Notizie 1-15 dicembre 2022
In Marocco va in scena un musical interamente in ebraico
È la prima volta
Un musical israeliano eseguito in ebraico a Rabat: è successo settimana scorsa nella città marocchina, dove è andato in scena “Bustan Sephardi” (“Il frutteto spagnolo”), tratto dalla commedia di Yitzhak Navon (che diventerà in seguito il quinto presidente di Israele), in una nuova versione dell’omonima commedia originale, del 1969, che descrive la vita quotidiana in un quartiere sefardita di Gerusalemme negli anni 30. L’iniziativa di mettere in scena questa commedia israeliana in Marocco va al figlio di Navon, Erez. La famiglia Navon ha le sue origini in Marocco, da dove gli antenati di Erez sono emigrati a Gerusalemme nel 1742. Erez ha lavorato per diffondere il lavoro di suo padre in Marocco da quando i due paesi hanno normalizzato le loro relazioni nel 2020. “‘Bustan Sephardi’ è una finestra sulla cultura ebraica sefardita, repressa al momento [di scrivere]”, ha detto sabato Navon a Channel 12. “Mio padre ha visto e vissuto il malcontento degli ebrei sefarditi, messi a tacere e limitati nella manifestazione della loro cultura: da questo è nato ‘Bustan Sephardi’. » Secondo fonti di notizie, la troupe di attori israeliani ha ricevuto il più cordiale dei benvenuti quando il loro volo è arrivato a Rabat. “La sicurezza israeliana non ci ha consigliato di non parlare ebraico o di nascondere i nostri simboli ebraici. Ci siamo comportati come avremmo fatto a Gerusalemme”, ha dichiarato Noam Semel, direttore del teatro nazionale israeliano Habima. Lo spettacolo si è concluso con un coro marocchino che ha cantato l’inno nazionale israeliano “Hatikva”, insieme agli attori israeliani. Un ulteriore segno di avvicinamento dei due Paesi, dunque, che da qualche anno favoriscono la conoscenza reciproca. “In Marocco c’è stato un tempo in cui musulmani ed ebrei vivevano insieme. Oggi è diventato molto complicato. Ma sono felice di essere qui”, ha detto uno spettatore a Channel 12. “Ci sono molti marocchini in Israele, quindi lo vediamo come un ponte tra la comunità marocchina in Israele e i marocchini qui”, ha detto il ministro marocchino della Gioventù, della Cultura e della Comunicazione, Mohamed Mehdi Bensaïd.
(Bet Magazine Mosaico, 15 dicembre 2022)
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Francesca Albanese, una anti-israeliana con una storia social da brividi
Una serie di interventi dell'avvocato italiano che dovrebbe "giudicare" Israele per le Nazioni Unite
Rapporto di Times of Israel
Un avvocato a capo dell’indagine aperta del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sul trattamento dei palestinesi da parte di Israele ha affermato che, durante un conflitto del 2014 tra Israele e gruppi terroristici di Gaza, la “lobby ebraica” aveva il controllo degli Stati Uniti. Francesca Albanese, avvocato italiano, è stata nominata all’inizio di quest’anno relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi. Il relatore è un esperto indipendente nominato dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite con il compito di indagare sui diritti umani nelle aree palestinesi, pubblicare rapporti pubblici e collaborare con i governi e altri gruppi sulla questione. Albanese, che ora dice di essersi pentita dell’affermazione “lobby ebraica”, è stata a lungo una dura critica di Israele e la missione israeliana presso le Nazioni Unite a Ginevra si è formalmente opposta alla sua nomina, sostenendo che la relatrice nutre notevoli pregiudizi nei confronti dello Stato ebraico. Un esame dei suoi post passati sui social media, delle sue apparizioni sui media e dei suoi colloqui con gruppi di attivisti ha rivelato che, oltre a inveire contro la “lobby ebraica”, ha anche simpatizzato con le organizzazioni terroristiche, ignorato le preoccupazioni per la sicurezza di Israele, paragonato gli israeliani ai nazisti e accusato lo Stato ebraico di potenziali crimini di guerra. Allora come oggi, si riferisce a Israele come a un’impresa coloniale e agli ebrei in Israele e al mandato britannico pre-stato come a intrusi stranieri che soggiogano una popolazione palestinese indigena. Nel suo primo rapporto ufficiale alle Nazioni Unite, quest’anno, ha esortato a rifiutare il paradigma del conflitto, descrivendo Israele solo come oppressore e legittimando la “resistenza” palestinese. Raramente riconosce il terrorismo palestinese. Nel 2014, in una lettera aperta pubblicata sulla sua pagina Facebook, Albanese ha criticato gli Stati Uniti e l’Europa per il loro comportamento durante l’Operazione Protective Edge, una guerra tra Israele e i gruppi terroristici di Gaza che si è svolta quell’anno. “L’America e l’Europa, l’una soggiogata dalla lobby ebraica, l’altra dal senso di colpa per l’Olocausto, rimangono ai margini e continuano a condannare gli oppressi – i palestinesi – che si difendono con gli unici mezzi che hanno (missili squinternati), invece di mettere Israele di fronte alle sue responsabilità di diritto internazionale”, ha scritto Albanese. All’epoca non lavorava per le Nazioni Unite, ma in precedenza aveva lavorato per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), un’agenzia delle Nazioni Unite che assiste i palestinesi sfollati e i loro discendenti, secondo il suo profilo LinkedIn. La lettera che ha postato aveva lo scopo di raccogliere fondi per l’UNRWA. Al momento della pubblicazione, il post precedentemente riportato è ancora sulla sua pagina Facebook personale, che è visibile al pubblico e la identifica come investigatore delle Nazioni Unite. In un altro post dello stesso anno, che è stato nascosto dopo che il suo ufficio è stato contattato dal Times of Israel, Albanese ha fatto riferimento alla lobby di Israele e all’avidità di Israele. I commenti erano diretti alla BBC per la sua copertura del conflitto, anche se l’emittente britannica è spesso critica nei confronti di Israele.
“La lobby israeliana è chiaramente nelle vostre vene e nel vostro sistema e sarete ricordati per essere stati dalla parte del grande fratello in questo incubo orwelliano [sic] causato ancora una volta dall’avidità di Israele. Vergognatevi, BBC”, ha scritto. L’anno scorso ha fatto riferimento alle lobby ebraiche e pro-Israele che influenzano le vendite di armi israeliane e mettono a tacere le critiche nei confronti di Israele. I riferimenti agli ebrei e alle lobby ebraiche che esercitano un potere sproporzionato sono considerati antisemiti, perché evocano tropi antichi e teorie di cospirazione sugli ebrei che controllano il mondo dall’ombra. Molti di questi stereotipi dipingono gli ebrei come avidi. “Parlare di una lobby ebraica uniforme e sempre potente alimenta lo stereotipo del potere ebraico, secondo cui esiste una nefasta mano ebraica che manipola i governi”, ha dichiarato Susan Heller Pinto, vicepresidente della politica internazionale della Anti-Defamation League. “Quando dice che l’America è soggiogata dalla lobby ebraica, rafforza l’immagine che questa lobby ebraica sia onnipotente e che l’America e le azioni e le politiche americane siano dirette da questa lobby ebraica, e questo è antisemita”, ha detto Heller Pinto. “È un’affermazione generalizzata. Non si tratta di una critica politica di un’azione israeliana, ma di caratterizzazioni generalizzate che invocano antichi tropi antisemiti”. All’inizio di quest’anno, un investigatore della Commissione d’inchiesta dell’ONU sul conflitto si è scusato dopo che un commento simile sulla “lobby ebraica” aveva suscitato un putiferio. Contattata dal Times of Israel via e-mail, Albanese ha cercato di prendere le distanze dai suoi commenti passati. “Alcune delle parole che ho usato, durante l’offensiva di Israele sulla Striscia di Gaza nel 2014, sono state infelici, analiticamente inaccurate e involontariamente offensive”, ha dichiarato attraverso il suo ufficio. “Le persone commettono errori. Prendo le distanze da queste parole, che non userei oggi, né ho usato come relatrice speciale delle Nazioni Unite”. “A seguito di questo chiarimento, la nostra attenzione non dovrebbe essere distratta dalle pratiche illegali dello Stato che causano sofferenze per milioni di persone e la negazione dei diritti umani su base giornaliera nei Territori palestinesi occupati”, ha affermato. “Questo è ciò su cui sono incaricata di riferire e su cui dovremmo concentrarci”.
• CODICE DI CONDOTTA Nella sua domanda per la posizione di relatore speciale, Albanese ha dichiarato di non avere “alcun motivo, attualmente o in passato, che possa mettere in discussione” la sua autorità morale o la sua credibilità, e di non avere “alcun punto di vista o opinione che possa pregiudicare il modo in cui” indaga. I relatori speciali non sono pagati per il loro lavoro e sono nominati per un mandato di tre anni, con la possibilità di una proroga di tre anni. Il codice di condotta del Consiglio dei diritti umani per i titolari di mandato sottolinea che essi devono essere obiettivi, eliminare “i doppi standard e la politicizzazione” e agire con “integrità, che significa in particolare, anche se non esclusivamente, probità, imparzialità, equità, onestà e buona fede”. Anche i precedenti relatori sui palestinesi si sono opposti fermamente a Israele, che è l’unico Paese a cui viene assegnato un investigatore permanente. Una serie di titolari di mandato ha ricoperto la posizione di relatore sui territori palestinesi dal 1993. Albanese ha anche paragonato Israele alla Germania nazista, cosa che in Israele è considerata profondamente offensiva e un affronto alle vittime dell’Olocausto. In un post del 2015 scoperto dal Times of Israel, ha condiviso una foto di quello che, a suo dire, era un soldato nazista e un uomo ebreo e, accanto, un soldato israeliano e un palestinese. In un’intervista con i media italiani, ha paragonato la Nakba, la parola palestinese che indica la “catastrofe” della creazione di Israele, all’Olocausto, in un commento precedentemente riportato dal gruppo pro-Israele UN Watch. Paragonare Israele alla Germania nazista è considerato antisemita secondo la definizione ampiamente accettata formulata dall’International Holocaust Remembrance Alliance. Albanese si è recentemente espressa contro la definizione dell’IHRA.
•RESISTENZA ARMATA Albanese è stata fortemente critica nei confronti di Israele anche in altri commenti più recenti o riportati in precedenza, ignorando ripetutamente le preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza, anche da quando ha assunto l’incarico di relatrice speciale, e ha giustificato la violenza contro Israele e gli israeliani. Il mese scorso ha dichiarato a un podcast che i timori per la sicurezza israeliana erano “pensieri paranoici”. “Israele non può rivendicare l’autodifesa mentre occupa illegalmente e mentre dirige un atto di aggressione contro un altro Paese”, ha affermato. “Chi ha diritto all’autodifesa sono i palestinesi”. In un’intervista rilasciata ai media italiani all’inizio di quest’anno, ha accusato Israele di essere “molto efficace nel far passare l’equazione ‘resistenza uguale terrorismo’. Ma un’occupazione chiaramente richiede e genera violenza”. In un’altra intervista ha affermato che la violenza palestinese è “inevitabile”. All’inizio di quest’anno, dopo uno scontro tra i terroristi di Gaza e Israele, ha affermato che “il diritto dei palestinesi a resistere è inerente al loro diritto di esistere come popolo”. Ha anche detto che il diritto alla resistenza armata palestinese è una “conversazione necessaria” che è stata “declassata”. In un discorso pronunciato in video all’inizio del mese a un raduno a Gaza, ha detto: “C’è il diritto di opporsi a questa occupazione”. Il Times of Israel ha tradotto i suoi commenti dall’arabo, anche se il discorso è stato pronunciato in inglese, perché l’audio inglese non era disponibile. “L’occupante non può dire che si sta difendendo”, ha detto al pubblico dell’enclave, che è stata governata dal gruppo terroristico di Hamas dopo una sanguinosa presa di potere nel 2007. Sette anni prima, aveva espresso gioia per il fatto che il Tribunale dell’Unione Europea avesse tolto Hamas dalla sua lista nera del terrorismo: “Due buone notizie una dopo l’altra dalla radio mentre facevo un pisolino. La normalizzazione delle relazioni usa cuba e la rimozione di Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Stavo sognando?”. Anche il post è stato recentemente rimosso. Il Times of Israel ha contattato l’ufficio di Albanese per un commento su quel post e su molti altri, ma non ha ricevuto risposta. In almeno un’occasione ha condannato i razzi palestinesi lanciati contro Israele. “Il lancio indiscriminato di razzi da Gaza non è una risposta accettabile ai bombardamenti illegali di Israele, perché danneggia i civili e quindi è anch’esso illegale”, ha dichiarato all’inizio di quest’anno.
• ACCUSE DI GRANDI CRIMINI Ha rigettato qualsiasi presenza israeliana in Cisgiordania come “dominazione straniera”, dicendo che non ha “nessuna giustificazione”, “nessuna ragione” e definendola “uno strumento per colonizzare la terra”. Israele giustifica la sua presenza in Cisgiordania, che si trova su un altopiano che domina le pianure centrali del Paese, con motivi di sicurezza. Esistono anche prove fortemente documentate di una presenza ebraica in Cisgiordania che risale a migliaia di anni fa, riconosciute dall’UNESCO, tra gli altri organismi. Nel 2018 Albanese ha postato uno screenshot di una citazione da lei attribuita a David Ben-Gurion che diceva: “Aboliremo la divisione e ci espanderemo a tutta la Palestina”. La citazione sembrava essere una traduzione di una lettera controversa del 1937 che Ben Gurion scrisse al figlio. Albanese ha commentato che “prendere tutta la Palestina (e molto di più in realtà) è sempre stato il piano dei sionisti”. Ha anche affermato che Israele potrebbe essere colpevole di presunti crimini gravi, tra cui genocidio, pulizia etnica, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Quest’anno ha dichiarato che “decine” di giornalisti sono stati uccisi nel conflitto dal 2000, tutti da Israele. Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, entrambe le affermazioni sono false. “C’è una pratica di uccisione intenzionale che è in corso e che potrebbe sicuramente essere un crimine contro l’umanità”, ha detto. Anche se ha dichiarato di essere obiettiva quando si è candidata per la posizione di relatrice, l’anno scorso ha ammesso in un panel di avere dei dubbi sull’assunzione dell’incarico. “Nel profondo forse temevo che intraprendere una ricerca su una questione in cui avevo opinioni personali profondamente radicate potesse compromettere la mia obiettività”, ha detto. Prima di assumere l’incarico a maggio, Israele ha sostenuto che i suoi pregiudizi avrebbero dovuto squalificarla dall’incarico. “Le opinioni espresse dalla neo nominata relatrice speciale in numerosi articoli, eventi e media che si esprimono senza sosta contro Israele dimostrano che non è adatta a ricoprire questo ruolo”, ha dichiarato all’epoca Merav Marks, consulente legale della missione israeliana presso le Nazioni Unite a Ginevra. Anche l’American Jewish Committee ha condannato la sua nomina. Israele – sostenuto a volte dagli Stati Uniti – ha a lungo accusato il Consiglio per i diritti umani di pregiudizi anti-israeliani e si è generalmente rifiutato di collaborare con i suoi investigatori.
• ECHI DI KOTHARI I commenti di Albanese sulla “lobby ebraica” fanno eco alle recenti dichiarazioni di un altro funzionario delle Nazioni Unite che indaga su Israele. A luglio, Miloon Kothari, membro della commissione d’inchiesta dell’ONU che indaga sui presunti crimini israeliani, ha affermato che i social media sono “controllati in gran parte dalla lobby ebraica”. Ha anche messo in dubbio il motivo per cui Israele è ammesso alle Nazioni Unite. La commissione d’inchiesta aperta di Kothari è stata descritta come duramente critica nei confronti di Israele e i sostenitori del Paese sottolineano che ignora quasi completamente il terrore e la violenza palestinese. La settimana scorsa, 49 membri del Congresso degli Stati Uniti hanno scritto una lettera all’ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield, esprimendo la loro preoccupazione per la parzialità della commissione, anche a causa del commento di Kothari sulla “lobby ebraica”. Tra coloro che si sono espressi contro l’uso del tropo della “lobby ebraica” c’è l’inviata del Dipartimento di Stato americano per l’antisemitismo Deborah Lipstadt, che ha definito inaccettabili i commenti di Kothari. “È scandaloso che un esperto di diritti umani nominato dal Consiglio per i Diritti Umani su Israele, Cisgiordania e Gaza abbia ripetuto tropi antisemiti [e] messo in dubbio la legittimità di Israele come membro delle Nazioni Unite”, ha dichiarato Lipstadt. “È assolutamente inaccettabile che tali commenti provengano da un membro nominato di una Commissione d’inchiesta”. Anche l’Ufficio del Primo Ministro e i funzionari del Canada, della Gran Bretagna e di numerosi altri Paesi hanno condannato i commenti di Kothari. L’ufficio del Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha dichiarato in risposta ai commenti di Kothari: “Non c’è spazio per l’antisemitismo nel lavoro delle Nazioni Unite”. “Israele è indiscutibilmente uno Stato membro delle Nazioni Unite, con gli stessi diritti e responsabilità degli altri 192 Paesi che compongono l’organizzazione”, ha dichiarato un portavoce di Guterres. Guterres si è espresso contro l’antisemitismo il mese scorso e la settimana scorsa ha incontrato i leader ebraici per discutere dei pregiudizi. Albanese non è nemmeno il primo relatore speciale ad essere accusato di aver fatto ricorso a tropi antisemiti. Nel 2011, il giurista americano Richard Falk, che all’epoca ricopriva la carica, è stato condannato per aver pubblicato una vignetta antisemita. “Le azioni di Richard Falk all’epoca, le dichiarazioni dei funzionari delle Nazioni Unite, non fanno che alimentare la mancanza di fiducia che le persone hanno nelle Nazioni Unite per quanto riguarda l’equità e la costruttività quando si tratta di qualsiasi cosa legata a Israele e persino agli ebrei”, ha dichiarato Heller Pinto dell’ADL.
• DIFESA DI KOTHARI Albanese ha difeso Kothari, definendo le critiche alle sue affermazioni “assurde accuse di antisemitismo” e una “campagna diffamatoria”. Ha detto che le critiche alla commissione d’inchiesta “sembrano essere coordinate. Penso che questo dovrebbe indurre a un controllo”. Ha anche messo in discussione il coinvolgimento di Israele nelle Nazioni Unite, definendo “ignobili” le attività a favore di Israele. “Questo dovrebbe innescare una vera e propria inchiesta all’interno delle Nazioni Unite”, ha detto. “Ho visto personalmente la violazione del codice di condotta da parte delle autorità israeliane e dell’ambasciatore israeliano”. La scorsa settimana Albanese ha dichiarato che Israele le aveva concesso il permesso di visitare la Cisgiordania e Gerusalemme Est, ma in un secondo momento è apparso che Israele aveva bloccato la visita a causa delle dichiarazioni da lei rilasciate. Il suo primo rapporto come relatrice, pubblicato a ottobre, ha definito Israele un “regime intenzionalmente acquisitivo, segregazionista e repressivo”. I rapporti degli investigatori delle Nazioni Unite sono significativi al di fuori dell’ONU perché vengono citati dai media e da altre organizzazioni e arrivano al pubblico, che probabilmente non è a conoscenza delle accuse di parzialità.
(Rights Reporter, 15 dicembre 2022)
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Gli ebrei ungheresi onorati in Israele
Gli ebrei ungheresi che hanno salvato i loro simili ebrei in Ungheria durante l'Olocausto sono stati onorati in Israele. In una cerimonia tenutasi martedì sera al kibbutz di Hazorea, nel nord di Israele, sono stati onorati 209 membri dei movimenti giovanili sionisti clandestini che operarono durante la seconda guerra mondiale in Ungheria, mentre i familiari hanno ricevuto premi postumi. Finora, circa 580 persone hanno ricevuto il premio, di cui 127 emigrati in Israele dall'Ungheria. L'ambasciatore ungherese a Tel Aviv Levente Benkő ha detto che il premio ha attirato l'attenzione sull'eroismo di "coloro che hanno rischiato la propria vita per salvare gli altri in questo periodo oscuro della storia".
(PMI-Reboot, 15 dicembre 2022)
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Parla l'esperto israeliano: "Quella in Iran è una rivolta senza precedenti, ma il regime è lontano dal cadere"
Secondo Meir Litvak, docente dell'università di Tel Aviv, molti iraniani sono scontenti del regime, ma temono il caos o una dittatura militare delle Guardie della Rivoluzione.
“Chiaramente in Iran vi è una rivolta senza precedenti, ma il regime è lontano dal cadere“, molti temono il caos o “una dittatura militare delle Guardie della Rivoluzione”. A tre mesi dalla morte di Mahsa Amini il 16 settembre, dopo l’arresto della polizia morale iraniana per il velo mal indossato, a fare il punto della protesta con l’Adnkronos è Meir Litvak, docente di Storia del Medio Oriente ed esperto d’Iran dell’università di Tel Aviv. “Il velo – spiega – è stato soltanto la molla scatenante, ma diversamente dalle altre volte, chi protesta chiede un cambio di regime, non delle riforme. E’ una combinazione di rimostranze economiche, sociali e politiche. I giovani non vedono un futuro, un fatto che ha portato ad una massiccia fuga dei cervelli, anche secondo i portavoce del regime”. “Il problema” dei manifestanti, puntualizza Litvak, “è che mancano di organizzazione, leadership e un chiaro programma. Ammiro il loro coraggio, ma non sono riusciti a ottenere l’appoggio delle classi più povere (in passato base del regime), né della classe media o dei lavoratori. Abbiamo avuto degli scioperi, ma sono lontani dagli scioperi massicci avvenuti in Iran nel 1978, che portarono alla caduta dello Shah. Chiaramente molti iraniani sono scontenti del regime, ma temono il caos come in Libia o Yemen, o una guerra civile come in Siria. Molti hanno paura che l’alternativa all’attuale regime sia una dittatura militare delle Guardie rivoluzionarie”. “Per questo motivo, non abbiamo ancora visto crepe nelle élite al potere. Queste sono condizioni essenziali per una rivoluzione di successo. Non sono ancora avvenute, ma non sappiamo cosa ci riserva il futuro”, ragiona il docente israeliano. “Il regime non è stato in grado di sopprimere le proteste, ma non ha usato tutti i suoi poteri. Le Guardie della Rivoluzione sono state impiegate contro i curdi e i beluci, non nelle principali città. Il regime è di fronte ad un dilemma – sottolinea Litvak – Teme che ogni concessione possa solo incoraggiare la protesta, come accadde, sempre in Iran, nel 1978. Ma le continue proteste e la repressione danneggiano l’economia e alimentano la rabbia della generazione più giovane”. “Non oso fare previsioni. Uno scenario molto probabile – conclude – è che l’Iran sia all’inizio di una crisi prolungata di fermenti, agitazioni e proteste con alti e bassi per mesi e anni”. Intervista di Maria Cristina Vicario apparsa su adnkronos.
(globalist, 15 dicembre 2022)
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Tombe romane scoperte a Gaza
Un intero cimitero del I secolo Dopo Cristo sta venendo alla luce nell’enclave palestinese.
L'annuncio è arrivato lunedì 12 dicembre. Il Ministero delle Antichità di Gaza ha annunciato la scoperta di tombe romane risalenti a 2.000 anni fa. All'inizio di quest'anno, gli operai palestinesi hanno scoperto circa 30 tombe romane a Beit Lahia, sul sito di un progetto di costruzione finanziato dall'Egitto nell'ambito degli sforzi per ricostruire Gaza dopo la guerra Hamas-Israele del maggio 2021. In seguito alla scoperta, alcuni lavori di costruzione sono stati interrotti e le ricerche sono proseguite nel sito, portando a nuove scoperte, ha dichiarato lunedì all'AFP Fazl al-Atal, capo della squadra di scavo locale.
«Finora sono state trovate 51 tombe romane risalenti al I secolo d.C.», ha dichiarato, aggiungendo che si tratta di circa 20 tombe in più rispetto all'inizio dell'anno. «Ci aspettiamo di trovare un totale di 75-80 tombe», ha detto Fazl al-Atal, salutando il lavoro sul «primo cimitero romano completo scoperto a Gaza. Siamo nella fase di documentazione, ricerca e protezione del sito».
Questa necropoli era adiacente alla città romana di Anthedon, sulla strada per Ascalon, che oggi è la città israeliana di Ashkelon, situata all'uscita dell'enclave palestinese sotto blocco israeliano. Il sito è «di grande importanza ed è considerato un'estensione del sito dell'antica città di Anthedon, che era un porto di Gaza durante il periodo greco e romano», ha dichiarato il direttore generale delle Antichità della Striscia di Gaza, Jamal Abu Reda.
In Israele e nei Territori palestinesi, l'archeologia è un argomento delicato, poiché molte scoperte sono state utilizzate per giustificare o sostenere le rivendicazioni politiche di entrambi i popoli. Tuttavia, mentre Israele dispone di un arsenale di archeologi in grado di rendere conto di un numero impressionante di tesori antichi, questo settore rimane in gran parte non sviluppato nella Striscia di Gaza, un territorio povero dove pochi specialisti sono al lavoro. Oltre alla necropoli romana, nell'ultimo anno sono stati scoperti a Gaza mosaici risalenti al V-VII secolo e una statuetta in pietra di un'antica dea risalente a oltre 4.500 anni fa.
(Riforma.it, 15 dicembre 2022)
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Gerusalemme, Anp e Giordania 'in ansia per la Spianata Moschee'
Jerusalem Post: 'temono che Netanyahu cambierà lo status quo'
TEL AVIV - La Giordania e l'Autorità nazionale palestinese stanno elaborando misure congiunte per allontanare il rischio che la nuova coalizione di governo di Benyamin Netanyahu (che includerà liste di estrema destra) cerchi di alterare lo status quo nella Spianata delle Moschee, cioè in quello che per gli ebrei è il Monte del Tempio.
Secondo il Jerusalem Post una delle prime iniziative riguarda una serie di letture pubbliche del Corano nella Moschea al-Aqsa e nel Duomo della Roccia. In questo modo, precisa il Jerusalem Post, palestinesi e giordani cercano di rafforzare la presenza islamica in quel luogo santo. Alla cerimonia di inaugurazione di questa iniziativa, avvenuta nel palazzo al-Husseinya, hanno preso parte il presidente palestinese Abu Mazen e funzionari governativi giordani e palestinesi.
Ad allarmare palestinesi e giordani è il numero crescente di ebrei religiosi che quotidianamente salgono sulla Spianata e che talvolta vi recitano preghiere. Questa tendenza, a loro parere, potrebbe estendersi ulteriormente quando un dirigente dell'estrema destra ebraica, Itamar Ben Gvir - che è fra i fautori degli ingressi di ebrei religiosi nella Spianata - assumerà nel nuovo governo di Netanyahu la carica di ministro per la sicurezza nazionale in cui, secondo le anticipazioni, dovrebbe avere un ampio controllo sulla polizia.
(ANSAmed, 14 dicembre 2022)
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C’è una connessione fra la corruzione a favore del Qatar e la politica anti-israeliana al parlamento europeo?
di Ugo Volli
• Uno scandalo politico, non solo economico
Lo scandalo della corruzione ad opera del Qatar su esponenti del parlamento europeo emersa nei giorni scorsi si estende oltre il suo ambito originario. Si sapeva che l’oggetto della compravendita dei deputati europei riguardava l’atteggiamento dell’Europa rispetto alle numerose e gravi violazioni dei diritti umani e alle vere e proprie stragi di operai che hanno funestato l’allestimento degli stadi e delle strutture di ospitalità costruite con lo sfruttamento di manodopera straniera (soprattutto proveniente dal subcontinente indiano) per i mondiali di calcio ancora in corso. Com’è noto, alcuni esponenti soprattutto italiani ma anche greci del gruppo parlamentare socialista hanno esercitato pressioni per limitare e ammorbidire le critiche al Qatar e per far questo, a quel che dicono i giornali, hanno ricevuto centinaia di migliaia di euro in biglietti di piccolo taglio, tanto da riempirne “sacchi” e “valigie”. Non si tratta solo di un problema di banale corruzione, come purtroppo se ne trovano tanti. Perché ciò che veniva illegalmente venduto non erano atti amministrativi, autorizzazioni o sentenze giudiziarie, ma posizioni politiche che erano giustificate con le posizioni ideologiche dei corrotti e delle loro organizzazioni, che portano nomi ambiziosi o pomposi come “nessuna pace senza giustizia” o “combattere l’impunità”, militano in partiti che dovrebbero tutelare innanzitutto i lavoratori e fanno parte di organismi per la difesa dei diritti umani
• Il ruolo del Qatar in Medio Oriente
I giornali si sono concentrati soprattutto sui nomi e sulle personalità dei presunti corrotti, colti con ingenti somme di denaro, e magari sulle loro famiglie che godevano del frutto di queste attività senza meravigliarsi troppo del lusso che gli cadeva addosso. Ma è forse ancora più significativo guardare a quello che è il corruttore, cioè il ricchissimo emirato petrolifero del Qatar. Questo stato non si è solo reso responsabile di violazioni dei diritti umani durante la preparazione e lo svolgimento dei campionati mondiali, ma è anche il principale nemico di Israele, almeno sul piano della comunicazione, grazie alla sua emittente Al Jazeera, che è organizzata come un grande network televisivo occidentale ed è diffusa in tutto il mondo, ma i cui contenuti sono di violenta propaganda islamista. Vi è qui un’ambiguità che è la medesima dello stato stesso del Qatar, il quale ospita un’importante base americana e quindi gode della garanzia politica dell’amministrazione Usa, ma è anche il principale alleato dell’Iran, amico di tutte le organizzazioni islamiste e ospite di terroristi. Al Jazeera, che è proprietà dell’emiro del Qatar, è stata bandita da molti stati mediorientali, come l’Egitto e l’Arabia, perché vi agisce come strumento della sovversione dei Fratelli Musulmani. Fra Qatar e Arabia Saudita, Emirati e Bahrein si è arrivato alla chiusura dei confini, al boicottaggio economico, vicini alle minacce militari. Vale la pena di ricordare che nei giorni scorsi Al Jazeera ha annunciato con molta enfasi di aver denunciato lo Stato di Israele alla corte internazionale dell’Aia per la morte della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh. E che il Qatar è stato costretto dalla Fifa ad ammettere ai mondiali anche i tifosi israeliani, ma ha fatto di tutto per farli sentire sgraditi ed odiati.
• La mozione anti-israeliana sospesa
Nessuna meraviglia dunque che la vicenda della corruzione del Qatar possa investire anche l’ostilità dell’Unione Europea da parte delle istituzioni europee. Una fonte del parlamento ha rivelato al quotidiano di Gerusalemme “Yisrael Hayom” che la commissione dei diritti umani del parlamento europeo ha sospeso l'esame della mozione anti-israeliana che la sua presidente pesantemente coinvolta nello scandalo, la socialista belga Maria Arena aveva presentato il 9 dicembre e che intendeva far approvare in questi giorni. Infatti la Arena si è dimessa dalla sua carica per lo scandalo, anche se non si sa se sia fra i politici indagati. Non è difficile pensare che coloro che militavano, magari con qualche aiuto economico, fra gli ammiratori dei diritti umani del Qatar non nutrano particolare simpatia per Israele.
(Shalom, 14 dicembre 2022)
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"Siamo tutti marocchini": la prima pagina storica del The Jerusalem Post
"Siamo tutti marocchini. Andiamo!". The Jerusalem Post, quotidiano israeliano in inglese, dedica la prima pagina di oggi al Marocco che questa sera, nella semifinale del Mondiale in corso in Qatar, affronterà la Francia campione del mondo in carica. La squadra del ct Walid Regragui è la prima nazionale africana e la prima rappresentante del mondo arabo ad arrivare così lontano nel torneo. Nella copertina, oltre al tecnico, ci sono i protagonisti di questo cammino sorprendente: il portiere Bounou, decisivo ai rigori contro la Spagna agli ottavi, il fantasista Ziyech, il centrocampista Amrabat, l'esterno del Psg Hakimi, il doriano Sabiri e altri giocatori. Che questa sera andranno a caccia di una finale storica. L'Argentina è in attesa di conoscere il proprio avversario. L'entusiasmo della stampa israeliana ha una serie di giustificazioni: la prima, e fondamentale, è la presenza in Israele di una nutritissima diaspora di ebrei marocchini, stimata tra le 250 mila e le 400 mila unità: tutta gente arrivata dal Marocco tra gli anni '50 e gli anni '60, quanto il conflitto arabo-israliano ha suscitato la nascita di un significativo sentimento anti-ebraico in tutti i Paesi arabi dove ancora c'era una forte presenza ebraica (Marocco, Egitto, Tunisia, Iraq, Siria, Yemen...). La seconda è che a dispetto di settanta e più anni di conflitti, dell'avvicinamento all'Europa e dei rapporti strettissimi con gli Stati Uniti, Israele continua a sentirsi pienamente parte del Medio Oriente - un Medio Oriente molto ampio che si estende fino a tutto il Maghreb, vale a dire a tutta l'Africa nord-occidentale. Il terzo è che il Marocco è sempre stato considerato, anche negli anni in cui tra i due Paesi non c'erano più relazioni diplomatiche, come il più naturale tra i potenziali partner arabi. Il paradosso, invece, è che questo afflato sembra non vedere (o forse più propriamente non voler vedere), la scelta dei simboli che sta accompagnando la cavalcata del Marocco in questa Coppa del Mondo. Come la decisione di festeggiare la vittoria contro il Belgio sventolando in campo la bandiera palestinese. Non è la prima volta che succede e non sarà certamente l'ultima: l'abitudine di farsi portatori della causa palestinese nelle manifestazioni sportive internazionali - che sovente porta gli atleti dei Paesi arabi a boicottare le sfide contro avversari israeliani, anche alle Olimpiadi - è molto diffusa. E solitamente è accolta dagli israeliani con enorme fastidio. Evidentemente, non questa volta.
