere delle precedenti decisioni dell'Olp e di Fatah di sospendere le relazioni con Israele. "Saranno prese decisioni determinanti e importanti per quanto riguarda tutte le forme dei legami con l'occupazione, compresa la sicurezza e le relazioni politiche", ha detto Erekat, escludendo però la possibilità che la dirigenza dell'Autorità Palestinese possa tagliare completamente i rapporti con Israele. Erekat ha confermato di aver incontrato negli ultimi mesi l'allora ministro dell'Interno Silvan Shalom, che è stato incaricato di mantenere i contatti con la dirigenza palestinese. "Due incontri si sono svolti lo scorso luglio e agosto", ha detto Erekat.

(Agenzia Nova, 28 dicembre 2015)


Israele e Usa: co-sviluppo di tecnologie per il primo soccorso

 
Circa 12 milioni di dollari saranno incanalati verso progetti di collaborazione tra Israele e Stati Uniti. Si tratta di un progetto di sviluppo di tecnologie avanzate nel settore del primo soccorso per i prossimi 3 anni.
  L'accordo riunisce il ministero israeliano della Pubblica Sicurezza e il Dipartimento per la sicurezza interna in un'unità per attrezzare al meglio e preparare le forze di soccorso nazionali di entrambi i paesi, tra cui pompieri, polizia e le unità di pronto soccorso.
  La collaborazione, chiamata NextGen First Responder Technologies, sarà gestita da Israele e Stati Uniti nell'ambito dell'Israel-US Binational Industrial Research and Development (BIRD) Foundation.
  Molte aziende israeliane sono già attive nella produzione di soluzioni innovative per le emergenze mediche. Uno di questi prodotti è l'Emergency Bandage usato in più di 50 paesi per tamponare emorragie tramite un applicatore a pressione brevettato.

 Soluzioni Salvavita
  La nuova collaborazione prevede di produrre molte di queste soluzioni stimolando la crescita del settore della tecnologia del primo soccorso.
  Il Direttore esecutivo della Fondazione BIRD, Eitan Yudilevich, commenta:

Questo programma fornirà un valore aggiunto per promuovere e valorizzare l'innovazione per lo sviluppo di tecnologie avanzate per i primi soccorsi e attivare nuove opportunità di business in un mercato in via di sviluppo per entrambe le aziende.

La Fondazione BIRD accelera la cooperazione tra gli Stati Uniti e le aziende israeliane in una vasta gamma di settori tecnologici. Durante i suoi 38 anni, BIRD ha investito in circa 900 progetti comuni, che hanno dato ricavi diretti e indiretti per circa 10 miliardi di dollari.
  Il Ministro israeliano della Pubblica Sicurezza e membro della Knesset Gilad Erdan ha definito l'accordo NextGen come una svolta per il settore del primo soccorso in Israele.
  Il nuovo programma estende e migliora la collaborazione già esistente tra gli Stati Uniti e Israele nel campo della scienza e della tecnologia per la sicurezza interna, delineata in un più ampio accordo firmato nel 2008.
  NextGen First Responder Technologies è aperta a qualsiasi innovativa iniziativa tecnologica in grado di migliorare e potenziare le future capacità di primo intervento.

(SiliconWadi, 28 dicembre 2015)


Oltremare - Storie di Cinema

di Daniela Fubini, Tel Aviv

A Tel Aviv ci sono due cinema che, quando menzionati in conversazioni conviviali, causano onde concentriche di nostalgia: l'Eden e il Mugrabi. Due luoghi che certificano il fatto che persino Tel Aviv, una città che ha da poco finito di festeggiare i cento anni dalla fondazione, ha una sua storia.
Nel 1914, Tel Aviv aveva cinque anni, i palazzi più alti avevano due o tre piani, erano costruiti sulla sabbia e il piano regolatore era una linea retta tracciata a vista a perpendicolo del mare. L'attuale Sderot Rothschild. Non c'erano ancora alberi, nessuno aveva ancora piantato l'erba ai bordi delle strade.
Nella bianca luce del Medio Oriente, Moshe Abarbanel e Mordechai Weiser costruirono il Cinema Eden su di un angolo di Neve Tzedek, il quartiere fuori Jafo dove erano fuoriusciti gli ebrei prima di fondare Tel Aviv. I vicini fecero rimostranze: la notte era illuminata dallo schermo e disturbata dall'orchestra che suonava sul palco. I film arrivavano da Alessandria d'Egitto, uno o due alla settimana. D'estate, prima dell'avvento di rivoluzionari ventilatori, sul pubblico veniva spruzzata acqua di rose. A Tel Aviv si suda, è un fatto.
Nel 1914, ancora nessuno pensava che in capo a tre anni l'Impero Ottomano avrebbe perduto la Palestina. Ma siccome la cultura è cosa molto politica, si sa, gli inglesi invasori nel 1917 si appropriarono del cinema per un paio d'anni, riservandolo alla difficile opera di sollevare il morale delle truppe.
Nel 1930 aprì il Cinema Mugrabi, nel cuore della Tel Aviv che si stava espandendo velocemente verso nord. Il palazzo in stile Art Deco, con ben dodici larghi gradini all'entrata, sembrava un tempio laico, ed è nella piazza antistante che si radunarono i cittadini per festeggiare la dichiarazione dell'ONU il 29 novembre 1947, prima di andare a prendere le armi e unirsi alla guerra d'Indipendenza.
L'Eden ha chiuso nel 1974, ed è rimasto lì, protetto dalla legge che preserva i palazzi antichi. Il Mugrabi è bruciato nel 1986 ed è stato poi distrutto. Leggenda vuole che lo ricostruiranno, identico ma con in cima un grattacielo di quaranta piani. Tel Aviv si espande ancora, ma in verticale.


(moked, 28 dicembre 2015)


Il manuale del Califfato: «Ecco il piano segreto per conquistare Roma»

Scoperto dagli inquirenti di Brescia un testo dell'Isis: prima attacchi piccoli poi la presa delle fabbriche di armi. «L'offensiva verso Roma» è l'ultimo capitolo di un libro elettronico del Califfato sequestrato a due islamici arrestati lo scorso luglio nel Bresciano perché stavano progettando attentati.

di Fausto Biloslavo

La marcia su Roma delle bandiere nere è già stata pianificata con una strategia delirante, ma pericolosa, descritta in uno dei manuali dello Stato islamico indirizzato ai propri adepti in Europa.
  «L'offensiva verso Roma» è l'ultimo capitolo di un libro elettronico del Califfato sulle «bande islamiche» da reclutare a casa nostra. La pubblicazione era una delle letture preferite di un pachistano ed un tunisino arrestati lo scorso luglio nel Bresciano perché stavano progettando attentati. L'allucinante capitolo sulla conquista di Roma inizia con le istruzioni per «piccoli attacchi come rappresaglia agli attacchi del nemico» in Siria e Iraq. L'obiettivo, però, è un'escalation che faccia «scoppiare una guerra senza quartiere» nel vecchio continente. I combattenti di questa insurrezione islamica sarebbero i «mujaheddìn» reclutati nelle comunità musulmane in Europa, soprattutto «quelli che hanno esperienza con le armi da fuoco».
  Il manuale spiega che i miliziani dovranno occupare le fabbriche di armi e assaltare arsenali «come lo Stato islamico ha fatto in Iraq». Nella prima fase il folle obiettivo non sarà marciare subito su Roma, ma «creare un corridoio attraverso i paesi confinanti (in Europa nda) dove ci sono gruppi musulmani». Poi bisognerà consolidare i contatti e aumentare il reclutamento «fino ad arrivare alla capitale, la città di Roma».
  Il folle stratega del Califfo che ha redatto il manuale di guerra in perfetto inglese sostiene che i mujaheddin «entreranno nell'Italia settentrionale. I musulmani del Regno Unito si uniranno a quelli della Francia, poi la Spagna, la Germania e la Scandinavia fino a quando non avremo circondato l'Italia da Ovest e da Nord. Da Est i nostri fratelli dei Balcani, bosniaci, albanesi e kosovari» chiuderanno il cerchio.
  Secondo la profezia del Califfo «la guerra santa in Europa» scoppierà quando le forze occidentale combatteranno lo Stato islamico in Siria.
  La parte finale della profezia prevede che la Nato verrà sconfitta «ed i musulmani conquisteranno Roma». Oltre alle infiltrazioni da Nord, Est ed Ovest «lo Stato islamico entrerà in Italia da sud con missili e navi» probabilmente dalla Libia.
  Nel frattempo la propaganda jihadista in rete è sempre «libera». Al Giornale è stato segnalato l'ennesimo estremista online, avvocato a Roma e vicino ai Fratelli musulmani egiziani. Walid Fayez, il 14 novembre, un giorno dopo la carneficina in Francia, scriveva sulla sua pagina Facebook: «Il messaggio degli attentati parigini è chiaro. La vostra società deve provare il sapore del terrore ed i dolori che la nostra società prova quando lanciano le bombe dai vostri caccia sulle teste dei nostri civili ... Russi e francesi hanno pagato dazio per il loro intervento di forza in Siria».
  Fayez ha il dente avvelenato con Israele. Il 30 novembre posta la foto di una strada di Bologna, Via de' coltelli. E commenta: «Questa via fa tremare i vigliacchi di Tel Aviv». Il riferimento è all'intifada dei coltelli che ha già provocato 150 morti in Israele negli ultimi tre mesi.
  L'immagine di una bambina moribonda in Siria, che sarebbe stata uccisa nei raid aerei alleati o dai governativi, scatena il 21 novembre un chiaro «bastardi crociati». L'altro chiodo fisso dell'avvocato Fayez è l'intervento di Mosca in Siria. Il primo ottobre prevede che «la violenza e lo spargimento di sangue si sposteranno prossimamente in Russia». Due giorni dopo insiste scrivendo che «con l'intervento militare in Siria Putin sta esponendo i cittadini e gli interessi russi al repentaglio ovunque nel mondo». Il 31 ottobre una bomba a bordo fa precipitare un aereo passeggeri russo sul Sinai uccidendo 224 persone. Sabato Fayez commenta un post su un altro profilo Facebook, che denuncia il presunto bombardamento dell'aviazione di Mosca di una scuola con immancabili bambini morti. L'avvocato di Roma non ha dubbi riferendosi ai russi: «Poi si lamentano quando ricevono dei colpi duri e saltano per aria».

(il Giornale, 28 dicembre 2015)


Israele delle Meraviglie

di Deborah Fait

Vivere in Israele significa non annoiarsi mai, ma soprattutto significa meravigliarsi per la capacità di questo Paese di destreggiarsi tra gli accadimenti belli e brutti senza perdere il suo self-control, il suo coraggio e la sua voglia di vivere e di vivere bene. Un altro Paese con la nostra storia e la nostra attualità avrebbe già tirato i remi in barca per rintanarsi in se stesso e farsi prendere dalla tristezza e dalla depressione.
   Ne abbiamo avuto l'assaggio subito dopo la strage di Parigi il 13 novembre quando Francia, Belgio e mezza Europa sono diventati per giorni e giorni paesi semideserti, con la gente chiusa in casa per paura. A Parigi hanno sventrato un intero palazzo per catturare tre terroristi e l'unico sopravvissuto lo hanno portato fuori seminudo, solo con una maglietta e senza mutande, scalzo sotto la pioggia e il freddo (quando i soldati israeliani facevano spogliare i kamikaze catturati per rassicurarsi che non avessero altre bombe addosso, ci urlavano che eravamo perfidi e gli toglievamo la dignità...morale: mai giudicare situazioni che non si conoscono... .
   Oggi in Occidente parlano di guerra asimmetrica contro il terrorismo. La stessa guerra asimmetrica che Israele vive da anni e che gli europei sbeffeggiavano convinti che da loro mai sarebbe potuto accadere, loro erano amici e ammiratori dell'Islam, perbacco!
   Sì, anche col Lodo Moro gli italiani speravano di salvarsi dal terrorismo palestinese per essere poi colpiti nel modo peggiore dai loro supposti spergiuri e sleali amici.
 
  "Non smetteremo mai di danzare"
   Israele no, Israele non si lascia abbattere né spaventare!
   Israele viene preso di mira dal mondo intero, boicottato a livello internazionale, in molti negozi e supermercati europei i prodotti israeliani spariscono di giorno in giorno, accademici, professori, studenti israeliani vengono scacciati dalle università europee e statunitensi, chi ha passaporto israeliano non può entrare in una ventina di paesi arabi... su 22... senza che il resto del mondo accusi questi paesi di razzismo e apartheid.
   Il Kuwait blocca i viaggi verso New York perchè non vuole ebrei e israeliani sui suoi aerei. Critiche? Nessuna.
   Chi entra in un qualsiasi social dove si parli, anche di sfuggita, di Israele può leggere messaggi di un tale odio da far rabbrividire.
   In Italia abbiamo un partito detto delle 5 stelle, che fa dell'antisemitismo/antiisraelismo uno dei suoi cavalli di battaglia come ai tempi in cui imperversava Rifondazione Comunista. Ogni 25 aprile e 27 gennaio orde di giovinastri e meno giovinastri sbandierano bandiere palestinesi urlando frasi di odio e insulti vari contro la Brigata Ebraica che aveva partecipato eroicamente alla liberazione dell'Italia dal nazifascismo.
   Un sito filopaletinese, Radio Islam, pubblica la lista di ebrei italiani e loro sostenitori, compresi i deceduti. Non é una novità, la lista esce ogni anno, cambiando sito purché sia filoarabo e antisemita, anni fa, ai suoi tempi d'oro, Holywar, nel suo parossismo di odio, fu il primo social a pubblicare una serie di personaggi, fra i quali la sottoscritta, con un bel 666 disegnato sulla testa.
   La storia di Israele antica e moderna viene regolarmente cambiata, mistificata, letteralmente stuprata sui media, nelle scuole, in politica, Israele viene nominato soltanto se reagisce al terrorismo di cui è vittima e ammazza qualche terrorista palestinese, diversamente il suo nome si trasforma in Terrasanta e/o Palestina.
   I siti internet di tutto il mondo continuano a taroccare foto di bambini morti in Siria facendoli passare per bambini arabi di Gaza durante la guerra con Israele nel 2014. L'Iran ribadisce la volontà di distruggere lo stato ebraico.
   La radio ufficiale dell'ANP, quella che obbedisce agli ordini di Abu Mazen, si rivolge ai bambini palestinesi dicendo che Israele non ha nessun diritto di esistere e che presto sarà distrutto.
   Mai al mondo e di nessun paese del mondo è stata promessa la distruzione eppure in Occidente nessuno protesta, né con l'Iran (di cui tutti oggi sono amici) tantomeno con l'ANP di cui tutti sono grandi ammiratori, innamorati di Abu Mazen, l'angelo della pace cui Bergoglio, unendosi a tutti gli altri capi di stato palestinodipendenti, ha dato ufficialmente libertà di delinquere, di incoraggiare i suoi al terrorismo e di portare agli onori degli altari palestinisti gli assassini di ebrei per poi andare, lo stesso Bergoglio, a pregare sotto la barriera di sicurezza a Betlemme.
   Un disastro papale sotto tutti i punti di vista!
   Non posso dimenticare le critiche velenose a Israele quando reagiva alle stragi kamikaze o durante la guerra di Gaza dopo che ci eravamo presi sulla testa 13.000 missili di Hamas, non dimentico gli insulti sui media, sui social.
   Non dimentico nemmeno le critiche rabbiose e le imprecazioni di chi venendo in Israele doveva passare severi controlli. Ricordo ancora il commento di un veneto che, in aeroporto, in fila dietro a me, esplose con un : "I xe proprio come i nazisti". Questo e molto di più e di peggio accade all'estero contro Israele, senza interruzioni e con sempre maggior ostilità al punto da essere diventato un'ossessione psicotica.
   Nemmeno in Israele, però, ci facciamo mancare niente. Finite le stragi dei kamikaze e i lanci quotidiani di decine di missili da Gaza, per amareggiare la nostra vita e non farci mai dimenticare che il terrorismo c'è ed è vivissimo, ecco che Abu Mazen ci manda gli accoltellatori quotidiani o, in alternativa, quelli che prendono un'auto e si lanciano contro ignari e pacifici cittadini in attesa di un autobus.
   Giorni fa un bimbo, il piccolo Yotam, di 20 mesi, è stato preso in pieno da un'auto guidata da un terrorista palestinese, hanno dovuto amputargli una gamba. Ieri altri due morti da coltello, la notizia sciagurata data dal New York Times "quattro morti a Gerusalemme" mettendo sullo stesso piano i due terroristi e le vittime israeliane.
   Oggi altri accoltellamenti, domani... chissà! Israele, oltre al terrorismo e alle minacce di invasione e di distruzione, deve gestire, al suo interno, organizzazioni di estrema sinistra come la ONG Breaking the silence che, finanziata dall'Europa, va in giro per il mondo a diffamare Israele e l'IDF e gruppi di estrema destra di fanatici ebrei, estremisti, che vogliono destabilizzare lo Stato colpendo indiscriminatamente gli arabi.
   Sono pochi ma fanatici e pericolosi, sullo stesso piano dei palestinesi che tanto odiano, sono uguali a loro, terroristi e basta.
   L'unica differenza è che il governo israeliano li persegue, li porta in giudizio e li mette in galera.
   Si, purtroppo, anche Israele, essendo un Paese come gli altri, ha inevitabilmente le sue teste di ..... e sarebbe strano se 70 anni di violenze arabe non avessero provocato una reazione brutale e aggressiva anche da parte ebraica ma è altrettanto sicuro che il popolo israeliano non li considera eroi, come fanno i palestinisti con i loro, bensì sordidi delinquenti, criminali e terroristi da disprezzare nel modo più totale e da rinchiudere.
   Con tutti questi tristi precedenti e molti altri che sarebbe troppo lungo raccontare, Israele continua ad essere tra i primi 20 paesi migliori del mondo, uno dei più felici, continua a vivere con serenità, a sopportare coraggiosamente i suoi innumerevoli problemi e a guardare con la solita inestinguibile speranza al futuro.
   Le città di Israele, Paese ebraico, sono illuminate a giorno per il Natale, a Gerusalemme gli abeti vengono distribuiti gratuitamente a chiunque lo desideri.
   I nostri compatrioti cristiani sono amati e rispettati e aumentano sempre di numero in fuga dai territori gestiti dall'ANP.
   Un piccolo esempio è Betlemme che, quando era ancora città israeliana, aveva il 90% di cittadini cristiani, da quando, purtroppo, è passata sotto amministrazione palestinese questi sono diminuiti del 70%, parte fuggiti in USA e parte in Israele.
   Da questo Paese delle meraviglie, tra i 10 più felici del mondo, che vive con coraggio e serenità tutte le sue disgrazie da cui esce sempre a testa alta, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha mandato gli auguri di Natale e felice anno nuovo ai cittadini cristiani di Israele e del mondo, senza pronunciare una sola parola contro i nemici palestinesi.
   Al contrario, Abu Mazen, l'angioletto della pace, nel suo discorso, ha dimenticato gli auguri per lanciarsi nella solita lagna contro Israele.
   In effetti, come sempre, noblesse oblige! Abu Mazen non conosce la nobiltà... d'animo né gli interessa averla, tanto sa perfettamente che con l'arroganza, la prepotenza, il terrorismo, intercalati a lagne e lamentazioni, ottiene dal mondo rispetto, simpatia (questo per me sarà sempre un mistero) e tutto ciò che vuole.

(Inviato dall'autrice, 27 dicembre 2015)



Salmo 129

Molte volte mi hanno oppresso fin dalla mia giovinezza!
lo dica pure Israele -
molte volte mi hanno oppresso fin dalla mia giovinezza;
eppure, non hanno potuto vincermi.
Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
vi hanno tracciato i loro lunghi solchi.
L'Eterno è giusto;
egli ha tagliato le funi degli empi.
Siano confusi e voltino le spalle
tutti quelli che odiano Sion!
Siano come l'erba dei tetti,
che secca prima di crescere!
Non se ne riempie la mano il mietitore,
né le braccia chi lega i covoni;
e i passanti non dicono:
«La benedizione dell'Eterno sia su di voi;
noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!»

 

"L'occupazione fa male a Israele. Fermiamo la violenza per il nostro futuro"

Questo è il titolo con cui un quotidiano pubblica oggi la presa di posizione dello scrittore Amos Oz contro il governo di Israele. Non riportiamo quello scritto perché non vogliamo dare diffusione alle parole di una persona indegna del paese in cui è nato e della considerazione che immeritatamente gode in molti paesi diversi dal suo. E’ un intellettuale molto apprezzato? Anche Heidegger lo era, al tempo suo.

(Notizie su Israele, 27 dicembre 2015)


Drone in volo sul Vaticano: denunciati due israeliani

Il velivolo è stato avvistato alle 8 e 30 di questa mattina dalla polizia Locale di Roma Capitale. Due israeliani di 33 anni sono stati denunciati.

Due cittadini israeliani sono stati denunciati per aver fatto volare un drone nei cieli di Roma, infrangendo i divieti attivi stabiliti tra le misure di sicurezza anti terrorismo per il Giubileo. Il velivolo è stato avvistato alle 8 e 30 di questa mattina dalla polizia Locale di Roma Capitale, sull'area del Vaticano, facendo immediatamente scattare le procedure di intervento. Sorvolava il Tevere tra Ponte Umberto I e piazza San Pietro.
Gli agenti hanno individuato poco dopo due persone, due cittadini di 33 anni di nazionalità israeliana. Alcuni motociclisti del reparto Centauro, dividendosi, hanno rapidamente iniziato a pattugliare l'intera area alla ricerca del pilota, individuandolo sul Ponte Umberto I con il radiocomando, assieme a un altro uomo.
Gli hanno intimato di far atterrare il velivolo, che era equipaggiato con una telecamera ad alta risoluzione: i due sono stati presi in consegna dagli agenti e portati al Centro di fotosegnalamento, in quanto sprovvisti di documenti, mentre il velivolo è stato sequestrato. Le indagini sono attualmente in corso per verificare le ragioni della presenza dei due uomini a Roma e del motivo delle videoriprese: per ora i due risulterebbero negativi agli accertamenti e saranno denunciati all'Autorità Giudiziaria.

(RomaToday, 27 dicembre 2015)


Israele, visita segreta di un emissario di Putin

Secondo Haaretz, un rappresentante del governo russo avrebbe discusso con i partner israeliani di una possibile soluzione per il conflitto siriano.

di Matteo Carnieletto

 
Alexander Lavrentiev
Il rapporto tra Russia e Israele è molto complesso. Da una parte, come ricorda Maurizio Molinari in Jihad, guerra all'Occidente, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov "sposa la linea arabo-palestinese più intransigente sui temi del negoziato in Medio Oriente" mentre dall'altra Putin ricorda come "la sicurezza del milione di cittadini ex Urss che vivono in Israele" sia tra i primi interessi della Russia.
Un doppio binario necessario per mantenere buoni rapporti sia con Israele (uno dei protagonisti dello scacchiere mediorientale assieme a Arabia Saudita, Iran, Turchia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti) che con le forze musulmane sciite che combattono contro lo Stato islamico (Hezbollah libanesi e forze iraniane di Al-Qods in testa) e con i musulmani sunniti che vivono in Russia e rappresentano la seconda religione più diffusa nel Paese.
L'edizione di oggi di Haaretz, racconta che un emissario di Putin, Alexander Lavrentiev, avrebbe visitato segretamente Israele su invito del Consigliere per la sicurezza nazionale (e futuro capo del Mossad) Yossi Cohen. Nel corso della sua visita, Lavrentiev, sempre secondo Haaretz, avrebbe discusso dei contatti internazionali in corso per una soluzione politica della guerra in Siria. Molto probabilmente, infatti, Putin starebbe cercando un partner disposto ad aiutarlo a ricomporre il conflitto siriano. Ora dipende tutto da Israele.
Certo è che la strategia di Putin di tenere assieme Paesi arabi e Stato israeliano potrebbe pagare nel lungo termine e potrebbe fare della Russia la mediatrice per risolvere le tensioni che da anni attanagliano la Palestina.

(il Giornale, 27 dicembre 2015)


Il Califfo ordina l'attacco al Vaticano

Diffuso un nuovo video dell'Isis e un audio del capo Abu Bakr al Baghdadi Da Vienna l'allarme per attentati nelle capitali europee, Roma compresa.

di Francesca Musacchio

La voce di Abu Bakr al-Baghdadi che minaccia gli «infedeli», dall'Europa a Israele, e un video in cui si vedono la Torre di Pisa e il Vaticano che «pagheranno il prezzo della guerra» contro i terroristi. L'Isis torna all'attacco il giorno di Santo Stefano con due messaggi di fuoco pubblicati su Twitter. Secondo alcuni analisti potrebbe essere anche interpretati come «ordini» di attacco contro obiettivi sensibili come il Papa.
   In un lungo audio, dopo mesi di silenzio, è infatti tornato a farsi sentire il califfo che ha lanciato pesanti minacce contro Israele e avvertito che i raid aerei contro le postazioni jihadiste non hanno indebolito i suoi mujaheddin. Nel video di appena trenta secondi, che ha preceduto di qualche ora le parole del leader dell'Isis, invece, si vedono poche immagini, tra cui spiccano due dei luoghi simbolo del nostro Paese e sotto le frasi choc: «O europei, lo Stato islamico non ha avviato una guerra contro di voi come i vostri governi e i media cercano di farvi credere. Loro hanno iniziato l'aggressione contro di noi e quindi si meritano la colpa e pagheranno il prezzo quando le loro economie crolleranno. Pagheranno quando i vostri figli saranno inviati a fare la guerra contro di noi e torneranno amputati e disabili, o all'interno di una bara o mentalmente malati».
   Al Baghdadi, invece, negli oltre 24 minuti di registrazione si è rivolto ai seguaci del Califfato assicurando che i raid aerei russi e dell'alleanza guidata dagli Usa contro le postazioni jihadiste non hanno indebolito i suoi uomini. «Siate fiduciosi che Allah concederà la vittoria a quanti lo pregano, e ricevete la buona notizia che il nostro Stato se la sta cavando bene. Più è intensa la guerra che gli viene mossa, più diventa puro e forte». Al centro del messaggio del leader Isis, però, ci sono le minacce di un attacco ad Israele: «La Palestina sarà il vostro cimitero». E ancora: «Allah vi ha riuniti in Palestina in modo che i musulmani possano uccidervi - ha aggiunto - Con l'aiuto di Allah, siamo sempre più vicini, giorno dopo giorno. Gli israeliani ci vedranno presto in Palestina, questa non è più una guerra dei crociati contro di noi, il mondo intero ci sta combattendo. Gli israeliani pensavano che ci fossimo dimenticati della Palestina, che ci avessero distolto, ma non è vero, non abbiamo dimenticato la Palestina neppure per un istante». Fonti de Il Tempo, inoltre, riferiscono di un'intensa attività del Mossad proprio contro lo Stato islamico. Nel mirino lo stesso al-Baghdadi, ricercato anche da Usa e altri paesi occidentali.
   Resta altissima, dunque, la tensione in Italia e nel resto del mondo a causa della minaccia terroristica. Nel mirino le principali capitali europee, tra cui Roma. E proprio ieri la polizia di Vienna ha fatto sapere di aver innalzato le misure di sicurezza dopo aver ricevuto un alert da un servizio segreto straniero definito «amico». Il rischio, secondo la segnalazione degli 007, riguarderebbe la possibilità di attentati con esplosivo o armi da fuoco fra Natale e l'ultimo dell'anno. Il portavoce della polizia Christoph Poelzl, ha però precisato che un elenco di nomi di potenziali autori di attentati fornito dalle fonti non ha portato «ulteriori risultati concreti».
   Intanto ieri in Siria è stato nominato il nuovo leader del gruppo di ribelli Jaysh al Islam (Esercito dell'Islam), uno dei più forti e attivi tra quelli che si oppongono al regime di Bashar al-Assad. Si tratterebbe dello sceicco Abu Haman Esam Albuidani, che prende il posto di Zahran Alloush, ucciso venerdì durante un bombardamento che ancora non è chiaro se è stato realizzato dagli aerei di Assad o da quelli russi.

(Il Tempo, 27 dicembre 2015)


Israele intercetta i turisti in fuga da Egitto e Turchia

Fornire un'alternativa a basso costo ai turisti russi rimasti orfani della Turchia e dell'Egitto. È l'operazione a cui punta il ministero israeliano del Turismo con una campagna pubblicitaria da 2 milioni di dollari: invogliare i concittadini di Vladimir Putin a passare qualche giorno al caldo. A chi è in cerca di sole, Israele offre 200 km di coste sul Mediterraneo, le spiagge curative del Mar Morto e i coralli del Mar Rosso. L'operazione di marketing arriva poche settimane dopo l'abbattimento di un airbus russo sopra la penisola del Sinai: attribuito all'lsis, l'attacco ha causato la morte di 224 persone fra equipaggio e passeggeri, di rientro da Sharm elSheikh. Da allora l'Egitto, già abbandonato da gran parte del turismo occidentale, è uscito anche dalle rotte del turismo russo. Un altro abbattimento aereo, quello di un caccia russo da parte della Turchia lo scorso 24 novembre, ha provocato una grave crisi fra Mosca e Ankara con il conseguente stop all'imponente flusso di turisti (4,4 milioni nel 20 14) diretti sulle coste dell'Anatolia.
Il governo di Benjamin Netanyahu cerca ora di intercettare parte di questo business. Gerusalemme punta su pacchetti da 350 dollari per un soggiorno di 3-4 notti con il trattamento di bed and breakfast e a sconti di 45 euro per ogni passeggero russo che voli direttamente a Eilat. C'è però scetticismo tra i tour operatori israeliani, secondo i quali le strutture ricettive non possono eguagliare gli alti standard e il basso costo di quelle turche.

(Libero, 27 dicembre 2015)


Il Califfato sotto i colpi di tre coalizioni. Al Baghdadi si rifà vivo per rianimarlo

di Giordano Stabile

Con i curdi a 22 chilometri da Raqqa, e da ieri padroni della diga a monte della capitale dello Stato islamico, con l'esercito iracheno che ha quasi ripreso Ramadi, caposaldo dell'Isis nell'Iraq centrale, il Califfato fondato un anno e mezzo fa da Abu Bakr al Baghdadi vive il suo momento più difficile. Al Baghdadi deve fronteggiare la coalizione formata da Russia e Paesi sciiti, Iran in testa, e quella a guida americana composta da ben 62 Paesi. Ed è ora minacciato, almeno a parole, anche dall'alleanza islamica lanciata due settimane fa dall'Arabia Saudita.
  L'Isis è in ritirata su tutti i fronti, a parte la Siria Sud-occidentale. In un anno ha perso un terzo dei territori che controllava in Iraq e complessivamente circa il 15 per cento della sua superficie. Al Baghdadi ha capito il momento critico. E ieri ha diffuso un audio, il primo da sette mesi. Contiene tre elementi importanti. Il primo è dottrinale e militare, nel suo stile. Cita il capitolo 52 della nona sura del Corano per spiegare ai suoi che più sono attaccati più vuol dire che sono nel giusto, nel «gruppo dei salvati» scelti da Allah.

 A corto di uomini
  Il fatto che «tutte le nazioni del mondo si siano coalizzate» contro lo Stato islamico deve quindi solo rafforzare la fede degli islamisti. E tutti i musulmani del mondo dovrebbero unirsi per combattere «Russia e Usa». I raid «non ci hanno indeboliti», incalza il leader dell'Isis, che però ammette «perdite di territori»: Siate fiduciosi, il nostro Stato se la sta cavando bene. Più è intensa la guerra che gli viene mossa, più diventa puro e forte». Il secondo elemento importate è riferito all'Arabia Saudita. Al Baghdadi cita l'alleanza anti-terrorismo lanciata da Riad il 15 dicembre, quindi l'audio è posteriore a quella data, e il «Califfo», dato per morto e gravemente ferito parecchie volte, è ancora vivo. Il regno saudita, mai citato con il suo nome ufficiale, viene irriso: «Se è davvero una coalizione islamica», si chiede Al Baghdadi, perché non difende i musulmani uccisi dai raid in Siria e non ha «come obiettivo quello di uccidere gli ebrei e liberare la Palestina».
  E qui arriva il terzo elemento di novità. Un attacco frontale agli ebrei come mai prima nelle parole del leader dell'Isis: «La Palestina non sarà la vostra terra né la vostra casa ma il vostro cimitero - è la minaccia di Al Baghdadi -: Allah vi ha raccolto in Palestina perché i musulmani vi uccidano». Il Califfo, è una probabile lettura, punta sui temi cari ai musulmani estremisti per attirare consensi e reclute.
Ne ha bisogno. L'Isis è a corto di uomini. L'ultimo colpo l'ha subito ieri alle porte di Raqqa, la sua capitale. Un'offensiva congiunta di curdi dell'Ypg e ribelli siriani moderati, con l'aiuto dei raid della coalizione occidentale, ha portato alla presa della diga di Tishren, 22 chilometri a monte della città. È la prima prova sul campo che l'alleanza curdo -araba funziona. E che l'obiettivo Raqqa non è così proibitivo. L'evoluzione sul terreno in Siria è in accelerazione in vista del cessate-il-fuoco che dovrebbe scattare a gennaio. Le forze di Assad, con l'aiuto dei russi, stanno riconquistando la parte meridionale di Aleppo. E Mosca, il giorno di Natale, ha messo a segno un altro colpo. In un raid alla periferia di Damasco è stato ucciso Zahran Alloush, capo dell'alleanza ribelle Jaysh al Islam, l'Esercito dell'Islam: un gruppo anti-Assad, salafita, ma non legato all'Isis.

 Nuovo blitz israeliano
  Mosca ribadisce quindi che considera quasi tutti i ribelli «terroristi». E cerca di mettersi in posizione di forza. Ma sullo scenario siriano è sempre più protagonista l'aviazione israeliana: ieri notte ha martellato le posizioni di Hezbollah sul monte Qalamoun, vicino a confine con il Libano. Un nuovo attacco nel cuore della Siria, dopo l'uccisione, il 20 dicembre, dell'alto esponente di Hezbollah Samir Kuntar.

(La Stampa, 27 dicembre 2015)


L'Isis minaccia Israele: la Palestina non sarà la vostra terra, sarà il vostro cimitero

L'Isis minaccia Israele. «La Palestina non sarà la vostra terra, né la vostra casa, ma il vostro cimitero. Allah vi ha raccolto in Palestina perché i musulmani vi uccidano». Lo ha detto oggi il leader Abu Baker al-Baghdadi in un messaggio audio.

 Non abbiamo dimenticato la Palestina»
  «Gli ebrei - ha detto ancora al-Baghdadi, in un intervento registrato rilanciato dai siti web in Israele - pensavano che avessimo dimenticato la Palestina e pensavano di essere riusciti a distrarre la nostra attenzione. Assolutamente no, non abbiamo dimenticato la Palestina nemmeno per un momento e con l'aiuto di Allah non la dimenticheremo. Presto, molto presto, avvertirete la presenza dei combattenti della Jihad».

 Forti nonostante i raid
  «Il Califfato resta forte nonostante i raid» della coalizione internazionale contro l'Isis, ha detto Abu Bakr al Baghdadi, in un nuovo messaggio audio di 24 minuti. Secondo Abu Bakr al Baghdadi «più è intensa la guerra che gli viene mossa, più diventa puro e forte», ha affermato il Califfo nel messaggio a lui attribuito e diffuso dall'account Twitter che normalmente viene usato per i comunicati del gruppo jihadista. A ottobre si era parlato di un possibile ferimento di Al-Baghdadi in un bombardamento dell'aviazione irachena contro il convoglio in cui viaggiava, vicino al confine con la Siria, ma la notizia non ha mai trovato conferma. Nel messaggio audio si condanna anche il tentativo dell'Arabia Saudita di formare una coalizione di Paesi musulmani per combattere l'Isis. «Se fosse una coalizione musulmana», ha affermato, «si sarebbe affrancata dai suoi padroni ebrei e crociati e assunto come obiettivo quello di uccidere gli ebrei e di liberare la Palestina».

 L'ultimo messaggio di al-Baghdadi risaliva a maggio.
  Se sarà confermata l'attribuzione al Califfo, il nuovo messaggio arriva proprio mentre l'Isis è in difficoltà sul terreno. Il gruppo jihadista è incalzato dai bombardamenti russi e alleati in Siria, dove ha appena perduto il controllo di una diga strategica vicino a Raqqa, e sotto attacco in Iraq dove è in corso un'offensiva su Ramadi, uno degli ultimi bastioni jihadisti nel Paese.

 Intanto le forze irachene riconquistano Ramadi
  Le forze irachene hanno riconquistato il 50% del quartiere amministrativo di Ramadi, nel quarto giorno di offensiva per strappare all'Isis la citta' nel nord dell'Iraq. Lo riferisce una fonte della sicurezza, secondo la quale le truppe irachene sono a poche centinaia di metri dagli edifici governativi, tra i quali c'e' la sede del governo provinciale di Al Anbar. L'avanzata dell'esercito e' ostacolata da cecchini e esplosioni di autobombe. Secondo la stessa fonte negli scontri avvenuti nel quartiere di Al Huz sono morti 60 jihadisti e 15 soldati.

(Il Sole 24 Ore, 26 dicembre 2015)


Vela: giovani israeliani respinti in Malesia? Un nuovo caso mondiale

Il visto per partecipare alla manifestazione giovanile sarebbe arrivato solo 24 ore prima della partenza. Con una condizione inaccettabile: niente stella di David sulle vele e niente inno Nazionale. Le investigazioni della federazione internazionale.

di Luca Bontempelli

 
MILANO - Cominciano martedì a Langkawi, nella Malesia Nord Occidentale, non distante dal confine con la Thailandia i campionati Mondiali Giovanili (youth) che ogni anno la organizza la federazione mondiale della vela, che poche settimane fa ha cambiato il proprio nome da ISAF a World Sailing. Il campionato è al centro di un intrigo internazionale che minaccia di aver gravissime ripercussioni dopo che il 23 dicembre da Israele è trapelata la notizia che gli atleti di quel Paese non avevano ricevuto il visto d'ingresso in Malesia e pertanto non avrebbero potuto partecipare alle regate.

