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Notizie 1-15 dicembre 2018



«Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli»

«Guardatevi dai falsi profeti i quali vengono a voi in vesti da pecore, ma dentro son lupi rapaci. Li riconoscerete dai loro frutti. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così, ogni albero buono fa frutti buoni, ma l'albero cattivo fa frutti cattivi. Un albero buono non può fare frutti cattivi, né un albero cattivo fare frutti buoni. Ogni albero che non fa buon frutto è tagliato e gettato nel fuoco. Li riconoscerete dunque dai loro frutti. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: "Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in nome tuo e in nome tuo cacciato demòni e fatto in nome tuo molte opere potenti?" Allora dichiarerò loro: "Io non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, operatori di iniquità!" Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà paragonato a un uomo avveduto che ha costruito la sua casa sulla roccia. La pioggia è caduta, sono venuti i torrenti, i venti hanno soffiato e hanno investito quella casa; ma essa non è caduta, perché era fondata sulla roccia. E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica sarà paragonato a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. La pioggia è caduta, sono venuti i torrenti, i venti hanno soffiato e hanno fatto impeto contro quella casa, ed essa è caduta e la sua rovina è stata grande».
Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, la folla stupiva del suo insegnamento, perché egli insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.

Dal Vangelo di Matteo, cap. 7  

 


Segretario Olp esorta i paesi arabi a rompere le relazioni diplomatiche con l'Australia

In precedenza le autorità australiane avevano riconosciuto Gerusalemme Ovest come capitale d'Israele.

Il segretario generale del comitato esecutivo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) Saeb Arikat ha invitato i Paesi arabi a rompere le relazioni diplomatiche con l'Australia, che ha deciso di riconoscere Gerusalemme Ovest come capitale d'Israele. La dichiarazione corrispondente, come riportato dal portale di notizie Dunya Al Watan, è stata fatta oggi commentando la decisione delle autorità australiane.
Arikat ha fatto appello ai Paesi arabi chiedendo "di onorare le decisioni prese nelle riunioni tra i leader, che obbligano tutti gli Stati arabi a troncare i rapporti con qualsiasi Paese che riconosca Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico".
Il segretario generale dell'Olp ha condannato fermamente la decisione del governo australiano, affermando che
"Gerusalemme è una città indivisibile e la determinazione del suo status è la questione più importante del processo di risoluzione del conflitto con Israele".
Il primo ministro australiano Scott Morrison aveva affermato in precedenza che il governo riconosce ufficialmente Gerusalemme Ovest come capitale d'Israele, tuttavia non trasferirà l'Ambasciata da Tel Aviv fino a quando non sarà raggiunto un accordo di pace con i palestinesi.
Lo status di Gerusalemme è uno dei problemi chiave nel conflitto israelo-palestinese. Gli israeliani hanno occupato la parte orientale della città durante la guerra del 1967. Insistono sul fatto che Gerusalemme sia la capitale "unica e indivisibile" di Israele. I palestinesi vogliono fare come capitale del loro Stato la parte orientale della città.

(Sputnik Italia, 15 dicembre 2018)


Coro antisemita in Ungheria, il Chelsea rischia l'inchiesta Uefa

Nel caso in cui i tifosi fossero ritenuti colpevoli di antisemitismo, il Chelsea rischia la chiusura (parziale o totale) di Stamford Bridge per i sedicesimi di Europa League.

 Durante Vidi-Chelsea
  I tifosi del Chelsea ancora una volta sotto i riflettori per presunte manifestazioni razziste. Secondo quanto riportato dal Guardian, i sostenitori del club londinesi avrebbero intonato un coro antisemita durante la partita giocata in trasferta contro il MOL Vidi, squadra ungherese. I funzionari Uefa stanno valutando l'apertura da un procedimento disciplinare contro i Blues. Tutto dipenderà dai rapporti presentati dai delegati presenti alla Groupama Arena. Non è certo positivo che quest'altra vicenda di (presunto) razzismo sia avvenuta a poche ore dal caso-Sterling, il calciatore del Manchester City insultato dai tifosi di casa a Stamford Bridge.
  Il Guardian spiega come il regolamento Uefa preveda la chiusura parziale dello stadio come prima sanzione minima in caso un gruppo di tifosi venga riconosciuto colpevole di un comportamento «che insulta la dignità umana di una persona o di una comunità per qualsiasi motivo, inclusi colore della pelle, razza, religione o origine etnica». Quindi, Stamford Bridge potrebbe rischiare di essere chiuso per il match di ritorno dei sedicesimi di Europa League.

 La reazione del Chelsea
  Sul Guardian si legge di come il Chelsea abbia già condannato il comportamento dei suoi tifosi in trasferta. Il coro antisemita «ha fatto vergognare il club». Anzi, la dirigenza dei Blues si sta adoperando per identificare tutti i colpevoli del canto discriminatorio, così da «bandirli da Stamford Bridge». Ovvero, la stessa punizione immediata riservata a coloro che hanno insultato Sterling. Dopotutto, Abramovich è di religione ebraica e nel passato lo stesso Chelsea si è reso protagonista di campagna di sensibilizzazione sul tema dell'antisemitismo. Evidentemente non è bastata, e ora il Chelsea rischia.

(ilnapolista, 15 dicembre 2018)


Mahmoud Abbas: sarà ricostruita la casa demolita vicino a Ramallah

RAMALLAH - Il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha stabilito che verrà ricostruita la casa del responsabile della morte di un militare israeliano abbattuta questa mattina nel campo profughi di Al Amaari, vicino a Ramallah, in Cisgiordania. Lo ha annunciato oggi Hussein al Sheikh, membro del comitato centrale del partito palestinese Fatah, anima dell'Anp. La casa apparteneva a Islam Yusef Abu Hmaid che aveva lanciato una lastra di marmo con il sergente Ronen Lubarsky, uccidendolo. Sia l'Anp che il movimento palestinese Hamas hanno condannato la demolizione della casa, esortando la popolazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza a continuare la "resistenza" nei confronti di Israele.

(Agenzia Nova, 15 dicembre 2018)


L'antisionismo letale

I tunnel di Hezbollah, l'Onu, gli attacchi di Hamas e le periferie europee. Lo stesso assalto a Israele

di Giulio Meotti

ROMA - "Gli israeliani sperimentano l'antisionismo in modo diverso rispetto ai lettori della New York Review of Books, non come una sortita audace nel mondo delle idee, ma come una minaccia alla loro esistenza", scriveva ieri Bret Stephens sul New York Times. "E' un po' come la differenza che c'è tra discutere degli effetti del marxismo-leninismo in un seminario al Reed College nel 2018 e sperimentarli a distanza ravvicinata a Berlino Ovest nel 1961. In realtà, è anche peggio di così, dal momento che i sovietici volevano semplicemente dominare o conquistare i loro nemici e impossessarsi delle loro proprietà, non cancellarli dalla mappa e porre fine alle loro vite". E tre vite israeliane sono state prese dai terroristi palestinesi in Cisgiordania in 24 ore, un bambino di appena tre giorni e due soldati, in quella che sembra essere una escalation del terrore, mentre al confine nord col Libano Israele sta scoprendo una serie di tunnel scavati da Hezbollah per infiltrarsi nello stato ebraico. Hamas e i suoi alleati (l'Iran in testa) hanno un piano e neppure segreto: esportare la loro "lotta armata" contro Israele al di fuori della Striscia di Gaza e, in ultima analisi, prendere il controllo della Cisgiordania. Hamas e i suoi amici sono stati galvanizzati dal recente fallimento dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite di adottare una risoluzione sponsorizzata dagli Stati Uniti che condannava Hamas e altri gruppi terroristici palestinesi. Ogni attacco "riuscito" e portato avanti da Hamas gli fa guadagnare popolarità in Cisgiordania a spese di Mahmoud Abbas e della sua Autorità palestinese. Intanto emergono i dettagli dei piani di Hezbollah a proposito dei tunnel: infiltrare terroristi col compito di isolare il villaggio israeliano di Metulla nell'estremo nord del paese, prendere posizioni chiave (con ostaggi) e iniziare a bersagliare i rinforzi israeliani con cecchini e missili anticarro. Il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva già minacciato di "conquistare la Galilea". In questi giorni, le Nazioni Unite hanno celebrato l'adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani, 70 anni fa. Nella stessa settimana hanno de facto assolto Hamas fallendo sulla risoluzione americana di condanna dei terroristi palestinesi. Hamas ha ringraziato l'Onu e ordinato ai suoi di passare all'azione. C'è un solo paese che in 70 anni di vita non si è mai visto riconoscere davvero, moralmente e politicamente, quei diritti umani. E' l'"antisionismo che uccide", come lo ha definito due giorni fa Daniel Schwammenthal sul Wall Street Journal. Il 51 per cento degli ebrei europei ha detto di sentire "frequentemente" o "sempre" che "gli israeliani si comportano come i nazisti nei confronti dei palestinesi". '"L'antisionismo non è la stessa cosa dell'antisemitismo', si continua a sentire", scrive Schwammenthal. "Il nuovo studio suggerisce che per gli ebrei europei la distinzione non ha senso. Il politico tedesco Heinrich von Treitschke disse che 'gli ebrei sono la nostra disgrazia', una frase ripresa dai nazisti e che trova il suo equivalente oggi in 'il mondo sarebbe un posto migliore senza Israele"'. E' l'eco che si propaga dai tunnel di Hezbollah sotto l'unghia più a nord di Israele, alle fermate degli autobus in Cisgiordania, al Palazzo di vetro delle Nazioni Uniti e nelle periferie delle capitali europee.

(Il Foglio, 15 dicembre 2018)


Nuovi attentati in Israele, di nuovo con le armi da fuoco

di Ugo Volli

Ancora attentati in Israele: il terrorismo palestinese non si ferma. C'è una pericolosa novità per la sicurezza di Israele, un terzo fronte che si sta aprendo. Si tratta della Giudea e Samaria, dove sempre più di frequente alle due modalità più diffuse di "resistenza popolare", come dicono loro, o di terrorismo diffuso, come è più giusto dire, e cioè gli accoltellamenti e gli investimenti automobilistici, si sta aggiungendo l'uso delle armi da fuoco, sempre contro civili sconosciuti, per esempio colpiti da una macchina di passaggio mentre attendono l'autobus a una fermata. Così è andata a Ofra, così più di recente a Givat Asaf, così (all'interno di una fabbrica e non in una fermata) a Barkan.
   Naturalmente l'uso delle armi dà ai terroristi un vantaggio tattico e li rende più pericolosi e difficili da prendere, anche se poi vengono presi ed eliminati, presto, come è successo al killer di Ofra o magari dopo alcune settimane di caccia, come è accaduto all'assassino di Barkan. Resta il fatto che la situazione di sicurezza si è decisamente deteriorata, anche perché gli accoltellamenti non sono cessati.
   E' un fatto grave e pericoloso, perché il meccanismo dell'imitazione è forte fra i palestinisti e purtroppo le armi non mancano, anche se l'esercito continua a sequestrarne e a distruggere fabbriche artigianali. L'origine di questa ondata è probabilmente Hamas, che cerca di continuare su altri fronti l'offensiva bloccata a Gaza. Usando le armi da fuoco e dunque alzando il livello dello scontro, sfoga il suo odio antisemita, ma cerca anche di mettere in difficoltà l'Autorità Palestinese che per motivi tattici e di propaganda aveva tollerato negli ultimi anni i metodi non ortodossi del terrorismo, più camuffabili nei media come reazioni popolari e aveva invece scoraggiato l'uso di pistole e mitra. Ma anche Fatah fa del suo meglio per non mancare in questa ondata, e continua a esaltare i terroristi e a propagandare l'assassinio degli ebrei. Su questo, come sull'obiettivo di eliminare lo stato di Israele, le varie correnti del palestinismo sono tutte uguali.
   Naturalmente questa deriva va contrastata energicamente, ma non bisogna sbagliarsi: essa non è un segno di forza da parte dei palestinisti, ma il suo opposto. Significa prendere atto che la partita sul piano politico è perdente per loro, che è loro sempre più difficile trovare sponde per i loro progetti e che l'insignificanza è il loro evidente destino politico. Questi attacchi criminali contro i civili non hanno certo un impatto sul piano militare, anche se provocano lutti e sofferenze gravi. Il loro senso non può essere neppure quello di terrorizzare il popolo israeliano, che ha sempre mostrato di saper resistere ad attacchi assai più massicci. E' dunque solo un modo di canalizzare l'odio razzista alimentato dal sistema palestinista, che non ha altro modo di emergere. Ed è un tentativo di mostrare, prima di tutto a se stessi, di essere ancora capaci di agire, sia pure nella modalità più stupida e crudele del terrorismo.
   Chi deve capire soprattutto questa situazione è l'Europa, che continua ad appoggiare il palestinismo, con l'illusione di distinguerlo dal terrorismo, e prova a dare una mano alla sola potenza regionale importante che lo appoggia, cioè l'Iran, proprio mentre è essa stessa vittima del terrorismo islamista, lo stesso praticato da Hamas. Deve capirlo la sinistra israeliana, che soggiace sempre più alla tentazione di lasciar cadere la lotta contro il terrorismo. Israele, ne siamo sicuri, saprà difendersi e conserverà la lucidità politica che con Netanyahu caratterizza la sua azione.

(Progetto Dreyfus, 13 dicembre 2018)


Tutti i retroscena della operazione Northern Shield

Quattro anni, ci sono voluti quattro anni per organizzare l'operazione Northern Shield volta a scoprire e distruggere i tunnel del terrore di Hezbollah anche se il mondo ne è venuto a conoscenza solo una decina di giorni fa.
Quattro anni di riunioni e discussioni top secret, di contatti con gli informatori, un mix di tecnologia e di intelligence alla vecchia maniera, cioè "sul terreno", quattro anni di consultazioni con gli ingegneri per capire quando era il momento migliore per agire.
"White Gold", è questo il nome in codice dato alla operazione strutturata che per quattro lunghi anni ha monitorato costantemente ogni minimo movimento di Hezbollah e che ha portato alla operazione Northern Shield.
Il nuovissimo centro di comando è posto molti metri sotto il comando del IDF a Tel Aviv in quello che viene definito "Fort Zion" o più volgarmente "la fossa". Per costruire questa base operativa, che non monitora solo Hezbollah, ci sono voluti ben dieci anni di lavori fatti nella massima segretezza....

(Rights Reporters, 15 dicembre 2018)


Salonicco, principale città ebraica del Mediterraneo. Lì nacque anche Atatürk!

di Davide Rossi

Salonicco
Salonicco, Salonik in ebraico, in turco Selanik, ha una storia antica, greca, macedone, romana. Ai tessalonicesi scriveva Paolo di Tarso nel 53 e quelle lettere sono il più antico documento della cristianità. Qui nascono ai tempi di Carlo Magno Cirillo e Metodio, fondatori della lingua slava. La storia della città però si fa ingarbugliata già in pieno medioevo, prima bizantina, diventa arabo - musulmana dagli albori del X secolo e vive in quel periodo la prima trasformazione di alcune chiese bizantine paleocristiane in moschee e in hammam, tre secoli dopo arrivano i Normanni di Sicilia per una ventina d'anni e poi sulla città mettono le mani gli europei durante la quarta crociata, poco dopo tornano per un paio di secoli i bizantini, fino a che il sultano Murad II nel 1430 la rende ottomana per quasi mezzo millennio fino al 1912, quando la guerra dei Balcani vede prima insediarvisi brevemente i bulgari e quindi subentrare la Grecia di cui tutt'oggi fa parte.
  Già nel 1430 la comunità ebraica è considerevole, ma i sultani invitano gli ebrei tessalonicesi a trasferirsi a Costantinopoli, diventata Istanbul dopo la sua conquista nel 1453 e rimasta spopolata dopo la partenza di molti cristiano-ortodossi trasferitisi in Italia, a Firenze e non solo, in cui contribuiranno all'affermazione dell'Umanesimo. Tuttavia Salonicco e le sue sinagoghe trovano ben presto nuovi ospiti di uguale sentimento religioso. La cacciata degli ebrei dalla penisola iberica meno di quarant'anni dopo, nel 1492, porta molti ebrei a prendere la via dell'Egeo. Il porto macedone diventa così per secoli la più grande città ebraica del Mediterraneo, ben più di Giaffa o di Gerusalemme, in cui ancora un secolo fa i cristiani rappresentavano metà della popolazione e i musulmani un terzo. Il censimento del 1910 registra a Selanik 130mila abitanti, di cui 65mila ebrei, 35mila greci di fede ortodossa e 30mila turchi, albanesi e macedoni, tutti di fede musulmana, la lingua parlata in città è il ladino giudeo-ispanico, di derivazione castigliana, il giorno di riposo settimanale il sabato, lo shabbat ebraico. Come e più di Trieste, Salonicco è città poliedrica e poliglotta per i mercanti che la popolano e i viaggiatori che vi sostano.
  L'incendio della città del 1917 e l'atteggiamento ostile e in certi casi razzistico dei nazionalisti greci, che accusano la comunità ebraica di scarso patriottismo, convince molti ebrei a emigrare, i più prossimi alle idee sioniste verso la Palestina, i marxisti verso la Francia, la Germania ed anche l'Unione Sovietica. In città oggi un museo ricorda la storia ebraica della città e soprattutto come allo scoppio della seconda guerra mondiale ancora il 40% dei cittadini fosse formato da seguaci della Torah e come l'occupazione nazista abbia sterminato il 98% di loro, deportati principalmente verso Auschwitz.
  Tra le chiese bizantine e il minareto che svetta a fianco della rotonda dell'imperatore romano Galerio, vi sono altri due musei interessanti. Quello dedicato al movimento nazionalista greco e la casa natale di Mustafa Kemal Atatürk, padre della Turchia moderna, emancipatore e promotore del ruolo delle donne nella società.
  Atatürk nasce in casa il 19 maggio 1881 a Salonicco, nel quartiere di Koca Kasım PaÅŸa, in via Islahane 17, oggi via dell'apostolo Paolo. Il padre Ali Rıza Efendi è un ufficiale dell'esercito e un commerciante di legnami, instraderà il figlio verso la carriera militare, la madre Zübeyde Hanım è di origini turcomanne, in famiglia non mancano parenti albanesi e macedoni, d'altronde i musulmani di Salonicco sono una minoranza e come immaginabile vivono spesso insieme, almeno nei giorni festivi. Il museo ripercorre tutta la vita con particolare attenzione alla giovinezza dello statista con un considerevole numero di immagini di Mustafa Kemal e della città ai tempi degli ottomani. A Selanik il movimento dei Giovani Turchi ha il suo quartier generale all'inizio del XX secolo.
  Mustafa Kemal Atatürk, fondatore del primo Partito Comunista Turco (TKF), teorico della dottrina del socialismo di stato "Devlet sosyalizmi", comandante partigiano nella guerra di liberazione nazionale contro i colonialisti e primo presidente della Turchia repubblicana e laica, ha affermato: "Il potere della borghesia sul mondo finirà quando la classe operaia occidentale e le popolazioni oppresse dell'Asia e dell'Africa capiranno di essere schiavi degli interessi della classe capitalista internazionale e quando il proletariato internazionale percepirà i crimini del colonialismo".
  La casa - museo è attigua al consolato generale di Turchia, protetto da un alto muro e da un contingente della polizia ellenica, a segno che tanto il museo quanto la sede consolare sono oggetto di attacchi nazionalistici. Un nazionalismo dalle tinte vivaci che traspare con evidenza dal museo ad esso dedicato, sito in quello che in tempo ottomano era il consolato greco. Anche qui vediamo immagini e ricostruzioni di un secolo fa, ma tutte sono protese a sottolineare una particolare oppressione da parte degli ottomani, un fatto che tuttavia ha scarsa aderenza con la realtà, essendo represso il dichiarato separatismo su basi etniche, ma non la libera espressione linguistica, culturale, religiosa dei greco-ortodossi.
  Con i suoi quattrocentomila abitanti oggi Salonicco ha superato di molto le mura bizantine, anche in centro molti palazzi privi di storia e poco ricercati si sono fatti strada, stravolgendone l'antica armonia. Seconda città greca per numero di abitanti, raggiunge con il circondario un milione di persone, un decimo di tutto il paese, impegnate nell'agro-industria, nelle fabbriche e nel porto, peschereccio e commerciale, a segno che il quieto golfo protetto dalla penisola calcidica ha mantenuto inalterate nei secoli le pregiate qualità capaci di coniugare il verde delle colline con la profonda e azzurra bellezza del mare ancora vigilato dalla Torre Bianca a lungo occupata dai giannizzeri ed edificata dal geniale Sinan.

(Sinistra.ch, 15 dicembre 2018)


Il premier australiano: "Gerusalemme Ovest è la capitale d'Israele"

Nei mesi scorsi, diversi Paesi hanno riconosciuto Gerusalemme Ovest quale "capitale" dello Stato ebraico: Usa, Guatemala, Paraguay, Brasile, Repubblica Ceca

di Gerry Freda

Il governo australiano ha in questi giorni affermato di volere riconoscere Gerusalemme Ovest quale "capitale d'Israele".
È stato il primo ministro di Canberra in persona ad annunciare ai media tale intenzione, la quale ha subito innescato la reazione indignata dei leader palestinesi. Nei mesi scorsi, diversi Paesi hanno effettuato tale riconoscimento: Usa, Guatemala, Paraguay, Brasile, Repubblica Ceca.
Scott Morrison, premier dallo scorso agosto, intervenendo a un convegno tenutosi presso l'ente di ricerca The Sydney Institute, ha dichiarato: "Oggi l'Australia riconosce Gerusalemme Ovest, sede della Knesset e delle principali istituzioni governative israeliane, quale capitale dello Stato ebraico". Egli ha quindi presentato tale "svolta" nella politica estera nazionale come una decisione "ponderata" e "ragionevole". Tuttavia, il premier ha precisato che, per il momento, l'ambasciata di Canberra in Israele resterà a Tel Aviv, mentre nella "città santa" verrà "a breve" istituita soltanto una semplice "rappresentanza commerciale".
Morrison ha poi promesso che, non appena i delegati di Netanyahu e Abu Mazen avranno raggiunto un accordo di pace incentrato sul principio "due popoli, due Stati", riconoscerà immediatamente "Gerusalemme Est" quale capitale del nuovo "Stato di Palestina". Egli ha inoltre auspicato che, in Medio Oriente, possano svilupparsi sempre più entità statuali basate sui "valori tipici delle democrazie liberali".
Nel suo intervento a The Sydney Institute, l'esponente conservatore non ha però risparmiato critiche nei confronti delle Nazioni Unite. Il primo ministro australiano ha infatti accusato l'organizzazione internazionale di "bullismo ai danni di Israele" e ha quindi condannato quest'ultima per le recenti prese di posizione "indulgenti" verso Hamas.
Il riconoscimento australiano di Gerusalemme Ovest come "capitale di Israele" è stato subito duramente biasimato dalle autorità palestinesi. Ad esempio, Nabil Shaath, stretto collaboratore di Abu Mazen nonché influente funzionario del governo di Ramallah, ha definito "scioccanti" le dichiarazioni rese da Morrison e ha poi esortato gli Stati arabi e musulmani a "punire" l'Australia per tale "svolta filoisraeliana". Shaath ha infatti affermato che le nazioni islamiche dovrebbero "sospendere ogni esportazione" verso il Paese del Commonwealth se l'ambasciata di quest'ultimo nello Stato ebraico dovesse venire realmente spostata da Tel Aviv a Gerusalemme Ovest.

(il Giornale, 15 dicembre 2018)


Dire che "Gerusalemme Ovest è la capitale d'Israele" è peggio che non dire niente, perché dà per scontato che Gerusalemme debba essere divisa. M.C.


La Francia protesta per la benzina e tace sull'islam

di Kaver Rubin

La rivolta dei gilet gialli piace perché conferma lo stereotipo per cui i fieri e civili gallici sarebbero migliori di noi.
Loro capaci di alzare la testa per far rispettare i loro diritti, mentre noi, lassisti, mandolinari e pizzaioli, accetteremmo ogni sorta di sopruso. Stavolta a riattivare l'immaginario rivoluzionario francese non ci sono valori irrinunciabili come libertà, uguaglianza e fraternità ma il più pratico e meno intellettuale caro benzina. Mentre il popolo sbraitava per l'aumento delle tasse, a Strasburgo il marocchino Chérif Chekatt ammazzava poveri innocenti con il solito refrain: Allahu Akbar. La reazione francese è consistita nel solito, imbarazzato immobilismo, mentre per le vittime né fratellanza né rivoluzione. Per i morti sono scesi in piazza con candele postume e inutili, manifestazioni in cui era più importante ribadire l'estraneità dell'Islam, del Corano e del Profeta della violenza e dell'intolleranza che sta pervadendo l'Europa. Non tollerano la minima critica a una religione che lascia spazio a una radicalizzazione che ha esiti mortali tacciandola di razzismo e islamofobia, mentre la loro ipocrisia che permette all'arabo, anche di nazionalità francese, di perseguitare quotidianamente gli ebrei è ritenuta necessaria e legittima. Libertà, uguaglianza e fraternità non sono garantite agli ebrei francesi, presi di mira anche dalla fazione ultrasinistra di questi eroici gilet gialli. La comunità ebraica ha diffuso numerosi video antisemiti, graffiti e minacce reali che stanno costringendo gli ebrei a nascondersi e a non frequentare le sinagoghe ormai ritenute luoghi ad alto rischio. L'ebreo è di nuovo capro espiatorio, accusato di controllare il presidente Macron come fosse un burattino nelle sue mani, per ottenere meno tasse soltanto per lui, ovviamente ricco e avido. In un video diffuso sul web un attivista in divisa gialla invita i manifestanti ad andare di fronte alle sinagoghe in cui nei giorni scorsi si celebrava una festività religiosa, per rovinare la Hannukah a questi traditori, che festeggiano mentre i francesi non hanno nulla da mangiare. Sulla Route A6, l'arteria principale tra Parigi e Marsiglia campeggiava uno striscione: «Macron è una puttana degli ebrei».

(il Giornale, 15 dicembre 2018)


Una comunità antica, avvolta dal mistero

 
Yossi Vasa e Shai Ben Atar, ideatori di Nevsu
"Due amici, uno ashkenazita, l'altro etiope, conversano. Il primo racconta al secondo: "Lo sai che mia cugina si è sposata con un etiope? Che altre alternative aveva, poverina? È nata senza una mano, aveva mille difficoltà. Cosa gli rimaneva? O un personal trainer per anziani, o un ex galeotto o..", "O chi? Chi? - chiede l'altro - Quanti gradini bisogna scendere per arrivare a scegliere un etiope?"
   È uno degli sketch più significativi di Nevsu, la sitcom di successo che sta ottenendo un riscontro internazionale e di cui parliamo anche nelle pagine di Eretz aprendo con una scena ancora più inquietante. L'ironia come arma per trattare temi seri come i pregiudizi e le incomprensioni che ancora permeano la società israeliana rispetto ai rapporti con la comunità etiope.
   Una comunità antichissima, avvolta da mistero e fascino. Si rincorrono infatti diverse ipotesi sulle loro origini, ancora oggi non del tutto chiarite dagli addetti ai lavori. Si dice che i loro antenati fossero migrati dalla Terra d'Israele all'Egitto dopo la distruzione del secondo Santuario nel 586 a.e.v., e che dopo la conquista dell'Egitto da parte dei romani fossero migrati ancora più a sud fino all'Etiopia. Un'altra tradizione vuole invece che fossero discendenti delle tribù israelite che arrivarono in Etiopia con il figlio del re Salomone Menelik I e la regina di Saba. Qualunque sia la verità, risulta chiaro che i "Beta Israel" (così sono conosciuti) si identificano come una comunità di ebrei da tempi remoti. Noti anche come Falascia - anche se altre denominazioni sono preferite in quanto quest'ultima ha l'accezione negativa di 'esiliato, straniero' - furono un popolo fiorente, con re che governavano su un loro regno autonomo chiamato Gondar nella regione appunto dell'attuale Etiopia, conquistato dall'Impero etiope nel 1627. La vita da quel momento non fu facile per i Beta lsrael, la cui condizione era di estrema povertà e resa ancor più dura dalle carestie, ma nonostante le persecuzioni perpetrate dall'imperatore continuarono a praticare la religione in segreto, anche se adattandola con qualche cambiamento.
   Gli ebrei etiopi contemporanei loro discendenti hanno trovato nel duo rap Cafe Shahor Hazak composto da Uri Alamo e Ilak Sahalo una voce ulteriore per raccontarsi nel mondo dell'arte e del loro spettacolo. Già il loro nome esprime con una nota ironica la loro differenza: la traduzione infatti è "caffè nero forte", e sono loro ad aver composto la sigla di Nevsu. Uri e llak sono cugini e insieme hanno seguito la strada dell'hip hop, ispirati dai rapper americani come Tupac Shukur, Nas e il più giovane Kendrik Lamar. Nonostante le difficoltà di essere cresciuti nella periferia più povera, i due hanno sempre adottato una filosofia positiva.
   "C'è sempre stato e sempre ci sarà il razzismo - ha spiegato Elman in un'intervista - La questione è se sia il caso sedersi e piangersi addosso per questo tutto il giorno o piuttosto fare altro". Per Shalahu, "la prima cosa che la gente si aspetta quando vede degli etiopi cantare è che diciamo quanto la vita sia difficile per noi. Ma la vita a volte è bella". Una delle canzoni di successo del duo è "Ihiye Beseder", "Andrà tutto bene", con una melodia allegra e un coro accattivante che ad un certo punto recita:
   "So che tutto andrà bene
   Non importa ciò che gli altri dicono in privato
   Ce la caveremo con l'aiuto di Dio".
La canzone ha fatto milioni di visualizzazioni su Youtube. E nel frattempo Nevsu si è accaparrato un prestigiosissimo International Emmy Award.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2018)



Israele di nuovo sotto attacco. Dieci attentati in un mese

Uccisi ieri due militari e altri due feriti a coltellate

di Giordano Stabile

Due soldati uccisi a colpi di arma da fuoco vicino all'insediamento di Ofra, due accoltellati nella Città vecchia di Gerusalemme, la morte di un bambino nato prematuro dopo che la madre incinta era stata ferita in un agguato domenica sera. Quella di ieri è stata una giornata di sangue, dopo una notte di battaglia attorno a Ramallah, che aveva portato i militari israeliani a uccidere due degli attentatori degli ultimi attacchi. Un risultato che però ha visto la reazione immediata dei militanti palestinesi, non si capisce fino a che punto organizzati in una rete, o lupi solitari in cerca di vendetta. In ogni caso l'Intifada strisciante in Cisgiordania ha subito una tremenda accelerazione, dopo che per tre anni gli attacchi si erano succeduti in maniera sporadica. Nell'ultimo mese sono stati invece dieci, e gli analisti temono un cambio di strategia di Hamas che, anche se non rivendica mai direttamente gli attentati, sarebbe il regista dell'ondata di violenza.
   L'accelerazione è cominciata con l'attacco, domenica, a una fermata dell'autobus davanti all'insediamento di Ofra, poco distante da Gerusalemme e Ramallah. Colpi di arma da fuoco da un auto in corsa che hanno lasciato a terra sette feriti, due gravi, compreso Amichai Ish-Ran e sua moglie Sarah, incinta. Per Israele, che festeggiava l'ultimo giorno dell'Hanukah, la celebrazione delle luci, è stato uno choc. E' cominciata una gigantesca caccia all'uomo, che ha portato i soldati israeliani fin nel centro di Ramallah, dove ha sede l'Autorità nazionale palestinese, a setacciare locali e perfino la sede dell'agenzia palestinese Wafa. La caccia è finita nella notte fra mercoledì e ieri, quando i militari hanno trovato e ucciso l'autore, legato ad Hamas. Il figlio di Sarah era però già morto.
   Prima dell'alba di ieri un altro blitz portava all'uccisione nel campo profughi di Askar, accanto a Nablus, di una altro sospetto terrorista, autore della strage nella zona industriale di Barkan all'inizio di ottobre. La reazione dei militanti è stata però massiccia. Nella prima mattinata due soldati di pattuglia a Gerusalemme vecchia venivano feriti a coltellate, l'assalitore ucciso sul posto. Poi l'attacco più grave, all'incrocio di Givat Asaf sulla superstrada 60, ancora vicino all'insediamento di Ofra. Un palestinese ha bloccato la sua auto, è sceso e ha sparato sui soldati di guardia. Due sono rimasti uccisi. Il killer è fuggito a piedi. Infine, al check-point di Be El un palestinese ha investito un soldato, ed è stato ferito gravemente.
   Il premier Benjamin Netanyahu ha promesso «che chiunque ha commesso l'attacco pagherà, i nostri nemici sanno che li troveremo». Anche il presidente palestinese Abu Mazen è intervenuto per «respingere la violenza, nella convinzione che entrambe le parti ne paghino il prezzo». E' partita una nuova caccia all'uomo, ma la spirale in Cisgiordania preoccupa. Da ottobre, nota l'analista militare Amos Harel, ci sono stati dai quattro agli otto attacchi al mese, una media superata di molto nella prima metà di dicembre. I servizi interni, lo Shin Bet, temono di trovarsi di fronte a una fenomeno «ibrido», un misto fra i lupi solitari protagonisti dell'Intifada «dei coltelli» cominciata nell'ottobre 2015, e una rete organizzata come quella della Seconda Intifada. Un rete fatta di micro cellule, che non presuppone un'affiliazione dichiarata, e si basa soprattutto sui legami famigliari come supporto. Una minaccia di un nuovo tipo che richiede una nuova strategia di contrasto.

(La Stampa, 14 dicembre 2018)


Washington avverte: "Sanzioni all'Iran, l'esenzione italiana non sarà rinnovata"

Fare pressione sugli ayatollah serve per tornare a negoziare e ottenere un'intesa migliore sul nucleare. "Alla scadenza dei sei mesi Roma dovrà scegliere se fare affari con noi o con loro".

di Paolo Mastrolilli

L'esenzione dell'Italia dalle sanzioni americane contro l'Iran non verrà più rinnovata. Le nostre compagnie dovranno decidere se concludere affari con gli Usa, o con la Repubblica islamica, e le violazioni saranno punite. A lanciare questo avvertimento è Brian Hook, rappresentante speciale di Washington per la nuova politica verso Teheran, avviata dopo la denuncia dell'accordo nucleare negoziato dall'amministrazione Obama.
   Mercoledì il segretario di Stato Pompeo è venuto all'Onu per chiedere al Consiglio di Sicurezza di vietare i test missilistici iraniani. Alcuni osservatori hanno chiesto se questa strategia non sia in realtà la preparazione del terreno per un intervento militare, come era accaduto con l'Iraq nel 2003. Dopo l'intervento al Consiglio, Hook ha incontrato un gruppo ristretto di giornalisti per spiegare gli obiettivi degli Usa. La Stampa gli ha chiesto se Washington è disposta ad estendere l'esenzione che ha concesso all'Italia, oltre i sei mesi previsti: «Gli Stati Uniti - ha risposto - non stanno considerando di concedere waiver alla nostra campagna di massima pressione economica sul regime. Abbiamo dato esenzioni petrolifere ad alcuni Paesi, principalmente perché all'epoca c'era un mercato molto fragile. Non avremmo svolto bene il nostro compito se avessimo provocato un aumento del prezzo del petrolio, dando all'Iran un vantaggio proprio mentre cerchiamo di imporre pressione economica. Siamo riusciti a togliere dal mercato oltre un milione di barili iraniani tra maggio e novembre. Abbiamo concesso alcuni waiver e il prezzo del petrolio è sceso. Noi pensiamo che nel 2019 l'offerta supererà la domanda. Ciò ci mette in una posizione molto migliore per accelerare la strada verso zero importazioni di greggio iraniano. L'80% dei ricavi del regime viene dalle esportazioni di petrolio. Se vuoi essere serio nella deterrenza di questo stato, primo sponsor mondiale del terrorismo, devi colpire i soldi, e ciò significa il greggio. Nel prossimo futuro vedremo meno petrolio sul mercato, e non intendiamo offrire esenzioni, perché è molto importante negare al regime le risorse che usa per destabilizzare il Medio Oriente, e mettere pressione affinché torni al tavolo negoziale per ottenere un nuovo accordo migliore». Oltre al petrolio, l'Italia ha molti altri interessi nella Repubblica islamica. Alla domanda se gli Usa stanno monitorando come Roma disinveste, e cosa si aspettano da noi, Hook ha risposto così: «Io ho avuto buoni incontri con il governo italiano. Sono stato in Italia dopo la sua formazione, e continuo ad essere in contatto regolare con le mie controparti italiane».
   Una questione sul tavolo è anche il sostegno dell'Unione Europea per l'accordo nucleare, che continua, e lo «special purpose vehicle» che Bruxelles vorrebbe costruire per proseguire gli scambi commerciali con Teheran senza usare il dollaro. «Lasciatemi prima dire che abbiamo visto solo conformità in sostegno alle nostre azioni da parte delle compagnie europee: se devono scegliere tra il mercato iraniano e quello americano, sceglieranno sempre l'America. Perché è molto più grande.
   Quando fai affari in Iran, non sai mai se stai aiutando il commercio o il terrorismo, perché la Guardia repubblicana è responsabile di oltre la metà dell'economia locale. Ho fatto questo preambolo, perché non vedo molta domanda per lo special purpose vehicle, non vediamo compagnie che vogliono avvalersene. Come ha detto il segretario Pompeo, se l'obiettivo è facilitare le transazioni umanitarie, che le nostre sanzioni incoraggiano, va bene. Noi però sanzioneremo qualunque comportamento sanzionabile. Tuttavia la mia impressione è che non sarà necessario, specialmente con l'Europa, perché abbiamo visto solo sostegno dalle sue compagnie». Diverso è il discorso con Russia e Cina, con cui «siamo in disaccordo».
   Hook ha ribadito che l'obiettivo degli Usa non è il cambio di regime, ma spingere il regime a cambiare politica: «Quando vedi i complotti iraniani per un attacco con le bombe a Parigi, un tentato omicidio in Danimarca, o il massiccio traffico di eroina che il governo italiano ha appena intercettato, queste non sono azioni difensive. Hanno condotto attacchi terroristici in cinque continenti. Perché il principale sponsor mondiale del terrorismo ha bisogno di missili capaci di raggiungere il cuore dell'Europa, o gli Usa? Questa tecnologia può essere trasferita ai vettori intercontinentali. Perciò dobbiamo essere vigilanti, e non possiamo aspettare che la minaccia si materializzi. L'Iran ci sta aiutando a costruire il caso per fermare i suoi test missilistici, la proliferazione, e l'aggressione regionale».

(La Stampa, 14 dicembre 2018)


Il cantautore Nick Cave contro il "vergognoso" movimento BDS

di Nathan Greppi

Nick Cave (in una delle poche foto in cui non riesce a presentarsi come brutto e cattivo come vorrebbe)
Il musicista australiano Nick Cave, che si è esibito a Tel Aviv nel novembre 2017 con il suo gruppo dei Bad Seeds, ha recentemente definito "vigliacca e vergognosa" la campagna di boicottaggio culturale nei confronti di Israele messa in atto dal movimento BDS.
   Secondo The Jewish Chronicle, tutto è iniziato quando Cave ha pubblicato, sul proprio sito, una risposta alla domanda di un ammiratore, affermando che osteggiare il BDS non implica automaticamente un sostegno al governo di Benjamin Netanyahu. Ha inoltre accusato il BDS di voler "bullizzare, imbarazzare e mettere a tacere i musicisti" per impedire loro di esibirsi in Israele.
   Sempre sul suo sito, ha condiviso una lettera che ha inviato al musicista inglese Brian Eno, che al contrario è un fervente sostenitore del boicottaggio: "Io non appoggio l'attuale governo israeliano," ha scritto Cave, "e tuttavia non accetto che la mia decisione di esibirmi nel paese sia in qualunque modo vista come un tacito sostegno alle sue politiche." Ha aggiunto che le pressioni ricevute per non esibirsi l'hanno invece motivato ancora di più nell'andare avanti. Cave ha accusato Eno di voler strumentalizzare la musica: "Cosa ci ha portati al punto che certi musicisti ritengano legittimo usare forme di coercizione e intimidazione, nella forma di 'petizioni', verso i loro colleghi musicisti che sono in disaccordo con il loro punto di vista?"
   Tuttavia, Cave ha voluto sottolineare di non essere contro i palestinesi: ha dichiarato di sentirsi vicino anche alla loro causa, e che le loro sofferenze "possono finire solo grazie a una giusta e ragionevole soluzione, una che prevede una forte volontà politica da entrambe le parti." Ha aggiunto di aver donato 150.000 sterline alla Hoping Foundation, vicina ai palestinesi.
   Cave non è l'unico musicista che, in questi anni, ha tenuto testa al BDS: anche il gruppo dei Radiohead, pur avendo subito molte pressioni, nel luglio dell'anno scorso si è esibito. Altri, invece, hanno annullato i propri concerti, come fece nel dicembre 2017 la neozelandese Lorde.

(Bet Magazine Mosaico, 14 dicembre 2018)


Australia - Domani la decisione su Gerusalemme capitale d'Israele: si temono rappresaglie

Il governo di Canberra ha raccomandato cautela a quanti si recano nella vicina Indonesia, il paese musulmano più popoloso a mondo

Alta tensione in Australia. Il governo di Canberra, che si prepara a riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele, ha raccomandato cautela a quanti si recano nella vicina Indonesia, il paese musulmano più popoloso a mondo. Si temono infatti rappresaglie. "Ci sono state proteste nelle ultime settimane attorno all'ambasciata australiana a Giacarta e al consolato generale australiano a Surabaya", la seconda città dell'Indonesia, ha ammonito il ministero degli Esteri.

 Si raccomanda massima cautela
  "C'è il rischio che ce ne siano altre, è raccomandata la massima cautela". Il premier Scott Morrison dovrebbe annunciare domani il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, come già fatto dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Lo hanno detto alla France presse funzionari australiani, aggiungendo però che non sono escluse variazioni di programma.

(Gente d'Italia, 14 dicembre 2018)


Sospetti, pregiudizi, simpatie: gli occhi dell'Italia su Israele

di Paolo Salom

Israele vista dall'Italia nel corso di settant'anni di storia, dal 1948, anno della fondazione ( o della rinascita) dello Stato ebraico, al 2018, epoca di disillusioni e orizzonti sempre più velati dalle nubi della guerra. Una raccolta di saggi, scanditi per decenni, a cura di Mario Toscano per la casa editrice Viella (L'Italia racconta Israele 1948-2018), propone un'interessante analisi di come, nel tempo, politici, scrittori, giornalisti hanno narrato il ritorno degli ebrei nella loro patria, il trionfo del sionismo realizzato, il conflitto mai spento con il mondo arabo e musulmano, le speranze di pace esaltate (raramente) o (più spesso) travolte dalle docce fredde della realtà del rebus mediorientale.
   È un viaggio affascinante che ci illustra, con competenza e chiarezza, i limiti e anche i pregiudizi alla base dell'interpretazione via via data di fronte allo svolgersi di avvenimenti che, dalla cronaca, passavano rapidamente attraverso il setaccio delle diverse ideologie politiche non meno che della religione.
   Dunque, per la stampa cattolica, la nascita di Israele rimaneva un «problema» teologico che non poteva essere accolto con favore; mentre negli scritti pubblicati sulle nuove riviste di orientamento socialista, il progetto sionista rimaneva - nella sua proposta di un uomo nuovo capace di redimersi attraverso il lavoro - un esperimento da guardare con interesse, pur nel rispetto dei «diritti degli arabi».
   Con il passare degli anni, e il mutare delle alleanze internazionali non meno dei rapporti con il mondo arabo - favorito dalla classe dirigente democristiana - l'ambiguità nei confronti dello Stato necessariamente guerriero si farà costante. Con punte di ostilità accesa nei momenti di conflitto aperto. La guerra del Sinai (1956) e, soprattutto, quella dei Sei Giorni (1967) provocheranno un vero e proprio choc nelle coscienze italiane, incapaci di collocare con sufficiente obiettività l'inevitabile capacità bellica degli ebrei israeliani: popolo sotto assedio o aggressore?
   Più avanti, dopo la breve stagione della pace con l'Egitto, i fuochi di altri scontri - in Libano, oltre il confine settentrionale dello Stato ebraico, soprattutto - e dell'Intifada palestinese faranno prevalere visioni antiebraiche (peraltro presentate come antisioniste) così nette da riportare alla luce convinzioni antiche e mai del tutto archiviate nel cestino della Storia.
   Il pendolo del pregiudizio continua a oscillare tuttora, anche se con minore foga, visti i recenti avvenimenti mediorientali, che paiono ingarbugliarsi sempre più, invece di sciogliersi in una dicotomia pace-guerra più intellegibile all'opinione pubblica del nostro Paese.

