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Notizie 1-15 dicembre 2024


La manipolazione dei dati sui decessi civili a Gaza

Uno studio britannico smaschera la propaganda

di Luca Spizzichino

Un nuovo studio, pubblicato dalla Henry Jackson Society, con sede nel Regno Unito, accusa il Ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas, di manipolare i dati sui decessi per rafforzare la narrativa secondo cui Israele prenderebbe di mira deliberatamente i civili durante il conflitto. Lo studio, intitolato “Questionable Counting: Analysing the Death Toll from the Hamas-Run Ministry of Health in Gaza“, denuncia come i numeri forniti siano stati sistematicamente alterati per rafforzare l’idea della crudeltà israeliana e degli attacchi svolti in modo indiscriminato.
  Il rapporto offre una serie di evidenze che mettono in discussione la narrativa prevalente. Tra le pratiche più discutibili, spiccano la registrazione di uomini come donne per gonfiare il numero di vittime femminili, la classificazione di adulti come bambini, e persino l’inclusione di morti naturali – come pazienti oncologici o decessi preesistenti al conflitto – nel conteggio delle vittime della guerra.
  L’analisi dei dati mostra infatti una sproporzione nei decessi dichiarati di donne e bambini rispetto agli uomini in età da combattimento. Per esempio, il 62% delle vittime riportate dalle famiglie erano uomini, contro il 42% registrato nei dati ospedalieri. Questo suggerisce che molti combattenti possano essere stati classificati come civili. Inoltre, il rapporto sottolinea casi in cui la percentuale di donne e bambini morti superava il numero complessivo di vittime riportate nello stesso periodo. Ad esempio, il 5 dicembre 2023 il Ministero della Salute di Gaza ha dichiarato un aumento di 1.041 decessi, ma i nuovi casi di donne e bambini ammontavano a 1.353.
  Secondo lo studio, l’obiettivo di queste manipolazioni è chiaro: rafforzare l’immagine di un conflitto in cui la popolazione civile, in particolare donne e bambini, sopporta il peso maggiore della violenza. È una strategia che sfrutta l’emotività di certi numeri per orientare l’opinione pubblica internazionale e alimentare una narrativa di condanna verso Israele. Tuttavia, un’analisi più approfondita dei dati mostra una realtà diversa. Ad esempio, la maggior parte delle vittime registrate sono uomini in età da combattimento – un dato che suggerisce che molte di queste persone potrebbero essere combattenti di Hamas, non semplici civili. Israele, infatti, ha stimato che oltre 17.000 militanti di Hamas siano stati uccisi durante il conflitto, ma questi numeri raramente trovano spazio nei report internazionali. I media, invece, tendono a concentrarsi quasi esclusivamente sui dati forniti dal Ministero della Salute di Gaza, nonostante il suo legame diretto con Hamas.
  Un altro aspetto centrale dello studio riguarda proprio il modo in cui i media trattano questi dati. Uno studio su 1.378 articoli pubblicati tra febbraio e maggio 2024 ha rilevato che l’84% non ha distinto tra morti civili e combattenti. Solo il 5% degli articoli ha menzionato i dati israeliani, mentre il 98% ha citato le statistiche del Ministero della Salute di Gaza senza verifiche. Secondo il rapporto, questo approccio contribuisce a una narrativa distorta che amplifica le sofferenze civili, riducendo la complessità del conflitto e influenzando l’opinione pubblica internazionale.
  Questo approccio, denuncia il rapporto, “perpetua una narrativa parziale, ma oscura la complessità del conflitto”. La distinzione fondamentale tra civili e combattenti viene spesso ignorata, contribuendo a dipingere Israele come un aggressore che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile.
  Secondo l’associazione manipolare i numeri per scopi propagandistici non solo mina la comprensione del conflitto, ma ostacola anche gli sforzi di pace. “Ogni vita persa è una tragedia, ma per trovare soluzioni sostenibili dobbiamo partire da dati onesti e verificati”, conclude il rapporto.

