Notizie 1-15 dicembre 2023
Il rapido ritorno della disastrosa politica di Israele
di Daniel Pipes
A giudicare dal modo in cui Netanyahu si è occupato della questione della Striscia di Gaza negli ultimi 13 anni, non è certo che in futuro ci sarà una politica chiara. "Tutto è cambiato" in Israele il 7 ottobre. Ma è davvero così? Comprendere gli errori che hanno portato al massacro di Hamas fornisce una base per valutare la risposta a lungo termine di Israele a quanto accaduto quel giorno. Contrariamente all'opinione generale, sosterrò che i presupposti alla base di questi errori persistono e non si rimedierà ad essi, a meno che gli israeliani non adottino un atteggiamento radicalmente diverso nei confronti dei palestinesi.
• LA STRADA VERSO IL 7 OTTOBRE I pianificatori militari israeliani coniarono alla fine degli anni Sessanta il termine ebraico conceptzia, "il concetto o [errore concettuale]". Questo termine si basava sull'idea errata che il presidente egiziano Anwar el-Sadat non sarebbe entrato in guerra almeno fino al 1974, vale a dire quando il suo esercito avrebbe acquisito avanzati aerei da combattimento sovietici grazie ai quali poteva affrontare la forza aerea dello Stato ebraico. La Commissione israeliana Agranat, che indagò su come egiziani e siriani colsero di sorpresa Israele nella guerra dello Yom Kippur dell'ottobre 1973, ritenne in gran parte responsabile la conceptzia dell'incapacità di vedere i preparativi che avevano luogo davanti ai suoi occhi. La futura commissione che inevitabilmente analizzerà il fatto che Israele il 7 ottobre 2023 sia stato preso alla sprovvista, di certo attribuirà quella sorpresa a una seconda conceptzia erronea, che David Makovsky del Washington Institute for Near East Policy spiega così:
sotto il pesante fardello di governare la Striscia di Gaza, Hamas sentirebbe il bisogno di mettersi alla prova attraverso la resa economica. Nello specifico, gli incentivi di tipo economico a favore di Hamas mitigherebbero la sua convinzione fondante secondo cui Israele è un'entità illegittima la cui stessa esistenza deve essere annientata e i suoi cittadini uccisi. Questa conceptzia israeliana era dovuta a molti fattori, ma fondamentalmente si basava sull'idea che Hamas stesse affrontando un'evoluzione organizzativa per cui ora apprezzerebbe anche un modesto aumento del tenore di vita a Gaza. Il progresso economico avrebbe portato la calma, poiché avrebbe dato ad Hamas qualcosa da perdere.
Da notare, l'espressione "qualcosa da perdere": queste parole riassumono la nuova conceptzia, la convinzione che Hamas possa essere comprata o mitigata attraverso vantaggi economici. Il titolo di un articolo pubblicato alcuni giorni prima del 7 ottobre ha colto lo spessore di questo malinteso: "L'IDF e lo Shin Bet chiedono al governo di non interrompere le attività economiche con Gaza. Gli alti funzionari della sicurezza chiedono allo schieramento politico di aumentare i permessi di lavoro per gli abitanti di Gaza per mantenere la calma al confine" [1]. Come ha spiegato il colonnello in pensione Eran Lerman poco prima del 7 ottobre:
Il centrodestra al potere in Israele adotta un approccio di "gestione del conflitto" nei confronti della questione palestinese. Preferisce lasciare aperta la prospettiva che un giorno la risoluzione del conflitto israelo-palestinese possa essere possibile, man mano che la regione cambia ed emergono nuovi leader. Ma fino ad allora, secondo loro, ciò che Israele dovrebbe fare è allentare le tensioni e migliorare le condizioni di vita dei palestinesi in Cisgiordania e Gaza, riservandosi al tempo stesso il diritto di rispondere alle attività terroristiche in modo selettivo e basato sull'intelligence.
La conceptzia ha trasformato le raccapriccianti minacce di Hamas in parole vuote. L'establishment della sicurezza ignorò nel 2019 le parole di Fathi Hammad: "Stiamo affilando i coltelli. (...) Se moriremo, sarà quando uccideremo voi [ebrei] e vi taglieremo la testa, se Dio vuole. (...) Dobbiamo attaccare ogni ebreo del pianeta: massacrare e uccidere. (...) Morirò mentre faccio saltare in aria e taglio – cosa? La gola degli ebrei e le loro gambe. Li faremo a brandelli, se Dio vuole". Solo ignorando del tutto affermazioni del genere, Aryeh Deri, un importante politico haredi (ultraortodosso), ha potuto ammettere dopo il 7 ottobre che "non avrebbe mai immaginato di avere a che fare con tali assassini capaci di agire con tanta crudeltà". Chi invece ha rifiutato la conceptzia ha fatto fronte a esclusione e disprezzo. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir si è lamentato del fatto che i suoi appelli ad uccidere i leader di Hamas gli sono valsi l'esclusione dalle discussioni negli incontri di Gabinetto. Itai Hoffman, presidente di un'organizzazione per la sicurezza operante nei pressi del confine di Gaza, ha accusato il governo: "Vi avevamo avvertiti della situazione. Com'è possibile che voi vi siate seduti qui e siate rimasti in silenzio? (..). Ci avete abbandonato". Un membro del kibbutz ha rilevato che la sua comunità aveva solo quattro fucili, aggiungendo: "Urliamo da anni". Yehiel Zohar, sindaco di una città nei pressi di Gaza, si è lamentato del fatto che alti funzionari della sicurezza avevano screditato i suoi avvertimenti, con mappe, percorsi di infiltrazione e piani di difesa, riguardo a centinaia di assassini che sarebbero entrati nella sua città per uccidere i suoi abitanti: "Non ci pensate, non accadrà". Avichai Brodetz, la cui famiglia è stata presa in ostaggio da Hamas, ha espresso la sua amara frustrazione nei confronti di Hamas a un parlamentare del Likud.
L'esercito avrebbe potuto facilmente distruggerli, ma l'intera conceptzia dell'IDF è crollata [ossia era sbagliata]. Hamas lo aveva capito, ed è stata molto più intelligente di noi. Ha effettuato un'operazione eccezionale, i suoi miliziani hanno stuprato le nostre donne e ucciso i nostri bambini perché l'IDF non era lì. Ciò non è avvenuto a causa di Hamas, ma per colpa della conceptzia da voi utilizzata. Sarebbe stato facilissimo distruggere Hamas con carri armati e aerei, ma semplicemente non c'erano.
Quando Hamas si addestrava alla luce del sole, conducendo un'esercitazione armata, facendo esplodere un muro posticcio e facendo irruzione in una città posticcia, per poi pubblicare un video di ciò, gli israeliani hanno ignorato tutto questo. Come riporta il Jerusalem Post, "alle vedette dell'IDF che avevano espresso la loro preoccupazione in merito alla situazione esistente lungo il confine di Gaza nei mesi antecedenti l'attacco del 7 ottobre è stato detto di smettere di infastidire i loro comandanti e sono state addirittura minacciate di essere sottoposte al giudizio della corte marziale". Un sottufficiale specializzato in dottrina militare di Hamas ha redatto tre documenti in cui metteva in guardia sui piani di Hamas, evidenziava le sue esercitazioni che simulavano un'invasione oltre confine nelle residenze israeliane e riportava altresì che alti funzionari di Hamas erano venuti ad assistere a tali esercitazioni. I moniti lanciati sono arrivati ai vertici della gerarchia, per poi essere accolti con la risposta: "È frutto della sua immaginazione". Un alto ufficiale dell'IDF ha bollato tali moniti come "fantasie" rifiutandosi di agire di conseguenza. Solo un giorno prima dell'attacco, una vedetta aveva riferito di aver notato attività sospette, ma i comandanti non hanno "dato credito" alle preoccupazioni espresse, dicendole che "Hamas non è altro che un branco di cialtroni, che non faranno nulla". Molti osservatori ritengono personalmente responsabile della conceptzia il premier Benjamin Netanyahu. Pertanto, l'analista della difesa israeliano Yoav Limor rileva che
Netanyahu ha promesso di eliminare Hamas affermando che Hamas è l'ISIS, pur però continuando a consentire di fatto all'organizzazione di svilupparsi attraverso vari mezzi, tra cui il denaro, i camion di rifornimenti, carburante, elettricità, manodopera e altro ancora. Il premier, che vedeva Hamas come un diavolo, avrebbe dovuto distruggerlo, ma durante il suo lungo governo, ha fatto il contrario e così Hamas è prosperata ed è diventata un mostro. Netanyahu ha di fatto legittimato Hamas, e ciò ha permesso che si creasse un'idea errata attorno ad essa.
Il giornalista israeliano Nadav Shragai concorda, ritenendo Netanyahu "responsabile di questo errore concettuale e delle sue conseguenze. Ne è il padre, la madre e il custode". A dirla tutta, aggiunge Shragai,
va notato che quasi tutti i più alti funzionari politici e militari, di Destra e di Sinistra, e anche la maggior parte dei media, si sono schierati a sostegno della politica di separazione, sia considerandola una visione sistematica del mondo che accettandola. Quasi tutti hanno sostenuto Netanyahu quando si è astenuto dallo schiacciare Hamas via terra; quasi tutti hanno minimizzato la minaccia di Hamas.
In tal senso, Ben Gvir parla di uno "partito della conceptzia" che comprendeva l'ex premier Naftali Bennet e gli ex capi di Stato Maggiore dell'IDF Benny Gantz e Gadi Eizenkot. La conceptzia aveva un seguito tra coloro che vivevano più vicini a Gaza. Hanan Dann, un membro di un kibbutz distrutto il 7 ottobre, spiega:
Eravamo lieti che i lavoratori di Gaza venissero in Israele muniti di permessi di lavoro per trovare un'occupazione e conoscere israeliani, e rendersi conto che non siamo tutti "quei diavoli". Credevamo tutti davvero che le cose stessero cambiando, che forse Hamas fosse maturato da gruppo terroristico a persona adulta che si assumeva la responsabilità della propria popolazione, preoccupandosi del suo benessere. E quel concetto ci è davvero esploso in faccia.
Per riassumere: la leadership israeliana si è accorta a malapena della natura islamista e jihadista di Hamas, ritenendo che la forza economica, la superiorità militare e il progresso tecnico di Israele contribuissero a rendere Hamas più moderata e meno pericolosa.
• CAMBIAMENTI VISIBILI La resa dei conti dopo il 7 ottobre è stata brutale. "Tanti paradigmi e politiche", scrive Davud M. Weinberg del Migsav Institute, "si sono rivelati fallimentari, deliranti, fallaci e assurdi". L'idea di una Gaza governata da Hamas e pacificata dal benessere economico, conclude Martin Sherman dell'Israel Institute for Strategic Studies, non è altro che un "sogno allucinante e irrealizzabile. In reazione a tali critiche, i politici hanno cambiato improvvisamente e radicalmente tono. Netanyahu ha parlato almeno quattordici volte di aggiudicarsi la vittoria. "La "vittoria richiederà tempo (...) ma per ora siamo concentrati su un unico obiettivo, che è quello di unire le nostre forze e correre verso la vittoria". Ai soldati ha detto: "L'intero popolo di Israele è al vostro fianco e assesteremo un duro colpo ai nostri nemici per ottenere la vittoria. Avanti fino alla vittoria!" E ancora: "Ne usciremo vittoriosi". Molti altri nel governo ne hanno seguito l'esempio. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato di aver informato il presidente Joe Biden che la vittoria di Israele "è essenziale per noi e per gli Stati Uniti". Gallant ha detto ai suoi soldati: "Sono responsabile di portare la vittoria". Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha annunciato la sospensione di "tutte le spese di bilancio per indirizzarle verso un unico obiettivo: la vittoria di Israele". E ha definito l'obiettivo della guerra di Israele contro Hamas "una vittoria schiacciante". Benny Gantz, un membro del Gabinetto di Guerra ha parlato di "momento della resilienza e della vittoria". Il vicepresidente della Knesset ha invitato Israele a "bruciare Gaza". Un anonimo funzionario della Difesa ha dichiarato che "Gaza finirà per trasformarsi in una tendopoli. Non ci saranno edifici". Il ministro del Patrimonio ha appoggiato l'idea dell'utilizzo di armi nucleari a Gaza. Anche legioni di altri israeliani hanno invocato la vittoria e la distruzione di Hamas:
- Naftali Bennet, ex primo ministro: "È arrivato il momento di distruggere Hamas".
- Yaakov Amidror, ex consigliere per la sicurezza nazionale: Hamas "dovrebbe essere uccisa e distrutta".
- Meir Ben Shabbat, ex consigliere per la sicurezza nazionale: "Israele dovrebbe distruggere tutto ciò che è connesso a Hamas".
- Chuck Freilich, ex vice-consigliere per la Sicurezza nazionale (su Ha'aretz): "Ora Israele deve infliggere a Hamas una sconfitta inequivocabile".
- Tamir Heyman, ex capo dell'intelligence dell'IDF: "Dobbiamo vincere".
- Amos Yadlin, ex capo dell'intelligence militare dell'IDF: "Distruggeremo Hamas".
- Yossi Cohen, ex capo del Mossad: "Eliminare i dirigenti di Hamas è una decisione che deve essere presa".
I personaggi pubblici hanno manifestato un'aggressività verbale senza precedenti. Gallant ha definito i membri di Hamas "animali umani" e Bennett "nazisti". Il conduttore televisivo Shay Golden è esploso in una sfuriata mentre era in onda, dicendo:
Vi distruggeremo. Continuiamo a dirvelo ogni giorno: stiamo arrivando. Verremo a Gaza, verremo in Libano, verremo in Iran. Verremo ovunque. Dovete tenerlo presente. Avete idea di quanti di voi uccideremo per ognuno dei 1.300 israeliani che avete massacrato? Il bilancio delle vittime raggiungerà numeri mai visti nella storia dei Paesi arabi. (...) Vedrete numeri che non avreste mai immaginato fossero possibili.
Una canzone hip-hop che promette di scatenare l'inferno sui nemici di Israele è balzata in testa alle classifiche sulle piattaforme social. Un cantante pop ha esortato Israele a "cancellare Gaza. Non lasciare lì una sola persona". E gli elettori israeliani? Il sondaggio commissionato dal Middle East Forum il 17 ottobre [2] ha riscontrato uno straordinario consenso a favore della distruzione di Hamas e di un'operazione di terra finalizzata a raggiungere quest'obiettivo. Alla domanda "Quale dovrebbe essere l'obiettivo primario di Israele?" nella guerra attuale, il 70 per cento dell'opinione pubblica ha risposto: "Eliminare Hamas". Per contro, soltanto il 15 per cento ha risposto "Garantire il rilascio incondizionato dei prigionieri tenuti in ostaggio da Hamas" e il 13 per cento "Disarmare completamente Hamas". Sorprendentemente, il 54 per cento degli arabi israeliani (o più tecnicamente, gli elettori della Lista Araba Unita, un partito arabo radicale anti-sionista), ha fatto della "eliminazione di Hamas" il suo obiettivo preferito. Di fronte alle due opzioni: condurre un'operazione di terra a Gaza per sradicare Hamas o evitare un'operazione di terra a favore di un altro modo di far fronte a Hamas, il 68 per cento ha scelto la prima opzione e il 25 per cento la seconda. Questa volta, il 52 per cento degli arabi israeliani è d'accordo con la maggioranza. In breve, un clima fortemente contrario a Hamas e all'Autorità Palestinese domina la politica israeliana, con solo i due partiti di Sinistra (Laburista e Meretz) in qualche modo in opposizione. Anche la maggioranza degli arabi israeliani riconosce il pericolo che Hamas e l'Autorità Palestinese rappresentano per la loro sicurezza e incolumità. La vittoria è diventata una questione di consenso, o almeno così sembrava.
• INVERSIONE RAPIDA Ma quella ferocia ha significato un cambiamento fondamentale di prospettiva o solo un fugace impeto emotivo? Sempre più prove fanno pensare alla seconda ipotesi. Lo scrittore americano Jack Engelhard rileva così alla fine di novembre lo stato d'animo di Israele: "Sono talmente depresso (...) non sento quasi più parlare di vittoria". In effetti, la robusta retorica della vittoria successiva al 7 ottobre si è conclusa bruscamente come era iniziata, sostituita dai negoziati con Hamas sulle condizioni per il rilascio solo di alcuni degli ostaggi. Più profondamente, sia i burocrati che l'opinione pubblica israeliana hanno mostrato segni di un frettoloso ritorno agli atteggiamenti e alle politiche che avevano portato al 7 ottobre. Queste politiche si basano su due presupposti principali: che i benefici economici, vale a dire più permessi di lavoro in Israele, una zona di pesca più estesa, finanziamenti esterni, diano ai palestinesi qualcosa da perdere, ammansendoli e rendendoli meno inclini ad aggredire; e che un Israele molto più potente e più avanzato del suo nemico può permettersi di fare concessioni. Gli indizi di questa triste regressione sono i seguenti. L'apparato di sicurezza ha approvato l'ingresso in Israele di 8 mila lavoratori cisgiordani, principalmente per impiegarli in lavori agricoli. Lo ha fatto in risposta al ministro dell'Agricoltura israeliano che ha assicurato ai suoi colleghi che i lavoratori erano stati sottoposti a controlli e non rappresentavano alcun pericolo. Il fatto che migliaia di lavoratori provenienti da Gaza avessero spiato Israele e si fossero resi complici del massacro del 7 ottobre pareva essere sconsideratamente dimenticato. Nella stessa Cisgiordania, il generale israeliano responsabile del comando ha impartito ordini contraddittori che limitavano l'ingresso agli arabi, ordini apparentemente inflessibili, ma che hanno cambiato molto poco nella sostanza. Come spiegato dal Consiglio regionale di Binyamin: "Non è consentito alcun ingresso ai lavoratori arabi nelle città israeliane. Potranno accedere nelle aree industriali solo di notte". I predatori e gli assassini commettono i loro crimini solo alla luce del giorno? L'Autorità Palestinese (AP) che formalmente governa parte della Cisgiordania, non solo ha offerto pieno sostegno al massacro di Hamas, ma il movimento Fatah del presidente dell'AP Mahmoud Abbas si è anche vantato di avervi avuto un ruolo. L'AP ha inoltre chiesto alle moschee nelle loro giurisdizioni di insegnare ai fedeli che lo sterminio degli ebrei costituisce un dovere islamico. Nonostante ciò, il governo israeliano continua a inviare all'Autorità Palestinese il denaro dei contribuenti. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha approvato questa decisione, affermando che "è opportuno trasferire, e farlo immediatamente, i fondi all'Autorità Palestinese in modo che vengano utilizzati dalle sue forze che aiutano a prevenire il terrorismo". (La questione dei benefici economici sembra non morire mai.) Ben-Gvir ha cercato di allentare le regole di ingaggio per gli agenti di polizia, consentendo loro in caso di emergenza di sparare alle gambe degli aggressori, ma Gantz è riuscito a modificare la votazione, mantenendo così in vigore disposizioni più restrittive. Cinque giorni dopo il 7 ottobre, Israele ha chiuso il suo ministero della Diplomazia Pubblica, fornendo un'immagine perfetta delle attività di informazione storicamente infelici di Israele. Al contrario, il ministro delle Comunicazioni israeliano ha definito Al Jazeera, il canale tv del Qatar, una "portavoce della propaganda" che incita contro Israele e ha tentato di chiudere i suoi uffici a Gerusalemme. Il governo ha scartato la sua proposta, per non innervosire il governo qatariota, che aveva contribuito al rilascio di diversi ostaggi, ignorando così il suo ruolo negli attacchi del 7 ottobre. Yossi Cohen, l'ex capo del Mossad, si spinge oltre e preferisce "astenersi dal criticare il Qatar". Prima del massacro, Israele aveva fornito a Gaza 49 milioni di litri di acqua, ovvero il 9 per cento del consumo giornaliero del territorio, attraverso tre acquedotti. Dopo il massacro ha tagliato tutti i rifornimenti. Ma questo per appena venti giorni, dopodiché Israele ha reimmesso 28,5 milioni di litri di acqua attraverso due acquedotti. E perché non tutti e tre? Perché Hamas aveva danneggiato il terzo il 7 ottobre, rendendo necessario ripararlo. Ma non c'è nulla di cui temere: il colonnello dell'IDF Elad Goren, ha annunciato che è stato "organizzato un team di esperti che valuterà quotidianamente la situazione umanitaria a Gaza". Avigdor Liberman, leader del Partito Yisrael Beiteinu ha definito questo una "pura e semplice idiozia". Sarebbero riprese anche le forniture di carburante. I discorsi sulla vittoria non hanno impedito al negativismo di alzare rapidamente la testa. "Non vedo alcun tipo di vittoria che ci possa far uscire da questo disastro", commenta il creatore di Fauda Avi Issacharoff. Orly Noy, giornalista israeliana nota per il suo impegno in B'Tselem, dice a gran voce ai suoi connazionali israeliani: "Non ho alcun interesse nella vittoria che ci state offrendo. (...) Sono pronta ad ammettere la sconfitta". Il preside di un liceo statale di Tel Aviv ha trascorso 45 minuti a parlare con tre studenti che erano venuti a scuola avvolti nelle bandiere israeliane. Durante la conversazione, ha riferito uno studente, il preside ha sottolineato che altri studenti si sono opposti a tale dimostrazione di patriottismo, aggiungendo che "se moltissimi studenti venissero a scuola avvolti nelle bandiere israeliane, metterebbe fine a tutto questo immediatamente". La situazione è arrivata a un punto tale che perfino il quotidiano di estrema Sinistra Haˈaretz ha pubblicato un articolo dal titolo: "Smettetela di applaudire Hamas per la sua 'umanità'". L'organizzazione Regavim ha avvertito che l'Autorità Palestinese ha costruito quasi 20 mila strutture vicino alla Linea Verde, al confine con la parte della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano (Area C); ha definito questo fenomeno "spaventoso e minaccioso (...) un vero pericolo; una bomba ad orologeria". Quando queste informazioni vengono fornite, l'establishment della sicurezza risponde ora come ha fatto in precedenza a una minaccia simile proveniente da Gaza: preferirebbe ignorare questo argomento o considerare gli edifici come costruzioni organiche realizzate da individui.
Se un sondaggio di metà ottobre mostrava che il 70 per cento degli intervistati voleva "eliminare Hamas", in un sondaggio di metà novembre condotto dal Jewish People Policy Institute [3], soltanto il 38 per cento ha affermato che si potrà parlare di vittoria "quando Gaza non sarà più sotto il controllo di Hamas", registrando così un calo di
circa il 50 per cento. Alla domanda sull'obiettivo più importante della guerra, un sondaggio di novembre condotto tra gli ebrei israeliani da ricercatori dell'Hebrew University of Jerusalem ha rilevato che secondo il 34 per cento degli intervistati occorre mettere fuori gioco Hamas (e secondo il 46 percento è necessaria la restituzione degli ostaggi). Alla domanda se fare "concessioni dolorose" per garantire il rilascio degli ostaggi, il 61 per cento si è detto favorevole, quasi il triplo del 21 per cento a favore sei settimane prima. Secondo un sondaggio condotto dal canale tv israeliano Channel 14, tra il 32-52 per cento degli intervistati ha espresso la propria approvazione per l'accordo sugli ostaggi. Le tre percentuali, 38, 34 e 32, sono straordinariamente coerenti. I politici e l'establishment della sicurezza in passato si sono distaccati dalla realtà strategica (ad esempio, gli Accordi di Oslo, il ritiro da Gaza), ma non da questa. In questo caso, l'opinione pubblica ha messo da parte la questione della distruzione di Hamas a favore del salvataggio degli ostaggi. Come ha affermato un sopravvissuto, Nadav Peretz: "Vogliamo due cose. Vedere Hamas distrutta e la liberazione degli ostaggi. Al momento, la seconda cosa supera la prima". Un sondaggio condotto dal quotidiano Maariv a metà novembre ha rilevato che il Partito di Unità Nazionale guidato da Gantz ex capo di Stato Maggiore e incarnazione dell'establishment della sicurezza, è balzato dai 12 seggi ottenuti nelle precedenti elezioni a 43 seggi conquistati nella consultazione elettorale successiva. Secondo Nimrod Nir, uno psicologo che ha condotto il sondaggio della Hebrew University, "il nostro sondaggio mostra che la popolazione israeliana ha sempre anticipato le decisioni de politici in merito a questo argomento. Quando gli israeliani hanno appreso la notizia degli ostaggi presi da Hamas e in quali condizioni essi fossero, la pressione per fare qualcosa è aumentata". I politici hanno iniziato a cercare modi per far quadrare il cerchio. L'ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Michael Oren ha suggerito di modificare l'obiettivo della guerra passando "dall'annientamento di Hamas al garantire la sua resa incondizionata", consentendo così a Hamas di continuare ad esistere. Più specificamente, Oren ha auspicato di offrire a Hamas "il libero passaggio da Gaza (...) in cambio del rilascio degli ostaggi". I discorsi riguardo alla distruzione di Hamas erano quasi svaniti.
• L’ACCORDO SUGLI OSTAGGI A proposito di ostaggi, la maggiore inversione di rotta è stata proprio a loro riguardo. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha definito Hamas "il male assoluto" e l'ex candidato presidenziale Tim Scott ha offerto un consiglio agli israeliani, riferendosi a Hamas: "Non potete negoziare con il male. Dovete distruggerlo. Ma appena un mese e mezzo dopo il massacro e settimane dopo la valanga di appelli per la distruzione di Hamas, il governo israeliano ha raggiunto un accordo con il gruppo jihadista, minando così la sua posizione morale e ricadendo nella politica negoziale che ha portato in primo luogo al 7 ottobre scorso. Il contenuto dell'accordo non ha fatto altro che peggiorare le cose, poiché un Israele disperato ha fatto la maggior parte delle concessioni. In cambio della liberazione di meno di un quarto degli ostaggi israeliani, tutti donne e bambini, Israele ha accettato di rilasciare 150 donne e minori prigionieri di sicurezza (ossia prigionieri arrestati in relazione a reati legati alla sicurezza nazionale); di consentire un aumento delle forniture di acqua, cibo, medicine e di carburante a Gaza; di non inviare per quattro giorni aerei da guerra sul sud di Gaza e di non impegnarsi nella sorveglianza aerea con droni per sei ore al giorno e infine di non attaccare Hamas. Prendiamo in considerazione alcune implicazioni di queste condizioni:
- Soltanto un numero irrisorio di ostaggi implica che il processo negoziale continuerà a tempo indeterminato, con molteplici interruzioni. Ciò soddisfa le esigenze di Hamas e allo stesso tempo ostacola la campagna militare israeliana. Come spiega il colonnello in pensione Shai Shabtai, "la continua detenzione degli ostaggi da parte di Hamas ha un obiettivo: ricorrere a negoziati senza fine per minare lo smantellamento del suo potere politico e militare".
- L'interruzione della sorveglianza consente ai combattenti di Hamas di fuggire dai tunnel assediati o di portare rifornimenti nei tunnel.
- Lo scambio di prigionieri di sicurezza palestinesi con vittime del 7 ottobre conferma la tesi di Hamas secondo cui esiste un'equivalenza morale tra criminali e civili innocenti rapiti con la violenza.
A posteriori, non sorprende che quello stesso gruppo dirigente che ha portato al 7 ottobre abbia firmato l'accordo sugli ostaggi, perché la responsabilità del primo lo ha reso vulnerabile agli appelli lanciati dalle famiglie e dai Paesi stranieri. Il fatto che Netanyahu e altri, come ad esempio il comandante dell'Unità 8200 dell'esercito israeliano che raccoglie circa l'80 per cento dell'intelligence israeliana [4], si siano rifiutati di assumersi la responsabilità non ha fatto altro che aggravare il problema. Avichai Brodetz sopra citato, la cui famiglia è nelle mani di Hamas, ha affermato: "Vivete nell'illusione e incolpate Hamas mentre siete voi da biasimare. Il problema eravate voi. Mettetevelo in testa, e forse allora potrete risolvere il problema". C'è di peggio. Il 22 novembre, Netanyahu ha annunciato in modo insolitamente pubblico di aver dato istruzioni al Mossad di uccidere i leader di Hamas "ovunque si trovino", compresi implicitamente quelli presenti in Qatar. Alla domanda se l'accordo per il cessate il fuoco con Hamas garantisca l'immunità ai suoi leader, il premier ha risposto negativamente: "Non c'è alcun impegno nell'accordo a non agire in una tregua contro i leader di Hamas, chiunque essi siano". E ha inoltre aggiunto che "una clausola del genere non esiste". Due giorni dopo, tuttavia, Georges Malbrunot del quotidiano Le Figaro ha riportato che una "fonte in genere ben informata" gli ha comunicato che Netanyahu aveva assicurato al Qatar all'inizio dei negoziati per liberare gli ostaggi che "il Mossad non si sarebbe recato nell'emirato per uccidere i leader politici di Hamas". Il Jerusalem Post ha poi "confermato indirettamente che Israele ha preso degli impegni con il Qatar in merito a tale questione". Occorre notare che non tutti gli israeliani antepongono le proprie preoccupazioni personali all'interesse nazionale. Eliahu Liebman, padre di Elyakim Liebman ancora nelle mani di Hamas, ha sintetizzato il dilemma nella sua coraggiosa protesta contro l'accordo proposto: "Vogliamo che tutti i nostri ostaggi vengano rilasciati, e l'unico modo per farlo è attaccare il nemico con tutte le nostre forze, senza interruzioni e senza cedere alle loro richieste, come se fossero i vincitori". Tikvah, un'organizzazione di famiglie legate agli ostaggi, concorda: "Il modo più corretto ed efficace per recuperare gli ostaggi è esercitare una pressione incessante su Hamas, finché gli ostaggi non diventino un peso per Hamas piuttosto che una risorsa". Ma le invocazioni hanno soffocato quelle voci.
• CONCLUSIONE In un articolo di fine ottobre, ho osservato che "l'infiammato stato d'animo israeliano del momento probabilmente svanirà col tempo, man mano che i vecchi modelli si riaffermeranno e ritornerà lo stato normale". Mi sono sbagliato per un aspetto: non ci è voluto tempo, piuttosto, è successo quasi subito, nel giro di due settimane. Contrariamente all'impressione iniziale che "tutto fosse cambiato", nel momento della stesura di questo articolo, fine novembre, non è cambiato quasi nulla. Questa inversione rientra anche in uno schema molto più ampio. Dal 1882 ad oggi, le due parti in lotta si sono comportate in modo decisamente sterile I palestinesi hanno una mentalità di rifiuto (non accettare mai e poi mai tutto ciò che è ebraico e israeliano), mentre i sionisti si attengono alla conciliazione (accettateci e noi vi arricchiremo). Le due parti continuano a girare in tondo, senza cambiare e senza fare progressi. Il cambiamento arriverà solo quando gli israeliani romperanno con la tradizionale mentalità sionista e cercheranno la vittoria di Israele.
1] L'acronimo IDF si riferisce alle Forze di Difesa Israeliane; Shin Bet (o Shabak) è il servizio di sicurezza interna di Israele. [2] Shlomo Filber e Zuriel Sharon di Direct Polls Ltd. hanno condotto il sondaggio su 1.086 israeliani adulti; il sondaggio ha un errore di campionamento statistico del 4 per cento. [3] Da theMadad.com con 666 intervistati dal 15 al 18 novembre. [4] Secondo un resoconto, quel comandante trascurò i suoi doveri di intelligence per aiutare gli svantaggiati, far fronte al cambiamento climatico e varie questioni sociali.
(L'informale, 15 dicembre 2023)
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Parashà di Mikètz: Yosef conosceva il proprio valore
di Donato Grosser
Yosef era stato chiamato dai fratelli “ba’al ha-chalomòt”, il sognatore. Che i suoi sogni fossero veri e che si realizzassero lo impariamo da questa parashà. Un altro dono naturale di Yosef era quello di sapere interpretare i sogni degli altri. Questo dono si rivelò utile quando fu rinchiuso nella prigione dove si trovavano i prigionieri del re.
R. Naftali Tzvi Yehuda Berlin (Belarus, 1816-1893, Varsavia) nel suo commento Ha’amèk Davàr (Bereshìt, 40:6-8) scrive che Yosef vedendo i due ministri del faraone, che erano nella stessa sua prigione, con l’aspetto triste, chiese loro quale ne fosse il motivo. Pensava che forse era stata colpa sua perché lui, diventato assistente del direttore della prigione, non li aveva serviti in modo consono alla loro posizione. La risposta fu che erano turbati dai rispettivi sogni ed essendo in prigione non potevano consultare uno degli interpretatori di sogni. Yosef disse loro: “Le interpretazioni appartengono a Dio, raccontateli a me” (ibid., 40:8). R. Berlin commenta che Yosef disse loro che la scienza dell’interpretazione dei sogni non è come le altre scienze, che dipendono dall’intelligenza e dallo studio. L’interpretazione dei sogni richiede un dono speciale che non tutti hanno. È Dio che da’ a una persona che ha questo dono la precisa comprensione del significato dei sogni.
Grazie a questo dono Yosef interpretò correttamente i sogni dei due ministri del faraone. Poi, quando il ministro dei coppieri si ricordò finalmente che era stato Yosef a prevedere che sarebbe stato perdonato dal faraone, Yosef fu chiamato a corte per interpretare il sogno del faraone. Il faraone gli disse che aveva sentito che lui era capace di interpretare i sogni. Yosef rispose: “Bil’aday” , anche senza di me, Dio darà una risposta tale da far tranquillo il faraone” (ibid., 41:16). R. Berlin fa notare che secoli più tardi anche Daniel diede una simile risposta al re Nevuchadnetzar dicendogli: “E quanto a me, questo segreto mi è stato rivelato, non per una sapienza che io possegga superiore a quella di tutti gli altri viventi, ma perché l’interpretazione ne sia data al re, e tu possa conoscere quel che preoccupava il tuo cuore (Daniel, 2:30). Quando Yosef disse “Anche senza di me”, intendeva dire che l’interpretazione non dipendeva da lui, ma che la necessità di tranquillizzare il faraone avrebbe fatto sì che Iddio gli avrebbe dato la capacità di trovare l’interpretazione giusta.
R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna ) nel suo commento, fa notare che Yosef intendeva dire che “Anche se il faraone ritiene che io abbia uno dono speciale, ci sono certamente altri in grado di interpretare il sogno. Sarà Dio che mi darà la capacità di farlo”. Nonostante che Yosef conoscesse il suo valore, si rendeva conto che senza l’aiuto divino non sarebbe stato in grado di soddisfare la richiesta del Faraone.
R. Joseph Pacifici (Firenze, 1928-2021, Modiin ‘Illit) in Hearòt ve He’aròt (p.50) osserva che Yosef disse “bil’aday”, anche senza di me e non disse: “Io non sono nulla”; e non disse neppure: “Io sono in grado di interpretare i sogni”. Yosef conosceva il suo valore, ma lo addusse a Dio. Una persona deve conoscere se stesso, ma anche sapere che il proprio valore dipende dall’Eterno.
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(Shalom, 15 dicembre 2023)
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Parashà della settimana: Mikets (Alla fine)
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La posta in gioco nella guerra
di Ugo Volli
• Guerra e terrorismo
C’è un dato strategico di partenza che spesso sfugge nella situazione che si è creata in Medio Oriente a partire dal 7 ottobre, e cioè il fatto che si tratta di una guerra. Una guerra preparata a lungo e iniziata di sorpresa da Hamas, di cui i terroristi portano l’intera responsabilità e che dura perché loro vogliono farla continuare, evitando di arrendersi anche se sono in grave difficoltà, continuando a tenere gli israeliani rapiti e a sparare razzi su obiettivi civili di Israele. Spesso ne parliamo come di una strage, di uno stupro di massa, di un femminicidio senza precedenti, di un’inaudita atrocità. Tutto questo è vero, naturalmente, si tratta di un evento inaudito da decenni per la sua violenza; ma bisogna aver chiaro che questi sono solo i mezzi barbari e feroci con cui Hamas conduce una guerra per conto dell’Iran. Nel giudicare gli sviluppi della situazione, non basta considerare l’aspetto morale e condannare la sciagurata inumanità delle azioni dei terroristi, come non basta il discorso umanitario che guarda ai danni e alle sofferenze delle popolazioni israeliana e anche di Gaza, che comunque sono esclusivamente colpa di Hamas e degli altri gruppi terroristi che hanno scatenato il conflitto senza ragioni contingenti, senza provocazioni, solo per realizzare il programma politico proprio e dell’Iran, cioè la distruzione di Israele.
• La posta strategica
Bisogna guardare alla dimensione strategica e capire come procede il progetto per cui la guerra è stata fatta. Sapendo che se vincono i terroristi, anche solo restando al governo di una parte di Gaza o salvando la pelle e le armi in esilio, e magari ottenendo la scarcerazione di altri terroristi o la ripresa delle “trattative di pace” con l’Autorità Palestinese, la vita di Israele è in pericolo; si sarà dimostrato che il terrorismo di massa paga, altri attacchi come quello del 7 ottobre seguiranno, dal Nord se non da Gaza, il fronte anti-iraniano e filo-occidentale sarà indebolito, le organizzazioni islamiste prenderanno forza in tutto l’Occidente e la potenza americana sarà più diffusamente sfidata da Russia e Cina, perché si sarà dimostrata incapace di difendere un proprio avamposto. Se vince lo stato ebraico, spiantando completamente il terrorismo da Gaza e magari anche dal Libano meridionale, l’Iran sarà fortemente indebolito e si aprirà un processo politico virtuoso che porterà a un’accelerazione dei processi di pace fra Israele e i principali paesi arabi, a un fallimento conclamato del terrorismo che avrà conseguenze a catena nel funzionamento dell’Autorità Palestinese, in Siria, Iraq, Yemen e probabilmente in un’area più vasta ancora, coinvolgendo i rapporti complessivi fra Occidente a l’asse nemico di Iran, Russia, Cina e loro satelliti, l’espansione dell’islamismo in Europa, insomma la stabilità del mondo. Per questo la sfida di queste settimane è veramente storica.
• L’Iran e i suoi satelliti
Dai primi giorni della guerra, la capacità di reazione israeliana e il pronto dispiegamento di una forza di deterrenza americana hanno scoraggiato l’Iran a cercare di usare questa tappa come la battaglia decisiva nella guerra, facendo entrare nel conflitto direttamente le proprie forze o impegnando davvero le armi maggiori del suo principale braccio armato vicino a Israele, cioè Hezbollah. Questo movimento terrorista, come i suoi omologhi più deboli in Iraq, Siria, Yemen, si è impegnato in azioni soprattutto dimostrative, benché sanguinose e capaci di fare danno. Spetterà a Israele decidere se tollerare un nemico così pericoloso ai suoi confini, oppure cercare di eliminare anch’esso qualora non si adegui alle risoluzioni prese dall’Onu a partire dal 2006, che gli impongono di non essere presente al confine israeliano, cioè non avere basi a sud del fiume Litani, a una quindicina di chilometri dalla frontiera. È una distanza che non impedirebbe certo il lancio di missili a medio e lungo raggio (Hezbollah ne ha, a quanto pare, dieci volte più che Hamas) ma inibirebbe i tiri di razzi anticarro che sono venuti a centinaia dal Libano sul territorio israeliano in questo periodo e soprattutto renderebbe assai più difficile un’invasione di sorpresa come quella del 7 ottobre. Sposterebbe inoltre a sfavore dei terroristi la bilancia del potere dentro il campo libanese, che sono oggi appoggiati dalla popolazione come lo è Hamas fra i palestinesi. Toccherà poi alla comunità internazionale decidere se è accettabile avere un nido di pirati che domina un passaggio cruciale per il traffico internazionale come lo stretto di Bab El Mendeb, o eliminare finalmente la minaccia degli Houti, armati e finanziati dall’Iran proprio per far sì, come ha dichiarato il comandante della marina iraniana, che il Mar Rosso (su cui l’Iran non ha coste, anzi da cui dista quasi 2000 chilometri) è “parte del territorio iraniano e nessuno vi può circolare se noi non vogliamo).
• Le dichiarazioni dei dirigenti di Hamas in esilio
Sugli sviluppi della guerra sono uscite ieri un paio di dichiarazioni interessanti da parte di Hamas (che vanno sempre prese come atti propagandistici, senza illudersi sulla loro sincerità). Un alto funzionario di Hamas, Mousa Abu Marzouk, ha suggerito che il gruppo terroristico potrebbe riconoscere lo Stato di Israele per porre fine all’attuale guerra con Israele, dichiarando in un'intervista al sito di notizie Al-Monitor: “Bisogna seguire la posizione ufficiale, cioè che l’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina] ha riconosciuto lo Stato di Israele”. Hamas, dunque, chiederebbe di entrare nell’OLP, presieduta da Abu Mazen. Marzouk ha anche aggiunto che "gli israeliani meritano diritti, ma non a scapito degli altri". Ma poi ha subito fatto marcia indietro, smentendo il riconoscimento da parte di Hamas dell’”entità sionista”. Il capo del Politburo di Hamas, Ismail Haniyeh, ha invece dichiarato mercoledì di essere pronto a discutere qualsiasi idea o iniziativa volta a ripristinare il sistema politico palestinese e a porre fine ai combattimenti. Ha affermato di essere interessato alla creazione di uno Stato palestinese, senza specificare se ciò implicasse la disponibilità a riconoscere Israele. In sostanza, è un’apertura per far ripartire i negoziati per l’integrazione di Hamas nell'Autorità Palestinese, il cui primo ministro ha già risposto dichiarando che Hamas è parte essenziale del sistema politico palestinese. Il gesto di Haniyeh sarebbe insomma un tentativo di entrare nell’ombrello protettivo dell’AP, che gli Usa sostengono e a cui vogliono dare Gaza. Ma si tratta di segnali confusi. Alla Conferenza islamica del Pakistan, Haniyeh aveva invitato il Pakistan a minacciare Israele con armi nucleari per bloccare l’offensiva il che ha causato tensioni in Qatar. Sono circolate anche voci secondo cui Haniyeh e i suoi soci intendevano lasciare il Qatar e stabilirsi in Algeria o in un altro paese arabo.
(Shalom, 15 dicembre 2023)
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"Il mondo non capisce, Israele lotta per sopravvivere"
Il consigliere di Netanyahu: "I terroristi il 7 ottobre hanno cambiato le regole. È peggio dell'11 settembre a New York"
di Fiamma Nirenstein
Mark Regev è consigliere del primo ministro israeliano per la politica internazionale e per la comunicazione, ex ambasciatore in Inghilterra, durante la guerra la voce in inglese più ascoltata nel dibattito sul 7 ottobre, la guerra, la moralità di Israele, e il rapporto coi palestinesi.
- Ambasciatore, perché Israele è così solo? È un insuccesso che, dopo le atrocità subite, sui media si senta soprattutto la richiesta di rallentare, di decidere per una tregua quanto prima? «Il mondo forse ha una certa difficoltà a capire: è abituato al fatto che da 16 anni, dallo sgombero di Gaza, dopo gli attacchi di Hamas si sono viste varie risposte per bloccare i bombardamenti e gli attentati. Il 7 ottobre ha cambiato completamente le norme del gioco: Hamas ha messo in scena una dichiarazione di guerra totale, con una quantità e una qualità di atrocità che non richiedono di restaurare la quiete o di pagare un prezzo. Qui si tratta di una guerra di sopravvivenza, in cui Hamas deve sparire dalla scena».
- La guerra coinvolge due milioni di persone sul confine... «Coinvolge dolorosamente anche tutta Israele. Ma quello che ha fatto Hamas il 7 ottobre è di dimensioni maggiori dell'11 settembre a New York, la maggiore aggressione al popolo ebraico dopo il 1945: i modi, coi bambini nascosti in soffitta e poi macellati, le fucilazioni di massa, come ha detto Scholz, sono identici a quelli dei nazisti. Da Gaza, poi, ci hanno giurato guerra permanente: Lo faremo ancora, ancora e ancora. Si tratta di sopravvivenza, l'assassino abita nella porta accanto».
- Perché avete deciso di mostrare a un pubblico ristretto il film degli orrori subiti? «La decisione deriva dal rispetto verso le famiglie, alcune ci hanno permesso di mostrare le immagini solo così. E poi vogliamo evitare ogni possibile manipolazione. Abbiamo cura dei nostri cari così straziati. È notevole che sia stata Hamas a farne, filmando e buttando sui social i crimini, un motivo di perversa propaganda. A differenza persino dei nazisti che mantenevano il segreto, quando uccide e mutila i bambini, violenta e fa a pezzi le donne, Hamas vuole che tutti sappiano quanto ne è fiera».
- Perché la vostra guerra investe un grande numero di civili? Perché dai teleschermi si accusa Israele? «Noi agiamo solo per destrutturare Hamas che usa la popolazione civile come scudo umano. Pure fra le vittime circa 5000 sono terroristi uccisi nelle durissime battaglie in cui muoiono anche i nostri soldati. Quanto alla gente, non sapremo mai la verità: a Gaza ognuno, pena la vita, dice solo quello che Hamas impone. Anzi è significativo che finalmente qualche voce coraggiosa critichi la rovina che Hamas ha portato, distruzione, fame».
- Biden è il grande amico di Israele ma chiede un miglioramento dell'impegno umanitario. «I camion vanno a Gaza dalla prima mattina, senza limiti, gli avvisi alla gente e le indicazioni delle zone franche sono chiari. È Hamas che, al contrario di noi che spingiamo la gente a sfuggire il rischio, la trattiene per preservare le gallerie e le strutture civili, dalle scuole agli ospedali, in cui si nasconde e spara. Ma i pregiudizi contro di noi sono infiniti e hanno un custode molto importante, l'Onu. Persino Kofi Annan e Ban Ki Moon hanno riconosciuto che fa una politica antisraeliana. Guterres ne è un campione. Le pare logico, sin dall'inizio della guerra, chiedere un'interruzione? Non si è fatto problemi nel conservare il potere di Hamas».
- Manca la prospettiva, Israele non dovrebbe considerare l'insistenza di Biden sui rapporti con l'Autonomia Palestinese? «Come dice Netanyahu: c'è un tempo per la guerra e uno per la pace. Ora dobbiamo vincere. Hamas non può essere parte del futuro, né chiunque abbracci le stesse idee radicali. È un peccato che l'Anp in 70 giorni non abbia mai condannato le atrocità di Hamas e Abu Mazen seguiti a pagare gli stipendi ai terroristi. Noi vinceremo la guerra: io prego perché si facciano largo le forze moderate. Biden immagina anche un mondo palestinese rivitalizzato. Vediamo».
(il Giornale, 15 dicembre 2023)
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Paralleli sorprendenti: Re Giosafat e Israele 2023
La ricostituzione dello Stato d’Israele, con le sue istituzioni politiche, giuridiche e militari permette oggi di fare raffronti tra fatti di attualità in Israele e fatti narrati nella storia biblica. E’ quello che tenta di fare qui l’autore di questo articolo, direttore del giornale Israel Heute con sede in Gerusalemme. Le considerazioni svolte sono naturalmente tutte da discutere, ma il semplice fatto di riflettere sulla Bibbia in relazione a ciò che accade oggi in Israele è un fatto altamente positivo. Abbiamo riportato per esteso i passaggi biblici citati dall’autore. NsI
di Aviel Schneider
Gli eventi accaduti nel Paese nell'ultimo anno ricordano il periodo del re Giosafat di Giuda. Egli aveva promosso una riforma giuridica nel Paese e aveva istituito una Corte Suprema a Gerusalemme. Poi, improvvisamente, il Paese fu invaso. È possibile che anche in quel periodo fosse sorta una disunione tra il popolo, ma che questo si sia riunito di nuovo nel momento del bisogno?
Il nome ebraico Jehoshaphat (יְהוֹשׁפָט) è una combinazione di Dio e giudice - quindi si può leggere "Dio provvede alla giustizia". Giosafat fu incoronato all'età di 35 anni e governò il regno di Giuda per 25 anni.
Giosafat di Giuda fu fondamentalmente un buon re, anche se non riuscì a fermare il culto sugli alti luoghi. Il popolo sacrificava e bruciava incenso su questi alti luoghi, cosa che Dio aveva proibito, poiché i sacrifici dovevano essere fatti solo nel tempio.
• RIFORMA GIURIDICA
2 CRONACHE cap. 19
- Giosafat rimase a Gerusalemme; poi fece di nuovo un giro fra il popolo, da Beer-Sceba alla regione montuosa di Efraim, e lo ricondusse all'Eterno, all'Iddio dei suoi padri.
- Stabilì dei giudici nel paese, in tutte le città fortificate di Giuda, città per città, e disse ai giudici:
- “Badate bene a quello che fate; poiché voi amministrate la giustizia, non per servire un uomo ma per servire l'Eterno, il quale sarà con voi negli affari della giustizia.
- Ora dunque il timore dell'Eterno sia in voi; agite con avvedutezza, poiché presso l'Eterno, nostro Dio, non c'è perversità, né favoritismi, né si prendono regali”.
- Giosafat, tornato a Gerusalemme, stabilì anche là dei Leviti, dei sacerdoti e dei capi delle case patriarcali d'Israele per amministrare la giustizia nel nome dell'Eterno, e per giudicare nelle contese.
- E diede loro i suoi ordini, dicendo: “Voi farete così, con timore dell'Eterno, con fedeltà e con cuore integro:
- In qualunque causa che vi sia portata davanti dai vostri fratelli abitanti nelle loro città, sia che si tratti di un omicidio, di una legge, di un comandamento, di uno statuto o di un precetto, istruiteli, affinché non si rendano colpevoli verso l'Eterno, e la sua ira non piombi su di voi e sui vostri fratelli. Così facendo, voi non vi renderete colpevoli.
- Il sommo sacerdote Amaria vi sarà preposto per tutti gli affari che riguardano l'Eterno; e Zebadia, figlio di Ismaele, capo della casa di Giuda, per tutti gli affari che riguardano il re; e avete a vostra disposizione dei Leviti, come magistrati. Fatevi coraggio, mettetevi all'opera, e l'Eterno sia con l'uomo onesto!”.
Il re Giosafat era un discendente di Davide e faceva ciò che era giusto agli occhi di Dio. Come re della casa di Davide, Giosafat è anche uno degli antenati di Gesù, secondo Matteo. Giosafat voleva avvicinare il popolo d'Israele a Dio, migliorarlo e riorganizzarlo. Per fare questo, il re dovette attuare una riforma giuridica nel suo regno. E non fu facile. "Nominò dei giudici nel paese, in tutte le città fortificate di Giuda, città per città. E disse ai giudici:
“Badate bene a quello che fate; poiché voi amministrate la giustizia, non per servire un uomo ma per servire l'Eterno, il quale sarà con voi negli affari della giustizia” (19:6).
La Bibbia riporta una riforma fondamentale del sistema giudiziario della Giudea da parte di Giosafat.
"Giosafat, tornato a Gerusalemme, stabilì anche là dei Leviti, dei sacerdoti e dei capi delle case patriarcali d'Israele per amministrare la giustizia nel nome dell'Eterno, e per giudicare nelle contese (19:8).
Giosafat nominò giudici in tutte le capitali di Giuda. In altre parole, fino al suo tempo, non esisteva un sistema giudiziario organizzato in queste città. Sebbene nelle zone rurali esistessero dei tribunali locali, la sua riforma consistette nell'istituire una nuova autorità giudiziaria a cui il popolo poteva appellarsi se non era soddisfatto delle sentenze dei tribunali rurali. A Gerusalemme, il re istituì una Corte Suprema, il cui indirizzo serviva sia come Alta Corte di Giustizia sia come indirizzo per gli appelli contro le sentenze dei tribunali distrettuali.
• CRISI DELLA SICUREZZA
Subito dopo l'attuazione della riforma, si verificò una crisi politica e militare che minacciò la sicurezza del Regno di Giuda. È interessante notare che all'epoca, all'ombra delle riforme giuridiche, il Paese fu invaso all'improvviso, proprio come ai nostri giorni. Non sarà che anche allora il popolo non era d'accordo con una riforma giuridica e quindi aveva urgente bisogno di una nuova unità tra il popolo?
Le nazioni che vivevano ai confini della terra d'Israele si allearono e attaccarono il regno.
