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Notizie 16-31 dicembre 2018


Netanyahu: "Non mi dimetterò" e punta verso un nuovo mandato

Netanyahu, nel corso della conferenza stampa tenuta durante un viaggio in Brasile per l'inaugurazione del presidente eletto Jair Bolsonaro martedì, ha annunciato che non si dimetterà dall'incarico se il procuratore generale accetterà l'invito della polizia per incriminarlo prima che la sua parte del caso venga ascoltata.
Il leader israeliano, alla ricerca di un nuovo mandato politico che possa aiutarlo a superare le possibili accuse nelle indagini sulla corruzione, nega qualsiasi azione illecita.
Alla conferenza stampa di Rio de Janeiro, Netanyahu rispondendo ai giornalisti che chiedevano se si fosse ritirato dalla corsa elettorale, Netanyahu ha dichiarato: "Non intendo dimettermi". "Secondo la legge, il primo ministro non deve dimettersi durante il processo dell'udienza … L'udienza non finisce finché non viene ascoltata la mia parte", ha detto. "Immagina cosa succederebbe se un primo ministro venisse espulso prima che l'udienza fosse finita, e poi dopo l'udienza decidono di chiudere il caso. È assurdo. È un duro colpo per la democrazia".
La decisione di incriminazione era prevista entro poche settimane, ma secondo alcuni analisti il procuratore generale potrebbe decidere di ritardare il trasferimento per timore che possa influenzare l'esito delle elezioni.
Il ministero della Giustizia ha promesso di continuare il suo lavoro "indipendentemente dagli eventi politici". I sondaggi di opinione mostrano che il partito di destra di Netanyahu, il Likud, vincerà facilmente il voto del 9 aprile, originariamente previsto per novembre.

(PRP Channel, 31 dicembre 2018)


Libano - Netanyhau: "Hezbollah ha investito molto ma noi abbiamo distrutto il loro lavoro"

di Giusy Criscuolo

 
 
BEIRUT - Dopo la visita lampo in territorio libanese, del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu i risultati di distruzione sui tunnel di Hezbollah, sono ad una svolta cruciale.
Il giorno di Natale, Netanyahu ed alcuni suoi ministri hanno effettuato un viaggio nel Nord del Libano, in quella che è attualmente l'area di attività dell'IDF (le Forze Armate israeliane). La notizia è stata confermata dalla stampa locale.
   Nel corso della visita, facente parte dell'Operazione "Northern Shield", volta a neutralizzare e distruggere i "tunnel del terrore" costruiti da Hezbollah, la delegazione istituzionale ed i membri del Gabinetto di sicurezza politica, hanno ascoltato i rapporti sui progressi dell'operazione e sulla situazione in Siria. Il tutto esposto da alti ufficiali e funzionari.
   "Siamo qui al Northern Command - ha detto il capo del Governo israeliano - per un giro ispettivo sul confine libanese. L'IDF ci ha ragguagliato sulle sue azioni riguardanti la neutralizzazione dei tunnel, operazione che è quasi giunta al termine ed interamente alle nostre spalle. C'è un lavoro straordinario dietro questa operazione - rivolto a chi ha negato l'esistenza dei tunnel di Hezbollah - lavoro che ha distrutto i tunnel di Hezbollah, il quale ha investito molto in questo progetto, ma noi lo abbiamo distrutto per lui".
   A distanza di tre giorni dalla visita del primo ministro i tunnel collocati nella zona di Kfarkla a Metula, sono stati distrutti quasi totalmente.
   Durante il 23o giorno dell'Operazione, il comandante del Comando Nordico del GOC (un'unità dell'Esercito israeliano presente nel confine settentrionale del Paese, oltre il quale c'è il Libano) Generale Yoel Strick, ha riferito dei progressi portati avanti nella "Northern Shield". Lo stesso, ha sottolineato che l'operazione non è ancora finita, dichiarando: "Stiamo continuando con altre attività per neutralizzare la strada dei tunnel sotterranei di Hezbollah. Abbiamo completato il processo di neutralizzazione e distruzione dei tunnel da Kfarkla alle aree adiacenti a Metula. Confermiamo, dunque, che i tunnel di Hezbollah presenti in queste zone sono stati neutralizzati e distrutti".
   Lo stesso ufficiale, ha dichiarato che nel 2013, circolavano dei video che mostravano come Hezbollah stesse progettando un'azione nel Nord del Paese dei Cedri. Un'azione che comprendeva un attacco che avrebbe colpito l'IDF e numerosi civili. Alla luce di quanto scoperto, oggi, si è dedotto che il progetto segreto era proprio quello del "tunneling" sotterraneo.
   Il Generale Strick ha poi spiegato che, per quanto riguarda la distruzione dei tunnel sono state effettuate una serie di azioni difensive. "Abbiamo solidificato con del materiale congelante i tunnel - ha spiegato -. Abbiamo compensato il lavoro effettuando una pulizia dell'area ed iniziato la costruzione di un muro con la conseguente neutralizzazione e il bombardamento dei tunnel. I quali tunnel non potranno più essere usati".
   Ha altresì aggiunto che i membri di Hezbollah hanno saputo camuffare la realtà, asserendo con piglio deciso: "Credo che queste immagini - riferite ai tunnel trovati - non potranno più essere ignorate dal Governo libanese, che non potrà più negare l'operato di Hezbollah".
   Riguardo alla missione delle Nazioni Unite, UNIFIL, il Generale israeliano ha rassicurato con poche battute: "L' IDF ha fornito informazioni ad UNIFIL su più di un punto. L'Esercito israeliano ha informato le Forze UNIFIL di un'altra operazione dove si stanno usando esplosivi, per un tunnel a Sud di Aita al-Shaab. Credo anche che i residenti del villaggio abbiano notato, negli ultimi giorni, la presenza di materiali che affluiscono per le strade. Credo inizieranno a fare domande, anzi ho buone ragioni per supporre che ciò stia già accadendo".
   Secondo UNIFIL, questo cemento proviene da quello liquido pompato dall'Esercito israeliano attraverso una buca scavata all'altra estremità del tunnel all'interno del territorio dello Stato ebraico. Sulla base di questa osservazione, l'UNIFIL, secondo quanto riportato dai media arabi ed israeliani, sembra abbia confermato che il vecchio impianto di cemento di Kfarkla ha un'apertura sul tunnel che attraversa la "Blue Line".
   A conclusione del suo intervento, il Generale Strick ha poi sostenuto che "qui c'è un effetto sistemico, l'IDF che usa la tecnologia e le capacità di intelligence operativa ha scoperto un progetto non classificato. Gli Hezbollah impiegheranno molto tempo per esercitarsi, trarre conclusioni e riflettere su ciò che stanno facendo. Inoltre, noi, non riposeremo sul morbido".
   Il 27 dicembre, il portavoce dell'Esercito, Jonathan Konrikus, in una conferenza stampa ha parlato della determinazione delle Forze Armate israeliane nel continuare la "Northern Shield".
   Konrikus ha confermato che la costruzione dei tunnel sotterranei è stata fatta, scavando sotto le case dei civili, mettendo così a repentaglio anche la vita degli ignari abitanti.
   Ricordiamo che l'Esercito israeliano ha annunciato la scoperta di un tunnel nell'area di Kfarkla il 4 dicembre, giorno del lancio della "Northern Shield". Da quando l'IDF ha annunciato, lo scorso 20 dicembre, che l'operazione era entrata nella fase di "neutralizzazione" dei tunnel, sono stati disattivati già cinque corridoi "offensivi".
   Il portavoce dell'Esercito ha poi aggiunto che "la costruzione dei tunnel è una flagrante violazione della risoluzione 1701 dell'11 agosto 2006, approvata dal Consiglio di sicurezza dell'ONU".
Intanto, vi segnaliamo che sull'account ufficiale di Twitter del portavoce dell'IDF per i media arabi @AvichayAdraee è possibile vedere i diversi video sui tunnel e sulla loro chiusura, oltre che alcune foto inerenti alle operazioni effettuate ed ancora in atto.

(ReportDifesa, 31 dicembre 2018)


Scienziati cinesi e israeliani creano oro in laboratorio

Scienziati dell'Accademia delle Scienze cinese, e Scienziati Israeliani hanno annunciato di essere riusciti per la prima volta a trasformare il rame economico in un materiale quasi identico all'oro

Oro prodotto artificialmente? Il materiale si comporta in modo identico al metallo prezioso ed è più economico.
Anche nel Medioevo, gli alchimisti cercarono di produrre oro artificialmente. Un team di scienziati dell'Accademia delle Scienze cinese si è avvicinato a questo obiettivo come nessuno ha mai fatto. I ricercatori hanno trasformato il rame economico in un materiale quasi identico all'oro.
Un lingotto di rame è stato bombardato in questo processo con un getto di argon caldo, caricato elettricamente. Le particelle hanno rilasciato atomi di rame, che si sono trasformate come un sottile strato di sabbia in un contenitore di raccolta.
Le indagini successive hanno rivelato che il materiale risultante si comportava in modo identico all'oro. Tuttavia, è impossibile produrre gioielli con questo tipo di oro perché la densità del materiale è ancora la stessa di quella del rame. Gli scienziati si aspettano che la loro scoperta trovi applicazione nella produzione di prodotti tecnologici come smartphone e che trovi anche applicazione nel mondo dell'oro vero.
Anche Maria Koifman Khristosov: X-Ray Diffraction Laboratory at Department of Materials Science and Engineering ha fatto fare un grande passo a questa scienza che trova posto nel 21esimo secolo. Sono scienziati israeliani, che hanno realizzato questo sogno in un laboratorio moderno.
Proprietà di questo oro, e significato che questa scoperta porterà nel prossimo futuro dell'umanità?
Gli scienziati del Technion-Israel Institute of Technology hanno raggiunto lo scopo.
La scoperta appartiene alla studentessa di dottorato Maria Koifman-Khristosov, che lavorava sotto la supervisione del Professore Boaz Pokroy. Il Technion-Israel Institute of Technology è tra i principali istituti educativi del paese, e può vantarsi di scoperte come la fibra ottica e quasicristalli.

(LSNN Creative Network, 31 dicembre 2018)


Indizi che Israele pianifichi nuovi attacchi in Siria

Stasera, nei social network e nei microblogging su Twitter, sono stati segnalati sei aerei israeliani del F-16i e la riunione di un consiglio militare speciale incaricato di intercettare i missili balistici Raytheon 125 800XP vicino al confine libanese-siriano. Secondo le stime degli esperti, Israele si prepara a lanciare nuovi attacchi missilistici contro la Siria, soprattutto da quando un altro aereo da trasporto iraniano è atterrato all'aeroporto internazionale di Damasco. [In realtà durante il giorno, non uno ma diversi aerei da trasporto iraniani sono sbarcati nella capitale siriana e due Il-76 siriani sono partiti per Teheran].
   Allo stato attuale, la situazione in Siria è abbastanza stabile, tuttavia gli esperti prestano attenzione al fatto che gli attacchi dell'aeronautica israeliana in Siria di solito avvengono dopo l'arrivo di aerei militari iraniani in questo paese, e l'apparizione di un consiglio speciale del ministero della Difesa israeliano indica che Israele si prepara a intercettare missili anti-aerei e balistici.
   Tra le altre cose, durante il giorno un velivolo da ricognizione israeliano Gulfstream G550 è stato avvistato nella parte orientale del Mediterraneo e a giudicare dalla traiettoria di volo, ricognizione del territorio della Repubblica Araba Siriana , probabilmente stava cercando di stabilire le posizioni dei sistemi di difesa aerea siriana registrando i dati necessari per sopprimerle.
   Gli analisti sottolineano che i voli notturni delle forze aeree israeliane precedono spesso gli attacchi aerei, il che è particolarmente rilevante dato che l'ultimo attacco israeliano alla Siria è stato ostacolato dall'efficace lavoro della difesa aerea siriana e dei sistemi di difesa antimissile.

(AvioPro, 31 dicembre 2018)


La Knesset voterà a gennaio il finanziamento per il canale tra il Mar Rosso e il Mar Morto

GERUSALEMME - Il governo israeliano voterà il finanziamento di 40 milioni di dollari per la costruzione del canale tra il Mar Rosso e il Mar Morto al ritorno dal Brasile del primo ministro dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu, previsto il 2 gennaio. Lo riferisce la stampa israeliana. La decisione di portare in parlamento, la Knesset, la discussione sul finanziamento per i prossimi 25 anni al progetto giunge dopo gli incontri "segreti" a New York tra il ministro della Cooperazione regionale israeliano, Tzachi Hanegbi, e l'omologo giordano, Imad Fakhoury, oltre che dopo una visita del consigliere per la Sicurezza nazionale, Meir Ben Shabbat, nel regno hascemita. "Il canale Mar Rosso-Mar Morto consentirà alla Giordania di affrontare i suoi problemi idrici, ci consentirà di lavorare per salvare il Mar Morto dal prosciugamento e soprattutto per rafforzare la pace tra noi e uno Stato arabo che mantiene un accordo di pace con Israele", ha fatto sapere Hanegbi, membro del partito Likud, in una dichiarazione.

(Agenzia Nova, 31 dicembre 2018)


L'era di Bolsonaro

Il 1o gennaio in Brasile si insedia il presidente: 8 ministri sono militari. Una «rivoluzione» che guarda a Trump e cambia equilibri storici

La svolta
In politica estera ci sarà un allineamento totale agli Stati Uniti e alle destre europee
Israele
Netanyahu si dice certo che l'ambasciata brasiliana sarà spostata a Gerusalemme

di Rocco Cotroneo

Rio de Janeiro - Non ci sarà alla cerimonia il Pt, il partito di Lula che ha governato il Brasile per 14 anni e ora denuncia come ingiusta la prigione del suo leader storico: «Disertare è un atto di resistenza all'odio, all'intolleranza e alle truffe in campagna elettorale», dicono da sinistra. Per l'insediamento al potere di Jair Bolsonaro - domattina, primo giorno del 2019 - i nomi degli ospiti d'onore già indicano la svolta che l'ex capitano intende imprimere al Brasile. In testa il premier di Israele Benjamin Netanyahu (felice perché «il presidente Jair Bolsonaro ha detto che trasferirà l'ambasciata del Brasile a Gerusalemme. La questione non è se ciò avverrà, ma quando») e l'ungherese Viktor Orbàn, mentre Donald Trump manda il segretario di Stato, Mike Pompeo. Presenza non grata, quindi niente invito, per le «dittature rosse» Cuba, Venezuela e Nicaragua, Paesi da sempre amici del Brasile, mentre per rapporti di buona vicinanza si chiude un occhio per Evo Morales, il quale è in arrivo dalla Bolivia. Per l'Italia ci saranno il ministro dell'Agricoltura Gian Marco Centinaio e l'ambasciatore Antonio Bernardini.
   Con una larga maggioranza di brasiliani ottimisti sul futuro e desiderosi di dargli una chance - secondo un recente sondaggio - e un'altra fetta di cittadini terrorizzati che temono il peggio, Iaìr Bolsonaro entra nel palazzo del potere a Brasilia senza la minima intenzione di moderare il suo discorso.
In politica estera, dunque, ci sarà la rottura del tradizionale multilateralismo brasiliano a favore di un allineamento totale agli Stati Uniti e alle destre europee. Il nuovo cancelliere, Ernesto Araujo, è un funzionario di carriera di livello intermedio, scelto grazie ai suoi scritti in un blog anti globalizzazione. È convinto che solo Trump possa salvare l'Occidente dalle minacce congiunte del fondamentalismo islamico e del marxismo. Il nome di Araujo spuntò grazie ad un tweet del filosofo di estrema destra Olavo de Carvalho, una sorta di guru per Bolsonaro, il quale vive da tempo negli Stati Uniti e sarebbe il padrino di almeno un altro paio di ministri del nuovo governo.
   Non ha invece avuto bisogno di consigli, l'ex capitano Bolsonaro, nella scelta del plotone di militari che faranno parte della sua squadra. Sono otto, un record. Oltre al suo vice, il loquace generale Hamìlton Mourào, vengono dalle caserme i ministri della Difesa, della Tecnologia e dell'Energia e altri quattro uomini con alte cariche politiche nella presidenza. Con l'aiuto di un Congresso anch'esso zeppo di uniformati, poliziotti o pompieri, non a caso la prima misura del nuovo governo sarà ridurre al minimo le procedure per il porto d'armi. Sfidando ogni evidenza, che mostra il contrario, Bolsonaro ha sostenuto in campagna elettorale la necessità di armare i privati cittadini per difesa personale al fine di ridurre gli indici di violenza in Brasile, tra i più alti del mondo. Su questi temi, sarà interessante vedere le mosse del neo ministro della Giustizia, il giudice Sergio Moro, padre della maxi inchiesta contro la corruzione «Lava Jato» e chiamato da Bolsonaro ad occuparsi anche della sicurezza pubblica. Moro è il giudice che ha decimato la classe politica brasiliana, condannato e fatto arrestare Lula, oltre a politici di altre aree politiche. Ha sempre sostenuto di considerare la nostra Mani Pulite degli anni 90 un modello di indagini, ma ora per il suo ministero vuole una riforma alla Falcone, quella che il giudice palermitano stava mettendo in piedi a Roma quando venne ammazzato. Sulla questione del porto d'armi Bolsonaro avrebbe già l'approvazione di Moro, mentre su altri propositi di mano dura (come la repressione dei movimenti più radicali) ci sarebbero opinioni diverse.
   Le altre due grandi lobby che hanno occupato il Congresso brasiliano e facilitato la vittoria di Bolsonaro, quella degli agricoltori e quella degli evangelici, hanno invece imposto la loro visione del mondo su almeno altri tre ministeri: Educazione, Agricoltura e Ambiente. Anche qui si prevedono inversioni negazioniste rispetto alle politiche degli ultimi decenni.

(Corriere della Sera, 31 dicembre 2018)


Gaza: Haniyeh visita comunità cristiane

In occasione dell'Anno Nuovo il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha ieri visitato la comunità cristiana nel monastero latino Deir al-Latin di Gaza e ha confermato che le sue relazioni storiche con la popolazione musulmana della Striscia restano salde. Haniyeh era accompagnato da due dirigenti di Hamas, Sallah Bardawil e Fawzi Barhum, e dal presidente del Consiglio delle corti islamiche, Hassan al-Jojo.
"I nostri fratelli cristiani hanno sempre vissuto in questa terra e hanno condiviso la nostra sorte per quanto concerne Gerusalemme, i Luoghi santi e la causa nazionale" ha detto Haniyeh. Haniyeh ha quindi espresso solidarietà ai "fratelli cristiani" che si confrontano con la politica di Israele a Gerusalemme, Nazareth e Betlemme. Hamas, ha rilevato, si impegna affinché ogni cristiano palestinese goda di una vita dignitosa e sicura nella propria patria. "Resteremo tutti uniti fino alla realizzazione dello Stato palestinese con capitale a Gerusalemme".

(Notizie Italia, 30 dicembre 2018)


In tutto il medio oriente i cristiani collassano. Tranne in un posto: Israele

Dall'Egitto a Gaza, numeri drammatici e persecuzioni in serie. Nello Stato ebraico sono in crescita e litigano per questioni immobiliari

Scrive il Jerusalem Post (25/12/2018)

"La maggior parte dei cristiani in Israele non festeggerà questa settimana perché sono greco-ortodossi e il loro Natale cade il 7 gennaio. Ma questo è comunque un buon momento per fare il punto sullo stato della libertà di religione in questa regione" scrive il Jerusalem Post. "All'inizio di questo mese, il capo della chiesa d'Inghilterra ha scritto sul Sunday Telegraph che milioni di cristiani in medio oriente sono ai limiti di una 'imminente estinzione'. 'Nel luogo di nascita della nostra fede, la nostra la comunità rischia l'estinzione', ha scritto l'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, definendo quella attuale 'la situazione peggiore dopo le invasioni mongole del XIII secolo'. In Egitto i cristiani vengono tormentati dalle istituzioni di governo, cosa che li spinge a emigrare in quantità record. I cristiani libanesi temono il crescente potere nel loro paese degli islamisti sciiti Hezbollah, unito all'afflusso di profughi siriani. Anche i cristiani turchi subiscono l'oppressione del loro governo. E in Iraq, la popolazione cristiana è stata quasi spazzata via, mentre quelli rimasti cercano faticosamente di ricostruire le propria vita. La popolazione cristiana palestinese è in costante diminuzione.
   Da tempo i cristiani sono in fuga dalle aree controllate dai palestinesi a causa dei sistematici abusi che subiscono. Impossibile dimenticare l'irruzione a mano armata che terroristi affiliati all'allora capo dell'Olp, Yasser Arafat, fecero nella chiesa della Natività di Betlemme nel 2002, saccheggiandola e tenendo in ostaggio i monaci. L'anno scorso i cristiani erano solo il 2 per cento della popolazione palestinese di Cisgiordania e striscia di Gaza, meno della metà di quanti erano una generazione fa. Nel 1950 a Betlemme, la città natale di Gesù, l'86 per cento dei residenti era cristiano. Nel 2017 erano scesi al 12 per cento. A Gaza, c'erano 6.000 cristiani quando Hamas ne prese il controllo nel 2007, ma nel 2016 se ne contavano solo 1.100. Hamas ha assassinato cristiani palestinesi a causa della loro fede e ha requisito a scopi militari la chiesa Battista di Gaza perché è uno degli edifici più alti della città.
   Nonostante tutto questo, il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) continua a sostenere di essere un difensore dei cristiani, e la dirigenza palestinese nel suo complesso ritiene di avere titolo per controllare i luoghi santi cristiani nel momento stesso in cui insiste a negare la storia di quei luoghi. Ai palestinesi piace sostenere che 'Gesù era palestinese', anche se era ebreo e ovviamente non aveva nulla a che fare né con gli arabi né con l'islam, e nemmeno con il termine Palestina imposto dai Romani cento anni dopo di lui ndr). Incuranti dell'importanza che riveste il Tempio di Gerusalemme nella narrazione del Nuovo Testamento, molti palestinesi e molte autorità palestinesi negano che a Gerusalemme vi sia mai stato un Tempio ebraico. Questo grottesco negazionismo impera anche oggi, ma il caso forse più famoso rimane quello che vide protagonista lo stesso Arafat quando cercò di sostenere con l'allora presidente americano Bill Clinton che il legame storico degli ebrei con Gerusalemme è tutta una menzogna. Clinton rispose ad Arafat che si sbagliava: da cristiano, disse, so bene che lì c'era il Tempio ebraico. Nel frattempo, in Israele la popolazione cristiana è rimasta per lo più stabile intorno al 2 per cento, crescendo in cifra assoluta insieme alla crescita generale della popolazione. In Israele i cristiani sono liberi di professare la loro fede senza vessazioni né pressioni da parte delle autorità o dei loro concittadini.
   L'ultima controversia con le chiese di Gerusalemme illustra perfettamente la differenza abissale che c'è tra Israele e i suoi vicini mediorientali. Il nodo del diverbio riguarda la gestione di terreni di proprietà della chiesa greco-ortodossa sui cui risiedono privati cittadini israeliani. I residenti di Gerusalemme sono preoccupati che la vendita di quei terreni da parte della chiesa a soggetti terzi possa mettere a repentaglio le case si loro proprietà, che su quei terreni si trovano, mentre dal canto suo la chiesa vuole poter sfruttare i suoi vasti appezzamenti per ricavarne fondi di cui dice d'avere molto bisogno. Un contenzioso immobiliare, dunque, che non ha nulla a che fare con supposte limitazioni alla libertà di culto dei cristiani e che non comporta alcun impatto né danno per la stragrande maggioranza dei cristiani in Israele, anche se dicendo questo non si intende minimizzare la controversia che merita d'essere risolta. In ogni caso, proprio sabato sera il presidente Reuven Rivlin è intervenuto a favore delle chiese e attualmente non sono in corso i cambiamenti normativi da esse paventati.
   E' tale la libertà religiosa in Israele che da tempo si registra un graduale aumento dei cristiani israeliani che, per patriottismo e per apprezzamento del loro paese, si arruolano volontari nelle Forze di Difesa sebbene non siano obbligati a farlo. Domenica scorsa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha incontrato alcuni di questi soldati per augurare loro buone feste.
   All'avvicinarsi del Natale non si può che apprezzare ancora una volta il fatto di vivere in un paese dove sono garantite queste libertà e augurarsi, in tempi così cupi per i cristiani in tutto il medio oriente, che le loro condizioni migliorino anche nel resto della regione".

(Il Foglio, 31 dicembre 2018)


Cosa riserva il 2019 per l'hi-tech israeliano?

Oltre a Europa occidentale e orientale, anche Asia e Sud America potrebbero rivelarsi mercati chiave per i settori di punta dell'economia israeliana

L'ecosistema hi-tech israeliano ha goduto di altri dodici mesi robusti e il 2018 si chiude offrendo parecchie buone notizie agli imprenditori alla ricerca per l'anno prossimo di importanti investimenti ed esiti finanziari "alla grande" su scala globale. SodaStream, il noto produttore di bevande gassate acquisito da PepsiCo con un contratto da 3,2 miliardi di dollari, l'azienda di elettronica Orbotech acquistata per 3,4 miliardi di dollari dalla KLA-Tencor con sede in California, e la società di aromi e profumi Frutarom acquistata per la cifra record di 7,1 miliardi di dollari dalla americana International Flavors & Fragrances sono alcuni dei maggiori business di successo di quest'anno....

(israele.net, 31 dicembre 2018)


I curdi soli in Siria e l'ipocrisia europea

di Pierluigi Battista

Fa molta rabbia che Donald Trump abbia proclamato il ritiro americano dalla Siria lasciando i curdi, eroi della battaglia contro l'Isis, soli nelle mani del massacratore seriale siriano Assad. Fa molta rabbia questo rigurgito di isolazionismo Usa (peraltro, occorre dirlo, in tragica continuità con la politica debole e ondivaga di Obama in Medio Oriente) che lascia campo aperto ai nemici della democrazia nel mondo, a chi viola con sistematica ferocia i diritti umani fondamentali, e abbandona la democrazia israeliana più vulnerabile nei confronti dei nemici che vorrebbero cancellare la stessa presenza ebraica. Ma è anche spaventosamente ipocrita l'atteggiamento di un'Europa inesistente e inetta che piagnucola se gli Stati Uniti smettono di fare da scudo in loro difesa e sonnecchia in una condizione di totale marginalità politica nel mondo, e di totale impotenza nei confronti dei dittatori lasciati liberi di condurre i loro misfatti. Un'Europa che esistesse come entità politica degna di rispetto dovrebbe sobbarcarsi essa stessa gli oneri della difesa dei curdi e del popolo vessato da Assad, da Erdogan, dall'Arabia Saudita, dall'Iran. Se non fosse così succube della sua ipocrisia dovrebbe dire: dobbiamo smetterla di delegare agli Stati Uniti un compito che noi non siamo in grado di adempiere, dovremmo aumentare le spese militari, rafforzare le nostre forze armate, dare credibilità a una politica estera di cui non si vedono nemmeno i contorni a grandi linee. Niente, solo lamenti puerili. Solo proteste dettate da insipienza, ignavia politica, incapacità di assumersi responsabilità. Che ha da dire l'Europa sulle vicende siriane? Qualcuno ha avuto notizia in questi anni di una proposta europea, di una sua presenza, di una iniziativa convincente? Qualcuno nel governo europeo, tra un altisonante proclama e un altro sulla fedeltà agli imperituri valori europei, ha mostrato un minimo interesse che non fosse quello della massa di profughi in fuga dalla strage siriana? Niente, nessun impegno, nessuna responsabilità, nessun accenno alla costruzione (difficile) di una politica estera e di una (dispendiosa) politica militare. Solo lo stupore per una politica americana sciagurata che lascia soli i curdi, ma svela spietatamente l'ipocrisia dell'Europa. Condannata ancora una volta alla sua irrilevante minorità.

(Corriere della Sera, 31 dicembre 2018)


False dichiarazioni fiscali, Bar Refaeli incriminata in Israele

La supermodella avrebbe nascosto ingenti somme per non pagare le tasse

La top model Bar Refaeli è stata incriminata in Israele con l'accusa di "false dichiarazioni fiscali e riciclaggio di denaro".
Secondo quanto riferito dai media locali, la supermodella, ex fidanzata di Leonardo Dicaprio, avrebbe mentito per anni al fisco di Tel Aviv dichiarando di trascorrere la maggior parte della vita fuori dal suo Paese natale, evitando così di pagare le tasse.
La Rafaeli è stata interrogata dalle autorità israeliane anche perché non avrebbe dichiarato il possesso di un Suv di lusso, ottenuto come regalo legato al suo lavoro. Sempre secondo l'accusa, non solo non l'avrebbe pagato, ma avrebbe usato la propria immagine per fare promozione alla casa automobilistica.
Ingenti le somme contestate a Bar, una delle regine delle passerelle internazionali. Un altro punto su cui si sono concentrate le indagini è il pagamento di un designer, con una cifra molto inferiore del valore reale del lavoro.

(L’Unione Sarda,, 30 dicembre 2018)


Come e perché Trump ha capovolto la politica americana in Medioriente

L'approfondimento su modi, portata ed effetti delle ultime mosse del presidente americano, Donald Trump, in Siria

di Marco Orioles

Si deve ad un servizio di Reuters pubblicato ieri la spiegazione del mistero che ossessiona gli americani e non solo da una settimana a questa parte: l'origine della decisione con cui Trump, ritirando le truppe dalla Siria, ha messo a soqquadro la politica americana in Medio Oriente, scaricando gli alleati curdi, delegando alla Turchia il compito di concludere le operazioni militari contro i rimasugli dello Stato Islamico e lasciando campo libero alle forze di Damasco, Teheran e Mosca, sancendo di fatto la loro vittoria definitiva sul fronte della guerra civile siriana.
   Tutto scaturisce da, ebbene sì, una telefonata, quella intercorsa il 14 dicembre tra Donald Trump e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Una conversazione che, in origine, avrebbe dovuto vertere sulla minaccia di Ankara di invadere la porzione di Siria in mano alle milizie curde dell'YPG, alleate degli Stati Uniti. Il compito del capo della Casa Bianca doveva essere quello di ammonire il collega turco. Invece, come ha rivelato a Reuters una fonte turca al corrente della telefonata tra i due presidenti, The Donald ha avuto una trovata delle sue.
   Ha chiesto a Erdogan: "Se ritiriamo i nostri soldati, potete voi ripulire l'Isis?". Rimasto di sasso per la domanda imprevista, il sultano ha risposto che il suo esercito sarebbe stato senz'altro all'altezza del compito. Al che il presidente Usa ha replicato seccamente: "Allora fatelo". Quindi, rivolgendosi al suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, anch'egli in collegamento con Ankara, gli ha detto: "Comincia a lavorare al ritiro delle truppe Usa dalla Siria".
   Così, in uno scambio di battute durato pochi secondi, l'approccio americano al più intrattabile dei problemi di politica estera è stato capovolto, con grande sorpresa di tutti e per lo scorno dei curdi, che fino a quel momento avevano fatto affidamento sulla presenza delle truppe Usa per scongiurare un'invasione turca e conservare il controllo sul 30% della Siria strappato prima al regime di Damasco e poi ai tagliagole islamisti.
   "Devo dire", ha confessato a Reuters un'altra fonte turca, che quella di Trump "è stata una decisione inattesa. La parola 'sorpresa' è troppo debole per descrivere la situazione". Ma ad essere stati colti di sorpresa, anzitutto, sono stati i consiglieri e gli aiutanti del presidente degli Stati Uniti, in primis il Pentagono, che aveva concepito la presenza dei duemila soldati scelti in Siria con un impegno a lungo termine, finalizzato sia a portare a compimento lo sradicamento dello Stato Islamico, sia a contenere la proiezione nel Levante dell'Iran. Una strategia fatta a pezzi dalla telefonata di Trump, in una drammatica quanto repentina torsione della politica americana che ha spinto il Segretario alla Difesa Jim Mattis a rassegnare seduta stante le dimissioni, seguito quarantott'ore dopo dal responsabile della Coalizione Globale contro l'Isis Brett McGurk.
   La decisione di Trump ha messo in moto una catena di conseguenze che stanno diventando visibili proprio in queste ore. Rimasti senza protezione, i curdi hanno pensato bene di chiedere soccorso al presidente siriano Assad, che ieri ha fatto muovere le sue truppe schierandole nella periferia di Manbij, ossia proprio laddove i soldati turchi e le milizie siriane alleate di Ankara si erano posizionati in previsione di un'offensiva. Che si sia trattato di una mossa concertata tra YPG e il regime lo conferma un comunicato dei curdi, secondo il quale la presenza delle truppe di Damasco era necessaria per prevenire "un'invasione turca". Il problema è che, a Manbij, ci sono anche gli americani, in un ingolfamento militare che rischia di provocare incidenti indesiderabili. È anche per scongiurare sviluppi imprevisti che oggi a Mosca è attesa la visita dei ministri degli Esteri e della Difesa della Turchia, chiamati a concertare con la Russia i passi da fare per riempire, senza provocare sconvolgimenti, il vuoto lasciato dall'imminente uscita di scena dei fanti americani.
   Russia e Iran, frattanto, hanno salutato con favore lo schieramento delle forze di Damasco a Manbij. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, lo ha definito "un passo positivo" che contribuirà alla stabilizzazione dell'area, mentre Teheran ne ha parlato come di un "grande passo" propedeutico alla reimposizione dell'autorità di Damasco su quella porzione di Siria che da tempo era fuori dal suo controllo. Russia e Iran sono d'altra parte i maggiori beneficiari del disimpegno Usa dall'area, che adesso diventa una loro personalissima riserva di caccia.
   Bisogna vedere, a questo punto, cosa farà la Turchia. Anche se i colloqui odierni di Mosca saranno decisivi, è molto probabile che la minaccia di un'offensiva anti-curda, annunciata con grande fanfara qualche settimana fa, sia stata disinnescata. L'obiettivo di Ankara, d'altra parte, era di mettere in sicurezza i territori confinanti che i curdi controllano da due anni, scacciandone gli occupanti: manovra che non sarebbe più necessaria se, in quei territori, dovessero posizionarsi le armate di Bashar al-Assad.
   Decisamente più incerti, invece, gli scenari per i curdi. Se anche dovessero evitare il flagello di un'invasione turca, mettendosi sotto l'ala protettiva di Assad rischiano di passare dalla padella alla brace. Fonti del governo di Damasco citate dall'Associated Press hanno fatto capire che, mentre è senz'altro benvenuta la decisione dell'YPG, è del tutto esclusa la concessione ai curdi di poteri autonomi nella cornice del ricomposto Stato siriano, ossia proprio quell'obiettivo a cui avevano lavorato e per cui hanno combattuto in tutti questi anni.
   In attesa degli sviluppi dal fronte, una cosa la possiamo affermare con certezza: mai telefonata presidenziale fu più esplosiva.
   
(Start Magazine, 30 dicembre 2018)


La "fuga" di Trump dal Medio Oriente che inguaia Israele

di Franco Londei

In molti si erano illusi che il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme deciso dal Presidente Trump fosse solo l'inizio di una politica americana più "israelocentrica" attorno la quale costruire un nuovo corso politico in Medio Oriente. A due anni di distanza possiamo dire che quella era solo una pia illusione.
  Quella decisione è rimasta l'unica vera iniziativa pro-israeliana presa dal Presidente Trump. L'abbandono dell'accordo sul nucleare iraniano non ha niente a che vedere con Israele (anche se a molti piace pensarlo), non mette in sicurezza lo Stato Ebraico, non ferma la corsa iraniana verso il nucleare né verso il riarmo.
  Le armi che l'America sta fornendo a Israele sono il frutto di un accordo stretto da Barack Obama e non da Trump che anzi, proprio grazie a qui 3,5 miliardi annui di aiuti militari, può affermare che «Israele può difendersi da solo».
  Il miglioramento delle relazioni tra Israele e alcuni Paesi arabi non sono il frutto della politica di Trump ma di quella di Benjamin Netanyahu, persona che può piacere o meno ma che fino ad ora ha saputo dimostrare di saper usare abbastanza bene la politica del bastone e della carota.
  I raid aerei preventivi in Siria contro il radicamento iraniano e contro Hezbollah sono il frutto di un accordo con la Russia di Putin e non del fantomatico "scudo americano".
  E' vero, l'America è rimasta quasi l'unica a difendere Israele alle Nazioni Unite soprattutto grazie all'eccellente ambasciatrice (purtroppo dimissionaria) Nikki Haley, ma questo non è servito a molto a causa della politica fortemente isolazionista implementata dall'Amministrazione Trump che di fatto ha limitato non poco la possibilità di trovare "sponde" all'interno delle stesse Nazioni Unite.
  Da due anni Trump promette un piano di pace per il conflitto israelo-palestinese, piano che non si è visto se non sotto forma di anticipazioni che hanno avuto il solo risultato di avvelenare ulteriormente i rapporti tra Israele e arabi.
  E' vero, Trump ha tagliato gli aiuti a quella macchina del fango e antisemita che è la UNRWA, ha tagliato gli aiuti alla Autorità Palestinese, ma sul campo questo non ha prodotto alcun vantaggio oggettivo per Israele. Anzi, se possibile ha reso i palestinesi ancora più "vittime" agli occhi del mondo.

 La differenza tra le cose importanti e reali e le mosse propagandistiche
  Quello che manca alla politica di Trump in Medio Oriente sono le cose veramente concrete, come per esempio contrastare fattivamente l'espansionismo iraniano e russo, magari rafforzando la propria presenza militare. Invece la politica di Trump in Medio Oriente va in direzione contraria, cioè verso il disimpegno piuttosto che verso un maggiore impegno come il momento richiederebbe.
  E' molto bello che Trump abbia preso posizione contro alcune storture palestinesi e che all'ONU non siano mancati da parte americana gli attacchi al traboccante antisemitismo dimostrato più volte dalla più grande istituzione mondiale, ma serve di più. Servono i fatti e non le parole.
  E i fatti ci dicono che la politica di Trump in Medio Oriente è quella delegare agli altri quello che prima facevano gli americani, cioè garantire la pace grazie al loro peso militare. Armi a Israele che poi se la deve cavare da solo. Armi all'Arabia Saudita per contrastare l'espansionismo sciita. Qualche arma ai curdi (poche) prima di abbandonarli al loro destino.
  Questa è la cruda realtà. Non esistono nella politica di Trump in Medio Oriente fantomatici piani B o inimmaginabili accordi segreti con chissà chi. La politica di Trump in Medio Oriente è palesemente quella dell'abbandono, una fuga che lascia campo libero alla Russia di Putin, all'Iran degli Ayatollah e alla Turchia di Erdogan.
  Un fuga che inguaia Israele perché lo trasforma nell'unico vero ostacolo alle mire russe, iraniane e turche, una fuga che isola ancora di più Israele, perché non si può pensare che basti il sostegno diplomatico allo Stato Ebraico per metterlo in sicurezza.
  Sono due anni che Trump vive di rendita grazie alla decisione di trasferire l'ambasciata americana a Gerusalemme. In molti erano così eccitati da questa decisione da non vedere tutto il resto, da non vedere cioè la vera politica di Trump in Medio Oriente che è quella della fuga e della delega agli altri di tutti i problemi di sicurezza.
  Trump non vuole erigere un muro solo lungo il confine con il Messico, lo vuole erigere tutto intorno all'America. E chi è fuori se la cavi da solo.

(The World News, 30 dicembre 2018)


Netanyahu a Copacabana aspetta l'insediamento dell'amico Bolsonaro

Storica visita del premier israeliano: un segnale forte per la svolta imminente in Brasile che intende ora seguire gli Usa e spostare l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

di Rocco Cotroneo

Netanyahu
RIO DE JANEIRO - Ha tentato un palleggio sulla sabbia di Copacabana, poi si è seduto a un chiosco di spiaggia con la moglie Sara ordinando birra e caipirinha e ascoltando «Garota de Ipanema» suonata da tre musicisti di strada. La più classica giornata da turista a Rio, in un caldo sabato d'estate, per Benjamin Netanyahu, ma anche un segnale forte per la svolta imminente in Brasile.
Martedì, primo giorno del 2019, si insedia ufficialmente alla presidenza l'ex militare Jair Bolsonaro e il primo ministro di Israele arriva come ospite speciale, se non addirittura padrino internazionale del forte cambio di stagione politica. In campagna elettorale, l'allora candidato di estrema destra era stato chiaro. Con Bolsonaro al potere il Brasile romperà il suo tradizionale multilateralismo sullo scenario internazionale (questione mediorientale compresa) per una chiara scelta di campo al lato degli Stati Uniti di Donald Trump e una amicizia speciale con Israele e il governo Netanyahu. Al punto da seguire Trump nella più audace e simbolica delle sue decisioni di politica estera: anche il Brasile intende spostare l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Per Netanyahu — il quale non conta certo su legioni di ammiratori nei governi stranieri — un'occasione da non perdere per creare un laccio diplomatico con un Paese comunque rilevante.
Bolsonaro e Netanyahu hanno avuto un primo faccia a faccia venerdì. Il nuovo leader brasiliano ha omaggiato l'ospite come esempio di «patriottismo, abnegazione e lavoro per il proprio popolo», ricordando che entrambi sono approdati alla politica arrivando dalle fila dell'esercito. Il premier israeliano ha ricambiato, in un discorso in ebraico nella sinagoga di Rio, definendo Bolsonaro un «mito» (come i suoi fan lo chiamano da anni) e suscitando un coro di approvazione tra i presenti.
Nei giorni scorsi Bolsonaro aveva suscitato ironie per un discorso nel quale — annunciando uno dei suoi primi viaggi all'estero — aveva detto che sarebbe volato in Israele per riportare in patria le tecnologie di desalinizzazione dell'acqua e di irrigazione del deserto. Due settori nel quale il Brasile è all'avanguardia nel mondo da ormai parecchi anni. Israele è invece interessato alle tecnologie brasiliane di esplorazione di gas e petrolio in mare, da applicare sulla costa mediterranea.

(Corriere della Sera, 30 dicembre 2018)


Al nord di Israele, una guerra appena cominciata

di Ugo Volli

Non bisogna farsi illusioni. La guerra che Israele deve sostenere al Nord per difendersi dall'aggressione iraniana è ormai aperta ed è entrata in una fase nuova e più pericolosa. Della fase nuova fanno parte i cinque tunnel (finora) scoperti e distrutti da Israele al confine del Libano senza che la "comunità internazionale" facesse una piega alla notizia che un'organizzazione terroristica (Hezbollah) potesse scavarli in una zona in cui le forze Onu dovrebbero escluderla, secondo gli accordi e le delibere del Consiglio di sicurezza. Ma anche il nuovo atteggiamento russo che di fronte a un attacco israeliano a un magazzino di missili in Siria, ha trovato un nuovo pretesto (il preteso pericolo a due aerei civili) per condannare Israele e permettere alla Siria di sparare missili sul territorio israeliano. E naturalmente anche il ritiro americano di truppe che non intervenivano in questo conflitto, essendo limitate per delibera del Congresso alla caccia all'Isis; ma comunque avevano una certa capacità di dissuasione rispetto all'imperialismo iraniano. Israele è ora direttamente di fronte a Hezbollah, Siria e al loro protettore Iran. In più la Russia spalleggia senza più esitazioni gli aggressori di Israele. La dottrina militare di Israele è chiara dai tempi di Ben Gurion: di fronte a una minaccia chiara e imminente Israele deve difendersi preventivamente e farlo da solo. L'America di Trump, rifornisce Israele di armi e di strumenti tecnologici che Israele non può fabbricarsi da solo per questioni di economia di scala, come gli F35 e dà copertura allo stato ebraico sul piano diplomatico e delle istituzioni internazionali. Ma Israele dovrà difendersi da solo, eventualmente capeggiando una coalizione di stati sunniti minacciati dall'Iran, ed è preparato a farlo, anche contro le interferenze russe. Nell'ultimo attacco aereo infatti sono stati distrutte postazioni contraeree fornite da Mosca alla Siria, e sconfitte le contromisure elettroniche russe. Bisogna essere preparati: al confine con Siria e Libano la guerra è solo cominciata.