(Jerusalem Post, 14 dicembre 2022)
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Addio al pittore Frederick Terna. Sopravvisse a quattro campi di concentramento
È morto a 99 anni il pittore Frederick Terna, sopravvissuto alla Shoah, inserito quest’anno nell’elenco delle personalità più rappresentative della comunità ebraica newyorkese dal New York Jewish Week. Terna era nato a Vienna nel 1923 ed era cresciuto a Praga. A partire dal 1941, fu imprigionato in quattro campi di concentramento nazisti, tra cui Terezin – dove iniziò a fare arte – e Auschwitz e Dachau. Dopo la guerra Terna si trasferisce a Parigi dove “studia informalmente” all’Academie de la Grande Chaumiere e all’Academie Julien. Lì, secondo il suo sito web, “è stato ispirato dal lavoro dei cubisti e dei post-impressionisti”. Terna si trasferì a New York nel 1952 e iniziò a infondere la sua arte con elementi materici. “La maggior parte del mio lavoro ha qualche riferimento biblico”, ha detto Terna al New York Jewish Week, “comprese le vetrate colorate in una sinagoga a Panama e nella nostra stessa shul, la sinagoga di Kane Street”. In una recensione del New York Times del 2019 su “Place/Image/Object”, una mostra per tre persone alla Jack Barrett Gallery nel Lower East Side, il lavoro di Terna – “una serie di disegni a inchiostro percettivi di alberi, barche ed edifici” – si caratterizza come il “fulcro” dello spettacolo. “Sebbene lo stile vari ampiamente, lo zelo del signor Terna nel raccogliere dettagli visivi è lievitato dall’evidente gioia che ha provato nel registrarli”, ha scritto il recensore. Nel corso degli anni, le opere di Terna sono state raccolte da diversi musei e istituzioni, tra cui lo Smithsonian Institution di Washington, D.C., la Collezione Albertina di Vienna e lo Yad Vashem di Gerusalemme. Terna, che ha continuato a dipingere a Brooklyn fino alla fine degli anni ’90, ha anche portato la sua testimonianza di sopravvissuto alla Shoah nelle scuole superiori ed è stato un partecipante attivo al Witness Theatre.
(Bet Magazine Mosaico, 14 dicembre 2022)
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Meloni e le leggi razziali
di Elena Loewenthal
Le leggi razziali «rappresentano il punto più basso della storia italiana. Una vergogna, una macchia indelebile nella storia del nostro Paese, una infamia avvenuta nel silenzio di troppi». Difficile, se non impossibile, usare parole più chiare e condivisibili di quelle usate dal Premier Giorgia Meloni ieri in occasione dell’inaugurazione di una lapide commemorativa che ricorda i giornalisti ebrei italiani perseguitati dal fascismo. È infatti proprio questo il senso della memoria, e della memoria come educazione civile: sentire il passato, e quel passato lì, come una macchia indelebile. Non arrendersi al silenzio di quei tanti che oggi come allora sono sempre troppi.
Questo naturalmente non significa additare una colpa o anche soltanto una responsabilità a carico delle generazioni successive. Significa, invece, riconoscere quel principio fondamentale che sta nella conoscenza del passato e nella salvaguardia di quel passato come motore di progresso. Non è una questione di morale ma di pura e semplice, seppure difficilissima, questione di consapevolezza. Una consapevolezza che in Italia ha ancora molto da fare, lungo una strada fitta di tentazioni di rimozione o di accomodamento. Come la favola di un fascismo tutto sommato esente da pregiudizi e adagiato in una banale compiacenza al nazismo, o come l’idea degli italiani brava gente e basta. Oggi come allora, gli italiani sono fatti di brava gente e di persone che non hanno esitato a denunciare, tradire, collaborare con l’odio e la violenza. Con le parole di ieri e i frequenti richiami di attenzione a un antisemitismo ancora vivo e vegeto «presente fra noi», il premier usa parole fuor di ogni eufemismo e avvitamento conformistico. «La sfida alla lotta alla discriminazione e all’antisemitismo non è una sfida che abbiamo vinto», ed è proprio così. C’è ancora molto da fare, pur in presente che è così diverso dal quel tempo tremendo del fascismo e delle leggi razziali e delle persecuzioni. Quel passato, però, è ancora molto vicino, e non c’è bisogno di usare la bussola ebraica per sentirlo fiatare sul collo: secondo l’orientamento ebraico del tempo, infatti, il futuro è alle spalle, inconoscibile nella sua totalità. Il passato, invece, è davanti ai nostri occhi: irraggiungibile e intoccabile, e tuttavia in una certa misura conoscibile, di fronte a noi.
Sentirlo vicino e guardarlo dritto in faccia è il passo necessario affinché la memoria sia qualcosa di utile, non retorico. Anche quando, come in questo caso, è memoria scomodissima, insopportabilmente dolorosa. Le leggi razziali sono una vergogna che ci appartiene, una macchia indelebile, come ha ricordato Giorgia Meloni: scura, anzi nera. Sempre presente, in quanto parte di un passato nazionale che non è ammesso ignorare o anche solo accantonare, né minimizzandolo né rinnegandolo. Accanto a quella della memoria e della sua consapevolezza, c’è la sfida del presente, anch’essa evocata dal premier. Essere ebrei oggi in Italia è una condizione abissalmente lontana da quella del 1938, questo è innegabile. Ma da sempre l’antisemitismo e prima ancora l’antigiudaismo rappresentano l’archetipo del pregiudizio, lo specchio contro il quale l’odio verso l’altro da sé si riverbera in una miriade di forme e manifestazioni. Vigilare e prima ancora accogliere questa sfida è un compito di civiltà.
(La Stampa, 14 dicembre 2022)
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Eitan, udienza rinviata a Pavia: giovedì la decisione sul patteggiamento chiesto dal nonno
Aggiornata al 15 l’udienza preliminare. I legali della zia Aya: “Non congrua l’entità della pena per Peleg”
PAVIA. E' stata aggiornata a giovedì prossimo, 15 dicembre, l'udienza preliminare in corso a Pavia, davanti al gup Pietro Balduzzi, nei confronti di Shmuel Peleg, nonno materno di Eitan, bimbo unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, e del presunto complice Gabriel Alon Abutbul, entrambi accusati del rapimento del piccolo avvenuto l'11 settembre 2021, quando aveva 6 anni e venne portato in Israele.
Oggi, martedì 13 dicembre, è stata formalizzata in aula l'istanza di patteggiamento, con l'ok dei pm, della difesa di Peleg (avvocati Sara Carsaniga e Mauro Pontini), che ha già risarcito il nipote versando poco più di 50mila euro per studi e cure. Il patteggiamento ad una pena sospesa di un anno e 8 mesi è relativo ai reati di sequestro di persona aggravato e sottrazione di minore all'estero, mentre sulla terza accusa, l'appropriazione indebita del passaporto del piccolo, la stessa Procura ha chiesto il non luogo a procedere.
Intanto, dopo il risarcimento, il legale del minore, l'avvocato Fabrizio Ventimiglia, ha revocato la costituzione di parte civile nei confronti di Peleg.
Il gup dovrebbe esprimersi sul patteggiamento tra due giorni, mentre l'altro imputato deve ancora decidere se accedere ai riti alternativi o andare avanti con l'udienza preliminare, anche perché, a quanto si è saputo, la sua difesa contesta in particolare l'accusa di sequestro. Nei suoi confronti resta come parte civile il legale del bambino ed è costituita anche Aya Biran, zia paterna di Eitan, che rimane parte civile pure nei confronti di Peleg, anche perché ritiene non congrua l'entità della pena del patteggiamento. "C’è il rischio che passi il messaggio che a Pavia questo tipo di reati siano puniti con pene così basse. A nostro avviso che sia il nonno è un'aggravante", le parole dei difensori Giuseppe ed Emanuele Zanalda.
Intanto, la scelta di patteggiare viene ritenuta dai legali del nonno una strada intrapresa soprattutto nell'interesse del bambino e del suo rapporto con Peleg, che comunque in questi mesi ha mantenuto con lui rapporti telefonici.
(La Provincia Pavese, 13 dicembre 2022)
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Il Mossad rivela l’ultimo telegramma di Eli Cohen
"Lo scoprirono perché il nemico intercettò i suoi messaggi"
Il capo del Mossad David Barnea ha rivelato ieri l'ultimo telegramma inviato dalla leggendaria spia israeliana Eli Cohen, insieme a nuove informazioni sulla sua cattura. Datato il 19 febbraio 1965, presumibilmente il giorno della sua cattura, il telegramma riferiva di una riunione dello Stato Maggiore siriano con la partecipazione dell'allora presidente Amin Al-Hafez. Il documento è stato presentato per la prima volta da Barnea, in occasione della commemorazione dell’agente israeliano al Museo dedicato ad Eli Cohen ad Herzliya.
"Eli Cohen è stato tra i nostri migliori agenti - ha detto Barnea - Continua a influenzarci e a instillare in noi lo spirito combattivo, il coraggio, i valori e la devozione, anche dal profondo della storia. È una fonte di ispirazione non solo per gli agenti di oggi, ma per tutti i dipendenti del Mossad nelle loro varie posizioni. Tutti impariamo da lui, anche oggi, dal suo sionismo, dal suo sacrificio e dalla sua dedizione”.
“Il motivo della cattura di Eli Cohen è sempre stato controverso. – ha continuato Barnea - Ha trasmesso troppe (informazioni)? Ha agito in contrasto con le direttive? Il quartier generale ha richiesto che trasmettesse troppo intensamente? La questione è stata oggetto di controversia per molti anni. Onorerò questo luogo sacro e rivelerò, per la prima volta, a seguito di ricerche approfondite condotte di recente, che Eli Cohen non è stato catturato a causa della quantità delle sue trasmissioni (di informazioni) o della pressione del quartier generale affinché trasmettesse troppo frequentemente".
“Eli Cohen è stato catturato perché le sue trasmissioni sono state semplicemente intercettate e triangolate dal nemico” ha rivelato il Capo del Mossad - Oggi il Mossad consegnerà al Museo l'ultimo telegramma che Eli Cohen ha inviato da uomo libero. Il telegramma è datato 19 febbraio 1965, giorno della sua cattura, e riferisce di una riunione presso lo Stato Maggiore siriano con la partecipazione dell'allora presidente Amin Al-Hafez”.
"Il Mossad ha lavorato, e continuerà a lavorare, per rivelare informazioni e nuovi dettagli sul periodo in cui Eli Cohen ha prestato servizio in Siria e continuerà a lavorare per portare i suoi resti per la sepoltura in Israele" ha concluso Barnea.
Qui la storia di Eli Cohen.
(Shalom, 13 dicembre 2022)
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Reggio Calabria culla della stampa ebraica. Un convegno
Un incontro sul primo libro realizzato con caratteri mobili
REGGIO CALABRIA - Il commentario di Rashi al Pentateuco. Il primo libro stampato con caratteri mobili, oggi esposto nella biblioteca Palatina di Parma, torna, in copia anastatica, in mostra a Reggio Calabria.
Se ne è parlato nel convegno sul tema "Reggio Calabria, culla della stampa ebraica. 1475, il Commentario di Rashi al Pentateuco", organizzato dalla Regione Calabria in collaborazione con Calabria Film Commission e l'Università per Stranieri "Dante Alighieri".
"Un libro che rappresenta un primato assoluto - ha affermato il rettore della "Dante Alighieri" Antonino Zumbo - e che denota l'immediato adeguamento che c'era nella città di Reggio al progresso del tempo, la vivacità culturale di una comunità ebraica colta. L'editto del 1511, di Ferdinando d'Aragona ha dato vita alla cosiddetta diaspora degli ebrei che furono cacciati dal Meridione d'Italia".
Ma in Calabria resta una ricca testimonianza della presenza ebraica, dimostrata non solo dalla stampa del commentario di Rashi, ma dal quartiere della Giudecca a Reggio, la Sinagoga a Bova Marina, la Giudecca di Nicotera e Santa Maria del Cedro in provincia di Cosenza. "Tradizioni che rappresentano - ha detto il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto a margine dell'iniziativa - un asset di sviluppo straordinario per la Calabria. Il Governo regionale guarda con molta attenzione alla comunità ebraica che ha voluto rivolgere la sua attenzione alla Calabria. Ho chiesto un incontro al Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano per dare alla possibilità alla Calabria di ospitare, almeno per qualche settimana, per qualche mese, questo straordinario documento".
"Questo convegno segna l'importanza - ha affermato Giulio Disegni, vice presidente dell'Unione Comunità Ebraiche italiane - che è stata data a questo volume fondamentale che è un po' patrimonio di tutti".
(ANSA, 13 dicembre 2022)
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L’asse Marocco-Israele e la guerra dei droni
di Antonio Lombardi
"Nell'ultimo anno e mezzo, i legami marocchino-israeliani si sono ampliati, comprendendo una forte cooperazione militare e di sicurezza producendo promettenti opportunità commerciali. Dalla sottoscrizione dell’accordo di normalizzazione, mediato dall’amministrazione Trump nel 2020, i due paesi hanno firmato oltre una trentina di intese e memorandum che riguardano i settori della difesa, del commercio e dell’agricoltura. La cooperazione militare è sicuramente quella più intensa. Le profonde interazioni che scaturiscono dall’accordo producono reciproci vantaggi: il Marocco ha un accesso diretto alle tecnologie della difesa mediorientale ed Israele confida in una crescente accettazione e presenza nell’Africa del nord. Gli israeliani forniscono un vantaggio importante all'esercito marocchino, desideroso di migliorare le proprie capacità attraverso l'accesso alla tecnologia di quest’ultimo, in particolare riguardo agli UAV (aeromobili a pilotaggio remoto, ndr). Il Marocco considera sempre più la cooperazione militare con Israele come un potenziale deterrente all'aggressione del Fronte Polisario (e, in misura minore, dell'Algeria). Tuttavia, questa posizione e la sua recente corsa all'acquisto di armi stanno aggravando le tensioni diplomatiche con Algeri. Nel campo della difesa, solo nell’ultimo anno, ci sono stati due importanti incontri tra esponenti militari dei due paesi. Il primo nel novembre dello scorso anno quando, i rispettivi ministri della difesa, hanno sottoscritto un protocollo d’intesa che prevedeva acquisto di armamento, tecnologie per la sicurezza informatica e pianificazioni di esercitazioni militari congiunte. Tra il luglio ed il settembre di quest’anno, invece, c’è stato uno scambio di visite tra il generale Belkhir el-Farouk, ispettore generale delle forze armate reali del Marocco (Forces Armées Royales, FAR), ed il capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane (IDF), Aviv Kochavi. La prima nel mese di luglio in Marocco, la seconda in occasione dell'evento, soprannominato Operational Innovation organizzato dalle forze di difesa israeliane che si è tenuto a Tel Aviv dal 12 al 15 settembre.
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Anche la collaborazione commerciale ed economica è ampia e prevede investimenti nel campo delle energie rinnovabili e sulla gestione delle acque marocchine mentre, le imprese private israeliane, accrescono i propri investimenti in Marocco. Strategicamente, per il paese nord-africano, ciò agevola il riconoscimento da parte degli Stati Uniti nelle sue rivendicazioni sul Sahara occidentale (vedi articolo: "Marocco vs Sahara occidentale, una continua ed infinita guerra mai sopita") ed un rafforzamento dei rapporti anche con l’Unione Europea oltre che a favorire uno sbilanciamento verso di esso dell’influenza militare nei confronti dell’Algeria. La partnership offre chiari vantaggi a entrambe le parti. Essi possono riassumersi con un accesso facilitato alle tecnologie militari e di intelligence israeliane da parte del Marocco mentre Israele otterrebbe una maggior accettazione tra gli stati arabi ed una notevole influenza nel nord-Africa. Sempre spinosa resta la questione palestinese. Il Marocco sostiene un accordo tra le parti ma ha sempre cercato di mantenere le distanze nella disputa mentre Israele con questa ed altre partnership, senza risolvere la questione palestinese, sta ottenendo non solo la “pace” con i paesi arabi ma anche intensi rapporti commerciali e di sicurezza con essi. I risultati delle ultime elezioni israeliane ed il continuo spostamento a destra potrebbe indebolire questo partenariato ma la mole degli investimenti è tale che difficilmente la cooperazione venga limitata. Poco dopo la firma dell'accordo di normalizzazione, a luglio 2021, le compagnie aeree israeliane hanno introdotto il primo volo commerciale diretto Marrakech-Tel Aviv. Nell’agosto di quest’anno è stato anche raggiunto un accordo per riaprire l’ambasciata israeliana a Rabat per rafforzare la cooperazione nei settori del commercio e della difesa. Gli accordi prevedono anche l’esportazione di manodopera marocchina in Israele nel campo, soprattutto, dell’edilizia
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. Dalla sua indipendenza (1956) il Marocco ha combattuto due storici avversari quali il Fronte Polisario e l’Algeria. L’accesa rivalità con Algeri continua ancora e caratterizza anche la politica estera di entrambi i Paesi. La controversia tra Marocco, Algeria, Mauritania, Spagna e il Fronte Polisario su chi ha il legittimo diritto di controllare il territorio del Sahara occidentale ha portato ad un ingrandimento dell’esercito marocchino e ad un suo ammodernamento. Tuttavia, oggi, la preoccupazione maggiore per il Marocco deriva dalla vicina Algeria. Agenzie di stampa riferiscono che Algeri abbia contattato la North Industries Group Corporation Limited (Norinco) per l'acquisto del lanciamissili balistici a corto raggio SY-400 (SRBM). Questo completerebbe il sistema missilistico balistico Iskander E (made in Russia) e i missili YJ-12B di fabbricazione cinese. Ciò rafforzerà significativamente la sua posizione regionale nell’instabile regione del Medio Oriente e del Nord Africa. D'altra parte, le tensioni tra Algeria e Marocco sono aumentate significativamente negli ultimi tempi, soprattutto a causa dell'intensificarsi delle attività di diversi gruppi di guerriglieri sul triplice confine tra Algeria, Marocco e Sahara occidentale. Il Marocco, dal canto suo, vuole competere in materia di sicurezza e difesa concentrandosi sull’efficacia e raffinatezza del suo esercito.
• Le spese militari pro-capite di Marocco e Algeria sono rispettivamente la quarta e la seconda nel mondo
L’Algeria è il più importante acquirente di armi russe mentre il Marocco coltiva un rapporto di cooperazione avanzato con istituzioni militari americane e ha una lunga storia di acquisizione ed interoperabilità con le forze armate statunitensi, inglesi (vedasi articolo "Esercitazioni britanniche e 'gatto selvaggio'") e francesi. Sebbene il Marocco abbia, come appena detto, intensi rapporti militari di collaborazione con gli Stati Uniti e l'UE, Israele offre un ulteriore occasione di migliorare le proprie capacità. L'accesso del Marocco alla tecnologia israeliana quali UAV, gli consente di fare un balzo in avanti nel potenziamento delle sue forze armate. Rabat dovrebbe acquisire cinque diversi tipi di droni: Heron, Hermes 900, WanderB, ThunderB, e Harfang. Dal trattato di normalizzazione, il Marocco ha acquistato un lotto di droni Harop (conosciuti come droni kamikaze, possono volare fino a nove ore, trasportare 20 kg di esplosivo e raggiunge una velocità massima di 225 nodi) per 22 milioni di dollari nel 2021. Pare che il Marocco abbia acquisito anche il Wing Loong I (cinese), il Bayraktar TB2 (turco), l’MQ-A1 Predator e l’MQ-9B Sea Guardian (americano).
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Esperti dicono che quest'ultimo, se utilizzato insieme al TB2 acquisito dalla Turchia, aiuterebbe l'esercito marocchino a superare l'S-300 algerino e potenzialmente il suo S-400. Lo scorso anno il Marocco ha acquistato il sistema anti-droni israeliano Skylock Dome in grado di identificare e neutralizzare droni.
A febbraio, invece, si è accordato con l’Israel Aerospace Industries (IAI) per il sistema di difesa aerea e missilistica Barak MX per 500 milioni di dollari. Il Barak MX è un sistema di difesa missilistica flessibile e modulare che protegge i soldati da caccia nemici, missili da crociera, missili balistici, droni ed elicotteri. Il sistema offre tre tipi di intercettori: il Barak-MRAD, che intercetta missili fino a 35 chilometri; il Barak-LRAD, che può raggiungere obiettivi fino a 70 chilometri di distanza; e il Barak-ER, con un'autonomia estesa di 150 chilometri.
L'accordo di cooperazione militare con Israele prevede anche un piano per la costruzione di due fabbriche di UAV in Marocco, nella regione di Al-Aoula, per la produzione di droni Harop che sarebbero etichettati come di fabbricazione marocchina. Il Marocco, con i sempre più crescenti rapporti con Israele, mira a rafforzare la sua influenza nella regione nel nord-Africa, in particolare rispetto a quella dell'Algeria e ciò va ad intersecarsi con la volontà di Algeri di contrastare efficacemente Rabat sulle ambizioni nel Sahara occidentale nonché quella di un maggior peso politico in Africa ma non solo. Questo genera tensioni diplomatiche tra due stati super armati. Dall’agosto 2021, ovvero da quando si sono spezzati i rapporti diplomatici, la reciproca ostilità, il sostegno popolare galvanizzato da una costante politica di retorica improntata sull’espansione dei propri armamenti, la disputa nel Sahara occidentale nonché le aspirazioni di leadership continentale non lasciano presagire niente di buono per il prossimo futuro. La sottoscrizione degli Accordi di Abramo da parte del Marocco, ha visto ampliare i propri fini iniziali ovvero quello di garantirsi l’appoggio statunitense sulla questione Sahara occidentale ed una forte cooperazione con Israele. Come precedentemente anticipato, è evidente una ricerca di affermazione nella regione nordafricana e ciò può passare attraverso il suo allineamento con l'asse Israele-USA contro l'Iran. La competizione algerino-marocchina si espande, sempre più, anche nel Sahel dove Stati Uniti e UE hanno interessi più o meno dichiarati. Staremo a vedere...
(Difesa online, 13 dicembre 2022)
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La comunità ebraica di Casale Monferrato ricorda Antonio Recalcati
di R.I.
Domenica 4 dicembre ci ha lasciati un’artista ben conosciuto e amato a Casale Monferrato: Antonio Recalcati. Chiunque varchi le porte del complesso di vicolo Salomone Olper e guardi subito a sinistra, non può non rimanere colpito dal piccolo memoriale per le vittime delle deportazioni realizzato in terracotta da questo eclettico e geniale pittore, scultore, creatore di mondi a cui stavano strette le definizioni. Era nato nel 1938 a Bresso e si era formato giovanissimo all’arte da autodidatta con soggiorni a Parigi e a New York. La sua serie “Impronte, quelle lasciate prima dagli indumenti e poi dal corpo dell’artista sulla tela, aveva attirato l’attenzione di tutto il mondo. Dino Buzzati, Alberto Moravia, Jacques Prévert, Giovanni Testori hanno scritto di lui. Nel 1976 il Centro Pompidou di Parigi gli aveva dedicato un’ampia retrospettiva, mentre nel 1987 è stata la volta di Palazzo Reale di Milano. Un gigante dell’arte affezionatissimo alla Comunità Ebraica di Casale e alla famiglia Carmi con cui era legato da una profonda amicizia. Nell’autunno 1994, in occasione delle celebrazioni per i quattrocento anni della Sinagoga di Casale, è stato anche lui, insieme a Elio Carmi, Aldo Mondino e Paolo Levi, ad avere l’idea del Museo dei Lumi: la raccolta di Chanukkiot d’arte contemporanea, prodotte da artisti ebrei e non. “Antonio era un indagatore dell’anima. Irrequieto, prolifero, innovativo e rigoroso. – ricorda Elio Carmi Presidente della Comunità Ebraica di Casale – L’arte è stata tutta la sua vita. Con lui abbiamo avvicinato artisti internazionali e li abbiamo convinti a contribuire alla collezione, ma insieme avevamo deciso fin dall’inizio che sarebbe stata un’iniziativa inclusiva e aperta, e così è stato”. Non solo Recalcati coinvolse nel progetto alcuni dei più grandi maestri (come Armand e Topor ad esempio) le cui opere oggi fanno bella mostra nel Museo dei Lumi, fu anche tra i promotori della Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale ETS che oggi gestisce la collezione, ed ebbe un ruolo determinante per la prima esposizione dei lumi casalesi a Parigi. “Non sono praticante – ha lasciato scritto sul sito del Museo dei Lumi ricordando quella storia – mi sono avvicinato all’ebraismo in modo “sottomesso”. Ho cominciato a pensare di lavorare sulle Chanukkiot quando sono rimasto affascinato dal gusto del pensiero. Chanukkah innanzi tutto è una ricorrenza che celebra una vicenda gioiosa, celebra la vita e la luce dopo secoli di sofferenza. Mi affascina questa cultura millenaria, ammiro il rapporto che lega indissolubilmente l’uomo a D-o. Senza alcun intermediario”. Per il museo Recalcati aveva prodotto ben quattro lampade, ma non faceva mistero di preferire quella realizzata con una fusione in bronzo in cui i diversi bracci della Chanukkiah erano creati da una sovrapposizione di fogli piegati, come i biglietti che venivano inseriti nel Muro del Pianto. Fino a quando la salute e l’età lo hanno permesso Antonio Recalcati era una personalità fissa nella celebrazione collettiva di Chanukkah a Casale, quella domenica di dicembre in cui da vent’anni vengono accesi i lumi per tutto il Cortile delle Api dai rappresentanti delle fedi monoteiste e presentate le lampade che entrano al Museo dei Lumi. Per questo la cerimonia di quest’anno che cadrà domenica 18 dicembre, sarà dedicata a lui.
(Bet Magazine Mosaico, 13 dicembre 2022)
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Inviati UE boicottano visita al Muro Occidentale
GERUSALEMME/al-Quds - Venerdì, gli ambasciatori di quattro paesi dell’Unione Europea (UE) hanno boicottato un tour al Muro Occidentale della moschea di al-Aqsa, guidato dall’inviato israeliano negli Stati Uniti Gilad Erdan, secondo quanto riferito dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Secondo il Western Wall Heritage Fund, l’attività è stata organizzata “come parte di un tour informativo, gli ambasciatori di diversi paesi hanno visitato il nuovo percorso attraverso i tunnel del Muro Occidentale”. Ha affermato che il tour aveva come obiettivo spiegare il presunto “collegamento del popolo ebraico con il proprio paese e conoscere la storia ed il presente”. Itamar Eichner, corrispondente diplomatico di Yedioth Ahronoth, ha riferito che l’UE aveva ordinato agli ambasciatori dei suoi Stati membri di non prendere parte al tour guidato da Erdan: “L’UE ha ordinato all’ultimo momento agli ambasciatori di tre paesi europei alle Nazioni Unite – Italia, Slovenia e Romania – di boicottare il tour del Muro Occidentale. Anche l’ambasciatore della Moldavia si è unito al boicottaggio”. Commentando ciò, Erdan ha risposto: “La visita degli ambasciatori che conduco in Israele fa parte della mia guerra alle Nazioni Unite per smascherare le bugie dei palestinesi ed il loro tentativo di cancellare il legame millenario tra noi e Gerusalemme”. Ha aggiunto: “Sfortunatamente, quattro paesi europei hanno preso una decisione codarda, motivata da considerazioni politiche. Questa vergognosa decisione non fa che rafforzare la lotta per rivelare la nostra verità”. Haaretz ha riferito che gli ambasciatori di Romania, Italia, Slovenia e Moldavia non si sono uniti al tour a causa delle preoccupazioni europee riguardo allo status della sovranità israeliana sulla Città Vecchia di Gerusalemme.
(InfoPal, 12 dicembre 2022)
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L’Ambasciatore italiano all’Onu non va al Kotel su suggerimento di Bruxelles
di Ugo Volli
• Di nuovo schierati contro Israele
Con due voti molto significativi la rappresentanza italiana all’Onu ha appena dato prova nelle ultime settimane di essersi staccata dal vecchio schieramento antisraeliano all’Onu, grazie alla guida del nuovo ministro degli Esteri Antonio Tajani; ma ci è subito ricascata. La responsabilità probabilmente non è del governo, ma direttamente della rappresentanza italiana all’Onu.
• Il viaggio di studio
Come accade abbastanza spesso, il rappresentante israeliano all’Onu Gilad Erdan aveva invitato un gruppo di altri ambasciatori presso le Nazioni Unite a svolgere un viaggio di studio in Israele e in particolare a Gerusalemme, questa volta associandosi in maniera molto significativa a Lana Nusayeva, ambasciatrice degli Emirati Arabi. Sono visite importanti per far conoscere la realtà del Medio Oriente, dei nuovi accordi di Abramo e dissipare la diffamazione sistematica di cui lo stato ebraico è fatto oggetto. Questa volta si trattava di un gruppo di tredici ambasciatori, che, dopo due giorni negli Emirati Arabi Uniti, sono arrivati per un viaggio di cinque giorni in Israele. Durante la loro visita in Israele, gli ambasciatori incontrano il presidente Herzog, il primo ministro designato Netanyahu, nonché funzionari militari e di sicurezza. I diplomatici dovrebbero inoltre visitare la Chiesa del Santo Sepolcro, il Museo Yad Vashem e altri siti storici. Inoltre, saranno ospiti del comando settentrionale delle forze armate israeliane, ricevendo informazioni di sicurezza sulla situazione del difficile confine con Libano e Siria, saranno portati all’interno dei tunnel terroristici di Hezbollah e altro ancora. Fra essi vi era anche l’Ambasciatore italiano all’Onu.
• Il Kotel mancato
La tappa di ieri riguardava Gerusalemme. In extremis però l'Unione Europea ha ordinato agli ambasciatori dei tre Paesi europei presenti nella delegazione – Italia, Slovenia e Romania – di boicottare la tappa del viaggio al Kotel, il muro occidentale costruito da Erode per il Monte del Tempio, il luogo più solenne oggi per l’ebraismo, che nella stampa occidentale viene spesso definito “Muro del pianto”. La ragione dichiarata del boicottaggio sarebbe il fatto che il Kotel si trova nella Città Vecchia di Gerusalemme, che l’Unione Europea non riconosce come territorio israeliano. I tre ambasciatori hanno obbedito all’ingiunzione europea e l’ha fatto anche quello italiano, mettendo con ciò in evidenza una dipendenza della diplomazia italiana dalle burocrazie comunitarie non sancita da alcuna norma e politicamente insostenibile. In effetti il pretesto non regge, perché vi sono molti precedenti in contrario. Poco più di due anni fa, infatti, il ministro degli esteri italiano in carica Luigi Di Maio era andato al Kotel. E nel 2016 il presidente Mattarella non era passato dal Kotel, ma entrato nel cuore della città vecchia di Gerusalemme, visitando la Chiesa del Santo Sepolcro. In precedenza al Kotel erano venuti, sempre nelle visite organizzate da Israele gli ambasciatori ONU di Polonia, Repubblica Ceca, Albania e Slovacchia. Esempi che si potrebbero facilmente moltiplicare. Ma qualcuno, nella burocrazia di Bruxelles, ha deciso che queste visite non si potevano più fare.
• Ragioni politiche
In seguito alla decisione dei quattro colleghi europei, Erdan ha dichiarato: “La visita degli ambasciatori che sto conducendo in Israele fa parte della mia battaglia all'Onu per smascherare le bugie dei palestinesi e il loro tentativo di cancellare il legame secolare tra noi e Gerusalemme. Sfortunatamente, quattro paesi europei hanno preso una decisione codarda motivata da considerazioni politiche. Questa vergognosa decisione non fa che rafforzare la lotta per rivelare la nostra verità”. Non c’è che sperare che il governo italiano corregga questa nuova sbandata della nostra diplomazia subordinata all’Unione Europea contro Israele (e contro la storia).