(Corriere della Sera, 14 dicembre 2018)


L'italiano che cura la comunicazione in Israele

Il toscano Francesco Giannelli, 24 anni, è tirocinante all!ambasciata italiana a Tel Aviv. Ha preso parte all'organizzazione della visita di Salvini nel Medio oriente.

di Filippo Merli

Francesco Giannelli
La chiamano The Bubble. «La bolla. Perché a Tel Aviv la vita culturale e frizzante, come quella della Miami degli anni '70». Il toscano Francesco Giannelli, 24 anni e un futuro da diplomatico, cura la comunicazione nell'ambasciata italiana in Israele. Originario di Certaldo, in provincia di Firenze, lavora a stretto contatto con politici, funzionari di Stato ed ex generali del Mossad, il servizio di intelligente israeliano. E stato lui, dal suo ufficio di Tel Aviv, a pianificare alcuni aspetti della visita di Matteo Salvini in Medio oriente.
   Durante gli anni del liceo, Giannelli ha frequentato la quarta superiore a Helsingborg, in Svezia, nell'ambito di un programma di intercultura. Dopo il diploma scientifico ha iniziato a frequentare la facoltà di Scienze internazionali e diplomatiche a Forlì, in un distaccamento dell'Università di Bologna. La sua prima esperienza politica risale al 2017, con l'elezione a presidente del consiglio dei giovani di Certaldo, il suo paese d'origine. «In questi anni i miei rapporti e la modalità di approccio sono cambiate, a testimonianza di come la carica con il consiglio dei giovani sia stata estremamente utile», ha spiegato Giannelli. «Non dimenticherò mai quel giorno che sono entrato in consiglio comunale per parlare dallo scranno di un assessore: l'assise, all'unanimità, ha approvato il mio percorso».
   Il 14 settembre del 2018 un aereo l'ha portato a Tel Aviv per un tirocinio universitario in attesa della laurea magistrale. Lì, in Israele, ha iniziato a occuparsi di comunicazione. «Dirigo una rassegna stampa dove, per la maggior parte, seleziono articoli in lingua inglese», ha raccontato Giannelli al Tirreno. «La seconda parte, invece, riguarda quei pezzi che possono interessare a Roma, soprattutto alla Farnesina, che a sua volta li distribuisce agli uffici preposti».
   Giannelli parla italiano nei corridoi dell'ambasciata, inglese sul lavoro e ha cominciato a prendere dimestichezza con l'ebraico. «Parlare con l'ex direttore del Mossad, l'agenzia di intelligence dello Stato di Israele, è una opportunità da cogliere al volo, in quanto, una volta andato in pensione, nei limiti della riservatezza puoi affrontare argomenti molto interessanti». Nella bolla di Tel Aviv, Giannelli si trova bene. «In Italia arrivano molto spesso notizie di missili e bombardamenti, ma è tutta un'altra storia, perché basta spostarsi non di molto per arrivare a Gerusalemme, dove trovi ben tre religioni e ti senti catapultato in un altro mondo».
   Il giovane toscano, tra le altre cose, gestisce il profilo di Twitter dell'ambasciata, partecipa a incontri e conferenze con le altre delegazioni di ambasciatori europei e segue da vicino la politica italiana. È stato lui, insieme con gli altri funzionari, a organizzare parte della visita di Salvini in Medio oriente. Interpellato sull'eventuale trasferimento dell'ambasciata italiana da Tel Aviv a Gerusalemme, il ministro dell'Interno ha risposto: «Sapete come la penso: step by step», Per ora, Giannelli resta nel suo ufficio di Tel Aviv. Con una rassegna stampa sulla scrivania e un futuro da diplomatico davanti.

(ItaliaOggi, 14 dicembre 2018)


Netanyahu: entro un mese verrà nominato il Ministro degli Esteri

GERUSALEMME - Il capo dell'esecutivo israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto oggi davanti al gabinetto dei ministri che nominerà uno di loro alla guida del dicastero degli Esteri. Lo riferisce il quotidiano israeliano "The Times of Israel". In tal modo, Netanyahu porrebbe fine a un periodo di circa quattro anni in cui ha gestito personalmente la diplomazia dello Stato ebraico. Il capo dell'esecutivo ha assunto il mese scorso anche l'interim del dicastero della Difesa, dopo le dimissioni di Avigdor Liberman. L'accentramento della guida di alcuni dei ministeri chiave da parte del premier ha attirato le critiche da parte di altri membri della coalizione di governo. In una lettera indirizzata ai ministri, Netanyahu ha detto di voler assegnare l'incarico a gennaio e di nominare la prossima settimana il ministro dell'Immigrazione, carica attualmente nelle mani del premier. Secondo quanto riferisce "The Times of Israel", l'anticipazione di Netanyahu appare come uno sforzo per facilitare la formalizzazione della guida del ministero della Difesa da parte della Knesset.

(Agenzia Nova, 14 dicembre 2018)


Cimitero ebraico profanato in Alsazia

PARIGI - Decine di lapidi del cimitero ebraico di Herrlisheim, un villaggio nel dipartimento del Basso Reno a nord est di Strasburgo, sono state ricoperte di scritte antisemite nella notte tra lunedì e martedì; lo si è appreso da fonti concordanti. «Trentasette stele sono state profanate ed è stato rovinato anche il monumento ai martiri della Shoah», lo si legge nel comunicato della comunità ebraica del Basso Reno, una informazione confermata anche dalla prefettura e dalla polizia che ha aperto un'inchiesta.
I responsabili della comunità ebraica locale hanno espresso in un comunicato «viva e profonda indignazione» nei confronti di «un nuovo atto di odio che non fa che accrescere l'esasperazione della comunità di fronte allo spettro di un antisemitismo crescente».

(L'Osservatore Romano, 13 dicembre 2018)


Le 24 ore di Matteo Salvini in Israele

L'incontro con Netanyahu, le polemiche sulle frasi su Hezbollah, il chiarimento con il comandante di Unifil, la visita al Santo Sepolcro e allo Yad Vashem. La visita del vicepremier, in sintesi.

di Federica Valenti

 
 
Salvini con il Ministro della Giustizia israeliano Ayelet Sheked
Quarantacinque minuti di faccia a faccia con Benjamin Netanyahu. Dopo l'intesa con 'Russia Unita' di Vladimir Putin, e le alleanze con le diverse formazioni populiste ed euroscettiche del Vecchio continente, da quella della francese Marine Le Pen all'ungherese di Viktor Orban, Matteo Salvini allarga la tela dei suoi rapporti politici al Medio Oriente, dove trova una sponda nel leader del Likud, il partito conservatore israeliano. A Gerusalemme, Bibi Netanyahu dà il benvenuto al vice premier italiano definendolo "grande amico di Israele".
  Una investitura per il capo della Lega, al suo secondo viaggio nello Stato ebraico dopo quello di fine marzo 2016. "Hai avuto l'opportunità ieri di vedere con i tuoi occhi i tunnel dei terroristi, questo è un chiaro atto di aggressione di Hezbollah contro di noi e contro le regole della comunità internazionale", scandisce subito il primo ministro israeliano che chiede a Salvini che Unifil, missione a comando italiano, "fermi Hezbollah" adottando un "ruolo più forte e piu' attivo".

 Sì a un gasdotto che colleghi i due Paesi
  A Netanyahu Salvini garantisce anche che si farà "carico di un cambiamento" dell'atteggiamento dell'Italia a tutela di Israele nei sedi internazionali, in particolare le Nazioni Unite e l'Unione europea, finora troppo sbilanciate contro lo Stato ebraico.
  La breve visita di Salvini, poco più di 24 ore, serve al vice premier italiano anche per porre le basi per rinsaldare la cooperazione tra i due Paesi: sia dal punto di vista della sicurezza e della lotta al terrorismo internazionale sia dal punto di vista economico. Sul fronte del business, il ministro dell'Interno italiano si fa promotore dell'ipotesi di progetto di un "gasdotto che colleghi Israele al Sud dell'Italia" che "andrebbe ad aggiungersi, senza creare alcun danno, al Tap per cui sono già in corso i lavori".
  Nel corso della conferenza stampa conclusiva, prima di fare rientro in Italia, il ministro dell'Interno quindi annuncia che si terrà a Gerusalemme a inizio dell'anno prossimo una conferenza governativa italo-israeliana ai massimi livelli.
  Oltre all'incontro con il primo ministro israeliano, in mattinata Salvini visita la Basilica del Santo Sepolcro e partecipa alla cerimonia in ricordo delle vittime dell'Olocausto allo Yad Vashem. Incontrando la comunità italiana, al museo della Shoah garantisce il massimo impegno del governo nel contrastare ogni episodio di anti-semitismo.
  E, a chi gli chiede se vorrà spostare l'ambasciata italiana a Gerusalemme, come fatto, tra le polemiche, dal presidente Usa Donald Trump, risponde: "Sapete come la penso: step by step (passo dopo passo), c'è un governo di coalizione e quindi devo ascoltare anche i partner".

 La telefonata col comandante di Unifil
  Salutando Netanyahu, Salvini scherza anche sulle polemiche sollevate dalla sue dichiarazioni di sui "terroristi islamici di Hezbollah", trovando la sponda del premier israeliano. In conferenza stampa prima di partire, spiega però di aver sentito al telefono il comandante di Unifil, Stefano De Col, dopo che ieri ambienti della Difesa e della missione avevano espresso "preoccupazione e stupore" per le sue frasi che avrebbero potuto danneggiare la missione dei soldati italiani al Sud del Libano.
  "Il generale l'ho sentito: collaboriamo e collaboreremo per la riuscita della missione e per la ovvia tutela del benessere dei nostri ragazzi", garantisce. E a chi gli chiede se risponderà alle richieste di Israele riguardo a un rafforzamento della missione, risponde: "È chiaro ed evidente che porremo il tema nelle opportune sedi, lo farà chi di competenza" nel governo. "Se ci sono dei rischi i militari devono essere messi in condizione di individuare e neutralizzare quei rischi" e occorre valutare "l'estensione delle competenze".
  "Devo dire che di Netanyahu mi ha colpito l'assoluta informalità, la schiettezza, la concretezza e la chiara visione a livello geopolitico e internazionale che condivido su quasi tutti i fronti e l'incredulità nei confronti dell'inettitudine o dell'ipocrisia di alcuni contesti internazionali che fanno finta di non vedere che esiste una 'Internazionale' del terrorismo che ha l'unico obiettivo di colpire le democrazie delle civiltà occidentali" sostiene Salvini.
  "Sono orgoglioso del lavoro dei nostri ragazzi e dei nostri soldati per portare serenità in alcuni Paesi: l'importante è capire che se abbiamo un nemico alle porte questo nemico va identificato. Se fai finta di niente, usi mezze parole, metti la testa sotto la sabbia - insiste - non fai l'interesse né dell'Italia, né dei nostri militari all'estero".

 "Accoglienza straordinaria e fiducia"
  "Ci tengo a ringraziare sia il popolo che il governo israeliani per la straordinaria accoglienza e fiducia dimostrate in queste 24 ore molto intense che mi hanno portato ai confini del Nord", aggiunge poi nella conferenza stampa conclusiva.
  Nel corso della mia visita "ho incontrato il ministro del Turismo e abbiamo concordato di intensificare i rapporti culturali e commerciali fra i due Paesi, il ministro per la Sicurezza interna con cui abbiamo condiviso non solo la collaborazione che già esiste tra le forze di sicurezza italiane e israeliane ma anche alcuni miglioramenti e ulteriori passi in avanti nella gestione del fenomeno dell'immigrazione irregolare, dei rimpatri e delle iniziative anti-terrorismo".
  "Al di là dell'onore e del piacere personale di visitare il Santo Sepolcro e portare un ringraziamento a nome di milioni di pellegrini ai custodi della Terra santa, al di là dell'emozione della visita allo Yad Vashem che dovrebbe essere patrimonio comune per sei miliardi di abitanti di questa Terra per evitare che il triste passato ritorni, ho appena incontrato il ministro della Giustizia con cui abbiamo deciso di condividere alcune iniziative per cooperare insieme allo sviluppo e limitare sbarchi partenze e arrivi", sostiene.
  "Nelle due ore di incontro con il premier Netanyahu di cui una buona parte, 45 minuti, a due, ci siamo detti molte cose - afferma -. Alcune riguardano la cooperazione tra i due Paesi, l'amicizia tra i due Paesi: l'impegno italiano a sostenere i legittimi diritti di Israele in tutte le sedi internazionali, dall'Onu all'Unesco, all'Unione europea, perché ci sembra evidentemente sbilanciato in senso anti-israeliano l'atteggiamento in tutte queste istituzioni internazionali".

 Nel 2019 un bilaterale "ai massimi livelli"
  "Abbiamo ipotizzato un incontro bilaterale ai massimi livelli tra i due governi nei primi mesi del 2019 da tenersi a Gerusalemme - aggiunge -. Siamo anche entrati nel merito di collaborazioni economiche e industriali fra i due Paesi.
  Il primo dossier su cui lavorerò è un elenco di imprese e imprenditori italiani da portare il prima possibile in Israele per collaborare alla crescita del Paese e per creare business, valore aggiunto e lavoro in Italia perché in Israele ci siamo ancora troppo poco rispetto ad altri Paesi e c'è voglia di Italia, di produzione e di manifattura italiana di collaborazione con l'Italia. Da vice presidente del Consiglio ritengo di avere il dovere di aiutare l'export e la produzione industriale italiana, senza che nessuno si offenda.
  Abbiamo parlato anche di altri fronti: un ipotesi di lavoro che mi piacerebbe percorrere e che condivido con il premier Netanyahu riguarda alcune iniziative bilaterali congiunte Italia-Israele in alcuni Paesi africani per coordinare cooperazione, crescita e sviluppo".
  Sul fronte Hezbollah, il titolare del Viminale insiste: "I terroristi vanno chiamati terroristi, ho passato la notte con il dizionario dei sinonimi e dei contrari. Scegliete voi che altro tipo di definizione si possa dare a chi ha centomila missili pronti a partire e a chi da anni scava tunnel sotterranei che sconfinano nel Paese vicino".
  "Israele è l'unica certezza di stabilità per quanto riguarda l'Occidente e l'Europa: chi mette in discussione il diritto a esistere di Israele è un sadico masochista che mette a repentaglio l'esistenza stessa della civiltà occidentale e dell'Europa", sostiene.
  "Torno a casa assolutamente felice, contento e soddisfatto, convinto che questa missione, al di là di cementare un rapporto positivo, possa essere utile anche alle imprese e alle industrie italiane, agli imprenditori, non solo ai grandi ma anche ai piccoli e ai medi", conclude.

(AGI, 13 dicembre 2018)


Le critiche ai rapporti di Israele coi leader della destra populista odorano di ipocrisia

E' singolare come quegli stessi critici non vedano alcun problema nell'arruffianarsi con regimi antisemiti e oppressivi come quelli in Iran e Venezuela

L'arrivo in Israele, martedì, del vice primo ministro italiano Matteo Salvini ha offerto a molti un'ulteriore occasione per accusare Israele di sostenere leader di estrema destra inquinati da fascismo e persino antisemitismo. Ma le loro lamentele sono in odore di ipocrisia. Vale la pena ricordare quali sono i personaggi che queste persone ammirano e quelli che scelgono di criticare.
Federica Mogherini, il "ministro" degli esteri dell'Unione Europea, è da sempre alla testa degli sforzi a favore dell'accordo sul nucleare iraniano (e per aggirare le rinnovate sanzioni americane). Il dibattito su quell'accordo è legittimo. Il problema è che Mogherini è diventata il difensore del regime degli ayatollah. Si fa fatica a trovare una sola parola che Mogherini abbia mai pronunciato per condannare un regime che invoca apertamente la distruzione di un altro paese, un regime attivamente impegnato nella negazione della Shoà, un regime il cui coinvolgimento nel Medio Oriente sta causando enormi spargimenti di sangue, un regime tutt'ora implicato in attività terroristiche sul suolo europeo....

(israele.net, 13 dicembre 2018)


Non fate di Unifil un ostaggio di Hezbollah

Accertare le violazioni al confine è ciò che deve fare. Altrimenti a cosa serve?

Quando, lo scorso agosto, il generale italiano Stefano Del Col ha preso il posto di Michael Beary come comandante dell'Unifil (la forza interinale dell'Onu nel Libano meridionale), l'allora ambasciatore israeliano all'Onu, Ron Prosor, gli scrisse una lettera aperta che recitava: "Lei sta per assumere il comando di una forza Onu che ha toccato un punto molto basso. Il suo predecessore è diventato lo zimbello della regione e ne ha minato la credibilità e la deterrenza. Non sorprende che nessuno da queste parti prenda minimamente sul serio l'Unifil. Ripristinare la sua credibilità ne ripristinerà anche la forza deterrente". Si fece sentire anche l'ambasciatrice degli Stati Uniti all'Onu, Nikki Haley, che criticò duramente l'allora capo dell'Unifil, l'irlandese Beary, accusandolo di ignorare il riarmo nemmeno troppo segreto di Hezbollah da parte dell'Iran. "Hezbollah si vanta apertamente del proprio riarmo e fa sfilare le sue armi davanti alle telecamere - aveva detto Haley - Il fatto che il comandante dell'Unifil lo neghi dimostra che l'Unifil ha bisogno di riforme".
   Di Unifil si è tornati a parlare due giorni fa, dopo che il vicepremier Matteo Salvini ha usato l'espressione "terroristi islamici" per Hezbollah, che ha costruito tunnel dal Libano per infiltrarsi in Israele. Apriti cielo! La nostra Difesa si è detta "sconcertata", come se Salvini avesse rivelato al mondo la formula segreta per l'energia pulita. E' dal 2013, infatti, che Hezbollah è nella lista nera delle organizzazioni terroristiche dell'Unione europea. Ci volle molto tempo per convincere gli europei a farlo. Fu l'attentato compiuto da Hezbollah a Burgas, in Bulgaria, ai danni di un gruppo di turisti israeliani, a spingere la Ue a fare la cosa giusta: riconoscere Hezbollah per quello che è. Un gruppo terroristico, non una ong politica e caritatevole.
   Ora, tre tunnel che partivano dal territorio libanese sono stati scoperti questa settimana da Israele. Tre tunnel che Hezbollah ha costruito letteralmente fra i piedi e sotto il naso dell'Unifil. Le nubi di guerra si sono andate addensando sotto gli occhi di questa forza di pace delle Nazioni Unite. Su direttiva del suo protettore iraniano, Hezbollah ha accumulato nel sud del Libano un arsenale di armi e di combattenti micidiale. Mentre l'Unifil girava la faccia dall'altra parte, Hezbollah si preparava alla guerra. All'Unifil è stata attribuita una significativa autorità per impedire l'attività illegale e ostile di Hezbollah, il problema è che non la sta utilizzando. Ha sviluppato una sorta di mentalità del tipo "non vedo e non sento". Capita che i caschi blu dell'Unifil incappino in posti di blocco mentre sono di pattuglia nel Libano meridionale. Improvvisamente compaiono uomini in abiti civili che bloccano i mezzi delle Nazioni Unite, rubano il loro equipaggiamento e li prendono a sassate finché non girano i tacchi e se ne vanno. Tutti sanno di chi si tratta. E' Hezbollah: Hezbollah non vuole che l'Unifil veda cosa c'è al di là di quei blocchi stradali. E normalmente i caschi blu dell'Unifil fanno dietrofront e se ne vanno senza fare rapporto su chi li ha fermati e perché. L'Unifil non sa cosa nasconde Hezbollah e il mondo non viene a sapere perché le pattuglie vengono fatte tornare indietro. Le forze Onu in Libano sono "ostaggio di Hezbollah", disse ormai dieci anni fa Toni Nissi, a capo del comitato di monitoraggio internazionale-libanese per la Risoluzione del Consiglio di sicurezza 1559 (2004). E' cambiato qualcosa da allora?
   Washington e Gerusalemme, i due paesi che di più hanno fatto per potenziare e rendere effettiva la missione dell'Unifil, non si aspettano che l'Unifil affronti militarmente l'organizzazione terroristica libanese, ma chiedono che siano migliorate la qualità e la quantità dei rapporti sulle violazioni. Se Hezbollah intensifica i suoi sforzi, anche le Nazioni Unite devono potere intensificare gli sforzi contro di loro. Altrimenti, a quarant'anni dalla sua nascita, a cosa serve l'Unifil, a parte monitorare i tour di giornalisti che Hezbollah organizza nel sud mettendo in mostra il suo imponente arsenale di fabbricazione iraniana che gli servirà nella prossima guerra contro Israele?

(Il Foglio, 13 dicembre 2018)


In viaggio tra le sinagoghe che non lo sono più

A volte grandiosi, a volte modesti e funzionali edifici che servivano le loro comunità. A volte deserte, ma spesso utilizzate per scopi diversi, sono le sinagoghe ritratte nell'Europa dell'est dalla fotografa Bernadett Alpern. Tra queste una sala concerti, un museo, un monumento all'esercito serbo, un negozio di mobili, un centro di allenamento olimpico e persino una lavanderia a secco.

di Michele Miglion

Nata nel 1987 a Budapest, Bernadett Alpern vive e lavora nella capitale ungherese. Ha completato i suoi studi presso l'Università di Kaposvar - Dipartimento di Arte - nella facoltà di Fotografia per la stampa. In Inghilterra, ha realizzato la sua serie "Identità nella terra" concentrandosi sul rapporto tra uomo e paesaggio. Il suo ultimo progetto, Used Stones, è stato concepito in un viaggio alla ricerca delle radici familiari a sarbooérd. in Ungheria. Lì ha trovato una vecchia sinagoga usata come negozio di mobili.
Tutto ha inizio nel 2012, quando Bernadett Alpern, fotografa di Budapest allora venticinquenne, in seguito alla scomparsa del nonno, decide d'intraprendere una ricerca genealogica della propria famiglia e le sue radici ebraiche. Così, una volta arrivata a Sàrbogàrd, città natale di suo nonno a metà strada tra Budapest ed il celebre lago Balaton, decide di visitare i luoghi principali legati alla giovinezza del parente appena scomparso, tra cui la sinagoga che frequentava insieme alla sua famiglia prima della Shoah. Tuttavia, una volta giunta difronte all'edificio che una volta ospitava la piccola comunità ebraica cittadina, che fino al 1944 contava circa 500 persone, scoprì che questo ospitava un negozio di mobili usati. Infatti, in seguito allo sterminio dell'ebraismo ungherese per mano dei nazisti e dei suoi alleati magiari, solo 34 ebrei tornarono nella loro città natale, dove tentarono, invano, di ricostruire la propria vita, Così, nel 1960 la sinagoga venne venduta, e da allora adoperata per altri scopi, Nel 2012, quando Bernadett visitò gli interni dell'edificio, vi si potevano ancora trovare, nascosti in soffitta, degli antichi libri di preghiera, mentre nel negozio poco o nulla richiamava il suo antico uso religioso. Nel 2013, appena un anno dopo il viaggio a Sàrbogàrd, quello che nacque come una semplice ricerca famigliare, grazie ad un finanziamento dell'Associazione Europea per la Cultura Ebraica, diventa un progetto fotografico vero e proprio.
   Così, Bernadett ha potuto iniziare un viaggio nella memoria perduta dell'ebraismo est-europeo, e non solo. Nell'arco di due anni ha visitato 46 città in 15 paesi europei diversi, fotografando 57 ex-sinagoghe, oggi utilizzate per gli scopi più disparati. "Used Stones", pietre consumate, è il nome che l'autrice ha voluto dare al proprio progetto fotografico, che ha come obiettivo quello di immortalare gli interni ed esterni di edifici che un tempo servivano alle comunità ebraiche, e che oggi hanno un uso totalmente differente. Nei suoi viaggi ha fotografato ristoranti, musei, accademie di musica, stazioni di polizia, negozi, università e, addirittura, una chiesa ed una moschea, un tempo utilizzate dalle comunità ebraiche come luoghi di preghiera. Ad esempio, ad Osijek, nella Croazia occidentale, l'antica sinagoga è oggi utilizzata come chiesa evangelica, mentre l'ex tempio di Poznan, in Polonia, convertito nel dopoguerra in piscina pubblica, oggi versa in uno stato di abbandono totale. In Repubblica Ceca, due ex-sinagoghe ospitano invece una stazione di polizia ed una scuola elementare, mentre a Budapest all'interno di un antico tempio ha sede il club sportivo Honvéd.
   Ma, come menzionato, il progetto non si ferma alla sola Europa Orientale. A Londra, per esempio, ha potuto fotografare la vecchia sinagoga del quartiere Brick Lane, utilizzata ora dalla locale comunità islamica come moschea, mentre a Parigi una vecchia sinagoga è sede di un locale notturno, ed un'altra ospita una libreria. Locali rinnovati, "riciclati", che oggi servono a tutt'altro. In alcuni casi i luoghi visitati da Bernadett mantengono un lontano e vago ricordo del loro uso precedente, mentre in altri solo lo studio e la preparazione dell'autrice possono confermare il loro antico utilizzo.


Dopo una serie di mostre e pubblicazioni su riviste e giornali, tra cui l'israeliano Israel Hayom, nel 2015 Bernadett ha deciso di interrompere momentaneamente il suo progetto. I motivi principali dietro questa decisione risiedono nella mancanza dei fondi necessari, e per il suo trasferimento in Israele, dove attualmente risiede. Tuttavia, l'obiettivo e la speranza è quello di portare a termine il lavoro iniziato nel 2012, visitando i paesi mancanti, e scoprendo nuove storie di un mondo che non esiste più. In memoria di suo nonno e degli ebrei di Sarbogàrd.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2018)



Ridateci in fretta le pietre

di Plerlulgl Battista

Sono passate più di quarantotto ore e ancora le «pietre dell'inciampo» che ricordano le vittime romane della Shoah non sono state restituite. Chi le ha trafugate ha tra le mani uno scrigno prezioso dove è custodita una memoria comune che non può essere dispersa.
   Gli investigatori devono sapere che abbiamo molta fretta. Che vorremmo che si impegnassero allo spasimo per ridare alla città, agli ebrei romani, a tutti quelli che non vogliono cancellare il ricordo dello sterminio nazista, quelle pietre tanto indispensabili.
Deplorare, lo abbiamo fatto. Protestare, lo abbiamo fatto. Stringersi attorno ai parenti delle vittime, anche. Ora abbiamo fretta, molta fretta, rivogliamo in fretta quelle pietre. Vogliamo di nuovo inciampare in una memoria terribile.
   Non vogliamo che una città che ha conosciuto lo scempio del 16 ottobre del 1943, la deportazione degli ebrei del Ghetto, la partenza dei treni destinazione Auschwitz, una città capitale d'Italia sia privata di quei simboli imprescindibili. Vogliamo che la polizia arrivi presto ai ladri, che punisca chi ha trafugato quelle pietre, che venga consegnata la refurtiva alla città. Presto.
   Non è che come al solito i mugugni, le fiaccolate, i comunicati di sdegno e poi basta. Abbiamo fretta, Roma rivuole le pietre dell'inciampo. Subito.
   Lo sappiano gli inquirenti: subito, o altrimenti una vergogna si aggiungerà alla vergogna di uno scempio.

(Corriere della Sera, 13 dicembre 2018)


Evitato lo scontro con Hamas e le elezioni anticipate, Bibi riuscirà a fare la storia?

di Emanuele Mainetti

In 3 sorsi - I recenti scontri tra Israele e Hamas lasciavano presagire un'azione massiccia delle forze israeliane contro Gaza. Il premier Netanyahu è riuscito, nel giro di pochi giorni, a raggiungere un accordo per il cessate il fuoco con Hamas e a evitare le elezioni anticipate.

1. Nuovi scontri tra Hamas e Israele
    Domenica 11 novembre, nella località di Khan Yunis, a Gaza, un'unità delle forze speciali dell'esercito israeliano (IDF) è stata intercettata da un gruppo armato i cui membri appartenevano ad Hamas e al Movimento per il Jihad Islamico in Palestina. Gli scontri avvenuti a sud della Striscia di Gaza hanno causato la morte di 7 miliziani palestinesi e di un ufficiale dell'IDF. Tra le vittime del blitz condotto dalle forze speciali israeliane c'era Nour Baraka, numero due delle Brigate Izz ed-Din al-Qassam, il braccio armato di Hamas. Secondo le stime del Governo israeliano, il giorno seguente il sistema di difesa noto come Iron Dome (Cupola di Ferro) ha intercettato più di 300 missili o razzi provenienti da Gaza. Malgrado l'efficienza del sistema antimissile israeliano, due razzi sono riusciti a colpire un palazzo e un pullman nel Sud del Paese, con l'uccisione di un civile. Israele ha risposto con una serie di raid aerei che hanno causato la morte di 5 palestinesi e distrutto la sede della stazione televisiva di Hamas. Il livello di tensione raggiunto nell'arco di due giorni, nonché il cospicuo numero di vittime, sembrava destinato a degenerare, e gli occhi del mondo erano puntati su Gaza, temendo che si potesse assistere all'ennesima carneficina, soprattutto considerando che nel 2014, durante l'operazione israeliana "Margine di protezione" si erano registrate oltre 2mila vittime civili palestinesi.

2. Netanyahu: il cessate il fuoco e lo spettro delle elezioni anticipate
    Il primo ministro Benjamin "Bibi" Netanyahu, a causa della gravità degli eventi, ha così deciso di interrompere la permanenza a Parigi in vista del Forum per la pace e di fare ritorno in Israele appena due giorni dopo essere atterrato nella capitale francese. Malgrado le pressioni subite da parte di alcuni membri del suo Governo, primo fra tutti il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, al fine di adottare una strategia più aggressiva nei confronti di Hamas, Netanyahu ha deciso di rispettare i termini del cessate il fuoco raggiunto grazie alla mediazione egiziana, che ha evitato una possibile escalation. In polemica con la tregua tra Israele e Hamas, però, il 14 novembre Lieberman ha annunciato le proprie dimissioni, dichiarando che il cessate il fuoco era una capitolazione al terrorismo e aggiungendo che il partito Israel Beitenu avrebbe smesso di sostenere l'esecutivo di Netanyahu. La decisione di Lieberman, il cui gruppo occupa cinque seggi nella Knesset, ha ulteriormente indebolito la coalizione del premier Netanyahu, che ora ha una maggioranza di un solo seggio (61 su 120). Dopo le dimissioni Lieberman aveva chiesto di procedere con le elezioni anticipate e lo stesso concetto era stato reiterato dal partito Habayit Hayehudi del ministro dell'Educazione Naftali Bennett, il quale aveva promesso di privare del sostegno Netanyahu e la sua coalizione di Governo se non gli fosse stato assegnato il dicastero della Difesa.

3. Niente elezioni anticipate, ma a novembre 2019 Netanyahu proverà a entrare nella storia
    Dopo che Bibi aveva deciso di non accettare la proposta di Bennett, facendosi lui stesso carico del ministero della Difesa, le elezioni anticipate sembravano alle porte. Il premier israeliano aveva fatto appello al buon senso degli alleati, dichiarando che non sarebbe stato opportuno far cadere il Governo in un momento caratterizzato da così tante tensioni a livello regionale contro la sicurezza di Israele, lasciando molti esperti a speculare circa eventuali nuove azioni da parte del Governo nei confronti di Hamas ed Hezbollah. Per l'ennesima volta, tuttavia, Netanyahu si è dimostrato un politico estremamente abile ed è così riuscito a convincere Naftali Bennett a ritornare sui suoi passi, a sostenere il Governo e a rispettare la data prestabilita per le elezioni. Netanyahu, probabilmente, avrebbe potuto anche accettare delle elezioni anticipate, soprattutto perché, fatta eccezione per Bennett, la scena politica israeliana, e men che meno la sinistra, non è in grado di offrire un'alternativa valida. Inoltre il premier, con una vittoria conseguita tramite elezioni anticipate, avrebbe potuto schivare o quanto meno minimizzare le accuse per corruzione rivoltegli di recente. Ora però, se Netanyahu vorrà entrare nella storia di Israele come il Primo Ministro più "longevo" di sempre, dovrà aspettare fino a novembre 2019, ma senza un ministro della Difesa su cui scaricare le colpe per eventuali minacce alla sicurezza del Paese e con lo spettro di un'accusa per frode, la strada verso il successo potrebbe dimostrarsi inaspettatamente tortuosa.

(Il Caffè Geopolitico, 13 dicembre 2018)


L'esercito israeliano scopre un terzo tunnel scavato sotto al confine con il Libano

Prosegue l'operazione "Scudo del Nord" per impedire infiltrazioni in territorio israeliano

200 metri
la lunghezza media dei tre tunnel scoperti al confine con il Libano
25 metri
la profondità in metri degli scavi di Hezbollah per entrare in Israele

di Giordano Stabile

Israele scopre un terzo tunnel al confine con il Libano e l'operazione Scudo del Nord entra nella sua «fase esplosiva», mentre anche l'Unifil ammette che il «caso è serio» e gli Stati Uniti chiamano il presidente Michel Aoun per disinnescare la crisi. A una settimana dall'annuncio dell'offensiva per eliminare le gallerie di attacco di Hezbollah genieri continuano a esplorale la zona di frontiera con l'aiuto di una tecnologia basata su onde microsismiche sviluppata dai centri di ricerca militari. E così che ieri hanno individuato un nuovo tunnel, «non ancora operativo e che non pone una immediata minaccia». Le ricerche richiederanno ancora tempo ma nei prossimi giorni dovrà cominciare l'opera di demolizione, la più delicata perché va a impattare nel territorio libanese.
   Nei giorni scorsi l'esercito israeliano ha avvertito con sms gli abitanti del villaggio di Kafr Kila, dove c'è l'ingresso della prima gallerie, che le loro case potrebbero essere danneggiate dalle esplosioni. L'annuncio ha fatto salire la tensione e sabato si è sfiorato l'incidente quando i militari dello Stato ebraico sono stati tratti in inganno dagli spari in aria durante una festa di matrimonio e hanno tirato a loro volta colpi di avvertimento. Il problema principale è però il secondo tunnel, a Ovest di Kafr Kila, perché si trova in una zona dove non c'è la barriera al confine e l'esercito israeliano e quello libanese si trovano faccia a faccia. Per questo l'analista militare Hamos Arel parla di «fase esplosiva» in arrivo e una delegazione delle Forze armate, guidata dal generale Aharon Haliva, è andata ieri Mosca per discutere con i colleghi russi.
   Israele vuole che Mosca faccia pressione su Beirut e Damasco per evitare incidenti e dietro le quinte si muovono anche gli Stati Uniti. Lo ha rivelato ieri il presidente libanese Aoun. Washington lo ha chiamato per tranquillizzarlo e spiegare che «Israele non ha intenzioni ostili». Il leader dei Paesi dei Cedri, alla prese con una crisi di governo che dura da sei mesi, ha ribadito che «neanche il Libano ha intenzioni ostili» e prende le questione «sul serio». Le dichiarazioni sono arrivate dopo un incontro con il comandante della missione Unifil, generale Stefano Del Col, al palazzo presidenziale di Baabda, sulle colline di Beirut. Le autorità libanesi, ha precisato, «risponderanno quando le indagini dell'Onu saranno concluse».
   Il Libano, in piena crisi finanziaria, ha bisogno di tutto tranne di una guerra. Aoun ha insistito che Beirut «rispetta la risoluzione dell'Onu 1701 » che invece «Israele continua a violare». Ma non ha alzato i toni né nei confronti di Israele né nei confronti di Hezbollah. Il Partito di Dio è un alleato essenziale nel suo tentativo di rafforzare le strutture dello Stato, a partire dalle Forze armate, senza far saltare i precari equilibri settati. Sulla stessa linea sembra anche il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, che ha tenuto finora un profilo basso, ha limitato la presenza dei miliziani al confine per non imbarazzare l'Unifil né il governo, e ha lasciato il campo libero all'esercito libanese.
   L'operazione Scudo del Nord sembra averlo colto di sorpresa e questo aspetto è stato sottolineato ieri dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Hezbollah «pagherà un prezzo inimmaginabile», ha avvertito, se reagirà all'azione dei militari: «Sapevamo che stavano scavando i tunnel e abbiamo pianificato la nostra operazione - ha spiegato-. Tutto procede secondo i piani ma la cosa più importante è essere pronti a una forte reazione se Hezbollah dovesse commettere l'errore di colpirci».

(La Stampa, 12 dicembre 2018)


Anche al confine libanese, la guerra è prosecuzione della politica con altri mezzi

Ugo Volli

La crisi alla frontiera fra Israele e Libano è appena iniziata. Mentre scrivo, l'esercito israeliano ha scavato e reso inutilizzabili tre tunnel d'assalto che dal territorio libanese conducevano in Israele (ma probabilmente ce ne sono parecchi altri sui 130 chilometri del confine). C'è stato uno scambio a fuoco con un gruppetto di Hizbollah che il governo di Beirut significativamente ha definito "una pattuglia dell'esercito libanese", una dichiarazione che dice molto su come il gruppo terrorista si è fatto Stato e può dunque anche usufruire degli approvvigionamenti militari americani e francesi.
  Netanyahu ha personalmente informato il segretario di stato americano Pompeo degli sviluppi prima di iniziare lo smantellamento dei tunnel e l'ha fatto per telefono subito dopo con Putin. Inoltre ha guidato un gruppo di ambasciatori a vedere con i propri occhi la minaccia.
  La stessa dimostrazione è stata fatta fra capi militari col comandante della forza Uno in Libano Unifil, l'italiano generale Stefano Del Col, che non ha potuto che confermare l'esistenza dei tunnel, aggiungendo che avrebbe "parlato con le autorità competenti". Peccato che il compito dell'Unifil non sia affatto quello di comunicare con i politici libanesi, ma di "adottare tutte le misure necessarie in aree di schieramento delle sue forze e, nella misura delle sue capacità, di assicurare che la sua area di operazioni non sia utilizzata per attività ostili di alcun tipo" (così dice la risoluzione 2373 del Consiglio di sicurezza, adottata nell'agosto 2017). Difficile non considerare attività ostile lo scavo di un tunnel militare, capace di far passare truppe su carro e anche artiglieria oltre la frontiera. Difficile anche che Unifil non se ne fosse accorto, visto che un tunnel partiva proprio accanto a una sua postazione. Ma non ha fatto nulla. Un'altra dimostrazione dell'assoluta inutilità dei corpi di interposizione dell'Onu.
  E però Israele ha fatto vedere i tunnel a tutti, che volessero o no sentire, come ha fatto vedere a tutti i documenti sull'armamento atomico iraniano. Come ha fatto circolare le immagini delle aggressioni di Hamas a Gaza. Senza agire precipitosamente, ma mostrando il livello di intelligence raggiunto e ponendo le basi per le azioni che deciderà di intraprendere quando lo riterrà opportuno. Molti strateghi da salotto in Italia e in Israele, e molti oppositori di Netanyahu in Israele a destra e a sinistra gli hanno rimproverato, addirittura come "vigliaccheria" la freddezza prudente con cui si è mosso in questi mesi. Ma in realtà si tratta di visione strategica, di fare le mosse una alla volta con calcolo preciso. Il problema è quello di affrontare una minaccia prossima su tre lati (Hamas, Autorità Palestinese, Hezbollah) evitando che i fronti si uniscano e tenendo che essi hanno una retroguardia reale e attiva (l'Iran, entro certi limiti la Russia, la Turchia, il Qatar) e un secondo retroterra potenziale, i paesi sunniti che hanno bisogno di Israele per opporsi al pericolo iraniano e stanno stringendo con esso alleanze operative, ma potrebbero essere costretti dalla pressione religiosa in caso di conflitto sui confini dello stato ebraico a schierarsi con gli attaccanti; e infine un terzo retroterra ostile, quello della dirigenza antisemita dell'Unione Europea.
  In questo contesto, Netanyahu usa la superiorità tecnologica israeliana per distruggere le minacce immediate, i razzi e i tunnel di Hamas come quelli di Hezbollah, ma pone anche le premesse per poter tenere una condotta più attiva senza doverne pagare i prezzi politici e in parte quelli militari.
  Pochi fuori dal Medio Oriente hanno notato l'ultimatum che Netanyahu ha dato al Libano: eliminare i missili di Hezbollah se non vuole che venga l'esercito israeliano a occuparsene. Questo è il discorso che deve aver fatto anche a Putin, mentre agli arabi e all'America deve aver detto che Israele è il solo argine all'egemonia iraniana sull'intero Medio Oriente. Il tema è quello di costruire uno schieramento per poter effettivamente combattere la guerra vera con l'Iran, in maniera politicamente vincente. Il pericolo militare è molto grave, ma può essere eliminato efficacemente solo con una logica più sofisticata di quella di coloro che invocano la "deterrenza" (cioè in soldoni, il far paura ai nemici) come unica soluzione.
  Si tratta di far capire ai nemici che le loro forze sono nel mirino, che le loro strategie sono note e vi sono le contromosse, ma soprattutto di ottenere un appoggio più vasto di loro. L'incrocio disegnato da Netanyahu di alta tecnologia, tattica militare, intelligence, diplomazia degli annunci pubblici, serve proprio a questo. Perché, come insegnava Clausewitz, la guerra, per servire a qualche cosa e per compensare i suoi terribili costi umani, dev'essere "continuazione della politica con altri mezzi", non semplice reazione automatica alla minaccia. L'operazione al confine libanese è appena iniziata. Senza dubbio nei prossimi giorni e settimane avremo nuove sorprese.

(Progetto Dreyfus, 12 dicembre 2018)


«Gli hezbollah? Terroristi». E' un caso la frase di Salvini

A Gerusalemme attacca giustamente gli estremisti. Ma la Difesa protesta: mette a rischio i nostri soldati.

di Domenico Di Sanzo

Tra una diretta Facebook e un piatto di bucatini al ragù, Matteo Salvini sembra uno e trino. E non perde occasione per far storcere il naso agli alleati di governo del MSs, infastiditi dagli sconfinamenti del Capitano. Gli ultimi giorni sono stati pieni di «invasioni di campo» da parte del ministro «tuttofare»: Salvini sabato, dalla manifestazione di Piazza del Popolo, ha chiesto il mandato per trattare con l'Europa sulla manovra «a nome di 60 milioni di italiani», domenica e lunedì ha incontrato gli imprenditori, ieri è atterrato in Israele. La parte settentrionale del paese, al confine con il Libano, e la capitale Gerusalemme sono stati i luoghi visitati ieri dal ministro dell'Interno. E la giornata si è conclusa con un botta e risposta tra il leader della Lega e la parte grillina del governo gialloverde, ministero della Difesa e Luigi Di Maio in testa.
   In mattinata l'arrivo a Tel Aviv, battezzato con un tweet: «In elicottero, pronto a sorvolare Israele - ha scritto Salvini - e a visitare i tunnel costruiti dagli estremisti islamici nella zona Nord del Paese». Il vicepremier leghista ha poi detto, vestendo i panni di ministro degli Esteri e premier: «Chi vuole la pace, sostiene il diritto all'esistenza ed alla sicurezza di Israele. Sono appena stato ai confini nord col Libano, dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione». E ha aggiunto: «Il nascente antisemitismo fa rima con estremismo islamico».
   Subito sono arrivate le reazioni del comando Unifil e della Difesa. «Tali dichiarazioni - scrivono i militari italiani - mettono in evidente difficoltà i nostri uomini impegnati proprio a Sud nella missione Unifil. Questo perché il nostro ruolo super partes, vicini a Israele e al popolo libanese, è sempre stato riconosciuto nell'area». Frasi alle quali Salvini ha replicato: «Non capisco lo stupore, che ho letto su un'agenzia, per la definizione di Hezbollah come terroristi islamici - aggiungendo - se si scavano tunnel sotterranei a decine di metri che sconfinano nel territorio israeliano, non penso lo si faccia per andare a fare la spesa». Nell'ennesima crisi più o meno a bassa intensità interna alla maggioranza è arrivato anche il «soccorso giallo» a Unifil e alla ministra della Difesa Elisabetta Trenta da parte di Luigi Di Maio. «La missione Unifil è una delle missioni di pace più importanti nel mondo - ha sottolineato Di Maio - abbiamo sempre citato quella missione come vero modello super partes. Quello che c'è da dire sulla vicenda lo ha detto il ministero della Difesa, io mando un abbraccio ai militari che sono lì e gli dico di tenere duro e andare avanti», ha concluso il vicepremier pentastellato. Uno scontro tra due visioni molto diverse di politica estera sul ruolo dell'Italia nel complicato scacchiere del Medio Oriente.
   Con il capo del Carroccio che ha anche stigmatizzato il comportamento di Ue e Onu colpevoli di «sanzionare Israele ogni quarto d'ora». Ma nel MSs ci sono molti esponenti con posizioni storicamente controverse sulla crisi israelo-palestinese. Soprattutto Alessandro Di Battista e il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, protagonista di un battibecco con Salvini a maggio scorso sul trasferimento dell'ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme.