(Shalom, 30 dicembre 2018)


Israele: Bennett formerà nuovo partito

GERUSALEMME - Due ministri del governo israeliano di Benjamin Netanyahu hanno annunciato che lasceranno la coalizione di governo per formare un nuovo partito che parteciperà alle elezioni politiche del prossimo aprile. Il ministro dell'Istruzione, Naftali Bennett, e quello della Giustizia, Ayelet Shaked, lasciano il 'Focolare ebraico', partito di destra religioso vicino al movimento dei coloni, per formare un nuovo movimento che si chiamerà 'The New Right'. Secondo i due ministri, la nuova coalizione sarà di "religiosi e laici insieme, in una vera partnership". Bennett è il leader del 'Focolare ebraico' dal 2012.

(ANSA, 30 dicembre 2018)


Cosa aspettarsi dalla geopolitica del gas nel 2019

di Gabriele Moccia

Una nave russa che trasporta Gnl nel porto cinese di Nantong.
Il gas è diventato il nuovo protagonista della geopolitica energetica. Da fonte minore nel panorama degli idrocarburi è diventato la leva della transizione per alcuni importanti attori internazionali, rischiando di offuscare il ruolo del petrolio e mettendo nell'ombra gli storici perni del mondo dell'energia, come l'Opec, il principale cartello dei paesi produttori di greggio.
  Tutti i principali indicatori dimostrano come il gas sia in piena salute. Secondo l'ultimo World Energy Outlook, la produzione della Russia, il secondo produttore mondiale, è aumentata sensibilmente (+7,7%), ma gli Stati Uniti rimangono i primi produttori mondiali (la loro produzione è aumentata dello 0,7% nel 2017). In Africa, l'Egitto ha surclassato la Nigeria come secondo produttore africano, dopo l'Algeria, con un forte incremento del 23% grazie all'avvio della produzione del super giacimento di Zohr. In Europa, la produzione della Norvegia ha raggiunto livelli record con una crescita del 5,8%, più che compensando il crollo dei Paesi Bassi (-12,8%) provocato dalla riduzione della produzione del giacimento di Groningen.
  Ma quali sono i principali elementi che avranno un peso determinante nel grande gioco strategico del gas per il 2019? Partiamo anzitutto dai nuovi attori, quelli emergenti e quelli in ascesa. L'uscita del Qatar, paese tradizionalmente sotto l'orbita petrolifera del golfo persico - dal cartello dell'Opec, per diventare il principale player nel mercato del gas naturale liquefatto (Gnl), ha rilanciato la competizione nell'area mediorientale. Come ha avuto modo di dire di recente anche l'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi, il Qatar è il primo produttore di Gnl con 57 milioni di tonnellate l'anno e punta ad arrivare a 100 milioni. Se poi si considera che il Gnl pesa attualmente per il 40% nel mercato mondiale e che, da qui ai prossimi anni, secondo le stime dell'Agenzia internazionale dell'energia, salirà al 70%, appare chiaro che, per giocare un ruolo chiave in questo comparto bisognerà fare i conti con i desiderata di Doha. Le attività estrattive nel bacino levantino del Mediterraneo orientale hanno progressivamente aumentato il peso di due paesi storicamente rivali, i cui destini sono oggi legati a doppio filo dalla produzione di idrocarburi in chiave strategica: Israele ed Egitto. Lo sviluppo del super giacimento di Zohr riveste una importanza cruciale per il governo del Cairo, il completamento della quinta, sesta, e settima unità di produzione sta per essere velocizzato e consentirà, a regime, il raggiungimento di volumi produttivi pari a 3 milioni di piedi cubi al giorno. Parlando da Roma al forum dell'Ispi, il ministro egiziano dell'energia,Tarek El Molla, è stato ancora più esplicito dichiarando come l'Egitto punta a diventare l'hub energetico regionale.
  Sull'altro versante del Mediterraneo orientale, anche Israele punta a sviluppare le proprie risorse e la propria rete energetica (importanti anche gli accordi commerciali per la vendita di gas in Giordania). Il governo di Tel Aviv lo scorso novembre ha lanciato la sua seconda gara per l'esplorazione e la produzione nelle acque della zona economica di competenza israeliana. Come dichiarato dal ministro dell'energia, Yuval Steinitz, l'offerta mira al perseguimento dello sviluppo del mercato del gas naturale per aumentare la competitività con l'ingresso di nuove compagnie energetiche, assegnando 19 licenze esplorative in cinque zone dell'offshore israeliano.

 I gasdotti della discordia
  Archiviate le criticità legate al Tap, il 2019 sarà l'anno che deciderà la sorte di alcuni dei gasdotti chiave nella geopolitica del gas. Proprio Israele, Egitto e Cipro puntano sulla definitiva affermazione del progetto di tubo dell'East Med, appoggiato di recente anche dal governo italiano e voluto da Bruxelles nell'ambito del Corridoio energetico Sud nato per contenere l'espansionismo energetico russo. La partnership tra Nicosia, il Cairo e Tel Aviv è supportata poi anche dalla Casa Bianca sempre in chiave anti Mosca. L'Europa è tornata ad essere l'epicentro degli attriti politici legati al raddoppio del gasdotto Nord Stream 2 di cui Mosca ha bisogno per mantenere il proprio ruolo sugli approvvigionamenti energetici continentali. Tra gli obiettivi dell'ambasciatore degli Stati Uniti a Berlino, Richard Grenell, vi è quello di "impedire la realizzazione del tubo. Il diplomatico ha sottolineato che "in Germania e in tutta Europa cresce l'opposizione al Nord Stream 2", considerato uno strumento di penetrazione politica ed economica della Russia. "Perché dovremmo dare ancora più potere a Putin?", si è chiesto di recente Grenell. Per impedire il completamento del Nord Stream Washington ha fatto sapere di esser pronta a lanciare un nuovo giro di sanzioni per le aziende coinvolte nei lavori.
  Il futuro dei tubi per il trasporto del gas non può però prescindere da quelli che saranno i nuovi scenari della domanda di energia per il futuro. Secondo le ultime stime dell'Agenzia internazionale per l'energia, le economie più avanzate del mondo vedranno quest'anno un aumento dello 0,5% delle loro emissioni del gas serra anidride carbonica dopo cinque anni di calo, un segnale per chi ritiene che il gas sarà la fonte di transizione verso le energie pulite. Gli occhi degli analisti sono puntati sui mercati asiatici. L'area dell'Asia-Pacifico ha guidato la crescita della domanda nel 2018 con il più forte incremento (+41 miliardi di metri cubi, +5,7%), soprattutto per il boom della Cina (+11,7%), dove la Battle for Blue Skies sta incoraggiando uno switch dal carbone al gas naturale. La Cina è diventata il terzo paese importatore di gas e il secondo importatore di Gnl. Ancora di recente, il vicesegretario dell'energia statunitense, Dan Brouillette, ha dichiarato che l'Asia è al centro della crescita di domanda di energia globale, e per tale ragione rappresenta la principale opportunità di espansione per le esportazioni statunitensi.

(Foglio, 30 dicembre 2018)



Il luogo dove fu battezzato Gesù è inaccessibile da cinquant'anni

Ci sono almeno cinquemila mine nell'area circostante, ma ora qualcosa sta cambiando

 
La chiesa francescana a Qasr al-Yahud, vicino al fiume Giordano in Cisgiordania, nel dicembre 2018.
Qasr el Yahud è il luogo sulle sponde del fiume Giordano in Cisgiordania dove, secondo la tradizione, Gesù è stato battezzato da Giovanni Battista (l'ultimo profeta ad annunciare la venuta del Cristo). È uno dei siti più importanti per la religione cristiana dopo la Chiesa della Natività a Betlemme e il Santo Sepolcro a Gerusalemme. Secondo la tradizione, prima di iniziare a predicare Gesù si recò da Giovanni Battista, figlio di Elisabetta e Zaccaria, che stava battezzando e confessando fedeli che arrivavano da tutta la Palestina: per i vangeli questo momento segna la discesa dello Spirito Santo su Gesù. Da più di cinquant'anni, però, il sito è inagibile perché circondato da mine anti-uomo e anti-carrarmato.
   Durante la guerra dei sei giorni del 1967 - quella in cui Israele con un attacco a sorpresa occupò la Cisgiordania - i terreni intorno alle chiese e ai monasteri furono riempiti di mine per evitare l'infiltrazione di soldati giordani oltre il confine. Si stima che le mine posizionate fossero almeno 5 mila, mentre non si sa quanti siano gli ordigni esplosivi improvvisati che sono stati abbandonati durante il conflitto. L'esercito israeliano ha dichiarato l'area zona militarizzata e ne è stato vietato l'accesso - oggi le chiese sono abbandonate, sui muri si possono ancora vedere i fori lasciati dai mortai e dai proiettili - ma negli ultimi anni le cose stanno cambiando.
   Dal 2014 un'organizzazione privata no profit, la Halo Trust, ha iniziato i lavori di sminamento della zona in collaborazione con il ministero della Difesa israeliano; nel 2018 è stato riaperto il monastero degli ortodossi etiopi (nella zona ci sono monasteri e luoghi di culto di otto confessioni cristiane). «Siamo un'organizzazione neutrale il cui scopo è ripulire la terra dalle mine», ha detto al Washington Post Ronen Shimoni, che gestisce il programma di Halo in Cisgiordania. «Siamo consapevoli che se vogliamo ripulire il sito del battesimo abbiamo bisogno dell'approvazione di tutti, non importa la situazione politica». Halo ha fatto da intermediario tra le varie confessioni religiose, Israele e l'Autorità nazionale palestinese per riuscire a convincere tutti della necessità di sminare i terreni intorno alle chiese. Al momento la zona è ancora militarizzata, ma i lavori di sminamento dovrebbero terminare alla fine del 2019.
   Un tentativo precedente di sminamento dell'area risale al 2000, in occasione della visita di papa Giovanni Paolo II a Qasr el Yahud. Allora solo una piccola zona era stata completamente liberata, per permettere l'accesso al fiume; il Papa l'aveva raggiunta in elicottero. Con l'inizio della seconda intifada però i lavori erano stati bloccati. Ogni anno più di quattromila persone visitano Qasr el Yahud - che è supervisionata da un'organizzazione governativa israeliana per la tutela di parchi e riserve naturali - e molti dei visitatori e dei pellegrini che si recano al sito si fanno battezzare nelle acque del Giordano, immergendosi nel fiume, nonostante la zona sia ancora militarizzata e ci siano cartelli di pericolo ovunque.
   La difficoltà principale sta nel ritrovare le mine mancanti: finora sono state trovate circa mille mine, come anche munizioni e mortai. Sono stati ripuliti i terreni della chiesa degli etiopi ortodossi, di quella dei greci ortodossi e delle chiese cattoliche. Devono ancora essere ripuliti i terreni intorno alla chiesa dei cristiani siriaci, dei copti, dei russi ortodossi, dei romeni ortodossi e degli armeni. Nonostante le mine siano state tutte segnate su mappe militari, negli anni i movimenti del terreno e l'erosione del fiume hanno spostato gli ordigni e in alcuni casi li hanno fatti affondare ancora di più nel terreno.
   
(il Post, 30 dicembre 2018)


L'eroe dell'Exodus e dei bambini salvati

Si è spento a 108 anni Georges Loinger, decano della Resistenza francese. Migliaia di ebrei gli devono la vita.

di Stefano Montefiori

All'inizio Georges Loinger faceva passare i bambini dalla Francia alla Svizzera grazie ai palloni finiti in fallo laterale. Ebreo di Strasburgo, insegnante di educazione fisica, evaso da un lager nazista, accoglieva i bambini ebrei arrivati da Lione alla stazione ferroviaria di Annemasse, in Savoia, e li portava subito a giocare a pallone in un campo da calcio fuori città, proprio sulla frontiera. Quando la palla usciva, i bambini andavano a cercarla e finivano in territorio svizzero, dove avevano l'ordine di rimanere.
   Georges Loinger, decano della Resistenza ebraica francese, è morto venerdì a Parigi all'età di 108 anni. Finita la guerra, nel 194 7 Loinger aiutò a organizzare la partenza della nave Exodus dal porto francese di Sète verso la Palestina allora sotto il controllo britannico. Qualche anno prima riuscì a salvare oltre 300 bambini ebrei facendoli passare in Svizzera.
   Lo stratagemma del campo da calcio non durò a lungo, perché si era sparsa la voce di quelle strane partite nelle quali si perdevano sia il pallone sia i giocatori. Allora Loinger decise di fare ricorso ai passeur. Di notte i ragazzini più grandi, 15-16 anni, tenevano per mano quelli di 7 o 8 e raggiungevano le persone incaricate - e pagate 300 franchi a bambino - in un luogo sempre diverso. «Bisognava attraversare l'Hermance, il corso d'acqua che segna la frontiera tra Francia e Svizzera - ha raccontato anni fa Loinger al Figaro -. I bambini avevano capito perfettamente il pericolo ma ero con loro e avevano fiducia in me.
   Poi il passeur a un certo punto non voleva più che li seguissi ed ero costretto a lasciarli andare, sperando che lui non facesse il doppio gioco. L'operazione durava circa un'ora, i gruppi comprendevano da sette a dieci bambini.
   Fino al settembre 1943 la frontiera era controllata dai soldati italiani. «Un giorno uno di loro venne a cercarmi imbracciando il fucile e mi portò dal comandante. Appena arrivo, questi mi mostra una lista con tutti i nostri attraversamenti e mi dice: "Approvo quello che sta facendo". il comandante italiano aveva chiuso gli occhi».
   Le cose si fecero più difficili quando al posto degli italiani arrivarono i nazisti. I passaggi in Svizzera diventarono più pericolosi e quindi più rari, ma nella primavera del 1944 Loinger riuscì a salvare anche la moglie Flora e i figli Daniel di sei anni e Guy di appena sedici mesi, per tornare a lottare nella Resistenza assieme al cugino e futuro mimo Marcel Marceau.

(Corriere della Sera, 30 dicembre 2018)


Amiamoci gli uni gli altri

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato per noi l'amore di Dio: che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo affinché, per mezzo di lui, vivessimo. In questo è l'amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi, e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi.

Dalla prima lettera dell'apostolo Giovanni, cap. 4 


 


Da Gaza palloncini esplosivi contro i bimbi ebrei

I regalini letali dei palestinesi

di Mirko Molteni

Dopo l'offensiva con gli aquiloni incendiari, i palestinesi s'inventano un'altra tecnica terroristica, palloncini recanti piccole cariche esplosive rilasciati sul confine israeliano col vento a favore. Ulteriore aggravante è che si tratta di palloncini colorati che da Gaza sono finiti presso l'asilo di un villaggio israeliano nella regione del Neghev, una strage sfiorata, se i bambini si fossero avvicinati ai pericolosi ordigni, attratti dai colori vivaci dei palloni. La notizia è stata data ieri dalla radio governativa israeliana, che ha anche precisato che non ci sono stati feriti e che è subito intervenuto presso l'asilo un artificiere della polizia che ha disinnescato le bombe. Le autorità hanno poi diramato un appello ai cittadini e ai loro bambini, perché non tocchino alcun oggetto di natura ignota trovato all'aperto. L'episodio è stato il più curioso della giornata di ieri, il classico venerdì islamico di preghiera, in cui Hamas ha indetto l'ennesima manifestazione antiebraica della Marcia del Ritorno, con energumeni che cercano di sfondare le recinzioni di confine. Ieri erano oltre 4000 a premere, rintuzzati dallo schieramento israeliano, che ha ucciso un militante, il 26enne Karam Fayyad. La crescita della minaccia è provata dal fatto che Hamas ha istituito una "sala operativa congiunta con le altre organizzazioni palestinesi", mirando a coordinare gli attacchi. La trovata dei palloni segue l'offensiva degli aquiloni carichi di esche infiammate, e talvolta decorati con svastiche naziste, che già hanno appiccato 200 incendi e distrutto 7000 acri di colture. Del resto, l'uso di palloni esplosivi portati dal vento sul territorio nemico non è nuovo, ma è talmente inefficace che il suo scopo può essere solo terroristico e non militare. Nel lontano 1849 gli austriaci mandarono su Venezia assediata piccole mongolfiere con miccia a tempo, ma fecero cilecca. Con la Seconda Guerra Mondiale, i giapponesi lanciarono nel 1944 contro l'America centinaia di cosiddetti palloni Fu-Go, causando danni irrisori ma molta psicosi.

(Libero, 29 dicembre 2018)


È morto lo scrittore israeliano Amos Oz

Aveva 79 anni. Era malato di cancro

TEL AVIV - Amos Oz, uno degli scrittori israeliani più celebri e tradotti in tutto il mondo, è morto a 79 anni. Era malato di cancro. Lo rendono noto i media israeliani.

(tio.ch, 29 dicembre 2018)


Abbiamo dedicato a questo scrittore israeliano un lungo numero nella nostra rubrica Approfondimenti. Non riteniamo opportuno aggiungere altro.


Rabbi Arthur Schneier e l'antisemitismo

di Giancarlo Elia Valori

 
Rabbi Arthur Schneier
Qualche giorno fa, il rabbino Arthur Schneier, di origine viennese, sopravvissuto all'Olocausto, o meglio, alla Shoah, ma operante, da molti anni, a New York, ha tenuto un discorso al parlamento viennese per ricordare gli ottanta anni della Kristallnacht, la triste "notte dei cristalli".
  Fu detta anche Reichspogrom e Novemberprogrom, due termini che utilizzano sempre la parola "pogrom" (in russo, "devastazione") per indicare la rivolta di piccoli gruppi, ben manipolati, contro gli ebrei e i loro beni.
  Numerosissimi furono comunque i pogrom in Russia, terra di antisemitismo antico e profondo.
  Le radici? L'antisemitismo storico della Chiesa Ortodossa, la facile manipolazione degli apparati, l'ossessione identitaria, spronata dal regime zarista.
  Ma i nazisti soprattutto imitarono questa terribile prassi politica, già nella Notte dei Cristalli del novembre 1938, per dare in effetti l'inizio alla eliminazione fisica degli ebrei, fino alla "soluzione finale", che ebbe inizio nel 1940-1941.
  Fu quella la notte in cui furono distrutte, in Germania, Austria e Cecoslovacchia, oltre 1400 sinagoghe e si ebbero ben 1500 morti.
  In quella fase, furono deportati ben 30.000 ebrei nei campi di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen.
  Prima della Kristallnacht, vi fu l'invito, o l'obbligo, al boicottaggio dei negozi e dei professionisti ebrei nel 1933 e poi, nel 1935, furono promulgate le Leggi di Norimberga.
  Rabbi Schneier pensava che, dopo la Shoah, non vi sarebbe stato alcun ritorno dell'antisemitismo, un virus che ha accompagnato la storia moderna dalla tarda antichità fino, appunto, ad oggi.
  Rabbi Schneier pensava, da razionalista kantiano, che dopo l'evidenza dei fatti, non vi sarebbe stata alcuna persecuzione antiebraica, nel radioso futuro illuminato del XX secolo.
  Invece i mostri rimangono vivi, dopo che la storia visibile li ha temporaneamente messi a riposo.
  Ora, nel 2018, il cancro dell'antisemitismo, dice Rabbi Schneier, è ricomparso in Europa e negli Stati Uniti.
  In America del Nord, ricordiamo, l'antisemitismo è presente da sempre.
  Basti ricordare l'affaire Leo Frank del 1915, quando questo cittadino ebreo americano fu prima condannato a morte, poi la sua condanna, peraltro del tutto inverosimile, fu convertita in carcere a vita ma, anche da carcerato, Leo Frank fu portato fuori dalla sua gabbia da una massa di gente inferocita e impiccato.
  Nel 1958, anche dopo la Shoah e la diffusione delle atrocità naziste contro gli ebrei, fu fatta saltare con la dinamite la più antica sinagoga di Atlanta.
  I miti, soprattutto quelli dell'odio, non hanno bisogno di conferme né di smentite. Esistono, e basta.
  Due anni dopo, ci fu ancora l'azione di un "suprematista bianco" contro una sinagoga di St. Louis, con l'uccisione di alcuni ebrei che uscivano dal luogo di culto.
  Alan Berg, un intellettuale antirazzista, fu poi ucciso nel 1984, dopo alcune sue trasmissioni radiofoniche, nelle quali difendeva negri ed ebrei.
  Non vi è argomentazione razionale che possa sconfiggere l'antisemitismo, il razzismo, l'odio etnico o anche personale.
  Sono oltre sette i casi maggiori di antisemitismo violento negli Usa, negli anni tra il 1990 e il 2010, ma qui non si contano i numerosissimi altri atti di minore impatto.
  L'antisemitismo è oggi ancora vivo, e addirittura aumenta in quantità e virulenza, basti pensare all'attacco contro la sinagoga di Pittsburgh dell'ottobre ultimo scorso.
  Certo, dice rabbi Schneier, le fasi di turbolenza sociale, culturale ed economica sono sempre esiziali per gli ebrei, come dimostra tutta la storia dell'occidente; e quindi, nella crisi dell'Europa e in quella, diversa ma parallela, degli Usa l'aumento dell'antisemitismo è, purtroppo, prevedibile.
  Hannah Arendt rifiutava, poco dopo la fine della Shoah, la teoria dell'antisemitismo come elaborazione del "capro espiatorio" ebraico, e ragiona spesso intorno al caso Rathenau, il grande imprenditore ebreo che fu ministro degli Esteri nella Repubblica di Weimar, assassinato da un estremista di destra.
  Ricorda Elias Canetti che l'idea del suo straordinario "Massa e Potere" gli venne osservando le masse di lavoratori socialdemocratici che seguivano il feretro di Rathenau.
  Qual è l'essenza della tesi della Arendt sul ministro degli esteri di Weimar?
  Che gli ebrei erano, per posizione storica e ruolo, le "avanguardie della modernità" e, quindi, tutti quelli che odiano i valori del Moderno sono, ipso facto, antisemiti.
  E' in parte vero, ma la Arendt si dimentica di dire che l'antisemitismo è diffuso anche nelle società antiche (o arcaiche, come la Russia zarista dei pogrom) e che molti dei critici delle rivoluzioni settecentesche sono del tutto privi di tratti antisemiti.
  E che il mondo moderno, come notavano sia Leo Strauss che il marxista Lukàcs, è peraltro l'organizzazione simbolica e sociale che più ha subito opposizioni durante la sua formazione che, forse, non si è ancora conclusa.
  L'occidente della tecnica e della ratio calcolante non è ancora finito, ma la sua morte dipende dal suo eccesso, attuale e forse futuro, di antisemitismo, dato incredibile dopo la Shoah.
  Ovvero, di memoria del suo passato arcaico e antimoderno, anche se il moderno stesso è stato antisemita, a suo modo.
  E qui rabbi Schneier diventa chiarissimo: il futuro dell'Europa è direttamente legato alla fine dell'antisemitismo e del particolare odio antiebraico attuale, quello dell'antisionismo.
  Il futuro dell'Europa, ma non dei soli ebrei europei o del complesso mondo dell'ebraismo nordamericano.
  Criticare Israele e il suo governo è certamente possibile, come è possibile dissentire dal governo della Turchia o della Finlandia, ma non è certo una novità che la polemica contro lo stato ebraico sia legata all'aggettivo più che al sostantivo.
  La storia di Israele è ormai legata, nella mente delle masse, al fatto, del tutto infondato, di una qualche sottrazione delle terre che, prima sarebbero appartenute, tutte, ai palestinesi.
  Il sionismo fu legato, in modo del tutto razionale, alla reazione del popolo francese al processo Dreyfus, l'anno di inizio, peraltro, della infausta casta degli intellettuali, fortunatamente oggi irrilevanti.
  E, per Theodor Herzl, era evidente la fine del rapporto razionale e civile tra Europa e mondo ebraico.
  Tutto poteva crollare in un attimo, per l'ebraismo europeo. Le forze combinate della reazione al 1789 e del peggiore 1789 si erano riunite.
  Vivere senza storia e nell'istante, come gli animali descritti da Nietzsche nella sua seconda Inattuale, è ormai la forma in cui l'occidente pensa sé stesso, la storia della nostra civiltà sembra finita e, quindi, non occorre più conoscere la storia, che è la base di manipolazioni infinite che oggi galleggiano ancora nella psiche di massa. E', questa, la peggiore dimenticanza di noi stessi.
  Inoltre, rabbi Schneier pone l'attenzione su un fatto a cui pochi avevano oggi pensato, chiusi nei loro paraocchi del politically correct o del banale computo dei voti elettorali: con l'immigrazione, soprattutto da paesi mediorientali o africani in cui è fortemente presente l'Islam, aumenterà di sicuro l'insicurezza degli ebrei europei e, per molti aspetti, quella di tutti i cittadini della UE.
  L'integrazione, nella cultura liberale europea e americana, implica l'accettazione dell'altro e la richiesta gentile che l'altro si adatti alle nostre leggi, regolamenti, consuetudini.
  Ma non ci sono solo le norme esplicite e scritte, almeno per quanto riguarda noi, gli eredi del diritto romano.
  Occorre allora una accettazione, da parte dell'altro, del sostrato della nostra civiltà, che non è solo la banale "tolleranza" salottiera e illuministica, quel meccanismo in cui, come dicevano Adorno e Horkheimer, tutto è falso.
  Ma qui occorre qualcosa di più profondo, che non potrà mai essere scritto e regolamentato.
  La politica è una metafisica dove l'indicibile è quello che conta e che informa di sé tutto il resto.
  Questo vale, naturalmente, anche per i cittadini ospitanti, che devono capire, nel senso profondo del termine, la alterità dell'altro, e quindi rispettarlo nel suo divenire altro; e mi scuserete qui questo gergo filosofico.
  Quindi ancora, se pure una quota di immigrati è, per molti versi, inevitabile e si è già, comunque, realizzata, dobbiamo ricordarci che l'antisemitismo e l'antisionismo non sono i nemici dei soli ebrei, ma di tutta la nostra civiltà.
  Non sfuggiva a questo criterio nemmeno il nazismo: esso era infatti una teoria politica, ma diremmo piuttosto una semplice prassi, legata a idee castali tipiche dell'Asia, dove peraltro il Terzo Reich trovò sostegno militare, economico, ideologico.
  Dal Tibet all'induismo indiano, dalle sette islamiche dell'Asia centrale alle culture russe periferiche dell'antisemitismo, come i cosacchi, il nazismo ha puntato, elaborando tutti i miti suddetti, alla cancellazione totale dell'Europa e quindi alla sua "asiatizzazione".
  Quindi, antisemitismo nazista come lotta all'Europa e alla sua millenaria civiltà, non meno antica di quelle dell'Asia.
  E non dimentichiamo l'economia: i capi nazisti, come hanno dimostrato i più recenti storici del terzo reich, pensavano di coprire, con l'"oro giudaico", la loro crisi economica e fiscale.
  Chi lotta contro l'antisemitismo e l'antisionismo è, ancora oggi, uno dei trecento alle Termopili, che salvarono l'unicum della sapienza greca da un grande impero asiatico che avrebbe equalizzato la civiltà marittima del Mediterraneo alle steppe dell'impero persiano, senza nessuna cultura che non sia quella dell'esaltazione dell'imperatore-dio. O della triste ripetizione degli "antichi".
  Che fu anche tipica di Roma, la sapienza imperiale, ma con la pluralità degli déi che già prefigurava il "politeismo dei valori" di weberiana memoria.
  Certo, afferma ancora rabbi Schneier, i leaders europei sono ben attenti al risorgere dell'antisemitismo e dell'antisionismo, ma qui la questione non è dei capi, ma delle masse, che sembrano sempre più sedotte dall'odio, che è più complesso dell'amore ma è, come il maligno, un potentissimo seduttore.
  Ma cosa è davvero l'antisemitismo, oggi?
  Un fenomeno di massa, certamente. E questo preoccupa, perché i pregiudizi sono più duri da estirpare delle convinzioni razionali.
  In Usa, oggi, gli ebrei sono il 5,5%.
  Si tratta, è inutile spiegarlo qui, non di una razza, ma di un insieme di differenti etnie, unite da un credo omogeneo.
  Tra l'11 e il 20% degli ebrei nordamericani sono peraltro "gente di colore", quindi non solo neri.
  Gli ebrei, comunque, vivono nel 70% delle nazioni attuali, dalle comunità ebraiche di Kaifeng in Cina agli ebrei indiani di varia origine mediorientale, fino alle aree a maggioranza ebraica in varie zone dell'America Latina.
  E nemmeno dobbiamo accettare il mito, di origine antisemita, che gli ebrei siano i "ricchi" che dominano il mondo.
  Secondo le più accreditate statistiche, i più ricchi al mondo, più della metà di essi, sono oggi di tradizione o fede cristiana, mentre ci sono più ricchi indù e musulmani che non ebrei.
  Dai dati del 2015, si desume che, dei 13,1 milioni di persone definibili come globalmente "ricche", il 56,2% sono cristiani, il 6,5% musulmani, il 3,9% sono Indù e l'1,7% ebrei.
  Certo, il pensiero patologico, una vera e propria malattia mentale, che oggi definisce l'antisemitismo come "teoria della cospirazione" potrebbe dire che questi sono dati "truccati".
  No, sono dati reali tratti dalle dichiarazioni dei redditi dei paesi con il Pil rilevante al mondo.
  Però, negli Usa gli ebrei sono il gruppo etnico-religioso che guadagna salari maggiori rispetto ad ogni altro gruppo similare.
  E ci sono ancora molti poveri, poveri come gli ebrei che arrivarono a New York due o tre generazioni fa.
  Il 45% dei bambini ebrei di New York, oggi, vive appena sotto la linea della povertà, mentre gli ebrei poveri sono il 26,4%, sempre negli Usa, rispetto a una media assoluta del 30,8%.
  Tra il 1991 e il 2011 il numero degli ebrei poveri negli Usa è aumentato del 22%.
  Quindi, non ha fondamento reale, ma certamente lo sapevamo già, il mito degli ebrei ricchi che, di nascosto, ordiscono le crisi economiche o le spoliazioni dei popoli goyim.
  Ma dove nasce, storicamente l'antisemitismo? Probabilmente in Europa e, soprattutto, nell'ambito del cristianesimo popolare.
  E non c'è differenza, qui, tra l'odio antiebraico protestante e quello cattolico.
  Lutero, nel suo "Degli Ebrei e delle loro menzogne" usa una terminologia e degli argomenti che sembrano copiati da un manifestino di Goebbels.
  Forse, tutto ha formalmente inizio con le leggi spagnole sulla limpieza de sangre nel 1600 e oltre, dopo peraltro il grande pogrom della Reconquista, che è peraltro contemporanea alla scoperta dell'America.
  Gli ebrei scapparono, in quella fase, insieme agli islamici dalla Spagna "purificata" di Isabella di Castiglia dirigendosi all'Est, soprattutto nell'Impero Ottomano.
  Fu ironica la lettera che il sultano di quel tempo scrisse ai Re Cattolici spagnoli: "vi ringrazio per avermi fatto arrivare qui tutti questi medici, mercanti, sapienti, matematici, di cui avevo bisogno".
  Poi, oltre allo specifico antisemitismo cattolico, dal quale ci ha definitivamente liberato San Paolo VI, ma soprattutto un altro Papa santo, Giovanni Paolo II, vi fu un antisemitismo laicista e legato alle ideologie scientiste, positiviste, razionaliste, che si sviluppano a partire dalla Rivoluzione Francese del 1789.
  Una rivoluzione che, peraltro, ebbe subito rigurgiti irrazionalisti e antiscientifici: basti pensare al rifiuto arcadico della tecnica e del lavoro di fabbrica di Gracco Babeuf e della sua "congiura degli uguali" o al robespierrismo, quando i rivoluzionari tagliarono la testa proprio a Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, al grido: "la repubblica non ha bisogno della scienza!".
  Qui operano già altri miti, all'apparenza più "razionali".
  Il razzismo darwiniano, l'eugenetica, l'anticomunismo americano, dove il comunismo è sostanzialmente la prassi dell'aiuto fraterno, poi la frenologia o l'antropologia fisica. O quello che si pensava che fosse.
  E' qui la base "scientifica" dell'antisemitismo hitleriano, e il "conduttore" sarà, fin dall'inizio, abbonato fedele alle pubblicazioni dell'"osservatorio sulla razza e sull'eugenetica" di New York, quello che stabiliva, peraltro, le quote annuali degli immigrati accettate dal governo Usa.
  Certo, confinare gli ebrei nei ghetti è anche una ottima prassi per eliminare concorrenti pericolosi, nel commercio o nelle professioni.
  Sarà proprio quello che accadrà, in Italia, dopo le leggi razziali del 1938.
  Quando l'occidente fiorisce, rinasce la libertà degli ebrei. Basti pensare alla Repubblica fiorentina dei Medici, a tutto il Rinascimento, al Risorgimento italiano, che vedrà poi una numerosa partecipazione ebraica, infine all'unità tedesca.
  Peraltro occorre notare che gli ebrei del Medio oriente, prima della colonizzazione occidentale, vivevano senza particolari restrizioni o minacce.
  Ma le sporadiche azioni antiebraiche erano, più o meno, nello stesso numero di quanto accadeva in Europa.
  E' quindi il caso di dire che fu proprio l'antisemitismo europeo, importato nelle colonie francesi o britanniche, a stimolare il latente e silente antisemitismo della popolazione locale.
  Oggi siamo a una media di antisemitismo dichiarato, in tutto il Medio Oriente, del 98%.
  Un problema culturale e politico di prima grandezza.
  Se infatti un potente gruppo militante islamico come Hamas, che viene classificato oggi dalla UE e dagli Usa come "terrorista", un gruppo peraltro espressione della Fratellanza Musulmana, dichiara nel proprio statuto di fondazione di credere al "Protocollo dei Savi di Sion", vuol dire che c'è un problema di comunicazione tra la peggiore Europa e il più fanatico Medio Oriente, cosa che riguarda noi come gli islamisti della Striscia di Gaza.
  I "protocolli" sono infatti un esempio cardine del nuovo e vecchio antisemitismo.
  La pressione antisemita in Russia, dal 1880 al 1921, fu poi uno dei maggiori meccanismi che favorirono l'emigrazione ebraica negli Stati Uniti.
  Per di più, tutto l'inizio del secolo Ventesimo fu un momento di estrema debolezza del sistema zarista russo, che il mito antisemita contribuì grandemente a bloccare e stabilizzare, fino all'operazione tedesca che favorì la pace di Brest-Litovsk e, quindi, il sostegno tedesco iniziale alla Russia bolscevica.
  Da una parte, il regime zarista accusò gli ebrei di tramare contro l'impero russo, dall'altra furono accusati proprio gli ebrei della grave crisi economica, oltre che della propaganda antizarista, che fu messa in conto agli ebrei sia per la parte rivoluzionaria, sia per quella borghese e filo-occidentale.
  Ecco, la propaganda antisemita e antisionista sono legate insieme, elaborano gli stessi stilemi tradizionali in nuovi slogan, creano lo stesso meccanismo di identità fallace all'interno e di esclusione all'esterno per gli ebrei e i sionisti, ma oggi si dirigono soprattutto contro la politica dello stato di Israele. Che dobbiamo difendere.

(Il Denaro, 29 dicembre 2018)


Netanyahu da Bolsonaro: "Felici di aprire una nuova era"

di Emiliano Guanella

Il mare di Copacabana a Rio de Janeiro ha fatto da sfondo all'incontro storico fra Jair Bolsonaro e Benjamin Netanyahu, il primo premier di Israele a partecipare alla cerimonia d'insediamento di un presidente brasiliano. I due si sono riuniti per un'ora e hanno riaffermato la volontà di migliorare le relazioni commerciali e politiche fra i due paesi. «Bolsonaro - ha detto Netanyahu - sta portando avanti un grande cambiamento per questa grande potenza mondiale che è il Brasile e noi siamo felici di poter aprire una nuova era nelle relazioni tra i nostri due paesi». Durante la campagna elettorale Bolsonaro ha citato Israele, assieme all'Italia e agli Stati Uniti, come un punto di riferimento della politica estera del suo futuro governo, che entra in carica il primo gennaio. Un'alleanza che rivoluziona la tradizionale equidistanza della diplomazia brasiliana nelle questione mediorientali e che potrebbe essere sancita dallo decisione di spostare, come ha fatto Trump, l'ambasciata a Gerusalemme, una scelta criticata dagli allevatori di carne locali che temono un boicottaggio dei paesi arabi, verso i quali esportano il 40% della loro produzione. Il Brasile, secondo quanto anticipato dal futuro ministro degli Esteri Ernesto Araujo, dovrà d'ora in avanti pendere a favore di Israele nelle votazioni presso le Nazioni Unite riguardanti il conflitto con i palestinesi. I continui riferimenti a Israele sono serviti a Bolsonaro per accattivare il voto degli evangelici pentecostali, che coltivano il mito della terra promessa, mentre per Netanyahu questa visita di cinque giorni è utile per allontanarsi dalla crisi politica interna, con le accuse di corruzione contro di lui, lo scioglimento del Parlamento e la convocazione di elezioni anticipate ad aprile. Per molti analisti brasiliani, tuttavia, non sono affatto chiare le ragioni e i benefici concreti di questo avvicinamento così accelerato con Israele.

 La tecnologia israeliana
  Bolsonaro ha più volte citato il programma di desalinizzazione dell'acqua marina israeliano come un modello da seguire per le regioni aride del Nordest brasiliano, dimenticando però che esistono attualmente centinaia di progetti di questo tipo che riescono a portare acqua potabile a più di 230.000 persone. Alcuni esponenti del suo partito e del suo clan famigliare hanno elogiato la tecnologia militare israeliana, auspicando una maggiore collaborazione in futuro in questo ambito. Di sicuro c'è la volontà di seguire la politica adottata da Trump, ammirato profondamente da Bolsonaro. Alla cerimonia d'insediamento del primo gennaio sarà presente il premier ungherese Orban, mentre da Washington viaggerà il segretario di Stato Mike Pompeo.

(La Stampa, 29 dicembre 2018)


Il Natale: il nuovo amore per gli ebrei israeliani

Gli israeliani si sono innamorati del Natale. Lo riporta Haaretz.