(Shalom, 15 dicembre 2024)

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Diario minimo (di un conflitto). La strada verso casa

di Luciano Assin

Come un infante che compie i suoi primi passi incespicando in cerca di equilibrio e solidi basi, così appare la tregua siglata col governo libanese: ancora traballante e con più dubbi che risposte. L’improvvisa e inaspettata implosione della Siria non fa che aumentare le incertezze e gli imprevisti.
  Il desiderio di tornare, per chi ha ancora la casa intatta, è enorme ma le variabili che influiscono su una decisione definitiva sono numerose e legate a interessi e decisioni al di sopra della volontà del singolo individuo. Non è solo una questione di quanto e come durerà la tregua, ci sono numerose questioni pratiche e psicologiche da risolvere.
  Quanto tempo sarà necessario per rimettere in piedi il sistema educativo? L’anno scolastico è iniziato a settembre, e i bambini in età scolastica si trovano attualmente in scuole lontane e in classi diverse con nuovi compagni. In questi ultimi 14 mesi la gente ha dovuto trovare un nuovo lavoro, affittare un appartamento e cambiare drasticamente le abitudini quotidiane.
  Ma il tema centrale che frena un ritorno di massa è la sicurezza personale. L’esercito ha perso buona parte del prestigio di cui ha sempre goduto, il governo, che ha sempre rifiutato di assumersi la piena responsabilità del pogrom del 7 ottobre, è impegnato a portare avanti una politica che aumenta le divisioni all’interno della società israeliana invece di cercare di saldare una frattura che alla fine potrà rivelarsi insanabile. Né Bibi né il resto dell’esecutivo si è ancora pronunciato su una possibile data che segni in qualche modo la fine di un incubo che ci accompagnerà per tutta la nostra vita.
  In una tale realtà il ritorno alle proprie case diventa una priorità, la seconda per importanza dopo la liberazione degli ostaggi, ma l’orizzonte non è ancora abbastanza limpido e chiaro per imboccare la strada verso casa.
  Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di tutti noi.

(Bet Magazine Mosaico, 15 dicembre 2024)

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Il crollo dell’ “asse della resistenza”