(il Giornale, 12 dicembre 2018)


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La visita di Salvini in Israele: "gli hezbollah sono terroristi"

Tensione con la ministra Trenta per le dichiarazioni del vicepremier

di Amedeo La Mattina

GERUSALEMME - L'accoglienza che Benjamin Netanyahu gli ha riservato ha tante implicazioni e significati, non solo simbolici. Appena atterrato con l'aereo di Stato a Tel Aviv, Matteo Salvini è stato prelevato dall'esercito israeliano, imbarcato su un elicottero militare e portato al nord, al confine con il Libano. Destinazione quell'area strategica dove gli Hezbollah hanno scavato tunnel sotto il territorio israeliano per portare a termine le loro azioni. «Azioni terroristiche perché di terroristi stiamo parlando». Non usa mezzi termini dopo aver visitato, in mezzo al fango con un cappellino blu dell'aeronautica militare italiana, quei passaggi sotterranei. Facendo saltare sulla sedia il ministro della Difesa 5 Stelle, Elisabetta Trenta, «preoccupata e imbarazzata» per la reazione che potrebbero avere gli Hezbollah definiti terroristi contro i nostri militari. Gli stessi timori del comando italiano Unifil impegnato in Libano. Dalla Difesa si fa sapere che le dichiarazioni di Salvini «mettono in evidente difficoltà i nostri uomini impegnati proprio lungo la blu line. Questo perché il nostro ruolo super partes, vicini a Israele e al popolo libanese, è sempre stato riconosciuto nell'area». Anche Luigi Di Maio interviene. «Quello che doveva dire lo ha detto il ministro della Difesa. Io mando un abbraccio ai militari che sono lì e dico loro di tenere duro e andare avanti».
   Uno scontro tra alleati su una questione nevralgica. Ma Salvini dice di essere stupito di questa reazione. Rincara la dose ricordando che diversi organismi della comunità internazionale definiscono allo stesso modo gli Hezbollah. «A casa mia i terroristi si chiamano terroristi. Se scavano decine di tunnel che sconfinano nel territorio israeliano, non credo che lo facciano per andare a fare la spesa», ironizza il leader del Carroccio. «Chi vuole la pace - afferma Salvini - deve sostenere il diritto all'esistenza ed alla sicurezza di Israele, baluardo della democrazia in questa regione». Poi manda un messaggio che ne nasconde un altro: va bene l'idea dei due Stati, ma l'Ue secondo il leghista è sempre poco equilibrata nei confronti di Israele, sanzionandolo «ogni quarto d'ora». Per combattere il terrorismo islamico e riportare la pace, per rinsaldare la collaborazione e amicizia fra popolo italiano e popolo israeliano, Salvini dice di essere in prima fila. «Aspettiamo che anche Onu ed Unione Europea facciano la loro parte».
   Salvini non dimentica mai la partita europea e la posizione della Commissione Ue che continua a sostenere gli accordi siglati sul nucleare dagli Usa con l'Iran, il nemico giurato dello Stato ebraico. Ma che Trump ha cestinato. L'Europa che verrà dopo le elezioni europee di maggio sarà la stessa? Netanyahu scommette molto su Salvini, che incontrerà oggi al King David di Gerusalemme, sul successo della Lega sovranista, insieme a coloro che potranno ribaltare la politica estera europea, sostituire il commissario Federica Mogherini con un amico di Israele. E questo Salvini vorrebbe farlo insieme ad altri nazionalpopulisti e pezzi importanti del Ppe, a cominciare dal premier ungherese Orban che da queste parti riceve le stesse attenzioni riservate a Salvini.
   Nell'incontro tra il leghista e Netanyahu il convitato di pietra sarà Putin al quale il vicepremier italiano guarda come modello di statista. Un'attenzione al leader russo che per motivi strategici si coltiva a Gerusalemme per tenere a bada gli amici di Teheran. Nelle logiche della ragion di Stato e geopolitiche tutto si tiene e Salvini in questo Great game sta giocando la sua mano in vista delle elezioni europee. Con un occhio a Washington e a quel Trump che ha fatto la sua scelta al fianco di Netanyahu, sostenendo lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Cosa ne pensa Salvini? «È vero che io nel 2016 ho detto che sono d'accordo di spostare l'ambasciata italiana a Gerusalemme - dice mentre lascia il King David - ma non è all'ordine del giorno. Io oggi faccio il ministro dell'Interno in un governo di coalizione.
   Questo è un problema che affronteremo in futuro. Per carità - aggiunge accendendosi una sigaretta - non fatemi aprire un altro fronte caldo. Ne ho già abbastanza». E tanto per far capire da che parte sta, ha chiuso la giornata pregando 5 minuti al Muro del Pianto con la kippah in testa. «Ho proprio bisogno di un momento di raccoglimento. Questo muro appartiene a tutti, ti dà forza e pace».

(La Stampa, 12 dicembre 2018)


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Salvini si schiera con Israele, i Cinquestelle con i terroristi

Il vicepremier in visita ai territori dello Stato ebraico minacciati da Hezbollah. Ma il ministero della Difesa ribadisce la neutralità del contingente di pace italiano.

di Andrea Morigi

Con un fuori programma, taciuto per motivi di sicurezza alla vigilia della visita in Israele, Matteo Salvini schiera senza esitazioni l'Italia contro l'antisemitismo e contro i terroristi islamici. La prima delle due giornate si apre con un'incursione del vicepremier italiano al confine con il Libano, «dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione».
  È un gesto di forte sostegno al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (che Salvini vedrà oggi), il quale nelle stesse ore avvertiva di essere pronto a dare «una risposta molto forte» a Hezbollah se il movimento armato sciita libanese opporrà resistenza all'operazione in corso al confine tra Israele e Libano. Durante una visita in una base dell'esercito nel Nord del Paese, il capo del governo israeliano ha detto che l'esercito è pronto a «dare una risposta molto forte se Hezbollah commette il grave errore e decide di farci del male o resistere al nostro intervento. Subirà colpi inimmaginabili».

 La missione Unifil
  Oltre il confine, in Libano, è di stanza a missione Unifil, a guida italiana. Sono loro ad aver avvertito Gerusalemme dei tentativi degli sciiti del "Partito di Dio" di penetrare in territorio ebraico. Però dal ministero della Difesa si lamentano per l'appellativo impiegato da Salvini. La ministro Elisabetta Trenta non interviene mica per denunciare l'utilizzo dei tunnel, però fa trapelare «preoccupazione e imbarazzo» per «gli uomini impegnati nella missione Unifil». Non avrebbero nulla da temere, se non avessero davanti dei terrorist». Tuttavia, il vicepremier Luigi Di Maio si schiera con la Difesa, indicando «quella missione di pace come vero modello di missione super partes».

 L'Ue squilibrata
  Salvini replica che «chi scava sottoterra per entrare in territorio israeliano non lo fa per andare a fare la spesa». Lui invece è arrivato lì a prendere posizione, non a fare la forza d'interposizione, ma «per combattere il terrorismo islamico e riportare pace e stabilità, per un rapporto sempre più stretto fra scuole, università e imprese, per cooperare in ricerca scientifica e sanitaria, per rinsaldare collaborazione e amicizia fra popolo italiano e popolo israeliano», in attesa «che anche Onu e Unione Europea facciano la loro parte».
  Finora, spiega in conferenza stampa, «l'Unione Europea è stata sbilanciata e poco equilibrata, condannando Israele ogni quarto d'ora». Tanto da indurlo perfino a dubitare «che gli aiuti diretti alla popolazione palestinese siano effettivamente arrivati a destinazione». Cioè che in realtà siano finiti nelle tasche dei dirigenti dell' Anp o di Hamas e forse anche ai jihadisti antiisraeliani.
  Oggi, la visita di Salvini proseguirà con l'omaggio allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah. È la prima volta che l'esponente leghista vi si reca da vicepremier e ministro dell'Interno, ma è la quarta in totale. Oltre a Netanyahu, Salvini vedrà la ministro della Giustizia, Ayelet Shaked e quello del Turismo, Yarvin Levin.

(Libero, 12 dicembre 2018)


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Salvini accolto bene in Israele: isteria a sinistra

di Antonio Pannullo

Salvini arriva in Israele e i compagni miliardari schiattano di rabbia. "Un saluto da Tel Aviv, amici. In elicottero, pronto a sorvolare Israele e a visitare i tunnel costruiti dagli estremisti islamici nella zona Nord del Paese". È il tweet che accompagna la foto dall'elicottero del vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini, in visita in Israele. La visita del nostro vicepremier ha causato in Italia alcune, inspiegabili, polemiche, anche da parte della comunità ebraica italiana, l'unica d'Europa a essere da sempre schierata a sinistra. Polemiche che in realtà non hanno ragion d'essere, come spiega lo stesso vice premier: "Non è che ogni volta che vado in Israele devo dire che gli antisemiti sono dei delinquenti ... Vado in Israele, perché credo che sia una delle nazioni più grandi ed evolute democrazie del pianeta", ha detto infatti Salvini, ospite della stampa estera, alla vigilia della sua visita in Israele. "Che io poi - ha avvertito il ministro dell'Interno - non sia simpatico a Gad Lerner e chissenefrega ... ". Salvini si riferisce alle continue prese di posizione di Lerner e della comunità ebraica italiana contro i governi italiani che non siano di sinistra.
In realtà tutti sanno che il governo di Israele, e non da ora, è molto più vicino al governo italiano che alle opposizioni, e forse è proprio questo che dà fastidio alle sinistre. Comunque, "Matteo Salvini sarà ricevuto con amicizia e onore in Israele". Avi Pazner, ex ambasciatore di Israele in Italia, si esprime così. «Nei giorni scorsi, il quotidiano israeliano Haaretz, che è rimasto piuttosto indietro con le informazioni sull'Italia e che è concentrato ad attaccare il premier israeliano Netanyahu piuttosto che dare le notizie correttamente, in un editoriale ha affermato che 'Salvini dovrebbe essere persona non gradita in Israele'. Ieri, lo stesso giornale ha diffuso la notizia secondo cui il presidente dello Stato d'Israele, Reuven Rivlin, non incontrerà il ministro dell'Interno italiano. lo - dice Pazner - credo che il ministro Salvini sarà ricevuto con amicizia e onore in Israele. Lui è il ministro dell'Interno italiano, è capo di un movimento legittimo in Italia, incontrerà tutti i leader della politica israeliana, incluso il primo ministro Benjamin Netanyahu». «Per ragioni tecniche, Salvini non incontrerà il presidente dello stato d'Israele, Rivlin» - osserva Pazner - evidenziando che «tutti i poteri esecutivi in Israele sono nelle mani del primo ministro e del governo. E Salvini sarà ricevuto dal primo ministro. In Israele, oltre a incontrare il primo ministro Netanyahu, Salvini visiterà lo Yad Vashem - il memoriale dell'Olocausto - e farà tappa alla sinagoga italiana di Gerusalemme». E il Viminale precisa: "Si prende atto della dichiarazione del portavoce del presidente israeliano, secondo il quale Reuven Rivlin non potrà incontrare il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini solo per motivi di agenda. Proprio per questo, il colloquio tra i due non era mai stato previsto". Il presunto sgarbo del presidente Rivlin al vicepremier e ministro dell'Interno Salvini è frutto di una fantasiosa ricostruzione di un quotidiano israeliano di sinistra". Lo sottolineano fonti del Viminale a proposito della visita del ministro dell'Interno e vicepremier, prevista oggi e domani in Israele.

(Secolo d'Italia, 12 dicembre 2018)


Salvini dice cose troppo favorevoli a Israele, troppo vere e quindi troppo pericolose, perché da una posizione troppo debole. Chissà fino a quando lo lasceranno parlare. M.C.


Pietre d'inciampo, prima svolta. «Dieci in strada la notte del furto»

di Rinaldo Frignani

Dieci persone che si muovono a piedi. Con il volto coperto, più per proteggersi dal freddo che per nasconderlo. Sono passate fra l'una e le cinque della notte fra domenica e lunedì scorsi in via Madonna dei Monti, nel tratto di strada in cui sono state rubate le pietre d'inciampo. Non sono tante, tenendo presente che si tratta di una zona di movida, ma sapere chi sono non sarà certo facile. Alcune di loro potrebbero essere residenti. È quanto emerge dai primi video esaminati dai carabinieri della compagnia Roma Centro: non si esclude che fra i soggetti in questione possano esserci coloro che hanno staccato i sampietrini dedicati a venti vittime della Shoah. Ieri da Gerusalemme il ministro dell'Interno Matteo Salvini ha assicurato: «Farò di tutto perché vengano presi e puniti in maniera esemplare».
   Le indagini non si annunciano brevi. Sia per il fatto che i dieci non sarebbero riconoscibili - se non dall'abbigliamento -, sia perché le telecamere hanno ripreso solo un lato della strada, mentre i ladri potrebbero essere passati su quello opposto ed essersi allontanati in una qualsiasi delle quattro vie che partono dall'incrocio vicino al luogo del furto. Ma è comunque un punto di partenza importante. Nelle stesse ore i carabinieri hanno sentito numerose persone: fra loro ci sono anche automobilisti e scooteristi, rintracciati dall'esame delle targhe, che sono transitati in zona proprio in quel lasso di tempo. Gli investigatori hanno allargato il raggio delle indagini a mezzo chilometro da via Madonna dei Monti per acquisire altri filmati registrati dagli impianti degli esercizi commerciali. Purtroppo per ora mancano fotogrammi del punto in cui si trovavano le pietre. «Siamo sempre più certi che si tratti di un atto premeditato - spiega un investigatore -. Chi le ha rubate si è organizzato non solo per fare in fretta per non essere notato, ma anche senza fare rumore. I condomini dei palazzi vicini confermano di non aver sentito alcun rumore».
   Fra le ipotesi c'è quella di pali o vedette appostati in strada per avvertire chi materialmente stava staccando i sampietrini dell'eventuale arrivo di qualcuno. Più complicato pensare a veicoli d'appoggio, almeno su quella strada, «anche perché - viene sottolineato - per portare via le pietre sarebbe bastata una busta di plastica». Che comunque nessuna delle persone finite sotto l'obiettivo delle telecamere sembra tenere in mano. Insomma un rebus che a questo punto potrebbe essere risolto anche con il ricorso alla tecnologia. Accertamenti saranno ad esempio svolti sulle celle telefoniche per capire chi, sempre fra l'una e le cinque, si trovava, a parte i residenti, nella zona interessata dal furto. Ma anche in questo caso ci vorrà comunque del tempo.

(Corriere della Sera, 12 dicembre 2018)


Il capo della Lega in Israele da Netanyahu per cementare l'asse con Trump e Putin

Gelo 5stelle: nel luglio 2016 una delegazione con Di Maio aveva provato a entrare a Gaza.

di Mario Ajello

 
GERUSALEMME - «Sconfina, sconfina sempre, in ambiti che non sono i suoi. Ora, dopo aver fatto la domenica il ministro del Lavoro nell'incontro con gli imprenditori, s'improvvisa ministro degli Esteri.;.». Questo il mood, ai piani alti dei 5 stelle, di fronte al viaggio di Matteo Salvini in Israele. Arriva stamane il leader del Carroccio. Vede il premier Bibi Netanyahu, e sarà un incontro lungo e non solo una foto opportunity; e incontra anche il ministro dell'Interno e quello della Giustizia; e non è esclusa una visita al muro che divide lo Stato ebraico dai territori palestinesi.
   Il senso di questo viaggio in Terra Santa è proprio quello di mostrare a livello internazionale la nuova fase della Lega, virtualmente al 30%, primo partito italiano secondo i sondaggi, che non è certo una forza moderata - espressione bandita dalle parti del Carroccio - ma ha assunto un format e una fisionomia rassicurante e questo può valere anche nei rapporti di politica estera. Rassicurante ovvero un partito che tesse, e che non spacca, non un pierino inaffidabile, in Europa e nel resto del mondo, ma una compagine aderentissima agli interessi nazionali e pronta a farli interagire sullo scacchiere mondiale. Anche a costo di creare discrepanze, che già ci sono e sono evidenti, rispetto all'alleato di governo in Italia.

 Gerusalemme capitale
  Salvini è d'accordo con Donald Trump sulla decisione di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. Un punto su cui l'intesa con MSS non c'è, e perciò, non a caso, questo tema non è stato inserito nel Contratto di governo. Mesi fa, il sottosegretario agli Esteri del MSS, Manlio Di Stefano, ha polemizzato: «La sede della ambasciate italiane nel mondo è competenza della Farnesina. Gerusalemme è capitale dei due Stati, nessun dubbio a riguardo». Posizione filo-palestinese, che non è quella di Salvini. Il quale è già stato in Israele nel marzo 2016, e anche quella volta ha visitato - come farà di nuovo in queste ore il memoriale dell'Olocausto, lo Yad Vashem. Allora, facendosi fotografare davanti al muro anti-palestinesi in t-shirt verde padano, spiegò la sua posizione che è esattamente quella che mantiene tuttora: «È la politica della sinistra a innalzare muri e fili spinati. Io non li voglio, io sono per il dialogo. Ma in un quadro di regole e certezze. Se si abbattesse questo muro, per esempio, verrebbe giù tutto». E ancora: «La demografia è una scelta esatta. Gli arabi si moltiplicano. E alla fine, se non cambiamo verso, ci dovremo barricare».
   Adesso rieccolo in Terra Santa. Un po' lo stesso viaggio e le stesse tappe di Gianfranco Fini nel 2003, quando da vicepremier veniva in qualche modo sdoganato, ripulendosi dall'immagine del post-fascista. Anche Salvini è vicepremier, ma pur essendo considerato d'estrema destra all'estero, non viene dalla stessa storia. Con Netanyahu, la sintonia sarà completa.
   Mentre i 5Stelle nel luglio 2016 hanno cercato di entrare a Gaza, e per questo Di Maio protestò scatenando una quasi crisi diplomatica - «ci impediscono di entrare nella Striscia», dimenticando che nella Striscia non si può entrare - Salvini ha sempre polemizzato contro i «nazisti di Hamas», Il leader leghista rientra a pieno titolo in quel sionismo di destra che ha in Trump il suo campione mondiale. E questo viaggio - bersagliato da qualche critica della sinistra israeliana subito amplificata da quella italiana: secondo l'attore e intellettuale Moni Ovadia lui è un sionista alla maniera dei dittatori come Stalin e della peggiore destra razzista - gli serve per accreditarsi a livello internazionale come garante degli interessi israeliani, e come interlocutore politico e commerciale affidabile di quel Paese sempre a rischio nella polveriera mediorientale.
   Rientrano in questo discorso le elezioni europee di maggio. Netanyahu, che accoglie con molto favore Salvini a cui lo unisce il comune apprezzamento per le politiche di Putin e di Trump e l'idea che un nuovo ordine o disordine internazionale è finalmente possibile nell'epica dei sovranismi, festeggerà la futura composizione del parlamento europeo, con il probabile rafforzamento dei partiti populisti, che sono quelli oggi più schierati a favore della destra israeliana al governo.

(Il Messaggero, 11 dicembre 2018)


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«Da Roma vorrei qualche parola in più di verità su Israele»

Intervista a Davide Riccardo Romano, portavoce della sinagoga Beth Shlomo di Milano

di Osvaldo Migotto

Martedì 11 e mercoledì 23 dicembre il vicepremier italiano Matteo Salvini sarà a Gerusalemme per una visita ufficiale. Non tutti nella comunità ebraica vedono di buon occhio questo viaggio in Israele del leader della Lega, mentre in diversi Paesi europei si moltiplicano gli episodi di antisemitismo. Nella notte tra domenica e lunedì a Roma sono ad esempio state rubate 20 pietre d'inciampo dedicate alle vittime dell'Olocausto. Sulle preoccupazioni della comunità ebraica italiana abbiamo sentito il parere di Davide Riccardo Romano, portavoce della sinagoga Beth Shlomo di Milano, nonché ex assessore alla Cultura della Comunità ebraica del capoluogo lombardo.

Il vicepremier Salvini sarà per due giorni a Gerusalemme ma non incontrerà il presidente Rivlin. Ufficialmente per problemi di agenda, ma secondo Haaretz il presidente israeliano avrebbe detto che movimenti neo-fascisti non dovrebbero essere ben accetti in Israele. Lei cosa ne pensa?
  «Io sposo la tesi delle agende non combacianti perché Salvini ha mille difetti ma la Lega non è assimilabile a un partito neofascista. Non è un partito liberale né un partito tradizionale e fa parte di una destra radicale che però non tende ad abolire democrazia e libertà di stampa e non cerca di asservire la magistratura. Quindi la Lega non ha le caratteristiche tipiche dei partiti fascisti che tendono ad occupare tutte le istituzioni».

Recentemente un centinaio di ebrei italiani ha firmato una lettera aperta nella quale si chiede a Salvini di condannare, nel suo viaggio a Gerusalemme, l'antisemitismo ma anche il razzismo contro stranieri e migranti. Crede che lo farà?
  «Io me lo auguro. Credo che sia un atto doveroso, tanto più quando Salvini visiterà il Museo della Shoah e potrà vedere con i suoi occhi la gravità di quello che è successo durante la Seconda guerra mondiale e conoscere anche come le parole sbagliate possano portare ad azioni sbagliate. Penso che chiunque possa convenire che il razzismo e l'antisemitismo vadano condannati. Questo vale per Salvini e vale per chiunque vada in Israele a visitare il Museo della Shoah».

Purtroppo in Italia e in altri Paesi europei assistiamo a crescenti atti di antisemitismo, come abbiamo ad esempio visto domenica notte a Roma, quando venti pietre d'inciampo dedicate alle vittime dell'Olocausto sono state rubate. Il Governo italiano dovrebbe fare di più per contrastare questo preoccupante fenomeno?
  «Diciamo che l'operato delle forze di polizia e di sicurezza italiane è encomiabile, in quanto ci proteggono nei nostri eventi e in varie circostanze. Vorrei inoltre fare i complimenti anche ai servizi segreti che hanno evitato che in Italia ci fossero attentati come quelli che purtroppo ci sono stati in altri Paesi europei. Ma c'è una cosa che vorrei chiedere al Governo in carica: usare qualche parola in più di verità su Israele e sul Medio Oriente. Nel senso che l'antisemitismo moderno si traveste da odio nei confronti di Israele, ma poi gratta gratta viene sempre fuori l'odio nei confronti degli ebrei. L'ho visto anche a Milano quando ci sono manifestazioni per il 25 aprile o manifestazioni anti-Israele; poi alla fine si sente sempre la frase 'morte agli ebrei' o altre cose del genere. Pertanto la prevenzione dovrebbe riguardare anche questi aspetti. Bisogna lavorare di più sull'odio antiebraico e dare una maggiore attenzione all'islam italiano, perché i musulmani in maggioranza sono persone per bene, ci sono però alcune associazioni un po' troppo radicali che vanno monitorate e non troppo aiutate dallo Stato».

(Corriere del Ticino, 11 dicembre 2018)


Il paradosso (vincente) di Israele

Alta natalità, integrazione e forte sviluppo: il Paese che da 70 anni vive in una situazione di conflitto cresce e va in controtendenza. Il demografo Della Pergola: il progetto iniziale continua a funzionare.

La famiglia è un valore che qui si è corroso meno rispetto ad altre società occidentali L'immigrazione? Positiva per l'economia, ma a precise condizioni Antisemitismo (e antisionismo) in aumento, pesanti tensioni interne ed esterne, eppure gli indicatori dello Stato ebraico parlano in positivo

di Barbara Uglietti

Il conflitto con i vicini regionali, le spaccature interne, le difficoltà politiche, l'antisemitismo (spesso vestito di antisionismo). Eppure Israele cresce. E cresce in controtendenza rispetto agli altri Paesi sviluppati, riuscendo a combinare indicatori impensabili nell'Europa più avanzata, a cominciare da binomio (quasi) impossibile tra alta natalità e sviluppo.

- Professor Della Pergola, Israele è stabile al 16esimo posto nell'Indice di sviluppo umano compilato dall'Onu (ISU); l'Italia è al 26esimo. Israele ha il più alto tasso di fecondità tra i Paesi sviluppati: il 3 contro l' 1,3 dell'Italia ( e in tutta Europa il dato non sale sopra il 2). A cos'è dovuto?
  Aggiungerei anche un altro elemento: la forte partecipazione attiva della donna alla vita economica e politica del Paese. Gli indicatori, se comparati, fotografano sicuramente un paradosso tutto israeliano. Un paradosso di successo. Ma c'è una precisa linea logica che sottende a tutto questo, e che parte da lontano. È il grande progetto da cui è nato questo Stato: un progetto di riscatto umano da una condizione storica che ben conosciamo. Questa tensione ideologica, inquadrata in una programmazione molto razionale, ha dato luogo a uno sviluppo eccezionale.

- Le premesse demografiche, economiche e ideologiche di Israele nel 1948 non erano certo incoraggianti. Come sono state superate?
  Far convergere milioni di persone che, sì, avevano in comune un nucleo di valori, al centro dei quali i testi sacri, ma anche enormi differenze culturali, è stato uno sforzo immane. Questo è l'aspetto più interessante della cultura di Israele. La spiegazione più immediata sta nell'abitudine alla convivenza che la società israeliana ha dovuto acquisire in fretta.

- E la natalità?
  Il dato demografico rientra totalmente nel progetto iniziale, perché è il prodotto di un sistema valoriale che considera la famiglia nucleare tradizionale come l'elemento portante della società. La famiglia è un valore che qui si è corroso un po' meno rispetto ad altre società occidentali in cui vediamo gravi fenomeni di invecchiamento e impoverimento demografico.

- Tutto questo sull'onda di quella spinta progettuale iniziale?
  Sì: è ancora molto forte la vitalità di quell'idea originale. Se guardiamo le ultime indagini sociali su Israele, la cosa più sorprendente è l'ottimismo delle persone, la dichiarata soddisfazione nei confronti della vita, la speranza nel futuro. È difficile da spiegare razionalmente, ma è qualcosa che riflette perfettamente il fatto di credere nei valori fondamentali storici e religiosi.

- Progetto, convivenza, famiglia, ottimismo: parole decisamente fuori moda in Italia e in Europa.
  Purtroppo rilevo in molti Paesi occidentali, e l'Italia è quello che mi è più vicino, una grande apatia, una sostanziale mancanza di volontà di fare e di capire quello che si vuole fare. È una forte crisi identitaria. In Israele questo non c'è. Semmai il contrario.

- Però dentro la società israeliana le tensioni sono forti. E se una volta gli israeliani si differenziavano soprattutto tra "religiosi" e "non religiosi", adesso la spaccatura sembra essere più politica: "destra", "sinistra".
  Va chiarita una cosa: l'asse identitario religioso è sempre fondamentale, anche per chi religioso non è. Detto questo, la società israeliana è un mosaico composto di posizioni, spesso anche agli estremi: dagli Haredim (ultraortodossi) ai secolari. Ora, che succede con la politica? Succede che nella democrazia israeliana l' elemento religioso diventa un elemento di partito, e poi si consolidano alleanze in cui l'interesse di partito, che è sempre un interesse laico, materialista, si sovrappone a richieste di tipo culturale o spirituale. Questo finisce per condizionare la vita del Paese.

- Per esempio, nei mesi scorsi si è sfiorata una crisi di governo sul problema della leva per gli ortodossi. E si sono registrate polemiche sul tema dello spazio di preghiere per le donne al Muro Occidentale, negato dalle correnti dell'ebraismo più ortodosso.
  Per l'appunto. La legge elettorale crea una grande frammentazione. In un tale Parlamento si devono creare delle coalizioni, e in queste coalizioni anche il partito più piccolo ha il potere di ricattare il partito più grande, di imporgli concessioni su temi specifici. È una situazione che considero malsana, e sarebbe auspicabile una riforma elettorale in senso meno proporzionale.

- Ci sono state molte polemiche anche sulla questione di 50mila immigrati, soprattutto africani, entrati illegalmente in Israele. Il Paese ha bisogno di queste persone o no?
  Ritengo che l'immigrazione sia un fatto positivo per l'economia di un Paese. Ma a determinate condizioni: il limite è quello dell'integrazione culturale degli immigrati. Va considerata anche la loro volontà di partecipare a questa società, adottando determinate norme di lingua, cultura e comportamento.

- Poi però c'è la popolazione palestinese. E lì il discorso cambia.
  Cambia perché non c'è un progetto simmetrico a cui lavorare. Lo dico con grande rammarico: non riesco più a vedere possibilità di dialogo. Ci sono due Palestine, Ramallah e Gaza, in guerra civile una con l'altra. Trattare diventa quasi impossibile.

- E i ritorni dalla dìaspora? L'antisemitismo è in crescita, soprattutto in Europa. Questo continua a essere un fattore sensibile?
  Il dato più alto lo si è registrato nel 2015-2016. Poi nel 2017 e 2018 c'è stato un forte calo. Questo significa che anche se i fattori scatenanti delle migrazioni dall'Europa sono ancora lì, e per certi versi sono anche peggiorati, la diaspora è forte e solida. Ieri è stato pubblicato a Bruxelles uno studio dell'Agenzia per i Diritti Fondamentali: il pubblico ebraico ha una sensazione di forte aumento dell'ostilità, non tanto del pregiudizio generico, che è stabile, ma di quella parte dell'ostilità percepita come "molto forte". Credo ci sia un'erosione del discorso civile nel sistema politico dei Paesi europei e anche negli Stati Uniti: determinati modi di esprimersi, fare e di agire sono senza precedenti. Si tratta di forme deplorevoli che in genere sono dirette verso altri gruppi come immigrati, musulmani, ma che alla fine colpiscono anche gli ebrei, percepiti sempre come "altro". Tutto questo crea premesse tragiche. Un segnale che tutti dovremmo imparare a leggere.

(Avvenire, 11 dicembre 2018)


Quando la difesa è l'attacco. La «guerra segreta» di Israele

Ronen Bergman analizza la storia nascosta degli omicidi mirati. E i problemi politici e morali che comportano

Alto rischio
Fra le operazioni celebri la caccia ai nazisti in fuga e ai terroristi di Monaco
Tecnologia
Nel mirino anche molti scienziati impegnati in programmi nemici

di Matteo Sacchi

C'è una frase del Talmud che viene citata spesso: «Chi salva una vita salva il mondo intero». Ma c'è anche un'altra frase del Talmud che viene citata molto meno spesso: «Se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidilo per primo». Può sembrare duro da accettare ma le due frasi non sono per forza antitetiche. A volte per salvare molte vite si può essere costretti a spegnerne una. Solo che decidere e mettere in atto questa politica richiede di fare ragionamenti terribili, di mettere in gioco la propria coscienza e di sporcarsi le mani.
   Per rendersene conto niente di meglio che leggere Uccidi per primo. La storia segreta degli omicidi mirati di Israele (Mondadori, pagg. 754, euro 36). Scritto dal famoso giornalista israeliano Ronen Bergman, il saggio racconta nel dettaglio come sin dalla sua origine lo Stato ebraico abbia dovuto prendere in considerazione la pratica degli omicidi mirati per difendersi dalla minaccia dei Paesi arabi.
   Anzi la prassi, per certi versi, era addirittura precedente alla nascita di un vero e proprio Stato. Nella guerra civile che insanguinava la Palestina sotto mandato britannico i coloni ebraici dovettero organizzarsi sin da subito per colpire i vertici delle formazioni paramilitari arabe. E anche tra i membri della brigata ebraica che combatteva con gli alleati in Europa si organizzò
   una unità clandestina (nota come Gmul) per colpire i nazisti che avevano compiuto efferati massacri durante la Shoah e che, a conflitto finito, si stavano dando alla macchia. La Gmul riuscì a colpirne più di cento.
   Ma ab origine si evidenziò il problema inevitabile di operazioni di questo tipo. Condotte per forza in maniera informale, e passando attraverso informatori, non erano esenti da rischi e da errori. Nella caccia al nazista più di una volta gli uomini della Gmul finirono per essere, inconsciamente, utilizzati per vendette personali dai loro delatori e indirizzati su persone ben diverse dai loro originali bersagli.
   La questione divenne ancora più pressante e delicata dopo la fondazione dello Stato di Israele. Sul piano pratico di scelte ce ne erano poche. Come disse Moshe Dayan, nel 1956, dopo che un commando palestinese aveva attaccato un kibbutz uccidendone uno dei coloni e poi deturpandone orrendamente il cadavere: «Oggi non vogliamo gettare la colpa sugli assassini ... Noi siamo la generazione degli insediamenti, e senza gli elmetti di acciaio e le bocche dei cannoni non riusciremmo a piantare un albero o a costruire una casa». Ma spesso più che un cannone risultava utile una pistola o un pacco bomba. Era già in corso quella che Bergman chiama «una guerra segreta» e che continuò ad infuriare anche nei periodi in cui formalmente Israele era in pace con i suoi bellicosi
   vicini. Vennero presto organizzate unità speciali per l'intelligence o squadre d'assalto come la Mifratz del Mossad. Vennero reclutati esperti come Nathan Rotberg per compiti non simpatici: univa in una grande vasca tnt, tetranitrato di pentaeritrite e altri prodotti chimici in miscele mortali. Rotberg, un pacioso colono di kibbutz, lo raccontava così: «Bisogna sapere come perdonare il nemico. Anche se non abbiamo alcuna autorità per perdonare persone come Bin Laden: quello può farlo solo Dio. Il nostro compito è organizzare un incontro tra loro. Nel mio laboratorio avevo aperto un'agenzia di incontri ... Ne ho organizzati più di 30».
   Il problema era semmai politico e morale. Come poteva uno Stato democratico agire per via clandestina? E come si poteva cercare di dare a queste procedure un contesto di accettabilità e controllo? Il problema angustiava Ben Gurion e anche Golda Meir. Vennero approvati appositi comitati per decidere quali operazioni approvare.
   Si trattava sempre e comunque di fare patti col diavolo. Uno degli esempi più eclatanti fu il caso degli scienziati tedeschi che iniziarono a sviluppare la tecnologia missilistica egiziana nel 1962. Israele di colpo si ritrovò vulnerabile. Una pioggia di testate chimiche avrebbe potuto in brevissimo tempo annientare il Paese. Ne nacque una vera e propria psicosi e una disperata corsa contro il tempo. Gli operativi di Tel Aviv dovevano, a tutti i costi, riuscire a mettere le mani su Eugen Sanger e Wolfgang Pilz (due degli scienziati che avevano lavorato con Von Braun). Il Mossad arrivò anche a contattare e ad utilizzare Otto Skorzeny (sì, proprio quello che liberò Mussolini sul Gran Sasso) per riuscire ad avvicinarsi ai tecnici tedeschi. A molti si gelò il sangue nelle vene all'idea di quella collaborazione. Ma non vi era altra via.
   E il saggio poi racconta moltissimi altri episodi al cardiopalma, come la caccia ai militanti dell'Olp che avevano favorito e appoggiato la strage degli atleti ebraici alle olimpiadi di Monaco, o la pianificazione dell'eliminazione del leader di Hamas Ahmed Yassin nel 2004, o la caccia agli scienziati nucleari iraniani. In ogni caso Bergman è molto onesto nel bilanciare la narrazione che non è mai a scarico di responsabilità di Israele ma nemmeno sottovaluta l'enorme minaccia a cui il Paese è da sempre sottoposto. Un libro da leggere, con l'avvertenza che ovviamente molti degli argomenti sono stati secretati e che quindi Bergman ha delle sue fonti. Ma in questo settore niente è mai oro colato.

(il Giornale, 11 dicembre 2018)


Roma - Rubate venti pietre d'inciampo dedicate a vittime della Shoah

Le "targhe" della Memoria, a forma di sampietrino, dedicate alle famiglie ebree Di Castro e Di Consiglio. Sono state divelte nella notte in pieno centro, in via Madonna dei Monti. "Un gesto antisemita e di stampo fascista". La procura ha aperto un fascicolo per furto aggravato da odio razziale.

di Laura Barbuscia

 
Rubate venti pietre d'inciampo dedicate alle vittime dell'Olocausto. A denunciare lo sfregio Adachiara Zevi, presidente dell'Associazione culturale Arte e Memoria e curatrice del progetto "Pietre d'inciampo a Roma". Le pietre della memoria sono state divelte dal selciato e rubate questa notte in via Madonna dei Monti, 82, nel rione Monti, a Roma.Olocausto
   Le "targhe", della dimensione di un sampietrino (10x10), erano poste davanti ai portoni per ricordare le vittime della Shoah deportate da quei palazzi. Quelle rubate a Monti erano state installate il 9 gennaio 2012, ed erano state dedicate tutte alle famiglie Di Castro e Di Consiglio, vittime del nazi-fascismo. La più piccola, Giuliana Colomba Di Castro, aveva solo 3 anni. Le pietre d'inciampo erano state finanziate dalla Comunità ebraica di Roma, ed erano state commissionate da una testimone, Giulia Spizzichino, sopravvissuta alla Shoah e scomparsa nel 2016. La famiglia Di Consiglio fu tra le più colpite a Roma, non solo nella razzia al Ghetto del 16 ottobre del '43, ma anche nella retata del 21 marzo 1944: più di 20 persone vennero deportate ad Auschwitz o trucidate alle Fosse Ardeatine.
   "E' un attacco inaudito di fascismo e di antisemitismo fatto da gente che non scherza e purtroppo un governo come quello che abbiamo, che aizza all'odio per il diverso, legittima questi atti", ha dichiarato Zevi, che promuove ogni anno l'installazione delle pietre d'inciampo in memoria dei cittadini ebrei deportati nei campi di concentramento (a Roma finora ne sono state collocate circa 200). "E' a rischio la nostra democrazia - ha aggiunto la figlia di Tullia Zevi, l'intellettuale che per anni è stata punto di riferimento dell'ebraismo italiano - Sono stravolta, è una cosa inenarrabile".
   Lo scorso 12 luglio la stessa Zevi aveva ricevuto lettere di minacce presso la sede dell'Associazione. Un'intimidazione che qualcuno lega allo sfregio della scorsa notte. "È gravissimo un attacco a coloro che sono stati sterminati e a coloro che, con i loro ricordi, testimoniano ogni giorno cosa accadde", ha annunciato Zevi. In serata varie centinaia di persone si sono radunate in via Madonna dei Monti, sotto la casa della famiglia Di COnsiglio, per un presidio silenzioso.
   Dall'Osservatore Romano alla Cgil, sono tanti i commenti che definiscono il gesto "vergognoso". "E' un furto inaccettabile - ha dichiarato la sindaca di Roma, Virginia Raggi - un gesto che condanno con forza e profonda indignazione. La memoria esige rispetto". "Il furto delle pietre di inciampo è il segnale preoccupante di una nuova barbarie. Atto scellerato contro la testimonianza e la memoria della ferocia conosciuta dal popolo ebraico e dalla comunità romana a cui vanno la solidarietà mia e del Senato. Dobbiamo ricostruire subito il percorso delle pietre perché nessuno si senta in diritto di cancellare quanto scritto indelebilmente nelle menti e nei cuori", ha detto la presidente del Senato Alberti Casellati in un messaggio alla comunità ebraica."E' un atto grave, un oltraggio antisemita", ha scritto su Twitter il presidente della Camera, Roberto Fico.
   Intanto, sono in corso i rilievi tecnici da parte dei carabinieri che indagano e la Procura ha aperto un fascicolo per furto, aggravato dall'odio razziale. Il fascicolo è stato affidato al procuratore aggiunto Francesco Caporale.
   Era già accaduto in passato che a Roma i sampietrini in ottone, con sopra inciso il nome delle vittime della deportazione per razza o credo politico, l'anno di nascita e di morte, venissero oltraggiati. Nel febbraio 2014 in via Urbana venne rubata la pietra dedicata a Don Pietro Pappagallo, il sacerdote che si impegnò per proteggere e assistere i perseguitati dal regime nazi-fascista.
   E ancora, nel gennaio 2012 ad essere state divelte furono le pietre d'inciampo collocate in via Santa Maria in Monticelli, di fronte alla casa da cui furono deportate le sorelle Spizzichino. In quell'occasione l'autore del gesto ammise le proprie responsabilità e si giustificò: "Sembra un cimitero e non le voglio davanti al mio portone".
   Nella notte tra il 29 e il 30 maggio dello stesso anno venne invece divelta e sostituita da un normale sampietrino la pietra d'inciampo collocata a via Garibaldi 38 in memoria di Augusto Sperati, falegname trasteverino antifascista, deportato nel lager di Mauthausen e ucciso nel '44 nel Castello di Hartheim. La pietra è stata poi ricollocata pochi mesi dopo, il 4 gennaio 2013.

(la Repubblica - Roma, 11 dicembre 2018)



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«C'è un clima in cui le parole dividono attenti che non succeda anche di peggio»

Intervista a Ruth Dureghello. Parla la presidente della Comunità Ebraica di Roma

di Fabio Rossi

- Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma. Che segnale arriva dal furto delle pietre d'inciampo dell'altra notte?
  «Sono gesti gravi e molto preoccupanti, che non si possono sottovalutare. Quelle pietre non rappresentano solo un sampietrino, ma fanno parte della memoria di questa città. Ma le istituzioni non hanno fatto mancare da subito la loro vicinanza: ciò ci rassicura sul fatto che i valori della memoria, che dobbiamo difendere e condividere, siano tutelati dalle forze politiche che ci rappresentano».

- Teme che possano ripetersi gesti del genere?
  «La più grande delle preoccupazioni per quanto mi riguarda è che, per quanto possa essere grave aver divelto una pietra d'inciampo e aver offeso nuovamente la memoria dei martiri delle Fosse Ardeatine, domani si possa passare a gesti più eclatanti, e offendere le persone».

- C'è un problema di ignoranza dilagante sulle tragedie del passato?
  «Su questo argomento ci interroghiamo sempre: il tempo non aiuta a mantenere vivo il sentimento di ciò che è stato, il dolore e la tragedia. E nemmeno ad aver così chiaro che buona parte di quella tragedia è stata frutto dell'ignoranza e anche dell'indifferenza di persone che, non percependo il pericolo di una situazione grave, l'hanno trascurata con superficialità o si sono voltate dall'altra parte».

- Cosa si può fare per evitare che si ripeta lo stesso schema?
  «È per questo che costantemente si fanno attività con gli studenti e con i giovani: per fornire gli strumenti per riconoscere ogni segnale che possa far scattare un campanello d'allarme su un rigurgito antisemita o di odio di qualunque natura».

- Gli ebrei romani si sentono più insicuri?
  «Assolutamente no. Le forze dell'ordine ci sono vicine e garantiscono i valori sanciti dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato. Avvertiamo però un clima in cui, con superficialità o leggerezza, le parole dividono: come per i messaggi di odio che giungono sul web. Bisogna mantenere gli occhi ben aperti per evitare che dilaghino fenomeni ben più gravi».

(Il Messaggero, 11 dicembre 2018)


Storie Shoah, il sergente americano che salvò 200 ebrei dai nazisti

Quella che vi stiamo per raccontare è una storia di coraggio. Di come un sergente dell'esercito americano salvò 200 ebrei, la cui vita poteva mettere in pericolo la sua e quella degli altri del suo drappello.
Si stava per entrare nell'ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, la vittoria degli Alleati si stava per concretizzare, ma i sussulti della Germania nazista tenevano ancora in piedi lo spietato disegno di morte di Adolf Hitler, reso possibile anche da tutti coloro che lo appoggiarono per tornaconto e avidità.
Era il dicembre 1944 e il Terzo Reich lanciò l'offensiva delle Ardenne, ultimo grande tentativo tedesco sul fronte occidentale, in origine chiamato "operazione Wacht am Rhein" (guardia al Reno) per nasconderne la vera natura, e successivamente rinominato "Herbstnebel" (Nebbia autunnale) che terminò al fine di gennaio dell'anno successivo.
Durante l'attacco in territorio belga, i nazisti catturarono 1000 soldati americani deportandoli in un campo di lavoro nei pressi della città tedesca di Ziegenhain. Al capo di quella legione gli fu ordinato di fare i nomi dei soldati ebrei che componevano la sua legione.
Quel capo era il Sergente Maggiore dell'Esercito americano, Roddie Edmonds, ignaro che il suo coraggio l'avrebbe portato a diventare un Giusto fra le nazioni. Roddie Edmonds radunò i suoi uomini, dicendogli di rimanere uniti qualsiasi cosa fosse accaduta.
E "qualcosa" accadde. Edmonds disse che tutti i suoi militari erano ebrei a un comandante tedesco, che lo minacciò con una pistola alla tempia. Il Sergente non indietreggiò e con estremo coraggio disse:
"Se spari a me, dovrai farlo anche a tutti i miei soldati e ne dovrai rendere conto al tribunale che ti giudicherà quando la guerra sarà finita".
Il comandante nazista ritirò l'arma e 200 ebrei ebbero salva la vita. Quelle parole salvarono anche quella di Paul Stern che a decenni di distanza ha sempre affermato: "Mi sembra ancora di sentirle".
Come spesso accade in questi casi, l'episodio rimase sconosciuto per 50 anni. A sverlarlo fu Chris, figlio di Roddie Edmonds, che dopo molte ricerche scoprì l'eroico gesto del padre.