 Condizioni
  Secondo la fonte israeliana, il visto sarebbe stato concesso dalle autorità malesi a fronte di condizioni evidentemente inaccettabili: nessuna possibilità di mostrare la bandiera con la stella di David su vele e divise e il divieto di suonare l'inno nazionale nel caso gli atleti israeliani avessero conquistato il titolo. Ipotesi quest'ultima non remota, dato che nell'ultima edizione dei mondiali giovanili Israele fu la terza nazione del medagliere complessivo alle spalle di Francia e Spagna. La decisione di Israele (stato con il quale la Malesia non ha rapporti diplomatici) ha avuto una profonda eco di indignazione soprattutto negli Stati Uniti. Kevin Burnham, campione olimpico (1992) e medaglia d'argento (2004) olimpica ha fatto sapere attraverso un social network che in assenza del ritiro della squadra americana dalla manifestazione avrebbe "restituito le proprio medaglie" chiedendo ai colleghi medagliati, di fare la stessa cosa.

 Rincorsa
  E' iniziata una corsa contro il tempo che, complice il Natale di mezzo, non ha ancora generato una risposta ufficiale degli Stati Uniti, attesa nelle prossime ore. Temporeggia, al momento, anche Carlo Croce, allo stesso tempo presidente delle federazione mondiale e italiana, che ha dichiarato alla Gazzetta: "Stiamo seguendo la situazione da vicino, due vice presidenti internazionali stanno arrivando in Malesia e della vicenda abbiamo investito sia il Cio, che il comitato olimpico nazionale malese. Stiamo aspettando risposte dirette in merito sulla vicenda. E siccome c'è già stato il precedente del caso Oman, aspettiamo prima di esprimere una posizione ufficiale". Il problema sembra di difficile, se non impossibile mediazione. L'ipotesi del ritiro della squadra USA potrebbe generare un effetto a catena e a quel punto, proprio il doppio ruolo del presidente Croce potrebbe costringere anche la squadra italiana (partita nel frattempo questo pomeriggio da Fiumicino, con 14 atleti, 3 tecnici e la capo delegazione Alessandra Sensini) a decisioni altrettanto clamorose.

 Precedente
  Anche perché c'è molto altro sul tavolo. Da un lato l'imbarazzante precedente dello scorso ottobre, citato dal presidente Croce, in occasione del campionato mondiale RS:X in Oman, quando di nuovo agli atleti israeliani sono state create difficoltà insormontabili nel ricevere i visti. In quel caso fu trovata una imbarazzante mediazione concedendo a Maayan Davidovich, di entrare in Oman grazie ad un suo secondo passaporto diverso da quello israeliano, ma impedendole di mostrare la bandiera del proprio paese sulla vela e di fatto registrandola, nella classifica ufficiale, come una sorta di apolide. A distanza di poche settimane, un'altra manifestazione velica organizzata in un paese mussulmano pone una vicenda delicatissima per la partecipazione degli atleti israeliani. Questa però l'indignazione internazionale a fronte di una esclusione che si delinea per motivi razziali, potrebbe fare la differenza. Ma non sarà l'ultimo dei problemi scottanti sul tavolo del presidente Croce. Dal 22 al 27 febbraio prossimo è in programma proprio in Israele il campionato mondiale RS:X (nell'anno delle olimpiadi i mondiali di tutte le classi si svolgono nei primi mesi dell'anno). E' in corso un movimento internazionale, capeggiato dalla Francia, che chiede l'annullamento delle regate per le insopportabili limitazioni dovute alla sicurezza del navigare in quelle acque, già sperimentate, nei mesi scorsi in occasione del campionato mondiale 470. Sembra curioso che sia proprio una nazione tollerante come la Francia a sollevare la questione, ma tanto è. Per il presidente Croce i problemi di politica internazionale si intersecano pericolosamente tra loro sul suo tavolo. Per risolverli avrà bisogno di una determinazione e una capacità diplomatica che per la verità negli ultimi mesi non ha mostrato di possedere. Ma il problema del mondiale RS:X israeliano è solo il futuro prossimo. Scottantissimo resta il presente. La squadra italiana appena partita, disputerà le regate in Malesia? Ancora poche ore e sapremo.

(La Gazzetta dello Sport, 26 dicembre 2015)


Siria: tv Hezbollah, sospeso l’accordo per evacuare jihadisti

DAMASCO - E' stato sospeso l'accordo, raggiunto sotto l'egida dell'Onu, per evacuare oltre 2mila miliziani dell'Isis e di altri gruppi ribelli integralisti siriani dalla periferia meridionale di Damasco. Lo ha reso noto l'emittente di Hezbollah, il gruppo sciita libanese vicino a Bashar al-Assad. Secondo l'emittente l'accordo (che tra l'altro registrava l'assoluta novita' di un'intesa, seppur locale, tra Damasco e gli uomini dell'Isis) e' 'saltato' come conseguenza dell'uccisione di Zahran Alloush, il capo dell'Esercito dell'Islam, morto sotto le bombe di un raid aereo venerdi'. Il convoglio che trasportava i miliziani in direzione di Raqqa, la capitale del cosiddetto 'califfato', doveva attraversare il territorio controllato dall'Esercito dell'Islam; ma secondo l'emittente, i pullman arrivati per caricare i miliziani e almeno 1.500 loro familiari, una volta giunti nella zona controllata dall'Esercito dell'Islam, non sono stati lasciati passare.

(AGI, 26 dicembre 2015)


2015: l'anno del terrore. Una minaccia globale

Oltre 1.600 morti in 18 mesi in 20 paesi ad opera dei terroristi dell'lsis

Venti Paesi, diciotto mesi e oltre 1.600 morti: questo il bilancio dell'azione dei terroristi dello Stato islamico (Isis) secondo dati calcolati a novembre dal quotidiano francese Le Monde. In circa un anno e mezzo di attività, senza considerare le operazioni di guerra convenzionali contro gli eserciti in guerra e le esecuzioni in Siria e Iraq, l'Isis e tutti i gruppi terroristici che gli hanno prestato fedeltà - come Boko Haram - hanno causato la morte di oltre 1.600 persone ai quattro angoli del pianeta, sommando gli attentati fuori dal suo territorio e l'esecuzione di ostaggi. I boia del sedicente Stato islamico hanno progressivamente esportato il loro campo di battaglia allargando lo spettro dei Paesi colpiti dagli attentati.
  Per numero di morti, il territorio francese è subito dopo quello egiziano il primo ad essere colpito fuori da quelli tradizionali come il Medio Oriente e i feudi africani di Boko Haram. E sempre Parigi è la città occidentale più colpita tra l'attentato di gennaio all'HyperCacher (Amedy Coulibaly si richiamò all'Isis mentre i fratelli Kouachi che perpetrarono la strage contro Charlie Hebdo dissero di agire per il ramo di Al-Qaida nello Yemen) e quelli di venerdì 13 novembre. Fatta eccezione per il Sudamerica tutti i continenti sono stati colpiti almeno una volta dai terroristi di 'Daesh' o dai suoi simpatizzanti, che si tratti di attacchi sul loro territorio o di loro cittadini all'estero. Sono però i Paesi del Medio Oriente e quelli africani vicini ai feudi di Boko Haram a pagare il più pesante tributo di sangue. La Nigeria, per esempio, ha subito 13 attentati, mentre l'Arabia Saudita, Paese che bombarda l'organizzazione jihadista ma che alcuni accusano di finanziare al tempo stesso il terrorismo, è stato teatro di dieci attacchi.
  Nel solo 2015 i principali e più eclatanti attentati rivendicati, solamente dall'Isis, (esclusi quindi i numerosi attentati rivendicati da Boko Haram e da Al Shabaab) sono stati: a gennaio alla redazione del giornale parigino Charlie Hebdo e all'HyperKasher (17 vittime); a gennaio al Hotel Corinthia di Tripoli (12 vittime); a marzo al Museo Bardo di Tunisi (23 vittime); a marzo in due moschee a Sana'a nello Yemen (150 morti e oltre 345 feriti); a giugno al Hotel Riu Imperial Marhaba di Port El Kantaoui, a Sousse in Tunisia (38 morti e 36 feriti); a giugno in una moschea sciita a Kuwait City (27 morti e 227 feriti); a giugno a Kobane in Siria (30 morti e 100 feriti); ad agosto al Palazzo della sicurezza al Cairo (29 feriti); ad ottobre ad Ankara (100 morti); a novembre in Egitto abbattuto aereo russo (224 morti); a novembre a Beirut (41 morti e 200 feriti); a novembre attentati a Parigi (130 morti e 352 feriti).

(Shalom, dicembre 2015)


Mossad: preoccupazione per l'alleanza Hamas/ISIS nel Sinai

Quello che fino a poco tempo fa era solo un forte sospetto, cioè una alleanza tra Hamas e ISIS nel Sinai, oggi è pressoché una certezza dopo la conferma che importanti membri di Hamas esperti di esplosivi e di combattimento si sono spostati da Gaza alla Penisola del Sinai e che hanno attivamente partecipato all'attentato contro l'aereo russo esploso in volo dopo il decollo da Sharm El Sheikh....

(Right Reporters, 26 dicembre 2015)


I rabbini contro il gruppo 'Tag Mehir': "Estremisti, la vostra violenza è contro la Torah"

di Daniel Reichel

Decine di rabbini del mondo sionista religioso israeliano hanno pubblicato in queste ore una lettera in cui si condanna in modo fermo ogni manifestazione di odio e violenza, in particolare in riferimento al gruppo estremista legato ai cosiddetti attacchi 'Tag Mehir', le azioni violente contro la popolazione araba. "Noi affermiamo che queste azioni sono in netto contrasto con la Torah di Israele e con l'etica ebraica," scrivono i rabbini. "Esortiamo educatori e rabbini di tutto il mondo a continuare a insegnare la via della Torah di Israele ai loro studenti". Nella lettera si esprime inoltre sostegno allo Shin Bet, il servizio di intelligence israeliano impegnato in queste settimane a trovare i responsabili dell'attentato incendiario al villaggio palestinese di Duma, dove lo scorso luglio una casa era stata data alle fiamme uccidendo tre persone, tra cui un bambino di 18 mesi. Le indagini hanno portato all'arresto di alcuni estremisti ebrei, ritenuti coinvolti nell'attentato alla famiglia Dawabsha.
   "Noi siamo al fianco dello Shin Bet e delle autorità impegnate nel mantenimento della sicurezza del nostro paese, tra cui (si annovera) lo sradicamento di tutti i segni del terrorismo ebraico", affermano i firmatari del documento, tra cui il rabbino capo ashkenazita di Gerusalemme Aryeh Stern; rav Yuval Cherlow membro dell'Israel Press Council e tra i fondatori dell'organizzazione rabbinica ortodossa progressista Tzohar; rav David Stav, presidente di Tzohar; il rabbino capo di Efrat Shlomo Riskin.
   La presa di posizione dei rabbini nasce dalle accuse di violenza mosse negli scorsi giorni contro lo Shin Bet da parte dei legali di alcuni sospettati dell'attacco a Duma, attualmente sotto custodia delle autorità. Secondo uno degli avvocati, gli agenti dell'intelligence israeliana avrebbero "torturato" il suo assistito per estorcere una confessione. In difesa dello Shin Bet si sono pronunciati molti membri del governo di Gerusalemme, il Primo ministro Benjamin Netanyahu in primis. In una dichiarazione pubblica senza precedenti, lo Shin Bet ha fatto sapere di aver utilizzato il cosiddetto protocollo "bomba a orologeria" per interrogare gli estremisti ebrei, permettendo ai servizi di sicurezza di "maltrattare" i detenuti, sospettati di pianificare altri attacchi. D'altra parte ha negato in modo fermo l'uso di qualsiasi forma di tortura, vietata in Israele da una sentenza dell'Alta Corte di Giustizia.
   Tornando alla lettera, la denuncia contro la violenza suona anche come una risposta al video di un matrimonio, diffuso in questi giorni, in cui si vedono militanti dell'estrema destra inneggiare all'attacco di Duma. Immagini profondamente criticate dall'opinione pubblica israeliana e dalla leadership politica e che hanno scosso molti. La polizia israeliana ha convocato i partecipanti al matrimonio per interrogarli.
   Stanno invece progressivamente migliorando le condizioni di Ahmed, il bimbo di quattro anni unico superstite dell'attentato incendiario alla famiglia Dawabsha, a lungo ricoverato nell'ospedale israeliano Tel Hashomer. Mercoledì scorso, raccontano i media, Ahmed è stato spostato nel dipartimento di riabilitazione dell'Ospedale per bambini del Centro medico Sheba, a Ramat Gan. "Qui farà fisioterapia - ha spiegato il nonno Hussein - Abbiamo una lunga strada davanti a noi. Non è una questione di uno o due giorni, nemmeno di mesi; occorrerà molto più tempo". Hussein Dawabsha ha inoltre spiegato che il nipote non sa ancora che i genitori e il fratellino sono morti nell'incendio a Duma.

(moked, 25 dicembre 2015)


Il successo delle startup israeliane nella Silicon Valley

 
Quasi 1,000 startup israeliane operano negli Stati Uniti, 350 delle quali hanno sede nella Silicon Valley.
Il giornalista di Bloomberg Elliott Gotkine descrive in un video alcune ragioni del successo del settore high-tech israeliano.
Israele, circa sette milioni di abitanti, produce il maggior numero di startup quotate al Nasdaq dopo gli Stati Uniti.
Come spiegato anche all'interno del libro Startup Nation di Dan Senor e Saul Singer, la formazione militare è di fondamentale importanza per il successo dei giovani startupper. Nel settore business l'ambito civile e militare, come in tutto il mondo tecnologico, si fondono. Non a caso, molti CEO di startup israeliane escono dall'esercito come membri di unità che si occupano di tecnologia (come ad esempio la Unit 8200, i cui membri sono esperti di cyber sicurezza).
Anche la forma mentis israeliana gioca un ruolo importante: cultura, tenacia, intraprendenza, l'essere abituati a valutare e ad assumersi rischi, cadere e rialzarsi; in questo modo i giovani imparano ad apprezzare il valore del rischio e del fallimento, due elementi con i quali inevitabilmente un imprenditore ha a che fare.
WeWork, una startup che trasforma palazzi in bellissimi e confortevoli spazi di coworking, è stata indicata come una delle startup più importanti in America. Il suo CEO è Adam Neumann, è ex ufficiale di marina israeliana.
Oren Barzilai è il fondatore di Start a fire, una startup interessante che aiuta le aziende e le persone a promuovere la loro presenza sul web su qualunque link che condividono. Funziona aggiungendo una sorta di "tratto distintivo" per ogni link che parte da un "Condiviso da" e raccomanda i contenuti del blog da cui parte la condivisione.

(SiliconWadi, 24 dicembre 2015)


Betlemme, una messa di ricordi

Il Patriarca latino di Gerusalemme cita nella sua omelia vittime del terrorismo e Medio Oriente.

Il Patriarca latino Fouad Tawal durante la messa di Natale a Betlemme
I pellegrini stranieri erano davvero pochi la notte di Natale a Betlemme, laddove Gesù è nato secondo la tradizione biblica e zona che sta vivendo una recrudescenza della violenza nella Cisgiordania occupata.
Nella sua omelia durante la Messa di Mezzanotte, il Patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Tawal, ha ampiamente parlato del conflitto in Medio Oriente. Ha infatti dichiarato di "pensare alle case demolite a Gerusalemme e in Palestina, ai terreni espropriati e agli uomini colpiti dalla punizione ingiusta delle demolizioni collettive". Alla celebrazione ha preso parte pure il presidente palestinese, Mahmoud Abbas.
Fouad Tawal ha concluso ricordando "le vittime del terrorismo, di qualsiasi nazionalità o credo", mentre le campane sono risuonate in una piazza dove le luci dell'albero di Natale sono state spente per qualche minuto in memoria di chi ha perso la vita in attacchi terroristici. Ha poi aperto a sua volta una porta santa, permettendo ai fedeli di compiere il gesto simbolico del Giubileo della Misericordia.

(RSI News, 25 dicembre 2015)


La falsità che piace

di Marcello Cicchese

Dunque anche quest'anno Mahmoud Abbas ha preso parte alla Messa di Mezzanotte celebrata nella notte di Natale dal Patriarca latino di Gerusalemme. Il fatto che il presidente palestinese non sia cristiano, ma musulmano, evidentemente non fa problema perché, come dice il Gran Mufti di Gerusalemme Muhammad Ahmad Husayn, Gesù era musulmano, come tutti i profeti che l'hanno preceduto. La nascita di un Gesù musulmano in Palestina può dunque essere a ragione celebrata da un presidente dell'Autorità Palestinese. Mahmoud Abbas, del resto, non può che dare credito alle dichiarazioni del Gran Mufti di Gerusalemme, perché è stato proprio lui a indicarlo per questa carica nel 2006, e il Gran Mufti recentemente ha ripetuto una cosa che anche Arafat sosteneva apertamente: cioè che non è mai esistito in Gerusalemme un tempio ebraico. Qui sorge un piccolo problema logico, che dovrebbe turbare chi vuol seguire la logica: cioè che se non è mai esistito un tempio ebraico non è mai esistito neanche un personaggio di nome Gesù. Perché a meno che i musulmani non esibiscano documenti di autorità storica superiore a quelli finora in uso, le fonti primarie di ciò che sappiamo sulla nascita di Gesù si trovano nei Vangeli.
Elenchiamo allora alcuni passi del Vangelo di Luca.

L'annuncio della nascita di Giovanni Battista, il profeta che ebbe il compito di preparare il popolo alla venuta del Messia, è fatta dall'angelo Gabriele nel luogo santo del tempio:
    "Al tempo di Erode, re della Giudea, c'era un sacerdote di nome Zaccaria, del turno di Abìa; sua moglie era discendente d'Aaronne e si chiamava Elisabetta. Erano entrambi giusti davanti a Dio e osservavano in modo irreprensibile tutti i comandamenti e i precetti del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile, ed erano tutti e due in età avanzata. Mentre Zaccaria esercitava il sacerdozio davanti a Dio nell'ordine del suo turno, secondo la consuetudine del sacerdozio, gli toccò in sorte di entrare nel tempio del Signore per offrirvi il profumo; e tutta la moltitudine del popolo stava fuori in preghiera nell'ora del profumo. E gli apparve un angelo del Signore, in piedi alla destra dell'altare dei profumi. Zaccaria lo vide e fu turbato e preso da spavento. Ma l'angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, perché la tua preghiera è stata esaudita; tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio, e gli porrai nome Giovanni. Tu ne avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno per la sua nascita. Perché sarà grande davanti al Signore. Non berrà né vino né bevande alcoliche, e sarà pieno di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre; convertirà molti dei figli d'Israele al Signore, loro Dio; andrà davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per volgere i cuori dei padri ai figli e i ribelli alla saggezza dei giusti, per preparare al Signore un popolo ben disposto». E Zaccaria disse all'angelo: «Da che cosa conoscerò questo? Perché io sono vecchio e mia moglie è in età avanzata». L'angelo gli rispose: «Io son Gabriele che sto davanti a Dio; e sono stato mandato a parlarti e annunziarti queste liete notizie. Ecco, tu sarai muto, e non potrai parlare fino al giorno che queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole che si adempiranno a loro tempo». Il popolo intanto stava aspettando Zaccaria, e si meravigliava del suo indugiare nel tempio. Ma quando fu uscito, non poteva parlare loro; e capirono che aveva avuto una visione nel tempio; ed egli faceva loro dei segni e restava muto." (Luca 1:5-22)
Il bambino Gesù fu portato dai genitori al tempio per essere circonciso:
    "Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest'uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d'Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto il Cristo del Signore. Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo: «Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele». Il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, dicendo a Maria, madre di lui: «Ecco, egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele, come segno di contraddizione a te stessa una spada trafiggerà l'anima), affinché i pensieri di molti cuori siano svelati». Vi era anche Anna, profetessa, figlia di Fanuel, della tribù di Aser. Era molto avanti negli anni: dopo essere vissuta con il marito sette anni dalla sua verginità, era rimasta vedova e aveva raggiunto gli ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio e serviva Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quella stessa ora, anche lei lodava Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Com'ebbero adempiuto tutte le prescrizioni della legge del Signore, tornarono in Galilea, a Nazaret, loro città. E il bambino cresceva e si fortificava; era pieno di sapienza e la grazia di Dio era su di lui." (Luca 2:25-40)
Quando Gesù era già nell'età di fare il Bar Mitzvà, senza dire niente ai genitori rimase per tre giorni nel tempio a discutere di Torah con i maestri di Israele, e ai genitori che lo rimproveravano dopo averlo trovato rispose che il tempio dove si era trattenuto per tre giorni era “la casa del Padre suo”:
    "I suoi genitori andavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando giunse all'età di dodici anni, salirono a Gerusalemme, secondo l'usanza della festa; passati i giorni della festa, mentre tornavano, il bambino Gesù rimase in Gerusalemme all'insaputa dei genitori; i quali, pensando che egli fosse nella comitiva, camminarono una giornata, poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; e, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme cercandolo. Tre giorni dopo lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri: li ascoltava e faceva loro delle domande; e tutti quelli che l'udivano, si stupivano del suo senno e delle sue risposte. Quando i suoi genitori lo videro, rimasero stupiti; e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena». Ed egli disse loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?» Ed essi non capirono le parole che egli aveva dette loro. Poi discese con loro, andò a Nazaret, e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia davanti a Dio e agli uomini." (Luca 2:41-52)
Onorare Gesù e dire che il tempio non è mai esistito significa mentire sapendo di mentire. La gravità del fatto non riguarda soltanto chi queste menzogne le dice senza fare una piega, ma anche chi non chiede ragione di queste falsità e non inchioda chi le dice alle sue responsabilità esigendo che siano corrette. Quella Messa di Mezzanotte celebrata a Betlemme dal Patriarca latino cattolico di Gerusalemme con la presenza del Presidente dell’Autorità Palestinese collegato al Gran Mufti musulmano di Gerusalemme è una celebrazione della falsità. Ma è una falsità che piace, perché è contro ciò che in Israele riguarda gli ebrei. E quindi è contro Gesù.

(Notizie su Israele, 25 dicembre 2015)


Il Natale degli ipocriti

di Aldo Grandi

In questa vigilia di Natale dove tutti sono buoni, ma c'è sempre qualcuno che è più buono degli altri,
l'interSvista a Yahir Didi, rabbino capo della comunità ebraica di Livorno non è soltanto un'occasione di conoscere una realtà diversa, ma una provocazione a tutti gli effetti. In uno stivale sfasciato dove gli idioti amano sciacquarsi la bocca e il viso parlando di integrazione a senso unico per chi crede nelle leggi dell'Islam, da secoli, da millenni, c'è un popolo che non ha mai avuto bisogno, per integrarsi, dell'aiuto di nessuno, un popolo che ha vissuto una diaspora infinita, che ha pagato per le colpe di tutti e sofferto come pochi anzi, come nessun altro, umiliato, vessato, deriso, oltraggiato, sacrificato sull'altare dell'Ideologia e della Paura, della Fede e dell'Odio elevati a sistema. In questo Natale che nessun ebreo festeggia, ma che nemmeno pretende non venga celebrato; in questo Natale che nessun ebreo oltraggia, ma accetta e, anzi, è felice di vedere festeggiato; in questo Natale dove politicanti da strapazzo, dipinti di rosso, il colore della vergogna di gente come Laura Boldrini e Matteo Renzi, che andrebbero fucilati nella schiena per alto tradimento, ebbene, in questo 25 dicembre ormai prossimo, c'è un popolo che ha sempre camminato da solo perché nessuno gli ha mai offerto una spalla su cui appoggiarsi.
   Un popolo, quello ebreo, che ha trasformato il deserto in un giardino, la sabbia in aranceti, la polvere in acqua, un popolo che ha patito tutto quello che nel mondo era possibile e immaginabile patire, che viene amato solo quando è sottomesso e incapace di alzare la testa o profferire parola, un popolo, l'unico, ormai, che ha deciso di vivere difendendo il diritto di esistere senza se e senza ma, senza ipocrisie e falsi buonismi, incurante degli organismi internazionali buoni solo a proteggere gli infami e sorreggere i debosciati in nome di una giustizia senza giusti e di una mediocrità senza meriti.
   Noi stiamo cancellando le radici e le ragioni della nostra civiltà e della nostra cultura in nome di una integrazione con una religione, l'Islam, e con razze lontane anni luce da noi; parliamo solo di arabi, soltanto di musulmani, di integrazione a senso unico, di moschee da costruire, di menu da modificare, di crocifissi da abbattere e presepi da cancellare e questo senza che nemmeno uno solo di questi seguaci di Allah abbia mai fatto, verso di noi, non atto di sottomissione, ma atto di collaborazione, di comprensione, di accettazione. No, non hanno mai giurato non di ripudiare il loro dio che nessuno glielo ha mai domandato, ma nemmeno di rispettare il nostro. Eppure, accanto a loro, da tempo immemore, esiste un popolo, quello di Abramo, che ha sempre rispettato i nostri usi e costumi, addirittura ha pagato con la vita la fedeltà alla patria degli altri, combattendo sui fronti di mezza Europa, pagando tasse e imposte e lottando per migliorare un mondo che non era tanto il loro, ma anche e, in partcolare, il nostro. Mai hanno chiesto aiuto per integrarsi, ma, semmai, sono stati disprezzati per averlo fatto o non averlo fatto come altri avrebbero, interessati alla loro distruzione, voluto.
   Non hanno mai gridato, mai urlato, mai preteso, mai domandato, nemmeno quando li abbiamo arrestati, deportati, dileggiati, massacrati, gasati, torturati, nemmeno allora hanno chiesto pietà perché, in fondo, hanno con sé le stimmate, questo sì, del popolo eletto. E noi, adesso, dovremmo prostrarci davanti ai figli di Maometto come se appartenessero ad una sorta di élite sbarcata sulle nostre coste per venirci a insegnare - Boldrini docet - il verbo che mai avevamo ascoltato, insegnarci abitudini che dovrebbero - ancora lei, la Boldrini odiata e da odiare senza pietà - costituire le basi della nostra esistenza futura. Mai, mai accetteremo, chi scrive in primis, di cedere all'ammasso la nostra ragione e per ogni milione di musulmani o arabi che non vogliono integrarsi, ma costringerci all'integrazione, noi preferiamo e preferiremo un popolo, quello ebreo, che ha dimostrato, nel tempo, una dignità e un coraggio oltreché una saggezza e una intelligenza degni non solo della nostra ammirazione, ma, soprattutto, del nostro rispetto.
   Chi vuole integrarsi in una realtà, non ha bisogno di essere aiutato, si integra da sé. Se non lo fa, significa che non lo desidera. Chi ospita può farsi in quattro per accogliere, ma non può far nulla per far integrare. Non esistono popoli integrati, ma popoli che si integrano di spontanea volontà.
   Buon Natale a tutti gli ebrei, anche a quelli che non ci sono più. Il peggior Natale, il peggio del peggio e il peggiore tra i peggiori, a questa classe politica di imbelli e di disgraziati ai quali il sottoscritto augura, Transatlantico o Parlamento in primis, di dover attraversare il Mar Rosso senza avere un Mosè che sia capace di aprire le acque.

(La Gazzetta di Lucca, 24 dicembre 2015, ore 17:47)


Non ci associamo agli auguri di “peggior Natale”, ma a molte altre cose dette dall’autore nell’articolo. A partire dal titolo: “Il Natale degli ipocriti”. M.C.


Stille Nacht, la notte (troppo) silenziosa

I cristiani palestinesi si schierano contro l'occupazione israeliana perché altrimenti i musulmani considerano il loro silenzio un tacito sostegno a Israele.

Il Natale sarà più cupo, quest'anno a Betlemme, un riflesso della tesa situazione della sicurezza che ha già velato la recente celebrazione di Hanukka, la festa ebraica delle luci.
La mattina della vigilia, come sempre, il Patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal lascia la capitale alla testa del tradizionale corteo di auto diretto a Betlemme per celebrare la messa nella Chiesa della Natività. Ma lo spirito di Yasser Arafat continua a recitare la parte del "convitato di pietra" nella messa di mezzanotte, con la sua sedia vuota nella Chiesa della Natività a simboleggiare il retaggio di terrorismo che ha tramandato alla regione.
A Betlemme si celebrano tre Natali: il 25 dicembre è la data tradizionale osservata dai cattolici e dalle varie denominazioni protestanti mentre greci, copti e siriaci ortodossi celebrano il Natale il 6 gennaio, e gli armeni ortodossi il 19 gennaio. Molte feste, ma sempre meno cristiani. La popolazione cristiana di Betlemme è drasticamente diminuita da quando l'Autorità Palestinese ha preso il controllo della città nel dicembre 1995. I cristiani, che una volta costituivano il 90% della popolazione, oggi rappresentano meno del 25% stando alla stime israeliane, addirittura il 15% secondo altre fonti....

(israele.net, 24 dicembre 2015)


Netanyahu fa gli auguri ai cristiani

GERUSALEMME - Un messaggio di auguri natalizi e di Buon anno nuovo ai cristiani in Israele e nel mondo è stato diffuso dal premier Benyamin Netanyahu, secondo cui "Israele è uno dei pochi Paesi in Medio Oriente, e forse l'unico, dove i cristiani hanno piena libertà di praticare la propria fede".
"La mia fervente speranza e la mia fervente preghiera - ha aggiunto il primo ministro israeliano - è che il 2016 sia contraddistinto da maggiore sicurezza e libertà per tutti i cristiani in Medio Oriente".

(tio.ch, 24 dicembre 2015)


Oltre il Chrismukkah (o: il mio Natale non troppo ebraico né troppo cristiano)

di Giovanna Bisoni

 
Illustrazione di Francesca Romano
Non ricordo quando ho scoperto che Babbo Natale non esisteva veramente. Ricordo solo mia madre all'uscita dell'asilo, che mi chiede cosa voglio per Natale: "Così lo dico alla zia Anna, che con Babbo Natale ci parla lei".
  Ecco, non è che gli adulti intorno a me facessero sforzi immani per regalarmi la magia del Natale, anche perché non gliene importava molto: mia madre è ebrea, mio padre ateo militante. Babbo Natale a casa mia non c'è mai arrivato. Nemmeno l'ombra di un presepe, e solo un minuscolo albero di Natale di plastica dopo non so quanti capricci da parte mia, nel 1998.
  Chrismukkah poteva funzionare per la famiglia Cohen di Orange County, ma dalle mie parti le cose erano ben diverse. La mia famiglia, materna o paterna che sia, non è particolarmente grande, né particolarmente unita. Mia madre è cresciuta senza cugini di primo grado, mio padre ne ha due. Io di cugini primi ne ho tre, tutti molto più grandi di me; io e mio fratello siamo gli unici ebrei. I miei nonni materni li ho sempre visti settimanalmente, la mia nonna paterna un paio di volte all'anno (a Natale e d'estate): quando sono nata io erano già tutti e tre anziani e/o non particolarmente arzilli, mentre mio nonno paterno era mancato da poco.
  Ricordo invece Natali passati in autostrada, guidando verso Milano o verso la montagna. Un giovane impiegato metallaro a un casello stradale, un biglietto con scritto sopra "non sono credente, non fatemi gli auguri". Ricordo piste da sci semideserte, famiglie che anche senza la scusa della religione preferivano disertare i pranzi coi parenti (o forse nemmeno loro avevano pranzi da disertare).
  Ricordo Natali passati a casa, ad aspettare che i miei amici si liberassero dai loro interminabili impegni familiari: non c'era mai niente da guardare in TV. Ricordo l'anno in cui mia nonna pensò bene di morire il 23 di Dicembre, con funerale ebraico fissato per il giorno di Santo Stefano.
  Ricordo l'anno dopo, quando per la prima e ultima volta partecipai al pranzo di Natale della mia famiglia paterna: era morta da poco anche quella nonna, ma c'erano i figli di mia cugina a cui leggere i libri dei pirati. Ricordo l'anno dopo ancora, quando nell'unico ristorante aperto di Rovereto venni a conoscenza di un segreto di famiglia, uno di quelli che spiegano molte cose.
  Ricordo anche un Natale passato a Sydney, con mia madre e mio fratello, sotto piogge torrenziali: finimmo dentro un multisala (affollatissimo) a guardare Les Misérables, e poi a mangiare in un ristorante malesiano. Qualche settimana prima, nel parco di un sobborgo a sud di Melbourne, io e mia madre ci eravamo imbattute in una enorme celebrazione di Hanukkah: c'erano dolci e giostre per i bambini, famigliole, vecchietti, e cibo kashèr in abbondanza.
  Questo bizzarro luna park australo-semitico mi sarebbe dovuto risultare simpatico, ma la verità è che sono abituata ad essere in minoranza, e sugli usi e costumi israelitici sono molto selettiva (sinagoga una volta all'anno, molteplici visite ai miei vecchietti preferiti, sentimenti sionistici molto poco sviluppati).
  Hanukkah da piccola la celebravo con la famiglia di mia madre: si andava in sinagoga, si accendeva la Hanukkiah grande (il candelabro a nove braccia) in campo del ghetto, poi si aprivano i regali a casa dei nonni. Per i successivi otto giorni si accendeva una candelina ogni sera. A volte tutto questo accadeva a fine Novembre, a volte a Dicembre, quasi mai durante le vacanze natalizie.
  Mia madre le candeline le accende ancora, se sono a casa di solito mi unisco a lei, ma non proprio sempre. Dopo la morte dei miei nonni i rituali ebraici mi provocano spesso nostalgia e tristezza, anche se a volte mi ritrovo in situazioni inaspettate che invece mi rallegrano: un Seder di Pesach anarchico a Glasgow, un Seder di Rosh HaShana improvvisato a Edinburgo.
  Alla scuola ebraica (tre ore ogni lunedì pomeriggio, per dieci anni della mia vita, disagio in quantità elevate) ci insegnavano la storia di Hanukkah (Maccabeo, il tempio distrutto dai Romani, l'ampolla miracolosa), le canzoncine di Hanukkah (Dreidel Dreidel?), i dolcetti di Hanukkah. Alla scuola pubblica si mangiava il panettone e si facevano alberi di Natale coi piselli surgelati, destinati all'appartamento milanese di mia nonna paterna.
  A casa di mia nonna paterna, al numero 44 di Corso Buenos Aires, non ci andavamo mai il giorno di Natale - l'unica volta che ci presentammo a casa di mio zio durante il pranzo del 25 successe una mezza tragedia. In salotto c'era sempre un piccolo presepe, in ingresso un albero di Natale con sotto i nostri regali.
  Casa di mia nonna era il tipico appartamento piccolo borghese anni '60, con una stanza piena di oggettistica varia avanzata dalla cartolibreria del mio defunto nonno. Le finestre sul corso tremavano sempre, e io Milano la odiavo: era troppo grigia e rumorosa per i miei gusti di bambina abituata alla vita di periferia campagnola, e alla languida "realtà" veneziana. Quand'ero molto piccola, durante queste visite dormivo nel lettone accanto a mia nonna, che prima di addormentarsi recitava il Padre Nostro e l'Ave Maria: solo adesso mi rendo conto che pregava anche per me, e per la mia povera anima non battezzata.
  Crescere al di fuori della maggioranza cattolica in Italia è stata sicuramente un'esperienza bizzarra e, nel mio caso, complicata dalle sfumature presenti nella mia famiglia "mista" e tendente al disfunzionale. Fortunatamente, adesso che sono grande, il disagio che mi assale il giorno di Natale è più fastidioso che altro. L'ultimo Natale, ad esempio, l'ho passato a casa da sola, con un principio di influenza (o forse era la fine). Mi sono comprata un mini panettone al kamut, e l'ho mangiato guardando Real Time nel salotto dei miei. Poi sono andata a farmi un giro. Quest'anno spero solo di avere il mio cane a farmi compagnia.

(soft revolution, 24 dicembre 2015)


Altro sangue a Gerusalemme: accoltellati a morte due israeliani. Aggressori palestinesi uccisi

GERUSALEMME - Due palestinesi hanno accoltellato tre israeliani nei pressi della Città vecchia di Gerusalemme. Gli aggrediti sono stati ricoverati in gravi condizioni: due sono morti dopo alcune ore. Una delle due vittime è il rabbino argentino Reubén Birmajer, fratello del noto scrittore Marcelo Birmajer. I killer sono stati uccisi dalle forze di sicurezza. In base alle prime ricostruzioni, uno dei due israeliani deceduti sarebbe stato colpito dal fuoco amico della polizia. L'attacco è avvenuto a pochi metri dalla Porta di Giaffa, non distante dalla sede del Patriarcato latino di Gerusalemme. Qui due palestinesi del campo profughi di Qalandiya, in Cisgiordania, identificati dai media come Issa Asaf e Anan Abu Habseh, entrambi Soccorsi a Gerusalemme (Ansa/Ap) di 21 anni e con precedenti legati alla sicurezza, hanno colpito con un pugnale i passanti. Poco dopo sono stati colpiti dagli spari di reazione di due agenti delle Guardie di frontiera. La nuova aggressione ha fatto salire la tensione a Gerusalemme che si prepara all'arrivo di migliaia di pellegrini e turisti per il Natale. Ancora non si sa se i due assalitori fossero dei "lupi solitari" o, invece, se fossero legati a cellule terroristiche.
   Proprio ieri lo Shin Bet ha annunciato di aver smantellato non lontano da Gerusalemme una vasta cellula terroristica di Hamas che «progettava attentati dinamitardi e attacchi suicidi in Israele». Venticinque palestinesi, la maggior parte dei quali studenti dell'università di al-Quds ad Abu Dis, in Cisgiordania, sono stati arrestati. L'assalto alla Città Vecchia sembra, in realtà, opera di singoli. Un ennesimo capitolo dell'"Intifada dei coltelli" che dal primo ottobre insanguina Israele e Territori.