Secondo gli esperti, la popolarità della festa cristiana in Israele è dovuta alla globalizzazione, al fatto che molti israeliani ultimamente considerino il cristianesimo sempre meno come una minaccia e al fatto che abbiano cominciato a viaggiare di più nel mondo e a vedere quanto sono belle le celebrazioni natalizie.
Il numero di turisti locali che in massa si recano a visitare i luoghi di culto della cristianità a Nazareth e a Gerusalemme vecchia per sentire lo spirito della festa hanno battuto ogni record questo dicembre.
    È naturale che pochi giorni prima del Natale Nazareth si riempia di turisti. Dopotutto proprio qui è cominciata la storia di Gesù. Ma se si ascolta attentamente, ci si accorge che non sono i soliti pellegrini che arrivano da lontano. Questi parlano ebraico.
Gli ebrei israeliani si sono innamorati del Natale e in nessun altro luogo è così evidente come nella città araba a nord del Paese dove più di 2000 anni fa, secondo il cristianesimo, una donna di nome Maria ha ricevuto la buona novella secondo cui avrebbe portato in grembo il Figlio di Dio. Invece di trascorrere la giornata in sinagoga o passeggiando per la città, decine di migliaia di ebrei sono andati sabato scorso a Nazareth per percepire lo spirito del Natale. Alcuni hanno partecipato a tour organizzati in ebraico che sarebbero rivolti proprio ad ebrei israeliani che non conoscono il cristianesimo. Ma la maggior parte di loro passeggia semplicemente con amici e familiari per una città in cui probabilmente non sono mai stati.
    Con un berretto di Babbo Natale in testa scattano selfie accanto al gigante albero di Natale disposto vicino alla Chiesa ortodossa dell'Annunciazione. Canticchiano la canzoncina di Natale Jingle Bells che viene diffusa per le strade dagli altoparlanti. Nel nuovo mercatino di Natale aperto meno di 10 anni fa assaggiano dolcetti e bevande natalizie, ammirano con entusiasmo i ninnoli natalizi e comprano souvenir. Si mettono in fila per quanto sia possibile in mezzo alla folla della Basilica dell'Annunciazione per vedere la grotta in cui, si dice, visse la Vergine Maria.
La famiglia Shovali di Hod HaSharon al completo si sta godendo una splendida giornata invernale di sole. All'interno della chiesa ammirano la statua della Vergine Maria e decidono dove pranzare. "Volevamo capire e provare cosa fosse il Natale", dice Livnat Shovali.
A pochi metri da loro vi è la famiglia Shafir. Non erano mai stati a Nazareth. "Siamo cresciuti in una famiglia molto ortodossa", spiega Neta Shafir. "È molto bello vedere che persone di altre religioni festeggiano le proprie feste. Ma la ragione principale per cui abbiamo portato qui i nostri figli è che devono allargare i loro orizzonti".
    Nel 2005 un giovane ebreo di Israele, l'imprenditore Maoz Inon, insieme a una ragazza del luogo ha creato a Nazareth la prima pensione di questo tipo. Da allora la Fauzi Azar Inn è molto popolare per ospiti del luogo e non solo e Inon è diventato una personalità importante in città. "Il numero di ebrei israeliani che quest'anno sono venuti per il Natale è da record", dice.
Come spiega la loro attrazione per la festa cristiana?
    "Gli israeliani viaggiano sempre di più all'estero dove vedono come si festeggia il Natale", dice. "Il vantaggio di Nazareth è che a un'ora e mezza da Tel Aviv". Tarek Shikhad, responsabile del turismo a Nazareth, ha invece una spiegazione più semplice: "gli ebrei cercano sempre una scusa per festeggiare".
Yalla Basta, una società israeliana che organizza tour culinari, ha cominciato a fare tour natalizi a Nazareth qualche anno fa. Ma Maria Zavin, direttrice marketing, sostiene che questi tour sono già estremamente popolari. "L'anno scorso abbiamo organizzato 9 tour nei weekend prima di Natale", dice. "Quest'anno, invece, 22. Ne faremmo anche di più, ma non abbiamo guide a sufficienza".
Zavin sostiene che, considerato il rinnovato interesse degli ebrei per la festa cristiana, Yalla Basta ha incrementato quest'anno il numero di tour natalizi a Gerusalemme vecchia. L'anno prossimo la società prevede di organizzare un nuovo tour natalizio a Giaffa dove vive una nutrita comunità di cristiani.
Negli ultimi anni a Gerusalemme vecchia sono diventati popolari i tour di mezzanotte la Vigilia di Natale a cui partecipano soprattutto i curiosi ebrei israeliani.
    "Sfortunatamente nelle scuole israeliane non si parla del Natale", dice Efrat Asaf che da alcuni anni organizza questi tour. "Ma questa felice festa è parte della cultura mondiale e racconta di fatti accaduti qui, dunque è normale che susciti un tale interesse", afferma.
Guy Ben-Porat, professore di storia delle religioni presso l'Università Ben Gurion del Negev, spiega con la globalizzazione la crescente popolarità del Natale in Israele. "Sempre meno israeliani ultimamente considerano il cristianesimo una minaccia e anzi quest'ultimo suscita sempre maggiore interesse. Un po' come il Black Friday che improvvisamente è diventato assai popolare anche da noi.
Alcune generazioni fa gli ebrei alla Vigilia di Natale si chiudevano nelle proprie case per non attirare l'attenzione di chi li riteneva "deicidi" e voleva ucciderli. Quei giorni ormai sono passati", dice Ben-Porat. "Mentre molti anni fa il cristianesimo era percepito come una grave minaccia, oggi rappresenta un alleato".
Debbie Wiseman, ex presidente del Consiglio internazionale dei cristiani ed ebrei, ritiene che quest'interesse per la festa cristiana sia legato al fatto che gli ebrei hanno un proprio Stato.
    "Per me il senso di sicurezza sulla nostra terra in cui possiamo essere tolleranti verso le minoranze è parte integrante del sionismo", afferma. "Questo spiega perché senza vergogna ci godiamo il Natale in tutta la sua bellezza. Dopotutto è davvero una festa bellissima".
(Sputnik Italia, 29 dicembre 2018)


L'esuberanza turca sulla Siria del Nord, che non piace a Putin

di Marta Ottaviani

La decisione di Donald Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria ha scombinato, e non poco, le pedine sullo scacchiere dello Stato Mediorientale. Le mire di Erdogan e il ruolo di Putin
   Per i botti di fine anno è ancora presto, ma il tweet dello Ypg di queste ore è un anticipo sul fatto che l'anno nuovo per il presidente Erdogan potrebbe iniziare con un grosso nervosismo.
   L'organizzazione militare curdo siriana, che per la Turchia è il braccio siriano del Pkk e quindi un'organizzazione terroristica, ha chiesto aiuto niente meno che a Bashar al-Assad, perché intervenga con l'esercito siriano per proteggere i distretti di Manbji e Kobane, che lo Ypg si prepara a lasciare sotto il suo controllo. Quello che fino a poche ore fa sembrava un gesto disperato, non solo è diventato realtà, vuole dire anche che gli equilibri in Siria potrebbero cambiare presto e che, se fino a questo momento, Putin ha lasciato la Turchia sostanzialmente a briglia sciolta, i territori a est dell'Eufrate devono rimanere off-limits.
   Tutto questo, accade proprio mentre Turchia scalpita e vorrebbe fare partire l'offensiva nel Nord della Siria contro i curdi siriani dello Ypg. Ma il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan se la deve vedere con il super alleato, Vladimir Putin, che non sembra molto entusiasta dei piani di Ankara.
   Domani una delegazione di alto profilo partirà dalla capitale turca per recarsi a Mosca. Ne faranno parte il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, il ministro della Difesa, Hulusi Akar, il capo dell'Intelligence, Hakan Findan e Ibrahim Kalin, uno degli uomini più vicini al presidente Erdogan. Rumors dai corridoi del potere dicevano che ci sarebbe dovuto essere un incontro fra i due capi di Stato, ma pare che Putin abbia stoppato l'iniziativa. Gli alleati, forse, si parleranno in un secondo momento, quando si sarà capito come gestire l'esuberanza turca.
   Di certo, la decisione di Donald Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria ha scombinato, e non poco, le pedine sullo scacchiere dello Stato Mediorientale. Ankara ha fatto subito sapere di essere preoccupata per la possibile penetrazione di gruppi terroristi di matrice curda e jihadista nelle posizioni lasciate vuote dagli americani. Dove i primi, inutile dirlo, destano molta più preoccupazione dei secondi. Sono almeno 10 giorni che la Turchia continua ad ammassare truppe e carri armati sul confine,
   Ma i quotidiani turchi in queste ore hanno riportato alcune indiscrezioni secondo le quali la Russia vorrebbe che quei territori restassero nelle mani dei siriani, quindi dello Ypg, che ha aiutato Washington in tutti questi mesi a tenere le posizioni. Le indiscrezioni sono diventate fonte di irritazione per Ankara quando a ribadire il concetto è stato niente meno che la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova, che, per sostenere le tesi russe, ha citato il diritto internazionale. Con le notizie delle ultime ore, sembrerebbe proprio che Putin e Assad siano diventati i nuovi garanti della minoranza curdo-siriana.
   Da qui a dire che la Turchia deve uscire dalla Siria del nord il passo è breve ed è proprio quello che la delegazione proveniente da Ankara deve cercare di evitare domani. Del resto, che la presenza per Putin sia una garanzia, è facilmente intuibile. Il presidente russo, si fida dell'alleato turco solo fino a un certo punto e, sicuramente, non per quando concerne il capitolo sicurezza e lotta al terrorismo jihadista.
   Ankara per lungo tempo è stata sospettata di collaborare con lo Stato Islamico, sperando di poter annientare i curdi e rovesciare Bashar al-Assad e dall'inizio della crisi siriana le viene imputato di finanziare le fazioni più dubbie dell'opposizione. Appare piuttosto chiaro che, con queste credenziali, Putin, che l'incubo del terrorismo jihadista ce l'ha in casa, preferisca vedere le armate della Mezzaluna il più lontane possibile dalla sponda dell'Eufrate, soprattutto da Manbji, dove, nel frattempo, sarebbero arrivate le armate governative di Assad, pronte a scontrarsi con i turchi se ve ne fosse bisogno.

(formiche, 28 dicembre 2018)


Il partito di un generale mette a rischio la vittoria di Netanyahu

Per il momento, l'ex capo di Stato maggiore della Difesa non ha fornito ai media molti dettagli del programma elettorale della sua formazione politica e non ha neanche chiarito se intende partecipare alle elezioni all'interno dello schieramento di centrosinistra o in quello di centrodestra.

di Gerry Freda

 
Benny Gantz
In Israele, la campagna elettorale in vista delle consultazioni dell'aprile 2019 ha di recente registrato la "discesa in campo" di un nuovo avversario del premier uscente Benjamin Netanyahu: Benny Gantz, generale con una lunga esperienza nel contrasto agli Hezbollah libanesi.
   Quest'ultimo, 59 anni, ha infatti fondato in questi giorni un partito denominato Hosen Israel ("La resilienza di Israele") e ne ha abbozzato le priorità: "preservare il carattere ebraico e democratico del Paese" e "ribaltare la strategia sviluppata dai precedenti governi in politica estera e in ambito militare". Per il momento, Gantz, dal 2011 al 2015 a capo dello Stato maggiore della Difesa, non ha fornito ai media ulteriori dettagli del programma elettorale della sua formazione politica e non ha neanche chiarito se intende partecipare alle elezioni all'interno dello schieramento di centrosinistra o in quello di centrodestra.
   Ciononostante, i sondaggi realizzati nello Stato ebraico all'indomani della presentazione del nuovo partito attribuiscono al militare percentuali di consenso "sorprendenti". In base alle ultime indagini demoscopiche, infatti, Hosen Israel sarebbe "distanziato di pochi punti" rispetto alla formazione politica attualmente in testa nelle intenzioni di voto, ossia il Likud del premier conservatore uscente Netanyahu. Gli analisti sostengono che il movimento di Gantz dovrebbe ottenere, all'interno della Knesset, "almeno 15 seggi" su 120, divenendo così il secondo gruppo parlamentare. Il partito di Netanyahu, invece, attualmente in testa nei sondaggi, non dovrebbe conseguirne più di "30".
   I ricercatori hanno però precisato che il sostegno popolare nei confronti dell'ex capo delle forze armate sarebbe "in costante aumento" e che un "sorpasso" di quest'ultimo ai danni del leader conservatore potrebbe "facilmente verificarsi" nei prossimi mesi. Di conseguenza, il militare è stato subito presentato dalla stampa liberal come "l'unico sfidante in grado di mettere fine allo strapotere del Likud".
Oltre a Gantz, alle elezioni di aprile parteciperà anche un altro generale: Moshe Ya'alon. Costui, ex ministro della Difesa, ha infatti recentemente dichiarato di avere fondato una propria formazione politica, ma non ne ha ancora rivelato il nome e il programma. Egli ha comunque assicurato di volere "scendere in campo contro Netanyahu".

(il Giornale, 28 dicembre 2018)


Israele, ultima sfida di Netanyahu. Sconfiggere i giudici alle elezioni

Ha Più guai legali che avversari: ma c'è chi lo vede finito

di Fiamma Nirenstein

Gerusalemme - Manca poco: il 9 aprile Israele andrà alle elezioni. Molti, com'è naturale parlando di un primo ministro come Bibi Netanyahu, che ha servito per tre volte a partire dal 1996 (poi nel 2009 e nel 2013) e 16 volte nei più svariati ministeri, descrivono l'evento come il grande spettacolo della fine del potere del grande capo. Ma cosa succederà davvero a Gerusalemme dopo le prossime elezioni?
   Nei prossimi giorni la magistratura deciderà se accusare Netanyahu di corruzione in base alle indagini compiute nella tempesta di una campagna di stampa furiosa. Si dice che Bibi abbia voluto sciogliere la Knesset per alzare una cortina fumogena, e adesso alcuni dei suoi lasciano trapelare che comunque lui non se ne andrebbe fino a eventuale condanna. Ma l'accusa è di aver offerto favori a Walla, un giornale on line di proprietà di Bezeq, la rete telefonica nazionale, in cambio di una copertura stampa favorevole, non è infamante specie perché Walla non è mai stata carina con Netanyahu che, per altro sarebbe il corruttore e non il corrotto. Inoltre, come il famoso avvocato Alan Dershowitz ha detto dopo aver studiato le carte, le prove non sembrano sufficienti.
   Gli argomenti della sinistra per la campagna sono tutti discutibili: il ritiro di Trump dalla Siria segnerebbe il fallimento della politica estera che si appoggia sul presidente americano. Ma Israele non sembra preoccupata, ha attaccato anche ieri l'Iran in Siria senza problemi e molti commentatori sostengono che in realtà la mossa di Trump non toglie sostegno a Israele. Bibi, che ieri è partito per il Brasile e per un incontro con Mike Pompeo, può vantare una politica estera di successo inusitato, col passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme e l'apertura di un fronte simile in almeno altri sei Paesi. Intanto hanno aperto le porte paesi arabi sunniti come l'Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, oltre a Paesi Orientali (prima di tutto l'India e la Cina) e africani. Anche con l'Europa, si è aperto un fronte positivo. L'economia fiorisce, con un reddito pro capite di almeno 42mila dollari; l'high tech israeliano, la medicina, l'agricoltura e la sapienza nella lotta al terrore sono fra le prime. I sondaggi dicono che il Likud, unico partito laico e «sicurista» è sempre in testa. E Bibi con queste elezioni vuole certo sventare i problemi giudiziari, ma non si deve sottovalutare il suo «lid»: sventare il pericolo iraniano, creare una situazione sicura anche con i palestinesi senza farsi illusioni. Quando era nella Saieret Matkal, l'unità speciale in cui ha servito quando suo fratello perdeva la vita a Entebbe, ha affrontato tutte le sfaccettature del terrorismo, e questo, oltre all'economia, è quello che gli interessa. I suoi nemici hanno commesso nel combatterlo l'errore di prenderlo di petto e demonizzarlo, non avendo altro programma che quello di seguitare a credere nelle concessioni che venivano offerte e via via tutte rifiutate da Abu Mazen e Hamas. La sinistra ha pagato un prezzo micidiale a questa linea, e adesso è sfrangiata. Unico avversario adesso in campo, solo da ieri pomeriggio: Benny Ganz, l'ex Capo di Stato Maggiore bello e intelligente che ha fondato «Hossen Israel» «la Forza di Israele». Ma è sintomatico che sia un personaggio senza storia o programma politici il nemico di un protagonista come Bibi: leone di giorno, volpe di notte.
   
(il Giornale, 28 dicembre 2018)


Two Sunny Cities One Break, campagna del turismo israeliano a Milano

L'Ufficio nazionale israeliano del Turismo porta la campagna "Two Sunny Cities, One Break", volta alla promozione di Tel Aviv e Gerusalemme, nello store Coin di piazza Cinque Giornate a Milano. Dal 27 dicembre 2018 al 9 gennaio 2019 i clienti possessori di Coincard avranno la possibilità di partecipare a un concorso per vincere un city break nelle due città israeliane.
   «Siamo entusiasti di portare la nostra campagna Two Sunny Cities One Break in uno dei più importanti store per lo shopping milanese; Tel Aviv e Gerusalemme sono le mete perfette per un city break tra divertimento, storia e cultura - ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo in Italia - Si tratta di un progetto promosso dal ministero del Turismo di Israele che ci permetterà di raggiungere un pubblico ampio di potenziali visitatori, in un periodo di punta per lo shopping come quello degli acquisti di fine anno e dell'inizio dei saldi a gennaio».
   Per tutta la durata dell'iniziativa sarà disponibile in negozio un desk informativo, dove raccogliere informazioni, spunti e consigli per visitare le due città baciate dal sole tutto l'anno e registrarsi per partecipare al concorso.
   A supporto è prevista comunicazione in store, con immagini e video della campagna proiettate sui totem digitali del negozio, sui gate alarm e sul video wall esterno. Inoltre, il video Two Sunny Cities One Break, realizzato nel 2018 in collaborazione con il meteorologo italiano Paolo Corazzon, saranno proiettati nei ledwall posizionati in corso Garibaldi e corso Como. L'iniziativa sarà comunicata anche attraverso i canali digitali di Coin, sul sito, tramite newsletter e sui social, nonché sulla pagina facebook Visitate Israele.
   Il fortunato, estratto a sorte, vincerà un viaggio per due persone di 4 notti a Tel Aviv e Gerusalemme, comprensivo di voli e pernottamento in hotel.
   Servite questo inverno da oltre 86 voli diretti alla settimana dalle principali città italiane (Milano, Bergamo, Roma, Napoli, Venezia e dalla prossima anche Cagliari e Catania), Tel Aviv e Gerusalemme si trovano a meno di un'ora di distanza una dall'altra e possono essere abbinate all'interno di un unico city break.
   Tel Aviv è energia 24 ore su 24. Dinamica, giovane e proiettata verso il futuro, la città affacciata sul Mar Mediterraneo, nel 2019 festeggerà 110 anni. Le spiagge dove rilassarsi o fare sport, i quartieri caratteristici come Neve Tzedek, Old Jaffa e Florentin, i mercati dove gustare lo street food, i ristoranti ricercati e l'elettrizzante nightlife, sono solo alcune delle sue caratteristiche.
   Gerusalemme è un luogo unico: ogni strada o edificio ne raccontano la storia millenaria. Passeggiare nel labirinto di stradine e vicoli della Città Vecchia, essere testimoni del crogiolo di culture, lingue e fedi: la Chiesa del Santo Sepolcro, il Muro del Pianto, il suk arabo sono alcune delle meraviglie da non perdere. Fuori dalla città vecchia, i visitatori più curiosi potranno scoprire l'altra Gerusalemme, come il quartiere di Yemin Moshe, la Prima Stazione o il vivacissimo mercato di Mahane Yehuda.

(L’Agenzia di Viaggi, 28 dicembre 2018)

Il Natale, il revisionismo arabo palestinese

di Michele Santoro

Passano gli anni e la tela del peloso ragno arabo palestinese sulla storia della terra di Israele continua a progredire anche a causa dell'amplificazione data alla questione da taluni media occidentali e italiani in particolare.
   Recentemente RAI 1 ha trasmesso un servizio "Natale a Gaza" molto irrealistico e per certi aspetti comico, come scrive Deborah Fait su IC, perché mostrava musulmani e cristiani fraternamente insieme a festeggiare. Il messaggio "fake" di Hamas al mondo occidentale è chiaro, Hamas è liberale e i cristiani a Gaza vivono in pace con i "fratelli" mussulmani.
   A Gaza, secondo quanto emerge dal servizio, i cristiani sono oppressi da Israele e non da Hamas.
   La realtà è ben diversa e i media dovrebbero cercare di evitare di cadere nel tranello della disinformazione degli arabo palestinesi che ormai da decenni hanno iniziato a riscrivere non solo la storia del mondo mediorientale, ma anche la storia della religione cristiana partendo dalla "paternità arabo palestinese" del Nazareno.
   Saeb Erekat, capo dell'informazione dell'Autorità Palestinese, ha rivendicato ancora una volta, con un twitter , la discendenza "arabo palestinese" di Gesù di Nazareth. Secondo Erekat, Israele starebbe inoltre rubando lo spirito palestinese del Natale.
   Insomma, un Bambino Gesù con la kefiat, come piace a tanti italioti benpensanti e votati ipocritamente all'accoglienza e alla fratellanza con Hamas e gli arabo palestinesi.
   Tutto ciò sono i controsensi di un popolo inventato nel 1967 da Arafat con l'aiuto dell'allora Unione Sovietica, senza alcun legame storico, culturale, linguistico e religioso con la terra che rivendica come propria. Ciò che però fa pensare è il fatto che taluni media italiani facciano fatica a fare corretta informazione. Basterebbe ricordare, a proposito delle feste natalizie, il bando pubblicato dal Comitato per la Resistenza Popolare di Hamas con cui il gruppo terroristico vieta ai circa mille cristiani (su una popolazioni di 2,5 milioni di mussulmani), riprendendo un passo del Corano "non seguire la via degli ebrei e dei cristiani perché Dio non è per il popolo malvagio" , di festeggiare il Natale e che fa capire ai cristiani e gli ebrei che non solo a Gaza e nei territori, al di là delle ipocrisie ufficiali e delle trovate per uso e consumo dei media occidentali, loro sono visti come il demonio.

(Osservatorio Sicilia, 28 dicembre 2018)


Usa - Pompeo in Brasile terrà un incontro con premier israeliano Netanyahu

Il segretario di Stato americano volerà poi in Colombia dove incontrerà il presidente Ivan Duque: focus sulla crisi in Venezuela.

Il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha programmato incontri con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Presidente del Perù Martin Vizcarra, in Brasile per la cerimonia di insediamento del Presidente eletto Jair Bolsonaro.
Lo ha annunciato il Dipartimento di Stato in un comunicato stampa. "A Brasilia, il Segretario Pompeo parteciperà anche a incontri bilaterali con il Presidente peruviano Martin Vizcarra e il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu".
La visita in Brasile include un incontro bilaterale con Bolsonaro e il ministro degli Esteri Ernesto Araujo prima che Pompeo parta per la Colombia, dove incontrerà il presidente colombiano Ivan Duque. Gli sforzi per alleviare la crisi in Venezuela, dove la fame e l'iperinflazione hanno costretto circa 3 milioni di rifugiati a fuggire in paesi vicini come Colombia, Brasile e Perù, saranno al centro delle discussioni con i leader sudamericani.

(Sputnik Italia, 28 dicembre 2018)


La scure delle leggi razziali colpì avvocati e giudici ebrei. E (quasi) nessuno li difese

I licenziamenti, le esclusioni dagli ordini e dalla vita sociale riguardarono migliaia di persone. L'esempio del professore di diritto Ernesto Orrei che criticò apertamente il razzismo e l'antisemitismo.

di Carlo Brusco*

Tutti i settori della cultura furono interessati allo stravolgimento che il regime fascista portò nei vari campi della conoscenza e delle professioni con le leggi razziali ma il settore più colpito fu quello giuridico: i giuristi erano infatti in grado di comprendere appieno lo stravolgimento dei principi liberali accolti in quello che costituiva pur sempre il testo fondamentale della convivenza civile degli italiani: lo Statuto albertino entrato in vigore nel 1848 in coincidenza temporale con le guerre di indipendenza che avevano costituito l'inizio del processo di riunificazione dell'Italia.
   Le palesi violazioni dello Statuto poste in essere con le leggi razziali erano a tutti evidenti. Venivano infatti violati: l'art. 24 (principio di uguaglianza); l'art. 25 (principio di libertà sotto diversi profili: libertà matrimoniale, di scegliere una professione, etc.; l'art. 29 (inviolabilità del diritto di proprietà). È noto come l'ideologia fascista abbia pervaso non solo la legislazione penalista ma altresì la dottrina e, in misura inferiore, la giurisprudenza penale successiva alla presa del potere da parte del Pnf.
   Ben prima del '22 autorevoli esponenti della dottrina penalistica avevano già messo in discussione' anche in sedi autorevoli, i principi fondamentali contenuti nel codice Zanardelli di cui sollecitavano il superamento propugnando, tra l'altro, un inasprimento del sistema sanzionatorio, norme maggiormente permissive sull'uso delle armi da parte del cittadino (vi ricorda qualcosa di attuale?); l'estensione della possibilità di adoperarle da parte delle forze dell'ordine; la reintroduzione della pena di morte.
   Non v'è dunque da stupirsi se la dottrina penalistica accolse nel complesso favorevolmente le riforme fasciste, sia pure con qualche dissenso interno anche al movimento fascista (per esempio, non tutti i giuristi fascisti erano d'accordo sulla reintroduzione della pena di morte), per quanto riguarda i nuovi codici penale e di procedura penale dei quali, a ragione, il ministro della Giustizia, Alfredo Rocco, ribadiva in tutte le occasioni come rappresentassero pienamente l'ideologia fascista. V'è però da dire che il codice penale del 1930, pur richiamando in alcune norme la "stirpe", non conteneva, apparentemente, alcuna parte che facesse presagire un'evoluzione razzista della legislazione penale e meno ancora antiebraica .
   Il primo provvedimento della legislazione eliminava dalla scuola e dall'università sia i docenti che gli alunni e studenti di razza ebraica.
   Un successivo provvedimento contenente l'integrazione e il coordinamento in un unico testo delle norme già emanate «per la difesa della razza nella scuola italiana» (si badi adesso la difesa della razza riguarda la «scuola italiana» non più la «scuola fascista» come nel testo del 5 settembre) ribadì le previsioni contenute nel r.d.l. 1390/1938 con qualche attenuazione: in particolare con la previsione che gli alunni di razza ebraica che professavano la religione cattolica potevano essere iscritti «nelle scuole elementari e medie dipendenti dalle autorità ecclesiastiche»; che nelle scuole elementari pubbliche potevano essere istituite, a spese dello Stato, speciali sezioni per i fanciulli di razza ebraica nelle località in cui il numero non fosse inferiore a dieci; che le comunità ebraiche potevano essere autorizzate ad aprire scuole elementari con effetti legali per i fanciulli di razza ebraica e mantenere quelle già esistenti. In queste scuole era previsto che il personale potesse essere di razza ebraica.
   Era anche previsto che nelle scuole di istruzione media fosse vietata l'adozione di libri di testo di autori di razza ebraica (e nel caso di più autori bastava che uno fosse ebreo perché valesse il divieto). E stato calcolato che dalle scuole secondarie furono espulsi circa 1000 studenti e dalle elementari 4000.
   Pesantissimo fu poi l'intervento di epurazione nell'università. Anzi la discriminazione nei confronti dei professori ebrei era stata anticipata con la circolare 3 agosto 1938 che aveva vietato loro di partecipare a congressi o manifestazioni culturali all'estero. Successivamente erano stati eliminati dai libri di testo gli scritti dagli autori epurati o alla cui compilazione questi autori avevano comunque partecipato.
   Si calcola che siano stati espulsi 108 professori ordinari ai quali vanno aggiunti i liberi docenti e gli assistenti e, in questi casi, il calcolo degli espulsi è reso particolarmente complesso dalla circostanza che in queste categorie sono compresi sia professori dipendenti dal ministero che dalle singole università; sia professori in ruolo che altri che non lo erano. Mi sembrano possano ritenersi attendibili quelle ricostruzioni che calcolano in non meno di 133 gli aiuti e assistenti e in 160 i liberi docenti per cui il numero complessivo dei docenti ebrei estromessi dall'università è sicuramente superiore a 400. Ad essi va aggiunto, naturalmente, il numero, mai esattamente determinato, del personale non insegnante. Desolante è l'esame delle reazioni dei colleghi degli epurati; numerose le adesioni entusiaste alle leggi razziali, ma la maggior parte furono costituite da espressioni di stima ambigue e ipocrite che si limitavano ad augurare agli epurati un futuro migliore. Ma, visto che espressioni di dissenso potevano avere gravi conseguenze sulle carriere future e sugli incarichi ricoperti o da ricoprire, la reazione prevalente fu quella del silenzio.
   Per comprendere appieno l'impatto delle leggi razziali sull'attività professionale degli avvocati ebrei è opportuno ricordare che, negli anni successivi all'avvento del fascismo a fronte di tanti avvocati che, per la loro indipendenza e per la loro volontà di difendere tutti coloro che si opponevano ai soprusi, subirono attentati alla loro vita e ai loro beni con aggressioni fisiche e distruzione delle abitazioni e degli studi legali, ve ne furono altri che, in numero considerevole, utilizzarono la loro adesione al fascismo per carriere politiche e anche per arricchimento personale. Anche per gli avvocati il processo di restrizione dei margini di libertà, iniziato nel 1926, fu graduale e fu posto in atto, attraverso la revisione degli albi, un processo di epurazione che condusse alla cancellazione di professionisti sgraditi al regime.
   Già nel 1926 erano state attribuite importanti funzioni al nuovo sindacato fascista che divenne in pochi anni un vero e proprio organo pubblico al quale erano attribuiti amplissimi poteri per incidere pesantemente sull'attività professionale degli avvocati; e non è un caso che il suo presidente, Aldo Vecchini fece poi parte dei vertici della Repubblica sociale italiana (Rsi) e presiederà il Tribunale straordinario di Verona che condannò a morte i congiurati del 25 luglio 1943. Quando, nel 1938, intervengono i primi provvedimenti di discriminazione razziale il terreno era quindi già pronto: l'avvocatura, anche se lo avesse voluto, non aveva mezzi per reagire in modo adeguato.
   In una riunione, tenuta il 13 ottobre 1938, del direttorio nazionale del sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, il presidente Vecchini «prospetta la possibilità che, sulla base dei principi razziali, non si dia luogo alla ammissione di ebrei negli albi».
   Il colpo di grazia verrà assestato l'anno successivo: il regime interviene, con grande rigore, vietando agli ebrei l'esercizio della professione di avvocato, procuratore e patrocinatore legale. Gli avvocati ebrei potevano continuare ad esercitare la professione solo a favore di clienti ebrei purché venissero iscritti in «elenchi speciali».
   I giudici ebrei in servizio, alla data dell'entrata in vigore del r.d.l. 17 novembre 1938, subirono lo stesso trattamento. Subito dopo l'approvazione delle leggi razziali furono dispensati dal servizio 14 magistrati i cui nomi è necessario ricordare: Cesare Costantini, Mario Di Nola, Mario Finzi, Ugo Foa, Mario Levi, Ugo Davide Levi, Fernando Minerbi, Umberto Muggia, Edoardo Modigliani, Mario Piperno, Vittorio Salmoni, Giuseppe Seczi, Giorgio Vital e Mario Volterra.
   Questo numero è stato ritenuto sotto stimato perché ricavato solo dai provvedimenti di dispensa pubblicati sul bollettino del ministero; l'esame della graduatoria dei magistrati in servizio fino al 1938-39 farebbe invece emergere un numero ben maggiore di magistrati ebrei con la conclusione che «non è facile stabilire un dato preciso tra conversioni, cambiamenti nei cognomi, arianizzazioni, anodine diciture burocratiche, e via dicendo» . La dispensa dal servizio per motivi razziali riguardò anche i magistrati onorari e il personale del ministero (cancellieri e segretari) e che il problema della razza riguardava anche l'ammissione al concorso in magistratura; ovviamente non potevano essere ammessi coloro che non possedevano i requisiti razziali ma si crearono curiose situazioni tra cui quella di Paolo Barile, il futuro costituzionalista, che aveva sposato, il giorno prima dell'entrata in vigore delle leggi razziali, una donna di origine ebrea e che, dopo molte incertezze, fu poi ammesso al concorso risultando il primo in graduatoria. Ma come si posero i giudici italiani nei confronti di questa legislazione in un sistema istituzionale che, da molti anni, aveva ormai assunto caratteristiche dittatoriali ma non aveva completamente eliminato ogni possibilità di libero giudizio da parte delle toghe pur mantenendo amplissime possibilità di condizionamento soprattutto con il controllo totale delle carriere?
   Esistevano margini interpretativi che consentivano ai giudici di escludere le conseguenze più aberranti della legislazione razziale?
   A questa domanda deve darsi una risposta positiva: questi margini esistevano e va dato atto che i giudici italiani li hanno almeno in parte applicati con un orientamento complessivo che è stato qualificato come un "generoso tradimento", intendendosi per tradimento quello dello spirito delle leggi razziali.
   Altri temi "sensibili" furono affrontati dalla giurisprudenza di merito: in particolare i temi riguardanti i matrimoni tra ebrei e "ariani", i temi societari nel caso di società con soci di origini diversi, le comproprietà con analoga ripartizione e i criteri di divisione delle proprietà e delle aziende. Si tratta di casi che ebbero soluzioni diversificate e raramente condizionate da pregiudizi razziali.
   È stato poi osservato come la cultura giuridica italiana, soprattutto quella civilistica abbia, in larga parte, sostanzialmente ignorato la legislazione razziale, limitandosi, nella più parte dei casi, a seguire l'evoluzione giurisprudenziale sui più rilevanti temi della razza affrontati dalla giurisprudenza. Il sostanziale disinteresse per i temi razziali ha caratterizzato anche i programmi editoriali delle più importanti riviste giuridiche; una consistente parte delle quali rifiutò anche di escludere dai loro collaboratori giuristi di origine ebraica come richiedeva insistentemente la rivista La difesa della razza diretta da Telesio Interlandi.
   Non irrilevante è stata la partecipazione di giuristi e di magistrati al dibattito sulla razza e che hanno messo la loro cultura giuridica non solo al servizio del regime ma anche dell'ideologia antiebraica.
   Nella dottrina giuridica l'esempio più eclatante è quello di Giuseppe Maggiore, ordinario di diritto penale preso l'Università di Palermo, che giunse a condividere i principi del diritto penale della Germania nazista e ovviamente fu uno dei più fervidi sostenitori delle leggi razziali; bastino queste parole per descrivere il personaggio: «Noi vogliamo sgiudaizzare il popolo italiano nella misura in cui è stato scristianizzato, ebraizzato e quindi disitalianizzato; il nostro proposito tende a conservare quanto si può più pura la razza italiana, evitando gli incroci, le misture, le contaminazioni, non solo di corpi ma di anime, avviamento fatale alla decadenza. Le mescolanze di razze preludono allo sfacelo delle nazioni» .Vi furono anche giuristi ebrei, dichiaratamente fascisti, che videro la loro vita sconvolta dalle leggi razziali e furono costretti all'emigrazione.
   Nel desolante panorama che abbiamo sommariamente descritto si staccano, per fortuna, le figure di alcuni giuristi, non ebrei, che ebbero il coraggio di difendere i colleghi ebrei espulsi dalle cattedre di insegnamento e costretti, in larga parte, ad emigrare.
   Non mi riferisco ai giuristi, anche illustri, che mai si compromisero con il fascismo (Calamandrei, Jemolo, i fratelli Galante Garrone, Vassalli e altri) ma a quelli che ebbero il coraggio di esprimersi esplicitamente contro la vergogna delle leggi razziali. Uno di questi è Ernesto Orrei, un esponente radicale, libero docente di diritto costituzionale all'università di Roma che riuscì in modo continuativo ad esprimere le sue idee antifasciste e a far pubblicare (a Roma nel 1942!) un libro subito sequestrato, in cui criticava aspramente la legislazione antiebraica affermando che «questa esclusione degli ebrei dalla scuola e dalla biblioteca è quella che tocca più da vicino il fondo umano della società civile, la collaborazione di ogni paese al processo della conoscenza trai popoli, il dovere dello Stato moderno di illuminare, illuminare nelle vie del sapere, senza limiti estrinseci alle esigenze del sapere medesimo. La scuola e la biblioteca sono come le chiese dello Stato moderno: non si respinge nessuno».

* Già presidente di sezione della Corte di Cassazione

(Il Dubbio, 28 dicembre 2018)


Fondista per caso il tesoro d'Israele è una baby-sitter

L'oro europeo nei diecimila, d'origine keniana, correrà il 31 la We Run Rome "Ma so che le strade sono una sfida ... "

di Enrico Sisti

La prima medaglia europea dell'atletica israeliana (ad agosto scorso nei diecimila femminili di Berlino) prende forma in una zona agricola lontano migliaia di chilometri da Israele, un luogo semplice abitato da migliaia di persone animate da una misteriosa e inesauribile speranza, dove gente piena di figli e di campi da coltivare, di patate da cuocere a pranzo e a cena e di distanze da percorrere per necessità, formano immense comunità: «Vengo da un paese, il Kenya, che conosce una sola verità: quella della vita scandita giorno per giorno, senza alcuna certezza».
Lonah Chemtai non aveva pianificato un bel nulla e neppure aveva così grandi rapporti con lo sport. Non sapeva cosa fosse il talento (il suo). «A casa avevamo altro cui pensare». Pensi ai keniani e li vedi arrampicarsi sulle colline, sugli sterrati, prima a competere con la natura, poi con se stessi, poi contro qualche avversario. Lei no. Era una keniana che correva soltanto per prendere l'autobus. Lonah è nata trent'anni fa sapendo di dover incurvare la schiena, eppure sempre con un sorriso a disposizione degli altri, un sorriso reso ancora più affascinante e unico dal "bait" che usa quando si allena per allentare le rigidità: «La mia vita è diventata un romanzo e non so neppure perché, forse doveva andare così, da qualche parte era scritto, non so, nelle stelle, nelle mani di un creatore ... ». Sarà lei la star della prossima "We Run Rome", giunta alla sua ottava edizione, lei il fiore all'occhiello dell'ormai consueta 10 chilometri (una corsa di San Silvestro modernizzata con allegata la manifestazione non competitiva, partenza e arrivo alle Terme di Caracalla) che si disputerà a Roma il 31 dicembre: «Mai stata a Roma, sono eccitata, so anche che le strade di Roma sono una sfida, si corre su una superficie irregolare, sarà ancora più stimolante. Anche per i piedi! Come li chiamate? Sampietrini, vero?», Ha qualcosa di italiano. Si è allenata al Sestriere. Si fa consigliare da Renato Canova.
   A novembre ha vinto la maratona di Firenze. «E tutto cominciò quando, diciamo così, alzai lo sguardo verso il cielo per capire se l'orizzonte conosciuto si sarebbe potuto allargare». Seguendo la traccia di mille mattoncini di volontà, Lonah accetta di emigrare. Ha appena 20 anni e la curiosità è una benzina formidabile. Così accetta una singolare offerta:
   "Vieni con noi in Israele". A fare cosa? Lì per lì non sa cosa rispondere. "Vieni, dai". L'ambasciatore del Kenya a Tel Aviv è dolcemente insistente: ha bisogno di una babysitter per i figli. Dopo una notte a riflettere Lonah esce, in un attimo è alla sala d'imbarco che aspetta la chiamata del volo, e non aveva mai preso un aereo, mai uscita dal suo paese.
   Nel frattempo mamma piange ma onestamente era impossibile immaginare uno scenario diverso. Babysitter: «Non avevo molto tempo per il resto». Poi lo trova. Comincia a correre.
   E corre forte. È l'ennesima sfida di una donna che ama mettersi in gioco: «Altrimenti non sarei qui. La vita è fiducia».
   Ne1 2011 incontra Dan Salpeter, coach ed estimatore. A volte, innamorarsi con l'atletica fra i piedi è uno dei traguardi più belli, lavorare insieme aumenta la suggestione. Si sposano nel 2014. Qualche mese dopo nasce Roy. Nella maratona olimpica di Rio si ferma al 33o chilometro perché la spalla non si muove quasi più, «e quando si muove fa male, parecchio». Peccato dice lei. Colpa, si fa per dire, di Roy «e del latte nel seno che mi rendeva difficoltoso l'equilibrio negli appoggi».
Non si è preoccupata. È agonisticamente giovanissima, nonostante i suoi 28 anni. A Berlino nei diecimila metri lascia seconda e terza a quasi dieci secondi: «E adesso voglio scendere sotto i 31 minuti». E visitare San Pietro. E magari pure il Colosseo.

(la Repubblica, 28 dicembre 2018)


Raid aereo su Damasco, alta tensione Siria-Israele

L'attacco dei caccia di Gerusalemme. Netanyahu: «l'Iran stia alla larga» l'ira di Mosca: «provocazione».

TEL AVIV - Un attacco condotto nella notte di martedì contro obiettivi militari a breve distanza da Damasco ha riacceso le tensioni fra Israele, da un lato, e Siria, Iran e Libano dall'altro. L'operazione ha inoltre sollevato la reazione di Mosca, secondo cui sei caccia israeliani hanno operato dallo spazio aereo libanese mettendo in pericolo due voli civili in atterraggio in quel momento negli aeroporti di Beirut e di Damasco. «Un attacco provocatorio» ha denunciato il ministero della difesa di Mosca, irrigidendo ancora l'atteggiamento della Russia verso le ripetute incursioni israeliane in Siria. Ad accrescere ulteriormente le tensioni è sopraggiunto il lancio verso Israele, nella notte di martedì, di un mìssile siriano che ha obbligato l'antiaerea israeliana ad entrare in azione.
  Il premier e ministro della Difesa Benyamin Netanyahu ha intanto ribadito che Israele non intende in alcun modo desistere dai propri sforzi di impedire all'Iran di gettare in Siria le basi per futuri attacchi contro lo Stato ebraico. Malgrado la decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dalla Siria, Israele persevererà dunque - secondo il premier - nel proprio impegno volto ad impedire che siano oltrepassate alcune linee rosse. Oltre la costruzione di basi e di impianti militari iraniani in Siria esse riguardano anche il trasferimento di armi e di tecnologie militari sofisticate agli Hezbollah, e la dislocazione lungo le linee del Golan di forze alleate dell'Iran.

 Gli obiettivi
  Sugli obiettivi colpiti ieri presso Damasco sono giunte notizie contrastanti, mentre Israele ha mantenuto in merito un riserbo totale. Secondo la versione russa, l'antiaerea siriana ha intercettato 14 dei l6 missili israeliani, lasciando così intendere che quell'attacco non ha avuto il successo sperato. La televisione statale israeliana ha invece affermato che «sono stati completamente distrutti tre obiettivi iraniani». Pare comunque confermato che durante il raid due voli civili (della Cham Wings e dalla Iraqi Airways) si siano trovati in difficoltà: il primo ha rinunciato ad atterrare a Damasco ed ha proseguito a Nord per Latakya. Israele ha dato alla Russia un breve preavviso dell'attacco. Ma a quanto pare questo canale di comunicazione non ha funzionato a dovere e ancora una volta il malumore di Mosca non ha tardato a manifestarsi con la massima chiarezza.

(Il Messaggero, 27 dicembre 2018)


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Israele fa da sé

Trump o non Trump, Netanyahu combatte l'Iran in Siria e in Libano aerei israeliani hanno bombardato un'area a nordest di Damasco, capitale della Siria, martedì notte colpendo un deposito di armi. Il governo israeliano non conferma, ma fa sapere che il suo sistema di difesa si è attivato "in risposta a un missile antiaereo lanciato dal territorio siriano". Il governo di Bashar el Assad dice di aver intercettato molti missili, mentre il ministero della Difesa russo parla di "un atto provocatorio", che ha messo in pericolo due aerei civili, uno che stava atterrando a Beirut (gli aerei israeliani hanno attraverso lo spazio aereo libanese) e uno che stava atterrando a Damasco. Secondo una ricostruzione pubblicata dal magazine Newsweek, che cita fonti anonime del Pentagono americano, alcuni leader di Hezbollah stavano salendo su un aereo diretto in Iran e sono rimasti feriti nell'attacco, ma altre fonti dicono che l'obiettivo fosse niente meno che il generale iraniano Qassem Suleimani. La settimana scorsa, dopo l'annuncio di Donald Trump del ritiro delle truppe americane dalla Siria, il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva fatto sapere che le operazioni di difesa dello stato ebraico sarebbero continuate, per evitare un rafforzamento delle forze iraniane. L'esercito di Israele è impegnato anche in un'operazione militare - "Operation Northern Shield" - al confine con il Libano, dove opera la missione Unifil a guida italiana, per distruggere i tunnel costruiti in questi anni da Hezbollah.
   La decisione di Trump in Siria ha indebolito gli alleati della regione - molti esperti parlano di pugnalata alle spalle, come i curdi - e ha rinvigorito le speranze di tenuta del regime di Assad e dei suoi alleati, trasformando la Russia nell'unico arbitro della regione, schierato dalla parte di Damasco. E infatti ieri Mosca ha detto che i territori lasciati liberi dagli americani devono tornare ai "legittimi proprietari": il regime siriano. Israele, che pure negli ultimi due anni ha rafforzato i legami con l'America di Trump, ha accolto con estrema freddezza l'annuncio del presidente americano: continuerà a combattere i suoi nemici, in particolare l'Iran, con le proprie forze, in territorio siriano e lungo i propri confini.

(Il Foglio, 27 dicembre 2018)


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Siria, Israele colpisce Damasco. E provoca l'ira della Russia

L'attacco di questa notte in Siria sembra abbia avuto come obiettivo i comandi di Hezbollah a Damasco. Ma la Russia tuona contro il rischio corso da due aerei di Mosca in volo verso la capitale siriana e Beirut.

di Renato Zuccheri

Israele torna a colpire in Siria. E questa volta, nel raid a sud di Damasco, l'obiettivo potrebbe essere stato Hezbollah.
   Secondo una fonte del Pentagono citata dalla testata americana Newsweek, il bombardamento israeliano vicino la capitale siriana avrebbe colpito molti alti ufficiali di Hezbollah. Secondo la fonte della Difesa degli Stati Uniti, l'informazione sul raid di Israele proviene da un alto ufficiale militare dello Stato ebraico che ha collegamenti diretti con quanto avvenuto nei cieli siriani la scorsa notte.
   L'Osservatorio siriano per i diritti umani, il controverso gruppo di monitoraggio con base in Gran Bretagna, a Coventry, ha riferito che l'attacco dell'aviazione israeliana ha avuto per bersagli tre postazioni a sud di Damasco. Secondo le prime ricostruzione, almeno tre militari siriani sono stati uccisi nel bombardamento. L'agenzia ufficiale siriana Sana ha riferito che la difesa antiaerea di Damasco si è attivata e che "un certo numero di obiettivi nemici è stato abbattuto". Anche per l'Osservatorio, come riporta France Press, "si tratta di bombardamenti israeliani".
   E intanto, dalla Russia arrivano i primi segnali di tensione per quanto avvenuto a Damasco. Il ministero della Difesa russa, in una nota diffusa dal portavoce Igor Konashenkov, ha detto che i raid israeliani hanno messo in serio pericolo due aerei commerciali russi: uno mentre atterrava nella capitale siriana, l'altro in fase di arrivo a Beirut. "Gli atti provocatori compiuti dalle forze aeree israeliane hanno messo a rischio due voli civili, poiché i raid degli F-16 sono stati compiuti da territorio libanese", ha riferito Konashenkov. Secondo il ministero russo, le autorità di Damasco, non avendo adeguati sistemi antiaerei e per le interferenze radio, avrebbero deciso di deviare il traffico aereo sopra Damasco, facendo atterrare uno dei voli commerciali a Khmeimim, base russa nel nord-ovest della Siria.
   Nel comunicato del ministero degli Esteri, la Russia si è definita "molto preoccupata" per i raid aerei compiuti da Israele, che rappresentano "una grave violazione della sovranità della Siria e delle disposizioni delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu, inclusa la risoluzione 1701".