di Niram Ferretti

Dopo un anno e due mesi dall’eccidio del sette ottobre 2023 perpetrato da Hamas in Israele, il panorama del Medio Oriente ha subito una scossa tellurica che è ancora in pieno corso e le cui ripercussioni, attualmente non sono pienamente decifrabili, tuttavia, alcuni elementi appaiono sufficientemente chiari.
  A seguito dello shock del 7 ottobre e l’apertura di due fronti di guerra, il principale a Gaza e quello secondario nei confronti di Hezbollah, a cui si sono poi successivamente aggiunti gli houti dallo Yemen e gli attacchi dell’Iran, Israele si è trovato stretto in una morsa di fuoco che ha goduto del sostegno incondizionato del regime di Teheran. Questa morsa di fuoco non si è limitata ai teatri della guerra, ma si è allargata ben oltre il Medio Oriente includendo una massiccia propaganda anti-israeliana di cui non si era mai visto uguale precedentemente e sulla quale l’Iran ha inciso tramite i suoi canali finanziari e i suoi emissari.
  La demonizzazione di Israele nell’arena internazionale è, dal 1967, anno della Guerra dei Sei Giorni, un costitutivo essenziale dell’offensiva contro di esso ma mai come in questa guerra, la più lunga che lo Stato ebraico abbia combattuto, ha raggiunto tali livelli parossistici. Più Israele è avanzato nella sua offensiva, maggiore è stato lo scatenamento della propaganda, la cui potenza distorcente ha persino portato alla ridefinizione se non allo spappolamento del concetto di “genocidio” purché esso diventasse funzionale a criminalizzare la risposta israeliana all’aggressione di Hamas.
  Nonostante ciò, e nonostante abbia subito dal suo principale alleato, gli Stati Uniti, una serie di pesanti condizionamenti che non solo hanno rallentato la campagna militare ma hanno contribuito ulteriormente a danneggiare la sua immagine, Israele ha perseguito con tenacia gli obiettivi prefissati fin dall’inizio della guerra, mettere fine al dominio di Hamas a Gaza e mettere Hezbollah nella condizione di non rappresentare più una minaccia alla propria sicurezza.
  A partire dall’estate, con l’uccisione di Ismail Haniyah a Teheran, che seguiva quella di altri esponenti di spicco di Hamas e di Hezbollah, e successivamente con l’uccisione di Hassan Nasrallah, capo supremo della formazione sciita e quindi di Yahya Sinwar, Israele ha messo in atto una clamorosa rimonta che oggi, dopo la tragedia del 7 ottobre, lo ha riposizionato come forza egemone del Medio Oriente, ripristinando l’immagine che Hamas aveva clamorosamente infranto.
  La caduta del regime di Assad in Siria, privato improvvisamente del sostegno fornito dall’Iran tramite Hezbollah, è un’altra tessera dell’effetto domino provocato dalla rimonta israeliana e dal successo della sua offensiva. Quale che sarà il futuro assetto della Siria, l’Iran ha perso un alleato importante che gli consentiva uno sbocco verso il Mediterraneo e un consolidamento regionale.
  Nell’arco degli ultimi sei mesi, l’Iran ha visto crollare il suo cosiddetto asse resistenziale, cioè la compagine radicale islamica che si era costituita contro Israele e che aveva a Teheran il suo epicentro. Si tratta di un colpo duro per il regime degli ayatollah che si trova in una fase di oggettiva debolezza e incapace da solo di potere reagire ai successi israeliani, oltretutto in prossimità dell’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump il quale non ha escluso, in una recente dichiarazione, di mettere Israele nelle condizioni di colpire i siti nucleari iraniani.
  Il ritorno della convergenza Trump-Netanyahu, per l’Iran non è una buona notizia in uno scenario già ampiamente sfavorevole.

(L'informale, 15 dicembre 2024)

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USA – Cerchi lavoro? Meglio un curriculum non ebraico ‍‍

Farsi riconoscere come ebrei o come israeliani porta ad essere discriminati sul mercato del lavoro, negli Stati Uniti? È la domanda cui prova a rispondere il sondaggio condotto da Bryan Tomlin, professore di Economia e presidente del Dipartimento di Economia della Martin V. Smith School of Business and Economics della California State University Channel Islands, grazie a una sponsorizzazione della Anti-Defamation League (ADL). Tremila curriculum dal contenuto identico, tranne per il nome del candidato, sono stati inviati in risposta ad altrettante offerte di lavoro, da persone che poteva sembrare avessero un nome ebraico, un nome israeliano, o un nome più genericamente europeo. I risultati hanno confermato la presenza di un pregiudizio: i candidati dal nome ebraico hanno dovuto inviare il 24,2% di richieste in più per ricevere lo stesso numero di risposte; quelli dal nome israeliano ne hanno dovuto il 39% in più. Nulla di sorprendente: secondo un recente rapporto dell’ADL nei primi tre mesi del 2024 negli USA si sono verificati 3.264 episodi di antisemitismo, tra aggressioni fisiche (56), vandalismo (554), molestie verbali o scritte (1.347) e ben 1.307 raduni nei campus in cui è stata usata una retorica antisemita. Ma a differenza di quando vengono commessi crimini violenti, in questi casi è estremamente difficile dimostrare di aver subito un trattamento sfavorevole per motivi religiosi o di appartenenza, sia perché le interazioni su cui basare le proprie conclusioni sono limitate sia perché non potendo conoscere le competenze o le qualifiche degli altri candidati il singolo non può dimostrare che sta perdendo un’opportunità di lavoro a causa della sua religione. Ma l’esperimento ha dato risultati conformi al modello generale di comportamento antisemita osservato nei report dell’ADL.