(Avvenire, 24 dicembre 2015)


Adriano ritorna nell'amata-odiata Gerusalemme con una mostra

 
L'imperatore Adriano è tornato a Gerusalemme, la città che chiamò Aelia Capitolina nel tentativo di sradicarvi l'ebraismo. Nel Museo di Israele della città, per la prima volta, sono mostrati assieme tre suoi busti bronzei, gli unici sopravvissuti. Uno dal Louvre forgiato molto probabilmente in Egitto o in Asia Monore, il secondo dal British Museum ritrovato nel 1834 nel Tamigi e ritenuto creato per commemorare la visita di Adriano in Gran Bretagna nel 122 d.C. Il terzo proveniente nell'accampamento di una legione romana vicino Beth Shean nel nord di Israele. Quest'ultimo mostra l'imperatore vestito militarmente con una splendida armatura sul petto conservata in maniera egregia.
La mostra - che si intitola "Hadrian: an emperor cast in Bronze" - completa le celebrazioni per i 50 del Museo di Israele ma soprattutto ripropone il confronto tra la massima autorità romana e il mondo ebraico dell'epoca. Un rapporto assai problematico: Adriano, ellenista convinto, non solo tentò di paganizzare Gerusalemme costruendo sul Monte del Tempio, al posto del Santuario ebraico, un luogo dedicato a Giove, ma dopo aver represso nel sangue la rivolta di Simon Bar Kochba (Simone figlio della Stella) con 580mila ebrei uccisi, nel 135 d.C. cambiò il nome della regione da Giudea a Siria Palestina. Un fatto che ha avuto ripercussioni sino ad oggi.
Nelle fonti ebraiche, quando si parla di Adriano, segue sempre un epitaffio: «Possano essere le sue ossa frantumate». Espressione che, ad esempio, non viene proposta quando le stesse si riferiscono a Tito o al figlio Vespasiano che pure distrussero il Secondo Tempio a Gerusalemme. Adriano resta in ogni caso legato alla storia della città.

(Il Piccolo, 24 dicembre 2015)


Trieste - Convegno "Palestina i diritti negati". Botta e risposta

Dalla nostra lettrice Deborah Fait riceviamo il resoconto di uno scambio da lei avuto sul quotidiano "Il Piccolo" di Trieste

A Trieste, il 28 novembre, si è tenuto un convegno dal titolo "Palestina i diritti negati" organizzato dalla famigerata organizzazione Salaam ragazzi dell'olivo... secondo me sarebbero più onesti se cambiassero il nome in Salaam ragazzi del tirtolo o, per essere attuali, Salaam ragazzi del coltello... ma tant'è, loro si dipingono così e mi spiace per gli ulivi, alberi stupendi coinvolti loro malgrado nella peggior propaganda di odio promossa in questi ultimi 40 anni. L'Ambasciatore di Israele informò il sindaco di Trieste a chi stava dando il sostegno come Municipalità, cioè a organizzazioni filoterroriste e, nel caso del BDS, addirittura di propaganda in stile nazista.
Il sindaco Cosolini, accettando saggiamente il consiglio dll'ambasciatore, ritirò il suo sostegno al convegno. Questa è la botta e risposta (mia) che ne seguì, pubblicata dal Piccolo di Trieste.
Deborah Fait


LA BOTTA:

Diritti palestinesi e posizione del Comune
Il 28 novembre ho avuto il piacere di partecipare al convegno "Palestina tra diritti negati e prospettive future", organizzato egregiamente dall'associazione triestina "Salaam ragazzi dell'olivo". In una giornata di dibattito e confronto, strideva la lettera dell'ambasciata israeliana al sindaco Cosolini nella quale chiedeva al Comune di ritirare il proprio sostegno al convegno. Nel motivare la richiesta, l'ambasciata faceva gravi accuse di legami con organizzazioni terroristiche al movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) contro Israele, nel quale sono impegnata da anni.
Ancora più preoccupante delle ingerenze da parte di Israele, che purtroppo non risultano essere le prime, né in Italia né in Europa, è il modo in cui il Comune ha ciecamente accolto la richiesta senza approfondire.
Ci sarebbe voluto molto poco per sapere che il Bds è un movimento non violento lanciato nel 2005 da 170 organizzazioni della società civile palestinese. Si ispira all'analogo movimento contro l'apartheid in Sud Africa, e nasce dal fallimento delle istituzioni internazionali ad adempiere ai loro obblighi di porre fine alle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi. Israele agisce con impunità perché gli stati e le istituzioni glielo permettono. E le imprese, anche Italiane, continuano a fare affari con l'occupazione israeliana.
L'appello palestinese per il Bds, che si fonda sul diritto internazionale e sui diritti universali, ci invita a giocare quello che è il nostro ruolo di società civile: agire per colmare il vuoto lasciato dalle istituzioni, interrompere il sostegno alle politiche oppressive israeliane ampiamente illustrate durante il convegno.
Il movimento oggi conta il sostegno di grandi sindacati (in Italia la Fiom), chiese, importanti associazioni accademiche, gruppi ebraici nonché gruppi in Israele. Sono attivi sostenitori del movimento l'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, la scrittrice Naomi Klein, il premio Pulitzer Alice Walker e Roger Waters dei Pink Floyd.
La reazione di Israele, il ricorso a mezzi calunniosi e intimidatori, dimostra che non ha argomenti. Non sa spiegare perché i palestinesi non dovrebbero godere dei loro pieni diritti, perché non dovrebbero vivere liberi da occupazione militare e oppressione, liberi da razzismo ed apartheid. Il Comune di Trieste ha perso una grande occasione per partecipare e contribuire ad un importante dibattito. Lo inviterei a conoscere meglio il Bds e ad unirsi, come hanno già fatto altri enti locali europei, a questo movimento che sostiene i diritti per tutte e tutti.
Stephanie Westbrook (Roma)


E LA RISPOSTA:

Solo propaganda contro Israele.
Desidero rispondere alla signora Strephanie Westbrook che si lamentava per l'invito dell'ambasciatore di Israele al Comune di Trieste affinchè evitasse di apporre il proprio logo alla conferenza di Salam i ragazzi dell'ulivo, Bds e altri. Credo sia compito delle ambasciate difendere dalla diffamazione e dall'odio i paesi che rappresentano, se no che ci stanno a fare?
Il Bds è noto come movimento che si ispira a idee nazifasciste, gestisce il boicottaggio internazionale, economico e accademico di Israele. La sua politica filoterrorista, antisionista/antisemita non ha in nessun interesse il benessere dei palestinesi, Il suo unico obiettivo è arrivare all'eliminazione di Israele. Da notare un particolare curioso: il fondatore del Bds, Omar Barghouti, è un arabo palestinese laureato all'Università di Tel Aviv (Israele) dove vive, alla faccia di quello che Bds, Salam i ragazzi dell'ulivo e antisemiti vari, definiscono "apartheid".
Gli ebrei di Israele vivono in armonia e in assoluta parità di diritti con gli arabi e con tutte le altre etnie esistenti nel Paese (drusi, circassi, beduini), unici arabi di tutto il Medio oriente ad avere la fortuna di vivere in una democrazia. Inviterei la signora Westbrook a venire a fare un giretto in Israele per conoscere arabi che sono ministri, medici, giudici, imprenditori, accademici, persino ambasciatori. Anni fa una bellissima ragazza araba fu eletta Miss Israele.
Il problema sono quegli arabi, detti palestinesi (fino al 1948 i palestinesi erano solo gli ebrei che qui vivevano) dei " territori contesi" di Giudea e Samaria (Cisgiordania o West Bank sono nomi fittizi e inventati, mai esistiti nella storia) che vengono allevati nell'odio. Nelle scuole materne dei Territori i bambini vengono imbottiti con idee di martirio, tanto da far loro desiderare di diventare grandi per ammazzare ebrei e diventare shahid (martiri). Una volta cresciuti, lo fanno, purtroppo, e accade anche in questi giorni con l'intifada dei coltelli di cui i media italiani, chissà perché, non parlano.
Gli arabi che vivevano, come gli ebrei, nel Mandato britannico di Palestina potevano avere un loro stato indipendente accanto a Israele, già nel 1948. Lo hanno rifiutato a causa delle alleanze naziste dei loro capi di allora. Negli ultimi settant'anni hanno avuto altre possibilità e varie proposte sempre rifiutate, hanno scelto il terrorismo perché non vogliono costruire un loro paese ma distruggerne uno già esistente, Israele. Dopo sette guerre e decenni di terrorismo non ci sono riusciti e adesso organizzazioni come il Bds tentano l'ultima carta, isolare Israele dal resto del mondo. La loro propaganda si regge su tre cose : menzogne, odio e tanti tanti soldi, quindi è destinata a perdere di fronte a verità e democrazia.
Deborah Fait (Rehovot)


(Inviato dall'autrice, 24 dicembre 2015)


Yahir Didi, l'ebreo errante

Intervista al rabbino capo della comunità ebraica di Livorno

di Aldo Grandi

 
L'intervista a Yahir Didi
E' giovane, è preparato, conosce a menadito la Torah e i libri del Talmud, parla perfettamente italiano e inglese, dialoga in aramaico ed ebraico, è sposato e ha tre figli, tutti maschi, vive a Livorno dove è a capo della comunità ebraica, una delle più importanti d'Italia anche se non ha più la consistenza e la vitalità di quella che un tempo, prima dell'avvento delle leggi razziali, nel 1938, era una vera e propria città nella città. La sinagoga o tempio israelitico come veniva chiamata, fu distrutto da un bombardamento nel maggio 1943 e fu un peccato perché l'edificio era architettonicamente straordinario e quello che è sorto al suo posto, purtroppo, non lo ricorda nemmeno. Ma tant'è, è già molto se gli ebrei, a Livorno e dopo le persecuzioni nazi-fasciste della repubblica saloina, ancora vivono da queste parti. Lui, Yahir Didi, 38 anni, genitori tunisini emigrati in Israele, è il rabbino capo e accetta volentieri di aprire le porte a chi, proveniente da un altro... emisfero, chiede di poter conoscere che cosa c'è al di là della Shoah e, soprattutto, che cosa è rimasto.
  Un'esperienza umanamente e culturalmente preziosa, un incontro tra due persone che non si conoscono, ma si rispettano e che vede un laico, chi scrive, impegnato nel confronto con un rabbino o rav, uno specialista di cose religiose che ha nella fede e nella dottrina le ragioni stesse della sua esistenza. Ma alla fine dell'incontro, ci sta che ognuno pur restando della propria opinione, abbia conseguito un arricchimento se, come accade, si gettano le basi di un viaggio in Israele a Gerusalemme e Tel Aviv alla ricerca del popolo eletto e delle sue straordinarie potenzialità.
  Prima dell'intervista e prima della visita alla sinagoga, un incontro anche con Gabriele Bedarida, segretario e responsabile dell'archivio storico della comunità ebraica di Livorno, nipote del rabbino Toaff e cugino del figlio Elio Toaff, a capo della comunità ebraica del ghetto di Roma. Un uomo dolce, gentile, con un passato drammatico che guarda la vita con lo stesso entusiasmo di un bambino.

- Signor Didi lei è il rabbino capo della comunità ebraica di Livorno. Quante sono le anime che lei amministra?
  Circa 700.

- Rabbino in italiano, Rav in aramaico ed ebraico. Cosa significa la parola Rav?
  Rav vuol dire speciale, uno specialista. Prima la parola Rav comprendeva anche Rav di, nel senso di specialista in qualcosa, oggi si intende specialista nello studio dell'ebraismo.

- Lei è nato in Israele da genitori tunisini. Cosa vuol dire oggi, nel 2016, essere ebrei?
  L'ebraismo è una Torah di vita ossia un modo di vivere. Tanti pensano che una persona pia sia quella che osserva delle rinunce, al cibo, alla famiglia, all'amore e a tante altre cose. Al contrario nell'ebraismo noi dobbiamo santificare la materia, ossia cercare di mettere la spiritualità dentro la parte fisica della vita. Possiamo fare un esempio: uno dei precetti della Torah è quello di sposarsi e fare figli. Ebbene un rabbino che è la guida spirituale della comunità ebraica, non può non essere sposato e non può non avere figli perché da un lato è questa la natura dell'uomo e lui non può andare contro la sua natura e dall'altro per far crescere il mondo. Il suo dovere, infatti, è quello di contribuire allo sviluppo dell'umanità così come nella Torah, sta scritto che Dio ha creato il mondo non per il caos, ma affinché l'uomo lo migliori e lo faccia crescere. E come si può far crescere questo mondo? Qual è il motore che muove l'essere umano? L'istinto cattivo.

- Cosa vuol dire istinto cattivo?
  L'istinto cattivo è quello che spinge l'uomo a fare le cose. Senza l'istinto cattivo l'uomo non si sposa, non fa figli, non fa cose nuove. Cattivo non vuol dire malvagio, vuol dire che una persona può non usare nel modo giusto il suo istinto. Deve, come per il fuoco, essere capace di controllarlo e di dirigerlo verso le cose positive della vita. Nel Talmud, il libro della tradizione orale ebraica, sta scritto, ad esempio, che la gelosia fra i maestri fa crescere la saggezza. Significa che quando esiste gelosia tra due maestri, questa, se usata nel modo giusto, fa crescere la saggezza perché ognuno vuole migliorarsi e migliorare. E' quello che esiste, adesso, in Israele dove la tecnologia è il frutto di questo istinto naturale nel quale tutti cercano di portare qualcosa in più dell'altro per contribuire a far guadagnare il mondo.

- Tra Israele e l'ebraismo c'è differenza?
  Ogni ebreo, durante duemila anni di diaspora, pregava di tornare in Israele. La nostra preghiera è sempre stata quella di poter riabbracciare la nostra terra. Quindi per noi Israele è la stessa cosa dell'ebraismo, non esiste una contraddizione tra essere ebrei e lo stato di Israele.

- Signor Didi, intorno al popolo ebraico ci sono, purtroppo, molti luoghi comuni e, il più delle volte, denigratori e ingiusti. Cosa ne pensa di questo aspetto?
  Questo è dovuto all'antisemitismo. Io credo che sia una questione legata all'assenza di cultura e di educazione.

- Non pensa signor Didi che sia anche per colpa vostra che, spesso, vi chiudete nel vostro mondo senza aprirvi all'esterno?
  Oggi il mondo ebraico è molto aperto, non viviamo più nel ghetto, ma queste cose, purtroppo, continuano. Mi perdoni, ma non me la sento di sostenere che la colpa di certi atteggiamenti sia delle vittime, ossia degli ebrei piuttosto che di coloro che questi pensieri e comportamenti pongono in essere. Anche in Germania uccisero, all'epoca del nazismo, tutti gli ebrei senza distinzioni, anche quelli che erano tedeschi da generazioni. Anche coloro che svolgevano ruoli come professori, medici, intellettuali. Era solo antisemitismo.

- Dicono che l'ebreo migliore sia sempre quello morto.
  Purtroppo ci sono alcuni che vogliono vedere gli ebrei sempre e soltanto in una posizione di accettazione passiva e sottomissione. Anche la storia è così, dove gli ebrei sono sempre stati visti e considerati sotto il potere del sovrano di turno senza mai avere una propria indipendenza e autonomia. Hanno sempre cercato di convertire gli ebrei, nei secoli, provando a privarli della loro storia e delle loro tradizioni accusandoli e perseguitandoli quando volevano, invece, coltivare e mantenere la propria identità e i loro diritti di base alla vita e alla osservanza delle loro regole e leggi. Quello che diciamo sempre nella festa di Pesach ossia la Pasqua ebraica, è che ogni generazione prova a cancellare il popolo di Israele, non esiste nella storia dell'umanità un popolo che abbia sofferto come il popolo di Israele, ma Dio lo ha sempre salvato. Grazie a Dio oggi la situazione di Israele e degli ebrei è la migliore di tutta la nostra storia anche se ci sono ancora grosse difficoltà. Infatti c'è sempre chi cerca di negare l'esistenza del popolo ebraico e, soprattutto, di Israele, denigrando e criticando ogni azione che viene da Israele per proteggere i suoi figli combattendo chi, ogni giorno, lancia missili contro il suo territorio. Non conosco nessuna nazione che, di fronte a questi attacchi, rinuncerebbe a difendersi. Se oggi gli ebrei possono vivere una condizione più tranquilla è grazie a Dio e all'esistenza dello stato di Israele. La tragedia della Shoah ci ha insegnato che il popolo israeliano non può più affidarsi a nessuno per proteggersi, ma deve fare affidamento su Dio e su se stesso. A questo proposito vorrei ringraziare l'Italia per quello che ha fatto e che sta facendo per proteggere le comunità ebraiche.

- Perché esiste ancora oggi, dopo la Shoah, un pregiudizio antisemita?
  Prima dobbiamo dire che tutto il mondo arabo è pieno di violenza e sono pochi quelli che si alzano in piedi per condannare o protestare. Invece, basta che Israele muova un dito per essere additati come assassini. Silenzio per tutte le nefandezze che vengono commesse dagli altri e critica spietata a Israele per ogni piccolo tentativo che fa di proteggersi. Se questo non è antisemitismo nascosto dietro politica o ideologia, come lo definirebbe?

- Perché si è soliti dire che gli ebrei hanno una marcia in più degli altri?
  Non so se gli ebrei hanno o meno una marcia in più degli altri. Certo non può essere un caso che il 30 per cento dei premi Nobel siano di origine ebraica né che lo stato di Israele sia, al giorno d'oggi, uno dei paesi più tecnologicamente avanzati del mondo. Posso soltanto dire che noi abbiamo i libri del Talmud nei quali ogni problema viene sviscerato in tutti i suoi aspetti. Se uno entra in una scuola rabbinica può assistere a una sorta di battaglia e di discussione animata dove vengono scambiati pareri e giudizi e dove ognuno cerca di portare qualcosa di originale e innovativo, ma alla fine, sono sempre tutti amici. Ognuno vuole conoscere l'opinione dell'altro per capire e arricchirsi e questo avviene anche nel Talmud, il libro della saggezza del popolo ebraico. Lì c'è scritto, ad esempio, che il tribunale composto da 70 giudici rabbini, quando doveva decidere una sentenza, ascoltava prima i giudici più giovani di età o di studio o di esperienza e poi quelli più 'vecchi'. Il motivo è che non si voleva che il giudizio dei più esperti condizionasse il parere dei più giovani che, se ascoltati per ultimi, avrebbero potuto copiare o cambiare la propria idea. Questo è il risultato dell'evoluzione, nei secoli, dello studio del Talmud.

(La Gazzetta di Lucca, 23 dicembre 2015)


Museo della Shoah, via ai lavori

Il museo ottiene tre milioni: a luglio la posa delIa prima pietra.

di Alessandro Capponi

Mancava giusto un tassello, ed è arrivato ieri: la prima pietra del Museo della Shoah a Villa Torlonia, opera progettata e attesa a Roma da tanti anni, sarà posata con ogni probabilità nel luglio del 2016. L'architetto Luca Zevi, che ha firmato il lavoro, ammette che «è un momento importante, si conclude un ciclo amministrativo molto complesso, e adesso finalmente non solo la città ma l'Italia potrà avere il Museo».
   L'emendamento alla legge di Stabilità ricalca quello già realizzato nel 2013, quando Mario Monti escluse dal Patto di stabilità la cifra destinata all'opera: quei soldi non sono mai stati spesi e dunque è stato necessario un nuovo intervento. Nel prossimo anno, dunque, il Comune avrà la possibilità di spendere «tre milioni» di euro fuori dal Patto. «Dopo le numerose frenate della destra, ed il tempo purtroppo perso durante l'amministrazione Marino — dicono la parlamentare Pd Lorenza Bonaccorsi e il renziano romano Luciano Nobili — per dare concretezza ad una realtà presente in molte capitali europee, finalmente si è arrivati con l'approvazione della Legge di Stabilità all'esclusione dei 3 milioni di euro, necessari per il Museo della Shoah, dalle spese di Roma Capitale». I prossimi passi sono, praticamente, già decisi: tutte le procedure sono state espletate, compresa l'aggiudicazione definitiva, quindi adesso il Campidoglio dovrà firmare il contratto con l'impresa aggiudicatrice e, presumibilmente nella prossima estate, a Villa Torlonia si comincerà a lavorare. «Sono molti mesi che ci battiamo - dicono gli esponenti Pd — perché finalmente a Roma possa vedere la luce un progetto coltivato da molti, quello del museo della Shoah. Per questo vogliamo ringraziare il governo e i tanti che in Parlamento hanno permesso di conseguire questo risultato che onora Roma, città che ha conosciuto il dramma della deportazione e guadagnato sul campo la medaglia d'oro per la Resistenza».

(Corriere della Sera, 24 dicembre 2015)


Tsipras tradisce anche gli amici palestinesi

di Maurizio Stefanini

Alexis Tsipras: da rivoluzionario a levantino. Sempre più levantino. Lunedì, infatti, ha ricevuto ufficialmente a Atene il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, che si è visto anche con il presidente Prokopis Pavlopulos. E ieri il Parlamento greco ha adottato una risoluzione che chiede (in modo non vincolante) al governo di riconoscere ufficialmente lo Stato palestinese. Il logico sbocco di una campagna elettorale in cui Syriza aveva messo chiaramente nel programma un raffreddamento delle buone relazioni con Israele? Un seguito di quell'andazzo filo-palestinese e anti-israeliano per cui il riconoscimento dello Stato palestinese sta venendo votato da un Parlamento europeo dopo l'altro?
   In apparenza, sì. Aggiungiamo però l'informazione che il 25 novembre Tsipras è andato in Israele per incontrare Benjamin Netanyahu. E quella che l'incontro non è avvenuto a Tel Aviv, come fanno spesso i visitatori illustri per non compromettersi sul tema di Gerusalemme capitale "indivisibile" dello Stato ebraico, ma proprio a Gerusalemme. E quella che lo stesso Netanyahu si vedrà di nuovo con Tsipras a gennaio per il terzo vertice tra i due. Aggiungiamo anche che Tsipras con Israele ha firmato un altro importantissimo accordo bilaterale in materia di difesa. E che anche altri ministri del governo di Syriza sono andati in Israele: sia il titolare della Difesa Panos Kammenos, che è poi il leader dell'altro partito della coalizione di governo, i Greci Indipendenti; sia quello degli Esteri Nikos Kotziàs. Insomma, la promessa di Syriza di rompere con Israele ha fatto la stessa fine di quella di non cedere ai diktat economici della Troika. Ma, appunto, in stile prettamente levantino Tsipras ha fatto dire al popolo no a un accordo con Bruxelles per far vedere che lui era uno che aveva le palle per opporsi all'Europa, prima di fare con l'Unione europea un altro accordo su basi ancora più sfavorevoli della proposta bocciata dal voto popolare. In stile altrettanto levantino, ora ha fatto con Abbas un'innocua chiacchierata ed ha fatto votare dal suo partito in Parlamento una altrettanto inutile mozione, apposta per far vedere che lui resta filo-palestinese, intanto che fa con gli israeliani gli affari più lucrosi.
   Lo ha detto d'altronde Netanyahu a Gerusalemme a novembre dopo aver parlato con Tsipras per varie ore, anche se ora finge di fare un po' il muso per il voto: ma in fondo è un levantino pure lui. «L'incontro è stato buono» aveva detto un mese fa, lodando «l'affinità naturale» tra i due popoli. «Siamo le due democrazie nel Mediterraneo orientale e siamo ovviamente consapevoli che abbiamo un mondo di opportunità da afferrare, e che possiamo farlo in maniera più produttiva attraverso la cooperazione. Ma allo stesso modo comprendiamo anche che ci sono grandi sfide di fronte a noi, in particolare il fondamentalismo religioso che sta cercando di diffondersi nel nostro mondo, che si sta diffondendo in Medio Oriente, Nordafrica, Europa e altri parti del mondo. Abbiamo un interesse comune nel cogliere le opportunità e allontanare i pericoli».
   Oggetto del colloquio, la cooperazione in campo economico, tecnologico, scientifico, commerciale ed energetico. Soprattutto energetico: con gli immensi giacimenti di gas in via di scoperta nel Mediterraneo Orientale, Israele e Grecia hanno interesse a mettersi d'accordo per gestire il bottino in comune, piuttosto che litigarselo.
   Per la stessa ragione anche la Turchia, dopo il recente appannamento delle relazioni con la Russia, ha appena raggiunto un accordo preliminare sulla «normalizzazione» dei rapporti diplomatici fra i due Paesi: inaspritesi nel 2010, quando Israele aveva compiuto un raid a bordo dell'imbarcazione Mavi Marmara diretta a Gaza per portare aiuti nella Striscia, causando la morte di dieci attivisti turchi. In base all'accordo Israele si impegna a risarcire le famiglie delle vittime, mentre Ankara farà cadere tutte le accuse e le rivendicazioni finora avanzate nei confronti di Israele. E nell'affare sta ovviamente l'Egitto di al-Sisi. E Cipro, con cui a gennaio ci dovrebbe essere un vertice a tre con Grecia e Israele.
   Quanto all'Anp, Mahmud Abbas è andato al parlamento di Atene per ringraziarlo. Ma come ha subito chiarito Tsipras, il riconoscimento effettivo non si farà subito ma «al momento opportuno»: un momento opportuno che, è il caso proprio di dirlo, potrebbe venire alle proverbiali e inesistenti calende greche. Come ha spiegato il Ministero degli Esteri ellenico, non si è andati oltre «per non danneggiare le relazioni bilaterali» con Israele.

(Libero, 24 dicembre 2015)


Il detenuto in Israele paffuto e laureato, il prigioniero in Siria ridotto pelle e ossa

Suscita sorpresa e scalpore nel mondo arabo un accostamento di fotografie postato su internet da un giornalista di al-Jazeera.

Un messaggio postato su Facebook da un giornalista arabo che mette a confronto la miserrima condizione dei prigionieri siriani con quella dei ben nutriti detenuti palestinesi in Israele è circolato sul web in modo "virale", suscitando in tutto il mondo arabo inaspettate espressioni di elogio per il modo in cui vengono trattati i detenuti nelle carceri israeliane.
All'indomani del raid attribuito a Israele che ha causato la morte del terrorista libanese Samir Kuntar, il giornalista della tv al-Jazeera Faisal al-Qassem ha postato su Facebook due foto affiancate: quella di uno scheletrico detenuto siriano in una prigione del regime di Assad e quella del ben pasciuto Samir Kuntar al momento della sua scarcerazione dopo quasi trent'anni di detenzione in un penitenziario israeliano....

(israele.net, 24 dicembre 2015)


La lingua biforcuta di Tariq Ramadan

L'intellettuale islamico che in pubblico flirta con D'Alema e nella banlieue demonizza "i sionisti".

di Giulio Meotti

Tariq Ramadan
ROMA - "In pubblico Tariq Ramadan parla di democrazia, nelle cassette distribuite nelle banlieue divulga idee integraliste", ha detto l'intellettuale franco-tunisino Lafif Lakhdar. Ramadan si porta benissimo quando parla in inglese. La sua lingua è forbita, sinuosa, buca il video, è carismatica, ecumenica, rassicurante e gli ha permesso di ottenere una cattedra alla prestigiosa Oxford University, un posto da consulente per l'integrazione con il governo inglese e di sedersi al fianco dell'ex presidente del Consiglio e ministro degli Esteri italiano, Massimo D'Alema, che ha appena discusso di Europa e islam con Tariq Ramadan all'Università di Lovanio (quale posto migliore del Belgio per elogiare il multiculturalismo). Quando si trasferisce nella banlieue francese, Ramadan diventa un'altra persona e anche il suo islam cambia registro e contenuti. Per questo il delegato del governo francese del socialista Manuel Valls per la "lotta contro il razzismo e l'antisemitismo", Gilles Clavreul, ci è andato giù duro contro Ramadan, accusandolo di far parte di una galassia "antidemocratica, razzista e antisemita". Nel mirino una conferenza che Ramadan ha appena tenuto a Saint-Denis, la banlieue parigina dove sono sepolti i re di Francia ma vivevano anche gli attentatori del 13 novembre scorso. Conferenza accusata da Clavreul di "legittimare l'islamismo" e "difendere i predicatori fondamentalisti", oltre che di promuovere "un discorso comunitario che non condanna mai, e spesso incoraggia, sfoghi razzisti, antisemiti e omofobi". Il quotidiano Libération si è imbucato alla saga degli "indigeni" di Ramadan e quello che ha raccontato non è molto dalemiano.
  Il professore ginevrino, nipote del fondatore dei Fratelli musulmani, ha detto che "il 13 novembre è un pretesto per fare la guerra" e che la guerra era stata addirittura preparata per tempo. Poi l'affondo: "Le fonti dell'islamofobia le conosciamo: l'ottanta per cento sono discorsi legati ciecamente a organizzazioni sioniste". Ha anche aggiunto che "le forze pro sioniste e israeliane in Francia non vogliono questo discorso". La vecchia storia del capro espiatorio ebraico.
  Fra i partecipanti alla serata di Ramadan anche il Partito degli indigeni, movimento islamista che ha accusato la Francia di "filosemitismo di stato". C'era anche Alain Gresh, l'ex direttore del Monde diplomatique, che ha spiegato la strage al Bataclan con le politiche d'Israele: "A partire dal 2003, ci sono state tre guerre contro Gaza, il tutto giustificato dai governi di destra e sinistra. Questo ha creato ostilità contro la Francia". Durissimo il commento di Pascal Bruckner sul Figaro a proposito di Ramadan: "Questo incontro è stato un insulto alle vittime del 13 novembre, i valori della democrazia. 'Né Charlie, né Parigi, mais perquistionnable' è quello che Tariq Ramadan ha pubblicato sul suo sito ufficiale un paio di giorni dopo le uccisioni di Parigi. E' un pericoloso islamo-goscismo".
  Ma in fondo, anche questa isteria da complotto contro Israele, rientra nell'arte di épater le bourgeois in cui eccelle sempre il fratello Tariq.

(Il Foglio, 23 dicembre 2015)


Due modi diversi di affrontare il terrorismo

Israele dà la caccia a fanatici ebrei violenti, Fatah esalta un assassino di bambini. Onorato da Abu Mazen, Samir Kuntar si vantava di aver ucciso una bimba con il calcio di un fucile.

di Fiamma Nirenstein

Israele è un paradosso: una democrazia che sola nel cuore della zona più difficile del mondo combatte la bestialità del terrorismo come conducesse una partita di fioretto; è una difesa evidente per tutto il mondo occidentale e quest'ultimo usa contro di lui armi acuminate; un guerriero in battaglia che pure lascia spazio a continue domande. Si intrecciano sui media l'eliminazione mirata a Damasco (secondo fonti estere, come si dice) di Samir Kuntar e dall'altra parte la caccia ai terroristi israeliani che funestano con i loro delitti la coscienza dello Stato ebraico. Per Samir Kuntar, druso che ha reclutato 280 dei suoi per il presidente Bashar Assad, è stato allestito dagli Hezbollah un funerale di lusso, accompagnato da un discorso del loro capo Hassan Nasrallah: la vendetta verrà quando lo riterrò opportuno, ha detto. Da notare che mentre il vertice siriano si è astenuto dai commenti, invece l'Autorità Palestinese, quella di Abu Mazen, nella pagina ufficiale di Facebook ne parla come un eroe e di un martire.
   Kuntar, ucciso con quattro missili da un aereo, era fra tutti i terroristi uno dei più mostruosi: uccidendo un'intera famiglia, aveva spaccato la testa di una bambina di quattro anni con il calcio del fucile. Le grandi feste che l'avevano accolto in Libano nel 2008 dopo lo scambio con i corpi di due soldati rapiti, avevano avuto del mostruoso a loro volta. Kuntar pensava che preludessero a un grande ruolo di comandante, ma aveva invece poi lottato in un giuoco di carriera che aveva visto Jihad Mughniyah, figlio di Imad, un altro famoso terrorista, prendere il ruolo da lui ambito: nel Golan, a seguito della guerra in Siria, iraniani e Hezbollah hanno formato un avamposto armato per attaccare Israele. Quel ruolo Kuntar se l'è preso, accompagnato da una fama di free lance un po' pazzo, solo dopo che anche Jihad è stato eliminato. Israele non ha intenzione di vedere il Golan trasformarsi in una fortezza siriano-nasralliana, e così Jihad e Kuntar, che pare stesse preparando un grande attacco, hanno subito in successione la stessa sorte.
   E' bizzarro che i palestinesi di Fatah non capiscano che lodare Kuntar amplifica la loro scelta per il terrorismo, l'incapacità a prenderne le distanze anche nei casi più oltraggiosi. Il post ne fa una replica di Hamas, oltretutto condita di ipocrisia. Ma i palestinesi godono di uno speciale lasciapassare: il Parlamento greco ha votato ieri una risoluzione a favore del riconoscimento di uno Stato palestinese, nonostante i suoi rapporti con Israele avessero conosciuto un netto miglioramento nei mesi scorsi. Perché lo ha fatto? Perché, nel pieno di una non mai condannata ondata di terrorismo contro innocenti porge la mano ai fomentatori? A quale stato Palestinese pensa, se ambisce a «due Stati per due popoli»? Sembra piuttosto un gesto ispirato da una pulsione distruttiva e incoerente, che per l'ennesima volta si pone in contraddizione con la lotta contro il terrorismo e non disegna certo i confini di un futuro Stato pacifico.
   Dall'altra parte, Israele combatte una battaglia sul fronte di un terrorismo interno che preoccupa tutti i partiti che siedono alla Knesset mentre si svolgono le investigazioni sul terribile caso della famiglia palestinese bruciata in un incendio, la famiglia Dawabsheh, e gli accusati accusano lo Shin Beth di averli sottoposti a torture per ricavare i nomi di altri accoliti, ieri a Beitillu, un sobborgo di Ramallah, due granate fumogene sono state gettate in una casa dove dormivano un bambino di nove mesi e i suoi genitori. Nessuno è stato ferito, ma l'opinione pubblica israeliana ha reagito con durissime condanne, con la mobilitazione della polizia, dello Shin Beth, dell'apparato giudiziario. Prima Netanyahu stesso, il ministro della difesa Boogy Yaalon e ieri il ministro Naftali Bennett, il prestigioso capo riconosciuto della destra israeliana, hanno negato che siano state usate torture per estrarre confessioni e hanno condannato il terrorismo israeliano senza sconti di sorta. Per chi ha occhi per vederlo il terrorismo oggi è il nemico del genere umano, e Israele lo sa bene, mentre molti stentano ad acquisire questa elementare nozione.

(il Giornale, 23 dicembre 2015)


Tra i curdi alla diga di Mosul: «Italiani? Siete benvenuti ma mandateci più armi»

di Lorenzo Cremonesi

Quest'anno l'lsis avrebbe perso il 14% dei territori che controllava nel 2014
Alta 131 metri e lunga 3,2 km, la diga di Mosul crea il più grande serbatolo artificiale dell'Iraq, con una capacità di 8 milioni di metri cubi e fonte di elettricità per 1,7 milioni di persone. Inaugurata nel 1983 sotto Saddam Hussein, è seriamente danneggiala. Se cedesse, Bagdad verrebbe dìstrutta.
Arrivando alla diga è impossibile non restare impressionati da quanto vicine siano le prime linee dei peshmerga e la terra di nessuno ove opera l'Isis. Ci sono lunghi tratti di strada, almeno quattro o cinque chilometri, dove la barriera di terra smossa dai bulldozer con davanti le trincee fatte per fermare i mezzi jihadisti corrono parallele a solo una cinquantina di metri dal nastro d'asfalto. Le postazioni curde sono piccole roccaforti circondate da muri di cemento poste sulle alture più prominenti. Arrivando in prossimità dei punti delicati gli autisti schiacciano sull'acceleratore e i soldati di scorta guardano nervosi verso sud.
   Così avveniva anche ieri pomeriggio sul tardi, quando siamo giunti ai larghi bastioni della diga. Alla luce ambrata del tramonto le prime lampadine stavano accendendosi nei villaggi sunniti ben visibili tra il paesaggio collinoso e dolce che permette allo sguardo di spaziare lontano. Alcuni sono posti solo quattro a cinque chilometri dalla strada. «I villaggi sono punti pericolosi. Si chiamano Aski Mosul, Tel Zaab, Sdhelich, Hadhemi, Masraj, Tanniah. La loro popolazione sostiene in massa l'Isis, nasconde i terroristi, li aiuta a occultare armi, munizioni e mine. Per questo motivo abbiamo dovuto ridurre in macerie i più militanti. Non avevamo alternative se volevamo assicurarci il controllo della diga», spiegano gli accompagnatori peshmerga. Parole confermate dal paesaggio. Già all'inizio del vasto bacino, dove il Tigri entra nel lago, le rovine di decine di abitazioni sono mute testimonianze delle battaglie dell'agosto 2014, quando l'Isis per alcuni giorni riuscì a prendere possesso dello sbarramento. Appena prima dei recinti che segnano la cittadella di tecnici e operai della centrale elettrica e degli impianti idrici, il villaggio di Semelhi è stato completamente raso al suolo. Le case minate una per una. Restano in piedi solo la moschea, un edificio adibito a pronto soccorso e la villona del capo degli Hadida. «Sono uno dei clan che con più forza aiuta Isis», dicono ancora i peshmerga, che ora usano l'edificio come caserma. La calma del lago, una trentina di anatre che giocano nell'acqua immobile, i tappeti di erba verde tutto attorno, sembrano rassicurare. Ma in lontananza, verso Mosul, si odono i rombi cupi dei bombardamenti americani. Le loro squadre speciali sono sul terreno assieme ai curdi con il compito specifico di fornire le coordinate delle postazioni Isis all'aviazione. E' appena stata colpita una base jihadista, che qui chiamano «la fabbrica delle medicine». Due colonne di fumo nero si stagliano nette all'orizzonte.
   Sulla diga il 41enne comandante delle Zerevani, le truppe speciali curde incaricate di difendere il sito, colonnello Adnan Osman Salah, ci accoglie con un grande sorriso. «Benvenuti gli italiani. Grazie per la vostra disponibilità ad effettuare i lavori di mantenimento della diga e grazie per l'offerta di mandare truppe. A dire il vero noi abbiamo più bisogno di armi tecnologicamente avanzate, munizioni e missili, che soldati. Ma saremo ben contenti di cooperare con qualsiasi forza militare straniera sia stata coordinata con il nostro governo di Erbil», dice. E non nasconde la portata della rinnovata tensione tra l'enclave curda e il governo centrale a Bagdad, questa volta provocata proprio dal progetto di arrivo del contingente italiano. I media iracheni segnalano che le autorità di Bagdad vorrebbero farne a meno. Lo avrebbe specificato anche il ministro delle Risorse Idriche, Mohsen al Shammari, all'ambasciatore italiano nella capitale. «I nostri soldati sono perfettamente in grado di garantire i vostri tecnici e operai civili», avrebbe detto. Per contro, Erbil sarebbe ben contenta di ricevere i soldati stranieri. In gioco torna il braccio di ferro tra il centralismo iracheno e le aspirazioni indipendentistiche curde, come è stato evidente anche per la recente vicenda del contingente di truppe turche a nord di Mosul, che ha causato una mini crisi tra Ankara e Bagdad.
   Parlando della logistica per accogliere gli italiani, il colonnello Salah pare propendere per la costruzione di una base di container nella zona della diga: «Qui è assolutamente sicuro. L'Isis si trova a 13 chilometri di distanza, non dispone di cannoni o mortai pesanti» spiega. E tuttavia non nasconde le grandi capacità combattenti dei jihadisti. «Sono ottimi soldati, non vanno mai sottovalutati. Pericolosissimi, pronti a morire, sanno adattarsi alle circostanze. I loro volontari arrivati dai conflitti in Cecenia, Afghanistan, Africa e Medio Oriente combinano le loro esperienze in una macchina militare ben oliata. Ma noi ora conosciamo le loro tattiche. La copertura aerea alleata è di grande aiuto. Li stiamo battendo».