(il Giornale, 26 dicembre 2018)


Il ritiro Usa dalla Siria complica tutto (anche per Israele)

di Davide Frattlnl

La campagna elettorale di Benjamin Netanyahu è cominciata tra i fedelissimi. Nei corridoi della Knesset ha illustrato ai deputati del Likud quali suoi pregi (ri)vendere agli israeliani da qui al voto del 9 aprile. Il primo ministro ha spiegato di voler conquistare il quinto mandato anche vantando l'amicizia con Donald Trump. Il rapporto confidenziale è di sicuro ricambiato, ma il presidente americano è un partner volubile, propenso a prendere decisioni geostrategiche nel giro di una telefonata. E andata così con l'ordine di ritirare le truppe dai deserti della Siria, retromarcia affrettata che ha portato alle dimissioni dell'ex generale Mattis e a un calo nella fiducia da parte degli israeliani verso l'amico americano di Netanyahu. Che adesso deve gestire isolato la situazione dall'altra parte del confine. Una della basi militari dove sono dispiegate le forze speciali statunitensi è quella di Tanfnel sud della Siria: è la presenza degli americani che ha impedito ai Pasdaran di creare un corridoio tra l'Iran, l'Iraq, la Siria e il Libano. Senza quell'avamposto gli israeliani si sentiranno costretti a intervenire ancora di più per impedire il trasferimento di armamenti iraniani all'Hezbollah libanese attraverso la Siria. Com'è successo con il bombardamento nella notte tra martedì e mercoledì alla periferia di Damasco. L'abdicazione di Trump, a mantenere gli anfibi sul terreno e un molo nella partita mediorientale, lascia Vladimir Putin come Zar unico della contesa. Il paradosso è che la presenza americana a Tanf serviva anche a lui per premere sui generali iraniani. Adesso il leader russo dovrà trovare altri mezzi per convincere gli ayatollah a ridurre le operazioni e per moderare le sortite aree israeliane. Potrà farlo da solo decidendo le carote da offrire e soprattutto i bastoni da brandire.

(Corriere della Sera, 27 dicembre 2018)


La sfida di Putin: testata nuova arma non intercettabile dalla Nato

di Marco Paganelli

Il suo nome è Avangard. Mosca ha provato ieri un nuovo sistema militare talmente potente che la Nato, secondo gli esperti, non avrebbe i mezzi necessari per intercettarlo.
"Il test è stato un successo completo, siamo i primi ad avere questo tipo di arma strategica", ha dichiarato soddisfatto Vladimir Putin, che ha presenziato all'iniziativa dalla sala di controllo del ministero della Difesa, spiegando che il dispositivo sarà consegnato all'esercito nel 2019. La tipologia non ha precedenti, in quanto i missili in questione detengono alcune peculiarità come la possibilità di trasportare molteplici testate nucleari indipendenti montate su "veicoli di rientro manovrabili". Un altro aspetto caratteristico riguarda la possibilità di tali vettori di poter volare a velocità ipersoniche, cioè fino a 20 volte oltre la velocità del suono, disponendo di una gittata accertata di un massimo di 5800 chilometri orari. I russi sostengono che quest'ultima possa raggiungere però gli 11.000, trasformando così la classificazione dell'arma da "a raggio intermedio" a "intercontinentale". Tutto ciò è avvenuto proprio mentre i vertici della Marina sono fortemente preoccupati. L'ammiraglio Vladimir Korolev ha reso noto infatti, durante un'intervista al quotidiano "Krasnaya Zveda" citata dall'agenzia di stampa Tass, che gli Stati Uniti hanno aumentato i propri dispositivi bellici nei pressi delle acque territoriali del Cremlino. Le frasi pronunciate dall'ambasciatore di quest'ultimo alle Nazioni Unite, Vassily Nebenzia, non aiutano a diminuire la tensione. Il diplomatico ha fatto sapere, conversando il 24 dicembre con alcuni giornalisti, che i rapporti tra il suo paese e quello d'oltreoceano sono "praticamente inesistenti" e ciò rappresenta "una cattiva notizia non solo per entrambi, ma per il mondo intero".

(Agenzia Stampa Italia, 27 dicembre 2018)


«Salah vuole lasciare il Liverpool: non accetta compagni israeliani»

Secondo il "Jerusalem Post", il campione egiziano avrebbe chiesto di essere ceduto se sarà ingaggiato l'attaccante ebreo Dabour.

Precedenti
Quando giocava al Basilea rifiutò di stringere la mano agli avversari del Tel Aviv
Musulmano osservante
Ogni volta che segna ringrazia Allah e la sua bimba si chiama Mecca

di Roberto Fabbri

Reazioni molto negative in Israele alla notizia, diffusa dal Jerusalem Post e ripresa dalla stampa internazionale, dell'intenzione della stella egiziana del Liverpool Mohamed Salah di chiedere di essere ceduto qualora il club inglese ingaggiasse l'attaccante israeliano del Red Bull Salisburgo Munas Dabbur.
   La presunta affermazione di Salah - che tra il 2015 e il 2017 ha giocato con ottimi risultati tre campionati di serie A in Italia, uno nella Fiorentina e due nella Roma - non è stata fatta pubblicamente, e lo stesso giornale israeliano che ne parla precisa che l'entourage del calciatore egiziano smentisce: Mohamed Salah è un professionista, viene chiarito, e ha bisogno di essere lasciato tranquillo e concentrato sull'unica cosa che gli interessa, cioè giocare al calcio. Quali altri giocatori il Liverpool decida eventualmente di ingaggiare non è cosa che lo riguardi, aggiungono queste persone a lui vicine.
   È probabile che le cose stiano effettivamente così, e tuttavia alcuni episodi del passato di Mohamed Salah portano a ritenere che la malevola indiscrezione che lo riguarda potrebbe rivelarsi fondata. Nel luglio 2013, quando giocava nella squadra svizzera del Basilea, in una partita di qualificazione alla Champions League l'attaccante egiziano evitò di stringere le mani dei suoi avversari del team israeliano del Maccabi Tel Aviv, preferendo attardarsi ostentatamente a bordo campo per rimediare alla «dimenticanza» di allacciarsi gli scarpini. Nella partita di ritorno, Salah fece richiesta di essere lasciato a casa, ma il club svizzero non sentì ragioni e lo aggregò per la trasferta in Israele. Salah fu schierato in campo dal primo minuto, ma quando arrivò il momento delle strette di mano con gli avversari preferì limitarsi a rapidi colpetti con il pugno, suscitando inevitabili commenti critici. Salah, si disse, non vuole «sporcarsi le mani» con gli ebrei.
   Anche in quella occasione fu la stampa israeliana (il Times of Israel in particolare) ad attribuire al campione egiziano frasi compromettenti: «Andrò in Israele. Il calcio è più importante della politica ed è il mio lavoro. Nella mia mente giocherò in Palestina e non in Israele, segnerò e vincerò. La bandiera sionista non sarà più esposta in Champions League». Frasi mai più trovate presso alcun' altra fonte, ma è un fatto che quando successivamente un giornalista tentò di chiedergli se quelle parole le avesse effettivamente pronunciate, la conferenza stampa cui Salah stava partecipando fu bruscamente interrotta.
   È un altro fatto noto che Mohamed Salah detto «Momo», che in Egitto è un idolo popolare di prima grandezza con tanto di murales che lo ritraggono al Cairo e in altre città del Paese, è un musulmano molto osservante. Quando segna un gol (gli capitò anche quel giorno di cinque anni fa in Israele) ringrazia Allah con un gesto di devozione, inginocchiandosi e alzando al cielo le mani e lo sguardo, infischiandosi della norma Fifa che vieta l' espressione in campo di convinzioni politiche o religiose: in tutto il mondo islamico è ben conosciuto per questa abitudine. Salah ha anche una bambina di quattro anni che ha chiamato Makka, e non per caso: è la parola araba che indica La Mecca, città santa dei musulmani.
   Dopodiché, nulla di tutto questo è un reato. Soltanto se fosse vero che Salah ha chiesto la cessione pur di non avere un compagno di squadra israeliano sarebbe, più che una colpa, una tristezza.

(il Giornale, 27 dicembre 2018)


Le elezioni che si terranno in Israele e quelle che non ci saranno nell'Autorità Palestinese

di Ugo Volli

I leader della maggioranza di governo in Israele hanno preso atto della difficoltà di governare con un solo voto di vantaggio e hanno scelto le elezioni, che si terranno in aprile, qualche mese prima della scadenza naturale della legislatura. In realtà è stato Bibi Netanyahu, che finora aveva resistito alla richiesta di nuove elezioni, a fare la scelta. Abbandonato dall'ondivago Liberman, braccato da accuse politiche (tutti parlano di corruzione, ma di fatto la fattispecie imputata consisterebbe in un tentativo di scambio e uno fallito fra politiche favorevoli a editori e l'appoggio dei loro giornali alla linea politica del governo), preoccupato per gli annunci di un piano di pace di Trump che potrebbe non essere soddisfacente per Israele ma che gli sarebbe difficile respingere dopo la collaborazione recente, forse rassicurato da sondaggi positivi, Bibi ha deciso di tornare alle fonti della legittimità democratica di ogni governo parlamentare, cioè alle urne, fiducioso, come ha detto, che la sua coalizione riceverà un nuovo mandato.
  Chi critica la democrazia israeliana dovrebbe prendere atto di questa scelta e confrontarla, per esempio con quanto accade nell'Autorità Palestinese. Il suo presidente, Mahmoud Abbas, che si fa chiamare col "nome di battaglia" (il che è già tutto un programma) di Abu Mazen, fu eletto presidente dell'Autorità Palestinese il 15 gennaio 2005, per un mandato di quattro anni, che è scaduto ovviamente il 14 gennaio del 2009. Mancano cioè pochissimi giorni al decimo anniversario di un'usurpazione del potere che non ha uguali nella storia delle dittature: Hitler e Stalin, Mao e Castro, Mussolini e Franco hanno sempre avuto cura di mantenere l'ipocrisia di un'aderenza alle regole del loro regime. L'allergia alle elezioni nel sistema politico palestinista non si limita ad Abbas; il "Consiglio nazionale Palestinese", che dovrebbe svolgere le funzioni del parlamento, è stato eletto una volta sola, il 25 gennaio del 2006. Andava rinnovato nel 2010, ma non si è più riunito dopo la guerra civile fra Hamas e Fatah nel 2006-2007. Abbas ha dichiarato negli ultimi giorni di volerlo sciogliere, sulla base di una sentenza di una corte che gli impone di tenere nuove elezioni.
  Ma non è affatto detto che lo faccia, anche perché i sondaggi danno Hamas in vantaggio su Fatah e il candidato del primo movimento, Ismail Haniyeh, ben davanti a lui in eventuali elezioni presidenziali. E del vecchio organizzatore dell'attentato di Monaco e di tanto altro terrorismo, tirapiedi di Arafat, negazionista della Shoah, a suo tempo spia dei servizi segreti sovietici, tutto si può dire salvo che manchi di furbizia personale e di istinto di sopravvivenza. Dunque non consegnerà il suo ruolo e anche la sua vita a un nemico come Hamas, che ha dimostrato di non avere né pietà né scrupoli ad ammazzare avversari politici, anche se dicono di far parte dello stesso popolo.
  Del resto neppure a Israele conviene lasciare i territori dell'Autorità Palestinese in mano ai terroristi aperti di Hamas. Senza la vigilanza costante dei servizi e dell'esercito, da tempo il movimento islamico avrebbe preso il potere con la forza, come fece a Gaza nel 2007. Abbas lo sa benissimo e per questo, nonostante i ripetuti proclami, non si sogna di interrompere la collaborazione di sicurezza con Israele contro Hamas: è la sua assicurazione sulla vita. E quando arringa i suoi fedeli sulla congiura cosmica contro di lui capitanata da Trump, Israele e Hamas, non fa altro che un vecchio esercizio retorico di scaricabarile per il suo fallimento e l'irrilevanza politica del palestinismo. Magari ci crede anche un po', ma solo perché il vittimismo sempre presente nella sua politica si mescola all'incontinenza verbale senile.
  D'altro canto Israele non ha neppure interesse a consegnargli Gaza, magari pagandone la conquista con un alto prezzo di vite umane. Chi dice che l'esercito israeliano dovrebbe sconfiggere Hamas e consegnare la striscia all'autorità palestinese (un'idea avanzata solo per propaganda dall'estrema sinistra israeliana, che è stata fatta propria, chissà perché, da certi strateghi da caffè nella diaspora), non capisce nulla della situazione di Israele, che ha evidente interesse a non permettere attacchi coordinati da Est e da Sudovest.
  Dunque in Israele si faranno le elezioni, da cui sperabilmente uscirà confermato il miglior leader che il popolo ebraico abbia avuto dopo Ben Gurion, mentre i palestinisti continueranno a essere governati da due cleptocrazie: quella "laica" ma non tanto di Ramallah e quella islamista di Gaza, entrambe sanguinose, crudeli coi propri cittadini, terroriste e antisemite, del tutto incapaci di provvedere al benessere dei propri sudditi, anche perché questo è l'ultimo dei loro interessi. Bisognerebbe che prima di tutto chi ha simpatia per i "poveri palestinesi" si chiedesse il perché di questo abisso economico, politico e civile in cui langue quella popolazione. Ma non mi risulta che nessun "progressista" filopalestinese abbia mai fatto davvero una riflessione in merito, al di là delle solite tiritere "anticolonialiste". Neanche questo però meraviglia, perché ai "filopalestinesi" di quel che capita ai palestinesi non importa nulla, come si vede dall'indifferenza con cui sono state accolte le notizie sulle stragi nei campi profughi in Siria. Quel che gli interessa è combattere gli ebrei e il loro stato. Ma questa è un'altra storia.

(Progetto Dreyfus, 26 dicembre 2018)


Netanyahu vincerà ancora le elezioni in Israele?

Il prossimo 9 aprile Israele torna alle urne per le elezioni anticipate. Sarà ancora una volta Benjamin Netanyahu a vincerle?

 La crisi di governo
  Da alcune settimane il governo di Benjamin Netanyahu era in grossa crisi. A metà novembre aveva lasciato la maggioranza Avigdor Lieberman, ministro della Difesa e leader del partito della destra laica nazionalista Yisrael Beiteinu. Senza il suo partito, la coalizione di governo era tornata a reggersi su appena un voto di vantaggio: 61 seggi contro i 59 dell'opposizione. Esattamente com'era avvenuto all'indomani delle precedenti elezioni del 17 marzo 2015: Netanyahu ottenne la fiducia soltanto da 61 deputati della Knesset, mentre Yisrael Beiteinu entrò a far parte della maggioranza soltanto in un secondo momento.
  Dopo settimane in cui si rincorrevano voci sulla data delle elezioni anticipate, è arrivata la decisione finale sul 9 aprile 2019. Ad accelerare il ricorso al voto è stata la spaccatura interna al governo sulla legge che, come richiesto dalla Corte Suprema, dovrebbe costringere gli ultra-ortodossi a prestare servizio militare. Ma a sostenere il già fragile governo ci sono proprio due partiti ultra-ortodossi, che si oppongono a questa legge.

 Una personalità ingombrante
  Netanyahu è premier israeliano ininterrottamente dal marzo 2009. Negli ultimi tre anni e mezzo ha ricoperto, contemporaneamente, anche la carica di ministro degli Esteri. Ha 69 anni e soprattutto non ha alcuna intenzione di lasciare il governo. È tuttavia anche coinvolto in tre scandali di corruzione e frode che potrebbero portare, nei prossimi mesi, a un'incriminazione ufficiale nei suoi confronti da parte della magistratura.
  Per tutti questi motivi, Netanyahu non gode personalmente di un consenso maggioritario in Israele. Un sondaggio di Channel 2 ha rilevato che soltanto il 36% degli israeliani vorrebbe che Netanyahu restasse primo ministro, contro il 52% di chi chiede un rinnovamento. Ma l'eccezionale frammentazione del panorama politico israeliano rende il Likud, il partito di Netanyahu, l'unico in grado di guidare una coalizione di destra. Almeno fino a questo momento.

 I sondaggi
  Secondo gli ultimi sondaggi, il Likud potrebbe confermare o aumentare di poco i 30 seggi ottenuti nel 2015. E dovrà perciò fare nuovamente affidamento sul consenso verso gli altri partiti di destra. Su tutti, Casa Ebraica di Naftali Bennett, che dovrebbe conquistare più seggi rispetto al 2015. E poi i due partiti ultra-ortodossi Shas e UTJ. Mentre è in netto calo il partito Kulanu del ministro delle Finanze Moshe Kahlon.
  Ma la vera mina vagante delle prossime elezioni israeliane sarà rappresentata dai nuovi partiti, che causeranno inevitabilmente un'ulteriore frammentazione.
  Nel centro-destra è in corsa Gesher, il nuovo partito di Orly-Levy Abekassis, un'ex deputata di Yisrael Beiteinu e figlia di David Levy, ministro degli Esteri negli anni Novanta. Ma ad agitare le acque è soprattutto l'ingresso in politica di Benny Gantz, capo di stato maggiore dell'esercito israeliano. Gantz gode di un consenso personale abbastanza elevato e potrebbe perciò avere un ruolo decisivo per confermare la premiership di Netanyahu o, al contrario, per decretarne la fine. Intende entrare in politica anche Moshe Ya'alon, ex ministro della Difesa fino al 2016 e anch'egli ex militare di rango.
  Tutti questi nuovi partiti politici, insieme a quelli dell'opposizione (il centrista Yesh Atid, l'Unione Sionista in cui è confluito il Partito laburista, la lista unitaria degli arabi israeliani e la sinistra di Meretz), cercheranno di porre fine alla lunga èra di governo di Netanyahu. Ma sarà difficile coagulare una coalizione unitaria e coesa che possa fare a meno del Likud, che resterà, a meno di grandi sorprese, il primo partito del paese.
  Anche dentro al Likud, peraltro, si appresta a entrare nel vivo la lotta per la successione di Netanyahu. Il 5 febbraio il partito terrà le sue primarie per decidere la lista dei candidati alla Knesset (in Israele si vota con liste bloccate). E c'è un motivo, in particolare, per cui queste primarie saranno politicamente rilevanti. Colui che sarà piazzato al numero 2 della lista, dietro Netanyahu, sarà infatti anche colui che, in caso di incriminazione o di condanna del premier, potrebbe prendere il suo posto alla guida del governo. Iniziando finalmente una nuova èra.

(Votofinish, 26 dicembre 2018)


Attacco israeliano in Siria. Colpiti alti ufficiali di Hezbollah

Attacco israeliano in Siria nella notte. Colpiti depositi di missili iraniani. Ma il vero obiettivo sarebbero stati alti ufficiali di Hezbollah che stavano per volare a Teheran. Missile lanciato verso Israele intercettato dalle difese di Gerusalemme

Notte di guerra sui cieli della Siria. Secondo diverse fonti siriane aerei israeliani avrebbero colpito almeno tre obiettivi iraniani e di Hezbollah nei pressi della capitale siriana, Damasco.
I caccia, probabilmente israeliani, avrebbero colpito alcuni depositi di missili e componenti per missili iraniani. Testimoni riferiscono di forti esplosioni a sud-ovest di Damasco....

(Rights Reporters, 26 dicembre 2018)


Israele intercetta missile dalla Siria. Damasco allerta contraerea

Non si segnalano né vittime né danni

Serata di tensione in Medio Oriente. I sistemi di difesa aerea di Israele sono stati attivati stasera per intercettare un missile di antiaerea lanciato dalla Siria. L'annuncio è arrivato mentre dalla Siria giungono informazioni di un attacco di fonte finora imprecisata contro obiettivi nella zona di Damasco. Il portavoce militare israeliano ha aggiunto che in Israele, in seguito a questo episodio, non si segnalano vittime né danni.
Secondo fonti locali, gli abitanti della città di Hadera (50 chilometri a nord di Tel Aviv) hanno udito in serata un forte boato e hanno visto un bagliore in cielo. A quanto pare si è trattato del lancio del missile dell'antiaerea israeliana. Gli abitanti della zona hanno precisato di non aver udito sirene di allarme, cosa che fa pensare che secondo le autorità non fossero esposti a pericolo. Nel frattempo a Hadera è tornata la calma.
Poco prima di questo episodio la difesa antiaerea dell'esercito siriano era entrata in azione contro "obiettivi nemici" nei pressi di Damasco. Lo avevano riferito l'agenzia ufficiale Sana e la televisione di stato, ma nessuno dei due media ha specificato la natura di questi "obiettivi nemici". In passato Israele ha bombardato diverse volte installazioni militari del regime o dei suoi alleati come l'Iran e il movimento libanese sciita Hezbollah.

(la Repubblica, 25 dicembre 2018)


Iran vs Israele. Intervista al Generale Mario Mori

di Rocco Bellantone

 
Il generale Mario Mori
E' ai piedi delle Alture del Golan che si deciderà la sfida più importante in corso in Siria, vale a dire quella tra Israele e Iran. Ne è convinto il Generale Mario Mori, ex capo del Sisde e fondatore del ROS dei Carabinieri.

- Generale, in che fase sta entrando il conflitto siriano?
  In questo momento la situazione in Siria è di stallo. Le varie componenti che agiscono sul territorio, da varie posizioni e secondo diversi obiettivi, sono praticamente ferme. In questo momento i due protagonisti veri sono da una parte l'Iran e dall'altra Israele. Se ci può essere un ulteriore sviluppo drammatico di questo conflitto, è a questo scontro che si deve guardare. Israele non può tollerare che lungo i suoi confini, soprattutto nella zona del Golan, si siano installate truppe regolari iraniane e milizie libanesi di Hezbollah. Gli israeliani sono decisi a bloccare ogni possibile minaccia sul nascere, motivo per cui proseguiranno con le attività di monitoraggio e con attacchi improvvisi contro postazioni e depositi di armi in mano al nemico. Momenti di tensione ci sono già stati. Sullo sfondo restano poi, ovviamente, altri interessi ancora in gioco.

- In chiave anti-iraniana, il patto stretto un anno fa a Riad tra Trump e Mohamed Bin Salman si sta rivelando funzionale per gli obiettivi israeliani?
  Il patto di Riad è stata un'iniziativa voluta più che altro da Mohamed Bin Salman, il quale aveva bisogno di un sostegno internazionale forte come gli Stati Uniti di Trump nella guerra d'attrito che ormai da lungo tempo l'Arabia Saudita sta conducendo contro l'Iran. Nonostante ciò, penso che in questo momento sia in vantaggio la componente sciita, con Iran e Hezbollah che quantomeno dal punto di vista tattico, se non propriamente strategico, possono godere dell'appoggio di turchi e russi. L'asse sciita si sta rivelando più forte sul terreno e, quindi, in grado di imporre con più facilità una propria "soluzione" al conflitto.

- Continua a non arrivare alcun segnale dall'Europa. Perché?
  Rimaniamo spettatori interessati di questo conflitto, ma non in grado di esprimere una nostra posizione. Vale per questa così come per altre crisi che interessano l'Europa o determinati Paesi europei. Il motivo è semplice: siamo tutto sommato un gigante economico ma con piedi d'argilla perché non siamo anche un gigante militare.

- In riferimento al conflitto siro-iracheno, si è parlato molto negli ultimi anni del tramonto degli accordi di Sykes-Picot. Presto potremmo realmente assistere a una spartizione della Siria?
  La situazione attuale in Siria, e tutti i riflessi che ne sono derivati sugli scenari internazionali, sono i frutti di quegli accordi. Certamente sono accordi ormai abbondantemente superati. Il problema adesso è trovare una soluzione di compromesso che però inevitabilmente non potrà essere vista di buon occhio da tutte le parti in causa Sarà difficile nel breve-medio periodo trovare soluzioni che portino a una pacificazione delle zone in cui si sta continuando a combattere, nonché a una reale sistemazione del Paese anche dal punto di vista amministrativo.

- Cosa rimarrà dello Stato Islamico in Siria e Iraq?
  Forse ISIS riuscirà a risorgere con modalità e tecniche di approccio nuove. Non più in Siria ma in altre zone del mondo come il Sahel e il Sahara, ma anche nel Sinai che è un'area fondamentale per lo Stato Islamico essendo baricentrica rispetto ai suoi grandi nemici, ossia Egitto, Arabia Saudita, Iran e Israele ISIS può nutrire speranze di rinascita anche in Asia Centrale nel cosiddetto Khorasan, In prospettiva per il Califfato questa regione potrebbe rappresentare una base per la conquista e la gestione di nuovi territori, anche per via di un possibile congiungimento con i gruppi jihadisti operativi nel Caucaso.

(Oltrefrontiera, 25 dicembre 2018)



Il valore dell'Operazione Scudo

Migliaia di terroristi emergono all'alba da decine di tunnel lungo i confini d'Israele, attaccano le comunità vicine, massacrano uomini donne e bambini, prendono in ostaggio centinaia di persone, innalzano bandiere di Hezbollah sulle comunità occupate e proclamano la "liberazione della Galilea". Contemporaneamente, tutto Israele viene bersagliato da una sventagliata di migliaia di missili e razzi lanciati dal Libano e dalla striscia di Gaza.

Certamente le Forze di Difesa israeliane saprebbero venire a capo anche di questo scenario terrificante, e respingerebbero il nemico fuori dal territorio israeliano infliggendogli durissimi colpi. Ma la vittoria costerebbe a Israele e alle sue forze armate un prezzo di sangue insopportabile. In uno scenario da incubo, Israele sarebbe costretto a battersi contro la peggiore minaccia mai affrontata dopo la guerra d'indipendenza del 1948.
In effetti, il piano operativo di Hezbollah disegnava uno scenario concretamente realizzabile, fino a quando le Forze di Difesa israeliane non hanno lanciato, ai primi di dicembre, l'operazione Scudo Settentrionale volta a sventare i propositi del gruppo terrorista sciita filo-iraniano....

(Italia Israele Today, 25 dicembre 2018)


Sondaggio in Israele, Likud in vantaggio

Netanyahu annuncia le elezioni anticipate
All'indomani dell'annuncio che ad aprile Israele andrà ad elezioni anticipate, Benyamin Netanyahu ha avuto conferma oggi da un sondaggio di opinione che il suo partito Likud è lanciato verso una nuova vittoria e che probabilmente lui stesso presiederà il suo quinto governo. Secondo il sondaggio di Maariv, il Likud disporrà di 30 dei 120 seggi alla Knesset, con largo vantaggio su tutti gli altri partiti. Restano tuttavia alcuni elementi di incertezza. Il primo riguarda i futuri orientamenti di un esordiente nella scena politica, l'ex capo di Stato maggiore Benny Gantz, che secondo Maariv irromperebbe alla Knesset con 13 deputati. Il secondo è legato alle indagini condotte su Netanyahu. Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid, ha fatto oggi appello al consigliere legale del governo Avichai Mandelblit (che è anche capo della magistratura) affinché pubblichi prima del voto le proprie conclusioni su quelle indagini.

(ANSA, 25 dicembre 2018)


In un modo o nell'altro Israele deve sparire

Nella carenza di particolari notizie su Israele in questi giorni, ripresentiamo la prefazione di Marcello Cicchese all'ultimo libro di Rinaldo Diprose "Israele sotto la Chiesa - Storia della teologia della sostituzione".

Da quando è diventato abbastanza comune sentir parlare di "teologia della sostituzione", non si trova quasi più nessuno che la difenda. Sembra che una sorta di vergogna spinga tutti quelli che si sentono coinvolti a presentare una convincente spiegazione per negare che la teologia seguita parli di reale sostituzione di Israele. Poi si scopre che invece è proprio così. E' come con l'antisemitismo: molti sono davvero convinti di non essere antisemiti soltanto perché hanno in mente un certo tipo di antisemitismo in cui non si riconoscono, ma ne hanno uno di tipo diverso, che però in sostanza è la stessa cosa.
   Quanto alla teologia della sostituzione, ci sono almeno due forme in cui si può presentare:
  1. come espressione della sovranità di Dio;
  2. come espressione della grazia di Dio.
   Schematizzando un po' le cose, si può dire che la prima forma è cattolica, la seconda evangelica.
   Il cattolicesimo medievale, che in altre forme arriva fino ai nostri giorni, esprime in modo chiaro la pretesa della Chiesa Cattolica di rappresentare la signoria di Dio su un mondo in cui è già presente e operante il Regno messianico promesso un tempo a Israele ma ora - secondo questa teologia - affidato alla Chiesa intesa come struttura ecclesiastica presente e riconoscibile nel mondo. Ne sono testimonianza le numerose immagini, dipinte o scolpite, rappresentanti una Chiesa trionfante a cui è obbligata a sottomettersi una Sinagoga umiliata. Secondo la dottrina cattolica, il Regno di Dio su popoli e nazioni è già presente oggi sulla terra, e lo strumento visibile della sua sovranità non è Israele, ma Chiesa Cattolica Romana.
   La Riforma protestante ha intaccato seriamente questa pretesa di autorità politica della Chiesa sul mondo secolare, fino al punto da far dire a Lutero che quella del Papa non è autorità di Cristo, ma dell'Anticristo.
   I movimenti spirituali che sono venuti dopo la Riforma hanno definitivamente rinunciato, dopo alcuni aggiustamenti, all'idea di rappresentare sulla terra una forma di autorità politica divina sul mondo e si sono dedicati a svolgere in vari modi il compito biblico affidato ai credenti in Cristo: far arrivare agli uomini il messaggio di grazia del perdono dei peccati e aiutarli a diventare fedeli discepoli di Gesù.
   Questa lodevole concentrazione sul messaggio di grazia annunciato ai peccatori ha però fatto perdere di vista il fatto che il piano di salvezza di Dio prevede una successione di avvenimenti politici nella storia in cui l'Israele etnico continua ad avere un ruolo centrale. Sottolineare che la legge mosaica non è oggi (ma in realtà non è mai stata) una via per arrivare alla salvezza personale ha portato a far perdere interesse per l'Israele etnico. E se nella forma cattolica l'Israele storico è stato sostituito dalla Chiesa, nella forma evangelica è stato spiritualizzato e attualizzato nella Chiesa. Si parla quindi volentieri di un Israele spirituale (espressione che nella Bibbia non compare mai), costituito dal popolo dei credenti in Gesù, da contrapporre ad un Israele materiale, costituito dal popolo ebraico, oggi presente anche in un suo proprio Stato nazionale.
   Per essere precisi, il nome di teologia della sostituzione si adatterebbe bene soltanto alla forma cattolica, perché per la forma evangelica sarebbe più adatto parlare di teologia dell'evaporazione. In questa visione infatti non si ha quella metamorfosi strutturale che trasforma l'Israele etnico nella Chiesa istituzionale politicamente organizzata, ma avviene piuttosto un processo di nebulizzazione che fa uscire l'Israele buono (costituito dai credenti in Gesù) dalla storia politica del mondo e lo fa ricadere nell'insieme dei credenti ebrei e gentili che costituiscono la chiesa. Ciò che non subisce il processo di nebulizzazione rientra nell'ambito della generica umanità e non è oggetto di specifico interesse.
   Entrambe le forme di teologia della sostituzione hanno bisogno poi, per essere sostenute e sviluppate, di un tipo di lettura biblica che ne consenta la giustificazione. Nella forma cattolica il metodo seguito è l'allegorizzazione, in quella evangelica è la spiritualizzazione.
   
Nel primo caso, i racconti dell'Antico Testamento, patrimonio specifico del popolo ebraico, assumono il valore di segni indicanti realtà diverse da quelle letterali. L'Israele etnico ovviamente non interessa più, trattandosi di un passato ormai definitivamente superato, ma dalla sua storia biblica si traggono per via allegorica indicazioni simboliche normative, o comunque utili, per la vita della Chiesa di oggi.
   Nel secondo caso, i racconti dell'Antico Testamento non vengono negati nella loro letterale storicità, ma se ne cerca soprattutto, se non esclusivamente, una possibile applicazione "spirituale" alla vita dei singoli credenti o delle chiese locali. Anche in questo caso, l'Israele etnico nella sua concreta storicità, soprattutto quello del presente, non occupa alcun posto nella riflessione teologica e pastorale. Il rischio reale, davvero grave perché non avvertito, è di trasformare l'Antico Testamento in una raccolta di racconti staccati, utili per l'edificazione personale o comunitaria, ma irrilevanti per quel che riguarda il loro concreto valore storico.
   Entrambi i tipi di lettura della Bibbia sono sbagliati, o quanto meno lacunosi, ed è merito di questo libro averlo indicato con precisi argomenti storici e biblici. Trattandosi di un libro che ha anche il pregio di essere breve e scorrevole, si spera che possa trovare la diffusione che merita tra coloro che sono seriamente interessati a comprendere sempre meglio quello che realmente dice la Bibbia.


Abbiamo titolato questo articolo "In un modo o nell'altro Israele deve sparire" perché quando si tratta di Israele, se pure non se ne invoca esplicitamente la distruzione, i modi per farlo sparire di scena sono innumerevoli. E fra questi, il più diffuso nel mondo evangelico è quello della nebulizzazione. Niente di violento, niente di antisemita, per carità, solo uno “spirituale” parlare di altro ogni volta che si incontra questo termine nella Bibbia. E così Israele sparisce dall’orizzonte, bisogna fare uno sforzo, bisogna interpellare qualche specialista della materia per farlo rientrare, a fatica, in quello che dovrebbe essere il normale parlare di un autentico credente nel Gesù della Bibbia. Come nella politica, anche nella religiosità evangelica per molti “leader” di varia portata se non ci fosse il tema Israele si starebbe tutti meglio: non ci sarebbero certe discussioni, i discorsi scorrerebbero più lisci, gli insegnamenti più normali, più accettabili, privi di quelle “stranezze” che rendono così ostico il rapporto con la Bibbia per quello che è, e non per quello che può servire ai nostri bisogni personali, familiari o comunitari. Israele è la forma in cui si presenta oggi, ma non solo oggi, l’intoppo che fa cadere la cristianità dei gentili proprio nel suo parlare di Gesù. M.C.

(Notizie su Israele, 25 dicembre 2018)


Israele, gli splendidi mosaici di Huqoq

Dall'antica sinagoga continuano a tornare alla luce dettagliatissimi mosaici antichi

 
Giona inghiottito da un pesce nella sinagoga di Huqoq. In alto tre arpie
 Perché se ne parla
  Nel 2012 un team di archeologi ha iniziato degli scavi in Israele, presso la sinagoga di Huqoq, che hanno portato alla luce un vero tesoro. Si tratta di splendidi mosaici risalenti al V secolo d.C., raffiguranti scene bibliche (l'Arca di Noé, la Torre di Babele, il passaggio del Mar Rosso) e soggetti non biblici, tra cui sembrerebbe esserci Alessandro Magno. All'epoca Huqoq era solo un piccolo villaggio rurale, eppure la qualità dei mosaici, arrivati ai giorni nostri eccezionalmente vivaci e dettagliati, suggeriscono una notevole importanza della sua sinagoga. Ogni anno gli studiosi riportano alla luce nuove scene bibliche, e ancora gli scavi non sono terminati.

 Perché andare
  Huqoq si trova in Galilea, a breve distanza dal Lago di Tiberiade, e attualmente indica principalmente il sito archeologico. Oggi non è più un villaggio come allora, ma gli studi hanno rilevato che fu abitato sin dall'età del bronzo. La città oggi più vicina è Tiberiade, sulle sponde dell'omonimo lago, meta vacanziera per molti israeliani che abitano nel nord del paese. Le dimensioni del lago gli hanno conferito il soprannome di 'mare della Galilea', e storicamente tantissimi insediamenti sono sorti sulle sue sponde.

 Da non perdere
  Per i credenti queste zone sono cariche di significato: sul Lago di Tiberiade Gesù scelse alcuni dei suoi apostoli (Pietro era un pescatore) e camminò sulle acque. Inoltre questo grande bacino è attraversato dal fiume Giordano, dove Gesù fu battezzato. Molti pellegrini cristiani di tutto il mondo lo visitano ogni anno. Sono molti anche i tour che hanno per tema l'attività di pesca.

 Perché non andare
  Il sito archeologico di Huqoq è molto interessante, ma ancora in fase di scavo. Il Lago di Tiberiade offre panorami suggestivi, ma per i non credenti non si può definire un luogo dalla bellezza mozzafiato. Ci sono molti altri siti israeliani, naturalistici e storici, ricchi di attrazioni.

 Cosa non comprare
  Molti i souvenir a tema 'pesci' e 'pesca'. Davvero ne avete bisogno?

(Turismo.it, 25 dicembre 2018)


Il piano operativo di Hezbollah per invadere il nord di Israele

di Shimon Shapira

GERUSALEMME - Una delle principali lezioni apprese da Hezbollah dalla Seconda Guerra del Libano nel 2006 è stata la necessità di cambiare gli obiettivi della sua prossima guerra con Israele. I nuovi obiettivi includevano la realizzazione delle sue capacità difensive e lo sviluppo di metodi di attacco che avrebbero permesso a Hezbollah di combattere la guerra all'interno del territorio israeliano. Il comandante militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, che ha guidato questo processo di integrazione di queste lezioni ha dichiarato che durante la prossima guerra, Hezbollah invaderà la regione settentrionale della Galilea israeliana e la conquisterà.
   Per raggiungere questi obiettivi, Mughniyah ha preparato un piano operativo che ha supervisionato fino alla sua morte nel febbraio 2008. Dopo la sua morte, le forze speciali di Hezbollah, conosciute come "Radwan Forces", hanno continuato la loro formazione sotto il comando di Mustafa Badr Al-Din fino alla rivolta scoppiata in Siria nel 2011.
   Il piano operativo prevede l'addestramento delle forze speciali di Hezbollah per prendere il controllo delle comunità israeliane isolate lungo il confine settentrionale. Nella terminologia di Hezbollah, questo viene definito la conquista della Galilea la costruzione di tunnel che si infiltrano nel territorio israeliano, vicino alle comunità israeliane. I tunnel sono destinati al movimento di diverse centinaia di combattenti e non per rapire soldati o civili. Il modello che Mughniyah pensava era quello dei tunnel di invasione dalla Corea del Nord verso la Corea del Sud, che le sue guide iraniane avevano studiato intensamente.
   Il piano di Hezbollah prevede anche la costruzione di strutture per lanciare massicci attacchi missilistici su centri abitati e siti strategici intorno a Haifa nel nord, Tel Aviv nel centro e Dimona nel sud. L'arsenale di missili di Hezbollah è stimato tra 100.000 e 120.000. Dal punto di vista di Hezbollah, gli attacchi aerei attirerebbero l'attenzione dell'intero esercito israeliano, consentendo in tal modo a Hezbollah di attivare il suo piano per "la conquista della Galilea" usando le sue forze speciali.

(Osservatorio Sicilia, 24 dicembre 2018)


Israele, elezioni anticipate al 9 aprile 2019

La decisione presa dai capi della coalizione di governo. La legislatura sarebbe terminata naturalmente a novembre. Netanyahu: "Verremo riconfermati"

di Vincenzo Nigro

Elezioni anticipate in Israele ad aprile del prossimo anno. Lo hanno deciso i capi della coalizione di governo, secondo quanto riferito dai media israeliani. L'annuncio è stato dato anche su Twitter dal portavoce del primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha così commentato alla Knesset: "La coalizione uscente è il nucleo di quella che le verrà dopo. Gli israeliani - ha aggiunto dopo aver elencato i successi del Paese sul piano diplomatico, militare ed economico - faranno cosa giusta se mi confermeranno al governo". Le elezioni - per i media - erano necessarie viste le difficoltà nell'approvazione delle leggi, specie quella sulla riforma di leva degli ebrei ortodossi.
   La crisi di governo è iniziata a novembre, dopo le dimissioni del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, in polemica con la tregua con Hamas. Già allora si parlò di elezioni anticipate, successivamente smentite da Netaniyahu, ma oggi invece confermate.
   Con l'uscita dal governo dei ministri di Ysrael Beiteinu (partito della destra nazionalista), capitanati da Lieberman, Netanyahu si è trovato a ricoprire - oltre alla carica di premier - anche quella di ministro della Difesa e dell'Immigrazione, oltre già a guidare i dicasteri degli Esteri e della Salute. Di recente ha affidato l'Immigrazione a Yariv Levin, già ministro del Turismo.
   La notizia delle elezioni anticipate è stata accolta con soddisfazione da Lieberman: "Abbiamo detto per un mese intero che questo è un governo di sopravvivenza, non è operativo e quindi per il popolo d'Israele, la cosa più importante è un governo nuovo e stabile".

(la Repubblica, 24 dicembre 2018)


L'esercito israeliano respinge uomini armati sulle alture del Golan

Militari israeliani hanno respinto nella notte sulle alture del Golan un gruppo di uomini armati che aveva oltrepassato la 'Linea Alfa', il confine che delimita la zona sotto controllo israeliano, ma non aveva ancora superato i reticolati di sicurezza. Lo ha riferito il portavoce militare. L'identità degli uomini armati non è stata precisata.

(TGCOM24, 24 dicembre 2018)


Israele pronto a rafforzare opposizione all'Iran in Siria dopo ritiro truppe USA

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha assicurato che il passo deciso da Washington non cambierà la "politica coerente" dello Stato ebraico.
Israele è pronto, se necessario, ad intensificare l'opposizione al rafforzamento della presenza iraniana in Siria dopo l'annuncio del ritiro delle forze armate statunitensi da questo Paese. La corrispondente dichiarazione è stata fatta nel tradizionale consiglio dei ministri di domenica dal premier Benjamin Netanyahu.
"La decisione sul ritiro di duemila soldati americani dalla Siria non cambierà la nostra politica coerente: continueremo ad agire contro i tentativi dell'Iran di creare un avamposto militare in Siria e, se necessario, amplieremo anche le nostre operazioni", ha riferito il premier. "La nostra cooperazione con gli Stati Uniti continuerà al massimo in molte direzioni: sull'operatività, sull'intelligence e su altre aree di sicurezza", ha aggiunto il premier.
Le dichiarazioni di Netanyahu sono state diffuse dalla sua segreteria.
Il 19 dicembre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva annunciato la decisione di iniziare il ritiro delle truppe americane dalla Siria. Secondo i funzionari statunitensi, il ritiro del contingente militare di circa duemila soldati richiederà 60-100 giorni.