2 CRONACHE cap. 20:
-
"Dopo queste cose, i figli di Moab, e i figli di Ammon, e con loro dei Maoniti, marciarono contro Giosafat per fargli guerra.
- Vennero dei messaggeri a informare Giosafat, dicendo: “Una grande moltitudine avanza contro di te dall'altra parte del mare, dalla Siria, ed è giunta ad Asason-Tamar”, che è En-Ghedi.
".
Il testo biblico descrive la paura che c'era tra il popolo, compreso il re stesso:
- “Giosafat ebbe paura, si dispose a cercare l'Eterno, e bandì un digiuno per tutto Giuda.
- Giuda si radunò per implorare aiuto dall'Eterno, e venivano gli abitanti da tutte quante le città di Giuda per cercare l'Eterno.
“
L'attacco a sorpresa degli eserciti di Moab, Ammon e Edom fece sì che i nemici di Israele prendessero il controllo del territorio del regno di Giuda a Ein-Gedi, ai margini del Mar Morto, ma anche il controllo della strada per Gerusalemme e del Tempio. Questo scenario è simile a quello del 7 ottobre, quando i terroristi di Hamas hanno invaso il sud di Israele e controllato tutte le strade vicino alla Striscia di Gaza per dodici ore.
• RESPONSABILITÀ E PREGHIERA
Ma quando l'amara notizia raggiunse il re Giosafat, egli agì come un re d'Israele avrebbe dovuto fare. Il re non si precipitò sul campo di battaglia, ma prima fece appello al popolo d'Israele affinché si unisse nella fede in Dio di fronte ai nemici esterni. Si tratta di pentimento e responsabilità del popolo. Come mai i nemici avevano invaso il paese? Il re Giosafat si pose questa domanda all'epoca, come fa oggi il nostro Primo Ministro Benjamin Netanyahu.
La risposta all'appello del re fu enorme: persone da tutto il regno si riunirono nel cortile del tempio di Gerusalemme. Il re Giosafat si presentò davanti al popolo e rivolse la sua preghiera a Dio:
- Giuda si radunò per implorare aiuto dall'Eterno, e venivano gli abitanti da tutte quante le città di Giuda per cercare l'Eterno.
- Giosafat, stando in piedi in mezzo all'assemblea di Giuda e di Gerusalemme, nella casa dell'Eterno, davanti al cortile nuovo, disse:
- “O Eterno, Dio dei nostri padri, non sei tu l'Iddio dei cieli? Non sei tu che domini su tutti i regni delle nazioni? Non hai tu nelle tue mani la forza e la potenza, in modo che nessuno ti può resistere?
- O Dio nostro, non sei tu colui che scacciò gli abitanti di questo paese davanti al tuo popolo Israele, e lo desti per sempre alla discendenza di Abraamo, il quale ti amò?
- E quelli lo hanno abitato e vi hanno costruito un santuario per il tuo nome, dicendo:
- 'Quando ci cadrà addosso qualche calamità, spada, giudizio, peste o carestia, noi ci presenteremo davanti a questa casa e davanti a te, poiché il tuo nome è in questa casa; e a te grideremo nella nostra tribolazione, e tu ci udrai e ci salverai'.
- Ora ecco che i figli di Ammon e di Moab e quelli del monte Seir, nelle cui terre non permettesti a Israele di entrare quando veniva dal paese d'Egitto, ed egli li lasciò da parte e non li distrusse,
- eccoli che ora ci ricompensano, venendo a scacciarci dalla eredità di cui ci hai dato il possesso.
- Dio nostro, non giudicherai costoro? Poiché noi siamo senza forza di fronte a questa grande moltitudine che avanza contro di noi; non sappiamo cosa fare, ma i nostri occhi sono su di te!”
Più volte le nazioni circostanti hanno voluto sottrarre al popolo di Sion la terra che Dio aveva dato a Israele per possederla. Oggi sono i musulmani radicali e i mostri di Hamas ad aver massacrato centinaia di civili nel sud, comprese intere famiglie ebree con bambini e persino neonati. Tutto per la semplice ragione che Gerusalemme e la Palestina devono essere liberate dalle mani del popolo eletto della Bibbia.
Durante la preghiera, lo spirito di Dio si posò su Jachaziel, figlio di Zaccaria. Il popolo doveva essere rassicurato. Oggi possiamo comprendere il dolore che regnava nel regno di Giosafat, perché ci troviamo in una situazione simile.
- E tutto Giuda, perfino i bambini, le mogli, i figli, stavano in piedi davanti all'Eterno.
- Allora lo Spirito dell'Eterno investì in mezzo all'assemblea Iaaziel, figlio di Zaccaria, figlio di Benaia, figlio di Ieiel, figlio di Mattania, il Levita, tra i figli di Asaf.
- Iaaziel disse: “Porgete orecchio, voi tutti di Giuda, e voi abitanti di Gerusalemme, e tu, o re Giosafat! Così vi dice l'Eterno: 'Non temete e non vi spaventate a causa di questa grande moltitudine; poiché questa battaglia non è vostra, ma di Dio.
- Domani, scendete contro di loro; eccoli che vengono su per la salita di Sis, e voi li troverete all'estremità della valle, di fronte al deserto di Ieruel.
- Questa battaglia non sarete voi a combatterla: presentatevi, tenetevi fermi, e vedrete la liberazione che l'Eterno vi darà. O Giuda, o Gerusalemme, non temete e non vi spaventate; domani, uscite contro di loro, e l'Eterno sarà con voi’.
- Allora Giosafat chinò la faccia a terra, e tutto Giuda e gli abitanti di Gerusalemme si prostrarono davanti all'Eterno e lo adorarono”.
• CREDERE E CONFIDARE
Jachasiel promise al re e al popolo che la loro fede e fiducia in Dio avrebbe portato una brillante vittoria. Incoraggiò il re e l'esercito ad avanzare sul campo di battaglia e a sperimentare la salvezza di Dio. Il re Giosafat e il popolo si presentarono davanti a Dio, i Leviti si rallegrarono e lodarono a gran voce il Dio d'Israele.
Anche noi dobbiamo sperimentare questa redenzione nel nostro tempo. Dove spesso le cose vacillano è la leadership del nostro popolo, che non vedo arrivare presto davanti a Dio. Che cosa intendiamo quando ci viene detto che il popolo deve pentirsi? Un pentimento che soddisfi l'ortodossia ebraica di Israele, o un pentimento che soddisfi l'ebraismo messianico o i cristiani o l'Israele laico o l'Israele tradizionale? Oppure è sufficiente la pura fede, indipendentemente da chi si è, nel potere glorioso di Dio di redimere il popolo?
Il mattino seguente, l'esercito del popolo, guidato dal re Giosafat, si incamminò nel deserto. Il re continuò il suo cammino, rafforzando il popolo nella sua fede in Dio e nella certezza che la redenzione e la vittoria erano vicine.
- La mattina seguente si alzarono di buon'ora, e si misero in cammino verso il deserto di Tecoa; e mentre si mettevano in cammino, Giosafat, stando in piedi, disse: “Ascoltatemi, o Giuda, e voi abitanti di Gerusalemme! Credete nell'Eterno, il vostro Dio, e sarete al sicuro; credete ai suoi profeti, e trionferete!”.
- E dopo aver tenuto consiglio con il popolo, stabilì dei cantori che, vestiti di paramenti sacri, cantassero le lodi dell'Eterno e, camminando alla testa dell'esercito, dicessero: “Celebrate l'Eterno, perché la sua benignità dura in eterno!”.
• L'INTERVENTO DI DIO
Dio intervenne e i nemici di Israele si combatterono tra loro finché non caddero tutti di spada. C'era disaccordo tra gli alleati. Quando gli Israeliti "cominciarono a rallegrarsi e a cantare le lodi, il Signore tese un'imboscata ai figli di Ammon, di Moab e a quelli del monte Seir, che erano venuti contro Giuda, e furono sconfitti. I figli di Ammon e di Moab si sollevarono contro gli abitanti del monte Seir per distruggerli e annientarli e, quando ebbero finito con gli abitanti di Seir, gli uni contribuirono a distruggere gli altri".
- Appena cominciarono i canti di gioia e di lode, l'Eterno tese un'imboscata contro i figli di Ammon e di Moab e contro quelli del monte Seir che erano venuti contro Giuda; e rimasero sconfitti.
- I figli di Ammon e di Moab assalirono gli abitanti del monte Seir per sterminarli e distruggerli; e quando ebbero annientati gli abitanti di Seir, si diedero a distruggersi a vicenda.
- E quando quelli di Giuda furono giunti sull'altura da dove si scorge il deserto, rivolsero lo sguardo verso la moltitudine, ed ecco i cadaveri che giacevano a terra: nessuno era sopravvissuto.”
Ciò che unisce i nemici di Israele è l'odio per Israele, nient'altro. Cosa può unire l'Iran e gli sciiti con i sunniti di Hamas, a parte Israele? Nulla.
Con la vittoria sui nemici di Israele, il re e il popolo tornarono a Gerusalemme: "
- Ed entrarono in Gerusalemme e nella casa dell'Eterno al suono dei saltèri, delle cetre e delle trombe.
- Il terrore di Dio si impadronì di tutti i regni degli altri paesi, quando udirono che l'Eterno aveva combattuto contro i nemici d'Israele.
- E il regno di Giosafat ebbe tranquillità; il suo Dio gli diede pace da ogni lato.
Questo è esattamente ciò per cui Israele deve lottare in questi giorni. Dobbiamo vincere la guerra e recuperare con urgenza la strategia della deterrenza nel Paese. Senza deterrenza, siamo perduti nella terra. Possiamo riconquistare la pace nel Paese solo con la potenza e la grazia di Dio.
(Israel Heute, 15 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Danimarca. Arrestati 7 terroristi che pianificavano per Hamas attentati in Europa a luoghi ebraici
di Michael Soncin
Giovedì in Danimarca sono stati effettuati diversi arresti di presunti terroristi che stavano pianificando attacchi terroristici in Europa. La loro individuazione è stata possibile grazie ad un’azione coordinata.
Si sospetta che gli arrestati agissero in nome di Hamas. Dalle indagini è emerso che avevano in mente di colpire come obiettivo i luoghi ebraici.
«Per diversi anni abbiamo visto persone che vivono in Danimarca che non ci vogliono bene. Chi è contro la nostra libertà è contro la società danese». Lo afferma, secondo quanto scritto su i24NEWS, la prima ministra danese Mette Frederiksen.
Il Mossad avrebbe poi confermato con una comunicazione che i sette terroristi arrestati agirebbero in nome di Hamas. Il servizio di intelligence danese dal 2010 ha mantenuto il livello di allerta terroristica al IV livello, su una scala che va dal 1 al 5. Una decisione che è rimasta invariata dal 2010, ritenendola quindi una minaccia significativa.
«È molto, molto grave e in relazione al conflitto Israele-Gaza del tutto inaccettabile, che qualcuno porti un conflitto da qualche altra parte del mondo nella società danese», ha aggiunto Frederiksen.
(Bet Magazine Mosaico, 15 dicembre 2023)
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SONDAGGIO – La maggioranza dei palestinesi sta con Hamas
L’opinione pubblica palestinese sostiene in modo sempre più convinto le azioni di Hamas e una larga maggioranza approva i massacri del 7 ottobre. A dirlo, un nuovo sondaggio del Palestinian Center for policy and survey search realizzato nella settimana di tregua nel conflitto tra Israele e Hamas. Sono stati intervistati palestinesi residenti in Cisgiordania, a Gaza e Gerusalemme e il risultato è un consenso trasversale al gruppo terroristico.
Il 57% degli intervistati a Gaza e l’82% in Cisgiordania ritiene che l’attacco di Hamas del 7 ottobre sia giustificato. In molti credono alle motivazioni di Hamas: stragi e rapimenti sarebbero un’azione per difendere la Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme dagli estremisti ebrei e per ottenere il rilascio dei prigionieri palestinesi.
D’altro lato l’85% afferma di non aver visto i video, mostrati in tutto il mondo, dei crimini commessi da Hamas contro i civili israeliani, tra cui le uccisioni di donne e bambini nelle loro case. Alla domanda se il gruppo che controlla Gaza avesse commesso queste atrocità, la stragrande maggioranza ha risposto di no e solo il 7% (1% in Cisgiordania e 16% a Gaza) ha risposto di sì.
Sul fronte politico, nessuno vuole che Mahmoud Abbas, attuale presidente dell’Autorità nazionale palestinese, rimanga al potere. L’88% chiede le dimissioni (il 92% in Cisgiordania) dell’uomo che gli americani immaginano possa guidare la ricostruzione di Gaza dopo la fine del conflitto.
Il 44% in Cisgiordania afferma invece di sostenere Hamas. Un balzo in avanti enorme rispetto al 12% di un sondaggio simile effettuato a settembre. Anche a Gaza i consensi, nonostante tutto sono aumentati: si è passati dal 38% al 42%. Il sondaggista palestinese Khalil Shikaki, intervistato dall’Associated Press, ha poi ribadito un dato noto: il leader più popolare è Marwan Barghouti. Figura di spicco del movimento Fatah (lo stesso di Abbas), Barghouti è detenuto in Israele: deve scontare cinque ergastoli per il suo coinvolgimento in diversi attacchi terroristici contro israeliani durante la Seconda intifada. Se si candidasse alla presidenza dell’Anp, secondo il sondaggio, vincerebbe anche contro Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas che vive in Qatar.
Alla domanda sull’andamento della guerra, la stragrande maggioranza dei cisgiordani (70%) pensa che Hamas uscirà vittorioso. A Gaza la percentuale scende al 50. Solo l’1% in Cisgiordania ritiene che sarà Israele a vincere alla fine, mentre a Gaza la percentuale sale fino al 31. Per un quinto degli intervistati non ci saranno vincitori.
Il 65% ritiene che la soluzione dei due Stati non sia più praticabile. Il 69% è favorevole a un ritorno agli scontri armati (+11% rispetto a settembre). In due anni, scrive il ricercatore Yousef Munayyer, quest’ultimo dato è raddoppiato.
Nell’indagine si chiede anche di immaginare chi, al termine dello scontro, avrà il controllo della Striscia. Israele ha promesso l’eliminazione di Hamas, ma due terzi dei palestinesi ritengono che il gruppo continuerà a gestire l’enclave. Per il dopo, è stato ipotizzato il dispiegamento di un contingente di sicurezza arabo per gestire Gaza.
Per quanto riguarda gli attori internazionali, gli intervistati non sono molto soddisfatti di nessuno. Russia (22%) e Cina (20%) guidano la classifica del gradimento, mentre in fondo ci sono gli Stati Uniti (1%).
Per quanto riguarda gli attori arabi regionali, il livello più alto di soddisfazione è per lo Yemen degli Huthi, il gruppo che in queste settimane ha attaccato Israele dal Mar Rosso (80%). Poi ci sono Qatar (56%), Hezbollah (49), Iran (35), Turchia (34), Giordania (24), Egitto (23), Emirati Arabi Uniti (8) e infine Arabia Saudita (5).
(moked, 14 dicembre 2023)
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Sull’Ucraina è ora di dire queste verità
di Dino Cofrancesco
Amicus Plato sed magica amica Veritas! Non sono pochi i colleghi ed editorialisti che mi stanno guardando in cagnesco e mi hanno quasi tolto la loro stima per il diverso giudizio che ho dato in passato sulla guerra in Ucraina, un giudizio forse troppo influenzato da John Mearsheimer e dagli articoli da lui scritti per il ‘Foreign Affairs’. Quanto gli opinion makers dicono dell’Ucraina fa pensare alle esaltazioni prebelliche – seguite all’attentato di Sarajevo e all’ultimatum di Vienna – della piccola e valorosa Serbia, violentata dal mostro austro-ungarico. Una retorica che contribuì a scatenare lo Sturm und Drang bellico che avrebbe segnato la finis Europae e della sua centralità planetaria. La storia, si dice, non si ripete ed è quanto spero vivamente. Agli amici, pieni di ardore e restii a ogni compromesso con quello che, per loro, resta sempre – anche con la caduta del comunismo – l’Impero del Male, propongo uno scenario che forse va facendosi sempre più probabile. Priva di adeguati sostegni economici e militari, l’Ucraina – dopo aver detto che nessun centimetro quadrato del suo territorio verrà dato a Putin – acconsente a sedersi al tavolo delle trattative e, in cambio della fine delle ostilità, rinuncia alla Crimea e si rassegna all’indipendenza delle repubbliche del Donbass (cioè al loro ritorno alla Russia). Un cinico Kissinger avrebbe concesso a Putin il ‘bottino di guerra’ già prima dell’apertura delle ostilità, e, in tal modo, avrebbe risparmiato agli Ucraini massacri di civili, distruzioni di monumenti ed edifici, collasso dell’economia – qualche volta il cinismo può rivelarsi ‘umanitario’: anche il principio ‘meglio rossi che morti’ può avere una sua etica. E perché Kissinger avrebbe agito così? Perché lui, come me (si licet magnis componere parva) aveva ben presente l’etica della responsabilità che, secondo Max Weber – mio termine fisso d’ogni consiglio – dovrebbe essere la stella polare della politica. “V’è una differenza incolmabile – scriveva Weber nel 1918 – tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione’, la quale – in termini religiosi – suona: ’Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio’, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni”. Seguire l’etica della responsabilità vuol dire agire in modo da lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato. Non pochi osservatori realisti, tra i quali appunto John Mearsheimer – l’erede spirituale di Samuel P. Huntington e il teorico dell’approccio ‘realistico’ alla politica estera – e, prima di lui, George Kennan, si chiedevano che bisogno ci fosse di estendere la Nato fino alle porte di Mosca, suscitando la stessa (comprensibile) reazione ai missili sovietici a Cuba mostrata dalla Casa Bianca (Grande fu in quel frangente John F. Kennedy e De Gaulle non mancò di porsi al suo fianco, in caso di conflitto armato con l’URSS !). L’aver ignorato tali consigli ha portato alla tragedia ucraina, giustificabile, ormai, solo in nome della weberiana etica della convinzione. (Qualcuno potrebbe insinuare che Kiev è stata usata cinicamente dagli Stati Uniti per ridimensionare drasticamente la potenza militare della Russia ma si conceda pure che si tratta di un’ipotesi cinica e complottista formulata dai soliti antiamericani, di destra e di sinistra). Tra le migliaia di tombe dei morti ammazzati, ci consoleremo pensando che hanno ‘testimoniato’ il Giusto? E dimenticheremo che a farli trovare sottoterra sono state le tifoserie euroamericane che li incitavano a combattere fino all’ultimo ucraino senza che loro versassero una sola goccia di sangue per abbattere il predone moscovita (tutt’al più hanno pagato più care le bollette della luce). In realtà, nell’analisi di questa guerra si sono dimenticati due fatti cruciali:
- che l’Ucraina non è uno stato nazionale ma uno stato multinazionale, in cui le minoranze etniche non ucraine si sono sentite sempre discriminate. La vecchia russofona del Donbass costretta a comunicare per iscritto con le autorità in lingua ucraina, a lei ignota, non poteva certo dirsi entusiasta della democrazia zelenskyana. Ricordo solo un episodio significativo, di cui sono stato protagonista. Anni fa, quando la Crimea era ucraina, invitai alcuni studenti, appartenenti alla minoranza italiana, a frequentare il CISI (in sostanza l’Università per stranieri di Genova) da me diretto: non se ne fece niente giacché Kiev non riconosceva la minoranza italiana. Solo con l’annessione russa agli studenti italo-crimeani furono concessi i passaporti per venire in Italia. C’è ancora qualcuno disposto a ricordare gli accordi di Minsk – per i quali si diede da fare anche il nostro Renzi – e le ragioni del loro mancato rispetto? Delle minoranze russofone non gliene fregava niente a nessuno;
- che Zelensky (uno tra i dieci capi di stato più ricchi del mondo, ma sembra che lo debba al lavoro svolto nel mondo dello spettacolo e alla tv ucraina, dove evidentemente si guadagna più che in Italia) è un dittatore – e, ammettiamolo pure, nel senso romano del termine – che ha messo al bando dodici partiti, imbavagliato la stampa, imposto la nazionalizzazione forzata a lituani, moldavi, rumeni, russi, sudditi (non cittadini) dello stato sovrano ucraino. È proprio il caso di farne un Cavour balcanico?
Il grande Presidente Woodrow Wilson – che ebbe il torto di far prevalere l’etica della convinzione sull’etica della responsabilità – per moralizzare i rapporti internazionali teorizzò (mazzinianamente) il principio di nazionalità. Perché non farlo valere, nel nostro tempo, per i popoli inglobati nello stato ucraino? Forse è utopico proporre oggi un referendum, sotto il controllo delle Nazioni Unite, per accertare se in Crimea e nel Donbass si vuol vedere sventolare sui palazzi pubblici la bandiera di Kiev o quella di Mosca ma è una proposta che, per così dire, almeno ci ‘salverebbe l’anima’. Ultimo rilievo. Quando si continua a ripetere che la Russia ha invaso un paese sovrano si ricorda un fatto incontestabile, che getta una luce assai sinistra su Mosca, ma si dimentica che lo stesso fece il Regno di Sardegna invadendo, con l’alleato francese, il Lombardo-Veneto e, con i Mille, il Regno delle Due Sicilie. Se ne deve dedurre che le violazioni del ‘diritto internazionale’ sono oggetto di scandalo… a seconda di chi viene invaso? Termino con un’altra citazione latina: Dixi et servavi animam meam.
(nicolaporro, 14 dicembre 2023)
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«Qualcuno potrebbe insinuare che Kiev è stata usata cinicamente dagli Stati Uniti per ridimensionare drasticamente la potenza militare della Russia...», osserva l'autore. Se non è cinismo (ipotesi più probabile) è stupidità. "Stupidità" invece è il termine più adatto a indicare quella valanga di giornalisti main stream che hanno riscaldato la tifoseria pro-Zelenski al grido di viva l'Ucraina libera, morte a Putin e abbasso i russi, attizzando così una delle più rovinose e inutili guerre che menti contorte potevano immaginare. Dopo l'istupidimento pandemico è sopravvenuto quasi di seguito l'istupidimento antirusso. Ma la truppa dei corrispondenti dei giornaloni nazionali, e gli "intellettuali" che invece pontificano su fogli pensosi, non ammetteranno mai di aver preso una delle più vistose cantonate della loro carriera di commentatori politici. M.C.
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Le difficoltà dell’operazione di terra e il dissenso con Biden
di Ugo Volli
• L’incubo delle gallerie
La perdita di dieci soldati annunciata ieri, un numero molto alto rispetto alla media dei due mesi di guerra, mostra le difficoltà della fase attuale della guerra. Israele controlla direttamente la superficie di un po’ meno della metà di Gaza, non ha problemi a spingere le truppe dove ritiene necessario, ma il possesso della superficie non si è esteso al livello sotterraneo, nella rete di gallerie che costituiscono la base dei terroristi, dove sono nascoste le rampe di lancio dei missili che ancora arrivano sul territorio israeliano, dove sono accumulate le armi e i miliziani, dove si rifugiano i capi terroristi e sono tenuti prigionieri i rapiti. La morte dei soldati israeliani è avvenuta tentando di penetrare in una di queste gallerie, dove si stimava potessero esservi alcune delle persone sequestrate. Ma come si sapeva i tunnel sono imbottiti di bombe trappola, predisposti per gli agguati con feritoie e barriere, progettati insomma per uccidere chi provi a conquistarli. Le truppe israeliane usano come aiuto dei cani d’assalto, dei droni che però sono difficili da guidare perché le onde radio hanno portata limitata sottoterra, delle armi particolari. Ma tutto questo non impedisce che le gallerie possano essere fatte saltare quando viene rilevata la loro presenza, o che altre trappole esigano un costo pesantissimo. Anche tre giorni fa due altri soldati sono periti cercando di recuperare i corpi di due rapiti.
• Combattere con un braccio legato
Il problema è che l’esercito israeliano non può usare tutte le sue armi, per esempio i bombardamenti pesanti, per non colpire i rapiti e anche per evitare di coinvolgere la popolazione che Hamas usa come schermo. Per esempio si è saputo che negli ultimi giorni 118 missili sono partiti dalla “zona umanitaria” a sudovest della Striscia, l’area cioè che Israele ha destinato alla sicurezza degli abitanti di Gaza che hanno dovuto sfollare dalle loro case. Essa è ora una grande e affollata tendopoli, che dovrebbe essere un rifugio per la popolazione civile. Sparare da lì significa usare questa gente come scudi umani, impedendo a Israele ogni risposta. Questo comportamento dell’esercito israeliano che deve “combattere con un braccio legato dietro la schiena” è così controllato da avere ricevuto riconoscimenti dalla stessa amministrazione americana, che ha fra i propri obiettivi espliciti la tutela della popolazione civile.
• Le dichiarazioni di Biden
Questo riconoscimento è importante per Israele anche al di là delle scelte etiche autonome dell’esercito, davvero inedite per qualunque guerra. Israele ha infatti bisogno dei rifornimenti di armi e munizioni americane, della deterrenza rispetto all’Iran garantita dalla flotta Usa, del sostegno in quelle istanze internazionali, prima di tutto nel consiglio di sicurezza dell’Onu, dove vige una maggioranza precostituita anti-israeliana. Questa dipendenza è nota a tutti, al campo terrorista che condanna e minaccia gli Usa, bombardando anche le sue basi in Siria e Iraq; agli israeliani che ne tengono conto fino al punto di aver ammesso diverse volte il segretario di Stato americano Blinken alle riunioni del gabinetto di guerra; e anche agli americani che talvolta cercando di dare indicazioni che hanno l’aria di essere più ordini che consigli ad Israele. Per esempio ieri Biden ha dichiarato che Israele dovrebbe cambiare il suo governo che gli pare troppo sbilanciato a destra, il che secondo lui limiterebbe la solidarietà internazionale. Si tratta di una evidente violazione della sovranità israeliana, che per il momento è stata respinta senza neanche discuterne; ma è chiaro che questa interferenza nella politica interna israeliana potrebbe portare a elezioni subito dopo la fine della guerra: si parla di aprile o di giugno.
• Due stati?
Ma Biden ha aggiunto una cosa ancora più grave: che lo stato ebraico dovrebbe ora riaprire il discorso con l’Autorità Palestinese per la realizzazione del programma dei “due stati”. Ora i leader dell’Autorità Palestinese continuano a non condannare la strage del 7 ottobre, a denunciare in toni violentissimi l’”aggressione sionista” che sarebbe l’autodifesa di Israele in corso; a dire che “Hamas è parte del sistema politico palestinese e non deve essere eliminato” e che sarebbe auspicabile un governo di unità nazionale che li includesse (così ha detto l’altro giorno il primo ministro dell’ Autorità Palestinese Mohammad Shtayyeh). È possibile riaprire una trattativa con chi avanza queste posizioni politiche? Ancor di più, è chiaro che i terroristi sono istallati nei territori di Giudea e Samaria controllati dall’AP, che l’orientamento della popolazione rivelato dai sondaggi recenti è del tutto favorevole a Hamas, che insomma i rischi che vengono dai territori amministrati dall’AP sono ridotti solo per il fatto che essa non è uno stato e che le forze di sicurezza israeliane possono entrarvi e combattervi i terroristi, come hanno fatto massicciamente in questo periodo. Che accadrebbe se su quelle zone, a pochissimi chilometri da Gerusalemme e Tel Aviv, vi fosse un vero stato dai confini intangibili? Quanti altri 7 ottobre vi si preparerebbero? Una cosa oggi è chiara a tutti gli israeliani, anche a quelli che militavano nel “capo della pace”: che una cessione di sovranità all’Autorità Palestinese per quanto “rinnovata” non è possibile, perché sarebbe suicida. È probabile che su questo punto il dissenso con gli Usa, che non vogliono prendere atto di questa elementare verità, sia destinato a crescere in futuro.
(Shalom, 14 dicembre 2023)
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I tempi della guerra per Biden e per Bibi. Una sorpresa sul consenso
In Israele arriva Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale americana, per discutere di come cambiare tattica. L'obiettivo è è sempre lo stesso: estirpare Hamas
di Paola Peduzzi
Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale dell’Amministrazione americana, arriva oggi in Israele per incontrare Benjamin Netanyahu e il war cabinet e discutere dei tempi della guerra contro Hamas. Parlando lunedì con il Wall Street Journal, Sullivan ha detto: “Non si deve passare dalla situazione di oggi al nulla in termini di pressione sugli obiettivi di Hamas e la sua leadership ed è necessario conservare gli strumenti per ottenere il rilascio degli ostaggi, ma bisogna entrare in una fase diversa rispetto alle operazioni ad alta intensità di oggi”. In termini più spicci: gli americani chiedono a Netanyahu di continuare a dare la caccia a Hamas ma cambiando tattica, cioè riducendo o fermando gli attacchi aerei su Gaza e proteggendo così la popolazione palestinese. I bombardamenti sono stati definiti “indiscriminati” dallo stesso presidente, Joe Biden. Le parole del presidente americano sono state lette come una frattura con l’alleato israeliano: c’è chi ha detto finalmente!, chi ha detto troppo tardi, chi pensa che tanto Netanyahu non ascolta nessuno se non i suoi ministri più estremisti, chi riesuma gli antichi attriti tra il presidente americano e il premier israeliano.
La linea americana è sempre stata: bisogna sradicare Hamas e fare il più possibile per proteggere i palestinesi, e in tutte le votazioni all’Onu sul cessate il fuoco immediato, gli Stati Uniti hanno votato contro. Ma ora che la guerra a Gaza entra nel suo terzo mese e che le possibilità di evacuazione sono esaurite – da nord della Striscia si poteva andare a sud, ma da sud non si va più da nessuna parte – Washington chiede che si cambino non certo gli obiettivi, ma la tattica sì. Definendo i bombardamenti in corso “indiscriminati”, Washington va al cuore delle tattiche utilizzate finora: il discrimine sono gli obiettivi militari e quelli civili, e a Gaza è molto difficile da stabilire visto che i terroristi di Hamas sono volutamente mischiati alla popolazione. Ma ora che non ci sono vie di fuga possibili per i civili, questo discrimine pare più visibile ed è per questo che Washington dice: parliamo dei tempi, e della necessità di ampliare gli aiuti – e la possibilità di consegnarli – a Gaza. Sia in Israele sia in America si parla di settimane, su quante serve parlare, con il rischio che, come tutto ciò che è a scadenza, si finisca per fornire delle tempistiche anche a Hamas, cosa che naturalmente stravolge l’obiettivo di ridurre al minimo – o estirpare – le capacità militari del gruppo terroristico.
Le discussioni sui tempi sono sempre preoccupanti. Lo sono per Israele, naturalmente, che deve annichilire la minaccia esistenziale, ma lo sono anche per gli Stati Uniti che ormai vivono la loro politica internazionale con lo spettro del 2024 e del ciclo elettorale incombente. Biden paga un prezzo alto per il suo sostegno a Israele soprattutto nella base più giovane del Partito democratico. Gli strateghi sono divisi a metà: chi dice che tra un anno, quando si voterà, sarà tutto diverso e chi è già disperato. Julia Ioffe è andata a vedere bene i sondaggi e al di là dei titoli che danno Biden per impopolarissimo ha trovato altri elementi rilevanti. Ne ha scritto su Puck: nel fine settimana, un sondaggio Cbs-YouGov diceva che il 61 per cento degli americani disapprova il modo con cui Biden gestisce il conflitto, a ottobre era il 58, ma gran parte di questo disamore è dei conservatori, che di amore non ne hanno mai provato. Non sono i radicali pro palestinesi che sono scontenti di Biden: il 69 per cento degli intervistati raggruppa chi pensa che gli Stati Uniti stiano dando il giusto aiuto a Israele e quelli che pensano che non sia “sufficiente”. In sostanza la colonna di chi crede che Biden sta facendo troppo poco per Israele è più grande di quella di chi dice che sostiene troppo Israele. Il tempo, anche qui, è cruciale.
Il Foglio, 14 dicembre 2023)
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Israele tira dritto su Gaza, ministro degli esteri Eli Cohen: “Guerra anche senza il supporto internazionale”
di Lorenzo Vita
Le parole del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha avvertito Israele di un possibile isolamento internazionale per i bombardamenti “indiscriminati” nella Striscia di Gaza, hanno lasciato degli inevitabili strascichi. Ieri, Eli Cohen, ministro degli Esteri israeliano, ha affermato che il suo Paese “continuerà la guerra contro Hamas con o senza il sostegno internazionale”, e ha anche sottolineato che “un cessate il fuoco nella fase attuale è un regalo all’organizzazione terroristica Hamas” che “le consentirà di ritornare e minacciare gli abitanti di Israele”. Nelle ore successive è tornato a parlare anche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, oggetto delle critiche di Biden, che, rivolgendosi ai soldati durante una visita in un centro di detenzione, ha ribadito la volontà di arrivare alla vittoria nonostante le pressioni.
• Israele e Stati Uniti, sostegno e avvertimenti Dagli Stati Uniti sono arrivati messaggi di distensione. La Casa Bianca ha dato notizia di un incontro di Biden e del suo staff con i parenti degli ostaggi americani che sono ancora nelle mani di Hamas e delle altre milizie della Striscia di Gaza. E oggi ad arrivare in Israele è il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, che dovrà fare il punto della situazione con le controparti dello Stato ebraico ribadendo che il sostegno militare di Washington non è messo in discussione. I segnali che arrivano tra amministrazione Usa e governo israeliano appaiono in ogni caso chiari. Al netto dell’alleanza strategica tra i due Paesi, certificata anche dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, le divergenze tra i due governi, palesate già prima della guerra, si confermano anche in questa fase. Lo stesso Sullivan, parlando della sua visita in Israele, ha auspicato un “calendario” della guerra da parte del governo Netanyahu. E questa richiesta implica in buona sostanza che l’amministrazione Biden sta riflettendo su quale sia la exit strategy dell’alleato una volta terminata questa delicata fase dell’invasione. Temi che saranno anche al centro di un altro viaggio di un alto funzionario Usa sempre nello Stato ebraico: quello del segretario della Difesa Lloyd Austin, che è atteso la settimana prossima nel Paese mediorientale.
• Le operazioni dell’esercito israeliano a Gaza Mentre le discussioni tra alleati si sviluppano su più livelli, le Israel defense forces proseguono le loro operazioni all’interno della Striscia. Il bilancio dei caduti delle Tsahal, le forze armate dello Stato ebraico, è salito a 115 dopo l’annuncio della morte di 10 militari nei pressi di Gaza. Nove di loro sono stati uccisi in un’imboscata avvenuta nel distretto di Shejaiya, un’area dove le Idf avevano individuato una cellula di Hamas impegnata a lanciare razzi contro le città dello Stato ebraico (minacciate anche ieri mattina da lanci di razzi che hanno fatto scattare gli allarmi antimissile in diversi centri vicino la Striscia).
Le forze armate israeliane hanno comunicato nelle prime ore di mercoledì che erano stato colpiti 250 obiettivi in 24 ore. E questi obiettivi si concentrano anche, se non soprattutto, nell’area di Khan Younis, a sud della Striscia, dove la fanteria e i blindati israeliani combattono contro Hamas una delle loro battaglie più feroci. Intanto, mentre Israele ha dato il via libera all’allagamento dei tunnel sotto l’exclave palestinese, destano imbarazzo alcuni video irriverenti che circolano sui social con protagonisti soldati israeliani impegnati nel conflitto. Le Idf hanno già detto di volere punire i responsabili. Non si ferma il richiamo della comunità internazionale sul cessate il fuoco e l’arrivo di più aiuti a favore della popolazione palestinese. Martedì, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione non vincolante per chiedere l’impegno per un immediato cessate il fuoco. A votare a favore della risoluzione 153 Paesi, mentre sono stati 23 gli astenuti e dieci i contrari. Gli appelli affinché si riducano le sofferenze dei civili arrivano da diversi fronti, non ultimo anche da Papa Francesco, che ha rinnovato l’esortazione a un’immediata interruzione delle ostilità, alla liberazione degli ostaggi e per l’arrivo di maggiori aiuti umanitari. Sotto questo profilo, Israele sta aumentando il flusso di camion con beni di prima necessità attraverso i valichi di Kerem Shalom e Rafah. Ma le autorità del Paese ebraico accusano Hamas di impossessarsi degli aiuti a scapito della popolazione, come dimostrerebbe un video rilanciato sui social Coordinamento delle attività nei Territori (Cogat). Nel frattempo, mentre scriviamo, le autorità di Gaza hanno aggiornato il numero dei morti dall’inizio dell’operazione israeliana a 18.682.
• L’allargamento del conflitto in Medio Oriente L’attenzione di Israele, come in tutti questi due mesi di guerra, si concentra poi anche sugli altri fronti. Ieri i media hanno rilanciato le indiscrezioni su una “soluzione diplomatica” per allontanare Hezbollah dal sud del Libano, a nord del fiume Litani. Secondo l’emittente Kan, il tema sarebbe stato discusso dal generale Benny Gantz con i ministri degli Esteri di Francia e Regno Unito. Mentre sono continuati gli scambi di colpi tra forze israeliane e di Hezbollah a ridosso della Blue Line. In Cisgiordania, invece, dove i sondaggi rivelano che il consenso nei confronti di Hamas è quadruplicato dall’inizio della guerra a scapito dell’Autorità di Mahmoud Abbas, le Idf hanno iniziato un’imponente operazione a Jenin con centinaia di arresti e alcuni morti tra i palestinesi. La tensione sale anche sul fronte dello Yemen. Gli Houthi hanno colpito ancora una volta tra il Golfo di Aden e il Mar Rosso. E su X, il presidente israeliano Isaac Herzog ha scritto che la milizia sciita “ha superato la linea rossa”. “Le attività internazionali guidate dagli Stati Uniti contro i pirati terroristi Houthi devono essere sostenute e rafforzate, sotto forma di una vera coalizione internazionale” ha continuato il capo dello Stato, che ha esortato l’intera comunità internazionale ad agire “unita, con forza e decisione per eliminare questa vile minaccia all’economia globale e al commercio”.
(Il Riformista, 14 dicembre 2023)
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La strategia di Hamas: l’isolamento di Israele
Dopo i contrasti fra Biden e Netanyahu, ci si mette anche la Commissione Ue che chiede sanzioni contro i coloni violenti. Invece di colpire i terroristi islamici.
di Amedeo Ardenza
Israele combatte due guerre: la prima a Gaza, fra edifici pubblici e cunicoli senza fine. La seconda, non meno pericolosa, fra cancellerie, forum dell'Onu e redazioni delle testate internazionali. In queste ore il bilancio degli effettivi caduti a Gaza dall'inizio dell'operazioni di terra lanciata contro la Striscia lo scorso 20 ottobre è balzato a 115. 115 funerali per un paese piccolo che aveva appena finito di seppellire le oltre 1.200 persone - in gran parte civili disarmati - assassinate nel pogrom del 7 ottobre. Un paese che cerca anche di riscattare i 137 ostaggi ancora nelle mani dei terroristi di Hamas. Fatte le debite proporzioni è come se in Italia fossero stati uccisi 7.800 cittadini, se altri 890 fossero nelle mani di una mostruosa anonima sequestri e 750 militari fossero stati abbattuti in meno di due mesi. Tutto questo al netto dei feriti. Numeri che danno l'idea di come lo stato ebraico sia in un profondo stato di shock. E cosa si fa con le persone in stato di shock che continuano a essere raggiunte ogni giorno da salve di missili dal sud e da colpi di mortai e obici anticarro a nord? Si sorreggono e si aiutano a superare il momento brutto. Sbagliato. La risposta la dà la Reuters che titola sulle perdite subite a Gaza - in 24 ore Israele ha perso dieci militari, nove dei quali vittime di un'imboscata di Hamas nella Striscia - e parla dell'isolamento internazionale dello Stato ebraico. «Israele ha goduto della simpatia mondiale quando ha lanciato una campagna per annientare il gruppo militante di Hamas che controlla Gaza», scrive l'agenzia internazionale sottolineando però che oggi questo supporto è evaporato.
• SCUDI UMANI A causare la fine del presunto idillio - idillio che non c'è mai stato - sarebbero le oltre 18.000 vittime che le Israeli Defense Forces avrebbero provocato bombardando l'infrastruttura del terrore che Hamas ha sapientemente mescolato a quella civile usando i gazawi come scudo umano. Questo scudo umano adesso starebbe funzionando testimonia la Reuters che sottolinea il progressivo irrigidimento del presidente degli Usa Joe Biden, in apparenza non più disposto a dare carta bianca all'alleato israeliano.
Anche il Financial Times nota la distanza fra il capo della Casa Bianca e il premier d'Israele Benjamin Netanyahu, con il primo contrario al "bombardamento indiscriminato" di Gaza Biden ha anche apertamente criticato "questo governo di Israele" che renderebbe difficile un cambiamento. Parole pronunciate mentre l'Assemblea Generale dell'Onu isolava Israele - sai la novità - chiedendo un cessate il fuoco umanitario a Gaza. Che la popolazione della Striscia sia in grande difficoltà è un dato incontrovertibile ma quello che Biden, l'Onu e il Financial Times dimenticano è che è stato Hamas a creare questa condizione e ad aprire la guerra. Senza dimenticare che l'odiato Netanyahu, ha pur fondato il suo sesto governo sull'alleanza con due poco raccomandabili partitini estremisti, ma oggi non è più il leader di una coalizione di destra-destra bensì il capo di un gabinetto di guerra a cui partecipa il centrosinistra del generale Benny Gantz.
• OCCIDENTE NEL MIRINO
Sul futuro politico del premier targato Likud oggi non scommette più nessuno, nemmeno in Israele. Ma a chi giova attaccare lo stato ebraico nel più grave momento della sua storia? E se Bibi scaricasse per ipotesi i partiti dei coloni per imbarcare altre forze progressiste? I diplomatici onusiani come quelli dell'Ue lancia in resta contro i coloni si illudono se pensano che la sinistra sionista sia meno determinata a liberare Israele dal giogo del terrorismo islamico sostenuto dall'Iran. Né additare in Israele il cattivo di turno sembra aiutare la comunità ebraica globale vittima di un'ondata di antisemitismo senza precedenti .
La guerra non piace a nessuno, in primis non alle madri dei soldati israeliani che Hamas uccide ogni giorno. La guerra è brutta e non piace neppure a Biden, all'Onu o al Financial Times. Ma non fare la guerra contro Hamas - anzi, impedire a Israele di fare la guerra contro Hamas - rischia di ritorcersi contro lo stesso Occidente, già dimentico dell’11 settembre, della stazione Hatocha a Madrid, di Londra, di Nizza, del mercato di Natale a Berlino, di Charlie Hebdo e del Bataclan.
Libero, 14 dicembre 2023)
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Geert Wilders: "Difenderò sempre Israele"
Geert Wilders è un critico radicale dell'Islam. La sua vittoria elettorale nei Paesi Bassi è seguita con attenzione anche in Israele. Questo perché il 60enne si è posizionato per decenni dalla parte dello Stato ebraico senza compromessi.
di Sandro Serafin
23 novembre, elezioni parlamentari olandesi: 23,5% per il Partito per la Libertà (PVV). Geert Wilders è nettamente al primo posto, con un guadagno di quasi il 13%. Quando l'uomo che si è fatto un nome soprattutto come critico radicale dell'Islam, con richieste come la messa al bando del Corano, vede il risultato sorprendentemente forte nel suo ufficio, una telecamera gira. Mentre Wilders esulta, sullo sfondo si nota un dettaglio interessante: Non c'è solo la bandiera dei Paesi Bassi, ma anche quella di un altro Paese: Israele.
Non è ancora chiaro se Wilders diventerà effettivamente il nuovo Primo Ministro dei Paesi Bassi. I negoziati sono lenti. Ci sono alcune avversioni negli altri partiti del centro-destra. Tuttavia, se dovesse effettivamente trasferirsi nella "Torentje", la residenza ufficiale del capo del governo all'Aia, i Paesi Bassi avrebbero il capo di Stato o di governo più filo-israeliano dell'Unione Europea, forse anche del mondo occidentale nel suo complesso.
• Wilders ha lavorato in Israele da giovane Wilders ha una lunga storia politica e personale con Israele. Quando il 60enne ne parla, parte dal 1980. All'epoca aveva 17 anni. All'epoca si recò in Israele per uno o due anni. Coltivava frutta e verdura nel moshav (insediamento agricolo) di Tomer in Cisgiordania, a nord di Gerico; lavorava in una fabbrica di pane a Gerusalemme e nell'industria del turismo a Eilat.
Wilders ha parlato del suo periodo a Tomer in un documentario del 2017 sul portale "Vice": "Spesso dovevamo correre in un rifugio. Poi arrivava l'esercito, c'erano le sirene, si vedevano gli elicotteri - e poi i terroristi che venivano dalla Giordania e venivano fucilati". Wilders ha anche viaggiato in Egitto da Israele. Un arabo lo ha aiutato ad arrivare al Cairo. Quando gli ha detto che veniva da Israele, l'uomo è cambiato completamente: "Ho visto l'odio nei suoi occhi".
Wilders dice che all'epoca era ancora apolitico. La sua critica radicale all'Islam non si è sviluppata da un singolo evento, ma per gradi. Tuttavia, come politico, parla ripetutamente delle sue esperienze in Israele e nel mondo arabo. Forse hanno effettivamente contribuito a formare le sue idee politiche. In ogni caso, a posteriori possono essere integrate in una narrazione corrispondente.
• La critica all'Islam gioca un ruolo importante nel suo atteggiamento verso Israele Nel rapporto tra Wilders e Israele, egli vede lo Stato ebraico come un avamposto contro l'ideologia islamica totalitaria che identifica anche come minaccia per l'Europa.
In un discorso a una manifestazione di Pegida a Dresda nel 2015, ha dichiarato: "Israele è un faro di libertà e prosperità, circondato dalle tenebre islamiche". Nel 2010, in un discorso a Tel Aviv, ha proclamato: "Il futuro del mondo dipende da Gerusalemme. Se Gerusalemme cade, Atene, Roma, Parigi, Londra e Washington saranno le prossime".
Gli osservatori politici accusano ripetutamente la destra europea di avere un rapporto puramente strumentale con Israele: userebbero lo Stato ebraico solo per colpire i musulmani o per esimersi dalle accuse di estremismo di destra.
Almeno nel caso di Wilders, questa accusa non ha senso. L'olandese - sposato con un'ebrea ungherese - ha ripetutamente sostenuto Israele per troppo tempo, con troppa coerenza e con troppo vigore.
• “Un sentimento speciale di solidarietà" Si è recato nel Paese diverse decine di volte. Nel 2003, ha dichiarato di aver già visitato molti Paesi della regione: "Ma da nessuna parte ho la sensazione speciale di legame che provo ogni volta che metto piede sul suolo israeliano all'aeroporto Ben Gurion". Israele, ha dichiarato nel 2010, è stato per lui "una fonte di immensa ispirazione": "Sono grato a Israele e lo difenderò sempre".
Nel 2017 ha dichiarato al quotidiano israeliano "Israel Hajom" di "amare" il Paese: "Possiamo imparare da Israele: dobbiamo imparare a difenderci, a essere orgogliosi della nostra identità e a combattere il nemico come fa il nemico".
Wilders ha anche colto l'occasione per notare che anche molti dei suoi elettori non hanno gradito le sue parole su Israele: "Ma non cambierò mai, perché questo è ciò in cui credo". In effetti, gli esponenti della destra filo-israeliana come lui sono ripetutamente accusati a destra di vendere l'anima a Israele.
• Sostegno agli insediamenti e a Gerusalemme come capitale Su molti punti, Wilders si spinge addirittura oltre rispetto ad altri sostenitori di Israele. Ad esempio, è favorevole alla rivendicazione di Israele su Giudea e Samaria, cioè la Cisgiordania. Per lui non è "occupata", ma è stata "liberata" dal 1967 ed è "parte integrante dello Stato ebraico", come si legge in un'interrogazione parlamentare del 2019. Una volta ha descritto gli insediamenti come "piccoli avamposti di libertà".
Nel corso degli anni, ha ripetutamente sostenuto Gerusalemme come capitale israeliana e il trasferimento dell'ambasciata olandese lì in iniziative parlamentari, più recentemente dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre. La richiesta si trova anche nell'attuale programma elettorale, dove un intero paragrafo è dedicato a Israele.
In generale, Wilders non vede il conflitto israelo-arabo come un conflitto territoriale, ma piuttosto come uno scontro di ideologie, di libertà da un lato e di barbarie dall'altro. Nel 2018 ha presentato in Parlamento una risoluzione in cui chiedeva al governo di "cessare ogni ulteriore sforzo a favore della 'soluzione dei due Stati'". In fondo, secondo lui, uno Stato palestinese esiste già: la Giordania.
Nel mondo arabo e tra i palestinesi, il successo elettorale di Wilders ha suscitato un certo scalpore, anche a causa di questa opinione. In risposta, il politico ha ribadito la sua opinione ancora una volta via X: "La Giordania è la Palestina!".
Ciò che distingue in parte Wilders da altri politici di destra sono i suoi ottimi contatti con Israele: mentre i funzionari israeliani sono riservati nei confronti di molti politici europei di destra, nel caso di Wilders il timore di un contatto è minimo. Subito dopo la vittoria elettorale di Wilders, il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen (Likud) gli ha augurato buona fortuna per la formazione di un governo. I due hanno poi avuto la loro prima conversazione telefonica: Wilders è un "vero amico di Israele", ha poi annunciato Cohen.
• Contatti con Sharon Nel 2017, Wilders ha dichiarato al programma israeliano "Kanal 12" di avere "ottimi contatti con i leader politici in Israele". È noto che ha incontrato il generale israeliano Amos Gilad, il politico laico di destra Avigdor Lieberman (Israel Beiteinu) quando era ministro degli Esteri nel 2010 e l'ex primo ministro Ariel Sharon (Likud/Kadima). Wilders ha partecipato sia al suo insediamento che al suo funerale e ha parlato di Sharon come di un "modello". L'olandese sostiene persino di essere stato nell'area di massima sicurezza del Ministero degli Esteri e del quartier generale del Mossad, come ha affermato in un'intervista del 2007.
Un articolo del quotidiano olandese "de Volkskrant" ha fatto scalpore nel 2016. Il giornale sosteneva che il servizio segreto olandese AIVD aveva tenuto d'occhio i contatti di Wilders con Israele nel 2009 e nel 2010. Sono stati esaminati, ad esempio, i collegamenti con persone dell'ambasciata israeliana all'Aia. A quanto pare, c'erano "serie preoccupazioni sulla lealtà di Wilders e sulla possibile influenza di Israele".
Wilders è stato rimproverato da Israele nel 2012. All'epoca, il suo Partito della Libertà PVV, come molte altre forze politiche olandesi, stava spingendo per un divieto di macellazione. Mentre il dibattito ribolliva, Wilders ricevette una lettera dall'allora rabbino capo ashkenazita di Israele, Jonah Metzger: consapevole del forte sostegno di Wilders a Israele, il rabbino scrisse: "Ma non si può essere amici di Israele e del popolo ebraico e sostenere allo stesso tempo una legge antiebraica".
(Israelnetz, 14 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Spade di ferro giorno 68 - Il problema del Libano e quello dello Yemen
di Ugo Volli
• La situazione a Gaza
L’operazione dell’esercito israeliano a Gaza prosegue secondo le linee della terza fase, cioè l’assedio alle roccaforti terroristiche. Vi sono stati sostanziali progressi al nord, a Jabalyia, dove ci sono state ulteriori rese dei terroristi e scoperte di depositi di armi e materiali militari. Sono più indietro le conquiste di Khan Yunis, dove sono probabilmente nascosti i massimi dirigenti di Hamas ma anche i rapiti, il che rende più difficile e delicato il lavoro dell’esercito israeliano. L’azione israeliana si è estesa ancora a sud, a Rafah, la città del confine con l’Egitto e dei tunnel di contrabbando da cui sono entrati tanti materiali militari e da dove possono cercare di fuggire i capi terroristi. Da un po’ di tempo non vi sono novità (almeno sui media) riguardo a Gaza city, dove restano ampie zone ancora da bonificare. Ma è chiaro che si tratta ora di una questione di tempo, che l’armata terrorista è sulla difensiva se non proprio in rotta e non ha speranza di rovesciare la situazione. Tant’è vero che vi sono state aperture negoziali da parte israeliana per un nuovo scambio di rapiti con terroristi palestinesi detenuti, contemplando anche la possibilità di una sospensione dei combattimenti. Ma questi tentativi sono stati nettamente respinti da Hamas, che ha dichiarato che per iniziare a trattare vuole che Israele rinunci all’azione militare. L’aggiunta, agghiacciante, è che se la sue richieste non saranno soddisfatte, Hamas è disposta a uccidere tutte le persone che ha rapito. Di alcuni sappiamo che l’ha già fatto, sono state rinvenute delle salme. Ora si profila un ricatto totale. Ma la minaccia in sé di assassinare centocinquanta persone disarmate e imprigionate mostra un livello di criminalità talmente spudorata che dovrebbe colpire tutti, essere non solo una preoccupazione di Israele, ma un problema di natura globale.