(Corriere della Sera, 23 dicembre 2015)


Un'opportunità importante e un'occasione da non trascurare

Comunicato EDIPI

 
Sono ormai più di ventanni che le visite sistematiche effettuate con mia moglie Andie in Israele, mi hanno trasformato da semplice turista curioso ad appassionato sostenitore del ruolo biblico che Dio ha assegnato al popolo di Israele, fino a diventare dal 2003 il presidente di Evangelici d'Italia per Israele, forse più conosciuta come EDIPI.
  Tra gli scopi ed obbiettivi della nostra associazione vi è quello di dare un aiuto materiale e spirituale agli Ebrei. In tal senso vi segnalo questa iniziativa che il Governo israeliano ha attivato, in accordo al Governo italiano: una finestra di lavoro per assumere MANODOPERA EDILE ITALIANA per i prossimi 10 anni per un totale di 5.000 lavoratori.
  Le istituzioni israeliane, considerata l'affidabilità e il sostegno che abbiamo dimostrato nei loro confronti, ci hanno incaricato di promuovere questa richiesta prima di tutto nell'area evangelica di nostra appartenenza. In tal senso desidero sottolineare alcuni aspetti spirituali di questa iniziativa.
  E' un iniziativa che porta e riceve benedizioni (Gen 12:3 "Benedirò quelli che ti benedicono...e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra") e inoltre considerando la signoria del Signore su tutta la storia e parafrasando in qualche maniera il profeta Geremia: "Vedi, io ti stabilisco oggi sulle nazioni e sopra i regni, per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare" (Ger. 1:10), potremo considerare un forte richiamo agli italiani di "costruire Israele" dopo che gli italiani (i romani) del 135 D.C. hanno demolito, distrutto e abbattuto Israele.
  La Chiesa italiana riceverà grandi benedizioni spirituali nella consapevolezza che "... ciò che è spirituale non viene prima; ma prima ciò che è naturale; poi viene ciò che è spirituale" (1 Cor.15:46).

 Un'opportunità di lavoro retribuito ... costruendo Israele!
  Si tratta di una richiesta di aiuto del popolo di Israele ma anche di un'importante occasione per i lavoratori italiani, in particolare del settore edile, vessati da una crisi ormai cronica o sottoposti a lavori avventizi e frequentemente irregolari.
  L'allegato depliant oltre alle note informative chiarisce alcuni aspetti relativi all'arruolamento aperto ad un'ampia tipologia di qualifiche lavorative.
  Shalom
  Ivan Basan

Locandina

(EDIPI, 23 dicembre 2015)


Israele e Russia confermano dialogo e cooperazione militare nella lotta contro il terrorismo

MOSCA - Israele e Russia continueranno a proseguire il dialogo e la cooperazione militare nella lotta contro il terrorismo e le altre crisi presenti nella regione del Medio Oriente. È quanto emerge da una conversazione telefonica avvenuta oggi fra il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e il presidente Vladimir Putin, secondo quanto riferisce un comunicato del Cremlino. Il colloquio fra i due leader giunge a pochi giorni dall'uccisione in Siria di Samir Kuntar, uno dei leader del movimento sciita libanese Hezbollah, morto in un presunto attacco aereo dell'aviazione israeliana su Damasco, e durante la visita in Israele del presidente ucraino Petro Poroshenko. Nella nota la presidenza russa sottolinea che Putin ha precisato come non vi sia alcuna alternativa ad una negoziazione fra le varie fazioni siriane sotto l'egida delle Nazioni Unite per porre fine al conflitto. Il presidente russo ha inoltre ribadito la necessità di proseguire la lotta contro lo Stato islamico e altri gruppi estremisti attivi nel paese.

(Agenzia Nova, 23 dicembre 2015)


Attacco di estremisti ebrei a una casa palestinese

Netanyahu: no a qualsiasi tipo di terrorismo.

Candelotti lacrimogeni sono stati lanciati dentro una casa del villaggio palestinese di Beitilu vicino Ramallah. Lo dice la polizia israeliana che definisce l'atto "un crimine nazionalistico ebraico". All'interno dell'abitazione c'era una coppia di coniugi palestinesi con un bebe', rimasti indenni.
Secondo la polizia israeliana, l'attacco e' avvenuto verso le 3 di mattina, quando la famiglia palestinese era immersa nel sonno. I membri della famiglia sono riusciti a mettersi in salvo. Su un muro esterno è stata trovata una scritta in ebraico: "Vendetta. Saluti dai Prigionieri di Sion". Si tratta di un riferimento ad alcuni estremisti di destra che da settimane sono oggetto di serrati interrogatori dello Shin Bet perché sospettati di essere coinvolti nell'attacco ad un'altra casa, a Duma, nel cui incendio morirono a luglio una coppia di palestinesi e un loro figlioletto.
Negli ultimi giorni gruppi di estrema destra sono stati protagonisti di dimostrazioni violente a Gerusalemme e di scontri con la polizia. Fra l'altro hanno cercato di dare l'assalto alla casa del capo dello Shin Bet, Yoram Cohen, e hanno minacciato un giudice che e' adesso protetto da una scorta dei servizi segreti.
"Non possiamo accettare il terrorismo da qualsiasi parte arrivi". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu riferendosi all'attacco. "C'è un terrorismo arabo che combattiamo, ma con mio sconforto a volte ci sono attacchi terroristici di ebrei e i nostri servizi operano anche contro di loro".

(ANSA, 22 dicembre 2015)


Rav Laras: "Il Collegio rabbinico italiano sia presente anche in Israele"

Una lettera aperta diffusa nelle scorse ore a firma del rabbino milanese Giuseppe Laras e diretta alle istituzioni ebraiche prende spunto dalla ricorrenza del 10 di Tevèt, in cui si ricorda l'assedio babilonese di Gerusalemme e dopo la Seconda guerra mondiale anche le vittime della Shoah, per mettere in evidenza alcuni problemi.
Il rabbino traccia un quadro piuttosto negativo del recente passato e manifesta preoccupazione a fronte dell'attuale situazione. Tra i punti toccati nella lettera la scelta di molti giovani ebrei italiani di emigrare, in particolare in Israele e qui, a suo dire, vi potrebbe essere una delle chiavi per affrontare il futuro. La lettera si rivolge poi al mondo rabbinico italiano, auspicando la creazione di un ponte tra Italia e Israele, verso cui nel corso degli anni è aumentata l'aliyah degli ebrei italiani, sul fronte dello studio della tradizione. "Occorre, poi, in particolare, e lo scrivo con emozione, - si legge nella lettera - che il nostro glorioso Collegio Rabbinico Italiano, in qualche modo apra finalmente i suoi battenti anche in Israele. Se vi sono, come vi sono, molte migliaia di ebrei italiani in Israele è giusto e doveroso che la Torah degli ebrei di Italia - la nostra tradizione interpretativa e halakhica - parli loro in ebraico oggi, così che si possa restituire all'ebraismo mondiale - questa la grande sfida e la grande ambizione - la straordinaria e preziosa avventura di emunah e di chochmah dell'ebraismo italiano nei vari ambiti in cui esso si è espresso; che non siano unicamente i libri a parlare, ma gli ebrei italiani oggi e domani viventi".

(moked, 22 dicembre 2015)



Di questa lettera il sito ebraico Kolòt ha pubblicato un estratto che qui riportiamo.

Rav Laras: "Vogliono rabbini addomesticati e ricattabili"

… Proprio in relazione all'ebraismo italiano, mi permetto, spinto da tormenti, silenzi e riflessioni, di inviarVi queste mie considerazioni, chiedendoVi di leggerle e meditarle, riprendendo e sviluppando quanto scrissi a Rosh ha-Shanah.
  Come già feci presente, la nostra Golah italiana, dopo un cammino glorioso e faticoso, sembra destinata rapidamente a ridimensionarsi, prendendo un assetto per lo più inedito. Molte nostre piccole e medie Comunità nei prossimi decenni, ma in alcuni casi anche ben prima, andranno cioè dissolvendosi.
  Che ci piaccia o no, sappiamo tutti che la natalità è tristemente bassa; che il rovinoso dramma dei matrimoni misti, assieme a tutto ciò che ne consegue, ha decimato le nostre Comunità; che l'età media è sempre più alta. Purtroppo non si tratta di cupi spettri, ma di solide realtà. In molte ns. kehilloth, c'è sì un presente ebraico -talora solo "formalmente" ebraico-, ove osservanza, studio della Torah e identità ebraica sono labili, ma è spesso difficile scorgere un futuro concreto, in alcuni casi comunitari anche abbastanza prossimo.
  Tutto questo esiste e troppo raramente ci riflettiamo, lo portiamo a parola, lo affrontiamo. Questo assordante silenzio sul reale, la cui sola "lettura" spesso ci rifiutiamo di fare e di assumere proprio noi che abbiamo avuto o abbiamo responsabilità per gli ebrei di Italia e per il futuro dell'ebraismo italiano, ha reso sempre più macroscopico il problema, fugando, oltre all'analisi, molte possibilità di cura o, se non altro, di efficace manovra.
  Il motivo di questo silenzio lo conosco bene e intimamente ed è, nella maggior parte dei casi, duplice e con le sue ragioni: fa male leggere questa realtà e si ha paura di deprimere ancora di più quegli animi che, invece, si vorrebbero rinfrancare.
  Per supplire a tutto ciò e per sublimarlo, abbiamo dato sfogo a diverse "narrazioni identitarie" dell'ebraismo, dirette per lo più al mondo non ebraico circostante e quindi, almeno in parte, "deformate" rispetto al reale.
  Ci siamo così riempiti la bocca di "cultura ebraica", quasi mai di Torah o di Popolo Ebraico o di Terra di Israele (in questi due ultimi casi spesso con disastrose titubanze e con timori di ottocentesca memoria). In larga misura era un iter inevitabile, insufficiente a contrastare la consunzione e l'assimilazione di molte antiche e gloriose Comunità italiane.
  Molte responsabilità sono da attribuirsi spesso a consigli freddamente laici e impreparati - talvolta politicamente orientati -, che per decenni hanno governato e rappresentato noi tutti. Molte responsabilità sono da imputarsi anche ai rabbini - tuttavia non perché, come alcuni stoltamente vogliono far credere, si tratti di rabbini ortodossi! Anzi, questo fatto è stato una delle poche e (seppur difficili) migliori ancore di salvezza -.
  Credo che molta gratitudine debba comunque essere espressa ai rabbini italiani, i quali, pur con tutti i loro molti limiti, scelgono spesso di vivere, servendole, in piccole e medie Comunità invecchiate e agonizzanti, in cui i pochi giovani si allontanano assimilandosi o - quando va bene! - emigrando, in cui lo studio e le possibilità stesse di insegnamento languiscono.
  Questa è vita rabbinica "di frontiera", appesantita dall'essere destinata all'incomprensione da parte di taluni sterili ed esasperanti "religiosi con la penna rossa" come pure da parte di molti, troppi, anacronistici "ebrei laici", ideologicamente infastiditi dalle richieste e dai "no" dei rabbini, che si vorrebbero peraltro oggi addomesticati ad hoc con contratti che li rendano "dipendenti" e ricattabili nelle loro decisioni quando necessariamente scomode e sofferte. [in risalto nell'estratto]
  Pur con tutti i nostri limiti, noi rabbini siamo gli unici che abbiamo ben chiaro, vivendolo ogni giorno sulla pelle nostra e delle nostre famiglie, il polso dell'ebraismo italiano contemporaneo.
  Tutto questo è oggi il nostro 10 di Tevét, inclusa, come già scrissi, la indebita riduzione dell'ebraismo italiano a "shoaismo" e a presenzialismo a pubbliche cerimonie di varia natura da parte di alcuni di noi. E l'antisemitismo è montante…

(Kolòt, 22 dicembre 2015)


Da quello che si può capire dal di fuori, sembrerebbe che anche nel mondo ebraico si voglia far entrare la flessibilità. M.C.


La tv di Abu Mazen ai bambini palestinesi: "Tutto Israele è terra nostra, e cesserà di esistere"

Come indottrinare un'intera generazione all'odio irredentista anziché alla coesistenza pacifica.

In due recenti trasmissioni indirizzate ai bambini palestinesi, la tv ufficiale dell'Autorità Palestinese ha ribadito il messaggio secondo cui l'esistenza di Israele è solo temporanea e prima o poi lo stato ebraico cesserà di esistere.
La conduttrice del programma ha affermato esplicitamente che il territorio di Israele è "tutto nostro" e "tornerà a noi". La conduttrice ha anche spiegato che città israeliane come Haifa, Giaffa, Acco e Nazareth sorgono nelle "terre del '48?, il termine con cui i palestinesi si riferiscono a tutto il territorio israeliano. In perfetta coerenza con la politica di indottrinamento dell'Autorità Palestinese, la conduttrice ha poi insegnato a un ragazzino presente in studio che "queste nozioni devono essere sempre dentro di noi"....

(israele.net, 22 dicembre 2015)


La Russia potrebbe aprire all'Iran un credito da 5 miliardi di dollari

L'anno prossimo la Russia potrebbe aprire all'Iran un credito da 5 miliardi di dollari per finanziare le esportazioni, ha detto ai giornalisti il ministro dell'Industria e del Commercio russo Denis Manturov.

"Si tratta di un credito interstatale che naturalmente dovrà essere garantito dal governo iraniano… Se nel primo trimestre del nuovo anno riusciamo a concordare tutte le formalità, già l'anno prossimo il progetto potrebbe essere realizzato", — riferisce le parole di Manturov l'agenzia RIA Novosti.
Gli accordi preliminari per la concessione del credito da 5 miliardi di dollari erano stati firmati in novembre durante la visita in Iran del presidente russo Vladimir Putin.
Secondo il ministro Manturov, con il credito saranno finanziati alcuni progetti delle aziende russe in Iran, in particolare la costruzione di ferrovie e di centrali elettriche.

(Sputnik News, 22 dicembre 2015)

*

Mosca avvia la costruzione di due reattori nucleari in Iran

L'annuncio arriva dall'organizzazione iraniana dell'energia atomica ricordando che la Russia ha già realizzato una centrale da 1.000 megawatts a Bouchehr. Putin cerca di giocare un ruolo di sempre maggior spicco nella politica internazionale.

MILANO - La prossima settimana la Russia avvierà la costruzioni di due nuovi reattori nucleari in Iran. Lo ha annunciato direttamente l'organizzazione iraniana dell'energia atomica ricordando che Mosca ha già realizzato una centrale da 1.000 megawatts a Bouchehr. L'accordo per i lavori è stato raggiunto lo scorso anno, proprio mentre le trattive tra Terehan e il resto del mondo sul nucleare erano in stallo. Certo, poi, è arrivata l'intesa dello scorsa estate, ma resta la sensazione che Mosca giochi una partita parallela per esportare il suo nucleare nel resto del mondo.
   L'intesa prevedeva di costruire una prima centrale, lasciando spazio all'eventualità di aumentarli in seguito a quattro. Solo che - almeno per il momento - i tempi non sono per nulla chiari: Mosca, però, ha intenzione di realizzare almeno 8 reattori nucleari in Iran. La realizzazione avverrebbe sotto la stretta osservazione e i rigidi controlli della Aiea, l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, sottoponendosi quindi a tutte le misure volte a contrastare la proliferazione delle armi nucleari.
   Di certo il presidente russo Vladimir Putin vuole giocare un ruolo di primo piano nella politica internazionale: d'altra parte i movimenti ai confini europei - dall'annessione della Crimea al conflitto nel Donbass alla crescente attività militare nel Baltico - vanno di pari passo con i viaggi che lo hanno portato dal Sudamerica al Medio Oriente. Fino alla presa di posizione a difesa della Siria dalla Turchia nella guerra all'Isis, con un'escalation di tensioni che ha portato all'abbattimento di un jet russo che aveva superato i confini turchi.
   Insomma, se da un lato la Russia mostra i muscoli, dall'altro si impegna a promuovere la sua tecnologia e il know-how nucleare. Da alcuni anni, infatti, Mosca è impegnata a promuovere l'atomo in giro per il mondo, anche in luoghi che finora ne hanno avuto scarsa o nulla esperienza. E attraverso ingenti investimenti Putin cerca di "comprare" influenza a livello globale: "La Russia - si legge nel Rapporto sullo stato dell'industria nucleare mondiale del 2014 - sembra voler operare in mercati in cui nessun altro paese esportatore di tecnologia nucleare sarebbe in grado e offrire condizioni come partecipazioni finanziarie e di capitale che gli altri fornitori non possono eguagliare. Nonostante il grande numero teorico di potenziali mercati, la Russia ha reattori in costruzione solo in Russia, Cina e, a uno stadio iniziale, Bielorussia. Ci sono domande senza risposta su quanti reattori la Russia ha la capacità produttiva per consegnare, quanti finanziamenti sono disponibili, in particolare per i mercati molto rischiosi, e se il suo nuovo design soddisferebbe un'esperta autorità di regolazione in Europa".

(la Repubblica, 22 dicembre 2015)


Ex agente CIA: la Turchia è fuori controllo. Senso di impotenza degli Stati Uniti

Secondo l'ex agente della CIA, la decisione del ritiro dei caccia americani dalla Turchia significa che gli Stati Uniti cominciano a vivere una politica più prudente nei confronti di Ankara, che ancora una volta ha confermato i suoi legami con il gruppo terroristico del Daesh.

La decisione della US Air Force di ritirare i suoi 12 caccia F-15 dalla base aerea in Turchia è una reazione al fatto che le azioni di Ankara nella regione "sono incontrollabili", ha detto in un'intervista a RT l'ex funzionario della CIA Larry Johnson
"La Turchia, a mio avviso, è fuori controllo, e alcuni paesi sono disposti a metterla a posto," ha dichiarato Johnson.
   Il punto di vista dell'ex agente della CIA si basa sul fatto che Washington e Ankara hanno osservato differenze di interessi nella lotta contro il terrorismo, in particolare nei ricorsi degli Stati Uniti al governo turco "per lasciare i curdi in pace."
"I turchi stanno perseguendo i propri interessi, a prescindere dai desideri di Washington", ha detto Johnson.
   Inoltre, l'ex funzionario CIA, ha detto che la Turchia appoggia le azioni del Daesh, "accelerando il ritiro dei caccia americani, che sono in grado di fornire supporto aereo alle truppe di terra che combattono il Daesh".
   "Erdogan ha spinto la Turchia in un campo sunnita più radicale. Le élites della Turchia e dell'Arabia Saudita condividono i suoi obiettivi nel tentativo generale di contenere l'Iran. Hanno paura della diffusione dell'influenza dell'Iran, poichè l'Iran è un paese sciita, e l'influenza sciita si è diffusa in tutto il Medio Oriente," ha detto Johnson.
   Egli ritiene che "la Turchia non sente la necessità di prestare attenzione agli Stati Uniti", perché "l'amministrazione Obama è vista da molti nel mondo, e in particolare in Turchia, molto debole."
   Johnson ha aggiunto che il ritiro dei caccia statunitensi dal territorio turco può anche chiarire le conseguenze dell'incidente con il cacciabombardiere russo Su-24, che secondo l'ex agente della CIA è "una provocazione contro il popolo russo".

(Sputnik News, 22 dicembre 2015)


Israele uccide Kuntar perché stava aprendo "il fronte siriano"

Ieri un gruppo minore della ribellione siriana ha provato a intestarsi l'esplosione quadrupla che ha ucciso Samir Kuntar, un comandante militare del Partito di Dio libanese. Ieri lo stesso leader del partito di Dio, Sayyed Hassan Nasrallah, ha promesso vendetta contro Israele durante i funerali di Kuntar trasmessi in diretta tv.

di Daniele Raineri

ROMA - Ieri un gruppo minore della ribellione siriana ha provato a intestarsi l'esplosione quadrupla che ha ucciso Samir Kuntar, un comandante militare del Partito di Dio libanese, nella capitale siriana Damasco. Ma le immagini che arrivano da lì non lasciano dubbi, si è trattato di un attacco aereo, e ieri lo stesso leader del partito di Dio, Sayyed Hassan Nasrallah, ha promesso vendetta contro Israele durante i funerali di Kuntar trasmessi in diretta tv (anche se una nota dell'ucciso chiede, postuma: non vendicatemi subito, aspettate il momento giusto). Secondo fonti israeliane che parlano in via non ufficiale perché il governo non ha riconosciuto l'operazione, domenica prima dell'alba gli aerei hanno usato quattro bombe modificate con il sistema "Spice" per uccidere Kuntar. Il sistema prodotto dalla compagnia israeliana Rafael trasforma una bomba a caduta libera in un ordigno capace di planare anche per sessanta chilometri dopo essere stato sganciato ad alta quota, scivolando nell'aria sorretto da dodici alettoni, e di colpire il bersaglio grazie alle coordinate indicate via satellite. Questo vuol dire che gli aerei israeliani hanno colpito Jaramana, il sobborgo a maggioranza cristiana di Damasco dove si nascondeva Kuntar, senza entrare nello spazio aereo siriano, che da alcune settimane è sorvegliato da un sistema di difesa all'avanguardia, conosciuto con la sigla S-400 - portato dai russi a Latakia. Come scrive il New York Times, l'attacco "perfora quel senso di sicurezza" che a partire da settembre l'arrivo e gli aiuti militari dei russi hanno infuso nell'asse della Resistenza, ovvero in quel largo assembramento di gruppi stranieri che combatte in Siria a fianco del presidente Bashar el Assad, dal Partito di Dio alle milizie sciite irachene ai Guardiani della rivoluzione islamica dell'Iran.
  Gli analisti sono d'accordo sul motivo del raid aereo - vedi Daniel Nisman del Levantine Group, oppure Avi Issacharoff di Times of Israel: Samir Kuntar non è stato ucciso soltanto perché era un simbolo e perché era sulla lista dei bersagli israeliana da quando era stato liberato nel 2008, ma perché stava progettando attivamente attacchi sul fronte sud, sulle alture del Golan che confinano con Israele - senza nemmeno aspettare che la guerra nel resto della Siria imbocchi la strada di una soluzione. Barbara Opall-Rome, capo del bureau israeliano del sito Defense news, scrive: "Il bombardamento dell'aviazione israeliana contro Kuntar non è stata una rappresaglia, mi dice un ufficiale. Costituiva una minaccia chiara perché stava tentando di aprire un secondo fronte contro Israele in Siria" - secondo rispetto alla linea del confine tra Libano e Israele.
  Kuntar godeva di immenso carisma sulla scena della muqawama, che in arabo vuol dire Resistenza. Fu catturato nel 1979 dopo avere ucciso quasi tutta una famiglia israeliana inclusa una bambina di 4 anni, i dirottatori dell'Achille Lauro nel 1985 ebbero come obbiettivo il suo rilascio, anche il Partito di Dio nel 2006 fece scoppiare una guerra con Israele per liberarlo, e rapì due soldati israeliani con l'obbiettivo di scambiarli per riavere indietro Kuntar. Lui stava spendendo questo suo capitale carismatico per reclutare drusi vicino al confine e organizzare attacchi contro Israele. Per capire meglio il suo ruolo bisogna rivedere un rapporto scritto nel 2014 da Ehud Yaari, del think tank Washington Institute for the Middle East. Yaari rivela che il governo di Gerusalemme è impegnato a creare una "buffer zone", una zona cuscinetto, non ufficiale nel sud della Siria, a ridosso del confine e lo sta facendo coltivando i rapporti con gli interlocutori locali, che in maggioranza sono gruppi armati dell'Fsa, l'esercito libero che fa la guerra contro Assad. Per esempio, a volte apre il confine e offre cure mediche ai siriani coinvolti nella guerra. Kuntar aveva il compito di smontare questo cuscinetto e stava avendo successo: gli ultimi a tentare un attacco contro il confine israeliano sul Golan sono stati volontari drusi.

(Il Foglio, 22 dicembre 2015)


Quinto sottomarino Dolphin consegnato a Israele

È in grado di lanciare testate nucleari.

di Franco Iacch

 
Il sottomarino Rahav lascia il porto di Kiel in Germania diretto a Haifa
Il sottomarino classe Dolphin II, il "Rahav", dopo aver completato le prove nel Mar Baltico e nel Mare del Nord, ha lasciato il cantiere Thyssen-Krupp Marine Systems (TKMS) a Kiel, in Germania ed entrerà in servizio con la Marina israeliana entro gennaio.
   I nuovi sottomarini classe Dolphin II sono molto più moderni ed il 28% più grandi dei Dolphin I. Israele ha già in servizio il primo sottomarino Dolphin II, il "Tanin", operativo ad Haifa con lo 'Shayetet 7', flottiglia dell'IDF composta esclusivamente da sottomarini.
   La linea Dolphin, pesante il doppio della classe "Gal" che sostituisce, è ritenuta una delle più avanzate al mondo. Il "Tanin" (coccodrillo) ed il "Rahav" (Demone) sono stati acquistati dalla Germania nel 2012.
   "I sottomarini forniscono un vantaggio fondamentale nelle operazioni top-secret per infiltrare ed esfiltrare elementi dei reparti speciali. Il sommergibile è un ottimo strumento di spionaggio, ma se scoppiasse una guerra, diverrebbe la principale piattaforma d'attacco contro il nemico che non conoscerebbe mai la sua posizione". Usarono queste parole dall'esercito israeliano, nel presentare, due anni fa, i nuovi sottomarini classe Dolphin II.
   E' opinione comune che Israele, con la nuova classe Dolphin II, si sia dotata dei migliori sommergibili convenzionali al mondo. Il sesto ed ultimo sottomarino classe Dolphin dovrebbe diventare operativo nel 2019. E' risaputo che tutti i Dolphin hanno la capacità di imbarcare testate nucleari. La classe "Dolphin" infatti, ha conferito ad Israele capacità di "First strike" (attacco nucleare preventivo) e "Second strike" (capacità di risposta nucleare ad un attacco preventivo del nemico).
   Ovunque ed in ogni momento - hanno sempre affermato da Israele nel loro tipico stile - ci potrebbe essere un nostro sottomarino pronto a far fuoco.
   I Dolphin II, dietro esplicita richiesta del governo israeliano, sono stati dotati della propulsione indipendente dall'aria o AIP. I sistemi AIP consentono al sottomarino non nucleare di operare senza l'utilizzo dell'aria esterna. Mentre per il reattore di un sottomarino nucleare si deve pompare continuamente liquido di raffreddamento, generando una certa quantità di rumore rilevabile, i battelli non nucleari alimentati a batteria con sistema AIP, navigherebbero in silenzio. Un sottomarino propulso con sistema AIP, potrebbe operare per missioni di pattugliamento o deterrenza per 30/40 giorni.
   Gli Stati Uniti, dopo alcuni esperimenti, hanno deciso di continuare con la propulsione nucleare. Nonostante alcune specifiche siano note, altre sono coperte da segreto militare.
   Secondo alcuni rapporti, i Dolphin disporrebbero di dieci tubi lanciasiluri: sei da 533 millimetri e quattro da 650 millimetri. Una scelta, quest'ultima, che se venisse confermata rappresenterebbe un unicum nel panorama occidentale. Soltanto la marina sovietica si era dotata di siluri pesanti che richiedevano tubi da 650 millimetri. Appare evidente che quei tubi da 650 millimetri sono stati pensati per lanciare missili da crociera. Sappiamo che gli israeliani hanno sviluppato il missile "Popeye Turbo" in grado di colpire un bersaglio a 1600 km di distanza con una testata nucleare da 200/250 Kilotoni.
   Il concetto di ridondanza israeliano si basa due sottomarini in servizio deterrente a copertura di possibili bersagli: uno nel Mar Rosso ed uno nel Golfo Persico. Un terzo è sempre in stand-by. La loro profondità operativa dichiarata si attesta sui 200 metri ad una velocità massima di 25 nodi (solo per i Dolphin II). Ogni Dolphin ha un costo di 650 milioni di euro. Berlino ha interamente coperto i costi di costruzione per i primi due sottomarini classe Dolphin I: il capofila Dolphin ed il Leviathan. La Germania ha poi coperto anche un terzo dei costi per altri tre sottomarini: il Tekumah ed i nuovi Dolphin II, il Tanin (foto) ed il Rahav. Il sesto sottomarino, infine, costerà ai contribuenti tedeschi 135 milioni di euro.
   La linea Dolphin sostituisce la precedente classe Gal (formata da tre sottomarini), costruita nel 1970 presso il cantiere Vickers, in Gran Bretagna, sulla base dei progetti tedeschi '206'. Ad oggi soltanto un "Gal" rimane in riserva. Sarà demolito entro i prossimi due anni così come avvenuto per l'intera classe.

(Difesa Online, 21 dicembre 2015)


Lamento per un mondo arabo malato

La cultura araba dell'odio va ben oltre la società palestinese, e non è causata da Israele.

Fred Maroun, autore di questo articolo, è cittadino canadese di origine araba, vissuto in Libano fino al 1984 anche durante gli anni di guerra civile. Maroun sostiene il diritto di Israele ad esistere come stato ebraico, propugna un Medio Oriente liberale e democratico dove possano coesistere tutte le religioni e le nazionalità, palestinesi inclusi, in pace fra loro e con Israele, e dove siano rispettati i diritti umani. Si definisce ateo, liberale sociale e sostenitore della parità di diritti per le persone LGBT in tutto il mondo.
Samir Kuntar era libanese, come me. E' un fatto disgustoso, ma è un dato di fatto. E' disgustoso non solo perché si trattatava di un criminale ripugnante. Dopo tutto, ogni paese ha i suoi criminali ripugnanti. E' disgustoso che al momento della sua scarcerazione dalla detenzione in Israele sia stato accolto in Libano come un eroe, e un anno dopo in Siria gli sia stata conferita la più alta onorificenza al merito.
Quando faccio notare la cultura dell'odio che imperversa tra i palestinesi, mi viene detto che è causata della "occupazione", qualunque cosa cio' significhi. Str…ate! La cultura araba dell'odio va ben oltre la società palestinese, e non è causata da una qualunque delle azioni di Israele. Essa consiste nell'idolatrare volgari delinquenti e nell'odiare a morte il "nemico", che si tratti di ebrei, di alcune sette religiose cristiane o musulmane, o di qualche tribù diversa dalla propria. Israele non è il problema. Israele è la scusa....

(israele.net, 22 dicembre 2015)


Kenya - Musulmani fanno da scudo ai cristiani sul bus

Sventato un assalto jihadista. "Liberateci o ammazzateci tutti, cristiani e musulmani".

di Lorenzo Simoncelli

«Amazzateci tutti musulmani e cristiani, oppure lasciateli andare». Con questo gesto di estremo coraggio e lucida follia un gruppo di kenioti musulmani ha evitato l'ennesima carneficina di civili cristiani ad opera del gruppo jihadista somalo Al Shabaab.
   La comitiva si trovava a bordo di un autobus nei pressi di El Wak, Nord del Kenya, a pochi chilometri dal confine con la Somalia, quando i guerriglieri hanno assaltato l'automezzo e hanno intimato ai passeggeri di scendere. Cristiani da una parte, musulmani dall'altra, in un rituale diventato ormai tragicamente comune in questa parte d'Africa. Inginocchiati, con un mitra alla nuca e ormai rassegnati alla morte, i kenioti cristiani, che stavano tornando a casa da Nairobi per celebrare il Natale, sono stati miracolosamente graziati dalla reazione inattesa dei connazionali musulmani, che si sono frapposti tra loro e i terroristi come scudi umani. Un gesto che ha messo in fuga i guerriglieri, basiti e frustrati da tanto coraggio. Durante l'assalto, in preda al panico, due kenioti, la cui confessione religiosa è ignota, hanno provato a scappare e sono stati uccisi. L'autista e altri due passeggeri sono stati feriti, ma non sembrano in pericolo di vita.
   Una reazione estrema che dimostra come la popolazione del Nord del Kenya, prevalentemente musulmana e di origini somale, sia esausta dei ripetuti attacchi delle milizie jihadiste di Al Shabaab che stanno mettendo in fuga cristiani e non dall'arida e povera regione settentrionale del Paese.
   Nel 2015, proprio a seguito di un'esecuzione a opera del gruppo fondamentalista islamico in cui erano stati divisi i cristiani dai musulmani, più di duemila persone tra maestri di scuola e operatori sanitari, anche occidentali, hanno deciso di abbandonare l'area per motivi di sicurezza. Un episodio identico, e con un finale ben più drammatico, si era verificato un anno fa, quando 36 cristiani kenioti, sempre a bordo di un pullman di ritorno per le festività natalizie, erano stati sequestrati dalle milizie somale. Non essendo in grado di recitare i versetti del Corano furono trucidati sul posto. E di otto mesi fa il dramma del campus dell'Università di Garissa: terroristi somali uccidero 147 ragazzi «colpevoli» di professare una fede differente da quella dei jihadisti.
   Secondo i servizi di intelligence kenioti, nelle ultime tre settimane almeno 200 terroristi sarebbero entrati nel Paese. Un ulteriore incentivo al progetto del Presidente Kenyatta di realizzare un muro lungo tutto il confme tra Kenya e Somalia per provare ad arginare la minaccia terroristica.

(La Stampa, 22 dicembre 2015)


Il parlamento greco approva una risoluzione per il riconoscimento della Palestina

Il parlamento di Atene ha approvato una risoluzione che chiede al governo di riconoscere lo Stato palestinese, nel corso di una sessione speciale alla presenza del presidente palestinese Abu Mazen, in visita ufficiale nella capitale greca. Il riconoscimento ufficiale spetta al Governo.

Il Parlamento greco ha approvato all'unanimità una risoluzione a favore del riconoscimetno ufficiale dello Stato di Palestina. Il voto si è svolto alla presenza del presidente palestinese Mahmoud Abbas, in visita ufficiale in Grecia. Poco prima dell'approvazione, Abbas ha ringraziato per "il grande passo fatto dal Parlamento" con questa risoluzione, in un giorno che "passerà alla storia".
   Tutti i partiti hanno votato a favore del testo, che chiede all'esecutivo di "promuovere i procedimenti adeguati per il riconoscimento di uno stato palestinese e ogni sforzo diplomatico per la ripresa dei negoziati di pace" nella regione, ha indicato il presidente del Parlamento Nikos Voutsis.
   Per Tassos Kourakis, vice presidente del Parlamento, questo voto costituisce un "passo importante verso il riconoscimento di uno Stato palestinese". Abu Mazen si è detto "fiero di trovarsi nel parlamento greco, il 'santuario' della democrazia", e ha ringraziato i deputati greci per questo voto.
   L'approvazione del Parlamento è simbolica, perché il riconoscimento ufficiale spetta al governo. La risoluzione constata con preoccupazione l'interruzione del processo di pace tra palestinesi e Israele, l'aumento della violenza e le attività dei coloni israeliani. Quindi chiede all'esecutivo di riconoscere lo Stato e di agire per ridare spinta ai negoziati di pace.

(RaiNews, 22 dicembre 2015)

*


Lubiana non seguirà Atene sul riconoscimento della Palestina

LUBIANA - La Slovenia non sta pianificando di unirsi alla Grecia per quanto riguarda il riconoscimento dello stato indipendente della Palestina. Lo ha affermato oggi il ministro degli Esteri sloveno, Karl Erjavec, secondo cui "non vi è possibilità" che ciò accada in Slovenia, almeno per il momento. Il parlamento greco ha in programma per domani un dibattito per approvare il riconoscimento della Palestina, come stato indipendente.

(Agenzia Nova, 21 dicembre 2015)


La Slovenia boccia le nozze gay (tutti zitti)

Il referendum irlandese fu un caso mediatico, ora la notizia è censurata.

Il 22 maggio scorso i cittadini irlandesi hanno approvato con il 62 per cento dei voti il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Era la prima volta in un paese di tradizione cattolica, era la prima volta in cui uno stato approvava le nozze gay attraverso un referendum popolare. Non era certo la notizia a mancare. Infatti per giorni e giorni sui principali giornali mondiali, sulle tv e nei social media dominarono le informazioni, e soprattutto i festeggiamenti per l'avvenuta svolta civile e antropologica della ex cattolica Irlanda. Bene. Domenica 20 dicembre, in Slovenia, un analogo referendum abrogativo ha bocciato con un altrettanto sonoro 63 per cento la legge che nel marzo scorso aveva equiparato il matrimonio omosessuale a quello eterosessuale, consentendo anche l'adozione di bambini.
   Ora, come sulla Settimana enigmistica, trovate la differenza. La differenza balza agli occhi, ed è questa: il vergognoso silenziatore - giusto la notizia in cronaca - imposto dalle maggiori testate italiane e internazionali a un avvenimento che ha una portata socio-culturale non trascurabile (anche il piccolo paese della ex Yugoslavia, come l'Irlanda, è a maggioranza cattolica). Ma l'eccezionalismo culturale di un piccolo paese che allo Zeitgeist omossessualista si oppone, è evidentemente un fatto da censurare. Un blogger italiano, ospitato da un giornale di forti pulsioni populiste, è riuscito a scrivere: "Sappiamo benissimo che l'astensionismo premia le peggiori pulsioni di un paese". Una bella idea della democrazia, chapeau. Ci sarebbe da dire che anche altri paesi di "nuova democrazia" come la Croazia e la Slovacchia hanno recentemente scritto in Costituzione che il matrimonio è l'unione di un uomo e di una donna. Ma che importa, farlo sapere?