(Sputnik Italia, 24 dicembre 2018)


Il pericoloso Natale dei cristiani in Iran

Il prezzo da pagare per chi vuole condividere la festa con amici e vicini è chiaro: arresti, brutali interrogatori e la concreta minaccia di una lunga e spietata detenzione arbitraria.

Più di 100 cristiani sono stati arrestati in Iran la scorsa settimana e quasi 150 il mese scorso, nel quadro dell'intento del governo di "mettere in guardia" i cristiani dal fare proselitismo nel periodo di Natale. Questa la notizia apparsa all'inizio di questo mese su World Watch Monitor, un attendibile sito web cristiano....

(israele.net, 24 dicembre 2018)


In Israele è cristiano il 2% degli abitanti

Nel 2017 tasso complessivo di crescita del 2,2 per cento

In occasione del Natale l'Ufficio centrale di statistica israeliano (Cbs) ha pubblicato oggi dati aggiornati sulla comunita' cristiana locale. Alla fine del 2017, ha precisato, il totale e' stato di 172 mila persone, ossia il 2 per cento della popolazione complessiva. Di essi 134 mila sono cristiani arabi, che in maggioranza risiedono nel Nord del Paese. Ad essi si sono aggiunti a partire dagli anni Novanta altri 38 mila cristiani non arabi, in prevalenza - secondo il Cbs - coniugi di ebrei immigrati in Israele in virtu' della Legge del ritorno. Questi ultimi risiedono per lo piu' nella zona di Tel Aviv. Nel 2017 il tasso di crescita della intera comunita' cristiana e' stato complessivamente del 2,2 per cento, rispetto all'1,4 dell'anno precedente. Per la sola comunita' dei cristiani arabi il tasso di crescita e' stato pero' solo dell'uno per cento.

(ANSAmed, 24 dicembre 2018)


Trump ritira le truppe dalla Siria. E' davvero un danno per Israele?

di Ugo Volli

C'è stata molta polemica intorno alla scelta di Donald Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria e in parte dall'Afghanistan, con le conseguenti dimissioni del ministro della difesa Mattis. Tutti gli antitrumpiani e gli "antipopulisti" di ruolo e di complemento hanno intonato un coro di lamenti e deprecazioni. Per citare qualche titolo del "Foglio", che per onestà verso i lettori potrebbe benissimo ormai cambiare il nome in "L'Unità", "Iran e Stato islamico festeggiano" perché "L'America abdica da superalleato" e quindi dobbiamo fare fronte ai "disastri della fuga di Trump dalla Siria" o addirittura (questo lo dice Sofri) al "miserabile tradimento di Trump". Tutti gli altri giornali italiani ed europei, almeno quelli "autorevoli", sono compattamente schierati a spiegare che Trump sta distruggendo il "soft power" dell'America, che si è spaventato per le minacce turche (!?) e dunque coi suoi "madornali errori" compie un "suicidio strategico", è uno sciocco, se non un collaboratore della Russia. Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così? L'unanimità in questi casi lascia sospetti.
  Meglio seguire l'opinione di Caroline Glick, la più acuta commentatrice israeliana di politica estera e di sicurezza, che sostiene il contrario. Le truppe americane in Siria, spiega Glick, non hanno mai combinato granché sul piano militare e sono un'eredità di Obama che le mise lì per combattere l'Isis, ma anche per marcare il rovesciamento di rapporti con l'Iran, presentato come il nemico giurato dell'Isis che l'America doveva aiutare a diventare potenza egemone della regione e considerare suo alleato (anche se gli ayatollah hanno incassato i regali, ma mai contraccambiato). E' vero che sul terreno le cose sono andate in maniera un po' diversa, i soldati Usa hanno fatto da schermo ai curdi contro la Turchia e messo un po' di bastoni fra le ruote russe. Ma il senso strategico della loro presenza alla frontiera nordorientale della Siria con Turchia e Iraq non era certo difendere Israele: chi l'avesse pensato probabilmente non ha mai guardato bene la carta geografica e si fa delle illusioni.
  Non è mai accaduto in settant'anni e passa che Israele si sia fatto difendere sul terreno da un altro stato, anche perché non ce n'è mai stato uno disposto a farlo. L'America ha aiutato Israele con rifornimenti d'armi, copertura internazionale (impedendo cioè all'Urss di usare la sua potenza contro lo stato ebraico e usando il veto per togliere ai nemici l'arma del Consiglio di sicurezza dell'Onu), assistenza di intelligence e di controllo dello spazio aereo e marittimo. Anche questo non è sempre avvenuto, neppure durante le guerre, almeno non con la tempestività necessaria. Talvolta gli Usa sono stati piuttosto ostili, per esempio durante le presidenze Carter e Obama. Trump è di gran lunga il presidente più favorevole a Israele dalla fondazione e ha assicurato di nuovo, proprio in questi giorni l'appoggio e l'aiuto in caso di necessità.
  Ma Israele sa benissimo di doversela cavare da solo, non è una colonia americana e talvolta i suoi interessi sono diversi da quelli degli Usa. L'opinione pubblica americana vuole chiudere una fase costosa (in termini di soldi ma anche di perdite umane) di impegni militari all'estero. Trump aveva promesso durante la campagna elettorale di muoversi in questa direzione e come sempre sta rispettando le sue promesse elettorali. Il Medio Oriente non è più vitale per l'America, il petrolio arabo è molto meno importante di un tempo. La principale ragione di impegno americano nella regione, come Trump ha detto giustificando i rapporti con l'Arabia, è proprio Israele e non è affatto detto che tenere truppe in Afghanistan o a est dell'Eufrate sia il modo migliore per tutelarli. Questo disimpegno toglie alcuni freni a Israele (gli stessi problemi di "non disturbare la coalizione" che obbligarono lo stato ebraico a non reagire ai missili di Saddam Hussein durante la Prima Guerra del Golfo) e gli permette di impegnarsi di più e non di meno nella difesa dall'Iran in Siria, come ha detto Netanyahu.
  Israele deve usare ora la copertura americana per consolidare il fronte antiraniano, per minimizzare i pericoli che vengono dalla Siria e dal Libano, per non farsi imporre troppi vincoli nei rapporti con Hamas e l'Autorità Palestinese - anche se è inevitabile che debba essere molto prudente, capace di cogliere freddamente il limite politico del rapporto fra costi e benefici nelle sua azioni militari. Insomma, non è vero affatto che Trump abbia abbandonato Israele o che lo stato ebraico sia più solo di prima. La situazione strategica non è molto cambiata, anche perché in questa fase quel che conta è il dominio aereo, non sono previste in Siria operazioni sul terreno. E Israele su questo piano è fortissimo anche di fronte alla Russia. Dunque è ancora vero che la situazione politico-militare di Israele è la migliore dalla creazione dello stato. E resterà tale, soprattutto se alla guida dello stato continuerà a esserci, nonostante trame politiche e giudiziarie, quel grandissimo statista che è Bibi Netanyahu.

(Progetto Dreyfus, 23 dicembre 2018)


L'esercito israeliano diffonde un video sulla distruzione di un tunnel di Hezbollah

I militari israeliani hanno diffuso un video sulla distruzione di uno dei tunnel scavati sotto il confine dagli Hezbollah libanesi. Girate giovedì notte, le immagini mostrano un ufficiale israeliano che parla al megafono per avvertire gli abitanti del villaggio libanese di Ramyeh di abbandonare l'area in vista delle operazioni per far esplodere il tunnel. "Stiamo per far esplodere questo tunnel costruito da Hezbollah. Vi chiediamo di evacuare immediatamente l'area, siete in pericolo", dice in arabo l'ufficiale, parlando dietro la rete sul confine. Poi si vede l'esplosione. La fase di "distruzione e neutralizzazione" dei tunnel individuati con l'operazione "scudo del nord" è ancora in corso. L'esercito israeliano, riferiscono i media, spiega che alcuni tunnel verranno fatti esplodere, mentre altri saranno resi inagibili. Al momento sono stati scoperti quattro tunnel scavati sotto il confine, che Israele ha mostrato all'Unifil, la forza d'interposizione dell'Onu nel sud del Libano.

(Adnkronos, 23 dicembre 2018)


Cristiani evangelici e Torah

da Haaretz, 20 dicembre 2018

E’ in continua crescita il numero di cristiani evangelici che desiderano studiare la Bibbia dai rabbini nelle cosiddette "Yeshiva per cristiani". Rivkah Lambert Adler, un educatore ebreo ortodosso, ha dichiarato: "È diventato un fenomeno. Quello che stiamo vedendo è una profonda fame e sete tra i cristiani per l'autentico insegnamento della Torah". Un certo numero di yeshiva di questo tipo sono emerse di recente, molte delle quali come alleanze tra ebrei ortodossi e cristiani evangelici. Alcune offrono apprendimento online, altre un insegnamento personalizzato in Israele. La domanda è alta, ma gli insegnanti sono pochi e le diverse yeshiva spesso si spartiscono fra di loro le liste di insegnamento . Lambert Adler ha detto che questo è dovuto al fatto che "il numero di insegnanti ebrei che sono ben informati, parlano inglese e sono disposti a impegnarsi con dei non ebrei è piuttosto basso". Quando gli è stato chiesto perché gli ebrei ortodossi sono così riluttanti ad insegnare ai cristiani, Lambert Adler ha risposto: "Il popolo ebraico, in generale, sta molto sulla difensiva nei confronti dei cristiani. Tendiamo a non fidarci di loro, tendiamo a credere che hanno un'agenda missionaria al 100% e tendiamo a chiedere a loro soltanto di lasciarci in pace".

(Caspari Center, 23 dicembre 2018) - trad. www.ilvangelo-israele.it


È morto Simcha Rotem, l'ultimo combattente della rivolta del Ghetto di Varsavia

di Ariela Piattelli

 
Simcha "Kazik" Rotem in visita allo Yad Vashem di Gerusalemme
GERUSALEMME - Nato a Varsavia nel 1924, già all'età di 15 anni entra a far parte del movimento sionista. Quando la Germania invade la Polonia, i nazisti gli distruggono la casa e uccidono gran parte della sua famiglia. Simcha, assieme alla madre, viene ferito.
   Con il nome di battaglia «Kazik», nel '42 entra nelle fila dello Zydowska Organizacja Bojowa, lo ?ob, ovvero l'organizzazione ebraica di combattimento guidata Mordechai Anielewicz e di cui fa parte anche Marek Edelmann, destinata a scrivere la storia. Lo ?ob, con poche armi di fortuna, tra pistole e molotov, durante la rivolta iniziata il 19 aprile del '43 riesce coraggiosamente a fare la guerra alla furia e alla potenza bellica nazista per settimane. Un'impresa, la prima di questo genere in Europa, considerata all'inizio dagli stessi protagonisti «disperata».
   Lo spiegherà lo stesso Rotem in una testimonianza al Memoriale della Shoah di Gerusalemme Yad Vashem: «Dal primo momento in cui ho visto entrare la potenza tedesca nel ghetto, la mia prima reazione, e sono sicuro non solo la mia, è stata di sentire che noi non eravamo nulla. - ricordava - Che cosa potevamo fare con le nostre armi patetiche, quasi inesistenti, di fronte alla enorme potenza tedesca, con cannoni, carri armati e mezzi corazzati, centinaia se non migliaia di uomini? Mi sentivo completamente indifeso. Ma a quel sentimento seguì uno straordinario senso di elevazione spirituale. Questo era il momento che stavamo aspettando, per difenderci da tutta quella potenza tedesca».
   Simcha «Kazik» è per lo ?ob la staffetta che trova e costruisce passaggi sotterranei tra il ghetto e la parte «ariana» della città, e sta a lui mantenere la comunicazione tra i bunker, il comando esterno e la resistenza polacca. A maggio del '43, dopo settimane di combattimenti, quando la rivolta volge al suo tragico epilogo, e il ghetto di Varsavia è oramai ridotto ad un cumulo di macerie e morte, con migliaia di ebrei uccisi e deportati al campo di sterminio di Treblinka, nessuno sembra avere più scampo dai nazisti. Kazik, con coraggio e determinazione, guida decine di suoi compagni verso la salvezza, e attraverso le fognature riesce a portarli nella foresta fuori città.
   Simcha Rotem continuerà a combattere al fianco dei partigiani polacchi, e nel '44 parteciperà alla rivolta di Varsavia. Nel '46 andrà a vivere nella Palestina del mandato britannico, e combatterà per l'indipendenza dello Stato d'Israele.
   «La sua storia e la storia della rivolta sarà sempre nella memoria della nostra gente», ha detto il Primo Ministro dello Stato d'Israele Benjamin Netanyahu. «Grazie di tutto Kazik» - ha detto il Presidente dello Stato d'Israele Reuven Rivlin, ricordando la lezione del combattente sull'umanità: «Siamo tutti animali su due gambe - spiegò Rotem - Questo è ciò che sento. E tra questi animali su due gambe ci sono quelli che meritano di essere definiti "esseri umani"».

(La Stampa, 23 dicembre 2018)


Inutile sconfiggere ISIS se Iran e Turchia si rafforzano

Che senso ha sconfiggere ISIS se poi si lascia campo libero a Iran e Turchia nella regione? Che senso ha sconfiggere un estremismo islamico se poi lo si sostituisce con un altro estremismo islamico, forse ancora più pericoloso?
Giovedì scorso, non appena arrivato l'annuncio del ritiro delle truppe americane dalla Siria, il Presidente iraniano Hassan Rouhani è volato ad Ankara per colloqui bilaterali a porte chiuse con il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan.
Un caso? Era una visita programmata? Più facilmente la decisione del Presidente Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria ha preso di sorpresa un po' tutti, compreso Erdogan che pure diceva dii esserne a conoscenza. Da qui la necessità di consultazioni tra i garanti di Assad, l'Iran, e la Turchia che di fatto intende occupare una parte di Siria....

(Rights Reporters, 23 dicembre 2018)


Pollak, mercante scomparso

Una mostra al Museo Barracco e al Museo Ebraico di Roma dedicata al grande archeologo che influenzò il mercato artistico romano. E che perì nei campi nazisti.

di Alvar Oonzàlez-Palacjos

Ludwig Pollak
Era un uomo famoso, oggi sconosciuto, Ludwig Pollak. Nato nel ghetto di Praga nel 1868 in un alloggio poverissimo e non riscaldato, i genitori ebrei osservanti, negozianti di tessuti antichi. Tutto ciò non impedì al giovane di seguire studi universitari approfonditi all'Università di Vienna, dove fu allievo di un allievo di Theodor Mommsen, il grande erudito, italianista e storico.
  A Vienna fu ammirato per le sue capacità intellettuali che lo fecero divenire un grande filologo e un grande archeologo, dotato di un occhio eccezionale. Laureatosi con gran successo si stabilì poi a Roma dove trascorse la maggior parte della vita, all'inizio brillantemente: ma era ancora quel mondo descritto da Stefan Sweig, il mondo di ieri, tramontato alla fine della prima Guerra Mondiale. Pollak venne subito apprezzato da quella società di aristocratici colti, di collezionisti d'eccezione, di professori e di conoscitori, un mondo al quale appartenevano due altri personaggi in qualche modo paragonabili a lui: Wilhem von Bode, direttore dei musei di Berlino, e Bernard Berenson, maestro del gusto, il papa della storia dell'arte così come Bode ne era l'imperatore. Von Bode, Berenson e Pollack in un certo senso guidavano anche il mercato d'arte in Europa e in America, ma all'inizio quelle direttive commerciali non erano tinte di pregiudizi sociali, anzi ognuno dei tre signori - Pollak, è vero, in ordine minore - dettavano le mode artistiche. Pollak, che era l'agente di Bode nella Roma archeologica, abitava in un magnifico appartamento a Palazzo Odescalchi, in piazza Santi Apostoli.
  La fine della Grande Guerra apre indirettamente le porte al fascismo e il mondo di ieri si trasformerà in quell'epoca barbarica sfociata nella Seconda Guerra Mondiale. Il nazifascismo portò Pollak ad una morte brutale; Berenson, più abile, si salvò da questo destino sfruttando le sue relazioni sociali fra le quali contava Filippo Serlupi Crescenzi, Ambasciatore di San Marino presso la Santa Sede, che lo ospitò nella sua residenza nei pressi di Firenze. Berenson vi passò il tempo peggiore della guerra: anche lui come ebreo correva seri pericoli.
  Nella mostra LudwigPollak. Archeologo e mercante d'arte che si tiene fino al 5 maggio nel Museo Barracco e nel Museo Ebraico di Roma si segue con estrema attenzione e onestà la carriera dello studioso che fra molte altre cose trovò il braccio mancante ad una delle più celebri sculture dell'antichità, il gruppo del Laocoonte dei Musei Vaticani.Non tutto quello che riuscì ad identificare gli è stato sempre riconosciuto. La celebre Fanciulla di Anzio, oggi creduta ellenistica, fu rinvenuta nel 1878 fra le rovine della Villa di Nerone ad Arco Muto: non ne fu capita subito la bellezza singolare fino ad una intuizione di Pollak. Oggi il suo contributo è dimenticato. Il livore che qui e là si indovina ancora quando si parla di lui non è dovuto soltanto a motivi razziali ma anche alle sue mediazioni commerciali che gli fruttarono non pochi denari e altrettanta invidia. Oggi si stima che Pollak fu dietro alle vendite di una cinquantina di antichità al Museo di Vienna, quarantacinque alla Liebieghaus di Francoforte, ventisette alla Ny Carlsberg di Copenaghen, venticinque a Berlino, un numero imprecisato al Metropolitan di New York, ai musei di Boston e a molte altre raccolte americane. Molti preferiscono dimenticare quante ne cedette a prezzi modesti all'Italia e quante ne donò a tutti noi: trentadue, ad esempio, al Museo Barracco, molte al Vaticano.
  Credo che sia solo stata la Chiesa, fino alla presente rassegna, a ricordarlo come merita. Barracco fu un suo grande amico e lo considerava come suo figlio. Ma Barracco era un grande uomo, quel che allora si chiamava un patriota, parola che per il suo uso improprio per decenni è quasi diventata offensiva: con lui assurge al suo vero significato di benefattore dello stato e della cultura e infine donatore di uno dei più bei piccoli musei d'Italia.
  La figura di Pollak risorge oggi non tanto dalla tomba in cui venne gettato quanto dalla giustizia. Io stesso conoscevo il suo nome malo confondevo talvolta con quello di Oskar Pollak, suddito imperiale anche lui ma viennese, che pubblicò negli anni Trenta i documenti dell'epoca di Urbano VIII. Ma sapevo bene quello che aveva studiato Ludwig e ho visto più volte i suoi libri, volumi lussuosi e di piccola tiratura che non possiedo, nemmeno uno. Alcuni li ho avuti tra le mani, come le Pièces de choix de la collection du Comte Grégoire Stroganoff à Rome, scritta nel 1911insieme ad Antonio Mufioz, uomo colto, divenuto fascista ma non troppo settario, parente di Federico Zeri nella cui biblioteca vidi queste bellissime pubblicazioni. Da qualche altra parte invece potei sfogliare il libro di Pollak sulla raccolta di Alfredo Barsanti, un ben noto negoziante che aveva composto una collezione di bronzi del Rinascimento. Il libro, del 1922, aveva una prefazione dell'"imperatore" Bode e riguardava un campo che non era quello specifico di Pollak denotando così la sua vasta cultura (non a caso egli proveniva dalla Scuola di Vienna che contava personaggi come Alois Riegl e Franz Wickhoff). Non credo invece di aver mai visto il catalogo pubblicato aLipsianel 1903 Klassisch-antike Gold-schmiedearbeiten im Besitze S. Excellenz A. J. v. Nelidow. Nelidow aveva composto una straordinaria raccolta di ori antichi nei I unghi anni in cui era stato am - basciatore dello Zar presso il Sultano, percorrendo le vaste province dell'Impero Ottomano; quando divenne ambasciatore in Italia gli venne presentato Pollak da un altro archeologo e trafficante famoso, Wolfgang Helbig. N elidow in - caricò Pollak di catalogare la sua eccezionale collezione e questi passò lunghi mesi visitando musei, raccolte e antiquari di Alessandria, del Cairo, di Costantinopoli e di Atene, divenendo il miglior conoscitore di quel prezioso ramo della storia dell'arte. Queste e molte altre informazioni si trovano nei brillanti saggi di Orietta Rossini nel presente catalogo.
  Le scoperte di Pollak restano comunque salde e sembra siano state dovute alla scienza ma anche all'ispirazione. Bastava talvolta sciogliere un indovinello, seguire un'idea dovuta più al sentimento che alla erudizione. E così oggi si può anche comprendere come il metodo intuitivo di certi conoscitori d'arte può avvicinarsi a quello della psicoanalisi e a Sigmund Freud. Non è casuale che sia Pollak sia Freud si capissero perfettamente. Non sappiamo se Freud ebbe in cura Pollak ma è invece certo che quest'ultimo catalogò le tremila opere antiche del primo ed è così lecito credere che il sistema dello studio storico artistico non sia troppo lontano da quello delle investigazioni della psiche. Cito qui una frase di Freud: «ho letto più libri sull'archeologia che sulla psichiatria».
  Il 16 ottobre 1943 Pollak e la sua famiglia vennero avvertiti della razzia imminente a Roma ma, con quella fatalità a cui molti perseguitati si affidano, egli si rifiutò di mettersi in moto. Non sappiamo nemmeno se la sua fine avvenne ad Auschwitz o addirittura prima di attraversare i confini italiani.

(Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2018)



«Chi crede in me, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno»

Nell'ultimo giorno, il gran giorno della festa, Gesù stando in piedi esclamò: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Disse questo dello Spirito, che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui; lo Spirito, infatti, non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora glorificato.
Una parte dunque della gente, udite quelle parole, diceva: «Questi è davvero il profeta». Altri dicevano: «Questi è il Cristo». Altri, invece, dicevano: «Ma è forse dalla Galilea che viene il Cristo? La Scrittura non dice forse che il Cristo viene dalla progenie di Davide e da Betlemme, il villaggio dove stava Davide?» Vi fu dunque dissenso tra la gente, a causa sua; e alcuni di loro lo volevano arrestare, ma nessuno gli mise le mani addosso.
Le guardie dunque tornarono dai capi dei sacerdoti e dai farisei, i quali dissero loro: «Perché non l'avete portato?» Le guardie risposero: «Nessun uomo parlò mai come costui!»

Dal Vangelo di Giovanni, cap. 7

 


L'America abdica da superalleato

Trump ordina il ritiro contro l'lsis in Siria e dimezza i soldati contro i talebani in Afghanistan. "L'Isis problema di altri". Putin approva Trump, il Pentagono no.

di Daniele Raineri

NEW YORK - Stephen Miller è uno dei consiglieri e degli yesman del presidente americano, Donald Trump, e negli ultimi due giorni è stato mandato in tv a difendere la decisione improvvisa di ritirare i soldati dalla Siria. "Lo Stato islamico è il nemico di altri paesi", ha detto. "Lo Stato islamico è il nemico della Russia. Lo Stato islamico è il nemico della Turchia. Lo Stato islamico è il nemico di Assad". Il messaggio era chiaro: non dobbiamo occuparcene noi. L'idea che il mondo sia nel bene e nel male un posto molto interconnesso dove alcuni estremisti reclutati in Germania possono incontrarsi in una fattoria vicino Kandahar in Afghanistan per pianificare l'attacco a New York dell'11 settembre 2001 o che altri estremisti possano organizzare da Raqqa in Siria gli attacchi più recenti contro Parigi e Bruxelles da questa settimana è respinta ufficialmente dall'Amministrazione Trump. E i suoi portavoce usano parole che se fossero pronunciate da un presidente liberal scatenerebbero da parte dei conservatori accuse di tradimento.
  L'America sceglie la strada dell'isolazionismo e abdica dal ruolo di potenza globale che fino a oggi aveva sempre approvato e garantito la continuità delle missioni militari contro gli estremisti islamici. Nel giro di trenta ore l'Amministrazione Trump ha prima ordinato il ritiro di tutti i duemila soldati americani impegnati nella Siria orientale contro i resti dello Stato islamico e poi il ritiro "nei prossimi mesi" di settemila soldati - su un totale di quattordicimila - dall'Afghanistan che sta perdendo contro i talebani. In mezzo agli annunci dei due ritiri il capo del Pentagono, l'ex generale dei marines John Mattis, è andato alla Casa Bianca con una lettera di dimissioni in tasca per provare a convincere il presidente Donald Trump a cambiare idea e a non spingere il paese sulla strada dell'isolazionismo spinto. Dopo che il tentativo è andato a vuoto, Mattis ha rassegnato le dimissioni - che saranno effettive dalla fine di febbraio, ha deciso lui la data e non il presidente - è tornato al Pentagono e ha fatto stampare cinquanta copie della lettera perché fossero distribuite in tutto l'edificio. In Iraq il suo nome in codice era "Chaos", ma nell'Amministrazione era considerato un elemento di stabilità, che calmava gli impulsi del presidente. Di certo non era un guerrafondaio: fu lui a ignorare l'ordine di Trump di uccidere il rais siriano Bashar el Assad nell'aprile 2017. Nel testo senza precedenti il generale spiega di essere d'accordo sul fatto che gli Stati Uniti non debbano essere il poliziotto del pianeta, ma che è essenziale che mantengano in vita Ia rete di alleanze in giro per il mondo che garantisce la sicurezza della nazione - e che Trump sta distruggendo, sottinteso - e anche che abbiano chiaro chi sono i nemici pericolosi e i rivali strategici - di nuovo sottinteso - Trump si rifiuta di vedere le minacce. Mentre Mattis lasciava il presidente perché dice che è necessario essere "cleareved'', vedere con chiarezza chi sono i nemici, il presidente russo Vladimir Putin si congratulava con Trump per la scelta di abbandonare il campo. Non ci poteva essere rappresentazione migliore di quello che sta succedendo.
  La missione militare in Siria era straordinariamente vantaggiosa per gli americani. Duemila soldati contro i 170 mila mandati in Iraq da George W Bush. quasi zero perdite (quattro morti in tre anni di cui due in incidenti stradali, in pratica era più sicura che vivere nelle caserme americane). tutto il lavoro pesante affidato agli alleati locali. minimo impegno e massimo risultato contro i nemici dell'America: Stato islamico quasi distrutto, Iran tenuto a bada, il presidente siriano Bashar al Assad sotto pressione e la Russia costretta a negoziare. Nessuno si aspettava che la missione fosse di durata infinita ma tutti. anche i commentatori più trumpiani, si aspettavano che il presidente americano avrebbe chiesto qualcosa di sostanzioso in cambio del ritiro. A settembre il consigliere per la sicurezza nazionale russo (anche ex capo dei servizi segreti e architetto dell'intervento russo in Siria nel 2015), Nikolai Patrushev. aveva proposto uno scambio: Iran fuori dalla Siria se anche l'America avesse fatto altrettanto. Ora quella carta negoziale non ci sarà più perché Trump ha deciso di bruciarla.
  A vedere i video che lo Stato islamico ha pubblicato dalla Siria orientale negli ultimi mesi si nota una costante: i terroristi prendono l'iniziativa contro le milizie curde sempre quando c'è cattivo tempo, perché i jet americani non possono volare. Da questa settimana per quelle milizie è come se ci fosse sempre cattivo tempo. Lo stesso panico dei curdi siriani abbandonati giovedì sera è arrivato anche tra gli afghani del governo, che da due anni vedono i talebani fare progressi straordinari nel tentativo di riprendersi il paese come negli anni Novanta. Distretto dopo distretto gli estremisti stanno infliggendo perdite spaventose ai soldati afghani e stanno prendendo il controllo di parti sempre più ampie del territorio. Il generale dei marines Kenneth McKenzie Jr, nuovo capo del Comando centrale e anche lui all'oscuro come tutti della svolta che stava per arrivare, pochi giorni fa ha spiegato al Congresso che senza l'appoggio americano l'esercito afghano si dissolverebbe. Dal corridoio dell'Eufrate in Siria alle montagne afghane i jihadisti sentono che il nemico più pericoloso, l'America, ha deciso di lasciare vuoti grandi spazi e che loro possono tornare a riempirli

(Il Foglio, 22 dicembre 2018)


Alta tensione nel Golfo per esercitazioni navali iraniane

TEHERAN - Secondo l'agenzia di stampa iraniana "Mehr", nell'esercitazione "Grande Profeta" sono coinvolti unità di reazione rapida, forze speciali, ranger, forze aeree, droni da combattimento, unità di ingegneria e missili a medio raggio. Per il comandante delle forze di terra dei Pasdaran, generale Mohammad Pakpour, le manovre sono di natura "strategicamente difensiva" e non rappresentano alcuna minaccia per nessun paese. Secondo alcuni media internazionali, la Marina iraniana avrebbe lanciato missili vicino alle navi di scorta della portaerei statunitense. Un portavoce della Quinta flotta degli Stati Uniti ha minimizzato l'episodio: "Riteniamo sia parte delle loro esercitazioni". Il Corpo delle guardie rivoluzionarie è una branca delle Forze armate iraniane istituita dopo la Rivoluzione iraniana del 1979, che ha sostituito la monarchia con la Repubblica islamica.

(Agenzia Nova, 22 dicembre 2018)


Putin, Erdogan e l'Iran ringraziano. E il Medio Oriente rischia l'incendio

La strategia del tycoon decreta un incredibile suicidio strategico

di Fausto Biloslavo

I madornali errori natalizi di Donald Trump nel vicino Oriente costeranno cari agli Stati Uniti e di riflesso a noi europei della Nato, al traino dello zio Sam.
   Per non parlare della situazione sul terreno in Siria e Afghanistan e dei bilanciamenti strategici sempre più a favore dei russi in tutta l'area, che continua ad essere un crogiuolo di conflitti. Sembra assurdo, ma il disimpegno americano aprirà il varco a una maggiore penetrazione dell'Iran, che il presidente americano vede come fumo negli occhi. E un probabile scontro diretto con Israele, che potrebbe allargarsi a macchia d'olio in tutto il Medio Oriente.
   Non è un caso che i colpi di testa di Trump siano stati marchiati dalle polemiche dimissioni del segretario della Difesa, Jim Mattis, un ex generale dei marines temuto quanto rispettato nello scenario internazionale.
   L'ultimo annuncio a sorpresa del dimezzamento delle truppe in Afghanistan farà brindare i talebani anche se sono astemi per imposizione del Corano. In questo delicato momento, pochi mesi prima delle elezioni presidenziali, ritirare settemila uomini di un contingente ai minimi livelli può solo favorire le bande islamiste, che già infestano oltre la metà dell'Afghanistan. I comandanti Usa sul terreno, al contrario, avevano chiesto ulteriori rinforzi. Le truppe di Kabul perdono 30-40 uomini al giorno e con settemila americani in meno, che appoggiano con i corpi speciali e gli attacchi aerei gli alleati afghani, andrà sempre peggio. Non a caso, dopo l'annuncio di Trump, la Nato ha ribadito che «la lotta al terrorismo non è terminata». Se ci ritroveremo con i talebani a Kabul dovremo ringraziare la Casa Bianca.
   Indecente anche il ritiro dalla Siria, dove Washington abbandona gli alleati curdi dopo averli usati come carne da cannone per liberare Raqqa, la storica «capitale» dello Stato islamico. Il 14 dicembre alla vigilia dell'annuncio del ritiro del contingente americano di 2000 uomini, che garantisce appoggio aereo e di artiglieria contro l'Isis, veniva conquistata Haijn, una delle ultime roccaforti del Califfo. Ieri le milizie jihadiste hanno contrattaccato duramente per dimostrare che le bandiere nere non sono finite come si è vantato Trump.
   Il ritiro Usa lascia mano libera ai turchi, che non vedono l'ora di scatenare un'ampia offensiva già pianificata per spazzare via i curdi. E nonostante il sultano Erdogan proclami che combatterà anche i resti dell'Isis, in realtà farà avanzare i ribelli siriani oramai infettati dal morbo jihadista con il beneplacito di Washington.
   Non solo: il vuoto americano verrà riempito dai russi e dall'Iran, che avrà gioco facile in Siria rischiando di accendere la scintilla di un conflitto diretto con Israele. Una guerra che potrebbe allargarsi a gran parte del Medio Oriente con gli Hezbollah in Libano, i sauditi, i palestinesi facendo impallidire le mattanze attuali in Siria o nello Yemen.

(il Giornale, 22 dicembre 2018)


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L'altra faccia del disimpegno americano in Medio Oriente

Una delle promesse fatte da Donald Trump in campagna elettorale era proprio il ritiro delle truppe americane dal Medio Oriente, che per altro non vuol affatto dire aprire le porte a Iran e Russia o abbandonare i curdi e Israele al loro destino.

La decisione del Presidente USA Donald Trump di ritirare il proprio contingente dal nord della Siria ha creato molte polemiche sia in patria che all'estero. Il Segretario alla Difesa, Generale James Mattis, ha rassegnato le dimissioni e da molte parti si parla di tradimento verso i curdi e verso Israele.
Sarei stato favorevole, personalmente, alla presenza americana in Siria (in Afghanistan ma anche in Iraq), in quanto sono i guardiani dell'occidente e in grado, con la sola presenza, di fornire una sorta di "aiuto psicologico" verso Israele.
Il ritiro delle truppe non significa, comunque, il disimpegno totale dalla regione. Ad esempio potrebbero benissimo intervenire con le navi e le portaerei dislocate nel Mediterraneo orientale nel caso Assad decidesse di superare la cosiddetta "linea rossa" con le sue armi chimiche, come già capitato....

(Rights Reporters, 22 dicembre 2018)



Si gioca sul gas la partita del Mediterraneo orientale

di Giuseppe Gagliano

ROMA - In Europa, le questioni legate al gas sono particolarmente esasperate a causa della volontà di dipendere meno dalle risorse del gas russo. In effetti, l'emergere di nuovi esportatori di gas con cui negoziare, rappresenta una grande opportunità per diversi attori, in particolare gli stati o le compagnie petrolifere.
   La scoperta di nuovi giacimenti di gas in Israele, aggiunta al potenziale energetico dell'Egitto e alle ambizioni turche, suggerisce che il Mediterraneo sia ora un grande teatro per il gioco energetico. Sebbene i depositi del nostro bacino naturale siano lontani dal rappresentare la maggior parte delle risorse di gas del mondo, la loro ubicazione solleva questioni geopolitiche di rilievo. Possiamo vedere che il gas, una fonte di energia e opportunità, è diventato una nuova fonte di tensione. Molto probabilmente si giocherà il dominio dell'energia tra Israele ed Egitto, aprendo una nuova fase di sviluppo nella regione ma determinando anche nuove rivalità e lotte di potere.
  I nuovi giacimenti di gas scoperti in Israele stanno infatti contrastando l'apparente dominio energetico del Cairo, che aveva cominciato a emergere. Ancora più sorprendente, anche se l'Egitto era un importante produttore di gas, un contratto presentato come "storico" è stato firmato tra l'Egitto e Israele, con il secondo che ora si posiziona come nuovo fornitore dei primi. Quest'ultimo ha visto diminuire il proprio potenziale di leader a causa dell'aumento del fabbisogno energetico legato a una crescita demografica significativa e all'esplosione del consumo di energia. È quindi paradossale notare che i due attori che si contenderanno in futuro il dominio del mercato del gas sono, per il momento, in una fase di cooperazione.
  Tuttavia, questo accordo sembra essere la bozza di strategie specifiche per entrambi i paesi. Da un lato, le buone relazioni con Israele e il contratto siglato, potrebbe consentire all'Egitto sia di incrementare la propria politica commerciale sia di risparmiare tempo per sviluppare il proprio mercato del gas in seguito alla scoperta del deposito Zohr nel 2015. Con questa importante nuova fonte di gas, l'Egitto prima o poi troverà il percorso dell'indipendenza energetica.
  Dall'altra parte, Israele deve fare i conti con l'assenza, sul suo territorio, di infrastrutture adatte. Le risorse di gas implicano infatti installazioni specifiche e costose. La domanda interna, non importa quanto sia forte, non può essere sufficiente per finanziare questi investimenti: la sfida è quella di trovare nuovo sbocchi. Per Israele, un accordo con l'Egitto è l'occasione per ottenere risultati tangibili, generare una significativa domanda estera e quindi ravvivare la speranza di dominare il mercato prima che l'Egitto riprenda il sopravvento.
  È utile ricordare che in precedenza esisteva un contratto tra Israele ed Egitto, quando l'Egitto era indipendente in termini energetici e si posizionava come un potente esportatore di gas. Tuttavia, questo contratto non aveva resistito alle tensioni tra i due stati: le loro relazioni erano state indebolite dal rovesciamento dei Rais, nonché dalle operazioni di sabotaggio del gasdotto. Anche l'Egitto considerava questo contratto troppo vantaggioso per Israele.
  La questione principale è stabilire insomma se Israele e l'Egitto possono andare oltre le loro differenze storiche e le loro rivalità. Piuttosto che un vero disgelo nei rapporti tra i due paesi, sembra più appropriato parlare di strategie di sviluppo individuali per la leadership energetica nel Mediterraneo. Questo elemento è tanto più vero in quanto le principali differenze di percezione tra Israele ed Egitto sembrano preesistere. Se Israele parla di un contratto storico e sembra intimamente convinto che questa alleanza sarà la chiave del successo, l'Egitto è più misurato e cauto riguardo all'accordo. Quest'ultimo potrebbe benissimo essere rotto, non essendo considerato ufficiale. Tutto dipenderà dai benefici che sarà in grado di portare. Pertanto, questi diversi punti di vista, simboli di divergenze di lunga data tra i due attori, costituiscono una potenziale fonte di ulteriore tensione e sottolineano la natura destabilizzante delle risorse energetiche, o almeno la loro gestione.
  Il problema delle partnership con gli stati oltre il Mediterraneo sta anche facendo rivivere le tensioni. Allo stato attuale, tutto sembra indicare che l'Europa favorirà l'Egitto per le sue importazioni: una relazione del Parlamento europeo nel 2017 (elaborata dalla Direzione generale per le politiche estere) afferma che "l'Egitto sembra detenere la chiave per il futuro del gas nel Mediterraneo orientale". Oltre alle infrastrutture che lo rendono più competitivo, l'Egitto sembra concentrare più risorse di Israele, soprattutto in termini di confini. L'Egitto ha fissato le frontiere, dove Israele non è ancora d'accordo con il Libano sui suoi confini terrestri e marittimi. Sembra quindi molto più facile negoziare con l'Egitto. Tuttavia, l'Europa ha deciso di concludere accordi separati con l'Egitto e Israele: mentre questa strategia può servire gli interessi europei, costituisce tuttavia un nuovo elemento di disturbo nelle relazioni tra i due stati mantenendo una concorrenza fra di loro.
  Tutti questi nuovi elementi portano alla conclusione che non è sempre vero pensare che lo sviluppo economico di una regione consentirà di regolare le tensioni geopolitiche. La prova consiste proprio nell'osservare che il successo del gas di alcuni paesi sta creando ancora più tensioni e rivalità. Le questioni legate al gas nel Mediterraneo non riguardano solo Israele e l'Egitto, ma sono anche collegate ad altri attori regionali o internazionali. In primo luogo, la questione del dominio dell'energia non sarà risolta senza l'irruzione della Turchia nelle strategie locali. Erdogan desidera da tempo trasformare la Turchia in un centro energetico, un'ambizione che compete con le aspirazioni dell'Egitto. La Turchia ha già dimostrato di poter agire per impedire lo sviluppo di altri stati della zona che potrebbero costituire una potenziale minaccia per la sua leadership (come ha dimostrato con Cipro). È quindi possibile pensare che la Turchia non permetterà a Israele di diventare uno dei principali attori del gas nella regione, il che non può che rafforzare le tensioni.
  Oltre la Turchia, non dobbiamo dimenticare il ruolo svolto dai maggiori gruppi petroliferi nella regione: l'Eni ha scoperto i grandi giacimenti egiziani, il contratto tra Israele ed Egitto è stato firmato dalla compagnia egiziana Dolphinus e da un consorzio israelo-americano (Delek e Noble Energy). Ciò che questi esempi dimostrano è che gruppi come l'Eni hanno compreso le questioni in gioco nel Mediterraneo, che saranno decisive per il futuro energetico della regione e del mondo. A questa influenza delle grandi aziende, si può aggiungere anche la presenza, sempre in filigrana, degli Stati Uniti, che non intende rimanere passiva nella regione allo scopo di ostacolare le ambizioni russe o cinesi che hanno legami sempre più stretti con Ankara. In ogni caso, la sfida per Israele, l'Egitto e altri attori regionali sarà quella di essere i più competitivi possibili al fine di continuare ad attirare l'interesse degli attori chiave dell'energia per la regione.
  Ciò che è importante sottolineare è che anche la lotta per il dominio dell'energia nel Mediterraneo è destinata ad aumentare ulteriormente la volatilità geopolitica della regione.

(Il Primato Nazionale, 22 dicembre 2018)


"Israele 70 anni, nascita di una nazione"

L'ultimo libro di Claudio Vercelli

di Alessandro Litta Modignani

Fra i tanti libri usciti nel corso di quest'anno, in occasione del settantesimo anniversario della fondazione di Israele, spicca per rigore storiografico e limpidità di scrittura questo bel saggio di Claudio Vercelli, uno dei più autorevoli studiosi italiani di fenomeni genocidari e negazionismo. Nel breve spazio di 150 pagine, accompagnate da molte fotografie e cartine, Vercelli offre al lettore uno strumento di conoscenza efficace, utile anche alla comprensione degli aspetti attuali del conflitto. L'autore prende le mosse dalla genesi del movimento sionista, alla fine dell'Ottocento, e analizza in dettaglio il fenomeno del processo migratorio verso la Palestina. L'epoca dei pionieri, e il dibattito culturale innescato dal sionismo di Theodor Hertzl, sono di cruciale importanza per comprendere la storia di Israele. Questa straordinaria vicenda nazionale ha conosciuto, nel corso dei decenni, numerose "metamorfosi" (secondo il termine felicemente impiegato da Vittorio Dan Segre, in un saggio illuminante fin dal titolo) una delle quali è sicuramente rappresentata dalla nascita dell'identità nazionale palestinese. Essa sorge però più tardi, nel corso degli anni Sessanta, strumentalizzata ed enfatizzata ben oltre i suoi termini reali dalla propaganda sovietica e dalla ideologia terzomondista. Vercelli sottolinea, ad esempio, come lo status di "rifugiato" sia stato conferito dalle Nazioni Unite non solo ai profughi arabi del 1948, ma anche a tutte le popolazioni coinvolte dai successivi conflitti, e dalle loro seconde e terze generazioni nei decenni seguenti, fino a raggiungere l'iperbolica cifra di 5,2 milioni di individui: "Un numero che è il prodotto dell'incremento demografico e della mancata soluzione dei problemi di queste persone, ma anche di un'indubbia inflazione della nozione legale di rifugiato", annota Vercelli. L'autore ricostruisce minuziosamente, fra storia e cronaca, tutte le trattative di pace, gli accordi, i tentativi e i rinvii, gli incontri e gli scontri, fino al puntuale fallimento finale, ogni volta inevitabile epilogo per un mondo arabo che non ha mai preso seriamente in considerazione l'ipotesi di convivere in pace con lo stato ebraico: "L'avversione per Israele è totale, arrivando fino alla demonizzazione". Nelle pagine finali vengono affrontate - senza reticenze - anche le criticità dell'Israele di oggi: l'involuzione del quadro politico, la presenza invasiva dei partiti religiosi, la questione istituzionale inevitabilmente connessa allo sviluppo demografico.