• Gli altri fronti
La pericolosità del conflitto si alza sugli altri fronti. C’è il Libano, dove gli scambi sono quotidiani e vi è un dibattito in Israele su come può procedere il confronto con Hamas. Vi è chi, come il capo di stato maggiore dell’esercito Herzi Halevi, che ha dichiarato che Israele non ha interesse all’escalation e il suo comportamento lo dimostra. Altri, fra cui il Ministro della difesa Gallant dicono che non sarà possibile riportare a casa dopo la fine della guerra a Gaza gli abitanti della Galilea se non vi sarà una garanzia sulla loro possibilità di vivere tranquillamente senza la paura di essere bersaglio dei razzi dei terroristi o peggio di un’azione come quella del 7 ottobre. Perché questa garanzia ci sia, il minimo è che Hezbollah si ritiri a nord del fiume Litani, una quindicina di chilometri a nord del confine israeliano, come stabilito dalla delibera dell’Onu che mise fina alla guerra in Libano del 2006. Secondo Gallant, questo ritiro va ottenuto con mezzi diplomatici, se possibile, altrimenti con mezzi militari, il che implica una nuova fase della guerra. Vi è anche il fronte di Giudea e Samaria, dove continua l’azione di polizia, in particolare a Jenin, per eliminare le cellule terroristiche. Va notata a proposito una dura dichiarazione di Netanyahu il quale ha detto che la differenza fra Hamas e l’Autorità Palestinese sta solo nel fatto che il primo tenta di uccidere gli israeliani subito e la seconda attende il momento più opportuno; ma lo scopo è lo stesso.
• Lo Yemen
Ma il fronte che sembra più in sviluppo è quello marittimo intorno allo stretto di Bab el Mendeb, fra Yemen e Gibuti. Dallo Yemen i terroristi Houti, che avevano già rapito dieci giorni fa una nave, da loro presunta di proprietà israeliana, e danneggiate in seguito altre due, hanno dichiarato l’altro ieri di considerare loro obiettivi non solo ogni naviglio di proprietà israeliana, ma anche tutte le navi di qualunque bandiera e proprietà che portano merci verso Israele: un vero e proprio blocco navale su una delle vie di navigazione più importanti e trafficate del mondo. Dopo aver sparato l’altro ieri su una nave militare francese, che ha abbattuto i missili ma non ha replicato al tiro, ieri hanno colpito con un missile da crociera una petroliera norvegese, la “Strinda”, provocando un grave incendio. La ragione addotta dagli Houti, armati e finanziati dall’Iran, è che la Strinda sarebbe stata diretta in Israele. Il che naturalmente è del tutto illegale dal punto di vista del diritto internazionale, e sembra sia anche fattualmente sbagliato: pare infatti che la petroliera fosse diretta in Italia. Si tratta di una situazione evidentemente inaccettabile, che rischia di creare problemi all’Europa ancor più che a Israele. I giornali israeliani affermano che, probabilmente su richiesta dell’Arabia Saudita, Biden avesse domandato qualche tempo fa a Netanyahu di non rispondere agli attacchi degli Houti, quelli marittimi come quelli ripetutamente condotti da loro con missili di lunga portata forniti dall’Iran contro il territorio israeliano (che dista circa 1700 chilometri). Israele aveva accettato questa richiesta, a patto che gli Stati Uniti provvedessero a garantire la tranquillità della navigazione nello stretto. Ma oggi i media israeliani hanno riferito con rilievo che le nuove modernissime e ben armate corvette israeliane Sa’ar 6, entrate in servizio due anni fa, sono entrate nel Mar Rosso per la loro prima missione di guerra. È probabile che la loro missioni riguardi proprio i ribelli Houti.
(Shalom, 13 dicembre 2023)
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La Puna molla Israele. E Biden sgambetta Bibi
L'azienda tedesca (col fondatore dal discusso passato nazista) comunica la fine del contratto con la federcalcio. Parte l'esultanza dei gruppi per il boicottaggio.
di Maurizio Stefanini
La tensione per il conflitto in Medio Oriente spinge la Puma, nota azienda tedesca di abbigliamento sportivo, a interrompere la sponsorizzazione della squadra nazionale di calcio israeliana. Secondo il quotidiano britannico Financial Times la decisione è stata presa un anno fa e non è legata alle proteste di alcuni gruppi di attivisti che chiedono di boicottare i prodotti dell'azienda tedesca a causa dell'operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza. «Dal 2024, la terza azienda di abbigliamento sportivo al mondo non fornirà più attrezzature alla nazionale dopo aver deciso di non rinnovare il contratto con la Federcalcio israeliana», rivela il quotidiano che cita un documento interno della società.
La partnership tra Puma e la nazionale israeliana, siglata nel 2018, aveva già provocato una campagna di boicottaggio contro l'azienda, accusata di sostenere gli insediamenti israeliani in Cisgiordania.
• CRITERI DI SELEZIONE «La decisione di Puma di interrompere la sponsorizzazione della nazionale di calcio israeliana è stata presa per ragioni finanziarie. Fa parte di una più ampia strategia nota come "meno è, meglio è" secondo cui la società sarà più selettiva nel marketing sportivo. Nell'ambito della nuova strategia, l'azienda interromperà anche la collaborazione con squadre di altri Paesi per motivi finanziari. In realtà, si è poi saputo che in realtà il contratto tra le parti è stato recentemente prorogato fino al 31.12.24 e solo allora terminerà. Alcuni in azienda sostengono che «non c'è alcun collegamento con la guerra», ma piuttosto una decisione da parte di Puma di spostarsi e rappresentare solo grandi squadre.
Allo stesso tempo, va notato che Puma veste il Maccabi Tel Aviv di basket in virtù di un contratto in scadenza fra due anni. Puma ha rifiutato di commentare ufficialmente l'articolo e le fonti hanno notato che, nonostante gli appelli al boicottaggio di Israele, dal 2018 (data dell'accordo iniziale con l'Ifa), le sue vendite sono aumentate e nel 2022 sono quasi raddoppiate rispetto al 2018, fino a raggiungere a 8 miliardi di euro.
A festeggiare è stata l'organizzazione Bds, che coordina il boicottaggio contro Israele, e che si è vantata: «Grazie al Bds, Puma è stata costretta a rescindere il suo contratto di sponsorizzazione con la Federcalcio israeliana. Puma è stata un bersaglio della campagna globale BdS da quando ha iniziato a sostenere l'apartheid israeliano nel 2018, che opprime milioni di palestinesi». «È anche una lezione per la Fifa, dominata dall'Occidente, che continua a difendere Israele dalle sue responsabilità nonostante i gruppi di coloni violino le sue leggi».
Qualcuno sta ora ricordando che la Puma fu fondata dai due fratelli Rudolf e Adolf Dassler. Entrambi aderirono al nazismo, ma poi Adolf iniziò a prenderne le distanze, al punto che quando Rudolf fu arrestato dagli Alleati accusò il fratello di averlo denunciato.
A Gerusalemme, oltre a sostenere l'impatto sociale ed economico della mancanza di sponsor, devono far fronte anche alla ben più rilevante contrarietà del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, a una nuova occupazione della Striscia da parte dello stato ebraico. «Questo è il governo più conservatore nella storia di Israele», ha sottolineato Biden, richiamando il premier israeliano Benjamin Netanyahu alla necessità di una «decisione difficile da prendere», ossia, «rafforzare e cambiare» il suo esecutivo per trovare una soluzione a lungo termine al conflitto israelo-palestinese. Il riferimento è ai partiti ebraici ortodossi che sostengono i coloni.
• NO A UN'ALTRA OSLO Lo stesso Netanyahu, tuttavia, ha ribadito per l'ennesima volta che la sua posizione non cambia e «Gaza non sarà un Hamastan e nemmeno un Fatahstan», ha spiegato, chiudendo a ogni ipotesi di un futuro controllo della Striscia da parte dell'Autorità nazionale palestinese. Fino ad avvertire che non permetterà «che Israele ripeta l'errore di Oslo» , cioè gli accordi del 1993 tra Rabin e Arafat da cui nacque un primo embrione di autogoverno palestinese.
Ieri l'assemblea generale all'Onu, riunita su richiesta di un gruppo di Paesi arabi, ha discusso una risoluzione non vincolante che chiede un «immediato cessate il fuoco umanitario». Il testo, sulla falsa riga di quello approdato venerdì scorso in Consiglio di sicurezza - e respinto a causa del veto Usa - mira a rafforzare la pressione su Israele e gli americani. In favore si sono espressi 153 Paesi. Dieci i contrari, tra i quali Israele e Stati Uniti, e 23 gli astenuti. Nel testo si chiede un rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas a Gaza. Tra i Paesi astenuti figurano sia il Regno Unito sia l'Italia sia la Germania. Favorevoli invece Spagna, Francia e Belgio. Con loro hanno votato Cina, Russia, Giappone e Brasile.
Libero, 13 dicembre 2023)
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L'ultimatum degli Usa a Netanyahu
Biden a Bibi: "State perdendo il sostegno del mondo, governo estremista. Accettate i due Stati".
di Fiamma Nirenstein
Biden con mossa improvvisa e forse legata all'ambiente di votanti democratici ha detto a Netanyahu due cose finora rimaste sottintese: la prima che Bibi deve cambiare strada nel delineare l'uscita dalla guerra, mostrandosi più aperto verso l'Anp; e poi, diretto al limite dell'intromissione, ha chiesto di modificare il suo governo, «è troppo di destra - ha detto - per avere la legittimazione necessaria a una guerra tanto difficile, state perdendo il sostegno del mondo». Domattina però Biden, che ci tiene a Israele e lo ripete sempre, incontrerà le famiglie dei rapiti, che in Israele sono in marcia verso la Knesset. Nelle stesse ore, l'assemblea generale dell'Onu ha approvato una risoluzione che chiede un «cessate il fuoco umanitario immediato a Gaza. Solo 10 i voti contrari, tra cui Israele e Usa.
La situazione è ancora più drammatica, i corpi di due ostaggi, Eden Zakaria uccisa alla festa da ballo, 27 anni, e Ziv Dado, un ufficiale di 36 anni, sono stati recuperati al costo della vita di due soldati, Gal Eisenkot figlio del membro del gabinetto Gadi, e Meir Eyal Berky. Le sofferenze dell'inferno sono l'unico paragone possibile per le famiglie che ieri di nuovo hanno marciato sull'autostrada da Tel Aviv a Gerusalemme. Non si capisce ormai come tirino avanti le vecchie madri, le mogli sole coi bambini, i mariti, alla 12esima settimana, stupefatti da una solitudine vuota di notizie. Stravolti, smagriti, senza altro sogno che quello di riunirsi ai propri amati. Ci sono ancora 137 persone in mano di Hamas, fra cui anche la mamma e i bambini Bibas, su cui Israele non si vuole arrendere.
«La cattività è una roulette russa» ha detto Sharon Alony Cunio 34 anni, rapita e tornata con le sue due gemelle Emma e Julie di tre anni, mentre il marito David è ancora nelle mani degli aguzzini. Ha parlato in un'intervista alla Reuters: «Là sotto non hai idea se pensano di tenerti in vita o di ammazzarti domattina». Sharon ha raccontato come l'abbiano separata da una delle due bambine per dieci giorni, lasciandola con l'altra, ignara della sua sorte in un sotterraneo buio senza aria, quasi senza cibo, senza gabinetto, e costringendola tutto il tempo a zittire la piccolina. D'un tratto che la porta si è aperta per buttarle nelle braccia anche Emma; da allora sono rimaste tutti in una stanza in 12, a dividersi pochissimo cibo: «Tutti ne davano un po' per le bambine - ha detto - tenevamo un quarto di pita per il giorno dopo, ogni tanto qualche dattero e del formaggio». L'aria poteva entrare solo quando l'elettricità veniva tagliata, aprendo la porta. I medici e gli psicologi che hanno parlato con le donne tornate raccontano terribili violenze di ogni tipo.
Il governo e l'esercito seguitano a mettere i rapiti al primo posto, diversi soldati hanno perso la vita nelle gallerie. Ieri si è riaperta una porta per lo scambio, stavolta con la mediazione del Qatar e dell'Egitto, e si discute della liberazione oltre che di donne e bambini anche di vecchi e malati. I soldati restano un jolly nelle mano di Sinwar. Si dice che stavolta sia in ballo anche il rilascio di terroristi duri come Marwan Barghouti, cinque ergastoli, visto come il possibile nuovo leader dell'Anp. Cosa occorre perché gli scambi possano riprendere? Sinwar, dopo Biden, si sente più sicuro di sé. Sinwar dovrebbe vedere per cedere l'eliminazione dei suoi luogotenenti, come Deif, e non solo la cattura dei suoi scherani e la sofferenza del suo popolo, che anzi lui promuove perché gli crea visibilità e consenso. Semmai, cambierebbe le cose una ribellione più marcata della gente di Gaza, che ancora non lo contesta abbastanza. La verità è che sia la sofferenza dei prigionieri di Hamas, che quella della gente di Gaza è frutto sia della pazzesca crudeltà e senso di onnipotenza di Sinwar, come anche delle piazze impazzite di Europa e America. Di questo Sinwar si fa scudo. Basta studiare per capire che è un imbroglio. Fu l'antisemitismo a distruggere l'Europa, tutta quanta, e anche quello era un imbroglio.
(il Giornale, 13 dicembre 2023)
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Come volevasi dimostrare: gli Usa sono "un sostegno di canna rotta che fora la mano di chi vi si appoggia e gliela fora". Loro difendono la libertà. La libertà del mondo occidentale naturalmente, quella loro, mica l'esistenza di Israele. Se vuole continuare ad esistere, Israele deve acconciarsi all'idea di mantenere vicino a sé un'entità che si propone come unico scopo che Israele cessi di esistere. Poco fa Putin ha chiesto ad Hamas che restituisca tutti gli ostaggi. Una mossa puramente propagandistica, dirà qualcuno, ma Biden non ha saputo fare nemmeno questo. Incontra le famiglie dei rapiti e invece di scandalizzarsi ad alta voce dell'inumana barbarie di quei rapitori di uomini, donne e bambini, invece di rivolgere terrificanti minacce agli hamassani in caso di prosecuzione della loro atrocità, rivolge ammonimenti e sostanziali minacce al capo del governo israeliano. Obama, Biden finti amici di Israele che è meglio perdere che trovare. M.C.
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Quel filo che lega Hamas a Hitler
Dalla Germania 1933 a Gaza, il viaggio della menorah più famosa e tragica della storia.
di Giulio Meotti
Persino l’accensione della menorah – il rituale ebraico di Hanukkah – è oggetto di cancellazione sulla base del fatto che è “offensiva” o “infiammerebbe le tensioni”. Se nel campus di Yale ieri studenti hanno avvolto la menorah con una bandiera palestinese, il sindaco di Calgary, Jyoti Gondek, ha annunciato che non avrebbe preso parte all’illuminazione della menorah della città, il primo sindaco a farlo nei 34 anni di storia dell’evento. Gondek ha dichiarato che la sua presenza sarebbe stata vista come “scegliere da che parte stare” nel conflitto Israele-Hamas.
Il quartiere londinese di Havering ha annunciato la cancellazione della sua accensione annuale della menorah, perché l’evento “non sarebbe privo di rischi” e “potrebbe rischiare di infiammare ulteriormente le tensioni all’interno delle nostre comunità”. A Moncton, in Canada, i funzionari della città hanno annunciato che la tradizione ventennale di esporre una menorah nel municipio sarebbe stata interrotta, perché la città dovrebbe essere “neutrale per quanto riguarda la religione”. A Williamsburg, in Virginia, niente menorah. “Chiunque sia ancora aggrappato alla convinzione che esista una differenza tra odiare gli ebrei e volere che Israele scompaia, ora deve spiegare un’altra verità scomoda” spiega Newsweek. “Le celebrazioni di Hanukkah negli Stati Uniti, in Canada e altrove sono state cancellate”. Sempre meglio che la festa di Hanukkah in una sinagoga di Göteborg interrotta dalle bombe molotov scagliate da una banda di arabi mascherati. Hanukkah celebra la vittoria ebraica dei Maccabei contro l'impero ellenista di Antioco, noto come “Epifane”, nel 165 a.C., in Giudea e la riapertura del Tempio di Gerusalemme. I Greci profanarono il Tempio di Gerusalemme introducendovi una statua di Zeus davanti alla quale gli ebrei dovevano prostrarsi. Per Hanukkah, gli ebrei accendono un candelabro e una candela in più ogni giorno per simboleggiare la vittoria della luce sulle tenebre.
Quando utilizzò la sua macchina fotografica compatta per catturare la vista dalla sua finestra nella città tedesca di Kiel in un pomeriggio di dicembre del 1931, Rosi Posner fece molto più che scattare un'istantanea. In primo piano, una menorah in ottone; sullo sfondo, l'immagine agghiacciante di una bandiera con la svastica che sventolava dal quartier generale nazista di fronte al suo. “La maggior parte degli ebrei, dopo l’ascesa dei nazisti, chiusero le tende in modo che la chanukiah (menorah) non potesse essere vista dalla strada, ma Rosi era determinata a dimostrare che lei e suo marito non avevano paura”, dice Nava Gilo, la nipote. Nascque così la “menorah più famosa del mondo”. La foto fu scattata nella loro casa di Kiel, in Germania, dalla moglie del rabbino Akiva Posner, un mese prima dell’avvento di Hitler. Sul retro della foto la signora Posner scrisse in tedesco: Chanukah 5692 (1932) “Morte a Yehudà”/così dice la bandiera; “Yehudà vivrà per sempre”, rispondono le luci. Il rabbino, dottore in filosofia dell’Università di Halle-Wittenberg, guidò la comunità di Kiel dal 1924 al 1933, fino a quando non fu costretto a lasciare la città dopo esser diventato un bersaglio dei nazisti. Posner aveva infatti protestato pubblicamente, attraverso una lettera alla stampa locale, per l’apparizione in città di manifesti con su scritto “vietato l’ingresso agli ebrei”.
Un anno fa la stessa menorah è stata accesa a Berlino alla presenza del presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier e dei nipoti di Rosi e di suo marito Arthur. Due sere fa, la stessa menorah è stata accesa nel cuore di Gaza da uno dei nipoti della famiglia Posner, arruolato nell’esercito israeliano. Basta girare la foto, scoperta nel 1974, per capire. Sul retro, Rosi Posner scrisse: “Proprio come la bandiera nazista dice che l'ebraismo morirà, così la luce dice che vivrà per sempre”. Intanto una menorah ritrovata nel kibbutz di Kfar Aza, distrutto da Hamas, veniva accesa alla Casa Bianca. Never again is now.
Il Foglio, 13 dicembre 2023)
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Ostaggi a Gaza in pericolo: per il 75° anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, un appello per un rilascio immediato
di Sofia Tranchina
Malnutrizione, carenza di cure mediche e di aria fresca, e torture psicologiche e fisiche: iniziano a trapelare, lentamente, le condizioni degli ostaggi a Gaza che da 63 giorni preoccupano Israele.
Per questo, in occasione del 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948), il Forum degli ostaggi e delle famiglie scomparse, un’organizzazione di volontariato creata per rappresentare e aiutare gli ostaggi e i dispersi, ha pubblicato un appello per un intervento internazionale.
Nel rapporto è reiterato in più punti che «il rapimento e la detenzione arbitraria violano diversi standard internazionali delineati nella Dichiarazione Universale dei diritti umani, compreso il Patto internazionale sui diritti civili e politici (articoli 6, 7, 9, 10) e la Convenzione sui diritti dell’infanzia (articoli 6, 9, 19)».
Il gruppo invita «tutti coloro che detengono il potere» ad agire «per i diritti umani fondamentali con tutti i mezzi necessari»: chiedono «il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza» e «che agli ostaggi siano fornite cure mediche immediate».
Tra mogli che hanno dovuto lasciare i mariti nel calvario della cattività, madri che hanno lasciato i figli e figli che hanno lasciato i padri o i fratelli, ancora oggi le reticenze superano le testimonianze, per paura delle ripercussioni sui cari rimasti indietro ma anche per paura delle minacce mosse dai terroristi: «sappiamo dove abitate, vi verremo a cercare».
Ciononostante, tra referti medici e interviste ai parenti inizia a prendere forma il quadro delle condizioni di chi ancora è trattenuto a Gaza – si ritiene che siano ancora 138 gli ostaggi, anche se l’IDF ha confermato la morte di 18 di loro – ed è un quadro dell’orrore.
• I racconti dei liberati
Ha aperto la pista alle testimonianze il giovane Jimmy Pacheco, del primo gruppo dei rilasciati: dopo aver assistito al trucidamento del suo datore di lavoro, è stato trascinato – pur essendo filippino e non avendo mai fatto il soldato – a Gaza, dove è sopravvissuto a stento alla fame.
«Ci davano una pita sola per tutta la giornata. Dopo pochi giorni, l’acqua che ci davano era salata e fangosa, e io avevo già sofferto di problemi ai reni».
Per sopperire alla sete e alla fame, non usava i pezzetti di carta igienica che gli venivano concessi per defecare: «li tenevo da parte, e li mangiavo quando avevo fame. Eravamo una quarantina di metri sottoterra, era freddo e umido e la carta igienica umida placava un po’ la fame e la sete».
Alony-Cunio ha raccontato che in prigionia «non sai mai se la sera ci sarà una pita, quindi la mattina ne risparmi un po’ per la sera, e un po’ per la mattina dopo».
Anche Keren Munder, sua madre e suo figlio di nove anni – che hanno dovuto dormire su sedie di plastica – hanno sopportato giorni di fame, mangiando solo pita. Keren e sua madre hanno entrambe perso sette chilogrammi di peso corporeo.
L’appello del forum punta l’attenzione sulla mancanza di cure mediche per gli ostaggi affetti da malattie croniche precedenti, quali diabete, asma, osteoporosi, anemia, malattie infiammatorie intestinali, ipotiroidismo, malattie cardiache, epilessia, ipertensione, e cancro.
«La mancanza di un trattamento adeguato porterà, e ha già portato in molti casi, a condizioni immediate di pericolo di vita».
Inoltre, a molti degli ostaggi rilasciati sono state diagnosticate nuove gravi malattie legate alla prigionia, tra cui ictus, aritmia, malattie infettive, e ridotta funzionalità polmonare e renale.
Una donna di 84 anni è stata ricoverata in ospedale in condizioni critiche e potenzialmente letali, non avendo ricevuto cure adeguate durante la prigionia, mentre un altro ostaggio liberato ha avuto bisogno di un intervento chirurgico.
Yagil e Or Yaacov (di 12 e 16 anni) sono stati marchiati sulle gambe con bruciature inferte dalla marmitta di una moto, per «renderli riconoscibili in caso di fuga».
Alcuni ostaggi sono stati picchiati, torturati, e tenuti con catene alle caviglie, mentre altri sono stati trattati – per quanto possibile – in modo decente, a seconda di chi li aveva in mano.
Ma persino Yocheved Lifshitz – la donna di 85 anni diventata nota per aver stretto la mano al suo carnefice augurandogli Shalom (pace), la quale ha inizialmente detto di essere stata “trattata umanamente” dai suoi carcerieri (benché vi sia il sospetto che abbia parlato così sotto la minaccia che pende sul marito ancora in ostaggio) – ha esternato preoccupazioni: «gli ostaggi rischiano di morire», a causa della «mancanza di aria, cibo e medicine».
Ad oggi, Hamas continua a negare l’accesso al Comitato Internazionale della Croce Rossa.
«Le ripetute richieste di visitare e valutare le condizioni degli ostaggi, di consentire l’accesso agli aiuti umanitari e di consentire contatti familiari sono state tutte respinte. Impedire deliberatamente di ricevere le cure mediche necessarie costituisce una grave violazione dei diritti umani e mette direttamente in pericolo la loro vita. Le risoluzioni UNSCR 1820 (2008), 1888 (2009), 1960 (2010), 2106 (2013), 2122 (2013) e 2493 (2019) sottolineano la necessità di fornire cure specializzate alle donne, bambini e individui. Di conseguenza, le azioni di Hamas – che ha preso oltre 240 ostaggi – costituiscono una violazione chiara e inequivocabile del diritto internazionale».
Le testimonianze rivelano anche violenza di genere, deturpazione dei volti e decapitazioni. Sia gli uomini che le donne hanno subito violente aggressioni di natura sessuale, stupro aggravato e mutilazione del seno e dei genitali.
Omer Niv, vicedirettore dell’ospedale pediatrico Schneider, ha dichiarato all’Ansa che ci sono stati anche casi di abusi sessuali su minorenni.
Oltre alle sofferenze fisiche, alcuni ostaggi sono stati minacciati e traumatizzati dai miliziani di Hamas: Dvorah Cohen, la zia del dodicenne Eitan Yahalomi, ha raccontato ai media la prigionia del nipote.
I terroristi lo hanno «costretto a guardare i video degli orrori» del massacro del 7 ottobre ripresi dalle bodycam, e «ogni volta che piangeva i suoi rapitori lo minacciavano con una pistola».
Ad alcuni bambini è stato anche detto «che i genitori erano morti e che Israele non esisteva più e nessuno li avrebbe salvati», e ora, terrorizzati e traumatizzati, i bambini «scoppiano a piangere se vedono un estraneo».
Inoltre, i parenti dell’85enne Yaffa Afar hanno raccontato che gli ostaggi «non hanno fatto la doccia o cambiato i vestiti per l’intero periodo della loro prigionia», e «solo il giorno prima di essere rilasciati hanno ricevuto un nuovo set di vestiti».
Testimonianza che completa quella della dottoressa Hagar Mizrahi, che dopo test medici ha spiegato che i terroristi di Hamas hanno somministrato tranquillanti agli ostaggi poco prima della liberazione «per farli apparire felici».
Anche per questo l’appello ha sottolineato «l’urgenza della situazione, alla luce del danno medico già evidente tra gli ostaggi ritornati in Israele» e ricordato che «ci sono ancora neonati e anziani in cattività, così come individui con esigenze dietetiche uniche»:
«Quanto più a lungo gli ostaggi vengono tenuti prigionieri a Gaza in queste terribili condizioni, tanto maggiore è il rischio di ulteriore malnutrizione con le sue complicazioni».
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Hamas è il nuovo Amalek
Se nella Bibbia Dio ha comandato al popolo di Israele di sterminare gli Amalekiti, perché Israele non può distruggere il regime palestinese di Hamas?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Il Dio di Israele non è lo stesso Dio di allora e di oggi? Qual è la differenza tra gli Amalekiti e Hamas? Tre settimane dopo lo Shabbat nero, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha chiesto la distruzione del regime di Hamas, invocando il comandamento di Dio sugli Amalekiti. Sì, Israele vuole sradicare la memoria di Hamas da sotto il cielo.
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I nostri soldati combatteranno con coraggio e forza un nemico che è più crudele di qualsiasi altro", ha sottolineato Netanyahu. "Ricordate cosa vi hanno fatto gli Amalekiti! Questo è ciò che stiamo facendo, e ora stiamo combattendo Amalek. Le nostre forze armate sono determinate a sradicare questo male, per il bene della nostra esistenza e per il bene dell'umanità. I soldati di Israele fanno parte di una successione di 3000 anni. Sconfiggeremo il nemico assassino e garantiremo la nostra esistenza nella nostra terra. Abbiamo sempre detto: mai più! E mai più è ora".
• IL GIUDIZIO DI AMALEK
Per anni, i rabbini israeliani hanno sottolineato che il giudizio su Hamas deve essere uguale a quello su Amalek. Ciò corrisponde alla Bibbia. "Gli Amalekiti furono i primi terroristi che terrorizzarono le popolazioni dell'entroterra e diffusero la paura. I loro successori moderni sono i terroristi di Hamas. Solo quando saranno sradicati e Gaza sarà smobilitata potremo vivere in pace con i nostri vicini. Se non lo faremo, dovremo prepararci alla prossima operazione", ha detto il rabbino Efraim Salmanowitz nell'estate del 2014 durante l'operazione Strong Rock nella Striscia di Gaza.
Questo è esattamente ciò che sta accadendo nei nostri giorni e se Hamas non verrà distrutto questa volta, terrorizzerà Israele generazione dopo generazione.
Secondo la Bibbia, Dio ordinò a Mosè che Giosuè dovesse "distruggere completamente gli Amalekiti da sotto il cielo". E questo non è accaduto. Dio stesso dichiarò guerra agli Amalekiti, generazione dopo generazione. Durante la migrazione nel deserto verso la Terra Promessa, gli Amalekiti attaccarono i deboli del popolo, i civili. Questo ricorda molto il massacro compiuto dai terroristi palestinesi di Hamas, che hanno agito come mostri il 7 ottobre. Poiché i figli di Israele non avevano spazzato via gli Amalekiti nel deserto, generazioni dopo il re Saul dovette affrontare gli Amalekiti ripetutamente.
• GUERRA DI STERMINIO?
Nei media stranieri, alcuni giornali hanno citato il profeta Samuele e hanno interpretato il discorso di Netanyahu come se avesse dichiarato una "guerra santa di annientamento" contro la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza. "Ora andate a colpire gli Amalekiti, bandite tutti e non risparmiate nessuno. Uccidete dall'uomo alla donna, dal bambino al lattante, dalla corteccia al piccolo animale, dal cammello all'asino". (1 Samuele 15:3)
Sì, questo è ciò che dice la Bibbia e sembra un genocidio, ma non è di questo che Netanyahu stava parlando. Netanyahu ha citato il Deuteronomio 25: "Ricordatevi di ciò che Amalek vi ha fatto durante il cammino quando siete usciti dall'Egitto: come vi ha attaccato lungo la strada e ha ucciso i vostri ritardatari, tutti i deboli che sono rimasti indietro quando eravate stanchi e deboli, e come non hanno temuto Dio. Cancellerete il ricordo di Amalek da sotto il cielo. Non dimenticarlo". Questo versetto sembra più elegante, anche se Dio parla di "cancellare" anche in questi versi.
• RIFIUTO
Dopo che il popolo d'Israele si ribellò al suo capo Mosè a causa della mancanza d'acqua e dubitò di Dio, fu attaccato dagli Amalekiti. Mosè affidò a Giosuè la battaglia di difesa, che vinse con l'aiuto di Dio dopo pesanti combattimenti. Secondo la volontà del Signore, la vittoria doveva essere registrata per iscritto per tutti i tempi, perché "distruggerò gli Amalekiti da sotto il cielo e non saranno più ricordati" (Esodo 17:14). Per inciso, secondo la genealogia biblica, Amalek era nipote di Esaù, fratello di Giacobbe e capostipite degli Edomiti. Gli Amalekiti erano un popolo nomade predatore del sud di Israele e un arcinemico di Israele.
Ciò che è accaduto ora nel Negev meridionale mi ricorda uno scenario abbastanza simile nel Negev, quando i peggiori nemici di Israele, gli Amalekiti, invasero Israele: "Quando Davide e i suoi uomini giunsero a Ziklag il terzo giorno, gli Amalekiti avevano invaso il deserto del Negev e Ziklag. Ziklag fu colpita e bruciata dal fuoco. Le donne e tutti coloro che vi si trovavano furono portati via, giovani e vecchi". (1 Samuele 30)
Il popolo gridò al cielo, proprio come il popolo d'Israele ai nostri giorni. Fu come un crollo spirituale della nazione. Le famiglie sono state rapite, allora come oggi, la mattina dello Shabbat. Il popolo è sconvolto, ma lo sono anche i leader.
Dopo la catastrofe, il re Davide grida al cielo. La sua famiglia è in cattività, tutti gli uomini sono stati massacrati. Il popolo d'Israele vuole uccidere il suo re perché lui e il suo esercito hanno fallito completamente. Dov'era la sicurezza, dov'erano i soldati, dov'erano i servizi segreti, dov'era il re? Come è stato possibile conquistare la città di Ziklag che, come i kibbutzim Beeri, Kfar Azza e altri villaggi, si trovava anch'essa nel Negev?
L'intero fallimento e la sicurezza esistente vengono imputati al re Davide. E cosa fa Davide? Si pente e si rafforza nel Signore, il Dio di Israele. Ammette che lui e il popolo hanno peccato. Il pentimento può essere sentito e percepito tra il popolo di oggi, meno tra i politici. Israele deve ripensarsi strategicamente e spiritualmente.
• CHI È AMALEK?
Dal punto di vista ebraico, ogni nazione che proclama l'intenzione di distruggere il popolo ebraico è un Amalek. Secondo i rabbini, Hitler e Stalin erano la manifestazione fisica degli Amalekiti. Ma a quel tempo il popolo ebraico era ancora disperso nella diaspora. Oggi, come nei tempi biblici, abbiamo un nemico nel sud del Paese che vuole distruggere Israele. Nel nostro tempo, sono Hamas e gran parte della popolazione palestinese a voler spazzare via Israele.
Secondo la tradizione biblica ed ebraica, il re assiro Sennacherib reinsediò popoli e tribù, tra cui gli Amalekiti, durante il regno di re Ezechia. Gli Amalekiti biblici furono spazzati via da sotto il cielo, ma esiste ancora il comandamento di ricordare le iniquità degli Amalekiti. Perché? Perché il popolo d'Israele è vivo e "l'eternità di Israele non mente". E finché il popolo d'Israele sarà vivo, nuovi Amalekiti vorranno sempre distruggere il popolo d'Israele.
Ecco perché Israele sta combattendo contro Hamas finché non sarà spazzato via. Così facendo, Israele non difende solo se stesso, ma anche la parola e l'essenza di Dio nel nostro tempo. Mi rendo conto che la maggior parte dell'opinione pubblica mondiale non lo capirà, ma oggi mi preoccupa meno di prima.
(Israel Heute, 13 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Le vittime della guerra e la propaganda contro il “genocidio” israeliano
di Ugo Volli
• Le conseguenze della guerra
In tutto il mondo e anche in Italia è in corso una grande campagna di stampa e anche una intensa mobilitazione di piazza contro Israele per bloccare la campagna militare a Gaza che ha lo scopo di liquidare il terrorismo, accusandola di provocare una inaudita crisi umanitaria e addirittura un genocidio. Sono accuse terribili che rimettono in attività il vecchio stereotipo negazionista degli “ebrei che si comportano con i palestinesi come i nazisti facevano con gli ebrei”, e perciò, al di là dell’assurdità palese di questo pregiudizio, merita di essere approfondito per mostrarne la falsità e la natura propagandistica. È chiaro che una guerra è una situazione molto difficile per chi vi è coinvolto, in particolare per chi viene sfollato per sottrarlo ai pericoli più gravi. Ciò vale per molti abitanti di Gaza, che certamente vivono un momento molto duro. Ma di solito non si dice che un problema analogo vi è anche per i cittadini israeliani stabiliti nella cosiddetta “cintura” di Gaza, fino alla distanza di una decina di chilometri dai confini internazionalmente riconosciuti della striscia. Sono decine di migliaia di persone, fra cui i sopravvissuti di molti villaggi, kibbutz e cittadine che erano stati già devastati dal pogrom del 7 ottobre e che da almeno vent’anni sono soggetti a frequenti bombardamenti missilistici provenienti da Gaza, i quali naturalmente si sono moltiplicati durante questo periodo. Ad essi si aggiungono gli israeliani che hanno dovuto andarsene dall’Alta Galilea, costantemente sotto il tiro di Hezbollah. La crisi dello spostamento obbligato di numeri consistenti di persone è insomma presente da tutte e due le parti del fronte. E la sua responsabilità, in ogni caso, è dei terroristi che non rispettano i diritti della popolazione civile, né di quella di Gaza né naturalmente di quella israeliana.
• Genocidio?
Quando si racconta di un “genocidio di Gaza” però naturalmente non si intende parlare di questo, ma del numero di morti. I dati che stanno alla base di tutte le valutazioni vengono emanati quotidianamente da un preteso “Ministero della sanità” di Gaza, che è di fatto un organismo del governo di Hamas e oggi un suo strumento propagandistico. Dal 20 novembre in poi, addirittura questi dati sono diffusi direttamente dal “Media office” dell’organizzazione. Nonostante il fatto di essere prodotti senza controllo da una parte in causa, che poi è un’organizzazione terroristica, essi sono stati ripresi tali e quali dall’Onu e vengono pubblicati come fatti accertati da tutti i giornali del mondo. Non sono affatto affidabili, come mostrerò subito, ma vale la pena di partire da questi per vedere che cosa dicono. Il primo dato è questo. Alla data di ieri, secondo queste fonti, a Gaza sarebbero stati contati 18.205 palestinesi morti e poco meno di 50 mila feriti più o meno gravi nei due mesi abbondanti di guerra trascorsi dal pogrom del 7 ottobre. È una cifra consistente, senza dubbio, ma che va commisurata ai 40 mila terroristi inquadrati nelle formazioni di Hamas e ai circa 20 mila di altri gruppi terroristi. Se, com’è probabile, intorno alla metà di questi numeri si riferisse a terroristi inquadrati, si potrebbe pensare a un 20% di terroristi eliminati e ad altrettanti feriti incapaci di combattere. Ma poi bisogna pensare anche ai 1400 uccisi deliberatamente e con enorme crudeltà il 7 ottobre. O anche ai 2 milioni circa di abitanti di Gaza e ai 5,4 di sudditi dell’intera Autorità Palestinese, rivendicati dall’Autorità stessa (si tratta di numeri controversi). Basandosi su questa base si può parlare di un tasso di circa lo 0,3% di caduti rispetto al totale della popolazione palestinese. Sono morti naturalmente causati da combattimenti e bombardamenti delle posizioni terroriste, uccisi nei combattimenti nonostante il fatto che Israele abbia fatto ogni sforzo per non colpire la popolazione civile, avvertendola degli attacchi, predisponendo via di fuga e zone franche. Ogni discorso di genocidio con questi numeri e questi fatti è pura menzogna.
• Uomini, donne e bambini
La propaganda palestinista aggiunge a questi totali dei morti e dei feriti dei dati più sofisticati, che distinguono nel totale donne e bambini con l’evidente scopo di cercare di mostrare la “crudeltà” degli israeliani, magari riattivando in questo modo i vecchi stereotipi dell’accusa del sangue. In rete si trovano molte discussioni di questi dati, che non mostrano l’incoerenza e l’inaffidabilità. Qui seguo l’analisi molto dettagliata di un membro del consiglio di “Honest reporting” e “NGO Monitor” che in rete si firma Aizenberg. Sono dati riferiti a qualche giorno fa, ma chiariscono molto bene il meccanismo di falsificazione che sta alla base di questa campagna. Bisogna partire dal fatto che alla data del 3 dicembre, Hamas riportava 15.523 morti, di cui 4.257 donne e 6.387 “bambini”. Gli uomini uccisi sarebbero un migliaio meno dei bambini. Il totale fa 10.644, cioè più dei due terzi sono donne e bambini che non fanno parte delle truppe terroriste. È ragionevole che le vittime di un combattimento, non di una persecuzione siano per lo più bambini? Aggiungeteci qualche vecchio, degli uomini che non fanno parte delle milizie e arrivate alla conclusione di Aizenberg: “È ovvio che Hamas non riporta la morte dei suoi combattenti o li traveste: i numeri sembrano sorprendentemente indicare che le bombe e i proiettili dell’esercito israeliano colpiscono in modo sproporzionato donne, bambini e anziani. Sembra che Israele non possa colpire uomini in età da combattimento. Ma sono numeri falsi”. Questa sistematica manipolazione dei dati risulta più chiara se si esaminano in dettaglio, guardando a come cambiano i numeri giorno per giorno.
• L’analisi dei singoli giorni
Vale la pena di riportare integralmente l’analisi di Aizenberg: la menzogna della propaganda terrorista diventa evidente per la prima volta nel rapporto del 19 ottobre; qui Hamas riporta 3.785 morti contro 3.478 del giorno precedente cioè dichiara un aumento di 307. Ma i bambini uccisi secondo Hamas, che il giorno prima erano 853, salgono magicamente a 1.524 aumentando di 671 unità [ben più del totale dei morti di quel giorno]. Il 18 ottobre i decessi complessivi comprendevano il 25% di bambini, ma il giorno successivo la percentuale complessiva passa di colpo al 40%. Non viene fornita alcuna spiegazione. Non si trova alcuna correzione di questa assurdità in date successive. Il conteggio ricomincia da 1.524 e continua ad accumularsi fino ad oggi. Nessuna domanda, nessuno scetticismo da parte delle Nazioni Unite, delle ONG o dei media su come il numero dei bambini uccisi aumenti all’improvviso in questo modo. Ma ci sono altre falsificazioni in date successive. Il 26 ottobre Hamas riporta 7.028 vittime contro le 6.547 del giorno precedente, con un aumento di 481. Nello stesso però giorno la somma di donne e bambini uccisi aumenta di 626, più dei morti totali, Ancora il 29 ottobre sono stati segnalati 302 nuovi decessi, ma in qualche modo questi 302 comprendevano199 donne e 129 bambini, per un totale di 328, vale a dire 26 morti in più rispetto al totale. Il 31 ottobre sono segnalati 8.525 decessi contro 8.309 del giorno precedente con un aumento di 216. Le nuove vittime tra donne e bambini sono state 210. Ciò significa che solo 6 uomini di qualsiasi età risultano eliminati quel giorno: meno del 3 per cento delle vittime sono uomini adulti, in età da combattere. La stessa cosa accade il 7 novembre: Hamas riporta 10.328 vittime totali contro le 10.022 del giorno precedente con un aumento di 306. I nuovi decessi di donne e bambini segnalati 302. Ciò significa che solo quattro uomini di qualsiasi età hanno perso la vita quel giorno, l’1,3% delle vittime. Sono dati insensati, cioè costruiti solo per fare impressione sui funzionari dell’Onu e sui giornalisti ben felici di cascarci, dato che danno un’immagine negativa di Israele. Si potrebbe continuare, ma non ne vale la pena. Una cosa è certa: i numeri del “genocidio” proposti da Hamas e i suoi tifosi sono falsificati e in modo decisamente grossolano. Ma su di essi si basa la criminalizzazione di Israele.
(Shalom, 12 dicembre 2023)
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La vittimologia palestinese e l’odio antioccidentale
di Davide Cavaliere
Continuano, in tutta Italia ed Europa, le manifestazioni a sostegno della Palestina. Se si osservano, da vicino, tali esibizioni pubbliche di odio anti-israeliano e antiamericano, ci si rende subito conto che sono formate, principalmente, da immigrati magrebini e militanti dell’estrema sinistra.
Una simile composizione, oltre a gettare una luce inquietante sulle comunità islamiche installatesi in seno alle società occidentali, certifica l’esistenza di quella che, già nei primi anni Duemila, lo studioso francese Pierre-André Taguieff aveva definito «Islamo-gauchisme», ossia l’alleanza tra l’Islam politico e la sinistra radicale.
Il conflitto israelo-palestinese è oramai stabilmente inquadrato come confronto tra «colonizzatori» bianchi di origine europea e «colonizzati» arabo-musulmani, dunque «neri» o comunque «non-occidentali». Leggere in proposito il commento alle tesi presuntivamente «anticolonialiste» di Ilan Pappé, ideologo di punta del palestinismo.
Chiunque si consideri antirazzista, di conseguenza, non può che schierarsi dalla parte degli arabo-palestinesi, identificati come «oppressi» insieme a tutta una lunga serie di categorie che include gli afroamericani, i clandestini, le donne e le minoranze etniche e sessuali. Gli immigrati musulmani, spesso e volentieri scarsamente integrati, vedono in queste forme di sostegno alla «causa palestinese» un modo per legittimare la loro avversione alla civiltà occidentale. Il secolare jihad islamico contro gli ebrei può essere così presentato come «resistenza» al sionismo, movimento nazionale sorto sul suolo europeo e pertanto intrinsecamente «razzista».
I propagandisti dell’antisionismo, sia islamici che terzomondisti, hanno edificato una retorica vittimistica attorno alla figura del «palestinese», che si è gradualmente confusa con quella del «musulmano», del «migrante» e del «nero». Questo disordine concettuale, capace però di alimentare un immaginario esotico e libertario, ha permesso di articolare l’antisionismo come lotta contro la discriminazione, la xenofobia e il colonialismo.
Negli ultimi anni, almeno dal 2018, la sinistra filopalestinese, fiancheggiata dagli islamisti presenti nelle agenzie delle Nazioni Unite, ha fabbricato il mito della «Nakba», ovvero l’esodo che gli arabi di Palestina si sono autoinflitti all’indomani della fondazione dello Stato d’Israele, reclamizzata come un Olocausto parallelo e speculare a quello subito dagli ebrei per mano nazista.
Si tratta del tentativo, ideologicamente perverso, di sostituire la Nakba alla Shoah nella coscienza occidentale. Si sta facendo strada, soprattutto nelle università, la tesi secondo cui lo sterminio degli ebrei europei altro non sarebbe che «un crimine di bianchi nei confronti dei bianchi». Insomma, una sorta di guerra intestina tra oppressori, a cui dovrà necessariamente subentrare la Nakba, autentico crimine perché inflitto da «bianchi» a «non-bianchi».
Questo nuovo negazionismo, che nasce ancora una volta a sinistra, più sottile di quello promosso da Garaudy e Rassinier, rischia di essere moralmente e politicamente devastante. La Shoah non viene negata, bensì subordinata alla Nakba, affinché questa, col tempo, renda invisibile la prima.
L’intellettuale antisionista Edward Said disse: «I palestinesi sono le vittime delle vittime». I suoi discepoli sono andati ben oltre. Gli israeliani, dunque gli ebrei, sarebbero «oppressori» da sempre, magari meno dei nazisti, ma comunque oppressori. Il neo-negazionsimo si propone di rimettere le cose in ordine.
L’alleanza tra islamisti e sinistre radicali rappresenta il patto Molotov-Ribbentrop del XXI secolo. Una coalizione tenuta insieme dall’odio verso Israele, che altro non è se non l’espressione più immediata e visibile dell’avversione alla modernità occidentale, ridotta al «colonialismo», al «razzismo» e al temuto «capitalismo».
Il rancore contro l’Occidente liberale trova un trait d’union nella mobilitazione antisionista. La demolizione della civiltà occidentale, ebraico-cristiana ma anche illuministica, passa attraverso l’assalto a Israele. Si tratta di un odio esercitato «nel nome dell’Altro»: il Palestinese, il Nero, il Migrante, vale a dire gli idealtipi della martirologia antioccidentale.
In questo ipermercato di vittime, il Palestinese rimane tuttavia la figura nobile per eccellenza, l’improbabile germoglio di tutte le ingiustizie, l’epitome di tutte le oppressioni. Il Palestinese è una finzione ideologica, come per Lenin e i suoi seguaci il Proletariato, capace come quest’ultimo di generare fantasie messianiche: distruggere Israele per salvare il Palestinese, ossia l’Umanità «oppressa».
Una finzione suicida a cui l’Occidente non smette di credere.