(Shalom, 11 dicembre 2022)
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L'Unione Europea andrà certamente avanti. Si è illuso chi pensava che l'Italia potesse disfarsene con una spallata. Ma si sono anche illusi, e forse s'illudono ancora, quegli antisovranisti che hanno visto nell'Europa il miraggio di una sovranità sovranazionale che garantisse forme di pace, libertà e maggiore giustizia per tutti. E' poi desolante vedere che tanti amici di Israele, ebrei o non ebrei, non hanno capito che la forma più strisciante di "antisemitismo giuridico" (quello contro la piena legittimità della nazione ebraica) non passa oggi attraverso nazioni fascistoidi, ma attraverso multiformi governance globali di cui l'attuale Unione europea è uno degli esempi più mostruosi . M.C.
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Caso Eitan: nonno versa 50mila euro, c'è intesa su patteggiamento
La vicenda riguarda il presunto rapimento del bambino sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone, che l'11 settembre del 2021 fu portato in Israele.
Shmuel Peleg, nonno materno di Eitan, il bambino unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone, ha già versato 50mila euro, per studi e cure, a favore del nipote come risarcimento e ha raggiunto allo stesso tempo, sempre attraverso i suoi legali, un accordo con la Procura di Pavia per patteggiare una pena sospesa sotto i 2 anni per la vicenda del presunto rapimento del bambino, di allora 6 anni, che l'11 settembre del 2021 fu portato in Israele.
• L'udienza domani Il patteggiamento verrà discusso nell'udienza di domani davanti al gip di Pavia Pietro Balduzzi, che dovrà decidere se ratificarlo e valutare anche la posizione del presunto complice di Peleg, Gabriel Alon Abutbul. Nella vicenda Peleg, così come il presunto complice, è stato accusato di sequestro aggravato, sottrazione di minore all'estero e appropriazione indebita del passaporto.
• Le parole del legale "Sono fiducioso che si trovi un accordo nell'interesse del minore - aveva spiegato il legale che rappresenta il minore, Fabrizio Ventimiglia - Oggi Eitan sta seguendo un suo percorso di recupero, nel quale va tutelato così come per il suo futuro scolastico". L'intesa sul patteggiamento tra accusa e difesa prevede, oltre al risarcimento, una pena per il nonno inferiore ai 2 anni, con sospensione condizionale.
(Sky TG24, 12 dicembre 2022)
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Israele: Chen (Gpo), “vogliamo rafforzare le relazioni tra i media e giornalisti cristiani di tutto il mondo”
GERUSALEMME - Si è aperto nella serata di ieri (fino al 14), a Gerusalemme, il 6° Summit dei media cristiani, evento promosso dal Ministero degli Esteri di Israele e dall’Ufficio stampa del Governo israeliano (Government Press Office, Gpo), cui partecipano oltre 100 giornalisti da 28 paesi del mondo. Quattro giorni di lavori con interventi istituzionali e di relatori legati al mondo dell’impresa, del sociale e religioso. Previste anche visite al Parlamento (Knesset), nelle zone del sud di Israele, a ridosso della Striscia di Gaza per conoscere la realtà del conflitto con Hamas.
“Scopo di questo Summit – dichiara al Sir Nitzan Chen, direttore del Gpo – è rafforzare le relazioni tra i media e giornalisti cristiani di tutto il mondo con Israele. I media cristiani giocano, infatti, un ruolo importante nell’informare il proprio pubblico, sia esso composto da lettori, telespettatori o utenti della rete, circa Israele”. “La speranza – continua Chen – è che attraverso strumenti come il Summit si possano costruire ponti soprattutto in un tempo come questo segnato da sfide difficili e da conflitti in tutte le zone del mondo”. “Sono certo – conclude – che anche il dialogo interreligioso, specialmente quello tra le religioni monoteistiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, possa avere una spinta da questo approccio propositivo”.
(SIR, 12 dicembre 2022)
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Chanukkah, la festa delle luci alle porte del quartiere ebraico di Oria
La storia non si dimentica. Domenica 18 dicembre
Domenica 18 dicembre alle ore 17.30 ad Oria in piazza Donnolo, presso la Porta degli ebrei, da cui si accede al piccolo quartiere della giudecca, per la prima volta dopo cinque secoli dalla cacciata degli ebrei dal Sud Italia, si festeggerà Chanukkah, la festa delle luci, una delle feste più emozionanti della tradizione ebraica. Ad organizzare l’evento, a cui tutta la cittadinanza è invitata a partecipare, sarà l’Associazione Amittai Ben Shefatia che da molti anni è attiva nella città per la riscoperta e la valorizzazione della locale storia ebraica in collaborazione con l’Amministrazione comunale.
La cerimonia vedrà l’accensione del primo lume della Chanukkiah, il candelabro a nove braccia, che per l’occasione è stato donato dai signori Maurizio Jona Stringhini e Cristina Laurenza.
Chanukkah si festeggia il 25 del mese di Kislev, che quest’anno coincide con il 18 dicembre e dura otto giorni. La festa, che non è stata comandata dalla Torah, ma è stata stabilita dai Maestri del Talmud, ricorda due eventi della storia del popolo ebraico: il miracolo dell’olio e la vittoriosa rivolta di Giuda Maccabeo contro Antiochio di Siria, che voleva imporre il paganesimo ellenista, nel 168 a.e.v..
Chanukkah, che letteralmente significa “inaugurazione”, chiamata anche la festa del miracolo dell’olio, ricorda che quando, dopo una strenua battaglia, il Tempio fu riconquistato, si dovette procedere alla riconsacrazione.
Nel Tempio però fu trovata una sola ampolla di olio puro recante il sigillo del Sommo Sacerdote. Per la preparazione di olio puro (viene considerato olio puro quello raccolto dalle prime gocce della spremitura delle olive) occorrevano otto giorni. Nel trattato talmudico di Shabbat (21b) leggiamo del grande miracolo che occorse: l’olio che poteva bastare per un solo giorno, fu sufficiente per otto giorni, dando così la possibilità ai Sacerdoti di prepararne dell’altro nuovo.
In ricordo di quel miracolo, i Saggi del Talmud istituirono una festa di lode e di ringraziamento al Signore che dura appunto 8 giorni durante i quali tutte le sere gli ebrei di tutto il mondo accendono sia nelle sinagoghe, sia nelle loro case speciali candelabri a nove braccia detti Chanukkiah che possono avere svariate forme, ma è indicato che gli otto contenitori per le candele siano tutti allineati alla stessa altezza e che il nono – lo shammash, il servitore, quello che serve per accendere gli altri lumi – sia in una posizione diversa. La prima sera della festa si accende un lume e ogni sera, per otto giorni, se ne aggiunge uno in più, fino a che l’ottava sera si accendono 8 lumi.
Nel corso della festa i bambini ricevono regali e in particolare delle trottoline, su cui compaiono le iniziali delle parole “Un grande miracolo è avvenuto lì”, ed è usanza preparare cibi salati o dolci fritti nell’olio.
Uno dei precetti relativi alla festa è quello di “rendere pubblico il miracolo”, per questo si usa accendere i lumi al tramonto o più tardi, quando c’è ancora gente nelle vie, vicino alla finestra che si affaccia sulla strada, al fine di rendere pubblico il miracolo che avvenne a quel tempo.
Durante questo tempo si interrompono le attività lavorative, si riflette sulla vittoria della luce sull’ombra e le tenebre e si rinnova la fedeltà ebraica verso la fede e le tradizioni in antitesi ai richiami dell’idolatria.
(Lo Strillone, 12 dicembre 2022)
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Ebrei iraniani, tra lotta per la libertà e propaganda di regime
L’8 maggio del 1979 Habib Elghanian, dopo un processo di venti minuti, fu condannato a morte e giustiziato da un plotone d’esecuzione. Il tribunale islamico del regime komeinista lo ritenne colpevole di essere “una spia sionista” e di “aver fatto guerra a Dio e al suo Profeta”. Elghanian era sia uno degli uomini d’affari più importanti dell’Iran pre-rivoluzione sia il punto di riferimento della comunità ebraica iraniana. Aveva passato la vita a far rifiorire quest’ultima e allo stesso tempo a facilitare gli ebrei che desideravano fare l’aliyah in Israele. Imprigionato il 16 marzo 1979, Elghanian divenne il primo ebreo, come raccontò il Time all’epoca, ad essere ucciso dal nuovo potere islamista installatosi a Teheran. Il suo assassinio contribuì a convincere decine di migliaia di ebrei iraniani a lasciare il paese. Quasi il 90 per cento degli 80mila membri della Comunità emigrarono. Chi rimase, dovette sottostare alle rigide regole del regime degli Ayatollah, alla sua repressione e alle sue minacce. E in questo clima, spiegano oggi gli analisti, vanno letti i recenti comunicati della Comunità ebraica a sostegno del governo e non di chi manifesta nelle piazze nel nome di Mahsa Amini e della libertà. “Purtroppo gli sgherri del regime costringono sempre i leader ebrei e di altre minoranze religiose in Iran a rilasciare nei media dichiarazioni favorevoli al governo. – spiegava al Jerusalem Post Karmel Melamed, giornalista e voce della Comunità ebraica iraniana in esilio – Oppure spesso li fanno sfilare davanti ai programmi televisivi occidentali per elogiare il regime come parte di uno sforzo propagandistico per far apparire il regime in buona luce”.
Proprio Melamed, che copre e sostiene a distanza le manifestazioni in Iran, ha rivelato che di recente cinque ebrei sono stati arrestati dalle autorità. Uno è stato rilasciato mentre sugli altri la comunità ebraica sta ancora mediando per la scarcerazione. “I quattro ancora in carcere sono in attesa che le autorità iraniane giudichino i loro casi, insieme a molti altri giovani che sono stati arrestati per il loro coinvolgimento nelle proteste”, ha spiegato Melamed al Jerusalem Post. Dei quattro detenuti, due sono studenti universitari di Teheran che sono stati fermati insieme a decine di altri coetanei. E proprio il fattore dell’età, aggiunge Melamed, è un elemento di rottura, così come accade per gli altri manifestanti. “Mentre i loro genitori e nonni più anziani possono aver assistito o sperimentato la brutalità del regime negli ultimi 43 anni e ne hanno paura, la generazione più giovane di ebrei iraniani non l’ha fatto e segue altri giovani che non hanno paura e chiedono solo la libertà”.
A raccontare le condizioni dell’ebraismo iraniano oggi, che conta tra gli otto e i diecimila membri, anche il quotidiano Israel Hayom, in un articolo molto critico verso la leadership comunitaria. Il giornale ricorda come agli ebrei iraniani non sia permesso visitare Israele e “nemmeno parlare al telefono con le loro famiglie qui. I loro figli devono calpestare la bandiera israeliana all’ingresso della scuola e devono gridare morte a Israele nelle manifestazioni per il Giorno di Gerusalemme”. “Nonostante tutto questo, – la dura accusa d’Israel Hayom – i diecimila ebrei rimasti in Iran continuano ad esprimere il loro sostegno al regime senza pensare al loro popolo”. d.r.
(moked, 12 dicembre 2022)
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Miriam, un personaggio profetico (8)
di Gabriele Monacis
Morta e sepolta. Questa è dunque la fine della storia di Miriam nel Tanach, nome che si usa in ebraico per indicare l’Antico Testamento. Una fine non così diversa, del resto, da molti altri personaggi, anche illustri, di cui parlano le Sacre Scritture. A parte i rari casi di Enoc ed Elia, che furono rapiti in cielo mentre erano in vita e quindi non furono sepolti nella terra, la Bibbia non parla di persone che arrivarono alla fine dei loro giorni senza essere morti e sepolti. Anzi, la morte e la sepoltura sono spesso riportati nella Scrittura per enfatizzare che questa è la fine che toccò anche a persone che nella loro vita si distinsero dagli altri per ciò che fecero o dissero. La storia di Israele come popolo, invece, continua ancora molti anni dopo la morte di Miriam, per secoli e millenni, come raccontano la Bibbia e i libri di storia, e come è sotto gli occhi di tutti ai giorni nostri. Di Israele non si può certo dire che è un popolo morto e sepolto, al contrario di altri popoli dell’antichità che ad un certo punto della storia hanno smesso di esistere. Se, come visto nelle occasioni precedenti, Miriam rappresentò bene il popolo di Israele per le cose che fece quando era in vita, non si può dire lo stesso per la fine che fece: morta e sepolta lei, vivo e vegeto Israele, fino ad oggi. Il ricordo e l’esempio di questa donna, però, continuarono a riecheggiare profeticamente nella mente dei figli di Israele anche molti anni dopo la sua morte. Questo, infatti, chiese di fare Mosè a Israele: “Ricordati di quello che l’Eterno fece a Miriam”. L’ammonimento di Mosè ai figli di Israele prima di entrare nella terra promessa non era certo per metterli in guardia dalla malattia della lebbra, per quanto letale essa fosse, visto che Miriam ne fu colpita non per aver toccato un lebbroso, ma per aver parlato contro Mosè. Con queste parole Mosè intendeva avvertire i figli di Israele di non allontanarsi dalla Parola di Dio, come effettivamente fece Miriam prima di diventare lebbrosa, per non incorrere nelle conseguenze che lei subì: essere allontanata dalla presenza di Dio. L’evidente diversità tra la fine di Miriam, morta e sepolta, e la non-fine di Israele nella storia, esige una certa spiegazione. Per poter darne una, si tenterà di delineare un quadro generale che comprenda tutti gli eventi della vita di Miriam riportati nella Scrittura. Tracciando una linea che interpoli i punti lasciati dalle sue vicende, sarà infatti possibile individuare la direzione verso cui guardare per comprendere meglio il valore profetico che questo personaggio ha lasciato nella storia di Israele, e perché Miriam rimane un esempio per Israele anche nel suo essere morta e sepolta. Ecco le vicende di Miriam in sintesi. La Scrittura presenta il personaggio di Miriam in quattro contesti, ognuno dei quali tratteggia una peculiarità di questo personaggio. Il primo è la Miriam almà. Presumibilmente ancora giovane, Miriam non solo impedì che il suo fratellino Mosè morisse nelle acque del Nilo, ma fece in modo che il piccoletto finisse in buone mani, quelle della figlia del faraone. Il secondo è la Miriam profetessa. Dopo l’uscita incolume di Israele dal mar Rosso, con tamburelli e danze, Miriam guidò le donne del popolo ad adorare il Signore, il quale aveva appena salvato Israele dalle acque del mare. Il terzo episodio parla di quando Miriam diventò lebbrosa. Dopo essersi ribellata all’autorità di Dio, Miriam fu guarita dalla lebbra che l’aveva colpita, ma dovette rimanere fuori dall’accampamento per sette giorni. Dio la respinse per aver parlato contro Mosè, ma non per sempre. “Se suo padre le avesse sputato in viso, non sarebbe forse nella vergogna per sette giorni?” disse l’Eterno a Mosè quando questi Gli chiese di guarire sua sorella dalla lebbra. Nel quarto e ultimo episodio Miriam muore e viene sepolta. Nella narrazione biblica, subito dopo la sua morte, scoppia una contestazione del popolo per mancanza d’acqua. In quella circostanza, anche i due fratelli Mosè e Aaronne non mostrano di aver fede in Dio, il quale annuncia loro che non entreranno nella terra promessa. “Queste sono le acque di Meriba dove i figli d'Israele contesero con l'Eterno” dice la Scrittura. C’è un filo rosso che collega questi quattro episodi della vita di Miriam. L’elemento in comune è evidentemente l’acqua: il fiume Nilo nel primo episodio, il mar Rosso nel secondo, lo sputo del padre nel terzo, le acque di Meriba nel quarto. Ma, osservando bene questi quattro punti, si può notare che c’è un aspetto che va oltre l’elemento fisico dell’acqua: in ogni episodio viene emesso un giudizio, una condanna a morte. Chi è sotto il giudizio, muore; chi rimane sopra, vive. Infatti, i maschi dei figli d’Israele che annegarono nelle acque del Nilo morirono sotto l’acqua, per effetto della condanna a morte del faraone imposta ai maschi degli ebrei. Mosè, invece, fu tratto dalle acque del Nilo e visse. I cavalieri egiziani inseguirono il popolo di Israele tra due pareti d’acqua. Quando queste si chiusero, gli egiziani annegarono e morirono sotto il mare, per effetto del giudizio di Dio sull’Egitto. Tutto Israele, invece, attraversò il mare all’asciutto e non morì. Nel terzo episodio, Miriam diventa lebbrosa e viene allontanata per un certo tempo dall’accampamento. La malattia della lebbra era, a tutti gli effetti, una condanna a morte inflittale da Dio per aver parlato contro Mosè, che Egli aveva scelto. L’immagine che Dio usa per descrivere il suo rigetto temporaneo nei confronti di Miriam è quello dello sputo di un padre sulla propria figlia. Il fatto che Miriam rientrò nell’accampamento dopo sette giorni significa che fu guarita dalla lebbra, cioè non rimase sotto il giudizio inflittole dal Signore, ma fu salvata dalla morte. Nel quarto episodio, Miriam muore e viene sepolta a Kadesh, quindi durante il cammino nel deserto del popolo di Israele verso la terra promessa. Stessa cosa accadde anche a Mosè e Aaronne poco tempo dopo. I due fratelli, nella contesa delle acque di Meriba, non ebbero fede in Dio e morirono prima di entrare nella terra promessa. Morire ed essere sepolti nel deserto era anch’essa una forma di giudizio che Dio aveva stabilito per l’incredulità del popolo, che Dio giudicò così:
“Certamente nessuno degli uomini, che sono saliti dall'Egitto dall'età di vent'anni in su, vedrà mai il paese che giurai di dare ad Abrahamo, Isacco e Giacobbe, perché essi non mi hanno seguito pienamente, ad eccezione di Caleb, figlio di Jefunneh, il Kenizeo, e di Giosuè, figlio di Nun, perché essi hanno seguito pienamente l'Eterno” (Numeri 32:11,12).
Chi seguì pienamente l’Eterno, come Caleb e Giosuè, non finì sotto la terra del deserto, quindi sotto il giudizio di Dio, ma entrò nella terra promessa. Ciò che emerge da queste quattro vicende è dunque un quadro unico, che mostra una realtà che si sviluppa in due fasi. Nella prima fase c’è un giudizio inflitto a delle persone, che produce morte. È il caso dei maschi ebrei nel Nilo; degli egiziani nel mare; di Miriam lebbrosa; dei figli d’Israele morti nel deserto. Nella seconda fase, una o più persone che erano sotto il giudizio vengono salvate, e vivono. È il caso di Mosè salvato dal Nilo; dei figli di Israele che escono vivi dal mare; di Miriam che non muore di lebbra, ma rientra nell’accampamento; dei figli di Israele che non morirono nel deserto, ma entrarono nella terra promessa. Proprio questo aspetto duale risulta dal personaggio di Miriam in chiave profetica: giudizio e morte da una parte. Salvezza e vita dall’altra. Questo duplice aspetto, come le due facce di una stessa moneta, accomuna tutte le vicende della vita di Miriam prese nel loro contesto biblico, cioè nel modo in cui la Scrittura le presenta. Il tema biblico che affiora da questo personaggio – giudizio e salvezza – permea un po’ tutta la Scrittura, dall’inizio alla fine. Miriam, in vista profetica, diventa un personaggio che incarna in se stesso un concetto biblico essenziale: quello della salvezza ricevuta sotto condanna, di assoluto rilievo ancora oggi per chi dispone il proprio cuore alla riflessione. Come dunque questo tema di primaria importanza si collega alla storia di Israele? In che modo la Miriam morta e sepolta parla ad Israele ancora oggi? Dopo la morte di Miriam, si legge di come il popolo di Israele, anche una volta giunto nella terra promessa, ha continuato a contestare il Signore, a ribellarsi a Lui, come del resto aveva fatto dalla partenza dal Sinai fino alla morte di Miriam. Secondo le parole di Deuteronomio 21:18-21 già citate in precedenza, il destino di un figlio ribelle è la condanna a morte, la quale avviene nel momento in cui i suoi genitori lo consegnano agli anziani della loro città. Ma allora perché, se questo è il destino di un figlio ribelle, Israele è oggi un popolo vivo e non morto e sepolto da millenni? Evidentemente perché Dio, come Padre, non ha mai consegnato completamente il figlio ribelle Israele nelle mani di altri, perché questi applicassero su di lui la condanna a morte. E mai lo farà. Dal canto suo, il popolo di Israele, da quando Miriam morì fino al giorno d’oggi, non ha ancora adempiuto a tutti i compiti che Dio gli ha affidato nel corso della storia. Compiti che sono rintracciabili nella vita di Miriam: da una parte i privilegi di essere almà-madre e profetessa, dall’altra la condanna ad essere lebbrosa e quindi rigettata, ma successivamente guarita e riaccolta. Il primo compito, quello di almà-madre, Israele lo ha già adempiuto, in forma di privilegio rispetto agli altri popoli. Con la nascita di Gesù, Israele è diventato il popolo che ha messo al mondo il Messia ed è diventato la sua famiglia. Anche il secondo compito, quello di profeta di Dio, è riscontrabile nella storia di Israele: la Parola di Dio, includendo sia il Tanach sia il Nuovo Testamento, è un libro redatto da membri del popolo di Israele. Il terzo ruolo, invece, quello rappresentato da Miriam lebbrosa e rigettata, poi guarita e riammessa, non è ancora stato completato del tutto. In questa fase storica, Israele si trova ancora in una posizione lontana dalla presenza di Dio, avendo parlato contro Colui che Dio ha scelto per rivelare se stesso agli esseri umani: Gesù il Messia. Così come Miriam aveva parlato contro Mosè ed era stata allontanata dall’accampamento, dove il Signore dimorava. Fino a quando questo processo di guarigione e riammissione di Israele alla presenza di Dio non sarà completato, la storia di Israele rimarrà nella fase di giudizio che conduce alla morte, senza però poter morire mai, in quanto sempre sotto la custodia del Padre, il quale non accetterà mai che in Israele ci sia un indurimento totale e perenne. Il completamento di questa fase è evidentemente legata al modo in cui Israele si porrà nei confronti di Gesù il Messia. L’eredità di Miriam e il suo stretto legame con il popolo di Israele non sono andati persi nel corso della storia milleniale di questo popolo. Anzi, si sono riaffermati in momenti storici precisi, quando i tempi stabiliti da Dio erano compiuti. Israele non ha smesso di ricordare Miriam e il suo esempio, più o meno consapevolmente. In un futuro forse non così lontano, Israele porterà a compimento il suo ruolo nella storia dell’umanità, come profeticamente annunciato dal personaggio di Miriam. Quando ciò avverrà, nei tempi preordinati dal Signore, la riconciliazione tra il Padre e il figlio ribelle sarà completa e la gioia sarà pari a quella di uno che era morto ed è tornato in vita.
(8. fine)
(Notizie su Israele, 11 dicembre 2022)
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L'Orchestra del Baraccano e i compositori di origine ebraica
Il 10 dicembre al Teatro del Baraccano di Bologna. BOLOGNA - Prima della pausa per le festività di fine anno, l'Orchestra del Baraccano di Bologna saluta il suo pubblico, il 10 dicembre alle 20,30 al Teatro del Baraccano, con un concerto di musiche di due compositori di origine ebraica, Arnold Schoenberg e Darius Milhaud. Diretto dal suo fondatore, Giambattista Giocoli, il complesso proporrà uno spettacolo di più ampio respiro, fatto di teatro e musica, dal titolo "Sassolino" che verrà poi ripreso in occasione del Giorno della Memoria, dal 26 al 29 gennaio prossimi, in coproduzione con La Baracca - Testoni Ragazzi e in collaborazione con il Museo Ebraico di Bologna e Caissa Italia Editore. Ad arricchire il programma anche alcuni brani per strumento solo di autori ebraici. Il violinista Roberto Noferini eseguirà, infatti, il Caprice Op. 18 N. 2 di Henryk Wieniawski, per ripresentarsi poi in duo con il pianista Denis Zardi e proporre due Romanze di Felix Mendelssohn-Bartholdy seguite dalle Variazioni sul Figaro di Gioachino Rossini, elaborate per violoncello da Mario Castelnuovo-Tedesco e suonate da Andrea Noferini. L'Orchestra del Baraccano eseguirà invece quella pietra miliare nella storia della musica che è la Kammersymphonie N. 9 di Schoenberg, una brano con il quale la sperimentazione del compositore austriaco si spinse nella ricerca di un nuovo assetto strumentale ed espressivo, allontanandosi dal gigantismo orchestrale del sinfonismo tardo romantico ed optando per una dimensione ed uno stile breve e conciso. "La création du monde" di Milhaud rappresenta una delle partiture più vitali del maestro francese, ricca dei colori e dei ritmi più diversi, ispirata ai ritmi del jazz di New Orleans che il compositore aveva tanto apprezzato durante il suo primo soggiorno in America. Flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte compongono l'organico del quintetto formato dai solisti dell'Orchestra. Il concerto sarà preceduto, alle 18, dall'ultima passeggiata del ciclo Il Teatro della Gente, condotta dal tenore e scrittore Cristiano Cremonini tra i Portici di via Belle Arti e via Zamboni.
(ANSA, 10 dicembre 2022)
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Aracy e Joao sono rimasti insieme anche dopo la guerra? La storia vera
di Alice Oliva
Aracy e Joao sono i due protagonisti della serie tv Passaporto per la libertà, che andrà in onda per l’ultima volta proprio questa sera su Canale 5. La loro storia è però ispirata a dei fatti realmente accaduti nel corso della Seconda guerra mondiale. Ecco che cosa è successo e la verità sulla loro bellissima storia d’amore.
• ,Passaporto per la libertà: la storia di Aracy e Joao Passaporto per la libertà è una serie televisiva che vede nei protagonisti principali Aracy e Joao, due persone che hanno fatto di tutto per salvare la sorte di migliaia di ebrei. La storia ha inizio con Aracy De Carvalho, una diplomatica brasiliana che decide di trasferirsi in Germania per lavorare all’ambasciata del suo paese. La donna è separata e quindi decide di portare con sé il figlio, in modo da potergli offrire una prospettiva di vita migliore rispetto a quella che vivrebbe nel suo paese. La donna inizia quindi a lavorare con successo, anche se nel giro di pochi giorni le cose precipitano inesorabilmente. In Germania sta infatti per scoppiare la Seconda guerra mondiale ed è proprio in questa occasione che Aracy ha modo di scoprire in che modo i tedeschi trattano gli ebrei, deportandoli perfino nei campi di concentramento. Grazie alla presenza di Joao, un uomo che lavora come lei e che nella vita è anche un importante console, riuscirà a produrre una serie di visti senza apporre la dicitura ebreo ai vari documenti. Così facendo molte persone potranno lasciare la Germania senza ripercussioni, anche se questo porterà i due ad esporsi a notevoli pericoli. Ovviamente tra Aracy e Joao non può che nascere l’amore, anche se i due vivranno costantemente nel terrore di essere scoperti.
• Aracy e Joao sono rimasti insieme anche dopo la fine della guerra? Ovviamente i fatti raccontati nel film sono ispirati ad una storia vera, quella di Aracy De Carvalho, una diplomatica brasiliana, e Joao Guimaraes Rosa. I due si sono per l’appunto conosciuti in Germania, quando entrambi lavoravano nell’ambasciata del paese. La loro storia d’amore iniziò proprio nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale. Qui entrambi si dedicarono alla realizzazione di visti falsi per permettere agli ebrei di scappare dalla Germania. I due rimasero insieme anche dopo la fine della guerra, in quanto decisero di sposarsi e andare a vivere in Brasile. Joao è venuto a mancare diversi anni fa, mentre Aracy si è spenta definitivamente nel 2011 a San Paolo a causa di una grave forma di Alzheimer.
(amalfinotizie, 10 dicembre 2022)
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Scoperto in Israele proiettile greco di 2.200 fa anni con scritta ‘magica’
L’antichità del proiettile lo colloca nel periodo delle battaglie tra l’esercito seleucide e gli Asmonei.
di Angelo Petrone
L’Israel Antiquities Authority (IAA) ha scoperto un proiettile di piombo di 2.200 anni fa, forse appartenente a un soldato greco, nella città di Jamnia, secondo quanto riferito dal Times of Israel. Il proiettile misura 4,4 centimetri e presenta un’iscrizione greca che recita ‘Vittoria per Eracle e Hauron‘, un messaggio che rientrerebbe in una sorta di ”guerra psicologica” contro i nemici. Secondo gli esperti l’antico dio egizio Hauron e l’eroe della mitologia greca Eracle erano considerati divini protettori di Jamnia durante il periodo ellenistico, periodo di grande espansione della cultura e della lingua greca. “Le iscrizioni trasmettono un messaggio di unificazione dei guerrieri con lo scopo di sollevare lo spirito o spaventare il nemico. Queste iscrizioni facevano parte della guerra psicologica, il cui obiettivo importante è terrorizzare l’avversario e, inoltre, unire i guerrieri e sollevare il loro spirito “, ha spiegato Yulia Ustinova dell’Università Ben-Gurion, Israele.
Il proiettile è stato effettivamente scoperto circa un anno fa e da allora è stato studiato, ma l’annuncio è avvenuto solo questa settimana. Per gli esperti il proiettile risale al periodo delle battaglie tra l’esercito seleucide e gli Asmonei, che cercavano di impedire l’adozione della cultura greca da parte degli ebrei. A chi apparteneva il proiettile? Tuttavia, gli investigatori hanno riconosciuto che non è noto in quale contesto sia stato utilizzato il proiettile scoperto e che non vi sono prove conclusive che appartenesse a un soldato greco. “Sembra che non saremo in grado di sapere con certezza se la fionda appartenesse a un soldato greco, ma non è impossibile che sia collegata al conflitto tra i greci e gli asmonei“, hanno detto Pablo Betzer e Daniel Varga, che diresse lo scavo dell’IAA. Tuttavia, i ricercatori hanno affermato che questi tipi di proiettili “sono una prova tangibile di una feroce battaglia che ha avuto luogo a Jamnia in quel periodo“.
(Scienze Notizie, 10 dicembre 2022)
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Gas, gasdotti e cavi. L’attivismo italiano nel Mediterraneo letto da Masulli
Michele Masulli, direttore area energia di I-com (Istituto per la competitività): “Sono necessari nuovi gasdotti e EastMed-Poseidon rappresenta un progetto valido, incluso anche in REPowerEU. La guerra Ucraina ha fatto emergere il potenziale del Mediterraneo, colpevolmente trascurato per anni, nella produzione e nello scambio di energia”. Cosa si è detto al Forum sul gas del Mediterraneo orientale e perché Total molla la russa Novatek
di Francesco De Palo
Mentre gli Stati membri del Forum sul gas del Mediterraneo orientale (Emgf) danno luce verde alla strategia dell’organizzazione dopo l’ottava riunione ministeriale, un nuovo giacimento di gas al largo della penisola del Sinai fa ben sperare circa nuove fonti di approvvigionamento: si tratta di Narges-1X partecipato da Chevron e Eni con il 45% ciascuno, mentre il restante 10 dalla società egiziana Tharwa Petroleum- Detiene 3,5 trilioni di piedi cubi di gas e si candida a perno per sbloccare la situazione del gas nel Mediterraneo orientale tra gasdotto e Eastmed e l’accelerazione sui cavi sottomarini.
- IL FORUM I partecipanti al Forum Emgf, ovvero Egitto, Cipro, Francia, Grecia, Israele, Italia, Giordania e Palestina, hanno detto sì alla progettazione della strategia in occasione del vertice del Cairo, allargato anche a Usa, Ue e Banca Mondiale. L’obiettivo è creare partenariati con i principali attori del settore, comprese altre organizzazioni internazionali, e il rafforzamento della partecipazione del settore privato alle attività del Forum sotto l’egida del comitato consultivo dell’industria del gas del Forum. Ma accanto alle intenzioni ufficiali, ecco che andrà calibrata nella pratica l’intenzione di utilizzare al meglio il gas presente copioso in quel versante del Mare Nostrum. Per il momento è stato deciso di formare il comitato scientifico e tecnico del forum proposto da Cipro, che assicurerà i pareri tecnici ai membri dell’Emgf, in particolare nella decarbonizzazione del settore energetico e nella mitigazione delle conseguenze del cambiamento climatico.
- QUI EGITTO Uno dei soggetti più attivi è il ministro egiziano dell’energia El-Molla che ben conosce le potenzialità di Eni, dal momento che nel 2015 il cane a sei zampe ha individuato il giacimento di gas naturale di Zohr, scoperta che ha permesso all’Egitto di conquistarsi un ruolo diverso nell’intera macro regione. I numeri di quest’anno lo dimostrano: ha esportato 4,7 miliardi di metri cubi (bcm) di gas naturale liquefatto (Gnl) nei primi cinque mesi del 2022 e 8,9 miliardi di bcm l’anno scorso, secondo i dati di Refinitiv Eikon. Lo scorso giugno, l’Egyptian Natural Gas Holding Company (Egas) e Chevron hanno firmato un protocollo d’ intesa sul trasporto, l’importazione, la liquefazione e l’esportazione di gas dal Mediterraneo orientale all’Egitto. Al contempo ha siglato un accordo quadro con Ue e Israele per esportare gas naturale da Israele attraverso l’Egitto verso l’Europa.