(Il Foglio, 22 dicembre 2018)


Italia - Israele: opportunità per i settori delle Infrastrutture, Trasporti, Energia e Ambiente

Tel Aviv, 5-7 febbraio 2019. Prosegue il percorso di promozione internazionale dedicato al settore delle Infrastrutture

Nell'ambito del percorso di promozione internazionale delle imprese italiane per il settore delle Infrastrutture, ICE-Agenzia, in collaborazione con ANIE, le Associazioni OICE e ANCE, l'Ambasciata in loco e con Sace e Simest del Gruppo CdP, organizza una missione con focus sui settori Infrastrutture, Trasporti, Energia e Ambiente che si terrà a Tel Aviv dal 5 al 7 febbraio 2019.
L'iniziativa in oggetto ha l'obiettivo di far conoscere alle imprese italiane i progetti prioritari del Governo nei settori focus e di creare opportunità di partenariato per le aziende italiane della filiera infrastrutture e trasporti.
Nel settore ferroviario si prevede la realizzazione di un collegamento tra il Mar Rosso ed il Mediterraneo, la prima fase della metropolitana di Tel Aviv e la costruzione di una ferrovia leggera tra Haifa e Nazareth. Nel settore immobiliare verranno lanciati dei bandi per la costruzione di complessi residenziali mentre, per quanto riguarda l'Ambiente, un settore di interesse è quello del trattamento degli agenti inquinanti delle acque e dei terreni.
La giornata del 6 febbraio prevede una parte introduttiva di presentazione del Paese cui seguirà un focus sulla cooperazione scientifica e tecnologica tra i due Paesi e sugli strumenti finanziari disponibili per i progetti di sviluppo. Sono inoltre previsti due tavoli tematici su "Trasporti e Infrastrutture" ed "Energia e Acqua".
Nella giornata del 7 febbraio saranno organizzate eventuali visite ad enti e aziende locali.
Per maggiori informazioni è possibile scaricare la Circolare promozionale nella colonna di destra.
La partecipazione è gratuita, restano a carico dei partecipanti le spese di viaggio e soggiorno.
Le imprese interessate a partecipare sono pregate di:
  1. compilare ed inviare il modulo di adesione e il regolamento ICE-Agenzia riportati all'interno della Circolare, avendo cura di apporre su entrambi firma e timbro aziendale;
  2. inviare una presentazione dell'azienda di massimo 10 righe in formato word e il logo aziendale in formato vettoriale.
La documentazione sopra riportata dovrà essere inviata ad ICE-Agenzia (e.salazar@ice.it) e per conoscenza all'Area Internazionalizzazione di ANIE (internazionale@anie.it) entro e non oltre il 10 gennaio 2019.
L'Area Internazionalizzazione di ANIE resta a disposizione per maggiori informazioni:
Tel. 02 3264 227/205, internazionale@anie.it.

(Federazione ANIE, 22 dicembre 2018)


Il Comune di Firenze conferirà la cittadinanza onoraria a Liliana Segre

La mozione, proposta dal consigliere Pd Bieber, è stata approvata in commissione. Ora si attende l'ok del Consiglio comunale.

Dopo l'approvazione, lo scorso 19 dicembre nella settima commissione, andrà presto al voto in Consiglio comunale di Firenze la mozione proposta dal consigliere Pd Leonardo Bieber (e già sottoscritta da altri consiglieri sia di maggioranza che di opposizione) per concedere la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, senatrice a vita.
  "Un gesto dalla città di Firenze per l'opera di testimonianza e mantenimento della memoria della Shoah, di cui fu vittima, e l'impegno per i diritti umani che la senatrice quotidianamente fa, con i ragazzi e in altre occasioni pubbliche - ha spiegato Bieber - Lo scorso 20 novembre nel Salone dei Cinquecento, proprio durante un'iniziativa promossa dal Sindacato Avvocati Firenze e Toscana per ricordare l'80o anniversario delle leggi razziali, la senatrice Segre ha partecipato, con una testimonianza molto apprezzata, di grandissima forza emotiva e spessore umano".
  Sopravvissuta al campo di concentramento Auschwitz-Birkenau e reduce dell'Olocausto, Liliana Segre ha continuato in tutti questi anni di figura pubblica a esaminare e scandagliare la storia e la contemporaneità promuovendo campagne per i diritti umani e per debellare il razzismo e l'antisemitismo che, secondo la Segre, "non sono mai sopiti, solo che si preferiva nel dopoguerra della ritrovata democrazia non esprimerlo. Oggi è passato tanto tempo, quasi tutti i testimoni sono morti e il razzismo è tornato fuori così come l'indifferenza generale, uguale oggi come allora quando i senza nome eravamo noi ebrei".
  "Sarebbe davvero molto bello per la nostra città, medaglia d'oro al valor militare per la lotta alla Resistenza - ha proseguito il consigliere dem - se in occasione della giornata della memoria o meglio ancora in primavera, quando avverrà l'inaugurazione del Memoriale di Auschwitz all'Ex 3 di Gavinana, potesse essere conferito questo prestigioso riconoscimento di Firenze a Liliana Segre: perché ciò che è indicibile, ciò che è successo tanti anni fa e che non può essere raccontato a parole, non ritorni mai più. Perché l'indifferenza della gente, che oggi come allora rischia di metterci davanti a violazioni dei diritti umani nel silenzio delle nostre comunità, non abbia mai il sopravvento rispetto ad un mondo basato sul rispetto, sul dialogo e sulla pace tra i popoli".

(la Repubblica - Firenze, 22 dicembre 2018)


Nuovo singolo in vista per Stella Bassani: "Il mio popolo devo lasciar"

di Marco Pagliettini

 
Stella Bassani

Il mio popolo devo lasciar

A breve Stella Bassani pubblicherà un nuovo singolo. Nata a Mantova nel 1970, da famiglia ebraica, l'artista è stata testimonial di numerose iniziative a tema (Giornate della Memoria, Giornate Europee della Cultura Ebraica), concerti e reading musicali, tra i quali lo spettacolo Ricordi di un ragazzo ebreo, ispirato al libro del padre Italo Tanzbah (uscito nel 1989) nel quale raccontò la sua esperienza di fuga durante la Seconda Guerra Mondiale, schivando l'arresto e la deportazione. Ha al suo attivo un'intensa attività dal vivo e un album I giardini di Israel, ristampato in edizione speciale in occasione della ricorrenza del 25o anniversario della Caduta del Muro di Berlino nel 2014 con il titolo Tra pace e memoria. L'abbiamo intervistata.

- Il prossimo 27 gennaio uscirà il suo nuovo singolo intitolato “Il mio popolo devo lasciar”. Partiamo dalla data: perché la scelta di uscire in occasione della Giornata della Memoria?
  Un collegamento con il mio esordio discografico, sei anni fa, e un omaggio doveroso alla generazione ebraica che ha subito la deportazione ed è stata costretta all'abbandono dei propri cari, beni e terre a causa delle leggi razziali emanate nel 1938. Quando pubblicai I giardini di Israel fu una novità assoluta, nel 2013, fu presentato in occasione della Giornata della Memoria. Non amo la strumentalizzazione delle ricorrenze, ma è giusto non dimenticare gli errori di una parte dell'umanità. Anche con la musica…

- Ci può raccontare la genesi del brano?
  Il brano non è un inedito ma una canzone popolare contemporanea in lingua ebraica che mio nonno Cesare, il padre di mia mamma, riprese con un testo in italiano. Ne fece un canto a canone per far cantare i bambini. Ho ritrovato tra le sue carte quel vecchio spartito e l'ho proposto al mio staff artistico. È nata così questa versione ballabile.

- Perché la scelta di alternare le parole in ebraico a frasi in italiano?
  Io sono un'ebrea italiana. Conosco entrambe le lingue fin da piccola e mi piaceva giocare con la fonetica.

- La canzone tratta il tema dell'immigrazione, la necessità di lasciare la propria terra. Un tema drammaticamente attuale, qual è la sua opinione in merito?
  L'immigrazione è sempre esistita, come la difficoltà di integrazione inter-razziale e multi-culturale. Oggi preoccupa l'aumento demografico e la totale mancanza di controllo su tutto quello che accade. Anche i cinesi emigrano, almeno per un po'. Anche i nostri "cervelli in fuga". Se parliamo dell'esodo dall'Africa all'Italia degli ultimi anni, temo che sia stata una catastrofe per tutti, soprattutto per quei poveri ragazzi che - credendo di venire a stare meglio - sono approdati in una specie di Paradiso Infernale dell'Illegalità…

- Le parole sono accompagnate da una musica che ricorda la dance degli anni '80. Un abbinamento in apparenza spiazzante, perché ha optato per queste sonorità?
  C'è un precedente con "GAM GAM", un salmo diventato canzone da discoteca. La musica ebraica è anche danza, musica della voce e del corpo. Volevo tentare un approccio meno teatrale.

- Il suo precedente album, “I giardini di Israel”, risale al 2013. Perché un silenzio discografico così lungo?
  I miei non sono album di marketing discografico bensì progetti musicali finalizzati alla diffusione della cultura di un popolo che da oltre 5.000 anni esiste e che qualcuno ha cercato di non far esistere più. Uso i dischi, come i concerti e i libri: per arrivare alla gente, non per avere successo. Volessi il successo dei ragazzini canterei musica rap, trap e hip hop…

- La nuova canzone anticipa un album?
  Per il momento è solo un singolo, poi si vedrà. Sicuramente sarà la colonna sonora dei prossimi eventi della ricorrenza della Memoria di gennaio 2019 ai quali interverrò.

- Negli ultimi anni è stata protagonista di un lunghissimo tour. La rivedremo presto dal vivo?
  In alcune date mirate, per il momento. Poi si vedrà. Shalom.

(Spettakolo, 21 dicembre 2018)


La sinagoga di Dubai: un luogo sconosciuto ai più

di Elena Lattes

Fu aperta nel 2008 e nel 2012 vi arrivò, con al seguito moglie e figli, uno dei primi ebrei ortodossi proveniente dal Sud Africa, Ross Kriel, avvocato presso un'azienda energetica locale. Per dieci anni, però, la sinagoga di Dubai - per il momento l'unica e la prima nell'ultimo secolo in tutto il mondo arabo - ha funzionato in maniera discreta. La struttura, che comunemente viene chiamata "villa", era una vecchia abitazione in un quartiere residenziale della città ed è composta da una zona adibita alla preghiera, con una mechizà (la divisione tra il settore delle donne e quello degli uomini) decorata da lanterne, una cucina kasher con annessa una zona per attività socio-ricreative e qualche camera da letto al piano di sopra per ospitare chi osserva strettamente lo Shabbat (il Sabato).
   Fino a poco tempo fa la piccola comunità composta da 150 anime, per lo più imprenditori e manager - con le loro famiglie - si è impegnata molto per mantenere il più basso profilo possibile: l'edificio non riporta insegne, non esiste un sito internet che ne parli, né è segnato tra i luoghi ebraici nelle guide turistiche e il suo indirizzo è fornito soltanto dopo aver prudentemente esaminato il richiedente. Recentemente, tuttavia, grazie al disgelo che sta lentamente avvenendo tra l'Emirato e lo Stato di Israele, ma soprattutto all'amicizia personale tra Mohamed Alabbar capo della più grande agenzia immobiliare del Paese e Eli Epstein dirigente di un'azienda americana fornitrice di acciaio e alluminio per le industrie, il piccolo gruppo sta uscendo dalla sua riservatezza. Così, le visite dei ministri Netanyahu e Regev nel Paese e di Yisrael Katz ed Eli Cohen in Oman, hanno fornito l'occasione per inaugurare ufficialmente la sinagoga e il relativo centro. Epstein ha contribuito ulteriormente donando alla comunità un Sefer Torah (il Rotolo del Pentateuco) nella cui parte esterna è incisa in lettere dorate la dedica in arabo all'amico "Sua eccellenza" Alabbar con il quale ha lavorato a lungo e ha fondato l'associazione "The Children of Abraham" (i figli di Abramo), impegnata da anni nel dialogo tra ebrei e musulmani. Anche nella funzione che ormai si tiene tutti i sabati mattina è stata inserita una preghiera speciale per il benessere del governo degli EAU.
   Nonostante coloro che vivono a Dubai sostengano che ci sia molta tolleranza e cortesia tra le varie popolazioni che costituiscono le duecento differenti nazionalità ivi presenti (di cui solo l'11% ha la cittadinanza) e il governo si preoccupi del benessere anche degli ebrei, essi non si sentono ancora del tutto al sicuro. La simpatia verso il fondamentalismo islamico e le organizzazioni terroristiche palestinesi è abbastanza diffusa ed elevata e in molti ambienti l'avvicinamento tra la democrazia di Gerusalemme e l'Emirato è visto come un tradimento da parte di quest'ultimo. Molti, dunque, preferiscono rimanere ancora nell'anonimato.
   Gli ottimisti, però non mancano, come il rabbino newyorchese Sarna che fa notare quanto possa essere stupefacente il fatto che la prima comunità ebraica nel mondo arabo sta addirittura crescendo, proprio mentre in Europa e negli Stati Uniti l'ebraismo vede tristemente calare la sua popolazione sotto livelli mai raggiunti nelle ultime decadi:
"Per decenni, dopo la seconda guerra mondiale, si riteneva che il posto più sicuro per gli ebrei fosse quello dove vigeva una democrazia liberale. Siamo invece arrivati ad un punto in cui essi sentono di avere un futuro migliore in un Paese arabo che è sicuro (il tasso di criminalità è molto basso) ed economicamente prospero e dove non devono proteggersi con barriere antiproiettile ogni volta che entrano in una sinagoga."
(Progetto Dreyfus, 21 dicembre 2018)


Il ritiro Usa dalla Siria fa infuriare Israele. Ankara «punta» i curdi

Putin ed Erdogan ringraziano

di Gian Micalessin

 
A dispetto dei teorici della globalizzazione un battito d'ali di farfalla non provoca ancora uragani dall'altra parte del mondo. Ma un tweet di Donald Trump sì. A 24 ore dal messaggino con cui il presidente americano annunciava - mercoledì mattina - il ritiro dei duemila Berretti Verdi presenti in Siria l'America e il Medioriente sono in subbuglio. I curdi gridano al tradimento e fanno intendere, vuoi per ripicca, vuoi per necessità, di dover liberare oltre 3mila prigionieri dello stato Islamico per aver mani libere nel fronteggiare l'imminente invasione turca. E Ankara si guarda bene dal smentirli. Anzi annuncia di star muovendo uomini e carri armati per far piazza pulita di tutte le roccaforti curde nel nord est della Siria. Israele indignata, ma neanche troppo, per l'annuncio senza preavviso dell'«amico» Trump, garantisce per bocca del premier Netanyahu d'esser pronta a usare tutte le armi pur di tenere lontani dai propri confini gli iraniani presenti in Siria. Putin felice per l'insperato regalo ringrazia Donald «perché ha ragione e io - dichiara parlando al Cremlino - sono d'accordo con lui».
   In verità, nonostante la decisione di Trump lo trasformi nell'indiscusso protagonista di una futura pace siriana, neanche lui è troppo ansioso d'assistere al ritiro americano. Subito dopo, infatti, dovrebbe spiegare all'alleato Bashar Assad come mai ha permesso al presidente turco Recep Tayyp Erdogan, con cui tratta la pace, di papparsi un altro pezzo di Siria nonostante la disponibilità curda a riconoscere l'autorità di Damasco in cambio dell'autonomia. L'uragano più tempestoso imperversa però tra Casa Bianca, Pentagono e Dipartimento di Stato.
   Alla Casa Bianca il più inviperito è John Bolton, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale che tre mesi fa assicurava di voler mantenere la presenza militare in Siria usandola anche per contrastare la presenza iraniana. E di certo non esulta il segretario alla difesa Jim Mattis. Da mesi il generale dei marines tenta di convincere l'imprevedibile presidente a non far rientrare un solo uomo sottoponendogli i rapporti sulla presenza di almeno 20 o 30mila militanti dell'Isis nascosti nei deserti tra Siria e Irak. Una cifra corrispondente al numero dei militanti dell'Isis stimati dalla Cia nel 2014 e probabilmente amplificata per ragioni politiche, ma sintomatica di come il Pentagono consideri ancora lontana la vittoria finale.
   Ma il segnale più evidente del solco che separa Studio Ovale e Amministrazione è l'indifferenza con cui Trump ha smentito James Jeffrey l'inviato del Dipartimento di Stato per la Siria che lunedì garantiva la permanenza delle truppe americane. Seppur sottovoce, molti funzionari dell'Amministrazione paragonano Trump al suo peggior nemico, ovvero a quell'Obama che nel 2010 - pur di rispettare le promesse della campagna elettorale - abbandonò l'Iraq prima di aver sconfitto Al Qaida. Gettando così le basi per la nascita dello Stato Islamico.

(il Giornale, 21 dicembre 2018)


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Il regalo all'Iran

Dire "grazie Trump" non si può, ma Teheran dovrebbe farlo: ci guadagna moltissimo dal ritiro americano Israele gelida sul ritiro di Trump, Teheran punta famelica all'est della Siria, ricca e gestita dai curdi

di Paola Peduzzi

MILANO - Dire grazie a Trump per la leadership iraniana sarebbe troppo disdicevole, dopo tutti i colpi presi poi sarebbe anche umiliante. Ma se potesse, se fosse ammissibile lanciare un messaggio che non sia d'odio contro il Grande Satana, ecco, oggi Teheran direbbe in coro: grazie Trump. Perché il ritiro americano dalla Siria è un regalo agli ayatollah che nella loro politica espansionistica ambiscono a un vassallaggio completo della terra siriana, mentre (ri)trasformano il sud del Libano in una piattaforma di lancio di missili contro Israele ed estendono la loro influenza sul governo iracheno. Per questo, al posto del grazie indicibile, circola un'immagine di vittoria in cui l'Iran è rappresentato da un enorme e fiero veliero che procede tronfio con la rivoluzione islamica in poppa, mentre l'America perde, si ritira, s'arrende (e Parigi brucia, il gilet giallo è ormai imprescindibile).
  L'Iran non se l'aspettava, questa svolta: non se l'aspettava nessuno, come dimostrano le ricostruzioni che raccontano di sorpresa e rabbia nell'entourage della Casa Bianca e anche se Trump sostiene che non si tratta di una svolta, lui questa cosa la dice da sempre, certo Teheran non ci sperava proprio. Se c'è stato un punto fermo nella terremotata politica trumpiana è proprio l'Iran e il suo contenimento. Donald Trump è uscito in modo unilaterale dall'accordo sul nucleare iraniano, ha introdotto nuove sanzioni contro l'Iran e contro chi fa affari con l'Iran, cioè gli europei, ha rafforzato l'alleanza con Israele spostando l'ambasciata a Gerusalemme, ha difeso il principe saudita Mohammed bin Salman dalle accuse dell'uccisione del giornalista Jamal Kashoggi, contrariamente a quanto dicono la Cia, il Senato e l'evidenza. Ogni calcolo trumpiano è stato fatto finora con una premessa chiara: non consentiremo all'Iran di espandersi né di prenderci in giro per anni sul suo programma nucleare. E la strategia anti iraniana ha fatto anche da collante in un'Amministrazione che fatica a trovare un terreno comune su qualsiasi questione e vive di liti e sgambetti orchestrati in pubblico, come vuole il reality trumpiano.
  Poi il presidente ha annunciato il ritiro dalla Siria delle truppe americane con un tweet e tutto, in un attimo, si è rovesciato. Trump sostiene che l'Iran - con Russia e Siria - ha poco da festeggiare, perché ora toccherà alle sue forze combattere lo Stato islamico (che fino al tweet presidenziale di due giorni fa era sconfitto) e tenersi il territorio ripreso indietro grazie alla presenza americana. Trump non vuole fare il poliziotto del mondo e dice agli altri, amici e nemici insieme (far la differenza non è più così semplice): cavatevela, sintesi perfetta di un approccio realista e "America first" combinato assieme. Israele ha risposto gelido: prendiamo atto della decisione americana (il premier, Benjamin Netanyahu, aveva insistito moltissimo con Trump e con l'Amministrazione di evitare ogni ritiro), continueremo a difendere il nostro paese. Del resto se c'è una nazione che, in quella regione, se la deve cavare da sola, quella è Israele. Ma anche dalle analisi israeliane trapela sconcerto: in medio oriente ogni posto lasciato sguarnito non resta vuoto a lungo. E per gli iraniani che, secondo un report del dipartimento di stato americano di ottobre, hanno speso 16 miliardi di dollari dal 2012 per sostenere i conflitti in tutta la regione, compreso lo Yemen, questo vuoto è un ritorno sull'investimento irrinunciabile. Per questo le Guardie della Rivoluzione, che sembrano secondo alcune fonti già in movimento, puntano fameliche alla base di al Tanf, nell'est della Siria quasi al confine con l'Iraq, che i generali americani definiscono "speed bump", un dosso per far rallentare l'avanzata non soltanto dello Stato islamico ma soprattutto delle forze iraniane: al Tanf è un intoppo alla costruzione dell'ambito corridoio che unirebbe Teheran a Baghdad, Damasco e Beirut. Non è un caso che da tempo i russi, alleati dell'Iran in difesa del regime siriano di Bashar el Assad, denunciano le attività degli americani ad al Tanf e nei "55 chilometri circostanti": "C'è grande preoccupazione rispetto alle dubbie attività degli Stati Uniti e dei loro alleati in Siria - ha detto a metà dicembre il colonnello generale Mikhail Mizintsev - L'occupazione illegale dei 55 chilometri attorno alla base al Tanf continua a essere l'origine della destabilizzazione in quella parte di Siria".
  Senza il "bump" di al Tanf, l'Iran può recuperare terreno, riconquistando la parte orientale della Siria - dove ci sono tutte le risorse petrolifere e gasifere del paese - che è controllata dai principali alleati americani: i curdi. Se accendete la tv su canali americani che parlano della questione siriana vi capiterà di sentire urla e pianti: sono i familiari dei soldati curdi, che sanno fin troppo bene che cosa significa essere abbandonati dall'America.

(Il Foglio, 21 dicembre 2018)



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I disastri della fuga di Trump dalla Siria

Generali e diplomatici smentiti, credibilità azzerata e curdi abbandonati

di Daniele Raineri

 
                     Major General Qasem Soleimani                                             President Donald J. Trump
NEW YORK - Ieri sui canali Telegram dello Stato islamico si commentava la decisione improvvisa del presidente americano, Donald Trump, di ritirare tutti i soldati americani dalla Siria e di interrompere anche le missioni aeree. La notizia è vista dai terroristi come una chance inaspettata di rovesciare l'andamento della guerra contro le milizie curde che negli ultimi tre anni hanno portato lo Stato islamico quasi all'estinzione: ora i curdi resteranno senza l'appoggio a terra degli americani (forze speciali, artiglieria e intelligence) e soprattutto senza i bombardamenti di precisione che possono prendere di mira e colpire il tetto di un singolo edificio e sono così preziosi durante i combattimenti. Lo Stato islamico in questi anni non è riuscito a mantenere la presa su tutto l'enorme territorio che era caduto sotto il suo controllo, ma è specializzato nel risorgere dalle sue ceneri. L'ha già fatto una volta dieci anni fa, in Iraq, quando le sue attività si erano ridotte al minimo, i suoi uomini erano arrestati a centinaia e i capi erano uccisi uno dopo l'altro. Ha aspettato che le condizioni fossero migliori ed è tornato. Ci sono centinaia di cellule clandestine dello Stato islamico in Siria pronte a uccidere, sabotare e piazzare bombe per terrorizzare la popolazione locale, indebolire le forze di sicurezza e tentare di tornare forti come prima-quando organizzavano attentati in Europa. Tanto più che questa volta il gruppo non risorge dalle sue ceneri, ma riparte da una posizione ancora solida.
  Mentre il presidente Trump dice "abbiamo vinto", ecco i dati ufficiali dei bombardamenti americani contro lo Stato islamico in Siria: sono stati 208 soltanto nella settimana tra il 9 e il 15 dicembre, quindi pochi giorni fa. Quarantasette bombardamenti sabato 15, ventisei bombardamenti venerdì 14, trentadue bombardamenti giovedì 13 e così via: è vero che di questa coda di guerra contro lo Stato islamico nella Siria orientale si parla pochissimo in tv e molti americani saranno sorpresi dal sentire che i soldati si ritirano da un fronte che non ricordavano, ma è difficile dire che le operazioni fossero concluse. Si era ancora nel mezzo della battaglia. Lo dicono i curdi, che ieri hanno parlato in un comunicato ufficiale di "grave errore di Trump" e ora parlano di ritirarsi dalla prima linea e liberare i tremiladuecento prigionieri dello Stato islamico che gli tocca mantenere in attesa che i governi diano loro istruzioni. Tra i combattenti che potrebbero tornare in libertà ci sono almeno due "Beatles", quelli che rapivano e decapitavano ostaggi, e di certo un paio di italiani. I curdi dicono che saranno costretti a ripiegare per usare tutte le risorse a loro disposizione contro la minaccia di un intervento militare della Turchia. Pochi giorni fa una cellula dello Stato islamico in Marocco ha ucciso due turiste scandinave proprio per vendicare "i nostri fratelli bombardati ad Hajin". Hajin è la cittadina in Siria dove curdi e fanatici dello Stato islamico stanno combattendo, adesso non ci saranno più raid aerei.
  Che la campagna contro lo Stato islamico non fosse finita lo ammette lo stesso Trump nei tweet successivi a quello della vittoria, quando dice che ora dovranno essere Russia, Siria e Iran a combattere contro lo Stato islamico e per questo "non sono contenti". In realtà non sembrano così insoddisfatti, visto che ieri Putin s'è congratulato con Trump per la decisione in attesa di farlo di persona all'incontro previsto fra un mese. Quelli pietrificati invece sono i generali del Pentagono e gli uomini del dipartimento di Stato e del consiglio nazionale di Sicurezza che avevano tentato di imporre al presidente una linea politico-militare che lui non sentiva sua e che infine ha cancellato con un tweet. I generali americani da anni giurano ai curdi che sarebbero rimasti al loro fianco, ma sono stati smentiti. Il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, a settembre diceva che le truppe americane avrebbero lasciato la Siria soltanto dopo l'Iran, ma è stato smentito. Lunedì l'inviato speciale nominato da Trump per la Siria, James Jeffrey, minacciava il presidente siriano Bashar el Assad e diceva che "se la sua strategia è aspettare che ce ne andiamo, meglio che sappia che andrà via prima lui", ma è stato smentito. Il potere esecutivo è nelle mani del presidente e con una singola decisione ha ridotto a zero le posizioni annunciate dalla sua macchina militare e diplomatica.
  Il messaggio al mondo è chiaro: qualsiasi garanzia o rassicurazione riceviate da diplomatici di altissimo livello o da generali americani, non ascoltateli perché nemmeno loro sanno quello che succederà e le loro parole non valgono un mezzo tweet del presidente. Da mesi si parla di come alla Casa Bianca un'alleanza informale fra i pezzi grossi dello staff del presidente lavori per prevenire decisioni troppo dannose fino al punto da rubargli i documenti dalla scrivania. Ebbene, l'alleanza è impotente. Trump ha preso la decisione di consegnare la Siria a Russia e Iran e gli alleati curdi alla Turchia durante una telefonata con il presidente turco Recep Tayyep Erdogan, con cui il presidente americano sembra molto cedevole. Vuole vendergli i sistemi antimissile Patriot e negozia sull'estradizione di Fetullah Gulen, nemico storico di Erdogan che credeva di essere al sicuro in America. Si dice che un giorno Trump abbia chiesto al generale Jim Mattis, il suo capo della Difesa, quale fosse il modo più veloce di lasciare l'Afghanistan, un altro teatro di operazioni detestato dal presidente. Mattis dette una risposta sempre valida: "Perdere la guerra".

(Il Foglio, 21 dicembre 2018)


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Se l'Iran approfitterà del ritiro Usa, Israele potrebbe essere costretto a intervenire in Libano

C'è un collegamento fra il dibattito all'Onu sui tunnel di Hezbollah e l'annunciato ritiro delle truppe americane dalla Siria

Nonostante tutti gli ottimi argomenti presentati, con tanto di fotografie aeree, e nonostante l'inequivocabile sostegno diplomatico degli Stati Uniti, Israele sapeva che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu non avrebbe intrapreso nessuna azione decisa e determinata contro Hezbollah per il suo aggressivo progetto dei tunnel transfrontalieri dal Libano. Per capirlo, è bastato ascoltare il dibattito di mercoledì al Consiglio di Sicurezza, quando uno dopo l'altro i quindici paesi che siedono nel massimo organismo dell'Onu, con l'unica eccezione degli Stati Uniti, hanno sì denunciato, con diverse sfumature, i tunnel terroristici di Hezbollah, ma hanno tutti ritenuto di aggiungere che anche Israele vìola la sovranità del Libano (con i voli di ricognizione, che però sono difensivi e non aggressivi ndr). Certo, Israele avrebbe voluto molto di più. Parlando alla stampa estera a Gerusalemme, il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva chiesto al Consiglio di Sicurezza di condannare l'aggressione di Hezbollah, di designarlo e sanzionarlo una volte per tutte per quello che è, un'entità terrorista, di esigere dal Libano che non permetta più che il suo territorio venga usato per attaccare uno stato vicino, di sostenere il diritto d'Israele a difendersi da "un'aggressione ispirata e diretta dall'Iran" e di sollecitare i caschi blu Unifil ad adempiere al loro mandato e a rendere più incisive le loro operazioni. Ma Netanyahu sapeva che non c'è alcuna possibilità che il Consiglio di Sicurezza, di cui fanno parte Kuwait, Bolivia, Russia e Cina, accetti nulla di tutto questo....

(israele.net, 21 dicembre 2018)



Gaza, Sodastream: "Presto fabbrica nella Striscia per dare lavoro agli abitanti"

L'annuncio dell'amministratore delegato dell'azienda che produce gasatori domestici di bevande, in passato criticata del movimento di boicottaggio economico di Israele: "Dove si vive in prosperità si vive in pace"

di Gianni Rosini

Fare business a Gaza. Quella che sembra una follia partorita dalla mente di chi non ha idea di cosa voglia dire gestire un'azienda, ma anche vivere e lavorare in una delle aree più povere e rischiose al mondo, soprattutto per una compagnia israeliana, è invece uscita dalla bocca di Daniel Birnbaum, amministratore delegato di SodaStream, azienda che produce gasatori domestici di bevande. Una scelta, quella comunicata giovedì durante la Globes Business Conference di Gerusalemme dal Ceo israeliano, figlio di un sopravvissuto all'olocausto, nata dalla volontà di "dare lavoro alle persone di Gaza, un vero lavoro, perché dove si vive in prosperità si vive in pace".
   La decisione dell'azienda è destinata però a far discutere, come già successo in passato. Nel 2015, in seguito alle pressioni del movimento di boicottaggio economico di Israele (Bds), è stata costretta a chiudere lo stabilimento nella colonia israeliana in Cisgiordania di Ma'ale Adumim, licenziando la maggior parte dei 600 operai palestinesi impiegati. Pochi mesi dopo, con l'idea di dare lavoro a mille profughi siriani nella cittadina di Rahat, nel sud della Siria, l'azienda è stata accusata di farsi pubblicità sulla pelle delle popolazioni afflitte dalla guerra.
   L'amministratore delegato della compagnia, acquistata in estate dalla PepsiCo per circa 3,2 miliardi di dollari, non ha voluto dare ulteriori informazioni riguardo al piano di costruzione e avvio di quello che dovrebbe diventare il nuovo stabilimento di Gaza. Birnbaum ha solo sottolineato l'intento umanitario che avrebbe mosso i vertici dell'azienda che da anni sta cercando di insediarsi nei territori palestinesi. "E' arrivato il momento di agire in favore di chi ha bisogno", aveva dichiarato lo stesso Birnbaum nel 2015, manifestando l'intenzione di avviare il progetto nella cittadina di Rahat.
   Questo tipo di politiche portate avanti dalla compagnia le sono costate, negli anni, le accuse di sfruttamento di manodopera a basso costo da parte del movimento globale Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndr) e milioni di dollari dopo che diversi Paesi, anche europei, hanno deciso di ritirare i loro prodotti dal mercato perché provenienti da fabbriche operanti nei territori occupati. L'ultima trovata del Ceo di SodaStream dovrà scontrarsi non solo con le probabili resistenze del movimento di boicottaggio, ma anche con quelle dell'organizzazione armata palestinese Hamas che controlla la Striscia di Gaza dal 2006.

(il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2018)


La storia non cambia se tu non la cambi. Le leggi razziste del 1938

di Barbara Costa e Antonio Salvati

 
Sami Modiano
Ieri a Ostia (X municipio di Roma) abbiamo avuto un altro importante momento di riflessione su quel famigerato 1938, anno in cui vennero prese misure discriminatorie contro la comunità ebraica italiana, con un complesso di leggi razziste e antisemite, dal titolo L'80o Anniversario dell'emanazione delle leggi razziali e il suo antidoto, il 70o anniversario della Costituzione Italiana. Il nostro blog è già più volte intervenuto sulle leggi razziali del fascismo - delle quali lo storico Riccardi ha detto di non capire "perché ancora oggi non vengano chiamate leggi razziste" -, emanate nel 1938, anno in cui il regime fascista consolidò il suo volto totalitario. Tali norme rappresentarono senza dubbio una vergogna e una infamia imperdonabile. L'Assessora alla Persona, Scuola e Comunità Solidale del Comune di Roma Laura Baldassarre ha promosso un evento a favore degli studenti, mettendo in relazione l'emanazione delle leggi razziali nel 1938 e l'emanazione della Costituzione italiana, dieci anni dopo, quale suo antidoto.
  Centinaia di studenti son intervenuti ad ascoltare Sami Modiano, Testimone dell'Olocausto, Ruth Dureghello, Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Giovanni Maria Flick, Costituzionalista, Tina Costa, Partigiana Anpi, Simone Oggionni, Huffington Post.
  Eppure gli ebrei italiani non furono estranei al processo risorgimentale italiano, ha giustamente ricordato Giovanni Maria Flick. Numerosi ebrei militavano nelle truppe del generale Enrico Cadorna che il 20 settembre 1870 entrarono in Roma attraverso la breccia aperta nelle mura aureliane all'altezza di Porta Pia e poiché il Papa aveva minacciato di scomunica colui che avesse sparato il primo colpo di cannone, tale onore, ed onere, venne affidato a Giacomo Segre, ebreo torinese. Ma per l'unità di tutto il territorio nazionale bisognerà attendere la prima guerra mondiale alla quale gli ebrei, ormai soggetti al servizio di leva alla stregua di tutti gli altri italiani, parteciparono dando prova di grande coraggio e abnegazione, come provano le numerose onorificenze meritate sul campo. Ancora più numerosi i volontari, spesso neppure maggiorenni. 790 quelli di cui si conosce il nome. Le leggi razziali - ha ricordato Flick - furono adottate e firmate dal Re Vittorio Emanuele III, in un clima socio-culturale e politico nel quale già l'ideologia della razza e della supremazia del popolo italiano si era diffusa. Per usare un'espressione moderna, esse rappresentavano un puro brand fascista.
  Sami Modiano, testimone dell'Olocausto, durante gli incontri con gli studenti, inizia il suo racconto proprio da quel giorno in cui il maestro lo chiamò alla cattedra e con un'espressione di grandissimo dolore gli comunicò che doveva lasciare definitivamente la scuola e che il motivo glielo avrebbe spiegato suo padre, a casa. Nel 1938 era solo un bambino di 8 anni. Frequentava la III elementare ed non riusciva a capire la spiegazione che papà Giacobbe gli diede e la sua risposta fu: "no papà, io non mi sento diverso". E il papà continuò dicendogli: "quando sarai grande capirai". Sami non lo capì a 8 anni e continua a non capirlo ora che ne ha 88. Si rifiuta di capire quello che è incomprensibile, ma che è realmente successo. Modiano, a differenza di tanti sopravvissuti ha avuto il coraggio di rivivere quei fantasmi e portarli nel presente. Ha giurato di farlo, ricordando spesso che se "io sono sopravvissuto è perché sono stato scelto, potevo morire come tutti quanti, ho delle immagini davanti ai miei occhi perché non sono morto? Ci sono gesti impossibili e sono uscito vivo. Questo mi fa capire che qualcuno ha voluto che facessi in modo di essere qui. Io non volevo accompagnare i ragazzi a Birkenau, credevo che i ragazzi non mi avrebbero creduto. Primo Levi è stato uno di quelli che mi ha stimolato di più. Anche io devo fare qualcosa, grazie a Dio sono un uomo molto più felice, sono stanco, soffro, ma non mi importa lo continuerò a fare perché ne vale la pena. Sono due parole: mai più".
  Ma come è possibile che ci sia ancora chi inneggia all'antisemitismo in Italia e nel mondo? Che si possa indossare con leggerezza una t-shirt con la scritta "Auschwitzland"! Simone Oggionni, esperto di antisemitismo. ha spiegato ai presenti cos'era l'antisemitismo ieri e ha illustrato quanto ancora sia presente oggi nella Rete. Se nel secolo scorso esisteva il Ministero per la propaganda, oggi esiste la Rete che è totalmente fuori controllo, uno strumento tanto perverso quanto rintracciabile (nel senso che di tutto quello che si scrive ne resta una traccia, comunque spesso impossibile da controllare e arginare). E agli studenti che non hanno ancora studiato cosa ha significato la Resistenza in Italia, ha consigliato di ascoltare una canzone di Luciano Ligabue, I campi in aprile, che narra di un ragazzo che morì poco prima del 25, la liberazione. La canzone narra una storia: quello di un ragazzo che fa una scelta chiara, che è quella di metterci tutto se stesso, anche la vita, pur di difendere la libertà di cui godiamo oggi.
I campi in aprile


I campi in aprile

Se fossi lì in mezzo
Avrei novant'anni
Avrei dei nipoti con cui litigare
Ma ho fatto una scelta
In libera scelta
Non credo ci fosse altra scelta da fare
Scelta migliore
Ho avuto una vita
Nessuno lo nega
Me ne hanno portato via il pezzo più grosso
Se parti per sempre
A neanche vent'anni
Non sei mai l'eroe sei per sempre il ragazzo
I campi in Aprile
Promettono bene
Se questa è la terra è proprio la terra che non lascerò
Ho avuto per nome
Luciano Tondelli
Col vostro permesso io non me ne andrò
Se muori in aprile
Se muori col sole
Finisce che muori aspettando l'estate
A me è capitato
A guerra finita
Mancavano solo dieci giornate
I campi in Aprile
Promettono bene
Son nato in un posto cresciuto in un posto che non lascerò
C'è un quindici aprile
Accanto al mio nome
Col vostro permesso io non me ne andrò
Voi non mi chiedete
Se rifarei tutto
Ho smesso di farmi la stessa domanda
Qualcuno mi disse
Ricorda ragazzo
La storia non cambia se tu non la cambi
I campi in Aprile
Promettono bene
Se questa è la terra è proprio la terra che non lascerò
Luciano Tondelli
È ancora il mio nome
Sappiate comunque che non me ne andrò
Se fossi lì in mezzo
Avrei novant'anni
Avrei dei nipoti con cui litigare
A cui raccontare



(Notizie Italia News, 21 dicembre 2018)


Israele lasciato solo di fronte alle minacce del terrorismo

di Ugo Volli

Israele lasciato solo di fronte alla minaccia terrorista di Hezbollah. Immaginiamoci la Svizzera in queste condizioni. La minoranza francese ritiene che tutto il territorio svizzero sia suo, dal Monte Bianco al Lago di Costanza e sostiene che tedeschi e italiani "dovrebbero tornare a casa loro". Per questo pratica da sempre il terrorismo. Ci sono stati periodi più duri, ma anche adesso gli attacchi sono uno o due al giorno e più meno una volta al mese, con coltelli, investimenti automobilistici, colpi d'arma da fuoco, riescono ad ammazzare qualcuno. Il canton Vallese è uno dei centri di questa attività, i tedeschi che vi abitavano si sono dovuti ritirare. Intorno gli è stato eretto un confine di protezione, ma all'interno c'è un regime dispotico e fanatico, che spesso lancia razzi contro la città di Losanna e una volta alla settimana cerca di distruggere il confine, con manifestazioni di massa da cui partono bombe e anche alianti incendiari. Dal canton Vallese scavano anche dei tunnel oltre il confine, con l'obiettivo di rapire dei soldati (l'hanno già fatto) e di invadere i villaggi di confine per uccidere chi possono. Ma non basta: si dà il caso che anche la Russia pensi che la Svizzera debba sparire e dunque non solo finanzi i terroristi francesi, ma accumuli truppe, razzi e carri armati nell'Austria che domina. Inoltre ha ottenuto l'appoggio degli estremisti italiani, che scavano anche loro tunnel verso Chiasso e Mendrisio, ma hanno razzi capaci di raggiungere Zurigo e Ginevra e non fanno mistero di volerli usare. La Russia promuove anche il boicottaggio internazionale della Svizzera, cercando di espellerla dall'Onu. E' Riuscita a far dichiarare all'Unesco che Guglielmo Tell non era svizzero ma francese, come del resto gli orologi e la cioccolata, l'Emmenthal e la Jungrfrau. Ha anche convinto il papa, sempre sensibile alle ragioni del progressismo a ribattezzare le guardie svizzere col loro vero nome di vigili vallesi.
  Vi sembra uno scenario insensato di fantascienza? Eppure è esattamente quel che succede a Israele, con la differenza che la superficie della Svizzera è il doppio di quella di Israele, con più o meno gli stessi abitanti, e che la sua posizione strategica è assai migliore, difesa com'è dalle montagne e nel centro di un continente pacifico come l'Europa e non di un vicinato violentissimo come il Medio Oriente. Se un qualunque stato europeo fosse sottoposto a un decimo delle minacce che lo stato ebraico deve affrontare, scatterebbe immediatamente non solo la solidarietà, ma l'indignazione, la rabbia, la condanna morale contro la violenza insensata. E però questa reazione per Israele non avviene, i governi sono "prudenti", i politici ipocriti, i media reticenti, l'opinione pubblica fredda. Certo, l'esperienza mostra che al momento buono la Cecoslovacchia e l'Austria vengono abbandonate nelle mani di Hitler o più di recente gli abitanti di Srebrenica in quelle di Ratko Mladic. Ma anche in questi casi un po' di indignazione dell'opinione pubblica non è mancata.
  L'ultimo caso emerso, quello dei tunnel scavati da Hezbollah sotto il confine di Israele, per prendere alle spalle l'esercito israeliano e occupare una parte della Galilea, come del resto il movimento terrorista aveva spesso proclamato di voler fare, è assolutamente tipico. Costruire gallerie oltre un confine per invadere un paese è un atto di guerra evidente. Hezbollah ha costruito diversi di questi dispositivi bellici con gran dispendio di mezzi e di finanziamenti. L'ha fatto in un territorio (il sud del Libano) da dove diverse deliberazioni del consiglio di sicurezza dell'Onu (in particolare la numero 1701 del 2006) e anche l'armistizio alla fine dell'ultima guerra del Libano l'avevano escluso. L'Onu mantiene una forza internazionale (UNIFIL) che in teoria dovrebbe far rispettare questa zona di esclusione. Ma la forza internazionale, guidata per di più dall'Italia non ha visto niente - e allora è totalmente incompetente, perché gallerie del genere richiedono grandi lavori, macchine, operai. O più probabilmente non ha voluto vedere, ha fatto finta di non vedere, ed è dunque complice con un movimento terrorista riconosciuto come tale da numerosi paesi.
  Che succede a questo punto? Qualcuno dice che Hezbollah dev'essere respinto oltre il fiume Litani, secondo le delibere dell'Onu? Nessuno. Qualcuno chiede ragione a UNIFIL della sua complicità o inefficienza? Nessuno. La sola reazione di un paese come l'Italia profondamente coinvolto in questo pasticcio, è stata l'espressione di rincrescimento perché un politico italiano finalmente meno ipocrita degli altri (Salvini) ha definito gli Hezbollah "terroristi", cosa che sono non solo in senso generico, ma specificamente in questa faccenda dei tunnel, perché predisporre le strutture per attaccare la popolazione civile è già terrorismo. Dunque il ministero della difesa italiano non si vergogna del fatto che i nostri ufficiali facciano parte e un nostro generale sia comandante di una forza militare clamorosamente inetta o complice del terrorismo, ma si dispiace perché non se ne taccia. E naturalmente se Israele reagisce, o anche solo contiene con l'esercito i tentativi di invasione da Gaza, la colpa è sua.
  Perché le cose vanno così? La risposta è molto semplice. Israele non è la Svizzera, né il Belgio. E' lo stato degli ebrei e nel corso della storia europea degli ultimi mille e settecento anni sono stati molto rari i periodi in cui un ebreo poteva ottenere giustizia per le minacce e le violenze che subiva. Di più, Israele è un comodo scaricabarile: gli stati colonialisti come Gran Bretagna e Francia trovano molto comodo indicare un altro stato molto più piccolo, come il vero colonialista di oggi; gli eredi dei genocidi come i tedeschi e i loro volonterosi collaboratori sono ben contenti di inventare che le loro vittime di un tempo oggi fanno ad altri quel che hanno subito da loro. Tutti poi pensano che gli ebrei non sono terroristi e i musulmani sì, per cui è conveniente stare dalla parte dei musulmani, alla faccia di ogni giustizia.
  Però Israele è lì, continua a difendersi, si muove con abilità tenendo conto anche della vigliaccheria europea, non fa il gradasso come qualcuno vorrebbe ma neppure cede di un passo sulle cose sostanziali. Non solo la Svizzera ma qualunque stato europeo si sarebbe già arreso e lasciato smembrare di fronte agli attacchi che subisce Israele. E invece lo stato ebraico è più prospero e forte che mai: paradossi della storia.