(L'informale, 12 dicembre 2023)
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Un piano di convivenza in Cisgiordania: mettere in salvo i palestinesi e sradicare Hamas
Nell’insediamento di Kfar Etzion si sentono parole inattese in mezzo ai tuoni, come pace o accoglienza dei palestinesi, mentre fuori tutti urlano: impossibile. L’idea di una confederazione in cui c’è terra per tutti.
di Micol Flammini
KFAR ETZION (Cisgiordania) -
L’autobus che parte da Gerusalemme arriva a Kfar Etzion superando sei cancelli gialli, sono le porte d’ingresso di ogni villaggio che si trova dietro la linea verde in Cisgiordania. Il cancello è il confine e il limite di queste bolle israeliane che vengono chiamate insediamenti. A Kfar Etzion, che si trova tra Betlemme e Hebron, si arriva alla fine e il suo cancello giallo non è diverso dagli altri, ma oggi si apre spesso e lascia entrare tutti coloro che vogliono partecipare al funerale di un soldato. Il cimitero è diviso in due, c’è la parte civile e quella militare, quest’ultima, dall’inizio della guerra a Gaza, è stata ingrandita. Due ragazzi che hanno appena iniziato il servizio militare non tolgono gli occhi da quei metri di terreno in più che si è conquistata la morte in breve tempo. Molte famiglie hanno qualcuno a combattere, Eliaz Cohen ha due figli in guerra, uno nella Striscia l’altro sul confine settentrionale. Il terzo è tornato da poco per una ferita. Diluvia a Kfar Etzion, la notte è arrivata presto preceduta dai fulmini, e Cohen dice che c’è tanto bisogno di acqua, perché qui si lavora la terra e prima del sionismo non c’era nulla. E’ un poeta, è nato e vissuto negli insediamenti israeliani, detesta i coloni estremisti: “Non è un problema di immagine, è un problema di morale e di ebraismo. Non puoi comportarti così, non puoi far male ai tuoi vicini palestinesi. Anche noi subiamo atti di vandalismo da parte degli estremisti, ma loro sono soltanto una minoranza, negli insediamenti si lavora per la pace”. Ha un suono stonato la parola pace detta qui, un suono stridulo che non ci si aspetta di sentire e che si confonde fra i tuoni del temporale. Sembra un ossimoro se accostata al mondo, all’universo degli insediamenti che la comunità internazionale non riconosce, anche se tutto qui è inconfondibilmente israeliano. Bisogna andare a fondo, capirla meglio la pace vista da qui. Eliaz Cohen da anni fa parte di un’associazione dal nome esplicito: “Una terra per tutti”, che fa incontrare israeliani e palestinesi per pensare a come rendere la convivenza sicura. “Noi dobbiamo garantire la nostra sicurezza e quella dei palestinesi, abbiamo avuto un’idea nuova, va oltre la soluzione dei due stati, che non ha funzionato. Pensiamo a una confederazione sul modello dell’Unione europea, che tenga dentro tutti i popoli che vivono in quest’area. Uno spazio dai confini aperti, è inutile continuare a parlare di due stati divisi, non può funzionare su una terra che, passata la linea verde, è così mista”. E’ abituato a vedere volti scettici davanti a sé, facce incredule che esclamano senza il bisogno di aprire bocca: ma è impossibile. Si spiega: “Tutta la terra, dal fiume al mare appartiene a tutti. Anche la Germania e la Francia non hanno fatto altro che litigare e uccidersi prima di entrare nella stessa confederazione. Non pensiamo a una federazione sul modello tedesco o americano, ma a stati separati. Ciascuno con le proprie istituzioni, i propri primi ministri e presidenti, ma con una struttura per dialogare. Certo, tutto questo prima di sconfiggere Hamas non è possibile”. Eliaz dice che il sostegno per i terroristi della Striscia in Cisgiordania non è alto, e anche dentro Gaza è poca cosa. Dopo il 7 ottobre, Eliaz Cohen ha parlato con persone vicine ad Abu Mazen, Fatah sa bene che Hamas e Jihad islamico vogliono farlo fuori, e il poeta ha cercato di convincere il presidente dell’Autorità nazionale palestinese che era arrivato il momento non soltanto di una condanna dell’attacco, ma di dire che il 7 ottobre era stato un atto contrario all’islam. “Stava per farlo, lo so per certo. Poi il Jihad islamico ha lanciato il razzo che è finito davanti all’ospedale, tutto il mondo ha accusato Israele, in Cisgiordania ci sono state forti proteste e Abu Mazen non l’ha più fatto”. Dall’insediamento di Kfar Etzion sembra chiaro che il futuro della Striscia non può essere israeliano, è un’opportunità per l’Autorità nazionale palestinese, ma almeno all’inizio dovrà esserci Israele a garantire la sicurezza, sul modello della zona b della Cisgiordania. E Gaza sarà una delle parti della confederazione che, confessa Eliaz, sarebbe stato bello intitolare ad Abramo, ma sono arrivati prima gli accordi, l’idea è sfumata e bisognerà ricominciare a pensare anche al nome. E la bandiera? Si penserà anche alla bandiera, perché dovrà pur esserci un vessillo comune come esiste quello europeo. Ma Cohen frena e ricorda che “prima bisogna sconfiggere Hamas, poi si penserà a tutto. Non esiste un accordo, ma c’è un piano. Noi – intende israeliani e palestinesi – sappiamo come farlo”. L’ambizione è tanto estesa che secondo Eliaz arriverà anche il momento di un esercito comune: “E’ ovvio che il nostro, Tsahal, ha già le capacità e l’esperienza e prima o poi anche i palestinesi saranno ammessi, ci vuole fiducia e capiranno che la minaccia nella regione è rivolta contro tutti noi e viene da Teheran”. Ma “prima bisogna sconfiggere Hamas”, che Eliaz definisce “una combinazione di sunniti che hanno preso i metodi dell’Iran”. E come si sconfigge Hamas? La risposta che viene in questo insediamento che come gran parte di Israele ha mandato i suoi figli a combattere è inattesa: “Mettendo al sicuro i civili”. Anche ora, la parola, civili, proprio come era accaduto con la parola pace, sembra confondersi tra i tuoni, arriva all’improvviso, risuona acuta in lontananza. “E’ una questione morale e di strategia. Dal primo giorno ho pensato che fosse il momento di fare qualcosa in grado di cambiare le cose a Gaza. E non è facile non maledire una guerra per un padre che ha mandato i suoi figli, che ogni giorno riesce a mantenere delle comunicazioni in modi sporadici, che ogni volta che la comunicazione si interrompe pensa che se fino a un secondo prima suo figlio stava bene, l’istante dopo potrebbe essere successo di tutto”, il pensiero va a quelle cinque tombe in più al cimitero di Kfar Etzion, che ogni genitore guarda con paura e rispetto. “Ma come tutti gli israeliani so che la guerra è l’unico modo per eliminare il demonio Hamas e bisogna prendersi cura degli abitanti di Gaza. Dallo Shabak mi hanno detto che hanno identificato circa centomila terroristi, gli altri sono civili e aiutarli è nostra responsabilità”. Ma la Striscia è un territorio asfittico senza vie di uscita, la guerra di Israele è in ogni metro quadrato di territorio, i confini sono il limite entro cui può muoversi la popolazione che finisce ammassata e spaventata in un territorio che è diventato una trappola, una scatola chiusa. Ancora un tuono, ancora una sorpresa, ancora un’idea che sembra arrivare sommersa da un cigolio di “impossibile”, “irrealizzabile”, “impensabile”. “Possiamo farcela, invece”, dice Eliaz probabilmente senza sapere che è la stessa frase che disse Angela Merkel quando decise di aprire le porte della Germania a un milione di rifugiati siriani. Eliaz vuole aprire le porte di Israele ai cittadini di Gaza, e l’impatto sarebbe ben più straordinario. “Nelle prime settimane della guerra, ero tra coloro che premevano affinché il presidente egiziano al Sisi si prendesse un milione e mezzo di civili. Lui ci ha risposto: prendeteveli voi. E io ho pensato: possiamo farcela”. Come? Dove? “David Ben Gurion avrebbe voluto che il Negev venisse popolato, era andato lui a viverci per primo, ma in pochi lo hanno seguito. Lì c’è posto per portare la popolazione di Gaza. E non va scordato che, senza i civili, per l’esercito israeliano sarà più semplice eliminare Hamas. Le prime volte che ho parlato con alcuni funzionari del governo e della sicurezza di questa idea, mi hanno detto che sarebbe stato impossibile. Qualcuno inizia a cambiare idea”. Kfar Etzion esiste perché tanti eventi nella storia di Israele non sono razionali. I primi pionieri erano arrivati negli anni Quaranta, avevano stabilito una fascia di insediamenti religiosi e di sinistra e Kfar Etzion in questa fascia era chiamata “la regina”. Dopo la dichiarazione di indipendenza del ’48, la regina cadde per prima, venne attaccata e subì un massacro simile al 7 ottobre: il primo massacro contro dei cittadini israeliani. Prevedendo che sarebbe arrivato l’attacco, donne e bambini erano stati portati via, chi rimase morì, anche chi si era arreso venne ucciso. Di Kfar Etzion rimaneva una comunità di vedove e orfani a chilometri di distanza. Molti erano sopravvissuti dell’Olocausto e avevano appena subìto un altro eccidio. Vent’anni dopo, durante la Guerra dei sei giorni, quegli orfani andarono a riprendere Kfar Etzion, non avevano dimenticato da dove provenivano, convinsero il premier Levi Eshkol che avevano il diritto di tornare nella terra in cui i loro padri erano stati massacrati. La storia di questo villaggio incapsula tutta la storia di Israele: “Non ci sono altri popoli espulsi dalla loro terra che sono tornati dopo una diaspora così vasta, una cultura così eterogenea e con una lingua morta”, dice Eliaz, che non disdegna la parola insediamenti, non ci vede nulla di sbagliato: “Sono nato in Samaria in un insediamento creato nel 1878, chiamato Petah Tikva, un nome che viene da Isaia, qui tutto è collegato. Esisteva prima che nascesse il movimento sionista di Theodor Herzl. Venne creato da ebrei ultraortodossi che uscirono da Gerusalemme per cercare terre da coltivare, la mia famiglia era partita dall’Europa, dalla Boemia in una di quelle ondate di Gush Emunim. Quello degli insediamenti è diventato poi uno stereotipo”. L’unica fermata dell’autobus di Kfar Etzion è un migunit, un rifugio pubblico, dentro aspettano due soldati, sono giovanissimi, hanno appena iniziato il servizio militare, se la guerra sarà breve non andranno a Gaza, se con il Libano non inizierà un conflitto, non andranno neppure lì. Eliaz Cohen li osserva. “Qui abbiamo deciso di non aspettare il Messia, ma di diventare ognuno di noi un Messia che redime se stesso. E c’è soltanto un modo per far finire la guerra – ripete di nuovo, scandendo le parole, ricordando che questo è il punto principale di tutti i suoi progetti – eliminando Hamas”.
Il Foglio, 12 dicembre 2023)
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Ci sono civili innocenti a Gaza? Un ex residente dice: no
"In ogni casa di Gaza c'è almeno un sostenitore del terrorismo, se non un terrorista attivo".
• NEL VUOTO?
La comunità internazionale sembra finalmente riconoscere che Hamas è un'organizzazione malvagia, paragonabile all'IS. Ma Hamas non esiste in uno spazio vuoto, per citare le ripugnanti osservazioni del Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che ha suggerito che la colpa dell'invasione di Hamas del 7 ottobre è da attribuire a Israele stesso.
I leader mondiali e i media mainstream vorrebbero farvi credere che Hamas esiste in un vakuum. Hamas non rappresenterebbe la popolazione palestinese della Striscia di Gaza. Si suppone che sia come un'organizzazione solitaria che non è sostenuta dal pubblico.
• DOR SHACHAR
Ma questo non è vero! Dor Shachar, ad esempio, è la prova di ciò che tutti a Gaza sanno ma che di solito non osano dire. Nato a Gaza come Ayman Soubach, è fuggito in Israele, si è convertito all'ebraismo e ora è felicemente sposato e vive nello Stato ebraico. Dichiara liberamente che Israele e la comunità internazionale si sono autoconvinti di una menzogna.
"Per anni ho parlato di chi sono veramente [gli abitanti di Gaza]. Di cosa sono capaci di fare. Ma nessuno voleva ascoltarmi. Tutti insistevano sul fatto che il 95% o più di loro sono persone normali, amanti della pace", ha detto Shachar a Channel 12 News. "Tutti si sono autoconvinti di questo".
E non sono solo le masse credulone. Anche i politici più importanti, tra cui i presidenti di Stati Uniti e Francia, hanno dichiarato pubblicamente e ripetutamente che Hamas non rappresenta nessuno e che la stragrande maggioranza della popolazione della Striscia di Gaza vuole solo la pace.
Shachar: "Nessuno che sia nato lì, che sia cresciuto lì, che sia andato a scuola lì, dirà con convinzione che la maggioranza dei cittadini di Gaza è tranquilla. La verità è che il 99% di loro sono terroristi o sostenitori del terrorismo".
• ALTRE ORGANIZZAZIONI TERRORISTICHE
Shachar sottolinea che Hamas non è l'unica organizzazione terroristica palestinese. Precedenti attacchi e massacri sono stati compiuti dalla Jihad islamica, dal PFLP e persino dal partito Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas. Non importa quindi che non tutti a Gaza siano membri attivi di Hamas. Ognuno di loro appartiene o sostiene uno di questi gruppi, e vivono tutti insieme. E, cosa ancora più importante, I loro figli vanno tutti a scuola insieme e assorbono la stessa ideologia alimentata dall'odio.
Shachar ricorda la sua educazione di bambino musulmano a Gaza: "Ci hanno insegnato che tutti gli ebrei devono essere uccisi, che gli ebrei hanno rubato la terra ai nostri nonni, che chiunque uccida un ebreo va in paradiso. Quando questi bambini crescono, uccidono gli israeliani con 'Allahu Akbar' sulle labbra".
Biden, Macron e tanti altri non sembrano capire questo. "Tutti lì sono assassini", ha spiegato Shachar. "In ogni casa, e tenete presente che c’ero anch’io, c'è un terrorista. In ogni casa". Questo non vuol dire che tutti sono armati e uccidono israeliani con le loro stesse mani. Ma non c'è casa a Gaza in cui non ci sia almeno qualcuno che approvi l'omicidio di ebrei. "Sono cresciuto in una casa in cui tutti sostenevano l'omicidio di ebrei", ha sottolineato. "Mio padre ha lavorato in Israele per 27 anni. Quando è avvenuto questo attacco, era felice e ha detto: finalmente li uccidiamo".
• COSA FARE?
Cosa si può fare contro un nemico che non è costituito solo dalle forze armate di Hamas, ma dall'intera popolazione civile nelle immediate vicinanze?
"L'unico linguaggio che capiscono è quello della forza. Se Israele cede alla richiesta di far entrare i cosiddetti 'aiuti umanitari' nel sud della Striscia di Gaza, dimostra loro che non c'è forza, ma debolezza", ha avvertito Shachar. "Lo stesso vale quando si scatenano lungo la recinzione e Israele rilascia di conseguenza più permessi di lavoro".
(Israel Heute, 11 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Hanukkah, la festa che celebra un secondo inizio
Dialogo con rav Haim Fabrizio Cipriani intorno alla festività
di Micol De Pas
La festa di Hanukkah quest’anno ha significati particolari. Il fatto di non avere un animo pronto a festeggiare la rende un appuntamento molto diverso dal solito e la storia stessa su cui si basa, fa riflettere. Ne abbiamo parlato con rav Haim Fabrizio Cipriani. -
- Che valore ha Hanukkah quest’ anno?
Sicuramente possiamo trovarne diversi, ma uno che mi è particolarmente chiaro è quello di reinaugurare. Hanukkah non celebra infatti una inaugurazione, ma una reinaugurazione del Tempio. Credo che sia un punto importante. Dopo questa fase estremamente critica per la storia ebraica sarà necessario trovare nuove modalità di espressione, e nuove forme di energia spirituale.
- Luce e tenebre: una lettura del/sul presente?
Quella fra luce e tenebre è una dicotomia talvolta tracciata in maniera troppo netta. Anticamente l’idea della scuola rabbinica di Hillel, per esempio, era di aumentare il numero di lumi ogni sera, ma secondo la scuola del contemporaneo Shammay il numero di lumi doveva invece diminuire. In entrambi i casi però c’è un movimento, un ricordare che ci troviamo sempre in uno stato oscillatorio fra diversi gradi di luce e tenebra. Oggi senza dubbio una serie di voci e di atti sono volti a nascondere la dignità e lo splendore del popolo ebraico e delle sue emanazioni culturali, spirituali e politiche, relegandole a una tenebra che non possiamo e non dobbiamo accettare.
- Si festeggia una rivolta: che significato e che valore ha dal punto di vista etico e teologico?
In realtà non è del tutto esatto. La rivolta e la guerra che ne seguì furono mezzi necessari per acquisire la libertà e l’autonomia necessarie a vivere in pace e soprattutto in armonia spirituale con la propria identità. I testi rabbinici, a partire dal Talmud, fanno infatti riferimento molto limitato all’aspetto della rivolta e della guerra, ed enfatizzano il miracolo dell’olio, che la festa celebra. Non a caso i Maestri scelsero come motto per la festa il verso di Zaccaria: “Non nella prodezza né nella forza, ma nel mio spirito” [Zac. 4:6]. Proprio perché il conflitto, anche quando è inevitabile, non deve diventare un elemento centrale, ma sempre rimanere un mezzo che tende verso un fine più elevato.
- E il senso dell’olio miracoloso? Potrebbe essere una metafora della forza miracolosa che ha l’uomo in termini di resilienza?
Certamente sì. Il miracolo qui è la capacità dell’ebraismo di rinascere anche quando sembra ormai spento dalle forze, esterne ma talvolta anche interne, che lo vorrebbero relegato a una dimensione museale.
- Quali sono i suoi auguri per Hanukkah?
Il più grande miracolo di Hanukkah non fu che l’olio durasse otto giorni, ma che si trovasse una fiala d’olio e la motivazione per accendere nonostante la fonte d’energia apparisse insufficiente.
Per prima cosa auguro che i nostri ostaggi tornino alle loro case, che lo Stato d’Israele ritrovi pace e unità e che le sofferenze di tutti, senza eccezioni, possano avere fine. Auguro anche un’energia nuova nell’ebraismo mondiale, che sia in grado di trovare quella fiala d’olio in modo non solo di continuare il cammino ebraico, ma di rivitalizzarlo e nutrirlo in modo creativo. Troppo spesso ci si è accontentati, metaforicamente parlando, di riaccendere sempre la stessa candela. Un ebraismo vitale richiede invece una crescita costante e quindi anche una capacità di rinnovamento. “Si cresce in Kedushà/Distinzione, e non si diminuisce” [Rashi, TB Meghillà 26a s.v. אבל מכרו תורה].
- Personaggi e interpreti della storia di Hanukkah. Chi sono e perché diventano esempi emblematici per noi?
La cultura ebraica tende a non avere veri e propri eroi. La forza dei suoi personaggi è proprio quella di essere invece persone normali con le loro luci e oscurità, per riprendere la metafora di prima. A maggior ragione nel momento in cui lasciano prevalere la luce è come se squarciassero un velo e la loro visione si ampliasse dando loro la forza e la determinazione per agire in un modo che potrebbe essere definito come eroico. Nel caso di Hanukkah intanto va osservato che tutti i personaggi sono presentati in libri che non appartengono al Canone ebraico anche perché esistevano solo in greco, aspetto particolare per una celebrazione che ricorda l’opposizione proprio alla cultura greca.
Fra le figure di rilievo abbiamo i Maccabei che chiaramente vedono nel trattamento riservato al popolo ebraico e nell’accettazione supina e spesso condiscendente di modelli di vita greci, la perdita dell’identità ebraica, di valori fondanti e fondativi, di autonomia e diversità, quella distinzione che è scintilla nella piatta uniformità.
Hanna/Anna e Yehudit/Giuditta portano invece la luce della forza d’animo. Yehudit mostra grande coraggio, il suo intelletto è illuminato dall’arguzia, e rapida e decisa agisce senza timore per l’intera collettività a rischio della vita. Hanna è il simbolo di una madre forte che davanti al dolore per la perdita dei figli non rinnega la sua identità e vive con emunà, con fiducia. La morte di Hanna e dei suoi figli non è fine a sé stessa, scatenerà infatti come una risposta immunitaria contro la dominazione “aliena”, risposta che come un domino guiderà le eroiche sollevazioni contro il dominio politico e culturale straniero.
(JoiMag, 11 dicembre 2023)
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La resa di gruppi terroristi e il condizionamento americano
di Ugo Volli
• Gli scontri sul terreno
L’operazione a Gaza prosegue. I combattimenti, soprattutto a Khan Younis e Jabilia sono ormai condotti a distanza ravvicinata e spesso anche nelle gallerie, con agguati e colpi di mano, che purtroppo hanno accresciuto le perdite dei militari israeliani, arrivate ormai al centinaio. Lo sviluppo più significativo nel fine settimana sono state alcune rese di gruppo fra i terroristi di Hamas che sono usciti dai tunnel per consegnarsi all’esercito israeliano. Le fotografie di reparti di uomini in fila in mutande (lasciati così per motivi di sicurezza, per assicurarsi cioè che non portassero armi o cinture esplosive) e condotti verso i loro luoghi di detenzione, è circolata largamente anche nei media arabi, nonostante le puerili giustificazioni di Hamas (“non sono nostri, Israele sta deportando dei civili”). Sono anche emersi conflitti fra la popolazione e l’organizzazione terroristica, che si impadronisce sistematicamente degli aiuti umanitari per destinarli ai propri miliziani invece che alla gente che ha perso la casa e ha dovuto spostarsi per colpa loro.
• Il ruolo dell’Unrwa
La popolazione ha dato in un paio di occasioni anche l’assalto ai magazzini dell’Unrwa, dove erano custodite risorse alimentari non distribuite e forse destinate anch’esse a Hamas. Il ruolo ambiguo di questa organizzazione dell’Onu che in sostanza funziona come ministero del welfare e dell’istruzione di Hamas è emerso anche dalle scoperte fatte dai militari israeliani durante il lavoro di ripulitura dei centri conquistati: tunnel che partivano proprio dalle scuole dell’Unrwa, cecchini appostati nelle aule, armi e altri materiali militari nascosti in sacche con il marchio della stessa organizzazione, terroristi abbattuti che avevano al collo il badge di suoi dipendenti. Per non parlare di quell’insegnante dell’Unrwa che ha fatto il carceriere a un rapito, come egli stesso ha raccontato dopo la liberazione. Per nessuna di queste evidenti dimostrazioni di coinvolgimento nel terrorismo l’agenzia dell’Onu ha chiesto scusa. Questa complicità si incrocia la tattica dei terroristi di tentare di confondersi in mezzo alla gente: c’è abbondante documentazione visiva che dimostra come durante i combattimenti essi non indossino divise o segni di riconoscimento, che sparino dalle case di abitazione, che nascondano fucili e munizioni e razzi nei lettini e perfino negli orsacchiotti dei bambini. Quella in cui è impegnato l’esercito israeliano è un’operazione difficile e lenta, che per arrivare al suo scopo ha bisogno, secondo fonti dello stato maggiore, probabilmente di un altro paio di mesi. Salvo che le cose si complichino al Nord, dove la guerra con Hezbollah è sempre possibile.
• Il voto all’Onu
Ma non è detto che questo tempo ci sia. Sul fronte diplomatico l’avvenimento più importante degli ultimi giorni è stata la votazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu di una mozione promossa dagli Emirati Arabi (sì, lo Stato che ha un rapporto importante con Israele negli “Accordi di Abramo”) e firmata da un’ottantina di paesi, che chiedeva la fine immediata dell’offensiva israeliana. Quel che conta però è il Consiglio di sicurezza coi suoi quindici membri, in parte permanenti, in parte eletti a turno, i quali hanno il potere di prendere decisioni esecutive, imponendo anche sanzioni e perfino schierando truppe. Qui la mozione, appoggiata dal segretario generale Guterres, è stata votata da Cina e Russia e Francia fra i membri permanenti e anche da stati occidentali come la Svizzera fra gli eletti. La Gran Bretagna si è astenuta. Vi sarebbe stata dunque una larga maggioranza contro Israele, se non fosse stato per il veto americano che ha bloccato la procedura.
• I difficili rapporti con gli Usa
Su questo veto c’era stato un po’ di suspense, perché il segretario di stato americano Blinken aveva dichiarato pubblicamente che gli Usa non l’avrebbero usato se Israele non si fosse impegnato a limitare i danni alla popolazione civile e a far entrare maggiori soccorsi a Gaza. Il che è paradossale, perché gli Usa sanno benissimo che i rifornimenti a Gaza vanno per lo più a sostenere lo sforzo militare di Hamas e non alla gente comune e che i terroristi si mescolano alla popolazione usandola come scudi umani, rendendo impossibile combatterli se non a costo di qualche perdita civile. Gli Usa inoltre hanno più volte dichiarato che solo la distruzione totale delle organizzazioni terroristiche può riportare la tranquillità nella regione. Ma per ragioni ideologiche e anche per tener conto della forte pressione dell’ala sinistra del partito democratico e di molte forze intellettuali e dei media americani, impongono a Israele vincoli molto forti nella sua azione. Vi è dunque una tensione sotterranea fra Usa e Israele, com’è sempre successo per tutte le guerre che lo stato ebraico ha dovuto sostenere. In sostanza gli Stati Uniti vogliono sì che Israele viva e stia sicuro, ma temono che se “vincesse troppo” la loro politica internazionale ne sarebbe danneggiata. Di conseguenza i rifornimenti di armi da cui Israele dipende arrivano sì, ma qualche volta solo in parte o con ritardo; e i voti all’Onu sono sempre dati (solo Obama ruppe questa regola, astenendosi su una risoluzione importante alla vigilia della fine della presidenza), ma sempre con qualche condizione aggiunta. È una politica che risale alle origini dello Stato Ebraico e che ha anche condizionato il modo di vedere dei vertici istituzionali e dei servizi e buona parte anche di quelli politici, a cercare sempre compromessi coi nemici, invece di annientarli; perché si sa che questa è la volontà americana.
(Shalom, 11 dicembre 2023)
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Israele bombarda obiettivi iraniani in Siria
Obiettivi iraniani in Siria sono stati bombardati da aerei da guerra israeliani nella notte tra domenica e lunedì.
di Sadira Efseryan
Secondo i media statali siriani sarebbero stati colpiti diversi siti nelle vicinanze di Damasco anche se l’agenzia di stato siriana, SANA, afferma che le difese siriane avrebbero sventato l’attacco che quindi avrebbe provocato pochi danni.
Un comunicato dell’esercito siriano afferma che «intorno alle 23:05 il nemico israeliano ha effettuato un’aggressione aerea dalla direzione del Golan siriano occupato, prendendo di mira alcuni punti nelle vicinanze di Damasco».
«Le nostre difese aeree hanno risposto ai missili dell’aggressione e ne hanno abbattuti alcuni, e le perdite si sono limitate a perdite materiali» ha concluso l’esercito siriano.
Fonti sul posto hanno riferito a RR che ad essere colpiti sono stati un deposito di armi nei pressi di Quneittra, un centro operativo vicino all’aeroporto di Damasco e un punto vicino a Sayyida Zeinab del quale però non si hanno dettagli.
Da Gerusalemme, come al solito, non c’è nessun commento sulla operazione. Dall’inizio della guerra con Hamas dopo la strage del 7 ottobre, Israele ha colpito diverse volte la Siria per impedire che armi iraniane giungessero ad Hezbollah.
Due giorni fa un drone, presumibilmente israeliano, ha colpito un veicolo dove c’erano quattro alti esponenti di Hezbollah. Tra di loro c’era Hassan Ali Dakdouk, figlio di Ali Mussa Dakdouk, ritenuto responsabile delle operazioni del gruppo terroristico nel sud della Siria.
(Rights Reporter, 11 dicembre 2023)
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Netanyahu ad Hamas: “arrendetevi, è finita”
di Alessandro Buchwald
“È finita. Arrendetevi”. Questo, in sintesi, il messaggio di Benjamin Netanyahu rivolto ad Hamas. Il primo ministro israeliano, infatti, ha specificato che diversi terroristi dell’organizzazione palestinese si sono arresi alle forze israeliane negli ultimi giorni. Queste le parole di Bibi in un video-messaggio: “Hanno deposto le armi e si sono consegnati ai nostri coraggiosi combattenti. Ci vorrà più tempo, la guerra è ancora in pieno vigore, ma questo è l’inizio della fine di Hamas. Dico ai terroristi di Hamas: è finita. Non morite per Sinwar. Arrendetevi adesso”. Di contro, Abu Obaida, portavoce delle Brigate al-Qassam, in un messaggio preregistrato trasmesso da Al Jazeera, ha rilanciato: “Diciamo agli israeliani che Netanyahu, Gallant e altri membri del gabinetto di guerra non possono riportare indietro i loro prigionieri senza negoziati. L’ultima uccisione di un prigioniero che hanno cercato di riprendere con la forza lo dimostra”. La situazione è incandescente. Antony Blinken, segretario di Stato americano, alla Cnn ha affermato: “Abbiamo queste discussioni con Israele, anche sulla durata e su come porterà avanti questa campagna contro Hamas. Queste sono decisioni che spetta a Israele prendere”. Da segnalare che, secondo Israele, a Gaza ci sarebbero ancora 137 ostaggi, 20 dei quali sarebbero deceduti, come indicato alla Cnn dall’ufficio del premier israeliano. L’ultima vittima, per la cronaca, sarebbe Sahar Baruch, il 25enne che, a detta di Hamas, sarebbe rimasto ucciso nel tentativo fallito dei militari israeliani di liberarlo. A sua volta, l’esercito israeliano ha rivelato di avere ucciso il nuovo comandante del battaglione Shejaiya di Hamas. Ovvero Emad Qariqa: il tutto sarebbe avvenuto in un attacco aereo nella Striscia di Gaza. Il predecessore, Wissam Farhat, era spirato il 2 dicembre. E anche in quel caso a seguito di un attacco aereo nella Striscia di Gaza. C’è dell’altro. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite domani si riunirà in una sessione speciale di emergenza, dopo il veto americano su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva un “cessate il fuoco umanitario” a Gaza. Il veto degli Usa, pur non essendo il primo utilizzato, ha sollevato diversi mugugni da parte del mondo musulmano, della Russia, della Cina, dei Paesi africani e di quelli asiatici. Il presidente dell’Assemblea, va detto, può convocare una sessione straordinaria ogni volta che uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza – quindi Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito – decide di avvalersi del proprio diritto di veto per impedire una delibera che, di contro, avrebbe ottenuto la maggioranza (9 membri su 15). Da ricordare che il 27 ottobre l’Assemblea si era riunita in maniera straordinaria, anche dopo il veto statunitense, e ha deciso di chiedere “una tregua umanitaria immediata, duratura e prolungata che porti alla cessazione delle ostilità”. Un testo, quello, appoggiato da 120 Paesi, tra cui Francia e Spagna, che è stato respinto da 14 Stati (Usa, Israele e altri 12 Paesi alleati). Peraltro, I ministri degli Esteri di Italia, Francia e Germania hanno annunciato di essere favorevoli alla proposta dell’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, di allestire “un regime sanzionatorio contro i dirigenti di Hamas in solidarietà ad Israele e per contrastare le operazioni terroristiche del gruppo”. In una missiva congiunta, Antonio Tajani, Catherine Colonna e Annalena Baerbock hanno dichiarato il “pieno sostegno alla proposta che dovrebbe permettere all’Ue di colpire i membri di Hamas, i gruppi affiliati e i sostenitori delle sue attività destabilizzanti”. In ultimo, va evidenziato che Netanyahu – in un colloquio telefonico con il presidente russo, Vladimir Putin – ha manifestato la sua contrarietà circa alcune dichiarazioni rilasciate da funzionari russi all’Onu, e in altre circostanze, contro Israele. Netanyahu, a seguire, avrebbe criticato le relazioni tra Russia e Iran. Mentre ha espresso l’apprezzamento per l’impegno russo di rilasciare un cittadino israeliano con cittadinanza russa. Infine, ha precisato che Israele utilizzerà tutti i mezzi, politici e militari, per rilasciare tutti gli ostaggi. Dall’altra parte, come riportato dall’agenzia Ria Novosti, Putin ha rimarcato la posizione di Mosca: la creazione di uno Stato palestinese indipendente, che coesista in pace con Israele.
(l'Opinione, 11 dicembre 2023)
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Se l’Egitto litiga con Gaza i tunnel diventano fogne
Gerusalemme valuta con cautela l'ipotesi di allagare con l'acqua i nascondigli utilizzati dai palestinesi. Ma al Cairo erano meno scrupolosi e usavano liquami.
di Antonio Castro
È dai tempi di Hosni Mubarak (ex presidente egiziano defenestrato nel febbraio 2011 dopo trent'anni di controllo assoluto del Paese), che l'allagamento periodico delle gallerie sotto la striscia di Gaza rappresenta un sistema adottato (e brevettato) per bloccare il narcotraffico (cannabis, oppio, pillole di Tramadol, potente analgesico a base di morfina, eroina, Captagon, della famiglia delle anfetamine), il trasporto di masserizie, armi, bestiame e il passaggio di personaggi sgraditi. Nel 2008 vennero immessi dei gas nei tunnel dalle guardie di frontiera egiziane, 50 minatori morti. Nel dicembre 2009 fu costruito un muro sotterraneo anti contrabbando. Dal 2014 la musica è cambiata, in peggio. Salito "al trono" il generale al Sisi i tunnel scoperti sono stati fatti esplodere. Altri ancora sono stati allagati con acqua di fogna per renderli definitivamente inutilizzabili.
• GALLERIE DA FAR SALTARE Dopo l'attacco terroristico del 7 ottobre contro Israele il problema di come rendere inutilizzabili i tunnel costruiti sotto la Striscia di Gaza ovunque siano diretti (verso l'Egitto, verso Israele, anche con sbocchi sul Mediterraneo per le operazioni di contrabbando verso la costa), è al centro delle riflessioni.
Si sono utilizzate bombe con testate perforanti in grado di penetrare la roccia, provocare un'onda d'urto tale da far precipitare le strutture. Ma anche trattori blindati per "arare" intorno e dentro Gaza. A Sderot, uno dei kibbutz più vicini alla Striscia, neppure i rilevamenti tellurici sono bastati. Neanche la sorveglianza sismica. Se c'è una cosa che i palestinesi sono stati bravissimi a mettere in piedi è l'addestramento di interi plotoni di "talpe". Scavatori professionisti, capaci di perforare sabbia e roccia fino a 60, 70, anche 80 metri di profondità. Ingegneri strutturali, un import costante di cemento e strutture prefabbricate da far invidia a qualsiasi Paese. Peccato che tutto venisse utilizzato sotto terra.
L'Israel Defense Forces stima che il costo finale per il più ordinario dei tunnel scavati si aggiri intorno al milione di dollari. Poi ci sono le strutture più sofisticate, dove possono passare motorette, addirittura binari, c'è la ventilazione forzata e pure l'illuminazione. Bagni, stanze di sicurezza, luoghi di approvvigionamento e riposo.
Una vera e propria città sotterranea (stimata in oltre 500 km di rete), che un tempo serviva al contrabbando o a far passare qualche spione. Oppure a introdursi, lanciare un razzo contro il primo centro abitato e poi scomparire in una botola.
Con il tempo la tecnica è diventata più sofisticata. E anche i sistemi di dissuasione nel caso gli israeliani fossero riusciti a penetrare. Ed ecco allora le trappole bomba, i sistemi di controllo a distanza, le porte blindate per rifugiarsi e rispondere ad eventuali assalti. Nei cunicoli scoperti (oltre 500 bocche di uscita quelle già individuate e fatte saltare), altre probabilmente sono state intercettate ma vengono costantemente monitorate come dimostrano le riprese dai droni che rilevano gli spostamenti di persone tramite scanner termici.
Con 137 ostaggi israeliani (molti con il doppio passaporto americano), ancora in mano alle truppe di Hamas si stanno studiando dopo 60 giorni di combattimenti e una piccola tregua i modi per stanare i guerriglieri senza mettere in pericolo la vita dei rapiti.
L'ipotesi di allagare la rete di cunicoli e grotte artificiali sotto la Striscia è stata ipotizzata alla Casa Bianca. Il Wall Street Journal, tre giorni fa, ha svelato che il genio militare israeliano avrebbe approntato e già messo a dimora cinque potenti pompe idriche vicino al campo profughi di al-Shati a Gaza City, in grado di allagare la rete sotterranea in poche settimane pompando migliaia di metri cubi d'acqua ogni ora nei tunnel.
Fonti del giornale statunitense sottolineano non solo il pericolo di mettere a rischio gli ostaggi ma anche che allagare la "metropolitana di Gaza", come la chiamano i palestinesi, possa provocare danni sul lungo periodo.
• LIQUIDI TRACCIANTI Washington il teme i «potenziali danni alla falda acquifera» e al suolo di Gaza, se «l'acqua di mare e le sostanze pericolose presenti nei tunnel penetrassero», Ma da anni oltre il 90% dei pozzi di Gaza sputano acqua non potabile, tanto che Israele immette (e controlla oltre i valichi) la fornitura idrica potabile, per cucinare e mandare avanti la precaria agricoltura di sostentamento che gli abitanti riescono a realizzare.
A questo punto gli israeliani stanno esplorando altre strade per costringere chi sta "sotto" ad emergere. Le immagini dell'ufficio stampa dell'Idf hanno mostrato la resa di decine di palestinesi in manette e in mutande. Guerriglieri o semplici gazawi? Chissà.
L'altra ipotesi è che insieme all'acqua vengano iniettati liquidi coloranti "traccianti". Per individuare chi è stato a mollo: se avrà la pelle blu dal ginocchio in giù difficile si tratti di un Puffo. E per seguire dai satelliti il viaggio sotterraneo che fa questa sostanza.
Nessuno vuole essere il primo ad esporsi - siamo in piena festività ebraica, Chanukkah o Festa delle Luci che inizia il 8 dicembre e finisce il 15 - ma il timore è che le trattative si siano interrotte per il rifiuto (o l'impossibilità di Hamas) di dare prove concrete dell'esistenza in vita. Si ipotizza che sia questo il motivo per il quale il Mossad (su ordine del gabinetto di guerra) abbia ritirato la delegazione di trattative in Qatar.
Libero, 11 dicembre 2023)
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La Shoah Foundation di Spielberg raccoglie le testimonianze del massacro del 7 ottobre
La USC Shoah Foundation, fondata dal regista Steven Spielberg, ha iniziato a raccogliere testimonianze video delle atrocità commesse dai terroristi di Hamas contro gli israeliani il 7 ottobre, da aggiungere alla raccolta di sopravvissuti all’Olocausto e testimonianze. Qui il link youtube per vedere i video
Spielberg non è direttamente coinvolto nell’iniziativa, ma si è espresso fortemente a suo sostegno. “Non avrei mai immaginato di vedere una barbarie così indicibile contro gli ebrei nel corso della mia vita”, ha detto Spielberg alla fondazione, che detiene la più grande raccolta di testimonianze video al mondo di sopravvissuti all’Olocausto.
Parlando a Fox News dell’iniziativa, Spielberg si è detto scioccato per la violenza perpetrata dai terroristi di Hamas contro gli israeliani, insieme all’ondata di antisemitismo in tutto il mondo negli ultimi due mesi.
“Lo trovo molto, molto sorprendente, perché l’antisemitismo è sempre esistito. O era proprio dietro l’angolo e leggermente nascosto, ma sempre in agguato, oppure era molto più evidente, come in Germania negli anni ’30 – ha detto -. Ma era dai tempi della Germania degli anni ’30 che non vedevo più l’antisemitismo orgoglioso con le mani sui fianchi come Hitler e Mussolini”, ha detto Spielberg.
L’organizzazione con sede negli Stati Uniti sta ora collaborando con i team di produzione in Israele per raccogliere le testimonianze dei massacri del 7 ottobre, quando circa 3.000 terroristi hanno attraversato il confine con Israele dalla Striscia di Gaza via terra, aria e mare, uccidendo circa 1.200 persone.
Spielberg, che ha fondato l’organizzazione nel 1994, ritiene che l’iniziativa “garantirà che le voci dei sopravvissuti agiscano come un potente strumento per contrastare la pericolosa ascesa dell’antisemitismo e dell’odio”.
L’iniziativa arriva durante un’ondata di antisemitismo in tutto il mondo mentre Israele combatte il gruppo terroristico Hamas a Gaza. Israele ha promesso di eliminare Hamas in risposta al massacro del 7 ottobre, lanciando una campagna che ha lasciato in rovina vaste aree della Striscia.
“Entrambe le iniziative – la registrazione delle interviste con i sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre e la raccolta continua di testimonianze sull’Olocausto – cercano di mantenere la nostra promessa ai sopravvissuti: che le loro storie sarebbero registrate e condivise nello sforzo di preservare la storia e di lavorare verso un mondo senza antisemitismo o odio di qualsiasi tipo”, ha detto Spielberg.
(Bet Magazine Mosaico, 11 dicembre 2023)
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Boualem Sansal spiega che l'occidente arriva in crisi al 7 ottobre
Hamas contro la Babele. “Stiamo andando dritti verso qualcosa di abbastanza mostruoso”.
Pochi intellettuali arabi mettono in guardia l’occidente contro l’islamismo con la stessa urgenza di Boualem Sansal. Le Monde e l’Obs lo chiamano “il dissidente che sorride”. Per Libération, è il “solitario in lotta contro l’islamismo”. Per altri, è il “Voltaire algerino”. Sansal con il romanzo “2084” era il principale candidato al Goncourt, il più importante premio letterario d’Europa, ma la sua battaglia sull’islam lo ha portato all’esclusione. Solo uno dei molti prezzi pagati dal più grande romanziere arabo finito “in tutte le liste nere”, in patria e in Europa. Per alcuni è un morto che cammina, in attesa che il suo nome venga cancellato da quelle liste, come un altro famoso scrittore algerino, Tahar Djaout, e il grande intellettuale egiziano Farag Foda, assassinati dai Fratelli musulmani. Djaout scrisse: “Il silenzio è la morte; e tu, se taci muori e se parli muori. Allora parla, e muori”. Sansal ha scelto.
Vive in un piccolo villaggio in Algeria, Boumerdès, il “kamikaze” Sansal, come lo chiama L’Obs. Ma pubblica per il più grande editore d’Europa, Gallimard, la maison che ha dominato la letteratura del XX secolo, la casa editrice di Marcel Proust e André Gide, Milan Kundera e Georges Simenon, Albert Camus e Jean Genet. Sansal si è aggiudicato, oltre al plauso del pubblico e al soprannome di “Orwell algerino”, il Gran Premio del romanzo dell’Accademia di Francia. Ma in Algeria è minacciato dalle autorità e dai fondamentalisti islamici, invitato a parlare in appartamenti e riunioni clandestine, come i dissidenti sotto il comunismo, mentre è riconosciuto all’estero come uno dei più grandi romanzieri e intellettuali della sua generazione. Sansal ha subìto il boicottaggio dei paesi arabi, furiosi per la sua partecipazione al Festival degli scrittori di Gerusalemme, e per questo gli hanno tolto il prestigioso Prix du Roman Arabe.
“Ai tempi di Albert Camus, ad Algeri convivevano musulmani, ebrei, cristiani, animisti e atei”, racconta Sansal alla Welt di questa settimana. “Mia madre, i miei fratelli ed io abitavamo in un’unica stanza che ci aveva dato il rabbino della sinagoga”. La caduta del Muro di Berlino nel 1989 ha segnato la fine di un vecchio mondo diviso in due blocchi. “Stiamo vivendo un occidente travolto dagli eventi e in via di disintegrazione. C’è anche un nuovo blocco, i paesi Brics, che si sta organizzando contro l’occidente in modo preoccupante. C’è il continente africano che vuole unirsi alla corsa, contando sulle sue materie prime e sul suo incredibile tasso di natalità, che gli porterà due miliardi di abitanti nel giro di una generazione. E c’è un mondo musulmano che ha preso coscienza del potere infinito che gli danno l’islam, il petrolio e una Ummah di due miliardi di credenti”. Hamas è più di un’organizzazione terroristica, “è un’organizzazione religiosa fanatica, un partito ultranazionalista e un governo dittatoriale con strutture statali militari. Hamas è ricca, finanziata da molti paesi per ragioni che questi paesi non possono ammettere pubblicamente. Hamas non solo opera a livello locale, nell’ambito della divisione del lavoro tra Lega Araba e Internazionale islamica, ma si assume anche il compito di instillare paura e terrore nell’entità sionista, che ai suoi occhi sta crescendo come un tumore occidentale in mezzo al mondo”. Qual è lo scopo di questa presunta “guerra santa” degli islamisti? “Il Corano dice che la missione dei musulmani è diffondere l’islam nel mondo, convertire i miscredenti e punire coloro che rifiutano con la morte o la sottomissione. Ma i credenti sono divisi sull’interpretazione del testo. I salafiti prendono tutto alla lettera, i moderati cercano risposte più sottili. Si può partecipare al jihad in vari modi: attraverso la politica, la predicazione, la sovranità su determinate questioni, l’infiltrazione, l’agitprop (il metodo dei Fratelli musulmani), attraverso la corruzione saudita, attraverso l’arte e la cultura, attraverso le competizioni sportive (il metodo del Qatar), attraverso la democrazia e attraverso il terrore. Allah è generoso a questo riguardo, fa appello all’ingegno dei suoi credenti fino al pragmatismo e all’opportunismo”.
Per gran parte della sinistra, ma anche per i giovani, l’accusa di colonizzazione sembra essere l’unico argomento che abbia un peso in questa guerra. “La sinistra è una reliquia del vecchio ordine mondiale, in cui i blocchi occidentale e orientale si fronteggiavano. Moralmente è una vergogna perché non fa altro che fare calcoli elettorali. E poiché ha perso la sua base proletaria e intellettuale, che ha disertato a favore degli estremisti di destra con tutto il loro fardello, la sinistra ora corteggia i musulmani e gli immigrati, le minacce islamiste e coloro che vengono tollerati o espulsi – e si appropria dei loro discorsi. La sinistra è Babele, parla solo lingue straniere. Il 7 ottobre ha condannato la barbarie di Hamas e l’8 ottobre ha accusato Israele di barbara occupazione”. Non sembra fare distinzione tra islam e islamismo. “L’islam pacifista e tollerante è una bella idea, ma il Corano sta sopra, è la parola di Allah, e questa parola, nel bene e nel male, pesa più di tutte le altre, oggi e domani. Ciò che esiste e che deve essere rafforzata è l’amicizia tra individui. Se le religioni avessero solo individui pacifici e tolleranti che non si lasciassero ingannare dai loro venditori ambulanti, sarebbero costretti a tornare sulla terra, a lodare la vita e, urbi et orbi, a chiedere il perdono universale, come fa Papa Francesco”.
Sansal è nelle liste nere. “Certo che ho paura. Da bambino ho vissuto la guerra d’Algeria, da adulto la dittatura poliziesca del Fln e la barbarie del Fis, la nostra Hamas algerina. So cosa significa avere paura per te stesso e per i tuoi cari. Ora la mia paura per la Francia è maggiore perché gli islamisti francesi sono peggiori dei nostri. Attaccano ebrei, cristiani e persone conosciute e sotto protezione personale perché attirano più attenzione”. Da cosa verrà sostituito l’occidente se cade? “Siamo in questa via di mezzo gramsciana, tra una civiltà che sta morendo nella sua felicità impotente e civiltà emergenti affamate di potere e di vera felicità. Il futuro lo dirà sicuramente. Sembra ancora ovvio in questa fase che stiamo andando dritti verso qualcosa di abbastanza mostruoso per i piccoli occidentali e le persone assimilate che siamo. Cadiamo come nel sonno in un mondo di cose anormali, rovesciate come se fossero fatte di antimateria, antiumani, antiviventi, dove spazio e tempo sono l’esatto contrario di quello che sono per noi”.
Il Foglio, 11 dicembre 2023)
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I terroristi nascosti sotto terra Israele li stana casa per casa
Dopo il no americano al cessate-il-fuoco, i Paesi arabi insorgono. A Gerusalemme serve ancora un mese per completare l'operazione ed eliminare del tutto Hamas dalla Striscia.
di Mirco Molterni
Dopo che il veto degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha cassato una risoluzione per «un cessate il fuoco immediato» nella Striscia di Gaza, Israele ha ringraziato l'alleato.L'esercito ebraico stima necessarie «ancora 3-4 settimane per completare le operazioni a Khan Yunis».
• IL VETO USA
Ieri, l'appoggio USA a Israele è stato ribadito dal segretario di Stato Anthony Blinken ai ministri degli Esteri di Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita e Turchia, più un delegato dell'Autorità Nazionale Palestinese, che chiedevano la tregua. Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha ribattuto che «gli USA sono soli nel sostenere l'offensiva israeliana». L'Iran getta benzina sul fuoco minacciando, per bocca del ministro degli Esteri Hossein Arnir-Abdollahian «un'esplosione incontrollabile in Medio Oriente» a seguito del veto USA.
L'esercito ebraico prosegue la penetrazione a Jabalia e Khan Yunis, dove, secondo il generale di brigata Dan Goldfuss, si lotta «casa per casa e pozzo per pozzo», intendendo i tunnel. A Khan Yunìs, la Brigata Golani ha conquistato una moschea, con annesso tunnel, poi distrutta da un elicottero Apache. Le forze speciali Duvdevan hanno scovato una postazione per imboscate e a Jabalia la Brigata Nahal ha distrutto ulteriori basi. Mentre il numero dei morti a Gaza tocca, secondo Hamas, 17.700, secondo il quotidiano ebraico Haaretz, «il tasso di civili è del 61 %», il che significa che quasi il 40% dei morti sono miliziani. Hamas si mescola ai civili e ancora ieri Israele ha segnalato il lancio di razzi «dall'area umanitaria di Muwasi, presso Rafah. Inoltre, come dimostra un filmato, i soldati israeliani hanno trovato «un fucile da cecchino e una scatola di munizioni nascosti all'interno di un grosso orsacchiotto di peluche», oltre ad «armi nascoste nelle aule delle scuole, alcune anche in borse dell'UNRWA», cioè l'Agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi. «Hamas= dicono le fonti militari ebraiche - utilizza i giochi dei piccini per nascondere armi, mettendo deliberatamente a rischio i bambini di Gaza».
• TRAGEDIA FAMILIARE
Ieri sono morti ulteriori 5 soldati israeliani e i caduti dall'inizio dell'invasione di terra è salito a 97. Fra i caduti di ieri c'era anche un nipote del ministro israeliano Gadi Eisenkot, il 19 enne Maor Cohen Eisenkot, che si aggiunge al figlio del ministro, Gal Meir Eisenkot, 25 anni, ucciso tre giorni fa. Il dramma della famiglia Eisenkot dimostrerebbe se non altro che il sacrificio per la difesa del Paese, in Israele, è trasversale ai figli degli umili e ai figli dei potenti, senza margine per eventuali "imboscati". Sacrifici non vani, dato che il portavoce militare Daniel Hagari ha rilevato che «Sempre più terroristi si consegnano a noi», spiegando: «Nelle ultime 48 ore abbiamo arrestato 200 sospetti. Decine di loro sono stati consegnati all'Unità 504 del servizio Aman e allo Shin Bet per interrogatori. Fra di loro, capi di Hamas e membri della milizia Nukhbè».
Sul fronte del Libano, gli scambi di colpi con Hezbollah hanno causato il ferimento di tre soldati israeliani, ma Israele ha distrutto un posto di comando degli sciiti filoiraniani, inoltre ha ucciso con un drone Hassan Ali Dakdouk, figlio di Ali Mussa Dakdouk, capo operativo di Hezbollah in Siria.
Libero, 10 dicembre 2023)
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Battaglia di Gaza: i terroristi di Hamas si stanno arrendendo in gran numero
Hanno perso i contatti con i loro leader, probabilmente in fuga
Decine di terroristi di Hamas hanno perso i contatti con la leadership del gruppo terroristico, non lasciando loro altra scelta che deporre le armi e arrendersi alle forze israeliane nella Striscia di Gaza. Lo ha riferito domenica mattina la Radio dell’Esercito.
Dopo che le immagini dei terroristi spogliati a Jabalya e Khan Yunis sono circolate sui social media, è emerso che l’IDF sta “identificando sensibili cambiamenti nella condotta della leadership di Hamas”.
Una fonte della sicurezza ha detto alla Radio dell’Esercito che gli alti dirigenti di Hamas, che si pensa siano fuggiti a Khan Yunis, nel sud di Gaza, “preferiscono la loro sopravvivenza personale alla sopravvivenza delle operazioni di comando e controllo di Hamas”.
Domenica scorsa, l’Istituto per lo studio della guerra, con sede negli Stati Uniti, ha valutato in un thread X che almeno sette battaglioni di Hamas hanno già capitolato nei combattimenti con l’IDF.
Inoltre, sei battaglioni sono “prossimi al collasso”, ha continuato l’Istituto. Secondo l’Istituto, il crollo delle brigate di Hamas di Gaza City e del nord potrebbe segnare la caduta della Striscia settentrionale nelle mani delle forze israeliane.
Venerdì, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto ai soldati dell’IDF che “vede i segni che indicano che sta iniziando un crollo all’interno di Gaza”.
L’IDF ha colpito oltre 250 obiettivi terroristici in operazioni terrestri, aeree e navali in tutta la Striscia nelle ultime 24 ore.
Le forze israeliane hanno effettuato un’incursione in una moschea nel sud di Gaza dopo che i caccia dell’aviazione israeliana hanno colpito un sito di comunicazione militare di Hamas situato vicino alla moschea.
Le forze armate israeliane hanno anche continuato a colpire i tunnel sotterranei a Khan Yunis.
(Rights Reporter, 10 dicembre 2023)
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Missile danneggia Museo Yad Mordechai: lo ricostruiremo
di Angelica Calo Livnè
Mordechai Anilewitch è uno dei nostri eroi di gioventù: membro del Movimento Hashomer Hatzair, fu uno dei capi della rivolta del Ghetto di Varsavia. Nel nascondiglio sotterraneo in Mila 18 riuscì a organizzare, insieme ai suoi giovani compagni, la lunga resistenza ai nazisti. Per ogni gruppo dell’Hashomer Hatzair in visita in Israele, Yad Mordechai, il kibbutz fondato in suo ricordo, è una meta che suscita grande emozione, un tuffo nell’eroismo ebraico e un inno alla vita. Entrare nel Museo del kibbutz dove è stato ricreato il bunker dove ragazzi e ragazze organizzavano la rivolta, era il momento più intenso del viaggio in Israele. Nella seconda settimana di questa guerra un missile, lanciato da Gaza, ha colpito il Museo distruggendo la ricostruzione del bunker. Il Museo non è più visitabile. Moran Sharir, giornalista di HaAretz scrive: il Kibbuz Yad Mordechai si trova a 2,8 km da Gaza. Il 7 ottobre è stato fortunato rispetto ai suoi vicini. Quattro combattenti della difesa dei confini – assaltati quella mattina da un gruppo di terroristi di Hamas, superiore per numero, forza e armi – hanno combattuto strenuamente all’entrata del kibbutz e sono riusciti a tenere occupati i terroristi finché la polizia, capitata per caso sul posto, si è unita a loro e insieme hanno impedito ai terroristi di entrare nel kibbutz e massacrarne i membri. Il Yad Mordechai è un monumento vivente alla Shoah e all’eroismo, valori profondamente radicati nello spirito dei suoi membri. Il Museo “Dalla Shoah alla Rinascita” raccontava la storia della rivolta del ghetto di Varsavia, la vita nella capitale della Polonia alla vigilia dell’Olocausto e commemorava anche la fondazione del kibbutz e le eroiche battaglie che si perpetrarono in quei luoghi. Dalla finestra del museo si poteva vedere il piccolo cimitero dove sono sepolti i combattenti del Palmach, uccisi mentre difendevano il kibbutz, mentre dal tetto del museo si godeva una vista spettacolare, compreso il monumento a Mordechai Anilevich realizzato dallo scultore Natan Rapoport. Un colpo al cuore della Shoah. Una delle mete di allievi dei licei e studenti dell’Olocausto. Abba Kovner, un altro haver del Movimento sionistico Hashomer Hatzair, che dopo la guerra è riuscito a coronare il suo sogno e a compiere l’aliya era stato uno dei fautori della ricostruzione del bunker. Nel 1942 Kovner aveva organizzato la rivolta del Ghetto di Vilna al grido: “Non andiamo come pecore al macello!”. Caro mondo ostile: noi ricostruiremo Be’eri e Nahal Oz, Nir Oz, Holit, Mefalsim, Sderot e Ofakim e anche il Museo di Mordechai Anilewich. Siamo un’altra generazione, ma non siamo meno dei nostri genitori e dei nostri nonni che fuggirono per mesi, che conobbero gli orrori della grande guerra. Il dna è quello: lo abbiamo mantenuto per secoli, pogrom dopo pogrom, persecuzione dopo persecuzione nonostante Antioco l’Epifane, Torquemada, lo Zar e tutti i figli di Amalek.