(Progetto Dreyfus, 11 dicembre 2018)


Netanyahu vorrebbe ufficializzare i rapporti tra Israele e Arabia Saudita

GERUSALEMME - Sabato scorso, 8 dicembre, l'emittente "Hadashot Tv" ha riferito che Netanyahu starebbe lavorando dietro le quinte per normalizzare le relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Secondo l'emittente, l'obiettivo di Netanyahu sarebbe quello di portare a termine una svolta e rendere ufficiali i rapporti tra i due paesi prima delle elezioni israeliane del 2019. Il capo del Mossad Yossi Cohen, il responsabile dell'organizzazione della storica visita del premier in Oman, avvenuta lo scorso 26 ottobre, sarebbe l'uomo di riferimento del capo del governo per quanto riguarda la costruzione delle relazioni con i sauditi. In questi mesi, osserva "Hadashot Tv", Netanyahu ha mantenuto un profilo particolarmente basso sulla vicenda dell'omicidio del giornalista saudita e collaboratore della "Washington Post", Jamal Khashoggi all'interno del consolato del regno a Istanbul lo scorso 2 ottobre, appoggiando l'erede al trono Mohammed bin Salman, attaccato dai media statunitensi e dai rivali di Turchia e Qatar.
   L'emittente israeliana, citando fonti diplomatiche di alto livello, precisa che Israele sarebbe in contatto con molti Stati arabi per capire la loro posizione nei confronti dell'Iran, tra cui l'Arabia Saudita. Lo stesso Netanyahu, dopo la storica visita nel regno dell'Oman, ha annunciato che "ci saranno altre" visite ai paesi musulmani con cui Israele attualmente non ha relazioni diplomatiche. In queste settimane è circolata la voce di una possibile visita del premier israeliano nel regno del Bahrein, che insieme agli Emirati è il principale alleato di Riad nel Golfo.

(Agenzia Nova, 10 dicembre 2018)


Nuovo grave attentato in Israele. E ci vengono a fare la morale sui diritti umani

Terroristi palestinesi sparano da una macchina in corsa su un gruppo di civili israeliani ferendone sette tra i quali la più grave è una ragazza 21enne incinta. E intanto oggi all'ONU cominciano gli ipocriti festeggiamenti per i 70 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Ancora un attentato in Israele. Ancora civili colpiti da terroristi che non si fanno scrupolo di sparare contro donne incinta e bambini. E' di sette feriti, tra i quali la più grave una ragazza 21enne incinta, il bilancio di un attentato avvenuto ieri sera a Ofra.
Da una macchina palestinese sono partiti colpi di arma da fuoco diretti contro un gruppo di civili israeliani che partecipavano a una cerimonia di accensione delle candele in memoria di un giovane morto in un incidente.
Sul terreno sono rimasti sette feriti, la più grave dei quali è una ragazza incinta di 21 anni. Suo marito e un altro uomo sono rimasti feriti in maniera meno grave. Feriti anche quattro adolescenti di 16 anni....

(Rights Reporters, 10 dicembre 2018)


Mezza Europa sempre più antisemita, 9 ebrei su 10 nell'Ue si sentono sotto attacco

Il risultato nel secondo rapporto dell'Agenzia per i diritti fondamentali. Timmermans: "Dati preoccupanti, essenziale debellare il fenomeno collettivamente".

di Emanuele Bonini

BRUXELLES - Non arrivano buone notizie dall'Europa. Mezza Unione europea nutre sempre più antipatia per le comunità ebraiche, che si sentono sempre più vittime di atteggiamenti ostili. E' questo il principale elemento del secondo rapporto sull'antisemitismo prodotto dall'Agenzia per i diritti fondamentali e diffuso al pubblico oggi. Il sondaggio è stato condotto su oltre 16.395 membri delle comunità ebraiche di 12 Stati Membri dell'Ue (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Ungheria), e il dato generale che ne emerge è scoraggiante.
   Nove intervistati su dieci (89%) ritengono che l'antisemitismo stia crescendo nel proprio Paese, e oltre otto persone su dieci (85%) vedono nell'antisemitismo il principale problema sociale, prima ancora di disoccupazione, immigrazione e sicurezza. Le comunità ebraiche d'Europa non si sentono al sicuro. Un fenomeno che inquieta Frans Timmermans, primo vicepresidente della Commissione europea. "Sono profondamente preoccupato per la crescita dell'antisemitismo. La comunità ebraica in Europa deve sentirsi al sicuro e a casa, altrimenti l'Europa cessa di essere l'Europa".
   Ma a giudicare dal rapporto l'Europa ha già smesso di essere ciò che era, iniziando a tradire sé stessa. Se spesso gli atteggiamenti ostili si registrano su internet (lo dichiara l''89% degli intervistati), nella vita reale la situazione non cambia di molto. Spazi pubblici (73%), giornali (71%) e vita politica (71%) sono le arene dove più si avverte un atteggiamenti antisemita crescente. La questione palestinese incide, in questo. Un intervistato su due (51%) ritiene che affermazioni come "nei confronti dei palestinesi si comportano come i nazisti" siano alla base di molti attacchi alle comunità ebraiche.
   "Sostenere che chi critica il governo di Israele è antisemita non ha senso", tiene a precisare Timmermans, convinto che "chiunque ha pieno di diritto di criticare le azioni del governo israeliano se considerate come contrarie ai valori che difendiamo o alle decisioni della comunità internazionale". Ma invita tutti a studiare la storia, con particolare attenzione al capitolo dell'Olocausto. C'è comunque un problema di fondo. "Il XX secolo ha conosciuto tanti mali, quello che resta più difficile da curare è l'antisemitismo, ed è essenziale combattere questo flagello con vigore e collettivamente".

(eunews, 10 dicembre 2018)


Hanukkah, acceso il candelabro: antico rito ebraico

VERONA - La festa delle luci, l'Hanukkah, l'accensione delle candele un giorno dopo l'altro, al calar del sole. Il rito che si è ripetuto ieri in piazza delle Erbe. La Comunità Ebraica si è ritrovata per continuare quel gesto antico che commemora la nuova consacrazione di un altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la riconquistata libertà dal giogo degli Ellenici. Tra canti, scatti fotografici e curiosità, la magia di quelle candele accese è tornata a Verona.

(L’Arena, 10 dicembre 2018)


In dieci anni i cristiani evangelici hanno investito 65 milioni di dollari nelle colonie israeliane

Riprendiamo un articolo da un sito manifestamente anti-Israele perché, pur con i termini tipici degli antisionisti (colonie, territori palestinesi occupati) fornisce utili notizie e senza volerlo fa propaganda a Israele e agli evangelici che lo sostengono.

ROMA - Gruppi di cristiani evangelici hanno investiti nelle colonie israeliane in Cisgiordania 65 milioni di dollari negli ultimi dieci anni. È il risultato di un'inchiesta del quotidiano israeliano Haaretz che ha ricostruito i progetti portati avanti in questo decessio in termini di lavoratori volontari e finanziamenti.
   Secondo il giornale, sono stati inviati nella sola colonia di Har Brakha, a sud del distretto palestinese di Nablus, 1.700 volontari, mentre ogni anno il ministero israeliano per gli Affari strategici ha investito 16mila dollari per una sola associazione evangelica, Havoyel, perché produca materiali per fare campagna a favore di Israele all'estero. È Havoyel a inviare centinaia di persone da tutto il mondo a lavorare appezzamenti agricoli nelle terre occupate.
   Altro caso è quello dell'associazione statunitense Heart of Israel, il cui fondatore, Aaron Katsof, residente nella colonia di Shiloh: l'organizzazione raccoglie ogni anno centinaia di migliaia di dollari per finanziare progetti negli insediamenti, considerati illegali dal diritto internazionale. Raccoglie in media tra i 50 dollari e i 1.500 da ogni donatore, sia ebrei residenti all'estero che cristiani, zoccolo duro del sostegno allo Stato di Israele soprattutto negli Stati Uniti.
   Una realtà radicata che ha le sue radici nella religione: i cristiani evangelici credono che il regno di dio si realizzerà, insieme alle profezie bibliche tra cui il ritorno del Messia, quando il grande Israele si concretizzerà su tutta la Palestina storica. Lo scorso marzo l'agenzia israeliana YnetNews aveva pubblicato i dati sul sostegno all'immigrazione ebraica nello Stato di Israele, spesso dirottata dalle autorità di Tel Aviv nei Territori Palestinesi Occupati: nel solo 2017 su 28mila persone che hanno compiuto l'aliyah, la "salita", ovvero l'immigrazione in Israele - o, nella visione sionista, il "ritorno" - almeno 8.500 hanno avuto a disposizione fondi raccolti da organizzazioni cristiane partner dell'Agenzia ebraica.
   Se l'Agenzia ebraica si occupa da anni dell'inserimento dei nuovi cittadini nello Stato, attraverso corsi di lingua ebraica, abitazioni e aiuto nella ricerca del lavoro, il denaro raccolto dagli evangelici ne è una stampella: copre le spese del viaggio, fornisce sussidi per il primo periodo nel nuovo Stato e aiuta nella costruzione di una casa. Anche in questo caso i finanziamenti sono consistenti: l'International Fellowship of Christian and Jews (Ifcj), una delle più grandi organizzazioni, ha raccolto e utilizzato dal 2014 al 2017 20 milioni di dollari per l'aliyah e 188 milioni di dollari dalla fine degli anni Novanta alla metà degli anni Dieci del 2000.
   Un sostegno radicato che si lega a doppio filo, negli Stati Uniti, con il sostegno indefesso allo Stato di Israele e all'appoggio a politiche filo-sioniste. Non è un caso che i cristiani evangelici siano elettori devoti del partito repubblicano e, negli ultimi anni, sostenitori dichiarati del presidente Trump, l'inquilino della Casa Bianca più vicino a Tel Aviv che gli Usa abbiano mai avuto. Nel giro di un anno la presidenza Trump è riuscita dove nessuno aveva mai osato arrivare: ha dichiarato Gerusalemme capitale dello Stato di Israele, trasferito nella Città Santa l'ambasciata, cacciato la rappresentanza dell'Olp da Washington e tagliato i fondi all'agenzia Onu Unrwa che si occupa da oltre 60 anni dei rifugiati palestinesi.
   Ma soprattutto ha coltivato la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Golfo, quei paesi arabi storicamente legati agli Stati Uniti, riuscendo nell'obiettivo di marginalizzare l'agenda palestinese, facendola sparire dal tavolo di qualsiasi possibile negoziato.

(Nena News, 10 dicembre 2018)


Truppe israeliane cercano i terroristi che hanno sparato su civili

Le forze di sicurezza israeliane stanno perlustrando i villaggi palestinesi in cerca dei terroristi che hanno aperto il fuoco contro gli abitanti di uno degli insediamenti ebraici in Cisgiordania il 9 dicembre, ha detto il servizio stampa dell'esercito.
I terroristi hanno sparato su un'auto di passaggio ferendo sette israeliani, tra cui una donna incinta. E' stata ricoverata in ospedale in gravi condizioni ed è stata sottoposta ad un parto cesareo per salvare la vita del bambino.
"Dopo le sparatorie di ieri all'incrocio di Ofra, le forze di difesa israeliane, la polizia di frontiera e i servizi speciali hanno iniziato una ricerca su vasta scala di terroristi nei villaggi situati nella zona", si legge nella dichiarazione.
Inoltre sono stati attaccati civili alla fermata dell'autobus all'ingresso del grande insediamento Ofra, situato a poche decine di chilometri a nord di Gerusalemme.
Non ci fermeremo fino a quando gli aggressori non saranno catturati e "pagheranno per le loro azioni", ha promesso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha registrato un videomessaggio con sua moglie Sarah.
"Preghiamo tutti per la giovane madre che sta lottando per la vita, il suo bambino è stato salvato e auguriamo una veloce guarigione a tutti i feriti", ha detto.

Il ministero degli Esteri israeliano ha attirato l'attenzione sul fatto che l'attacco è stato sostenuto dal movimento palestinese Hamas nella Striscia di Gaza, condannato dagli israeliani insieme agli americani all'Assemblea generale delle Nazioni Unite la scorsa settimana, senza raccogliere voti sufficienti per adottare una risoluzione.
"La sete di violenza di questo gruppo terroristico è un rimprovero per coloro che hanno bloccato la sua condanna alle Nazioni Unite", ha scritto il ministero su Twitter.
(Sputnik Italia, 10 dicembre 2018)


Franco Di Mare racconta i settant'anni di Israele: «Un Paese senza pace ma già nel futuro»

di Valentina Tocchi

 
Franco Di Mare
Un viaggio da Gerusalemme alla modernissima Tel Aviv, passando per i tunnel che Hezbollah stava costruendo dal Libano e la piccola Sderot, la cittadina più vicina alla Striscia di Gaza dove in 30 secondi bisogna mettersi in salvo dai razzi dei terroristi.
Franco Di Mare, conduttore di Unomattina, il 9 dicembre su RaiUno racconterà "Israele: i 70 anni", lo speciale Tg1, in onda a mezzanotte, firmato con Paola Miletic e il produttore esecutivo Eleonora Iannelli. Un viaggio in una regione che, nata sulle ceneri della guerra nel 1948, in 70 anni di vita di pace ne ha vista ben poca.

- Franco Di Mare, in molte delle cronache Israele è sinonimo di attacchi terroristici e una pace mai raggiunta nonostante i tanti negoziati. Cosa mostra nel suo speciale?
  «Israele in realtà è molto altro. Non dobbiamo mai dimenticare che è l'unica democrazia in una regione dove pullulano regimi satrapisti e autoritari. Nonostante la guerra sia una realtà percepita e i giovani vengano addestrati ad una leva militare di 3 anni c'è un indice di felicità altissimo, c'è speranza, creatività, voglia di fare. Le invenzioni tecnologiche sono ai massimi livelli, le start up proliferano a ritmi da Silicon Valley. Noi ci siamo addentrati in questo universo di creatività e inventiva con il guru israeliano Chemi Peres, il figlio dell'ex presidente Shimon Peres. Siamo rimasti a bocca aperta visitando il museo della ricerca».

- Su cosa si sta orientando la ricerca israeliana?
  «Ci hanno mostrato la macchina che è in grado di ricavare acqua dall'atmosfera, il sistema di irrigazione goccia a goccia. Qui l'acqua è il bene più prezioso e non bisogna sprecarne neppure una goccia. Loro sono riusciti a far fiorire il deserto con piantagioni di frutta e verdure. Ma non solo».

- Spieghi.
«Quando siamo andati a girare lo speciale, circa due settimane fa, erano appena uscita la notizia dei tunnel che il gruppo libanese Hezbollah stava costruendo per giungere in Israele. Siamo andati a visitarli e siamo rimasti colpitissimi dal metodo di Israele. Quei tunnel, che erano un'opera ingegneristica e tecnologica raffinatissima, sicuramente aveva coinvolto ingegneri di alto livello. I lavori erano in corso da mesi ma Israele, che probabilmente aveva scoperto la cosa monitorando i cambiamenti termici del sottosuolo, aveva lasciato fare per capire fin dove si sarebbe spinta quella costruzione e a quale livello tecnologico erano arrivati. Una grande lezione di intelligenza«.

- Lo scorso maggio si sono festeggiati i 70 anni da quando Ben Gurion dichiarava la nascita dello Stato di Israele. La pace è un miraggio?
  «L'ho chiesto al presidente Rivlin in persona. Gli ho chiesto se questo era lo Stato che sognavano. Mi ha risposto: «Questo non è lo stato che sognavamo, ma ci stiamo lavorando». Israele sogna la pace e ne ha bisogno, perché per fare business e per fare ricerca tecnologica gli investimenti ingentissimi che lo Stato fa ogni anno nella difesa sono una zavorra.
Tuttavia si ha ben chiaro che il metodo per arrivare alla pace è quello di "prepararsi alla guerra". La cosa sconvolgente, però, è che la popolazione nonostante il costante pericolo di attacchi e attentati continua a vivere.
A Sderot, la cittadina che sorge proprio sul confine con la striscia di Gaza che viene denominata Sderocket (con un gioco di parole con la parola inglese "rocket", razzo) da quando suona l'allarme antirazzo a quando si viene colpiti passano 30 secondi. Trenta secondi per mettersi in salvo».

- Da poco più di un anno Gerusalemme è stata riconosciuta capitale di Israele dagli Stati Uniti. Come l'ha trovata?
  «Grazie ai muri che sono stati costruiti Gerusalemme è una città più sicura, che tenta di evitare la strage degli innocenti presi di mira dai terroristi. Gerusalemme è una città unica al mondo, contesa dalle grandi religioni monoteiste che si contendono a colpi di risoluzioni dell'Unesco, come quella purtroppo votata nel 2016 anche dall'Italia, la paternità di luoghi come la Spianata delle Moschee o il Monte del Tempio».

- A proposito di Italia. In settimana Matteo Salvini ha annunciato un viaggio in Israele. Come vedono l'Italia anche alla luce dei rapporti con l'Iran?
  «Gli israeliani ci accusano di scarsa autostima e vorrebbero sicuramente stringere un legame più profondo con noi. Per il momento sono ancora tutti entusiasti per il Giro d'Italia della scorsa primavera, che come ricorderete è partito da Gerusalemme Ovest, ha toccato Haifa, Tel Aviv fino a Eilat. Quel Giro, che da noi ha sollevato le solite polemiche per l'arrivo a Roma, a loro ha permesso di mostrare Israele sotto un profilo diverso, di mostrare luoghi di cui le cronache non si occupano. Per un paese come Israele è stato davvero importante».

(Il Messaggero, 10 dicembre 2018)


Quel consiglio delle Nazioni Unite agli israeliani sotto attacco

L'Onu agli israeliani: "Perché vivete lì?"

Scrive Yedioth Ahronoth (26/11)

Batia Holin, del kibbutz Kfar Aza, e Adele Raemer, del kibbutz Nirim, hanno accettato l'invito a parlare di fronte alla commissione indipendente d'indagine del Consiglio Onu per i Diritti umani, incaricata di investigare gli eventi del 2018 ai confini della striscia di Gaza, e hanno accettato di raccontare ai membri della commissione come si vive sotto la minaccia continua di attacchi di razzi, infiltrazioni di terroristi, incendi dolosi", scrive Yedioth Ahronoth, il primo quotidiano israeliano. "La commissione le ha convocate avendo notato la loro attività sui social network, dove le due israeliane hanno tenuto un diario degli eventi al confine postando foto e video e soprattutto scrivendo degli incendi scoppiati negli ultimi otto mesi a causa degli aerostati con ordigni incendiari ed esplosivi lanciati quasi quotidianamente dalla striscia di Gaza verso Israele. Benché invitate a parlare davanti alla commissione Onu, a Ginevra, Batia Holin e Adele Raemer dicono di esservisi recate con poche aspettative, ben conoscendo il pregiudizio anti-israeliano che caratterizza in generale le agenzie delle Nazioni Unite. Ciò nonostante, dicono d'essere rimaste sbalordite quando, dopo che avevano descritto la propria vita sotto la minaccia di razzi, tunnel e incendi dolosi, uno dei membri della commissione ha tranquillamente chiesto loro, come fosse la cosa più normale del mondo, perché insistano a vivere nella regione di Israele che confina con Gaza. Per inciso, si calcola che siano tra 800 mila e un milione i civili israeliani che vivono nel raggio di 35 km dal confine di Gaza, cioè alla portata dei razzi Grad-Katyusha di cui Hamas dispone almeno dal 2008-2009. 'Quando mi è stato chiesto perché mai rimango nella mia casa e non me ne vado via a causa della situazione - dice Holin - ho capito quanto i membri di quella commissione siano scollegati dalla realtà. Non hanno la minima idea di come viviamo qui e di cosa siano Israele e la storia del sionismo. Siamo arrivati di fronte alla commissione con una presentazione e un sacco di materiale - continua Holin - per mostrare a quel comitato, che è presieduto da un giurista, com'è la nostra vita al confine con Gaza. Dovevamo parlare un'ora a testa, ma le cose da spiegare erano talmente tante che abbiamo finito col parlare per quattro ore. Abbiamo raccontato loro della nostra vita sotto i razzi, dei tunnel che sono stati scoperti vicino a dove abitiamo, del fumo nero dei pneumatici che ogni venerdì appesta l'aria e ci soffoca. Abbiamo capito che i membri della commissione non conoscono per nulla Israele, né la striscia di Gaza. Non sono mai stati qui. Ho dovuto mostrare loro su una mappa quanto il mio kibbutz si trovi vicino al confine e spiegare cosa significa questo nella vita di tutti i giorni'. Conclude Holin: 'A un certo punto mi hanno chiesto: come spiega il fatto che un venerdì, durante le proteste, le Forze di difesa israeliane hanno ucciso tanti manifestanti palestinesi che si erano avvicinati alla barriera di confine? Ho dovuto spiegare loro che quegli attivisti, mandati da Hamas, non volevano attraversare il confine per manifestare: volevano infiltrarsi nelle nostre comunità, infiltrarsi in casa mia per farci del male, e quindi abbiamo il pieno diritto di difenderci'.

(Il Foglio, 10 dicembre 2018)


Operazione Scudo Settentrionale, anche Israele sa fare guerra mediatica

Il lancio dell'operazione ha varie novità: anzitutto la programmazione mediatica, in secondo luogo il tempo del lancio, infine il pericolo che l'operazione vuole neutralizzare.

di Giovanni Quer

 
Un'operazione militare al confine con il Libano è cosa rara ed estremamente delicata. Ogni passo falso può dare il via a un'escalation e nel caso peggiore, a una nuova guerra. Sabato 8 dicembre i primi due incidenti. Tre persone si avvicinano alla barriera di confine proprio dove l'esercito israeliano sta lavorando per distruggere i tunnel. Secondo la tv al-Manar, legata a Hezbollah, i tre erano soldati dell'intelligence libanese che si sono avvicinati al confine per raccogliere informazioni sui sensori che Israele avrebbe innestato nella zona. Poi il mistero delle armi sparite dal campo dove sono di stanza i carriarmati - secondo quanto viene divulgato, le armi sarebbero state sottratte dal campo perché abbandonate.
   Il fatto che il primo fuoco sparato da Israele non abbia ancora causato una risposta, significa forse che Hezbollah non è interessato a una guerra con Israele - nonostante le minacce dei leader. Altro invece è il piano militare di Hezbollah: usare i tunnel per arrivare in Israele, rapire soldati o cittadini e condurre operazioni di sabotaggio e altre operazioni terroristiche nelle cittadine israeliane al confine.
   Israele monitora la situazione dal 2014, ma ha deciso di rispondere adesso e in maniera inusuale. Anzitutto la conferenza stampa è stata molto ben pianificata, con la partecipazione del Capo di Stato Maggiore (assai inusuale), video e il messaggio alla comunità internazionale. Israele dimostra di saper giocare anche la guerra mediatica, quella per l'opinione pubblica, che negli anni ha sempre perso. Hezbollah non può sostenere come Hamas che i tunnel servano per trasportare merci, né che possano servire per la difesa dei confini da un'eventuale aggressione sionista. Infatti nemmeno la stampa controllata o vicina a Hezbollah parla molto dell'Operazione se non come un pretesto israeliano per avvicinare truppe al confine.
   Perché adesso? Gli operativi di Hezbollah avrebbero potuto "testare" i tunnel con un'operazione di rapimento nell'attesa di usarli per introdurre in territorio israeliano intere unità. Poi, vi è l'Iran, cui Israele deve mandare un chiaro messaggio, dopo aver incominciato a spedire armi direttamente in Libano. Infine, in questo periodo Hezbollah si sta riprendendo dopo gli anni di combattimento in Siria e ha quasi completato il dominio dello scenario politico in casa: sta addestrando nuove reclute e evidentemente si prepara a un attacco che non sarebbe solo di missili, ma anche di terra.
   Israele ha cambiato modo di comunicare, o più correttamente, ha incominciato a comunicare. Anche se l'Assemblea Generale dell'Onu non ha approvato la risoluzione di condanna a Hamas per il voto contrario dell'intero blocco arabo-islamico, il coinvolgimento dell'Unifil e la futura riunione al Consiglio di Sicurezza sul problema Hezbollah sono il primo cambiamento della dinamica passata di risposta a false o distorte rappresentazioni mediatiche degli scontri armati. Infine, i nemici di Israele sono indaffarati a dipingere il Paese come un gruppo di litigiosi corrotti che faranno collassare lo stato per permettere la fine dell'impresa sionista. La presenza del Capo di Stato Maggiore, del Portavoce Idf assieme al Premier dimostrano anche a Hamas, Hezbollah e Iran che nonostante le inchieste, gli scandali e le accuse cui possano esser soggetti i politici, quando si parla di sicurezza ci sono ampie intese e Israele non è più quella di dodici anni fa. Come difenderà il Libano il progetto dei tunnel all'Onu?

(formiche, 9 dicembre 2018)


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Tunnel di Hezbollah sotto Israele, una minaccia a lungo termine

Dietro la realizzazione di queste opere il sostegno finanziario dell'Iran

Il recente confronto militare tra Israele ed Hamas ha evidenziato una nuova forma di lotta attraverso la costruzione, da parte palestinese, di tunnel sotterranei a fronte dell'incapacità temporanea, da parte israeliana, di poterli individuare se non a seguito dell'invasione della Striscia di Gaza. Si tratta di una novità operativa non del tutto sconosciuta a precedenti confronti armati, ma adesso diventata centrale nelle strategie contro Israele. Una tattica che, nel prossimo futuro ed in chiave difensiva o offensiva, potrà interessare molto le vicende mediorientali. Hamas ha costruito una rete di tunnel sotto Gaza per diversi motivi. Il più ovvio e principale derivava dalla necessità di doversi difendere da un nemico che ha il controllo del cielo. Nel loro sviluppo i tunnel hanno avuto anche finalità diverse: il contrabbando con l'Egitto, lo stoccaggio di armi, la protezione dei leader, compiti operativi offensivi. Alla base di questa iniziativa di Hamas c'è stata l'assistenza tecnica e le indicazioni operative che gli Hezbollah hanno impartito al movimento palestinese e di cui sono state trovate tracce in documenti reperiti da Israele durante l'invasione della Striscia....

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 7 dicembre 2018)


«Con la retorica non si sconfigge l'antisemitismo»

Intervista a Michele Sarfatti, storico, autore della "Storia degli ebrei nell'Italia fascista del Ventesimo secolo”

Michele Sarfatti
Michele Sarfatti è uno studioso di storia contemporanea e in particolare della storia degli ebrei nell'Italia fascista del Ventesimo secolo. Dal 2002 al 2016 è stato direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) di Milano e per molti anni ha insegnato «Storia della Shoah» all'Università di Milano. Ha appena ripubblicato l'edizione definitiva del suo libro Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi, Torino 2018).
Il professor Sarfatti ha iniziato un ciclo di conferenze in occasione dell'ottantesimo anniversario delle Leggi razziali italiane.

- Professore, quali sono i punti più importanti in discussione?
  «Uno è la radicalità della legislazione anti-ebraica del regime fascista e un altro è la rilevanza che questa legislazione ha avuto nella storia nazionale italiana».

- In che senso?
  «Le leggi anti-ebraiche della seconda metà del 1938 avevano lo scopo di espellere gli ebrei da tutte le diverse aree della vita sociale e lavorativa, compresa la scuola. L'obiettivo era costruire una società ariana e uno stato razziale».

- Ma gli ebrei in Italia non sono mai stati perseguitati con la forza?
  «Fino alla metà del 1943 gli atti di violenza antiebraica erano molto rari, ma le leggi erano dure. Prevedevano il licenziamento di tutti i dipendenti pubblici, dai professori universitari ai conducenti dei tram, l'espulsione di tutti gli ebrei dall'esercito e da tutte le istituzioni culturali. La pubblicazione di nuovi libri di autori ebrei fu vietata e quelli esistenti furono progressivamente rimossi».

- Gli ebrei italiani continuavano ad avere passaporti italiani?
  «La loro cittadinanza non è stata revocata, secondo me era perché era più semplice mandarli via se avevano una cittadinanza, in modo che potessero essere accolti da altri Paesi. Fino all'estate del 1941 nessuno aveva in mente lo sterminio della soluzione finale, nemmeno la Germania nazista».

- Quanti erano gli ebrei in Italia
  «Circa 45.000: tre quarti di loro erano italiani e un quarto stranieri».

- Quanti sono stati uccisi?
  «Hanno ucciso 300 ebrei nella penisola e 7600 sono stati deportati. Di questi 6 700 sono stati uccisi e 900 sono sopravvissuti. Molti di loro furono assassinati ad Auschwitz-Birkenau tra l'ottobre del 1943 e il gennaio del 1945. Un gran numero di deportati furono uccisi già all'arrivo. Quelli che sono stati tatuati con un numero di registrazione erano una minoranza. Tra questi c'era Primo Levi».

- Lei ha pubblicato Gli ebrei nell'Italia di Mussolini. C'erano ebrei fascisti?
  «C'erano ebrei fascisti ed ebrei antifascisti e altri che non erano né l'uno né l'altro. Tra i fascisti e gli antifascisti gli ebrei erano in percentuale maggiore rispetto agli altri italiani, perché tra gli ebrei c'è una maggior tradizione di impegno politico».

- Di che cosa ha parlato a Gerusalemme alla conferenza della Hebrew University?
  «Di come gli ebrei italiani siano stati progressivamente degradati: da soggetti della propria storia sono diventati gli oggetti di una storia decisa da altri».

- Il razzismo e l'antisemitismo sono sempre esistiti?
  «Sì. Si veda la deriva catastrofica del positivismo che alla fine del XIX secolo ha sposato la teoria della diversità tra le razze».

- Il nazismo nel 1945 sembrava essere stato messo al bando ma ora pare stia tornando in Ungheria, in Austria, in Germania e in altri Paesi.
  «Il caso peggiore è l'Ungheria. Sono preoccupato per la Polonia, l'Austria e anche per la Germania, ma lì è in minoranza. Credo che la nostra battaglia debba tendere a relegare l'antisemitismo e il razzismo a un'assoluta minoranza. Non sono sicuro che saranno mai sradicati. La nostra vita è una continua battaglia».

- Il vento sta cambiando, anche negli Stati Uniti?
  «Ci sono venti impetuosi, ma non credo che la direzione principale sia cambiata».

- Ma proprio negli Usa c'è stato recentemente l'orribile assassinio degli ebrei mentre pregavano il sabato nella sinagoga di Pittsburgh.
  «Doppiamente orribile perché fatto contro il popolo ebraico e il simbolo della sinagoga. Ma negli Stati Uniti ci sono state anche piccole brezze che stanno combattendo contro il fantasma che Trump sta cercando di far riapparire».

- E' preoccupato?
  «Siamo in una fase molto delicata e complicata, ma dentro di me alla fine ho fiducia: se ci impegniamo molto, vinceremo».

- Gli italiani e i francesi si sono mai ufficialmente scusati per le loro persecuzioni contro gli ebrei?
  «No, ma non sono particolarmente interessato alle scuse. Ci sono ancora strade intitolate a chi ha sottoscritto il manifesto della razza. E carriere di professori universitari stroncate 80 anni fa. È più interessante lavorare su questo».

- Pensa che l'istruzione sia l'arma più importante a nostra disposizione?
  «La retorica è inutile. Ciò che può servire è l'educazione silenziosa che mette la Shoah nella storia europea e non al di fuori di essa. Una educazione gentile che è pronta ad ascoltare dubbi e perplessità. Non deve imporre il ricordo dello Shoah come punto di partenza».

(La Stampa, 9 dicembre 2018 - trad. Carla Reschia)



Il nuovo Museo dell'Olocausto che assolve gli ungheresi

di Francesco Iannuzzi

 
Il nuovo Museo dell'Olocausto di Budapest
Il nuovo Museo dell'Olocausto di Budapest dovrebbe aprire nel marzo del 2019 in occasione del 75o Anniversario della deportazione degli ebrei ungheresi, ma sono molte le polemiche che precedono la sua apertura. Non ultimo il fatto che l'opera, costata 18 milioni di dollari, è pronta dal 2014.
  Israele e molte organizzazioni ebraiche contestano la decisione di minimizzare, all'interno della mostra, il ruolo dei governi ungheresi dell'epoca nella deportazione. Anche perché i rastrellamenti furono molto rapidi: dopo l'invasione da parte delle truppe tedesche nel marzo del 1944 565 mila ebrei ungheresi, nel giro di poche settimane, furono caricati sui treni blindati e portati nel campo di sterminio di Auschwitz.
  Tra i più critici su come è stato allestito il museo c'è il direttore della Biblioteca dello Yad Vashem di Gerusalemme, Robert Rozett: «C'è una forte tendenza in Ungheria oggi a presentare la deportazione degli ebrei ungheresi durante l'Olocausto come un crimine esclusivamente tedesco e, fatta eccezione per un piccolo gruppo di teppisti ungheresi, a ignorare il ruolo e la responsabilità delle autorità e della società ungherese».

 La difesa delle autorità
  Il governo Orban smentisce le accuse di aver voluto minimizzare le responsabilità del Paese e ha ricordato che stanzia 1,5 milioni di euro per combattere l'antisemitismo in Europa. Ma la battaglia del premier contro l'Università fondata a Budapest dal miliardario George Soros, ebreo di origini ungheresi, favorevole all'immigrazione, ha visto la capitale tappezzata di manifesti contro il magnate e ha fatto nascere sospetti di antisemitismo nei confronti dello stesso Orban. A questo si aggiunge il fatto che lo stesso premier ha annunciato, parlando in Parlamento, che l'apertura ufficiale del museo potrebbe slittare ancora, almeno fino a quando non cesseranno le polemiche su come è stato allestito.
  Questa «assoluzione» degli ungheresi fa seguito alla contestata legge polacca del marzo scorso che punisce con il carcere fino a tre anni chiunque parli di «campi polacchi» a proposito dei lager costruiti e gestiti dagli occupanti nazisti e anche chi attribuisca complicità a singoli polacchi nell'esecuzione della Shoah.
  In ogni caso, la Casa dei Destini, è un'opera imponente che si può vedere a più di un chilometro di distanza. Una gigantesca stella di David è sospesa tra due torri e segna l'ingresso della struttura fatta tutta in cemento e vetro.

(La Stampa, 9 dicembre 2018)


Chanukkà a Buchenwald

di Rav Scialom Bahbout

Rav Scialom Bahbout
Inverno, festa di Chanukkà 5706 (1945). Un bambino di sei - sette anni e suo fratello di nove, due tra 300 bambini scesi dalle navi, scampati dai campi di concentramento di Bergen Belsen e Buchenwald, vengono inviati nei campi di raccolta dei profughi, appena arrivati in Israele.
I due bambini discendono da una famiglia di importanti rabbini provenienti dalla Polonia. Il più piccolo poco sa della tradizione ebraica, perché all'età di due anni e mezzo era stato costretto ad abbandonare la casa del padre: non conosce i canti e le tradizioni con i quali viene ora a contatto per la prima volta.
   Ma quando arriva la festa di Chanukkà e cominciano a cantare il canto tradizionale Maoz tzur jeshu'atì, un ricordo lo assale e, rivolto al fratello maggiore, chiede: dove abbiamo già ascoltato questo canto? E il fratello gli ricorda che era stato l'anno prima, quando si trovavano ancora a Buchenwald. Sì, adesso il bambino ricorda.
   Correva l'inverno 1944. Campo di concentramento di Buchenwald, Blocco 62, dove erano internati 400 ebrei. Dopo cinque ani e mezzo di terrore non rimanevano che scheletri, quasi larve umane. Sui giacigli di legno si ammassavano per dormire fino a 14 persone una attaccata all'altra, tanto che, chi aveva il bisogno di rigirarsi nel letto, doveva svegliare tutti gli altri per potersi voltare tutti insieme.
   Alla sera vi era la distribuzione del cibo. Venivano portate due grandi pentole e due internati di turno provvedevano alla distribuzione, mentre il tedesco di guardia controllava la situazione. Ognuno riceveva 150 grammi di pane, che era la razione giornaliera, un bicchiere di acqua calda che chiamavano the e, a seconda dei giorni, riceveva una razione di margarina. 200 grammi venivano divisi in 16 parti.
   Finita la distribuzione, i due internati di turno chiedevano al controllore tedesco cosa dovevano fare coi resti e i pezzi di margarina solida che rimanevano attaccati alla pentola.
   Al che il tedesco si faceva portare la pentole. Prendeva i pezzi più grossi di margarina, quelli ancora solidi e diceva: "Adesso io li getto per aria e chi li prende sono suoi". Non mancavano davvero persone che, a causa della fame e delle molte sofferenze, avevano completamente perso il senso della propria dignità ed erano pronte a gettarsi ai piedi della guardia per raccogliere quel po' di margarina ancora disponibile. Si formava così un groviglio umano ai piedi del tedesco, che godeva alla vista di questo spettacolo.
   Nel blocco 62 c'era una persona anziana che aveva mantenuto uno sguardo e un comportamento altero: quest'uomo non mancava mai di aiutare gli altri, aveva sempre una buona parola per tutti e spesso distribuiva ad altri anche parte del cibo che sarebbe toccato a lui: aveva insomma mantenuto una dignità che non lo avrebbe mai portato a gettarsi ai piedi del tedesco per conquistarsi un pezzetto di margarina. Ma un giorno accadde inaspettatamente che, dopo la fine della distribuzione del pane, del the e della margarina, quando come era solito fare, il tedesco prese i pezzetti di margarina solida ancora rimasti, l'anziano si gettò sulla margarina e rimase disteso per terra finché non si fu assicurato che la margarina che era riuscito a raccogliere era al sicuro. Anche il vecchio aveva ceduto, era crollato di fronte a una realtà disumanizzante. Anche lui aveva venduto la propria dignità per un po' di margarina.
   Il vecchio si alzò lentamente e gli altri ebrei, mossi a pietà gli consegnano i propri pezzi di margarina. Ciò che meravigliò gli astanti fu il fatto che il vecchio li accettò.
   Poi rifugiatosi in un angolo, aspettò che il tedesco uscisse. La gente intanto aveva notato con meraviglia che teneva la margarina solida vicino al bicchiere di the caldo, così che la margarina cominciava a sciogliersi.
   Sembrò impazzito, tirava con forza i bottoni della sua vecchia divisa di internato e li strappava via. Anche lui a Buchenwald aveva ceduto alle lusinghe della pazzia, avevano convenuto gli altri internati. Con gesti convulsi prese a sfilare alcuni fili dai lembi del vestito. Il vecchio si alzò in piedi, aveva in mano i bottoni, i fili e la margarina liquida e gridò ai 400 internati del blocco 62 di Buchenwald: "Ebrei, oggi è Chanukkà!"
   Dopo cinque anni e mezzo di terrore, quel vecchio senza calendario ebraico, senza radio, senza alcun collegamento con l'esterno, era riuscito a tenere i conti, non aveva perduto la nozione del tempo ed era riuscito a stabilire la data di Chanukkà. Sapeva con precisione quando sarebbe caduto Chanukkà e in quale giorno della festa si trovavano: aspettava solo il giorno della distribuzione della margarina.
   Prese i bottoni e li mise per terra, poi prese i fili e li infilò nei bottoni, versando un po'di margarina sui bottoni. Ecco… adesso aveva tutto ciò che gli era necessario per accendere i lumi della festa di Chanukkà.
   Una persona arrotolò un pezzo di carta e, dopo essersi arrampicata sulle spalle di un altro internato, lo accese usando il fuoco della lampada a nafta che illuminava debolmente il blocco. Poi lo consegnò al vecchio che, in piedi, in mezzo ai 400 internati accese i lumi recitando le benedizioni di rito:
  1. Benedetto Tu o Signore che ci hai ordinato di accendere i lumi di Chanukkà
  2. Benedetto Tu o Signore che hai fatto miracoli ai nostri padri in quei giorni in questo tempo
  3. Benedetto Tu o Signore che ci hai mantenuto in vita fino a questo momento
Fu allora che tutti i prigionieri cominciarono a cantare dapprima a bassa voce ma poi sempre con maggior forza Maoz zur jeshu'ati. Mentre il canto dei 400 internati si faceva sempre più forte, nel blocco 62 del campo di concentramento di Buchenwald la porta di blocco viene aperta con violenza e al kapò e alla guardia tedesca delle SS che erano di guardia al blocco si presentò uno spettacolo incredibile: quattrocento internati per un momento avevano conquistato la loro libertà, come al tempo dei Maccabei: cinque anni e mezzo di terrore avevano fiaccato il cuore, ma non il loto spirito.
   Il bambino non aveva certo potuto dimenticare quel momento in cui la luce e il canto di Chanukkà avevano illuminato il Blocco 62 del campo di concentramento di Buchenwald.

 Traduzione e adattamento di Scialom Bahbout da un racconto orale, riportato in forma diversa anche in Sefer pardès chanukkà di A. P. Roszenwasser, Gerusalemme 5750, p. 329.

(Progetto Dreyfus, 9 dicembre 2018)



«Accoglietevi gli uni gli altri»

Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, affinché d'un solo animo e d'una stessa bocca glorifichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo ha accolto voi per la gloria di Dio. Infatti io dico che Cristo è diventato servitore dei circoncisi a dimostrazione della veracità di Dio per confermare le promesse fatte ai padri; mentre i Gentili glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti celebrerò tra le nazioni e canterò lodi al tuo nome». E ancora: «Rallegratevi, o nazioni, con il suo popolo». E altrove: «Nazioni, lodate tutte il Signore; tutti i popoli lo celebrino». Di nuovo Isaia dice: «Spunterà una radice di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni; in lui spereranno le nazioni». Or il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza, per la potenza dello Spirito Santo.

Dalla lettera dell’apostolo Paolo ai Romani, cap. 15

 


Israele: scoperto un terzo tunnel di Hezbollah

L'esercito israeliano ha annunciato questo pomeriggio di aver scoperto un terzo tunnel di attacco di Hezbollah che dal Libano del sud si infiltra in territorio dello stato ebraico. Ora - ha spiegato il portavoce militare - "si trova sotto il controllo delle forze armate israeliane e non costituisce una imminente minaccia". L'esercito - che non reso noto dove il tunnel si trovi - ha anche aggiunto di aver "posto cariche esplosive nella galleria sotterranea e che l'ingresso dal lato libanese è pericoloso". "Il governo libanese - ha sottolineato - è responsabile per ogni tunnel scavato nel paese e questa è una grave violazione della Risoluzione Onu 1701 e della sovranità israeliana". Sempre questo pomeriggio l'esercito ha reso noto di aver individuato, mentre stava operando in un enclave del territorio israeliano, "tre sospetti, probabilmente attivisti Hezbollah, che sotto copertura del tempo stavano tentando di avvicinarsi all'area degli scavi".