- EASTMED O NAVI? È necessario procedere in maniera multilaterale, dice a Formiche.net Michele Masulli, direttore area energia di I-Com (Istituto per la competitività): “D’altronde questo è uno dei vantaggi dell’Eastern Mediterranean Gas Forum. Le esigenze di sicurezza e accessibilità delle forniture, oltre che le sfide della transizione energetica, richiedono luoghi funzionanti di cooperazione internazionale, a livello regionale e non solo. La guerra Ucraina ha fatto emergere il potenziale del Mediterraneo, colpevolmente trascurato per anni, come spazio centrale nella produzione e nello scambio di energia. A riguardo dell’area orientale, è ormai più di un decennio che si riportano scoperte significative di gas naturale, da Aphrodite a Leviathan, da Tamar a Zohr fino ai rinvenimenti più recenti. Ovviamente non può venire da lì la risposta all’emergenza in corso, sono necessari tempi di sviluppo e di costruzione delle infrastrutture necessarie, ma con le dovute tempistiche si può consolidare una relazione stabile di fornitura tra i Paesi dell’area e l’Unione europea, tale da contribuire in maniera non trascurabile al bisogno di diversificazione degli approvvigionamenti”.
- STRATEGIE E sulle infrastrutture aggiunge: “È evidente che siano necessari nuovi gasdotti e EastMed-Poseidon rappresenta un progetto valido, incluso anche in REPowerEU. Allo stesso tempo, io credo sia altresì importante potenziare le infrastrutture LNG. Se guardiamo alla sponda sud e alla liquefazione, quindi, vediamo come la capacità di export si riduca oggi solo all’Egitto, di cui si serve anche Israele. Allo stesso tempo reputo fondamentale che si lavori sulle politiche di decarbonizzazione, come discusso anche all’Emgf. L’idrogeno e in generale i gas rinnovabili costituiscono un’opportunità imprescindibile di decarbonizzazione del mix energetico e di riconversione infrastrutturale. Anche in questo caso, le strategie europee hanno chiara la centralità del Mediterraneo nella costruzione dei corridoi dell’idrogeno. L’annuncio del nuovo H2Med va in questa direzione. Se ci mettiamo anche l’irrobustimento delle interconnessioni elettriche, si pensi al nuovo elettrodotto con la Tunisia annunciato da Terna, ci sono tutti gli elementi utili per favorire un ruolo di primo piano del Mediterraneo e dell’Italia nell’approvvigionamento di energia, sempre più green, a beneficio del continente”.
- NOVATEK ADIEU Infine una decisione da parte di TotalEnergies che abbandonerà la sua partecipazione nel produttore russo di gas naturale Novatek, con una perdita secca di 3,7 miliardi di dollari. L’azienda francese ha dichiarato di ritirare con “effetto immediato” i propri rappresentanti dal consiglio di amministrazione di Novatek, che si sono astenuti dal voto a causa delle sanzioni. La decisione arriva in un momento in cui i prezzi alle stelle del gas hanno comportato una serie di ridefinizioni in tutti i governi delle policies energetiche, nonostante la situazione degli stoccaggi per l’inverno in corso sia buona.
(Formiche.net, 10 dicembre 2022)
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Israele, allo studio possibili collaborazioni
Ad oggi l’Università di Catania vanta una storica collaborazione con la Tel Aviv University, dal 2007, nel campo dell’ingegneria elettronica.
Individuare le possibili collaborazioni con le università e i centri di ricerca israeliani nel campo del trasferimento tecnologico, ma anche per la realizzazione di programmi di tirocinio e accordi di collaborazione per favorire la mobilità di studenti e docenti e l’attivazione di corsi di laurea e dottorati con doppio titolo. Sono questi i temi principali che il rettore dell’Università di Catania, Francesco Priolo, ha affrontato in occasione della visita istituzionale organizzata dalla Crui su proposta dell’Ambasciata israeliana a Roma. Durante il fitto programma di incontri (dal 4 all’8 dicembre), la delegazione italiana, composta da rappresentati di dodici istituzioni tra atenei e centri di ricerca, è stata ospitata dai vertici della Dan Panorama Tel Aviv, della Tel Aviv University, della TAU Ventures (Tel Aviv University investments vehicle), della Open University, della Ben Gurion University, della Hackathon of BGU on Violence against women, della Haifa University, del Technion Institute, della Hebrew University, della Bar-Ilan University e, inoltre, anche dai membri dell’Association of Italian Scholars and Scientists in Israel. Al centro degli incontri le tematiche di comune interesse su neuroscienze, cybersecurity, studi sull’antisemitismo, robotica e veicoli autonomi, sostenibilità ambientale, astrofisica, agricoltura, salute, smart cities, innovative learning, biotecnologie e nanotecnologie, per costruire future collaborazioni e attivare sinergie accademiche e industriali. Ad oggi l’Università di Catania vanta una storica collaborazione con la Tel Aviv University, dal 2007, nel campo dell’ingegneria elettronica. Israele è, infatti, considerato l’ambiente naturale delle start-up, la ‘Start-up Nation’ visto che, sulla base dei dati relativi al 2021, ne esiste una ogni 1400 abitanti, il rapporto più elevato al mondo. E ancora il settore hi-tech genera oggi il 13% del Pil israeliano e l’economia è trainata per il 50% dalle esportazioni. Fondamentale anche il ruolo dell’innovazione applicata in tutte le discipline, dall’agricoltura all’aerospazio, dalla salute all’energia sino all’automotive. Un sistema supportato da una spesa israeliana in ricerca e sviluppo superiore al 4% del Pil (tre volte quella italiana) che favorisce anche il conseguimento del titolo di laurea a quasi la metà della popolazione (in Italia meno del 20%). Proprio in Israele, negli ultimi anni, diverse multinazionali hanno inaugurato ‘Poli di ricerca e sviluppo’ per usufruire dell’ecosistema israeliano di ricerca e d’innovazione tecnologica d’avanguardia.<
(QdS.it, 10 dicembre 2022)
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Nuovo governo: Israele davanti a un bivio. Esperti a confronto
di Anna Balestrieri
“Israele ha votato: e ora che cosa si fa?”. È su questo interrogativo e sul futuro di Israele che si sono interrogati dopo le (ennesime) elezioni nell’incontro di mercoledì 30 novembre i relatori invitati dall’Associazione Italia Israele di Milano in collaborazione con Fondaco Europa e Lekh Lekha. Nella sua breve introduzione il moderatore Davide Assael, Presidente di Lekh Lekha, ha evidenziato come per la prima volta dopo molti anni e tentativi sia “emersa dalle urne una maggioranza chiara, (…) molto caratterizzata, e la sfida del vincitore Likud capeggiato dal suo leader Netanyahu sarà mantenere unita la sempre più diversificata e polarizzata società israeliana”. Assael ha suggerito la necessità di iscrivere la conversazione nel contesto del complesso scenario geopolitico degli ultimi mesi, che con lo scoppio della guerra in Ucraina ha visto il consolidamento di alleanze strategiche, con un avvicinamento dell’Iran alla Russia. Gli ha fatto eco Arcangelo Boldrini, presidente dell’associazione Italia Israele di Milano, che ha ricordato quanto oltre al preoccupante quadro internazionale si siano aggiunti i copiosi attentati di quest’ultimo anno ad inasprire un “panorama in cui le democrazie occidentali stanno vivendo un oggettivo momento di difficoltà poiché fasce dell’opinione pubblica guardano a queste esperienze autoritarie o a chi le evoca come la soluzione dei problemi e non come il problema”. L’allusione è al successo dei partiti nazionalisti nelle elezioni italiane, svedesi ed ungheresi. Boldrini ha messo in guardia circa la spirale delle fasi – il tempo della paura, il tempo dell’odio e il tempo della violenza -, auspicando che la riflessione ci aiuti ad “armarci contro queste derive”.
• Della Pergola: “Hanno guadagnato seggi due partiti che vogliono un paese teocratico” Sergio Della Pergola, massimo esperto mondiale della demografia ebraica e professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme ha dialogato con Marco Minniti, ex ministro dell’Interno nelle file del Partito Democratico e presidente dell’associazione Med-Or. Della Pergola, dopo aver da subito palesato la propria non appartenenza al campo dei vincitori delle elezioni, ha spiegato per sommi capi i meccanismi della legge elettorale israeliana (proporzionale) e la sua somiglianza con l’analoga italiana. Un sistema che privilegia il partito al singolo e che non prevede la scelta diretta dei parlamentari da parte degli elettori. Questa legge, che favorisce l’aggregazione di coloro che temono di non cadere nel 3,25 per cento necessario a superare lo sbarramento, ha visto il fallimento di Meretz, “il partito radicale della sinistra democratica che per soli 3000 voti non ha raggiunto la soglia di ammissione”. Con esso ha perso anche Ballad, un partito arabo ultranazionalista ed anti-israeliano, la cui partecipazione alle elezioni è una delle dimostrazioni dell’illegittimità di chi definisce Israele uno stato d’apartheid. Esso è invece un “sistema ampiamente fondato sulla divisione dei poteri al vertice del quale esiste una corte suprema estremamente capace e indipendente e quindi nello stato di diritto la decisione è stata quella di consentire la partecipazione di persone al voto come diritto fondamentale, anche a forze fondamentalmente antidemocratiche”. Così hanno guadagnato due seggi due partiti che vorrebbero che Israele fosse uno stato teocratico, determinando una radicalizzazione della coalizione capeggiata dal Likud un tempo nazional liberale ed ora nazionalista sotto la spinta di Netanyahu, con una schiacciante sconfitta della sinistra pacifista e lo sfruttamento della politica delle identità per distogliere l’attenzione dai pressanti temi sociali, dal caro vita al terrorismo palestinese.
• Minniti: “Israele è un Paese diviso: Netanyahu deve unirlo”
“Le componenti estremiste nella nuova coalizione fanno sembrare Netanyahu moderato”, è intervenuto scherzosamente Minniti. L’onorevole ha sottolineato la grande novità degli Accordi di Abramo con i paesi arabi, che accentuano la rilevanza di Israele nello scacchiere geopolitico mondiale grazie ai rapporti di fiducia progressiva e crescente, fondamentali, inter alia, per scongiurare un conflitto arabo-israeliano. “Se fossi Netanyahu non farei scelte di discontinuità con il governo precedente”, ha commentato Minniti. “Israele è un paese profondamente diviso, è spaccato come una mela: governando facendo il capo di una parte soltanto della mela può produrre danni rilevantissimi. Quando uno è il capo di una mela divisa esattamente in due, il suo mandato fondamentale deve essere quello di cercare di tenere insieme la mela (…), anche in un paese come Israele che ha dimostrato in questi anni, a differenza dell’Italia, di avere un “sistema paese” che regge indipendentemente dalle divisioni politiche”. È fondamentale quindi che il nuovo governo unisca, ribadendo quel ruolo fondamentale di Israele nei processi di pace mondiale che Minniti vorrebbe che il paese giocasse “da protagonista”. “Netanyahu ha un’opportunità che non è mai stata così netta di far giocare un ruolo al suo paese” conclude il presidente di Med-Or: “se dovesse far scattare una resa dei conti interna, quella mela spaccata potrebbe diventare una mela avvelenata”. I timori dell’ex deputato si riflettono pienamente nell’analisi del demografo. “Rotsim memshala shel yamin maale” (vogliamo un governo di destra piena), è stato lo slogan di Netanyahu per queste elezioni. Leggi: siamo la mezza mela e l’altra mezza vogliamo delegittimarla. Il pericolo è che riforme come quella del sistema giudiziario comportino una sostanziale modifica dell’equilibrio fra i poteri, “ossia la sentenza della corte suprema che ha dichiarato illegale una legge può essere annullata da una maggioranza parlamentare di 61 su 120”. La cancellazione di un organismo che riequilibri gli eccessivi poteri attribuiti dal popolo al parlamento ed i conseguenti eccessi potrebbe danneggiare “la grande rispettabilità di Israele sullo scacchiere internazionale” finora mantenuta. D’altronde, ha ricordato con amarezza Della Pergola, “le leggi razziali fasciste del 1938 sono state votate da un parlamento che, in un modo o nell’altro, -sia pure grottesco – era stato eletto e sono state votate quasi all’unanimità. Quindi in teoria un parlamento che esprime la volontà del Popolo può fare quello che vuole: in questo momento la corte suprema può frenare, se però le si toglie questa capacità il sistema cambia e non è più una classica democrazia”. L’emerito della Hebrew University ha espresso preoccupazione anche circa una seconda proposta, che vorrebbe che i “giudici della corte suprema vengano eletti dal governo e non da una commissione indipendente paritetica”. Il nodo cruciale si configura quindi nella necessità di conservare la democraticità di Israele, così da non danneggiare la sua credibilità in ambito internazionale né l’identità di parte dei suoi cittadini che potrebbero sentirsi “meno rappresentati da questo tipo di regime”. “Israele è di fronte a un bivio”, conferma Minniti: “Netanyahu ha di fronte un’opportunità e l’opportunità è quella di accrescere il prestigio internazionale del suo paese e quindi anche di lui primo ministro”, nella mediazione nei rapporti raffreddati tra gli Stati Uniti ed i paesi arabi e nella questione nucleare iraniana. “L’unica cosa che Israele in questo momento non può fare”, ribadisce l’ex deputato, “è fare i conti con se stesso, perché il mondo ha bisogno di un Israele protagonista del mondo e con il mondo, non di un Israele che fa i conti con se stesso”. “Il timone è in mano a Netanyahu e alle grandi scelte che saprà fare, rivelandosi un grande uomo politico oppure un piccolo attivista che porta il paese verso una direzione estremamente pericolosa”, conferma Della Pergola, una deriva che ammicca in maniera becera alla “mano dura” dei populismi di destra europei ed americani di fronte a due fenomeni reali, il terrorismo capillare ma non organizzato e l’antisemitismo crescente, quello che ha visto politici italiani fare grossolani strafalcioni antisemiti cercando di rimediare con un ancora più agghiacciante “alcuni dei miei migliori amici sono ebrei”. L’orizzonte del demografo è quello del centenario di Israele nel 2048. Che paese sarà? “Uno stato ebraico, uno stato binazionale, uno stato democratico oppure uno stato totalitario?” Alla domanda su “Quale sarà la percentuale della fascia religiosa nazionalista rispetto a quella laica nell’arco dei prossimi anni?”, Della Pergola ha menzionato un proprio articolo in cui analizza le prospettive da oggi fino al 2050: circa i due terzi dei giovani in età scolare, secondo le statistiche, sono previsti “essere giovani molto ortodossi e questo implica una trasformazione che sale dalla base e che richiede ovviamente impegno, strutture, preparazione. Questa popolazione, nella misura in cui si integra economicamente fa certamente parte del progresso della società; nella misura in cui non lavora, non apprende la matematica, non apprende l’inglese, ha perfino una conoscenza abbastanza approssimativa dell’ebraico e ovviamente nessuna conoscenza della storia è una popolazione che ha capacità produttive estremamente limitate e – a parte il senso di estraniamento dalla società, porta il paese a un impoverimento drammatico. Essendo Israele uno Stato Sociale, sviluppato – attraverso l’istituto per la previdenza sociale – [in un sistema in cui] chi ha finanzia chi non ha, certamente per poter finanziare chi non ha ci vuole abbastanza persone che abbiano e se la bilancia si inverte allora non è più possibile finanziare nessuno e tutti diventano più poveri. Questo è l’altro grande dilemma del futuro di Israele, in parte compreso all’interno dei circoli più tradizionalisti – e ci sono delle trasformazioni in corso – ma tuttora molto lontano da una soluzione che dia fiducia. Per mantenersi, come diceva prima Minniti, il sistema paese deve avere comunque dei pilastri su cui si regge, perché se no diventa molto sbilanciato e quindi molto debole”. Molte questioni aperte ed altrettanti spunti di riflessione, dunque. Sperando di non rivedersi presto alle prossime elezioni.
(Bet Magazine Mosaico, 9 dicembre 2022)
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Commento di Emanuel Segre Amar
Il prof. Della Pergola parla di “sinistra pacifista”; è un peccato che a questo convegno siano stati invitati a parlare solo persone autorevoli, ma di un unico schieramento politico. Avrebbe potuto essere approfondito il significato del termine pacifismo in quel Medio Oriente nel quale si trova Israele, un pezzo di Europa. Il pacifismo, come lo intendiamo noi, non esiste in una popolazione abituata a vivere da millenni in terre aride dove le tribù hanno sempre avuto la predominanza perché difendevano con la forza (e con l’immediata vendetta) i propri membri. Tutti coloro che non partono da questo presupposto non potranno mai comprendere le dinamiche del M.O.
Ne consegue che anche i ragionamenti di Minniti dimostrano una visione miope: chi è stato che ha fatto la pace con l’Egitto, rompendo un tabù a quei tempi intangibile? Un rappresentante dell’odiata destra estrema, il “terrorista” Begin. E come oggi si dimenticano le critiche rivolte a Rabin prima che venisse ucciso, un uomo che aveva capito bene (lui, non purtroppo Peres) che con gli arabi ci si deve sempre dimostrare più forti di loro, e pronti ad usare questa forza, così si dimentica che gli Accordi di Abramo sono il risultato di una strategia di due uomini da loro sempre avversati: Trump e Netanyahu.
Ma queste realtà non sembra che siano state analizzate dagli oratori.
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Lapid: quello di Netanyahu è un governo 'folle'
TEL AVIV - In Israele il premier uscente, Yair Lapid, è tornato alla carica contro il prossimo governo di destra di Benyamin Netanyahu, definendolo "folle". In un post su Facebook Lapid ha chiamato gli israeliani a manifestare la loro opposizione, sottolineando che il prossimo premier "sarà ricattato dai suoi stessi alleati" di estrema destra e religiosi. "Non c'è modo di descrivere quello che accade", ha scritto Lapid, denunciando che lo stesso Likud "è diventato un partner di minoranza nel proprio esecutivo", visti gli importanti incarichi affidati da Netanyahu agli alleati di destra come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.
(ANSAmed, 9 dicembre 2022)
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Pochi israeliani sostengono le proposte su religione e Stato dei partiti al governo
Meno di un terzo degli israeliani sostiene le principali proposte di legge su religione e Stato, avanzate dai partiti che dovrebbero far parte della prossima coalizione di governo, secondo un sondaggio pubblicato venerdì dall’Israel Democracy Institute. 750 cittadini israeliani sono stati interrogati su sette proposte legislative avanzate da membri della futura coalizione di governo. Cinque di queste proposte riguardavano questioni religiose, una con il ruolo dei consulenti legali del governo e una con gli insediamenti. Nessuno delle sette ha ricevuto più del 40% di supporto. L’annullamento di una riforma adottata dalla precedente Knesset, volta a privatizzare la certificazione della kashrut; Maggiori benefici per gli studenti yeshivot; Abrogazione della clausola “nipoti” della Legge del Ritorno che consente a chiunque abbia almeno un nonno ebreo di ottenere la cittadinanza israeliana; Separazione di genere in occasione di eventi sponsorizzati dallo stato; Annullare il riconoscimento delle conversioni non ortodosse per ottenere la cittadinanza israeliana. La separazione di genere negli eventi organizzati dallo stato è sostenuta dal 28% di israeliani, ebrei e arabi, mentre il 52,7% degli intervistati di destra la sostiene. L’annullamento del riconoscimento delle conversioni non ortodosse è sostenuto dal 30,5% degli israeliani, la rimozione della “clausola dei nipoti” del 29%, l’aumento dei benefici per gli studenti yeshivot del 25% e l’annullamento della riforma kashrut del 28%. Il 39% degli intervistati si è dichiarato favorevole a consentire ai ministri di nominare i propri consulenti legali e il 36% ha affermato di essere favorevole a consentire retroattivamente gli avamposti costruiti illegalmente.
(Bet Magazine Mosaico, 9 dicembre 2022)
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Israele: 'lo status quo sul Monte del Tempio non cambierà'
TEL AVIV - "Malgrado i cambiamenti politici, non credo che lo status quo sul Monte del Tempio (Spianata delle Moschee, ndr) cambierà": lo ha affermato, in un'intervista all'ANSA, il rabbino del Muro del Pianto Shmuel Rabinovic. "Non è destinato a cambiare non tanto per considerazioni di carattere politico, ma perché la nostra 'Halachà' (la ordodossia religiosa, ndr) lo vieta", ha spiegato.
Riferendosi ai timori palestinesi per quel luogo sacro, il rabbino Rabinovic ha ribadito: "Noi non scaviamo sotto al monte del Tempio. Si tratta del luogo per noi più santo. Per pregare non possiamo oltrepassare il Muro del Pianto", ossia l'estremità occidentale della Spianata. Malgrado il suo ufficio disti poche decine di metri dalla Spianata dove 2000 anni fa sorgeva il Tempio di Gerusalemme lui, precisa, non è mai salito sul Monte del Tempio. "Non possiamo farlo perché siamo impuri. Solo col Messia potremo purificarci".
La questione è tornata di attualità quando il leader della destra nazional-religiosa Itamar Ben Gvir, designato come prossimo ministro per la sicurezza nazionale, ha anticipato che lui tornerà sul Monte del Tempio anche una volta entrato nel futuro esecutivo. Cosa ne pensa il rabbino Rabinovic (che è più legato all'ebraismo ortodosso) delle comitive di israeliani che salgono sulla Spianata ? "Dal punto di vista della Halachà, lo trovo molto negativo". In ogni caso, ha concluso, si tratta comunque di alcune migliaia di persone: una "percentuale minima" rispetto ai milioni di visitatori annuali al Muro del Pianto.
(ANSAmed, 9 dicembre 2022)
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La Notte Europea della letteratura fantascientifica a Tel Aviv con l’IIC
TEL AVIV - È in programma dalle 19.00 del prossimo 13 dicembre, e proseguirà fino al prossimo 15 dicembre, tra il Teatro HaSimta la Liebling Haus e la Beit Ariel, l’evento "The European Night of Literature". Il progetto di collaborazione culturale, organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv, intende avvicinare il pubblico e il lettore israeliano alla letteratura europea. Questa prima edizione della Notte Europea della Letteratura, dedicata alla narrativa fantascientifica, presenta testi di autori europei viventi assieme a racconti di autori più classici come Primo Levi e Mário-Henrique Leiria. Tutti i racconti sono letti in ebraico da attori della troupe del Teatro Hasimta. Per la prima giornata, al Teatro HaSimta, ci saranno racconti di autori provenienti da Repubblica Ceca, Germania, Portogallo, Romania, Spagna; per la seconda, alla Liebling Haus, racconti da Austria, Belgio, Francia, Grecia; per la terza, a Beit Ariela, da Finlandia, Italia, Polonia, Slovacchia. L’IIC di Tel Aviv ha scelto anche di presentare un racconto di Primo Levi, scrittore italiano ricordato soprattutto come testimone fondamentale dell’esperienza della deportazione degli ebrei nei campi nazisti e per la sua scrittura generalmente assimilata alla narrazione della memoria. In fronte scritto è uno dei venti racconti composti da Primo Levi tra il 1968 e il 1970 e raccolti nel libro Vizio di forma, pubblicato da Einaudi nel 1971 e ristampato nel 1982 con una lettera all’editore firmata dall’autore.
(ise, 9 dicembre 2022)
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Il nome Israel
di Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Venezia
La nostra parashà inizia descrivendo l’incontro di Giacobbe con suo fratello Esaù dopo venti anni di lontananza. Prima del temuto incontro, Giacobbe ne farà un altro: questa volta con uno “strano” personaggio che verrà identificato da Giacobbe con un Messaggero divino, che lo terrà impegnato tutta la notte in combattimento. Questo combattimento porterà due conseguenze: una fisica e l’altra spirituale.
Ja’aqov verrà colpito al nervo ischiatitico, cosa che lo lascerà invalido per tutta la vita.
Gli verrà poi cambiato il nome in Israel (con la motivazione di saper combattere e vincere, sia con D-o che con l’essere umano), che sarà il nome con cui si identificherà per l’eternità la sua discendenza. Se il nome Ja’aqov – che deriva da “aqév, tallone” – simboleggia la tortuosità del suo comportamento, Israel ne simboleggia invece la rettitudine: “ki jashar El – poiché è retto dinnanzi a D-o”. Nella vita c’è sempre bisogno di fare una scelta e decidere se stare da una parte o dall’altra. Per ottenere qualcosa di più produttivo, soprattutto che benefici le successive generazioni, è necessario sacrificare qualcosa che ci appartiene e che ci appaga temporaneamente. Ja’aqov (contorto) diventerà Israel (retto), sacrificando parte del suo fisico, per il bene futuro dei propri figli.
(moked, 9 dicembre 2022)
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New York: padre e figlio ebrei colpiti davanti a un supermercato kasher
di Sofia Tranchina
Domenica scorsa, il 4 dicembre, un uomo di 32 anni e suo figlio di 7 anni, visibilmente ebrei (entrambi indossavano kippot), sono stati colpiti dagli spari di una pistola ad aria compressa nel distretto newyorkese di Staten Island. La sezione locale di Shmira, gruppo ebraico di pubblica sicurezza, ha riportato l’incidente su Twitter.
BR> I colpi sono partiti intorno alle 16:20 da un veicolo sportivo, che si è presto allontanato, mentre le due vittime si trovavano davanti al supermercato kasher “Island Kosher” al 2212 di Victory Blvd, come riportato dal Jerusalem Post. I sospetti rimangono per il momento non identificati. Pur non essendo un oggetto innocuo, la pistola ad aria compressa raramente comporta gravi danni: l’uomo e il bambino, colpiti rispettivamente al petto e all’orecchio, hanno riportato solo lievi ferite che non richiedono l’attenzione medica. Ciononostante, come evidenziato da un’intervista di Fox 5, l’episodio ha riacceso la preoccupazione della comunità ebraica locale, che già era in allerta da quando il 18 novembre sono stati arrestati alla Penn Station due individui armati che stavano pianificando un attacco contro la comunità stessa, con un coltello da caccia, un’arma da fuoco Glock 17, un caricatore da 30 colpi e un bracciale nazista. L’incidente arriva infatti sull’ondata di un aumento generale di odio antisemita nella città di New York, come evidenziato dai dati del NYPD: il mese scorso si è registrato un aumento del 125% dei crimini d’odio antisemita, con 45 episodi contro i 20 del novembre 2021, mentre il picco rimane febbraio, che ha visto 56 episodi di odio rispetto agli 11 del febbraio 2021. Questa ampia crescita dell’antisemitismo americano, è impossibile non notarlo, avviene non per caso in un periodo in cui figure di alto profilo, in particolare Kanye West, hanno fatto notizia per osservazioni pubbliche rivolte contro gli ebrei. Di conseguenza all’aumento dei casi, il sindaco di New York Eric Adams ha voluto rilasciare una dichiarazione per rassicurare le comunità locali: «molti di voi provano paura e ansia, non importa dove viviate. Sia chiaro: l’odio e l’antisemitismo non saranno tollerati a New York City».
(Bet Magazine Mosaico, 8 dicembre 2022)
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Friuli Venezia Giulia a Muniworld 2022 conferma la collaborazione con Israele in Learning cities
“Siamo qui per rappresentare la Regione Fvg a Muniworld 2022 e per trovare nuovi livelli di collaborazione con il Comune di Modi’in Maccabim Re’ut, con la Federazione delle autorità locali israeliane e con lo Stato di Israele. Siamo qui per ribadire la solida amicizia che lega il Friuli Venezia Giulia a questa terra. È un onore partecipare a questo evento in rappresentanza di una Regione che esprime alti livelli di ricerca e di innovazione”. Lo ha detto ieri l’assessore regionale all’Istruzione, Formazione e Università Alessia Rosolen partecipando al MuniExpo, la mostra nell’ambito della piattaforma globale Muniworld per la promozione dell’innovazione locale riguardo le principali sfide che devono affrontare i territori di tutto il mondo. “In occasione di questa visita – ha sottolineato l’assessore Rosolen – abbiamo confermato al sindaco Haim Bibas la continuazione del progetto ‘Learning cities‘, iniziativa sull’apprendimento permanente nata nell’ambito della cooperazione tra la Regione Friuli Venezia Giulia, la Municipalità di Modi’in e l’Università delle LiberEtà di Udine con l’obiettivo di favorire l’ingresso di Trieste nella Rete internazionale delle ‘Learning Cities’ istituita dall’Unesco, tra le quali il modello israeliano rappresenta un’eccellenza di livello internazionale”. Nel rispetto del Memorandum of understanding tra la Regione Friuli Venezia Giulia e la municipalità isrealiana di Modi’in Maccabim Re’ut, firmata nell’aprile 2022, prosegue quindi il percorso di rafforza dal punto di vista politico e istituzionale dei rapporti tra l’Amministrazione regionale, il comune di Modi’in con il suo Multidisciplinary center, l’Unione delle municipalità israeliane. Il progetto Learning Cities è un’iniziativa che nasce nell’ambito di una collaborazione internazionale tra l’Amministrazione regionale, l’Università della LiberEtà di Udine e il comune israeliano di Modi’in sul modello della ‘città che apprende‘. “La seconda parte del progetto – ha aggiunto l’assessore – prevede il raggiungimento di alcuni obiettivi principali: la realizzazione di una piattaforma per implementare un modello innovativo della Learning City e Learning Region a livello locale e nazionale, collaborazioni e scambi tra municipalità israeliane e locali per implementare il Learning city model, ripensare il modello di Lifelong Learning verso l’ibridazione digitale, progettualità volte a contrastare il fenomeno dell’antisemitismo all’interno dei territori coinvolti; visite e scambi internazionali tra scuole e studenti”. L’assessore Rosolen durante la vista in Israele ha incontrato tra gli altri Haim Bibas, sindaco di Modi’in Maccabim Re’ut e presidente della Federazione delle Autorità locali israeliane, Isaac Herzog, presidente dello Stato di Israele e Moshe Lion, sindaco di Gerusalemme.
(Udinenews, 8 dicembre 2022)
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Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma: digitalizzato il fondo dedicato ai battesimi forzati
di Luca Spizzichino
È stato presentato ieri dall’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma il progetto “La strenua lotta. Le conversioni degli ebrei di Roma nell'Età del Ghetto tra delazioni e resilienza". Si tratta del lavoro di digitalizzazione del Fondo “False accuse, battesimi forzati e catecumeni”, composto da 138 fascicoli che coprono un arco cronologico che va dal 1540 a 1840. L’iniziativa è stata realizzata con il contributo della Regione Lazio, dopo che il Dipartimento Beni e Attività Culturali della comunità si è aggiudicato il bando promosso da LazioCrea.
“Sin dai primi tempi del mio mandato - dichiara l’Assessore alla Cultura e all’Archivio Storico Giordana Moscati - ho individuato nella digitalizzazione una delle chiavi di volta per la divulgazione di un patrimonio straordinario come quello dell'Archivio Storico e della Biblioteca della Comunità Ebraica di Roma”.
“In questi ultimi anni è aumentata la presenza sui social media e sui siti della Comunità di contenuti di carattere storico e culturali. - prosegue - In questo contesto è di fondamentale importanza il progetto di digitalizzazione dei documenti e degli scritti custoditi nel nostro archivio, che da oggi saranno più fruibili e accessibili a tutti, anche ai più lontani”.
“La documentazione scansionata è molto importante perché riguarda un arco cronologico molto lungo, in particolare l’epoca di passaggio tra il Settecento e l’Ottocento che fu caratterizzata dai tentativi di conversione degli ebrei nel XVIII secolo e il famoso caso Mortara della seconda metà del XIX secolo” afferma Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Beni e Attività Culturali della comunità. Attraverso i documenti digitalizzati infatti si può notare come gli ebrei romani cambiarono negli anni, diventando di fatto il riflesso di passaggi storici molto importanti come la Rivoluzione Francese, i moti liberali e al periodo che porterà poi alla prima Repubblica romana e la seconda Repubblica romana, e di come cambiò l’atteggiamento per quanto riguarda il tentativo di convertire i bambini. Un fenomeno, che ebbe una rilevanza anche a livello internazionale con il caso di Edgardo Mortara nel 1858.
La digitalizzazione dei documenti custoditi all’interno dell’Archivio Storico è avvenuta in due passaggi, come spiega Bruno Di Gioacchino della Quality & Management Engineering, che insieme a suo fratello Roberto, si è occupato della scansione dei documenti.