(moked, 10 dicembre 2023)
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La Croce Rossa prevenuta nei confronti di Israele
di Carlo Nicolato
«Che cosa sta succedendo a Gaza?». Si chiede sul suo sito il Comitato Internazionale della Croce Rossa. «Gaza è nella morsa di una catastrofe umanitaria», risponde, «le risorse sono scemate e 1,8 milioni di persone sono fuggite dalle proprie case». Dopo una spiegazione esaustiva della tragedia del popolo palestinese lo stesso sito fa un riepilogo in punti degli eventi, nel quale si afferma con certezza che «il bilancio delle vittime a Gaza ammonta attualmente a oltre 15.500». Solo alla fine si dice con fatica, e con un condizionale preoccupante, che «in Israele sarebbero morte più di 1.200 persone».
Sorge il consistente dubbio che la Croce Rossa sia un po' prevenuta nei confronti di Israele e sebbene si sia occupata di fungere da taxi per gli ostaggi liberati, lo abbia fatto per così dire con riluttanza, perfino con una certa indignazione nei confronti dei parenti degli stessi ostaggi che si sono giustamente preoccupati dei loro familiari. Stiamo esagerando? All'inizio della settimana i genitori di Doron Steinbrecher, 30enne rapita dai terroristi di Hamas, hanno incontrato la Croce Rossa per far loro presente che la figlia ha bisogno di un farmaco vitale da assumere quotidianamente. Pare che i due siano stati fatti accomodare e quindi rimproverati dai rappresentanti CICR. «Pensate piuttosto ai palestinesi che vengono bombardati», hanno loro detto.
I due sono usciti dall'incontro increduli e senza aver ottenuto nulla. La famiglia di Elma Avraham, una donna di 84 anni rilasciata durante il cessate il fuoco, ha detto ai media che la Croce Rossa si era rifiutata di portarle le medicine di cui aveva bisogno. Il medico che l'ha in cura ha confermato che «dal punto di vista medico e infermieristico, ciò a cui abbiamo assistito è un abbandono illegale», Il Jerusalem lnstitute of Justice ha recentemente inviato una lettera al CICR accusandolo di aver pubblicato diversi post sulla situazione umanitaria a Gaza, ma di aver sostanzialmente dimenticato gli ostaggi. Perfino il giorno stesso del massacro nell'unico comunicato pubblicato dalla Croce Rossa non c'è alcuna traccia di sdegno nei confronti di Hamas, si invita semplicemente «tutte le parti a rispettare i loro obblighi legali ai sensi del diritto internazionale umanitario».
Con l'inizio delle operazioni militari la Croce Rossa ha iniziato invece il quotidiano bombardamento ideologico contro il governo ebraico accusandolo di ogni malefatta, e soprattutto non ha invitato la popolazione palestinese a lasciare le loro case, come invece ha fatto ad esempio nei casi della guerra in Ucraina e in Sudan.
Nel 2015, in occasione del 70esimo anniversario della liberazione dei prigionieri ebrei dai campi di sterminio nazisti, il presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa, Peter Maurer, ha dichiarato che «il CICR non è riuscito a proteggere i civili e, in particolare, gli ebrei perseguitati e assassinati dal regime nazista. Ha fallito come organizzazione umanitaria perché ha perso la sua bussola morale», Una bussola ancora non ritrovata.
Libero, 10 dicembre 2023)
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Come possiamo sopravvivere nelle prove?
Un'interpretazione dell'Epistola di Giacomo 1:1-18. Alcuni consigli su come affrontare le prove.
di Fredy Peter
- Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
- Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
- sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
- E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
- Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
- Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita è simile a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
- Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
- perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
- Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
- e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
- Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
- Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
- Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male, ed egli stesso non tenta nessuno;
- invece ognuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce.
- Poi la concupiscenza, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è compiuto, produce la morte.
- Non v'ingannate, fratelli miei carissimi;
- ogni cosa buona e ogni dono perfetto vengono dall'alto e discendono dal Padre degli astri luminosi presso il quale non c'è variazione né ombra di mutamento.
- Egli ha voluto generarci secondo la sua volontà mediante la parola di verità, affinché in qualche modo siamo le primizie delle sue creature.
C’è molto nei primi 18 versetti dell'Epistola di Giacomo: il versetto 1 ci fornisce informazioni sull'autore e sui destinatari, i versetti da 2 a 4 ci incoraggiano alla perseveranza nelle prove, i versetti da 5 a 8 ci chiamano alla preghiera fedele, i versetti da 9 a 11 ci parlano dei ricchi e dei poveri, il versetto 12 menziona la ricompensa della perseveranza nelle prove, i versetti da 13 a 15 ci parlano delle tentazioni della carne e infine i versetti da 16 a 18 ci mostrano la natura del nostro Padre Celeste e la nostra rinascita. Tuttavia, questi versetti della Bibbia non trattano più argomenti diversi, ma solo uno: come affrontare le tentazioni. Tutti i versi sono strettamente correlati tra loro.
• Il saluto
«Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute» (Giacomo 1,1).
La parola greca per «dispersione» è la famosa «diaspora». Giacomo, nella sua epistola, si rivolgeva esclusivamente ai cristiani ebrei, poiché al momento della sua stesura, c'erano solo pochi cristiani gentili. La comunità cristiana gentile ad Antiochia era ancora in fase di formazione per mano di Paolo.
I cristiani ebrei furono dispersi per la prima volta a seguito della persecuzione scatenatasi dopo la lapidazione di Stefano, come narrato in Atti 8:1:
«E Saulo approvava la sua uccisione. Vi fu in quel tempo una grande persecuzione contro la chiesa che era in Gerusalemme. Tutti furono dispersi per le regioni della Giudea e della Samaria, salvo gli apostoli.»
Ulteriori dettagli sulla dispersione si trovano in Atti 11:19:
«Quelli che erano stati dispersi per la persecuzione avvenuta a causa di Stefano, andarono sino in Fenicia, a Cipro e ad Antiochia, annunciando la Parola solo ai Giudei, e a nessun altro.»
Inoltre, in Atti 12:1 si menziona una persecuzione successiva della chiesa da parte di Erode Agrippa.
La lettera di Giacomo si rivolge ai destinatari che avevano subito questa dispersione e persecuzione. Affronta con affetto e comprensione pastorale le preoccupazioni specifiche che affliggevano i credenti di quel periodo: le tentazioni, il comportamento da adottare in tali situazioni e la questione della responsabilità. Queste domande, poste da Giacomo, mantengono la loro rilevanza anche ai giorni nostri, poiché le sfide e le tentazioni sono esperienze condivise dall'umanità attraverso i secoli.
• Perché dobbiamo affrontare le prove?
Il nostro testo affronta due tipi distinti di prove, che è fondamentale distinguere. I versetti da 2 a 12 trattano di prove positive e sante, che possono essere descritte come situazioni in cui il bene è messo alla prova, inviate da Dio. Queste prove provengono dall'esterno. D'altra parte, i versetti da 13 a 15 parlano di tentazioni negative ed empie, ossia situazioni che ci attirano al male. Queste tentazioni provengono dall'interno.
Iniziamo con le prove positive, le quali, secondo Giacomo, sono inevitabili e affrontate da ogni persona nata di nuovo. Esse sono parte integrante del percorso di crescita spirituale che ci permette di progredire nella fede. Quando Dio desidera educarci e guidarci, spesso utilizza le prove. Molti cristiani, dopo aver affrontato difficoltà, testimoniano che quei momenti difficili sono stati estremamente benedetti, permettendo loro di sperimentare la vicinanza del Signore. Questo processo, come affermato in Filippesi 1:6, è un cammino verso il completamento dell'opera buona iniziata da Dio in noi.
Giacomo 1:2 ci esorta a considerare una gioia le varie prove che incontriamo. Le prove, come carestie, povertà, malattie o persecuzioni, sono un mezzo attraverso il quale la nostra fede è messa alla prova, dimostrando che la fede è efficace solo in situazioni difficili. La perseveranza attraverso queste prove porta a un'opera perfetta, intesa come una completa sottomissione alla volontà di Dio, non come perfezione assoluta o assenza di peccato.
Tuttavia, la tendenza umana è quella di evitare le prove, cercando di sfuggire. Invece, dobbiamo riconoscere che Dio ci fornisce uno strumento prezioso: la saggezza. Quando manchiamo di saggezza durante le prove, possiamo chiederla a Dio, che la concede generosamente senza rinfacciare. Questa non è una preghiera generale per la saggezza, ma si applica specificamente nei momenti di prova. Chiedere saggezza è fondamentale, ma dobbiamo farlo con fede, senza dubitare, poiché il dubbio ci rende instabili e indegni di ricevere da Dio.
La perseveranza attraverso le prove porta a una ricompensa, come affermato in Giacomo 1:12. Coloro che sopportano le prove, dimostrando la loro fede, riceveranno la corona della vita, una promessa del Signore a coloro che lo amano. Oltre alla perseveranza e alla preghiera fedele, Giacomo utilizza un esempio concreto per illustrare come dovremmo comportarci durante le prove. Esistono rischi di ribellione, lamentele, scoraggiamento o autocommiserazione, e il testo ci guida su come affrontare tali sfide.
• Come dobbiamo comportarci nei processi?
«Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione; e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese» (v. 9-11).
In questo specifico esempio, Giacomo evidenzia chiaramente che sia la povertà, intesa come uno status sociale o economico basso e l'impotenza sociale associata, che la ricchezza sono soggette alla tentazione. All'epoca, gli aristocratici proprietari terrieri si godevano i privilegi a spese della popolazione più povera. Questa disuguaglianza persiste tutt'oggi e può rappresentare una sfida significativa. In qualche modo, i beneficiari di allora e ognuno di noi oggi si trova in una specifica fascia di reddito. La tentazione di provare gelosia e amarezza verso coloro che stanno meglio di noi è un cammino che molti cristiani percorrono, desiderando qualcosa di diverso da ciò che il Signore ha loro dato e richiesto.
Dobbiamo imparare ad accettare le nostre condizioni di vita e dire «sì» a ciò che il Signore ha fornito. In Gesù Cristo, infatti, abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Come afferma Efesini 1:3, siamo stati benedetti con ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo, ottenendo una posizione che supera tutto ciò che il mondo può offrire.
Per il ricco, la vera umiliazione e prova è rappresentata dal fatto che la ricchezza non può soddisfare ogni desiderio. Pertanto, il ricco dovrebbe vantarsi della sua umiltà. Giacomo utilizza un esempio tratto dalla natura per illustrare la temporaneità della ricchezza: «perché passerà come il fiore dell'erba. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese» (v. 11).
È importante sottolineare che Giacomo non intende criticare i fratelli ricchi con questi versi, ma piuttosto spingerli, insieme ai fratelli poveri, a considerare i valori eterni che vanno oltre la situazione attuale e che sono uguali per tutti.
Oltre alle prove positive e sante che Dio ci invia, ci sono anche le prove negative ed empie, legate ai problemi causati dalla nostra lussuria, dai desideri e dalla carne.
• A chi dare la colpa per le prove?
Quando le prove si manifestano, è comune cercare un capro espiatorio, incolpando Dio e giustificandoci, ma questo atteggiamento incolpa Dio e scagiona il vero avversario. In modo sorprendente, il nemico nel nostro contesto non è il diavolo, ma piuttosto noi stessi, e Giacomo lo esplicita chiaramente:
«Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male, ed egli stesso non tenta nessuno; invece ognuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce. Poi la concupiscenza, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è compiuto produce la morte» (vv.13-15).
Proprio come le prove sante sono progettate da Dio per far emergere il meglio di noi, le tentazioni empie sono progettate per portare in superficie il peggio di noi. Mentre la risposta corretta alla tentazione conduce alla maturità spirituale, una gestione scorretta dei propri desideri può portare al declino spirituale e, alla fine, alla morte. Giacomo, delineando la fonte del male e del peccato, ci rivela anche la sorgente del bene alla fine di questa sezione:
«Non v'ingannate, fratelli miei carissimi; ogni cosa buona e ogni dono perfetto vengono dall'alto e discendono dal Padre degli astri luminosi presso il quale non c'è variazione né ombra di mutamento» (vv. 16-17).
Presso Dio, non c'è alcun cambiamento nelle condizioni di luce causate dal sole, dalla luna e dalle stelle; non esiste giorno né notte. Questo Dio eterno non è solo il padre dell'universo, ma è anche nostro padre attraverso Gesù Cristo:
«Secondo la sua volontà ci ha generati mediante la parola di verità, perché fossimo primizia delle sue creature» (v. 18).
In conclusione, questo versetto mette in evidenza la sostanziale differenza tra ciò che Dio genera e ciò che il desiderio umano produce. Pietro, nel suo scritto rivolto ai credenti perseguitati e oppressi, lo riassume con eloquenza:
«Perciò voi esultate anche se ora, per breve tempo, è necessario che siate afflitti da svariate prove, affinché la vostra fede, che viene messa alla prova, che è ben più preziosa dell'oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, sia motivo di lode, di gloria e di onore al momento della manifestazione di Gesù Cristo» (1 Pietro 1:6-7).
Di conseguenza, le prove hanno una durata limitata, servono a uno scopo specifico («se necessario»), possono causare angoscia e si manifestano in varie forme, ma non dovrebbero mai offuscare la nostra gioia. E poiché Dio è fedele, possiamo accogliere con fiducia ciò che Paolo ci dice:
«Nessuna tentazione vi ha colti, che non sia stata umana; però Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via di uscirne, affinché la possiate sopportare» (1 Corinzi 10:13).
Giacomo ci offre preziose lezioni su come affrontare le tentazioni, siano esse di natura sacra o empia. Le sue istruzioni sono pratiche e ben applicabili, poiché ognuno di noi si trova in questa zona di tensione. La gloria e la misericordia del nostro Dio emergono in modo straordinario: anche coloro che falliscono durante le prove sono comunque assicurati della corona della vita. L'elemento decisivo non è la completa vittoria sulle tentazioni, ma piuttosto l'amore per il Signore, come afferma chiaramente: « ... che Dio ha promesso a quelli che lo amano» (Giacomo 1:12).
La tua devozione al Signore Gesù e al Padre celeste che lo ha inviato è evidente? Quando ti trovi di fronte a una prova, è cruciale dire «No» alle tentazioni del desiderio e della lussuria che cercano di trascinarti verso il basso. Al contempo, è essenziale dire «Sì» alle prove e alle difficoltà che il Signore permette nella tua vita, poiché sono strumenti per il tuo sollevamento. Come sintetizzato in Giacomo 4:7-8:
«Sottomettetevi dunque a Dio; ma resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio, ed egli si avvicinerà a voi. Pulite le vostre mani, o peccatori; e purificate i vostri cuori, o doppi d'animo!»
Inoltre, con fede, chiedi al Signore saggezza in tutte le tue prove; sarai sorpreso dalla sua prontezza nel concedertela con gioia!
(Chiamata di Mezzanotte, novembre/dicembre 2023)
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I tunnel e la guerra asimmetrica. Tel Aviv ha bisogno di più tempo
Lo Stato ebraico sa che non può esserci altro finale che la sconfitta dei terroristi. Ogni altra conclusione sarebbe una condanna a morte.
di Fiamma Nirenstein
Israele non ha intenzione di tagliare corto la guerra lasciando in vita Hamas. Sinwar conta sulla crescita della tensione internazionale contro Israele, ben esemplificata dal comportamento dell'Onu, ma non è detto che funzioni. Gli Usa, migliori amici di Israele, ne hanno anche sempre ricevuto dei severi «no» ogni volta che cercando l'appeasement col mondo arabo hanno cercato di fermarlo. Ma fra Reagan e Begin, Rabin e Gerald Ford, Shamir e Bush, Golda Meier e Nixon, Obama e Bibi, le differenze di opinioni hanno spesso portato a fratture, poi ricomposte. Per ora gli Usa identificano il loro interesse con quello di Israele e dicono che solo Tel Aviv può decidere quando chiudere l'operazione, pur chiedendo di proteggere i civili. Ma la richiesta non tiene contro del livello a cui Hamas ha portato la guerra asimmetrica, con l'uso di tutte le strutture civili.
Una tregua è proibitiva a meno di qualche straordinaria novità sui rapiti, come uno scambio, che per ora Hamas però non mette sul tappeto. Ieri invece Hamas ha sparato una raffica di missili fino a Tel Aviv e ancora Sinwar non esce con le mani alzate. I suoi uomini però si sono arresi a centinaia, la sua casa è stata distrutta a Khan Younis. Nella battaglia ogni casa, scuola, moschea si dimostrano alla cattura un deposito d'armi. La guerra è galleria a galleria; ieri un altro rapito, Eitan Levy, è stato dichiarato caduto dentro Gaza, mentre si seguitano a perdere militari che combattono sul quel terreno impossibile pieno di volenterosi aiutanti di Hamas.
È difficile razionalizzare, se non per motivi di opportunismo, che il mondo voglia tagliare corto con la conseguenza di mantenere in vita un'organizzazione pericolosa per il mondo intero. Gli Stati Uniti di Biden nonostante si oppongano alle richieste internazionale di una tregua, vellicano l'elettorato e l'opinione pacifista internazionale con esclamazioni che però non contengono una dead line. L'ha confermato Jon Finer, membro del Consiglio di Sicurezza del governo al forum dell'Aspen a Washington: «Francamente se la guerra si fermasse oggi, Hamas seguiterebbe a essere una minaccia, e questa è la ragione per cui non chiediamo di forzare un cessate il fuoco». Per contenere l'opinione pubblica, gli Usa chiedono e ottengono da Israele di fornire più «aiuti umanitari». Inoltre Biden chiede in cambio del sostegno una promessa ad associare l'Anp di Abu Mazen al futuro di Gaza. È difficile accettare questa prospettiva mentre l'Anp tiene per Hamas all'80 per cento e seguita a pagare gli stipendi in carcere ai terroristi.
Israele sa di non potere concludere le operazioni belliche altro che con la sconfitta di Hamas, che ogni altra decisione sarebbe una condanna a morte. Vedere piangere Gadi Eizenkot, membro del gabinetto, ex capo di stato maggiore amato da tutta Israele, mentre seppelliva suo figlio Gal e gli prometteva di combattere fino in fondo questa guerra giusta per essere degno di lui, ha segnato ancora una volta la difficoltà psicologica e anche strategica in cui si svolge questa guerra: nessuno è più solo di chi seppellisce un figlio, e ormai Israele ne ha seppelliti quasi cento. Gal è caduto nel modo più temuto e più classico: un attacco con spari ed esplosioni da una galleria. L'esercito avanza dentro le basi dove si nascondono i terroristi, verso la caverna dove è rintanato Sinwar, cercando le grotte in cui sono rinchiusi gli ostaggi. Un mezzo veloce per farlo, non è stato scoperto checché ne dica il mondo.
(il Giornale, 9 dicembre 2023)
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Gli Stati Uniti dettano i tempi a Netanyahu, che non vuole l'Anp a Gaza
di Fabiana Magrì
“Quando ti ho chiesto: ‘Sarai mio per sempre?’. Tu hai risposto: ‘Guarda la luna, lì c’è già un uomo’. Non ci resta altro che abbracciare il dolore. Per dire: ‘Ieri è andato tutto bene, e anche domani andrà bene’”. Al funerale di Gal Eisenkot, il figlio 25enne dell’ex capo di stato maggiore dell’esercito Gadi Eisenkot, il cantautore israeliano Shlomo Artzi ha scelto le parole del brano “Moon” per rendere omaggio alla giovane vita interrotta giovedì sul campo di battaglia. Il ragazzo sognava di diventare medico, amava fare surf sulla spiaggia di Herzliya e sciare. L’ha ucciso una trappola esplosiva piazzata da Hamas, azionata mentre il soldato si avvicinava all’ingresso di un tunnel nel campo di Jabalya, nel nord di Gaza. Al funerale di “Galush”, il vezzeggiativo usato da amici e famigliari per il ragazzo, il ministro dell’opposizione nel gabinetto di guerra israeliano ha trovato parole che parlavano il linguaggio dell’amore di un padre per suo figlio e quello di un alto militare per la sua patria. “Continueremo la campagna a Gaza, lottando per rafforzare lo stato che hai tanto amato. Galush, amore del mio cuore, ti prometto che continueremo a essere una famiglia unita e felice, affinché il grande sacrificio tuo e degli altri caduti non sia vano”, ha promesso Eisenkot al figlio prima di seppellirlo. Diretto verso il cimitero di Herzliya dove si è svolta la cerimonia funebre, il leader dell’opposizione Yair Lapid ha scritto su X: “La gente sta ai lati della strada sventolando bandiere israeliane. Gli occhi si riempiono di lacrime”.
“Ci svegliamo in un 7 ottobre ogni singolo giorno”, ha commentato la scrittrice e professoressa Fania Oz-Salzberger, figlia di Amos Oz. Al funerale c’erano le massime cariche dello stato. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha deposto una corona commemorativa sulla tomba. Al suo fianco, il presidente Isaac Herzog e il ministro della Difesa Yoav Gallant. Tutti hanno almeno un figlio al fronte, così come molti leader di tutto lo spettro politico. “Gadi Eisenkot ha dedicato tutta la sua vita alla sicurezza di Israele e oggi – ha scritto su X il capo dello stato commentando la foto di un abbraccio tra Eisenkot senior e junior, entrambi in uniforme – lui e la sua famiglia stanno pagando un prezzo insopportabile. Gal è stato cresciuto fin dall’infanzia nell’amore per il popolo e la patria e ha agito con questo spirito in ogni momento, anche quando è stato ucciso”. In una delle ultime conversazioni con il padre, il ragazzo aveva espresso il suo orgoglio per aver contribuito a creare le condizioni che hanno consentito il rilascio di oltre cento ostaggi, soprattutto dei bambini. Mentre a Herzliya era in corso il funerale, l’esercito annunciava la morte di altri quattro soldati nei combattimenti nella Striscia, portando il bilancio dei caduti nell’offensiva di terra contro Hamas a 93. E a Tel Aviv, dove ancora ieri sono caduti per due volte i razzi lanciati da Gaza, nella piazza degli Ostaggi si sono radunati da tutto il paese per l’accensione della seconda candela per la festa di Hanukkah, come gesto di buon auspicio per il ritorno dei fratellini dai capelli rossi Kfir e Ariel Bibas, prigionieri di Hamas da più di due mesi, assieme ai loro genitori, Shiri e Yarden, oltre ad altre 130 persone. Gli Stati Uniti hanno dato tempo a Israele fino alla fine dell’anno per finire la guerra e sul campo continuano le operazioni al sud e al nord della Striscia. L’esercito dice di avanzare a Khan Younis, ritenuta la “roccaforte principale di Hamas”. Prosegue anche la bonifica a fondo di Gaza City e di Jabalya. Guardando al futuro dell’enclave costiera, il premier Netanyahu ha attaccato l’autorità palestinese dopo che il suo omologo Mohammad Shtayyeh ha detto a Bloomberg di augurarsi di avere Hamas come partner nel governo di Gaza al termine della guerra con Israele.
Il Foglio, 9 dicembre 2023)
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Il fatale errore del leader di Hamas Yahya Sinwar
Il leader di Hamas conosce Israele, ma non così bene come pensava; ora che è in trappola, Yahya Sinwar combatterà fino alla morte.
di Yochanan Visser
Yahya Sinwar, leader di Hamas nella Striscia di Gaza, ha dovuto temere per la sua vita per la prima volta dopo che l'esercito israeliano ha circondato la sua città natale, Khan Younis.
Sinwar, già noto per la sua brutalità prima del massacro del 7 ottobre, ha pianificato e supervisionato gli orribili crimini contro civili e soldati nel sud di Israele quel giorno.
Ma nonostante la sua professionale e meticolosa pianificazione della sanguinosa invasione del sud di Israele, il leader di Hamas ha commesso un grave errore.
Sinwar pensava di conoscere a fondo la mentalità israeliana e le debolezze della società ebraica, ma si sbagliava ripetutamente, come vedremo.
Il capo terrorista di Hamas ha assunto la guida della Striscia di Gaza nel 2017 da Ishmail Haniyeh, che da allora vive in Qatar.
Sinwar ha trascorso 23 anni in una prigione israeliana, dove ha imparato fluentemente l'ebraico e ha studiato la società israeliana. Tuttavia, come già detto, questo studio non ha portato a una reale comprensione degli israeliani.
In primo luogo, il leader di Hamas ha giudicato male la reazione di Israele alle azioni barbare del suo esercito di quasi 3.000 uomini in quel nero Shabbat.
Fino al 7 ottobre, Sinwar pensava che Israele avrebbe lanciato una campagna militare limitata contro la sua organizzazione jihadista - una settimana, due o forse anche tre, e poi sarebbe finita.
Dopo tutto, questo è stato lo schema di tutte le azioni militari dell'IDF da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza dall'Autorità Palestinese nell'autunno del 2007.
Proprio come il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah si era sbagliato nel 2006, quando i suoi seguaci uccisero nove soldati dell'IDF in un attacco con missili anticarro in territorio israeliano e ne seguì una guerra devastante, Sinwar si sbagliava ora sulla risposta israeliana.
• CESSATE IL FUOCO La richiesta di Hamas di un cessate il fuoco dopo oltre sei settimane di intensi bombardamenti e combattimenti da parte dell'esercito israeliano è stata significativa a questo proposito.
Hamas aveva bisogno del cessate il fuoco più dell'IDF, e questo era chiaro fin dall'inizio del processo negoziale.
Secondo gli addetti ai lavori, Sinwar è stato sorpreso dalla massiccia reazione israeliana e fino a quel momento non poteva immaginare che gli eventi del 7 ottobre avrebbero potuto annunciare la fine del suo dominio a Gaza. Il leader di Hamas sarebbe rimasto scioccato anche dall'attacco israeliano all'ospedale Shifa di Gaza City e avrebbe pensato che, dato il rispetto ebraico per la vita umana, un ospedale sarebbe stato il luogo ideale per un quartier generale.
• GLI OSTAGGI Il secondo errore commesso da Sinwar è stato il modo in cui ha trattato gli ostaggi e il modo in cui ha affrontato il rilascio di circa 100 di loro.
L'attuale leader di Hamas è stato rilasciato da una prigione israeliana nel 2011 come parte del famigerato accordo Gilat Shalit, in cui Israele ha rilasciato 1.027 terroristi palestinesi in cambio del soldato IDF catturato.
Da questo accordo, Sinwar ha concluso che Israele è facilmente ricattabile e ha fatto del rapimento di israeliani il secondo obiettivo più importante del suo piano di invasione.
In precedenza aveva organizzato uno sciopero della fame di massa tra i palestinesi imprigionati per ottenere condizioni migliori a due terroristi in custodia israeliana, e da questa esperienza Sinwar aveva imparato che questo tipo di tattica di ricatto può mettere in ginocchio Israele.
Il numero uno di Hamas credeva che ritardando il processo di rilascio avrebbe potuto piegare la resistenza israeliana, ma la guerra psicologica che Sinwar ha condotto intorno al dramma del rilascio degli ostaggi, durato una settimana, ha avuto l'effetto opposto.
Invece di spezzare lo spirito del popolo israeliano, Sinwar, forse senza rendersene conto, ha rafforzato la determinazione israeliana a distruggere il suo regime e a eliminare il leader di Hamas a tutti i costi.
I quotidiani giochi psicologici di Sinwar in relazione al rilascio degli ostaggi e il circo organizzato durante l'effettiva consegna degli ostaggi alla Croce Rossa hanno indurito gli israeliani e rafforzato ulteriormente il morale dei soldati dell'IDF.
• VALUTAZIONE ERRATA DEL POPOLO EBRAICO Probabilmente Sinwar non si è reso conto che nella tradizione ebraica il popolo di Israele è paragonato a un uovo. Quando si fa bollire un uovo, a differenza di qualsiasi altro alimento, più a lungo lo si fa bollire, più diventa duro.
Per la prima volta ci sono state anche madri di soldati caduti dell'IDF che hanno chiesto al governo di continuare la guerra fino alla fine, e anche gli israeliani di sinistra ora chiedono lo stesso.
Molti in Israele hanno cambiato le loro idee politiche dopo il 7 ottobre e non credono più nei "negoziati di pace".
Questo è stato forse espresso al meglio dal giornalista israeliano Shlomi Eldar, che è sempre stato a favore del compromesso per la pace e ha avuto molti contatti con gli arabi di Gaza.
In un'intervista, a Eldar è stato chiesto se ritenesse sensato parlare di pace con gli arabi palestinesi di Gaza. Ha risposto con una controdomanda: "Avremmo negoziato con i nazisti?"
• FINO ALLA MORTE Sinwar non è l'uomo che rinuncia alla Striscia di Gaza, e certamente non ad Hamas. Quando una volta gli è stato chiesto perché non si fosse ancora sposato all'età di 29 anni, Sinwar ha risposto: "Hamas è mia moglie e mio figlio".
Michael Koubi, il suo interrogatore presso lo Shin Bet, disse all'epoca che Sinwar era impegnato in un solo altro obiettivo oltre al suo coinvolgimento con Hamas, ovvero la distruzione di Israele e l'uccisione degli ebrei. Koubi ha definito Sinwar "uno psicopatico e un uomo pronto a pagare qualsiasi prezzo per i suoi principi".
Tuttavia, l'odio cieco per Israele sembra aver accecato Sinwar al punto da non rendersi conto che un esercito di 40.000 uomini armati di razzi e altre armi leggere, che opera da un'area circondata da tutti i lati, non può vincere contro un esercito professionale di oltre 300.000 uomini equipaggiati con le armi più moderne, soprattutto quando quest'ultimo si rende conto che si tratta di una guerra per la sopravvivenza dello Stato ebraico.
Questo è stato l'errore fatale di Sinwar. Era abituato alla potenza di fuoco del due o tre per cento che l'esercito israeliano aveva utilizzato in tutti i precedenti scontri con Hamas e la Jihad islamica palestinese a Gaza.
Il leader di Hamas era così sicuro della vittoria su Israele che il 7 ottobre ha fatto stilare una lista degli oltre 5.000 terroristi palestinesi nelle carceri israeliane che voleva rilasciare come parte di un accordo sugli ostaggi.
Molti in Israele ritengono che questo sia stato l'ultimo passo falso di Sinwar come leader dell'organizzazione terroristica jihadista Hamas e attendono il giorno in cui l'IDF o il Mossad mantengano la promessa del governo che Yahyah Sinwar è un "uomo morto".
(Israel Heute, 8 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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‘’Invocare il genocidio degli ebrei dipende dal contesto’’
Dopo l’affermazione shock dei Presidenti delle università americane l'appello dell’omologo della Ben-Gurion del Negev
di Michelle Zarfati
"In quale mondo il genocidio degli ebrei è “dipendente dal contesto”? Comincia così il concitato appello scritto dal Prof. Daniel Chamovitz, presidente dell'Università Ben-Gurion del Negev. Chamovitz ha denunciato la codardia di tutti i rettori universitari che si sono rifiutati dal 7 ottobre di affermare con fermezza che invocare ancora oggi il genocidio degli ebrei è inaccettabile, specialmente negli atenei. "Se nei campus americani si gridasse "Morte a (...)!" le amministrazioni universitarie si sarebbero comportate allo stesso modo? Direbbero che anche invocare la morte di chissà cosa dipende dal contesto? In un’epoca in cui la sensibilità e la protezione offerta alle minoranze nei campus universitari continuano a crescere, c’è un gruppo in cui le protezioni tendono al ribasso: gli ebrei" si legge nell'appello.
Il comunicato, diffuso sul sito ufficiale dell'ateneo, arriva dopo che molti studenti universitari e professori sono scesi in piazza sostenendo i terroristi di Hamas e condannando invece la risposta dello Stato ebraico.
"In quale mondo un rettore universitario, alla guida di uno dei presunti bastioni mondiali del pensiero liberale e del pensiero critico, ha difficoltà a dire che gli appelli al genocidio sono crimini solo se "perseguibili"? E solo se contro “individui”? I nazisti disumanizzarono gli ebrei per anni prima di lanciare la “Soluzione Finale”. È troppo tardi per protestare o intervenire quando il genocidio passa dalle parole ai fatti. La mancanza di chiarezza e risolutezza è un colossale fallimento della leadership accademica che non può rimanere incontrollata" prosegue il Presidente nel comunicato. Il Prof. Chamovitz è presidente della Ben-Gurion University del Negev dal 2019. È stato precedentemente preside della Facoltà di Scienze dell'Università di Tel Aviv prima di assumere la presidenza dell'Università Ben-Gurion del Negev.
Anche Dani Dayan, Presidente dello Yad Vashem, ha espresso la sua indignazione in un comunicato. "Non ci può essere alcun contesto o giustificazione per gli appelli al genocidio nei campus universitari. Le udienze congressuali di ieri sull'antisemitismo nei campus universitari e di college evidenziano la deliberata mancanza di responsabilità quando si parla di ebrei, Israele e antisemitismo nei campus e nel mondo accademico. Yad Vashem è estremamente allarmato dal rifiuto dei presidenti delle università di Harvard, MIT e UPenn di affermare che gli appelli al genocidio contro gli ebrei non violano la politica e il codice di condotta dell'università".
(Shalom, 8 dicembre 2023)
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Le famiglie degli ostaggi a Tel Aviv e le truppe a Gaza festeggiano l'inizio di Hanukkah
L'ex ostaggio Amit Shani ha esortato i parenti a "combattere fino alla liberazione dell'ultimo ostaggio"; secondo il capo del Comando meridionale, i soldati sono "moderni Maccabei".
Nel primo giorno di Hanukkah, giovedì sera, i parenti degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas hanno tenuto una cerimonia di accensione delle candele durante una manifestazione a Tel Aviv per chiedere il rilascio dei prigionieri, mentre i soldati che combattono il gruppo terroristico hanno acceso hanukkiot a Gaza per celebrare la prima notte della Festa delle Luci.
La cerimonia a Tel Aviv si è svolta in un'area nota come Piazza degli ostaggi, dove parenti e amici dei rapiti nell'attacco di Hamas del 7 ottobre hanno acceso le candele di Hanukkah. Per l'occasione è stata allestita una tavola vuota, ad eccezione delle hanukkiot e delle foto degli ostaggi.
Si stima che 137 ostaggi siano ancora detenuti a Gaza dopo il rilascio di 105 di loro - soprattutto donne e bambini - tra il 24 novembre e il 1° dicembre, come parte di un accordo mediato dal Qatar per liberare gli ostaggi in cambio di una tregua di alcuni giorni, del rilascio di prigionieri palestinesi e di un aumento degli aiuti umanitari a Gaza.
A Tel Aviv, giovedì sera, i manifestanti hanno marciato verso la Kirya, il quartier generale dell'esercito, portando torce per chiedere l'immediato rilascio degli ostaggi, scandendo "Ora! Ora! Ora!
All'accensione delle candele in piazza degli ostaggi hanno partecipato l'ambasciatore statunitense in Israele, Jack Lew, e Amit Shani, l'ex ostaggio sedicenne rapito dal Kibbutz Beeri dai terroristi guidati da Hamas e trattenuto a Gaza fino al 29 novembre, quando è stato rilasciato insieme ad altri 11 ostaggi israeliani nell'ambito della tregua di una settimana.
Prima di questa tregua, quattro ostaggi erano stati rilasciati senza condizioni, un altro era stato salvato dall'esercito israeliano e tre corpi di ostaggi erano stati ritrovati a Gaza.
"Sono molto felice e commosso di essere qui stasera per la prima notte di Hanukkah sul suolo israeliano", ha detto Shani alla folla. "Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno lavorato per il ritorno degli ostaggi e tutti coloro che sono già tornati. Sono così felice di essere finalmente qui con la mia famiglia e i miei amici".
"Dobbiamo continuare a lottare finché l'ultimo ostaggio non ci sarà restituito", ha aggiunto.
Da quando Hamas ha rotto la tregua la scorsa settimana rifiutandosi di rilasciare gli ostaggi e i due bambini rimasti, sono ripresi gli scontri a Gaza e l'esercito ha intensificato l'offensiva di terra nel sud della Striscia di Gaza.
Giovedì sera, anche i soldati dispiegati a Gaza hanno acceso candele per celebrare la festività.
"Voi siete i Maccabei dei tempi moderni", ha detto il maggiore generale Yaron Finkelman, capo del Comando meridionale, alle truppe nel campo di Jabaliya, nel nord di Gaza.
"Questa è una guerra lunga, importante e difficile, e l'accensione delle candele di Hanukkah è un momento molto simbolico... Continueremo a combattere fino alla vittoria", ha detto.
(Times of Israel, 8 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"Siamo tutti Hamas"
Ancora una volta ho capito che i palestinesi, con cui ho vissuto e collaborato per anni, non saranno mai d'accordo con l'esistenza di Israele.
di Aviel Schneider
Direttore di Israel Heute
GERUSALEMME - "Siamo tutti Hamas!" mi ha detto l'altro ieri un collega palestinese. Abbiamo rubato la loro terra e loro accuseranno sempre Israele di questo. Ma finché le cose sono tranquille e possono guadagnare dai "ladri", tutto viene messo sotto il tappeto. Ma in tempi come questi, siamo in un vero pasticcio: i palestinesi sono Hamas e non sappiamo più di chi possiamo fidarci. Ci sono ancora dei partner per la pace?
L'altro ieri, Marwan è venuto da noi dalla Città Vecchia di Gerusalemme per prendere qualcosa in redazione. Conosco Marwan da oltre 20 anni. È palestinese e musulmano. Da anni acquistiamo da lui prodotti come i sandali di cuoio. È uno dei tanti commercianti con cui lavoriamo nella parte orientale di Gerusalemme. Ho pochi contatti personali con lui, ma quando veniva a consegnare i nuovi ordini, spesso ci sedevamo a prendere un caffè. Ricordo le nostre conversazioni precedenti ed eravamo attenti a non sconfinare in ambiti politici. Ma questa volta c'è stato uno scontro, c'era la mia collega Olga e anche mio figlio maggiore, che è rimasto in redazione per qualche ora e poi è dovuto tornare in servizio di riserva.
Questa volta ho chiesto a Marwan, proprio all'ingresso, come stavano lui e la sua famiglia nella città vecchia. "Tutto bene, speriamo che la guerra finisca presto e che torni la pace".
No, ho detto a Marwan, questa volta non sarà così presto. Finché tutti i terroristi di Hamas e i loro sostenitori non saranno distrutti, la guerra continuerà.
"Perché? Le guerre sono brutte e molte persone innocenti muoiono", dice.
"Marwan, questa volta metteremo fine a Hamas. Hai visto come i terroristi di Hamas hanno violentato e massacrato le nostre mogli e figlie?".
"No", mi risponde. "Non ho visto né foto né filmati. Non ti credo nemmeno io! Quello che state facendo a Gaza è ancora peggio. State uccidendo bambini in massa".
"Ma Marwan, non vedi alcuna differenza tra il massacro deliberato, la tortura e lo stupro di persone innocenti e i civili palestinesi che stanno morendo a Gaza perché Hamas li tiene come scudi umani nella zona di guerra?".
"No, sono tutte bugie. Non ci credo. State uccidendo i nostri bambini a Gaza! Quello che state facendo è terrore".
Quando mio figlio, nell'altra stanza, ha sentito questo, è intervenuto immediatamente.
"Non stiamo uccidendo bambini. Hamas sta fermando le persone e si sta trincerando dietro le famiglie", ha detto con rabbia mio figlio che, in quanto ufficiale, sa qualcosa di più su ciò che sta accadendo a Gaza. È stato laggiù per due mesi. "Voi siete tutti Hamas e noi siamo gli stupidi. Ma ora stiamo facendo pulizia laggiù. Non si può andare avanti così. Distruggeremo Hamas e nessuno ci ostacolerà", ha detto mio figlio forte e chiaro.
Il tono si è fatto più alto tra di noi. Non aveva senso spiegare a Marwan i filmati che avevamo visto il 7 ottobre. Per Marwan, come probabilmente per la maggior parte dei palestinesi, il massacro dei nazisti palestinesi è una fantasia israeliana. Tutto ciò che gli mostro è falso dal suo punto di vista. Gli ho detto di parlare con Mansour Abbas, il leader del partito arabo Raam, che aveva visto il film horror dell'IDF. Abbas stesso ha detto che era un film terribile e che quello che ha visto non era umano e non aveva nulla a che fare con l'Islam. Ma no, non vuole questo. Marwan crede ad Hamas e non alla verità.
"Yalla, la calma e lo shalom devono tornare", cerca di calmare le onde Marwan. No, abbiamo detto, Hamas deve essere distrutto. Per ora la pace dovrà rimanere nel cassetto. Anche la Città Vecchia di Gerusalemme rimarrà vuota a lungo, perché i turisti evitano la Terra Santa in tempo di guerra.
"Zero affari per te Marwan", gli ho detto. "Credimi, Marwan, ti faremo un favore se espelleremo Hamas, tu vuoi la pace, no? Ma Hamas non vuole la pace, Hamas vuole distruggere Israele".
E cosa ci ha detto improvvisamente il caro Marwan?
"Noi siamo tutti Hamas. La maggioranza dei palestinesi è di Hamas, il 70%...".
"Cosa, Hamas? Ci hai sempre detto di essere Fatah. Ora siete Hamas? Ok Marwan, allora puoi andare a Gaza e vivere con Hamas nella Striscia di Gaza".
Ma no, lui è nato a Gerusalemme e questa terra gli appartiene, dice. "Ci avete rubato la terra nel 1948", dice Marwan con rabbia.
Rubata o no, quel pomeriggio ci siamo resi conto ancora una volta che non abbiamo un partner con cui fare davvero la pace. Abbiamo lavorato con Marwan per vent'anni e ora vota per Hamas. Mio figlio ha iniziato ad arrabbiarsi e mi ha detto: "Risparmia il tuo tempo, tanto non serve a niente. "Vogliono solo i nostri soldi, tutto qui". I palestinesi stanno semplicemente troppo bene in Medio Oriente, soprattutto quelli che vivono in Israele. Godono di libertà e democrazia e si lamentano continuamente.
"Sai cosa?", ho detto a Marwan, "il leader siriano ha massacrato più di 500.000 dei suoi nella guerra civile siriana. Questo è il mondo arabo in cui viviamo. In tutte le guerre che Israele ha condotto negli ultimi 75 anni, non sono morte nemmeno 100.000 persone, né da parte araba né da parte israeliana. E sapete perché? Perché siamo troppo gentili con i nostri nemici arabi".
E allora ha ricominciato a lamentarsi e a dire che stiamo uccidendo i palestinesi a Gaza. Sempre lo stesso mantra.
"Potete pensare e credere quello che volete, per quanto mi riguarda. Se ti interessa Hamas, allora ti suggerisco di dire addio ad Hamas nella Striscia di Gaza adesso".
Poi ci siamo salutati e stretti la mano. Marwan ci ha sorpresi tutti. Mio figlio meno. Quei quindici minuti all'ingresso della nostra redazione mi hanno fatto riflettere su chi possiamo davvero fidarci. Hamas è nel cuore della maggioranza palestinese e questo è un fatto che dobbiamo digerire. Nei momenti di tranquillità i palestinesi ci dicono quello che vogliamo sentire e nei momenti di difficoltà ci dicono la verità in faccia. Non dobbiamo dimenticarlo e Israele deve tenerne conto per ripensare la sua politica.
In conclusione, però, devo ammettere che non tutti sono come Marwan e non tutti hanno a cuore Hamas. I soldati arabi, i beduini e i drusi servono al nostro fianco nelle Forze di Difesa israeliane e sono ottimi soldati e combattenti. Questo mantiene viva la speranza.
(Israel Heute, 8 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"Noi siamo tutti Hamas". E' una fiera affermazione che potrebbero ripetere tutte quelle persone, e sono tante, che parlano come Marwan. Si indignano perché Israele fa strage di bambini a Gaza, e tutto il resto non conta perché in ogni caso se è a favore di Israele è falso. "Siamo tutti Hamas", potrebbero dire anche loro, "perché in fondo l'idea di distruggere Israele non è poi così malvagia". M.C.
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Una seria opposizione dei palestinesi a Hamas esiste solo nelle allucinazioni occidentali
Mentre i palestinesi in tutto il mondo tifano per Hamas e si esaltano per le sue “prodezze”, gli israeliani e gli ebrei sentono ancora una volta negata la loro umanità quando osano difendersi
di Gil Troy
Intervenendo al vertice COP28 di Dubai, la vicepresidente americana Kamala Harris ha affermato: “Noi non dobbiamo confondere Hamas con il popolo palestinese”. “Noi” israeliani, americani, occidentali non dobbiamo farlo. Ma i palestinesi e i loro sostenitori delinquenziali continuano a farlo acclamando e santificando Hamas.
Le parole di Kamala Harris appaiono insensate alle orecchie della maggior parte degli arabi: loro conoscono la verità. Per decenni, il mondo ha assolto i palestinesi da ogni responsabilità per le violenze che continuano ad alimentare e incoraggiare.
Questo lasciapassare moralmente idiota continua anche quando palestinesi in tutto il mondo tifano per Hamas e si entusiasmano per le sue “prodezze”, quando abbiamo notizia di medici e insegnanti dell’Unrwa (l’agenzia Onu per i “profughi” palestinesi) che tengono in ostaggio israeliani innocenti, quando i sondaggi mostrano che tre quarti dei palestinesi sostengono Hamas e in modo in particolare il massacro del 7 ottobre che tanti abitanti di Gaza hanno facilitato.
Solo la settimana scorsa, masse di palestinesi di Gaza insultavano schernivano e minacciavano di linciare gli ostaggi che venivano consegnati alla Croce Rossa, al punto che sono stati i criminali di guerra di Hamas che hanno protetto dalla folla donne e bambini israeliani.
Il fatto che tre palestinesi su quattro sostengano questa abietta ferocia rispecchia un ampio consenso palestinese. Gli occidentali che proclamano “l’innocenza” dei palestinesi o ammoniscono che Israele, difendendosi, potrebbe alienarsi i palestinesi, preferiscono ignorare quanto l’uccisione di ebrei elettrizzi ed entusiasmi da sempre le piazze palestinesi. Degna di nota l’assenza di contestazioni palestinesi contro Hamas anche nei paesi liberi.
Kamala Harris e i suoi colleghi occidentali dovrebbero soffermarsi sulla vicenda di Roni Krivoi: gli israeliani la conoscono bene.
Primo ostaggio maschio adulto israeliano liberato, Krivoi è un tecnico del suono russo-israeliano di 25 anni che lavorava al festival musicale Supernova, una celebrazione della vita e dell’amore profanata dai terroristi che hanno trucidato a sangue freddo 364 civili, ne hanno feriti altre centinaia e ne hanno rapiti e deportati a Gaza una quarantina. Le loro telecamere Go-Pro restituiscono lancinanti immagini di palestinesi che stuprano, mutilano e uccidono.
Trascinato a Gaza, Krivoi a un certo punto è riuscito fuggire dai suoi rapitori nel caos seguito a un bombardamento. Ma a differenza di quanto si vede nei film sulla seconda guerra mondiale, qui non si sono visti tedeschi o altri cittadini “buoni” disposti a nasconderlo e salvarlo dai moderni nazisti: una seria resistenza palestinese esiste solo nelle allucinazioni occidentali. Dopo quattro giorni, ha riferito la zia di Krivoi, “gli abitanti di Gaza lo hanno catturato e lo hanno restituito nelle mani dei terroristi”.
La consegna di Krivoi ai terroristi spiega bene come mai, per molti israeliani, qui non si tratta solo di Hamas. Ancor prima che i sondaggi lo confermassero, gli abitanti di Gaza avevano postato video in cui celebravano le violenze e si accodavano entusiasti ai terroristi dentro Israele per stuprare, saccheggiare, uccidere. Molti abitanti dei kibbutz saccheggiati hanno riconosciuto fra gli aggressori dei lavoratori palestinesi con cui avevano stretto amicizia negli anni, e che ora prendevano parte con entusiasmo alla carneficina, a volte guidandola.
Ecco perché i leader occidentali che continuano a ripetere che solo Hamas ha commesso quei crimini di guerra appaiono come molto ingenui agli occhi dei loro interlocutori arabi a Dubai, per non parlare degli israeliani.
Lo tsunami di menzogne che negano le sofferenze degli israeliani mentre assolvono i palestinesi riflette un fenomeno antico di secoli: la disumanizzazione degli ebrei. Nel 1590, William Shakespeare riconobbe che i fanatici odiatori come prima cosa degradano le persone oggetto del loro odio: “Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? – si chiedeva Shylock l’Ebreo nel Mercante di Venezia – Se ci pungete, forse non sanguiniamo? Se ci avvelenate, forse non moriamo? E se ci usate torto, forse non reagiremo vendicandoci?”
Oggi, gli israeliani – e gli ebrei – percepiscono quella stessa cancellazione del loro dolore, quella negazione della loro umanità e la furia ipocrita scatenata contro di noi per aver osato difenderci e reagire. Oggi molte donne ebree si chiedono: “Forse noi non soffriamo se negate di averci violentate?
È disumanizzare quando politici e accademici incolpano gli israeliani del massacro che hanno subìto; quando i palestinesi istigano al genocidio degli israeliani e sono gli israeliani che vengono definiti “genocidi”; quando le femministe del #MeToo improvvisamente tacciono sul più grande crimine di violenza di genere della storia moderna, sfoggiato dai suoi stessi autori; quando “Queers for Palestine” chiude gli occhi sull’omofobia di Hamas e della società palestinese; quando i liberal prendono le parti di terroristi totalitari e assassini e dei loro cheerleader.
È disumanizzare quando i giornalisti mettono sullo stesso piano come “prigionieri” gli innocenti civili israeliani rapiti e deportati e i terroristi palestinesi condannati e detenuti per atti violenti; quando i giornalisti parlando della la prossima “tranche” di ostaggi trattando esseri umani in catene come se fossero obbligazioni finanziarie; quando il primo ministro irlandese Leo Varadkar parla del cinico rilascio da parte di Hamas di una bambina irlandese-israeliana di nove anni, Emily Hand, come “una bambina che era scomparsa [sic] e ora è stata ritrovata”.
Offuscare, sminuire, minimizzare il male e le canaglie che lo commettono non fa che accentuare l’oltraggio. E l’indignazione d’Israele.
E’ disumanizzare negare il diffuso odio palestinese verso gli ebrei, e frenare la reazione militare israeliana come generali e strateghi americani e di altri paesi non tollererebbero. I campus universitari se ne stettero tranquilli nel 2017, quando l’America partecipò alla liberazione di Mosul dall’Isis nonostante il “danno collaterale” sia stata la morte di più di 10mila civili innocenti, e non ostili. Per non parlare della potenza di fuoco che scatenarono l’America e i suoi alleati contro i civili per sconfiggere i nazi-fascisti nella seconda guerra mondiale, che dimostra per contrasto quanto sia chirurgica la reazione di Israele.
Gli appelli per un “cessate il fuoco” israeliano (esattamente ciò che vuole Hamas) non sono credibili dopo che le pressioni internazionali imposero dei “cessate il fuoco” nel 2009, 2012, 2014, 2019 e 2021: vale a dire, ogni volta precedente che Israele si era dovuto difendere dagli attacchi dei terroristi. “Ricordatelo – ha detto l’ex segretario di stato Hillary Clinton a The View – C’era un cessate il fuoco fino al 6 ottobre, e Hamas lo ha rotto con il suo barbaro attacco contro pacifici civili”. Hillary Clinton ha aggiunto: “Hamas ha costantemente violato tutti i cessate il fuoco. Israele ha il diritto di difendersi, come l’Ucraina”.