(ANSAmed, 8 dicembre 2018)


Confagricoltura firma protocollo d'intesa con Israele

CATANZARO - «Nel 2019 Confagricoltura celebrerà i 70 anni dalla costituzione, si tratta di un avvenimento importante e per il quale è previsto un lungo elenco di iniziative». È quanto comunicano Confagricoltura Calabria e il suo presidente, Alberto Statti, per il quale «i settant'anni della nostra organizzazione di rappresentanza costituiscono il punto di arrivo di un lungo percorso che ci ha visto impegnati al fianco di quelle imprese agricole capaci di rendere il nostro sistema agroalimentare un asset determinante e strategico per i destini dell'Italia». Per Statti, «le celebrazioni costituiranno il punto di partenza per un impegno che sarà, certamente, ancora più forte, determinato ed all'insegna di quelle parole d'ordine che caratterizzano Confagricoltura. Mi riferisco all'innovazione, all'internazionalizzazione, alla capacità di quelle imprese agricole che producono cibo, tutelano l'identità, promuovono e veicolano il territorio, garantiscono reddito ed occupazione, forniscono un numero di servizi in costante crescita». Al riguardo, spiega Statti, significativa è «la firma - alla presenza del Ministro dell'Agricoltura Gian Marco Centinaio, di un protocollo d'intesa con l'Ambasciata d'Israele in Italia all'insegna della ricerca scientifica e dell'innovazione tecnologica. Confagricoltura Calabria ha partecipato con convinzione anche perché per la nostra regione i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo sono e saranno sempre di più un punto di riferimento a cui guardare in termini di mercato, competizione, tecniche produttive, strategie di crescita. Israele, in particolare, è considerata come uno dei Paesi più avanzati le tecniche introdotte nell'agricoltura, pensiamo ad esempio alla ricerca ed ai risultati ottenuti nello sfruttamento e nel razionale utilizzo delle acque per l'irrigazione, nell'allevamento, nello sviluppo e nella produzione di sementi, nell'agro-tecnologia, nell'ingegneria meccanica, nell'agricoltura di precisione. D'altro canto, conclude Statti, si tratta di un Paese che vanta un centro di ricerca applicata nel settore agricolo e delle scienze ambientali che è uno dei più rinomati al mondo».
   Il protocollo d'intesa, firmato dal Presidente Nazionale Massimiliano Giansanti e dall'Ambasciatore d'Israele Ofer Sachs, comunica Statti, «prevede di promuovere l'informazione e la formazione degli imprenditori agricoli associati a Confagricoltura sui moderni risultati della ricerca realizzata in Israele per il settore agricolo. Come federazione regionale saremo in prima linea nel valorizzare e cogliere tutte le opportunità di questo accordo perché sono molte le affinità e le difficoltà territoriali e produttive che ci avvicinano ad Israele»

(Corriere della Calabria, 8 dicembre 2018)


Team israeliani interessati a Maurizio Patti, storico manager del Calcio Catania

Maurizio Patti, storico team manager del Calcio Catania - sotto contratto dal 1996 al 2016 con tre promozioni sotto le presidenze Massimino, Gaucci e Pulvirenti - è impegnato da qualche mese sul territorio israeliano.

Maurizio Patti, storico team manager del Calcio Catania - sotto contratto dal 1996 al 2016 con 3 promozioni sotto le presidenze Massimino, Gaucci e Pulvirenti - è impegnato da qualche mese sul territorio israeliano in progetti di sviluppo e crescita legati a scuole calcio locali.
La notizia è stata pubblicata, qualche settimana fa, da uno dei maggiori magazine sportivi che ha annunciato il suo arrivo in Israele.
Si tratta di progetti in collaborazione con onlus impegnate attivamente per l'integrazione socioculturale. L'articolo specifica che vari team israeliani sono ora interessati a un suo coinvolgimento e Patti, che ha sia il titolo di direttore sportivo che quello di allenatore UEFA B , sta vagliando tutte le opportunità, concentrandosi anche sulla possibilità di incrementare gli scambi con squadre italiane e la logistica di ritiri e amichevoli.

(Catania Today, 8 dicembre 2018)


Azioni al confine, Beirut teme l'invasione israeliana

di Giordano Stabile

Unifil conferma l'esistenza dei tunnel di Hezbollah ma il Libano teme che l'operazione israeliana per distruggerli sia soltanto un pretesto per una invasione e si appella all'Onu. Il controllo dell'area di confine è affidato alla missione delle Nazioni Unite, che ha appena compiuto quarant'anni. Il suo compito è far rispettare la risoluzione 1701, approvata nel 2006 dopo la guerra "dei 33 giorni" e quindi impedire fra l'altro che la milizia Hezbollah sia attiva nella fascia cuscinetto lungo la frontiera. Il tunnel scoperto e distrutto martedì è per lo Stato ebraico "una grave violazione" e una squadra dell'Unifil, guidata dal comandante della missione, il generale italiano Stefano del Col, è andata a verificare. L'ispezione ha confermato l'esistenza del tunnel con ingresso nel villaggio di Kfar Kila. L 'Unifil a questo punto "informerà le autorità libanesi" e si impegnerà "con tutte le parti" per decidere le "azioni da intraprendere".

 I tunnel di Hezbollah
  L'obiettivo dell'Onu è disinnescare le tensioni ed evitare una guerra aperta, ma la conferma dell'esistenza del tunnel è un punto a favore di Israele, che è tornato a minacciare "azioni anche in territorio libanese" se il governo di Beirut non prenderà provvedimenti per bloccare Hezbollah. La reazione del Partito di Dio, colto in fallo, è stata finora pacata. Il leader Hassan Nasrallah ha replicato che si tratta solo di "una guerra di propaganda" da parte degli israeliani ma l'incidente sta facendo traballare gli equilibri già precari a Beirut. Da sei mesi, dopo le elezioni di maggio, il premier sunnita Saad Hariri non riesce a formare un nuovo esecutivo per le tensioni fra partiti pro-Iran e anti-Iran. Nel vuoto di potere ha preso l'iniziativa il ministero degli Esteri, in mano a Gebran Bassil, genero del presidente Michel Aoun ed esponente del fronte cristiano filoiraniano. Si è rivolto al Consiglio di Sicurezza per denunciare le "attività israeliane" al confine, "preludio di un attacco contro il Libano". Israele potrebbe così dover affrontare un battaglia al Palazzo di Vetro. La risoluzione di condanna del movimento islamista palestinese, per i lanci di razzi sulle città israeliane, è stata bocciata l'altra notte all'Assemblea generale, in quanto non ha raggiunto i due terzi dei sì. Il testo ha ottenuto 87 voti favorevoli, 57 contrari, e 33 astensioni. Anche se non è passata, ha però sottolineato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, per la prima volta "c'è stata all'Onu una maggioranza contro Hamas". Per l'ambasciatrice americana Nikki Haley è stato anche l'ultimo voto. Sarà sostituita dall'attuale portavoce della Segreteria di Stato, Heather Nauert.

(La Stampa, 8 dicembre 2018)


Telefonata tra Putin e Netanyahu su iniziativa israeliana

Il presidente russo Vladimir Putin ha avuto una conversazione telefonica con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, segnala l'ufficio stampa del Cremlino.
"Su iniziativa della parte israeliana, c'è stata una conversazione telefonica tra il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin e il primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu", si legge nel comunicato.
Secondo quanto riferito dall'ufficio stampa del Cremlino, Netanyahu ha esposto i dettagli dell'operazione condotta dalle forze armate israeliane lungo il confine tra Israele e Libano. La parte russa ha rilevato l'importanza di garantire la stabilità in questa area nel rispetto rigoroso della risoluzione ? 1701 del Consiglio di Sicurezza e con il ruolo di coordinamento delle forze temporanee delle Nazioni Unite in Libano.
Durante la conversazione Putin ha rilevato la necessità di migliorare la cooperazione russo-israeliana in ambito militare.
"In merito è stata sottolineata la rilevanza del contatto imminente tra gli esperti dei ministeri della Difesa nell'ambito della task force congiunta", si aggiunge nel comunicato.
Inoltre le parti hanno concordato di lavorare per l'organizzazione del prossimo incontro tra i leader dei due Paesi.

(Sputnik Italia, 8 dicembre 2018)



Una guida sull'ebraismo per i poliziotti

di Massimo Montebove

All'indomani della dichiarazione sull'antisemitismo, approvata il 6 dicembre dal Consiglio dell'Unione Europea, che impegna gli Stati membri, la Commissione europea e l'Europol a prendere opportune iniziative per garantire ai cittadini, alle comunità e alle istituzioni ebraiche del Vecchio Continente la necessaria sicurezza, è stata presentata a Roma la "Guida all'ebraismo per gli operatori di polizia", un interessante vademecum realizzato dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con l'Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori (O.S.C.A.D.) della Direzione Centrale della Polizia Criminale, guidati dal prefetto Nicolò D'Angelo.
   Si tratta di un vademecum che ha obiettivo di fornire ai poliziotti uno strumento conoscitivo utile nei casi di intervento per reati commessi nei confronti di persone di religione ebraica o di beni a loro riconducibili. La guida, ad esempio, sottolinea l'importanza dello Shabbàt, e ricorda ai lavoratori in divisa che le situazioni e i reati che non richiedono un intervento d'emergenza non vengono denunciati finché non siano passati il sabato ebraico o festività come Rosh Hashanà (capodanno ebraico) o Yom Kippùr (giorno dell'espiazione).
   Gli agenti devono anche sapere che, durante le festività, gli ebrei osservanti non possono firmare dichiarazioni scritte, utilizzare il telefono, il computer o altri mezzi di comunicazione. Agli operatori delle forze dell'ordine viene pure ricordato che durante tutte le varie festività ebraiche le sinagoghe tendono a essere particolarmente affollate, con la conseguente necessità di implementare i servizi di prevenzione e vigilanza. Particolari prescrizioni sono fornite anche per l'ingresso di poliziotti e carabinieri in una sinagoga così come si suggerisce di mettere a disposizione di fermati e arrestati che sono ebrei osservanti pasti kashèr.
   Il vademecum, che contiene tante notizie utili e interessanti sulle tradizioni ebraiche che le forze dell'ordine devono conoscere, fornisce un elenco di contatti utili e una sintesi completa della normativa penale di specifico interesse. Questa pubblicazione ha, insomma, l'obiettivo di facilitare la conoscenza di elementi e l'interpretazione di alcuni fatti che, riferiti all'ebraismo, possono costituire segnali di crimini d'odio previsti e puniti dalla legislazione italiana. Fino ad oggi stati formati circa 11.000 operatori. Un numero destinato presto a crescere.
la Guida

(L'HuffPost, 8 dicembre 2018)



Il dramma degli ebrei italiani vittime della Libia

Nel lontano 1967 la Guerra dei Sei giorni scatena una repressione. Daniela Dawan, allora 11enne, ne è vittima con la famiglia: nel romanzo "Qual è la via del vento" rivive la tragedia.

di Riccardo Michelucci

Nel giugno 1967 la Guerra dei Sei giorni scatena una terribile ondata di violenze contro gli ebrei italiani residenti in Libia. Case e negozi bruciati, beni confiscati, sinagoghe e cimiteri profanati. Chi viene trovato in strada finisce ammazzato senza pietà. Sono giorni di terrore, rabbia e incredulità. Solo alcune settimane più tardi circa cinquantamila membri della comunità di Tripoli riescono a fuggire partendo per Roma con un ponte aereo. Gran parte di loro proseguirà alla volta di Israele o degli Stati Uniti, altri si fermeranno per sempre in Italia, cominciando una nuova vita. Daniela Dawan aveva appena dieci anni quando visse in prima persona quei tragici giorni. La sua famiglia fu costretta come tante altre a lasciare precipitosamente quello che considerava il proprio paese, aprendo un vuoto doloroso e incolmabile con il passato. Nel bel romanzo Qual è la via del vento (edizioni e/o), Dawan li evoca quei drammatici fatti che coinvolsero migliaia di ebrei italiani raccontando una vicenda in parte autobiografica. La storia - liberamente ispirata alla sua infanzia - è quella di Micol Cohen, una bambina ebrea che vive a Tripoli con il padre e la madre, Ruben e Virginia.
   Personaggi tratteggiati con garbo e senza retorica all'interno di un quadro familiare segnato dalla morte misteriosa di una sorella che Micol non ha mai conosciuto. Quando si scatena la violenza nelle strade anche i Cohen sono costretti a nascondersi nell'appartamento dei nonni materni della piccola, Ghigo e Vera Asti, in attesa di fuggire grazie all'aiuto di un amico arabo che fornirà loro i visti per l'espatrio. Due anni più tardi, nel 1969, il colpo di Stato del Colonnello Gheddafi e la cacciata di re Idris fanno perdere agli ebrei ogni residua speranza: tornare a casa è ormai impossibile. Fra i primi provvedimenti del nuovo regime c'è l'ordine di esproprio dei beni degli italiani, spariscono conti correnti, immobili, terreni, finché dell'antica comunità ebraica della Libia non resterà più alcuna traccia. La drammatica fuga della famiglia Cohen chiude la prima parte del libro, che ricostruisce accuratamente i fatti e il clima politico della Libia di quegli anni. La trama del romanzo riprende poi molti anni dopo, raccontando le conseguenze di quello sradicamento. «Ci sono due generi di uomini - scrive Dawan -, quelli che piantano più solide radici altrove e quelli che invece, anche senza averne consapevolezza, si disgregano». Ruben, il padre di Micol, appartiene alla seconda categoria e in Italia non riuscirà mai a costruirsi una nuova vita. Sarà invece Micol, ormai diventata un avvocato di successo, a tornare a Tripoli nel 2004 insieme a un gruppo di vecchi esuli ebrei.

(Avvenire, 8 dicembre 2018)


A Gerusalemme arriva il genio di Maimonide

In mostra scritti originali maggiore autore ebreo del medioevo

 
Il museo d'Israele a Gerusalemme
Maimonide, il grande filosofo, scienziato e religioso ebreo del XII secolo, sarà il protagonista assoluto di una mega rassegna che si apre il prossimo 11 dicembre (fino ad aprile) al Museo di Israele a Gerusalemme, con prestiti dalla Libreria Apostolica del Vaticano, dalla British Library di Londra, dal Metropolitan Museum di New York e da altre importanti istituzioni culturali.
   Intitolata 'Maimonide: un'eredità negli scritti', la rassegna esporrà una summa delle opere dell'autore considerato uno dei più prolifici e influenti intellettuali del suo tempo e nella storia ebraica. Nato in Spagna, la vita e l'attività di Maimonide si sono incentrate soprattutto in Medio Oriente, senza dimenticare l'Italia e la Francia, ma hanno raggiunto gli angoli più lontani del mondo medievale. L'approccio di Maimonide è stato quello di unire studi generali e Torah - centro spirituale dell'ebraismo - in modo da rendere la Legge ebraica accessibile a tutti: il suo incoraggiamento alla moderazione in tutti gli aspetti della vita, le sue linee guida sulla nutrizione e sulla medicina preventiva - hanno sottolineato gli organizzatori della rassegna - sono ancora "studiate e interpretate in diverse accademie e circoli popolari", così come i suoi scritti originali "sono apprezzati da importanti istituzioni nel mondo".
   Una rassegna - è stato spiegato ancora - che intende gettare nuova luce "sul genio di Maimonide e la sua sfaccettata personalità con l'obiettivo di offrire una maggiore comprensione della sua eredità attraverso gli scritti originali". In mostra, tra le altre carte, la versione originale, con correzioni, della Mishneh Torah, il suo codice della legge religiosa ebraica con la sua firma autografa e la sua scrittura. All'inaugurazione della rassegna, il 10 dicembre sera, parteciperanno l'Arcivescovo José Tolentino de Mendona, Archivista e Bibliotecario di Santa Chiesa Romana, e l'ambasciatore spagnolo in Israele Manuel Gómez-Acebo oltre che il rabbino capo di Israele Yitzhak Yosef.

(ANSAmed, 7 dicembre 2018)


L'Ebraismo in Calabria, percorsi di identità al liceo di Soriano Calabro

La manifestazione, voluta dalla dirigente scolastica Licia Bevilacqua, ha permesso di riscoprire i simboli del mondo ebraico.

"Un tema da sviluppare proposto dal club Unesco di Vibo Valentia "L'Ebraismo in Calabria: percorsi di identità" inserito nell'ambito dei un progetto più ampio dal titolo "La danza del fuoco: processi di integrazione e inclusione dei popoli attraverso il cibo, l'arte, la musica". Gli studenti del triennio del Liceo Scientifico di Soriano Calabro, diretto dalla prof.ssa Licia Bevilacqua, sempre pronti ad accogliere le proposte didattiche provenienti da ambienti ebraici anche grazie alla presenza del dott. Roque Pugliese, consigliere per la Comunità Ebraica di Napoli e referente per la Regione Calabria, hanno accettato l'invito a contestualizzare il tema proposto riflettendo sulle radici ebraiche del nostro territorio attraverso un viaggio culturale tra Filosofia e Storia.
Partendo dall'episodio proustiano della possibilità di recupero della memoria semplicemente davanti ad un tè con una madeleine o dai suggerimenti del libro La mela di Kant dove l'etica trascendentale diventa esperienza reale attraverso la memoria, gli studenti hanno condotto ricerche sull'eredità ebraica inconsapevolmente vissuta nella nostra quotidianità.
Così l'arte, la musica e il cibo hanno offerto loro la consapevolezza che iconografie della pittura, dell'architettura e della scultura sono piene di simboli del mondo ebraico, che la musica popolare tramandata oralmente presenta testi della migliore tradizione della Pesach (pasqua ebraica), che il mostacciolo di Soriano ha gli stessi ingredienti e il principio delle forme tipico dei dolci della festività ebraica di Purim.
A sostenere le tesi degli studenti sono stati i contributi dei relatori al parterre: Don Bruno Cannatelli da una prospettiva religiosa ha illustrato il cammino di fratellanza intrapreso dopo il Concilio Vaticano II fra cattolici ed ebrei; la sociologa Annamaria Vitale ha ripercorso, attraverso iconografie di tutti i tempi, il cammino semantico degli agrumi nella cultura e nella tradizione fino all'importanza dei cedri di Calabria, scelti per primi nella selezione mondiale dai rabbini di tutto il mondo per la festività ebraica di sukkot.
A chiudere i lavori, l'intervento del rabbino capo di Trieste, rav Umberto Avraham Piperno che, raccogliendo i suggerimenti degli intervenuti, ha esposto un ricco excursus sul recupero dell'identità comune attraverso l'olio, il pane e il vino, tre alimenti comunissimi che racchiudono orizzonti di senso teologico, antropologico, sociale e culturale. Il tutto in un linguaggio di comunicazione avvincente.

(zoom24.it, 7 dicembre 2018)


L’Arabia Saudita condanna il lancio di razzi da Gaza su Israele

L'Arabia Saudita ha condannato oggi il lancio di razzi dalla Striscia palestinese di Gaza, controllata da Hamas, sul territorio israeliano. Lo ha fatto con un intervento del suo rappresentante permanente alle Nazioni Unite, Abdullah bin Yehia al Muallimi come riportano media arabi. Parlando stamane al Palazzo di Vetro, al Muallimi ha condannato "il lancio di granate con propulsione a razzo da Gaza verso zone civili israeliane" ed ha sottolineato "la necessità di realizzare una pace permanente e globale in Medio Oriente secondo l'iniziativa di pace araba", lanciata nel 2002 al summit della Lega Araba tenuta a Beirut capitale del Libano, come riporta stamane il quotidiano al Quds al Arabi. La storica condanna di Riad arriva subito dopo il voto contrario dell'Arabia saudita in seno al Consiglio di Sicurezza dell'Onu ad un bozza di risoluzione americana che condannava proprio Hamas. Proposta che, tra l'altro, non ha ottenuto i voti necessari per essere adottata.

(Shalom, 7 dicembre 2018)


Novembre positivo per Israele: + 14% di arrivi

Prosegue il trend positivo del turismo in Israele. Secondo i più recenti dati rilasciati dal Ministero del Turismo, infatti, il Paese ha accolto nel solo mese di novembre 388.500 visitatori globali, in crescita del 9% rispetto al novembre 2017. Nel complesso, i turisti in Israele da inizio anno sono stati 3.787.800 (+14% rispetto all'anno precedente). Particolarmente positiva la performance dell'Italia, che a novembre ha segnato un incremento degli arrivi a doppia cifra, pari al +38%, per un totale di 15.400 visitatori. Nei primi 11 mesi dell'anno hanno visitato Israele 130.100 italiani (+39%). Con questi risultati, l'Italia rappresenta il 4o paese europeo per numero di arrivi in Israele, dopo Francia, Germania e Regno Unito, e uno dei mercati mondiali con il più alto tasso di crescita.

(Turismo & Attualità, 7 dicembre 2018)


Basket, a Istanbul evocata Auschwitz. Adesivi antisemiti nell'hotel del Maccabi

di Michele Gazzetti

 
Inqualificabile episodio di antisemitismo alla vigilia della gara di Eurolega tra Darussafaka e Maccabi Tel Aviv. Nel loro hotel di Istanbul i giocatori della squadra israeliana hanno trovato un cartello con la scritta «Arbeit macht frei» (il lavoro rende liberi), il motto che campeggiava all'ingresso di Auschwitz e di altri campi di concentramento nazisti. L'episodio è stato denunciato su Twitter da Jake Cohen, 28enne lungo statunitense naturalizzato israeliano. «È molto curioso che questo cartello sia affisso nel nostro hotel» ha scritto il giocatore che ha aggiunto anche un hashtag eloquente, #WeRemember, noi ricordiamo. Immediata anche la reazione del Maccabi: «Prendiamo in seria considerazione quello che è successo, non ci deve essere spazio per cose simili». Purtroppo non è il primo caso di antisemitismo nel mondo del basket: il 7 marzo 1979 durante la partita di Coppa Campioni tra Emerson Varese e Maccabi sulle tribune comparvero delle croci. Nel 2014 le comunità ebraiche spagnole denunciarono migliaia di messaggi antisemiti sui social dopo la vittoria del Maccabi sul Real in finale di Eurolega. Il Maccabi ieri ha battuto il Darussafaka per 73- 71: magra consolazione.

(Corriere della Sera, 7 dicembre 2018)


Onu, non passa la risoluzione che accusa Hamas di terrorismo

Diverse ong impegnate nella lotta all'antisemitismo hanno criticato l'Onu per non avere preso ufficialmente posizione contro l'attività terroristica promossa dalle autorità di Gaza.

di Gerry Freda

L'Assemblea generale delle Nazioni Unite si è in questi giorni rifiutata di definire "attività terroristica" il lancio di razzi effettuato periodicamente da Hamas contro il territorio israeliano.
Finora, l'organo collegiale Onu non ha mai adottato risoluzioni dirette a denunciare i crimini perpetrati dagli estremisti palestinesi, mentre, per contro, ha più volte condannato lo Stato ebraico per "gravi violazioni dei diritti umani".
   La risoluzione intesa a classificare come "terrorismo" i reiterati bombardamenti decisi dalle autorità di Gaza ai danni dei villaggi del Sud di Israele era stata proposta dalla delegazione americana. Il documento redatto da quest'ultima recitava: "Le Nazioni Unite condannano l'attività terroristica promossa da Hamas e dall'Islamic Jihad Movement in Palestine, consistente nel colpire ripetutamente con razzi e proiettili da mortaio le comunità israeliane situate al confine con la Striscia di Gaza. L'Assemblea generale esorta quindi tali organizzazioni a cessare ogni azione violenta e ogni provocazione nei riguardi della popolazione e delle autorità dello Stato ebraico." Tale progetto di risoluzione non ha però ottenuto l'approvazione dei due terzi dei componenti dell'organo collegiale.
   Soltanto 87 Paesi su 193 hanno infatti votato a favore della bozza promossa dagli Usa, mentre 57 delegazioni si sono dichiarate contrarie a bollare come "attività terroristica" la strategia propugnata finora da Hamas e dall'Islamic Jihad Movement in Palestine. 49 Stati hanno invece preferito astenersi. I principali oppositori della risoluzione di condanna sono stati i rappresentanti delle nazioni islamiche. Ad esempio, la delegazione iraniana in Assemblea generale ha giustificato il proprio voto contrario denunciando la "faziosità" del documento e accusando gli Stati Uniti di volere "distogliere l'attenzione" dell'Onu dai "ben più gravi crimini attribuibili a Israele". Anche l'ambasciatore saudita al Palazzo di Vetro ha criticato l'iniziativa statunitense, bollandola come un'"irritante provocazione".
   L'ennesima mancata condanna Onu nei confronti della strategia anti-israeliana promossa dalle autorità di Gaza ha subito provocato l'indignata reazione di Nikki Haley, capo-delegazione Usa all'Assemblea generale: "Le Nazioni Unite hanno oggi dato prova di doppiopesismo e di ipocrisia. Se la risoluzione da noi proposta, invece che contro Hamas, fosse stata rivolta contro Israele, allora in Assemblea generale si sarebbe subito creata una maggioranza amplissima. Tale organo non ha mai contestato agli estremisti palestinesi i loro crimini ai danni dei civili israeliani. Abbiamo provato a mettere fine a questa prassi vergognosa, ma i pregiudizi verso lo Stato ebraico sono ormai profondamente radicati nell'ambiente Onu."
   Il rifiuto dell'Assemblea generale di condannare i crimini di Hamas è stato duramente biasimato anche da diverse ong impegnate nella lotta all'antisemitismo. Ad esempio, Anne Bayefsky, presidente dell'associazione Human Rights Voices, ha tuonato: "È raccapricciante il fatto che l'Onu continui a non prendere posizione contro organizzazioni intenzionate a distruggere Israele e ad attuare il genocidio di milioni di ebrei. Non c'è più alcun dubbio. Il Palazzo di Vetro è divenuto il quartier generale dell'antisemitismo contemporaneo."

(il Giornale, 7 dicembre 2018)


Addio a Joffo, la "Israele in Africa, svolta storica"

A colloquio con Belaynesh Zevadia, che ha da poco concluso uno storico mandato di ambasciatrice in Etiopia.

di Adam Smulevich

Nata nel 1967 a Condar In Etiopia, emigrata 17enne in Israele. Belaynesh Zevadia è stata ambasciatrice dello Stato ebraico nel suo paese di origine, un incarico che ha aperto la strada a collaborazlonl impensablll fino a poco tempo fa tra Israele e alcuni governi africani.
Terminato da poco l'incarico, Zevadia lavora oggi al Ministero degli Affari Esteri occupandosi di temi affini. Laureatasi all'Università ebraica di Gerusalemme, un master in Antropologia, ha iniziato a lavorare nel mondo diplomatico nel 1993. Da allora ha ricoperto diversi Incarichi In rappresentanze estere. Nel 2012 la nomina ad ambasciatrice ad Addis Abeba.
Alcuni pregiudizi sono ancora lontani dall'essere smontati: lo spiega efficacemente la sitcom israeliana di successo Nevsu ideata da Yosi Vasa e dal regista Shai Ben Atar con al centro il matrimonio tra un uomo etiope (Vasa) e una donna ashkenazita. Piccoli e grandi problemi raccontati in una chiave ironica di tale potenza narrativa da far ottenere alla produzione, appena poche settimane fa, l'International Emmy Award nella categoria Best comedy series. Reciproche incomprensioni e diffidenze dure a morire, ma anche qualche traguardo da vantare nel quadro di uno scenario che appare comunque fluido. Come spiega in questa intervista una figura che ha molto da raccontare in questo senso: Belaynesh Zevadia, che ha da poco concluso la sua missione di ambasciatrice dello Stato ebraico in Etiopia, il paese in cui è nata e che ha lasciato adolescente per Israele. Oggi, all'interno del Ministero degli Affari Esteri, si occupa di temi strategici legati alle relazioni tra Israele e gli Stati africani. Anche in questo caso un quadro in costante sviluppo, come dimostrano i rapporti diplomatici sempre più stretti tra Israele e molti di loro.
La raggiungiamo al termine di un evento del Keren Hayesod a Roma in cui è stata invitata a portare una testimonianza.

- A metà novembre centinaia di ebrei etiopi sono scesi in piazza ad Addis Abeba, lamentando uno scarso impegno delle istituzioni israeliane nell'accoglierli nella patria che sognano di raggiungere attraverso l'Aliyah. Troppo pochi, contestano, i permessi di espatrio che sono loro concessi. Un'offerta che non corrisponde alle aspettative di questa antichissima comunità, che anche in Israele non di rado ha subito sulla propria pelle rifiuto e discriminazione. Cosa pensa della protesta?
  L'integrazione, come tutti i processi complessi, richiede talvolta un po' di pazienza. Ad oggi si stima che siano ancora 8mila gli ebrei residenti in Etiopia. Molti di loro vogliono venire in Israele e col tempo, e non sarà un arco così lungo, tutto ciò potrà senz'altro avverarsi. Per il 2019 il governo ha scelto di accoglierne 1000, comportandosi sul tema dei flussi migratori nel modo maturo cui è chiamato un paese democratico e progredito come il nostro. Gradualmente sarà possibile venire incontro alle esigenze di tutti.

- La comunità etiope in Israele gode oggi degli stessi diritti degli altri cittadini?
  Credo che quella attuale sia la generazione per cui questo processo, il processo della piena integrazione, si stia consolidando. Mi guardo intorno, guardo la mia stessa famiglia, e un po' come in Nevsu vedo che la realtà è questa. Siamo forti nella nostra tradizione e nelle nostre peculiarità. Non siamo né ashkenaziti, né sefarditi. Siamo ebrei etiopi, orgogliosi di essere depositari di una tradizione plurimillenaria carica di suggestioni e valori. In Etopia, in occasione della festa di Pesach, ci rivolgevamo l'un l'altro l'augurio "L’anno prossimo a Gerusalemme" che ha segnato la storia ebraica nel corso dei secoli. Oggi piangiamo lacrime di gioia dicendo al Signore e a noi stessi "Grazie a Dio siamo in Israele". Come molte altre comunità di questo paese sfaccettato e plurale teniamo le porte aperte all'incontro con culture diverse, con i tanti mondi e le tante anime provenienti dalla Diaspora. Per dire: una mia nipote è sposata a un israeliano di origine inglese. Un'altra a un israeliano di origine russa. Sono processi e incontri che naturalmente facilitano la conoscenza e il superamento di pregiudizi. Direi che siamo a buon punto.

- Il suo ruolo e la sua visibilità hanno aiutato?
  Sì, qualcosa di buono penso di averlo fatto. Sono la prima cittadina etiope che è tornata nel suo paese di origine nelle vesti di ambasciatrice. Sono stati anni indimenticabili, di duro lavoro e di grandi emozioni. Nel suo piccolo è stato un qualcosa di storico, come hanno riconosciuto le autorità sia israeliane che etiopi. Un sogno diventato realtà, che mi auguro possa essere di ispirazione anche per tante e tanti altri.

- Un lavoro che ha lasciato il segno?
  Forse non spetta a me dirlo, ma direi di sì. I rapporti tra i due paesi sono sensibilmente migliorati, anche grazie a un intenso sforzo diplomatico che ha avuto tra i suoi esiti la visita del Primo ministro Netanyahu in Etiopia. Gli ho chiesto io personalmente di prendere questa iniziativa, condividendo con lui un concetto: l'Etiopia è un paese importante, e per diverse ragioni. È innanzitutto un ingresso strategico in Africa, continente verso il quale il nostro Stato è chiamato a rivolgersi con sempre maggior slancio. L’Africa è il futuro e mi pare che ciò sia stato compreso in modo chiaro e trasversale. Non a caso il governo, le istituzioni, l'accademia e il mondo imprenditoriale stanno avviando iniziative e impegni significativi in questo senso.

- In che campi principalmente?
  Partiamo dai problemi storici del continente africano. La scarsità di risorse idriche, la povertà, le carenze sanitarie, il cambiamento climatico. Sono problemi che, come noto, in Africa hanno una portata drammatica. Israele, con il suo know how, con le sue altissime potenzialità creative e tecnologiche, ha molto da offrire. Ne abbiamo discusso in occasione di un recente incontro al Dipartimento africano del Ministero degli Esteri. In presenza di scenari critici, esistono soluzioni che possono migliorare la vita di milioni di cittadini. È un'opportunità da cogliere per tutti.

- I rapporti con molti paesi africani stanno avendo una svolta anche sul piano diplomatico?
  Sì, in modo davvero notevole. Basti pensare tra i vari esempi alla visita in Israele del presidente del Ciad, Idriss Deby. Qualcosa di impensabile fino a poco tempo fa. È un fatto che non può passare inosservato nell'ottica di una crescente normalizzazione dei rapporti che investe diversi paesi a maggioranza islamica. E questo naturalmente ha un suo peso e un suo significato nel breve come nel lungo termine. Per quanto riguarda l'Etiopia, che non è a maggioranza islamica ma che è vera e propria porta di accesso a un continente, cito un risultato tra i tanti di questo sforzo: l'esito di un certo tipo di approccio è stato che oggi il governo etiope ci sostiene nelle sedi internazionali dove spesso il nome di Israele è messo alla berlina e delegittimato. La speranza è che sempre più paesi, anche tra quelli islamici, scelgano questa strada di impegno e consapevolezza.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2018)


Shoah in un sacchetto di biglie

di Elena Loewenthal

Joseph Joffo è morto in quel Midi della Francia che l'aveva accolto bambino in fuga dai nazisti, in quella dolce Riviera che pure non aveva risparmiato tribolazioni né a lui né alla sua famiglia. Era nato a Parigi nel 1931 da una madre violinista e un padre barbiere, ebrei arrivati dalla Russia. Dopo la guerra, assieme ai fratelli, riprenderà con successo l'attività del padre, morto ad Auschwitz: «Ero il migliore parrucchiere di Parigi. Ricordo un giorno un incontro formidabile: Pierre Christian Taittinger, François Mitterrand, Jacques e Bernadette Chirac ... peccato non aver scattato la foto», ha raccontato di recente.
   A Joffo, scrittore sui generis, tutt'altro che un intellettuale puro, capace tuttavia di azzerare la distanza tra il narratore e chi legge con una sincerità e un'immediatezza davvero fuori del comune, si deve il libro che rappresenta il «prototipo» del racconto-testimonianza nell'abisso della Shoah: Un sacchetto di biglie (tradotto per Rizzoli) uscì nel lontano 1973, quando di Olocausto in Europa si parlava ancora poco o nulla. Da allora ha venduto circa venti milioni di copie in tutto il mondo, e ha visto diverse riduzioni cinematografiche.
   Con la spontaneità del bambino di poco più di dieci anni che lui era in quell'epoca tremenda, con la forza delle esperienze attraversate armato della strenua volontà di uscirne fuori vivo, Joseph Joffo racconta la fuga da Parigi occupata dai nazisti insieme col fratello maggiore, la discesa verso il Sud della Francia, gli spostamenti rischiosi, la clandestinità, l'arresto, i falsi certificati di battesimo che li salvano. Tutto comincia quando i membri della famiglia decidono che la scelta migliore per cavarsela è quella di disperdersi. E Un sacchetto di biglie è la cronaca terribile ma anche a suo modo divertente, e soprattutto terribilmente avvincente, di questa «diaspora» familiare.
   Joffo ha scritto tanto altro, dopo la guerra - soprattutto memorie - ma questa resta l'opera che lo identifica e ha avvicinato tantissimi lettori alla Shoah: Un sacchetto di biglie è un libro straordinariamente intergenerazionale, capace di appassionare tanto gli adulti quanto gli adolescenti e persino i più piccoli. Forse perché, malgrado la morte fosse in quegli anni presente ovunque, quella che Joffo racconta è una storia piena di vita.

(La Stampa, 7 dicembre 2018)


Ecco quali erano i piani di Hezbollah

I tunnel dovevano servire per isolare Metulla e prendermene in ostaggio gli abitanti, nel quadro di un attacco di sorpresa lungo tutta la frontiera fra Libano e Israele.

Il tunnel transfrontaliero di Hezbollah svelato martedì mattina dalle Forze di Difesa israeliane poco fuori Metulla doveva essere utilizzato dal gruppo terroristico filo-iraniano libanese per infiltrare miliziani dalla sua unità d'élite Radwan col compito di isolare il villaggio israeliano nell'estremo nord del paese tagliando la statale 90, unica arteria che la collega al resto del paese. Lo ha spiegato un alto ufficiale israeliano accompagnando un gruppo di giornalisti a pochi metri dallo sbocco del tunnel. I militari, ha detto l'ufficiale, hanno deciso di lanciare l'operazione Scudo Settentrionale per scoprire e distruggere i tunnel d'attacco di Hezbollah prima che diventassero operativi e ponessero una immediata e diretta minaccia giacché, ha detto, "i tunnel sono una cosa che non potevamo permetterci di affrontare solo dopo che fosse scoppiata una guerra". L'ufficiale ha affermato che l'elemento sorpresa è stato una componente importante dell'operazione, tanto che i miliziani di Hezbollah hanno continuato a lavorare nel tunnel vicino a Metulla praticamente fino al momento in cui le Forze di Difesa israeliane hanno pubblicamente annunciato l'inizio dell'operazione. I militari israeliani avevano anche posizionato una telecamera circa 25 metri all'interno del tunnel, collegata a una piccola carica per l'autodistruzione che è stata attivata quando due operativi di Hezbollah si sono avvicinati. Il filmato della detonazione che ha messo in fuga i due jihadisti è diventato il video virale del giorno....

(israele.net, 7 dicembre 2018)


Israele: via libera alla seconda tranche di aiuti del Qatar a Gaza

GERUSALEMME - Israele ha consentito che una seconda tranche di aiuti provenienti dal Qatar raggiunga la Striscia di Gaza. Lo ha riferito oggi [6 dic] un funzionario del governo israeliano, citato dal quotidiano "The Times of Israel". La "concessione" deriva dalla volontà di prevenire un deterioramento delle condizioni umanitarie nell'enclave palestinese. Secondo quanto riferito dal sito informativo del quotidiano "Yedioth Ahronoth", l'inviato del Qatar a Gaza dovrebbe giungere con 15 milioni di dollari per pagare i salari dei dipendenti civili di Hamas. Dopo la nuova ondata di proteste tra Gaza e lo Stato ebraico scoppiata lo scorso 30 marzo, Israele ha accettato che il Qatar fornisse in totale sostegno per 90 milioni di dollari per alleviare le condizioni economiche e sociale dell'enclave costiera.

(Agenzia Nova, 6 dicembre 2018)


Perché la crisi dei tunnel di Hezbollah riguarda anche l’Italia

di Gianni Vernetti

Israele ha lanciato l'operazione militare «Northern Shield» per distruggere i tunnel di Hezbollah che dal Sud del Libano penetrano nel suo territorio. È un'operazione di vitale importanza per Israele e per la sicurezza dei suoi cittadini in Galilea. Il primo tunnel scoperto univa il villaggio di Kafr Kelain Libano e Metulla, penetrando per oltre 40 metri all'interno del territorio israeliano. Una galleria che avrebbe permesso ai miliziani di Hezbollah di commettere attentati contro la popolazione civile. Tutto ciò è avvenuto a pochi metri dall'area in cui dal 2006 è dispiegato il contingente militare delle Nazioni Unite (Unifil), la cui componente italiana è rilevante in termini di uomini e di mezzi. Alcune immagini catturate dai droni mostrano i camion carichi di terreno estratto dai tunnel transitare a breve distanza dalle postazioni dell'Onu.
   Il rischio di un nuovo conflitto riguarda dunque da vicino l'Italia poiché l'attività terroristica di Hezbollah rappresenta una palese violazione della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dell’1 agosto del 2006.
   Quella risoluzione nacque grazie ad un contributo rilevante della diplomazia italiana: il 26 luglio di quell'anno si tenne alla Farnesina la Conferenza di Pace che pose le basi per la fine delle ostilità e per il dispiegamento della forza Unifil con mandato e regole d'ingaggio rafforzate.
Promossa dall'allora premier Romano Prodi e dal ministro degli Esteri Massimo D'Alema, la Conferenza vide la partecipazione, fra gli altri, di Kofi Annan e del Segretario di Stato Usa Condoleezza Rice. All'Italia fu attribuito un ruolo di primissimo piano nella missione Unifil, prima guidata dal generale Claudio Graziano e, a partire dal 7 agosto di quest'anno, dal generale Stefano Del Col.
   Con la scoperta dei tunnel e con il riarmo di Hezbollah, la situazione sul campo muta radicalmente e la natura della stessa missione Unifil va aggiornata. La crisi dei tunnel impone dunque a Roma di intervenire per ripristinare la credibilità dell'Unifil minata da Hezbollah. Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l'Italia deve pretendere un chiarimento sul ruolo della stessa Unifil che dovrebbe garantire il disarmo dell'area compresa fra il confine Libano/Israele (la Linea Blu) e il fiume Litani. Senza nuove regole d'ingaggio la missione rischia di perdere di significato e senza un vero disarmo di Hezbollah un nuovo conflitto è inevitabile.
   All'Unione europea, che ha inserito Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche, va richiesto un impegno più deciso per la stabilizzazione del Libano.
   Sul piano bilaterale, poi, è necessario un confronto con il governo del Libano per comprendere quanto sia credibile l'implementazione della Risoluzione 1701 che assegna un ruolo di primo piano all'esercito libanese, che ha fallito il compito di impedire il riarmo dei miliziani filo-iraniani. Infine, anche in seguito all'incontro di pochi giorni fa tra il premier Giuseppe Conte e Abu Mazen, è cruciale rafforzare il rapporto con lo Stato di Israele, Paese amico ed alleato.
   La sicurezza di Israele ci riguarda da vicino e l'Italia può offrire un contributo concreto migliorando l'efficacia della missione militare internazionale nel Sud del Libano. Anche di ciò dovrà discutere il prossimo 11 e 12 dicembre il vicepremier Matteo Salvini quando si recherà in visita a Gerusalemme per incontrare il premier Netanyahu.

(La Stampa, 6 dicembre 2018)


Mai visto prima: all'Onu si vota una risoluzione anti Hamas (proposta dagli Usa)

L'ambasciatrice americana Nikki Haley presenta una bozza che rompe la solita prospettiva sul "diritto alla resistenza". I governi europei tutti a favore.

di Daniele Raineri

 
Nikki Haley
NEW YORK - Oggi all'Assemblea generale delle Nazioni Unite è prevista la votazione di una risoluzione che per la prima volta in assoluto condanna il gruppo palestinese Hamas. L'iniziativa è partita dall'ambasciatrice americana all'Onu, Nikki Haley, che è in scadenza a gennaio perché ha deciso di abbandonare l'incarico ma prima è intenzionata a lasciare un segno sulla questione israelo-palestinese. "Gli Stati Uniti prendono il risultato di questa votazione molto seriamente - ha scritto la Haley in una lettera spedita lunedì agli altri ambasciatori -, questa risoluzione è stata disegnata con cura per rispondere a un problema specifico e riflette le consultazioni con molte parti interessate per assicurare che sia bilanciata. Per questo vi chiediamo non soltanto di votare a favore, ma anche di votare contro qualsiasi emendamento e contro ogni altro tentativo di indebolire l'adozione di questo testo". Tutti i 28 paesi dell'Unione europea hanno deciso di votare a favore della risoluzione, che non è vincolante (come la decina circa di risoluzioni contro Israele approvate dall'Onu quest'anno). L'approvazione dei governi europei è considerata essenziale per convincere la maggioranza dei 193 paesi.
   Il Foglio ha visto in anteprima il testo della bozza. Questi sono i primi tre punti: "L'Assemblea Generale
  1. Condanna Hamas per il lancio ripetuto di missili su Israele e per l'incitamento alla violenza, che mettono a rischio i civili;
  2. Chiede che Hamas e le altre forze militari, incluso il Jihad islamico palestinese, cessino tutte le azioni provocatorie e le attività violente, incluso il lancio di congegni incendiari;
  3. Condanna l'uso di risorse da parte di Hamas a Gaza per costruire infrastrutture militari, inclusi i tunnel per infiltrarsi dentro Israele e l'equipaggiamento per lanciare razzi contro aree civili, quando invece le stesse risorse potrebbero essere usate per rispondere alle necessità critiche della popolazione civile". Il lancio di congegni incendiari si riferisce agli aquiloni caricati con materiale infiammabile che Hamas usa per appiccare incendi nel territorio israeliano.
La risoluzione, come si è detto, non è vincolante, ma per la prima volta mette in discussione il fatto che tutte le operazioni di Hamas siano protette in modo automatico dal diritto alla "resistenza", spiega una fonte diplomatica al Foglio. Non ha conseguenze pratiche, ma ha un peso simbolico e cambia la prospettiva. Per questo il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, in questi giorni è impegnato in una contromanovra diplomatica e ha contattato ministri degli Esteri e figure influenti per bloccare la risoluzione americana. Haniyeh ha chiamato il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro degli Esteri del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman al Thani, e alcuni ufficiali di riferimento dei servizi segreti dell'Egitto (che spesso si occupano di mediare con il gruppo palestinese), secondo una dichiarazione pubblicata da Hamas sul proprio sito ufficiale. L'ambasciatore israeliano all'Onu due giorni fa si è detto convinto che la risoluzione passerà, mentre gli stati arabi sono intenzionati a chiedere che la soglia necessaria all'approvazione sia alzata, non più la maggioranza semplice ma più dei due terzi.
   L'ultimo scontro diretto tra Hamas e Israele risale al 12 novembre. Le forze speciali israeliane hanno tentato un raid dentro Gaza che è finito con la morte di sette uomini di Hamas, il gruppo ha risposto con il lancio di quasi 500 razzi contro le piccole città del sud di Israele, l'aviazione israeliana ha replicato con il bombardamento di circa settanta obiettivi. Entrambe le parti, tuttavia, non desiderano l'escalation militare-anche perché non porta ad alcuna soluzione definitiva, come dimostrano i conflitti passati finiti sempre in uno stallo disastroso. Il governo di Gerusalemme non vuole occupare il territorio di Gaza, Hamas può lanciare moltissimi razzi per molti giorni, ma non può prevalere.