(Progetto Dreyfus, 20 dicembre 2018)



Oggi a Beersheba quinta trilaterale Grecia-Cipro-Israele

Benjamin Netanyahu e sua moglie Sara hanno ospitato il presidente di Cipro Nicos Anastasiades e il primo ministro greco Alexis Tsipras nella loro casa mercoledì sera

Si svolge oggi nella città israeliana di Beersheba la quinta riunione trilaterale Grecia-Israele-Cipro, alla presenza dei premier Alexis Tsipras e Benjamin Netanyahu e del presidente Nicos Anastasiades. Come riportato dall'agenzia di stampa greca "Ana-Mpa", per la prima volta parteciperà alla riunione tra i tre governi anche l'ambasciatore statunitense in Israele, Melech Friedman, dimostrazione del sostegno di Washington a questo formato di cooperazione regionale. La cooperazione nel Mediterraneo orientale, in particolare nel campo dell'energia, della ricerca, dell'innovazione, della cybersicurezza e del turismo, sarà il tema dominante nella riunione odierna a Beersheba. Uno dei punti all'ordine del giorno è la firma di alcuni memorandum, come quello sulla cybersicurezza e sulle "smart cities". Grecia e Israele sigleranno inoltre un accordo bilaterale per l'esplorazione e lo sfruttamento dello spazio con scopi pacifici.

(Agenzia Nova, 20 dicembre 2018)


Siria, il ritiro annunciato da Trump lascia spazio alla Russia e all'Iran

La guerra all'Isis, missione incompluta

di Roberto Bongiorni

Cosa c'è dietro alla volontà di Donald Trump di ritirare le (poche) truppe americane presenti in Siria? Ricorrendo al consueto tweet, il presidente americano ha reso noto ieri quello che potrebbe essere un passo storico. Capace di avere delle serie ripercussioni sullo scacchiere geopolitico del Medio Oriente. «Abbiamo sconfitto l'Isìs in Siria. Era la mia unica ragione per restare lì».
   In aprile Trump aveva già informato il mondo di questa sua volontà. Sempre con un tweet. Ma negli ultimi 18 mesi ci ha anche abituati a plateali marce indietro. In realtà la guerra contro l'Isis non è stata vinta. Non ancora. È vero, l'Isis è ormai confinato in alcuni tratti della valle dell'Eufrate a ridosso dell'Iraq. Ha perso il 90% del territorio. Ma Iraq, Afghanistan, Somalia e altri teatri di guerra hanno insegnato che sconfiggere militarmente un movimento estremista islamico e poi andarsene subito dal territorio "liberato" significa correre un grande rischio.Ne sembra convinto il ministro britannico della Difesa, Tobias Ellwood. Lui non ha esitato a essere «in fermo disaccordo» con la decisione di Trump. «La minaccia è ancora molto viva», ha precisato.
   La decisione di Trump, se mai si trasformerà in realtà, sembra rispondere più alla volontà di recuperare i rapporti (quasi compromessi) con la Turchia. Comunque di non farli degenerare. Ankara si preparerebbe infatti a lanciare la terza offensiva militare dall'agosto 2017 contro le milizie curdo siriane (Ypg), che controllano i territori siriani settentrionali. Da anni il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha criticato la presenza in quell'area ( ed il sostegno) delle truppe americane a fianco delle Ypg, impegnate nella guerra contro l'Isis. Agli occhi di.Ankara le milizie curde altro non sono che terroristi.
   Non è difficile pensare come si sentano in questo momento gli alleati curdo siriani. Loro, che avevano combattuto sul terreno nella coalizione internazionale contro l'Isis, pagando un prezzo pesante in termini di vite umane ma ottenendo grandi successi militari. Senza la presenza americana, le Ypg si trovano tra l'incudine (la Turchia, a nord) e il martello (l'esercito siriano a sud e a occidente). Entrambi decisi a ridimensionare la presenza curda e a impedire che vengano gettate le basi per la creazione di un'enclave quasi indipendente nel Nord (i curdi siriani, che ora potrebbero cercare un accordo con Damasco, non hanno però mai parlato di secessione).
   Per quanto sia composta solo da duemila soldati - dispiegati quasi tutti nella citta di Manbij - la presenza americana in Siria ha rivestito un'importanza strategica. Per una serie di ragioni. Innanzitutto faceva da tappo ad una potenziale espansione iraniana nel nord del Paese. In secondo luogo ritirarsi dalla Siria, significa sancire il ruolo della Russia come la sola potenza mediatrice (già lo era), capace di determinare il destino del Paese. Ecco perché questa decisione non piace al Dipartimento di Stato, e ancora meno al Pentagono. Quest'ultimo è convinto che «c'è ancora del lavoro da fare». Ai loro occhi ritirare i marines significa abbandonare la Siria nelle braccia di due nemici: la Russia e l'Iran. Senza esporsi, la pensa così anche Israele.

(Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2018)


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Trump ritira i soldati dalla Siria. Iran e Stato islamico festeggiano

Il presidente dice che "l'Isis è stato sconfitto", ma conta ancora migliaia di uomini. I generali volevano l'opposto. Curdi abbandonati a Erdogan.

di Daniele Raineri

NEW YORK - Il presidente Donald Trump ieri ha annunciato il ritiro delle truppe americane dalla Siria. "Abbiamo sconfitto lo Stato islamico in Siria, era la mia unica ragione per rimanere laggiù durante la presidenza Trump", ha tuittato. Non si conoscono ancora i tempi, ma il ritiro sarà "completo e immediato", anche se il Pentagono è contrario.
   Le truppe americane in Siria sono poche, circa duemila sparse in alcune basi e aeroporti militari, ma sono la spina dorsale di quel dispositivo fatto di intelligence, raid di forze speciali, bombardamenti e appoggio agli alleati locali (le milizie curdo-arabe) che in tre anni ha spazzato via lo Stato islamico inteso come entità territoriale. E' dalle basi in Siria che gli uomini della ETF, Expeditionary Targeting Force, partono per missioni veloci che sono cruciali per catturare o uccidere i leader dello Stato islamico-sempre con gli occhi puntati sul bersaglio più importante, AbuBakr al Baghdadi, Sono le basi americane in Siria che a partire dall'ottobre 2015 hanno dato alle milizie curde le garanzie, la sicurezza e la sensazione di avere la necessaria copertura internazionale per dedicarsi in pieno alla guerra contro lo Stato islamico - un compito che hanno svolto egregiamente, considerato che hanno espugnato la capitale siriana del gruppo terrorista, Raqqa, e hanno liberato dai fanatici tutta la Siria orientale fino al confine con l'Iraq. L'ultima striscia di terra in mano allo Stato islamico attorno alla cittadina di Hajin è caduta una settimana fa.
   Il contingente americano era partito con soli cinquanta uomini ma è presto aumentato fino a duemila perché non soltanto era essenziale nella campagna contro gli estremisti, ma con la sua presenza teneva a bada la Turchia - che considera insopportabile la presenza di un territorio amministrato da milizie curde al di là del confine - e sorvegliava le milizie filoiraniane, che nella parte di Siria controllata dal presidente Bashar el Assad sono fortissime e sono causa di continui piccoli episodi di guerra con Israele. Nessun altro paese avrebbe potuto impegnare un livello così avanzato di forza militare (trecentomila missioni aeree, per esempio).
   Il ritiro delle truppe americane dalla Siria ordinato da Trump è un grande regalo allo Stato islamico. Siamo ai livelli della "mission accomplished" di Bush nel 2003 e del ritiro di Obama dall'Iraq nel 2011, due illusioni di vittoria che-viste con il senno di poi - erano molto premature e sono state il preludio di un peggioramento della situazione. Forse peggio. Lo Stato islamico anche se disperso conta ancora migliaia di uomini - fino a trentamila divisi fra Iraq e Siria secondo una stima del Pentagono pubblicata ad agosto - ed è pericoloso. Pur dopo tutte le recenti sconfitte è ancora agli stessi livelli dello Stato islamico in Iraq nel 2007-2009, quando gli estremisti controllavano di fatto alcune aree dell'Iraq e uccidevano decine di soldati americani ogni mese. E come abbiamo visto una settimana fa a Strasburgo ha ancora la capacità di ispirare volontari occidentali a uccidere in suo nome. In Siria c'era l'occasione di infliggergli danni forse definitivi e invece si apre una nuova fase, molto promettente per il gruppo terrorista.
   E' difficile conciliare questo ritiro americano con l'idea che questa Amministrazione voglia davvero, come ha detto molte volte, applicare la massima pressione per respingere l'influenza iraniana sulla regione.
   E pensare che a metà settembre l'Amministrazione Trump aveva annunciato che i soldati sarebbero rimasti in Siria a tempo indefinito, per fare la guerra allo Stato islamico, sradicare le milizie iraniane dal paese e fare pressione per un cambio di governo a Damasco. Nel giro di tre mesi tutti, alleati e nemici, constatano che si trattava di parole vuote. L'America abbandona il campo.

(Il Foglio, 20 dicembre 2018)


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Il popolo curdo sacrificato ancora una volta sull'altare della realpolitik

E' successo ancora, come quando c'era Saddam Hussein o come in occasione del referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno, il popolo curdo venduto al nemico da chi diceva di essergli alleato.
   Il ritiro delle truppe USA dalla Siria annunciato da Trump significa lasciare campo libero ai macellai islamici di Erdogan per fare quello che il satrapo turco va annunciando ormai da giorni: attaccare il Kurdistan siriano e fare piazza pulita dei combattenti curdi che fino a ieri hanno combattuto e vinto lo Stato Islamico.
   Nonostante il parere negativo del Pentagono, il Presidente Trump ha deciso di cedere alle richieste del nazista turco e, per quanto se ne sa, senza nessuna garanzia per il popolo curdo, nessuna garanzia sul fatto che le milizie islamiche al soldo di Erdogan che affiancano l'esercito turco (diverse migliaia di fanatici islamici non diversi dall'ISIS) non compiranno atrocità contro i civili....

(Rights Reporters, 20 dicembre 2018)


Papà Totocalcio

«L'idea di mio padre fu un successo che arricchì l'Italia». Parla il figlio di Massimo Della Pergola

Con il concorso voleva risollevare lo sport italiano Visti gli introiti, Andreotti nazionalizzò il concorso Mio padre protestò, ma ebbe solo un indennizzo

di Massimo Lopes Pegna

NEW YORK - Sta festeggiando le nozze d'oro con sua moglie in Spagna, Sergio Della Pergola, professore all'Università di Gerusalemme e massimo esperto di demografia (consigliere in materia anche dei due ex primi ministri Sharon e Olmert). Ma oggi la sua preziosa consulenza è richiesta per ben altre ragioni: è il figlio di Massimo, l'inventore del Totocalcio. Era ignaro di quanto sta accadendo in Italia, lui nato a Trieste (come papà), cresciuto a Milano ed emigrato in Israele, fino a quando il cellulare ha cominciato a squillare. «Sono sorpreso. Faccio una riflessione sociale: è una pagina dell'Italia che si chiude, mentre se ne apre un'altra. Un cambiamento di clima del Paese. Poi si può discutere se in bene o in male, non entro nel merito della questione politica. Lo trovo, però, clamoroso».

- Invece suo padre come avrebbe reagito?
  «Sarebbe rimasto addolorato. Ebbe questa illuminazione idealistica 75 anni fa. Voleva rimettere in piedi lo sport italiano e produrre uno strumento di pubblica utilità per portare gioia agli italiani colpiti dalla guerra. Aveva creato un fatto di costume straordinario, al di là del fenomeno sportivo. Sarebbe sconcertato, la schedina era come una figlia».

- Come gli era venuta quell'idea?
  «Sdraiato su una branda in un campo profughi in Svizzera, a Pont de la Morge, dove ci eravamo rifugiati dopo essere scampati alle persecuzioni e morte sicura. Voleva realizzare un concorso pronostici sul calcio. Già ne esistevano, come in Inghilterra, ma sui risultati e sui punteggi delle partite. La vera invenzione di papà fu il celebre 1-X-2: casa-pareggio-fuori. L'intuizione, che ritengo geniale, fu la X, perché poteva essere 1-2-3, a-b-c. Con gli introiti del Totocalcio pensava a come costruire stadi e infrastrutture dello sport italiano».

- Ma come: nel '38 suo padre, giovane cronista ebreo a Trieste, era stato radiato dall'ordine dei giornalisti a causa delle leggi razziali e lui dall'esilio pensava al benessere del suo Paese?
  «Quando lo espulsero sul suo giornale scrissero: ora senza ebrei si respira un'aria più pura. Ma lui soffriva a vedere l'Italia distrutta. Pensò a come rimetterla in piedi, almeno nello sport. Aveva persino immaginato di creare coi proventi del suo gioco una banca dello sport che potesse dare assistenza anche agli atleti bisognosi e fosse di supporto all'intero sistema».

- E quell'idea forse un po' folle come si concretizzò?
  «Quando si trasferì a Lugano, costituì la Sisal con due amici che lo aiutarono con i fondi iniziali. Però quando provò a brevettare l'1-X-2, gli fu detto che numeri e lettere non potevano essere registrati. La Sisal diventò l'ossessione nazionale degli italiani. Senza brevetto ebbe tanta gloria, ma economicamente raccolse molto poco».

- E fu subito un successo?
  «No. Quando partì nel maggio '46, al principio il rendimento fu scarso. Ma alle ultime due giornate del campionato '47- 48 ci fu un'impennata che svegliò l'appetito dello Stato. La figura guida era l'allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega allo sport, Giulio Andreotti. Nazionalizzò il concorso, riprendendolo dalla gestione Sisal, e lo passò a quella diretta del Coni. Nonostante la protesta di papà, non ci fu niente da fare. Ci fu un processo, lui e i soci ebbero un indennizzo, ma niente a che vedere coi guadagni del Totocalcio».

- Per la Sisal suo padre rinunciò anche alla direzione della Gazzetta dello Sport.
  Ride. «Il direttore del dopo guerra, Bruno Roghi, lo assunse come caporedattore. Lo aveva notato per le sue cronache di calcio sui giornali del Ticino. In verità, usava lo pseudonimo Maximus, perché come rifugiato non gli veniva concesso di firmare col suo nome. A Roghi quel giovane piaceva molto e gli predisse un futuro da direttore al suo posto. Ma la Sisal stava crescendo e l'amore per quel progetto ancora in erba lo convinse a dare le dimissioni. Oggi sarebbe molto triste».

(La Gazzetta dello Sport, 20 dicembre 2018)


Commissione Ue finanzia ong antisemita

La Commissione europea è stata accusata dal quotidiano britannico The Daily Telegraph di aver finanziato un'organizzazione non governativa di chiaro stampo antisemita con una somma che supera i 155mila euro.
   L'ong si chiama Islamic Human Rights Commission (IHRC), ha sede a Londra, ed è sempre stata considerata dalle Commissione Ue una normale "organizzazione no profit" che si batte per "l'eliminazione di ogni forma di discriminazione fondata su pregiudizi politici, razziali e religiosi".
   In realtà è un'ong che sostiene la distruzione di Israele e organizza conferenze antisemite e antioccidentali. Per scoprire l'inganno non bisogna essere detective, né persone particolarmente acute.
   Basta una semplice ricerca sul web per scoprire che l'Islamic Human Rights Commission, l'8 dicembre scorso, ha organizzato l'"Islamophobia Conference 2018: Silencing Criticism of Israel", una conferenza in cui si è partiti dal presupposto della natura razzista del sionismo e di un suo collegamento molto forte con l'estrema destra.
   Conferenza pubblicizzata sia sul sito web che sui canali social dell'IHRC: quindi non informazioni riservate ma pubbliche.
   E la Commissione Ue cosa fa? Finanzia questa ong perché convinta che si batta per sconfiggere la discriminazione di ogni genere.
   Un portavoce della Commissione ha dichiarato al Sunday Telegraph che si stanno esaminando attentamente le accuse e si avviando una procedura per risolvere la questione legata al finanziamento dell'IHRC:
"Stiamo esaminando attentamente le accuse secondo cui una delle organizzazioni coinvolte aveva espresso opinioni antisemitiche. I servizi della Commissione hanno avviato la procedura di risoluzione della convenzione di sovvenzione con l'organizzazione in questione (IHRC)".
Un intervento tardivo, che porta a domanda: la Commissione Ue ha volutamente finanziato questa ong antisemita oppure la decisione dei finanziamenti non si basa su un'accurata analisi dei beneficiari?
   Chissà quante altre organizzazioni simili vengono finanziate distrattamente dalla Commissione Ue…

(Progetto Dreyfus, 20 dicembre 2018)


In Israele arrivano da tutta Europa: sono i profughi del nostro antisemitismo

Avvocati inglesi, donne francesi, studenti tedeschi

di Giulio Meotti

ROMA - "L'Europa secondo me è finita", ha dichiarato Mark Lewis al canale 10 israeliano, dopo essere atterrato con la compagna Mandy Blumenthal all'aeroporto di Tel Aviv. "Persone uccise nei musei in Belgio, persone uccise nelle scuole in Francia, persone attaccate in Inghilterra. C'è solo un posto dove gli ebrei possono andare", ha aggiunto Lewis. E quel posto è Israele. Lewis, 54 anni, uno dei principali avvocati del Regno Unito, alla Bbc ad agosto aveva detto: "Jeremy Corbyn ha spostato la roccia e gli antisemiti sono strisciati fuori. C'è stato un cambiamento di clima totale. E' diventato accettabile essere antisemiti". Proprio ieri, in Inghilterra, un funzionario del Partito laburista è stato sospeso per alcuni commenti sui social in cui accusava gli ebrei di orchestrare i conflitti mondiali. Mohammed Yasin, responsabile del Labour di Corbyn nelle West Midlands, aveva scritto che "gli ebrei sono responsabili di tutte le guerre nel mondo" (quello di Yasin è soltanto l'ultimo caso di dirigenti laburisti sospesi o finiti sui media per commenti antisemiti). Sempre ieri è stata aperta un'inchiesta a Sarcelles, nella Val-d'Oise francese, dopo l'assalto a una donna nel quartiere noto come la "Piccola Gerusalemme", per via di una grande comunità ebraica. E' stata picchiata, le hanno rotto il naso e urlato: "Sporca ebrea".
   I timori di Lewis sono giustificati anche a giudicare da dove è finito lo studente tedesco su cui i giornali avevano tanto scritto, un anno fa. Lo studente quattordicenne di Berlino era stato vittima di aggressioni da parte dei compagni di scuola in un istituto del quartiere a Berlino, Friedenau, che faceva parte del network "Scuola contro il razzismo". Molti degli alunni hanno origini turche o arabe. "Gli ebrei sono tutti assassini", dice uno studente al ragazzo. Lo studente viene preso per il collo da altri due, che gli puntano contro una pistola giocattolo. Un altro studente durante una discussione sul conflitto in medio oriente dice: "Se ci fosse uno studente ebreo in classe, lo ucciderei". La scuola di Berlino gli vieta di cambiare classe nella scuola per non stabilire un precedente. "Potevo fidarmi del mio amico arabo Hussein", racconterà lo studente, aggiungendo che i due "avevamo un segreto: io sono ebreo e lui è gay".
   Nella stessa zona, a Friedenau, il rabbino Daniel Alter è stato picchiato per strada sotto gli occhi della figlia. Klara Kohn, figlia di sopravvissuti ad Auschwitz, è stata schernita dagli studenti di una scuola di Hannover che hanno cantato "ebrei al gas". Un problema enorme per la Germania, tanto che Heinz-Peter Meidinger, capo dell'associazione degli insegnanti tedeschi, ha affermato al Wall Street Journal "che nelle scuole di Berlino i bambini provenienti da famiglie di migranti sono tra il 70 e il 100 per cento degli studenti". Sulla Welt di questa settimana, Henryk Eroder, intellettuale ebreo-tedesco di rango, ha scritto: "Noti ricercatori dell'antisemitismo affermano (falsamente) che i musulmani sono gli ebrei di oggi e che 'l'islamofobia' è un 'parente strutturale' dell'antisemitismo. Il problema non sono gli antisemiti, sono i simpatizzanti, chi mostra comprensione". Che fine ha fatto lo studente berlinese? Lo ha rivelato ieri il settimanale Spiegel, Liam Ruckert, questo il suo nome, è fuggito in Israele e ora studia al Mosenson Youth Village, non lontano da Tel Aviv. "Mi sento molto a mio agio in Israele", dice Liam, "ho fatto l'alyah e voglio restare". I suoi compagni vengono dall'Italia, dai Paesi Bassi e dalla Germania. "Da ebreo era insopportabile rimanere in Germania", dice Liam allo Spiegel. Dell'antisemitismo tedesco, Liam non ne parla volentieri. "Questo è il passato. Qui in Israele posso essere libero come ebreo e non ho paura dell'antisemitismo. Non voglio tornare".
   A un visitatore in Israele non passa certo inosservata la quantità di lingue europee che si sentono a Tel Aviv, a Netanya o a Gerusalemme. Sono i profughi europei in fuga dal nuovo antisemitismo.

(Il Foglio, 20 dicembre 2018)


La tragedia degli ebrei scacciati dal Medio Oriente

di Elena Loewenthal

Fu un esodo massiccio e terribilmente traumatico, ma sino a qualche anno fa se ne è parlato poco o nulla. Da qualche tempo se ne celebra in Israele la memoria alla fine di Novembre, e cioè all'indomani di quella risoluzione Onu che il 29 Novembre del 1947 sancisce la spartizione della regione in due stati palestinesi: uno per gli ebrei e l'altro per gli arabi. Fu allora che cominciò il dramma degli ebrei dei paesi arabi che, vuoi alla spicciolata vuoi in massa, furono costretti a lasciare le proprie cose e non di rado una storia millenaria, in nome del conflitto arabo israeliano. Da quel momento, infatti, gli ebrei, per secoli e millenni variamente integrati nell'universo islamico, divennero i «nemici» per antonomasia.
   Ne parla ora Vittorio Robiati Bendaud nel suo La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell'Islam. (Con una nota introduttiva di Antonia Arslan) (Guerini, pp. 239, € 18,50), che ripercorre quasi due millenni di storia e un vastissimo universo geografico. Circa ottocentocinquantamila ebrei subirono questa storia, in un progressivo inasprirsi delle condizioni di vita, nella privazione dei diritti, nella cacciata vera e propria. Che in moltissimi casi pose fine a una lunga storia di integrazione. A volte conflittuale, ma con una lunga linea di continuità che traccia anche i fondamenti del pensiero ebraico «classico», formatosi sotto l'Islam.
   A Baghdad negli anni Trenta un cittadino su quattro era ebreo, e gli ebrei iracheni rivendicavano un'ascendenza che risaliva al primo esilio di Babilonia. Erano bene integrati in tutti i tessuti sociali, nelle professioni, nella vita economica e culturale del paese. Avevano per lingua madre un arabo quasi classico, screziato qua e là di termini ebraici. Si definivano con orgoglio «ebrei arabi». Poi nel 1941, in nome di una vaga adesione del regime ai principi del nazismo, ci fu il farhud, un primo pogrom. Dopo questa prima ondata di violenze che costò la vita a decine di persone, cominciò una serie di vessazioni, di velate minacce, di espulsioni dal tessuto sociale e professionale del paese. Dal 1948 iniziarono le confische dei beni ebraici. Oggi in Iraq, così come in gran parte dei paesi islamici, di comunità non ce ne sono quasi più.
   Robiati Bendaud affronta questa storia a tutto tondo passando da Cordoba a Damasco, dall'Algeria all'Egitto, perché in fondo queste sono tante storie quante sono le comunità che dovettero lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare daccapo, in Israele e in tanti altri luoghi del mondo, coltivando una memoria sommessa del dramma vissuto che solo in questi ultimi anni sta venendo alla luce.

(La Stampa, 20 dicembre 2018)


Il presidente della Moldova ringrazia Netanyahu per l'assistenza finanziaria e socio-umanitaria

CHISINAU - Nel corso della visita in Israele il presidente della Moldova, Igor Dodon, ha ringraziato il premier di Israele, Benjamin Netanyahu per l'assistenza socio-umanitaria e finanziaria. Dodon lo ha scritto sulla sua pagina di Facebook proprio al termine dell'incontro con Netanyahu. "Ho ringraziato il governo israeliano per l'assistenza finanziaria e socio-umanitaria concessa alla Moldova in diverse aree. Ci sarebbe bisogno di un aumento degli scambi tra i nostri paesi e di valorizzare le opportunità per approfondire la cooperazione bilaterale. Nel 2017 le esportazioni moldave verso Israele costituivano solo 3,8 milioni di dollari, due volte in meno rispetto al 2016", ha scritto Dodon sottolineando il fatto che Chisinau è interessata a promuovere una politica estera equilibrata e chiedendo il sostegno del governo di Israele al fine di rafforzare lo status di neutralità permanente della Moldova. Allo stesso tempo, il presidente moldavo ha proposto di organizzare un forum economico moldavo-israeliano con il coinvolgimento di rappresentanti delle comunità d'affari dei due paesi.

(Agenzia Nova, 19 dicembre 2018)


Antisemitismo in Qatar, testi contro gli ebrei alla fiera del libro di Doha

L'antisemitismo e il paradosso sono stati fatti correre sugli stessi binari. In parallelo, come in lento e inesorabile tragitto, fatto di pregiudizi e falsità, che sono andati in scena in Qatar, alla 29esima edizione della Fiera internazionale del libro, dove sono stati promossi diversi testi antisemiti dai titoli inequivocabili:
  • La Moschea di Al-Aqsa e il presunto Tempio;
  • Le menzogne diffuse dagli ebrei;
  • Il Talmud dei segreti: fatti che svelano i complotti ebraici per controllare il mondo;
  • Il mito delle camere a gas naziste;
  • La storia della corruzione degli ebrei e la fine della loro entità.
Agli organizzatori non bastava esibire l'antisemitismo come un trofeo, ma l'hanno voluto accompagnare a un paradosso che sa di presa in giro.
   Il titolo dell'edizione 2018, infatti, era "Doha, città di coscienza e di conoscenza".
   E quale coscienza ci può essere se viene negata la Shoah? Quale conoscenza ci può essere se il Tempio di Gerusalemme viene equiparato a un'invenzione della storia?
   Nella presentazione della Fiera, presente sul sito di riferimento, è scritto che "la Fiera internazionale del libro di Doha non è solo un mercato per la circolazione e il commercio del libro, è uno spazio per lo scambio di culture e lo scambio di conoscenze, è un momento per il dialogo e l'ascolto dell'altro… essa stabilisce anche uno sguardo speciale di coscienza… l'etica della convivenza e della coscienza umana, che è il segno vivente dell'amore per la lettura".
   Dialogo, ascolto, etica, convivenza sono termini a cui la Fiera del libro di Doha ha scippato l'essenza e il significato, piegandoli al proprio volere contravvenendo a tutti i valori promossi.
   Perché quando c'è di mezzo il popolo ebraico i valori promossi, troppo spesso, sono l'odio e la falsità.

(Progetto Dreyfus, 19 dicembre 2018)


Israele, parte la stagione delle maratone

Mentre sono ancora in corso le iniziative legate al Natale, Israele già pensa al 2019. L'inverno, con sole e temperature miti, è la stagione perfetta per visitare Israele. Gli sportivi avranno un motivo in più: l'apertura, il 4 gennaio, della stagione delle maratone, con professionisti e appassionati da tutto il mondo attirati dalla ricchezza storica del Paese. «I principali appuntamenti con la corsa, che si protrarranno fino al 17 maggio, saranno un'occasione per competere in gare internazionali e conoscere diversi volti di Israele», ha detto Avital Kotzer Adari, direttore dell'ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia.
   Da Gerusalemme e Tel Aviv, fino alla natura incontaminata del Nord e alle spiagge di Eilat. Si parte il 4 con la 42a edizione della maratona di Tiberiade, la più bassa del mondo a 200 metri sotto il livello del mare nella valle del Giordano lungo la costa del mar di Galilea. Il 25 gennaio a Eilat c'è Israman, corsa Ironman tra i 10 eventi di triathlon lungo più impegnativi al mondo: 3,8 km di nuoto e 180 di bici seguiti da una corsa di 42,2 km. Oltre 40mila corridori sono attesi il 22 febbraio per la Tel Aviv Samsung Marathon: percorso urbano per le strade della città.
   La maratona di Gerusalemme è il 15 marzo: 20mila corridori per un tracciato lungo 2mila anni di storia: dai ciottoli della città vecchia alle mura, fino al moderno centro. Per finire, il 16 e 17 maggio c'è la staffetta Mountain to Valley, nel nord: 215 km tra sfida personale e gioco di squadra, correndo giorno e notte in aree rurali fino alla valle di Yizrael.

(L’Agenzia di Viaggi, 19 dicembre 2018)


Australia - Laburisti: riconosceremo lo Stato di Palestina

Il riconoscimento della Palestina come stato indipendente sarà "un'importante priorità" per un futuro governo laburista, che secondo i sondaggi succederà ai governi conservatori degli ultimi sei anni, nelle elezioni federali previste per il prossimo maggio.
   Lo stabilisce una risoluzione approvata dalla conferenza nazionale del partito laburista che si è conclusa ieri a Adelaide - la posizione più netta finora adottata nella storia del partito.
   La risoluzione sostiene "il riconoscimento e il diritto di Israele e della Palestina a esistere come due stati entro confini sicuri e riconosciuti" e "chiede al prossimo governo laburista di riconoscere la Palestina come stato".
   Nel raccomandare alla conferenza la nuova posizione politica, la ministra ombra per gli Esteri, Penny Wong, ha detto che "il partito laburista è amico di Israele e amico della Palestina", che vuole non solo trattare con il mondo così come è, ma anche "cercare di cambiarlo per il meglio".
   La nuova posizione laburista sulla Palestina fa seguito alla decisione del governo conservatore di Scott Morrison di diventare uno dei pochi al mondo a riconoscere formalmente Gerusalemme Ovest come capitale di Israele. L'ambasciata australiana non sarebbe tuttavia trasferita da Tel Aviv finché non sarà raggiunto un accordo di pace.
   Il riconoscimento della Palestina è da anni una questione controversa e l'accordo raggiunto stavolta fra le correnti di sinistra e di destra riflette la determinazione del partito di presentare un fronte unito, specie alla luce del caotico dibattito scoppiato tra i conservatori sul possibile trasferimento dell'ambasciata australiana a Gerusalemme.
   La conferenza ha inoltre approvato una risoluzione che impegna un futuro governo laburista ad aumentare gli aiuti internazionali durante il primo anno, adottando un obiettivo da raggiungere gradualmente dello 0,5% del Pil, e a promuovere su scala internazionale un trattato per la messa al bando delle armi nucleari.

(tvsvizzera.it, 19 dicembre 2018)


Libano: Hezbollah e Iran stanno portando il paese verso l'abisso

Hezbollah e Iran stanno portando il Libano verso l'abisso. Le reazioni internazionali seguite alla scoperta dei tunnel terroristici che sbucavano in Israele sono state sorprendenti anche per gli analisti più esperti e rischiano di isolare ancora di più il paese dei cedri.
   La Russia di Putin, l'ONU, persino l'Arabia Saudita e i paesi del Golfo hanno condannato i tunnel di Hezbollah.
   Molti giornali libanesi hanno incredibilmente e coraggiosamente accusato gli Hezbollah e l'Iran di voler trascinare il Libano in una guerra con Israele mentre il paese è sempre più in crisi economica e politica con il Premier Saad Hariri che non riesce a formare un Governo per la pretesa di Hezbollah di avere un ministero di peso....

(Rights Reporters, 19 dicembre 2018)


Addio Totocalcio, ultima speranza

La schedina sta per andare in pensione, anche se funzionava e agli italiani piaceva.

di Vittorio Macioce

 
Non c'è più la speranza, o forse ha cambiato nome. La schedina sta per andare in pensione e con lei tramonta anche un altro pezzo di mondo.
   La notizia arriva mentre si sta qui a vedere oscillare una manovra economica che appare e scompare, con Roma che chiama Bruxelles per rifare sotto dettatura conti su conti. È qui, in queste giornate da mercante in fiera, che arriva al capolinea la lunga storia del Totocalcio. L'ultima stazione è un emendamento, scritto dagli stessi relatori della legge finanziaria, quindi di fatto approvato, Totogol, il «9» e appunto la vecchia schedina, quella di 1 X 2, con gli azzardi fuori casa, la monotonia dei pareggi, i sistemi fatti a mano, senza algoritmi e matematici di professione. Al suo posto ci sarà un nuovo gioco, tutto da inventare, ma con la promessa di grillini e leghisti di farlo etico e divertente, gestito sempre dallo Stato, senza dipendenze e ludopatie, tanto che potrà essere pubblicizzato in deroga a quel decreto dignità che limita gli altri giochi d'azzardo.
   È vero. Il Totocalcio da decenni è fuori moda, ci giocano quelli dei bar di una volta, magari un po' nostalgici o i quei simpatici burloni che vanno controtempo e controcorrente, solo che ti resta sempre un po' di malinconia quando si manda al macero una leggenda.
   È una di quelle storie che non sembrano vere. La guerra è finita da un anno e un giornalista ebreo della Gazzetta dello Sport, che era sfuggito alle leggi razziali trovando rifugio in Svizzera, si inventa un gioco sul calcio e la fortuna, un modo per scommettere alla buona sulle partite del campionato. Si chiama Massimo Della Pergola [padre dello statistico italo-israeliano Sergio Della Pergola, ndr] . La prima schedina è del 5 maggio 1946, costa 30 lire, si vince ancora con il 12, quel giorno il Genoa pareggia con il Como, il Novara batte il Legnano e a vincere è un signore di Milano, originario di Roma, un certo Emilio Biasotti, che si mette in tasca 496.826 mila lire. Il colpo da maestro è di aver puntato sulla vittoria dell'Inter contro la Juventus, con gol di Romano Penzo al 4 minuto del secondo tempo. Uno fisso: era un altro 5 maggio.
   La schedina funzionava e infatti lo Stato disse a Della Pergola: grazie, ci pensiamo noi. La gestione passò al Coni, che con quei soldi ci organizzò le meravigliose Olimpiadi di Roma. È l'Italia che crede nei miracoli e si affida, a partire dagli anni '50, alla speranza di un 13. Il 13 che da noi non porta sfortuna, ma è il numero che ti cambia la vita. Il 13 è la soddisfazione e il sogno di poter dire a chi ti taglia lo stipendio «me ne vado», con tanto di gesto dell'ombrello.

(il Giornale, 19 dicembre 2018)



"Gilet gialli" alla Knesset: "costo della vita insostenibile"

GERUSALEMME - Il movimento dei "gilet gialli" francesi sembra aver contagiato ormai anche in Israele. I leader della protesta, infatti, hanno preso parte a una riunione della commissione parlamentare per l'Economia della Knesset, minacciando "proteste senza precedenti" se il prezzo dell'elettricità dovesse aumentare "di un solo shekel", la valuta ufficiale di Israele. Il presidente della commissione, Eitan Cabel, ha stretto la mano agli organizzatori della protesta, mostrandosi aperto al dialogo: "La vostra battaglia è la nostra lotta", ha detto il parlamentare israeliano, citato dal quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Secondo David Mizrahi, uno dei leader dei "gilet gialli" israeliani, il costo della vita è diventato ormai insostenibile per molte famiglie.
   La protesta arriva alla vigilia di una nuova ondata di rincari nello Stato ebraico. Secondo la stampa israeliana, i prezzi dei prodotti lattiero-caseari potrebbero salire del 2-5 per cento, i prezzi del pane del 3,5 per cento, mentre la bolletta elettrica potrebbe aumentare del 7 per cento circa. Il governo, da parte sua, ha nominato l'economista Yaron Zelika per guidare una commissione "ad hoc" tesa a ridurre il costo della vita, ma gli aumenti dovrebbero entrare in vigore comunque prima che il lavoro degli esperti dia i suoi frutti.
   La scorsa settimana, ispirati dalle rivolte di Parigi, numerosi israeliani sono scesi nelle strade di Tel Aviv indossando gilet gialli per protestare contro i previsti aumenti dei prezzi.
   Secondo l'emittente televisiva "Channel 10", la protesta sarebbe stata organizzata dalle stesse persone che da oltre un anno organizzano proteste settimanali contro il primo ministro Benjamin Netanyahu.

(Agenzia Nova, 18 dicembre 2018)


È il paese di Anna Frank. Ma odia gli ebrei

Antisemitismo maomettano in Olanda

Sta facendo discutere in Olanda la ricerca effettuata dal "Centrai Jewish Consultation", dal "JMW Jewish Welfare" e dal programma televisivo "Een Vanddag" in merito alla situazione degli ebrei olandesi. Su un campione di 557 intervistati, il 43% ha dichiarato di dissimulare almeno in pubblico la propria identità ebraica.
  Se un tempo nel paese dei tulipani gli ebrei uscivano di casa indossando tranquillamente la loro kippah, oggi molti di loro, per motivi di sicurezza, indossano un qualsiasi cappello per nascondere il tradizionale copricapo. Per gli ebrei olandesi è diventato importantissimo coprire ogni segno di appartenenza in modo da evitare le sempre più frequenti aggressioni antisemite. Per contro le lunghe barbe salafìte, il "kamis", il "niqab" e tutto l'abbigliamento islamico maschile e femminile, possono tranquillamente manifestarsi ovunque. A nessuno salterebbe in mente di aggredire un islamico.

 Insulti e aggressioni
  Il 52% degli intervistati ha dichiarato che «l'antisemitismo da strada» è diventato ormai comune. Il 59% ritiene che questo sentimento sia diffuso anche nei media, mentre l'82% si dichiara impressionato dall'odio antisemita sul web. Il 34% ha raccontato di esser stato insultato per strada e nell'89% dei casi gli insulti si riferivano all'identità ebraica. Inoltre, l'11 % degli intervistati ha raccontato di aver subito delle aggressioni, mentre tre quarti del campione intervistato ha raccontato delle orrende barzellette antisemite e delle offese gridate per strada. Se gli ebrei olandesi se la passano malissimo, l'islam turco dilaga in Olanda. Le ultime stime parlano di almeno 140 moschee, oggi, sotto il diretto controllo della Direzione
  Affari religiosi della Repubblica di Turchia (Diyanet), che paga la costruzione di moschee, invia gli imam istruiti nelle scuole "Imam-Hatip" promosse con forza da Recep Tayyip Erdogan e finanzia le associazioni islamiche in tutta Europa.
  Non è raro ascoltare nelle moschee turche in Olanda sermoni dove si spiega che «I nostri soldati mostrano al mondo intero che stiamo sacrificando tutto per proteggere la nostra fede, bandiera e nazione. Ogni figlio del nostro paese che, nel potere della sua vita, beve il dolce nettare del martirio, ci grida che colui che muore per la via di Allah, non lo chiama mai morto, ma lo chiama vivo».

 Partito di Allah
  La ricerca di spazi e di legittimazione islamica coinvolge anche la politica e in tal senso è nato poco prima delle ultime elezioni, il partito islamico "Denk" che ha ricevuto un terzo del voto musulmano e che oggi ha tre seggi in Parlamento. Il partito è una sorta di spin-off dell' Akp di Erdogan quindi guai a parlare male del Sultano o a nominare il genocidio degli armeni, avvenuto durante la Prima Guerra mondiale. Denk, un perfetto esempio di come si sviluppano le società parallele islamiche in tutta Europa.
  Tanto per capire l'aria che tira ad Amsterdam e dintorni, c'è l'email del luglio scorso di Hussein Jamakovic (oggi ex attivista di Denk) mandata alla redazione del giornale Telegraaf: «Possiate avere il cancro, sudici ebrei». In precedenza, alle 4 del mattino del 26 giugno 2018, un furgone era stato spinto fino all'ingresso del Telegraaf dove prese fuoco, per fortuna senza fare vittime. Naturalmente il colpevole non è stato trovato. S.P.