Tale chiarezza morale non impedisce agli israeliani di compiangere la morte dei bambini palestinesi e di tutti gli innocenti coinvolti nel fuoco incrociato. Si tratta semplicemente di ribadire e ricordare che è Hamas che ha scatenato questa guerra ed è Hamas che deve pagarne le conseguenze, mentre l’incapacità dei palestinesi di fare qualunque pressione su Hamas (anche dall’estero) affinché liberi gli ostaggi e se ne vada da Gaza non fa altro che estendere le loro sofferenze.
Israele cerca di ridurre al minimo le vittime civili, ma il suo dovere primario è proteggere i propri cittadini, e poi la civiltà occidentale.
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha parlato in modo autorevole, a ottobre, e dovrebbe ripeterlo: Hamas deve essere rimossa. La maggior parte dei palestinesi, a Gaza e all’estero, sostiene la malvagità di Hamas. Il grido morale di Biden riflette la teoria della guerra giusta.
È l’unico modo realistico per porre fine all’attuale crisi umanitaria a Gaza, consentendo allo stesso tempo a Roni Krivoi e a migliaia di altri sopravvissuti israeliani di tornare a dormire la notte come facevano prima del 7 ottobre.
(Da: Jerusalem Post, 6.12.23)
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Gaza, fonte di liberazione
Nihad Awad, direttore esecutivo del Council on American-Islamic Relations, al convegno American Muslims for Palestine, Chicago, 24.11.23:
“Il popolo di Gaza ha solo deciso di rompere l’assedio, le mura del campo di concentramento, il 7 ottobre. E sì, sono stato felice di vedere le persone rompere l’assedio e abbattere le catene della loro stessa terra, e camminare libere nella loro terra nella quale non era loro permesso di entrare. E sì, il popolo di Gaza ha il diritto all’autodifesa, ha il diritto di difendersi, e sì, Israele, in quanto potenza occupante, non ha quel diritto all’autodifesa. … Gaza è diventata la fonte di liberazione, l’ispirazione per le persone. …
Israele non li ha spaventati, perché sapevano che il loro paradiso è a Gaza, e se avessero voluto morire, sarebbero andati in un altro paradiso. Questa è la fede della gente di Gaza. Ecco perché Gaza e la gente di Gaza sono stati capaci di trasformare tutti coloro che guardano e hanno imparato da queste persone. …
Gli abitanti di Gaza hanno vinto”.
(israele.net, 8 dicembre 2023)
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Civile israeliano ucciso al confine con il Libano
Al confine con il Libano un contadino israeliano è vittima degli attacchi di Hezbollah . Nel frattempo, il numero di soldati uccisi nella Striscia di Gaza continua ad aumentare. Tra loro c'è un nome noto.
MATAT / CHAN JUNIS - La milizia islamista Hezbollah in Libano ha ucciso giovedì un civile israeliano. Secondo i media israeliani, Ejal Usan (54 anni) è stato vittima di un attacco con un'arma anticarro nella zona di confine. Usan viveva nel kibbutz Gescher HaSiv. Secondo quanto riferito, l'agricoltore era fuori dal suo meleto quando è stato sorpreso dall'attacco nel pomeriggio.
Secondo persone a lui vicine, Usan non era pronto a rinunciare alla sua fattoria a causa della guerra. Il padre di tre figli è la quarta vittima civile della guerra di Hezbollah contro Israele dal 7 ottobre. Sette soldati sono stati uccisi. Anche due soldati sono stati feriti in un attacco giovedì.
• Combattimenti nel nord e nel sud della Striscia di Gaza
Nel frattempo, continuano i combattimenti anche nella Striscia di Gaza. Giovedì sera, il portavoce dell'esercito israeliano Daniel Hagari ha parlato di centri di combattimento a Jabalia e Shujaia, nel nord della Striscia di Gaza. I combattimenti proseguono anche nella regione di Chan Junis, nella parte meridionale dell'enclave costiera: "Siamo nel mezzo di una battaglia senza compromessi lungo tutta la Striscia di Gaza", ha spiegato Hagari.
Giovedì l'esercito ha accusato Hamas di aver lanciato razzi anche da zone protette all'interno della Striscia di Gaza. In particolare, gli islamisti avrebbero sparato una raffica contro Be'er Sheva mercoledì da una località vicina a una tendopoli per rifugiati e nelle vicinanze di strutture delle Nazioni Unite. Giovedì, i proiettili provenienti dalla Striscia di Gaza hanno fatto scattare l'allarme in Israele solo quattro volte. Tuttavia, ci sono stati anche bombardamenti dal Libano e dalla Siria. Venerdì pomeriggio, le sirene hanno suonato di nuovo a Tel Aviv.
• Il figlio dell'ex capo dell'esercito ucciso nella Striscia di Gaza
l numero dei soldati uccisi dall'inizio dell'operazione di terra è ora salito a 91. Solo giovedì sono stati uccisi quattro soldati. Tra questi c'è il Gal Meir Eisenkot. Il 25enne è stato ucciso nei combattimenti nel nord della Striscia di Gaza. È il figlio dell'ex capo dell'esercito e attuale membro del gabinetto di guerra, Gadi Eisenkot. Ai suoi funerali, venerdì mattina, hanno partecipato anche il primo ministro Benjamin Netanyahu (Likud) e il presidente Yitzchak Herzog.
Nel frattempo, secondo quanto riportato dalla Striscia di Gaza, lo scrittore e poeta palestinese Refaat Alareer è stato ucciso in un attacco israeliano. Alareer aveva già suscitato scalpore il 7 ottobre con un'intervista alla BBC in cui descriveva il terrore di Hamas come "legittimo e morale" e lo paragonava alla Rivolta del Ghetto di Varsavia del 1943. Il 4 dicembre, Alareer ha scritto su X: "Vorrei essere un combattente per la libertà per poter morire combattendo l'invasione dei folli genocidi israeliani".
(Israelnetz, 8 dicembre 2023)
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Condanna tardiva: dirigenti universitarie USA ritrattano su appelli al genocidio degli ebrei dopo risposte ambigue, esitanti o eluse
di Marina Gersony
«Invocare al genocidio degli ebrei viola o non viola le regole di condotta delle vostre università?». È questa la domanda esplicita che la deputata repubblicana Elise Stefanik ha rivolto alle tre presidenti di alcune delle più rinomate università americane durante un’udienza alla Camera degli Stati Uniti, ossia ha chiesto loro se «invocare o fare appello al genocidio degli ebrei» violasse effettivamente i codici di condotta delle loro rispettive istituzioni.
Si tratta delle dirigenti Claudine Gay di Harvard (nella foto), Sally Kornbluth del MIT (Massachusetts Institute of Technology) ed Elizabeth Magill dell’Università della Pennsylvania, al centro della controversa e accesissima udienza del Congresso sull’antisemitismo nei campus universitari.
Un tema che si ripropone anche in considerazione del clima fortemente anti-israeliano e antisemita in diversi prestigiosi campus e atenei americani durante i drammatici mesi del conflitto mediorientale; istituzioni educative che non sempre hanno brillato di obiettività, come dimostrato da molte inchieste sul tema e come abbiamo riportato su questo stesso sito.
Dopo aver evitato con ambiguità di condannare esplicitamente gli appelli al genocidio degli ebrei come violazione delle regole contro le molestie sul campus, le tre dirigenti hanno risposto in modo sorprendentemente vago. Non ultima la risposta della Magill, avvocata sostenitrice della libertà di espressione, che – pressata sulla possibilità di disciplinare gli studenti che invocano il genocidio degli ebrei – ha affermato che «la questione dipende dal contesto», scatenando critiche accese e immediate condanne.
Josh Shapiro, governatore democratico della Pennsylvania, ha osservato che le risposte della presidente dell’università del suo Stato, Elizabeth Magill sono state «inaccettabili». Mentre l’accademico progressista Laurence Tribe si è detto d’accordo con la deputata Stefanik, che ha duramente interrogato la presidente di Harvard, Claudine Gay: «Non sono un fan di Stefanik ma stavolta sono d’accordo con lei», ha scritto il professore di Harvard su Twitter/X. «La risposta esitante ed evasiva mi disturba profondamente, e lo stesso vale per molti miei colleghi, studenti e amici».
Tuttavia, mercoledì 6 dicembre, in seguito alle crescenti critiche, le dirigenti hanno cercato di ritrattare o mitigare al meglio le loro affermazioni controverse fatte durante l’udienza al Congresso Usa: la presidente Gay ha emesso una dichiarazione cercando di correggere le interpretazioni distorte delle sue osservazioni osservando che le richieste di genocidio contro gli ebrei non sono tollerate ad Harvard. Ha sottolineato che gli appelli alla violenza o al genocidio contro la comunità ebraica sono categoricamente vili e che coloro che minacciano gli studenti ebrei saranno chiamati a risponderne.
D’altro canto, la presidente Magill, sembra aver ritrattato alcuni dei suoi commenti che hanno suscitato una forte indignazione, ammettendo che aveva dato priorità alle preoccupazioni sulla libertà di parola a scapito di altre considerazioni. Ha riconosciuto che l’appello al genocidio del popolo ebraico è «malvagio, chiaro e semplice» e ha dichiarato che costituisce molestia o intimidazione. «In quel momento, ero concentrata sulle politiche di lunga data della nostra università in linea con la Costituzione degli Stati Uniti, secondo le quali la parola da sola non è punibile», ha detto Magill in un video. Tuttavia, ha chiarito mercoledì che l’appello al genocidio è inaccettabile e sarà oggetto di un’attenzione seria e approfondita per quanto riguarda le politiche dell’università.
Le divergenze tra i presidenti emergono in un contesto di crescente tensione nei campus universitari statunitensi, con studenti e docenti filo-palestinesi sotto accusa di antisemitismo. Sebbene i presidenti concordino sull’importanza di affrontare l’antisemitismo, divergono su come gestire specifiche manifestazioni, come i canti invocanti l’Intifada.
• LE REAZIONI La Casa Bianca ha risposto alla controversia sottolineando l’inaccettabilità degli appelli al genocidio, mentre musei come Yad Vashem hanno accusato i presidenti di minimizzare e contestualizzare l’antisemitismo. L’udienza si inserisce in un contesto più ampio di indagini governative sul crescente antisemitismo e islamofobia nei campus universitari, che hanno portato alcune scuole a affrontare azioni legali e perdite di finanziamenti. La deputata Stefanik, ex studentessa di Harvard, è stata coinvolta in passato in polemiche riguardanti presunte posizioni antisemite.
(Bet Magazine Mosaico, 8 dicembre 2023)
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Parashà di Vayèshev: Perché Yosèf insistette nel raccontare i suoi sogni?
R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) nel suo commento alla Torà afferma che Yosèf, nonostante fosse l’undicesimo fratello, istruiva i fratelli maggiori su come prendersi cura del gregge. È poiché era solo un ragazzo di diciassette anni, anche se era il più intelligente di tutti, peccò nel raccontare al padre gli errori dei fratelli e poi i suoi sogni. La sua mancanza di esperienza fece sì che non si rese conto delle conseguenze delle sue parole. Il padre Ya’akòv lo favoriva apertamente per via della sua evidente superiorità. E poiché era figlio della sua amata moglie Rachele, Ya’akòv lo amava più di tutti gli altri figli. E poi fece per lui una tunica multicolore (Bereshìt, 37: 3). R. Sforno commenta che la tunica era un segno che sarebbe stato il leader sia del casato sia nella conduzione degli affari della famiglia. R. Shlomò Efraim Luntschitz (Polonia, 1550-1819, Praga) nel commento Kelì Yakàr scrive che quando il primogenito Reuven, primo figlio di Lea, si era rovinato la reputazione con il padre (ibid., 35:22), Ya’akòv elevò Yosèf, primo figlio di Rachele, allo stato di primogenito. La tunica era un simbolo della nuova posizione nella famiglia. Fu allora che Yosèf ebbe un primo sogno che raccontò ai fratelli: “Egli disse loro: udite, vi prego, il sogno che ho fatto. Noi stavamo legando dei covoni in mezzo ai campi, quando il mio covone si alzava e si ergeva dritto; ed ecco i vostri covoni si facevano intorno al mio covone, e gli si prostravano. Allora i suoi fratelli gli dissero: dovrai tu dunque regnare su noi? o dominarci? E l’odiarono più che mai a motivo dei suoi sogni e delle sue parole” (ibid. 37:6-8) Poi venne il secondo sogno: “Ed ecco che il sole, la luna e undici stelle mi s’inchinavano dinanzi. Egli lo raccontò a suo padre e ai suoi fratelli; e suo padre lo sgridò, e gli disse: che significa questo sogno che hai avuto? Dovremo dunque io e tua madre e i tuoi fratelli venir proprio a inchinarci davanti a te fino a terra? E i suoi fratelli gli portavano invidia, ma suo padre conservò memoria del fatto” (ibid., 37:9-11). R. Meir Simcha Hakohen,(Lituania, 1843-1926, Lettonia) rav di Dvinsk, nel suo commento Meshekh Chokhmà, al contrario di rav Sforno, offre una spiegazione che mette in una luce più positiva le azioni di Yosèf. Egli fa notare che l’espressione “udite vi prego” (Shim’ù na) è usata dai profeti quando vogliono ammonire il popolo. Yosèf, con queste parole, voleva dire loro: “Perché continuate ad avermi in astio? Il mio sogno mette in evidenza che sono destinato a comandare. Se non accettate questa situazione di buon cuore lo dovrete fare forzatamente”. E questo è il motivo per cui raccontò ai fratelli anche il secondo sogno. Altrimenti dopo aver visto la reazione dei fratelli al primo sogno sarebbe stata follia continuare a raccontare. Dopo il secondo sogno Yosèf cercò di moderare il loro astio e la loro gelosia affermando che il suo futuro dominio su di loro non era mancanza di rispetto così come non avrebbe mai mancato di rispetto per il padre. I sogni erano messaggi divini di quello che sarebbe avvenuto nel futuro.
(Shalom, 8 dicembre 2023)
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Parashà della settimana: Vayeshev (Si stabilì)
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Come festeggiano gli ebrei la Hanukkah?
La prima candela viene accesa stasera. Hanukkah è alle porte. Ecco una breve guida ai festeggiamenti.
Hanukkah è una festa gioiosa. Celebra due miracoli avvenuti in Giudea nel 139 a.C.: I Maccabei ebrei sconfissero gli invasori greco-siriani e un piccolo vaso di olio bruciò ininterrottamente nella menorah del tempio per otto giorni anziché uno solo.
Hanukkah 2023 inizia al tramonto di giovedì 7 dicembre 2023, quando viene accesa la prima candela, e termina il 15 dicembre, quando vengono accese tutte le otto candele. La parola Hanukkah in ebraico significa "dedicazione", poiché la festa commemora la riconsacrazione del Tempio Santo da parte dei Maccabei oltre 2.000 anni fa.
• USANZE DI HANUKKAH
Sia gli uomini che le donne sono tenuti ad accendere la Hanukkia o a partecipare all'accensione in casa. I bambini dovrebbero essere incoraggiati ad accendere la propria Hanukkia. La Hanukkia deve essere esposta alla finestra o all'ingresso della casa per pubblicizzare il miracolo.
Le luci di Hanukkah dovrebbero essere costituite da lampade o candele, cioè da un combustibile che alimenta una fiamma visibile su uno stoppino. Il modo ideale per adempiere al comandamento è con stoppini di cotone in olio d'oliva o candele di cera d'api; sono accettabili anche candele di paraffina o altri tipi di candele o lampade, ma non lampade a gas o luci elettriche.
Al momento dell'accensione, le lampade o le candele devono contenere una quantità di combustibile sufficiente a bruciare fino a mezz'ora dopo il tramonto. (Il "tramonto" è il momento in cui diventa abbastanza buio da rendere visibili tre stelle di media grandezza - circa 20-30 minuti dopo il tramonto, a seconda del luogo).
Le lampade o le candele devono essere disposte in fila e alla stessa altezza. Lo shamash - la candela "di servizio" che illumina le altre luci - deve essere posizionato lontano dalle altre (più in alto, fuori dalla fila, ecc.).
La prima notte di Hanukkah si accende un lume sul lato destro della Hanukkia. La notte successiva si accende un secondo lume a sinistra del primo, da sinistra a destra, e si continua così ogni notte.
Le due (o tre) benedizioni seguenti vengono pronunciate mentre si tiene lo shamash, immediatamente prima dell'accensione della menorah di Hanukkah, mentre la terza benedizione viene pronunciata solo la prima notte:
1 Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, Re dell'universo, che ci hai santificato con i tuoi comandamenti e ci hai ordinato di accendere la luce di Hanukkah.
2 Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio, Re dell'Universo, che in quei giorni, in questo tempo, hai compiuto miracoli per i nostri antenati.
3 (Quando accendiamo la luce per la prima volta quest'anno: Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio, Re dell'Universo, che ci hai dato la vita, ci hai sostenuto e ci hai permesso di arrivare a questo momento).
• REQUISITI SPECIALI PER LO SHABBAT
Durante lo Shabbat, che dura dal tramonto del venerdì sera al tramonto del sabato sera, è vietato accendere fuochi. Pertanto, le candele di Hanukkah devono essere accese presto la sera di venerdì 8 dicembre, prima delle luci dello Shabbat, che vengono accese 18 minuti prima del tramonto. Per le candele di Hanukkah di venerdì sera si deve usare olio extra o candele più grandi, in modo che brucino per un'intera mezz'ora dopo il tramonto.
Le candele di Hanukkah del sabato sera si accendono solo al termine dello Shabbat, dopo il tramonto.
• COSA SI MANGIA A HANUKKAH L'olio ha un ruolo importante nella storia di Hanukkah: una piccola giara di olio alimentò miracolosamente la menorah nel tempio per otto giorni. È tradizione ebraica mangiare cibi che riflettono il significato di una festività - come la matzah a Pasqua e le mele immerse nel miele a Rosh Hashanah - e Hanukkah non fa eccezione. Per almeno gli ultimi mille anni, gli ebrei hanno tradizionalmente mangiato cibi oleosi e fritti in occasione di Hanukkah.
I piatti più popolari di Hanukkah sono i latkes di patate ("frittelle di patate") e le sufganiot ("ciambelle fritte").
Hanukkah Sameach!
(Israel Heute, 7 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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A due mesi dalla strage inizia la terza fase della guerra
di Ugo Volli
• I combattimenti
Sono passati esattamente due mesi dal pogrom del 7 ottobre e i combattimenti proseguono. Secondo i comunicati dello stato maggiore, la Divisione 98, che raggruppa le forze speciali dell’esercito israeliano compresa la brigata Golani, ha lanciato un attacco e ha combattuto per la prima volta nel cuore di Khan Yunis. Le formazioni israeliane hanno sfondato le linee di difesa della brigata Khan Yunis di Hamas, hanno circondato la città e hanno iniziato a manovrare nel cuore della zona. Dall'inizio dell'attacco, i combattenti della divisione hanno eliminato molti terroristi in collaborazione con l’aeronautica, e hanno localizzato circa 30 pozzi di tunnel e li hanno distrutti. Khan Yunis è importante anche perché buona parte della dirigenza di Hamas a Gaza viene da quelle parti. Netanyahu ha annunciato che è stata presa la casa di Sinwar, che è il capo interno dell’organizzazione terroristica (c’è poi una dirigenza esterna in Qatar e in Turchia, che dovrà pure essere eliminata). Lui non era lì, anzi secondo Netanyahu si nasconde sottoterra, ma “il cerchio si chiude intorno a lui”
• La dichiarazione di Herzi Halevi
Il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano ha dichiarato ieri che la guerra è entrata nella sua terza fase, che dovrebbe consistere, a quel che si sa, nella distruzione completa delle roccaforti terroriste a Gaza. In effetti combattimenti molto pesanti si sono svolti e continuano ancora a Jabalia a Nord e, come si è detto, a Khan Younis a sud, con forti perdite per le milizie terroriste. Questa terza fase della guerra, che probabilmente implicherà i combattimenti più duri, dovrebbe durare, secondo quel che dicono gli esperti, circa un mese ancora, fino a quando saranno espugnati o distrutti anche i principali fortilizi sotterranei, naturalmente tenendo conto del fatto che Hamas si fa scudo tanto della popolazione civile quanto degli israeliani rapiti. Poi si potrà smobilitare parte dell’apparato militare e dovrebbero restare le truppe necessarie a ripulire le ultime sacche di resistenza.
• Il futuro di Gaza
Ciò implica la necessità di prevedere come cambierà la Striscia dopo la guerra. Innanzitutto il problema è chi la governerà: l’amministrazione Biden e alcune parti “progressiste” della politica israeliana vorrebbero farla amministrare da un’Autorità Palestinese “rinnovata”; ma non ci sono tracce di questo rinnovamento, anzi i quadri dirigenti restano quelli corrotti e antisemiti di sempre e vi sono stati molti segni di adesione da parte di dirigenti dell’AP all’azione di Hamas, che è sempre più popolare anche in Giudea e Samaria. Netanyahu in vari discorsi ha escluso di insediare a Gaza l’AP e ha escluso anche un’amministrazione internazionale, una formula che ha mostrato il suo fallimento in Libano e altrove nel Medio Oriente. Dunque vi sarà un controllo israeliano almeno per qualche tempo. Ma si pone anche la questione della ricostruzione: sarà consentito ai gazawi di tornare dov’erano o sarà richiesta una zona tampone (o “buffer”, come si dice) vuota ai confini di Israele?
• Il problema del Libano
Un’altra questione importante riguarda il Libano. Parlando ai sindaci e ai leader municipali del nord, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha detto mercoledì che il governo non incoraggerà i circa 80.000 residenti evacuati dalle comunità settentrionali vicino al confine libanese a tornare a casa, prima che Hezbollah venga respinto oltre il fiume Litani, nel sud del Libano, come previsto dalla risoluzione Onu 1701. Il timore persistente delle comunità del nord è di correre ancora il serio rischio di attacchi missilistici e soprattutto di incursioni in stile 7 ottobre da parte di Hezbollah. Ciò implica la possibilità di una seconda operazione al Nord, se non intervengono fattori che rafforzino il ruolo della forza di interposizione internazionale Unifil e eliminino il dominio terrorista sulla zona di confine con Israele. Il quotidiano Al-Akhbar, affiliato a Hezbollah, ha scritto che Stati Uniti, Francia, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita stanno conducendo una campagna per chiedere l’attuazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e il rafforzamento della presa delle forze UNIFIL nel Libano meridionale (con l’obiettivo di prevenire una guerra tra Israele e Hezbollah). L’altro quotidiano libanese Nida Al-Watan sostiene che la Francia sta portando avanti "azioni preparatorie" in vista di un'altra prossima visita dell'inviato americano Amos Hochstein a Beirut con l'obiettivo di raggiungere un accordo: "Il ritiro di Hezbollah dal Libano meridionale in cambio del ritiro di Israele dalle fattorie Sheba'a, Kfarchouba e il villaggio di Ghajar." Ma quest’idea di un ritiro di Israele dalle zone che il Libano pretende siano sue, contrariamente agli accordi armistiziali stabiliti nel 1948, difficilmente potrebbe essere realizzato, anche se questi territori sono molto piccoli e militarmente non significativi, sia perché vi sono cittadini israeliani che vi abitano, sia perché consentirebbe a Hezbollah un impatto propagandistico inaccettabile e incoraggerebbe nuove azioni contro Israele, per esempio sul Golan.
(Shalom, 7 dicembre 2023)
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“Distruggendo gli islamisti, Israele fa un favore al mondo civilizzato”. Parla Efraim Inbar
Hamas è molto popolare fra i palestinesi”, dice il professore della Bar Ilan University, presidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security. "Il day after a Gaza non è molto realistico. Israele non rimarrà nella Striscia e neanche l’Autorità Palestinese sa cosa fare"
di Giulio Meotti
“Stiamo avanzando a Gaza, Israele/">eliminiamo terroristi su terroristi, ma siamo preoccupati per gli ostaggi e non ci sono scambi sul tavolo. Abbiamo poche settimane davanti”. Parlando al Foglio, Efraim Inbar, professore emerito alla Bar Ilan University, presidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security e già consigliere di Benjamin Netanyahu, prova a fare il punto della guerra a Gaza. “Hamas è molto popolare fra i palestinesi e gli americani hanno un problema perché vogliono la soluzione due stati. Il day after a Gaza non è molto realistico, neanche l’Autorità Palestinese sa cosa fare e questo ci darà più tempo. Neanche gli egiziani vogliono la Striscia. Chi vuole gestire una popolazione pro Hamas e a favore dei Fratelli Musulmani? E Israele non rimarrà nella Striscia dopo aver distrutto Hamas. Niente di buono quindi verrà da Gaza dopo Hamas”. Nella Striscia, cambierà la sicurezza. “Ci sarà sicuramente una buffer zone per i kibbutz attaccati e al sud al confine con l’Egitto per prevenire l’ingresso di armi” prosegue al Foglio Inbar. “Gli egiziani non sono stati in grado di fermare l’infiltrazione di missili. Dopo sedici anni di continui attacchi contro la popolazione israeliana, durante i quali Israele ha cercato di contenere Hamas e di scoraggiarla, la presenza di un’entità terroristica lungo il suo confine non è più tollerabile”. Veniamo agli ostaggi. “Più tempo passano a Gaza più pericoli ci sono: tortura, fame e le possibilità che sopravvivono si riducono. Hamas non vuole negoziare. Sanno che non possono ottenere un cessate il fuoco definitivo e gli ostaggi sono la loro assicurazione. Hamas vuole fermare la guerra e sopravvivere. Gaza è la loro base territoriale per combattere Israele. Hamas è uno strumento a disposizione dell’Iran – sostenuto da Russia e Cina – per spingere gli Stati Uniti fuori dal medio oriente. L’Iran vuole la fine di Israele, non solo a causa del fervore religioso, ma anche perché riconosce che è l’unico stato nella regione che può impedire l’egemonia iraniana”. Il 7 ottobre è crollata l’intera infrastruttura di sicurezza israeliana. “Il 7 ottobre è il risultato della compiacenza, mancanza di immaginazione e non aver capito che Hamas non era stato contenuto” ci dice Inbar. “Davamo loro i soldi dal Qatar, permessi di lavoro etc, pensavamo che Hamas fosse una forza di governo e non solo una organizzazione terroristica. Non gli interessa la popolazione di Gaza. Un fallimento concettuale. La West Bank ha una importanza diversa per la sicurezza d’Israele e la lezione del 7 ottobre è di continuare a governare i territori per prevenire un altro pogrom. Hamas rappresenta un’ideologia islamica radicale che si oppone totalmente alla civiltà occidentale e nega il diritto all’esistenza di uno stato ebraico. Sfortunatamente, questa ideologia ha molti aderenti nel mondo musulmano. Inoltre, Hamas ha creato asili nido, scuole, servizi sociali e moschee, assicurandosi così un saldo radicamento nella società palestinese. I suoi messaggi sono popolari e giungono alle orecchie palestinesi. Nelle elezioni del 2005 (le ultime e uniche) Hamas ottenne la maggioranza nel parlamento palestinese. Tra i palestinesi, un recente sondaggio del settembre 2023 ha mostrato che il candidato di Hamas ha un indice di sostegno del 60 per cento nei territori palestinesi. Tutto ciò che Israele può fare è eliminare le risorse militari accumulate da Hamas per lasciarlo innocuo per il momento. Ciò significa che anche dopo la distruzione delle capacità militari di Hamas, le cellule dormienti appartenenti al movimento islamico mireranno a riprendere il controllo di Gaza e a continuare la campagna terroristica contro Israele che è la sua ragion d’essere. La lotta contro qualsiasi presenza occidentale continuerà indefinitamente”. Inbar non si fa illusioni sull’Europa. “Avete governi antisemiti che hanno perso la propria bussola morale, di fatto sostengono Hamas a continuare a governare su Gaza. Continueremo a combattere per la nostra sopravvivenza. Anni fa ero ad Atene a fare una conferenza, mi chiesero perché continuare combattere, quanti anni ancora, ecco cosa risposi: ‘Cento anni, come voi contro i turchi’. Il conflitto è davanti a noi. Israele, uno stato ebraico circondato da entità musulmane ostili, non può sopravvivere a meno che non sia militarmente forte e i suoi vicini non comprendano che un attacco contro di esso sarebbe molto costoso. Questa è l’essenza della deterrenza. Alla fine Israele prevarrà e, così facendo, farà anche un grande favore al mondo civilizzato”.
Il Foglio, 7 dicembre 2023)
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Antonio Guterres, l’amico potente di Hamas all’ONU
di Sarah G. Frankl
L’ambasciatore israeliano presso l’ONU Gilad Erdan ha criticato il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, invitandolo a dimettersi, dopo che Guterres ha invocato una rara clausola e ha spinto il Consiglio di sicurezza a discutere della situazione umanitaria a Gaza e a chiedere un cessate il fuoco tra Israele e Hamas.
Guterres ha scritto la lettera invocando l’articolo 99 della Carta delle Nazioni Unite, che stabilisce che
“il Segretario generale può portare all’attenzione del Consiglio di sicurezza qualsiasi questione che, a suo parere, possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale“.
È la prima volta che il capo delle Nazioni Unite invoca l’articolo da quando ha assunto l’incarico nel 2017, e la prima volta che un segretario generale ne fa uso dal 1989.
“Oggi il Segretario generale ha raggiunto un nuovo minimo morale”, scrive Erdan in un tweet. “Il Segretario generale ha deciso di attivare questa rara clausola solo quando gli permette di fare pressione su Israele, che sta combattendo i terroristi nazisti di Hamas. Questa è un’ulteriore prova della distorsione morale del Segretario Generale e della sua parzialità nei confronti di Israele”.
“L’appello del Segretario Generale per un cessate il fuoco è in realtà un invito a mantenere il regno del terrore di Hamas a Gaza. Invece di indicare esplicitamente la responsabilità di Hamas per la situazione e di chiedere ai leader terroristi di consegnarsi e restituire gli ostaggi, ponendo così fine alla guerra, il Segretario generale sceglie di continuare a fare il gioco di Hamas”, afferma Erdan.
“Chiedo nuovamente al Segretario generale di dimettersi immediatamente – le Nazioni Unite hanno bisogno di un Segretario generale che sostenga la guerra al terrorismo, non di un Segretario generale che agisca secondo il copione scritto da Hamas”.
Questa mattina il ministro degli Esteri israeliano ha accusato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres di sostenere il gruppo terroristico palestinese Hamas, ha chiesto le sue dimissioni e ha affermato che il suo incarico a capo dell’organismo mondiale è “un pericolo per la pace nel mondo“, in una reazione furiosa mercoledì alla lettera di Guterres che sollecitava un immediato cessate il fuoco nella guerra tra Israele e Hamas e alla sua invocazione di una rara clausola della Carta delle Nazioni Unite per sollecitare l’intervento del Consiglio di Sicurezza.
Eli Cohen ha detto che l’appello di Guterres per un cessate il fuoco nella guerra di due mesi a Gaza, scatenata dalle atrocità di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, “costituisce un sostegno” all’organizzazione terroristica palestinese ed è “un’approvazione dell’omicidio di anziani, del rapimento di bambini e dello stupro di donne”.
(Rights Reporter, 7 dicembre 2023)
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Le notti intorno al fuoco a Gaza e quei racconti che ci tengono vivi
di Benedetta Perilli
RAFAH – La notte nella Striscia di Gaza fa paura. Le bombe, le urla, le sirene delle ambulanze, i sospiri: da quasi due mesi di notte qui non c’è silenzio. Eppure da quando siamo arrivati a Rafah, ultima tappa del nostro peregrinare che ci ha visto spostarci sette volte dall’inizio della guerra, le sere sembrano quasi normali.
Nello scantinato di una casa nel centro città, messo a disposizione gratuitamente da alcuni amici, da poco ci siamo sistemati in 26, la mia famiglia e le altre persone che sono evacuate con noi. Ci sentiamo fortunati perché abbiamo un bagno e possiamo vivere in condizioni migliori rispetto a chi si trova nelle tende sul mare o nei rifugi.
La nostra vita ora ruota tutta intorno al piccolo fuoco che le donne accendono la mattina per scaldare l’acqua con la quale lavano i bambini - noi adulti riusciamo a farci il bagno soltanto una volta a settimana - e più tardi per cucinare. Non è facile per queste ragazze, abituate fino a due mesi fa a utilizzare elettrodomestici moderni, ritrovarsi a cercare la legna e accendere la brace che cerchiamo di tenere accesa tutto il giorno. Fino alla notte quando la fiammella diventa il centro delle nostre attività
Pur andando a dormire presto, quando scende il sole ci ritroviamo tutti intorno al fuoco. Prepariamo il tè - ogni tanto siamo riusciti a bere un caffè ed è stato un piccolo miracolo – e iniziamo a parlare. Di pettegolezzi di famiglia, di parenti che vivono fuori da Gaza. La sera è il momento in cui cerchiamo di sostenerci a vicenda e a volte anche di riderci su. Ce lo imponiamo, per la salute della nostra mente, e il metodo migliore per andare lontano da qui è quello di tornare indietro nei ricordi della vita a
Gaza prima della guerra.
Proprio ieri sera abbiamo raccontato ai più piccoli dei nostri viaggi in
Egitto e abbiamo promesso loro che finita la guerra li porteremo in vacanza fino al deserto del Sinai. Per loro è vitale, spinge la speranza verso il futuro. Nelle sere in cui riusciamo ad avere la connessione a internet io divento l’attrazione: essendo un giornalista ho accesso ai gruppi WhatsApp dove con i colleghi ci scambiamo informazioni su bombardamenti, morti, operazioni di terra. Non essendoci la televisione tutti vogliono sapere e allora per pochi minuti divento il loro televisore.
È in quei momenti che quello che succede fuori da questi attimi di serenità che ci siamo costruiti con fatica rientra prepotente nelle nostre menti. Così non posso fare a meno di pensare alle centinaia di persone che ho visto vagare per il centro di
Rafah in cerca di cibo: è il vero incubo di questa città che ora ospita oltre un milione di rifugiati. Hanno bisogno di saziare intere famiglie e non hanno soldi. Noi cerchiamo di mettere da parte il più possibile il cibo in scatola perché non ci sono frigoriferi e riusciamo a preparare soltanto un pasto al giorno per non sprecare cibo. Ieri sono riuscito addirittura a trovare delle arance, nessuno le vuole perché non saziano abbastanza. A Rafah si sentono soltanto pochi attacchi aerei ma la mia rete di colleghi mi racconta di pesanti bombardamenti a
Khan Yunis dove da ore le forze israeliane hanno accerchiato la casa di
Yahya Sinwar, il leader di Hamas che chiaramente non si trova lì. È stata distrutta da tempo ma da almeno cinque giorni l’area è stata fatta evacuare e i tank israeliani sono confluiti. Sono convinti che ci siano dei tunnel sotto lo stabile anche se noi siamo certi non sia così.
L’altra emergenza resta quella degli ospedali che non riescono a gestire la quantità di malati che arrivano per ustioni, problemi respiratori, ferite da esplosione. Succede nella struttura sanitaria di al-Aqsa, nel centro della Striscia, dove amici e colleghi parlano di una situazione terribile con i pochi medici in servizio – è stato lanciato un appello a medici e infermieri volontari - costretti a curare i pazienti sul pavimento perché non ci sono più barelle e lettini e malati in fila fuori dall’edificio in attesa di trovare posto.
Quando il fuoco si spegne e i pensieri della notte prendono il sopravvento c’è solo una speranza che mi dà la forza di andare avanti: Israele ha detto che Khan Yunis è l’ultimo obiettivo dopo il Nord e Gaza City, così voglio credere che la fine della guerra possa arrivare presto. Al massimo in due settimane. Non riesco a immaginare che qualcuno voglia stiparci qui a Rafah fino all’impossibile per poi costringerci a forzare il confine e a riversarci in Egitto. Dopo sette volte in cui ho detto ai miei di preparare le loro cose e salire su mezzi di fortuna per spostarci sotto le bombe, ora ci fermiamo qui. Buonanotte.
(la Repubblica, 4 dicembre 2023)
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Ecco il miglior liceo scientifico di Milano: “Il singolo è al centro dell’attenzione. Gli studenti imparano dai loro errori”
Il miglior liceo scientifico di Milano, secondo Eduscopio, è l’istituto della Comunità Ebraica, dedicato a Federico Jarach, per l’opzione delle scienze applicate. Si tratta della terza affermazione consecutiva, la quarta in 5 anni.
Su Il Giorno il dirigente scolastico Marco Camerini racconta i “segreti” del successo: “Abbiamo classi di 18-20 ragazzi: il giusto numero per seguire ciascuno, gestire le fragilità e lavorare bene in gruppo“, spiega il preside. “Nelle materie scientifiche si tende a pensare che ci siano studenti “portati“ o meno: non è così e qui lo dimostriamo – sorride la professoressa di Matematica e Informatica Dany Maknouz –. C’è l’attenzione al singolo, che viene proiettato in avanti senza abbassare l’asticella. Tutti raggiungono gli obiettivi, con i loro tempi, dando il massimo. Si procede per tentativi ed errori, si impara a gestire il fallimento. Le lezioni sono laboratoriali: anche in informatica si inizia programmando, la spiegazione viene dopo“. Il dirigente scolastico ricorda inoltre: “Abbiamo un referente per i disturbi dell’apprendimento e previsto un supporto all’orientamento prima che fosse richiesto dal ministero“. In questa scuola paritaria, dove quasi tutti fanno parte della Comunità Ebraica, sono pochissimi i bocciati. Gli studenti hanno nel loro programma obbligatoriamente lezioni di ebraico e di ebraismo: “Credo che imparare l’ebraico, che si legge da destra a sinistra, aiuti anche a sviluppare il pensiero divergente: allena ad avere elasticità così come l’approccio stesso dell’ebraismo, basato su domande“, continua. “La nostra è una comunità educante nella comunità. Spesso i ragazzi crescono insieme, già dalle primarie – aggiunge la professoressa Maknouz – ma per permettere loro una maggiore apertura siamo nella rete Ort con altre scuole internazionali, ebraiche e non solo. Organizziamo scambi, iniziative, summer school, partecipiamo a concorsi di divulgazione scientifica“. La scuola ha previsto anche delle borse di studio per consentire anche alle famiglie in difficoltà di frequentare la scuola paritaria e progetti di sostegno psicologico che sono stati potenziati dopo la pandemia. I risultati che spiccano quest’anno nella classifica di Eduscopio arrivano proprio dai primi maturandi del Covid: “Non li abbiamo lasciati soli, alla lontananza fisica abbiamo risposto con una vicinanza umana. Senza troppe lezioni frontali, che rischiano di allontanare, facendoli interagire di più“. “La pandemia ha fatto da catalizzatore a processi che erano già in corso – sottolinea il preside Camerini –: vediamo anche qui, come a livello nazionale, giovani più fragili che fanno fatica a gestire emozioni, carichi di lavoro, frustrazioni“. La scuola deve fare i conti con la guerra nella striscia di Gaza: “Tutti i nostri studenti sono stati colpiti dalla situazione, come noi adulti. Abbiamo perso parenti o amici, un nostro ex allievo è stato ucciso durante l’attacco di Hamas – ricorda il preside –. Abbiamo visto crescere le fatiche, gli attacchi di panico, l’insonnia, ma stiamo cercando di dare risposte“. Per questo, è nato così un progetto in collaborazione con un gruppo di ricercatori dell’Università Cattolica, che si occupa di Psicologia dell’Emergenza “per aiutare i ragazzi, le famiglie e gli insegnanti a elaborare quello che hanno visto, sentito, provato“, conclude il dirigente, che ricorda infine: “Abbiamo aperto le porte nelle scorse settimane a cinquanta studenti, anche piccolissimi, arrivati da Israele, ora sono quasi tutti rientrati. Un’esperienza che ha dato tanto a tutta la scuola, creando legami forti, che resteranno nel tempo“.
(Orizzontescuola.it, 6 dicembre 2023)
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Guerra. 61esimo giorno
Polemiche in Israele su liberazione ostaggi. Missile su Eilat
“La nostra priorità assoluta è riportare a casa tutti gli ostaggi”. Parlando con i giornalisti il capo di Stato maggiore Herzl Halevi ha ribadito come il salvataggio degli ostaggi sia in cima alla lista dell’operazione militare israeliana a Gaza. Un obiettivo, ha aggiunto il capo dell’esercito, che non è in competizione con l’eliminazione di Hamas. “Sono missioni complementari”.
A Gaza, nelle mani di Hamas e di altri gruppi del terrore, ci sono ancora 137 persone. Le rassicurazioni di Halevi sull’impegno per salvarli arrivano all’indomani di un teso incontro tra il premier Benjamin Netanyahu e una delegazione delle famiglie dei rapiti. Nell’incontro, a cui ha partecipato il gabinetto di guerra, Netanyahu ha affermato che “non c’è alcuna possibilità in questo momento di riportare tutti a casa”. Un’affermazione duramente contestata da diverse persone presenti alla riunione. Al gabinetto di guerra il Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi ha presentato un documento in cui si chiede di “agire con urgenza, con iniziativa e creatività, per raggiungere un accordo per il rilascio immediato di tutti gli ostaggi”.
I rapiti, sottolineano i loro famigliari, stanno attraversando “orrori disumani”. Molti non hanno ricevuto cure mediche adeguate per la loro condizione. “Abbiamo ricevuto solide informazioni che ci sono dei rapiti le cui condizioni sono peggiorate e che sono ora in pericolo di vita a causa di ferite o malattie non curate”, denunciano i parenti degli ostaggi. Nel mentre nuove informazioni emergono su chi è stato liberato. Un medico israeliano, parlando con l’Associated Press, ha dichiarato che almeno dieci dei civili israeliani rilasciati da Hamas – sia uomini che donne – hanno subito violenze sessuali o abusi durante la prigionia.
Sul terreno, il conflitto prosegue sia a Gaza sia nel nord d’Israele contro Hezbollah. Nella Striscia, dove altri due soldati sono caduti in battaglia, il centro delle operazioni continua ad essere Khan Younis. “Operiamo in modo professionale, evacuando la popolazione dalle zone di combattimento”, ha dichiarato il generale Halevi. “Molti chiedono a noi della distruzione a Gaza; ma Hamas è l’indirizzo a cui rivolgersi. È Yahya Sinwar (capo di Hamas). Le nostre forze trovano armi in quasi tutti gli edifici e case che perquisiscono”. Un deposito, situato vicino a una clinica e a una scuola, è stato scoperto oggi nel nord della Striscia. Al suo interno, centinaia di lanciarazzi, decine di missili anticarro, di esplosivi, razzi a lunga gittata, granate e diversi droni. Hamas prosegue nel frattempo nei suoi attacchi missilistici. Allarmi sono risuonati in diverse località del sud e anche Eilat, sul Mar Rosso, è tornata ad essere un bersaglio. Qui il sistema di difesa Arrow ha abbattuto in mattinata un missile balistico. Secondo l’esercito ad averlo lanciato è stato il gruppo terroristico yemenita degli Huthi, movimento finanziato dall’Iran. “Il missile non ha attraversato il territorio israeliano e non ha rappresentato una minaccia per i civili”, ha spiegato un portavoce militare. Ma questa nuova offensiva da lontano non è da sottovalutare nel rischio di una escalation regionale del conflitto.
(moked, 6 dicembre 2023)
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L’intervento del Rabbino Capo Riccardo Di Segni alla manifestazione "No antisemitismo, Npresuntoo terrorismo" a Piazza del Popolo
di Rav Riccardo Di Segni
Oggi è il 5 dicembre. Tra pochi giorni, il 17, saranno esattamente 50 anni, mezzo secolo, da un sanguinoso attacco terroristico palestinese avvenuto qua a Roma, all’aeroporto di Fiumicino, seguito da un dirottamento. 34 morti. Non so se qualcuno dedicherà il suo tempo e la sua attenzione al ricordo e soprattutto alla riflessione sul significato di quella azione. So in compenso che nei giorni passati nelle Università italiane, da Torino all’Orientale di Napoli, è stata ospitata con tutti gli onori, in collegamento a distanza, la protagonista di precedenti dirottamenti, avvenuti nel 1969 e 70. Ascoltata come un’eroina esemplare, solo blande proteste dei responsabili accademici preoccupati più per la sospensione delle lezioni che per la natura dell’evento.
Prima costatazione: in questo schema logico ci sono da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, gli oppressi contro gli oppressori. E se si sta dalla parte dei primi ogni sistema di lotta è lecito, terrorismo compreso, o perlomeno scusabile. Pensiamo, per fare un esempio, alla violenza sulle donne. Si manifesta nelle piazze per condannarla, giustamente, ma se le vittime sono donne israeliane ebree non meritano attenzione. Anzi si sventolano le bandiere di chi le ha violentate.
Poi c’è l’altro meccanismo: l’accusa all’altra parte di essere parimenti terrorista. Tutti uguali, tutti sullo stesso piano. Solo che c’è sempre uno più uguale dell’altro. È un meccanismo perverso che colpevolizza l’oggetto e non il soggetto della violenza, che gli nega il diritto alla difesa e alla vita. L’unica cosa che gli è consentita è farsi ammazzare e allora ti posso benignamente compatire. Ma non reagire. Come ha detto un’operatrice umanitaria, sì avete capito bene l’operatrice di una grande organizzazione che si definisce umanitaria, l’esistenza stessa di Israele è un peccato originale.
La storia è vecchia e gira da decenni. La vittima è diventata persecutrice. Un’idea diabolica che nega dignità, espone all’aggressione e, allo stesso tempo, libera dai complessi di colpa un intero mondo che ha consentito la Shoà. Fa parte di questo gioco l’uso delle parole, come genocidio e apartheid, le scritte che equiparano la stella di David alla svastica, che ribaltano la prospettiva, terrorismo delle parole.
Anche se non dobbiamo perdere di vista questo punto: le parole sono gravi, molti si sono scandalizzati e a ragione perché sono state bruciate le pietre di inciampo e per le scritte sui muri, ma non l’hanno fatto per qualcosa di molto più grave, la strage del 7 ottobre.
Questo meccanismo sta in questo momento colpendo gli ebrei ma è parte di un attacco più ampio a tutto l’occidente democratico. Voi occidentali –si dice- non potete parlare, non potete criticare perché siete in difetto, razzisti, colonialisti e quant’altro. Queste accuse sono ampiamente condivise da pensatori, opinion maker, docenti universitari, ma partono da sistemi dittatoriali e autocratici che calpestano qualsiasi diritto umano, ribaltando contro gli altri le accuse, è un modo abilissimo di guerra psicologica e non ce ne accorgiamo.
Non ci sono società ideali immuni da difetti ma ce ne sono sicuramente alcune molto difettose. È la scala di valori che si sta perdendo. È bello invocare la pace e la cessazione delle violenze. È terribile vedere chi soffre da qualsiasi parte stia. Ma la parola pace perde di senso se non c’è un progetto politico credibile, se non c’è una volontà bilaterale, se non si estirpa e si sconfigge il male.
Ecco perché le comunità ebraiche manifestano questa sera: per denunciare le falsità e i rischi per tutta la società.
Concludo con le parole del profeta Zekharia (8:19): “Amate la verità e la pace”.
(Shalom, 6 dicembre 2023)
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Gli indifferenti e il sionista che rivendico
di Lidano Grassucci
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime
Antonio Gramsci
Esistono momenti nella vita in cui non puoi seguire il gregge, momenti in cui la coscienza deve avere grazia alla pigrizia, alla uniformità, alla banalità delle ragioni presunte per un torto che non ritieni tale.
Mi dicono, ma chi te lo fa fare? Gramsci, me lo fa fare. La mia educazione me lo fa fare, il fatto che “a tempo perso so omo e l’omo se m’piccia” per dirla con le parole di Ciceruacchio al secolo Angelo Brunetti usate da Luigi Magni nel film “In nome del popolo sovrano”. A tempo perso so omo e l’omo se impiccia, costi quel che costi nell’esercizio della libertà individuale che mi fa diverso dall’altra umanità dove conta il “noi” e non l’io, dove in nome di tutti si calpesta l’uno.
Sto con Israele con i soldati e le soldatesse di Israele con la loro lealtà di combattere con la faccia e a viso aperto contro altri combattenti e non agire vilmente facendosi scudo di civili e bimbi.
Gli ebrei non sono miei fratelli maggiori, sono me stesso in preghiere diverse, in aspettative differenti ma nella consapevolezza che la bontà, come la cattiveria, che il giusto e l’ingiusto non hanno preso casa per sempre ma li cerchiamo, li troviamo sempre in modo differente.
Il primo soldato italiano entrato a liberare Roma dalla sua schiavitù in nome di Dio fu un ebreo e liberò me dai preti liberando se stesso dalla schiavitù cui ad entrambi ci costringeva la teocrazia.
Sto con Israele perché voglio vivere nella mia unicità, non nella altrui uniformità. Perché non rapisco bambini, non rubo a innocenti l’innocenza accusandoli di colpe collettive.
Mi hanno insegnato il perdono, ma non la rassegnazione. Mi hanno insegnato il diritto a resistere se offeso, anche davanti all’autorità se c’è ingiustizia. Non sono pacifista perché mai sopporterei una pace ingiusta, i cimiteri ospitano la pace ma non hanno vita.
Una sera ad una festa dei ragazzi che cercavano di essere ragazzi sono diventati non persone ma bersagli. Cercavano musica, hanno trovato odio. Cercavano di essere ragazzi e ballavano, bevevano, si baciavano senza chiedere a alcuno “come preghi” ma scoprendo occhi che trovassero i loro occhi, che scoprivano come farsi grandi, come essere felici, trovare piacere, scoprendolo nella bellezza di ogni dio di questa terra che è nella vita nuova dei ragazzi.
Tutto qui, una vita normale contro una non vita guidata, costretta. Una vita come quella che voglio, contro le voglie di altri di vedermi uguale a loro.
Vedete, questa guerra mi riguarda. E bisogna scegliere tra una società fatta di individui ciascuno se stesso, o un se stesso che non ha valore davanti alla comunità che lo sovrasta, lo costringe. Amo il tenore, il soprano meno il coro.
Mio nonno mi disse “non te levà mai i cappeglio, manca dinanze agli papa” . Poi si fermò, apri il coltello e aggiunse “co quisto ci rimonno la mela, ci taglio lo pano, ma n’abbozzo manco nu torto”.
Ecco, non sono indifferente. Sto con Israele con le sue libertà, l’altra parte non mi appartiene.
(Fatto a Latina, 6 dicembre 2023)
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Gli ostacoli che l’esercito israeliano deve affrontare
di Ugo Volli
• Una guerra asimmetrica
L’operazione di Gaza è di difficile interpretazione perché non si svolge secondo le modalità di una guerra tradizionale, dove gli eserciti avanzano o si ritirano sempre controllando un territorio preciso. Le mappe che mostrano le zone della Striscia in mano a Israele non sono cambiate quasi negli ultimi giorni: vi è una zona a forma di una lettera “L” maiuscola nella parte settentrionale della Striscia, che dall’angolo nordoccidentale della Striscia avanza lungo il mare e poi piega verso il confine israeliano, circondando la città di Gaza; poi sono stati conquistati l’angolo nordorientale di Gaza in corrispondenza di Sderot, un altro stretto corridoio che va verso il mare a due terzi della lunghezza della Striscia che chiude l’accesso verso nord di Khan Younis e qualche zona qua e là lungo il confine. Il resto è in mano a Hamas, e più spesso semplicemente senza controllo. Il fatto è che in questa guerra asimmetrica, dove il nucleo delle forze terroriste non si lascia vedere in superficie perché è annidato nel sistema delle gallerie e delle grotte artificiali, utilizzando anche largamente come scudi i civili, le loro abitazioni e installazioni pubbliche come gli ospedali. In questa situazione cercare di delimitare un territorio conquistato e tenerlo probabilmente è inutile e anzi molto pericoloso se non vengono ripulite le installazioni sotterranee, perché facilmente i terroristi possono spuntare alle spalle delle truppe che fronteggiano la zona non ancora presa, e fare gravi danni.