(Il Foglio, 6 dicembre 2018)


Agricoltura, firmato protocollo tra Israele e Italia

L'Ambasciata d'Israele in Italia e Confagricoltura hanno firmato a Roma, a Palazzo della Valle, un protocollo d'intesa sulla ricerca scientifica e l'innovazione tecnologica. La storica firma è avvenuta proprio nell'anno in cui lo Stato ebraico e l'Organizzazione degli imprenditori agricoli festeggiano i loro 70 anni di vita.
Ambasciata e Confagricoltura intrattengono rapporti di collaborazione da oltre un decennio, rinvigoriti dalla collaborazione nell'ambito di Expo 2015, dalla partecipazione di Confagricoltura alle fiere dedicate al settore agricolo organizzate in Israele e la divulgazione di informazioni delle attività di reciproco interesse.
Il protocollo firmato è stato salutato con estremo entusiasmo dalle parti. L'Ambasciatore d'Israele Ofer Sachs ha affermato:
"Oggi Israele è considerata a livello mondiale come uno dei principali hub per ricerca e innovazione tecnologica. Parte di questo successo è merito delle pionieristiche tecniche introdotte nell'agricoltura. I sistemi produttivi di Italia e Israele sono altamente complementari e continuano a prospettare nuove sinergie per gli operatori del settore. La firma di protocolli d'intesa rappresenta un importante strumento di collaborazione per incrementare le già ottime relazioni tra i nostri Paesi".
Entusiasta anche il commento del presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti:
"In questi 70 anni sono cambiate davvero tante cose nel mondo e, quindi, anche nell'attività agricola. Confagricoltura è sicuramente sempre stata protagonista di questo cambiamento. Oggi cambiamento significa innovazione, precision farming, digitalizzazione. Ma anche internazionalizzazione, per apprendere nuove tecniche di coltivazione e per promuovere il made in Italy nel mondo, incentivando partenariati e collaborazioni con operatori di altri Paesi, come Israele".
Il protocollo salda il legame fra Israele e Italia e prevede di promuovere l'informazione e la formazione degli imprenditori agricoli associati a Confagricoltura sui grandi risultati raggiunti dalla ricerca israeliana per il settore agricolo in tema di agricoltura di precisione e gestione dell'acqua, nonché la realizzazione di eventi e progetti mirati; lo sviluppo di collaborazioni tra compagnie israeliane, Confagricoltura e le imprese associate.

(Progetto Dreyfus, 6 dicembre 2018)


Un popolo di tzaddiqim

di Alberto Sermoneta
Rabbino capo di Bologna

 
Cartolina di Chanukkah, fine del XIX secolo. Università ebraica di Gerusalemme
"Ve Josef hurad mitzraima - e Giuseppe scese in Egitto" (Bereshit 39; 1). La sofferenza del popolo ebraico inizia con la discesa di Josef in Egitto e tutto ciò che ne deriva da quel momento, nel corso dei secoli. Nonostante i vari pericoli della Golà, Josef, chiamato per questo "tzaddiq", non nasconde mai la sua reale condizione di ebreo "na'ar 'ivrì anokhi - sono un fanciullo ebreo", mettendo a repentaglio la sua vita, in mezzo ad una nazione pagana come quella egizia. La parashà di VaJeshev da poco letta cade sempre o quasi, in concomitanza della festa di Chanukkah, in quanto il comportamento di Josef in Egitto esprime tutto il legame con le tradizioni vissute dai nostri padri. Cosa ci ricorda realmente la festa di Chanukkah? O meglio: qual è la sua essenza, il suo profondo significato? Se pensiamo a Yom Kippur, facciamo riferimento alla teshuvà; Se pensiamo a Pesach, facciamo riferimento alla libertà; A Shavu'ot, la Torah; A Purim, il mantenimento fisico del nostro popolo. Il significato e l'essenza della festa di Chanukkah non sono altri che l'ebraicità. Se dovessimo dare un appellativo alla festa, la chiameremmo "zeman jahadutenu - il tempo della nostra ebraicità" L'essere ebrei, secondo ciò che per noi rappresenta Chanukkah, ci viene spiegato comprendendo tre cose fondamentali:
  1 - La prima strada è comprendere che noi non viviamo soltanto attraverso l'esclusiva realtà. Secondo l'opinione del rabbino Shlomò Avinèr, questo concetto è uno degli insegnamenti più profondi della festa. Se Giuda Maccabeo avesse riflettuto, pesando i suoi passi, soltanto sulla realtà, non avrebbe mai reagito al potere ellenico in quel modo. Il popolo però non si associò a lui fintanto che non cominciò a percepire le prime vittorie: essi erano realisti e non riuscivano a comprendere che un piccolo popolo, nemmeno preparato militarmente, riuscisse a sconfiggere il temuto esercito di Antioco Epifane. I Maccabei combatterono contro ogni tipo di realtà: questa non è l'unica vittoria degli ebrei che va contro la realtà, moltissimi casi - anzi tutti - hanno questa peculiarità. La vittoria per gli ebrei, si può ottenere, oltre che con la tenacia, anche con la fede in D-o.
  2 - Essere ebrei significa essere diversi; significa essere pronti a vivere di fronte ad importanti e numerose popolazioni, ben più "potenti" di noi che a volte, ridono e deridono delle nostre usanze e del nostro comportamento. In quel periodo gli ebrei si assimilavano alla cultura della maggioranza; si associavano agli sportivi ellenici, spogliavano i loro corpi (si denudavano secondo l'uso dei greci di fare ginnastica) e si vergognavano di mostrarsi circoncisi, proprio per timore di apparire diversi e, per questo essere derisi. L'insegnamento che la festa vuole darci è quello che l'ebreo deve essere pronto a considerarsi diverso da chi e da ciò che lo circonda. Egli deve esser pronto a consumare da solo i suoi pranzi di lavoro, per osservare le regole della casherut; deve essere pronto a osservare, anche in occasione di lavoro pubblico, lo shabbat e le sue festività. Davanti a un mondo globalizzato distinguersi per la moralità e le opere di bontà. L'ebreo ha quindi il dovere di imparare dalla festa di Chanukkah ad essere se stesso e non copia di altri.
  3 - La festa di Chanukkah ci insegna che ogni ebreo deve elevarsi al di sopra della mischia e distinguersi per mantenere vivo quel lume che ha dentro di sé, per mantenere vivo il nome del suo popolo secondo l'insegnamento di chi ci ha preceduti. Nella parashà del sesto giorno di Chanukkah troviamo narrato che Giuseppe volle mangiare (prima ancora di farsi riconoscere) con i suoi fratelli. A tal proposito troviamo scritto che Giuseppe e i suoi fratelli mangiavano insieme e gli egiziani mangiavano separati da loro perché era abominevole mangiare insieme ebrei ed egiziani. Nonostante l'incarico di Josef fosse di altissima levatura politico - sociale, egli non esitava ad osservare\ le regole che appartenevano alle sue tradizioni. Questo è anche il motivo per cui viene definito "tzaddiq - giusto". "Ve 'ammekh cullam tzaddiqim - Il tuo popolo è formato da tutti tzaddiqim" dice il Profeta Isaia (cap. 60 v.21), quindi tutto ciò non può né deve essere un optional, ma l'impostazione morale della nostra identità, per poter sconfiggere ogni "ellenismo" passato e soprattutto futuro che metta a repentaglio la nostra esistenza e l'identità del nostro popolo.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2018)


Chanukkah, una festa proto-sionista?

Lettera al direttore del Foglio

AL DIRETTORE - Giù le mani dalle candeline! Il primo dicembre il New York Times ha pubblicato "L'ipocrisia di Chanukkah", articolo sulla festa ebraica delle luci. L'autore del pezzo spiega che fra dolciumi fritti, candeline e regali ai bambini per otto giorni di fila "Chanukkah è festa grande per la maggior parte degli ebrei assimilati come me". E questa sarebbe la prima delle ipocrisie. Che c'è di male, invece? Per un grande ebreo naturalizzato newyorchese, il Rebbe di Lubavitch, anche l'accensione di una candelina ha il potere di avvicinare un peccatore incallito a D-o e portare la redenzione al mondo intero. Ma la questione non è escatologica. All'autore David Lukas Chanukkah sta proprio sulle balle. "E' una celebrazione del fondamentalismo religioso e della violenza contro il cosmopolitismo". La festa ricorda la rivolta con cui nel 165 a.C. il sacerdote Mattatia degli Asmonei guidò una rivolta popolare contro il re seleucide Antioco Epifane che aveva vietato lo studio della Torah, la circoncisione maschile e consacrato il Tempio di Gerusalemme a Giove. Dopo circa 4 anni di guerriglia, Giuda Maccabeo figlio di Mattatia riconquisterà il luogo di culto, ridedicandolo (Chanukkah), mentre i seleucidi accorderanno nuova libertà di culto ai sudditi ebrei. Una stona che per Lukas fa rabbrividire perché, vincendo, "i maccabei soggiogarono gli ebrei ellenizzati", nei quali forse egli si rivede. Per Lukas, insomma, sarebbe una festa proto-sionista, e ancor peggio religiosa, prodromica del nazionalismo israeliano che fa tanto soffrire i liberal americani siano essi ebrei o gentili. Un'idea "asinina" ha ben osservato il rabbino Shmuley Boteach dal Jerusalem Post, ricordando che ebrei ed ellenisti convissero per 60 anni prima degli eccessi di Antioco, colpevole, lui sì, di aver tradito la politica di tolleranza dei suoi predecessori. Con buona pace di Lukas, Chanukkah è l'esatto contrario di una kermesse fondamentalista: è la celebrazione della libertà di essere se stessi nel rispetto del diritto.
Daniel Mosseri


(Il Foglio, 6 dicembre 2018)


È allarme nell'Unione europea: torna a crescere l'anti-semitismo

Lettera a "La Stampa"

L'anti-semitismo è in preoccupante ascesa in tutta Europa; essendo come tale impresentabile, si presenta con il volto dell'anti-sionismo, che contesta il diritto di Israele di esistere come Stato. Anche in Italia si registrano con sempre più frequenza iniziative di gruppi estremistici che paragonano la situazione dei palestinesi a quella degli ebrei sotto il nazismo. Una tesi in linea con le posizioni dell'Iran, il cui leader «moderato» Rohani ancora pochi giorni fa descriveva «l'entità sionista» come un «tumore da estirpare», ribadendo l'intenzione di distruggere lo Stato ebraico. Come tutti sanno, Israele è l'unica democrazia del Medio Oriente, dove i regimi dei Paesi arabi negano i diritti civili, emarginano le donne, perseguitano gli omosessuali e non hanno welfare. Gaza, dove dal 2005 non vi è più un solo israeliano, è gestita da gruppi estremistici che opprimono la popolazione e destinano gli aiuti finanziari della comunità internazionale per azioni terroristiche contro Israele, lasciando la popolazione in condizioni miserabili. Nella costituzione di Gaza è scritto che l'obiettivo è la distruzione dello Stato ebraico. Per quanto riguarda Al Fatah, Giudea e Samaria sono governate da una classe dirigente anziana e corrotta, e non vi si tengono elezioni dal 2005. Spesso l'informazione fornita dalla stampa italiana sul Medio Oriente è incompleta, se non reticente, e le notizie sono decontestualizzate (si dimentica ad esempio di sottolineare che Israele è l'aggredito e non l'aggressore). Ugo La Malfa aveva affermato profeticamente che «la libertà dell'Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme». Non sarebbe opportuna una corretta lettura della storia?

Carlo Benigni
Presidente Nazionale Udai (Unione Associazioni Pro Israele)

(La Stampa, 6 dicembre 2018)


Sondaggio: molti europei considerano gli ebrei come strumento in mano di Israele

Un recente sondaggio condotto dalla CNN ha chiaramente messo in evidenza che oltre un terzo degli europei sa poco o nulla dell'olocausto. Sputnik ha discusso della questione della consapevolezza della Shoah e del modo in cui gli ebrei vengono visti in tutto il mondo con diversi analisti politici.


Yad Vashem, il World Holocaust Remembrance Center, ha detto a Sputnik che è "profondamente turbato" dalla mancanza di consapevolezza dell'Olocausto e dallo stato di antisemitismo in Europa "trovato nel recente sondaggio della CNN.
Come sostiene il centro l'indagine mette in evidenza il preoccupante fatto che molti "riti antisemitici ostinati e trincerati persistono nella civiltà europea, 75 anni dopo la fine dell'Olocausto. Pur ammettendo che l'antisemitismo non conduce necessariamente al genocidio, i rappresentanti di Yad Vashem hanno notato che "l'antisemitismo era centrale nella visione del mondo dei nazisti e la base della loro Soluzione finale per eliminare gli ebrei e la loro cultura dalla faccia della terra.
I risultati dell'indagine dimostrano che è necessario intensificare gli sforzi per quanto riguarda l'educazione e la consapevolezza dell'olocausto, "che è essenziale per qualsiasi tentativo di contrastare l'antisemitismo".
Il centro Yad Vashem resta determinato a promuovere le conoscenze necessarie e fornire mezzi per insegnare al pubblico l'Olocausto e le sue pericolose implicazioni.
"Abbiamo creato numerosi strumenti per promuovere i nostri sforzi educativi, al fine di garantire una più profonda comprensione dell'olocausto e dell'antisemitismo", ha proclamato il presidente di Yad Vashem, Avner Shalev.
Più recentemente, Yad Vashem ha creato un corso online dal titolo Antisemitismo — Dalle origini al presente, che è stato introdotto meno di un anno fa sulla piattaforma di e-education del Regno Unito FutureLearn. Più di 10.000 persone da tutto il mondo hanno già aderito al corso "illuminante e avvincente", ha osservato l'organizzazione.
Anche se l'educazione all'olocausto svolge un ruolo indispensabile nella lotta contro l'antisemitismo, deve anche essere "accresciuta da un'efficace legislazione e applicazione delle leggi", ha inoltre osservato. Yad Vashem crede che aumentando la consapevolezza pubblica sulla Shoah, non come un capitolo chiuso nella storia umana ma come un argomento rilevante per il nostro tempo moderno, le nazioni europee e altrove saranno "meglio equipaggiate" e motivate a combattere il razzismo e l'antisemitismo ", ha osservato l'organizzazione.

 "Non sorprendente, ma allarmante"
I  Il dott. Jean-Yves Camus, direttore dell'Osservatorio di politica radicale presso la Fondazione Jean Jaurès di Parigi, sostiene il punto di vista del centro di Yad Vashem, affermando che i risultati del sondaggio "non sono sorprendenti ma allarmanti".
"Il pericolo è che quando c'è ignoranza si può ricominciare da capo", ha osservato, aggiungendo che molti vedono l'Olocausto come una cosa del passato, ma "l'Olocausto è qualcosa di preoccupante per ogni europeo", in quanto l'Olocausto sorprendentemente, è avvenuto nel "continente più civilizzato del mondo": l'Europa.
"È un peso nella mente della maggior parte degli europei. Molte persone in Europa credono che gli ebrei siano uno strumento dello stato di Israele ", ha osservato Camus affermando che sia gli estremisti di destra che di sinistra considerano gli ebrei come una quinta colonna, agenti israeliani con la cittadinanza dei paesi in cui vivono.
"Lo stereotipo secondo cui gli ebrei hanno potere sull'economia, con la maggior parte di loro che sono banchieri o commercianti finanziari e così via […] è qualcosa che è sempre stato usato contro gli ebrei" come arma politica".

 "Educazione e azione dalla leadership politica sono fortemente necessarie"
  Il rabbino Abraham Cooper, direttore del Global Social Action Agenda presso il Simon Wiesenthal Center, una delle principali organizzazioni ebraiche per i diritti umani, è sicuro che "dovrebbero esserci meno discorsi e più azione" riguardo alla consapevolezza dell'Olocausto. "Molti giovani europei non sanno cosa sia accaduto sul loro territorio", ha osservato aggiungendo che "l'istruzione e l'azione specifica da parte della leadership politica e dei media" sono priorità assolute.
"I media in Europa hanno demonizzato Israele. Il modo migliore per sconfiggere gli stereotipi è creare opportunità per educare. La cosa più importante è esporre i giovani agli altri ebrei nelle loro comunità ", ha sottolineato.
Secondo il recente sondaggio della CNN, mentre molti hanno ammesso che l'Olocausto è un importante problema storico da ricordare, alcuni hanno suggerito che il massacro viene usato dagli ebrei per portare avanti i propri obiettivi. Più di un quarto degli europei intervistati ritiene che gli ebrei abbiano troppa influenza negli affari e nelle finanze. Quasi uno su quattro ha detto che gli ebrei hanno troppa influenza nei conflitti e nelle guerre in tutto il mondo.
Nel frattempo, un terzo degli europei intervistati ha dichiarato di conoscere poco o nulla dell'olocausto, l'omicidio di massa di circa 6 milioni di ebrei nei territori controllati dal regime nazista di Adolf Hitler negli anni '30 e '40.

(Sputnik Italia, 5 dicembre 2018)


Gerusalemme, arriva il collegamento ferroviario veloce con Tel Aviv

di Claudia Cabrini

Gerusalemme, una città in continua evoluzione. Elisa Eterno, rappresentante di Jerusalem Development Authority per l'Italia, la definisce "l'unica capace di rinnovare se stessa negli anni". E le due importanti novità in arrivo lo confermano.
  È stata inaugurata lo scorso 25 settembre la linea ferroviaria più veloce del paese che ora permette di connettere Tel Aviv a Gerusalemme in 20 minuti (contro gli almeno 40 necessari in macchina). La linea ferroviaria è composta da 8 viadotti e 5 tunnel, costruiti per superare il dislivello dei quasi 800 metri tra l'aeroporto di Ben Gurion e la Città Santa.
  Inoltre, nasce la prima Carta Turistica della città, acquistabile in loco dai turisti, che al momento comprende i trasporti pubblici e 5 entrate a diversi musei in città, oltre a tour esperienziali. "Ci auguriamo presto di poter allargare il range di collaborazioni - precisa l'Ente - e offrire a prezzi convenienti sempre più possibilità a chi la possiede".
  A favore di Gerusalemme giocano anche i nuovi collegamenti aerei, operati dalla compagnia di bandiera El Al che ne offre 32 tra Italia e Israele, e da Alitalia che connette Israele a Roma. Si aggiungono poi easy Jet e Ryanair che, prosegue Eterno, "per noi sono un grande aiuto per attrarre un turismo più giovane. È anche grazie a questi nuovi collegamenti low cost che Gerusalemme può definirsi una 'city destination' a tutto tondo".

(TTG, 5 dicembre 2018)


Israele: cucina araba-ottomana al festival 'A-Sham' di Haifa

Per la prima volta in arrivo due chef turchi

La distensione passa anche dai fornelli. E così per la prima volta due chef turchi saranno ospiti in Israele di 'A-Sham', Festival del Cibo Arabo in programma a Haifa, domani e dopodomani. Giunto alla sua quarta edizione, l'evento è da sempre di grande richiamo nel panorama dei festival gastronomici. Inoltre, la partecipazione dei due chef turchi - entrambi di grande prestigio - segna anche una svolta viste le relazioni non sempre facili tra i due Paesi, come sottolineano gli organizzatori della kermesse. Kemal Demirasal è un autodidatta che fino a poco tempo fa era un campione di windsurf: ora è considerato uno dei maggiori chef turchi. Il secondo è Maksut Askar che viene dal rinomato ristorante di Istanbul 'Neolokal'. Toccherà a loro - insieme a chef ebrei ed arabi di Israele (cristiani, musulmani, drusi), tra cui Haim Cohen - illustrare con le proprie interpretazioni e ispirazioni il tema principale dell'edizione di quest'anno: la cucina turca e ottomana. Una cucina incardinata in un impero che dominò la regione, dall'Europa del sud, al Nord Africa fino alla penisola arabica, per oltre 600 anni.

(ANSAmed, 5 dicembre 2018)


Israele e i tunnel di Hezbollah, tensione al Nord

di Davide Frattini

L'operazione Scudo del Nord è partita ieri all'alba, i motori delle ruspe si stavano già scaldando dalla metà di novembre. Quando Benjamin Netanyahu era apparso in televisione per spiegare agli israeliani che era il momento peggiore per una crisi di governo, aveva vagheggiato di conflitti all'orizzonte.
   Non dal fronte Sud dove - come ha dimostrato - vuole evitare la guerra con i fondamentalisti di Hamas (la considera «non necessaria»). I pericoli - è convinto il premier e ministro della Difesa ad interim - arrivano da quei 130 chilometri lungo cui corre la linea d'armistizio con il Libano. Così i generali hanno ordinato ai genieri, supportati da un dispiegamento massiccio di truppe, di scavare il terreno roccioso per scovare e distruggere i tunnel costruiti da Hezbollah. Gallerie costruite nei 12 anni passati dall'ultimo scontro e che dovrebbero servire, avverte l'intelligence israeliana, ad attaccare i villaggi sulle montagne e prendere il controllo di parte del territorio. I bulldozer blindati hanno lavorato tutto il giorno nei campi dalle parti di Metulla e hanno scoperto un tunnel che partiva dall'altra parte, nascosto tra le case di Kfar Kila. I militari si muovono al di qua della linea per evitare di essere accusati dai libanesi di sconfinamento. Gli analisti sono convinti che per ora Hassan Nasrallah, il leader del movimento libanese filosciita, non voglia sfruttare l'operazione come pretesto per un guerra. Allo stesso tempo è evidente che il confronto tra Israele e l'Iran, di cui Hezbollah è il braccio armato e politico in Libano, si è spostato dalla Siria. Dove le restrizioni imposte da Putin limitano le mosse dei contendenti. Netanyahu è volato lunedì a Bruxelles per aggiornare Mike Pompeo, il segretario di Stato americano. Poche ore di incontro che servono da avvertimento agli ayatollah iraniani e a Hezbollah: Israele - ha ripetuto il premier - non permetterà che in Libano vengano costruite fabbriche per missili di precisione o che la frontiera diventi una trincea. L'alternativa minacciata è un nuovo conflitto dopo i 34 giorni tra il luglio e l'agosto del 2006.

(Corriere della Sera, 5 dicembre 2018)


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Israele demolisce i tunnel di Hezbollah per arginare l'Iran

Il premier Netanyahu lancia l'operazione Scudo del Nord. Distrutte le gallerie dei miliziani sciiti al confine libanese.

di Giordano Stabile

Israele lancia l'operazione "Scudo del Nord" per distruggere i tunnel di Hezbollah e il Libano si ritrova di nuovo al centro dei conflitti mediorientali. La tregua nella Striscia di Gaza e il cambio al vertice della Difesa, con il primo ministro Benjamin Netanyahu che ha assunto la guida del ministero, hanno ribaltato le priorità strategiche dello Stato ebraico. Il premier è convinto di poter ora concentrare le sue forze al settentrione, senza correre il rischio di una guerra su due fronti. L'annuncio di ieri mattina, dopo che prima dell'alba potenti escavatrici avevano cominciato a demolire le gallerie a ridosso del muro al confine, è quindi militare e politico. Se l'Iran pensa di aver ottenuto campo libero in Siria e Libano con la vittoria nella guerra civile siriana e la protezione dell'ombrello anti-aereo russo, dovrà rivedere le sue convinzioni.
   Per questo l'operazione è stata preparata come una vera offensiva, con l'intero settore militare Nord chiuso al traffico, e il capo delle Forze armate Gadi Eseinkot sul posto a supervisionare il lavoro di genieri e militari. Il primo tunnel è stato distrutto fra la cittadina di Kafr Kila, sul lato libanese, e il centro abitato di Metula.
   L'esercito ha specificato che era «lungo 200 metri, di cui 40 in territorio israeliano, in flagrante violazione della nostra sovranità, largo 2 e correva a una profondità di 25 metri». Una galleria «non ancora operativa» ma che in breve avrebbe potuto permettere ai miliziani sciiti di sbucare all'improvviso al di là della barriera. L'operazione andrà avanti «per settimane». Come ha precisato il portavoce delle Forze armate Ronen Manelis, «dobbiamo prepararci a tutti gli scenari, compresi alcuni non nel nostro territorio». Ciò significa che alcune gallerie andranno distrutte anche sul lato nemico.
   L'esercito libanese ha però minimizzato e ribattuto che «la situazione è calma e sotto osservazione, siamo pronti ad affrontare ogni emergenza». Anche la missione dell'Onu Unifil ha gettato acqua sul fuoco e precisato che «sta lavorando con tutte le parti per mantenere la stabilità». Ufficiali israeliani, libanesi e dell'Unifil si riuniscono con regolarità al cosiddetto «tavolo tripartito» ed è probabile che Israele abbia avvertito delle operazioni.
   Israele era a conoscenza dell'attività di scavo fin dal 2006, al termine della guerra «dei 33 giorni». Ma dal 2014 ha sviluppato una tecnologia all'avanguardia, basata su microsismi indotti, che le permette di individuare le gallerie a grande profondità. Dal 2016 sono cominciati i preparativi per distruggere quelle individuate: l'operazione «è stata preparata per due anni e mezzo». L'enfasi nell'annuncio serve quindi anche da guerra psicologica. Secondo l'analista militare Amos Harel «i passi intrapresi sono molto lontani dallo scatenare un conflitto aperto» anche se, dal punto strategico, la distruzione dei tunnel «priva Hezbollah di un'arma offensiva fondamentale», soprattutto dopo che il primo dicembre il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah aveva di nuovo minacciato di «conquistare la Galilea».
   Ma il disegno di Netanyahu va oltre il Libano. Limitare le capacità di Hezbollah di colpire in territorio israeliano, anche se la milizia sciita dispone di decine di migliaia di razzi e missili, significa limitare l'Iran. Lunedì il premier è volato a Bruxelles per incontrare il segretario di Stato americano Mike Pompeo e controparti europee. Ha avvertito del rischio di una guerra in Libano se «non saranno trovate soluzioni» per frenare l'espansione iraniana nel Levante arabo. La guerra ai tunnel è un avvertimento a Teheran ma anche agli Stati Uniti e all'Europa.

(La Stampa, 5 dicembre 2018)


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Israele, partono i raid contro Hezbollah. Bombe per distruggere i tunnel dal Libano

Via libera di Netanyahu: in caso di guerra rischi per mille soldati italiani.

di Gian Micalessin

Israele l'ha chiamata Operazione Scudo Settentrionale. Per ora si combatte sottoterra e solo sul versante meridionale del confine con il Libano. Non è ancora un vero e proprio conflitto, ma può facilmente diventarlo. E coinvolgere non solo il confine settentrionale tra Israele e le zone del Libano, dove si concentra la presenza del grosso di Hezbollah, ma anche il resto del paese dei Cedri. Soprattutto se Hezbollah reagisse. In quel caso l'aviazione israeliana potrebbe colpire i depositi che nascondono gli oltre centomila missili del Partito di Dio. Per questo da ieri il Generale di Divisione Stefano del Col, dal 7 agosto quarto comandante italiano della missione Unifil, è in allarme. E come lui sono in stato di pre-allarme i mille soldati italiani dispiegati - con 9mila caschi blu di altri 42 Paesi - lungo la fascia meridionale del Libano stretta tra la frontiera Sud e il corso del fiume Litani. I militari italiani della Brigata Garibaldi e i Caschi Blu di altre nazionalità hanno poco a che fare con le manovre lanciate all'alba di ieri dall'esercito israeliano per individuare e distruggere i tunnel scavati da Hezbollah sotto il confine israeliano. Dal Generale Del Col in giù tutti sanno che basta un minimo imprevisto per scatenare un'escalation e innescare un conflitto di cui è difficile intravvedere la portata. Di certo la scoperta del primo tunnel dimostra che la loro esistenza, denunciata da tempo dagli abitanti dei villaggi israeliani, è realtà. Il primo, lungo 200 metri, partiva da sotto una casa del villaggio libanese di Kfar Kila, conosciuto da sempre come una roccaforte del Partito di Dio, e arrivava ai margini del villaggio israeliano di Metulla.
   Come confermato ieri, dopo la scoperta di quella prima galleria scavata a 25 metri di profondità, si tratta di opere sofisticate costruite utilizzando macchinari in grado di perforare le rocce dell'area di confine israeliano libanese. Proprio il carattere industriale delle opere, dotate di apparati di ventilazione e passaggi di oltre due metri per due, può nascondere siti secondari destinati a colpire i militari israeliani impegnati nelle perlustrazioni. Un'altra escalation può venir innescata dallo sconfinamento in territorio libanese delle unità israeliane. «Siamo pronti a tutte le opzioni possibili. La neutralizzazione dei tunnel non avverrà necessariamente soltanto nel nostro territorio» ha detto ieri il portavoce dell'esercito Ronen Manelis facendo capire che l'operazione seguirà il corso dei tunnel anche in territorio libanese. Certo i comandi israeliani consapevoli di quanto complesso e sanguinoso sia stato il confronto con Hezbollah, combattuto nell'estate 2006 proprio in queste zone, ben difficilmente si lanceranno in mosse avventate. Come spiegato ieri dal tenente colonnello israeliano Jonathan Conricus l'utilizzo di questi tunnel destinati ad attacchi a sorpresa in territorio israeliano è riservato alle «Radwan Unit», le cellule suicide create sette anni fa da Hezbollah e addestrate a seminare terrore con attacchi a sorpresa sul territorio israeliano.
   Ieri alcuni commentatori israeliani attribuivano l'inizio di «Scudo Settentrionale» al tentativo di smorzare le notizie di una possibile incriminazione del premier Bibi Netanyahu per corruzione e frode. In verità il via libera all'operazione è arrivato dopo la diffusione venerdì di un video in cui Hezbollah annunciava di esser pronto a colpire il Nord di Israele in seguito agli attacchi ad alcune sue unità colpite in Siria dall'aviazione israeliana.

(il Giornale, 5 dicembre 2018)


La storia di Israele aiuta a comprendere equilibri e prospettive del mondo di oggi

L'Università di Torino ospita un ciclo di incontri in cui si approfondiscono le relazioni internazionali e i destini del Medioriente. Oggi il confronto tra il rettore Gianmaria Ajani, il direttore di "La Stampa" Maurizio Molinari e lo studioso Claudio Vercelli.

Per l'Università di Torino questo ciclo di incontri è un'importante occasione di confronto Abbiamo deciso di dedicare a questo argomento una serie di incontri: partiamo da un libro Il percorso è in linea con le discussioni intorno ai rapporti internazionali del nostro Ateneo

di Gianmaria Ajani
Rettore dell'Università di Torino

Per l'Università degli Studi di Torino non è una novità ospitare eventi in cui si approfondiscono le relazioni internazionali tra Paesi. Un ciclo di incontri che racconti approfonditamente la storia dei rapporti tra Israele e l'Europa, come quello che si aprirà oggi alle 18 nell'aula magna della Cavallerizza, però, non si era ancora mai visto. La serie di appuntamenti, ognuno con un suo focus specifico, si intitolano "1948-2018. Storia di Israele, storia d'Europa" e vedranno per l'incontro di oggi un confronto tra Gianmaria Ajani, Rettore dell'Università di Torino, Maurizio Molinari, direttore de La Stampa e Claudio Vercelli, autore del libro "Israele 70 anni. Nascita di una Nazione". A moderare l'incontro sarà Janiki Cingoli, del Cipmo Milano - Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente. «Si tratta di un primo incontro di un ampio ciclo di appuntamenti organizzati dal dipartimento di Culture Politiche e Società dell'Università, per conoscere alcuni degli aspetti cruciali della storia di Israele e per comprendere e progettare un futuro in Medio Oriente ma anche in Europa - spiegano dall'ateneo -. La storia di Israele nasce infatti dai momenti più drammatici della storia d'Europa e la rispecchia sperimentandone nel suo corso i successi di sviluppo, democrazia e convivenza così come le forti criticità e i conflitti di più difficile soluzione».
«Approfondiremo questo tema, che nasce da un libro che presenteremo oggi, e mi sembra un'importante occasione di confronto per l'Università - sottolinea il rettore Gianmaria Ajani -. Abbiamo deciso di dedicare a questo argomento una serie di incontri. Un percorso in linea con le tante occasioni di discussione intorno ai rapporti internazionali tra Paesi, che il nostro ateneo offre».
Claudio Vercelli, autore del volume che sarà discusso oggi, è docente di Storia dell'ebraismo all'Università Cattolica di Milano e svolge attività di ricerca in storia contemporanea presso l'Istituto di studi storici Salvemini di Torino, per il quale ha condotto il programma didattico pluriennale "Usi della storia, usi della memoria". Tra le sue pubblicazioni "Israele. Storia dello Stato 1881-2008", "Dal sogno alla realtà" (La Giuntina, Firenze2007-2008), "Breve storia dello Stato d'Israele" (Carocci, Roma 2009) e "Storia del conflitto israelo-palestinese" (Laterza, Roma-Bari 2010). Nel suo ultimo lavoro, l'autore, indaga come leggere e interpretarne la storia di Israele aiuti a capire quali siano i nodi che ci consegna il presente rispetto ai grandi temi dell'identità collettiva, della politica, delle relazioni sociali.

(La Stampa - Torino, 5 dicembre 2018)


L'Iran testa missile balistico: Francia e Regno Unito convocano il Consiglio di sicurezza Onu

Il primo dicembre l'Iran ha testato con successo un missile capace di portare testate multiple, scatenando le ire degli Stati Uniti

Francia e Regno Unito hanno chiesto una riunione a porte chiuse dell'Onu per martedì 4 dicembre 2018 per discutere del test di un missile a medio raggio effettuato sabato primo dicembre dall'Iran.
La richiesta di Parigi e Londra fa seguito alla denuncia da parte degli Stati Uniti, secondo cui il missile testato da Teheran viola la risoluzione dell'Onu sull'accordo del 2015 per il nucleare iraniano, quella stessa intesa che Washington ha abbandonato a maggio 2018.
Il governo di Parigi si è detto preoccupato per il "lancio provocatorio e destabilizzante e non conforme con la risoluzione Onu sul nucleare".
Dello stesso parere il ministro degli Esteri britannico, Jeremy Hunt, secondo cui il test è stato un atto "provocatorio, minaccioso e incompatibile" con la risoluzione. Londra ha anche sottolineato che si impegnerà nel " far cessare" i test iraniani.
Anche la portavoce del ministero degli Esteri tedesco, Maria Adebar, ha condannato il comportamento dell'Iran, affermando che "tali azioni aumentano le tensioni di sicurezza già elevate nella regione" e Berlino "esorta l'Iran a fermare tali azioni".

 Il test missilistico
  Il primo dicembre l'Iran ha testato con successo un missile capace di portare testate multiple, scatenando le ire degli Stati Uniti che tramite il segretario di Stato Pompeo hanno denunciato l'operato iraniano come una violazione della risoluzione 2231 dell'Onu che ha recepito l'intesa sul nucleare.
"Come abbiamo avvertito da tempo i test missilistici e la proliferazione missilistica dell'Iran stanno aumentando e stiamo accumulando il rischio di un'escalation nella regione se non riusciamo a ripristinare la deterrenza", ha affermato Mike Pompeo.
"Condanniamo queste attività e chiediamo all'Iran di cessare immediatamente tutte le attività connesse ai missili balistici progettati per essere in grado di fornire armi nucleari".
Alle parole del segretario di Stato ha fatto seguito la risposta via Twitter del ministro degli Esteri iraniano Zarif: "Il 'surrealismo' è il nuovo modus operandi degli Stati Uniti nella loro politica estera. Mentre essi stessi violano la risoluzione 2231 dell'Onu (e minacciano di punire coloro che non vogliono violarla nel rispetto delle sanzioni illegali degli Usa), adesso accusano falsamente l'Iran di violare la stessa risoluzione".

(TPI News, 4 dicembre 2018)


Adesso l'Iran risponde a Israele: una ferrovia per la mezzaluna sciita

Nelle scorse settimane le iniziative di Israele nel Golfo Persico e la proposta avanzata dal governo Netanyahu riguardo a una "ferrovia della pace" capace di rafforzare la connettività in Medio Oriente e dare una sorta di substrato infrastrutturale al legame tattico tra i Paesi che avversano le mosse dell'Iran avevano destato scalpore e preoccupazione a Teheran.
  Forse non è un caso, dunque, che proprio a pochi giorni dalle mosse israeliane sia giunta la risposta iraniana sul tema: al tentativo di Tel Aviv di saldare, attraverso un collegamento ferroviario, un asse politico contro Teheran l'Iran risponde con la proposta di rafforzare la connettività attorno alla "Mezzaluna sciita" che rappresenta la sua profondità strategica e lo salda alla Siria di Bashar al Assad, all'Iraq e alle roccaforti libanesi di Hezbollah.
  Il progetto che potrebbe dare il via a questa strategia è, a dire il vero, di portata locale il 12 novembre scorso, infatti, la compagnia ferroviaria statale Islamic Republic of Iran Railways (Rai) ha proposto di riattivare il collegamento tra il centro di confine di Shalamcheh e lo strategico porto iracheno di Bassora. L'iniziativa, che comporterebbe la riattivazione di un tratto di circa 30 chilometri al costo di circa 52 milioni di dollari, aprirebbe però al rilancio complessivo della connettività infrastrutturale nella regione, garantendo alla ferrovia le prospettive per un ampliamento verso occidente, sino alla Siria e al Mediterraneo.

 Una ferrovia per la Mezzaluna sciita?
  Come riporta Al Monitor, "l'Iran è motivato" in questa sua strategia dalla possibilità di "sfruttare i porti della costa siriana", che "Israele teme possano servire per rifornire di armi" l'esercito di Assad. Il ministro siriano dei Trasporti Ali Hammoud, contattato dalla testata, ha dichiarato la sua intenzione di saldare nuovamente i collegamenti ferroviari con l'Iraq che, in prospettiva, condurrebbero sino alla Repubblica Islamica, sottolineando come "le ferrovie siano parte di un grande progetto di ricostruzione delle infrastrutture del Paese" sconvolto dalla guerra civile.
  Il grosso della sfida per la ferrovia della Mezzaluna sciita si giocherà, in ogni caso, in Iraq. Lo Stato Islamico, occupando i territori a cavallo tra la storica Mesopotamia e la Siria, ha danneggiato in maniera estremamente grave le infrastrutture presenti, e solo di recente un'arteria vitale che connette Fallujah, Tikrit e Mosul, città devastate da anni di conflitto, è stata riattivata.
  La ferrovia Iran-Iraq-Siria non avrebbe solo una grande importanza per l'economia iraniana in cerca di spazi di inserimento, ma rafforzerebbe anche la connettività interna tra i tre Paesi alleati, consentendo, dopo la fine del conflitto, contatti più frequenti tra le popolazioni e importanti assembramenti come i pellegrinaggi sciiti a Najaf e Kerbala. E di fatto, la ferrovia "connetterebbe" definitivamente, in maniera materiale, gli alauiti siriani alle roccaforti dell'Islam sciita nei due Paesi vicini.

 La Cina osserva interessata
  Siria, Iraq e Iran sono gli Stati che corrispondono ai territori solcati, secoli fa, dalle storiche vie della seta che connettevano commercialmente Occidente e Oriente. Non è un caso, dunque, che la ferrovia ipotizzata dall'Iran possa trovare un incardinamento geoeconomico nella Belt and Road Initiative a trazione cinese.
  Non a caso Pechino si è da tempo posta in prima fila tra i Paesi interessati a gestire la ricostruzione della Siria, mentre è risaputo che l'Iran rappresenti uno snodo cruciale per la piattaforma terrestre della "Nuova Via della Seta". Dal suolo persiano si diramano importanti connessioni verso le repubbliche dell'Asia Centrale, il Pakistan e l'Afghanistan. Una ragnatela di infrastrutture, soprattutto ferroviarie, centrali per i progetti intercontinentali di Pechino.
  Del resto, tra Cina e Iran esiste già, da diversi mesi, un'arteria di connessione. Come ha scritto Francesco Manta, lo scorso 10 maggio è giunto in Iran "il nuovo treno partito da Bayannur, nella regione mongola autonoma della Cina, arrivato a Teheran in 15 giorni, dopo aver percorso 8352km, attraverso il Turkmenistan e il Kazakistan".
  Un semplice tratto di 30 chilometri potrebbe, dunque, contribuire a saldare la "Mezzaluna sciita" e ad avvicinarla alle rotte commerciali euroasiatiche. L'Iran inizia agendo in risposta a Israele e alla sua "ferrovia della pace". Ma la geopolitica contemporanea corre ad alte velocità, e molto spesso lo fa in parallelo ai binari dei treni e a tutte le infrastrutture che fanno della connettività un fulcro strategico di enorme importanza.