“Abbiamo cercato di creare uno strumento che sia sempre aggiornabile nel tempo. - spiega Bruno Di Gioacchino - All'interno del database abbiamo descritto i singoli documenti ed introdotto un link che permette di accedere direttamente a quello che è la digitalizzazione del documento”.
L’approccio con cui i due ingegneri si sono cimentati in questo lavoro di scansione e catalogazione dei documenti è stato quello del rispetto, come sostiene Roberto Di Gioacchino. “Rispetto verso i documenti, segnati dal tempo, e che hanno richiesto un scansione dolce che non segnasse ulteriormente gli scritti, e rispetto verso le storie a cui abbiamo dato una nuova linfa, ricordando di quanto dolore si possa leggere all’interno di queste pagine” conclude Di Gioacchino.
(Shalom, 8 dicembre 2022)
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Mantovano ebraico
Storie e testimonianze di una delle più importanti comunità ebraiche italiane, molto presente in città ma anche lungo il territorio segnato dal corso di Oglio, Mincio e Po.
di Camilla Marini
A Mantova, nella splendida basilica di Sant’Andrea, è conservata un’opera nota come la Madonna degli Ebrei. Dipinta da un anonimo del XV secolo, raffigura una Madonna in trono col Bambino attorniata da diversi personaggi. Uno di questi è San Girolamo, che offre alla sacra coppia il modellino di una chiesa. Ai loro piedi si vedono quattro persone, due delle quali recano sul mantello un cerchio giallo, segno infamante imposto dai Gonzaga agli ebrei. Nello stesso quadro due angeli sovrastano il trono reggendo una tabella con la scritta: Debellata hebraeorum temeritate. Nel 1998 la presenza di quest’opera nella cattedrale più importante della città è stata al centro di un acceso dibattito: un amministratore locale ne aveva chiesto la rimozione in quanto antisemita e il trasferimento al Museo Diocesano. Al di là delle relativamente recenti questioni, l’importanza del quadro va decisamente ben oltre il suo piuttosto modesto valore artistico. Testimonia infatti dei rapporti tra la città di Mantova e la sua comunità ebraica, che già nel Quattrocento ricopriva un’importanza non indifferente. La raffigurazione infamante degli ebrei, così come quel modellino di chiesa, che altro non è che quella di Santa Maria della Vittoria, fa riferimento a una vicenda che si è svolta tra il 1493 e il 1496. Protagonista è stato un importante rappresentate della comunità giudaica locale, il banchiere Daniele da Norsa. Questi aveva acquistato un palazzo in borgo San Simone, nell’attuale via Monteverdi e aveva chiesto di poter rimuoverne dalla facciata una immagine sacra. Il vicario del vescovo gli aveva dato il permesso, dietro il pagamento di un compenso, ma la sua decisione era andata a cozzare contro l’animosità del popolo, che era sceso in piazza protestando contro il presunto sacrilegio e vilipendio alla religione cristiana. Apparentemente estraneo alla questione, anche perché impegnato in guerra, Francesco II Gonzaga era stato a quel punto richiamato alle sue responsabilità. Gli si erano rivolti sia gli ecclesiastici sia da Norsa, ovviamente con intenzioni opposte. Per farla breve, il povero banchiere aveva dovuto non solo abbandonare la propria casa, che era stata rasa al suolo per fare posto a una cappella, ma aveva anche dovuto finanziare la costruzione della chiesa insieme a un dipinto, la Madonna della Vittoria, commissionato niente meno che al Mantegna. Oggi quel capolavoro si trova al Louvre, ma prima delle spoliazioni napoleoniche faceva da pala d’altare nella chiesa costruita al posto della casa del banchiere, quella Maria della Vittoria inaugurata nel 1496 in onore alla vittoria di Francesco Gonzaga a Fornovo e da tempo ormai sconsacrata. La sconfitta del povero da Norsa va inquadrata in una situazione cittadina che vedeva comunque gli ebrei in grado di confrontarsi con i più alti rappresentanti della società dell’epoca, sia della Chiesa sia del Ducato. Erano stati i Gonzaga infatti ad averne favorito l’insediamento in città, concedendo loro inizialmente l’autorizzazione a praticare l’attività feneratizia, ossia di prestito con interesse, preclusa ai cristiani. Giunti da Roma come dalla Francia e dalla Germania, non più solo prestatori ma dediti anche alle scienze e alle arti, come i medici della famiglia Portaleone o il musicista Salomone Rossi, gli ebrei di Mantova nel corso del XVI secolo avrebbero raggiunto la ragguardevole cifra dei tremila abitanti, circa il 7% della popolazione complessiva. Gran parte di loro risiedeva nei pressi della contrada di San Salvatore e di Santo Stefano, attorno alle attuali vie Calvi e Bertani, ottenendo nel 1513 la dispensa papale per edificare la loro prima sinagoga, la Norsa Torrazzo, una delle tre sinagoghe di rito italiano che sarebbero state costruite da lì al Seicento. Risalivano al Cinquecento anche le tre sinagoghe di rito tedesco che si affacciavano su piazza della Concordia. È sempre su questa piazza, nei pressi della Rotonda di San Lorenzo, che nel 1612 sarebbe stato installato uno dei cancelli del famigerato ghetto, imposto da Roma anche alla città dei Gonzaga. Come riportato nella Urbis Mantuae Descriptio di Gabriele Bertazzolo risalente al 1628, gli ingressi si trovavano agli sbocchi delle vie Giustiziati e Bertani, in via Dottrina Cristiana e in tre punti lungo via Calvi. I cancelli sarebbero stati abbattuti solo nel 1798, per ordine del Direttorio della Repubblica Cisalpina, mentre da qualche anno gli Asburgo d’Austria saliti al potere nel 1708 avevano emanato le Patenti che concedevano le prime libertà agli ebrei. Oggi dell’antico ghetto si possono rintracciare i confini e in qualche modo riconoscere la struttura degli edifici, ma gran parte dell’area è stata profondamente trasformata dagli sventramenti di inizio Novecento. Nessuna delle antiche sinagoghe è rimasta in piedi, con l’ultimo tempio, la Sinagoga Grande di via Calvi 30, abbattuta nel 1938 dai fascisti e solo una, la Norsa Torrazzo, edificata come si detto nel 1513 e rifatta nel 1751, è stata ricostruita tra il 1899 e il 1902 in un’altra sede, in via Govi 13, dove tuttora è in uso. Non visibile dalla strada, si affaccia sul cortile interno dell’antico edificio comunitario di tre piani che nel 1825 ospitava una casa per anziani. Ha la stessa pianta, struttura e decorazioni di quella antica, della quale conserva anche gli arredi. Dalla pianta rettangolare, ha i due lati più lunghi rischiarati da ampie finestre e interrotti a metà lunghezza da due nicchie circolari. In ciascuna di esse, in posizione sopraelevata e anticipati da tre gradini, si trovano l’aron e la tevà settecenteschi, in legno riccamente istoriato. Sulle pareti sono stati riprodotti, grazie a dei calchi, gli stucchi della vecchia sala. Per trovare antichi documenti, libri e registri dal 1522 al 1810 si può fare riferimento all’antico archivio della sede comunitaria mentre una parte consistente della antica biblioteca della Comunità è conservata presso la Biblioteca comunale e l’Archivio Diocesano. Parte degli antichi oggetti salvati dalle devastazioni del Novecento sono conservati invece nelle collezioni di Palazzo Ducale. Tornando all’aperto, nel centro storico, una delle poche testimonianze architettoniche della antica comunità si può ammirare al numero 54 di via Bertani, principale arteria dell’ex ghetto. È qui che si affaccia lo splendido palazzo detto “del Rabbino”, con una magnifica facciata del Seicento interamente decorata con fregi e mascheroni. Tra i dettagli più interessanti, le sei belle formelle che riportano storie della Bibbia e il balcone in ferro battuto sovrastante il portone di ingresso. Spostandosi invece in via Legnano si trova il cimitero ebraico, un tempo fuori le mura e qui spostato nel 1797. Per trovare altre testimonianze di quella che è stata una delle più importanti comunità ebraiche italiane è necessario uscire dai confini della città e muoversi lungo il territorio segnato dal corso di Oglio, Mincio e Po. È in questa area che parallelamente agli insediamenti mantovani si svilupparono quelli di una quarantina di altre comunità, i cui appartenenti erano impegnati prevalentemente nel prestito, col favore degli stessi Gonzaga, e in seguito anche all’agricoltura e al commercio, entrambi favoriti dalla vicinanza ai corsi d’acqua. Tra le più importanti, la comunità di Sabbioneta risale al 1436. Qui il fondatore della città Vespasiano Gonzaga non volle né un ghetto né un quartiere ebraico, ma favorì invece l’integrazione. Agli iniziali prestatori si aggiunsero molti altri professionisti, tra cui la famiglia Foà, passata alla storia per aver creato in quella che era chiamata la “piccola Atene dei Gonzaga” la celebre stamperia che, a metà ‘500, produsse volumi di grande pregio, e dei Forti, grandi proprietari terrieri che nel corso del ‘700 diedero forma al complesso abitativo di Palazzo Forti. Quanto ai luoghi di culto non vi è traccia della prima sinagoga cinquecentesca, che si presume sorgesse sull’antica rocca, ma si può in compenso ammirare l’interno neoclassico del tempio ristrutturato nel 1824, attualmente di proprietà della Comunità Ebraica di Mantova. La sinagoga era il frutto di una comunità che andava ormai assottigliandosi sempre più, ma ricca ed emancipata, che nel corso del secolo si è distinta per personaggi come il generale Giuseppe Ottolenghi e il medico Pio Foà. Dopo avere rifiutato nel 1820 di passare sotto la tutela della ben più numerosa comunità di Mantova, quella di Sabbioneta aveva dato l’incarico a Carlo Visioli, noto architetto dell’epoca e nativo del luogo, di ampliare la preesistente sinagoga seicentesca. Questa si apriva su via Campi, strada che insieme a via Pio Foà e a piazza San Rocco delimita l’isolato dove si concentravano le abitazioni degli ebrei e che a sua volta doveva essere risistemato da Visioli. Fuori dalla Porta Imperiale si trova invece il cimitero ebraico, la cui ultima sepoltura è quella dell’ingegnere Vittorio Forti e risale al 1937. Si può visitare solo su richiesta o in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, a differenza della Sinagoga che invece è regolarmente visitabile con gli stessi orari dei principali monumenti gonzaleschi di Sabbioneta. Sempre a Visioli era stata affidata anche la sinagoga di Viadana, località sul Po dove nel 1443 era stato istituito un banco di prestito. Qui la comunità si era sviluppata concentrando abitazioni e attività tra via Bonomi e vicolo San Filippo e aveva per secoli utilizzato una sinagoga completamente affrescata i cui pochi resti pittorici sono oggi conservati nel Museo cittadino. Ai primi dell’Ottocento si chiese all’architetto di Sabbioneta di progettare una grande sinagoga neoclassica. Il tempio, per quanto giunto a uno stadio avanzato di costruzione, non fu mai ultimato a causa del declino demografico della comunità dopo l’Unità d’Italia. Di proprietà privata e sede occasionale di eventi culturali, la sinagoga si presenta oggi in via Bonomi 31 come un imponente ambiente circolare completamente disadorno, sormontato da una cupola finestrata sorretta lungo le pareti da colonne ad archi monumentali. Può essere visitata solo approfittando di eventi particolari anche la sinagoga di Rivarolo Mantovano. In questa località a 35 km da Mantova i Gonzaga permisero nel 1522 ai fratelli Joseph, Solomon e Lazzaro, figli di Moses Levi, di aprire un banco. Il gruppo si sarebbe infoltito nel tempo con l’arrivo di commercianti e studiosi, mentre con il passaggio all’Austria gli ebrei si sarebbero occupati per la prima volta anche di agricoltura e industria. Tra le imprese più importanti quella della famiglia Finzi, che introdusse un nuovo metodo di lavorazione della seta. Fin da subito la comunità di Rivarolo ha anche avuto una sua sala di preghiera. Ristrutturata in stile Rococò nel Settecento, è stata ceduta nel 1903 alla Società di Mutuo Soccorso fra gli operai rivarolesi che l’ha utilizzata come sala da riunioni. Tuttora in buono stato di conservazione, ha la curiosità di recare sopra al vano dell’aron un ritratto di Giuseppe Garibaldi, che nel 1864 era stato nominato presidente onorario della Società. Fa un po’ storia a sé la comunità di Ostiano, così come le sorti della sua sinagoga e del suo cimitero. In questo comune ora in provincia di Cremona che nel Quattrocento era sotto il dominio dei Gonzaga la presenza ebraica risale presumibilmente ai primi del XVI secolo. Documenti dell’epoca fanno supporre l’esistenza ai tempi di un banco feneratizio mentre al 1575 risalgono le Costituzioni sinodiali con le quali il vescovo di Brescia (sotto la cui diocesi si trovava al tempo il paese) scoraggiava i contatti tra ebrei e cristiani, che avrebbero dovuto tra l’altro evitare di farsi curare da medici ebrei. Nel 1596 fu concessa a Michele Porto l’autorizzazione a tenere un banco di prestito mentre nei primi decenni del secolo successivo fra’ Francesco Gonzaga, divenuto nel frattempo signore di Ostiano, elaborò i Privileggi delli Hebrei in Hostiano, per regolare, tra l’altro, i rapporti tra ebrei e cristiani. Per limitare i contatti tra le due comunità, agli ebrei fu in qualche modo imposto, pur senza istituire un ghetto, di risiedere presso il Castello, fatto costruire dai Gonzaga e, in quanto sovrastante rispetto al borgo di Ostiano, sufficientemente separato dalle dimore cristiane. In particolare, gli ebrei andarono a vivere nel XVII secolo presso il Palazzetto, detto la Casa del Governatore, e in un altro edificio adiacente, provvedendo ad abbellirli e ad ampliarli, entrandovi in possesso nel 1713 e costruendovi tra l’altro anche una Sinagoga. Ampia e rettangolare, abbellita da volte e illuminata da finestroni, la sala di preghiera restò in funzione fino all’inizio del Novecento, quando gli ebrei lasciarono la cittadina e la Sinagoga cadde in rovina. La buona notizia è che dopo un abbandono durato più di un secolo, la Casa del Governatore un anno fa è stata finalmente restaurata dall’amministrazione di Ostiano, che nel frattempo l’aveva acquistata da privati, e la sua elegante facciata è tornata a splendere in piazza Castello. Si deve invece alla tenacia di un privato non ebreo, Giuseppe Minera, falegname bresciano in pensione, se il cimitero ebraico istituito a fine Settecento in località Montagnetta si è salvato dalla rovina grazie a un attento e amorevole restauro che va avanti dalla fine degli anni Ottanta. Con il via libera della Soprintendenza, la partecipazione della Comunità Ebraica di Mantova e i fondi messi a disposizione da una importante azienda bresciana e della Fondazione comunitaria nonché da una mecenate americana, il cimitero è stato recentemente messo in sicurezza e il muro perimetrale è stato ricostruito. Inoltre, le sue 41 pietre tombali sono state salvate dalle erbacce che le invadevano e ripulite grazie all’intervento amorevole (e gratuito) del signor Minera, che ne fa da custode e da guida come è avvenuto in occasione dell’ultima Giornata Europea della Cultura Ebraica.
(JoiMag, 8 dicembre 2022)
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"Women in Love": la video-mostra di Benedetta Paravia a Venezia
Arabia Saudita ed Israele si incontrano a Venezia alla mostra di Benedetta Paravia "Women in Love".
Un incontro storico ha suggellato l’apertura della mostra di video arte NFT contro le mutilazioni genitali femminili - "Women in Love" - visitabile a Palazzo Bembo (Riva del Carbon) a Venezia fino al 23 dicembre, mostra che ha avuto il sostegno fattivo da parte di due personaggi dello spettacolo e della cultura d'eccezione come Luca Barbareschi ed Asia Argento. L’ex ambasciatore di Israele in Italia Dror Eydar, che Netanyahu stesso nominò per la missione a Roma, ha incontrato la Principessa saudita S.A. Ruba al Saud a Palazzo Bembo, che ospita la mostra, un progetto multimediale di sensibilizzazione contro il crimine delle mutilazioni genitali femminili. Eydar, fra le altre cose, ha commentato il lavoro di Paravia evidenziandone la volontà di combattere contro il senso di colpa del piacere femminile che invece per gli ebrei è considerato sacro. Ha inoltre espresso alla Principessa la speranza che con la presidenza Netanyahu si renda possibile l’entrata dell’Arabia Saudita negli Accordi di Abramo che furono firmati per sancire la pace da Emirati Arabi Uniti, Barhain ed Israele . L'ambasciatore Eydar, infine, ha regalato alla Principessa il suo nuovo libro "All'arco di Tito: un ambasciatore d'Israele nel Belpaese". I due hanno parlato delle loro radici comuni in Medio Oriente e della speranza in un futuro migliore per tutti i popoli della Regione. Con l'occasione Eydar ha invitato la Principessa a visitare Israele.
(aise, 7 dicembre 2022)
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A New York crescono i crimini di odio antisemita
A novembre i crimini di odio antisemita a New York City sono più che raddoppiati rispetto allo stesso mese dell'anno scorso, secondo gli ultimi numeri diffusi dal New York Police Department.
Sono ben 45 i crimini a sfondo antisemita che si sono verificati in città a novembre: una crescita pari al 125%. L’aumento avviene mentre imperversa la vicenda di Kanye West e i suoi commenti antisemiti, e il diffondersi di messaggi di odio sui social anche da parte di altri personaggi famosi.
"Abbiamo “normalizzato” l'odio e continuo a dire che il più grande diffusore di questo odio sono i social media - ha detto lunedì il sindaco Eric Adams in una conferenza stampa in cui non veniva affrontato questo tema - Ciò che i social media stanno facendo per normalizzare, fornire una piattaforma e diffondere l'odio, è davvero allarmante".
In realtà i crimini di odio antisemita sono in aumento nella Grande Mela già dall'inizio dell'anno, e il dato di novembre non fa che aggravare una situazione già allarmante. Il picco più drammatico si è verificato a febbraio, quando sono stati segnalati 56 reati contro residenti ebrei, rispetto agli 11 registrati nello stesso mese nel 2021.
La città ha visto finora 278 attacchi antisemiti nel 2022, rispetto ai 182 nello stesso periodo dell'anno scorso, un balzo del 52,7%, secondo quanto riferito dal NYPD.
Il sindaco Adams, entrato in carica all'inizio di quest'anno, è un ex capitano della polizia e ha prestato servizio a New York per oltre 20 anni. Parlando al vertice "Never is Now" dell'Anti-Defamation League il 10 novembre, ha affermato che l'aumento degli incidenti antisemiti non può essere ignorato né tollerato. "So che le ultime settimane sono state tese per la comunità ebraica qui e in tutta la nazione - ha detto il sindaco - Molti di voi provano paura e ansia. Sia chiaro: l'odio e l'antisemitismo non saranno tollerati a New York City".
(Shalom, 7 dicembre 2022)
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Antisemiti e pangermanici, chi sono gli estremisti tedeschi di Reichsbürger
Una galassia che gli esperti definiscono «nebulosa» e che teorizza la necessità che i confini tedeschi tornino «all’Impero del 1871 o al 1937».
Antisemiti e pangermanici, in prima linea contro le misure anti Covid e contrari allo Stato federale tedesco. Sono i militanti di Reichsbürger, letteralmente «Cittadini del Reich». Una galassia che gli esperti definiscono «nebulosa» e che teorizza la necessità che i confini tedeschi tornino « all’Impero del 1871 o al 1937». Secondo il movimento, l’attuale governo tedesco non è altro che «un burattino nelle mani di potenze straniere» e la Repubblica federale «cospira contro il proprio popolo». Governo e parlamento sono quindi controllati da «potenze straniere», secondo Reichsbürger, così come anche la magistratura e le agenzie di sicurezza.
- UNO «STATO PARALLELO» Nella pratica quotidiana, i militanti del gruppo rifiutano in modo sistematico di pagare le tasse e le multe, come spiega la Die Welt. La proprietà privata, come può essere la propria abitazione, viene considerata una «entità indipendente al di fuori dell’autorità della Repubblica federale». Inoltre non riconoscono la Costituzione tedesca, né le leggi federali, tanto che autoproducono i loro documenti di identità e patenti di guida.
- CIRCA 20MILA MILITANTI Il Reichsbürger è nato negli anni Ottanta e ora conta circa 20mila sostenitori, secondo l’intelligence tedesca. Di questi, circa 950 sono stati identificati come militanti di estrema destra e almeno un migliaio ha il porto d’armi. Molti di loro sposano l’antisemitismo. Secondo le autorità tedesche, il militante tipo dell’arcipelago è «uomo, 50 anni, socialmente e finanziariamente svantaggiato». Ma, come ricorda la Tagesspiegel, la leader del movimento è una donna, Heiche Verding, a capo di «United german peoples and tribes». Il sottogruppo è stato sciolto dalle autorità tedesche due anni e mezzo fa.
- IL CASO DI URSACHE Il gruppo è principalmente diffuso nella Germania orientale e meridionale. Tra i suoi membri l’ex vincitore del concorso di bellezza Mr Germania Adrian Ursache, condannato a sette anni di carcere nel 2019 per aver sparato a un poliziotto ferendolo. Tra le violenze più gravi quella che ha visto coinvolto Wolfgang P. che nell’ottobre 2017 è stato condannato all’ergastolo per aver ucciso un agente di polizia in Baviera. La vittima stava conducendo un raid nella sua abitazione dove sono state trovate oltre 30 pistole. Questo episodio ha modificato il modo in cui le autorità tedesche si sono rapportate al gruppo estremista e ha attirato l’attenzione internazionale.
(Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2022)
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“All’arco di Tito. Un ambasciatore d’Israele nel Belpaese”
Il libro con cui Dror Eydar ha salutato Genova e l’Italia dopo tre anni di rappresentanza dello Stato ebraico
di Roberto Bobbio
“Vedere questo libro oggi vuol dire realizzare di aver lasciato le mie tracce qui, in Italia”. È questo il modo in cui l’Ambasciatore uscente dello Stato di Israele, Dror Eydar, ha presentato il suo libro “All’arco di Tito. Un ambasciatore d’Israele nel Belpaese”, presso la Sala Convegni della Biblioteca “De Amicis” del Porto Antico”, durante l’evento organizzato da Bruno Gazzo della Associazione per l’Amicizia ItaloIsraeliana.
L’incontro, moderato dalla giornalista de “Il Lavoro/Repubblica”, Michela Bompiani, è stata l’occasione per vivere in diretta le esperienze vissute in giro per l’Italia, gli aneddoti, le riflessioni ed anche le sue sensazioni e le sue emozioni dell’ex Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, durante il proprio mandato dal 2019 all’Agosto del 2022, . Ne è scaturito un gradevolissimo diario di bordo che testimonia la prospettiva di un uomo di grande cultura e di profonda sensibilità, abile timoniere a affrontare le impegnative, numerose attività della sede diplomatica dello Stato ebraico in Italia . Un testo capace di alternare esperienze personali e familiari a riflessioni storiche e letterarie.
Di fronte al numeroso pubblico che ha affollato l’auditorium della Biblioteca “De Amicis”, l’ex diplomatico ha sciorinato una serie di eventi e occasioni di studio, la sua commozione vivissima a visitare i cantieri dell’erigendo viadotto San Giorgio e omaggiare la memoria delle innocenti 43 vittime del crollo; la stupenda accoglienza del Comune di Genova e quella particolare del Sindaco Bucci; la calorosa accoglienza della Comunità di San Remo in occasione delle celebrazioni dei 100 anni della storica Conferenza di Sanremo, tenutasi al Castello Devachan dal 19 al 26 aprile 1920; la visita a La Spezia, accolto dal Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Orientale, Mario Sommariva, che gli ha fatto visitare il Molo Pagliari e il monumento “Le ali della libertà”, ivi inaugurato qualche anno fa proprio assieme all’Ambasciata di Israele in Italia.
Ha candidamente confessato che ha mai aveva sognato di diventare addirittura ambasciatore nella meravigliosa Italia, fino a quando lo ha chiamato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu chiedendogli di accettare l’incarico, preoccupatissimo ad acquisire la conoscenza della magnifica ma complessa lingua italiana, infinitamente più difficile dell’inglese. È stata una sfida intellettuale per la quale è valsa la pena investire sforzi ed energie.
L’ex Ambasciatore Dror Eydar si è detto particolarmente lusingato a vedere il suo libro tradotto in italiano perché gli ha confermato l’orgoglio a lasciare le sue tracce anche dopo la partenza. Ci sono note nostalgiche alla figura di Nathan Alterman, riferimenti all’orgoglio patriottico di Garibaldi, al Talmud ma ci sono anche tanto Dante, Petrarca e Boccaccio che sono stati alla base della sua solitaria cultura universitaria in Israele, senza neanche sapere che un giorno avrebbe fatto proprio l’ambasciatore in Italia.
Essere ambasciatore in Italia gli è venuto naturale perché essere l’ambasciatore dello Stato di Israele lo è pure della civiltà ebraica intrinsecamente legata a quella italiana fin dai tempi dell’Impero di Tito.
Conferma Eydar che questo suo primo libro in lingua italiana sia un grande dono a raccoglie riflessioni e profonde considerazioni sui successivi tragici eventi che hanno segnato i suoi tre anni di mandato come i mesi del lockdown, anche lui recluso a lungo in Ambasciata, lontanissimo dai suoi affetti a Gerusalemme. Molte pagine sono state dedicate a sue riflessioni sul valore della Memoria della Shoah e sulla necessità di un impegno costante contro l’antisemitismo, oltre alla puntuale descrizione dei precetti della tradizione ebraica e le analisi sui riferimenti biblici legati all’Italia. Confida che i suoi lettori porteranno con sé qualcosa delle sue parole, anche grazie a contenuti non abitudinari per un diplomatico che promette di tornare in Italia da turista per scrivere un suo romanzo.
(Faro di Roma, 7 dicembre 2022)
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“Un angolo di pace”
Domenica 11 dicembre alle ore 16,30 al complesso ebraico
CASALE MONFERRATO - È l’undici settembre del 1943 quando un commerciante milanese trentaquattrenne, Riccardo Gandus, decide di provare a scampare alla bufera delle persecuzioni antiebraiche nazifasciste riparando in Svizzera. Con una agendina di pelle blu e i vestiti leggeri (tornerà più tardi, avventurosamente, a recuperarne di più adatti all’inverno), la nostalgia della sua città, della sua ragazza, un po’ di soldi e qualche gioiello in tasca, varca il confine per essere accolto, come altri ventottomila suoi correligionari, in campi di lavoro, certo non paragonabili ai lager tedeschi, ma non privi di durezze e difficoltà. È l’avventura descritta da “Un angolo di pace”. Un ebreo in fuga nella Svizzera del ‘43 (Edito da Calamospecchia Edizioni) e scritto da Valeria Gandus che sarà presentato domenica 11 dicembre alle ore 16,30 al complesso ebraico di Vicolo Salomone Olper a Casale. Insieme a lei ci sarà Gad Lerner, un gradito ritorno alla Comunità Ebraica casalese quello del noto giornalista e conduttore televisivo. L’avventura di Riccardo Gandus è emblematica di molti ebrei italiani che cercarono rifugio in Svizzera in quegli anni: vede perquisizioni e duro lavoro, privazioni e tristezze, ma anche momenti sereni con amici e parenti rifugiati anch’essi. Il libro ha tratti quasi picareschi, tra sparizioni di abiti e trucchi per passare la frontiera. Sua figlia Valeria ci racconta in questo libro intenso e sobrio la gratitudine sincera di Riccardo Gandus per la Svizzera, che ha regalato una possibilità concreta di sopravvivenza ai perseguitati; e insieme la loro inesauribile vitalità, e l’amore e la speranza che l’hanno alimentata. Valeria Gandus, milanese, laureata in Scienze politiche, è stata per molti anni inviata di Panorama, e poi collaboratrice del Fatto quotidiano fino al 2016. Ha scritto, con il collega Pier Mario Fasanotti, tre volumi di una piccola storia d’Italia dal 1945 al 1980, inquadrata attraverso la lente d’ingrandimento della cronaca nera: Mambo Italiano (1945/1960), Kriminal tango (1960/1970), Bang Bang (1970/1980), tutti editi da Tropea - Il Saggiatore. Attualmente collabora alla rivista online Cultweek. L’ingresso è libero, per informazioni 0142 71807 www.casalebraica.org
(Il Monferrato, 7 dicembre 2022)
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Sivan Rahav Meir: «Laici e ortodossi giocano ad allontanarsi sempre di più»
Conduce in prima serata il Tg più seguito del Paese. Ambiziosa, piena di talento, in carriera. Giornalista, mamma e moglie “ultraortodossa”, è oggi un’icona e il simbolo di un fenomeno che sta lentamente cambiando lo Stato Ebraico: quello degli haredim che cercano la luce dei riflettori. Soprattutto le donne, harediot, come Sivan Rahav Meir, che rivendicano “un posto al sole”.
di David Zebuloni
Sivan Rahav Meir, in Israele, è un nome in codice. Pronunciando questo suo nome, infatti, si intende un nuovo modo di fare giornalismo, nonché un nuovo fenomeno che sta lentamente cambiando la storia dello Stato Ebraico: quello degli ultraortodossi che, stufi di vivere nel “dietro le quinte” del paese, cercano la luce dei riflettori e trovano posto proprio al centro del palcoscenico. Una rinascita che vede come protagonisti gli haredim, ma soprattutto le harediot (ultraortodosse, in ebraico). Donne ambiziose e talentuose che crescono sei, sette e talvolta otto o nove figli, senza rinunciare a una carriera sfavillante nel campo del cinema, della musica, della politica, del giornalismo. Wonder woman, con l’aiuto dell’Onnipotente. Così è accaduto a Rahav Meir che, nata in una famiglia laica e diventata ultraortodossa per scelta all’età di quindici anni, riveste oggi uno dei ruoli più prestigiosi nel panorama giornalistico israeliano, conducendo in prima serata il telegiornale più seguito del paese. Ma non solo, Sivan è anche un’acclamata relatrice, che tiene lezioni e conferenze di fronte a migliaia di persone in Israele e nel mondo, e una altrettanto acclamata scrittrice. Quattro sono i libri a sfondo religioso che ha pubblicato fino ad oggi, tutti diventati best seller e tradotti in svariate lingue. Fissare con lei un’intervista è stato quasi impossibile. Dopo aver accettato con entusiasmo di incontrarci, si è accorta di non avere un minuto libero da dedicarmi. Poi, per pura coincidenza, ci siamo incrociati a un matrimonio. «Vedi come Dio si prende sempre cura di noi? È lui che ha voluto che ci incontrassimo qui oggi», mi ha detto entusiasta e ha subito aggiunto: «Prima di tornare a ballare con la sposa, ho qualche minuto libero. Ti va di intervistarmi adesso?». Così è stato.
- Sivan, c’è stato un momento specifico nel quale hai deciso di diventare religiosa? Una scintilla che si è accesa tutta d’un tratto? Un episodio che ha stravolto per sempre la tua vita? So che i laici che diventano ortodossi hanno sempre delle storie straordinarie da raccontare, un momento di rivelazione divina che segna il prima e il dopo, ma questo non è proprio il mio caso. In realtà, da me è avvenuto tutto in maniera semplice e naturale, quasi razionale. Per esempio, quando ho scoperto le benedizioni mi sono domandata, cosa c’è di più giusto e razionale di ringraziare per ciò che si mangia? Quando ho scoperto lo shabbat mi sono domandata, cosa c’è di più logico di dedicare un giorno della settimana al riposo? E così con gli altri precetti, uno ad uno, mi sembravano tutti tasselli di un grande puzzle che si incastravano alla perfezione.
- Non ti manca un po’ il mondo laico? No, mai. Provo piuttosto una forte nostalgia per il primo periodo nel quale diventai religiosa, quando ogni singolo precetto rispettato mi regalava un’emozione incredibile. Oggi che sono mamma e moglie a tempo pieno, che lavoro tutto il giorno, non riesco più a provare lo stesso entusiasmo nelle cose che faccio. Vorrei rivivere la magia della prima volta che ho mangiato la matzà di Pesach, o la prima volta che sono entrata in una sukkah: tutti momenti che non torneranno più.
- Conoscendo da vicino le due realtà, cosa credi che il mondo ortodosso debba imparare dal mondo laico, e cosa il mondo laico da quello ortodosso? In un mondo ideale, queste definizioni non esisterebbero. Prima di dividerci in categorie, facevamo tutti parte dello stesso popolo, eravamo tutti uguali. Oggi ho come la sensazione che laici e ortodossi giochino ad allontanarsi sempre di più, convincendosi del proprio estremismo in modo irreversibile. Detto ciò, credo che l’ortodosso debba imparare dal laico l’autenticità e la sincerità, talvolta così diretta e cruda, mentre credo che il laico debba rinunciare a parte del proprio individualismo per imparare dall’ortodosso cosa sia la condivisione, cosa voglia dire vivere in una comunità.