(Il Foglio, 21 dicembre 2015)


Industria 4.0 a rischio senza cyber-security

L'allarme di Isaac Ben Israel, fra i massimi esperti mondiali di sicurezza informatica: "Chip disseminati ovunque, potenziale di pericolo ai massimi livelli. I governi sviluppino strategie di difesa".

di Mila Fiordalisi

Isaac Ben Israel
"In passato i cyber-attacchi sono stati diretti principalmente contro informazioni archiviate nei computer - si pensi ai dati delle carte di credito ma anche a interruzioni di servizi online o di operatività e a operazioni di spionaggio. Ora però i chip ormai sono embedded ovunque e ciò rende violabile un numero di dispositivi, reti e siti sempre più ampio, inclusi quelli vitali come ad esempio ospedali, aerei e anche impianti di produzione dell'energia". È quanto sottolinea il professori Isaac Ben Israel a capo del Blavtnik Interdisciplinary Cyber Research Center dell'Università di Tel Aviv.

- Lo scenario sta dunque cambiando, cosa bisogna aspettarsi?
  
E' lecito aspettarsi che in futuro i cyber-attacchi siano sempre più indirizzati verso infrastrutture critiche e che causino danni fisici come non mai. Ad esempio, è potenzialmente possibile hackerare il computer di bordo di un aereo e distruggerlo.

- Cosa cercano gli hacker?
  
Ci sono diversi tipi di hacker e quindi differenti obiettivi. Alcuni agiscono con scopi assolutamente criminali, alcuni sono mossi dall'ideologia, altri ancora lavorano per gruppi terroristi e altri sono coinvolti in attività di spionaggio nell'ambito di operazioni di criminalità ma anche di intelligence. Ad ogni modo tutti gli hacker sono a caccia di "back-door", falle nei programmi che possono esporre i computer a cyberattiacchi.

- C'è un "modello" a cui ispirarsi per evitare al meglio i cyber-attacchi?
  
Il cyber-dominio è un fenomeno relativamente nuovo e non c'è stata abbastanza esperienza per definire un modello ideale, un modello di difesa valido universalmente. Ciascun paese necessita di trovare una soluzione, una soluzione adatta alla propria specifica situazione fino a che non emerga una best practice da poter essere presa come un esempio.

- Internet of things, Industria 4.0, big data: cosa succederà? Come si possono mettere in sicurezza i dati?
  Tutte queste meravigliose visioni nell'utilizzare i computer nell'Internet delle cose, le smart city, l'l'industria 4.0 eccetera, non potranno essere realizzate senza un sufficiente livello di cyber- sicurezza. La cyber security di fatto può essere considerata oggi una sorta di enabler. In un mondo completamente computerizzato e connesso tutti sono potenzialmente in grado di danneggiare la società.

- In Israele ci sono specifici progetti per contrastare il cybercrime?
  
Si, naturalmente. Israele è stato uno dei primi paesi al mondo a comprendere il potenziale del dominio del cyberworld. Ad esempio per le infrastrutture critiche in Israele - incluse quelle civili - sono protette dal governo dal 2002. Israele ha sviluppato un ecosistema dinamico per fronteggiare le cyber-questioni e una grossa parte delle attività consiste oggi nello sviluppare nuovi modi di contrastare le minacce informatiche. Israele ha una quota del 10% del cyber-mercato mondiale di prodotti e servizi.

- Crede che i governi debbano cooperare per garantire maggiore sicurezza a livello globale?
  
Si, naturalmente. I cyber-attacchi non hanno confini geografici e solitamente un malware si sviluppa dall'origine alla vittima attraversando una serie di computer e server in paesi differenti. È questa la caratteristica degli attacchi. E quindi la cooperazione internazionale è essenziale.

- Chi sono i nuovi cyber-criminali? È possibile una sorta di identikit?
  
Sì è possibile. I big data aiutano a identificare anomalie ovunque. Ad esempio è possibile monitorare l'intera rete per scovare comportamenti sospetti. Ed è un modo per tracciare i criminali.

- (Corriere Comunicazioni, 21 dicembre 2015)


«La lista degli ebrei su Radio islam è pericolosa»

L'ex direttore del Corsera, Paolo Mieli: «Non sono tecnicamente ebreo ma mi ci sento al 100% davanti alla sfida. In Italia sottovalutano l'antisemitismo».

di Luca Telese

Paolo Mieli
- Direttore, sei finito nella più pasticciata delle liste di proscrizione.
  «(Silenzio). Purtroppo non è la prima volta».

- Il sito di Radio Islam ti annovera tra i referenti della grande lobby ebraica di pressione sull'informazione italiana: terminologia e modalità da Terzo Reich dei poveri ...
  «Lo so. C'è un preoccupante ritorno di un sentimento terribile e antico, ammantato in nuovi panni».

- Insieme al tuo in questo elenco compaiono nomi disparati, associati in modo non chiaro.
  «Che la lista sia pasticciata è indubbio. Che i nomi siano citati a vanvera non mi sembra, anzi. Che questa cosa non vada sottovalutata è altrettanto indubbio. Se accetto l'intervista proverò a spiegarti perché».

- Non è la prima volta che finisci nel mirino.
  «Nel 2003, quando per pochi giorni venni nominato presidente, coprirono di scritte antisemite la sede della Rai»,

- Non si sono più fermati?
  «Dal 2008 il nome di altri colleghi, e il mio, venivano citati in un'unica lista, che ripetutamente appariva in diversi siti neonazisti...».

- Inquietante.
  «All'inizio, ogni volta che accadeva, ero convocato dalla polizia per sporgere denuncia. Ma ormai è accaduto così tante volte che non faccio più neanche questo…»,

- Pensi che sia meno pericoloso?
  «Non lo so e non voglio dare a ignoti persecutori la soddisfazione di preoccuparmi. Ma la prima volta che questa lista, integrata con una logica che proverò a spiegarti, appare in un sito di ispirazione filo-jihadista».

- Brutto segnale.
  «Brunissimo. II fatto che ci siano persone nemmeno lontanamente di origine ebraica rende il fatto ancora più inquietante».

Paolo Mieli è uno dei giornalisti italiani più noti: ha 66 anni, ha diretto Stampa e Corriere della Sera (due volte). È presidente della Rcs libri. Ha appena pubblicato un saggio, L'arma della memoria (sottotitolo: «Contro la reinvenzione del passato», Rizzali), questo colloquio potrebbe diventarne una appendice. Molesto Paolo per un paio di giorni, lo sento indeciso: «L'unico dubbio che ho? Se ne parli gli dai importanza. Devo riflettere». Passa un giorno: «Ho deciso. Ci sono cose che meritano di essere raccontate. Hai carta e penna?». Mieli mi cita decine di casi, in tutta Europa. Mentre li snocciola a memoria, uno per uno, con cura del dettaglio e nomi sillabati, capisco che si tratta di notizie relegate quasi tutte al rango di «brevi». Ma messe insieme compongono un quadro impressionante.

- Ritorniamo alla lista di proscrizione: dici che è pasticciata, ma che nessun nome è a vanvera, perché pasticciata?
  «Ci sono nomi, penso a Saviano, che non hanno nulla a che vedere con la comunità ebraica».

- Strana?
  «Appena l'ho scorsa, ho trovato addirittura dei morti, e sto parlando -per esempio - di Vittorio Orefice».

- Imprecisa?
  «Perché ci sono giornalisti, penso a Mentana, ma anche a me stesso, che non sono - consentimi il termine "tecnicamente" ebrei».

- Si è ebrei per discendenza matrilineare, o per conversione.
  «Mio Padre era ebreo, come quello di Enrico. Ma mia madre era cattolica. Io non faccio parte della comunità, non sono religioso ... ».

- Però?
  «Io non sono tecnicamente ebreo. Ma mi sento ebreo al 110%, orgoglioso di questa identità, soprattutto in momenti come questi».

- La lista è scritta da dilettanti?
  «No, è questo il punto. È un discorso odioso, da fare, ma credo che la lista di Radio Islam unisca, a un vecchio elenco di giornalisti ebrei, altri nomi che hanno un unico punto di contatto: aver difeso, anche una sola volta, lo stato di Israele».

- Cosa vuol dire?
  «Sono tutti obiettivi perché la lista è insieme antisemita e anti-israeliana, ben incatenata alla nuova campagna di boicottaggio contro Tel Aviv. L'incrocio ci aiuta a capire».

- Per esempio?
  «Una ricercatrice norvegese, Ingrid Harbitz, Scuola di veterinaria di Oslo, non ha voluto spedire un campione di sangue al Goldyne Savad Institute di Gerusalemme, sai?»

- Perché?
  «Ha scritto: "A causa della situazione attuale in medio oriente non voglio consegnare qualsiasi materiale a un'università israeliana"».

- Non lo sapevo.
«Sai che un professore, Andrej Wilkie a Oxford ha rifiutato un dottorato a Amit Duvshani, studente di medicina di Tel Aviv?».

- Mi pare incredibile.
  «Ti cito a memoria la sua lettera? "Grazie per avermi contattato - dice Wilkie - ma non credo che possa funzionare. Ho un problema enorme con il modo in cui gli israeliani assumono la superiorità morale dal loro trattamento spaventoso nell'Olocausto, e quindi con il modo di infliggere gravi violazioni dei diritti umani ai palestinesi».

- Cosa c'entra Amit?
  «Nulla. Altro caso, festival del cinema di Oslo: rifiutano un documentario sui bimbi disabili perché "realizzato in Israele"».

- Nella civilissima Norvegia!
  «Vuoi i Paesi Bassi? La squadra olandese del Vitesse Arnhem, invitata ad un tournée negli Emirati Arabi, lascia a casa il giocatore Dan Mori perché gli hanno rifiutato il visto. Sai perché?»

- È israeliano.
  «Hanno minacciato di arrestarlo. È passata come una curiosità calcistica».

- Non isolata.
  «Lo Sepahan Isfahan, top club della Serie A iraniana cancella una amichevole con la squadra serba del Partizan. Chiedimi, perché?»

- Il suo allenatore, Avram Granté israeliano.
  «Sai di Scarlett Johanson, vero?»

- Licenziata dalla Ong Oxfamt.
  «No, se né andata lei. La motivazione: era testimonial dal 2007 ma le hanno detto che era incompatibile se non smetteva di promuovere SodaStream, società che produce gasatori per bibite».

- Poi c'è il terrorismo.
  «Strage di Tolosa: all'inizio sembrava che Mohammed Merah, l'attentatore ucciso, fosse un pazzo squilibrato di simpatie neonaziste».

- Hanno scritto pagine e pagine.
  «Già. Ma fino a quando non si è scoperto che era invece un estremista musulmano. A quel punto, come ha scritto Douglas Murray sul Wall Street Journal, su di lui è calato un gran silenzio e la stampa si è inventata il lupo solitario. Ti basta?»

- No, andiamo avanti.
  «Cito il Papa. Quando Amedy Coulibaly ha preso in ostaggio e ucciso cinque cittadini francesi ebrei nell'Hyper Cacher de la porte de Vincennes Francesco ha detto: "Se qualcuno offende mia madre io gli do un pugno"».

- Si riferiva ai satirici iconoclasti di «Charlie Hebdò»...
  «No. E se mai si può invocare come attenuante di un massacro il vilipendio - e per me non si può -va detto che le vittime del supermercato non avevano offeso nessuno. Non si registra una sola offesa di tutte queste vittime nei confronti di chicchessia. E qui torno alla lista».

- C'è un legame?
  «Chiunque abbia difeso Israele - anche una volta - è tra i nomi di radio Islam. Il boicottaggio dei prodotti israeliani sta producendo disastri anche nel mondo della cultura».

- Ad esempio?
  «La compostissima Bbc rifiuta di trasmettere un concerto dell'orchestra filarmonica israeliana. Sai che il Western Dunbartonshire, un distretto scozzese, ha bandito tutti i libri stampati in Israele dalle biblioteche?»

- Orwelliano.
«A Manchester una docente, Mona Baker, ha licenziato due traduttori, israeliani, perché - sosteneva - "per effetto del boicottaggio non avrebbero lavorato più"».

- Hai altri casi?
  «Quanti ne vuoi: il professor Moti Cristal di Tel Aviv doveva partecipare, sempre a Manchester, ad una conferenza sul servizio sanitario. Bloccato».

- Oltraggi nei cimiteri, musei profanazione, boicottaggi scientifici, embarghi a squadre, profanazioni. Cose molto diverse ....
  «Unite da un unico filo, al confine con l'antisemitismo».

- Tu riconosci il diritto di criticare Israele, ovviamente?
  «Tutti gli atti di Israele sono criticabili anche duramente. Ma diffido di quelli che sempre e comunque ne criticano qualsiasi atto. Il 100% di adesioni è una cifra che mi fa sempre riflettere».

- La guerra all'Isis cambierà qualcosa?
  «No finché l'Occidente tiene ben separata la guerra all'Isis dalla difesa degli ebrei. La strage del Super Marché è stata celebrata come anti-francese, non antisemita. Bataclan è legato in qualche modo anche a Israele: complessi di ebraici, proprietario ebreo ... »

- È un antisemitismo antico o moderno?
  «Preesiste all'Isis e allo jihadismo ma si alimenta di questa onda nuova, come un animale».

- Le classi dirigenti occidentali lo hanno capito?
  «Ne sono consapevolissime. Ma non conviene dirlo. Nella seconda guerra mondiale si sapeva dell'Olocausto. Ma Inghilterra e America misero in ombra le notizie, perché l'intervento non poteva apparire come se fosse in difesa degli ebrei».

- Nuovo antisemitismo, vecchie paure.
  «Nascosto nell'antisionismo, ma dilaga».

- E l'Italia?
  «Non siamo immuni, cito una perla? Il sindaco del Pd di Recanati Francesco Fiordomo ha patrocinato la proiezione del film Israele il cancro, di Samantha Comizzoli. Caso isolato? No, pellicola proiettata a Messina, Ravenna Bologna, Cesena e Pavia .... »

- Ti sei informato su di lei?
  «Ho appuntato questa sobria frase: "Mi auguro che Israele sprofondi nel nucleo della terra e che l'inferno torni da dove è venuto, all'inferno"».

- Hai una spiegazione?
  «Ci siamo mitridazzati a una certa dose di odio: e questo ci sembra normale o pittoresco».

- E la stampa italiana?
  «Come quella europea, con l'eccezione di alcuni osservatori attenti che infatti sono nella lista nera di Radio Islam».

- Le liste di proscrizione, nella storia, nascono per scherzo, ma spesso producono vittime.
  «Spero di no. Ma potrebbe diventare una lista di obiettivi da colpire. Dipende da noi».

- Non aiutano le paginate sull'Isis?
(Sorride) «Conosco una abitudine dei giornali italiani. Una legge della nostra informazione è: prima fase, dopo una strage un mesetto scarso di attenzione isterica».

- Poi?
  «Seconda fase. per qualche giorno tutti diventano strateghi bellici ed esperti geopolitica».

- E poi?
  «Terza fase: scompaiono le cartine geografiche, il terrore, si parla solo della banca di Laterina, di De Luca sì o no».

- Il nuovo antisemitismo cresce?
  «Si è alimentato di fatti enormi che legano il nuovo terrorismo dall'11 settembre all'odio pregiudiziale anti-Israele di oggi. È lo stesso vestito, ma prima chi lo indossava era ai margini. Oggi trova una nuova legittimazione. E questo spiega il senso segreto di quella lista».

- Unire quella lista e queste notizie è il tuo mestiere di storico?
  «Guardo i dettagli perché sono abituato a studiarli nel passato come premessa dei grandi terremoti che poi diventano pagine di storia».

- Per i contemporanei erano dettagli irrilevanti.
  «Non se ne accorsero per gli stessi motivi per cui oggi nessuno le collega. La patrocinata Samantha, il suo inferno, questa lista e queste brevi, oggi, sono più grandi di come le vediamo».

(Libero, 21 dicembre 2015)


Oltremare - Il biglietto

di Daniela Fubini, Tel Aviv

La prima volta che sono scesa di mia volontà da Gerusalemme per andare a Tel Aviv, era l'estate del 2008 e avevo appena finito i cinque mesi di ulpan.
E no, l'ebraico non lo sapevo ancora: il mio cervello stava ancora processando cinque mesi di radici verbali e grammatica, e le idee platoniche di frase prima o poi si sarebbero materializzate; ogni cosa a suo tempo.
Dunque mi trovavo buffamente su di un autobus, oggetti evitati per quanto possibile fino ad allora. A Gerusalemme si sa, gambe in spalla che si fa prima. Peggio, ero su di un autobus partito dalla orrenda stazione centrale di Tel Aviv, che doveva portarmi verso il centro.
Una città dalla geografia sconosciuta e dal sistema di trasporto pubblico ancora irrazionale, prima della riforma. Nel disordine apparente delle pensiline, ero salita su un n.5 invece che un n.4, e quando capii l'errore chiesi in qualche modo al guidatore che fare. Lui prese il mio biglietto, uscito da pochi secondi dalla macchinetta al lato del suo volante, e ci scrisse sopra a penna qualcosa di incomprensibile. Non sono nemmeno sicura fosse ebraico. E mi pento amaramente di non averlo tenuto come una reliquia, in una teca sottovuoto. Con quei geroglifici sul biglietto, mi ritrovai su una nuova pensilina, ad aspettare l'altro autobus. Arrivai in tempo al mio appuntamento, e feci a malapena caso all'aria appiccicosa e opprimente, tutto sommato non così diversa da certe estati newyorkesi che avevo da poco lasciato.
Quella volontà ferma e fantasiosa di mettere a posto le cose, di far funzionare l'impossibile, come un biglietto già stampato, mi fa ancora da stella del Nord, specie in momenti difficili in cui pare che tutto il sistema sia sull'orlo di una crisi di nervi. Sarà il retrogusto anarchico, sarà lo spazio per l'eccezione, o l'uso libero del libero arbitrio. Per ogni politico incapace o corrotto, per ogni scandalo a sfondo sessuale, per ogni monopolio infrangibile, c'è un semplice cittadino che scrive messaggi in codice ad un collega per aiutare una nuova immigrata.


(moked, 21 dicembre 2015)


Blitz di Israele a Damasco. Eliminato leader di Hezbollah

Missili contro la casa di Samir Kuntar. Nel 1979, appena sedicenne aveva compiuto uno dei più efferati atti di terrorismo contro lo Stato ebraico.

di Maurizio Molinari.

Con due missili lanciati dai jet contro un edificio alla periferia di Damasco Israele ha eliminato Samir Kuntar, il leader degli Hezbollah siriani autore 36 anni fa di uno dei più efferati atti di terrorismo contro lo Stato ebraico.

Nel 1979 Kuntar aveva 16 anni, militava nel Fronte di liberazione della Palestina di Abu Abbas - regista nel 1985 del sequestro dell'Achille Lauro - e assieme a tre complici adoperò un gommone a motore per raggiungere la spiaggia di Naharya dal Sud Libano. Appena sbarcati, i quattro palestinesi uccisero un agente per poi addentrarsi nella cittadina e sequestrare Danny Haran con la figlia Einat, di 4 anni. Vennero catturati dentro la casa, dove la madre Smadar e la sorellina Yael, 2 anni, si nascosero strisciando sul pavimento. Kuntar portò gli ostaggi sulla spiaggia dove si accorse che il gommone era oramai danneggiato e reagì sparando alle spalle a Danny Haran, spingendogli la testa sott'acqua per assicurarsi che fosse morto. Prese quindi Einat, sbattendole la testa su una roccia e colpendole il cranio col calcio del fucile fino a frantumarlo. Morì anche Yael, soffocata involontariamente dalla madre nel tentativo di impedirle di piangere per non farsi trovare.

 Ferocia ineguagliata
  Nelle cronache degli atti di terrorismo contro Israele la ferocia di Kuntar resta ineguagliata. Due complici morirono e Kuntar venne catturato, assieme a un altro, restando nelle prigioni israeliane per oltre 30 anni fino al 26 marzo 2008 quando Gerusalemme lo consegnò agli Hezbollah libanesi nell'ambito di uno scambio per ottenere le spoglie di due soldati uccisi, Ehud Goldwasser ed Eldad Regev. Pochi mesi dopo il presidente siriano, Bashar al Assad, ricevette Kuntar con tutti gli onori consegnandogli la più alta onorificenza e gli Hezbollah lo accolsero come un eroe, tanto più che Kuntar difese la strage di Naharya, promettendo di voler uccidere «quanti più civili e militari israeliani» considerando lo Stato ebraico una «malattia a cui porre fine».
  L'odio contro Israele spiega anche il suo plauso per gli «eroi» che uccisero nel 1981 il presidente egiziano Anwar Sadat «colpevole di tradimento per aver siglato la pace con il nemico sionista». Dall'incontro con Assad e quello seguente con Hassan Nasrallah, Kuntar uscì con la missione di creare gli Hezbollah in Siria. Un compito che, a seguito della guerra civile, lo ha visto protagonista di unità composte da drusi e sciiti nella regione di Quneitra, ai confini con Israele.

 Gli attacchi contro il Golan
  Egli stesso druso, Kuntar è stato regista e mandante di molteplici attacchi contro il Golan israeliano. Su di lui gli Hezbollah avevano puntato per creare, assieme alla Forza Al Qods iraniana, un'unità di incursori per colpire in Galilea. Il blitz dei jet israeliani contro l'edificio di Jaramana dove si trovava al sesto piano - col vice Farhan al-Shalaan, anch'egli eliminato - ha posto fine a questa missione, ribadendo la politica di Israele di braccare chi uccide suoi cittadini. Il governo Netanyahu non ha rivendicato il blitz per limitare la prevedibile rappresaglia di Hezbollah, le cui avvisaglie sono arrivate ieri con il lancio di tre razzi contro Naharya, a cui Israele ha risposto con l'artiglieria. Stasera sarà Nasrallah a parlare da Beirut.
  L'attacco a Damasco è avvenuto con modalità che suggeriscono un'operazione sofisticata: i missili hanno colpito l'edificio nella notte pochi attimi dopo il ritorno di Kuntar, ovvero grazie a una minuziosa sorveglianza che, secondo i media libanesi, cela cooperazione con i ribelli. Senza contare che Kuntar è il primo leader Hezbollah eliminato da Israele dall'inizio dell'intervento russo in Siria.

(La Stampa, 21 dicembre 2015)

*

Ammazzato a Damasco la "bestia" Samir Kuntar

Condannato per la strage di Naharia e liberato da Gerusalemme nel 2008. Combatteva in Siria con i governativi.

di Marco Maisano

 
Samir Kuntar
 
Smadar Haran
È morta la "bestia" Samir Kuntar, altissimo ufficiale di Hezbollah, dopo un bombardamento a Damasco nel quartiere di Jaramana, saldamente sotto il controllo dai governativi.
   Secondo la tv libanese Al Manar l'attacco sarebbe stato messo a segno dall'aviazione israeliana. In effetti conti in sospeso con lo Stato Ebraico Kuntar ne aveva e non pochi: il 22 aprile del 1979, ancora diciassettenne, parte dal Libano insieme ad un commando formato da quattro ragazzi appartenenti al FLP e raggiunge la città israeliana di Naharia, a pochi chilometri dal confine libanese. Sbarcati con un gommone un poliziotto li nota, ma i quattro lo freddano all'istante a colpi di Kalashnikov. Si addentrano nella città e sfondano la porta della famiglia Haran. E' notte e il capo famiglia, Danni Haran, 28 anni, si alza e vedendoli entrare armati si precipita a fare da scudo sulla piccola Einat di soli 4 anni. La moglie Smadar intanto sentito il frastuono e intuito il pericolo resta in camera da letto, cercando di calmare l'altra figlia, Yael, 2 anni, e nel tentativo di impedirle di strillare la stringe forte al petto, ma inavvertitamente la soffoca. Kuntar dall'altra parte insieme ai suoi trascina il padre Danny e la piccola Einat su una spiaggia. La polizia li insegue e riesce a sparare e ad uccidere due membri del commando, ma Kuntar riuscendo a farla franca decide di concludere il lavoro iniziato: spara un colpo in testa al padre davanti alla figlia. Ad Einat toccherà pochi istanti dopo toccherà una morte ancora più violenta: Kuntar la sbatte sugli scogli più volte e la finisce con il calcio del fucile sfondandole il cranio.
   Non vigendo la pena di morte in Israele, la bestia Kuntar viene condannata a tre ergastoli. In carcere si laurea in Scienze Politiche e sposa l'attivista israeliana di origine arabe Kifah Kayyal, alla quale per altro lo stato riconosce uno stipendio perché moglie di un prigioniero. Sette anni dopo, il nome di Kuntar verrà urlato a bordo della Achille Lauro: i terroristi che avevano dirottato la nave infatti ne chiedevano la liberazione mentre erano intenti a buttare in mare l'ebreo statunitense paralitico Leon Klinghoffer. Nel 2008 Israele raggiunge un accordo con Hezbollah: i corpi di due militari riservisti in cambio di quattro prigionieri libanesi, tra cui lo stesso Kuntar.
   La bestia viene così ricevuta in pompa magna a Beirut, tappeto rosso per il ritorno del fedele terrorista. Ricevuto prima da Nasrallah e poi da Bashar Al Assad in Siria il quale gli assegna il difficile compito di portare avanti missioni militari sulle Alture del Golan controllate da Damasco.
   La morte di Kuntar è stata annunciata dai media siriani i quali hanno anche subito accusato i "gruppi ribelli" di avere attacco la casa in cui viveva Kuntar. Tuttavia i mezzi utilizzati e soprattutto le dichiarazioni di alcuni esponenti del Governo di Gerusalemme fanno pensare ad un raid israeliano, come quella di Yoav Gallant, Ministro delle Costruzioni: "Non confermo né smentisco nulla a riguardo, ma è un bene che persone come Samir Kuntar non facciano più parte del nostro mondo». Poche ore dopo l'annuncio della morte, tre razzi sono stati lanciati dal Libano sul nord di Israele, ma non ci sarebbero né vittime né ingenti danni.
   Dopo la liberazione Kuntar ha rilasciato moltissime interviste in una delle quali ha dichiarato: "Sono geloso dei sionisti, non perdono tempo quando si tratta di portare indietro i propri soldati o anche solo i loro CORPI. Sono geloso di come andrebbero in capo al mondo per avere indietro i propri concittadini". E' ovvio che per una bestia come Kuntar possa risultare difficile che a qualcuno interessino i corpi dei propri cari o che addirittura a qualcuno questo possa interessare più di ogni altra cosa al mondo. Ma è proprio questa la differenza che segna il fronte tra la civiltà e la barbarie, di fronte alla quale è normale che una bestia come Kuntar rimanga spiazzata.

(il Giornale, 21 dicembre 2015)


I bulli islamici a scuola

Hanno al massimo 14 anni, inneggiano alle stragi, devastano oratori, perseguitano le ragazzine «infedeli». E se vuoi punirli si rischia grosso.

«I terroristi di Parigi? Hanno fatto bene» è la frase shock pronunciata a scuola da un minorenne pachistano di 14 anni. Le parole da bullo islamico sono saltate fuori discutendo con i compagni di classe e poi confermate davanti alla preside, che ha informato i carabinieri. Lo rivela il quotidiano locale «Prima Pagina Reggio», che aggiunge un dato allarmante. Dal 13 novembre, giorno della carneficina a Parigi, sono arrivate alle forze dell'ordine 15 segnalazioni del genere solo nella provincia di Reggio Emilia. Tutte coinvolgevano ragazzini che difendono o inneggiano alla bandiere nere. Non si tratta di un caso isolato, ma di un fenomeno, che sta prendendo piede, definito dagli investigatori «islamobullismo». A Milano, una fonte dell'antiterrorismo, spiega: «Le segnalazioni sono aumentate dopo Charlie Hebdò e l'ultima strage di Parigi. Gli insegnanti sono più attenti, ma poi scemano». Non a caso il Califfato ha pubblicato in rete un manuale, che si intitola «Gang islamiche» e spiega come «reclutare adolescenti e bambini» in Occidente.
   I «bulli islamici» non sempre vengono segnalati alle forze di polizia. Dopo lo scoop del quotidiano di Reggio una maestra della provincia, F.T., ha chiamato in redazione per raccontare che nella sua scuola un ragazzino musulmano aveva giustificato l'attacco a Charlie Hebdò di gennaio. Nell'edizione in edicola il giornale scrive che un bambino, sempre pachistano, in seconda media, sosteneva: «Hanno fatto bene perché è stato offeso il profeta» Maometto dalle vignette satiriche pubblicate dal settimanale francese finito sotto attacco. L'insegnante aveva affrontato l'argomento in classe e gli altri studenti islamici non si sono opposti al compagno estremista. Il responsabile dell'istituto ha evitato di informare le forze dell'ordine. Anzi, F.T:, denuncia: «Chiesi di intervenire e di convocare i genitori. Mi è stato risposto che se lo volevo fare era a mio rischio e pericolo».
   Il caso più recente relativo alla strage del 13 novembre ha coinvolto una scuola media di Correggio, piccolo centro reggiano assolutamente tranquillo dove vive una comunità di immigrati pachistani. I carabinieri hanno convocato i genitori, che si sono resi conto della gravità dell'affermazione del figlio.
Fra i 15 casi segnalati nel Reggiano, dalla carneficina di Parigi, non mancano minori musulmani che hanno dissentito dal minuto di silenzio per le vittime del terrore. Il gruppetto voleva commemorare anche quelle siriane dei bombardamenti francesi in Siria.
   Il 19 novembre sei ragazze islamiche di un istituto tecnico di Varese, di soli 15 anni, sono uscite in maniera plateale dall'aula durante il minuto di silenzio. Lo scorso febbraio, in Brianza, una gang di bulli islamici ha devastato la sala dell'oratorio della parrocchia di San Giovanni Battista di Desio. La bravata con sputi, bestemmie, sedie lanciate in aria e musica a palla della banda di adolescenti magrebini è stata filmata con un telefonino finendo su You Tube.
   Lo scorso luglio gli arresti di un pachistano e di un tunisino che volevano compiere attentati nel bresciano e a Milano hanno portato la Digos del capoluogo lombardo a scoprire le loro letture in rete. Uno dei manuali, «Gang islamiche», fornisce dettagliate istruzioni su come abbindolare i ragazzini in Occidente per arruolarli in vere e proprie bande. «Molti adolescenti sono già frustrati nei confronti della polizia - recita il manuale - Se vedono una macchina delle forze dell'ordine parcheggiata chiedi loro di coprirsi il volto e di tagliarle le gomme».
   Nel resto d'Europa l'«islamobullismo» è un'emergenza. Adolescenti turchi a Berlino hanno dato la caccia ai compagni di scuola ebrei e ragazzine islamiche danesi si sono accanite sulle loro coetanee non musulmane bollandole come «puttane infedeli».

(il Giornale, 21 dicembre 2015)


Bari - In campo la squadra speciale dei vigili: sono addestrati con i metodi dei soldati israeliani

Sono in tutto 28 le unità specializzate che compongono il Gisu: hanno il compito di fronteggiare episodi di microcriminalità e situazioni a rischioDue i turni di lavoro: dalle 8 alle 14 e dalle 15 alle 21.

di Francesca Russi

 
La squadra è composta da tre agenti. Divisa blu imbottita, basco in testa e pistola alla cintola. Così hanno preso servizio a Bari i primi poliziotti del Gisu, il gruppo specializzato della polizia municipale per gli interventi di sicurezza urbana. La pattuglia ha cominciato il servizio sperimentale di presidio di piazze e giardini da piazza Umberto, affollata più del solito durante le feste per la presenza del Villaggio di Babbo Natale e della pista di pattinaggio sul ghiaccio allestiti dal Comune.
   I tre agenti speciali della municipale hanno passato al setaccio panchine e aiuole controllando a campione i passanti e i migranti che popolano la piazza. Scambiati da molti per carabinieri a causa della somiglianza della divisa e per il cappello, un basco, diverso rispetto a quello indossato dai vigili urbani. Fra i compiti del nuovo gruppo ci sono il contrasto e il controllo delle aree urbane degradate e bersaglio di atti vandalici. E non solo. I tre agenti, oltre alle operazioni di pattugliamento, hanno trovato anche un cagnolino abbandonato in piazza Umberto e hanno chiamato il servizio veterinario per l'affidamento.
   Sono in tutto 28 le unità specializzate che compongono il Gisu. Per adesso, però, tra le aree sottoposte al controllo c'è soltanto piazza Umberto. Due i turni di lavoro: dalle 8 alle 14 e dalle 15 alle 21. Il servizio verrà esteso nei prossimi giorni anche a piazza Moro e piazza Cesare Battisti. E il sindaco Antonio Decaro, che un anno fa ha disposto l'istituzione del gruppo specializzato nella sicurezza urbana, non esclude di usare le unità nel centro murattiano il 24 e il 31 dicembre per tenere sotto controllo la movida diurna tra i locali in occasione delle due vigilie di Natale e di Capodanno.
   I 28 agenti specializzati hanno ricevuto in questi mesi una formazione specifica che è ancora in atto: hanno seguito un corso di arti marziali per la difesa personale con il meteodo krav-maga, elaborato dall'Esercito israeliano, e un corso di approfondimento di elementi di diritto penale. Questo perché hanno il compito di fronteggiare episodi di microcriminalità e situazioni a rischio a differenza di altri colleghi preposti invece al controllo del traffico e alle sanzioni per i parcheggi selvaggi.
   I Gisu saranno in azione in piazza Umberto e nel borgo murattiano per tutta la durata delle festività natalizie. Poi verranno organizzati dal comandante della polizia municipale Stefano Donati turni ad hoc nelle aree più a rischio degrado e vandalismo della città. Il gruppo collaborerà anche con altri uffici comunali di emergenza legata al disagio sociale in particolar modo dei minori, degli emarginati e delle vittime di violenza.

(la Repubblica - Bari, 20 dicembre 2015)


Martedì il parlamento greco voterà il riconoscimento dello Stato di Palestina

ATENE - In occasione dell'arrivo di domani ad Atene del presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, il parlamento greco voterà una risoluzione per il riconoscimento della Palestina. In aula sarà presente anche il leader palestinese. Abbas avrà dei colloqui con il presidente greco Prokopis Pavlopoulos e il primo ministro Alexis Tsipras. È prevista una conferenza stampa congiunta dopo l'incontro tra Tsipras e Abbas nel primo pomeriggio presso la Maximos Mansion. Martedì Abbas incontrerà poi il presidente del parlamento Nikos Voutsis e i parlamentari dell'Assemblea. Voutsis leggerà una risoluzione che chiede al governo di riconoscere lo Stato della Palestina. La risoluzione, non vincolante, è stata approvata all'unanimità dalla Commissione Difesa e degli Affari esteri della Camera giovedì scorso. La risoluzione è stata formulata per il suo valore simbolico piuttosto che con l'intenzione di aprire la strada a un riconoscimento ufficiale dello Stato palestinese. Voutsis consegnerà Abbas una copia della risoluzione. Prima di partire, il leader palestinese incontrerà anche il capo della Chiesa greca, l'arcivescovo Ieronymos. Il premier Alexis Tsipras è stato in Israele il mese scorso, e si era incontrato sia con Abbas che con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

(Agenzia Nova, 20 dicembre 2015)


Caccia russi scorteranno l'aereo di Assad in Iran, avvertita la coalizione USA per evitare scontri

Le forze della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti sono state avvisate affinchè i loro caccia non tentino di avvicinarsi all'aereo del presidente siriano Assad per evitare scontri, scrive l'agenzia "Far News".

Quattro caccia russi scorteranno l'aereo del presidente siriano Bashar Assad, durante la sua visita in Iran, segnala l'agenzia "Fars News" riferendosi al quotidiano libanese "Al-Diyar".
"Il comando delle forze della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti è stato avvisato affinchè i loro caccia non tentino di avvicinarsi all'aereo del presidente siriano Assad per evitare scontri," — scrive il giornale, aggiungendo che secondo la rotta pianificata il velivolo del presidente siriano sorvolerà lo spazio aereo iracheno.
In precedenza l'agenzia di stampa "Fars News" aveva riferito, citando alcune fonti, che il presidente siriano si sarebbe potuto recare in visita a Teheran alla fine di dicembre o ad inizio gennaio, tuttavia la notizia non aveva ottenuto una conferma ufficiale.

(Sputnik news, 20 dicembre 2015)


Intifada dei coltelli: assaliti tre israeliani. Uno è grave

Nuova aggressione in Israele: a Raanana, città a metà strada tra Tel Aviv e Netanya, un palestinese ha affrontato per strada alcuni passanti brandendo un coltello e ne ha feriti prima due e poi un terzo. Subito è scattata una caccia all'uomo e l'assalitore è stato rapidamente catturato senza che le forze di sicurezza dovessero aprire il fuoco. Una delle vittime, un uomo sulla quarantina, versa in condizioni gravi. Lievi invece le lesioni subite dalle altre due, tra cui una sessantenne. Nella zona proseguono comunque i rastrellamenti, poiché non si esclude che un secondo aggressore sia ancora in fuga. È il terzo episodio del genere a Raanana in meno di tre mesi: i precedenti risalivano a ottobre. Secondo un sondaggio di pochi giorni fa del "Palestinian Center for Policy and Survey Research", il 67 per cento della popolazione palestinese sostiene la intifada dei coltelli, che negli ultimi tre mesi ha provocato la morte di 22 israeliani e di un cittadino americano (326 attacchi nel solo mese di novembre), facendo 352 feriti. Una crescente maggioranza pensa poi che l'intifada sia destinata a evolversi in scontro armato e si oppone alla soluzione "due popoli due stati".

(Libero, 20 dicembre 2015)


L'odio antiebraico e i nuovi germogli
Articolo OTTIMO!