(Gli occhi della guerra, 4 dicembre 2018)


Perché l'Italia continua a votare contro Israele alle Nazioni Unite?

di Ugo Volli

L'Italia ci è ricascata. Dopo le "otto risoluzioni otto" contro Israele di quindici giorni fa, l'Assemblea Generale dell'Onu ne ha approvate altre sei sabato scorso. E come l'altra volta, l'Italia ha approvato la maggior parte delle risoluzioni. Si è astenuta questa volta da una mozione che richiede la restituzione alla Siria delle alture del Golan, da cui fino al '67 Assad bombardava regolarmente le città e i kibbutz italiani intorno al Lago di Tiberiade, ma ha approvato quella che condanna il controllo israeliano di Gerusalemme, dicendo due enormi falsità, cioè che non vi sarebbe rapporto fra popolo ebraico e la capitale di Davide, Salomone e di tutto l'ebraismo fino a oggi, e che nella città non ci sarebbe libertà religiosa, quando è vero esattamente il contrario, cioè che per la prima volta da sempre l'appartenenza di Gerusalemme a Israele permette a chiunque di pregarvi tranquillamente come vuole. Si è astenuta su una risoluzione minore, che assegna un budget per le attività antisraeliane che l'Onu organizza, ma ne ha approvata un'altra che stabilisce l'organismo che promuove queste attività. Ha approvato la più politica, che invocando una "soluzione pacifica" del conflitto, lo incolpa solo a Israele e si è infine astenuta sull'istituzione di un "comitato per gli inalienabili diritti del popolo palestinese, fra cui naturalmente è inclusa la distruzione di Israele.
Il presidente del consiglio Conte ha ricevuto "il presidente della Palestina" come se fosse uno stato. Ora l'Italia non riconosce lo "stato di Palestina" ma l' "Autorità palestinese" che non è uno stato: chi ha cambiato le carte in tavola?
A questi voti bisogna aggiungere un piccolo (ma non tanto piccolo) scandalo: Il sito del governo italiano ha dichiarato che l'altro giorno il presidente del consiglio Conte ha ricevuto "il presidente della Palestina" come se fosse uno stato. Ora l'Italia non riconosce lo "stato di Palestina" ma l' "Autorità palestinese" che non è uno stato: chi ha cambiato le carte in tavola?
  Se volete vedere i tabelloni, da cui risultano le luci gialle (per l'astensione) e verdi (per l'approvazione) rispetto a queste mozioni, li trovate qui. Scoprirete uno strano fenomeno e cioè che l'Italia ha votato come quasi tutta l'Unione Europea (salvo Malta, quasi sempre contro Israele e l'Ungheria, quasi sempre favorevole. E che l'Unione Europea si è allineata alla Russia, che notoriamente è il protettore dell'arcinemico di Israele, l'Iran. Questo allineamento dell'Europa alla Russia (contro gli Usa, l'Australia, il Canada, in un paio di occasioni anche la Gran Bretagna) dà certamente da pensare, soprattutto a quelli che si illudono che l'UE sia la custode dello spirito occidentale contro il "sovranismo" di Trump.
  Ma io sono soprattutto preoccupato dell'Italia. Perché il nostro paese, il cui vice-premier Salvini ha sempre proclamato il suo appoggio a Israele e che alla faccia degli ebrei "progressisti" che hanno tanto peso nelle organizzazioni comunitarie e sui media, sarà gradito ospite dello stato ebraico fra una decina di giorni e ha spesso proclamato di essere "amico e fratello di Israele", manifestando altrettanto spesso la propria amicizia agli ebrei italiani - perché dunque il governo in cui Salvini è parte essenziale, si allinea all'odio dell'Unione Europea per Israele?
  Ci sono diverse risposte, che vanno tutte considerate. La prima è che l'apparato stesso del Ministero degli Esteri italiano, salvo qualche lodevole eccezione, è allineato al vecchio filoarabismo dell'Italia dei Moro, Craxi, d'Alema. Lasciato a se stesso, ha il riflesso condizionato di votare contro Israele, come nel caso dell'Unesco, che fece scandalo durante il governo Renzi e dallo stesso Renzi fu sconfessato. La seconda causa è che il ministro degli esteri Moavero appartiene pienamente a questo ambiente, non è stato scelto dalla coalizione ma imposto da Mattarella e cerca di fare una politica di appoggio all'Unione Europea e dunque all'odio antisraeliano di Mogherini. I voti all'Onu non vengono discussi in consiglio dei ministri e rientrano nella autonomia del ministro.
  La terza ragione è la più pericolosa. Il ministero attuale mette assieme due partiti molto lontani fra loro
I 5 stelle sono in buona parte di estrema sinistra e dunque nemici di Israele e dell'America: Fico è favorevole all'immigrazione islamica come Boldrini; è d'accordo con Grillo nell'appoggio all'Iran.
in molte cose fra cui la politica estera. La Lega è amica di Israele e realista in politica estera. I 5 stelle sono in buona parte di estrema sinistra e dunque nemici di Israele e dell'America: Fico è favorevole all'immigrazione islamica come Boldrini; è d'accordo con Grillo nell'appoggio all'Iran. Queste posizioni filoiraniane sono ancora quelle del movimento. Nel frattempo: Di Battista appoggia le colonne degli immigrati clandestini che vogliono sfondare il confine americano e in generale è nemico degli yankees; Manlio Di Stefano, che i 5 stelle sono riusciti a piazzare anche come sottosegretario agli esteri con responsabilità sul Medio Oriente, è a sua volta nemico dichiarato di Israele "ha un problema con gli ebrei": a sentire il Foglio i 5 stelle sono il partito più antisraeliano nel panorama politico italiano.
  Dato che il panorama è quello, c'è da essere contenti che la spinta terzomondista, filo-immigrazione, antiamericana e anticapitalista dei 5 stelle sia almeno in parte bloccata da Salvini. Immaginatevi che cosa sarebbe la posizione italiana se si fosse formato il governo M5s/PD/LEU che voleva Mattarella con il coro dei grandi editorialisti della stampa, come Scalfari e di tutta l'ala sinistra del PD, come Zingaretti.
  Bisogna però accennare a un'altra causa di queste posizioni che è una certa distrazione o confusione della Lega, che lascia che l'Italia si allinei politicamente all'Europa non solo nel caso di Israele, ma anche sulla Brexit, sulle sanzioni minacciate a Polonia e Ungheria per politiche interne sgradite a Bruxelles. Manca la lucidità o la forza progettuale per capire che se si vuole cambiare radicalmente l'Europa, questo deve avvenire innanzitutto contrastando la sua politica estera, che è francamente imperialista e neocoloniale. E' chiaro che non si possano aprire contemporaneamente tutti i fronti, ma bisogna sperare che Salvini riesca a concretizzare anche in campo della politica estera l'appoggio a Israele, l'ostilità per il "global compact" che protegge l'immigrazione, la difesa dell'autonomia politica degli stati membri e non membri dell'Unione Europea (per citare due casi di cui in Italia non si è parlato: la Svizzera e la Macedonia) che l'Unione Europea stessa cerca di ricattare.

(Progetto Dreyfus, 4 dicembre 2018)


Il Parlamento slovacco approva la definizione operativa dell'antisemitismo

Una risoluzione relativa alla definizione di antisemitismo preparata dal presidente del Parlamento Andrej Danko (Partito Nazionale Slovacco / SNS) è stata approvata la scorsa settimana in Parlamento con 112 voti. Il documento è nato dalla necessità di mettere nero su bianco, secondo Danko, i concetti di antisemitismo e Olocausto, la cui assenza nella legislazione slovacca ha creato problemi a procure e organi di polizia nel trattare i reati di gravi violazioni dei diritti fondamentali. Danko ha fatto anche riferimento, nel difendere il suo provvedimento, al fatto che abbiamo «anche persone in politica che negano l'Olocausto».
   Nella risoluzione si dà atto della definizione operativa di antisemitismo sviluppata dall'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) e adottata dai suoi 31 Stati partecipanti, compresa la Slovacchia, il 26 Maggio 2016 a Bucarest. Il documento inoltre ingloba la risoluzione del Parlamento europeo del 1o giugno 2017 sulla lotta all'antisemitismo, in cui si sottolinea che l'incitamento all'odio e ogni tipo di violenza contro i cittadini ebrei europei sono contrari ai valori dell'UE. Terzo, i parlamentari hanno preso atto di un parere congiunto di 26 stati, tra cui la Slovacchia, che condannano la crescente minaccia di antisemitismo.
   Il Parlamento ha inoltre concordato con la definizione di lavoro dell'antisemitismo proposta dall'IHRA: «L'antisemitismo è una specifica percezione degli ebrei che può essere espressa come odio verso gli ebrei. Manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso individui ebrei o non ebrei e/o le loro proprietà, verso istituzioni e strutture religiose ebraiche». «Tali manifestazioni potrebbero includere la presa di mira dello stato di Israele, concepito come una collettività ebraica. Tuttavia, la critica di Israele, simile a quella mossa contro qualsiasi altro paese non può essere considerata come anti-semita. L'antisemitismo spesso accusa gli ebrei di cospirazione per danneggiare l'umanità, ed è spesso usato per incolpare gli ebrei "perché le cose vanno male". Si esprime nel linguaggio, nella scrittura, nelle forme visive e nell'azione, e impiega sinistri stereotipi e tratti negativi del carattere».

(Buongiorno Slovacchia, 3 dicembre 2018)


Bibi l'Africano: Israele alla conquista (diplomatica) del continente

Dopo mezzo secolo, Israele ristabilisce le relazioni con il Ciad e cerca una svolta anche nei rapporti con il Sudan. Si intensifica così l'offensiva diplomatica in Africa, varata da tempo da Netanyahu. In cerca di voti all'Onu e di sinergie nella lotta al terrore.

di Marco Cochi

 
Idriss Deby Itno e Benjamin Netanyahu
Dopo più di mezzo secolo, Israele ha ristabilito le relazioni diplomatiche con il Ciad. La svolta è avvenuta con la visita del presidente Idriss Deby Itno, che martedì scorso si è recato a Gerusalemme per incontrare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e rilanciare la cooperazione tra le due nazioni.
  Al centro dei colloqui tra i due leader, la lotta contro il terrorismo, nella quale il Paese africano è impegnato su due fronti partecipando alla coalizione Multinational Joint Task Force (Mnjtf), che combatte il gruppo jihadista Boko Haram nell'area del Lago Ciad, e alla forza militare congiunta G5 Sahel, operativa nel contrasto dei gruppi estremisti islamici attivi nella vasta area desertica.
  La collaborazione tra i due Paesi nell'ambito della sicurezza era comunque già in corso, come testimonia il Registro delle armi convenzionali delle Nazioni Unite (Unroca), secondo cui, dal 2015, Israele ha fornito all'esercito del Ciad 11 carri armati RAM MK3 ed equipaggiamento militare.

 La strategia africana di Netanyahu
  All'inizio degli anni Settanta, Israele manteneva rapporti diplomatici con 33 dei 54 Stati del continente africano, poi, dopo la guerra dello Yom Kippur nell'ottobre 1973, la maggior parte dei Paesi sub-sahariani ha rotto i rapporti diplomatici, in conformità con la risoluzione dell'Oua (Organizzazione dell'unità africana), sostenuta dall'Egitto, che chiedeva la formale interruzione delle relazioni con lo Stato ebraico.
  A livello diplomatico, la decisione costituì un duro colpo per Israele che, all'epoca, intratteneva ottimi rapporti diplomatici con i Paesi africani, molti dei quali furono tra i primi a riconoscere lo Stato d'Israele votando a favore del piano di partizione della Palestina elaborato dall'Unscop.
  Da quando, quasi dieci anni fa, Netanyahu è tornato a ricoprire la carica di primo ministro, ha dimostrato particolare interesse nel voler ricucire i rapporti con il continente, intraprendendo una strategia di riavvicinamento verso l'Africa.
  Una strategia che all'epoca molti ritenevano destinata al fallimento, in conseguenza del fatto che molti Paesi africani sono a maggioranza musulmana e questo avrebbe reso impossibile qualsiasi tentativo di riavvicinamento se prima non si fossero registrati significativi progressi nei negoziati tra Israele e i palestinesi.
  Ma, nonostante le difficoltà poste dalla questione palestinese, Netanyahu è riuscito a perseguire una strategia di distensione con l'Africa, anche nei Paesi come il Ciad, in cui l'Islam è dominante. Il premier israeliano cominciò a riallacciare le relazioni con gli Stati africani nell'autunno del 2009, pochi mesi dopo la sua nuova nomina alla guida della Knesset, inviando in visita in cinque Paesi africani Avigdor Lieberman, l'allora ministro degli Esteri del suo Gabinetto di governo.
  Lieberman si recò ancora nel continente nel giugno 2014, per una visita di dieci giorni in Ruanda, Costa d'Avorio, Ghana Etiopia e Kenya. La missione diplomatica preparò il terreno al primo viaggio ufficiale di un capo di governo israeliano in Africa dopo 22 anni: quello che nel luglio 2016 ha condotto Netanyahu in Uganda, Kenya, Etiopia e Ruanda.
  Il premier israeliano ha ulteriormente intensificato le relazioni africane tornando nel continente per ben due volte in 18 mesi. La prima per partecipare al 51esimo Vertice della Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale (Ecowas), tenuto nel giugno 2017 a Monrovia in Liberia, dove Netanyahu ha firmato un memorandum d'intesa da un miliardo di dollari per realizzare progetti di energia verde. Poi, cinque mesi dopo il leader israeliano è volato in Kenya per presenziare, insieme a dieci capi di Stato africani, alla cerimonia ufficiale del giuramento del presidente Uhuru Kenyatta.
  Tuttavia, va ricordato che non è riuscito a realizzare il suo intento di organizzare un vertice Israele-Africa per consolidare i rapporti con il continente. Il Forum che si sarebbe dovuto svolgere nell'ottobre 2017 a Lomé, la capitale del Togo, è stato ufficialmente cancellato per motivi di sicurezza ma gli analisti politici africani ritengono che l'evento sia stato soppresso perché ospitare una conferenza di tale natura avrebbe definitivamente legittimato la presenza di Israele in Africa.

 Le ragioni del riavvicinamento ai Paesi africani
  Diverse sono le motivazioni che hanno mosso l'intenso impegno israeliano nell'imprimere un significativo cambiamento ai rapporti con l'Africa. La principale è racchiusa nel fatto che nell'offrire il proprio know-how, soprattutto nell'ambito della sicurezza. Israele cerca come controparte il sostegno dei Paesi africani al Consiglio di Sicurezza, all'Assemblea Generale e al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, oltre che all'Unesco.
  Un sostegno che potrebbe risultare decisivo specialmente in seno al Consiglio di Sicurezza, dove i palestinesi tentano invano da tempo di ottenere i consensi necessari per andare a una votazione dei 15 membri per il riconoscimento dell'indipendenza del loro Stato.
  Tuttavia, sullo sfondo rimane anche la controversa apertura dell'ambasciata americana a Gerusalemme, che ha creato un certo imbarazzo diplomatico in diversi Paesi dell'area, che sostengono la linea dell'Unione africana favorevole a trovare una soluzione alla questione israelo-palestinese.
  Tutto questo, indica che è ancora troppo presto per arrivare al punto in cui tutti i Paesi africani si uniranno al blocco di quelli che sostengono Israele in ogni consesso internazionale. I processi diplomatici richiedono tempo e gli orientamenti di voto alle Nazioni Unite, maturati negli anni, non possono cambiare in maniera repentina, nemmeno dopo la formale ripresa di relazioni diplomatiche.
  Tuttavia, non dovremmo sottovalutare che il Ciad esercita una certa influenza in seno all'Unione africana e quindi l'aver instaurato buone relazioni con N'Djamena è un punto a favore nel compimento della strategia africana di Benjamin Netanyahu.

(eastwesr.eu, 3 dicembre 2018)


Israele inizia nuova operazione militare

L'esercito israeliano ha riferito l'inizio di un'operazione per distruggere i tunnel sotterranei costruiti dal partito sciita libanese Hezbollah vicino ai suoi confini. È stato riferito da Reuters martedì 4 dicembre.
Secondo un portavoce dell'esercito, Jonathan Konrikus, sono stati trovati tunnel che attraversano il confine del paese nel nord. Ha notato che l'operazione interesserà solo le strutture situate in Israele e che i militari non attraverseranno il confine.
Il 3 dicembre, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha incontrato il segretario di stato americano Mike Pompeo. Come una fonte militare ha detto all'agenzia, in una conversazione il primo ministro ha informato la parte americana dell'operazione prevista. La distruzione delle gallerie dovrebbe iniziare tra alcune settimane.
I militari hanno notato che i tunnel sono ancora inutilizzabili. Tuttavia, secondo loro, rappresentano una "minaccia imminente" per gli israeliani e costituiscono anche una "flagrante violazione della sovranità del paese".
Secondo Reuters, l'ultima volta le ostilità tra Israele e Libano sono scoppiate nel 2006. Negli ultimi mesi, le tensioni tra i paesi sono aumentate. A settembre, Netanyahu, parlando all'ONU, ha parlato di tre luoghi in Libano, dove, secondo lui, Hezbollah sta trasformando proiettili convenzionali in missili ad alta precisione. Quindi ha avvertito che lo stato ebraico non intende consentirlo.
Il 20 settembre, il leader del partito sciita, Hassan Nasrallah, ha affermato che Israele non può privare Hezbollah dell'accesso alle armi che sarebbero state utilizzate per distruggerli. Secondo lui, l'equilibrio delle forze libanesi e israeliane è cambiato.

(Sputnik Italia, 4 dicembre 2018)


Quella mano tesa Papa-Abu Mazen ferita per Israele

di Fiamma Nirenstein

 
Viene puntualissimo, dopo le sei risoluzioni Onu votate venerdì da 156 Paesi contro otto (ma che sta facendo l'Italia?) in cui si nega la sovranità israeliana e il rapporto storico degli ebrei con Gerusalemme, l'incontro con Abu Mazen in cui il Papa ha agito come un politico: la strada scelta è la più immediata, la più fuori da un'analisi realistica dei fatti, la più inutilmente cerimoniale. Non sarebbe stato magnifico e storico quanto la proibizione di Giovanni XXIII di essere ancora antisemiti, o la visita di Giovanni Paolo II al Muro del Pianto con il successivo riconoscimento dello Stato d'Israele, che il Papa avesse chiesto a Abu Mazen di imboccare una vera strada di conciliazione, di riconoscimento del diritto degli ebrei a un loro Stato e alla loro capitale? Questo avrebbe anche legittimato i desideri dei palestinesi. Ma non è accaduto.
   Il Papa ha incontrato il presidente dell'Autonomia palestinese per allinearsi con le posizioni che non hanno portato da nessuna parte. Di fronte ai cambiamenti che investono il Medio Oriente ci si poteva aspettare qualche cosa di diverso, e la parola «pace» è rimasta nuda. Che significa riattivare il processo di pace? Chi lo deve riattivare? Abu Mazen dovrebbe accettare almeno di discuterne, mentre rifiuta ogni colloquio; e dovrebbe abbandonare l'incitamento diffamatorio e delegittimante che mette in gioco l'esistenza stessa di Israele. Gli ostacoli alla pace sono l'esaltazione del terrorismo e la determinazione a continuare a fornire gli stipendi ai terroristi nelle carceri e alle loro famiglie. E poi: il Papa spera nella soluzione dei due Stati per due popoli. Ma non sarebbe meglio sottolineare che oggi gli Stati eventualmente sarebbero tre perché l'Autonomia palestinese e Gaza si odiano di più di quanto odino Israele? Non c'è nessuna possibilità che Hamas si sottoponga ad Abu Mazen, anzi lavora sodo per distruggerlo. Di lui, con la sua faccia da benevolo diavolo, è difficile ma utile ricordare le parole in ogni occasione, salvo quelle diplomatiche, sempre estreme, aspre, definitive.
   Israele è piena di ambizione alla pace. E dov'è quella palestinese? Il Papa ha letto quello che si insegna nelle scuole di Ramallah? L'Ap appare moderata solo perché Hamas è terrorista. Solo ieri Gaza ha condannato a morte per impiccagione sei persone accusate di connivenza con Israele, e forse il Papa non si è ricordato di quanto i cristiani di Gaza soffrano sotto Hamas. E Gerusalemme: è così difficile, come la Bibbia, come i Vangeli, come i musulmani prima della radicalizzazione, ricordare il nesso fra gli ebrei e la loro città per antonomasia? L'invito a «riconoscerne e preservarne l'identità e il valore universale di Città Santa» è contro il riconoscimento come capitale. A Gerusalemme capitale la Spianata delle moschee è gestita dall'islam e il Santo Sepolcro dai cristiani. Chissà che succederebbe se venisse divisa.

(il Giornale, 4 dicembre 2018)


Segre al confine che le negò la libertà; non perdono l'uomo che ci respinse

La senatrice sopravvissuta alla Shoah torna in Svizzera per la prima volta

di Giusi Fasano

LUGANO - Cinquecento ragazzi muti e attentissimi. E stato come se lei li avesse presi per mano ad uno ad uno e li avesse portati nel suo passato, nella sua storia. Con parole semplici e potenti. «Che cosa pensa delle persone che l'hanno perseguitata?» le chiede uno studente con la voce rotta dall'emozione. E lei: «Ho una paura antica e un disprezzo totale. Non perdono e non dimentico chi mi ha fatto del male. Non ho nemmeno voluto sapere i loro nomi».
Lei è la senatrice a vita Liliana Segre, classe 1930, sopravvissuta alla Shoah e testimone del male assoluto, quello che i suoi occhi videro nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau fra l'inizio del '44 e il maggio del '45. Il numero di matricola che porta sull'avambraccio è 75190 e guai a ignorarlo o dimenticarlo, «sarà accanto al mio nome sulla mia tomba, perché io sono quel numero», dice.
   Non è la prima volta che Liliana parla a una platea di giovani studenti ma questo è un caso speciale. Siamo in Svizzera, il Paese che il 7 dicembre del '43 respinse lei e suo padre Alberto al valico di Arzo. Si credevano salvi, e invece le autorità elvetiche li riportarono al confine e il giorno dopo i soldati italiani li catturarono: quel no cambiò la rotta delle loro esistenze, fu il primo passo verso la morte per Alberto Segre, che poche settimane dopo finì in una camera a gas ad Auschwitz. E per Liliana, allora tredicenne, fu l'inizio di un tempo che lei oggi, come fece Primo Levi, definisce «indicibile».
   Per la prima volta dopo tutti questi anni, la donna che il presidente Mattarella ha voluto senatrice a vita in Italia, è venuta in Svizzera a tenere un discorso pubblico (promosso dalla Goren Monti Ferrari Foundation). E nell'aula magna dell'Università della Svizzera italiana, a Lugano, per la prima volta il consigliere di Stato del Canton Ticino, Manuele Bertoli, le ha chiesto scusa a nome del suo Paese per quel no sciagurato di 75 anni fa.
   «Io ho tanti amici qui. Sarebbe ingiusto generalizzare - risponde lei a chi le chiede se ha perdonato gli svizzeri -, ma certo non posso dire di non provare rancore verso l'uomo che quel giorno ci rimandò in Italia. Mi buttai a terra come una disperata, abbracciai le sue gambe implorandolo di non mandarci via. Lui ci fece riaccompagnare dalle guardie con la baionetta puntata alle spalle. Ricordo che sghignazzavano ... ».
   «Che cosa si può fare perché i giovani non dimentichino?» le ha chiesto una ragazzina. «La risposta sei tu, qui» ha replicato la senatrice. L'ex direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli è il presidente onorario del Memoriale della Shoah, nato sotto la stazione Centrale di Milano nel punto in cui partivano i treni diretti ai campi di sterminio. Ieri, presentando Liliana Segre, ha parlato dell'importanza della memoria, «un vaccino - ha detto - che ci fa essere cittadini migliori».

(Corriere della Sera, 4 dicembre 2018)


Netanyahu avverte il Libano: «o fermano Hezbollah o saremo costretti ad agire»

Netanyahu a sorpresa vola a Bruxelles per un incontro a porte chiuse con il Segretario di Stato americano nel quale avrebbe avvisato l'alleato che Israele starebbe per intraprendere azioni militari contro il Libano.

Viaggio a sorpresa del Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, a Bruxelles per incontrare il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, a margine della riunione dei membri della NATO tenutasi nella capitale belga.
Secondo fonti israeliane l'oggetto del viaggio di Netanyahu era quello di discutere con Pompeo della situazione in Libano che a causa delle operazioni di Hezbollah rischia di ritrovarsi implicato in un conflitto con Israele.
Il Premier israeliano avrebbe avvisato l'alleato americano che se il Libano non blocca immediatamente le operazioni di Hezbollah sul suo territorio un intervento militare israeliano sarebbe inevitabile....

(Rights Reporters, 4 dicembre 2018)


Gli ebrei di Rembrandt. In un libro di Steven Nadler

La frequenza di temi ebraici nella pittura olandese del Seicento rappresenta un caso unico ed eccezionale nella storia dei rapporti tra mondo ebraico e mondo cristiano.

di Anna Foa

Amsterdam nel suo secolo d'oro, il Seicento: i pittori con i loro committenti, gli ebrei, i filosofi, la tolleranza. Un percorso, questo dello storico americano Steven Nadler, attraverso uno dei momenti più affascinanti della storia dell'Europa nella prima età moderna.
   Il libro Gli ebrei di Rembrandt (Torino, Einaudi, 2017, pagine 275, euro 32) parte da Rembrandt, dalla sua casa nel quartiere di Vlooienburg, il centro del mondo ebraico di Amsterdam e al tempo stesso il cuore artistico della città, illustrato dalla presenza dei maggiori pittori dell'Olanda del Seicento. Due mondi a stretto contatto, e non solo in Rembrandt, i cui ritratti degli ebrei di Amsterdam sono fra i capolavori della pittura dell'epoca, ma anche in altri artisti, che si ispirarono spesso volentieri alle sinagoghe della città e al suo straordinario cimitero a Oudekerk.
   La frequenza dei temi ebraici nella pittura olandese del Seicento richiede una spiegazione che va al di là della mera presenza degli ebrei negli stessi luoghi. Si tratta di un caso unico ed eccezionale nella storia dei rapporti tra mondo ebraico e cristiano, certo non presente nell'Italia dei ghetti, in quegli stessi anni, ma nemmeno negli altri luoghi d'Europa dove c'erano ebrei e dove non vivevano rinchiusi. Per spiegarlo, Nadler ci immerge nella storia altrettanto singolare degli ebrei di Amsterdam nel Seicento.
   Nella Repubblica delle Province Unite da poco formatasi in seguito alla guerra di indipendenza condotta contro la corona spagnola, e in particolare ad Amsterdam, gli ebrei avevano cominciato a stabilirsi alla fine del XVI secolo. Erano ebrei provenienti dalla penisola iberica o dai suoi domini dei Paesi Bassi, spagnoli e soprattutto portoghesi, tutti caratterizzati da una storia assai particolare, quella di essere passati, per un tempo più o meno lungo, perfino un secolo, attraverso la pratica del cattolicesimo in seguito alle conversioni forzate che alla fine del Quattrocento avevano obbligato al battesimo tutti gli ebrei portoghesi.
   Più tardi, a partire dagli anni Trenta del Seicento, arriveranno ad Amsterdam in numero crescente anche gli ashkenaziti, più poveri e più tradizionalisti, fino a diventare, alla fine del secolo, maggioranza fra gli ebrei della città. I sefarditi, ritornati all' ebraismo ad Amsterdam non senza difficoltà e anche ripensamenti (un tema questo su cui l'autore non si sofferma), si erano avvalsi della libertà di culto, concessa loro ufficialmente nel 1619, per creare una fiorente comunità. Non era naturalmente nulla di simile a un'emancipazione, la libertà riguardava solo il diritto di residenza e di culto pubblico, molte restavano e resteranno le restrizioni e i divieti, in particolare quelli dei mestieri, che riguardavano, spesso in forma molto più dura, anche i cattolici e le ali riformate più radicali. Comunque, sono questi ebrei sefarditi gli interlocutori dei politici calvinisti di Amsterdam, i committenti di tanta della pittura di questo periodo, i mercanti che contribuiscono allo slancio economico della città. Il rapporto degli ebrei con la città è infatti anche culturale, e cresce su quel terreno di curiosità e interesse verso l' ebraismo che ha spinto gli storici a coniare il termine di filosemitismo per una parte importante della cultura calvinista olandese e inglese del tempo.
   E questo il mondo che fa da sfondo nell'opera di Nadler (più che altro storico della filosofia, ma qui anche impegnato sul fronte della storia dell'arte), in capitoli dedicati volta a volta al tema dell'impegno degli ebrei di Amsterdam in campo artistico, a sfatare un'immagine troppo monolitica del rifiuto ebraico della raffigurazione, all'eresia di Spinoza e degli altri "eretici" della comunità portoghese, al ruolo dei rabbini e in particolare di Menasseh ben Israel, l'autore di una missione importante volta a sollecitare Cromwell alla riammissione in Inghilterra degli ebrei (scacciati quasi quattro secoli prima, nel 1290), alla costruzione dell'Esnoga, la grande sinagoga portoghese della città, al misticismo messianico e alle ripercussioni della vicenda di Sabbatai Zevi, il Messia degli ebrei che aveva suscitato le speranze dell'intero mondo ebraico sefardita che si era preparato entusiasticamente a far ritorno in terra d'Israele, speranze poi finite drammaticamente nella conversione del Messia all'Islam.
   Tutti temi centrali della storia degli ebrei come dei non ebrei di questo secolo che si intrecciano nel clima di tolleranza e di intensi scambi culturali della città olandese. Di particolare interesse, perché poco trattato in opere destinate a un pubblico genericamente colto e non agli specialisti, l'analisi del dibattito sull'immortalità dell'anima, che coinvolge in questi anni il mondo ebraico di Amsterdam, e nel cui contesto trovano spazio le opinioni eterodosse sul mondo a venire dei filosofi come Uriel d'Acosta.
   Un affresco quindi che dipinge un momento molto particolare e affascinante della storia culturale europea e di quella dei rapporti tra i due mondi. Nella vastità di queste problematiche si perde però forse un po' di vista un aspetto di questo universo su cui gli studi anche recenti si sono invece molto soffermati: quello che introduce, a spiegare la straordinaria ricchezza culturale di questo periodo, il fatto che i suoi protagonisti, gli ebrei sefarditi di Amsterdam, fossero tutti passati, per amore o per forza, attraverso l'esperienza cristiana, in particolare cattolica.
   Erano cioè il frutto della commistione di letture diverse dei testi religiosi, di esperienze religiose divergenti, di un meticciato culturale e religioso che non può non essere considerato tra le caratteristiche dominanti di quel mondo e che ne spiega sia le forti inquietudini e le aperte eterodossie, sia il rigore della reazione comunitaria, di cui la scomunica rabbinica di Spinoza fu, se non l'unico, certamente l'episodio più celebre e significativo.

(L'Osservatore Romano, 4 dicembre 2018)


"El Al, anima di Israele"

 
È la compagnia di bandiera. Ma in realtà è molto di più. È l'anima stessa di Israele.
Un evento all'Ara Pacis ha celebrato ieri sera i 70 anni della rotta Roma-Tel Aviv per i voli della El Al.
"Settanta anni di collaborazione prospera e fruttuosa" ha sottolineato l'ambasciatore israeliano Ofer Sachs, che al tavolo aveva al suo fianco Fausto Palombelli per Aeroporti di Roma, il direttore generale per l'Italia di El Al Yoav Weiss e Victoria Shlomo, testimone del progetto El Al Ambassadors.
Molte pagine gloriose alle spalle e un futuro da protagonista per la compagnia israeliana. "Quella di Tel Aviv è la quarta destinazione extra Schengen per numero di passeggeri. Numeri importanti, nel segno di un proficuo rapporto di fratellanza" ha osservato Palombelli.
"El Al è motivo di orgoglio per Israele e il popolo ebraico" ha quindi affermato Weiss, ripercorrendo le tappe di questi 70 anni a braccetto.

(moked, 4 dicembre 2018)


Shoah, sondaggio shock: antisemitismo colpa degli ebrei

Un sondaggio commissionato dalla Cnn americana ha portato a risultati scioccanti. L'indagine condotta in Austria, Francia, Germania, Polonia, Regno Unito, Svezia e Ungheria ha mostrato una scarsa conoscenza sulla Shoah e un pregiudizio antiebraico, che in passato è stato proprio il terreno fertile su cui si poggiò la macchina della morte nazista.
   Sulle 7mila persone interpellate, circa mille e quattrocento sono dell'idea che l'antisemitismo sia una reazione al comportamento degli ebrei. Idea che nasce dai soliti pregiudizi che da secoli vorrebbero giustificare quello che è solo odio e avversione: gli ebrei sono influenti nel mondo politico, in quello economico-finanziario e giocano un ruolo decisivo nei conflitti attuali, da cui traggono beneficio.
   Anche se non ci sia abituerà mai ai cavalli di battaglia antisemiti, ciò che sconcerta delle risultanze del sondaggio è che circa duemila e cinquecento persone sanno poco o nulla sull'Olocausto e sui sei milioni di morti durante la Seconda Guerra Mondiale. E quelli che dicono di sapere puntano il dito contro gli ebrei, considerati generatori dell'odio che li avversa.
Sondaggi del genere sono spesso ignorati o poco considerati. Come quello del 2012, quando la metà degli studenti tedeschi affermò di non sapere chi fosse Adolf Hitler, ritenuto da alcuni il padre dei diritti umani.
   Ignoranza e pregiudizi per molti giovani europei, che spesso però hanno dei cattivi maestri. Come il professor Lamont Hill, un commentatore della CNN, secondo cui la ricetta per risolvere il conflitto in Medio Oriente sarebbe la distruzione di Israele. La nota all-news statunitense l'ha licenziato, lui si è difeso, sostenendo di essere stato frainteso.
Intanto, però, la memoria non c'è, il pregiudizio diventa odio e l'indifferenza dilaga.

(Progetto Dreyfus, 4 dicembre 2018)


Il governo italiano riconosce già la Palestina come «Stato»

La gaffe di Palazzo Chigi

Oggi il premier Giuseppe Conte riceverà il «presidente dello Stato di Palestina, Mahmoud Abbas». Lo annuncia lo stesso palazzo Chigi sul sito ufficiale governo.it. Da sottolineare che la Palestina è uno Stato che non soltanto non esiste e che non è riconosciuto dai paesi europei, ma che si rifiuta di sedere al tavolo dei negoziati con Israele. Quando Abbas è andato alla Casa Bianca, è stato chiamato «presidente dell'Autorità Palestinese». Stesso titolo quando Abbas è andato all'Eliseo da Emmanuel Macron. L'Italia ha fatto un passo avanti e ha elevato Abbas a presidente di uno Stato vero e proprio. Naturalmente il mondo ebraico non l'ha presa bene e non si escludono polemiche nelle prossime ore.

(il Giornale, 3 dicembre 2018)


Comunità ebraica, accensione Hannukkia in piazza. Canti e sorprese

Hanukkia
GENOVA - Palazzo Ducale si illumina per la festa di Hannukkah, la festa delle luci. L'iniziativa è organizzata dalla Comunità Ebraica di Genova e si terrà giovedì 6 dicembre alle 18:30. La ricorrenza commemora la ri-consacrazione dell'altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la riconquistata libertà da Antioco IV, che nel II secolo a.e.v. lo aveva trasformato in un luogo di culto pagano. Dopo la riconquista di Gerusalemme, gli ebrei vollero purificare il Tempio, ripristinare l'Arca dell'Alleanza e riaccendere la luce di fronte all'Arca stessa. Il lume era alimentato da olio di oliva puro, ma purtroppo si trovò olio sufficiente per un solo giorno. Gli ebrei accesero ugualmente il lume. Miracolosamente, l'olio durò per otto giorni! Un miracolo, che a distanza di millenni, si continua a ricordare accendendo, per otto giorni, il candelabro a nove braccia.

(Genova quotidiana, 3 dicembre 2018)


Abu Mazen: "Gli Stati Uniti di Trump non bastano più per raggiungere la pace"

Il presidente palestinese: "L'America non può essere l'unico mediatore in Medio Oriente. Stiamo trattando in Oman, ma Israele capisca che il negoziato parte dalla soluzione dei due Stati".

"Il presidente Usa si è offerto di mediare ma poi ha mutato posizione su Gerusalemme" "Siamo contro l'Islam politico. Lavoriamo duro per combattere il terrorismo"

di Maurizio Molinari

ROMA - Gli Stati Uniti di Trump non gli unici mediatori in Medio Oriente». Il presidente palestinese Mahmoud Abbas è appena atterrato a Roma quando spiega a «La Stampa» l'intenzione di recapitare ai leader italiani e a Papa Francesco un messaggio assai esplicito: «L'America non basta più per raggiungere la pace». Abbas afferma di credere nel dialogo diretto con Israele, dice di aver appena tentato il canale dell'Oman e guarda ad Europa-Russia perché considera l'amministrazione Trump «un ostacolo». Da quando Yasser Arafat siglò gli accordi di Oslo a Washington nel settembre del 1993 Abbas, detto Abu Mazen, è il primo leader palestinese ad assumere una posizione così negativa nei confronti della Casa Bianca. Arrivato a 83 anni, afflitto da gravi problemi di salute e con la successione ancora tutta da decidere, Abbas gioca quella che può essere la sua ultima scommessa politica nel cambiare la dinamica del negoziato di pace: riducendo il ruolo Usa.

- Tanto lei che il premier israeliano Netanyahu siete andati in Oman. È il tentativo di far ripartire il negoziato diretto?
  «La mia visita in Oman è nata sulla base del legame storico fra i nostri popoli. L'Oman d'altra parte ha mostrato saggezza in passato nell'ospitare i negoziati riservati fra l'Iran e il gruppo 5 + 1 sul programma nucleare».

- Dunque è vero che state tentando la strada delle trattative in Oman. Cosa ha detto al sultano Qaboos?
  «Ho spiegato a lui e ai suoi consiglieri la posizione palestinese e la volontà di negoziati diretti con Israele per arrivare alla fine dell'occupazione iniziata nel 1967 di Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e Striscia di Gaza. E per risolvere tutte le questioni inerenti allo status finale: Gerusalemme, rifugiati, insediamenti, sicurezza, acque, prigionieri. Questi negoziati devono basarsi sulla soluzione dei due Stati lungo i confini del 1967, sulle risoluzioni Onu e sull'iniziativa di pace araba del 2002. Purtroppo il governo israeliano non ha ancora dimostrato la volontà di sfruttare questa occasione».

- Diverse monarchie del Golfo si stanno avvicinando, nelle maniere più diverse, a Israele. In questo scenario c'è un'opportunità per rompere lo stallo con il premier Netanyahu?
  «Per quanto ci riguarda Israele è ancora una potenza occupante in Palestina, inclusi i Luoghi Santi di Gerusalemme Est, e nessun leader arabo normalizzerà le relazioni con loro fino a quando i nostri diritti non saranno rispettati, inclusa Gerusalemme Est nostra capitale. Ovunque gli israeliani andranno e qualsiasi cosa faranno non avranno successo se non faranno fronte a tali obblighi».

- Ma l'iniziativa araba promossa dai sauditi nel 2002 per una pace regionale resta sul tavolo?
  «Non ci sarà nessuna pace regionale possibile senza fine dell'occupazione israeliana, sulla base dell'iniziativa del 2002 che resta sul tavolo come comune posizione araba sulla normalizzazione dei rapporti con Israele».

- C'è la possibilità che altri Stati arabi, come l'Arabia Saudita, il Qatar o gli Emirati, possano affiancarsi alla Giordania nel Waqf che gestisce la Spianata delle Moschee nella città vecchia di Gerusalemme?
  «Siamo d'accordo con il re Abdullah II di Giordania sulla continuazione del loro ruolo di custodi del Waqf. Gerusalemme Est è una città occupata dal 1967 ed è la capitale dello Stato di Palestina. Gerusalemme deve rimanere una città aperta a tutti i visitatori e fedeli delle religioni monoteistiche: islam, cristianesimo ed ebraismo. Ribadisco che abbiamo un grande rispetto della fede ebraica e non abbiamo problemi con l'ebraismo, ma con Israele che occupa la nostra terra. Vogliamo vivere con gli israeliani e costruire ponti di pace con loro ma devono consentirci di avere libertà e indipendenza. Vi sono nel mondo milioni di palestinesi, discendenti dei cananei, che sognano di avere il loro Stato nella terra degli antenati».

- L'amministrazione Trump potrebbe annunciare il suo piano di pace a inizio anno. Cosa vi aspettate da Washington?
  «Nel 2017 ho incontrato il presidente Trump quattro volte, si è offerto di mediare fra noi e gli israeliani ma sfortunatamente ha cambiato drasticamente la sua posizione quando ha riconosciuto Gerusalemme unificata come capitale di Israele e vi ha spostato l'ambasciata Usa, affermando che da quel momento Gerusalemme era fuori dal tavolo negoziale. Poi l'amministrazione Usa ha adottato altre misure punitive contro i palestinesi, incluso il taglio di aiuti al governo e all'agenzia Unrwa, e ha chiuso l'ufficio dell'Olp a Washington. Tutto ciò rende impossibile per gli Stati Uniti essere l'unico mediatore».

- Dunque non siete interessati al piano di pace di Trump?
  «Non avremo nulla a che fare con questa amministrazione Usa e non accetteremo da loro nessun piano di pace che viola la legge internazionale e non rispetta il ruolo di mediatore».

- Ma lei pensa davvero che in Medio Oriente si può arrivare alla pace senza il contributo degli Stati Uniti?
  «Gli Stati Uniti, ripeto, non possono essere più l'unico mediatore. Lo scorso febbraio ho suggerito al Consiglio di Sicurezza dell'Onu che l'unica maniera per fare dei progressi è creare un meccanismo che includa tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, del Quartetto ed altri. Anche l'Europa può avere un ruolo. E inoltre restiamo aperti a negoziati diretti: ho accettato più volte incontri con il premier Netanyahu, anche a Mosca su invito del presidente Putin, ma lui non si è mai presentato».

- Che cosa si aspetta da questo viaggio in Italia, cosa chiederà ai leader del governo?
  «Siamo grati all'Italia per il sostegno, politico ed economico, al popolo palestinese, e per il sostegno alle posizioni Ue. Palestinesi ed italiani hanno molti valori comuni: combattiamo terrorismo ed estremismo. E ci coordiniamo a più livelli su cultura, economia e politica. Vogliamo per l'Italia un ruolo maggiore nel processo di pace nella regione. Aspettiamo il giorno in cui ci riconoscerete come avete fatto per lo Stato di Israele».

- Secondo indiscrezioni trapelate da Amman, l'amministrazione Trump sarebbe a favore di una confederazione fra Giordania, Israele e Palestina. Come vede tale scenario?
  «Una confederazione si può formare solo fra Stati indipendenti e sovrani. Dunque la Palestina dovrebbe diventarlo per poter sottoscrivere un tale accordo».

- L'ex Segretario di Stato Usa John Kerry afferma che l'ultimo tentativo di accordo fallì a causa di opposti veti: quello di lsraele sullo smantellamento totale degli insediamenti in Cisgiordania e il vostro sulla rinuncia al diritto al ritorno dei profughi del 1948. A quali condizioni siete pronti a negoziare sul vostro veto?
  «Kerry ha fatto del suo meglio per portare le parti a negoziare ma Israele non ha mai accettato la soluzione dei due Stati come base delle trattative. Il diritto al ritorno dei profughi non è mai stato un ostacolo: deve essere sul tavolo per trovare un'intesa basata sulla risoluzione Onu 194, come previsto dall'iniziativa araba del 2002, e ci sono molte soluzioni creative per renderla accettabile a entrambe le parti».

- Hamas ha una nuova leadership a Gaza. Li considerate dei partner o dei rivali?
  «Hamas ha un programma politico diverso, li abbiamo invitati ad accettare quello dell'Olp. L'Egitto sta tentando di far applicare le intese dell'ottobre 2017 sulla riconciliazione fra noi, per consentirci di assumere le responsabilità a Gaza come già facciamo in Cisgiordania, e tenere elezioni, ma Hamas non ha ancora accettato».

- L'Olp ha deciso di ritirare il riconoscimento di Israele, ritiene davvero possibile rinunciare al negoziato per tornare alla lotta armata?
  «Solo con mezzi politici, diplomatici e pacifici possiamo raggiungere l'obiettivo di libertà e indipendenza. Abbiamo riconosciuto lo Stato di Israele nel 1993, rispettato tutti gli accordi, costruito le nostre istituzioni basandoci sullo Stato di Diritto, combattiamo il terrorismo e restiamo sempre pronti a negoziati. Ma in cambio Israele si è trasformato in uno Stato-apartheid continuando l'occupazione della Palestina, violando gli accordi firmati e le leggi internazionali con le attività degli insediamenti, ed emanando la legge razzista sull'identità dello Stato, rifiutando di riconoscere il nostro Stato e il nostro diritto all'autodeterminazione. Insomma, noi riconosciamo ancora Israele e manteniamo una stretta cooperazione nella sicurezza ma gli chiediamo in cambio di rispettare le intese».

- Come presidente palestinese, arrivato a 83 anni di età, che tipo di coesistenza vuole costruire con gli israeliani?
  «Non ho mai sospeso il dialogo con tutti gli israeliani e ogni settimana continuo a riceverli. L'unico futuro per i due Stati è vivere in pace e sicurezza, da buoni vicini. La nostra concessione nel 1988 fu di accettare che Israele prendeva il 78% della Palestina storica e noi avremmo creato il nostro Stato sul restante 22%, ovvero Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza occupati nel 1967. Dunque mi chiedo cosa altro vuole Israele».

- Le capita mai di pensare a chi potrebbe guidare il governo palestinese dopo di lei, che tipo di successore vorrebbe?
  «Un anno fa abbiamo riunito il nostro Consiglio nazionale, eletto i nuovi membri e il comitato esecutivo dell'Olp. Il Fatah, che è il partito più grande, ha fatto lo stesso eleggendo i suoi leader. Dunque, abbiamo le istituzioni per guidare la nazione».

- Olp, Fatah e governo palestinese sono espressioni nel nazionalismo arabo che attraversa una fase di declino a causa dell'affermazione dell'Islam politico. Come vede lo scontro fra queste due forze all'interno di più Stati arabi?
  «Tutti i palestinesi, uomini o donne, non importa di quale colore o razza, cristiani, musulmani o samaritani, sono uguali davanti alla legge. E vogliamo che ciò continui. Siamo contro l'Islam politico. Lavoriamo duro per combattere il terrorismo nella nostra regione e cooperiamo con molti Stati a tal fine».

(La Stampa, 3 dicembre 2018)


Israele: rinviata la legge sulla leva degli ortodossi

La Corte Suprema israeliana ha deciso di concedere un mese e mezzo di tempo al governo di Benyamin Netanyahu per approvare la legge che regola la leva degli ebrei ortodossi, consentendo così alla coalizione di maggioranza di evitare una possibile crisi di governo. Senza la decisione della Corte sarebbe infatti scaduto oggi il termine in base al quale migliaia di studenti delle scuole rabbiniche sarebbero stati passibili di arruolamento in aperta opposizione ai partiti religiosi che fanno parte del governo. Dopo le recenti dimissioni del ministro della difesa Avigdor Lieberman, che ha ritirato il suo partito dalla maggioranza, l'attuale coalizione dispone di soli 61 seggi su 120 alla Knesset e senza l'appoggio dei religiosi - che avrebbero votato contro la legge se fosse stata discussa - il governo sarebbe andato in minoranza.