- Sei consapevole del cambiamento storico che ti vede protagonista? Una donna ultraortodossa, con la parrucca e la gonna lunga, che conduce in prima serata il telegiornale più seguito del paese, non si era mai vista prima. Io faccio solamente ciò che so e che amo fare. Non credo di abbattere alcuna barriera, non credo di essere parte di una qualche rivoluzione.
- Non vi è alcuna tensione tra le due identità che vivono in te? Quella di navigata giornalista e quella di donna di fede devota solo a Dio? Credo di essere molto cambiata negli ultimi anni. Un tempo mi battevo per ogni singolo scoop, mi rivolgevo agli spettatori dicendo “buonasera” e poi, per un’ora intera di telegiornale, non facevo altro che dimostrare quanto quella sera fosse in realtà pessima, trasmettendo solo notizie negative. Oggi sono diversa, non sono più disposta a far parte di questo gioco sporco, non voglio cercare solo ciò che non va bene nel paese. Oggi mi occupo di argomenti più profondi, di tematiche che abbiano un contenuto nel quale credo, notizie positive che diano un po’ di serenità allo spettatore.
- Le reazioni come sono? Il “Dio rating” cosa dice? I tuoi colleghi? Il pubblico ha sete di contenuti positivi. I miei colleghi, invece, ogni tanto mi prendono in giro. Sento che dicono: “Questo è una tipica notizia alla Sivan Rahav Meir, ottimista e ingenua”. Ma io ne vado fiera. Non dico che non ci siano problemi nel paese, ma credo che il problema più grande sia quello di cercare sempre solo e soltanto i problemi stessi.
- Quand’è l’ultima volta che ti sei trovata davanti a un bivio? Quando hai dovuto decidere tra i tuoi valori e la tua professione? Qualche tempo fa mi avevano chiesto di intervistare un cantante israeliano la cui figlia si era sposata con un personaggio di fama internazionale, ma non ebreo. In Israele erano tutti estasiati da questa unione, e il tono dell’intervista doveva essere in linea con l’entusiasmo collettivo. Io mi sono rifiutata e sono stata fortemente criticata. Mi hanno detto che sono razzista, che l’amore deve sempre trionfare. Io non mi reputo razzista, credo nell’amore, ma credo anche che l’assimilazione sia la più grande minaccia del popolo ebraico oggi. Questo è il messaggio che volevo trasmettere a chi mi segue.
- Un messaggio personale, in veste di Sivan Rahav Meir, o il messaggio dell’ortodossia che rappresenti sul piccolo schermo? Ogni uomo rappresenta qualcosa. Persino l’ebreo laico, che non crede assolutamente in Dio, rappresenta l’ebraismo agli occhi di chi non è ebreo. Siamo tutti ambasciatori e mentirei se dicessi che non sento un po’ il peso di questa responsabilità, ma credo che vivere in nome di qualcosa sia estremamente importante. Siamo stati mandati in questo mondo per dare significato alle nostre vite e alle nostre azioni; non solo davanti agli occhi di milioni di spettatori, ma anche nell’intimità delle nostre case.
- Negli ultimi anni avverto una sorta di rivalsa del mondo ebraico ortodosso. Serie tv che raccontano il mondo haredi e spopolano in tutto il mondo, cantautori che conquistano le stazioni radiofoniche israeliane, giornalisti che appaiono in prima serata. A cosa credi che sia dovuta questa renaissance? Credo che gli israeliani stiano diventando più tradizionalisti, ma in un modo diverso da come lo erano i nostri nonni. Oggi la religione è una cosa cool, al passo con i tempi. Parlare di anima non è più un tabù, al contrario. I giovani vogliono studiare e riscoprire le proprie origini, incontrarsi il sabato al tempio, sposarsi e mettere su famiglia.
- Parlando di famiglia, è possibile essere una madre presente nella vita dei propri figli quando si ha una routine lavorativa del tuo calibro? Tutti mi chiedono come sia possibile unire il tutto, io invece mi domando come sia possibile separare il tutto. Voglio dire, quando lavoro, devo essere a lavoro al cento per cento, senza sensi di colpa e pensieri su ciò che sta succedendo in casa. Quando sono con i miei figli, invece, voglio esserci con il corpo e con la testa, senza rispondere ogni minuto al telefono. Credo che ogni madre in carriera debba porsi proprio questa domanda: non come combino il tutto, ma come divido il tutto. Per questo motivo amo tanto lo shabbat, poiché mi permette di lasciare tutto il mondo al di fuori delle mura di casa e concentrarmi solo su ciò che conta veramente. La mia famiglia.
(Bet Magazine Mosaico, 6 dicembre 2022)
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Mondiali Qatar 2022, il video di un tifoso è diventato virale
Tutti parlano della nuova polemica che riguarda i Mondiali del Qatar del 2022 a causa di un video diventato virale sui social
di Giuseppe Meccariello
Questa sera, alle 18.00 e alle 22.00 ore italiane, si terranno rispettivamente le partite Marocco - Spagna e Portogallo - Svizzera. I due match porteranno a conclusione gli Ottavi di Finale dei Mondiali di Qatar 2022. Ci saranno, poi, due giorni di pausa, per poi ricominciare il 9 dicembre 2022, con i primi due match dei Quarti di Finale. Nel corso di questi due giorni si terranno diversi eventi musicali, come il concerto di Robbie Williams: l'artista inglese si esibirà, infatti, l'8 dicembre alle ore 18.00. Williams si esibirà a differenza di molti altri suoi colleghi, come Dua Lipa, che hanno rifiutato di cantare in Qatar. Il motivo riguarda il trattamento dei diritti dei cittadini da parte del Governo Qatariota: decine di artisti e migliaia di persone denunciano, infatti, la scarsa tutela dei diritti civili e umani nel Paese arabo. I Mondiali non sono stati, in questo senso, esenti da polemiche e critiche. Un'altra, molto importante e collegata alla precedente, è quella che riguarda il modo in cui sembra che siano stati trattati i lavoratori incaricati dell'organizzazione e della costruzione delle strutture dell'evento. Centinaia di loro sono morti e, per molte persone, la causa deriva dalle condizioni in cui versavano nelle ore di lavoro e, in generale, dal lavoro lungo ed estenuante. Dato che il campionato mondiale di calcio del Qatar è un evento globale, la manifestazione è stata utilizzata anche per veicolare diversi altri messaggi. Uno su tutti, quello di solidarietà con la protesta per i diritti delle donne in Iran da parte della squadra nazionale del Paese.
Recentemente, inoltre, alcuni tifosi inglesi hanno deciso di presentare un altro problema in diretta televisiva. I tifosi sono stati intervistati da un conduttore israeliano. Più di 40.000 retweet e quasi 215.000 "mi piace": il video è diventato immediatamente virale. L'anchorman israeliano fa una domanda a dei tifosi inglesi, chiedendogli se questa volta, dopo la sconfitta contro l'Italia agli ultimi campionati europei, la Coppa mondiale tornerà "a casa", e cioè in Inghilterra. Una domanda puramente calcistica, alla quale i tifosi hanno risposto entusiasticamente di sì. Nulla di strano, se non che negli ultimi secondi del video, al termine dell'intervista, il tifoso intervistato grida "Free Palestine!" e cioè "Palestina libera!". Il tifoso riferisce, chiaramente, al conflitto tra Palestina e Israele, che continua ancora adesso, e ha voluto manifestare la sua posizione proprio in un canale televisivo israeliano. Non entrando nel merito della Questione, ma può essere considerato questo un modo intelligente per manifestare i propri ideali e far protesta?
(TUTTONOTIZIE, 6 dicembre 2022)
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Una nuova campagna politica e mediatica contro Israele
di Ugo Volli
• I funzionari dell’Onu contro Israele Si è scatenata di nuovo una campagna politica e mediatica contro Israele, che cerca di presentare come “omicidi” l’autodifesa dei militari israeliani nei confronti dei terroristi. Alcuni esempi: il “coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente”, Tor Wennesland, scrive su Twitter “sono orripilato dall’uccisione di un palestinese durante una zuffa con un soldato israeliano vicino a Huwarra nel West Bank . Le mie più sentite condoglianze alla sua famiglia in lutto. Tali incidenti devono essere indagati in modo completo e tempestivo e i responsabili devono essere processati”. Il “Commissario straordinario dell’Onu per i Territori palestinesi”, l'avvocato italiano Francesca Albenza, in un convegno a Gaza organizzato dal 'Council on International Relations', organismo direttamente affiliato ad Hamas nella Striscia di Gaza, dà la sua benedizione in arabo ad Hamas: "Avete il diritto di opporvi a questa occupazione". Del resto è la stessa che nei mesi scorsi aveva dichiarato che "Israele dice che la resistenza è terrorismo, ma l'occupazione richiede violenza e la produce [...] i palestinesi non hanno altra scelta per la resistenza se non la violenza" e che "la violenza palestinese è inevitabile, perché il diritto all'esistenza del popolo palestinese è stato negato per 55 anni".
• Le voci degli stati e dei social Anche le dichiarazioni degli Stati si moltiplicano: "La Francia esprime la sua profonda preoccupazione dopo i molteplici scontri avvenuti dal 29 novembre in diverse parti della Cisgiordania, che hanno provocato la morte di cinque palestinesi - dice un comunicato del Ministero degli esteri francese, che prosegue: “La crescente violenza contro i palestinesi in Cisgiordania deve finire e i responsabili devono essere ritenuti responsabili dalle autorità competenti”. L’amministrazione Biden ha espresso “preoccupazione” e invitato “entrambe le parti” a moderarsi. I social media, in Italia come in tutto il mondo occidentale, sono invasi dalle immagini della “zuffa”, che in realtà è stata un attentato terrorista con il coltello, che ha ferito due poliziotti, e con il tentativo di rapinare l’arma ad uno di essi, concluso dagli spari per autodifesa di questi, che hanno eliminato il terrorista.
• L’ondata terroristica Il punto di partenza di questa situazione è un aumento molto consistente del terrorismo in Israele, in particolare, ma non solo, in Giudea e Samaria. Per ricordare solo alcuni degli ultimi episodi principali, nelle scorse due settimane vi è stato l’assalto di un terrorista alla zona industriale di Ariel che ha ucciso tre persone e ne ha ferite diverse prima di essere eliminato; vi sono state le bombe alla stazione degli autobus di Gerusalemme, con un morto e una decina di feriti, l’uccisione di un ferito grave in ospedale e il rapimento del suo corpo, per la sola colpa di essere cittadino israeliano. Inoltre, vi sono stati diversi tentativi di investimento automobilistico, l’uccisione di una giovane poliziotta a un posto di blocco, attacchi con bombe molotov e sassi. Ma in realtà la serie di questi attentati prosegue ininterrotta almeno dagli omicidi multipli di Tel Aviv e Beer Sheva in aprile. Il livello di violenza terroristica si è moltiplicato di diverse volte rispetto agli anni scorsi e ha raggiunto un livello che non si vedeva da circa dieci anni.
• Perché questi attentati? Le ragioni dell’ondata sono diverse, ma vale la pena di citare almeno due diversi ordini di cause. Il primo è costante: i gruppi palestinisti, inclusa l’Autorità Palestinese e Al Fatah che la controlla, rifiutano da sempre il presupposto fondamentale di ogni accordo di pace, incluso quello di Oslo: il riconoscimento della legittimità dello Stato di Israele, che chiamano “occupazione” e il cui territorio rivendicano tutto come proprio. Proclamano apertamente che “la lotta armata” sia il solo modo per affermare questo loro diritto alla distruzione di Israele e di conseguenza esaltano, proteggono, finanziano il terrorismo. La causa ultima di tutti gli attentati sta in questa spinta ideologica che viene dai livelli più alti della politica palestinese. Ci sono però anche motivi più legati al momento. Ci sono gli “accordi di Abramo” che hanno legittimato Israele rispetto a buona parte del mondo arabo e marginalizzato la loro causa e che i terroristi vogliono minare; c’è la lotta per la successione a Mohamed Abbas, che tiene il potere ormai da una ventina d’anni essendo stato eletto per quattro, ma ormai ha 87 anni, una salute precaria e insomma non può durare a lungo. Per candidarsi alla sua successione un curriculum terrorista è fondamentale. Inoltre c’è l’opposizione preventiva al governo di centrodestra che si sta per formare in Israele. Si spera di provocare col sangue il suo isolamento internazionale e il fallimento interno.
• Che cosa sta succedendo davvero La situazione sul terreno è complicata. Molti terroristi colti in azione sono eliminati dalla reazione immediata degli israeliani. Ma da alcuni mesi vi è anche una operazione programmata (il suo nome è “Rompere l’onda”) per prevenire il terrorismo, senza colpire la popolazione araba generale con chiusure e occupazioni delle città amministrate dall’Autorità Palestinese. Le forze di sicurezza israeliane, con un forte appoggio dei servizi di informazione, entrano in queste città (soprattutto Jenin e Nablus) con azioni mirate per arrestare i mandanti e gli esecutori del terrorismo, in modo da impedire nuovi attentati. Spesso queste operazioni incontrano resistenza armata e si scatenano allora dei conflitti a fuoco, in cui prevale il maggiore addestramento dei militari israeliani e spesso porta a morti e feriti fra i terroristi che resistono all’arresto. Il bacino terrorista è vasto, dato l’incitamento continuo nella scuola, sui media vecchi e nuovi, e da parte dei responsabili politici palestinesi. L’azione delle forze di sicurezza israeliana riesce a disorganizzare le cellule terroriste, ma non può eliminarle completamente. Gli attacchi insomma non cessano anche se quasi tutti quelli di maggiore gravità sono prevenuti.
• Che cosa ci aspetta È sicuro che l’ondata non si fermerà immediatamente, anche perché il suo scopo principale è politico e propagandistico e come si vede esso incontra appoggi importanti. È probabile anzi che l’offensiva si intensifichi, sia perché tutte le fazioni palestiniste cercano di accumulare “meriti” in vista della successione ad Abbas, sia per approfittare della diffidenza dichiarata della diplomazia americana ed europea per il nuovo governo. Per questo è importante far chiarezza: le forze di sicurezza israeliane non vanno alla caccia se non dei terroristi, non prendono affatto di mira i palestinesi pacifici. C’è un modo molto semplice per non essere colpiti dall’autodifesa di Israele: non partecipare all’attività terroristica. Ed è quello che, per fortuna, la maggior parte dei palestinesi ha capito benissimo.
(Shalom, 6 dicembre 2022)
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Israele dovrebbe rinunciare alle proprie (presunte) armi atomiche, mentre l’Iran prosegue nei suoi sforzi per la Bomba?
Voci dal lontano Occidente
di Paolo Salom
Il mondo cambia, i governi vanno e vengono. Ma certe istituzioni sembrano immuni alla minima evoluzione (in meglio). Se qualche lettore teme per le sorti dell’Europa o dell’Asia Orientale dove grandi Potenze muovono gli eserciti come un secolo fa, si tenga forte: il “vero problema” per la stabilità internazionale è un minuscolo Paese del Medio Oriente: Israele. Ed eccoci all’ultima farsa delle Nazioni Unite: il voto contro la “proliferazione nucleare in Medio Oriente” e il suo unico obiettivo, costringere “Israele a rinunciare alle proprie armi atomiche, ad aderire al Trattato per la non proliferazione nucleare e a mettere sotto controllo diretto ed immediato dell’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) tutte le sue installazioni nucleari”. Soltanto cinque Paesi hanno votato contro: Israele, Stati Uniti, Canada, Palau e Micronesia. Per la cronaca: l’Italia, come gran parte dell’Occidente, si è astenuta. L’Iran, Paese che sta sviluppando segretamente la Bomba e ha l’obiettivo dichiarato di “distruggere l’entità sionista”? Ovviamente ha votato come il resto del mondo: contro. Intendiamoci, la risoluzione dell’Assemblea Generale vale solo formalmente, non ha alcun potere coercitivo. Ma è un segnale, l’ennesimo, di come funziona la comunità internazionale e in particolare il lontano Occidente, il quale, invece di manifestare la sua vicinanza all’unico Stato ebraico della Terra, gli volta le spalle con un’astensione che nel migliore dei casi vale quanto un voto contrario: “Non ci importa nulla della sorte di Israele”. Altri invece ne hanno fatto uno strumento di guerra anti israeliana trasformando l’Onu in una parodia ridicola quanto inutile. Poche settimane dopo questo voto, pensate un po’, l’Assemblea Generale è stata chiamata ancora una volta a votare sullo Stato ebraico, questa volta accusato di “schiacciare i diritti umani dei palestinesi” e dunque raccomandando che sia “giudicato dalla Corte internazionale di giustizia”. In questo ultimo caso, finalmente, l’Italia ha votato “no”, unendosi ai Paesi più civili del mondo. Ma ovviamente non è bastato a respingere la mozione. Tornando al tema certo ben rilevante della prima risoluzione, come è noto Gerusalemme non ha mai ammesso in maniera esplicita di possedere testate atomiche. D’altro canto, Israele non fa parte del Trattato di non proliferazione e dunque non ha alcun obbligo. Qualcuno dirà: “Con quale diritto si critica l’Iran (e la Siria o l’Iraq) per il loro programma nucleare quando Israele ne ha uno segreto?”. La risposta è altrettanto semplice e schietta: Israele non ha mai minacciato nessuno. Non ha alcun programma di invadere o distruggere altri Paesi. Al contrario, in nome della pace e del reciproco riconoscimento, ha ceduto vasti territori in passato. Se davvero ha delle testate atomiche, è per deterrenza e, in estrema ratio, per una indispensabile difesa contro nazioni che hanno, loro sì, dichiarato apertamente le loro intenzioni genocidarie. La dura realtà dei fatti richiama noi ebrei a mettere da parte divisioni e visioni per stringerci attorno all’unico miracolo in duemila anni di Storia nell’esilio. Israele non sarà perfetto: quale Paese lo è? Ma non è per questo motivo che è risorto dalle sue ceneri. Il diritto a esistere dello Stato degli ebrei non risiede nella condiscendenza dei Paesi amici o nell’avere a Gerusalemme un governo “politically correct”. Il diritto a essere una nazione indipendente è dato dal legame reale e millenario del popolo ebraico con la sua Terra storica. E dal fatto che è lì, di nuovo vivo e vitale. Non c’è null’altro da spiegare. Se non che nessuno di noi può permettersi il lusso di ignorare le radici che ci consentono di essere quello che siamo.
(Bet Magazine Mosaico, 6 dicembre 2022)
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Onu e palestinesi, Relatrice Speciale italiana a Hamas: “Avete il diritto di combattere Israele”
“You have a right to resist this occupation”. “Avete il diritto di resistere a questa occupazione” è la frase detta dalla Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i palestinesi, l’italiana Francesca Albanese, nel corso di una conferenza organizzata a Gaza da Hamas, che ha visto la presenza di personaggi di spicco del gruppo terroristico che gestisce la Striscia e Jihad Islamica Palestinese, tra cui Basem Naim, Ghazi Hamad, Isam al-Da’alis e Abdul Latif al-Qanu (Hamas) e Ahmad al-Mudallal e Khadr Habib (Jihad Islamica Palestinese). È bene ricordarlo Hamas e Jihad Islamica Palestinese sono considerati gruppi terroristi dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. E allora come mai un personaggio politico così importante come Francesca Albanese ha detto a dei terroristi palestinesi la frase “You have a right to resist this occupation” (“Avete il diritto di resistere a questa occupazione”)? La causa va ricercata nelle idee della Albanese, che più volte si è schierata in favore del terrorismo palestinese puntando il dito contro Israele. Nello scorso giugno, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i palestinesi affermò che:
“I palestinesi non avevano altra scelta se non la via della violenza”.
Un mese prima, addirittura in una televisione italiana sostenne “la violenza palestinese è inevitabile perché il diritto a esistere dei palestinesi è stato negato da 55 anni – quasi tre generazioni”. Per non parlare del cordoglio funebre che la Albanese riserva ai terroristi palestinesi: “Notizia di un altro giornalista palestinese ucciso, colpisce con profondo dolore”. Non solo, perché Francesca Albanese ha spesso utilizzato termini duri nei confronti dello Stato d’Israele. Come nell’agosto scorso, quando definì “immorale” e “orribile” l’operazione di Gerusalemme nella Striscia di Gaza. Operazione durata poche ore, il cui obiettivo era quello di sconfiggere i vertici della Jihad Islamica, che avevano attaccato i cittadini israeliani inermi. “You have a right to resist this occupation”, “Avete il diritto di resistere a questa occupazione” è una frase che non dobbiamo mai dimenticare. Così come dovrebbero fare le istituzioni italiane che non hanno condannato le parole in favore del terrorismo palestinese di Francesca Albanese.
(Progetto Dreyfus, 6 dicembre 2022)
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Il Museo Ebraico di Pitigliano compie 20 anni: viaggio nella Piccola Gerusalemme
La comunità ebraica è presente nel borgo scavato nel tufo sin dal Quattrocento: la sua lunga storia rivive nel percorso espositivo realizzato grazie all’impegno dell’associazione “La Piccola Gerusalemme”.
di Ilaria Giannini
Compie vent’anni il Museo Ebraico di Pitigliano ma la storia della comunità ebraica stanziata nel suggestivo borgo di tufo alle pendici dell’Amiata, e conosciuta come “la Piccola Gerusalemme”, risale a molto prima. Alla fine del Quattrocento infatti le prime famiglie ebree si trasferiscono qui e nel 1598 edificano la loro Sinagoga, che oggi è stata restaurata e si può visitare. Il Museo Ebraico, inaugurato nel 2002 grazie ai lavori finanziati dal Comune e all’impegno dell’Associazione “La Piccola Gerusalemme”, è un omaggio a questo legame che scorre attraverso i secoli e ancora oggi è visibile nell’architettura del paese e nelle sue tradizioni, anche culinarie. Come lo Sfratto, il dolce ripieno di noci e miele che risale al Seicento, quando gli ebrei di Pitigliano a seguito dell’ordinanza di Cosimo II dei Medici vennero radunati in un unico quartiere.
- UN PERCORSO SCAVATO NEL TUFO NELLA VITA DELLA COMUNITA' EBRAICA “È una ricorrenza molto importante per tutti noi – ha sottolineato il sindaco di Pitigliano, Giovanni Gentili – per ricordare che Pitigliano porta avanti una lunga storia di convivenza. La cultura del dialogo e dell’incontro hanno sempre caratterizzato il rapporto tra ebrei e cittadini garantendo al borgo un arricchimento culturale straordinario di usanze e tradizioni”. Il Museo Ebraico è un percorso espositivo che si sviluppa nell’antico Ghetto ebraico di Pitigliano. Qui nelle sale ipogee scavate nel tufo sono esposte le testimonianze della cultura ebraica sul territorio. Si può così ammirare il forno dove venivano cotte le azzime, la macelleria, dove veniva macellata la carne secondo la tradizione ebraica, e le cantine dove veniva conservato il vino kasher che ancora oggi è prodotto dai vinificatori di Pitigliano. Il percorso comprende anche la tintoria e il bagno rituale Mikvé, sotto la Sinagoga, dove in una vasca sempre scavata nel tufo le giovani praticavano il rituale del bagno purificatorio. Nella stessa sede è presente una mostra permanente di cultura ebraica.
- LA MEMORIA STORICA DELLA PICCOLA GERUSALEMME Il Museo Ebraico compie vent’anni, ma l’associazione “La Piccola Gerusalemme” che lo gestisce ne ha già 26: venne istituita da Elena Servi e da suo figlio Enrico il 4 ottobre del 1996. “Eravamo gli ultimi ebrei di Pitigliano e su noi gravava la responsabilità di tenere in vita la memoria del passato – racconta Elena Servi, oggi ultranovantenne, custode della memoria storica della comunità ebraica di Pitigliano e direttore della struttura museale – un passato importante: gli Ebrei sono presenti in questo borgo almeno dalla metà del 1500. Era una comunità ebraica fornita di tutto, dal punto di vista igienico, religioso, commerciale, sociale e culturale, con una biblioteca bellissima, ed era così rilevante e ben organizzata da meritare l’appellativo de La Piccola Gerusalemme o La Piccola Sorella, da parte della comunità ebraica di Livorno, che era invece La Grande Sorella”. Poi con l’Unità d’Italia molti ebrei cominciarono a trasferirsi a Firenze, Livorno e Roma, tanto che la comunità di Pitigliano si ridusse a meno di 70 persone. Nel 1938 ci furono le persecuzioni razziali e durante la Seconda Guerra Mondiale i circa 30 ebrei che erano rimasti a Pitigliano furono aiutati e salvati dalle famiglie cattoliche che li nascosero nelle campagne. Con il crollo della Sinagoga, avvenuto negli anni Sessanta a causa di una frana, si spense l’ultima speranza di ricomporre la comunità. “Il Comune di Pitigliano con il sindaco Brozzi finanziò il restauro della Sinagoga – conclude Elena Servi – che fu inaugurata nel marzo del 1995. Subito dopo furono sistemati i locali sottostanti. Fu un lavoro lungo e molto ben riuscito. Anche il forno delle azzime rimasto in funzione fino al 1939 e poi abbandonato, venne restaurato, così come la macelleria e il Mikveh. Un giorno espressi gratitudine al Comune per tutto questo, rivolgendomi all’assessore Diva Bianchini e lei mi rispose che il Comune aveva ricostruito, ma noi con il lavoro dell’associazione abbiamo restituito la vita a quei luoghi.”
(intoscana, 6 dicembre 2022)
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Tunnel terroristico ritrovato dall’UNWRA sotto una scuola a Gaza
di Sofia Tranchina
Mercoledì 30 novembre è arrivata una dichiarazione dell’UNWRA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro per gli arabi palestinesi), che ha segnalato di aver trovato a Gaza un tunnel artificiale sotto una delle proprie scuole dell’infanzia, costruito con fini di terrorismo. Non è la prima volta che il regime terroristico di Hamas al potere su Gaza fa scavare tunnel per spostare le sue forze o per immagazzinare armi e razzi proprio intorno a scuole ed ospedali, utilizzando bambini, malati e civili come scudo umano per le proprie operazioni, giocando sulla colpevolizzazione di Israele nel caso tali infrastrutture venissero attaccate con conseguenti vittime collaterali. Per questo motivo, infatti, la politica ufficiale dell’IDF è di non colpire i tunnel terroristici a meno che non ci sia un imminente pericolo che ne giustifichi la necessità. Come si legge in una dichiarazione rilasciata dall’UNWRA, lo scavo «è una grave violazione della neutralità dell’agenzia e una violazione del diritto internazionale. Inoltre, espone i bambini e il personale a significativi rischi per la sicurezza e l’incolumità», e per questo «l’agenzia ha protestato con forza presso le autorità competenti di Gaza per esprimere indignazione e condanna per la presenza di una tale struttura sotto una delle sue installazioni». L’UNWRA fornisce servizi sociali, istruzione e assistenza sanitaria nei territori in cui vivono gli arabi palestinesi, oltre a offrire posti di lavoro, e tuttavia la sua esistenza viene messa in pericolo da attività terroristiche. L’agenzia ha dunque provveduto a transennare immediatamente l’area, e a far sigillare il tunnel, anche se, racconta il Times of Israel, non ha voluto rispondere alle domande e rilasciare informazioni riguardo a se l’infrastruttura sotterranea fosse destinata allo spostamento dei terroristi o al deposito di armi ed esplosivi. Tuttavia, l’UNRWA è anche accusata di perpetuare essa stessa il conflitto tra Israele e arabi palestinesi, utilizzando nelle proprie scuole libri di testo che incitano all’antisemitismo. Sarebbe dunque sospettosa la segnalazione del tunnel arrivata proprio mercoledì, quando il presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite Csaba Kőrösi ha affermato che l’agenzia era a corto di fondi per 600 milioni di dollari e ha chiesto un maggiore sostegno economico, durante la Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese organizzata dall’ONU a New York. Si ricorda infatti che nel 2021 era già stato trovato un tunnel sotterraneo in mano ai terroristi sotto una scuola dell’UNWRA, e Hamas ha impedito agli esperti delle Nazioni Unite di ispezionare la scuola che vi sorgeva sopra. Una cosa simile era successa anche nel 2017. Nel 2020 sono stati trovati anche una bomba a mano e un giubbotto militare nelle scuole dell’UNWRA, dove già nel 2014 erano stati trovati razzi. L’agenzia è accusata di aver consegnato tali razzi proprio ad Hamas anziché consegnarli alle autorità locali. Oltre alle scuole dell’agenzia, è noto che nel 2021 l’IDF ha trovato nel cortile di una scuola locale 14 piattaforme sotterranee di lancio di razzi, probabilmente utilizzate durante i combattimenti. L’utilizzo delle scuole e di altre infrastrutture necessarie come scudo per le attività terroristiche è un crimine controproducente per la popolazione stessa, mettendo in pericolo bambini e civili.
(Bet Magazine Mosaico, 5 dicembre 2022)
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Natalie Portman: «Preoccupata per il risveglio dell’odio antisemita»
Natalie Portman è addolorata e preoccupata per il moltiplicarsi delle offese antisemite, dopo le recenti uscite di Kanye West.
In un post su Instagram, la star di «Thor: Love and Thunder» si è scagliata contro le interviste e gli scandalosi tweet del rapper, che, a suo avviso, avrebbero riacceso l’odio contro il popolo ebreo.
«Assistere al riemergere dell’antisemitismo mi spezza il cuore», ha scritto l’attrice Premio Oscar. «Questo odio deve essere combattuto con tanto amore l’uno per l’altro».
«Oggi rivolgo il mio pensiero ai miei amici ebrei e a tutti coloro che sono dalla nostra parte contro queste parole e azioni violente».
«È doloroso e spaventoso ascoltare tutto ciò, e sono estremamente grata a tutti coloro che continuano a prendere posizione contro l’antisemitismo e contro ogni forma di razzismo».
Natalie ha più volte parlato delle sue origini ebree. Nell’agosto 2012 ha sposato il marito Benjamin Millepied in una cerimonia ebraica. Millepied, nel gennaio 2014, ha rivelato di essere intenzionato a convertirsi al Giudaismo.
«Per me è una priorità crescere i miei figli da bambini ebrei», ha detto la star de «Il Cigno Nero» in una passata intervista.
Natalie e Benjamin hanno due figli: Amalia, 5, e Aleph, 11.
(yahoo/life, 5 dicembre 2022)
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“In Qatar noi israeliani sotto il tiro degli insulti”
L’intervista al giornalista Raz Shechnik
di Luca Spizzichino
La Coppa del Mondo che si sta tenendo da più di settimane in Qatar è diventata sin da subito una delle più discusse, non solamente sul campo, ma anche al di fuori. La presenza di israeliani fino a qualche mese fa non era neanche certa. Solamente dopo lunghe trattative tra i due paesi, mediate dalla FIFA, si è giunti ad un accordo: i tifosi possono andare in Qatar, con voli diretti dal Aeroporto Ben Gurion, solo dopo aver richiesto un “visto speciale”. Un evento storico, per due paesi che si considerano nemici. Ma i tifosi e i giornalisti israeliani sono realmente i benvenuti in Qatar? Sembra proprio di no. I tantissimi tifosi provenienti dal mondo arabo, anche se con alcune eccezioni, non hanno perso mai l’occasione di deridere, disturbare e addirittura insultare i cittadini israeliani. I giornalisti per poter svolgere il proprio lavoro come si deve, ed evitare di essere ulteriormente bersagliati, hanno dovuto dire di appartenere ad altri paesi occidentali. Questo è stato anche il caso di Raz Shechnik, giornalista di Yedioth Ahronoth, che negli ultimi giorni ha lavorato come inviato per il quotidiano israeliano insieme al fotografo Oz Moalem. Il giornalista, per denunciare quanto stesse accadendo a lui e ai tanti colleghi presenti nel paese del Golfo, ha pubblicato un video sui social, diventato immediatamente virale. Per approfondire ciò che gli è successo, Shalom ha intervistato Shechnik il giorno del suo rientro a Tel Aviv.
- I tweets in cui denunciava quanto stava accadendo in Qatar hanno fatto molto discutere in Israele e nelle comunità ebraiche della Diaspora. Prima di atterrare a Doha, si aspettava una reazione del genere da parte dei tifosi ogni volta che diceva di essere israeliano? Non mi aspettavo che fossero amichevoli con noi, che mi abbracciassero e mi offrissero dolci, so che è un paese nemico, sostengono Hamas, ma non mi aspettavo neanche che mi accadessero questo genere di cose. Sono venuto come giornalista, e quando copri un evento mediatico come questo, ci sono delle regole e devono lasciarti fare il tuo lavoro, e non è stato possibile farlo. Era un ambiente molto ostile.