• METODOLOGIA
  La metodologia usata è analoga a quella utilizzata in altre ricerche sul mercato del lavoro, con l’invio di un numero cospicuo di richieste di informazioni, via e-mail, che sono state mandate in tutti gli Stati Uniti tra maggio e ottobre 2024. Tutte le richieste sono state inviate da candidati il cui nome è stato scelto per essere “femminile”: Kristen Miller (Europa occidentale – gruppo di controllo), Rebecca Cohen (“gruppo ebraico”) e Lia Avraham (“gruppo israeliano”). A ciascun annuncio di lavoro è stata inviata una singola mail da parte di una singola candidata, assegnata in modo casuale, e gli annunci sono stati scelti sul portale craigslist perché è uno dei pochi in cui il processo di candidatura online o di screening dei curriculum non è guidato dall’intelligenza artificiale. Gli annunci sono stati tutti selezionati nel settore dell’assistenza amministrativa che spesso comporta un’interazione diretta con i clienti e può essere perciò sensibile sia ai pregiudizi del datore di lavoro sia a quelli percepiti dai clienti. I candidati avevano curriculum identici, solo “adattati” alla località dove si offriva un posto di lavoro, e con una seconda lingua coerente con il gruppo di appartenenza. Nonostante sia impossibile verificare in che misura i segnali di “trattamento” dei nomi siano in effetti percepiti dai datori di lavoro, alcuni dati qualitativi contenuti nelle risposte suggeriscono che i segnali fossero chiari: per esempio diverse risposte al “gruppo israeliano” erano scritte in ebraico. Non è mai successo con il gruppo di controllo, che non ha mai ricevuto risposte nella seconda lingua (segnalata nel CV, in questo caso era francese o tedesco), né ha ricevuto risposte che parlassero del patrimonio personale.

• RISULTATI
  L’antisemitismo non è presente solo in uno spazio verbale o fisico facilmente identificabile ma esiste anche nel mercato del lavoro. Non è possibile stabilire quanto i risultati di questo studio siano applicabili ad altri ambiti lavorativi, ma di sicuro la ricerca ha dimostrato che un’ulteriore indagine sul potenziale trattamento avverso sarebbe auspicabile. O necessaria.

(moked, 15 dicembre 2024)

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Futuro!