• Distruggere le installazioni terroriste
Per questa ragione Israele fa largo uso dell’aviazione e dell’artiglieria per distruggere le costruzioni dove sospetta siano annidati i terroristi, lavora per scoprire e distruggere le gallerie e i pozzi che vi danno accesso. Solo occasionalmente riesce a ingaggiare battaglia con i gruppi terroristi che le evitano perché non hanno armamenti pesanti, né carri armati né aviazione né artiglieria (salvo i missili che mirano però sempre alla popolazione civile di Israele e non ai militari: ieri c’è stato un massiccio bombardamento di Beer Sheva). Si è parlato addirittura di un sistema di pompe che dovrebbe inondare le installazioni sotterranee per eliminare i terroristi o snidarli. Il sistema di guerra dei terroristi è un “mordi e fuggi”, cui l’esercito deve rispondere analogamente. Insomma il lavoro dell’esercito non consiste nella presa di territorio ma soprattutto in incursioni mirate a liquidare il sistema difensivo sotterraneo, il che è indispensabile per prendere davvero piano piano il possesso di Gaza e liquidare i terroristi. Si tratta di un processo lento che implica lo spostamento della popolazione, con i conseguenti disagi. Ieri per esempio c’è stato di nuovo combattimento a Jabalia, a nord della città di Gaza, dove le forze israeliane erano entrate un mese fa. Ma la maggior parte degli scontri è avvenuta trenta chilometri più a sud, nei sobborghi di Khan Younis, dove si sospetta si nasconda lo stato maggiore di Hamas.
• Gli sfollati
Fra i pericoli della situazione vi è la presenza dei campi dove si sono accumulati gli sfollati che Israele ha cercato di sottrarre ai combattimenti. Essi sono per ora accumulati soprattutto nell’angolo sudoccidentale di Gaza, fra il mare e il confine con l’Egitto, una zona che a differenza della vicina Rafah è abbastanza priva di costruzioni e quindi meno suscettibile a fare da copertura ai tunnel terroristi. Ma queste folle hanno rifugi molto precari, rifornimenti alimentari insicuri, sono in buona parte anche fanatizzate contro Israele e sono dunque una massa di manovra utilizzabile dai terroristi. La loro stessa presenza, che deriva dallo sforzo di Israele di evitare di colpire vittime civili mentre cerca di eliminare le fortificazioni terroriste, è usata dai nemici per cercare di ridefinire la guerra al terrorismo cui Israele è stato costretto dalla terribile strage del 7 ottobre, in un problema umanitario che riguarderebbe solo la popolazione di Gaza, come se Israele facesse la guerra a loro. Ma è probabile che i terroristi possano cercare di suscitarvi movimenti di massa, scagliandole contro le forze israeliane col progetto di “tornare a casa” oppure dirigendole verso l’Egitto per ottenere che esso faccia pressione su Israele per terminare la guerra. Un dato chiaro infatti è che tutti gli Stati arabi e islamici della regione, che a parole proclamano la loro solidarietà con i palestinesi, non sono affatto disposti ad accoglierli. Sia la Giordania che l’Egitto, stati confinanti con Israele, hanno dichiarato che un tentativo di far rifugiare i gazawi nel loro territorio è improponibile, anzi sarebbe ragione di guerra.
• Giudea e Samaria
Continuano nel frattempo le operazioni di polizia delle forze di sicurezza israeliane in Giudea e Samaria, per evitare che si formino delle concentrazioni ostili o vi partano atti di terrorismo. Ieri vi è stata una nuova operazione a Jenin, che da tempo è una capitale del terrorismo solo nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese. Altre operazioni sono proseguite vicino alla linea verde che stabilisce i limiti teorici dell’AP, in particolare fra Tulkarem e Qalqilyia.
(Shalom, 5 dicembre 2023)
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A cosa è paragonabile il massacro del 7 ottobre?
Il direttore di IsraAid descrive gli orrori e le conseguenze dell'invasione di Hamas e spiega perché supera persino il massacro degli yazidi da parte dell'ISIS.
di Rachel Avraham
GERUSALEMME - Durante una conferenza Zoom, l'amministratore delegato dell'organizzazione umanitaria IsraAid, Yotam Polizar, ha dichiarato che il massacro del 7 ottobre è stato uno dei peggiori disastri umanitari che abbia mai dovuto affrontare: "Ci sono 60.000 sfollati a Eilat. La città ha raddoppiato la sua popolazione con persone provenienti dall'area di Gaza. Questo è un momento storico per IsraAid. Abbiamo lavorato in 62 Paesi, ma mai in Israele. Abbiamo spesso cercato di portare l'esperienza israeliana in situazioni di disastro, ma ora ne abbiamo bisogno per la prima volta nel nostro Paese".
"Abbiamo molta esperienza, io stesso lavoro in questo campo da 15 anni. Ho guidato un'operazione di soccorso in Giappone dopo lo tsunami, ma qui la paura è molto più grande. Ho la sensazione che qui sia ancora più spaventoso che in Sierra Leone. Ho guidato una missione drammatica in Afghanistan, dove abbiamo salvato 205 ragazze dai talebani in fretta e furia - ma non posso fare un paragone con questo momento".
• LAVORARE CON GLI YAZIDI Polizar: "L'unico paragone appropriato che posso fare è il nostro lavoro con la minoranza yazidi che ha subito un genocidio per mano dell'IS. Abbiamo lavorato per loro per cinque anni, cercando di aiutarli a superare il trauma".
Durante il genocidio degli Yazidi, 70.000 donne e ragazze sono state violentate. Yotam Polizar ha sottolineato che questo ha danneggiato in modo massiccio la loro capacità di condurre una vita familiare: "I bambini di un gruppo etnico crescono nella loro cultura e nella loro fede. Distruggere tutto questo in questo modo è stato un atto genocida in sé". Gli stupri di massa del 7 ottobre, le decapitazioni di bambini piccoli e la mutilazione dei cadaveri hanno lo scopo di distruggere la vita ebraica nello Stato di Israele in modo simile. Il terrore di Hamas è altrettanto traumatico per gli israeliani quanto il terrore contro gli yazidi".
• SUPERARE IL TRAUMA DEL MAR MORTO "Quando dobbiamo rispondere a una crisi, siamo su un aereo in meno di 12 ore. In questo caso, siamo rimasti scioccati. Ci sono volute 36 ore per entrare in azione. Ci siamo recati sul Mar Morto, dove sono stati trasferiti gli abitanti di Be'eri e di un altro kibbutz che aveva perso 100 membri. Abbiamo aperto un centro per bambini. Questi bambini devono essere aiutati a ritrovare la loro infanzia nel miglior modo possibile".
Polizar ha spiegato che è fondamentale lavorare con i bambini i cui genitori, fratelli o altri parenti sono stati massacrati, tenuti in ostaggio, torturati o violentati, o che hanno vissuto loro stessi atrocità simili per mano di Hamas: "I bambini non parlano del loro trauma, ma lo sfogano attraverso l'arte e altre attività".
Attualmente ci sono 10 spazi a misura di bambino per le persone colpite. Fortunatamente, sono in molti a voler aiutare. "Le persone traumatizzate hanno bisogno soprattutto di un luogo sicuro. Coordiniamo l'aiuto in modo che i soccorritori non se ne vadano a un certo punto e queste persone rimangano a mani vuote. Saremo gli ultimi ad andarcene".
Polizar riferisce: "Abbiamo reclutato 62 persone e raccolto 10 milioni di dollari. Stiamo lavorando con le Nazioni Unite e Medici senza frontiere. Loro lavorano a Gaza, noi non possiamo farlo. Dobbiamo parlare dei bisogni umanitari nell'arena globale, perché non abbiamo mai avuto nulla di questa portata".
IsraAid è stata fondata nel 2001 e ha sede a Tel Aviv. L'organizzazione, finanziata dalle donazioni, ha 350 dipendenti a tempo pieno. Polizar: "Non riceviamo praticamente alcun finanziamento governativo. Da un lato, questa è una benedizione perché ci dà flessibilità, ma è anche una maledizione se mai dovessimo avere bisogno di più fondi".
"Ho chiesto alle Nazioni Unite e a Medici Senza Frontiere di inviare persone qui, ma temono che questo possa mettere a rischio il loro personale a Gaza. Non è facile, soprattutto non ora. Ci stiamo concentrando sui bisogni umanitari, ma tutto è influenzato dalla politica". Il presentatore della Croce Rossa non ha menzionato il 7 ottobre e ha parlato solo di Gaza. Così ho dovuto descrivere la catena di eventi e questo mi ha involontariamente messo in una situazione politica. Non resteremo in silenzio se il 7 ottobre non verrà menzionato".
(Israel Heute, 5 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele non può tollerare l’incombente minaccia nel nord di un 7 ottobre targato Hezbollah
La risoluzione Onu del 2006 viene sistematicamente violata, mentre i terroristi libanesi filo-Iran non fanno mistero di voler attaccare le comunità israeliane in Galilea
Editoriale del Jerusalem Post
Gli israeliani che vivono nelle comunità del nord vicine al confine con il Libano hanno lanciato la scorsa settimana una campagna sui social network con il titolo “1701 o 10.07”.
Il numero 1701 si riferisce alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che pose fine alla seconda guerra in Libano dell’estate 2006. Tra le clausole di quella risoluzione, ce n’è una (art. 8.2) che afferma che non deve esserci “personale armato, postazioni e armi” tra il confine di Israele e il fiume Litani “che non siano quelle dell’esercito libanese e delle forze Unifil”.
Tale clausola è stata più violata che rispettata. Nei successivi 17 anni, Hezbollah – uno degli attori non statali più pesantemente armati al mondo, dotato di un arsenale missilistico superiore a quello di cui dispone la maggior parte dei paesi – si è trincerato nel Libano meridionale con armi, avamposti e milizie armate che sovrastano direttamente le comunità civili israeliane vicine al confine.
La data 10.07 è ovviamente un riferimento al massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Il messaggio della campagna “1701 o 10.07” è chiaro: riportate Hezbollah al di là del fiume Litani, come prescrive la risoluzione dell’Onu, cioè a distanza dal confine da cui incombe su comunità israeliane come Metulla e Zar’it, altrimenti è solo questione di tempo prima che un massacro come quello avvenuto nel sud il 7 ottobre venga replicato nel nord di Israele dai commando Radwan di Hezbollah.
In passato, Hezbollah ha apertamente dichiarato che i suoi piani prevedono di invadere la Galilea e impadronirsi delle comunità israeliane. Dopo il 7 ottobre, nessuno può liquidare queste minacce come futili spacconate.
Dallo scoppio della guerra a Gaza – una guerra a cui Hezbollah ha deciso di partecipare sparando contro soldati e civili israeliani razzi, colpi di mortaio e missili anticarro – Israele ha risposto con forza e ha distrutto diverse postazioni di Hezbollah posizionate sul confine settentrionale.
Il cessate il fuoco temporaneo accettato a sud per facilitare il rilascio di ostaggi nelle mani di Hamas, una tregua che Hezbollah ha unilateralmente applicato anche nel nord, ha portato alcuni giorni di tranquillità. Con le armi temporaneamente messe a tacere, tuttavia, i terroristi di Hezbollah sono di nuovo minacciosamente apparsi direttamente sul confine.
La scorsa settimana, in un incontro tra i leader delle comunità del nord e i vertici delle Forze di Difesa israeliane, tra cui il capo di stato maggiore Herzi Halevi, sono state presentate foto e video di miliziani armati di Hezbollah ancora una volta proprio sul confine.
Questo è qualcosa che Israele semplicemente non si può permettere.
Uno dei partecipanti all’incontro, il sindaco di Kiryat Shmona, Avichai Stern, ha detto d’essere rimasto sorpreso quando ha visto foto e video di terroristi Hezbollah in abiti civili al confine. “Ci era stato promesso che non avremmo più visto Hezbollah al confine e che chiunque si trovasse al confine sarebbe stato eliminato, ma in realtà sono tornati – ha detto Avichai Stern – Cosa impedisce a costoro di sparare con i loro Kalashnikov attraverso la recinzione di confine contro i civili nelle comunità israeliane? Dopo il 7 ottobre, c’è qualcuno che nutre dei dubbi sulle intenzioni, sulle minacce e sulle capacità dei nostri nemici oltre confine?”
Se è vero che Israele deve concentrarsi sulla guerra nella striscia di Gaza per smantellare le capacità offensive di Hamas e ottenere il rilascio di tutti gli ostaggi, è anche vero che non può permettere una situazione in cui Hezbollah, grazie anche alla tregua a Gaza, riprenda posizioni che si affacciano direttamente sulle comunità civili israeliane del nord.
Quelle comunità sono state in gran parte sgomberate. Ma affinché possano prima o poi tornare alle loro case, i cittadini israeliani sfollati devono essere sicuri che non ci sono terroristi Hezbollah pochi metri al di là dei loro cancelli. Questo a breve termine.
A lungo termine, Israele – mediante la sua forza militare, la diplomazia o una combinazione di entrambe – deve garantire che la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite venga rispettata e che Hezbollah non disponga di personale armato, risorse o armamenti a sud del fiume Litani.
Come ha detto all’incontro con il generale Halevi il capo del consiglio comunale di Metulla, David Azulai, “Israele deve capire che se Hezbollah non viene respinto al di là del Litani, qui non ci sarà uno stato: stiamo affrontando una seconda guerra d’indipendenza per il nostro diritto di esistere. Tutti gli stati arabi, l’Iran e gli Hezbollah ci stanno osservando e, se non sapremo fronteggiare la minaccia del nord, constateranno la nostra vulnerabilità”. Governo e Forze di Difesa, ha detto, “devono assolutamente rimuovere la minaccia dal confine settentrionale”.
Siamo pienamente d’accordo.
(israele.net, 5 dicembre 2023)
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Lettera ai nostri amici filopalestinesi
di Eve Boccara
I video dei civili israeliani fatti sfilare come trofei a Gaza sono rapidamente scomparsi dal web. Bisognava riconquistare sostegno.
Se ci sono cause che sembrano ovvie, quella palestinese vince a mani basse. Un'enclave in cui vivono, e troppo spesso sopravvivono, 2.000.000 di abitanti, la maggior parte dei quali poveri, separati da un muro da un Paese ricco e sviluppato che si dice sia la fonte della loro disgrazia. La disperazione è tale che un bel giorno questi "resistenti" attraversano il confine e, pieni di risentimento accumulato negli anni, massacrano uomini, donne e bambini dall'altra parte. La causa è cristallina, confortante per l'anima e dà al suo difensore la sensazione di far parte del proprio secolo. La narrazione sembra così perfetta che milioni di persone in tutto il mondo si uniscono, non solo sostenendo gli oppressi così come vengono presentati, ma anche riversando il loro odio verso l'oppressore. Strappano per strada i manifesti dei bambini rapiti, indifferenti agli stupri e alle torture, perché da qualche parte gli israeliani se la sono cercata.
Di fronte a questa prova del cuore, Israele fa la parte del perdente. Nonostante le lacrime, nonostante il profondo trauma collettivo, nonostante gli oltre 1.200 cittadini massacrati per ore e ore in quello che resterà il più grande incubo del Paese.
Ma per onestà intellettuale, il quadro israelo-palestinese in bianco e nero deve essere sfumato. Hamas ha iniziato una guerra il 7 ottobre. Non era una formula. Ha iniziato una guerra perché voleva farlo, anche se tutto sembrava relativamente calmo nella regione. Anche se nell'enclave arrivavano valigie di denaro dal Qatar con l'approvazione israeliana, ufficialmente a beneficio della popolazione. Hamas sapeva cosa sarebbe successo a Gaza e questo era il suo obiettivo. Non perché Netanyahu e Ben Gvir stiano colonizzando la Cisgiordania... Le persone che sono morte quel giorno stavano portando i bambini di Gaza negli ospedali israeliani. Credevano nella pace e non nel "grande Israele". Quindi no, Hamas non ha iniziato la guerra per motivi territoriali, ma perché il riavvicinamento tra Israele e l'Arabia Saudita stava per porre fine alla narrazione musulmana sui palestinesi. Israele stava diventando più accessibile e Hamas e Hezbollah stavano perdendo il loro splendore.
All'indomani del 7 ottobre, i video dei civili israeliani torturati e fatti sfilare come trofei a Gaza sono rapidamente scomparsi dal web. Bisognava riconquistare il sostegno dopo queste immagini atroci, che avevano turbato le persone e reso difficile l'empatia. Detto fatto. Nel giro di pochi giorni, mentre lo Stato ebraico preparava la sua risposta, per alcuni era già tornato a essere "senza cuore". "Netanyahu, il macellaio di Gaza" titolava persino Libération, il cui sostegno alla causa è stato spazzato via dalle migliaia di gazesi uccisi dalle bombe israeliane. Ma se Israele uccide più a Gaza di quanto Gaza uccida in Israele, non è perché Israele bombarda di più. Hamas lancia decine di razzi in territorio israeliano ogni giorno. Ma i suoi cittadini sono (relativamente) protetti dal famigerato Iron Dome che, pur proteggendo vite umane, danneggia la sua immagine internazionale.
Hamas, invece, dà al mondo ciò che vuole vedere: morti. I morti e la solidarietà internazionale rendono più facile per Hamas costruire tunnel, non rifugi per proteggere i civili, produrre razzi, non imprese e posti di lavoro. Se i gazesi soffrono, è colpa di Israele.
Ma al di là della guerra di comunicazione e della battaglia dei morti che Israele sta perdendo, c'è una questione fondamentale che l'opinione pubblica sta ignorando per motivi, ancora una volta, di pigrizia intellettuale. Si tratta dei valori. Nessuno al mondo vorrebbe vivere a Gaza, e non solo a causa del cattivo vicino israeliano. Anzi, non è affatto a causa sua. Nessuno vorrebbe vivere a Gaza perché gli omosessuali vengono lapidati e le donne devono uscire coperte... quando possono uscire.
In Israele, i cittadini godono di libertà fondamentali, come il diritto di criticare il governo o di fare jogging mattutino in pantaloncini. In Israele, una donna nuda e torturata, che sia ebrea, buddista o musulmana, non avrebbe potuto rimanere per mezzo secondo su un pick-up nel cuore della città. A Gaza, la folla era esultante (i video non sono di propaganda israeliana, ma provengono dagli stessi gazesi). Un dettaglio retorico? No. Non è un dettaglio retorico. Quindi, se Israele si batte perché le donne possano uscire vestite come vogliono, e se le folle continuano a sostenere, con la soddisfazione di una buona coscienza, uomini che manipolano allegramente la simpatia internazionale, le donne si daranno la zappa sui piedi.
(i24, 5 dicembre 2023)
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La caccia ai terroristi a Gaza
di Ugo Volli
• La situazione a Gaza
Il lavoro dell’esercito israeliano per l’eliminazione dei terroristi da Gaza procede in maniera progressiva e metodica. Ieri i primi carri armati sono entrati nella principale località del sudest della striscia, la città di Khan Yunis. La popolazione della città e i rifugiati già obbligati ad abbandonare le loro case nella parte settentrionale della Striscia erano stati preventivamente avvertiti e indirizzati al punto sicuro dell’estremità sud-occidentale del territorio di Gaza, fra il mare e il valico di Rafah con l’Egitto. Questa zona è diventata una grande tendopoli, assistita da ospedali da campo e rifornimenti internazionali, che vengono spesso assaltati da folle fuori controllo. Le strutture di governo di Gaza sono collassate, ma i terroristi non si interessano della popolazione, non danno rifugio ai civili nelle loro gallerie, non li assistono in alcun modo e anzi cercano di prendere per loro tutte le risorse che arrivano.
• La caccia ai terroristi
Non vi sono per il momento grandi scontri frontali, perché Hamas non vuole esporre le sue truppe alla sicura distruzione che arriverebbe da un tentativo di uscire in superficie e opporsi frontalmente all’esercito israeliano e d’altro canto la strategia israeliana è di non mettere a rischio i soldati nei tunnel pieni di trappole esplosive e di punti predisposti per gli agguati. I terroristi quando possono emergono dai loro pozzi per cercare di cogliere alla spalle i soldati, spesso confondendosi con i civili e senza portare uniformi. I soldati dirigono colpi di artiglieria e bombardamenti aerei dove hanno capito che vi sono i terroristi e lavorano per distruggere le gallerie, o almeno i pozzi che vi danno accesso. Ne sono stati scoperti finora circa ottocento, di cui cinquecento già distrutti. Questa caccia a un nemico che fugge, si nasconde, si muove sottoterra anche per lunghi tratti e poi riemerge per cercare di colpire alle spalle si svolge anche in territori da tempo occupati da Israele, nel nord della Striscia: è impossibile dire che un terreno è del tutto sgombero da minacce e il pericolo può venire da ogni casa, da ogni cespuglio. E in effetti ogni giorno qualche soldato cade in combattimento. Che Hamas sia ancora organizzato e capace di combattere si vede anche dai tiri di missili sulle città israeliane, che non sono cessati dalla ripresa dei combattimenti venerdì.
• Gli altri fronti
Si è acceso di nuovo il fronte del nord con Libano e Siria. Da qui ieri sono partiti di nuovo dei razzi anticarro che hanno colpito due automobili, ferendo otto persone. A questo attacco, come a tutti gli altri, è seguita una reazione dell’artiglieria israeliana, che ha colpito la fonte del fuoco e anche alcuni attacchi dell’aviazione che hanno pesantemente bombardato alcuni villaggi libanesi dove sono asserragliati i terroristi. Per il momento si tratta di conflitti a bassa intensità, che però potrebbero crescere di improvviso in una situazione di guerra vera e propria se l’Iran lo ordinasse. Un terzo dell’esercito israeliano, compresi i riservisti, è schierato in Galilea, per poter rispondere efficacemente a un’eventualità del genere. Un altro fronte è quello marittimo, dove gli Houti dello Yemen hanno assalito con razzi due navi che passavano nello stretto di Bāb el-Mandeb che chiude il Mar Rosso dando accesso all’Oceano Indiano e dunque al traffico dall’Europa e il Nordamerica verso l’India, la Cina e il Giappone. Fonti israeliane hanno dichiarato che queste due navi non hanno nulla a che fare con Israele, anche perché per evitare il rischio degli Houti la flotta commerciale israeliana in commercio con l’Oriente dall’inizio della guerra evita la scorciatoia del canale di Suez e prende la via della circumnavigazione dell’Africa, benché ciò implichi alcune settimane di ritardo e un costo maggiore.
• Giudea e Samaria
Dopo l’attacco a Gerusalemme che ha provocato quattro morti israeliani (uno vittima del fuoco amico di un soldato, su cui è in corso un’inchiesta), le forze di sicurezza israeliane continuano a cercare di prevenire il terrorismo radicato in molte città e villaggi di Giudea e Samaria, che ricadono sotto l’amministrazione dell’Autorità Palestinese. Nella notte vi è stata una perquisizione nella città di Qalqilya, distante appena una dozzina di chilometri dai sobborghi settentrionali di Tel Aviv. Negli scontri che sono seguiti sono stati eliminati due terroristi. Anche grazie all’intensa attività di prevenzione, comunque, non vi è stata finora quella sollevazione generale che i terroristi speravano. In particolare c’è calma fra gli arabi israeliani e addirittura vi è stato l’invito ai terroristi a deporre le armi da parte di Mansur Abbas, parlamentare presso la Knesset dal 2019 e leader del partito arabo-israeliano Lista Araba Unita, che aveva partecipato al governo Bennett due anni fa. La dichiarazione è stata criticata dalla fonti dell’Autorità Palestinese, tutte schierate a favore di Hamas, e subito annacquata, ma resta interessante. Anche perché Hamas il 7 ottobre ha ucciso e rapito anche alcuni beduini, arabi israeliani della parte meridionale del paese, suscitando rabbia e minacce di vendetta tribale.
(Shalom, 4 dicembre 2023)
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Israele espande l'offensiva di terra
Israele invia i suoi carri armati nel sud della Striscia di Gaza. Nel frattempo, sono già iniziati i colloqui sul suo futuro politico.
TEL AVIV - Sabato mattina l'esercito israeliano ha esteso l'offensiva di terra nella Striscia di Gaza al sud del territorio. Il portavoce dell'esercito Daniel Hagari ha dichiarato domenica sera che l'offensiva stava interessando "tutte le aree della Striscia di Gaza". Lunedì testimoni oculari hanno riferito che i carri armati si stavano muovendo verso la città meridionale di Chan Junis.
Il capo dell'esercito Herzi Halevi ha anche sottolineato ai soldati, domenica, che l'esercito avrebbe agito contro i comandanti dell'organizzazione terroristica Hamas nel sud con lo stesso rigore del nord. Solo sabato l'esercito ha annunciato di aver ucciso Wissam Farhat, un comandante in parte responsabile del massacro terroristico.
L'esercito ha dato istruzioni ai civili della Striscia di Gaza. Ha dichiarato che la strada centrale di Salah al-Din era considerata una zona di combattimento e quindi chiusa. Ha designato le strade sulla costa, a ovest di Chan Junis, come corridoi umanitari.
Secondo l'esercito, lunedì sera ha attaccato più di 200 obiettivi terroristici. I soldati hanno scoperto gli ingressi di due tunnel terroristici in una scuola di Beit Hanun, nell'angolo nord-orientale della Striscia di Gaza. Uno di essi era dotato di trappola esplosiva.
• Morto un sospetto ostaggio
Lunedì l'esercito ha annunciato la morte di altri tre soldati. In totale, dall'inizio dell'offensiva di terra, il 27 ottobre, sono stati uccisi 75 soldati, ovvero circa due soldati al giorno. Dall'inizio della guerra, il 7 ottobre, sono stati uccisi 401 soldati.
È stato inoltre annunciato che una persona inizialmente classificata come ostaggio è morta. Il 21enne Jonathan Samarno era uno dei partecipanti al festival musicale Nova. La sua famiglia aveva inizialmente ricevuto solo l'informazione che Samarno era stato ferito da colpi di arma da fuoco, ma le sue condizioni esatte non erano ancora chiare.
• Altri lanci di razzi
Lunedì Israele è stato nuovamente colpito dal fuoco dei razzi. La città costiera di Ashdod e l'area di Tel Aviv sono state colpite. Milioni di persone si sono rifugiate nei bunker. Tel Aviv era già stata colpita nuovamente sabato, per la prima volta dal 20 novembre.
I combattimenti sono proseguiti anche nel nord. Lunedì l'esercito ha annunciato che i terroristi libanesi avevano lanciato razzi contro Israele. Domenica, un jet da combattimento ha abbattuto un drone che volava verso Israele.
Anche nel Mar Rosso la situazione rimane tesa. Domenica i terroristi Houthi hanno attaccato tre navi da carico con missili balistici nel corso di diverse ore. Il cacciatorpediniere americano USS Carney ha risposto alle richieste di soccorso degli equipaggi. I danni a due navi sono stati minori, in un caso il missile ha mancato il bersaglio.
Tuttavia, la USS Carney ha abbattuto tre droni che viaggiavano verso la nave. Secondo il Comando centrale degli Stati Uniti, responsabile per il Medio Oriente, al momento non è chiaro se i terroristi Houthi abbiano effettivamente preso di mira la nave. Il Comando centrale ha anche sottolineato che dietro gli attacchi c'è l'Iran.
• Le famiglie degli ostaggi insistono sui negoziati
Nel frattempo, le famiglie degli ostaggi chiedono un incontro con tutti i membri del gabinetto di guerra. Questo è composto dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, dal Ministro della Difesa Joav Galant (entrambi del Likud) e dall'ex politico dell'opposizione Benny Gantz.
Le famiglie chiedono di essere rassicurate sul fatto che il rilascio degli ostaggi sia ancora una delle priorità del governo. Secondo fonti israeliane, Hamas ha rotto il cessate il fuoco la scorsa settimana. I negoziati per ulteriori rilasci sono stati annullati e Israele ha ripreso le ostilità.
• Colloqui sul futuro della Striscia di Gaza
Nel frattempo, continuano gli sforzi diplomatici. Una delegazione della Casa Bianca vuole discutere del dopoguerra in Israele a partire da lunedì. Il consigliere per la sicurezza del vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris (Democratici), Phil Gordon, sta incontrando politici israeliani e palestinesi a questo scopo.
D
omenica Harris ha incontrato i leader di Egitto, Giordania e Qatar a margine della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici COP28. Tra le altre cose, ha parlato con loro del futuro della Striscia di Gaza. Questo futuro deve migliorare le vite dei palestinesi e garantire la sicurezza di Israele, ha scritto sulla Piattaforma X.
Il primo ministro israeliano Netanyahu si era già espresso sabato sul futuro della Striscia di Gaza. Ha sottolineato che non ci dovrebbe essere un ritorno dell'Autorità Palestinese (AP). Il ritorno di una "entità ostile" è già stato un errore negli anni '90, ha detto, riferendosi agli accordi di Oslo e all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Sia Hamas che l'OLP erano intenzionati a distruggere Israele.
(Israelnetz, 4 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it),
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Sinwar, segni di debolezza. Nel popolo della Striscia la rabbia contro i miliziani: "Così ci portano al disastro"
Perla prima volta dai messaggi degli abitanti emergono rabbia e sfiducia nei confronti dei leader jihadisti. La crudeltà dei miliziani rappresenta la loro forza, ma la determinazione di Israele li ha spiazzati.
di Fiamma Nirenstein
“Che Allah bruci Hamas”; “Hamas ci ha portato un disastro”… e altro. Questi post appaiono per la prima volta in questi giorni a Gaza. Il giornalista Khaled Abu Toameh spiega: anche a Gaza comincia a formicolare fra le case distrutte e la gente in fuga verso le zone indicate da Israele come spazi di non belligeranza, l’idea che l’uso cinico della popolazione come scudo umano abbia trascinato l’intera Striscia, i suoi abitanti, in un disastro senza precedenti. Filtrano le spiegazioni che Israele ripete in arabo tramite i suoi speaker: raccontano di nuovo la strage, la guerra seguita all’aggressione cui è obbligato a rispondere per sopravvivere, spiegano che Hamas usa la gente, chiede di allontanarsi dalle strutture prese di mira.
L’idea è anche che Yahya Sinwar e Mohammed Deif abbiano sbagliato i loro calcoli; che il piano per cui dopo il genocidio si resta al potere non funzioni, e che il ruggito d’odio si stia trasformando in debolezza con la determinazione di Israele a combattere fino in fondo. Hamas non se l’aspettava: in Medio Orientale la debolezza è la fine. Sinwar ha cercato di trascinare le interruzioni per le restituzioni fino a una vera tregua nella quale salvare il suo potere. La sua arma, i bambini e le donne rapite dieci a dieci, usate con ritardi e diminuzioni, con giochetti psicologici le ha usate fino a rifiutare di mantenere la promessa per conservarsi le carte migliori, ma Israele gli ha scoperto la trappola. Su Gaza, gli aerei di Israele volano di nuovo, presto comincerà la battaglia di terra; Khan Yunes, la città di Yahya Sinwar, quella in cui il 90 per cento si dichiara un guerriero di Hamas fin dall’età di cinque anni, dall’alto appare ormai come un cumulo di rovine, da là ieri certamente sono piovuti meno missili. Sotto terra, però l’intreccio delle gallerie è efficiente, forse Sinwar prepara sorprese, forse una fuga in Egitto. La sua crudeltà è la sua forza, tutti hanno paura di un leader che ha sepolto vivo un suo compagno accusato di fare il gioco di Israele, ma ora può diventare un criminale che ha portato solo disastri.
Kamala Harris mentre Israele usciva verso la nuova offensiva, ha di nuovo ribadito la linea USA per cui da una parte Israele deve distruggere Hamas, e dall’altra non spostare la popolazione, rispettarne l’integrità, non occupare spazi che devono invece essere conservati per un futuro in cui l’Autonomia palestinese di Abu Mazen ne prenda il posto “revitalizzata”. Harris vede una conclusione che ancora purtroppo sembra lontana, e suggerisce soprattutto la nostalgia per una formula in cui anche i palestinesi sembravano potere avere una faccia moderata. Il tempo, i mille no, gli stipendi ai terroristi di Abu Mazen, la mancata condanna delle azioni di Hamas suscitano dubbi: “Hamas vinse le elezioni a Gaza contro Fatah; Hamas lo sconfisse e lo buttò dai tetti. Oggi nel West Bank il favore per Hamas è dell’80 per cento, a fronte del 60 per cento pro Fatah” dice Abu Toameh. Paradossalmente è più facile che si accorga dell’orrore di Hamas la gente che ha visto uscire i kalashnikov e i missili dalle scuole e da sotto il letto dei bambini, della schiera di Abu Mazen. “La verità “dice Khaled stupito che questo possa accadere “la presenza di Israele non è stata accettata nemmeno a Ramallah. I “coloni” non sono quelli dell’West Bank, per Hamas e Fatah stanno a Tel Aviv o nei kibbutz del sud”.
(il Giornale, 4 dicembre 2023)
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La paura degli ebrei è concreta: cosa accadrà quando chi oggi manifesta pro-Hamas voterà i futuri governi europei?
Ester Moscati
di Paolo Salom
[Voci dal lontano Occidente] C’è ancora posto per gli ebrei nel lontano Occidente? Gli avvenimenti seguiti alla tragedia del 7 ottobre in Israele hanno devastato anche le sicurezze di chi ha creduto alle parole “mai più” pronunciate all’indomani della Shoah. Oggi, dalle comunità ebraiche in Italia e ancor più nel resto d’Europa e (figuriamoci!) negli Stati Uniti, tracima un filo d’angoscia che si è risaldato nelle menti di tutti al terrore dei secoli passati, quando le cronache erano scandite da persecuzioni e pogrom.
Gli ebrei contemporanei hanno riscoperto il terrore dei loro avi, quando era chiaro che la loro esistenza era una questione temporanea soggetta alla tolleranza dei più. Che evaporava nell’istante in cui un bambino cristiano scompariva e la responsabilità era chiaramente dei giudei. Oppure quando un Paese potente perdeva una guerra e il motivo era immancabilmente degli ebrei cospiratori e traditori.
Ora, è vero che le istituzioni hanno saputo reagire con prontezza, si sono schierate dalla parte di Israele. Dunque perché tanta paura? È la realtà dei fatti ad alimentarla. Le piazze d’Europa, le strade d’America e d’Australia, si sono riempite di folle urlanti. Gli slogan uditi a Milano erano costellati di finezze quali “Israele assassino”, “Aprite i confini, vogliamo uccidere i sionisti e gli ebrei”. Tutto questo all’indomani di una strage orrenda e ingiustificabile di esseri umani, uomini, donne, vecchi e giovani, bambini e neonati cui è stata tolta la vita non da un razzo o da una bomba (di per sé incapaci di discernimento seppure non meno terribili), ma da altri esseri umani che definiamo “belve” perché nel vocabolario non si trova altra parola.
E qui entra in campo il “sì ma”. L’unico artificio retorico in grado di spiegare la reazione di moltitudini di individui che, a migliaia di chilometri di distanza, si uniscono idealmente alle piazze arabe infarcite di odio e volontà omicida. Il “sì ma” ci rimanda alla vittimizzazione secondaria per cui, quando una donna denuncia uno stupro, si cercano i motivi nascosti per i quali “in qualche modo se l’è cercata”. Agli ebrei si imputa, facilmente, di tutto: hanno in mano la finanza, manovrano i governi come burattini e, soprattutto, hanno “colonizzato” la Palestina strappandola ai legittimi proprietari. Qualunque spiegazione storica o razionale è superflua oltre che inutile. Gli ebrei non hanno diritto a nulla. Né ieri (se li hanno perseguitati ci sarà pur stato un motivo); né oggi (Israele commette crimini ogni giorno); né domani (ci aspettiamo una prossima soluzione definitiva alla questione ebraica). Tutto questo agisce sugli ebrei – tutti – andando a risvegliare pensieri smarriti nell’idea che il passato non sarebbe più tornato. Non è così, purtroppo. E nemmeno la vicinanza delle autorità e dei governi è capace di lenire questa sensazione. Perché, noi, qui, viviamo in democrazia (per fortuna). Ma la democrazia è fatta dai popoli, dalle opinioni della maggioranza. Si esprime con il voto.
La paura degli ebrei è concreta e legittima: cosa accadrà quando future elezioni dovranno decidere futuri governi? Quali voci verranno ascoltate dai candidati e dai partiti? Non è accademia. Sono pensieri angoscianti per chi sa di appartenere a una minoranza. Ricordiamo bene come l’attentato alla Sinagoga di Roma fu reso possibile dal clima terribile seguito all’invasione israeliana del Libano (1982) – magari mal pensata ma resa necessaria dai continui assalti terroristici che da lì provenivano – con manifestazioni che scorrevano urlanti davanti al Ghetto, in un caso trasportando a spalle una bara vuota, che presto si sarebbe riempita del corpo di un bimbo di due anni, Stefano Tachè.
Un’ultima considerazione sul “sì ma”, al ragionamento che attribuisce responsabilità a Israele per quanto accaduto a Sderot e nei kibbutz devastati dalle belve di Gaza. Con tutti gli errori possibili che si possono giustamente attribuire ai governi in carica a Gerusalemme, uno – fatale – appartiene all’Occidente tutto. È quello di aver consentito per decenni, all’indomani di Oslo (che illusione!), di lasciar istruire almeno due generazioni di palestinesi su testi che predicavano l’equivalenza tra gli ebrei e “cani e scimmie”; che insegnavano addizioni e sottrazioni a seconda della riuscita di un attentato contro un autobus o una pizzeria; che cullavano i bambini all’asilo su nenie armate di coltelli pronti a sgozzare coetanei al di là di una frontiera incapace di proteggere le vittime designate.
Era solo questione di tempo. Questo tempo è arrivato. Il lontano Occidente si volterà di nuovo dall’altra parte?
(Bet Magazine Mosaico, 4 dicembre 2023)
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Il buio di Israele. Così è fallita l'“intelligence 2.0”
Il 7 ottobre è crollato il confine che doveva essere invalicabile. Eppure non sono mancati gli avvertimenti
di Giulio Meotti
Il 7 ottobre è crollato il confine che doveva essere invalicabile. Eppure non sono mancati gli avvertimenti
Hamas aveva costruito persino delle finte comunità israeliane per addestrarsi a un assalto su vasta scala, terminando un’esercitazione con le parole: “Abbiamo ucciso tutti nel kibbutz”. Ma gli avvertimenti dell’intelligence erano in gran parte stati liquidati come “fantasia”. I video mostrano i terroristi di Hamas che si addestrano in queste finte comunità israeliane, vanno di stanza in stanza uccidendo persone, facendosi strada attraverso cancelli dipinti di giallo come quelli dei kibbutz di confine e prendendo in ostaggio civili e soldati. Uno dei luoghi era a meno di un chilometro dal confine con Israele. Secondo il programma di notizie investigativo israeliano “Uvda”, un sottufficiale anziano, identificato solo dalla prima iniziale “Vav”, aveva inviato il 6 luglio un’email ai superiori con oggetto: “Morte nel kibbutz a qualsiasi prezzo”. Gli avvertimenti prevedevano accuratamente gli eventi del 7 ottobre. Vav aveva descritto come Hamas avesse costruito il modello di un kibbutz, arrivando a dargli un nome e a issare la bandiera islamica sulla sinagoga. “Lo scenario dell’esercitazione descritto dal sottufficiale è una completa fantasia: dobbiamo distinguere tra ciò che Hamas sta facendo per spavalderia e spettacolo, e ciò che è reale”, gli avevano risposto.
Yitzhak Brick è l’unico alto ufficiale militare israeliano ad aver previsto il 7 ottobre. “Potrebbe esserci un massacro, lo stato di Israele non ha ancora riconosciuto il pericolo”, aveva avvertito Brick. “Abbiamo la sensazione che tutto vada bene e che non vi sia alcuna minaccia, ma all’opinione pubblica non viene detto che Hamas si sta preparando. Attraverseranno il confine a piedi e attaccheranno e occuperanno i nostri insediamenti nel sud. La probabilità che ciò accada è molto alta. Hamas lancerà granate nei bunker e nei rifugi e farà un massacro”. Brick aveva detto queste parole mesi fa, ma nessuno ha voluto ascoltarlo. Aveva aggiunto che la tecnologia da sola non era sufficiente per vincere le guerre. “La verità è che una realtà immaginaria è stata creata dallo stato maggiore e diffusa in tutto l’esercito. I soldati hanno perso la motivazione e lo spirito combattivo negli ultimi anni e molti non sono pronti ad andare in battaglia. Ho visto soldati che non si prendono cura delle loro armi prima di lasciare la base. Nessun esercito al mondo si comporta così. I soldati portano con sé i loro smartphone ovunque. I comandi vengono inviati tramite gruppi WhatsApp. Questi telefoni vengono monitorati dal nemico. Siamo impazziti?”. Brick venne definito “delirante”.
Sabato 7 ottobre, l’ex capo del Mossad Yossi Cohen era a casa a Modi’in. Il telefono ha iniziato a squillare e lui ci ha messo poco a capire l’entità dell’orrore. “Un’operazione su così vasta scala, con un livello così preciso dell’esecuzione, con squadre addestrate che tengono in mano diagrammi schematici di un’operazione di cui abbiamo visto il risultato, in cui c’è una forza addestrata, competente, ben equipaggiata sia a livello militare che di intelligence, questo non è qualcosa che viene preparato sul momento, ma in lunghi mesi, quindi il fallimento dell’intelligence è inimmaginabile”, dirà Cohen. Anche le forze israeliane di sorveglianza delle frontiere, prevalentemente donne, conosciute come “tatzpitaniyot”, “vedette” in ebraico, avevano avvertito i superiori delle attività insolite a Gaza, come guerriglieri palestinesi che si addestravano con esplosivi o provavano attacchi contro un finto posto di osservazione.
Conosciuti come gli “occhi dell’esercito”, i tatzpitaniyot utilizzano telecamere e sensori di sicurezza per monitorare un tratto di territorio compreso tra 15 e 30 chilometri di cui sono responsabili. La sorveglianza comprende qualsiasi piccolo cambiamento nell’attività, compresa la routine degli agricoltori. Il lavoro richiede pazienza, concentrazione e ore trascorse a monitorare gli schermi. I tatzpitaniyot, soprattutto quelli della base di Nahal Oz, uno dei numerosi kibbutz invasi il 7 ottobre, avevano segnalato movimenti insoliti lungo il confine di Gaza nei giorni precedenti il pogrom. Ma c’era un prezzo da pagare all’illusione. Israele aveva speso un miliardo di dollari per costruire la barriera lungo Gaza. Doveva essere il “recinto che porrà fine a tutti i recinti”. Un multistrato metallico, acciaio e cemento che integrava una rete di telecamere, sensori, radar e sistemi d’arma telecomandati, monitorato da dozzine di torri che fungevano da hub di dati e posti di osservazione ad alta tecnologia. Un muro progettato per fermare l’infiltrazione. “Questa barriera, un progetto creativo e tecnologico di prim’ordine, nega ad Hamas una delle capacità che ha cercato di sviluppare e pone un muro di ferro, sensori e cemento tra lui e gli abitanti del sud di Israele”, aveva dichiarato appena tre anni fa l’allora ministro della Difesa, Benny Gantz, durante una cerimonia di inaugurazione. “La barriera sta cambiando la realtà e ciò che è accaduto in passato non accadrà più”, aveva aggiunto l’allora capo di stato maggiore Aviv Kohavi.
E poi un attacco come il 7 ottobre non avrebbe dovuto essere possibile mentre era in carica Benjamin Netanyahu. Era, come dicevano i suoi accoliti, “Mr Sicurezza”. Voleva essere ricordato come “il protettore di Israele”. Si era vantato del fatto che Israele non aveva mai conosciuto un periodo più pacifico e prospero dei sedici anni in cui è stato al potere (più di David Ben Gurion). Fu Netanyahu a lanciare il sistema Iron Dome per intercettare i razzi provenienti da Gaza. Uno scudo da terra e dal cielo. L’attacco del 7 ottobre ha mandato in frantumi queste presunzioni. Colto di sorpresa, l’esercito israeliano è sembrato immobilizzato, incapace di riprendere il controllo di alcune città e kibbutz per più di un giorno. Prima di tutto un fallimento di immaginazione. “Nell’intelligence israeliana, così come tra i decisori politici e ai massimi livelli militari, aveva preso piede un pensiero di gruppo ampiamente condiviso: vale a dire che Hamas si stava adattando ai doveri di governo” scrive Amnon Sofrin, l’ex capo sezione intelligence del Mossad. “Israele era disposto a garantire che la situazione economica nella Striscia di Gaza migliorasse – consentendo la consegna mensile di denaro dal Qatar (in valigie – poiché l’Autorità palestinese ha bloccato l’uso del sistema bancario per queste transazioni); e consentendo a più persone provenienti da Gaza di lavorare in Israele. L’ipotesi del governo era che la leadership di Hamas non avrebbe avuto alcun incentivo a lanciare un nuovo confronto con Israele poiché avrebbe continuato a concentrarsi sul miglioramento della vita dei residenti di Gaza”.
Questo “pensiero di gruppo” si è riaffermato quando Hamas ha scelto due volte, nell’agosto 2022 e nel maggio 2023, di restare fuori dai combattimenti quando Israele ha attaccato i leader del Jihad islamico a Gaza, provocando brevi cicli di combattimenti. “Dato che ai livelli più alti prevaleva la convinzione collettiva che Hamas fosse scoraggiato, anche i livelli operativi e tattici avevano questa impressione. Hanno fatto troppo affidamento sulla tecnologia”. Un fallimento senza precedenti per lo Shin Bet, il cui motto è “Magen VeLo Yera’e”, scudo invisibile, i leggendari servizi segreti interni d’Israele, politicamente ostili a Netanyahu. Un fallimento senza precedenti per l’“unità 8200”, che impiega gli israeliani più dotati in matematica, criptoanalisi e informatica, la famosa “start up nation”. E grazie al loro livello fenomenale nel campo della ricerca e dell’innovazione tecnologica diversi membri della 8200, una volta tornati alla vita civile, hanno spesso dato vita a società quotate al Nasdaq di New York e sono diventati milionari (come l’ex premier Naftali Bennett). Tra i successi più noti dell’Unità si ricorda l’intercettazione di una famosa conversazione tra il presidente egiziano Nasser e re Hussein di Giordania il primo giorno della Guerra del sei giorni, il colloquio tra il capo dell’Olp Yasser Arafat e il gruppo di terroristi che assaltarono la nave italiana Achille Lauro nel 1985, la decifrazione delle comunicazioni in codice tra l’Iran e il Pakistan in campo nucleare e la famosa intercettazione nelle acque del mar Rosso della “Karin A”, un piccolo mercantile carico di armi iraniane destinate ai palestinesi di Gaza. Ma soprattutto l’operazione che nel 2008, poco prima dell’attacco preventivo israeliano al reattore nucleare vicino a Damasco, mise fuori uso i radar siriani. Ma la 8200 non ha saputo prevedere il 7 ottobre.
È crollata la rete degli “aravim tovim”. In ebraico: gli arabi buoni. La rete di collaboratori palestinesi di Israele. Tutti i grandi capi di Hamas – Ahmed Yassin, Saleh Shehada, Abd al Aziz al Rantisi e Ahmed Jaabari – erano stati eliminati grazie a questi “traditori”. Israele ha un dipartimento apposito per loro: “humint”, gestione di risorse umane. Alcuni informatori odiano l’islamismo che ha brutalizzato i palestinesi, specie paragonato al tenore di vita dei palestinesi della Cisgiordania. Altri sono semplicemente prezzolati, oppure sono accusati di crimini “immorali” nell’islam, quali l’omosessualità o il consumo di droghe. Il 7 ottobre ha dimostrato che non erano così affidabili. “Da oltre un anno, prima del massiccio attacco di Hamas contro Israele, l’intelligence militare aveva informazioni dettagliate sul piano del gruppo di sfondare il confine di Gaza in dozzine di punti e attaccare le comunità e postazioni dell’esercito”, scrive su Haaretz Amos Harel, il miglior corrispondente militare israeliano. La maggior parte di queste informazioni sono state condivise con lo Shin Bet. Ma Israele non si era preparato alla minaccia e non sembrava credere che il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, intendesse attuare il piano. Anche il capo della divisione di ricerca dell’intelligence militare, generale Amit Saar, aveva avvisato di una “tempesta perfetta” che sfrutterebbe le turbolenze interne di Israele causate dalle manifestazioni contro la riforma del sistema giudiziario.
Con l’introduzione dell’alta tecnologia, la fiducia delle autorità nella loro capacità di fermare non solo gli attacchi dai tunnel ma anche le infiltrazioni in superficie è cresciuta. L’esercito ha diluito le forze della sua “Divisione Gaza”. Aveva ritirato le compagnie schierate in alcuni kibbutz. Mohammed Deif, capo militare di Hamas, si è reso conto che era giunto il momento di lanciare il più grande attacco a sorpresa. Anche un piano operativo per eliminare Sinwar era stato presentato a Netanyahu sei volte negli ultimi anni. Sinwar non trascorreva la maggior parte del suo tempo nascosto; aveva una presenza visibile e non si muoveva tra appartamenti segreti o bunker, a differenza del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah. Il piano per eliminare Sinwar è stato presentato a Netanyahu dai tre ultimi capi dello Shin Bet, ma Netanyahu aveva sempre rifiutato tutte le opportunità operative.Durante la guerra aerea del maggio 2021 con Gaza, Hamas aveva lanciato razzi su Gerusalemme nel tentativo di espandere i combattimenti. Migliaia di razzi lanciati da Gaza per oltre una settimana, mentre arabi ed ebrei si scontravano nelle città miste di Israele.
Ma Hamas non aveva attaccato il confine. I successivi scontri a Gaza, l’ultimo a maggio, avevano contrapposto Israele al Jihad islamico. I leader politici e militari si erano convinti che l’assenza di Hamas dai combattimenti dimostrasse che era stato scoraggiato, addirittura indebolito, preferendo investire nel benessere degli abitanti di Gaza.
“In questo modo Israele ha commesso un altro errore: ha aumentato il numero di permessi di ingresso per i lavoratori di Gaza in Israele” scrive Harel. Alla vigilia del 7 ottobre, il governo aveva promesso ai mediatori del Qatar di aumentare il numero dei permessi da 17 mila a 20 mila. La vecchia illusione “cash for peace”. Così è cresciuto il numero di palestinesi destinati a raccogliere informazioni sui kibbutz. Uomini di Hamas nelle carceri israeliane hanno riferito agli interrogatori dell’intelligence militare delle conferenze dei leader religiosi che sollecitavano l’inflizione del massimo dolore e sofferenza agli ebrei.Come raccontava il giornalista israeliano Anshel Pfeffer in “Bibi. The turbulent life and times of Benjamin Netanyahu”, Netanyahu vedeva “Israele dietro alte mura e che comunica con la sua anima gemella a seimila miglia di distanza”: gli Stati Uniti. Tom Segev, editorialista di Haaretz, scriveva: “Gli israeliani vogliono sapere quanto vale lo shekel (la moneta israeliana, ndr) e che non ci siano bombe sotto la loro auto”. Netanyahu era stato un maestro nel dare loro entrambe le cose. In economia, Netanyahu aveva inanellato un successo dietro l’altro, privatizzando una economia corporativa, arricchendo gli israeliani (quando Netanyahu ha sostituito Ehud Olmert il reddito pro capite era di 27 mila dollari, oggi è 37 mila), allacciando rapporti con i paesi arabi. Secondo uno studio citato nel libro di Pfeffer e realizzato da Nehemia Gershuni-Aylho, Netanyahu aveva avuto come premier il minor numero di vittime di guerra e di attacchi terroristici. Il 7 ottobre cambia tutto. Per sempre.
Nel suo discorso di accettazione del Premio Israele, lo scrittore David Grossman si era lamentato che il suo paese è una fortezza, ma non ancora una casa. Per Netanyahu, era meglio una fortezza sicura di una casa che brucia.
Il 7 ottobre è andato tutto in fumo.
Il Foglio, 3 dicembre 2023)
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RISOLUTAMENTE
"Poi, come s'avvicinava il tempo della sua assunzione,
Gesù si mise risolutamente in via per andare a Gerusalemme."
 
(Luca 9:51)
di Marcello Cicchese
Sul monte della trasfigurazione Gesù ha sentito Mosè ed Elia che parlavano della sua prossima "dipartita” (Luca 9:31). Ormai quindi Gesù sa che i tempi sono maturi: deve tornare a casa, nella casa del Padre suo. Qui, su questa terra, non ha mai trovato un luogo "dove posare il capo" (Luca 9:58).