II silenzio sul fronte antisemita è pericoloso.

di Renzo Fracalossi*

«È vero che un ebreo è un essere vivente, ma anche una pulce è un essere vivente e, per nulla, gradevole. Il nostro dovere verso noi stessi e verso la nostra coscienza sta nel renderla inoffensiva. Lo stesso vale per gli ebrei». Così Adolf Hitler nel «Mein Kampf». «Di solito i grandi uomini che ammiriamo a distanza, perdono la loro magia se conosciuti da vicino. Con Hitler è vero il contrario». Così Radio Islam a commento di una fotografia che ritrae Goebbels e Hitler. Insomma, il vecchio ceppo dell'odio antiebraico che produce ancora nuovi germogli.
   Non si tratta solo di svastiche con le quali qualche idiota imbratta i muri e nemmeno dei forsennati auspici di distruzione dello Stato di Israele da parte di irresponsabili voci, anche contigue a certa politica, bensì del ritorno, con crescente arroganza di quell'antisemitismo che è, qualitativamente, diverso da ogni altro odio razziale o ideologico, perché si nutre di secoli; di geografie vaste ed è culminato in quel vertice supremo del male assoluto che è la Shoah. La riscoperta ciclica dei «Protocolli dei Savi anziani di Sion»; le strampalate teorie negazioniste dell'Olocausto; il rifiorire dell'antico e mai sopito «spettro» del complotto internazionale sionista altro non sono che i noti ingredienti per l'ennesima distillazione di veleno, trasfusasi oggi in una nuova, quanto orribile, «lista di proscrizione» degli ebrei italiani e dei «devoti sayanim», cioè «persone liete di servire Israele, pur vivendo in uno Stato diverso da quello israeliano».
   Ma ciò che colpisce non è unicamente la follia di simili scemenze e di una compilazione di liste che, purtroppo, ne ricorda ben altre che servirono ad annientare la presenza e la coscienza ebraica dell'Europa solo settant'anni fa. Ciò che stupisce infatti anche il più distratto osservatore, è il complessivo grado di silenzio con il quale, ormai da troppo tempo, e un po' ovunque nel vecchio continente, si accolgono i ripetuti allarmi lanciati appunto in tema di antisemitismo. Certo, le grandi indignazioni del momento non mancano, così come le reazioni di circostanza. Ma pochi, veramente pochi, osano provare a dire qualcosa, anche sfidando certe banalità «politically correct», per ribadire che il mai distrutto razzismo dello «Judenhass» sta nuovamente germinando di sé in tutte le contrade europee e non solo nelle «banlieue» parigine e lo può fare proprio perché il silenzio e il distratto sguardo girato altrove costituiscono un fertilizzante potente a tale infestante diffusione.
   L'indifferenza che si avverte da tempo rispetto a certi temi, a certe domande, a certe paure e che si riflette, talora anche nella ritualità stanca di appuntamenti come la «Giornata della Memoria», è una cartina al tornasole dell'assenza di ogni freno culturale, sociale e civile alla circolazione di questi fenomeni. Non solo nelle grandi metropoli, ma un po' in ogni dove si avverte l'espandersi untuoso e sotterraneo — ma non per questo meno pericoloso — dell'antica diffidenza antiebraica e di un crescente stato d'animo che vede, ancora una volta, nell'ebraismo la causa di ogni male dell'umanità, quando qualcuno sostiene, ad esempio, che la cancellazione di Israele potrebbe essere la vera sconfitta del terrorismo islamico, perché privato così di ogni sua ragion d'essere.
   Sono simili sciocchezze che permettono alla mala pianta di arrampicarsi dentro le coscienze flaccide, le debolezze di pensiero, le rabbie più diverse, in un trionfo devastante di irrazionalità che non fatica molto a tradursi dalle liste proscrittive alle stragi del Bataclan. È da questo silenzio inutile e pericoloso che dobbiamo tutelare noi stessi e, soprattutto, i nostri figli, prima che, di nuovo, sia troppo tardi.


* Autore teatrale, presidente Club Armonia

(Corriere del Trentino, 20 dicembre 2015)


Da sottolineare: “La cancellazione di Israele potrebbe essere la vera sconfitta del terrorismo islamico, perché privato così di ogni sua ragion d'essere”. Quanto tempo dovrà passare prima si capisca che terrorismo islamico, antisionismo e antisemitismo stanno dalla stessa parte? M.C.


Strage di Fiumicino, il terrore 30 anni prima di Parigi

Il 27 dicembre 1985 l'assalto all'aeroporto di un gruppo di terroristi palestinesi. Morirono sedici persone

di Luca Laviola

 
Doveva finire come l'11 Settembre a New York - ma 16 anni prima - con un aereo a schiantarsi su Tel Aviv. Invece fu la seconda strage dell'aeroporto di Fiumicino, con modalità che ricordano quella di Parigi a novembre. Era il 27 dicembre 1985 - 30 anni fa -: un gruppo di terroristi palestinesi assaltò con bombe a mano e kalashnikov i banchi della compagnia israeliana El Al e della statunitense Twa, sparando sulla gente in fila o al bar. Nello scontro a fuoco con i poliziotti e la sicurezza israeliana morirono 16 persone: 12 passeggeri, 3 terroristi e un addetto israeliano; 80 i feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che indagò, il commando doveva prendere un aereo e farlo precipitare su Israele. Come avrebbero poi fatto nel 2001 i kamikaze di Osama Bin Laden in America.
   Ma i terroristi furono scoperti e scatenarono l'apocalisse in aeroporto. "Sapevamo che nessuno di noi sarebbe uscito vivo", ha detto anni fa Ibrahim Khaled, l'unico dei quattro a essere catturato. Condannato a 30 anni, ha collaborato, chiesto perdono e di recente è tornato libero.
   Il massacro dell''85 arrivò 12 anni dopo quello del 17 dicembre 1973, sempre a Fiumicino e da parte di arabi armati, con 34 vittime e modalità ancora più cruente: due bombe incendiarie gettate dentro un aereo pieno fermo sulla pista. A seguito di quella strage Aldo Moro avrebbe stretto un accordo con i gruppi palestinesi, che si impegnavano a non compiere azioni in Italia a patto di poter transitare per il Paese con armi ed esplosivi. Ma l'intesa segreta voluta dal ministro degli Esteri democristiano sarebbe emersa solo molti anni dopo.
   Il mandante dell'attentato dell''85 era Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata a cui si era deciso il leader dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Yasser Arafat. Condannato all'ergastolo in contumacia, Abu Nidal è stato ucciso nel 2002 a Bagdad. Il commando arrivò a Roma un mese prima, in un periodo in cui stava saltando il cosiddetto 'Lodo Moro' (lo statista Dc era stato ucciso nel '78), che aveva risparmiato per 12 anni attentati palestinesi all'Italia. In poche settimane, un colpo di bazooka sull'ambasciata Usa, una bomba al Cafè de Paris in via Veneto, un'altra alla compagnia British Airways. Ad ottobre il dirottamento della nave Achille Lauro e l'uccisione di un passeggero americano sulla sedia a rotelle, Leon Klinghoffer.
   E si arriva al 27 dicembre 1985. Sono le 9.05 quando i quattro, che si trovano vicini ai check-in El Al e Twa, vengono individuati dalla security israeliana - probabilmente corpi speciali - e scoppia la sparatoria. Un minuto di terrore, i palestinesi mirano ai passeggeri in fila. Tra le vittime italiani, statunitensi, messicani, greci e un algerino. Tre terroristi vengono uccisi. Khaled, 18/enne, viene catturato. In simultanea a Vienna un altro gruppo attacca l'aeroporto, uccide 3 persone, decine i feriti. Due fedayn vengono presi, uno muore.
   L'ammiraglio Fulvio Martini, nell''85 capo del Sismi (intelligence militare), ha scritto che dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato in Italia. Il 19 i servizi informarono che sarebbe avvenuto tra il 25 e il 31 dicembre a Fiumicino. Gli israeliani, scrive Martini, misero tiratori scelti a difesa della postazione El Al. Furono loro i primi a reagire. Le forze dell'ordine italiane erano impreparate. Nel 1992 i capi della sicurezza di Fiumicino sono stati assolti.
   Il 17 dicembre '73 era andata perfino peggio: un gruppo di terroristi arabi arrivato dalla Spagna in aereo con le armi nei bagagli a mano gettò bombe al fosforo dentro un Boeing Pan Am sulla pista, uccidendo 30 persone. Quindi dirottò un aereo su Atene, altri morti prima di arrendersi in Kuwait. Un massacro quasi dimenticato. Stragi di civili, come quelle dell'Isis oggi.

(ANSA, 20 dicembre 2015)


Damasco, capo Hezbollah ucciso in un raid aereo israeliano

Samir Qantar è morto nell'attacco ad un edificio della capitale siriana. Era stato rilasciato da Israele nel 2008 durante uno scambio di prigionieri. Assad lo aveva messo al comando di truppe nell'altura del Golan.

BEIRUT - Inizia a diradarsi la nebbia che aleggia sulla sorte di un druso libanese, membro delle milizie sciite di Hezbollah, Samir Qantar, ucciso a Damasco in un edificio centrato da una serie di razzi nel quartiere di Jaramana nella notte. Il fratello ha pianto la sua morte su Facebook senza fornire però dettagli. E' arrivata da Beirut la conferma ufficiale da parte delle milizie sciite di Hezbollah dell'uccisione del loro comandante.
Nelle primo ore di stamane i media ufficiali siriani hanno accusato genericamente gruppi "terroristi" (dizione usata dal regime di Bashar Assad per indicare qualsiasi gruppo d'opposizione) ma sui social media membri del governo sostengono che le esplosioni siano state causate in realtà da una raid aereo israeliano che aveva come obiettivo Qantar, responsabile quando aveva solo 16 anni dell'assassinio di 4 israeliani nel 1979.
Israele rilasciò Qantar nel 2008 nell'ambito di uno scambio di prigionieri con le milizie sciite libanesi Hezbollah. Qantar è stato ucciso nell'operazione in Siria che ha pochi precedenti da parte delle forze aeree israeliane.
Il terrorista sarebbe stato accolto con tutti gli onori a Damasco nel 2008 e da qualche anno Assad gli aveva dato il comando di parte delle Alture del Golan, ancora controllate dai siriani, e il comandante Hezbollah, in questi anni, avrebbe organizzato diversi attacchi contro soldati israeliani.

(la Repubblica, 20 dicembre 2015)


Sospetti terroristi, la Procura: processo

I giudici milanesi hanno chiesto il rito abbreviato per i due presunti appartenenti all'Is che parlavano di attaccare Ghedi.

BRESCIA - La Procura di Milano ha chiesto il processo con rito immediato a carico del pakistano Muhammad Waqas e del tunisino Lassaad Briki, arrestati lo scorso 22 luglio con l'accusa di terrorismo internazionale. I due presunti jihadisti legati all'Isis parlavano nelle intercettazioni di attentati da compiere in Italia, tra cui un'azione contro la base militare Nato a Ghedi, in provincia di Brescia. La richiesta di giudizio immediato (si salta la fase dell'udienza preliminare), firmata dal pm di Milano Enrico Pavone e dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, che hanno coordinato le indagini condotte dalla Digos, è stata inoltrata al gip Elisabetta Meyer che ha emesso le misure cautelari nei mesi scorsi e che ora dovrà decidere se accoglierla.
   Dalle indagini è emerso, in prima battuta, che Briki e Waqas erano gli autori degli ormai famosi «selfie» di propaganda jihadista e minacce «contro le istituzioni Italiane», scattati in luoghi simbolo, come davanti al Duomo di Milano o al Colosseo a Roma,e comparsi sul web a fine aprile. E proprio dall'analisi informatica sulla provenienza di quelle immagini - che mostravano sullo sfondo i luoghi di Expo o la stazione Centrale di Milano, e in primo piano biglietti con scritto «siamo nelle vostre strade, siamo ovunque, stiamo localizzando gli obiettivi, in attesa dell'ora X» o «fedeltà» al sedicente Califfo dello 'stato islamico Al Baghdadi - gli investigatori sono risaliti a Briki.
   Il tunisino usava due account twitter per quei «messaggi di paura». Dopo la fase delle foto minatorie, Bikri, 35enne regolare e addetto alle pulizie, e Waqas, 27enne coi documenti in regola e un lavoro come autista in una ditta di distribuzione alimentare, entrambi domiciliati a Manerbio (Brescia), sarebbero stati pronti al salto di qualità. Stavano per passare, come si legge negli atti, «dalla militanza da tastiera a quella reale», ma sono stati arrestati prima che reperissero i kalashnikov o fabbricassero le bombe, armi di cui parlavano nelle intercettazioni. I due, inoltre, volevano anche aiutare l'Isis cercando altre «persone da arruolare» in Italia come «soldati per Allah», come dicevano al telefono tra loro.

(Avvenire, 20 dicembre 2015)


Gli americani combattono l'Isis solo a parole

Obama senza strategia

di Magdi Cristiano Allam

A parole tutti dicono di voler sconfiggere l'Isis. Apparentemente è da un anno e mezzo, da quando il 29 giugno 2014 il sedicente Califfo Abu Bakr al-Baghdadi annunciò la nascita dello «Stato islamico, che una coalizione che aggrega una sessantina di Paesi bombarda le postazioni dell'Isis. Ebbene, com' è possibile che, in poche ore, siano stati annientati eserciti forti, come quello di Saddam Hussein e di Gheddafi, mentre non si è ancora riusciti ad imporsi su circa 80.000 terroristi? Eppure sarebbe sufficiente bombardare la sessantina di pozzi petroliferi nel territorio occupato dall'Isis a cavallo tra la Siria e l'Irak per infliggere un colpo mortale.
   La verità è che gli americani si limitano a perseguire e a colpire singoli dirigenti, veri o presunti, dell'Isis, ma non hanno una strategia finalizzata ad abbattere lo «Stato islamico», È come se volessero limitarsi a un'operazione mediatica che li faccia apparire come impegnati a combattere l'Isis, mentre di fatto mirano solo a sanzionare singoli esponenti dell'Isis per mandare un messaggio a tutti gli altri: «O fate come diciamo noi o vi uccideremo tutti». È il comportamento che si assume quando vuoi chiarire al nemico che saresti capace ad abbatterlo decapitando il vertice del potere, ma al tempo stesso che sei disposto a convivere con l'entità nemica qualora si comportasse in modo conforme ai tuoi interessi.
   La verità è che gli americani sono sotto scacco della Turchia di Erdogan, che è il principale sponsor dello «Stato islamico», così come lo è dei «Fratelli Musulmani» e di altre sigle del terrorismo islamico. Lo «Stato ìislamico non potrebbe sopravvivere 24 ore senza il sostegno della Turchia. Prima ancora delle accuse di Putin, la stampa indipendente turca aveva denunciato il fatto che il greggio estratto nel territorio occupato dai terroristi dell'Isis viene venduto attraverso la frontiera della Turchia; dalla frontiera della Turchia arrivano le armi destinate ai terroristi islamici; lungo la frontiera della Turchia, in entrata e in uscita, transitano decine di migliaia di terroristi islamici provenienti da ogni parte del mondo, tra cui 6mila con cittadinanza europea.
   Ebbene, se è vero che «siamo in guerra», come dichiarato dal presidente francese Hollande il 16 novembre e dal segretario alla Difesa americano Ashton Carter il 9 dicembre, e che questa è la Terza guerra mondiale come detto da Papa Francesco; se è vero che il terrorismo islamico globalizzato è il nemico del mondo intero, dobbiamo prendere atto che la Turchia di Erdogan è il vero burattinaio di questa guerra mondiale.
   Così come dobbiamo prendere atto che il comportamento degli Stati Uniti e dell'Unione Europea rassomiglia al comportamento assunto dalla Gran Bretagna e dalla Francia a Monaco nel 1938, quando sottoscrissero un accordo con Hitler e Mussolini dando via libera all' annessione di vasti territori della Cecoslovacchia, rivelato si la resa fatale che scatenò la Seconda guerra mondiale. La Turchia di Erdogan, al pari della Germania nazista, ha delle rivendicazioni territoriali in Irak e in Siria, non avendo mai digerito la spartizione del territorio dell'ultimo Califfato islamico turco-ottomano, dalle cui rovine nacquero gli stati nazionali del Medio Oriente. Oggi Erdogan usa l'Isis per realizzare le sue mire espansionistiche.
   Ebbene, l'Occidente sappia che, così come fu catastrofica la scelta di scendere a patti con Hitler, prima o dopo sarà costretto a prendere atto dell'errore storico di sottomettersi a Erdogan. Quest'Occidente filo-islamico è arrivato al punto di considerare come nemico la Russia di Putin che condivide con il resto dell'Europa i valori fondanti della comune civiltà cristiana. Così, come mentre nella Seconda guerra mondiale l'Occidente non ebbe remo re ad allearsi con Stalin, uno dei peggiori tiranni della Storia, pur di sconfiggere Hitler, oggi fa lo schizzinoso con Assad, che non è nemmeno un'unghia di Stalin. Liberiamoci di Erdogan e alleiamoci con Putin per sconfiggere il terrorismo islamico prima di ritrovarci succubi dell'islam fuori e dentro casa nostra. Possibile che la Storia non insegni mai nulla?

(il Giornale, 20 dicembre 2015)


Sempre più spesso Putin viene presentato come “Defensor Fidei”. La cosa non promette bene. M.C.


Il Mein Kampf studiato a scuola. Gli ebrei contrari alla proposta

Accesissime polemiche in Germania. Il libro di Hitler torna nelle librerie da gennaio. E si valuta l'ipotesi di farlo studiare alle superiori.

di Sergio Rame

Il nuovo Mein Kampf commentato non è ancora uscito in libreria ma in Germania è già scoppiata la polemica.
   Il libro di Adolf Hitler, nell'edizione blindata da migliaia di note critiche, potrebbe essere utilizzato nelle scuole superiori tedesche con l'idea di "vaccinare" i giovani contro l'estremismo politico. Gli insegnanti si sono detti favorevoli, la comunità ebraica è fortemente contraria.
   Il libro tornerà pubblico dal primo gennaio, a 70 anni dalla morte del dittatore, data in cui scadono i diritti che erano stati affidati dagli alleati al Land della Baviera. È stata preparata un'edizione critica con una tiratura di 4.000 copie, curata dall'Istituto di storia contemporanea di Monaco (Ifz) e corredata da 3.500 note redatte da un pool di illustri storici che serviranno a contestualizzare le tesi contenute nel volume. Il presidente dell'Associazione degli insegnanti tedeschi, Josef Kraus, ritiene che stralci del testo starebbero bene nelle lezioni di storia delle scuole superiori, per studenti oltre i 16 anni. "La Conferenza dei ministri della Cultura dei Laender dovrebbe prendere posizione su come rapportarsi con questo testo traboccante d'odio - ha sostenuto Kraus - e un'edizione commentata scientificamente potrebbe essere un utile contributo all'immunizzazione dei giovani contro l'estremismo politico". E ha concluso: "Le scuole non possono semplicemente ignorare il Mein Kampf".
   La sola ipotesi ha fatto venire i brividi alla comunità ebraica. Charlotte Knobloch, ex presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania e oggi presidente della Comunità israelitica di Monaco e Alta Baviera, ha ribattuto sempre allo stesso quotidiano finanziario che è "irresponsabile utilizzare proprio il libro profondamente antisemita". Per Knobloch, le scuole tedesche trattano ancora in maniera superficiale "l'ebraismo, i temi e le personalità ebree che hanno segnato in maniera determinante la Germania fino al 1933". Poi l'ultima stoccata: "La rielaborazione dell'olocausto e del nazismo mirata a rendere gli alunni persone consapevoli della storia e delle proprie responsabilità, animandoli alla difesa di valori di libertà e democrazia è ben pensabile e auspicabile anche senza la lettura del Mein Kampf".
   Nel dibattito sono intervenuti anche i partiti. L'Spd si è schierata sul versante degli insegnanti. "Mein Kampf è un testo spaventoso e mostruoso - ha detto Ernst Dieter Rossmann, esperto Spd di politiche educative - smascherarne i contenuti antisemiti è il compito di insegnanti qualificati". Più scettici i Verdi, che con il deputato Volker Beck vedono più pericolosi i testi populisti di scrittori contemporanei, "assai più accessibili ai giovani rispetto alla spazzatura di Hitler". "È su questi testi che la scuola dovrebbe trovare il modo di dibattere attraverso insegnanti qualificati", ha concluso Beck.

(il Giornale, 19 dicembre 2015)


Un corto circuito che annuncia tempi difficili

di Davide Assael

Dopo l'11 settembre molti di noi hanno tentato, ognuno nel proprio piccolo ruolo, di impedire un cortocircuito fra islamismo di massa, islamofobia, restrizione dei diritti democratici. Abbiamo tentato di spiegare alle giovani generazioni che Islam non significa terrorismo, che non tutti i musulmani possono essere considerati pazzi suicidi, che sacrificano al dio Moloch la loro stessa carne e quella dei loro figli. Abbiamo, anzi, sostenuto con forza che la formazione di un simile pregiudizio sarebbe stato il miglior modo per far trionfare i fondamentalismi che reclutano i propri adepti nel mare dell'odio ideologico e della frustrazione sociale. Abbiamo protestato contro la costruzione di muri insensibili alle sofferenze di migranti, nei cui occhi rivivevamo le esperienze nostre o di nostri familiari che hanno dovuto sopportare nella propria vita analoghe angosce e privazioni. Abbiamo denunciato la debolezza di un'Europa richiusa su stessa e in cui stavano trionfando, Paese dopo Paese, governi di vario colore, che riportavano in auge slogan nazionalisti e xenofobi che speravamo seppelliti per sempre. Abbiamo tentato di mantenere vivo il discernimento che impedisse di far di tutta l'erba un fascio e ci consentisse di individuare nell'altra parte", il variegato mondo islamico, interlocutori possibili, magari fra coloro che subivano quotidianamente le minacce in stile mafioso della propaganda jihadista. Abbiamo chiesto loro, spesso invano, di far sentire la propria voce, gli abbiamo garantito il nostro sostegno forte e visibile. Ora, dopo gli ultimi attentati parigini, dobbiamo ammetterlo: abbiamo perso. Le esplosioni e le sparatorie del terribile venerdì 13 che ha vissuto la Francia, le ennesime dopo Londra, Madrid, ancora Parigi, Bruxelles e Copenaghen, hanno spazzato via ogni possibile linea di distinzione; l'Europa è in guerra e in guerra, si sa, non c'è tempo per ragionamenti e distinguo. In guerra non si fanno prigionieri, solo morti. E non fa niente se gli attentati parigini giungono due soli giorni dopo quelli, altrettanto efferati, vissuti in Libano. Non conta che le principali vittime del terrorismo islamico siano, e per distacco, i musulmani stessi. Iraq, Afghanistan, Libano, Egitto, Yemen, Tunisia, Siria, ovunque, nel mondo islamico, le vittime di attentati e guerre civili si contano a decine, se non centinaia di migliaia. Non importa nulla, in guerra non si fanno prigionieri. Non ha alcuna importanza che la coalizione internazionale che sta bombardando il Daesh casa propria conti tra le proprie fila numerosi Paesi arabi vittime del fuoco e della propaganda jihadista, come e più di noi occidentali. Non c'è più tempo per i distinguo. Non importa se le comunità islamiche, europee e non, siano anche state capaci di atti commoventi come la difesa simbolica della sinagoga di Copenaghen durante lo shabbat successivo agli efferati attentati contro i luoghi ebraici, o la solidarietà mostrata a Tunisi, anche lì, dopo la morte portata da spietati attentatori. e cedere spazio ai sostenitori dello scontro di civiltà, ai seguaci dei libri di Oriana Fallaci e della teorie di Samuel Huntington. Agli elettori di Marine Le Pen, Matteo Salvini o Heinz Christian Strache. Ai seguaci del modello "illiberale" (citazione sua) di Viktor Orban, ai "difensori" dei confini etnici e nazionali, a chi rimpiange un mondo mai avuto in cui ognuno se ne stava a casa propria. Non resta che ritirarci ed assistere al compimento della profezia, alla chiusura del cerchio da cui siamo partiti, islamismo, islamofobia, affermazione di regimi autoritari. Ed assistiamo pienamente consapevoli che questo porterà a una restrizione delle libertà, alla sospensione (ma perché non la fine?) della democrazia come la abbiamo conosciuta dal dopoguerra in avanti. Per di più consci che, come ci è stato insegnato da 70 anni ad oggi, quando si restringe la democrazia per gli ebrei non si annunciano tempi buoni. Lo sappiamo, quando si apre la deriva xenofoba in Europa, l'ebreo ci rientra sempre perché è ancora ritenuto uno straniero, basta dare un'occhiata ai commenti sui social riferiti al truce accoltellamento di Milano. Commenti, va detto, di italianissimi cristiani. Lo sappiamo bene, ma non ci facciamo alcuna illusione. Ma, si dirà fra qualche anno, non c'era più più tempo per i distinguo. In guerra non si fanno prigionieri.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2015)


"Ora, dopo gli ultimi attentati parigini, dobbiamo ammetterlo: abbiamo perso", dice l'autore. E' una caratteristica degli intellettuali di sinistra: sanno fare acutissime analisi della realtà, ma le sbagliano tutte. E dopo, quando l'errore è sotto gli occhi di tutti e non possono negarlo, non rinunciano al vezzo di presentare acutissime analisi retrospettive dell'errore che hanno fatto. Ma quando si sbaglia nel dire, non sarebbe meglio cominciare a tacere? M.C.



Se qualcuno pensa di conoscere qualcosa,
non ha ancora imparato come si deve conoscere.
dalla prima lettera di Paolo ai Corinzi, cap.8        

 


Gas e "strategia sunnita" dietro al disgelo tra Turchia e Israele

I due paesi annunciano il ripristino delle relazioni diplomatiche. Il ruolo di Yossi Cohen, nuovo capo del Mossad.

di Daniele Raineri

ROMA - Giovedì funzionari israeliani hanno annunciato che Israele e Turchia hanno raggiunto un accordo preliminare per ripristinare le relazioni diplomatiche, interrotte da cinque anni. Ankara e Gerusalemme tagliarono i rapporti nel 2010, dopo che un gruppo di commando della marina israeliana bloccò una nave turca - la Mavi Marmara - che cercava di forzare il blocco davanti alle coste di Gaza e uccise dieci passeggeri. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, pose come condizione irrinunciabile per il ritorno alla normalità con Israele la fine del blocco navale davanti alla costa della Striscia, ma i tempi cambiano e oggi quella condizione non appare più così irrinunciabile. Il medio oriente è cambiato, soprattutto dopo l'esplosione della crisi di sicurezza in Siria a partire dal 2011. Vecchie alleanze si sciolgono o si rafforzano e se ne formano di nuove.
  Un funzionario israeliano spiega che come parte dell'accordo di riconciliazione il governo di Gerusalemme creerà un fondo per compensare le famiglie delle vittime della Mavi Marmara di circa 20 milioni di dollari, anche se il portavoce del ministero degli Esteri, Emmanuel Nahson, dice che la cifra non è stata ancora fissata. La Turchia in cambio lascerà cadere le accuse penali contro i comandanti israeliani e non permetterà più a un leader di Hamas, Salah Aruri, di vivere in Turchia. Aruri si occupa di ricostruire la presenza di Hamas nella West Bank, fuori dalla Striscia di Gaza, e di progettare attacchi contro Israele.
  L'uomo al centro di questo accordo è Yossi Cohen, consigliere per la Sicurezza nazionale del primo ministro Benjamin Netanyahu, diventato capo dei servizi segreti (Mossad) il 7 dicembre. Cohen ha partecipato all'incontro riservato con i turchi a Zurigo, in Svizzera, da cui è nato l'accordo preliminare - assieme a un inviato speciale israeliano, Joseph Ciechanover.
  Il riavvicinamento con Ankara fa parte delle nuove mansioni di Cohen, perché ha ricevuto l'incarico di proseguire nel solco del suo predecessore, Tamir Pardo, e quindi di coltivare i rapporti con le potenze sunnite della regione. Gerusalemme lo sta già facendo con l'Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi, con la Giordania di re Abdallah e con l'Arabia saudita di re Salman bin Aziz. Adesso è possibile che si aggiunga la Turchia di Erdogan.
  Si tratta di approcci e relazioni discreti, che di rado appaiono sui media. Di recente si è scoperto che l'aviazione giordana ha partecipato a un'esercitazione congiunta con quella israeliana soltanto perché un pilota giordano s'è rifiutato di andare in Israele. "Sono diventato un pilota per combattere Israele, non per andarci in visita", ha detto - prima di essere sospeso dal servizio per insubordinazione. L'Egitto partecipa, senza problemi, allo stesso tipo di esercitazioni militari, che vedono gli Stati Uniti nel ruolo di partner centrale.

 Tutto pronto per lo sviluppo di Leviathan
  L'agenzia Reuters scrive che la riconciliazione tra Turchia e Israele apre la strada a un accordo gigantesco per l'importazione di gas israeliano in Turchia, proprio quando rischiano di venire meno le importazioni di gas russo a causa della tensione altissima tra Ankara e Mosca dopo l'abbattimento di un bombardiere russo sul confine siriano a novembre.
  La Turchia dipende dalla Russia per il sessanta per cento del suo consumo di gas ed è quindi vulnerabile a una eventuale rappresaglia nel settore energia da parte dei russi. Anche quando i rapporti erano congelati, dice una fonte turca a Reuters, l'idea di costruire un gasdotto e importare gas naturale dal giacimento Leviathan nel mare davanti Israele non è mai stata accantonata. "Sapevamo che una volta che si fosse risolto il problema politico, tutto il resto si sarebbe prontamente rimesso in moto".
  Leviathan ha riserve stimate pari a 622 milioni di metri cubi di gas e comincerà a produrre nel 2018-2020. La Turchia potrebbe comprare fino a un terzo della produzione. Il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, dice alla radio che normalizzare le relazioni con la Turchia ha un'importanza enorme per sviluppare il giacimento e anche per attrarre gli investitori stranieri di nuovo verso Israele. Giovedì, lo stesso giorno in cui è stato annunciato l'accordo preliminare, il governo di Gerusalemme ha anche dato il via libera a un accordo atteso a lungo che consente a una partnership commerciale israelo-americana di cominciare a sviluppare il giacimento.

(Il Foglio, 19 dicembre 2015)


Autodifesa fai da te

Dallo spray al peperoncino all'ombrello: come gli israeliani si sono ingegnati per combattere i terroristi con il coltello.

di Mario Del Monte

 
Gli ultimi due mesi hanno visto la popolazione israeliana subire un elevato numero di attacchi terroristici con coltelli in tutto il paese. Sebbene in molti casi l'esercito e la polizia siano riusciti a sventare gli attentati, gli israeliani hanno preso d'assalto i negozi che vendono oggetti per l'autodifesa e le palestre in cui si insegna il Krav Maga, uno stile di combattimento israeliano che prevede anche tecniche per reagire a simili attacchi. L'oggetto più acquistato, soprattutto dalle donne, è lo spray al peperoncino, una piccola bomboletta il cui getto urticante è in grado di accecare per qualche minuto l'aggressore. Il suo successo è dovuto alla facile reperibilità, al semplice utilizzo e al fatto di essere totalmente legale.
   La triste cronaca degli ultimi mesi però ci ha mostrato come svariati oggetti possano trasformarsi in un'arma nel momento del bisogno: ombrelli, zaini e addirittura selfie stick, i bastoni su cui applicare lo smartphone per scattare un selfie da maggiore distanza, sono stati utilizzati con successo da alcuni cittadini israeliani per difendersi dall'incombente minaccia. Ormai molti civili si sono resi conto che scendere in strada con una qualsiasi arma è più rassicurante di andare in giro a mani vuote.
   Curiosamente in uno dei più gravi attentati su un bus di Gerusalemme si è evitata la carneficina grazie all'intervento di un ragazzo che portava con sé dei nunchaku, un'arma contundente della tradizione orientale costituita da due piccoli bastoni uniti da una catena di ferro.
   Un altro aspetto da considerare è la riluttanza ad usare coltelli: oltre a non voler essere scambiati per attentatori dalla polizia, gli israeliani sanno bene che il possesso di tali oggetti in strada può essere punito con reclusione fino a cinque anni di carcere. Lo spray al peperoncino resta la prima scelta degli israeliani ma, vista la grande richiesta, è diventato quasi impossibile reperirne uno nelle grandi città. Per questo nei vari gruppi di Facebook dove si parla di autodifesa è stato consigliato a chi non ne possedesse uno di riempire una qualsiasi bomboletta spray con prodotti per la pulizia della cucina o con generi alimentari piccanti come il tabasco.
   Sempre da un gruppo Facebook è nata l'iniziativa di Josh Carr, un istruttore di Krav Maga di origine sudafricana, che, per via dalla situazione di emergenza, ha offerto un corso di autodifesa gratuito a Tel Aviv. Carr ha ricevuto più di mille adesioni finora e ha iniziato a tenere le sue lezioni nei parchi pubblici. Oltre alle vere e proprie tecniche per neutralizzare un eventuale aggressore, il consiglio più importante che viene dato è quello di stare molto attenti quando si passeggia in strada: niente musica nelle cuffiette e niente camminate con gli occhi incollati allo smartphone o si rischia di essere dei facili obiettivi. Inoltre gli istruttori non intendono formare un esercito di eroi e il primo istinto deve essere sempre quello di scappare via. In ultima analisi rimanere in vita è il modo migliore per vincere il terrorismo, la consapevolezza e l'attenzione alla propria sicurezza sono sicuramente il primo passo per raggiungere questo obiettivo.

(Shalom, dicembre 2015)


Allam: «Non esiste l'Islam moderato»

Il giornalista condannato a morte da Hamas: «Italia porto franco. I Marò? Pagina vergognosa».

di Marisa Ingrosso

BARI - Il caso dei Marò? «Una delle pagine più vergognose nella storia della Repubblica». Il progetto di Università islamica a Lecce? «Sono contrario, non esiste un Islam moderato». Ecco, è per posizioni nette come queste che Magdi Cristiano Allam è arrivato ieri in Gazzetta preceduto da un drappello di agenti, carabinieri, unità cinofile e artificieri e circondato dalla sua scorta dioturna. «Reo» di avere idee critiche, è stato condannato a morte da Hamas.
   Ma lui - a giudicare dal suo ultimo libro «Islam. Siamo in guerra» (editore Magic Press; 188 pagine; 10 euro) - non s'è fatto intimidire, anzi. Battezzato dal Benedetto XVI del famoso «discorso di Ratisbona», dice d'esser «preoccupato» dal nuovo corso avviato da papa Francesco. Lo preoccupano due cose: il «relativismo religioso, nel momento in cui si arriva a una sostanziale legittimità dell'Islam come religione» perché «porta i fedeli a pensare che tutte le religioni sono uguali». E poi «questa enfasi sul tema dell'accoglienza» che, «con le frontiere spalancate», «rappresenta per l'Italia un'emergenza». A suo dire, nel nostro Paese «in tre anni sono entrati circa 300.000 clandestini e di questi solo 90.000 sono nei centri di accoglienza». Gli altri sono chissà dove. «E denuncia - negli altri Paesi chi arriva viene identificato. Mentre qui, se si rifiutano, non li forziamo». «Sappiamo però che molti vengono dalle coste libiche e queste, dal 2011, sono controllate da bande terroristiche islamiche». Proprio nella vicina Libia, per superare il caos del post-Gheddafi «ci vorrebbe un esercito». Un esercito egiziano giacché «l'Egitto è l'unico in grado di farlo e disposto a farlo». «Ma commenta sconsolato - credo che il premier Renzi non abbia realizzato che c'è una guerra in corso».
   Nell'analisi di Magdi Cristiano Allam, il fatto che l'Italia sia sostanzialmente un «porto franco» per i terroristi potrebbe allontanare il rischio di un attentato. Ma - ammonisce - «con questi non si possono fare accordi». Non può essere riproposto una sorta di «lodo Moro», cioè il fantomatico accordo tra Italia e Yasser Arafat (capo di al-Fatah prima, dell'Olp dopo e presidente dell'Autorità nazionale palestinese). Perché? «Perché i terroristi attuali non sono razionali, sono coranici. Questi ci vedono solo come territiorio di conquista». «E nel Corano c'è una legittimazione della violenza».
   Un «no» convinto anche al progetto di una Università islamica a Lecce. In quanto «le persone vanno tutte rispettate ma le religioni sono fisiologicamente diverse». Ovvero «non esiste un Islam moderato, esistono musulmani moderati». E «una Università islamica sottintende una valutazione positiva dell'Islam». Ma non è forse meglio una grande Università trasparente e controllabile piuttosto che moschee-garage a disposizione dei predicatori d'odio? «No perché la "fonte " (il Corano; ndr) è la stessa». Inoltre «l'Università salentina sarebbe finanziata dal Qatar che ha investito nel cosiddetto Esercito siriano libero, che di "libero" aveva ben poco e che ha alimentato l'Isis».
   Quanto al caso dei due marò pugliesi, «io - dice - mi auguro che un tribunale della Storia condanni Mario Monti per aver rispedito in India (dove vige la pena di morte) due onesti servitori dello Stato. Mentre teniamo nelle nostre carceri migliaia di terroristi e non li rimpatriamo perché se tornassero sarebbero condannati a morte.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 19 dicembre 2015)


Finalmente oscurano il sito antisemita

Ma nonostante l'indagine aperta «Radio Islam» resta attiva

la Procura di Roma ha chiesto al gip un'ordinanza di oscuramento del sito Radio Islam sul quale è postata un lista di personalità di religione ebraica indicate come influenti nei rispettivi ambiti professionali. A piazzale Clodio è stato aperto ieri un fascicolo processuale, contro ignoti, che ipotizza i reati di minaccia e di diffamazione, con l'aggravante dell'odio razziale. Della vicenda è già è stata investita la polizia postale al fine di risalire ai gestori del sito. Imprenditori, intellettuali e giornalisti i nomi inseriti nella lista, oltre ad una serie di documenti sul «potere ebraico» in Italia.
   Duro il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna : «Le liste di proscrizione rimandano a un periodo non così lontano in cui essere indicati come ebrei significava l'allontanamento dal mondo della scuola e del lavoro. Per questo è importante il passo compiuto dalla Procura di Roma, che ha aperto un fascicolo d'inchiesta sui delinquenti che da molti anni impunemente seminano odio e pregiudizio antiebraico su un delirante sito web denominato Radio Islam». E poi: «Si tratta di schede che contengono informazioni insensate, sconclusionate, inesatte e diffamatorie, ma la loro stessa esistenza sulla rete costituisce una violazione dei diritti fondamentali e un pericolo per l'intera società». «Atti di questo genere sono un'offesa intollerabile per il lavoro duro che si sta svolgendo per il dialogo tra religioni e per superare le barriere esistenti». Così Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma,. Le barriere, spiega, sono quelle «legate ai pregiudizi, al razzismo e all'antisemitismo». L'esistenza di liste nere di nomi di persone influenti di religione ebraica non è una novità: «Denunciamo queste black list già dal 2008. Questa volta però preoccupa che la lista non sia apparsa su siti filonazisti. Ho letto però che tra gli elencati ci sono persone che non sono neanche di religione ebraica. Questa è una violenza ulteriore, per tutti».