Incoraggiati dalla profezia biblica

di Andreas Heimbichner

Molti cristiani che si occupano di profezia biblica sono accusati di vedere il mondo in nero e di essere pessimisti. Sono visti come profeti di sventura. Forse questo vale per qualcuno di loro, ma fondamentalmente è vero il contrario. Chi si impegna in una sana profezia biblica è incoraggiato, si rallegra, è grato, guarda al futuro con fiducia e può incoraggiare e contagiare altri. Serve il suo Signore con gioia.
  Se ora ci chiediamo: “Dove sta operando Dio profeticamente in questo mondo?”, la risposta è abbastanza semplice: nel suo popolo Israele. In altre parole: osserviamo Israele per interpretare i segni dei tempi. Gesù rimproverò i farisei perché non erano in grado di valutare i segni dei tempi (Matteo 16). Ma le Scritture ci invitano a vedere ciò che Dio sta facendo in questo mondo. E quando lo riconosciamo, siamo incoraggiati.
  Rivolgiamo la nostra attenzione al profeta Ezechiele. Egli visse 2.600 anni fa in un'epoca molto eccitante per lui, un'epoca di sconvolgimenti. Fu testimone del trasporto del popolo d'Israele. Dio aveva ripetutamente inviato i suoi profeti e ammonito il popolo a tornare a lui, ma essi non lo ascoltavano. Alla fine il Signore disse: “Allora vi strapperò dal paese e vi porterò a Babilonia”. Anche il profeta Ezechiele era tra questi esuli. Fu testimone di come la gloria del Signore lasciò il tempio e di come il tempio fu definitivamente distrutto. Fu un periodo drammatico. Ma Dio non mise un punto fermo, bensì una virgola, promettendo di radunare di nuovo un giorno il popolo d'Israele e di riportarlo nella terra.
  Questa promessa si realizzò parzialmente sotto Esdra e Neemia, ma il profeta Ezechiele guardava lontano, nel futuro. Dio promise che avrebbe radunato il popolo in modo pubblico, davanti agli occhi delle nazioni. Questo dunque non avverrà in segreto. Ezechiele 20:41 dice: “Io mi compiacerò di voi come di un profumo di soave odore, quando vi avrò fatti uscire di mezzo ai popoli e vi avrò radunati dai paesi nei quali siete stati dispersi; e sarò santificato in voi davanti agli occhi delle nazioni”. Ezechiele dice qualcosa di simile nel capitolo 28, versetto 25:” Così parla il Signore, l'Eterno: 'Quando avrò raccolto la casa d'Israele di mezzo ai popoli fra i quali essa è dispersa, io mi santificherò in loro in presenza delle nazioni, ed essi abiteranno il loro paese che io ho dato al mio servo Giacobbe’”.
  Viviamo in tempi entusiasmanti. Non è mai stato così facile scoprire cosa succede in Israele nel mondo, soprattutto grazie alla tecnologia degli smartphone. Nel 2019, gli utenti di smartphone nel mondo erano circa 3,5 miliardi. Entro il 2022, questa cifra è salita a 4,7 miliardi. Ciò significa che oltre due terzi della popolazione mondiale ha accesso alle notizie tramite smartphone. Ora avete il conflitto in Medio Oriente in tasca e potete sapere cosa sta succedendo in Israele in pochi secondi. Magari non siete ben informati, ma potete scoprire rapidamente cosa sta accadendo.
  A volte le persone che non sono sul posto sanno le notizie più velocemente delle persone che vivono in Israele. La tecnologia ci permette di osservare tutto ciò che accade in Israele. Ma cosa succede quando le persone vengono ancora di più  influenzate da questa tecnologia? Sono già in corso ricerche per impiantare chip nel cervello, al fine di esercitare un'influenza ancora maggiore sulle persone. Neuralink, una società di proprietà di Elon Musk, sta lavorando a questo progetto. L'obiettivo a lungo termine è che le persone siano in grado di scambiare telepaticamente i propri pensieri e di memorizzarli esternamente in un cloud. Lo storico israeliano Yuval Noah Harari sostiene che gli smartphone si stanno sempre più fondendo con le persone e influenzano la nostra visione del mondo.
  Non sappiamo esattamente come si svolgeranno questi sviluppi, ma è possibile. Non vogliamo essere pessimisti, ma tuttavia abbiamo bisogno di un quadro generale. Sappiamo che alcuni sviluppi sono allarmanti, ma Dio ci dice che agirà davanti agli occhi delle nazioni alla fine dei tempi. Come guarda il mondo Israele e come guardiamo noi Israele? Quando guardiamo Israele, questo dovrebbe incoraggiarci. È esattamente il contrario di come il mondo guarda Israele.