(Libero, 18 dicembre 2018)


Passo indietro di Airbnb: non rimuoverà gli annunci di case in Cisgiordania

Marcia indietro di Airbnb in Israele: la piattaforma ha annunciato di aver sospeso per il momento la rimozione dalle proprie liste delle circa 200 abitazioni offerte in affitto in insediamenti ebraici in Cisgiordania. L'annuncio - secondo la emittente televisiva israeliana Canale 10 - è giunto dopo un incontro a Gerusalemme fra il ministro del turismo Yariv Levin ed un dirigente di Airbnb, Chris Lehane. Airbnb ha fatto sapere che porterà avanti il dialogo con il governo israeliano.
"L'annuncio di Airbnb che non attuerà la decisione di non offrire appartamenti in Giudea-Samaria (Cisgiordania) - ha commentato Levin - è un passo importante nella direzione giusta". In precedenza il governo israeliano aveva accusato Airbnb di aver compiuto una "discriminazione" quando aveva preannunciato che avrebbe rimosso dalle sue liste quelle case.

(travelnostop, 18 dicembre 2018)


Nuova traduzione in inglese per l'intera Bibbia ebraica

Un'impresa titanica quella compiuta da Robert Alter, docente di lingua ebraica e letteratura comparata all'università di Berkeley in California (dove insegna dal 1967): esce ora in tre volumi di oltre tremila pagine complessive The Hebrew Bible. A Translation with Commentary (New York - London, Norton & Company, 2018), un'opera vastissima in cui si fondono erudizione, critica interpretativa ed equilibrio nel tradurre. «Per un uomo solo si tratta di un lavoro pari (senza s'intende il Nuovo Testamento, greco e cristiano) a quello di san Girolamo, di Martin Lutero e di William Tyndale» sottolinea sull'inserto domenicale del Sole 240re del 16 dicembre Piero Boitani, che ricorda a conclusione della sua recensione le praleaiones academica de sacra poesi Hebraorum pubblicate nel 1753 da Robert Lowth, poi vescovo di Oxford e di Londra. L'impresa ultraventennale di Alter ha preso nel mosse nel 1996, quando l'ebraista si cimentò nella traduzione e nel commento in inglese della Genesi, entrambi particolarmente apprezzati perché hanno reso immediatamente fruibile per il lettore comune un testo che, per l'intricato tessuto di immagini e concetti, non è certo facile, fino a risultare ostico. Tale capacità divulgativa - hanno sottolineato diverse elogiative recensioni, tra l'altro, sul «Times Literary Supplement» - si riscontra anche in questa traduzione dell'intera Bibbia ebraica, spiegata con chiarezza e osservazioni non di rado illuminanti.

(L'Osservatore Romano, 18 dicembre 2018)


Tunnel di Hezbollah: UNIFIL conferma violazione risoluzione 1701

Con un comunicato diffuso ieri sera UNIFIL, la forza di interposizione ONU basata nel Libano meridionale, ha confermato che il Libano ha violato la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
«L'IDF ha informato UNIFIL di aver scoperto finora quattro tunnel lungo la Blue Line» si legge nel comunicato. «Sulla base della valutazione indipendente, l'UNIFIL ha finora confermato l'esistenza di tutte e quattro le gallerie vicine alla Blue Line nel nord di Israele» continua il comunicato.
«Dopo ulteriori indagini tecniche condotte autonomamente in conformità con il suo mandato, UNIFIL in questa fase può confermare che due dei tunnel attraversano la linea blu. Questi costituiscono violazioni della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite» continua ancora il comunicato....

(Rights Reporters, 18 dicembre 2018)


Terrorismo: arrestato a Bari, voleva colpire Roma a Natale

Il terrorismo islamico non hai smesso di allungare le sue pericolose mani su Roma e sulla Città del Vaticano, simbolo di quella cristianità da condannare e combattere.
   Iniziano a essere diversi gli episodi che legano il terrorismo islamico alla capitale. I video che dall'estate 2014 vengono messi in rete con la bandiera dell'Isis in Piazza San Pietro alle ripetute minacce di conquistare la Città Eterna, senza dimenticare l'arresto del terrorista palestinese, Abdel Salem Napulsi, finito in manette con l'accusa di volerci compiere un attentato.
   A questi va aggiunto un altro arresto, quello di Mohsin Ibrahim Omar, noto come Anas Khalil, un 20enne somalo a cui è stato convalidato il fermo, perché intento a compiere un attentato a Piazza San Pietro nel giorno di Natale.
   Le intercettazioni telefoniche hanno fatto scattare il provvedimento d'urgenza. Frasi come "il 25 è Natale… dei cristiani… le chiese sono piene" e "le bombe a tutte le chiese d'Italia", a cominciare da quella "più grande", hanno allarmato gli inquirenti.
   Secondo gli investigatori dell'antiterrorismo barese Mohsin Ibrahim Omar è affiliato all'Isis in Somalia e in contatto con una sua cellula operativa e ha commentato così l'attentato a Strasburgo dell'11 dicembre scorso:
   "Speriamo. Quello che uccide i cristiani, i nemici di Allah, è un nostro fratello. Da dove viene, viene. Però se uccide i cristiani è nostro fratello".
   Questa vicenda contribuisce ulteriormente a disegnare la mappa del terrorismo islamico in Italia, che vede a Bari uno snodo fondamentale.
   Lo scorso anno nel capoluogo pugliese venne fatto un arresto preventivo per terrorismo e nel 2016 vennero effettuate delle indagini sui legami che in città avrebbe avuto Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l'attentatore di Nizza.
   Dalla nascita dell'Isis, Bari è una città che da subito è finita nelle indagini per il terrorismo islamico in Italia. Già nell'estate 2014, infatti, fu ipotizzata che fosse un ponte da e verso il Kosovo, paese considerato una fucina di terroristi.

(Progetto Dreyfus, 18 dicembre 2018)


L'insegnamento di Rambam: l'ebraismo nella vita quotidiana e la via del "giusto mezzo"

di Ugo Volli

 
Statua di Maimonide a Cordova
L'ebraismo non è una religione; o piuttosto bisognerebbe dire che l'idea di religione, intesa nel senso più diffuso e di origine cristiana come una "fede" o una "confessione", non si adatta bene a descrivere che cos'è l'ebraismo. Essere ebrei vuol dire invece appartenere a una "forma di vita" collettiva che ha certamente al suo centro il rapporto con la divinità (e dunque quel che si usa chiamare religione), ma che comprende anche i rapporti interpersonali, cioè il diritto e la politica, l'identità collettiva, e fornisce anche indicazioni su come dev'essere una buona vita: non solo rispetto ai doveri nei confronti degli altri, ma anche alla propria esistenza interiore e perfino alla salute e al costume.
   Vi è spazio dunque per tutto quel che bisognerebbe chiamare morale, non solo alle regole "nobili" come la proibizione della violenza o l'amore del prossimo, ma anche ad aspetti più quotidiani. Israele del resto condivide questa intuizione con le grandi culture antiche; basta pensare al significato delle parola latina mos, da cui morale, e ethos, da cui etica: entrambe richiamano costume, stile di vita, abitudine, modo di fare. Separare una dimensione intima della fede dalla gestione quotidiana della vita è una delle mosse caratteristiche che differenziano l'approccio cristiano da quello ebraico. Per l'ebreo è importante innanzitutto agire in maniera giusta e assumere la responsabilità collettiva del comportamento, tener conto sempre di essere parte di un popolo, responsabile con tutti gli altri. È su questa base che va letto il bel volumetto pubblicato da Giuntina delle Norme di vita morale (come Massimo Giuliani ha tradotto l'ebraico "Hilkhot De'ot").
   Si tratta di un capitolo del Mishné Torah ("Ripetizione della Torah"), la grande opera di codificazione giuridica di Maimonide (o piuttosto Rambam, secondo la sigla del suo nome Rabbi Moshè ben Maimon), il più grande filosofo ebraico del Medioevo e autorevolissimo interprete della tradizione. Come scrive Rav Riccardo Di Segni nella prefazione, "de'ot dovrebbe indicare i differenti "caratteri" […] La possibilità (necessità) di migliorare il carattere (o la personalità o i temperamenti) sposta l'orizzonte della trattazione dalla semplice psicologia alla morale, perché ciò che interessa a Maimonide […è] indirizzare le persone a un corretto equilibrio tra passioni e pulsioni opposte, e non per una generica ricerca di armonia, ma come valore religioso conforme alla Torà". Ecco perché nell'ambito della grande codificazione religiosa di Rambam compaiono queste norme (che talvolta sono abbastanza generali e vaghe da apparire piuttosto come consigli) su temi a prima vista pochissimo "religiosi" come la gestione delle emozioni, il modo di trattare gli altri, le abitudini alimentari (non le norme sugli alimenti proibiti, ma quando mangiare, quanto pesante eccetera), sulla vita sessuale (di nuovo, non le norme sulle relazioni proibite, ma quando consumare i rapporti matrimoniali, eccetera) e perfino sull'abbigliamento adatto in particolare a studiosi e rabbini.
   Il trattatello di Rambam non va usato come una codificazione da applicare in quanto tale, perché le regole stringenti della vita ebraica sono altre e perché è evidente il riferimento a una società parecchio diversa dalla nostra. Ma è di lettura molto interessante, sia perché applica costantemente una via di "giusto mezzo" che il grande dotto spagnolo ricava dalla tradizione aristotelica, applicandola all'ebraismo, e oggi molti se ne sono scordati. Sia perché ne possiamo trarre un'idea molto stimolante di come gli apparisse integrale l'ebraismo, norma di vita da applicare continuamente. Sia infine perché in filigrana si intravvedono i contorni di una società ebraica di otto secoli fa, con le sue abitudini, le sue difficoltà, la sua identità radicata: per certi aspetti vicina, per altri lontanissima.

(Bet Magazine Mosaico, 18 dicembre 2018)


La Germania ha accettato di risarcire circa mille ebrei che fuggirono nel 1938

La Germania ha accettato di risarcire circa mille ebrei che nel 1938 - da bambini - scapparono dalle persecuzioni naziste con treni diretti prevalentemente verso il Regno Unito, nella cosiddetta operazione Kindertransport. La notizia è stata data dalla Conference on Jewish Material Claims Against Germany, un'associazione statunitense che da anni trattava col governo tedesco per ottenere i risarcimenti.
Dopo la cosiddetta Notte dei cristalli, quando centinaia di ebrei tedeschi vennero uccisi dai nazisti e migliaia di sinagoghe vennero bruciate, tantissimi ebrei tedeschi preoccupati per il loro futuro mandarono i figli all'estero (la maggior parte nel Regno Unito). Per alcuni mesi, a partire dal dicembre 1938, furono organizzati treni carichi di bambini ebrei per portarli fuori dalla Germania: si stima che in tutto circa 10.000 persone abbiano lasciato il paese in quel modo, spesso quando avevano solo pochi anni e affidati alla cura di bambini poco più grandi di loro. Si stima che circa 1.000 di loro siano ancora vivi oggi: a ognuno di loro il governo tedesco pagherà 2.500 euro di risarcimento per le sofferenze causate. Le richieste di risarcimento potranno essere fatte a partire dal prossimo gennaio.

(il Post, 17 dicembre 2018)


«Libano, serve un mandato più forte per l'Unifil»

Intervista all'ambasciatore israeliano Ofer Sachs

di Monica Ricci Sargentini

Siamo molto soddisfatti dell'esito della visita del vicepremier Matteo Salvini in Israele. I nostri Paesi hanno fatto un altro passo avanti in un'amicizia che era già solida». L'ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs, 46 anni, parla al Corriere da Tel Aviv delle polemiche scatenate dalle dichiarazioni del leader della Lega che lo scorso 11 dicembre ha definito senza mezzi termini terroristi gli Hezbollah: «Quello che ha detto il ministro è un'ovvietà. Hezbollah è un'organizzazione terroristica anche secondo l'Unione Europea. Noi abbiamo portato il viceministro ai confini del Libano e gli abbiamo fatto vedere i tunnel scavati a più di 20 metri di profondità con grande dispendio di energie e soldi. Lui è rimasto molto colpito da quello che ha visto».

- L'Italia ha appena assunto il comando della missione Unifil. Quali obiettivi dovrebbe porsi il generale Stefano Del Col?
  «Voglio sottolineare che il ruolo dell'Unifil è fondamentale nella regione e che Del Col è molto apprezzato. Però credo che qualcosa non stia funzionando perché Hezbollah non dovrebbe essere nel sud del Libano. Il mandato della missione su questo è chiaro: impedire l'attività illegale e ostile di Hezbollah».

- Quindi bisogna cambiare qualcosa?
  «Sì è necessario tornare all'Onu ed espandere il mandato. La risoluzione 1701 non dà abbastanza potere all'Unifil che dovrebbe poter entrare nei villaggi e identificare le persone sospette».

- Nell'incontro con Nethanyahu c'è stata grande sintonia anche sul gasdotto East Med.
  «Sì è un'iniziativa molto importante che porterà a un cambio strategico nella regione. L'opera arriverà nel sud dell'Italia. La costruiremo in collaborazione, oltre che con il vostro Paese, anche con la Grecia, Cipro e più in là l'Egitto. Si stanno effettuando le trivellazioni e ci piacerebbe che gli italiani assumessero un ruolo più significativo».

- Non teme una resistenza dei 5 Stelle al progetto?
  «Loro hanno molto a cuore la questione ecologica che va assolutamente salvaguardata. È interesse di tutti».

- Per il 2019 è in programma un incontro bilaterale tra Italia e Israele.
  «Sì, si terrà a Gerusalemme, non oltre il mese di marzo. Si parlerà di sicurezza, di cooperazione economica, di ricerca accademica ma anche di progetti in Africa».

(Corriere della Sera, 17 dicembre 2018)


Libano: Israele alza il filo spinato, sale l'allerta Unifil

Lo riferisce l'agenzia libanese Nna

 
L'esercito libanese e il contingente dell'Onu (Unifil), nel sud del Libano, hanno alzato il livello di allerta oggi dopo che nelle ultime ore le forze militari israeliane hanno innalzato una barriera di filo spinato lungo la Linea Blu di demarcazione tra i due Paesi. Lo riferisce l'agenzia libanese di notizie Nna. Secondo i media libanesi, l'azione di Israele farà salire la tensione nella zona del sud del Libano a ridosso della Linea Blu. Da due settimane Israele ha avviato nel proprio territorio, a sud della linea di demarcazione col Libano, l'operazione "Scudo del nord", che mira a portare alla luce una serie di tunnel attribuiti a Hezbollah, il movimento sciita libanese anti-israeliano. Israele ha finora annunciato di aver individuato quattro tunnel. Il governo libanese, di cui Hezbollah è parte integrante, ha finora preso tempo facendo sapere di non essere al corrente della presenza di eventuali gallerie sotterrane che dal Libano corrono verso lo Stato ebraico. Mercoledì è previsto al Consiglio di sicurezza dell'Onu l'inizio di una discussione sulla vicenda e Israele di appresta a portare prove della presenza dei tunnel. L'Unifil, il contingente schierato nel sud e di cui fanno parte circa mille militari italiani, ha chiesto alle autorità libanesi di avviare una inchiesta sul lato del Libano. Nel frattempo, sia i caschi blu che i militari libanesi pattugliano intensamente le zone della Linea Blu corrispondenti alle aree dove i militari israeliani conducono gli scavi.

(ANSAmed, 17 dicembre 2018)


Il mondo sfoggia credenziali anti Israele

Il caso della fallita risoluzione contro Hamas all'Onu

Scrive il Jerusalem Post (7/12)

Giovedì scorso le Nazioni Unite hanno preso in esame una risoluzione presentata dagli Stati Uniti che condannava Hamas. Sebbene 87 paesi - una cifra record - abbiano votato a favore, la risoluzione non risulta approvata perché non ha raggiunto la maggioranza di due terzi richiesta", scrive l'ambasciatore israeliano all'Onu Danny Danon. "La risoluzione non è passata a causa di manovre procedurali da parte di parecchi paesi senza morale, che non hanno saputo affermare ciò che è evidente: che Hamas è un'organizzazione terroristica le cui azioni meritano una condanna senza ambiguità. Lo sforzo per far passare la risoluzione contro Hamas era iniziato nel quadro di un tentativo di correggere il grottesco spettacolo che viene messo in scena ogni anno alle Nazioni Unite il 29 novembre, anniversario del voto del 1947 che raccomandava la spartizione del Mandato sulla Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico. Anziché celebrare il proprio ruolo nel contribuire alla nascita dello stato libero e democratico d'Israele, da quarant'anni l'Assemblea generale ha designato questa data come "Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese". In questo giorno, le nazioni del mondo fanno pubblico sfoggio delle loro credenziali filo-palestinesi incolpando Israele di tutti i mali della regione e cercando di cancellare il legame storico fra ebraismo e Gerusalemme. Il risultato è una sequela di risoluzioni che gettano sulle spalle di Israele tutta la colpa per il fatto che il popolo palestinese non ha uno stato. La risoluzione degli Stati Uniti ha funzionato come una cartina di tornasole, per la comunità internazionale, su una serie di fronti, compreso quello dell'antisemitismo.
   In un momento in cui il mai tramontato spettro dell'antisemitismo è diventato, di nuovo, una perniciosa realtà, l'Onu aveva l'opportunità di assumere una posizione unitaria contro questo pregiudizio millenario, dal momento che Hamas è uno dei più grandi responsabili al mondo della crescita dell'antisemitismo: la sua stessa carta istitutiva invoca la distruzione di Israele e del popolo ebraico. La determinazione con cui Hamas persegue i suoi intenti genocidi mette in pericolo i civili, sia israeliani che palestinesi. Anziché usare le forniture mediche, i materiali da costruzione e gli aiuti finanziari per migliorare la vita dei palestinesi sotto il suo controllo nella striscia di Gaza, Hamas dirotta queste risorse verso la costruzione di tunnel per infiltrazioni terroristiche, il lancio di razzi e ordigni incendiari e la costruzione delle sue strutture militari allo scopo di muovere guerra a Israele. Dal 2001, Hamas ha lanciato più di 13.000 razzi sui centri abitati dalla popolazione israeliana: significa, in media, quasi tre razzi al giorno per 17 anni. E mentre i razzi di Hamas si abbattono su case e scuole israeliane, i terroristi di Hamas usano i civili palestinesi, bambini compresi, come scudi umani durante i loro attacchi contro i nostri soldati. Invece di garantire una vita migliore ai palestinesi, Hamas mira solo a distruggere la vita degli israeliani".

(Il Foglio, 17 dicembre 2018)


Il rabbino dei divi e la sua tela (segreta) con i Paesi del Golf o per conto di Israele

Marc Schneier, da Manhattan a Dubai

di Davide Frattini

Rabbi Marc Schneier e gli imam
TEL AVIV - Per festeggiare i cinquant'anni la quarta moglie gli ha regalato un leone. O almeno il privilegio di dare al re della foresta il suo nome - rabbino Marc - in cambio di una generosa donazione allo Zoo biblico di Gerusalemme per carne cruda a volontà. Da allora Marc Schneier si è sposato altre due volte e ha attraversato qualche controversia tirando dritto come alla parata musulmana dell'anno scorso a New York o quando ha deciso di cooperare con un'organizzazione islamica americana considerata vicina ad Hamas.
   Schneier è cresciuto in una delle famiglie ebraiche più conosciute di Manhattan, fino a diventare uno dei 50 rabbini più influenti d'America secondo la rivista Newsweek e quello che i giornali chiamano «il rabbino dei divi». Scende dal pulpito per parlare con tutti: è consigliere spirituale di Russell Simmons - tra i padri dell'hip hop, cristiano, vegano e attivista contro l'islamofobia - e pure di Steven Spielberg, il regista di origine ebraica. Attraverso la sua Foundation for Ethnic Understanding, ha intessuto relazioni con le monarchie del Golfo da almeno dodici anni, molto prima che i timori comuni per l'espansionismo iraniano avvicinassero gli emiri del petrolio a Israele.
   Da Tel Aviv passa spesso perché - dice - «da qui è più comodo volare in Giordania e da lì verso i sei Paesi arabi», dove è stato in visita anche tre settimane fa. I suoi viaggi creano quello spazio comune tra Israele e i regni sunniti che il premier Benjamin Netanyahu considera il futuro della regione. Ci crede anche il rabbino Schneier e si azzarda a pronosticare che l'anno prossimo «almeno una nazione del Golfo, forse due, avvierà le relazioni diplomatiche con questo Paese. C'è una corsa a essere il primo Stato a metterci la firma. Questa volta senza incatenare il gesto a un accordo con i palestinesi: è sufficiente veder ripartire il dialogo». Scommette sul Bahrain.
   Nell'affanno geopolitico di mantenere l'Arabia Saudita al suo fianco - anche se per ora attraverso canali segreti- Netanyahu ha definito «orrenda» l'uccisione del giornalista e oppositore Jamal Khashoggi per poi aggiungere: «Ma la stabilità a Riad è fondamentale per la stabilità del mondo». Un sostegno a Mohammed bin Salman che Daniel Shapiro, ex ambasciatore americano in Israele, giudica «un errore strategico». Schneier non entra nei labirinti di governo, spiega le motivazioni ascoltate nei palazzi del Golfo a costruire un'alleanza che sembrava impossibile. «La prima ragione è economica: agli emiri interessano le tecnologie israeliane. Secondo punto: far fronte comune contro gli ayatollah sciiti, considerati una minaccia esistenziale. Terzo: creare un legame ancora più stretto con Donald Trump. Così arriviamo al 4o elemento: una volontà di colmare la frattura tra le religioni».
   Soprattutto verso l'ebraismo. «In Qatar mi hanno chiesto consigli su come accogliere i numerosi visitatori ebrei attesi per il Mondiale di calcio nel 2022». La nuova diplomazia del Medio Oriente entra anche nelle cucine degli alberghi a Doha dove gli chef stanno imparando a cucinare kosher, rispettando le regole dettate dai rabbini.

(Corriere della Sera, 17 dicembre 2018)


Quella religione che non si nomina

di Plerluigi Battista

Abbiamo persino abolito nella nostra lingua, e forse persino nella nostra mente, il nome di quella religione che ha armato il terrorista responsabile della strage al mercatino di Natale di Strasburgo. Non c'è più, abrogata dal linguaggio, dai servizi dei media, dal discorso pubblico. Chi fa quel nome viene deplorato come un irresponsabile fomentatore di una guerra di religione. Ed è obbligatorio non voler credere alle invocazioni rituali gridate da chi sta per spargere la morte in nome della sua religione. Si dice: non tutti quelli che professano quella religione sono terroristi, ci mancherebbe. Però devono spiegare perché questo tipo di terrorismo viene sempre motivato da chi ne è seguace con parole, dogmi, passaggi ideologici, rivendicazioni che in quell'universo religioso traggono alimento e coerenza. Non bisogna pensare che hanno compiuto il massacro di Charlie Hebdo perché in quel giornale satirico alcune vignette colpivano il profeta di cui neanche io, per paura e opportunismo, farò il nome. Non bisogna pensare che siano convinti che i loro atti servano a sterminare gli infedeli, i blasfemi, gli apostati. Non bisogna dar retta a chi, come Gilles Kepel su Le Figaro, sostiene che per quella religione, che io mi guarderò bene dal nominare, la festa di Natale ha qualcosa di intollerabilmente «empio»: dobbiamo piuttosto inventarci un inverosimile attentato «anti-europeo» pur di non nominare l'innominabile. E la prima guerra, costellata di decine e centinaia di attentati terroristici contro aeroporti, stazioni, metropolitane, stadi, corse podistiche, musei, spiagge, treni, chiese, monumenti, ponti, strade con molti pedoni da asfaltare, pub, ristoranti, teatri, di cui non vogliamo vedere il nemico. Non possiamo nemmeno definirli «nemici», per fare in modo che non si offendano. Ci balocchiamo con la categoria psichiatrica e non religiosa dei «lupi solitari», anche se poi scopriamo che solitari quei lupi non lo sono mai del tutto, anzi, è vero il contrario. Non dobbiamo credere alle rivendicazioni di un'entità terroristica che aveva messo quel nome nella sigla di uno Stato. Non dobbiamo sentire quello che i «nemici» dicono, perché lo dicono, cosa hanno in testa. Dobbiamo negare, chiudere gli occhi, voltarci dall'altra parte. E non pronunciare più quel nome, che qui mi guardo bene dall'indicare apertamente. Mica per paura, beninteso.

(Corriere della Sera, 17 dicembre 2018)


A Gerusalemme Babbo Natale a dorso di cammello

Isa Kassissieh Santa Claus della Città Santa con tanto di casa

di Massimo Lomonaco)

 
Poco dietro la sede del Patriarcato latino, all'interno della Città Vecchia, ad un passo dalla Porta di Giaffa, c'è la casa di Babbo Natale a Gerusalemme. Un Santa Claus sui generis visto che Issa Kassissieh - 40 anni, gerosolimitano d'antica stirpe ed ex giocatore di pallacanestro - non arriva con una slitta trascinata dalle renne ma con un cammello a dorso del quale, vestito secondo tradizione, spesso saluta i turisti, e non solo, alla Porta di Giaffa.
  E sono in molti a guardarlo incantanti. Attenzione però, Kassissieh è un Babbo Natale doc e non improvvisato: ha tanto di diploma preso - come ha raccontato a Ynet - alla 'Santa Claus School' nel Michigan, negli Usa, fondata nel 1937 e a quanto pare la più antica del mondo.
  "Ho cominciato circa 10 anni fa - ha spiegato - ma due anni fa ho deciso di fare sul serio". Insieme a lui altri 300 aspiranti che hanno appreso l'importanza (e il modo giusto) di essere l'uomo vestito di rosso, barba bianca e berretto in testa e di saper esaudire i desideri dei bambini. Perché - ha aggiunto Kassissieh - nulla si improvvisa, neppure Babbo Natale.
  Tutto per lui è cominciato appunto una decina di anni addietro, quando il Comune di Gerusalemme scelse di collocare un albero di Natale davanti la Porta di Giaffa all'ingresso della Città Vecchia. "Decisi allora - ha spiegato - di indossare una veste rossa che avevo giusto per lo spirito della festa. E la gente si emozionò per questo. L'anno dopo sono arrivato a dorso di cammello ed ho girato attorno alle mura antiche. Questo ha fatto felice le persone".
  Ed è stata una gara a farsi fotografare con un Babbo Natale senza slitta ma in cima ad un cammello (un dromedario per l'esattezza). Da allora non si è più fermato e dall'anno scorso ha trasformato la sua storica casa in Città Vecchia - che appartiene alla famiglia da 700 anni - nella dimora di Babbo Natale, tutta dedicata alla festività e con tanto di casella postale.
  All'interno il mondo magico di Babbo Natale, dolciumi, festoni, laboratorio di giocattoli e anche una macchina da neve per non far mancare i fiocchi tradizionali il 25 dicembre.
  "In preparazione della festa - ha detto - ho sistemato la casa per i visitatori e comprato cioccolata e dolciumi tradizionali". Kassissieh ha detto di non fare distinzioni, tutti sono benvenuti: cristiani, ebrei e musulmani.
  "Babbo Natale - ha sottolineato ancora con Ynet - porta gioia, amore, pace e sicurezza ad ogni bambino". Del resto, come ha ammesso, Kassissieh in fin dei conti ha realizzato "il suo sogno di bambino" quando Santa Claus lo vedeva solo in tv.
  "Mi piaceva pensare che un giorno un vecchio uomo con la barba avrebbe passeggiato attorno alla mia città diffondendo magia. Ecco - ha concluso - ora quel vecchio uomo sono io".

(ANSAmed, 17 dicembre 2018).


La Corte Ue: "I fondi di Hamas devono rimanere congelati"

La Corte europea ha respinto l'appello del gruppo terroristico di Hamas che chiedeva fossero scongelati i fondi europei, bloccati a causa del suo coinvolgimento nel terrorismo. "Le misure per il congelamento dei fondi di Hamas non sono né sproporzionate né intollerabili, soprattutto perché non violano i suoi diritti fondamentali, poiché l'obiettivo perseguito da tali misure è quello di contrastare le minacce poste da atti terroristici alla pace e alla sicurezza internazionale", ha affermato nella sua sentenza il Tribunale Ue. "Il secondo tribunale più importante dell'Unione europea si è pronunciato in nome della giustizia e dei diritti dell'uomo, sostenendo le giuste sanzioni contro Hamas e assicurando che continui a figurare nell'elenco delle organizzazioni terroristiche", ha dichiarato Robert Singer, vicepresidente esecutivo del World Jewish Congress, commentando la sentenza. "Fin dall'inizio, Hamas ha dichiarato apertamente il suo obiettivo di distruggere lo Stato di Israele e non ha avuto assolutamente nessuna inibizione nell'attaccare indiscriminatamente i civili israeliani e nell'usare il suo stesso popolo come scudo umano nelle sue azioni terroristiche", ha affermato Singer. "L'Unione europea ha dimostrato di essere oggi dalla parte giusta della storia nel proteggere i diritti dei civili contro questo flagello di incitamento, terrore e violenza, e speriamo che qualsiasi sforzo per cambiare questa posizione, sia in Europa che altrove, sarà ferocemente respinto".

(moked, 16 dicembre 2018)



E quattro! Scovato un altro tunnel Hezbollah

di Adir Amon

Le forze di difesa israeliane hanno localizzato un quarto tunnel di attacco scavato dal gruppo terroristico di Hezbollah dal Libano nel territorio israeliano. Il tunnel è l'ultimo di una serie scoperta dall'esercito israeliano durante l'operazione militare denominata "Northern Shield". L'esercito ha lanciato l'operazione il 4 dicembre.

L'esercito ha dichiarato in una dichiarazione domenica che il tunnel, "è sotto il controllo dell'IDF e non rappresenta una minaccia imminente". Il tunnel è stato minato e l'esercito israeliano ha messo in guardia sul pericolo di entrare nel tunnel dalla parte libanese.
"Il governo libanese è ritenuto responsabile per i tunnel di attacco scavati nel suo territorio. Questa è un'altra palese violazione della Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite e della sovranità israeliana"si legge in una nota dell'Idf.
Netanyahu ha detto che se l'IDF non avesse scoperto i tunnel, Hezbollah sarebbe stato in grado di effettuare un attacco omicida contro i civili nel nord di Israele. "Hezbollah avrebbe potuto addentrarsi in una follia omicida e rapimenti all'interno delle vostre comunità", ha detto ai leader locali. "Compreso tagliare strade e tutto il resto."

(Italia Israele Today, 16 dicembre 2018)


Morrison: «Capitale d'Israele solo l'ovest di Gerusalemme»

«Determinati a riconoscere lo Stato di Palestina con capitale l'est della città». L'Australia diverge dagli USA. Netanyahu scontento.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Scott Morrison ha mantenuto la promessa fatta ad ottobre a Israele, incurante delle probabili reazioni contrarie della Malaysia e soprattutto dell'Indonesia con cui l'Australia non ha ancora firmato l'atteso accordo di libero scambio. Ieri il premier australiano ha annunciato che Canberra riconosce formalmente Gerusalemme ovest, ossia la parte ebraica della città, come capitale dello Stato di Israele.
   ll governo australiano- ha detto - ha deciso di riconoscere Gerusalemme ovest, sede della Knesset e di molte istituzioni del governo, come capitale di Israele. Trasferiremo la nostra ambasciata a Gerusalemme ovest dopo la definizione dello status finale». Per Morrison l'Australia «inizierà a lavorare per identificare la sede idonea per l'ambasciata» a Gerusalemme, dove intanto, come gesto simbolico sarà aperto un ufficio di corrispondenza commerciale e di cooperazione militare. Per ora l'ambasciata australiana resterà a Tel Aviv fino alla definizione dello "status finale" tra israeliani e palestinesi. Morrison sì è anche impegnato con i palestinesi a rispettare le risoluzioni internazionali. «Ribadendo il nostro impegno per la soluzione dei Due Stati - ha sottolineato - il nostro governo è determinato a riconoscere le aspirazioni del popolo palestinese per uno Stato futuro con sua capitale Gerusalemme est». Pronta la protesta dell'Australia Palestine Advocacy Network che ha descritto il passo di Morrison come «sabotaggio di ogni reale possibilità di accordo futuro».
   Il governo Netanyahu può dirsi soddisfatto? Solo in parte. Morrison si è fermato a metà strada e non ha seguito fino in fondo l'alleato Donald Trump che poco più di un anno fa aveva riconosciuto tutta Gerusalemme e non solo la parte ebraica come capitale di Israele e trasferito, lo scorso maggio, l'ambasciata Usa da Tel Aviv nella città santa. Il suo gesto se da un lato viola la risoluzione 181 dell'Onu e potrebbe essere imitato da altri Paesi - il Brasile del presidente d'estrema destra Bolsonaro ad esempio - dall'altro va contro la linea di Netanyahu e di tutti i suoi predecessori sin dal 1967 - quando Israele ha occupato militarmente la zona araba della città -contraria a qualsiasi ipotesi di restituzione ai palestinesi di Gerusalemme Est, anche in nome di un accordo definitivo di pace. Morrison sembra aver accolto l'appello che gli aveva rivolto la storica portavoce palestinese Hanah Ashrawi, del Comitato esecutivo dell'Olp: «L'unico modo per risolvere la questione di Gerusalemme è riconoscere lo Stato di Palestina con Gerusalemme Est come capitale in linea con il diritto internazionale».
   A conti fatti il leader australiano ha adottato la posizione informale espressa a mezza bocca dalla Russia, favorevole a riconoscere solo Gerusalemme Ovest capitale di Israele. E rischia di complicare la vita a Netanyahu che un accordo con i palestinesi su Gerusalemme proprio non lo vuole. È un mezzo passo indietro quello di Morrison rispetto ai mesi scorsi quando faceva capire che l'Australia avrebbe seguito in pieno la mossa Usa, incluso il trasferimento della sua ambasciata a Gerusalemme e molti australiani parlarono di «cinico tentativo» per ottenere voti in un'elezione suppletiva in ottobre per un seggio di Sydney con un' alta popolazione ebraica. Superando a destra Morrison, il leader dell'opposizione Bill Shorten, ha commentato che la decisione di riconoscere solo Gerusalemme Ovest come capitale di Israele e di non spostare l'ambasciata è una «retromarcia umiliante» per l'Australia.

(Il manifesto, 16 dicembre 2018)


Com'era prevedibile, a conti fatti la dichiarazione australiana ha peggiorato le cose, invece di migliorarle. Dire poi che “l'ambasciata australiana resterà a Tel Aviv fino alla definizione dello ‘status finale’ tra israeliani e palestinesi” significa rimandare la questione a tempo indeterminato e consegnarla alle generazioni successive. Viene in mente una poesia di Trilussa del 1913, in cui si nomina il partito repubblicano che nei suoi comizi chiedeva l’introduzione della repubblica in Italia:
“De giorno sona l’Inno [di Garibaldi] e verso sera
rimanda la repubblica a domani:
come sistema è er mejo che ce sia
pe’ fa’ tranquillizzà la monarchia”.
M.C.


Sedotta dall'hi-tech israeliano Skoda lancia a Tel Aviv la sua nuova compatta Scala

di Claire Bal

 
La Skoda Scala, erede della Rapid
TEL AVIV - C'è la Silicon Valley, e poi c'è la Silicon Wadi. La prima e più conosciuta si trova in California, la seconda molto più vicina a noi, a Tel Aviv, in Israele. A sole tre ore di volo da Roma, infatti, si trova "la nazione delle start-up", prendendo in prestito il titolo del saggio di Dan Senor e Saul Singer. Una piccola nazione che ha scommesso sull'inventiva, attirando chi ha buone idee e aiutandolo a svilupparle fra incentivi, università e "incubatori d'impresa". Oggi sono 96 le aziende israeliane quotate al Nasdaq, più di quelle di qualunque Paese europeo. Il motore di ricerca Start-up Nation Central ha in database oltre 6.100 aziende. Fra queste, le multinazionali straniere pescano le innovazioni migliori. Un processo non nuovo, in realtà: IBM fu la prima, nel 1949, a interessarsi a quanto avveniva in questo lembo di terra affacciato sul Mediterraneo. Seguirono Motorola, Intel, Microsoft e più recentemente eBay, Google, Facebook, Amazon e Alibaba. Fra tutte, due acquisizioni celebri: quella di Waze, l'app di traffico comprata da Google per 1,3 miliardi di dollari nel 2013, e quella di Mobileye, piattaforma di guida autonoma acquistata da Intel nel 2017 per 15,4 miliardi.
   L'industria automobilistica non è immune al fascino delle start-up israeliane. Skoda, in particolare, è la prima Casa ad aver scoperto le carte con i giornalisti organizzando la presentazione internazionale della sua nuova compatta, la Scala, proprio a Tel Aviv. Il marchio ceco di proprietà del gruppo Volkswagen stima che in Israele oggi ci siano almeno 500 start-up al lavoro sullo sviluppo di tecnologie collegate alla mobilità. Per questo alla fine del 2017ha deciso di creare a Tel Aviv, in collaborazione con l'importatore Champion Motors, DigiLab Israel, spin-off del suo centro di innovazione DigiLab di Praga. In poco meno di 12 mesi, sono già 13 le collaborazioni firmate in Israele nei campi dell'intelligenza artificiale, della cyber security e dell'analisi dei "big data". Skoda ha messo le mani anche su Anagog, azienda che predice il traffico grazie al tracciamento (in anonimo) dei movimenti degli smartphone. Avere una sede in Israele serve insomma «per avere facile accesso alle più recenti tecnologie», come ha detto Bernhard Maier, numero uno di Skoda Auto, sul palco di Tel Aviv.
   Il modello presentato nell'occasione, in realtà, è piuttosto classico: la Scala è una berlina a cinque porte della taglia della Golf, che va a sostituire la Rapid. Spaziosa e razionale, sfrutta la piattaforma della Polo e motori diesel, a benzina e a metano ben conosciuti all'interno del gruppo VW. L'interno della Scala è reso moderno da due grandi schermi (uno è il cruscotto digitale da 10,5 l'altro è un touch screen da 9,2") e dalla connessione permanente in rete. La dotazione tecnologica comprende anche i fari a Led e diversi sistemi di assistenza alla guida. Ma questo è solo l'inizio. Le ambizioni del marchio sono ben chiare già dal nome del modello: come ha spiegato sul palco il responsabile del marketing Alain Favey, «Scala è un termine italiano che indica il salire di livello».

(La Stampa, 16 dicembre 2018)


"Salvatore di ebrei e autista dei nazisti la mia vita da film"

La guerra di Pino. ''Avevo 17 anni e sapevo sciare: un prete mi disse dì portare in Svizzera i perseguitati. Lo feci perché andava fatto, in montagna si fa così''.

di Luigi Bolognini

LESA (Novara) - Beato chi non ha bisogno di eroi, d'accordo. Ma ancor più beato chi, avendo bisogno di eroi, ne trova uno come Pino Lella. Un eroe suo malgrado, o forse è solo understatement: «Ma sì, qualcosa ho fatto, ma solo perché mi convinse uno che meriterebbe di essere santo, don Luigi Re». Che però non gli diede un incarico tanto semplice: portare oltre confine decine di ebrei. Era il 1943 e Lella aveva 17 anni. «Eravamo a Motta di Campodolcino, provincia di Sondrio, la Svizzera a pochi passi. Si fa per dire: comunque dovevamo scavalcare una montagna». Obbedienza o incoscienza, Lella Io fece. Ma poi non ne parlò più. Fino a che Io scorso anno Io scrittore americano Mark T. Sullivan ha scritto un libro, Beneath a scarlet sky, che negli Usa ha venduto oltre un milione di copie (in italiano L'ultimo eroe sopravvissuto, edito da Newton Compton) che presto diventerà un film. Tanto noto oltreoceano quanto ignoto in patria anche se a Lesa, il paesino sul Lago Maggiore dove porta avanti i suoi 92 anni in magnifiche condizioni fisiche e mentali, è amico di tutti e ha appena ricevuto un riconoscimento in pubblico dal sindaco.

- Lella, ha dovuto aspettare 75 anni per esser chiamato eroe.
  «Forse perché non sono un eroe, semmai un buffone, nel senso che mi piace ridere su tutto, è il segreto della mia lunga vita. E poi gli eroi lo sono sempre a sorpresa».

- E lei come fu sorpreso?
  «I miei genitori mi fecero lasciare Milano preda dei nazifascisti per la Casa Alpina di Motta, dove andavo fin da bambino e avevo imparato a sciare. L'aveva fondata negli anni Venti don Re, un prete che sapeva anche fare affari, ma aveva un fondo di santità e - mi scusi - due palle così. Quel rifugio divenne porto franco di esuli di ogni genere, soprattutto ebrei. E proprio per il mio talento sugli sci mi convinse a portare oltreconfine intere famiglie. Lo feci, tra mille difficoltà».

- Quali?
  «Il gelo le valanghe, le vedette naziste, i contrabbandieri di caffè e riso che non disdegnavano di impadronirsi degli ebrei per chiedere riscatti. Anch'io in fondo ero uno spallone, ma di esseri umani, e senza mai chiedere un soldo, ovvio. Lo facevo perché andava fatto. Senza vantarmene, né allora né dopo. In montagna e in guerra funziona così, non ci si lascia indietro».

- Rischi?
  «Pochi. Oddio, tre volte mi hanno messo al muro per fucilarmi, ma erano messinscene per salvarmi. Il massimo danno l'ho avuto quando in una di queste missioni il luccicare della neve mi accecò per un po' e mi bruciò le sopracciglia. Se nota, non le ho».

- Ricorda qualche esule in particolare?
  «Sicuramente una violinista incinta, si chiamava Elena Napolitano. Appena fummo in Svizzera mi ringraziò suonandomi un brano col suo strumento, che era uno
Stradivari».

- Quanto durò questa attività di contrabbandiere di anime?
  «Qualche mese. Poi tornai a Milano e mia madre, temendo che venissi arruolato a forza, mi fece entrare nell'Organizzazione Todt, l'impresa di logistica e costruzioni della Wehrmacht. Diventai autista del generale Hans Leyers, che gestiva la produzione industriale della Repubblica di Salò. Giravo con la svastica al braccio, ma solo quando guidavo, per farmi riconoscere da tutti, come se fosse un segnale. Leyers era un doppiogiochista, stava trattando segretamente la resa. E grazie al mio incarico riuscii a passare alla Resistenza informazioni militari, feci arrestare Leyers e lo portai agli americani».

- Scusi, e non si sente un eroe?
  «Tutto sommato no, credo che chiunque avrebbe fatto quel che ho fatto. Poi sa, dopo la guerra ho iniziato a vivere davvero, ero giovane, sportivo, amavo la velocità su strada e in montagna. Andai a vivere in America, feci il maestro di sci in California, avendo come allievi tutti i divi di allora, da Gary Cooper a James Dean, mi sono sposato due volte, ho avuto cinque figli. Insomma, ho avuto altro a cui pensare. Ma sa chi mi ha chiamato eroe? Tom Holland».

- Intende l'attore che fa i film di "Spider-man"?
  «Lui. Nel film che nascerà dal libro di Sullivan interpreterà me. L'ho incontrato e mi ha chiamato "hero"».

- E lei?
  «Ho pensato: "Ma quant'è piccolo?". È alto meno di me, che sono 1 e 80. Poi però l'ho visto muoversi: un vero acrobata, sembra davvero l'Uomo ragno. Sì, non potevano scegliere nessuno di meglio per interpretarmi».

(la Repubblica, 16 dicembre 2018)


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