Questo significa che per tutto il tempo della sua missione Gesù non ha mai avuto una casa veramente sua, non ha mai trovato un luogo in cui potesse pienamente riposarsi, sentirsi al riparo, compreso e protetto. Gesù, il figlio di Dio, non può trovarsi a suo agio dove ancora è presente il male. Ma dove si trova, sulla terra, un posto che sia al riparo dal male? Ovunque andasse, mattina e sera, giorno e notte, Gesù era e si sentiva uno straniero.
Adesso per Gesù si avvicina il tempo di tornare a casa. Il ritorno però non sarà come una scampagnata. Gesù deve andare a Gerusalemme, e non sarà come vent'anni prima. In quel tempio che Egli stesso aveva chiamato "la casa del Padre mio" non troverà più i dottori che lo ascoltano con ammirazione. Gesù sa che nel cammino verso Gerusalemme la sua solitudine aumenterà spaventosamente. Egli dovrà riavvicinarsi alla dimora del suo Dio senza allontanarsi dagli uomini, per i quali è venuto sulla terra: e questo lo porterà ad essere abbandonato da Dio e dagli uomini.
Gesù sa tutto questo, eppure, come dice il vangelo, "si mise risolutamente in via per andare a Gerusalemme" o, per esprimersi con la Diodati, "fermò la sua faccia per andare a Gerusalemme".
Il momento è arrivato. Gesù non perde tempo a guardarsi intorno, ma punta con fermezza la sua faccia in direzione di Gerusalemme e si muove risolutamente verso il luogo che fin dall'inizio sapeva essere la sua destinazione finale su questa terra.
Gesù è solo. Nella trasfigurazione ha avuto un ultimo momento in cui è stato tirato fuori dal gelo di questo mondo e ha sentito di nuovo il calore della casa del Padre. Ma adesso, per amore di quelli che intorno a lui lo fraintendono, lo deridono, lo odiano e lo disprezzano, deve imboccare il doloroso tratto finale del suo itinerario. Non c'è da guardarsi in giro; non ci sono altre possibilità: la via del ritorno a casa è una sola. E' spaventosa, tremenda, ma non c'è che quella. E Gesù la imbocca risolutamente.
Da questo momento Gesù manifesta durezza verso quelli che dicono di volerlo seguire. "Il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo"; "Lascia i morti seppellire i loro morti"; "Nessuno che abbia messo mano all'aratro e poi riguardi indietro, è adatto al regno di Dio". Questo dice Gesù a chi manifesta un tiepido desiderio di seguirlo.
E questo dice anche a noi, che professandoci cristiani, cioè seguaci di Gesù Cristo, troppo spesso ci gingilliamo coi nostri "problemi esistenziali" senza accorgerci che spesso non fanno altro che esprimere la nostra irresolutezza nel seguire il cammino indicatoci da Gesù. Egli ha sofferto più di tutti noi, ma il suo cuore è rimasto integro, perché ha risolutamente imboccato la via dell'ubbidienza a Dio. Per questo la sua sofferenza non ha mai assunto le orgogliose forme della disperazione, e al suo doloroso cammino Dio ha dato uno sbocco di gloria .
La nostra sofferenza, invece, spesso non ha sbocco perché il nostro cuore è lacerato. Vediamo la via che Dio ci indica, ma non ci decidiamo ad imboccarla risolutamente. Ci guardiamo intorno; ci chiediamo se i tempi sono maturi; distinguiamo fra teoria e pratica; facciamo largo uso di condizionali; e alla fine arriviamo a concludere che le cose sono molto complicate, come infatti dimostrano i nostri numerosi problemi.
La via di Gesù però è stata dolorosa, ma non complicata: la sua risolutezza nell'ubbidire al Padre l'ha resa semplice. E' la nostra irresolutezza che rende tutto complicato. Sono le complicazioni che provengono dal voler servire due padroni. Effettivamente, davanti alle indicazioni contrastanti di due padroni diversi, può essere laborioso riuscire a trovare ogni volta una comune chiave di lettura che consenta di dare loro un medesimo significato. Ci si prova, ma non sempre ci si riesce. Allora nascono sottili problemi di interpretazione, o di gerarchia di valori. Una volta si segue un'indicazione, una volta l'altra. Se non si è sicuri, si va per tentativi. Dopo però viene la paura di aver sbagliato! Allora si riprende in mano la cosa; si chiedono consigli ai vicini: se piacciono si ascoltano, altrimenti è chiaro che sono sbagliati. E così via. Effettivamente, in questo modo le cose possono diventare molto complicate. Ma sono le cose ad essere complicate? o siamo noi?
Impariamo allora a ridiventare semplici come fanciulli e decidiamoci ad imboccare risolutamente la via dell'ubbidienza a Dio. Per noi non sarà una via solitaria, perché Gesù cammina con noi.
("Credere e Comprendere", luglio 1987)
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Scambi di accuse sulla tregua fallita. Israele ora vuole una zona cuscinetto
Netanyahu: «Avanti fino alla distruzione di Hamas». I jihadisti: «Sono 178 i morti dalla ripresa del conflitto» Gerusalemme: «Violati i patti anche sulle donne in ostaggio». Trovato il corpo di un ragazzo rapito nel rave.
di Flaminia Camilletti
Alle prime luci dell'alba sembrava che si fosse chiuso l'accordo per un altro giorno di tregua, ma così non è stato. Alle 6 di mattina (7 locali), Israele ha annunciato che la tregua del conflitto era scaduta, spiegando che Hamas l'aveva violata. E il rimpallo di accuse è scattato subito con Hamas a incolpare Israele e viceversa (con la Casa Bianca a dare ragione a Gerusalemme). La tensione era salita nella notte quando Israele ha accusato gli islamisti di non aver adempiuto all'impegno di rilasciare tutte le donne rapite. Hamas ha risposto che invece erano state le autorità israeliane a rifiutare «di accettare tutte le offerte di rilascio». Il risultato è che i razzi hanno ricominciato a volare nei cieli e i miliziani hanno subito ripreso a fare la conta delle vittime nella Striscia di Gaza: 178, secondo il portavoce del ministero della Sanità controllato dai terroristi, da quando sono riprese le ostilità. Al varco di Rafah il transito degli aiuti è stato bloccato.
Dure le parole del premier israeliano, Benjamin Netanyahu: «Continuiamo a combattere con tutta la nostra forza fino al raggiungimento degli obiettivi: il recupero dei nostri ostaggi, la distruzione di Hamas e la garanzia che Gaza non rappresenterà mai più una minaccia per Israele». Inoltre i servizi d'intelligence si starebbero preparando a uccidere i leader di Hamas sparsi nel mondo dopo la guerra a Gaza, riferisce il Wall Street Journal citando alcune fonti secondo le quali la caccia prosegue in Libano, Turchia e Qatar.
Ad ogni modo la campagna contro Hamas non dovrebbe durare meno di un anno e la fase più intensa di terra dovrebbe combaciare con l'inizio del 2024. In questo caso la notizia viene data dal Financial Times che aggiunge che tra
gli obiettivi, Israele avrebbe l'uccisione dei tre top leader di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Marwan Issa. Eppure, nonostante la fine della tregua, la situazione degli ostaggi è tutt'altro che risolta: ci sarebbero ancora 115 uomini, 20 donne e due bambini prigionieri, ha detto un portavoce del governo israeliano. Nell'elenco risulta anche il piccolo Kfir Bibas, di 10 mesi, suo fratello Ariel di 4 anni e la madre Shiri. L'esercito ha detto infatti che sta indagando sulle affermazioni di Hamas secondo cui i bambini e la madre sarebbero stati uccisi.
Le notizie, insomma, sono confuse. Tanto che uno dei leader di Hamas in un'intervista alla Cbs ha detto: «Non so quanti siano gli ostaggi vivi». Nel frattempo è stato ritrovato il corpo di uno di loro nella Striscia di Gaza. Si tratta di Ofi.r Tzarfati, 27 anni, era stato rapito al rave il 7 ottobre. Morto durante la prigionia anche l'ostaggio Guy Iluz, 26 anni, anche lui rapito al festival. Per quanto riguarda il destino dei prigionieri israeliani «le trattative si svolgeranno in parallelo al fuoco», hanno chiarito le autorità israeliane, spiegando che se Hamas presenterà una lista accettabile di ostaggi da liberare, Israele riprenderà la tregua.
Sul campo sono diversi i fronti dove sono ripresi i combattimenti. Nella Striscia l'esercito israeliano sta conducendo una serie di attacchi contro obiettivi di Hamas. L'Idf ha anche lanciato nuovi volantini che invitano i residenti di Gaza a lasciare alcune zone del Sud di Gaza, segnalando un'offensiva in espansione. Le Brigate Al Qassam, invece, braccio armato dei terroristi, hanno dichiarato di aver attaccato con razzi le città dirAshkelon, Sderot e Beersheba, nel Sud di Israele.
Gli scontri si sono riaccesi anche con Hezbollah. La difesa aerea israeliana ha intercettato con successo un «obiettivo aereo sospetto» proveniente dal Sud del Libano, poi rivendicato dal partito sciita e antisionista libanese. Le due fazioni avevano rispettato una pausa non dichiarata nel corso della tregua concordata con Hamas, ma adesso Hezbollah ha chiarito che il confine con Israele rimarrà una linea attiva del fronte finché continuerà l'aggressione di Israele contro Gaza.
Sul piano diplomatico è stato definito storico l'incontro tra il presidente israeliano, Yitzhak Herzog, e l'emiro del Qatar, Tamim bin Hamad alThani, avvenuto a margine della conferenza sul clima negli Emirati Arabi Uniti. Si è appreso che i negoziati con Hamas - in cui il Qatar sta mediando - continuano nonostante la ripresa dei combattimenti.
Il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, nella stessa occasione ha avuto l' opportunità di incontrare il presidente Herzog, al quale ha ribadito il proprio sostegno. Mentre il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, rivolgendosi alla Meloni, ha affermato che «è essenziale prendere misure efficaci per fermare Israele in modo tale da porre fine alle uccisioni a Gaza».
Intanto emergono nuove imbarazzanti rivelazioni sulle responsabilità del massacro del 7 ottobre. Secondo il New York Times, infatti, alcuni dirigenti israeliani ottennero il piano di battaglia di Hamas per l'attacco del 7 ottobre più di un anno prima che accadesse. Gli stessi liquidarono il piano come ambizioso, ritenendo che fosse troppo difficile da realizzare per il movimento terrorista.
In serata Israele, per prevenire attacchi futuri, ha informato diversi Stati arabi di voler creare una zona cuscinetto sul lato palestinese del confine di Gaza. È una delle proposte per le soluzioni dopo la fine della guerra.
(La Verità, 2 dicembre 2023)
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Pesanti combattimenti nella zona sud di Gaza. Si cercano i leader di Hamas
Nella notte i reparti speciali dell'IDF hanno dato la caccia ai leader di Hamas segnalati a Khan Younis (così come gli ostaggi). Ne è uscita una feroce battaglia durata ore.
di Sarah G. Frankl
L’esercito israeliano ha condotto nella notte vaste operazioni contro Hamas e altri gruppi terroristici a Gaza, e pesanti combattimenti sono stati segnalati nella parte meridionale dell’enclave palestinese.
Nella zona di Khan Younis si sono svolti estesi combattimenti a terra, mentre si è appreso che alcuni dirigenti di Hamas sono presenti in città.
La Radio dell’Esercito dice che le forze militari stanno operando anche a Gaza City e a Beit Lahia, nel nord di Gaza.
Poche ore prima Israele aveva effettuato attacchi mirati a Khan Younis e Rafah, sempre nel sud di Gaza.
I gazesi hanno riferito che l’IDF ha lanciato volantini a Khan Younis invitando i residenti a spostarsi a sud verso Rafah, avvertendo che l’area è pericolosa.
L’IDF ha pubblicato in precedenza una mappa che divide la Striscia di Gaza in centinaia di piccole zone, che utilizzerà per notificare ai civili palestinesi le zone di combattimento attive.
Ha chiesto ai palestinesi di prestare attenzione al numero della loro zona e di seguire i futuri aggiornamenti dell’IDF.
L’esercito potrebbe usare questa mappa per chiedere ai palestinesi di aree specifiche di evacuare quando l’offensiva di terra dell’IDF si espanderà al sud della Striscia, invece di richiedere evacuazioni di massa come ha fatto nella parte settentrionale di Gaza.
“L’IDF sta operando con forza contro le organizzazioni terroristiche, compiendo al contempo grandi sforzi per distinguere tra civili e terroristi”, ha dichiarato l’esercito in un messaggio ai gazesi.
“Gli abitanti di Gaza non sono nostri nemici. Per questo motivo, da questa mattina l’IDF sta conducendo evacuazioni controllate e specifiche dei residenti di Gaza per allontanarli il più possibile dalle aree di combattimento”.
(Rights Reporter, 2 dicembre 2023)
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L'IDF colpisce 400 siti terroristici a Gaza mentre riprende la guerra contro Hamas
Un'ondata "estesa" di attacchi aerei ha preso di mira le infrastrutture di Hamas nell'area di Khan Yunis, nel sud di Gaza.
di Charles Bybelezer
Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato sabato mattina di aver colpito più di 400 siti terroristici nella Striscia di Gaza nelle ultime 24 ore, mentre la guerra contro Hamas è ripresa dopo un cessate il fuoco di una settimana.
Secondo le forze armate, gli attacchi della notte di venerdì hanno incluso un'ondata "estesa" di oltre 50 attacchi alle infrastrutture di Hamas nell'area di Khan Yunis, nel sud di Gaza.
Le forze navali hanno anche attaccato le risorse terroristiche di Hamas nella regione.
Pesanti battaglie di terra sono state combattute vicino a Khan Yunis, dopo che l'intelligence ha mostrato che i leader di Hamas si erano trincerati nella città, ha riferito anche Channel 12.
Si prevede che l'IDF estenderà le sue operazioni di terra al sud della Striscia di Gaza e ha pubblicato una mappa che divide l'area in decine di piccole zone, che saranno utilizzate per notificare ai civili palestinesi l'imminente combattimento attivo.
"Gli abitanti di Gaza non sono nostri nemici. Per questo motivo, l'IDF sta conducendo evacuazioni controllate e specifiche per allontanarli il più possibile dalle aree di combattimento", ha dichiarato l'esercito in un messaggio ai residenti di Gaza.
Nella notte di venerdì, le forze di terra nel nord di Gaza hanno effettuato attacchi aerei su diversi obiettivi, tra cui una moschea utilizzata dalla Jihad islamica palestinese per dirigere le operazioni terroristiche. L'IDF ha anche eliminato una cellula terroristica che aveva teso un'imboscata alle truppe.
In precedenza, cinque soldati dell'IDF sono stati feriti da un colpo di mortaio che ha colpito vicino al Kibbutz Nirim, situato vicino al confine con la Striscia di Gaza e a 4,3 miglia a est di Khan Yunis. Tre dei soldati sono in condizioni moderate, mentre gli altri sono stati feriti in modo lieve.
Le sirene dei raid aerei hanno suonato in tutto il sud di Israele per tutta la giornata di venerdì, e nel centro del Paese più tardi, mentre il fuoco dei razzi palestinesi aumentava.
Sabato, l'IDF ha confermato che i terroristi in Libano hanno lanciato numerosi razzi contro Israele la notte precedente. Il sistema di difesa missilistico Iron Dome non è stato attivato perché i proiettili hanno colpito in aree aperte, senza causare feriti o danni.
In risposta, l'IDF ha bombardato l'area da cui sono stati effettuati i lanci e i jet da combattimento hanno colpito la cellula terroristica responsabile del fuoco.
Venerdì, l'esercito ha colpito una cellula terroristica operante nel sud del Libano dopo che Hezbollah ha ripreso gli attacchi contro il nord di Israele.
Diversi razzi sono stati lanciati dal territorio libanese contro le postazioni militari lungo il confine vicino a Rosh Hanikra e Moshav Margaliot, e Iron Dome ha intercettato due razzi lanciati contro la città di Kiryat Shmona.
L'IDF ha ripreso le operazioni di combattimento a Gaza venerdì mattina dopo che Hamas ha rotto il cessate il fuoco lanciando razzi contro lo Stato ebraico.
In mezzo a nuovi combattimenti, il governo israeliano ha dichiarato di essere impegnato a garantire il ritorno a casa di tutti gli ostaggi.
Ad oggi, 110 persone sono tornate in Israele. Ottantasei sono israeliani e 24 cittadini stranieri. Secondo gli ultimi dati, 137 persone sono ancora prigioniere. Di questi, 20 sono donne e 117 uomini. Tra loro ci sono 126 israeliani e 11 stranieri.
I terroristi di Hamas hanno ucciso almeno 1.200 persone durante l'attacco del 7 ottobre alle comunità israeliane vicino al confine con Gaza. Altri 240 uomini, donne e bambini sono stati riportati nella Striscia come ostaggi.
(JNS, 2 dicembre 2023)
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L'esercito israeliano conferma la morte di sei ostaggi a Gaza
136 ostaggi israeliani sono ancora trattenuti da gruppi terroristici palestinesi a Gaza
L’esercito israeliano ha confermato la morte di sei ostaggi tenuti prigionieri nella Striscia di Gaza, ha annunciato venerdì il portavoce Daniel Hagari, aggiungendo di aver informato le loro famiglie. "Nei giorni scorsi, l'esercito e la polizia israeliana hanno informato le famiglie degli ostaggi Eliyahu Margalit, Maya Goren, Ronen Engel e Arye Zalmanovitz della loro morte", ha dichiarato in una conferenza stampa. "Un comitato di esperti del Ministero della Sanità, dell'Istituto di medicina legale, del Gran Rabbinato e del Ministero degli Affari religiosi ha stabilito la loro morte sulla base dei risultati (di un'indagine) e delle informazioni di intelligence", ha spiegato.
Inoltre, "durante un'operazione congiunta con lo Shin Beth (il servizio di sicurezza interno), sulla base di informazioni specifiche, abbiamo riportato il corpo dell'ostaggio Ofir Zarfati per essere sepolto in Israele", ha aggiunto. Poco dopo, il Kibbutz Beeri (sud) ha annunciato l'uccisione di Ofra Keidar, 70 anni, presa in ostaggio dai terroristi di Hamas.
Delle circa 240 persone rapite il 7 ottobre durante l'attacco mortale senza precedenti di Hamas nel sud di Israele e poi portate nella Striscia di Gaza, 136 sono ancora detenute lì, avevano annunciato le autorità israeliane.
(i24, 2 dicembre 2023)
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Un gruppo di volontari da Roma al sud di Israele per supportare gli agricoltori del sud
di Luca Spizzichino
“È stato veramente faticoso, però questo viaggio è stato pieno di soddisfazioni, ci siamo sentiti utili e questo è stato il massimo della gratificazione”. Queste le parole di Settimio Di Porto, che è tornato pochi giorni fa a Roma dopo aver passato cinque giorni in Israele per raccogliere frutta e verdura nei campi al confine con la Striscia di Gaza. Insieme a lui, altri cinque ebrei romani, che spinti dall’'iniziativa portata avanti dalla Hevràt Yehudé Italia be-Israel e dalle notizie che arrivavano dai notiziari israeliani, si sono imbarcati destinazione Aeroporto Ben Gurion e si sono rimboccati le maniche.
Questa piccola delegazione proveniente dalla comunità ebraica della Capitale ha aiutato gli agricoltori di Yakhini, un piccolo moshav, con poco più di 700 abitanti, che si trova 4 km da Gaza. Qui, dalle 8 di mattina fino alle 16, hanno raccolto centinaia di chili di pomodori, melanzane, peperoni e patate. “Ognuno di noi ha dato il massimo di quello che poteva” ha sottolineato Di Porto, che ogni giorno, seppur esausto provava molta tristezza a lasciare il moshav. Il motivo è semplice, da più di un mese questo piccolo paese è diventato praticamente deserto, solamente gli agricoltori e il personale della sorveglianza sono rimasti a controllare che tutto vada bene. Una sensazione che ha provato anche Giacomo Zarfati. “C’era un silenzio assordante, non passavano macchine e non si sentiva nemmeno un pianto, nulla” ha detto Zarfati.
Rendersi utile in qualche modo, questo è stato il motivo principale di Giacomo Zarfati, che da giovane ha fatto parte dell’esercito israeliano. “Non posso fare il miluim, quindi ho deciso di dare le mie braccia e mettermi a disposizione per aiutare a raccogliere frutta e verdura nei campi”.
Tornati esausti a Roma, ma consci del fatto di essere stati di supporto per i cittadini del Sud di Israele. Tutto il gruppo è certo di una cosa: il contributo loro e della Comunità Ebraica di Roma non si ferma qui. “Vorremmo portare altri gruppi in questi kibbutzim, per lo meno fino a febbraio” ha affermato Zarfati.
(Shalom, 30 novembre 2023)
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La tregua tra Israele e Hamas è finita
Antony Blinken era a Gerusalemme per tentare di estendere di qualche giorno la pausa, ma allo scadere dell'accordo, i terroristi non hanno fornito una lista di nuovi ostaggi da liberare e hanno lanciato razzi. I combattimenti a Gaza, dice Israele, sono ricominciati
di Micol Flammini
GERUSALEMME - La speranza che la tregua potesse arrivare almeno fino alle prime ore di lunedì, che potesse essere stiracchiata per vedere il ritorno di nuovi ostaggi, almeno di tutte le donne e bambini è finita ieri, quando Hamas, allo scadere dell'accordo non ha consegnato una lista di prigionieri da liberare e ha violato la pausa sparando razzi. Israele ha risposto colpendo anche il sud della Striscia di Gaza.
Già giovedì mattina, poco prima delle sette, la tregua sembrava arrivata alla fine, i miliziani della Striscia avevano indicato una lista di ostaggi soltanto allo scadere dell'accordo, che è stato esteso all’ultimo, e pochi minuti dopo, alle porte di Gerusalemme due uomini sono scesi da una macchina con un fucile d’assalto e una pistola e hanno iniziato a sparare a delle persone alla fermata dell’autobus, uccidendone tre. Gli attentatori sono stati neutralizzati da due soldati non in servizio e da un civile armato, avevano la macchina piena di munizioni ed erano membri di Hamas. L’organizzazione ha rivendicato l’attentato nelle ore in cui il segretario di stato americano, Antony Blinken, percorreva Israele, la Cisgiordania e andava infine a Dubai per parlare di tregua, ma anche della prossima fase di guerra.
E' stata una visita diversa dalle precedenti, Blinken è stato accolto prima dal presidente israeliano Isaac Herzog, poi ha incontrato il gabinetto di guerra con il premier Benjamin Netanyahu che ha pronunciato parole chiare: abbiamo giurato che elimineremo Hamas e gli israeliani non rinunceranno a questo obiettivo. E’ vero, la maggioranza degli israeliani crede che lo sradicamento di Hamas sia necessario e non possa essere rimandato. Così Blinken più che nel tentativo di stiracchiare la tregua era arrivato per farsi dire cosa intendeva fare Israele quando la guerra sarebbe ricominciato, e pur aspettandosi qualche ora di pausa in più, ha portato la raccomandazione del presidente americano Joe Biden, per il quale questo conflitto ha effetti disastrosi sui sondaggi, di proteggere i civili.
Il messaggio di Blinken è stato: la pressione internazionale su Israele e sugli Stati Uniti aumenterà se l’intensità dei combattimenti a Gaza non verrà ridotta. I piani dell’esercito sono di concludere in due settimane l’offensiva nella parte settentrionale della Striscia, poi muoversi a sud, dove ci sono circa due milioni di civili, che ieri dopo il riavvio dei combattimento hanno cercato di lasciare la zona di Khan Younis, in cui Hamas è ben radicato ed è una degli obiettivi dichiarato dell'esercito. Gli Stati Uniti vogliono una guerra diversa, hanno rassicurato che i sostegno continua, ma non vogliono vedere di nuovo le immagini della prima fase dei bombardamenti. Nella parte settentrionale della Striscia intanto, i soldati israeliani sono rimasti in attesa in questi sette giorni di pausa, ma il fatto che alcuni tra gli ostaggi liberati venissero da zone vicine a Gaza city, indica che all’esercito mancano ancora parti cruciali da controllare e quindi l’operazione a nord potrebbe essere più lunga di quanto pronosticato.
Blinken oltre al come, è venuto a informarsi sul quanto, e il ministro della Difesa Yoav Gallant gli ha detto che l’intenzione è quella di combaattere contro Hamas fino alla sua sconfitta, ma quello che slitta via dalle dichiarazioni pubbliche è che il sostegno americano è indispensabile per portare avanti l’offensiva e non potrà essere eterno, perché questo sostegno, Biden lo sta pagando a caro prezzo e la definizione di “vittoria” di Israele e di “sconfitta” di Hamas risultano ancora troppo vaghe. Secondo l’emittente israeliana Channel 12, Blinken ha insistito sul tempo dicendo che non ci sono mesi a disposizione, ma settimane.
I primi segnali che l’estensione della tregua stesse arrivando al suo limite ieri non arrivavano da Israele, che ha tutto l’interesse a vedere tornare a casa i suoi cittadini e anche dopo l'attentato a Gerusalemme aveva detto di essere disposto a portare avanti la pausa, ma non oltre i dieci giorni. L’accordo era nato con una durata fisiologica, prevedeva il ritorno delle donne e dei bambini, e per quanto ci siano soltanto stime di quanti potrebbero essere nelle mani di Hamas, prima o poi sarebbero finiti: tuttavia, anche questa parte dell'accordo è stata violata, perché ci sono ancora donne e bambini rapiti nella Striscia. La possibilità di un rilascio “tutti per tutti” – tutti gli ostaggi per tutti prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane – è un rischio troppo grande per la sicurezza di Israele e confligge con l’obiettivo di sradicare Hamas.
Ieri nella zona di Netivot, vicino alla Striscia, il sistema di difesa Iron Dome era entrato in funzione già in serata, probabilmente per fermare un attacco. I terroristi della Striscia, consapevoli che presto sarebbero tornati i combattimenti, hanno cercando con ogni mezzo di aumentare il ricatto su Israele sia riducendo il numero di ostaggi liberati, sia con gli appelli alla mobilitazione in tutti i territori fuori o dentro alla Striscia di Gaza. Puntano ancora a una guerra di più fronti contro Israele. Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, ieri ha fatto recapitare un messaggio ai suoi seguaci: il 7 ottobre era una prova generale.
Il Foglio, 1 dicembre 2023)
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Ricomincia la guerra. Spade di ferro giorno 56
di Ugo Volli
• La rottura della tregua
Sono ripartiti i combattimenti a Gaza. La scelta non è stata di Israele, che aveva deciso una decina di giorni fa di cercare di recuperare il maggior numero di rapiti anche a costo di stare all’infame mercato di Hamas (dieci rapiti per un giorno di tregua più trenta terroristi incarcerati in Israele), ma dei terroristi. Alle 5:48 di questa mattina le sirene che segnalano il pericolo per i luoghi bersaglio di lanci missilistici hanno suonato nelle comunità israeliane vicino al confine di Gaza. Pochi minuti dopo, l'esercito israeliano ha annunciato di aver intercettato con successo un lancio proveniente da Gaza. Un’ora dopo, alle 6:53, le sirene hanno suonato nel Kibbutz di Holit, situato vicino al confine di Gaza. Meno di mezz'ora dopo, alle 7:05, il comando israeliano ha annunciato: "Hamas ha violato la pausa operativa sparando verso il territorio israeliano. L’esercito ha ripreso il combattimento contro l'organizzazione terroristica Hamas nella Striscia di Gaza". In un successivo chiarimento, lo stato maggiore ha dichiarato che "in seguito al rapporto iniziale riguardante le sirene suonate nel Kibbutz Holit, sono stati identificati numerosi lanci dalla Striscia di Gaza verso il territorio israeliano. I lanci non sono stati intercettati secondo il protocollo [il che significa che il sistema di protezione aveva capito che i proiettili non erano stati diretti accuratamente e non rischiavano di colpire zone abitate]. Aerei da combattimento israeliani stanno attualmente colpendo obiettivi terroristici di Hamas nella Striscia di Gaza”.
• La quarta fase
Inizia così la quarta fase della guerra. Dopo la strage del 7 ottobre e la reazione immediata per respingere i terroristi oltre la frontiera e neutralizzare quelli che erano rimasti in territorio israeliano (prima fase, durata circa tre giorni), vi fu un lungo periodo (più di due settimane) in cui l’aviazione, la marina e l’artiglieria hanno bombardato le roccaforti di Hamas a Gaza e hanno neutralizzato truppe e capi terroristi (seconda fase). Poi, gradualmente, è iniziata l’operazione di terra, che in altre due settimane circa ha portato alla conquista della parte settentrionale della Striscia e di porzioni della città di Gaza (terza fase). Poi è giunta la tregua, prolungata un paio di volte fino alla durata di una settimana con la liberazione di una settantina dei 240 rapiti. Ora la guerra ricomincia, e Israele si è dato l’obiettivo della completa liquidazione dei movimenti terroristi, compresa l’eliminazione dei suoi capi principali e dunque la completa occupazione di Gaza e del suo sottosuolo fortificato, oltre che della liberazione degli ostaggi. Sarà una fase difficile, perché gli Stati Uniti hanno posto il veto a ulteriori spostamenti della popolazione di Gaza, che Israele aveva imposto per evitare perdite civili e avere libertà operativa. È probabile a questo punto che avvenga quel combattimento urbano e sotterraneo ravvicinato che l’esercito israeliano temeva per il suo costo di sangue sia fra le truppe che nella popolazione civile.
• Perché la rottura della tregua
Bisogna chiedersi perché Hamas abbia deciso la rottura della tregua, che sembrava essere un obiettivo strategico per l’organizzazione terroristica, utile per ristabilire il dominio su Gaza e salvare le forze e le armi. È chiaro che si vuole rivitalizzare la campagna politica mondiale per dichiarare Israele responsabile della crisi umanitaria di Gaza e danneggiare la sua rete di rapporti internazionali, magari coinvolgendo gli Stati Uniti. Vedremo nei prossimi giorni se ci saranno anche delle trappole militari preparate in questi giorni per mettere a rischio i militari israeliani.
• La liberazione degli ostaggi
Ieri vi era stato l’ultimo scambio dei rapiti. In un primo momento Hamas aveva consegnato Mia Schem (21 anni; una delle donne di cui una ventina di giorni fa, aveva trasmesso un messaggio video che chiedeva la tregua, il primo atto di guerra psicologica sulla pelle dei rapiti) e Amit Soussana, quarantenne del Kibbutz Kfar Aza. In seguito sono state liberate Nili Margalit (41 anni, infermiera dell’ospedale Soroka); Shani Goren (29 anni); Ilana Gritzewsky (30 anni, di origini messicane, rapita dal Kibbutz Nir Otz insieme al suo partner Matan Zangauker che è ancora nelle mani dei terroristi); Sapir Cohen (29 anni, anche lei rapita insieme al suo compagno Alexander (Sasha) Trupanob ancora detenuto da Hamas e con la madre e la nonna, che sono state liberate l’altro ieri); Aisha (17 anni) and Bilal Alziadana (18).
• L’attentato di Gerusalemme
Ieri vi sono stati due attentati rivendicati da Hamas: un investimento automobilistico nella valle del Giordano e soprattutto un attacco con armi da fuoco contro le persone che attendevano alla fermata dell’autobus all’ingresso di Gerusalemme in direzione di Tel Aviv. Due attentatori sono scesi da un automobile impugnando un fucile M-16 e una pistola e hanno aperto il fuoco, prima di essere uccisi dall'intervento immediato di due soldati israeliani, che erano presenti sul posto, e di un civile. I terroristi sono stati identificati come Murad ed Ebrahim Nemer, provenienti dalla parte orientale di Gerusalemme, affiliati ad Hamas. Murad è stato in carcere in Israele dal 2010 al 2020 per aver pianificato operazioni terroristiche a Gaza, mentre Ebrahim è stato imprigionato nel 2014 a causa di attività terroristiche. Nel veicolo dei due attentatori è stata trovata una grande quantità di munizioni. Sono stati constatati subito tre uccisi e sei feriti. Una delle tre vittime è un importante studioso e giudice rabbinico: Elimelech Wasserman. Le altre vittime sono due donne: Hana Ifergan, 67 anni, e Livia Dickman, 24 anni. L’ospedale Shaarei Tsedek si sta occupando dei sei feriti, uno dei quali purtroppo nella notte è deceduto.
(Shalom, 1 dicembre 2023)
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Nyt: "L'attacco di Hamas del 7 ottobre era noto da un anno a Israele". Il piano "Muro di Gerico"
Il New York Times ha analizzato un documento che descrive nel dettaglio l'aggressione terrorista contro Israele. Era finito nelle mani di funzionari dell'esercito e di intelligence, ma era stato ritenuto troppo ambizioso per le capacità del gruppo della Striscia. Il fallimento di analisi.
di Micol Flammini
Il New York Times ha esaminato un documento che era arrivato
sulle scrivanie di funzionari dell’esercito e dell’intelligence israeliani già un anno fa e che descriveva il piano di battaglia di Hamas per l’attacco terroristico del 7 ottobre contro Israele. Il nome in codice del piano è “
Muro di Gerico”, ma i funzionari hanno stabilito che si trattava di una serie di azioni troppo ambiziose e al di fuori dalla portata operativa di Hamas. Il documento tuttavia al suo interno racchiudeva la descrizione esatta di quel giorno, la progettazione metodica, i passi per prendere il controllo delle città israeliani e attaccare le basi militari. Il 7 ottobre c’è stata la sua realizzazione, passo dopo passo: inizio dell’attacco con i razzi, droni per mettere fuori uso le telecamere di sicurezza, mitragliatrici al confine e incursione di uomini armati a piedi, paracadute e motocicletta. Nel piano c’erano anche dettagli sulle posizioni delle basi israeliane, talmente precisi da sembrare una grave fuga di notizie interna. Il responso dei vertici militari fu che si trattava di un piano troppo ambizioso e che non era chiaro come si potesse concretizzare. A luglio però un analista del’unità 8200, l’agenzia israeliana che si occupa di leggere e identificare i segnali, aveva avvertito di una grande esercitazione di Hamas, che riproduceva mosse molto simili a quelle contenute nel piano Muro di Gerico. Le preoccupazioni sarebbe state ignorate per una seconda volta. Il New York Times ha ottenuto e le mail crittografate in cui un colonnello della divisione Gaza smentisce le preoccupazioni. L’analista della 8200 ha insistito: “E’ un piano progettato per iniziare una guerra. Non è solo un’incursione in un villaggio”. Muro di Gerico non era l’unico piano che indicava come Hamas avesse intenzione di spostare lo scontro dentro a Israele, un avvertimento era già arrivato nel 2016.
Il documento inizia con una citazione del Corano: Sorprendeteli attraverso il cancello. Se lo farete, vincerete – la frase è stata utilizzata spesso da Hamas. Ed è tutto basato sulla distrazione: distrarre con attacchi missilistici, costringere i soldati a rifugiarsi, sfondare in vari punti lungo il confine. Sono state l’ambizione e l’audacia del piano, che già sulla carta si era rivelato molto grande e che nella realtà è stato svolto in modo metodico e brutale concentrandosi soprattutto sulle violenze contro i civili, a portare alla sottovalutazione i funzionari israeliani, convinti che Hamas non disponesse neppure di un numero abbastanza elevato di miliziani per portare a termine il piano. Tra le note che corredano il documento si legge che un simile attacco avrebbe comportato anche la presa di ostaggi, ma ancora una volta, gli scenari sono stati definiti fuori dalle capacità di Hamas.
Quello che rivelerebbe il documento non è soltanto il fallimento del 7 ottobre, ma una lacuna più profonda, una falla non di raccolta di intelligence ma di analisi. Il New York Times sottolinea che non è chiaro se il governo e il premier Benjamin Netanyahu o altri leader politici sapessero dell’esistenza del documento.
Il Foglio, 1 dicembre 2023)
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Blinken mette in discussione i piani di guerra di Israele, facendo capire che il tempo sta per scadere
L'argomento principale della conversazione trapelata, non verificata, erano i piani di guerra di Israele per la Striscia di Gaza meridionale.
di David Isaac
Il Segretario di Stato americano Antony Blinken, partecipando a una riunione del gabinetto di guerra israeliano giovedì, ha messo in dubbio la strategia di Israele per riprendere la guerra contro Hamas e ha fatto capire che Israele non ha più tempo.
In una conversazione trapelata, anche se non verificata, riportata da Channel 12, Blinken si è concentrato sui piani di Israele per combattere Hamas nel sud della Striscia di Gaza (i combattimenti sono ripresi venerdì quando Hamas ha lanciato razzi contro Israele).
Blinken ha detto che Israele non può condurre l'attacco nello stesso modo in cui ha fatto nel nord della Striscia di Gaza, che l'IDF ora controlla in gran parte, poiché la densità di popolazione nel sud è aumentata da quando Israele ha detto ai gazesi di allontanarsi dalla zona di conflitto nel nord.
"Ci sono due milioni di palestinesi lì", avrebbe detto Blinken. "Dovete evacuare meno persone dalle loro case, essere più precisi nei vostri attacchi, non danneggiare le strutture delle Nazioni Unite e assicurarvi che ci siano abbastanza aree sicure. E se non ci sono, non attaccate dove c'è una popolazione civile". Quale sarà il vostro metodo operativo?".
Il Capo di Stato Maggiore dell'IDF, Ten. Gen. Herzl Halevi, ha risposto che la Forza di Difesa Israeliana si assicura di agire sulla base della "proporzionalità, del giudizio e del diritto internazionale". Ha aggiunto: "Ci sono stati momenti in cui abbiamo attaccato sulla base di questi principi, e altri in cui abbiamo deciso di non attaccare perché stavamo aspettando un'opportunità migliore".
Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha affermato che: "Tutta la società israeliana è unita intorno all'obiettivo di smantellare Hamas, anche se ci vorranno mesi".
Blinken ha fatto capire che Israele non ha tutto questo tempo: "Non credo che ne avrà il merito".
Blinken ha anche affrontato i piani di Israele per il dopo-Hamas, osservando che Israele non vuole che l'Autorità Palestinese prenda il sopravvento, ma non ha offerto un'altra idea.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato: "Finché siederò su questa sedia, l'Autorità Palestinese che sostiene il terrorismo, insegna il terrorismo e lo finanzia non controllerà Gaza il giorno dopo Hamas".
In una conferenza stampa di giovedì pomeriggio, Blinken è sembrato confermare parte della discussione del Gabinetto di Guerra, dicendo: "Nei miei incontri di oggi con il primo ministro e gli alti funzionari israeliani, ho chiarito che prima che Israele riprenda le grandi operazioni militari, deve mettere in atto piani di protezione umanitaria dei civili che riducano al minimo le ulteriori perdite di palestinesi innocenti".
"Ciò significa adottare misure più efficaci per proteggere le vite dei civili, anche designando in modo chiaro e preciso le aree e i luoghi nel sud e nel centro di Gaza dove possono essere al sicuro e fuori dalla linea di fuoco", ha dichiarato.
Tuttavia, Blinken non ha confermato che gli Stati Uniti abbiano posto un limite temporale al loro sostegno alle operazioni israeliane.
Alla domanda di un giornalista se fosse stata fissata una scadenza per lo sforzo bellico di Israele, Blinken ha risposto: "Gli Stati Uniti continueranno a sostenere gli sforzi di Israele per fare tutto il possibile per assicurare che Hamas non possa ripetere gli orrori del 7 ottobre".
"E questo significa, tra le altre cose, che Hamas non può rimanere responsabile della governance a Gaza e non può mantenere la capacità di ripetere quegli attacchi".
In una dichiarazione ufficiale israeliana rilasciata dopo l'incontro tra Gallant e Blinken, Gallant ha affermato che: "Combatteremo Hamas finché non avremo la meglio, non importa quanto tempo ci vorrà. Questa è una guerra giusta contro Hamas, l'ISIS di Gaza, ed è una guerra per riportare gli ostaggi a casa, finché sarà necessario".
(JNS, 1 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Va eliminato ma va lasciato lì dov’è
Dalle indiscrezioni che trapelano e che non hanno ricevuto smentite, ieri, durante il suo incontro con il gabinetto di guerra israeliano, il Segretario di stato americano, Antony Blinken avrebbe di fatto posto a Israele degli out out, confermando, se ce ne fosse bisogno, il suo effettivo commissariamento da parte degli Stati Uniti.
Cosa avrebbe detto Blinken?, che a sud, dove è concentrato il grosso di Hamas, Israele non può operare come ha fatto al nord, il che significa, che non può effettivamente sconfiggere Hamas. Avrebbe poi aggiunto che la guerra non può durare ancora dei mesi ma, al massimo, delle settimane, il che significa che Israele non può effettivamente sconfiggere Hamas. Non contento e basandosi su un sondaggio misterioso, avrebbe dichiarato che l’opinione pubblica israeliana non è disposta a sostenere una guerra prolungata, il che significa che la maggioranza degli israeliani sono a favore di lasciare Hamas nella Striscia.
Alla fine, prima di alzarsi e congedarsi, avrebbe detto che l’amministrazione Biden sostiene fermamente l’obbiettivo israeliano di eliminare Hamas.
(L'informale, 1 dicembre 2023)____________________
Gli USA desiderano che Israele resti "a bagno maria" a Gaza con l'assicurazione che Biden vuole l'eliminazione di Hamas. Proprio come stanno lasciando "a bagno maria" l'Ucraina con l'assicurazione che Biden vuole la distruzione della Russia. "America for ever". M.C.
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Archeologi cercano di resti e informazioni sui dispersi dei Kibbutz vicino Gaza
Da lontano, potrebbe forse sembrare un normale scavo archeologico, scrive il Times of Israel. Dei lavori in corso si possono quasi percepire il sussurro ritmico della terra fine che cade attraverso il setaccio e il tintinnio delle rocce osservate manualmente dagli studiosi, alla ricerca degli oggetti più piccoli. Lì accanto, si intravedono cazzuole e spazzole, insieme ai setacci quadrati e agli onnipresenti secchi neri per trasportare il materiale recuperato. Eppure, non si descrive lo scavo di un sito antico, ma l’attività che un gruppo di archeologi all’interno del Kibbutz Nir Oz, in Israele, vicino al confine con Gaza. Uno degli obiettivi dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre scorso.
Sei settimane fa, le case del Kibbutz erano completamente arredate e le famiglie si erano riunite intorno al tavolo dello Shabbat. Adesso, l’Unità per le persone scomparse dell’esercito israeliano IDF ha chiesto l’aiuto all’Autorità israeliana per le antichità per setacciare alcune delle abitazioni bruciate, nella speranza di identificare resti di corpi per poter fornire alle famiglie una risposta definitiva su cosa possa essere accaduto ai loro cari. A più di quaranta giorni dal massacro del 7 ottobre, non esiste infatti un elenco completo delle vittime. Il Ministero degli Esteri israeliano ritiene che durante gli attacchi di ottobre siano state uccise circa 1.200 persone e che almeno 240 siano state rapite e portate a Gaza, alcune delle quali poi liberate, ma fino alla scorsa settimana c’erano ancora circa quaranta persone considerate irreperibili, che potrebbero essere state rapite o uccise.
I patologi forensi lavorano ancora incessantemente per identificare i corpi di persone decedute attraverso il DNA ma, nei casi in cui le case sono state incendiate, l’esercito si è rivolto agli archeologi. La speranza è che la loro esperienza nel riportare alla luce resti umani vecchi di migliaia di anni possa aiutarli a trovare informazioni su quanto è accaduto ai dispersi. Così, da tre settimane, alcuni archeologi operano attivamente anche nei kibbutz Be’eri, Kissufim e Kfar Aza e anche tra le auto bruciate del festival musicale vicino a Re’im. Tutti su base volontaria. Un team dell’Autorità israeliana per le antichità ha già identificato i resti di almeno dieci persone nei vari kibbutzim vicino a Gaza, delle quali non si avevano più notizie. Il loro lavoro ha permesso agli esperti di identificare i resti di Vivian Silver, un’attivista pacifista canadese-israeliana che fino a questa settimana era stata ritenuta rapita da Hamas.
“Sappiamo come scavare strati [di terreno che riporta elementi ndr] di distruzione – ha detto al Times of Israel Hai Ashkenazi, manager geo-informatico che normalmente si occupa di studi del primo periodo del bronzo -. In questi strati, le cose vengono sempre conservate così com’erano in quel particolare momento. E qui, quello che stiamo vedendo è uno strato di distruzione, ma moderno, [contemporaneo]. E si tratta di persone del posto, per cui è davvero difficile”. “Siamo addestrati a lavorare con molta attenzione e a identificare i pezzi più piccoli – ha aggiunto Ashkenazi -. Sappiamo come lavorare in modo molto organizzato, partendo dallo strato superficiale e scoprendo lentamente le cose […]. Gli incendi sono stati così forti che in pratica è come se le persone fossero state cremate. Le ossa sono bruciate quasi completamente e ne sono rimaste solo poche schegge. Ecco perché stiamo procedendo con tanta cautela”.
In ogni abitazione che perquisiscono, gli archeologi fanno un quadrante della casa, setacciando metodicamente gli strati di cenere alla ricerca dei più piccoli frammenti di informazioni, nello stesso modo in cui si scavano con cura i siti antichi, un po’ alla volta. I soldati aiutano gli archeologi a setacciare i secchi che vengono rimossi da ogni casa, nello stesso modo in cui studenti e volontari assistono gli archeologi nei normali scavi. In alcuni casi, hanno trovato effetti personali che possono contribuire a una parziale identificazione, come un telefono cellulare bruciato o persino una fede nuziale. Tutti i frammenti di ossa e i resti che si ritiene appartengano a persone vengono portati all’IDF e trasmessi ai patologi forensi della base Shura o dell’Istituto di medicina legale di Abu Kabir, dove vengono sottoposti al test del DNA.
Nella maggior parte dei casi, tutto questo lavoro aiuta l’esercito a escludere che qualcuno si trovasse in casa o in una stanza specifica, ha spiegato Joe Uziel, capo dell’Unità per i rotoli del Mar Morto dell’Autorità israeliana per le antichità. Capire dove una persona è stata uccisa, o non uccisa, può infatti contribuire a chiarire il numero dei deceduti o dei rapiti. Ma, in almeno dieci casi, gli archeologi sono stati in grado di identificare resti umani che hanno permesso all’IDF di cambiare lo status di una persona scomparsa in deceduta.
• Saper studiare il passato e vivere la devastazione presente
Nell’ultimo decennio, metodi scientifici sempre più avanzati e l’intelligenza artificiale hanno permesso di fare scoperte sorprendenti su come vivevano le persone, su cosa mangiavano e su come costruivano gli utensili, a partire dalle più piccole evidenze, talvolta di dimensioni microscopiche. Vedere questi stessi precisi metodi archeologici utilizzati in case che solo poche settimane fa erano piene di vita e di voci è a dir poco devastante, soprattutto per gli archeologi stessi.
“I resti umani sono stati danneggiati al punto che solo l’uso della metodologia archeologica può aiutare [a identificarli]”, ha ribadito Uziel al Times of Israel. A parte il ritrovamento di resti, alcuni dei momenti più difficili per lui consistono nel rinvenimento di una piccola parte di una casa che in qualche modo non è stata toccata dall’incendio, magari “impacchettata in modo stretto”, ricordando in modo brusco e improvviso la differenza tra questo scavo e quelli che fanno normalmente e “all’improvviso si vedono oggetti che appartengono a una famiglia, la loro piccola fetta di paradiso trasformata in inferno”. “In uno scavo archeologico si spera sempre di trovare qualcosa, ma qui la situazione è molto eterogenea – ha aggiunto Uziel -. Da un lato, si vuole essere in grado di trovare informazioni per fornire una prova e una chiusura, dall’altro si sa che trovare qualcosa significa determinare la morte di un’altra persona. È una sensazione contrastante, ma credo che sia il minimo che possiamo fare dopo tutto quello che è successo qui”.
“Io guardo a questa situazione come agli strati di distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C. – ha invece sottolineato Shai Halevy, un documentarista dell’Autorità israeliana per le antichità con una vasta esperienza negli scavi -. I resti che stiamo trovando sono quasi esattamente gli stessi”.
(Bet Magazine Mosaico, 1 dicembre 2023)
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Parashà di Vaishlàch: La guerra contro la città di Shekhèm
di Donato Grosser
Nella parashà è raccontato che “Ya’akòv, al ritorno da Padàn Aràm, giunse incolume alla città di Shekhèm nella terra di Canaan, e si stanziò di fronte alla città. Acquistò per cento monete d’argento dai figli (del re) Chamòr, padre di Shekhèm, la parte del campo dove aveva piantato la sua tenda. Là costruì un altare presso il quale proclamò Dio, è il Dio d’Israele” (Bereshìt, 33:18-19). Le intenzioni di Ya’akòv e dei suoi figli erano quindi del tutto pacifiche. Il casus belli della guerra contro la città di Shekhèm fu che Dina, figlia di Ya’akòv, fu violentata dal figlio del re, il cui nome era come quello della città, Shekhèm. Dopo aver commesso il misfatto, Chamòr padre di Shekhèm venne da Ya’akòv per chiedere la mano di Dina per il figlio. R. Elie’zer Ashkenazi (Italia?- 1512-1585, Cracovia) che fu rav a Cremona, in Ma’asè Hashèm (Cap. 24), fa notare che quando Chamòr venne da Ya’akòv per chiedere Dina in sposa per il figlio, non disse che Dina era stata violentata; disse che la ragazza era volente e che il figlio Shekhèm la desiderava. Questa falsità, di fare passare la sorella come una prostituta, fece infuriare i figli di Ya’akòv. I figli di Ya’akòv per cercare di liberare la sorella, dissero che non erano disposti a dare in moglie la sorella a un uomo non circonciso. Avrebbero però accettato la proposta se si fossero circoncisi tutti. In quel caso: “Daremmo a voi le nostre figlie e noi prederemmo le vostre, abiteremmo insieme con voi, e saremmo un popolo solo. Ma se non acconsentirete a circoncidervi, prenderemo la nostra figlia e ce ne andremo” (34: 16-17). I figli di Ya’akòv avevano parlato “be-mirmà”, in modo astuto. Non era cosa ragionevole pensare che gli abitanti di Shekhèm accettassero di circoncidersi. E invece avvenne l’impensabile. Il principe Shekhèm era talmente innamorato di Dina che si circoncise. Per convincere gli abitanti della città disse loro: “I loro armenti, i loro beni, tutto il loro bestiame, saranno cosa nostra...” (34:23). R. Ashkenazi afferma che avendo saputo che gli abitanti della città avevano messo gli occhi sulle loro proprietà, i figli di Ya’akòv capirono che se avessero cercato di andarsene o di riprendere Dina con la forza, gli abitanti della città che erano più numerosi di loro, li avrebbero attaccati e uccisi. La loro astuzia era diventata una trappola. E fu così che non appena gli abitanti di Shekhèm furono in pena per via della circoncisione, Shim’on e Levi, i tredicenni fratelli di Dina dalla stessa madre, fecero irruzione nella città, uccisero Shekhèm e Chamòr e tutti gli abitanti. Ya’akòv rimproverò i figli per quello che avevano fatto: “mi avete danneggiato, mettendomi in cattiva luce presso gli abitanti del paese [...] se si unissero contro di me mi batterebbero e sarei annientato io con la mia famiglia. Essi risposero: Avrebbe dovuto nostra sorella essere considerata una prostituta?”(34: 30-31). R. Ashkenazi fa notare che Ya’akòv aveva rimproverato i figli perché non avevano mantenuto i patti dopo che a Shekhèm si erano circoncisi, e nessuno avrebbe più creduto a lui. Se avessero fatto guerra senza astuzie, sarebbe stata giustificata dai popoli vicini come punizione per la violenza fatta a Dina. R. Chayim ibn ‘Attar (Marocco, 1696-1743, Gerusalemme) in Or Ha-Chayìm, commenta che Shim’on e Levi avevano fatto irruzione nella città per uccidere Shekhèm e liberare la sorella. Gli abitanti della città vennero uccisi mentre cercavano di difendere il loro re e il principe. Non erano cittadini innocenti.
(Shalom, 1 dicembre 2023)
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Parashà della settimana: Va-ishlach (Mandò avanti)
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