(ANSAmed, 3 dicembre 2018)


La polizia chiede l'incriminazione di Netanyahu

Il premier accusato di corruzione.

di Giordano Stabile

Benjamin Netanyahu e la moglie Sara rischiano una nuova incriminazione. Lo ha chiesto la polizia israeliana al termine delle indagini per corruzione nel cosiddetto "caso 4000". Per il premier e consorte è la terza richiesta di questo tipo. Ora sarà il procuratore generale di Israele a dover decidere se procedere. Il "caso 4000" riguarda i favori fatti a Shaul Elovitch, proprietario del gigante delle telecomunicazioni Bezeq e del sito di notizie, Walla. La polizia sostiene che quando Netanyahu era anche ministro delle Telecomunicazioni, fra il 2014 e il 2017, avrebbe modificato le leggi procurando a Elovitch vantaggi valutati in oltre 200 milioni di dollari. In cambio Elovitch ha provveduto a una «copertura» favorevole dell'azione di governo, e anche riguardo Sara Netanyahu.
   La First Lady avrebbe partecipato alla corruzione con numerose telefonate alla moglie di Elovitch, Iris. Per Netanyahu l'inchiesta nasce da un tentativo di "vendetta" da parte dell'investigatore Roni Alsheich, che ha condotto le indagini. Una difesa in linea con quella tentata dalla moglie di fronte alle accuse dell'ex maggiordomo Meni Naftali, un caso che ha portato alla sua incriminazione per una frode allo Stato da 110 mila euro. Una nuova incriminazione sarebbe un colpo quasi fatale. Il capo dell'opposizione Tzipi Livni ha chiesto le dimissioni del premier: «Elezioni subito». La maggioranza si è ridotta a soli 61 seggi sui 120 della Knesset dopo la defezione del ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Le elezioni sono da tenersi entro novembre 2019 ma probabilmente saranno anticipate a maggio, o addirittura a marzo.

(La Stampa, 3 dicembre 2018)


L'ambasciatore Usa: le sanzioni sono uno strumento utile al raggiungimento di un obiettivo

ROMA - Le sanzioni costituiscono, per gli Stati Uniti, uno strumento utile al raggiungimento di un obiettivo, e non un fine in sé. Lo ha dichiarato l'ambasciatore statunitense in Italia, Lewis Michael Eisenberg, intervenuto oggi alla conferenza internazionale "The Us-Italy Dialogue", organizzata a Roma dalla sede italiana dell'Istituto Aspen, in collaborazione con l'ambasciata statunitense. "Nel caso dell'Iran, il nostro obiettivo è quello di porre fine alla sponsorizzazione, da parte di Teheran, di azioni di natura terroristica", ha esordito Eisenberg. "Per quanto riguarda la Russia, voglio confermare che gli Stati Uniti vorrebbero poter considerare la Federazione Russa un paese amico, e una forza positiva all'interno del panorama globale delle relazioni internazionali. Fino a che Mosca non cambierà il proprio atteggiamento e si adeguerà a quanto disposto all'interno degli accordi di Minsk, tuttavia, è difficile prendere in considerazione l'idea di porre fine alle sanzioni", ha dichiarato l'ambasciatore.

(Agenzia Nova, 3 dicembre 2018)


«Gli ebrei hanno paura e scappano dalla Francia per colpa dei musulmani radicali»

Gli attacchi antisemiti sono cresciuti del 69% e un giovane su cinque non sa che cosa sia l'Olocausto. La denuncia del funzionario governativo Frédéric Potier: «Il nuovo antisemitismo è opera dell'islam radicale».

di Leone Grotti

«Sono spaventata per mio figlio. Non so se avrà un futuro qui». Myriam stringe in braccio il suo figlio appena nato e parla alla Cnn di una paura che non dovrebbe esserci. Può nel 2018 una ragazza ebraica residente in Europa temere per l'avvenire della sua famiglia a causa «dell'antisemitismo»? Sì, perché Miryam vive con il marito in un sobborgo di Parigi e dal 2000 già 55 mila ebrei hanno lasciato la Francia per tornare in Israele.

 Cresce l'antisemitismo
  A inizio mese il premier francese Édouard Philippe ha diffuso su Facebook l'inquietante rapporto sul numero degli atti antisemiti avvenuti in Francia nei primi nove mesi del 2018 e cresciuti del 69 per cento rispetto al 2017. Secondo un sondaggio condotto a inizio settimana dalla Cnn, inoltre, un francese su cinque tra i 18 e i 34 anni non ha mai sentito parlare dell'Olocausto. «Sono davvero sorpreso, è un numero pazzesco per il nostro paese», ha commentato Frédéric Potier, incaricato dal governo di Emmanuel Macron di supervisionare il piano per combattere l'antisemitismo. «Del resto sappiamo di avere problemi. Alcuni professori hanno difficoltà a insegnare l'Olocausto a scuola».
Il motivo di questa difficoltà, soprattutto nelle aree più periferiche e segnate dall'immigrazione, è dovuta all'alta presenza nelle scuole di studenti musulmani. Come testimoniato a Tempi da Bernard Ravet, direttore per tre anni di tre collège pubblici nelle banlieue di Marsiglia e autore del libro Principal de collège ou imam de la République?, «l'antisemitismo nelle scuole è all'ordine del giorno: commenti come "gli ebrei si sono meritati la Shoah" o "Hitler ha fatto bene" sono ricorrenti. Una volta ho rifiutato l'iscrizione a un bambino ebraico per timore che non uscisse vivo dalla scuola».

 «Fanno bene a essere spaventati»
  Dal massacro di Mohamed Merah alla strage dell'Hyper Cacher, dall'assassinio nel 2017 di Sarah Alimi a quello nel 2018 di Mireille Knoll, i casi eclatanti di antisemitismo sono tanti in Francia. Per questo molti ebrei scelgono di andarsene. Così un quartiere parigino come Aulnay-sous-Bois, un tempo abitato da molte famiglie ebraiche, ora si sta svuotando. E secondo Malika, musulmana residente del quartiere, «fanno bene a essere spaventati» perché molti musulmani vogliono vendicarsi sugli ebrei di quanto avviene tra Israele e Gaza.
Come dichiarato da Yonathan Arfi, presidente del Crif, che riunisce le comunità ebraiche francesi, «dal 2000 abbiamo subito diverse centinaia di attacchi. Ma prima si trattava di scritte offensive sui muri, ora siamo passati all'assassinio di persone e al terrorismo. La natura dell'antisemitismo è cambiata in modo drammatico. Molti giovani si identificano con i palestinesi e considerano gli ebrei francesi colpevoli per quello che accade in Medio Oriente».

 Musulmani radicali
  Secondo il funzionario governativo Potier, «il nuovo antisemitismo è opera dei musulmani radicali, che usano i vecchi messaggi che lanciava anche l'estrema destra in passato». Hakim El Karoui, che lavora all'Institut Montaigne ed è stato consigliere del governo sull'antisemitismo, è «preoccupato della fuga degli ebrei da dipartimenti come Seine-Saint-Denis. La situazione si sta deteriorando. La comunità musulmana dovrebbe gridare forte che l'antisemitismo è inaccettabile, ma c'è invece molta omertà».
Anche per Myriam, la giovane mamma di Parigi, «la prima priorità è di riconoscere qual è il problema. E il cuore del problema è l'islam radicale: bisogna dirlo, bisogna dare un nome alle cose. Solo dopo si potrà mettere in atto un piano educativo per cambiare la situazione: il governo francese si sta impegnando, ma non sta facendo abbastanza».

(Tempi, 2 dicembre 2018)


Nel giardino dei giusti due alberi per celebrare Simone Veil e Istv An Bjbò

di Antonio Ferrari

MILANO - In questa fase drammatica di crisi europea, nella quale sembrano smarriti i valori fondativi dell'Unione, nata dalla tragedia delle guerre mondiali e cementata dalla volontà di creare un sentimento identitario, è importante e doveroso riconoscere e ricordare. Anche celebrare chi ha contribuito a sostenere l'ideale di una convivenza in qualche caso difficile, ma necessaria per cementare la pace.
E davvero nobile la decisione di Gariwo di dedicare sul Montestella di Milano
il 6 marzo prossimo, giornata europea dei Giusti, un albero a Simone Veil, figlia di ebrei parigini, deportata ad Auschwitz insieme alla famiglia nel marzo del '44.
Salva, ma costretta a lavorare duramente nel campo di sterminio, grazie ad una bugia. Si era dichiarata diciottenne e aveva nascosto i suoi reali sedici anni, che l'avrebbero condannata al gas e al forno.
Da sopravvissuta ha dedicato la vita agli ideali di convivenza e di libertà.
Sposata, madre di tre figli, impegnata nella società civile, diventerà segretario generale del Consiglio superiore della magistratura francese, ministro della Sanità nel governo di Valery Giscard d'Estaing e, nel 1979, primo presidente - e prima presidente donna - del Parlamento europeo.
Gariwo, acronimo della foresta dei Giusti, la ricorderà sul Montestella assieme a Istvcin Bibó, ungherese nato da una famiglia calvinista, che lottò contro il comunismo e contro i carri armati sovietici, schierandosi a fianco del capo del governo, il ribelle Imre Nagy.
Anche a Bibó, che fu scarcerato in seguito a un'amnistia, verrà dedicato un albero a Montestella. Infatti, il Giusto magiaro può essere considerato, per impegno, rigore e coraggio, il vero oppositore morale dell'uomo che guida i destini dell'Ungheria di oggi, il discusso leader nazionalista e sovranista Viktor Orbcin.

(Corriere della Sera, 3 dicembre 2018)



Gli sceicchi dialogano con Israele

di Maurizio Molinari

Benjamin Netanyahu è accolto dal Sultano dell'Oman, le note dell'«Hatikwa» vengono
suonate negli Emirati, l'Arabia Saudita si protegge con tecnologia israeliana, il sovrano del Bahrein invita ministri dello Stato ebraico e il Qatar si accorda con Gerusalemme per inviare ingenti aiuti alla Striscia di Gaza: quanto avvenuto nell'ultimo mese dimostra che la novità in Medio Oriente è lo scongelamento dei rapporti fra le monarchie del Golfo e Israele.
   Si tratta di un processo in pieno svolgimento e dalle conseguenze ancora difficili da prevedere anche se è già possibile individuare i tre fattori che lo hanno innescato.
   Primo: sul piano strategico lo Stato ebraico e i Paesi arabi del Golfo si sentono ugualmente minacciati dall'Iran di Ali Khamenei a causa delle mosse di Teheran su programma nucleare, riarmo balistico e sostegno a gruppi terroristici o ribelli sciiti.
   Secondo: sul fronte economico monarchi, sultani ed emiri vedono la possibilità di creare un'alleanza fra risorse naturali in loro possesso ed alta tecnologia israeliana capace di trasformare quest'angolo di pianeta in un protagonista dell'economia globale.
   Terzo: per i leader arabi del Golfo come per Israele il riferimento è il presidente Donald Trump che ha riassegnato all'America il ruolo di tradizionale protettore dei propri alleati nella regione, archiviando le incertezze del predecessore Barack Obama.
   L'interrogativo davanti a tale processo di riavvicinamento è fino a dove può arrivare ovvero se può portare a favorire una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Da qui l'attenzione per le parole di Mare Schneier, il rabbino di New York divenuto uno dei canali informali di questa nuova stagione diplomatica.
   Per i Paesi del Golfo la questione palestinese resta. importante - spiega Schneider - ma mentre prima affermavano di non poter avere contatti con Israele fino alla sua soluzione, ora ritengono che i due processi possano essere contemporanei». Questo spiega perché il sultano Qaboos dell'Oman ha invitato Netanyahu nel suo palazzo, perché ad Abu Dhabi la medaglia d'oro nel judo ha portato a suonare a cielo aperto l'inno nazionale israeliano alla presenza del ministro Miri Regev, perché il Bahrein ha invitato un altro ministro israeliano a Manama in aprile così come perché, secondo il quotidiano arabo «Al Arabi Al Jadid», l'Arabia Saudita vuole formare un «Quartetto arabo» - con Egitto, Giordania e palestinesi - per negoziare con Israele la risoluzione del conflitto centenario, iniziato con l'opposizione a fine Ottocento delle tribù arabe all'arrivo nella Palestina ottomana dei pionieri sionisti in fuga dalle persecuzioni dello zar.
   Dietro il sostegno di Riad a tale svolta ci sono crescenti legami economici e militari con Israele - inclusa la difesa dei palazzi reali dai droni armati di bombe lanciati dai ribelli Houthiin Yemen - ma anche qualcosa di più: la maturata convinzione nei leader religiosi sunniti che Israele sia parte integrante dell'ebraismo, superando così la precedente ostilità al sionismo come «entità coloniale». Si spiega così la decisione del sovrano del Bahrein di reagire all'annuncio di Trump sul trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme con l'invio di una folta delegazione di leader religiosi sunniti che si è recata in visita ai luoghi santi della città vecchia. Manama d'altra parte è l'unica capitale araba del Golfo ad ospitare ancora una comunità ebraica e ciò aumenta il significato dell'avvicinamento a Israele, fino al punto da far prevedere al tam tam regionale che possa essere proprio il Bahrein la prima monarchia ad allacciare formali legami diplomatici con lo Stato ebraico. A ciò bisogna aggiungere che Netanyahu vanta anche un dialogo informale con il Qatar, ancora isolato da tutti i suoi vicini. Le relazioni fra Gerusalemme e Doha si concentrano su Gaza perché gli aiuti, economici ed umanitari, che l'Emiro Al-Thani fa arrivare alla Striscia sono considerati da Israele un fattore di stabilità, capace di creare una cornice diversa anche nei rapporti con gli acerrimi nemici di Hamas. Come se non bastasse c'è anche il Sahel in movimento: il presidente del Ciad, Idriss Deby, si è recato nei giorni scorsi a Gerusalemme - dopo 46 anni dalla fine delle relazioni - affermando che l'aiuto israeliano contro i gruppi jihadisti nel Sahara «ha posto le premesse per una ripresa dei rapporti che interrompemmo nel 1972 solo perché obbligati dal colonnello libico Moammar Gheddafi».
   L'amministrazione Trump considera tali e tanti sviluppi la premessa di un nuovo possibile assetto del Medio Oriente, al fine di isolare l'Iran e ridimensionare il ruolo della Russia, mentre l'Europa appare ancora alla finestra, incapace di cogliere le significative novità che stanno maturando sul lato opposto del Mediterraneo.

(La Stampa, 2 dicembre 2018)


Gli ingegneri creativi sono il futuro

Joseph Klafter, al vertice dell'Università di Tel Aviv e presidente del comitato dei rettori di Israele.

di Alain Elkann

 
Joseph Klafter, Rettore dell'Università di Tel Aviv
Joseph Klafter è rettore dell'Università di Tel Aviv (Tau) dal 2009 e presidente del comitato dei rettori di Israele. È docente di fisica chimica ed è stato presidente della Israel Science Foundation (Isf), la principale istituzione a sostegno della ricerca scientifica in Israele, dal 2002 al 2009. Nel 2011 l'American Academy of Arts and Sciences lo ha nominato membro onorario.

- Come descriverebbe l'Università di Tel Aviv?
  «È una delle più recenti, nata dopo la fondazione dello Stato. Esiste solo dal 1956, eppure è già di gran lunga la maggiore del Paese. Abbiamo 30mila iscritti, di cui 16 mila studenti universitari e 14mila dottorandi, il che la rende una vera centrale di ricerca. Abbiamo anche 2.500 studenti stranieri. Siamo l'università più completa, poiché copriamo quasi ogni settore della ricerca e dell'insegnamento».

- Quali sono le eccellenze?
  «Informatica, matematica, giurisprudenza, chimica, la nostra scuola d'impresa. Sono centri di fama mondiale».

- I docenti sono tutti israeliani?
  «La maggior parte di origine israeliana, o immigrati ebrei che si sono trasferiti qui. Non li assumiamo fino a quando non hanno concluso il loro PhD e trascorso alcuni anni all'estero, in Usa o in Europa. Israele è un piccolo Paese (ma con 9 università), vogliamo una prova internazionale delle loro capacità. E quando li prendiamo sappiamo che sono davvero eccellenti».

- Cosa ha cambiato come presidente di Tau?
  «Le università così come le conosciamo sono state modellate oltre 200 anni fa sulle idee di Humboldt, che ne ha definito il modello basato sulla libertà accademica e l'indipendenza dalla religione e dalla politica. Un modello guidato non dal mercato ma solo dalla ricerca. Ora è chiaro che le università devono reinventarsi. Il futuro è influenzato dalla rivoluzione digitale».

- Come si fa?
  «L'intera impresa universitaria deve dare agli studenti strumenti per affrontare l'ignoto. Direi che prima di tutto dobbiamo insegnare il maggior numero possibile di discipline e rendere possibile la creazione di curricula flessibili. Un esempio di cui sono molto orgoglioso è la nuova laurea che combina l'ingegneria con le discipline umanistiche. Ha già suscitato molto interesse in varie aziende che cercano ingegneri ma richiedono anche capacità creative. Società come Apple, Facebook, Google cercano ingegneri orientati al design, alla filosofia e con competenza di social network. E poi puntiamo anche sull' apprendimento personalizzato».

- Le università oggi sono meno importanti a causa di Internet e Google?
  «No, ma poiché le informazioni sono molto più accessibili, il ruolo delle università deve andare nella direzione di una comprensione più profonda».

- Molte università hanno corsi online adesso?
  «I corsi online popolari sono un esempio di come la conoscenza possa essere trasferita da un continente all'altro. Ma significa anche che gli studenti vengono in classe principalmente per discutere e approfondire quello che apprendono, non solo per acquisire nozioni. La nostra università ha deciso di iniziare l'apprendimento accademico con questi corsi online quando gli studenti sono ancora alle superiori, in modo che inizino ad avere qualche credito accademico».

- Chi finanzia la vostra università?
  «In Israele tutte le università sono pubbliche. Siamo finanziati dal governo, che negli ultimi anni ha sì aumentato i fondi, ma non abbastanza dal momento che il costo della ricerca è in costante crescita. Il governo fornisce circa il 70% del nostro budget. Il resto viene dalle tasse scolastiche - che sono molto basse - e da programmi speciali a pagamento. Tutto lo sviluppo dell'università, nuovi programmi, nuovi edifici, nuove attrezzature, si deve alla filantropia».

- I giovani israeliani hanno un servizio militare molto lungo. Come affrontate il problema?
  «Alla fine del liceo si presta servizio nell'esercito per 3-5 anni, anche di più. Ci si iscrive all'università dopo rispetto ad altri Paesi, ma è per questo che i nostri universitari hanno una visione più ampia della vita».

- Pensa che l'istruzione sia l'arma più forte contro razzismo e antisemitismo?
  «È un problema con diverse sfaccettature. Spero che l'educazione fin dalla tenera età funzioni, ma dobbiamo distinguere tra questo aspetto e il movimento Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) creato dai palestinesi contro Israele. È in crescita ed è diffuso tra gli studenti universitari in tutto il mondo. Studenti che saranno i docenti di domani».

- Ci sono molti studenti arabo-israeliani al Tau?
  «Sono il 14%. Si integrano bene e per loro abbiamo programmi speciali di tutoraggio sull'apprendimento dell'ebraico e contro l'abbandono scolastico».

- Siete in contatto con altre università nel mondo?
  «Collaboriamo con le principali università straniere. La scienza è sempre più globale e le grandi sfide devono essere risolte cooperando».

(La Stampa, 2 dicembre 2018 - trad. Carla Reschia)


L'allegria nei film di famiglia prima dell'orrore nazifascista

Le immagini di feste, matrimoni e viaggi degli Ovazza tra il 1930 e il 1936. Bisogna raccontare la deportazione ma anche le microstorie con cui la gente può capire cosa accadde

di Maria Teresa Martinengo

«Eravamo vagamente al corrente dell'esistenza di quelle pellicole. E un giorno le abbiamo ritrovate in un armadio nella casa di Moncalieri, casa mia e di mio fratello Alain Elkann: film di famiglia in 16 millimetri, momenti di festa, feste ebraiche, un matrimonio, vacanze al mare, un meraviglioso viaggio in Libia di signore torinesi impellicciate». È il professor Giorgio Barba Navaretti, uno dei discendenti della famiglia Ovazza, a ricordare l'emozione della scoperta delle bobine girate dal nonno in pieno fascismo. Una parte di quelle riprese, digitalizzate a cura dell'Archivio Nazionale Cinema Impresa e montate, viene presentata stamane alle 11 al cinema Massimo, presenti Barba Navaretti, Alain Elkann ed Ernesto Ovazza. L'occasione per mostrare questo prezioso, inedito materiale è doppia: l'ottantesimo dell'entrata in vigore delle leggi razziali e il quarantesimo anniversario della scomparsa dell'autore delle riprese, Vittorio Ovazza.
   «Ritrovare questi film, molto belli, sopravvissuti alla guerra, è stato un miracolo - dice Barba Navaretti - e proprio per questo ci è sembrato importante farne un piccolo montaggio per mostrarli a tutti i famigliari e alla città. Oltre ai film, negli archivi della Banca d'Italia ho trovato documenti sulla Banca Ovazza e sulla sua vendita, a cui mio nonno fu costretto dalle leggi razziali. Si parlava di una banca florida, di proprietari molto apprezzati ... ».
   I fratelli Ettore, Alfredo e Vittorio Ovazza, che con il loro padre Ernesto avevano preso parte alla prima guerra mondiale nell'esercito italiano, possedevano la Banca Vitta Ovazza a Torino. La Banca era stata fondata dal nonno Vitta nel 1860, pochi anni dopo l'emancipazione degli ebrei in Piemonte, ed aveva contribuito a finanziare lo sviluppo industriale della regione. I proprietari dovettero cederla dopo l'introduzione delle leggi razziali. Il primo dei fratelli, Alfredo, si rifugiò in Uruguay, il minore, Vittorio, a New York, mentre Ettore, convinto dalla sua fede fascista, rimase in Italia e venne assassinato con moglie e figli dai nazisti sul Lago Maggiore nell'ottobre del 1943.
   Stamane la Storia, sempre più spesso percepita lontana, diventerà realtà di madri, padri, bambini. Saprà toccare, coinvolgere. «Le immagini dicono com'era la vita degli ebrei italiani negli anni '30. Un documento eccezionale perché sono rarissimi i filmati di quel genere e perché testimonia che si trattava di persone perfettamente inserite nella società. Poi, nel 1938, tutto finisce. Le famiglie che nel 1937 ridevano, si divertivano, pochi anni dopo saranno uccise». Nei libri della Banca d'Italia le parole per identificare i banchieri Ovazza cambiano. «Non sono più bravi cittadini, non vengono più identificati con la loro attività professionale, ma come "cittadini di razza ebraica"», ricorda Barba Navaretti. E nell'anniversario: «In questo momento è bene, con la deportazione, raccontare le "microstorie": far vedere come in un'altra epoca, ma potrebbe essere oggi, la normalità della vita professionale e famigliare sia stata interrotta».
   Sergio Toffetti, da direttore dell'Archivio Cinema Impresa di Ivrea, aveva curato la digitalizzazione e il restauro dei materiali ritrovati a Villa Ovazza. «Dal punto di vista della storia e della storia ebraica - . commenta - è un documento importante, una bella operazione di valorizzazione di documenti famigliari. La storia di questa famiglia pare quella del "Giardino dei Finzi Contini". Quando si pensava che le leggi razziali fossero un proforma». -

(La Stampa - Torino, 2 dicembre 2018)



«Sforzatevi di entrare per la porta stretta»

Gesù attraversava città e villaggi, insegnando e avvicinandosi a Gerusalemme. Un tale gli disse: «Signore, sono pochi i salvati?» Ed egli disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché io vi dico che molti cercheranno di entrare e non potranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, stando di fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici”. Ed egli vi risponderà: “Io non so da dove venite”. Allora comincerete a dire: “Noi abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, e tu hai insegnato nelle nostre piazze!” Ed egli dirà: “Io vi dico che non so da dove venite. Allontanatevi da me, voi tutti, malfattori”. Là ci sarà pianto e stridor di denti, quando vedrete Abraamo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi ne sarete buttati fuori. E ne verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, e staranno a tavola nel regno di Dio. Ecco, vi sono degli ultimi che saranno primi e dei primi che saranno ultimi».

Dal Vangelo di Luca, cap. 13

 


Giovedì l'ONU voterà contro Hamas. E' la prima volta che avviene

Giovedì prossimo per la prima volta l'ONU discuterà una risoluzione che condanna i terroristi di Hamas per il continuo lancio di missili sulla popolazione israeliana. E' un fatto storico fortemente voluto da Nikki Haley prima di lasciare il suo posto di ambasciatrice americana alle Nazioni Unite.

Giovedì prossimo l'Assemblea generale della Nazioni Unite voterà una risoluzione presentata dagli Stati Uniti che condanna il lancio di missili contro Israele da parte di Hamas.
Sembra incredibile, ma è la prima volta che l'Assemblea generale della Nazioni Unite viene chiamata a votare una risoluzione di condanna per questo gruppo terrorista palestinese che da decenni tiene in ostaggio la Striscia di Gaza e conduce attività terroristiche contro uno Stato democratico.
La risoluzione è stata presentata da Nikki Haley, ambasciatrice americana uscente alle Nazioni Unite, che con un grande sforzo diplomatico è riuscita nell'impresa di ottenere l'appoggio cruciale dei Paesi europei, un fatto questo che dovrebbe garantire che la risoluzione verrà approvata....

(Rights Reporters, 1 dicembre 2018)


I centoquarant'anni del Tempio Israelitico di Vercelli

La celebrazione si svolgerà alla presenza dei rabbini, della Presidente e delle autorità

 
La Sinagoga di Vercelli
Presso la Sinagoga di Vercelli, domenica 16 dicembre 2018, alle ore 16, la Comunità Ebraica ricorderà i centoquarant'anni dall'edificazione del Tempio con una cerimonia condotta da Rav Elia Enrico Richetti, rabbino di riferimento di Vercelli insieme con Rav Alberto Moshe Somekh di Torino.
   Dopo anni di progetti, lavori e preparazione, il 18 settembre 1878 veniva inaugurato con una funzione solenne il nuovo "Tempio Israelitico" di Vercelli. Simbolo dell'ebraismo piemontese, la Sinagoga è considerata come una delle più belle tra le italiane, nata dalla volontà della Comunità vercellese di affermare la propria libera presenza sul territorio. A centoquarant'anni dalla sua inaugurazione, la Presidente Rossella Bottini Treves ha voluto rendere onore a coloro che resero possibile la costruzione del nuovo Beth ha Kenesseth di Vercelli realizzando il volume: 1878-2018 Il Tempio Israelitico di Vercelli, che ripropone in ristampa anastatica il Discorso pronunziato dal Rabbino Maggiore Giuseppe Raffael Levi nella solenne inaugurazione del nuovo Tempio dell'Università Israelitica di Vercelli, con altri articoli, testi e poesie redatti per il solenne e storico evento.
   La pubblicazione del 1878, che riporta il discorso inaugurale del Rabbino G.R.Levi è stata riprodotta integralmente in un volume bilingue con i contributi nell'originale ebraico ed in italiano, unitamente alla riproduzione delle firme originali manoscritte di tutti coloro che, a partire dal 1863, parteciparono al suo progetto e alla sua edificazione finale.
   Oltre al discorso del Rabbino Giuseppe Raffael Levi, sono presenti gli Shirim, inni composti per la solenne inaugurazione con la premessa storica Reshit da'at in anastatica, con la trascrizione di rav Alberto M. Somekh e il Carme composto da Samuele Vitalevi. Il volume si compone inoltre degli estratti dell'Educatore Israelita, periodico mensile fondato da Giuseppe Levi e pubblicato, a Vercelli, tra il 1853 e il 1874 e de Il Vessillo Israelitico, prosecuzione casalese dell'Educatore curata dal Rabbino Flaminio Servi dalla morte di Giuseppe Levi. I due periodici, voci dell'ebraismo locale ed italiano, illustrano le varie fasi legate alla costruzione del Tempio e la sua inaugurazione, restituendo un'immagine vivida dell'impatto che l'evento ebbe a livello piemontese e nazionale.
   Al volume, che sarà reso disponibile proprio a partire dalla cerimonia del 16 dicembre, spetta il compito di tramandare la storia della nascita della Sinagoga attraverso le voci dei protagonisti dell'epoca.
   Un importante tassello culturale si aggiunge al patrimonio dell'ebraismo piemontese dunque, in un anno, il 2018, che si è distinto anche per un altro tragico anniversario, quello degli ottant'anni dalla promulgazione delle leggi razziali.

(Vercelli Oggi, 1 dicembre 2018)


In Siria l'Iran cambia le regole del gioco

Il recente attacco a un sito militare a sud di Damasco, attribuito a Israele e non confermato da Gerusalemme, ha scatenato la condanna di Assad alle Nazioni Unite. Ciò che più interessa è lo sviluppo della politica iraniana nella regione da settembre, con Libano e Iraq nel mirino.

di Giovanni Quer

Il coinvolgimento dell'Iran in Siria rappresenta una minaccia diretta a Israele e un possibile ostacolo agli interessi russi. Fino all'abbattimento dell'aereo militare russo a settembre, Israele ha potuto contrastare l'espansionismo iraniano con una serie di attacchi a siti militari in Siria. Dopo l'incidente, la Russia ha fornito ai siriani il sistema antimissilistico S-300, che avrebbe dovuto mettere fine alle operazioni militari israeliane. Il recente attacco a un sito militare a sud di Damasco, attribuito a Israele e non confermato da Gerusalemme, ha scatenato la condanna di Assad persino alle Nazioni Unite. La scelta della piattaforma internazionale dell'Onu per condannare Israele può esser commentata con sdegno o ironia. Ciò che più interessa però è lo sviluppo della politica iraniana nella regione da settembre, con Libano e Iraq nel mirino.
  Tra i risvolti dell'incidente di settembre vi è anche la copertura mediatica della fornitura di armi iraniana a Hezbollah attraverso la Siria. Un altro volo partito da Teheran ha effettuato un atterraggio di "emergenza" a Beirut. L'Iran passerebbe armamenti a Hezbollah per sviluppare l'industria militare i cui siti Netanyahu ha denunciato all'Onu. Le presenza militare iraniana in Siria è stata duramente colpita dagli attacchi israeliani ed ora si passa alla fornitura diretta a Hezbollah.
  Dopo le elezioni di maggio, a Beirut ancora non si è formato un governo, mentre Hezbollah è di fatto in controllo delle strutture militari e parte del mondo politico. Hezbollah fa pressioni sul premier designato Hariri perché nomini come ministri sunniti pro-siriani (quindi favorevoli a Hezbollah, che controlla l'unica milizia che non è stata smantellata dopo la Guerra civile). In un sistema che penalizza gli sciiti, il gruppo capeggiato da Hassan Nasrallah si oppone alla formazione di un governo che non abbia sufficienti rappresentanti o politici simpatizzanti. Il quotidiano L'Orient Le Jour riporta la formazione di un "raggruppamento per la sovranità", capeggiato da accademici e giornalisti per "l'opposizione pacifica" al partito sciita che minaccia la stabilità del Paese. Un altro episodio accaduto ieri nel distretto di Chouf, cuore del governatorato druso, dimostra la tensione nel Paese per via delle elezioni e della politica regionale: l'esercito libanese ha arrestato una cinquantina di manifestanti armati, sostenitori del leader druso Wahhab, pro-siriano. Il suo oppositore Joumblatt, che sostiene il premier Hariri, ha avvertito che il villaggio di Moukhtara è "una linea rossa, quali che siano gli equilibri regionali". Nell'assenza di un governo, l'Iran rafforza Hezbollah, cui nemmeno l'esercito si oppone.
  Il secondo focus dell'Iran è Baghdad, che anche arranca ad uscire dall'instabilità. Il quotidiano The Telegraph ha pubblicato un articolo che cita fonti di intelligence secondo cui l'Iran sta operando una politica di eliminazione di politici (sunniti e sciiti) non favorevoli a Teheran. Le Al-Quds Forces, unità speciale delle Guardie della Rivoluzione al comando di Qassem Suleimani, avrebbero ucciso una serie di esponenti politici che si oppongono all'influenza iraniana, tra cui Adel Shaker al-Tamimi, vicino all'ex primo ministro al-Abadi, e anche lo sciita Shawki al-Haddad, vicino al leader Moqtada al-Sadr (alleato di Teheran fino al ritiro delle truppe americane e di recente indipendentista). Fallito il tentativo di creare un governo pro-iraniano durante le elezioni e perso il sostegno del leader sciita al-Sadr, Teheran sarebbe passata ad altre misure per assicurarsi il controllo di Baghdad.
  L'obiettivo iraniano è dominare la regione operando attraverso le comunità sciite. Nell'annuale conferenza per l'unità islamica, svoltasi la scorsa settimana in Iran, sono stati mandati tre chiari messaggi a Israele, Stati Uniti e Paesi arabi. Anzitutto lo slogan della conferenza "Quds (Gerusalemme in arabo), l'asse di unità della Umma (la comunità islamica nel suo complesso)" non lascia dubbi sulla centralità della lotta contro l'esistenza di Israele, definito anche dal "moderato" Rouhani come un "cancro" e un "falso regime" instaurato dalle potenze occidentali per indebolire il mondo islamico. Nei comunicati finali della conferenza si legge anche che l'opposizione a qualsiasi normalizzazione con Israele è un dovere religioso e morale (un'idea condivisa anche da vari altri gruppi che non si identificano come islamici). Poi il messaggio al popolo dell'Arabia Saudita, l'acerrimo nemico di Teheran: "Vi consideriamo nostri fratelli", ha detto Rouhani, promettendo protezione dal terrorismo senza dover per forza "pagare milioni di dollari", riferendosi agli accordi con gli Stati Uniti. Infine, il messaggio al mondo islamico e la necessità di unirsi contro gli Stati Uniti, citando Afghanistan, Iraq, Siria, Libano e Yemen, vale a dire gli Stati dove l'Iran può contare su gruppi politici e milizie sciiti in linea con la politica della Rivoluzione.
  Il quotidiano iraniano Jam-e Jam ha pubblicato una serie di articoli sulla potenza militare iraniana e un'intervista al comandante delle forze aree delle Guardie della Rivoluzione, Amir Ali Hajizadeh, che loda le capacità militari iraniane, tra cui anche l'esportazione di armamenti nonostante le sanzioni. Lo stesso Hajizadeh nel 2016 aveva annunciato in occasione di esercitazioni missilistiche che l'Iran sarebbe capace di colpire il nemico sionista da una sicura distanza. In altre parole, le Guardie della Rivoluzione sono pronte a uno scontro militare.
  Le risposte di Israele sono due: la settimana scorsa l'esercito israeliano ha effettuato un'esercitazione militare di ampia scala su due fronti congiunti (quello a nord e Gaza). Se è vero che è Israele ad aver colpito la base militare a sud di Damasco, allora il secondo messaggio sarebbe che Gerusalemme è pronta a colpire nonostante i divieti imposti dai russi dopo settembre.
  Le sanzioni imposte da Trump stanno mettendo in ginocchio l'economia iraniana - anche i giornali più vicini al regime parlano di un nuovo sistema di rateizzazione del carburante. Il rafforzamento degli storici alleati americani nella regione, la perdita dell'influenza politica su Baghdad, e l'apertura verso Israele da parte di alcuni Stati arabi hanno aumentato il senso di accerchiamento del regime, che si sente minacciato dall'Occidente imperialista e dal mondo sunnita che lo circonda. Un clima di questo tipo porta a decisioni drastiche per il perseguimento di due obiettivi fondamentali: eliminare Israele e creare una linea sciita da Beirut a Baghdad.
  Alcuni giornali arabi riportano un editoriale pubblicato su The Weekly Standard, intitolato "L'Europa ama il mullah". Tralasciata la scelta linguistica di dubbio gusto (e anche poco corretta riguardo al contesto iraniano), la domanda che l'editoriale si pone, e che la stampa araba riporta, è: perché, nonostante i tentativi di attacchi terroristici su suolo europeo e l'opposizione interna al regime, l'Europa è decisa a salvare un accordo che ha portato sinora a rimpinguare i fondi di una politica di destabilizzazione?

(formiche, 1 dicembre 2018)



Desert BikeAir: tour in mountain bike nel deserto del Negev

 
Israele è il luogo ideale per una bella pedalata in mountain bike. Gli amanti della due ruote qui trovano tutto quello che cercano.
L'Israel Bike Trail, la spettacolare pista presente nella parte meridionale di Israele, si snoda principalmente su un singletrack lungo un paesaggio desertico incontaminato e ininterrotto.
A differenza di qualsiasi altro deserto, il Negev è un affascinante mosaico di formazioni geologiche naturali, antiche testimonianze storiche e le più avanzate e fertili aziende agricole biologiche del mondo.
Per valorizzare e far scoprire ai bikers di tutto il mondo cosa offra il territorio israeliano, pedalando e guardando ogni paesaggio dalla propria mountain bike, un gruppo di ragazzi israeliani ha dato vita a Desert BikeAir.
Il tour, che consente di vivere davvero una bella esperienza, non è estremo ed è adatto a molti bikers e viaggiatori.
La prossima incredibile avventura in mountain bike nel deserto del Negev è in programma dal 28 febbraio - 4 marzo 2019.
La tappa inizialqe, che può essere considerata quella più suggestiva, passa per il Cratere di Ramon, il più grande cratere del mondo, lungo 40 km.
Si percorre la famosa Spice Road, attraverso la quale migliaia di anni fa i mercanti si dirigevano verso est. Il tour consente di arrivare in bici fino all'antica città nabatea di Moah e da lì verso l'insediamento agricolo Tzofar.
Da Shaharut, 40 chilometri a nord di Eilat, sopra la valle dell'Arabah, si sale su un single track montuoso che consente di ammirare uno splendido paesaggio desertico.
Il tour organizzato da Desert BikeAir si conclude nella riserva naturale di Timna Park, nell'estremo sud di Israele, dove si trovano i resti di antiche miniere di rame, incredibili formazioni rocciose di sabbia, sculture e archi naturali. Da qui in bicicletta si procede verso il Mar Rosso, lungo spettacolari wadi, canyon e creste montuose.
Pedalare nel deserto è il modo migliore per capire che si tratta di un luogo non monotono, ma dove i panorami, le forme e i colori cambiano di continuo, dai letti dei fiumi in secca ai crateri, dai wadi sassosi alle dune di sabbia fine, alle piste piatte, a tutte le sfumature dei colori caldi.
Il Negev in mountain bike vuol dire anche fermarsi nei villaggi e capire l'ospitalità di questo territorio e chi vi abita, oltre a mangiare dei buonissimi falafel avvolti nella pita.

(Cool Israel, 30 novembre 2018)


Cultura ebraica. Humor sul palco e talk di attualità

di Marta Ghezzi

MILANO - Una ogni sera, per otto giorni. La prima candela sarà accesa domani, l'ultima, che segna la fine di Channukkà, brillerà il 10 dicembre. La festa ebraica, che ricorda la vittoria sul re Antioco IV, che aveva profanato il Tempio Sacro di Gerusalemme, è contrassegnata dall'accensione di un lume, sera dopo sera, al tramonto.
La quarta edizione del festival «Jewish in the city», promosso dalla comunità ebraica milanese, coincide quest'anno con la ricorrenza di Chanukkà. Il via questa sera alle 20.30 al Teatro Dal Verme, con lo spettacolo «Oh Dio mio» di Anat Gov, all'insegna dell'umorismo yiddish.
Domani alle 10.30, alla Sinagoga di via della Guastalla, apertura ufficiale con rappresentanti dell'Ucei e della Comunità ebraica e a seguire confronto fra Massimo Recalcati e il Rav Roberto Della Rocca, con la moderazione di Andrée Ruth Shammah. In chiusura, lunedì alle 19, a Binario 21, l'incontro «Spegnere l'odio e accendere la speranza» con Salvatore Natoli, Victor Magiar, Gabriele Nissim e Liliana Segre.


(Corriere della Sera - Milano, 1 dicembre 2018)


Treves: «Una voce sopra gli slogan, le parole e i pregiudizi»

Nato negli States da genitori costretti a fuggire. Il regista Giorgio Treves

Giorgio Treves
Un regista nato a New York nel 1945, collaboratore di mostri sacri come Francesco Rosi, Vittorio De Sica e Luchino Visconti e autore in proprio di affascinanti lungometraggi, perfino candidato all'Oscar 1972 per il miglior documentario, all'esordio con «K-Z». Giorgio Treves ha natali americani perché i genitori, torinesi, erano emigrati, in fuga dalle «leggi razziali fasciste». Non è dunque un caso che egli abbia realizzato, dopo oltre un anno di ricerche, «1938. Diversi», film fuori concorso all'ultima Mostra di Venezia, che ripercorre la storia misteriosa dell'antisemitismo nazionale del secolo scorso.
Giovedì 6 dicembre, l'autore lo presenterà a Brescia, al Nuovo Eden, invitato dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e dalla Fondazione Calzari Trebeschi, in collaborazione con Fondazione Brescia Musei. Abbiamo parlato con lo stesso Treves.

- Le leggi razziali del 1938 sono state spesso considerate come una concessione obbligata del fascismo all'alleato tedesco. Ne è derivata l'idea di un «apartheid» all'acqua di rose. Lei offre invece una lettura ben diversa...
  Quei provvedimenti amministrativi (di questo si tratta, perlopiù) erano in realtà autonomi, molto duri, ed avevano pure la pretesa di basarsi su teorie pseudo-scientifiche; al punto che Hitler stesso, ammirato, inviò osservatori a studiarli. Furono imprevisti, perché il popolo italiano non era tradizionalmente antisemita: da noi non era diffusa la piaga virulenta come in Francia, in Germania, in Russia e nell'Europa dell'Est.

- Le persone di origine ebraica erano ben inserite nella società italiana?
  Non si distinguevano dagli altri cittadini. Quando cominciarono a diffondersi le prese di posizione antisemite, per decisione dall'alto, molti nemmeno immaginavano che aspetto potesse avere un ebreo. C'è, al riguardo, un episodio illuminante, riportato dal fratello di Vittorio Foa e risalente ai primi anni '30. Davanti a un interlocutore infervorato nell'insultare gli ebrei, Foa ribatte che egli stesso lo è; e quello gli risponde, stupito: «Impossibile. Gli ebrei sono neri!».

- Quali sono le motivazioni dell'anomalia italiana?
  Sono storiche. Lo Statuto Albertino del 1848, che nasce laico e nel 1861 diventa la carta fondamentale del neonato Regno d'Italia, abolisce i ghetti e sdogana gli ebrei, che si mescolano alla società dell'epoca. Ciò spiega la riconoscenza verso i Savoia che portò, tra le altre conseguenze, alla poco nota eppure massiccia mobilitazione degli ebrei in occasione della Prima Guerra mondiale.

- Le leggi del '38 resero «diverso» chi non lo era...
  Avvenne lo smantellamento dello Stato di diritto e di regole di convivenza civile consolidate. Prima furono colpiti i bambini, banditi dalle scuole; poi tutti gli altri, tra l'indifferenza di chi aveva vissuto loro accanto. Solo nel 1943, dopo l'armistizio, ci fu una reazione della società.

- Perché ritiene che questa memoria sia smarrita più di altre?
  Credo che sia effetto indiretto dell'amnistia sollecitata da Togliatti nel dopoguerra. Pur con chiari e apprezzabili intenti pacificatori, essa azzerò le responsabilità. Fu facile far passare certe scelte come imposte dai nazisti, e così si è perpetuato il mito degli «italiani brava gente»...

- Nel film campeggia una frase di Umberto Eco «sull'eterno ritorno del fascismo», concetto recentemente ripreso dal costituzionalista Gustavo Zagrebelski. Ripensando a quell'evento epocale, vede segnali odierni di emergenza democratica?
  Il maggiore egoismo della gente, la sospensione di un processo culturale ed educativo ch'è la base della convivenza non sono buoni segnali. Ma siamo in democrazia e non in uno Stato militarizzato: occorre essere vigili, ma ci sono gli strumenti per reagire.

- Nel film, lei assume una posizione non ideologica, scegliendo il rigore storico e lasciando che lo spettatore si faccia una propria idea, senza forzature. Che accoglienza ha incontrato?
  Buona dal pubblico adulto. Circa i ragazzi, invece, ho la sensazione che guardino a quegli accadimenti come a qualcosa di lontano, di astratto. Mi ha intristito e inquietato la spiegazione di un insegnante circa il rifiuto di parte dei suoi studenti di assistere alla proiezione, avendo essi bollato il film, senza averlo visto, come «settario e propagandistico». Non lo è; dunque mi sento ancora più responsabilizzato a farlo girare e ad offrire uno spunto di riflessione, senza rinunciare a far sentire la mia voce, sopra gli slogan, le parole d'ordine, i pregiudizi.

(Tempo Libero, 1 dicembre 2018)


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