- Che cosa è successo in queste due settimane? Ogni qualvolta ci identificavamo come israeliani la gente ci gridava “Fuck Israel”, “Israele brucerà", “Palestina libera” e maledizioni di ogni genere. E questo non succedeva solo allo stadio, ma anche fuori e nei centri commerciali, dove la gente ci riconosceva. Hanno anche cercato più volte di poggiarmi bandiera palestinese sulla schiena, così da scattare una foto ridicola e metterla sui social, mi sono sentito molestato, hanno fatto in modo che io non potessi svolgere come volevo il mio lavoro, così ad un certo punto abbiamo deciso di identificarci come provenienti dell'Ecuador per una "missione giornalistica".
- Quante volte le è capitato di ritrovarsi in questo tipo di situazioni? Ogni volta che andavamo allo stadio, e siamo andati tutti i giorni. Anche ieri hanno cercato di coinvolgermi in una conversazione, persino in una rissa. Ma ho cercato di evitarli ogni volta.
- Ma una volta ha risposto, come si vede nel suo tweet. Che cosa è successo? All'inizio ho cercato di evitarli, come ho fatto di solito, dicendo che venivamo dall'Ecuador ed eravamo lì per una "missione giornalistica". Ma quando un ragazzo, un cameraman accreditato venuto dai territori palestinesi, ha continuato a molestarmi, ho deciso di rispondergli e questo è diventato virale. Sono felice per questo, sono contento della mia risposta. Ho ricevuto telefonate e messaggi da tutto il mondo da colleghi giornalisti e tifosi di calcio. Ho attirato molta attenzione, forse troppa.
- Di solito il ruolo del giornalista è quello raccontare le storie e non diventare egli stesso una storia. Come si sente ad essere diventato lei stesso la notizia? Assolutamente! E preferisco che non sia così. Non volevo essere io la notizia, ma so che in un certo senso sono stato costretto a diventarlo. E spero che, ora che è tutto finito, tornerò ad essere un giornalista e non la storia di altri giornalisti.
- Hai mai avuto esperienze simili in altri eventi sportivi? Ho partecipato a molti eventi sportivi nella mia carriera: la finale di Europa League, alle Olimpiadi, gli Europei, i Mondiali e la Champions League. E non ho mai avuto esperienze come quelle avute in Qatar. È la prima volta e spero che sia anche l'ultima.
- Sapendo che siete israeliani, i tifosi hanno solo reagito male o ci sono stati casi in cui veniva accolto positivamente? Si sono comportati tutti bene, tranne i tifosi dei paesi arabi, anche se c'è stata un'eccezione: i tifosi dell'Arabia Saudita ci hanno accolto molto bene e ci hanno invitato a visitare il paese. Sono molto contento di questo.
- Le autorità e la FIFA sono a conoscenza della cattiva atmosfera che circonda giornalisti e tifosi israeliani? Non sono a conoscenza di quello che ci sta accadendo e io non ho voluto lamentarmi con loro per non creare problemi. Devo dire che non ho avuto mai paura, però non è stato un bell’ambiente, era ostile e spiacevole.
- Ha mai avuto la sensazione di essere in pericolo? Non mi sono mai sentito in pericolo, questo perché sapevo che non mi avrebbero fatto qualcosa di veramente brutto perché il regime in Qatar non tollera cose del genere. Quindi mi sentivo al sicuro, anche se le molestie diventavano fisiche.
- Vorrei commentare con lei cosa sta succedendo ai Mondiali: per la prima volta una donna ha arbitrato una partita, in un paese arabo peraltro; il Belgio e la Germania sono uscite nella fase a gironi. Sta diventando sempre di più il Mondiale delle sorprese. Se lo aspettava? La Coppa del Mondo quest’anno è folle! L’Arabia Saudita, in fondo alla classifica, ha vinto contro l’Argentina di Lionel Messi. Già questo è qualcosa di storico. Poi anche il Giappone che ha battuto la Germania, è stato fantastico. Penso che sia davvero una buona Coppa del Mondo. Devo dire che il Qatar ha organizzato tutto molto bene. Sai, non ho molte cose positive da dire sul regime qatariota e su come tratta le donne, la comunità LGBTQ e gli immigrati. Ma devo dire che è una delle migliori organizzazioni che io abbia mai visto.
(Shalom, 5 dicembre 2022)
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Con qualunque governo la colpa è sempre di Israele, anche contro evidenza e cronologia dei fatti
Hanno già iniziato a incolpare dell’escalation di violenze il nuovo governo israeliano, ma è da un anno che il terrorismo palestinese è in aumento
Mentre Israele attende che entri in carica il nuovo governo, viene già diffusa la “narrazione” circa l’“aumento” delle tensioni con i palestinesi. Il nuovo governo sarà più di destra dei governi precedenti e quindi bisogna mettere in conto che ad esso verrà attribuita automaticamente la responsabilità di qualunque nuovo scontro in Cisgiordania. Eppure uno sguardo appena più ampio al contesto rivela che il 2022 è stato uno degli anni più violenti di recente memoria in Cisgiordania. Nel complesso c’è stato un netto aumento degli attacchi terroristici palestinesi, in particolare da parte di Jihad Islamica Palestinese e del gruppo “Fossa dei leoni”, e di conseguenza vi sono stati interventi e scontri quasi quotidiani tra le forze di sicurezza israeliane e gruppi militanti e terroristi palestinesi, molti dei quali hanno causato vittime....
(israele.net, 5 dicembre 2022)
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Israele-Italia, la collaborazione nel segno dell’accademia
Continua il lavoro per costruire e rafforzare la collaborazione in ambito universitario tra Italia e Israele. Di recente ad esempio il ministero degli Affari esteri israeliano ha aperto un bando per otto borse di studio per studenti italiani che vogliano approfondire il loro percorso attraverso un periodo di studi in un’istituzione accademica israeliana. Da Haifa a Tel Aviv diverse sono le università coinvolte, alcune delle quali si presenteranno anche ai giovani italiani con un doppio incontro organizzato alla scuola ebraica di Roma (5 dicembre) e Milano (6 dicembre). A incontrare i ragazzi saranno rappresentanti dell’Università di Tel Aviv, della Reichman, dell’Università Ebraica, del Technion di Haifa, della Bar Ilan e della Ben Gurion che presenteranno le proprie offerte didattiche nel corso di due open day.
(moked, 4 dicembre 2022)
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Miriam, un personaggio profetico (7)
di Gabriele Monacis
Il quarto brano della Torah in cui compare Miriam si trova nel libro dei Numeri al capitolo 20. Ecco il primo versetto di questo capitolo.
“Poi tutta l'assemblea dei figli d'Israele arrivò al deserto di Sin nel primo mese, e il popolo si fermò a Kadesh. Là morì Miriam e là fu sepolta”.
Il racconto comincia col popolo che si sposta nel deserto e si ferma a Kadesh, nel primo mese di un non meglio precisato anno. Lì muore Miriam e viene sepolta. Anche in questa occasione, il personaggio di Miriam compare improvvisamente nella narrazione del cammino di Israele nel deserto. La Scrittura le dedica un piccolo spazio, quasi fosse una nota a margine o un dovere di cronaca, per poi continuare con la narrazione. Non si hanno informazioni sulla sua morte, se non il luogo dove morì, a Kadesh, e il fatto che venne sepolta lì. Tuttavia, come negli altri casi, Miriam compare in momenti cruciali della storia del popolo: il salvataggio di Mosè dalle acque del Nilo, l’uscita dal Mar Rosso del popolo di Israele, la sua partenza dal monte Sinai. Pertanto è importante analizzare il contesto in cui viene inserito quest’ultimo evento: la morte di Miriam. Infatti, al fine di comprendere quale sia il valore profetico di questo personaggio, la domanda principale che qui ci si pone rimane la stessa: considerando il modo in cui la Scrittura presenta il personaggio di Miriam, è possibile individuare un legame tra lei e il popolo di Israele? E se sì, in cosa consiste questo legame? Per continuare a cercare una risposta a queste domande, è dunque fondamentale capire ciò che fa il popolo anche in questo brano, in cui compare il personaggio di Miriam. Il capitolo che parla della morte di Miriam racconta una contestazione di Israele per mancanza di acqua. Questa contestazione è solo in apparenza contro Mosè ed Aaronne. In realtà il destinatario ultimo delle parole del popolo è di nuovo Dio stesso. Riportata nei versetti 4 e 5 del capitolo 20, l’accusa rivolta contro i due fratelli è di aver preso decisioni sbagliate per il popolo, di avergli procurato del male piuttosto che del bene, di averlo fatto salire dall’Egitto per portarlo in un brutto luogo, in cui non c’è grano e non ci sono fichi, vigne, melograni, e non c’è acqua da bere. Anche questa volta, una contestazione contro Mosè e Aaronne si rivela essere una contestazione contro il modo in cui Dio sta guidando Israele nel suo viaggio, cioè contro il modo in cui Egli mostra di essere Padre nei confronti del popolo. La storia dell’Esodo dice che fu Dio a far uscire Israele dall’Egitto con mano potente; fu Lui a condurli passo passo nel deserto fino a quel posto chiamato Kadesh. Mosè ed Aaronne hanno semplicemente attuato le scelte di Dio. E anche qui Dio li avrebbe chiamati a fare lo stesso: applicare le Sue istruzioni. È interessante notare il modo in cui il popolo inizia la contestazione, nel versetto 3: “Fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti all'Eterno!”. L’allusione a coloro che morirono davanti all’Eterno sembra risalire all’evento raccontato poco prima nel capitolo 16 dei Numeri. Duecentocinquanta persone, tra cui Kore, uomini in vista e membri del consiglio, si levarono davanti a Mosè e misero in discussione la sua autorità sul popolo. Il modo in cui morirono, inghiottiti vivi dalla terra che si era aperta sotto i loro piedi, sembra voler mostrare al popolo la peculiarità della morte di coloro che si ribellano al Signore: interrati da vivi, non da morti. Le parole del popolo – fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti all’Eterno – non sembrano essere di esaltazione per la ribellione di quelle persone, come se avessero fatto bene a ribellarsi . Piuttosto, sono parole dette in un momento di disperazione per la scarsità di beni di cui quel luogo disponeva. Quasi a chiedersi in cosa sia diversa, dopotutto, la sorte del ribelle da quella del non ribelle, se poi alla fine tocca ad entrambi morire nella disperazione. L’Eterno non sembra rispondere direttamente a questi dubbi di disperata incredulità. Si rivolge piuttosto a Mosè. Sarà lui, per ordine di Dio, a parlare affinché si apra una via nel deserto, per continuare a camminare e a vivere, invece di rimanere fermi e morire. A lui il Signore chiederà di mostrare piena ubbidienza alle Sue parole davanti al resto del popolo, in un momento di grande criticità. L’ubbidienza di Mosè alla Parola di Dio, che proviene dalla fede in Lui, sarebbe stata di esempio per tutti nel prosieguo del cammino.
“Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aaronne convocate l'assemblea e davanti ai loro occhi parlate alla roccia, ed essa darà la sua acqua; così farai sgorgare per loro acqua dalla roccia e darai da bere all'assemblea e al suo bestiame” (Numeri 20:8,9).
Il Signore, dunque, chiede a Mosè e ad Aaronne di convocare l’assemblea e parlare alla roccia, in modo che essi vedano con i loro occhi che da essa uscirà acqua da bere per tutti, persone e animali. Dio non dà a Mosè e Aaronne nulla da dire al resto del popolo. L’acqua che esce dalla roccia davanti ai loro occhi avrebbe parlato da sé. Invece Mosè, dopo aver convocato l’assemblea del popolo davanti alla roccia, parla al popolo e rivolge loro le parole del versetto 10: “Ora ascoltate, o ribelli; dobbiamo far uscire acqua per voi da questa roccia?” Mosè sembra alquanto appesantito da tutta questa situazione. Ne ha abbastanza di quell’ostinata incredulità. Sarebbe il caso di dare una lezione una volta per tutte a questo popolo, invece di dargli quello che chiedono – acqua – senza rimproverargli nulla. Dicendo “dobbiamo”, Mosè mostra di sentire tutto il peso della faccenda sulle sue spalle e su quelle di suo fratello Aaronne; il peso, cioè, di far uscire acqua da una roccia. La disperazione del popolo sembra aver attecchito anche nel suo cuore. Oltretutto Mosè, chiamando i suoi uditori ribelli, usa lo stesso termine che compare in Deuteronomio 21:18-21, brano che parla di un figlio ostinato e appunto ribelle, che non vuole ascoltare suo padre e sua madre, anche dopo essere già stato punito.
“Se un uomo ha un figlio caparbio e ribelle che non ubbidisce né alla voce di suo padre né alla voce di sua madre e, benché l'abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo porteranno dagli anziani della sua città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani della sua città: "Questo nostro figlio è caparbio e ribelle; non vuole ubbidire alla nostra voce; è un ghiottone e un ubriacone". Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno con pietre ed egli morirà; così sradicherai il male di mezzo a te, e tutto Israele verrà a saperlo e avrà timore”.
Un tale figlio, una volta consegnato dai genitori nelle mani del popolo, merita di morire per mano degli uomini della sua città. Mosè vede dunque Israele come un figlio ribelle, che ostinatamente non ascolta la voce di Dio, suo Padre, anche dopo essere già stato castigato ripetutamente, come successo al popolo. Un figlio ribelle - avrà pensato Mosè - è destinato a morire prima o poi. Andrebbe punito come non mai, affinché smetta di essere ribelle e non muoia. Una cosa è certa - avrà concluso Mosè. Un figlio così non va accontentato senza alcun rimprovero come vuole fare Dio questa volta! Avrà anche avuto le sue buone ragioni, Mosè, per aver dato del figlio ribelle al popolo. Il problema è che Dio, come Padre che ha la responsabilità sui propri figli, in questa specifica circostanza non li aveva giudicati. Mosè si stava arrogando il dovere di redarguire il popolo per la loro condotta, di cambiarli una buona volta, dovere che Dio non gli aveva dato e che non dà a nessuno, essendo Lui il Padre. L’azione di Mosè che segue sembra dimostrare ciò che aveva in cuore.
“Mosè alzò la mano, percosse la roccia col suo bastone due volte, e ne uscì acqua in abbondanza; e l'assemblea e il suo bestiame bevvero” (Numeri 20:11).
Dio aveva chiesto a Mosè di parlare alla roccia e non gli aveva dato alcunché da dire al popolo, se non chiamarlo per vedere la roccia da cui sgorga acqua. Mosè invece che fa? Parla al popolo, gli dà del ribelle, e poi, senza parlare alla roccia come Dio gli aveva chiesto, la picchia con il suo bastone due volte, forse per sfogare su quella roccia il suo desiderio di dare una lezione al popolo una volta per tutte. Dalla roccia uscì acqua e tutti ne bevvero, persone e animali. Il miracolo è avvenuto: esce acqua in abbondanza da una roccia in pieno deserto. Il popolo, assetato com’era, avrà anche fatto una gran festa davanti a quello spettacolo così inatteso. Mosè, dal canto suo, si sarà sentito un po’ sollevato. Avrà pensato che, in fin dei conti, quello sfogo ci poteva anche stare, visto che l’acqua dalla roccia era uscita nonostante tutto. Se Dio ha permesso a Mosè di compiere un miracolo del genere, nonostante non avesse ubbidito in tutto e per tutto alle Sue parole, significa che in fin dei conti Dio gli aveva dato ragione. E invece no. Ecco le parole che l’Eterno ebbe per Mosè ed Aaronne:
«Poiché non avete creduto in me per dare gloria a me agli occhi dei figli d'Israele, voi non introdurrete questa assemblea nel paese che io ho dato loro». Queste sono le acque di Meriba dove i figli d'Israele contesero con l'Eterno, ed egli si mostrò Santo in mezzo a loro (Numeri 20:12,13).
La sentenza di Dio su Mosè ed Aaronne è tremenda: essi moriranno senza essere sepolti in terra promessa, come evidentemente speravano, perché lì non ci entreranno mai. Saranno sepolti nel deserto come tutta quella generazione ribelle all’Eterno. Il motivo? Non hanno creduto in Lui per dargli gloria agli occhi del popolo. Quelle parole al popolo e quelle percosse alla roccia erano costate care ai due fratelli. A prima vista, forse anche troppo care, dopo tutto quello che avevano fatto per il popolo fino a quel momento. Ma come sempre accade, il Signore guarda al cuore. E nel loro cuore c’era evidentemente del disappunto per come il Signore stava trattando i suoi figli. Al posto di accontentarli, Dio avrebbe dovuto punirli, percuoterli, come Mosè aveva percosso la roccia per ottenere ciò che voleva. Da questo punto di vista, anche Mosè ed Aaronne dubitarono di come Dio stava svolgendo il suo ruolo di Padre, troppo permissivo. In questo, dunque, essi non credettero in Lui: non si affidarono completamente al Suo modo di essere Padre. Con la sentenza su Mosè e Aaronne, Dio rinchiude l’intero popolo di Israele nell’incredulità. Nessuno escluso. Anche i due leader massimi rimasti in vita non sono esclusi dal non aver creduto in Dio Padre. La loro sorte, dunque, sarà come quella di Miriam e della generazione dei figli ribelli, morti e sepolti nel deserto e non in terra promessa, come invece fu per i padri Abramo, Isacco e Giacobbe, che furono sepolti nella grotta di Macpelà; e come fu anche per Giuseppe, le cui ossa, secondo Giosuè 24:32, furono portate dall’Egitto alla terra di Canaan. Il nome di quel luogo, Meriba, non ricorda tanto il miracolo dell’acqua, quanto la contestazione che Israele ebbe con il Signore, frutto dell’incredulità che, evidentemente, aveva contraddistinto ogni singolo membro del popolo. L’Eterno, infatti, si mostrò santo in mezzo a loro, cioè separato dal resto del popolo incredulo. È interessante notare che questo evento di palesata e collettiva incredulità avvenne dopo la scomparsa di Miriam, colei che insieme a Mosè ed Aaronne prendeva le decisioni più importanti. Era venuta a mancare colei che, senza dubbio, non era solo un punto di riferimento per il popolo, ma anche per i suoi due fratelli. Colei che, prima destinata a morire per la lebbra e poi vivificata, in questo frangente avrebbe certamente dato il suo contributo di fede, avendo ricevuto la vita in dono una seconda volta dopo aver visto la morte con gli occhi. In questo episodio, ciò che accomuna Miriam al resto del popolo è senz’altro la sua morte e la sua sepoltura. Come la generazione ribelle di Israele morì e fu sepolta nel deserto, inclusi Mosè e Aaronne, così anche Miriam morì e fu sepolta prima di poter entrare nella terra promessa. Ma come questa storia di incredulità, morte e sepoltura si collega agli altri avvenimenti della vita di Miriam, si vedrà nella prossima occasione, in cui proveremo a delineare un quadro unico in cui si inseriscono tutti gli eventi della storia di Miriam, per poter intravedere un possibile sviluppo successivo.
(7. continua)
(Notizie su Israele, 4 dicembre 2022)
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Antiterrorismo e cyber, così Italia e Israele lavorano assieme
Parla il sovrintendente Rosenfeld
di Gabriele Carrer
In occasione dell’evento Israel HLS&CYBER 2022 si è tenuta a Tel Aviv una conferenza che ha coinvolto le polizie di tutto il mondo. In totale, 45 delegazioni da 34 Paesi. È stata un’occasione “molto proficua”, che “dimostra l’importanza della cooperazione internazionale” in questo settore, spiega a Formiche.net il sovrintendente Micky Rosenfeld, responsabile degli affari internazionali, della politica estera e del coordinamento della Polizia nazionale israeliana.
- Qual è lo stato dei rapporti tra Israele e Italia in questo settore? La cooperazione internazionale tra la Polizia nazionale israeliana e le forze dell’ordine e di sicurezza italiane è fondamentale e cruciale, dal momento che ci sono molti scenari e minacce in comune. Anche se viviamo a diversi chilometri di distanza, le minacce globali in Europa e in Israele sono molto simili e riconoscibili.
- Come si articola questa cooperazione? La polizia nazionale israeliana lavora 24 ore su 24, 7 giorni su 7, con diverse agenzie di polizia in tutta Europa. Anche, naturalmente, con le forze dell’ordine italiane su varie piattaforme. La prima è direttamente dalla sede della Polizia nazionale israeliana a Gerusalemme. Condividiamo informazioni anche attraverso gli addetti della Polizia nazionale israeliana presenti in Europa. Per esempio, l’addetto di polizia a Parigi copre cinque Paesi, tra cui l’Italia.
- Quali sono i temi di cooperazione? La Polizia nazionale israeliana e la polizia italiana collaborano principalmente su due temi principali. Primo: la prevenzione del terrorismo, ovvero il trasferimento di informazioni sulla possibilità che si verifichino incidenti legati al terrorismo e la formazione in materia di antiterrorismo. Numero due: sicurezza informatica e tecnologia.
- Spesso dice che Israele e Italia sono Paesi economicamente complementari. È così anche per quanto riguarda la sicurezza? La polizia israeliana e quella italiana sono molto complementari. I canali sono aperti e i legami sono forti. E posso dirvi che nel 2023 continueremo a rafforzare le relazioni tra i nostri Paesi. Proprio nei giorni scorsi, la delegazione italiana è stata qui per la conferenza. Abbiamo toccato diversi argomenti per rafforzare i nostri Paesi e le forze dell’ordine.
- Che importanza hanno i lavori condivisi per la cooperazione tra forze di polizia e di sicurezza? I valori sono la base fondamentale per la comprensione reciproca. Una volta che si hanno gli stessi valori, si possono aprire le linee di comunicazione. E, naturalmente, i valori che abbiamo nella Polizia nazionale israeliana sono gli stessi che esistono nella polizia e nelle forze dell’ordine italiane.
(Formiche.net, 3 dicembre 2022)
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Il mondiale in Qatar e il pregiudizio anti-israeliano
di David Elber
C’è voluto un torneo di calcio – anche se il più importante del mondo – per comprendere bene, a oltre due anni dalla stipula degli Accordi di Abramo, come stanno le relazioni tra Israele e il mondo arabo. Qui su L’Informale avevamo espresso fin da subito dei seri
dubbi
in merito ai suddetti accordi, sia sulla modalità in cui vennero raggiunti sia su come la popolazione araba li recepì. La cronaca recente ha ampiamente confermato queste riserve. Un primo e importante esempio ci viene fornito dalle numerose cronache fornite da giornalisti israeliani che si sono recati in Qatar per seguire lo svolgimento dei mondiali di calcio. Le loro esperienze non lasciano dubbi: le aggressioni fisiche e verbali nei confronti degli israeliani sono la regola. Non si parla di aggressioni perpetrate da “ultras” invasati o estremisti religiosi ma da “normali” cittadini che non appena identificati i soggetti come “israeliani” li hanno coperti di insulti o li hanno presi a spinte. I taxisti si sono rifiutati di trasportarli o i ristoratori di servirli. I numerosi episodi riportati non riguardano solamente i cittadini qatarini o di altri Stati arabi che formalmente non riconoscono Israele e non hanno relazioni diplomatiche, ma soprattutto di cittadini degli Emirati, della Giordania, dell’Egitto e del Marocco. Tutti questi paesi hanno firmato accordi di pace e in teoria dovrebbero avere buone relazioni con Israele ma la realtà dei fatti è ben diversa e i mondiali in Qatar forniscono una dimostrazione palese di come stanno realmente le cose tra la popolazione araba in merito alla loro percezione di Israele. La situazione che si è palesata in Qatar è molto indicativa per diversi motivi. In primo luogo perché si tratta di un avvenimento mondiale di carattere sportivo e lo sport è da sempre considerato come uno strumento per avvicinare i popoli stemperando le tensioni della politica. Infatti, non risulta che altri tifosi o giornalisti siano stati aggrediti: né gli americani a causa delle guerre passate, né gli inglesi o i francesi a causa dei loro trascorsi coloniali, neppure si sono registrati scontri o tensioni tra tifosi arabi e iraniani che da secoli sono in contrasto tra di loro. Le aggressioni e l’ostilità hanno riguardato unicamente gli israeliani, e questo è bene ribadirlo, da parte di taxisti, ristoratori e altri cittadini comuni e, tra l’altro, in un momento di relativa calma politica tra Israele e il mondo arabo. Questi fatti, altre che gli immancabili richiami alla “causa palestinese”, che vorrebbe la “Palestina libera dal Giordano al mare”, sono un chiaro indice di come le società arabe siano percorse trasversalmente da un sentimento fortemente antisemita che va ben oltre il contenzioso con i palestinesi (sempre più palesemente un pretesto): gli ebrei sono visti come usurpatori, nemici a prescindere con i quali le relazioni civili vanno negate a priori, anche se i propri paesi non sono mai stati in guerra con lo Stato ebraico. Si tratta, evidentemente, di una ulteriore prova che non è in gioco la questione politica tra Israele e gli Stati arabi ma si tratta dei rapporti tra gli ebrei e gli arabi tout court. Anche se i governanti di vari Stati arabi, che è bene ricordare non sono mai stati eletti da nessuno, si sono avvicinati ad Israele è solo per opportunismo politico (Egitto, Giordania, Sudan e Marocco) o perché spaventati dall’aggressività iraniana (Emirati, Bahrein) ma non certo perché i rispettivi popoli abbiano cambiato il loro atteggiamento nei confronti degli ebrei in generale e di quelli israeliani in particolare e il mondiale di calcio lo sta testimoniando. E’ pur vero che le riforme molte volte vengono veicolate dall’alto cioè dai governi (soprattutto in mancanza di democrazia) e un po’ alla volta assimilate dalla popolazione. Ma sembra proprio che in questo caso, l’opportunismo dei governanti appare un principio assai debole per essere accettato da un’ampia fetta della popolazione e il rifiuto ad Israele è ancora troppo radicato per essere modificato da governanti mai eletti attraverso un voto democratico e che nei fatti non rappresentano il sentire comune.
(L'informale, 2 dicembre 2022)
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Il ministro degli Esteri della Turchia: “E’ necessario garantire buone relazioni con l’Egitto”
In seguito alle condizioni attuali è necessario garantire buone relazioni tra Egitto e Turchia. Lo ha dichiarato il ministro degli Affari esteri della Turchia, Mevlut Cavusoglu, nel corso del “dialogo speciale” tenuto durante l’ottava edizione della Conferenza Rome Med – Mediterranean Dialogues, in corso a Roma. “La crisi che dobbiamo affrontare insieme han fornito l’opportunità di riallacciare i rapporti con alcuni paesi. Abbiamo avuto la possibilità di normalizzare le relazioni con Israele.
Questo non mette tuttavia in dubbio il nostro sostegno alla causa palestinese”, ha proseguito il ministro, secondo il quale questa normalizzazione “andrà a beneficio dell’intera regione”. “Anche l’Egitto è un importante Paese per la regione, per il mediterraneo, per il mondo musulmano e per l’Africa”, ha affermato Cavusoglu. In merito alla crisi in Siria, il ministro ha ribadito la necessita di confrontarsi con il governo siriano per garantire “il rimpatrio volontario dei rifugiati”. “È necessario anche affrontare il problema della lotta al terrorismo. Spero che il regime possa capirlo affinché si possa garantire la pace e la stabilità del Paese”, ha aggiunto il ministro degli Esteri turco.
(Agenzia Nova, 2 dicembre 2022)
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Prove di guerra anti-Iran nei cieli del Mediterraneo
di Antonio Mazzeo
Ha preso il via martedì 29 novembre nei cieli del Mediterraneo orientale una delle più grandi esercitazioni aeree mai effettuate congiuntamente dalle forze armate di Stati Uniti d’America e Israele. Fino a giovedì 1 dicembre i cacciabombardieri USA e israeliani simuleranno un attacco contro le centrali iraniane. “Caccia e aerei cisterna per il rifornimento in volo della Israeli Air Force (IAF) e di US Air Force parteciperanno all’esercitazione e simuleranno diversi scenari per far fronte alle minacce regionali”, spiega in una nota l’ufficio stampa dell’Aeronautica militare di Tel Aviv. È The Jerusalem Post a rivelare il vero obiettivo dei war games. “Con le crescenti tensioni per il programma nucleare dell’Iran e le ostilità nella regione, Israele e la Repubblica islamica si minacciano reciprocamente e gli Stati maggiori dei due paesi affermano che le rispettive forze armate sono in grado di colpire gli avversari”, scrive il quotidiano. In vista di un sempre più prevedibile attacco alle infrastrutture nucleari iraniane, le autorità israeliane hanno varato un ambizioso e costoso programma di rafforzamento del dispositivo aeronavale: per il bilancio della difesa 2023 sono stati stanziati 58 miliardi di shekel (16,29 miliardi di euro circa), 3,2 miliardi dei quali destinati specificatamente contro Teheran. Secondo quanto riportato dai media statunitensi, la decisione di organizzare l’esercitazione aerea è stata presa lo scorso 23 novembre in occasione della vista negli USA del Capo delle forze armate di Israele, il generale Aviv Kochavi. “Il leader militare israeliano insieme al Capo di Stato Maggiore degli Stati Uniti d’America, gen. Mark Milley e al comandante di CENTCOM (Central Command) gen. Michael Kurilla, starebbero considerando di svolgere nelle prossime settimane un’attività addestrativa congiunta per addestrare i militari in vista di un possibile conflitto con l’Iran e i suoi alleati in Medio oriente”, annunciava Fox News Digital a conclusione del vertice. Durante la sua missione in territorio USA, il gen. Aviv Kochavi è stato pure ospite del consigliere del presidente Biden per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, e del direttore della Central Intelligence Agency (CIA), William J. Burns. Al Comando delle forze navali di Norfolk (Virginia), il capo delle forze armate israeliane è stato accompagnato dai massimi responsabili di US Navy a bordo di un sottomarino nucleare e di una portaerei per “approfondire le conoscenze sulle loro capacità operative”, come riporta la Marina USA. Kochavi ha concluso il tour partecipando a un’esercitazione di “pronto intervento” in caso di crisi presso il quartier generale del Comando centrale CENTCOM a Tampa, Florida, dove ha ricevuto la medaglia al Merito militare “per aver contribuito a rendere più profonda la partnership strategica tra gli Stati Uniti d’America e Israele”. “Al fine di migliorare le nostre capacità per affrontare le sfide nella regione, l’attività comune con CENTCOM si espanderà significativamente in futuro”, ha dichiarato il gen. Kohavi prima di far rientro in Israele. “Allo stesso tempo le forze armate israeliane continueranno ad agire a ritmo accelerato contro il radicamento del regime iraniano nella regione”. “L’Iran è sottoposto a molte pressioni economiche, militari e interne e d’altro canto continua a promuovere il suo programma nucleare”, ha aggiunto Kohavi. “Con il gen. Mark Milley siamo d’accordo: ci troviamo in un punto critico e il tempo richiede di accelerare i piani operativi e di cooperazione contro l’Iran e i suoi alleati terroristi regionali”. La pericolosa escalation del confronto-scontro di Washington/Tel Aviv con Teheran trova conferma in altre recentissime dichiarazioni ufficiali. Una settimana prima del viaggio del gen. Kohavi, era stato il comandante di CENTCOM, gen. Michael Kurilla, a recarsi in vista nel nord di Israele per partecipare alla consegna di tre nuovi cacciabombardieri F-35 “stealth” da parte della holding industriale-militare Lochkeed Martin, previa scorta nell’Oceano atlantico e nel Mediterraneo di due bombardieri strategici B-52 di US Air Force. “Noi stiamo operando insieme su tutti i fronti per raccogliere dati di intelligence, neutralizzare minacce e prepararci per vari scenari in una o più arene, sviluppando capacità militari contro l’Iran e altre minacce in Medio oriente”, dichiaravano i generali Kohavi e Kurilla. Il 22 novembre il Comando delle forze navali USA e della V Flotta di stanza a Manama (Bahrain) ha emesso un comunicato stampa in cui si accusava l’Iran per l’attacco di un drone aereo contro una nave cisterna battente bandiera liberiana, il 15 novembre nelle acque del Mar arabico settentrionale. “Un laboratorio di U.S. Navy in Bahrain ha confermato l’Iran connection: due tecnici esperti in ordigni e esplosivi sono saliti a bordo della motonave Pacific Zircon, il giorno successivo all’attacco, per valutare i danni e raccogliere i frammenti del velivolo senza pilota per le analisi forensi”, scrive il Comando USA. “Il laboratorio ha accertato che il drone che ha colpito la nave cisterna è uno Shahed-136, adattandosi a un modello storico del crescente uso di una capacità letale direttamente da parte dell’Iran o dai suoi alleati in Medio oriente. L’Iran ha rifornito di droni aerei gli Huthi in Yemen ed essi sono stati utilizzati contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti negli ultimi anni. In aggiunta, la piattaforma Shahed-136 è la stessa dei droni che l’Iran ha fornito alla Russia per essere impiegati contro l’Ucraina”. Ancora più nette le parole del vice ammiraglio Brad Cooper, comandante dell’U.S. Naval Forces Central Command e della V^ Flotta: “L’attacco iraniano contro un’unità commerciale in transito in acque internazionali è stato deliberato, palese e pericoloso, e ha messo in grave pericolo le vite dell’equipaggio, destabilizzando la sicurezza marittima in Medio oriente”. Coincidenza vuole che due giorni prima della pubblicazione del comunicato stampa sul presunto strike “iraniano” alla Pacific Zircon, una delegazione delle forze armate israeliane guidate dal consigliere per la sicurezza nazionale Eyal Hulata, veniva ricevuta proprio dal Comando delle forze navali USA in Bahrain. Ad accogliere gli israeliani il viceammiraglio Brad Cooper e il coordinatore dell’U.S. National Security Council per il Medio oriente e il nord Africa, Brett McGurk. “La delegazione ha visitato il quartier generale della V^ Flotta per discutere sulle future opportunità di cooperazione nell’area e conoscere gli impegni in atto per rafforzare le partnership marittime regionali e integrare le nuove tecnologie”, riporta il Comando di Manama. “L’autunno scorso il Pentagono ha riposizionato Israele dall’area sottoposta al Comando USA in Europa e quello del Comando centrale che opera in questa regione per rafforzare la cooperazione militare navale principalmente nel Mar Rosso”. In Bahrain la delegazione israeliana ha pure incontrato i membri della Task Force 59, l’unità d’élite della Marina USA istituita nel 2021 per contribuire allo sviluppo di nuovi sistemi di droni navali e subacquei e di tecnologie AI (Intelligenza artificiale) a favore della V^ Flotta. “La task force ha presentato agli ospiti i risultati delle collaborazioni avviate con l’industria privata, le università e i partner regionali per migliorare la visibilità sopra, sotto e il mare”, spiega US Navy. Adesso con la maxi-esercitazione aerea israelo-statunitense si passa a dare visibilità alle minacce nucleari nei cieli del Mediterraneo e del Golfo Persico.