(il Giornale, 19 dicembre 2015)


Firenze - Al Museo Ebraico si festeggia "Hanukkah" con i bambini

Appuntamento domenica 20 dicembre alle ore 11 con un laboratorio per i più piccoli alla scoperta di una delle festività più amate del calendario ebraico. Una delle feste più magiche della tradizione ebraica vista con gli occhi dei bambini, un'occasione per stimolare la loro curiosità e risvegliare la loro attenzione.
   Al Museo Ebraico di Firenze (via Luigi Carlo Farini 6) la storia delle religioni s'impara giocando con un divertente laboratorio in programmadomenica 20 dicembre alle 11. S'intitola "Hanukkah. La festa delle luci nel periodo più buio dell'anno tra storia e divertimento", l'attività didattica a cura di CoopCulture destinata a bambini dai 6 ai 10 anni: la prenotazione è consigliata entro le ore 13 di venerdì 18 dicembre, scrivendo a sinagoga.firenze@coopculture.it oppure telefonando al numero 055 2346654, ma è sempre possibile fino a esaurimento posti presentandosi in biglietteria.
   Una visita animata tra tanti giochi e racconti all'ombra della Sinagoga: i più piccoli saranno guidati verso la scoperta di una delle celebrazioni più importanti e gioiose del calendario ebraico - Channukkah o Hannukkah, oppure Festa delle Luci - che, storicamente, commemora la consacrazione di un nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la libertà conquistata dagli ellenici.
   La durata della festa è spiegata dal Talmud (il testo classico dell'Ebraismo, secondo solo alla Bibbia) con una leggenda: quando gli ebrei riconquistarono Gerusalemme cercarono l'olio puro per alimentare la menorah, il candeliere a sette braccia, trovandone però solo un'unica ampolla, sufficiente appena per un giorno. Per un miracolo, tuttavia, quella piccola scorta d'olio durò otto giorni. A questa leggenda è legato l'oggetto simbolo di questa festa: la speciale lampada a nove bracci chiamata chanukkià.
   Al termine del laboratorio, i bambini parteciperanno a una piccola visita alla Sinagoga con un premio finale da ritirare al bookshop. Il costo dell'attività è di 2 euro a persona in aggiunta al biglietto d'ingresso ridotto di 5 euro. Possibilità di biglietto famiglia a 13 euro per due adulti che accompagnano due minori.

(Firenze Today, 18 dicembre 2015)


Perché gli "urtisti" si chiamano così?

Un po' di storia degli ambulanti che protestano al Colosseo.

 
Gli urtisti, altrimenti detti "peromanti" o "ricordari", sono tornati ieri a protestare. Il commissario Tronca ha stabilito che, per tutta la durata del Giubileo, non possono allestire i loro banchetti di souvenir davanti al Colosseo. Arena chiusa per mezz'ora, gli urtisti hanno bloccato gli ingressi dell'Anfiteatro Flavio. "Non e' possibile andare a vendere i souvenir dove i turisti non ci sono - hanno spiegato-. In tutte le citta' italiane vengono venduti nelle principali piazze storiche, non si capisce perche' questo non debba avvenire anche a Roma". Ma chi sono gli "urtisti" e perché si chiamano così?

 "Urtista", ecco perché
  Deriva da quel piccolo urto che con la cassetta piena di santi, papi, madonne e rosari portata al collo con una cinghia di tela, davano ai pellegrini di piazza San Pietro per attrarre la loro attenzione.

 Ambulanti ebrei che hanno attraversato 150 anni di storia di Roma
  Si tratta di ambulanti ebrei che hanno attraversato 150 anni di storia di Roma. La loro esistenza è datata prima dell'Ottocento. A regolamentarla, una bolla papale che autorizzava le licenze ai commercianti di religione ebraica, a quel tempo ancora confinati all'interno del Ghetto. La loro religione, infatti, vietava la vendita di oggetti religiosi fuori dal 'loro territorio' e lo Stato Pontificio diede loro il permesso di vendere rosari ai pellegrini. Durante il fascismo fu loro assegnata una divisa. Sul berretto l'acronimo SFVA, Sindacato Fascista Venditori Ambulanti e per tutto il ventennio resistettero nonostante il clima attorno si facesse anno dopo anno più pesante.

 I nazisti li dichiararono abusivi
  A metterne a rischio l'esistenza, l'arrivo dei nazisti in città che li dichiararono abusivi. La loro attività divenne nascosta, trasformandosi in vendita di sigarette ai soldati tedeschi. Finita la guerra, il loro lavoro tornò regolare, entrando nell'immaginario comune dei turisti che approdavano a Roma. Nessun banco ancora, ma una cassetta di legno al collo, munita di cassettini con souvenir di tutti i tipi.

 La fortuna arrivò negli anni '60
  La loro fortuna arrivò negli anni '60 con il boom dei turisti. Le cassette, denominate gli schifetti, dal collo passarono al cavalletto negli anni '70. Nella seconda metà di quegli anni avvenne la trasformazione in bancarelle. Furono così regolamentate le licenze.

(ANSA, 18 dicembre 2015)


Hamas vuole più attentati contro Israele

Compresi attacchi suicidi. Lo afferma Times of Israel.

Hamas sta tentando di organizzare dalla Cisgiordania più attacchi contro Israele, attentati suicidi compresi. Lo afferma 'Times of Israel' che cita una fonte anonima dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) secondo cui "interrogatori di operativi di Hamas" arrestati dall'Anp hanno rivelato che i leader del gruppo a Gaza e all'estero hanno ordinato "ai comandi locali di aumentare le loro attività:da proteste e attacchi al coltello fino a più drammatici e mortali assalti ai civili israeliani".

(ANSA, 18 dicembre 2015)


Israele e Turchia, accordo preliminare per "normalizzare" i rapporti

Le relazioni fra i due Paesi si erano inasprite nel 2010, in seguito all'attacco israeliano alla Mavi Marmara, in cui erano morti 10 attivisti turchi. Israele promette di risarcire le famiglie delle vittime. Ankara farà cadere le accuse e le rivendicazioni verso Israele. Sul piatto anche un accordo relativo a un gasdotto.

Israele e Turchia hanno raggiunto un accordo preliminare sulla "normalizzazione" dei rapporti diplomatici fra i due Paesi. Le relazioni fra i due Paesi si erano inasprite nel 2010, quando Israele aveva compiuto un raid a bordo di una imbarcazione (la Mavi Marmara) diretta a Gaza per portare aiuti nella Striscia, causando la morte di dieci attivisti turchi. In base all'accordo Israele si impegna a risarcire le famiglie delle vittime, mentre Ankara farà cadere tutte le accuse e le rivendicazioni finora avanzate nei confronti di Israele.
Al momento non vi sono conferme ufficiali dai due fronti in merito alla ripresa dei rapporti, ma alcuni alti funzionari dietro anonimato danno per certa l'intesa. L'accordo sarebbe stato raggiunto in Svizzera, nel corso di un incontro fra alti rappresentanti dei due Paesi.
Dalle prime informazioni emerge che l'intesa prevede anche lo scambio di ambasciatori fra Israele e Turchia.
Nel corso dell'incontro fra le due delegazioni si è discusso anche di un progetto che prevede la costruzione di un gasdotto che collegherà Israele e la Turchia; un progetto non da poco, considerando che Ankara nell'ultimo periodo è invischiata in una feroce controversia con Mosca, principale fornitore di gas, in seguito all'abbattimento di un caccia russo sui cieli siriani.

(AsiaNews.it, 18 dicembre 2015)


Israele: invenzione della pelle elettronica autoriparabile

 
In Israele è stata inventata la pelle elettronica autoriparabile. La redazione di siliconwadi.it aveva già lanciato la notizia con l'articolo dal titolo Ricercatori israeliani sviluppano nuovo materiale per auto-guarigione.
Il mondo scientifico è in fermento e per tale ragione vi sono degli aggiornamenti e approfondimenti. I ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Chimica presso il Technion di Haifa hanno appena superato l'ultima barriera per lo sviluppo in futuro della pelle elettronica. In collaborazione con il Russell Berrie Nanotechnology Institute (RBNI) i ricercatori hanno sviluppato un materiale rivoluzionario in grado di rilevare il senso del tatto, la temperatura e l'umidità come se fosse una pelle naturale.
L'innovazione, che è stata oggetto di una pubblicazione sulla rivista scientifica Advanced Materials, pone l'accento sull'utilizzo di un nuovo tipo di polimero che imita le proprietà autorigeneranti della pelle come quando si avvia il processo di guarigione da una ferita. Partendo da questo modello la pelle elettronica sarà in grado di ripararsi in brevissimo tempo, ovvero meno di un giorno.
Il Prof. Hossam Haick, co-autore di questa innovazione, spiega:

Questi nuovi sensori sono fatti di nanoparticelle disposte su un substrato e tra gli elettrodi metallici. In questo modo, i sensori possono riparare tutte le ferite.

Si precisa che questo materiale adatta la propria resistenza elettrica in funzione dei cambiamenti ambientali. Più è sensibile ed estensibile e più è in grado di autoripararsi e rinnovarsi completamente.



Questa tecnologia è più efficiente se utilizzata a temperature estreme (tra i -20oC e 40oC), che ampliano ulteriormente il potenziale utilizzo.
Il Dott. Tan-Phat Huynh del Technion, anch'egli co-sviluppatore, afferma:

Questi sensori fanno sperare che un giorno la tecnologia possa essere utilizzata come un biosensore per monitorare la salute. Per le persone che indossano protesi, l'integrazione di questa pelle elettronica permetterà loro di sentire nuovamente l'ambiente.

Un ulteriore utilizzo sarà quello in ambito elettronico e robotico evitando graffi o crepe che possono danneggiare i dispositivi.

(SiliconWadi, 18 dicembre 2015)


Netanyahu firma l’accordo sul giacimento di gas Leviathan

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha firmato con il ministro dell'Energia e delle infrastrutture, Yuval Steinitz, il controverso accordo quadro sul gas naturale fra Israele e due società commerciali, Noble Energy e Delek Group, incaricate dello sviluppo del giacimento Leviathan. L'ex ministro Aryeh Deri aveva rassegnato le dimissioni lo scorso primo novembre proprio perché contrario dell'accordo da diversi miliardi di dollari con il gigante energetico statunitense Noble Energy. In particolare, Deri si era dimesso per il suo rifiuto di bypassare l'autorità antitrust, che avrebbe potuto bocciare l'accordo in virtù della presunta condizione di monopolio del consorzio Noble-Delek. "L'accordo è importante per l'economia, la sicurezza e le relazioni esterne", ha detto Netanyahu prima della firma. L'intesa, tuttavia, potrebbe ancora essere impugnata davanti alla Copre suprema per eventuali violazioni delle norme della concorrenza.
  Il giacimento Leviathan è uno dei più grandi mai scoperto nel Mediterraneo e si trova in quella zona definita "bacino del levante". È situato a 130 chilometri dalla città portuale israeliana di Haifa, a una profondità marina di 1.500 metri. Insieme alle risorse dell'altro giacimento vicino, il Tamar, Israele potrebbe godere di 100 anni di energia a basso costo. Nonché gran parte del fabbisogno europeo. In tutto si stima che i due giacimenti nascondano tre miliardi e mezzo di metri cubi di metano. Il problema è che si trovano nelle acque territoriali della che dalla Striscia di Gaza si allungano al confine con il Libano. A scoprirlo è stata l'americana Noble Energy, che dagli anni '90 ha contribuito all'esplorazione delle coste per trovare giacimenti energetici con altre due società israeliane.
  Nel corso degli ultimi anni, le scoperte di idrocarburi nel Mediterraneo orientale hanno condotto ad un riallineamento strategico fra importanti attori della regione quali Egitto, Israele, Cipro, Libano, Turchia e Grecia. Secondo gli analisti nonostante la situazione di tensione nella regione, l'unica alternativa per poter sfruttare a pieno il potenziale energetico è la cooperazione fra i paesi detentori della preziosa risorsa. Dal 2009 al 2011 l'area marina del Mediterraneo Orientale è stata teatro della scoperta di ben tre importanti giacimenti di gas: Tamar e Leviethan (Israele) e Aphrodite (Cipro). La scoperta del giacimento "super giant" egiziano di Zohr da parte di Eni ha aumentato le spinte per una ulteriore collaborazione fra i paesi della regione.
  La scoperta al largo delle coste egiziane potrebbe dar vita alla creazione di un "hub" energetico che possa da un lato portare crescita nei paesi della sponda sud del Mediterraneo, dall'altro coinvolgere paesi vicini come Israele e Cipro e rafforzare la sicurezza energetica dell'Europa intera. "Se i paesi coinvolti riusciranno a collaborare nella creazione di nuove infrastrutture necessarie, ci sono condizioni per nuovo hub del gas nel Mediterraneo che posso a portare ricchezza prosperità nella regione e diversificazioni delle fonti in Europa. La grande e disponibilità di gas nel Mediterraneo potrà favorire lo sviluppo di politiche Ue che di concerto con gli con obiettivi di decarbonizzazione dia al gas fonte ideale da associare alle fonti rinnovabili", ha detto lo scorso 11 dicembre Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, al Forum Med - Mediterranean Dialogues organizzato a Roma.
  Eni conta di sviluppare il mega giacimento già a partire dal mese di gennaio. L'amministratore delegato non ha escluso inoltre la possibilità di esportare gas verso l'Europa, in collaborazione anche con i paesi vicini, Israele e Cipro in primis. "L'Egitto ha investito molto in infrastrutture energetiche che allo stato attuale sono vuote e che potrebbero essere usate a livello regionale", ha detto ancora il numero uno dell'azienda italiana. A seguito di scoperte nel 2009 e nel 2010 da parte della compagnia statunitense Noble Energy, Israele ha rivendicato il campo Tamar, con una capacità stimata di 307 miliardi di metri cubi di gas, e di Leviathan (450 miliardi di metri cubi). I due campi hanno rivoluzionato il potenziale economico di Israele, rappresentando non solo una fonte sicura di energia per lo sviluppo interno, ma anche un potenziale per quanto riguarda esportazioni in altri paesi.
  Tuttavia ad oggi i ritardi e le dispute politiche interne alle istituzioni israeliane hanno consentito il solo sfruttamento interno, mentre un piano che per le esportazioni deve essere ancora realizzato. Come avvenuto per Israele, anche per Cipro il ritrovamento del campo Aphrodite (capacità stimata di 128 miliardi di metri cubi) da parte di Noble Energy e dell'israeliana Delek ha offerto nuovi orizzonti di sviluppo per uno stato con un economia strettamente legata ai settori del turismo e dei servizi.

(Agenzia Nova, 18 dicembre 2015)


«È il fisco, bellezza». Bar Refaeli nei guai

La modella accusata di aver evaso 240mila euro.

 
Bar Refaeli
TEL AVIV - A pochi mesi da un matrimonio sfavillante - che ha coronato la storia di amore con uno dei più facoltosi uomini d'affari di Israele - la super-model israeliana Bar Refaeli si è vista recapitare dal tribunale distrettuale di Tel Aviv una richiesta di arresto, assieme alla madre Tzipi. Secondo il fisco avrebbe evaso le tasse per un milione di shekel, pari a 240 mila euro. Martedì scorso mamma e figlia erano state torchiate per dodici ore negli uffici dell'erario israeliano. Solo ieri però le autorità hanno consentito la divulgazione della vicenda. In serata sono state rilasciate entrambe, dietro una cauzione di quasi 250 mila euro, ma hanno dovuto consegnare i rispettivi passaporti. Una grossa limitazione per Bar che è solita spostarsi in tutto il mondo per svago e per lavoro.
  Nei prossimi mesi potrà disporre del passaporto esclusivamente dietro consenso di un alto funzionario dell'autorità istraeliana. Al centro della vicenda c' è la definizione della residenza della modella negli anni 2009-11. L'erario israeliano intende dimostrare che in quel periodo Bar risiedeva principalmente in Israele e che, di conseguenza, avrebbe dovuto dichiarare alle autorità locali guadagni di decine di milioni di dollari accumulati all'estero, almeno secondo le stime del quotidiano Haaretz . Segugi dell'erario avrebbero scoperto che in quegli anni la Refaeli abitava di norma in lussuosi grattacieli di Tel Aviv in appartamenti affittati per lei da prestanome. Nei rotocalchi, era cittadina del mondo. Nella vita reale - sostiene l'erario - una israeliana con eguali doveri rispetto alle autorità fiscali. Gli interrogatori, affermano i media, sono stati ruvidi. Abituata alle gentilezze di attori celebri come Leonardo di Caprio e alle premure degli addetti alle relazioni pubbliche, la Refaeli - che vanta anche una parte da agente del Mossad in un film israeliano - si è sentita molto a disagio nei grigi uffici del fisco israeliano.
  «A un certo punto - dicono le televisioni - la sua tempra ha ceduto. Si è messa a singhiozzare. Ha chiesto l'aiuto della madre». Alla Refaeli è stato contestato che avrebbe dovuto dichiarare anche una jeep lussuosa cedutale da un importatore, per considerazioni di immagine. Funzionari evidentemente non pratici del glamour del mondo della moda - le hanno anche detto che pure sconti iperobolici ottenuti nell'acquisto di un appartamento avrebbero dovuto essere riferiti al fisco, per un esame più approfondito della loro natura. Al termine della drammatica giornata il rischio di un arresto, ha tranquillizzato uno dei suoi avvocati, è stato scongiurato. «Nessun dramma - ha assicurato. —Si tratta di un normalissimo scambio di vedute fra funzionari pubblici ed avvocati». E anche esperti del ramo hanno confermato al giornale economico Globes che le infrazioni tecniche attribuite alla Refaeli possono essere contestate con successo in un tribunale. Ma per la modella più bella del Paese la crisi è innegabile: ancora pochi giorni fa si era fatta riprendere - in apparenza priva di preoccupazioni - con nuovi modelli di biancheria intima fra balle di paglia in una zona rustica. Adesso per lei il cielo si è rabbuiato e promette temporali, cosa che la obbliga a correre velocemente ai ripari.

(Nazione-Carlino-Giorno, 18 dicembre 2015)


Sito islamico come i nazisti: liste di proscrizione di ebrei

La Procura di Roma apre un fascicolo per minaccia e diffamazione con l'aggravante dell'odio razziale. Ma non è stato subito oscurato.

di Patricia Tagliaferri

ROMA - Dicono di essere contro tutti i tipi di razzismo e contro ogni discriminazione basata sul colore della pelle, la fede religiosa e il gruppo etnico, eppure quello che scrivono su internet è finito all'attenzione dei magistrati romani, che ipotizzano contro i responsabili del sito Radio Islam il reato di minacce e diffamazione con l' aggravante, appunto, dell'odio razziale. La Procura di Roma, infatti, ha aperto un'inchiesta, per ora contro ignoti, dopo che sul portale è apparsa una blacklist di personalità di religione ebraica, come delle vere e proprie liste di proscrizione. Un tema, quello del contrasto alla propaganda terroristica e all'istigazione all'odio online, su cui già sta lavorando il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che tiene i contatti attraverso riunioni periodiche con gli operatori del mondo della rete.
   Nel sito, sotto la dicitura «Il giudaismo in Italia» c'è un elenco degli «ebrei influenti italiani». Compaiono i nomi di imprenditori, tra cui Carlo De Benedetti, John Elkann e Franco Bernabè, tutti con la dicitura «ebreo» scritta in rosso, di giornalisti come Paolo Mieli e Enrico Mentana e dello scrittore Roberto Saviano. Oltre ad una serie di documenti sul «potere ebraico» in Italia e sul «revisionismo». Il contenuto di Radio Islam è stato scoperto dal nucleo speciale frodi tecnologiche della Finanza, che lo ha segnalato alla Procura. I pm hanno ora delegheranno le indagini alla polizia postale, che a breve potrebbe procedere all'oscuramento delle pagine web. Per ora sono ancora consultabili e sull'home page, dove si può scegliere di leggere i contenuti in 23 lingue diverse, c'è scritto che Radio Islam è «un'associazione apolitica, che agisce per promuovere maggiori e migliori relazioni tra !'"occidente" (riportato proprio tra virgolette, ndr) e il mondo arabo e islamico». Il sito dice di essere «contro il razzismo ebraico verso i non-ebrei e gli obiettivi del sionismo internazionale», che oggi «costituisce l'ultima ideologia razzista ancora vivente e lo stato sionista d'Israele l'ultimo luogo rimasto di "apartheid" nel mondo». Curiosando tra le pagine si incontra un capitoletto sul quello che viene chiamato «il monopolio ebraico nei mass media in Italia». Qui si parla dell'ex direttore del Corriere della Sera Ugo Stille, di Arrigo Levi e Fiamma Nirenstein, recentemente indicata come ambasciatore designato di Israele in Italia. L'elenco continua con i nomi di attori e registi tra cui Alessandro Haber, Claudio Amendola e Luca Barbareschi. Spazio anche per molti professori «devoti sayanim», ovvero «persone liete di servire Israele pur vivendo in uno stato diverso da quello ebraico». Sayanim che nelle nostre università- riporta sempre Radio Islam - «collaborano con l'intelligence israeliana» e sono per questo «da considerare persone potenzialmente pericolose».
   Rivolge un plauso alla Procura che ha aperto l'inchiesta la presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello: «Siamo arrivati al raccapricciante, all'inverosimile - commenta - è una rappresentazione di un odio antisemita intollerabile».

(il Giornale, 18 dicembre 2015)


Chagall. Trionfo in musica

di Daniele Zappalà

 
Chagall al lavoro per il “Dafne e Cloe” (1958)
Le due meraviglie del mondo sono la Bibbia e la musica di Mozart e una terza, naturalmente, l'amore». Questa citazione insieme semplice, luminosa e profonda è stata incisa nella sala centrale dell'itinerario espositivo offerto dalla mostra "Marc Chagall. Il trionfo della musica", accolta fra le mura ancora fresche d'intonaco della Philarmonie, antro dalle linee ondeggianti quasi come le orecchie dei parigini a cui è per ora destinata (ma dal 5 marzo al 13 giugno la mostra sarà a Nizza, al Museo Mare Chagall). E la citazione del celebre artista di origine russa naturalizzato francese, accarezzando sinesteticamente sensi diversi, riassume bene il proposito dell'evento, teso a mostrare quanto Chagall fu sedotto durante tutta la sua vita dalla musica, al punto da dedicare una porzione considerevole della propria opera ad allestimenti al servizio di una musa al quale non si è soliti associarlo. I'ultima grande mostra parigina dedicata al pittore, nel 2013 al Musée du Luxembourg, aveva molto insistito sull'ispirazione biblica dell'immaginario chagalliano. In modo complementare, quella in corso approfondisce l'altro piede che irrorò di continuo l'ispirazione dell' artista di famiglia ebrea scomparso nel 1985 sotto il sole di Provenza, dopo quasi un secolo pieno di slanci (nacque nel 1887 a Vìtebsk, nell'attuale Bielorussia). In questa coda d'anno così fosca nella Parigi martoriata dal terrorismo, la mostra appare per contrasto ancor più come un' oasi imbevuta di armonie, dove sono convocate oltre alla pittura e alla musica, pure la danza, la poesia e la scultura. Una sorta di raro ritrovo fra muse che l'evocazione di soli pochi altri geni novecenteschi potrebbe analogamente consentire.
  In un insolito itinerario cronologicamente a ritroso, dalla piena maturità indietro fino agli albori, si parte con le grandi composizioni allegoriche commissionate nei primi anni Sessanta al pittore già dalla chioma bianca, in particolare per decorare l'Opéra Garnier di Parigi: un'iniziativa del celebre ministro della Cultura dell'epoca, lo scrittore André Malraux. E fu probabilmente solo il carisma dell' autore della Condizione umana a convincere Chagall ad imbarcarsi in una simile impresa. Possono così persino commuovere le foto, riprese nell'atelier parigino, del settantenne che traccia tratti al suolo con un lungo pennello come un moschettiere ancora non pago di migliaia di duelli con il mistero delle forme e dei colori. Realizzata su ampie strisce di tessuto fissate poi sopra i precedenti affreschi, l'allegoria interpreta e riunisce i capolavori operistici dei più grandi. Accanto a Mozart, Beethoven, Wagner, Verdi, c'è spazio anche per altri, dai francesi ai russi.
  La passione di Chagall per i palchi abitati dalla musica lo spinse persino a realizzare le scenografie e i costumi di rappresentazioni memorabili, dal Flauto magico di Mozart fino a balletti come l'Uccello di fuoco di Stravinskij, o il Dafni e Cloe di Ravel. I: opera forse più sintetica e impressionante della mostra, già nella seconda sala, è Commedia dell'arte (1958), vasto olio su tela giunto da Francoforte. In un turbine calmo, sembrano vibrare nella composizione tutti i colori, i personaggi allegorici e i simboli, le ossessioni e le arti, compreso il circo, cari al pittore. Ad impressionare, di certo, è pure l'azzeccata scelta di mostrare il capolavoro esattamente alla confluenza fra le sonorità operistiche della prima sala (di volta in volta mozartiane, wagneriane, verdiane ecc.) e i ritmi per balletto della terza.
  Dopo aver soggiornato in Grecia, Chagall s'innamorò più che mai del blu, ma acquisì nell'Ellade pure una nuova consapevolezza della forza dei miti che da sempre tanta arte scenica hanno ispirato. Nasceranno così scenografie mai viste prima nei teatri d'opera, alla frontiera fra mistiche cosmogonie ed eterni giochi dell'infanzia o di quelle età adulte rimaste gelosamente infantili. Per illustrare al meglio il divario che separa il semplice eclettismo dalla geniale e spontanea sinestesia, una saletta è dedicata anche alle sculture, fra cui un toccante Cristo in rilievo in pietra chiara sedimentaria di Provenza. Alcune teche illustrano pure la variopinta produzione in ceramica.
  L'ultima sala schiude invece le prime sperirnentazioni giovanili di Chagall, nel cuore della cultura ebraica dell'Europa orientale, fra violinisti dal volto verde e rabbini avvolti già nella poesia e nel sogno che da allora non abbandoneranno mai più l'artista. Dalla Galleria Tretjakov di Mosca sono giunti pure i pannelli allegorici del 1920 concepiti per il Teatro d'arte ebraica (Goset): accanto al celebre La musica, pure quelli su drammaturgia, letteratura e danza. Fu un tentativo per accostare l'avanguardia artistica dell' epoca a uno scopo sociale e politico di legittimazione della diaspora ebraica nel nascente spazio sovietico.
  Rispetto al cemento grezzo che caratterizza i vestiboli della Philarmonie, la mostra catapultalo spettatore in una piscina di luce e di suoni che non sembrano sopportare nessuna rigidità. Per chi non fosse ancora pago, un'altra mostra gemella di taglio più biografico, ma sempre sulle relazioni fra Chagall e la musica è stata parallelamente allestita a Roubaix, alla frontiera con il Belgio: le "fonti musicali" dell'artista sono esplorate attraverso circa duecento opere. Per una strana coincidenza, l'asse geografico fra le due mostre è lo stesso a cui ha dato risalto la tragica attualità francese delle ultime settimane. E per molti visitatori, all'uscita dalle due mostre, ci sarà di certo qualche ragione in più per rallegrarsi del passaggio fra i terrestri di un certo Chagall.

(Avvenire, 18 dicembre 2015)


Firenze: Maria Adelaide (Gina) Silvestri Sabatini riconosciuta "Giusta fra le Nazioni"

Strappò i Della Pergola ai nazifascisti.

FIRENZE- Maria Adelaide (detta Gina) Silvestri Sabatini è stata riconosciuta 'Giusta fra le Nazioni'. La cerimonia di conferimento della medaglia si è tenuta nella Sinagoga di Firenze ed è stata consegnata al nipote Federico Sabatini. Alla cerimonia hanno partecipato tra gli altri la presidente della comunità ebraica di Firenze Sara Cividalli, il professor Sergio Della Pergola, salvato da Gina insieme ai suoi genitori dal genocidio nazista, il ministro e consigliere dell'ambasciata di Israele in Italia Rafael Erdreich e l'assessore al Welfare Sara Funaro, che ha portato il saluto della città.
   Il nome di Gina si va ad aggiungere insieme a quello di Livia Sarcoli, della quale non è stato possibile rintracciare dei parenti, nel registro dei Giusti del Memoriale dello Yad Vashem di Gerusalemme, l'istituto israeliano che rende immortale omaggio a chi mise a rischio la propria vita pur di sottrarre anche un solo individuo alla barbarie nazifascista. Fu grazie a Livia e Gina se il nucleo familiare dei Della Pergola (il padre Massimo, noto giornalista sportivo e ideatore del Totocalcio in un campo di lavoro in Svizzera, la moglie Adelina e il figlio Sergio) ebbe modo di mettersi in salvo. I Della Pergola si erano rifugiati a Firenze nell'agosto del 1943, dopo aver lasciato Trieste.
"Una persona che salva le vite altrui, mettendo a rischio la propria, salva non solo un pezzo di futuro ma anche dell'attualità perché ogni persona salvata contribuisce a creare la società in cui viviamo - ha detto l'assessore Funaro -. Capita a volte che ci dimentichiamo di quello che hanno fatto i nostri predecessori e di quanto sia importante ancora oggi salvare vite umane, mentre dobbiamo fare in modo di continuare a tendere una mano a chi ha bisogno, come è stata tesa in passato. È importante continuare a organizzare iniziative nelle scuole che valorizzano il Ricordo nei nostri giovani - ha concluso Funaro - perché anche i nostri ragazzi possano continuare a rimboccarsi le maniche per aiutare le persone in difficoltà".
Il riconoscimento di 'Giusta fra le Nazioni' indica i non-ebrei che hanno rischiato la propria vita per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista, dalla Shoah. Maria Adelaide Silvestri Sabatini fece fuggire numerosi ebrei in Svizzera, procurando loro anche documenti e carte di identità falsi nonché anche luoghi di rifugio. Diverse testimonianze confermano che era Gina stessa, alcune volte, ad accompagnare personalmente i fuggitivi da Firenze fino al confine svizzero tra cui anche le famiglie Forti, Brunner e Silvia Purita.

(Firenze Post, 18 dicembre 2015)


L'Associazione medica israeliana: "Tutti i pazienti sono uguali, che siano vittime o terroristi"

di Daniel Reichel

 
Tammy Karni, capo della Commissione etica israeliana
Sulla scena di un attentato terroristico medici e paramedici israeliani dovranno prestare soccorso ai feriti in base alla gravità delle loro condizioni, anche se ciò potrebbe significare trattare prima il terrorista rispetto alle sue vittime. Ad affermarlo la Commissione etica dell'Associazione medica israeliana (Ima) che con una recente direttiva ha modificato in modo significativo le linee guida vigenti. Fino ad oggi infatti il principio seguito era quello del "charity begins at home", ovvero si dava priorità alle vittime dell'attentato anche nel caso in cui il ferito più grave fosse l'attentatore. La decisione di cambiare il cosiddetto triage (il metodo di valutazione e selezione usato in presenza di più pazienti per assegnare il grado di priorità del trattamento) è arrivata in seguito alle obiezioni sollevate alla Commissione dell'Ima dalla Physicians for Human Rights, secondo cui le precedenti linee guida contraddicevano etica medica e leggi umanitarie internazionali.
   Intervistata dal quotidiano Israel Hayom, il capo della Commissione etica Tammy Karni ha affermato che le regole precedenti richiedevano ai medici di verificare chi fosse un attentatore e chi una vittima. "I dottori non sono giudici - la posizione di Karni riportata sul giornale israeliano - Mantenere la direttiva precedente significava che i medici dovevano indagare su chi fosse responsabile e punirlo non fornendo il trattamento". "È molto facile fare errori quando si è di fronte a eventi con un grande numero di vittime, e non ci s può aspettare dal medico sul luogo di accertarsi dell'identità delle vittime. Deve concentrarsi sul salvare più vite possibili. È ingiusto caricarlo di criteri ulteriori nell'applicazione del triage, criteri che non hanno nulla a che fare con lo stato di salute del paziente".I quotidiani israeliani ricordano come la Commissione etica sia l'unica istituzione preposta a indicare gli standard etici per la realtà medica israeliana e le sue decisioni devono essere seguite da medici, paramedici, servizi emergenziali e infermieri. Un portavoce del Maghen David Adom, il servizio di pronto soccorso israeliano, parlando con l'agenzia di stampa Jta ha sottolineato che l'organizzazione ha sempre curato i pazienti solo sulla base della gravità delle ferite.
   Le linee guida precedenti, ovvero quelle che seguivano il principio del "charity begins at home" (letteralmente, "la carità/beneficenza inizia da casa"), erano state approvate nel 2008 da un gruppo di medici della Commissione etica, tra cui il direttore del dipartimento di medicina d'urgenza dell'ospedale Ichilov di Tel Aviv Pini Halperin. Interpellato da Israel Hayom, Halperin ha criticato la recente modifica, affermando che delle indicazioni sul trattamento dei nemici sono necessarie. Per Halperin un incidente con molti feriti "è una situazione estrema, caratterizzata da staff e attrezzatura medica esigui. Se è impensabile negare a un terrorista le cure mediche, in una situazione in cui devi prendere decisioni di vita o di morte sui feriti, credo che tu debba trattare prima le vittime, che siano arabi o ebrei, poi il nemico".
"In tutti i casi di attacchi terroristici, le equipe mediche dovrebbero trattare le vittime e solo successivamente l'aggressore", ha dichiarato il rabbino Yuval Cherlow, capo del Comitato Etico dell'Organizzazione Tzohar alla Jta. "Solo nei casi in cui non sia facilmente determinabile chi è il terrorista e chi è la vittima, i medici dovrebbero scegliere di trattare prima il ferito più grave".

(moked, 17 dicembre 2015)


Scegliete: o con Isis o con Israele

Un sacerdote, Gabriel Naddaf, le suona al Parlamento europeo: "Perché boicottate l'unico rifugio per i cristiani, mentre ogni 5 minuti i fanatici islamici ne uccidono uno?" Intervista a un cristiano nel mirino del jihad.

di Giulio Meotti

ROMA - Qualche giorno fa, al Parlamento europeo, si è tenuta una sessione speciale sulla marchiatura dei prodotti israeliani dalla Cisgiordania, un primo passo verso il loro boicottaggio. Numerose organizzazioni non governative e politici hanno testimoniato a favore della misura, adottata dall'Unione europea e contro la quale il Foglio ha lanciato una campagna (oltre cinquemila firme raccolte). A favore di Israele si è presentato un sacerdote in abito talare, alto e maestoso, barba folta, Gabriel Naddaf.
   "Si tratta di antisemitismo", ha esclamato Naddaf. "La marchiatura dei prodotti israeliani tradisce il nucleo del patrimonio cristiano dell'Europa, ed è un ulteriore segno dell'indebolimento dei valori cristiani in Europa". Poi l'accusa di ipocrisia rivolta a Bruxelles: "Mentre l'Europa è occupata nella marchiatura dei prodotti israeliani, le terre in tutto il medio oriente e l'Africa sono inzuppate del sangue dei cristiani. In medio oriente c'è un solo paese dove i cristiani possono vivere in sicurezza, in cui possono prosperare, e dove ci sono la libertà di espressione e quella religiosa. In quel paese i cristiani sono in grado di praticare le loro tradizioni religiose, possono essere eletti al Parlamento e hanno pieni diritti democratici. E' l'unico paese del medio oriente, dove la popolazione cristiana cresce e prospera. Questa è la nazione ebraica, la nazione di Israele. E noi, i cristiani, dobbiamo proteggere questa terra santa, che è la fonte della fede cristiana".
   Non si era mai sentito nulla di simile in un'aula del Parlamento europeo. Naddaf è una figura unica in medio oriente. Leader carismatico della chiesa greco-ortodossa in Israele, il sacerdote deve andare in giro con la scorta messagli a disposizione dalle autorità israeliane. La "colpa" di Padre Naddaf è quella di denunciare la sorte dei cristiani nel mondo arabo-islamico e di essere filoisraeliano. Si capisce perché sulla testa di Naddaf pesa oggi una taglia promossa dagli islamisti. La sua vita è in pericolo. E' stato definito "un traditore" e "un apostata".
   I suoi pneumatici sono stati trinciati più volte e stracci insanguinati vengono spesso lasciati fuori da casa sua. Il sacerdote viene regolarmente minacciato al telefono e il figlio è stato aggredito fuori casa da un giovane brandendo una mazza di ferro. "Gesù era ebreo, di famiglia ebraica e parlava aramaico, non arabo", dice al Foglio Padre Naddaf. "Dobbiamo sempre ricordarcelo. Ogni cinque minuti un cristiano viene ucciso in quanto cristiano in medio oriente. In Siria, c'erano due milioni di cristiani, oggi sono solo duecentomila. In Iraq, nel 2000, c'erano quattro milioni di cristiani, mentre ora ce ne sono solo trecentomila. I massacri quotidiani vissuti dai cristiani hanno aperto gli occhi dei loro correligionari in Israele, dove invece c'è una comunità cristiana che cresce ogni anno di più". Secondo il Central Bureau of Statistics di Gerusalemme, erano 158 mila i cristiani in Israele nel 2012. Alla fine del 2014 erano 163 mila, cinquemila in più. Ma soprattutto, dal 1948 a oggi il loro numero totale è più che quadruplicato.

 "Ogni giorno rivolgiamo appelli"
  "Il nostro debito verso la Terra Santa passa attraverso la protezione di Israele e della sua democrazia", ci spiega Padre Naddaf. "Altrove, i fanatici islamici sono ansiosi di uccidere cristiani. Soltanto in Israele possiamo prosperare. E' il tempo della chiarezza. Cosa aspettiamo a dire la verità? Israele deve essere forte anche per noi minoranze. Ogni giorno rivolgiamo appelli per salvare i cristiani del medio oriente ma nessuno risponde. Perché?". A quanto risulta, il Dipartimento di stato americano intende designare come "genocidio" gli attacchi perpetrati dallo Stato islamico contro gli yazidi, escludendo così i cristiani. "Perché quando il califfo promise di eliminare la cristianità i nostri capi non dissero nulla?", continua Naddaf. "Io non ho paura, andrò avanti a dire la verità, ovvero che come cristiani non possiamo che stare dalla parte del popolo ebraico e che Israele è l'unico paese che non cerca di buttare fuori i cristiani, costringendoli a cercare rifugio. Coloro che vogliono distruggere lo stato ebraico stanno firmando anche la condanna a morte degli ultimi cristiani liberi in Terra Santa".

(Il Foglio, 17 dicembre 2015)


Abu Mazen dalla parte dei coltelli

Il presidente palestinese blandisce i terroristi per recuperare consensi

L'Intifada dei coltelli è una "protesta popolare giustificata" e gli attacchi dei palestinesi agli israeliani "sono causati dalla disperazione per il fallimento della soluzione a due stati". Suona così la nuova apologia delle aggressioni ai civili israeliani fatta martedì dal presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen. E' retorica incendiaria che legittima gli attacchi e che va a sommarsi ai risultati di un recente sondaggio condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (Psr), secondo il quale il 67 per cento dei palestinesi della Striscia di Gaza e della West Bank sostiene l'Intifada dei coltelli. Di più: per gli intervistati le aggressioni "servono gli interessi nazionali palestinesi più di quanto riescano a fare i negoziati". Ma i dati raccolti nel sondaggio dimostrano qualcosa di più dell'odio costante per Israele. Il campanello d'allarme per Abu Mazen è quel 65 per cento dei palestinesi che chiede le dimissioni del presidente. "Per l'opinione pubblica Abu Mazen non è serio nel suo confronto diplomatico con Israele", ha detto il direttore del Psr Khalil Shikaki. Le ultime dichiarazioni sull'Intifada, così come la minaccia fatta lo scorso settembre di volere recedere dagli accordi di Oslo - a tal proposito, il 67 per cento dei palestinesi dice di non prenderlo sul serio - altro non sono che un tentativo goffo di recuperare quel consenso che i palestinesi gli negano. I sondaggi confermano che se oggi si andasse a votare Hamas prenderebbe tra il 51 e il 41 per cento, scalzando Fatah. E così il leader palestinese continua la rincorsa, finora vana, per guadagnare i consensi della "generazione Oslo", i giovani tra i 18 e i 22 anni che oggi più di tutti si dichiarano sostenitori dell'Intifada.

(Il Foglio, 17 dicembre 2015)


Per non imbarcare un israeliano cancellano la rotta tra Usa e Londra

La Kuwait Airways ha preferito sopprimere i voli piuttosto che adeguarsi alla richiesta di non discriminare i passeggeri

di Lucio Di Marzo

 
Non c'erano molte alternative. La Kuwait Airways poteva accettare la legge americana, e dunque smettere di discriminare i passeggeri in base alla loro nazionalità, o in alternativa prendere una decisione drastica.
  Cosa che hanno fatto, preferendo cancellare la tratta tra New York e l'aeroporto londinese di Heathrow, piuttosto che imbarcare un cittadino israeliano, sostenendo di non poter violare una legge del Paese del Golfo, secondo cui ai cittadini sono vietati gli accordi commerciali "con entità e persone che risiedono in Israele o hanno cittadinanza israeliana".
  Quello che in Kuwait è un divieto, per la legge statunitense è invece una discriminazione lampante. Ed è un caso del 2013, quello di Eldad Gatt, ad avere sollevato il problema. Allora al cittadino israeliano fu impedito di comprare un biglietto con la compagnia del Golfo. Una violazione palese, secondo il Dipartimento di Stato di Washington, che ha chiesto di trasportare quei cittadini che non erano diretti nel Golfo, ma in un Paese terzo dove lo sbarco non rischi di causare un incidente diplomatico.
  Ieri un portavoce del ministero dei Trasporti ha confermato alle agenzie stampa la scelta della compagnia aerea, che ha preferito cancellare i voli intercontinentali, piuttosto che dare ragione a Washington. Nel frattempo la Kuwait Airways ha presentato una controquerela. Dovesse spuntarla, potrebbe continuare a decidere chi far salire a bordo dei suoi aerei e chi no.

(il Giornale, 17 dicembre 2015)


Milano - Foto di strada e cibo kosher

Che cosa fare nel capoluogo lombardo in queste Feste del dopo Expo. Tra Giotto e una grande mostra fotografica, i consigli slow.

di Carlo Petrini

Che si va a fare a Milano ora che si sono spenti i riflettori sull'Expo? Bella domanda e risposta plurima, anche solo in tema di mostre. Ci sono almeno tre esposizioni importanti a Palazzo Reale (la più reclamizzata - Giotto, l'Italia - prosegue fino al 10 gennaio) ma, per una scelta meno scontata, consiglio alla galleria Forma Meravigli (via Meravigli 5, tel. 02. 58118067, www.formafoto.it) la mostra Vivian Maier. Una fotografa ritrovata. Visitabile fino al 31 gennaio, propone una selezione di immagini di una misconosciuta "signora dell'obiettivo", scoperta per caso solo dopo la morte, nel 2009 in una clinica nei pressi di Chicago. Nata a New York nel 1926, la Maier era una donna di condizioni modeste: di mestiere faceva la bambinaia e non fu mai consapevole del valore delle fotografie che scattava per pura passione e che, ammassate in un box di cui a un certo punto non riuscì più a pagare l'affitto, finirono all'asta. Un repertorio imponente - 150.000 negativi, è stato calcolato - che ne ha consacrato la fama postuma di antesignana della "fotografia di strada", un genere interpretato abbinando al crudo realismo delle immagini una rara sensibilità. A Milano, Vivian avrebbe portato la sua Rolleiflex nei quartieri popolari: Bovisa, Ghisolfa, Giambellino.
   Adiacente al rione del "Cerutti Gino", oltre via Soderini, e caratterizzato da un'edilizia residenziale più signorile, c'è il quartiere ebraico, dove hanno sede almeno due ristoranti kosher. In viale San Gimignano 10 troviamo Carmel, dove si può andare (tranne il venerdì sera e il sabato) sia per consumare un pasto sia per acquistare piatti da asporto. La cucina è trasversale - mediorientale e italiana - così come la clientela, che assomma in una piacevole eterogeneità ebrei ortodossi votati alle regole della kasherut, ragazzini della stessa fede che però ai cibi rituali preferiscono la pizza, "goym" di ogni provenienza incuriositi da pietanze per loro esotiche. Un buon inizio è il misto di antipasti: humus (crema di ceci), tahina (burro di sesamo), falafel (polpettine di ceci), babaghannouj (salsa speziata di melanzane). Si può continuare con il sambusek (involtini di pasta frolla ripieni di formaggio), i calsones alla libanese o il riso basmati alle verdure. Secondi tutti a base di pesce - per esempio, il branzino marocchino o il salmone marinato - , ma per i vegetariani ci sono la shakshouka (uova strapazzate con pomodoro, aglio, cipolla, pepe e altre spezie) e la fattouche, insalata mista servita con crostini di pane. Come dessert, mhallabie (budino di latte all'acqua di fiori) o baklawa (pasta filo ripiena di pistacchi). Con un calice di vino di Israele, il pasto non vi costerà più di 30 euro.

(la Repubblica, 17 dicembre 2015)


Io editore ebreo lo pubblicherei

di Daniel Vogelmann*

La pubblicazione di una eventuale nuova traduzione italiana del Mein Kampf non mi preoccupa più di tanto, anche perché alcune traduzioni sono già disponibili, anche su internet. Traduzioni che peraltro non ho mai esaminato. Faccio mia, semmai, la dichiarazione degli storici dell'Institut für Zeitgeschichte di Monaco che pubblicherà presto un'edizione commentata del libro: «L'operazione nasce per sbugiardare le convinzioni del padre del nazionalsocialismo e per evidenziare le manipolazioni e la propaganda che sfruttò per prendere e detenere a lungo il potere».
Sarebbe da auspicare, però, che almeno una traduzione italiana (potrebbero essercene più di una) venisse curata da autorevoli studiosi del nazismo. Se nessuno fosse disposto a una operazione del genere, al limite potrebbe anche occuparsene una casa editrice ebraica come la Giuntina (anche se l'impegno è grande da tutti i punti di vista), ma non credo che ci sia questo rischio.
   Ci sarebbe poi da chiedersi chi vorrà comprare un libro del genere (che avrà anche un prezzo notevole data la mole). E quali effetti potrebbe avere sugli ingenui e/o gli esaltati. Per non parlare degli antisemiti veri e propri e buona parte degli antisionisti.
   Immagino infine che anche un grande editore giudicherà opportuno pubblicare l'opera: sia per ragioni culturali sia, forse, per ragioni economiche. Se il libro avrà successo, mi permetto un suggerimento: donare una parte dei guadagni ai musei della Shoah (Roma, Ferrara) e al Binario 21- Memoriale della Shoah (Milano). Daniel Vogelmann Nato a Firenze nel 1948. la sua casa editrice. La Giuntina, è specializzata in liba di argomento ebraico.

* Direttore della casa editrice La Giuntina

(Stampa origami, 17 dicembre 2015)


Un'edizione critica italiana del Mein Kampf esiste già da tredici anni, a cura dello storico Giorgio Galli . Riportiamo un passaggio dall'introduzione: «Questa riedizione del Mein Kampf ha un triplice significato: il rifiuto etico-intellettuale di ogni tabù e di qualunque forma di censura; la storicizzazione di un testo la cui lettura deve rappresentare un imperituro monito; la denuncia di rimozioni e mistificazioni all'ombra delle quali si vorrebbero legittimare disinvolti quanto pericolosi revisionismi storiografici». M.C.


II gas obbliga Erdogan a far pace con Israele

Dopo lo scontro con Putin, la Turchia apre a Gerusalemme per evitare di rimanere senza approvvigionamento.

di Daniel Mosseri

Il primo accenno lo ha fatto dalla conferenza sul clima a Parigi lo scorso 30 novembre. Poi di nuovo pochi giorni fa, tornando da una visita ufficiale in Turlunenistan. «La normalizzazione dei rapporti con Israele è possibile». Lo ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, leader del partito islamico Giustizia e Sviluppo (Akp). Eppure negli ultimi sette anni «il Sultano» si è attivamente impegnato per affossare le relazioni un tempo eccellenti fra il suo Paese e lo Stato ebraico. Era il gennaio del 2009 quando l'allora premier Erdogan prese a male parole l'ex presidente israeliano Shimon Peres davanti alla platea del Forum economico di Davos. A settembre 2011 Erdogan espulse l'ambasciatore israeliano, protestando contro le mancate scuse di Gerusalemme per l'assalto alla Mavi Marmara (la nave turca che aveva fatto rotta su Gaza nel tentativo di forzare il blocco economico imposto da Israele alla Striscia controllata da Hamas). Da allora molta acqua è passata sotto i ponti: dopo molte resistenze, nel 2013 il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ceduto alla richiesta di scuse officiali imposte dal Sultano, dando anche vita a una commissione per il risarcimento dei famigliari dei nove turchi rimasti uccisi nell'assalto.
   Le relazioni fra Gerusalemme e Ankara sono però rimaste al palo e l'establishment dell'Akp non ha mai perso un'occasione per ribadire l'ostilità della Turchia islamica verso Israele. Basti ricordare che lo scorso maggio il primo ministro Ahmet Davutoglu inaugurava il 55 aeroporto turco a Yuksekova nel sud-est curdo del Paese con le seguenti parole: «Chiameremo questo aeroporto Saladino per dare un messaggio di unità e fratellanza e per dire che Gerusalemme appartiene per sempre a curdi, turchi, arabi e musulmani». L'improvvisa virata del sultano - che nei giorni scorsi ha permesso per la prima volta agli ebrei di Istanbul di celebrare la festa di Hannuccah in piazza con tanto di emissari governativi presenti - ha cause esterne. La Turchia è sempre più isolata. Il recente invio da parte turca di un battaglione nel Kurdistan iracheno senza l'assenso di Bagdad, ha rovinato i rapporti con Bagdad. E da quando, lo scorso 24 novembre, l'aviazione turca ha abbattuto un jet russo sul confine siriano, Mosca ha congelato i rapporti economici con Ankara bloccando il flusso dei turisti, fermando l'import di prodotti agricoli turchi e interrompendo i lavori di costruzione della prima centrale nucleare turca. Per allentare la tensione, Vladimir Putin pretende scuse ufficiali che Erdogan rifiuta. 11 65% dell'energia bruciata in Turchia è però di importazione russa e il sultano teme che il Cremlino possa chiudere quel rubinetto.
   Israele, al contrario, è ricca di gas, così come lo è Cipro e i due Paesi stanno progettando lo sfruttamento congiunto dei loro giacimenti offshore insieme alla Grecia (storico rivale della Turchia per la questione cipriota) e all'Egitto del generale al-Sisi (sulla lista nera di Erdogan per la sua politica di repressione dei Fratelli musulmani). Sul tema dello sfruttamento congiunto del gas, lo scorso 9 dicembre si è tenuto un vertice ad Atene fra il premier greco Tsipras, l'egiziano al-Sisi e il presidente cipriota Anastasia-des.
   A inizio 2016 un vertice analogo si terrà a Nicosia con Netanyahu al posto di al-Sisi. Tutti della partita fuorché Erdogan che, non a caso, è tornato a più miti consigli con Israele. Nello Stato ebraico le parole del sultano sono state ascoltate con molta cautela: la Turchia resta ancora il principale sponsor di Hamas e Gerusalemme non ha alcuna intenzione di togliere l'embargo a Gaza (come d'altronde fa anche l'Egitto) solo per placare Erdogan. Oltre al gas, da parte sua, il leader turco guarda anche alla politica. Riavvicinare la Turchia a Israele significherebbe rafforzare il fronte anti-iraniano. Teheran è in gara con Ankara per la supremazia regionale ed è saldamente alleata alla Russia e alla Siria. Due Paesi con cui la Turchia di Erdogan ha rapporti pessimi.

(Libero, 17 dicembre 2015)


Chabad a Piazza Barberini illumina la Capitale

ROMA - Romani e turisti da tutto il mondo hanno gremito Piazza Barberini per l'accensione del primo lume di Chanukà. Presenti anche il commissario Tronca, l'ambasciatore d'Israele Naor Gilon, il presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello e il rabbino capo di Roma Rav Riccardo Shmuel Disegni.
Chabad Roma, diretto da Rav Itzchak Hazan, da 26 anni organizza con successo questo evento, che attrae decine di persone per tutte le sere della festa.
Il candelabro, probabilmente, è il più grande esposto in Italia, e per accenderlo si deve raggiungere la vetta con una gru. L'evento è patrocinato da Roma Capitale che si occupa anche della logistica.


*


Nonostante la paura: Chanukà in Piazza S. Carlo a Milano

MILANO - L'iconica Chanukià di Milano, disegnata e realizzata da Enrico Segré, è stata allestita anche quest'anno a Piazza S. Carlo per tutta la durata della festa. Nonostante la paura espressa da diverse istituzioni per l'allerta terrorismo, la luce è prevalsa sul buio. La prima sera di Chanukà, domenica, è stata la serata inaugurale con una cerimonia a cui ha partecipato anche il sindaco di Milano Giuliano Pisapia.
La Chanukià e l'evento sono una tradizione dal 1987. Prima in Piazza S. Babila poi trasferitasi nell'adiacente Piazza S. Carlo, è organizzata dall'Organizzazione Giovanile Lubavitch (OGL), creata da rav Avram Hazan e oggi diretta dal figlio, Rav Levi Hazan.

(Chabad.Italia, 16 dicembre 2015)


Mosca potrebbe cancellare i dazi sull'importazione di prodotti agricoli da Teheran

MOSCA - La Russia potrebbe ridurre o cancellare i dazi per l'importazione dei prodotti agricoli dall'Iran. Lo ha detto oggi il ministro dell'Economia, Alexej Ulyukayev, citato dal servizio stampa del dicastero di Mosca. La decisione avviene mentre le potenze mondiali si apprestano a rimuovere le sanzioni contro l'Iran nell'ambito dell'accordo sul programma nucleare iraniano. "Offriamo misure serie volte a migliorare le condizioni commerciali per gli iraniani, il che significa un taglio e persino l'annullamento delle tariffe doganali, soprattutto per i prodotti agricoli come frutta e verdura", ha detto Ulyukayev, al termine di un incontro con il ministro dell'Industria iraniano, Mohammad Reza Nematzadeh, a margine di una conferenza dell'Organizzazione mondiale del commercio tenuta in Kenya. Il fatturato del commercio tra Russia e Iran è sceso del 23,6 per cento nel periodo gennaio-ottobre a poco più di un miliardo dollari, ha concluso il ministro.

(Agenzia Nova, 16 dicembre 2015)


L'imminente scomparsa dell'Isis

di Daniel Pipes

La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 2249, approvata all'unanimità il 20 novembre, riassume la generale accettazione dell'idea che lo Stato islamico (alias Isis, Isil, Daesh) costituisce un pericolo mortale per la civiltà definendolo "una minaccia globale e senza precedenti alla pace e alla sicurezza". C'è anche una diffusa sensazione che l'Isis esisterà ancora a lungo. Ad esempio, Barack Obama ha previsto che la lotta contro l'Isis sarà "una campagna di lungo termine". Consentitemi di dissentire con forza su entrambi i fronti.
   Dissento dalla prima idea perché lo Stato islamico non è esattamente l'equivalente della Germania nazista. È un piccolo insetto che le potenze potrebbero schiacciare se solo lo volessero. Esso sopravvive solo perché nessuno lo prende abbastanza sul serio da combatterlo con truppe di terra, l'unico indicatore della volontà di prevalere.
   Non sono d'accordo con la seconda sensazione, perché l'Isis alienandosi le popolazioni sottomesse e con la sua violenza gratuita e senza limiti nei confronti dei paesi stranieri si è fatto nemici quasi ovunque. Solo negli ultimi mesi, abbiamo assistito ad attacchi contro tre paesi potenti: la Turchia (con l'attentato di Ankara), la Russia (il disastro aereo in Sinai) e la Francia (gli attacchi di Parigi). Questa non è la strada per la sopravvivenza. Senza amici e disprezzato da tutti, ogni suo successo gli accorcia la vita.
   Al contrario di altri analisti, prevedo che l'Isis scomparirà senza preavviso e all'improvviso, così com'è comparso. A questo potrebbe far seguito una combinazione di rivolte interne, faide intestine, crisi finanziarie e attacchi esterni.
   E quando quel gran giorno arriverà, tutti noi potremo concentrare l'attenzione sulla reale "minaccia senza precedenti alla pace e alla sicurezza internazionale", ossia le armi nucleari nelle mani della leadership iraniana dalla mentalità apocalittica.

(Daniel Pipes, 5 dicembre 2015 - trad. Angelita La Spada)


Un confronto tra Rabin e Netanyahu

di Ulrich W. Sahm

 
Ai primi di novembre molti israeliani e politici stranieri hanno ricordato l'assassinio di Yitzhak Rabin venti anni fa. Oggi Rabin è celebrato come "uomo di pace", ma un confronto con Netanyahu porta ad una conclusione sorprendente: Rabin e l'attuale primo ministro israeliano hanno diverse cose in comune.
  Rabin ha detto: "Come parte della soluzione definitiva, aspiriamo ad uno stato di Israele come Stato ebraico, in cui almeno l'80 per cento dei cittadini siano ebrei." Netanyahu oggi parla di uno "Stato del popolo ebraico ".
  Palestinesi ed europei accusano Netanyahu per l'espansione degli insediamenti dicendo che questo impedisce la soluzione dei due Stati e quindi rende impossibile la pace. Rabin prevedeva una "soluzione permanente nel quadro dello Stato di Israele", in cui accanto a Israele ci sarebbe stata una "entità palestinese". Questa entità avrebbe dovuto essere "meno di uno stato", diceva Rabin. E con questo restava molto indietro rispetto a Netanyahu, che come si sa parla di uno "stato palestinese smilitarizzato".
  "Non torneremo alle linee del 4 giugno 1967"
ha detto Rabin, e in questo modo escludeva un ritiro completo dai territori occupati.
  Ha sottolineato che Gerusalemme sarebbe rimasta interamente in Israele e che la valle del Giordano sarebbe rimasta il confine con la Giordania. I grandi insediamenti e i luoghi poi evacuati da Ariel Sharon nella striscia di Gaza sarebbero dovuti rimanere in Israele.
  Rabin sottolineava la "sicurezza degli insediamenti" e "la continuazione della loro vita quotidiana". In modo ancora più chiaro ha aggiunto; "Noi (Arafat e Rabin) siamo arrivati all'accordo di non sradicare nessun insediamento e di non ostacolare l'attività edilizia per la crescita naturale (degli insediamenti)". Si scopre così che in quel tempo lo stesso Yasser Arafat non riteneva illegali gli insediamenti e aveva accettato con un accordo la loro crescita.
  Perfino del cosiddetto "blocco marino" della Striscia di Gaza Rabin aveva già parlato. "La responsabilità per la sicurezza esterna lungo le frontiere con l'Egitto e la Giordania e il controllo dello spazio aereo al di sopra tutte le aree e sulla zona marittima al largo di Gaza rimangono nelle nostre mani ".

(israelnetz magazin n.6, dicembre 2015 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


La storia popolare dello Stato d’Israele raccontata a molti, e da molti supinamente e forse volenterosamente accolta, è costituita da un serie chilometrica di imprecisioni, alterazioni, deformazioni, che messe insieme alla fine producono in molti la certezza di aver ottenuto un’autentica verità. Si tratta di invece un’autentica, pura, grande menzogna, che però, essendo costituita da tante piccole menzogne messe insieme e lentamente accumulate una sull’altra, è difficilissima da smontare. Anche se si riesce a smascherare le ultime più evidenti, per l’antisionista medio, cioè quello moderato, equilibrato, equidistante, le piccole, innumerevoli menzogne che restano sono di più che sufficienti perchè si senta confermato nella sua granitica verità: Israele? NO. E poiché di solito non ha alcuna voglia di stare a sentire il resto della storia cominciando dall’inizio, il suo credo antisionista non ne viene minimamente scosso. E per chi tenta di convincerlo del contrario con argomenti razionali la situazione è disperata: lo stesso equilibrio delle sue facoltà mentali è messo a rischio. M.C.


La Cia vuole estirpare la propaganda del Califfo

Nel mirino le redazioni che montano video del terrore e preparano la rivista "Dabiq".

di Fausto Biloslavo

L'intelligence americana sta preparando in gran segreto una mappa di tutti i centri dello Stato islamico dove si confeziona la propaganda del Califfo.
   Nel mirino della Cia le «redazioni» all'avanguardia, che montano i video di reclutamento oppure preparano la rivista mensile Dabiq e lanciano via social network i messaggi delle bandiere nere. Fonti militari anonime hanno rivelato la notizia al quotidiano americano Washington Times. La «mappatura» della costola mediatico del Califfato in Siria, Irak e Libia serve a controllare la potente macchina propagandistica e nel caso colpirla. Il problema è che le «redazioni» si trovano in aree densamente popolate proprio per evitare gli attacchi aerei alleati. La struttura mediatica dello Stato islamico ha già prodotto 12 numeri della rivista mensile Dabiq distribuita on line in inglese, russo, francese, turco e arabo. I contenuti e la confezione del prodotto editoriale sono addirittura migliori di tanti settimanali internazionali. I video montati in stile hollywoodiano con apparecchiature e software all'avanguardia sono il pezzo forte della propaganda del Califfo. L'obiettivo è raggiungere possibili adepti in tutto il mondo. L'ultimo prodotto della scorsa settimana è un video di reclutamento in cinese. Il messaggio è il «risveglio» dei musulmani nel pianeta giallo da secoli di umiliazioni. Anche un recente video in russo è montato con grande professionalità. L'orrore di decapitazioni e stragi è sapientemente proposto sia per incutere timore, che fare proseliti.
   I disertori dello Stato islamico intervistati dal Washington Times hanno raccontato di «redazioni» su due piani con nuovissime videocamere, computer, studi di ripresa. Tutto materiale che arriva regolarmente dalla Turchia. In Siria, nei dintorni di Aleppo, esiste un ufficio della rivista Dabiq e del canale televisivo delle bandiere nere Al Furqan con connessione internet ad alta velocità grazie ad un sistema wi-fi turco.La Fondazione Quillam impegnata in Inghilterra contro il radicalismo islamico ha individuato 35 strutture propagandistiche che rispondono al «Comando dello Stato islamico per i media». Una specie di quartier generale editoriale, che dovrebbe far parte del ministero dell'Informazione del Califfato con sede a Mosul e Raqqa.
   Solo su Twitter, alla fine dello scorso anno, i terroristi avevano aperto 20mila account. Il nocciolo duro di terroristi mediatici varia da 500 a 2000 annidati in Irak e Siria, ma pure Arabia Saudita. Ognuno rilancia una media di 50 tweet al giorno. Della sessantina di sospetti arrestati negli Stati Uniti per collegamenti con l'Isis, l'80% si è radicalizzata sui social network.
La controffensiva americana in rete è affidata al «Centro di comunicazioni strategiche anti-terrorismo» presso il Dipartimento di Stato dove lavorano 69 specialisti, ma con un budget risicato di 5,5 milioni di dollari l'anno.

(il Giornale, 16 dicembre 2015)


Viaggio a Kobane tra le soldatesse che combattono il Califfato

Qui dove l'Isis è in ritirata: tra le donne e gli uomini dell'esercito curdo impegnati nell' offensiva contro Raqqa, la roccaforte degli jihadisti in Siria.

di Lorenzo Cremonesi

 
Ecco il Califfato, con gli orrori delle schiave del sesso, il velo obbligatorio, le flagellazioni e lapidazioni per le adultere, la legge coranica interpretata secondo le declinazioni del più rigoroso oscurantismo medioevale.
  È l'incontro con una delle donne responsabili delle milizie curde all'offensiva contro Raqqa, la roccaforte di Isis in Siria, che spinge a queste considerazioni. «Posso confermare che Barack Obama ha detto il vero nel suo ultimo discorso: l'Isis è in difficoltà, non solo in Iraq, ma soprattutto sul fronte siriano. Senza dubbio non è sconfitto. Gode ancora di sostegni e risorse. Però sono ormai diverse settimane che ha cessato di lanciare offensive. Per la prima volta l'Isis è costretto a difendersi, sta perdendo terreno», dice con fare deciso la 34enne Ranghin Renas, donna comandante dello Ypg (dall'acronimo curdo che sta per «Unità (maschile) di Protezione Popolare») con ai suoi ordini anche le corrispettive unità femminili (Ypj).
  L'abbiamo incontrata martedì pomeriggio in una delle caserme che costellano le rovine di Kobane. Poca luce alle finestre, stanze fredde, l'elettricità a singhiozzo. Fuori un panorama di macerie, fango e le devastazioni delle battaglie di un anno fa. Davanti a una carta geografica la comandante Ranghin punta ai recenti successi dello Ypg, garantiti, sottolinea, «dal sostegno aereo dalla coalizione guidata dagli americani e dagli aiuti internazionali». Seguiamo il suo dito sulla mappa: «Dal fronte di Qamishli negli ultimi tempi siamo riusciti a prendere la città di Hasakeh. Qui l'Isis si è ritirato di oltre 100 chilometri. Ormai noi controlliamo le maggiori vie di comunicazione dalla Siria con l'Iraq e la città di Mosul. I terroristi dell'Isis sono costretti a utilizzare le piste nel deserto da Deir Ez Zor. E adesso stiamo puntando a Raqqa nella zona di Janub Raddah, le nostre avanguardie sono posizionate a soli 60 chilometri dalla capitale del Califfato. Loro si difendono minando le strade, utilizzando attentatori suicidi. Nulla a che vedere con l'impeto delle loro offensive dell'anno scorso».
  Parole confermate dal nostro viaggio nel cuore della regione autonoma curda di Siria. «Rojawa», tramonto in curdo, per distinguerla da «Rojelat», la terra ad est dove sorge il sole, il Kurdistan iraniano: due nomi che sintetizzano l'antico sogno curdo di un grande Stato unitario a cavallo tra Iraq, Turchia, Siria e Iran, ma spesso reso vano dalle loro insormontabili divisioni interne. Rojawa, creata quasi tre anni fa in seguito al caos della guerra seguita alle rivolte del 2011, appare oggi come una rassicurante, ma fragilissima, isola laica nel mare del Medio Oriente in balia del fondamentalismo religioso, ispirata al socialismo di «Apo», il mitico Abdullah Ocalan, leader (turco) del grande partito dei lavoratori curdo in carcere in Turchia. Non c'è posto di blocco che non abbia stampigliata l'immagine del suo volto sulle bandiere, assieme a quelle di decine di morti nelle battaglie degli ultimi tre anni. Un luogo carico di contraddizioni. «Siamo socialisti. La religione è un fatto personale. Non vogliamo uno Stato confessionale. Crediamo nella massima eguaglianza dei sessi e nella democrazia. Ma oggi siamo alleati degli americani, speriamo che anche l'Europa ci venga in aiuto, temiamo che i russi siano solo interessati a difendere la dittatura di Bashar Assad. Per noi i turchi sono pericolosi quasi quanto l'Isis. Ecco il motivo per cui consideriamo i curdi iracheni fratelli, ma non ci piace affatto il loro rapporto di stretta cooperazione con la Turchia di Erdogan», riassumono all'ufficio stampa dello Ypg nella cittadina di Amudah.
  Visto che il confine con la Turchia è adesso praticamente chiuso, il passaggio più facile per raggiungere Kobane è dall'Iraq settentrionale in barca sul Tigri presso il villaggio di Fishkabur. Qui uno stretto nastro d'asfalto corre tra colline brulle puntellate da centinaia di vecchi pozzi ancora funzionanti per l'estrazione del petrolio. «Abbiamo poca acqua. Ma la benzina non ci manca», sostiene l'autista, protestando però che la raffinazione artigianale del greggio rovina i motori. In compenso costa nulla: un euro per 13 litri di benzina. I villaggi sono poveri, ma si trova tutto e la polizia controlla il traffico. La paura di infiltrazioni dell'Isis è cresciuta dopo il blitz del 25 luglio, quando un centinaio di jihadisti travestiti da combattenti delle milizie sunnite moderate e da curdi riuscirono a raggiungere Kobane, mettendo la città a ferro e fuoco. «Uccisero 261 persone, e i feriti furono oltre 300», ricordano all'ospedale. Da allora di notte i movimenti sono strettamente regolamentati e ogni nucleo urbano ha organizzato una fitta rete di posti di blocco. Il centro di Qamishli, l'aeroporto e il punto di passaggio con la Turchia restano sotto controllo del regime di Bashar Assad. Colpisce incontrare le bandiere con le tre stelle di Damasco nel cuore della provincia curda. «La nostra priorità al momento è battere l'Isis, con il regime faremo i conti più tardi. Se Bashar ordinasse alla sua aviazione di bombardarci qui sarebbe il caos. Grazie a questo modus vivendi restiamo invece una delle province più calme di tutto il Paese», spiega Joan Mirzo, giornalista locale.
  Più avanti le rovine della guerra diventano molto più evidenti. Per lunghi tratti le barriere di fili spinati, le reti e i campi minati puntellati dalle torri di guardia e i nidi di mitragliatrici sovrastati dal simbolo della mezzaluna turca sono a poche centinaia di metri dalla strada. Nella regione della cittadina di Tell Abayad molti villaggi sino a un anno fa erano a maggioranza araba. Uno dei tanti territori di confine tra diverse comunità etniche e religiose del Medio Oriente, che nella storia sono stati il cuore di guerre e massacri. Un autista accenna a gravi e recenti episodi di discriminazioni e deportazioni da parte delle unità curde ai danni degli arabi, non molto diversi da quelli perpetrati dai sunniti e l'Isis contro i curdi. I segni del resto sono evidenti: interi villaggi vuoti, danneggiati da bombe e cannonate. Case, scuole, fattorie abbandonate e dovunque slogan sui muri inneggianti alla lotta di liberazione curda. Denunce contro le persecuzioni anti-arabe sono giunte di recente anche da Amnesty International. Ma i militanti dello Ypg negano con forza. «Non c'è stata alcuna pulizia etnica. Anzi, cerchiamo l'alleanza con le milizie sunnite determinate a battere l'Isis», replicano duri. A Kobane 70.000 persone, circa il 60 per cento degli abitanti originari, sono tornate alle proprie case. Meglio vivere in un appartamento danneggiato, che da profughi in Turchia. L'attività di ricostruzione è intensa. Comitati di quartiere si preoccupano dei bisogni primari. Ma il blocco turco e la necessità di viaggiare sino al confine iracheno rallentano l'economia e rendono tutto più difficile. Dato più rassicurante resta l'affievolirsi della minaccia dell'Isis. «Sino allo scorso luglio nel nostro ospedale militare ricevevamo una media di 15-20 combattenti feriti gravi al giorno. Oggi siamo scesi a meno di 5. E tutti per mine, cannonate o colpi di mortaio: ovvio che si spara a distanza», spiega Mohammed Aref Ali, medico anestesista noto per essere tra i quattro dottori che l'anno scorso decise di non fuggire nel momento più grave dell'assedio.

(Corriere della Sera, 16 dicembre 2015)


Nasce la coalizione saudita contro l'Isis (e contro l'Iran)

A Riad il patto fra 34 nazioni, dal Marocco alla Malaysia: potranno intervenire nelle nazioni minacciate dai terroristi. E contrastare l'asse sciita e la Russia.

di Maurizio Molinari

 
L'annuncio è stato fatto ieri a Riad dal principe Mohammed bin Salman, ministro della Difesa e nipote del re
 
GERUSALEMME - L'Arabia Saudita crea una coalizione militare di trentaquattro Stati sunniti che si prepara a coordinare ogni tipo di interventi in Iraq, Siria, Libia, Egitto e Afghanistan al fine di «combattere il terrorismo» jihadista e arginare la crescente egemonia dell'Iran.
Il patto che cambia la mappa strategica di Nord Africa e Medio Oriente è stato siglato a Riad con la pubblicazione di un documento incentrato sul «dovere di proteggere la nazione dell'Islam dal Male portato da tutti i gruppi e le organizzazione terroristiche». La descrizione della nuova alleanza ne suggerisce potenzialità e scopi.
  I pilastri sono le potenze sunnite di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Egitto e Pakistan che sommano i maggiori arsenali regionali e sono protagoniste delle operazioni già in corso in Iraq-Siria contro Isis e in Yemen contro gli houthi. Al loro fianco vi sono le monarchie del Golfo destinate a diventare il motore finanziario e una folta pattuglia di nazioni africane - dal Marocco alla Nigeria, dal Benin alla Mauritania - che suggerisce la volontà di aggredire i «terroristi» anche lì dove operano Boko Haram, gli Shabaab, Al Qaeda in Maghreb e i vari gruppi salafiti del Sahel. L'inclusione di Libia, Egitto, Giordania, Somalia e Yemen legittima da subito la coalizione a intervenire sui territori di queste nazioni lì dove sono minacciate da gruppi terroristi. E l'adesione dell'Anp sottolinea il timore di Abu Mazen di subire il contagio jihadista.

 La pattuglia degli esclusi
  Il resto lo suggerisce la lista degli esclusi: la Siria di Assad, l'Iraq e il Libano ovvero gli alleati arabi dell'Iran di Ali Khamenei - anch'egli non invitato a Riad - rivale strategico dell'Arabia nella creazione dei nuovi equilibri regionali sotto l'impatto della dissoluzione degli Stati post-coloniali. A confermare la sfida a Teheran c'è l'esclusione dell'Oman del Sultano Qaboos, facilitatore dei negoziati segreti sul nucleare iraniano sospettato da Riad di fiancheggiare Teheran. «I nostri Paesi condivideranno intelligence, addestramento e forniranno se necessario truppe per combattere Isis in Siria e Iraq» spiega il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, precisando che «ogni forma di cooperazione è possibile» come anche la volontà di operare «nel quadro delle organizzazioni internazionali». È la formula, concordata con Washington, che porta al plauso esplicito della Casa Bianca perché preannuncia la volontà di mettere a disposizione truppe sunnite per operazioni sotto l'egida di Onu, Organizzazione della conferenza islamica e Lega araba.

 Le prove nello Yemen
  Per capire quanto si sta preparando bisogna guardare al cerimoniale scelto da Riad per comunicare il patto: una rara conferenza stampa di Mohammed bin Salman, principe ereditario e ministro della Difesa nonché nemico giurato dei jihadisti e regista dell'intervento militare pansunnita in Yemen riuscito a reinsediare il presidente Abdel Rabbo Mansour Hadi rovesciato dai ribelli houthi sostenuti - secondo Riad - dagli iraniani.
  Il resto lo dice al-Jubeir: «Sono in corso colloqui fra noi, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e il Bahrein sulla possibilità di inviare in Siria contingenti di truppe speciali a sostegno della coalizione guidata dagli Usa». Ovvero: è iniziato il conto alla rovescia per l'intervento sunnita in Siria, da tempo richiesto dal Pentagono al fine non solo di smantellare lo Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi ma di contrastare i piani della coalizione militare guidata dalla Russia di Vladimir Putin e composta da Assad, Iran, Iraq ed Hezbollah.
  A evidenziare il debutto del duello strategico fra le due coalizioni c'è quanto Mohammed bin Salman, figlio del monarca wahhabita, tiene a precisare: «Avremo una sala operazioni congiunta a Riad» in competizione con quella di Baghdad dei rivali russo-sciiti. Ciò significa che a neanche una settimana dalla nascita della coalizione fra i gruppi siriani anti-Assad, Riad genera un patto fra Stati sunniti per ridisegnare gli equilibri in un arco di crisi che si estende per oltre 9000 km dallo Stretto di Gibilterra alle vette dell'Hindu Kush. Per Putin significa che la sfida iniziata con la Turchia è destinata ad avere dimensioni assai più ampie e conseguenze assai difficili da prevedere.

(La Stampa, 16 dicembre 2015)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.