(Pagine Esteri, 30 novembre 2022)
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Gantz: «Iran può avere la bomba nucleare in due settimane»
Il Ministro della difesa uscente, Benny Gantz, lancia l'allarme sulla pericolosità a livello globale dell'Iran e rivela che Israele sta operando per aiutare l'Ucraina.
Il ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato che se a Teheran verrà presa la decisione di dotarsi di un’arma nucleare, l’Iran potrà farlo entro due settimane.
Parlando agli addetti militari di 30 Paesi, Gantz ha detto che l’Iran ha compiuto 16 attacchi contro obiettivi civili nel Mar Rosso e nel Golfo, negli ultimi anni e ha chiesto al mondo di agire.
“Proprio il mese scorso abbiamo assistito a un attacco contro una nave civile al largo delle coste dell’Oman”, ha detto Gantz. “L’Iran è una minaccia per il mondo intero e non solo una sfida per Israele”, ha detto.
Il ministro uscente ha ringraziato i rappresentanti della comunità internazionale per la loro collaborazione nel promuovere la cooperazione nel settore della difesa e gli accordi con l’industria della difesa.
“Abbiamo preso provvedimenti per sostenere l’Autorità Palestinese”, ha dichiarato. “Siamo consapevoli dei problemi che l’Autorità palestinese ha nell’esercitare la sua autorità e intraprenderemo un’azione capillare contro le bande terroristiche che non solo prendono di mira gli israeliani, ma danneggiano anche i residenti palestinesi”, ha detto Gantz ai diplomatici.
Ha aggiunto che Israele sta operando per fornire all’Ucraina sistemi di allarme rapido nella lotta contro l’invasione russa e ha ribadito la posizione del governo che condanna gli attacchi russi contro la popolazione civile.
(Rights Reporter, 2 dicembre 2022)
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Germania: c’è l’Iran dietro agli attacchi antisemiti di novembre
Ci sarebbe il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) del regime iraniano dietro una serie di attacchi in Germania contro obiettivi ebraici nel mese di novembre. Lo rivela l’Algemeiner, riportando i risultati di indagini svolte della polizia tedesca. I fatti antisemiti sono diversi: sono stati sparati colpi contro la vecchia sinagoga di Essen, un tentativo di incendio doloso è stato registrato in una sinagoga di Dortmund e una molotov è stata lanciata contro una scuola ebraica di Bochum. All’inizio di questo mese, la polizia ha arrestato un uomo tedesco-iraniano di 35 anni, presumibilmente responsabile dell’attacco a Bochum, che ha tentato di reclutare un altro individuo per l’attacco a Dortmund. Secondo il programma Kontraste dell’emittente ARD di giovedì sera, la polizia locale sospetta che l’uomo sia collegato a Ramin Yektaparast, il fondatore del gruppo di motociclisti degli Hell’s Angels nella città di Mönchengladbach. Si ritiene che Yektaparast sia fuggito in Iran l’anno scorso per sfuggire al processo per il brutale omicidio e smembramento di un altro membro della banda nel 2014, secondo i resoconti dei media tedeschi. Altri sei uomini sono stati processati per l’omicidio durante l’estate. Gli investigatori tedeschi ritengono che Yektaparast, la cui pagina Instagram dormiente presenta sia la bandiera iraniana che quella tedesca, sia affiliato alle operazioni dell’IRGC in Germania. Oltre agli attacchi alle istituzioni ebraiche, gli investigatori avrebbero scoperto un complotto credibile per prendere di mira Josef Schuster, il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi. Nell’ultimo anno, è aumentata a livello globale la preoccupazione per le operazioni terroristiche dirette dall’Iran all’estero. Ad agosto, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha accusato un membro dell’IRGC di aver complottato per uccidere John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale dell’ex presidente Donald Trump, mentre nello stesso mese, un uomo sospettato di essere un agente iraniano è stato arrestato con un AK carico 47 davanti alla casa di Masih Alinejad, un eminente critico del regime iraniano, a Brooklyn.
(Bet Magazine Mosaico, 2 dicembre 2022)
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Uno studio rileva informazioni e origini degli ebrei aschenaziti
di Michelle Zarfati
Attraverso il ritrovamento di alcuni denti antichi, un gruppo internazionale di scienziati ha condotto una ricerca su una comunità ebraica aschenazita medievale un tempo fiorente a Erfurt, in Germania. I risultati, condivisi ieri sulla rivista scientifica “Journal Cell”, mostrano che la comunità ebraica di Erfurt era geneticamente più diversificata rispetto ai moderni ebrei aschenaziti.
Circa la metà degli ebrei americani o israeliani oggi sono identificati come aschenaziti, il che significa che provengono da ebrei che vissero nell'Europa centrale o orientale. Il termine fu inizialmente usato per definire un distinto gruppo culturale di ebrei che si stabilì nel X secolo nella Renania tedesca. Nonostante molte speculazioni, esistono molte lacune nella reale comprensione delle loro origini e degli sconvolgimenti demografici che interessarono il secondo millennio.
"Oggi, se si confrontano gli ebrei aschenaziti degli Stati Uniti e di Israele, sono geneticamente molto simili, quasi come se fossero la stessa popolazione, indipendentemente da dove vivono", ha spiegato il genetista e coautore Professor Shai Carmi dell'Università Ebraica di Gerusalemme (HU).
Ma a differenza dell'odierna uniformità genetica, si scopre che la comunità era più diversificata 600 anni fa.
Scavando nell'antico Dna di 33 ebrei aschenaziti della medievale Erfurt, il team ha scoperto che la comunità può essere classificata in quelli che sembrano due gruppi. Uno si riferisce più a individui provenienti da popolazioni mediorientali, l'altro a popolazioni europee, inclusi migranti a Erfurt dall'est. I risultati suggeriscono che c'erano almeno due gruppi geneticamente distinti nell’Erfurt medievale. Tuttavia, quella variabilità genetica non esiste più nei moderni ebrei ashkenaziti. La comunità ebraica medievale di Erfurt esisteva tra l'XI e il XV secolo, con un breve intervallo dopo un massacro risalente al 1349.
Erfurt rappresentava una fiorente comunità, una delle più grandi in Germania. Dopo l'espulsione di tutti gli ebrei nel 1454, la città costruì un granaio sopra il cimitero ebraico. Nel 2013, il Comune ne ha consentito la trasformazione del granaio in un parcheggio, il che ha richiesto ulteriori costruzioni e uno scavo archeologico di salvataggio.
"Il nostro obiettivo era colmare le lacune nella comprensione della storia più remota degli ebrei aschenaziti attraverso i dati del DNA antico", ha spiegato Carmi. I dati del Dna antico sono un potente strumento per dedurre i dati demografici storici. Con l'approvazione della comunità ebraica locale in Germania, il gruppo di ricerca ha raccolto dai resti alcuni denti trovati in un cimitero ebraico del XIV secolo a Erfurt che ha subito uno scavo di salvataggio. "Gli ebrei in Europa erano una minoranza religiosa socialmente segregata e subirono persecuzioni periodiche", ha descritto il coautore dell'Università di Harvard. Sebbene la violenza antisemita abbia praticamente spazzato via la comunità ebraica di Erfurt nel 1349, gli ebrei tornarono cinque anni dopo facendo diventare Erfurt una delle più grandi Comunità in Germania. "Il nostro lavoro ci dà una visione diretta della struttura di questa comunità" ha aggiunto Carmi.
Sebbene questo sia il più grande studio sul Dna ebraico antico finora, è limitato a un cimitero e ad un periodo di tempo specifico. Tuttavia, la ricerca è stata in grado di rilevare sottogruppi genetici precedentemente sconosciuti negli ebrei ashkenaziti medievali. I ricercatori sperano che il loro studio possa dunque aprire la strada a future analisi di campioni provenienti da altri siti archeologici, compresi quelli dell'antichità, per continuare a svelare le complessità della storia ebraica.
"Questo lavoro fornisce anche un modello di come una co-analisi dei dati del DNA moderno e antico possa far luce sul passato – ha detto Reich uno dei ricercatori - Studi come questo sono molto promettenti non solo per comprendere la storia ebraica, ma anche quella di qualsiasi popolazione".
(Shalom, 2 dicembre 2022)
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Per l'Onu lo Stato d'Israele è una "catastrofe"
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato mercoledì sera una risoluzione che definisce “catastrofe” la fondazione dello stato d’Israele nel 1948.
I palestinesi considerano l’istituzione di Israele e la sua esistenza come una nakba (catastrofe) e l’Assemblea Generale dell’Onu ha deciso di adottare la versione palestinese degli eventi con questa risoluzione, che è stata adottata con 90 voti a favore, 30 contrari e 47 astensioni. Hanno votato contro gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito e la maggior parte dei paesi dell’Unione Europea (Italia compresa).
La risoluzione prevede di commemorare il prossimo anno la “nakba” nella sala dell’Assemblea Generale dell’Onu a New York nella data in cui i palestinesi e i loro sostenitori commemorano l’evento ogni anno: il 15 maggio, vale a dire il primo giorno di indipendenza d’Israele nel 1948. Nel 2023 Israele festeggerà i 75 anni dalla sua fondazione. Il giorno prima del voto anti-israeliano di mercoledì, la missione israeliana alle Nazioni Unite ha inaugurato la prima mostra che documenta l’espulsione degli ebrei dai paesi arabi e dall’Iran. L’ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan ha spiegato che la mostra, che resterà esposta alle Nazioni Unite per una settimana, “racconta la storia della vera nakba: la nakba degli ebrei che furono espulsi dai paesi arabi e dall’Iran”.
(israele.net, 1 dicembre 2022)
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L’agenda politica di Netanyahu, gli equilibri con gli alleati, gli scenari che cambiano
Quali i programmi della destra, uscita vincitrice dal voto dell’1 novembre? Un fitto calendario: dalla magistratura che dovrà inchinarsi al potere legislativo, agli insediamenti “giovani” che verranno regolarizzati. E poi: educazione gratuita per i bambini da 0-3 anni. E le scuole religiose che saranno sostenute dallo Stato anche se non insegnano matematica e altre materie “secolari”.
di Avi Shalom
TEL AVIV - Nelle elezioni del primo novembre 2022 la destra ha trionfato in maniera perentoria e ha annunciato fin d’ora che si accinge a cambiare la fisionomia di Israele, per accentuarne il carattere ebraico e per costringere alla difensiva chi tentasse di ostacolarla. Chi sulla stampa estera qualifica ancora Benyamin Netanyahu come un leader “conservatore” sbaglia totalmente direzione perché il Likud dei tempi andati di Menachem Begin e Yitzhak Shamir è stato spazzato via e non esiste più. Dal 2015 in poi – di pari passo con le inchieste per corruzione, frode ed abuso di potere (divenute poi incriminazioni che sono adesso discusse in un tribunale di Gerusalemme) – Netanyahu è divenuto un leader incontrastato, un populismo iconoclasta determinato a martellare le “cittadelle” dove a suo parere si annidano ancora le “vecchie elites”: magistratura, Corte Suprema, mass media, mondo accademico. Già adesso gruppi di sostenitori irriducibili del Likud esercitano serrate pressioni psicologiche nei confronti della pubblica accusa impegnata a Gerusalemme contro il loro leader e contro i teste chiamati a deporre contro di lui. Oggi, con la vittoria a valanga del blocco di Netanyahu – che si estende dal “nuovo Likud” ai partiti ortodossi e alla destra radicale del “Sionismo religioso”, espressione del movimento dei coloni – nei corridoi della magistratura si respira un’atmosfera di massima apprensione.
• RIFORMA DELLE GIUSTIZIA I nuovi dirigenti di Israele confermano che si stanno già rimboccando le maniche. Innanzitutto, dicono, non sarà più accettabile che la Corte Suprema annulli leggi promulgate dalla Knesset quando reputate dai giudici “non costituzionali”. Occorrerà varare la cosiddetta “Piskat ha-hitgabrut”, una legge sulla superiorità dei legislatori rispetto ai giudici, che rimuova una volta per tutte questo genere di ostacoli all’esecutivo. Se per sancire il primato del parlamento sui giudici basteranno 61 voti dei 120, oppure un numero maggiore, è ancora oggetto di discussione. In 30 anni, affermano gli esperti, la Corte suprema ha effettivamente annullato 25 leggi. Per Israel ha-Yom, il free-press che sostiene Netanyahu a spada tratta, si tratta egualmente di una “epidemia” che deve cessare. La cosiddetta “riforma della giustizia” a cui stanno lavorando i nuovi dirigenti di Israele include un attacco al Consigliere legale del governo Gali Baharav-Miara, nominata a febbraio da Gideon Saar, un rivale personale di Netanyahu. Presto potrebbe essere rimossa. In alternativa, il suo incarico potrebbe essere spezzato, per affiancarle una nuova figura nella forma di un Capo della pubblica accusa più in sintonia con il nuovo esecutivo. Netanyahu ha assicurato che non cercherà assolutamente di ostacolare il proseguimento del processo nei suoi confronti. Ma i suoi alleati insistono che la accusa di “abuso di potere” resta anche oggi molto vaga e dovrebbe essere cancellata. Se così avvenisse, una parte del processo nei suoi confronti perderebbe di senso. La destra opera inoltre per partecipare alla nomina di nuovi giudici della Corte Suprema: una istituzione, afferma, che deve rappresentare la società israeliana così come si è andata sviluppando.
• SVILUPPO DEGLI INSEDIAMENTI I due dirigenti del “Sionismo religioso” – Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich – sono maturati negli insediamenti ebraici e annunciano fin d’ora che provvederanno ad intervenire immediatamente sul terreno. Autorizzeranno l’insediamento di Evyatar (congelato da un anno dal ministro della difesa uscente Benny Gantz perché costruito in parte su terre agricole private palestinesi) e del collegio rabbinico di Homesh (Cisgiordania settentrionale). Ordineranno la evacuazione del popoloso villaggio beduino di Khan al-Ahmar (alle porte di Gerusalemme), e respingeranno le energiche pressioni internazionali in sua difesa. Quindi provvederanno a legalizzare i cosiddetti “insediamenti giovani”. Si tratta di avamposti illegali, nati con iniziative spontanee, tollerati poi dall’esercito, sostenuti in maniera più o meno limpida con fondi pubblici e fonte di continui attriti con la popolazione agricola palestinese. Secondo Peace Now sono in tutto circa 150: vi risiede il 5 per cento della popolazione ebraica della Giudea-Samaria: ossia 22 mila persone su 450 mila.
• SOSTEGNO AI COLLEGI RABBINICI Pur di assicurarsi il sostegno degli ebrei ortodossi, Netanyahu ha fatto loro due concessioni importanti. Ha promesso sostegni economici alle istituzioni educative del gruppo Bealz, che prima erano condizionati al loro impegno di introdurre studi di matematica e di inglese e che adesso saranno invece facoltativi. Ha inoltre promesso educazione gratuita per tutti i bambini israeliani, da zero e tre anni. La percentuale degli ortodossi in Israele è oggi del 12 per cento. Nelle loro famiglie, scrive il giornale economico Marker, si hanno 6,6 bambini in media. Sotto ai 18 anni, gli ortodossi sono oggi il 17 percento. Nel 2065 saranno il 32 per cento. La politica di Netanyahu è da un lato un evidente incentivo ad accrescere i tassi di natalità fra gli ortodossi, mentre il raddoppio dei finanziamenti pubblici alle loro istituzioni frena quanti di loro potrebbero essere disposti ad entrare nel mondo del lavoro. Secondo Marker il nuovo governo devolverà ogni anno 20 miliardi di shekel per l’educazione gratuita da zero a tre anni a tutti i bambini di Israele, e altri 3 miliardi di shekel per il potenziamento del sistema educativo ortodosso.
• RETROMARCIA NELLA LOTTA IN DIFESA DELLA SALUTE E DELL’AMBIENTE Nella propaganda elettorale dei partiti ortodossi due erano i nemici principali: il costo crescente delle stoviglie monouso (molto popolari nelle famiglie numerose) e le tasse sulle bevande zuccherate, resesi necessarie per combattere il diabete e l’obesità. Anche se ambientalisti e responsabili sanitari hanno lottato per imporle (registrando subito successi concreti sul terreno) quelle leggi avevano un peccato originale: erano state volute dal ministro delle finanze Avigdor Lieberman, esponente della destra laica. Nel 2022 le tasse sulle stoviglie monouso e sulle bevande zuccherate hanno fruttato 920 milioni di shekel. Ma adesso quelle leggi hanno buona probabilità di essere annullate.
• REVISIONE DELLA LEGGE SUL RITORNO Per lo stesso motivo, i partiti religiosi chiedono adesso anche una revisione della Legge del ritorno. Vogliono negare adesso il permesso di immigrazione per chi possa vantare a proprio favore al massimo uno dei nonni. Anche in questo caso il nemico da sconfiggere è Lieberman, leader del partito russofono Israel Beitenu. L’immigrazione di circa un milione di ebrei dalla Russia dagli anni Ottanta in poi ha molto influito sul carattere di Israele, rafforzando il carattere laico ed altamente tecnologico. Adesso però la parola d’ordine è il rafforzamento del carattere ebraico e gli eventi in Ucraina e Russia fanno pensare che una nuova ondata di immigrazione sia imminente. Dunque, dicono i rabbini ortodossi e nazional-sionisti, essa va verificata in maniera meticolosa. Per la sua particolare fisionomia – in parte ortodossa e in parte nazional-religiosa – il nuovo governo rischia di trovarsi presto ai ferri corti anche con l’ebraismo Usa, in particolare con gli ebrei conservativi e riformati.
• GOVERNABILITA’ SUL TERRITORIO In primo piano nella politica del nuovo governo vi sarà inoltre un sensibile accentuamento delle forze di sicurezza nelle città a popolazione mista ebraica ed araba, in Galilea e nel Negev, come lezione appresa durante le gravi turbolenze del maggio 2021. La polizia dovrebbe ricevere maggiori risorse ed essere assistita (ad esempio nel Negev, dove imperversano le bande dei beduini) da una sorta di milizia ebraica armata, sovvenzionata dal governo. Agli agenti e ai soldati saranno inoltre date nuove regole relative alla apertura del fuoco, più permissive, accompagnate da una maggiore garanzia di difesa legale nel caso fossero coinvolti in incidenti.
• PENA DI MORTE, ESPULSIONI In campagna elettorale il leader dell’estrema destra Itamar Ben Gvir ha sostenuto anche la necessità di una pena di morte “per i terroristi” e della espulsione da Israele di esponenti politici “contrari allo Stato”. A questo proposito sono stati menzionati i parlamentari arabi Ayman Odeh e Ahmed Tibi, e il parlamentare comunista ebreo Ofer Cassif, vera “bestia nera” della destra nazionalista. Al momento, si tratta tuttavia di formulazioni vaghe.
• STADI DI CALCIO CHIUSI IL SABATO Nel nuovo Israele di sabato non si disputerà il campionato di calcio. Stadi chiusi dal venerdì pomeriggio alla tarda sera del sabato. Che male c’è?, si è chiesto il deputato Bezalel Smotrich. Per 70 anni la tifoseria osservante è stata sacrificata. Anch’essa avrà finalmente diritto di godersi 90 minuti di buon calcio, nel nuovo Israele con il più elevato “carattere ebraico”.
(Bet Magazine Mosaico, 1 dicembre 2022)
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Lo dice l’autorità palestinese: gli accordi di Oslo non servono alla pace, ma alla “lotta”
di Ugo Volli
• “Un passo nella lotta”
Gli accordi di Oslo, anche dal punto di vista di Fatah, la principale organizzazione palestinese presieduta prima da Arafat e ora da Mahmud Abbas, non implicano affatto la volontà di fare la pace con Israele, ma sono “un passo nella lotta”. Possibilmente “armata”. Ogni tanto lo dicono anche loro, rigorosamente solo in arabo e non in inglese per non farsi intendere dalla “comunità internazionale” che li appoggia, a partire da Biden. Per primo lo fece lo stesso Arafat in un discorso destinato a restare segreto, ma registrato e reso pubblico, tenuto in una moschea di Johannesburg in Sudafrica il 10 maggio 1994, pochi mesi dopo la ratifica degli accordi di Oslo.
• Il discorso di Arafat
“Devo parlare con franchezza, non posso farcela da solo senza il sostegno della nazione islamica [...] dovete venire e combattere e iniziare la Jihad per liberare Gerusalemme, il vostro primo santuario. Nell'accordo ho insistito […], per menzionare che […] subito dopo la firma del loro accordo, [dovranno] iniziare a discutere del futuro di Gerusalemme. […] Quello che stanno dicendo è che [Gerusalemme] è la loro capitale. No, non è la loro capitale. È la nostra capitale. È il primo santuario dell'Islam e dei musulmani. Questo accordo non lo considero più dell'accordo che era stato firmato tra il nostro profeta Maometto e la tribù dei Quraysh, e ricorderete che il califfo Omar l’aveva rifiutato [come] una ‘ tregua spregevole’. Ma Maometto l'aveva accettato e noi accettiamo ora questa offerta di pace. Per continuare il nostro cammino verso Gerusalemme, verso il primo santuario”. Per capire l’allusione di Arafat, bisogna sapere che nel marzo del 628 Maometto, dopo aver perso una battaglia importante, stipulò un trattato con la tribù nemica dei Quraysh che controllava la Mecca, impegnandosi a dieci anni di pace in cambio del permesso di fare il pellegrinaggio rituale. Dopo due anni, essendosi rafforzato, Maometto ruppe l’accordo, sterminò i Quraysh e si impadronì della Mecca. Arafat stava dicendo che anche lui avrebbe usato Oslo per rafforzarsi e rompere gli accordi quando gli fosse parso conveniente per sterminare i nemici ebrei.
• Un discorso che ritorna
Arafat non è stato affatto l’unico a confessare questo progetto. Di tanto in tanto lo stesso discorso riemerge da parte dei palestinisti, anche quelli che la stampa ama presentare come “partner di pace”. È facile trovare in rete dichiarazioni pubbliche analoghe di Faisal Husseini, rappresentante dell’Autorità Palestinese per gli affari di Gerusalemme nel 2000, di Ibrahim Mudayris, funzionario dell’Autorità Palestinese presso il Ministero degli affari religiosi nel 2005, dell’alto esponente palestinese Abbas Zaki nel 2011, di Mahmoud Al-Habbash, consigliere di Mohamed Abbas per gli affari religiosi e islamici nonché presidente del Consiglio Supremo per la shari’ah nel 2013, di Tawfiq Tirawi, membro del Comitato Centrale di Fatah nel 2020.
• La dichiarazione di Sirhan Yousef
In questi giorni, in cui l’offensiva terroristica ha raggiunto il livello più alto di intensità da una decina d’anni, il discorso su Oslo è emerso di nuovo. L’ha fatto Sirhan Yousef, capo delle relazioni politiche di Fatah (il movimento presieduto proprio dal leader palestinese Abbas), ha dichiarato alla tv iraniana in lingua araba Al-Alam: “La Fossa dei Leoni [il gruppo terrorista molto attivo a Jenin negli ultimi mesi], le Brigate Martiri di Al-Aqsa [di Fatah], le Brigate Al-Qassam [di Hamas], così come la Jihad Islamica, sono unite nella loro volontà di continuare la loro potente attività militare, abbracciata dal nostro popolo palestinese. […] Da quando è stata fondata nel 1965 fino a oggi Fatah ha sostenuto il principio che l’unico modo per liberare tutta la Palestina è la lotta armata. Lo facciamo ancora […]. La resistenza è l’unica, in tutte le sue forme: lotta armata, intifada popolare, coltelli e attacchi con le automobili. Tutte forme di resistenza che possono, o meglio, che sicuramente ci porteranno a realizzare il nostro nobile obiettivo di liberare la Palestina. […] ovunque in tutte le terre occupate, in tutti i suoi 27.000 chilometri quadrati [che comprendono l’intero territorio dello stato di Israele] … Tutto il nostro popolo palestinese è sotto occupazione. Fin dal suo esordio, Fatah ha l’obiettivo di liberare tutta la Palestina […] Noi, il popolo palestinese, stiamo conducendo la resistenza contro l’esistenza di Israele. Qualsiasi israeliano su terra palestinese è un nemico, perché non esiste uno Stato di Israele. Esiste un’entità sionista. Noi neghiamo che esso sia uno Stato, non riconosciamo il suo Stato. Come ho detto, abbiamo fatto un accordo con gli israeliani secondo il quale avremo uno Stato entro i confini del 1967, ma noi di Fatah abbiamo sempre detto che questo è solo un passo nella lotta e che continueremo la lotta fino a quando non realizzeremo il nostro obiettivo palestinese nella sua interezza”.
• La lotta armata continua
Il discorso di Sirhan Yousef, come quello di Arafat, esprime una strategia. Il terrorismo può crescere o diminuire, a seconda delle circostanze, le trattative si possono aprire o chiudere, come conviene. Ma quel che conta per i palestinisti è distruggere lo stato di Israele e impadronirsi di tutto il territorio. Ignorare queste ammissioni sarebbe folle per Israele, ma anche per i leader politici americani ed europei.
(Shalom, 1 dicembre 2022)
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Interessante scoperta archeologica in Israele
di Giancarlo Elia Valori
Un antico scarabeo di tremila anni fa è stato scoperto a sorpresa durante una gita scolastica ad Azor, nei pressi di Tel Aviv, in Israele. La scena raffigurata sullo scarabeo rappresenta probabilmente il conferimento della legittimità a un sovrano locale. «Stavamo girovagando, quando ho visto qualcosa che sembrava un piccolo giocattolo per terra», ha raccontato Gilad Stern del Centro educativo dell’Autorità israeliana per l’Antichità, che guidava la gita. «Una voce interiore mi ha detto: “Raccoglilo e giralo”. Sono rimasto stupito: era uno scarabeo con una scena chiaramente incisa, il sogno di ogni archeologo dilettante. Gli alunni erano davvero entusiasti!». La visita degli alunni di terza della Scuola Media Rabin si è svolta nell’ambito di un corso di guida turistica organizzato dal Centro educativo dell’Autorità israeliana per l’Antichità per il terzo anno consecutivo. Il corso consente agli studenti di insegnare ai residenti di Azor il patrimonio archeologico locale. Lo scarabeo è stato progettato con la forma del comune scarabeo stercorario. Gli antichi egizi vedevano nel gesto del piccolo scarabeo, che rotola una palla di sterco due volte più grande di lui dove ripone la sua futura prole, l’incarnazione della creazione e della rigenerazione, simile al gesto del Dio Creatore. Secondo il dottor Amir Golani, specialista dell’Autorità israeliana per le Antichità nel periodo dell’Età del Bronzo, «lo scarabeo veniva usato come sigillo ed era un simbolo di potere e di status. Poteva essere inserito in una collana o in un anello. È fatto di terracotta silicata ricoperta da uno smalto verde-bluastro. Potrebbe essere caduta dalle mani di un personaggio importante e autorevole che passava da quelle parti, oppure potrebbe essere stata deliberatamente sepolta nel terreno insieme ad altri oggetti e dopo migliaia di anni è tornata in superficie. È difficile determinare l’esatto contesto originario». Nella parte inferiore, piatta, del sigillo dello scarabeo, è raffigurata una figura seduta su una sedia e di fronte ad essa una figura in piedi, il cui braccio è sollevato rispetto a quello della persona seduta. La figura in piedi ha una testa allungata, che sembra rappresentare la corona di un faraone egizio, ed è possibile che qui si veda un’istantanea di una scena in cui il faraone egizio conferisce l’autorità a un suddito cananeo locale. «Questa scena riflette fondamentalmente la realtà geopolitica che prevaleva nella terra di Canaan durante la tarda età del bronzo (ca. 1500-1000 a.C.), quando i governanti cananei locali vivevano (e talvolta si ribellavano) sotto l’egemonia politica e culturale egizia», afferma il dott. Golani. «È quindi molto probabile che il sigillo risalga alla tarda età del bronzo, quando i cananei locali erano governati dall’Impero egizio». I sigilli di scarabeo sono infatti distintamente egizî, ma la loro ampia diffusione si estendeva anche al di fuori dei confini dell’antico Egitto. Centinaia di scarabei sono stati scoperti in Terra dell’antico Israele, soprattutto in tombe, ma anche in strati di insediamento. Alcuni di essi sono stati importati dall’Egitto, molti altri sono stati imitati nell’antico Israele da artigiani locali sotto l’influenza egizia. Il livello di lavorazione del particolare scarabeo rinvenuto non è tipico dell’Egitto e potrebbe rappresentare un prodotto di artigiani locali.
(Bankimpresa, 1 dicembre 2022)
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Secondo l’ONU la nascita di Israele è stata un “disastro”
Cosa direste se il più importante organismo mondiale definisse la nascita del vostro Stato "un disastro"?
• Secondo l’ONU la nascita di Israele è stata un “disastro”
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato mercoledì una risoluzione che definisce “catastrofe” la fondazione del moderno Stato di Israele nel 1948.
I palestinesi considerano la fondazione di Israele e la sua esistenza fino ad oggi come la “Nakba” (catastrofe in arabo) e l’organismo mondiale ha deciso di riconoscere la versione palestinese degli eventi con la risoluzione, che è stata adottata con un voto di 90-30 e 47 astensioni. Stati Uniti, Canada, Regno Unito e la maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea, compresa la Germania, hanno votato contro la risoluzione anti-Israele.
Gli Emirati Arabi Uniti, alleati di Israele negli Accordi di Abramo, sono stati tra i co-sponsor della risoluzione.
La risoluzione chiede una commemorazione della “Nakba” nella Sala dell’Assemblea Generale presso la sede delle Nazioni Unite a New York il prossimo anno – i palestinesi e i loro sostenitori celebrano l’evento ogni anno il 15 maggio, giorno in cui Israele dichiarò l’indipendenza nel 1948. Nel 2023, Israele celebrerà i 75 anni dalla sua fondazione.
“Cosa direste se la comunità internazionale celebrasse l’istituzione del vostro Paese come un disastro? Che disgrazia”, ha dichiarato l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan dopo il voto.
Erdan ha poi affermato che i palestinesi hanno portato il disastro su di sé, in riferimento alla guerra arabo-israeliana del 1948, quando cinque eserciti arabi attaccarono il nascente Stato – Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq. Abdul Rahman Azzam, primo segretario generale della Lega Araba, disse che la creazione di uno Stato ebraico avrebbe portato a “una guerra di sterminio e a un massacro epocale di cui si parlerà come del massacro dei Mongoli e delle Crociate”.
• La Nakba ebraica
Il giorno prima del voto anti-Israele di mercoledì, la missione israeliana alle Nazioni Unite ha lanciato la prima mostra in assoluto che documenta l’espulsione degli ebrei dai Paesi arabi e dall’Iran. Erdan ha detto che la mostra, che sarà esposta presso la sede delle Nazioni Unite a New York per una settimana, “racconta la storia della vera Nakba – la Nakba degli ebrei che sono stati espulsi dai Paesi arabi e dall’Iran”.
(Rights Reporter, 1 dicembre 2022)
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