  Qualche tempo fa è stata pubblicata la “World Press Photo of the Year 2024”. Ancora una volta, Israele ha “vinto”. La foto mostra una donna palestinese di 36 anni che si china sul corpo della nipote di cinque anni, uccisa nel conflitto. La giuria l'ha definita una visione struggente di una sofferenza incommensurabile. Non è la prima volta che un'immagine del conflitto mediorientale viene premiata come “World Press Photo of the Year” e probabilmente non sarà l'ultima. Il mondo guarda spesso in modo negativo a Israele, e potrei elencare molti altri esempi che lo dimostrano. Prendiamo la famosa poesia di Dieter Hallervorden “Gaza, Gaza”, in cui l'autore accusa Israele di genocidio.
  Le proteste anti-israeliane nelle università degli Stati Uniti e della Germania sono un altro esempio di come il mondo vede negativamente Israele. Ma la domanda rimane:
  Come guardiamo noi Israele? A volte ho l'impressione che l'argomento non ci interessi affatto. Il mondo guarda a Israele, anche se in modo negativo. Ma in molte comunità cristiane non si parla quasi mai di Israele. In passato, molti cristiani non hanno nemmeno riconosciuto il significato di Israele.
  Nel mio libro “2000 anni di ebrei e cristiani”, ho cercato di mostrare il difficile rapporto tra ebrei e cristiani. Questa relazione è stata spesso molto tesa e i cristiani hanno a lungo considerato gli ebrei come maledetti. Vorrei citare alcune frasi tratte dalla storia.
  Il padre della chiesa Giovanni Crisostomo, ad esempio, descriveva la sinagoga come un “covo di iniquità del diavolo” e un'“assemblea di assassini di Cristo”. Allo stesso modo, il vescovo Ambrogio parlò di un “luogo di incredulità” e di un “luogo di follia”. Questi padri della chiesa avevano un cuore per la chiesa di Gesù, ma nessuna visione per Israele.
  Se si osservano molte chiese in Europa, si vedono spesso raffigurazioni di due donne: Una rappresenta la chiesa, in piedi con corona e scettro, mentre l'altra, la “sinagoga”, è raffigurata piegata e bendata. Queste immagini mostrano che Israele era visto come cieco e sconfitto. Ma a volte penso che questa cecità si applichi più ai cristiani che non vedono il piano di Dio per Israele.
  Se andiamo più avanti nella storia, arriviamo a Martin Lutero, a cui dobbiamo molto, come la traduzione tedesca della Bibbia e la riscoperta dell'eredità della Riforma. Ma Lutero non aveva una visione per il popolo ebraico. In una delle sue lettere scrisse: “Se gli ebrei tornassero nel loro Paese e lo costruissero, allora ci sarebbe un buon motivo per  diventare ebrei”. Non so se fosse serio o ironico, ma mi chiedo come avrebbe reagito alla fondazione dello Stato di Israele.
  Lutero avrebbe riconsiderato la sua teologia antiebraica? Avrebbe continuato, come molti teologi di oggi, ad attenersi a una teologia che non attribuisce alcun futuro a Israele? Non lo sappiamo. Ma la nostra reazione dovrebbe essere quella di essere incoraggiati quando guardiamo a Israele e vediamo ciò che Dio sta facendo lì.
  Ci sono state altre voci nella storia della chiesa. Nel 1642, l'arcivescovo Robert Layton predicò a Glasgow su Isaia 60:1 e disse: “Senza dubbio questo popolo di ebrei sarà riportato in vita e diventerà luce, e la sua restaurazione sarà la ricchezza del mondo”. Quasi 400 anni prima della fondazione dello Stato di Israele, quest'uomo si aggrappò alle promesse di Dio.
  200 anni dopo visse Charles Spurgeon, uno dei più grandi predicatori del XIX secolo. Egli disse di Israele: “Non diamo abbastanza importanza alla restaurazione degli ebrei. Non ci pensiamo abbastanza. Sicuramente, se c'è qualcosa di promesso nella Bibbia, è proprio questo”. Spurgeon riconosceva che la restaurazione di Israele avrebbe portato al mondo benefici senza precedenti. Queste parole hanno ancora oggi un grande significato.
  Dipende da quali occhiali indossiamo quando guardiamo Israele. Se indossate gli occhiali del mondo, avrete paura e timore quando osservate gli eventi in Medio Oriente. Ma se indossate gli occhiali della Bibbia e vedete ciò che Dio sta facendo, sarete incoraggiati.
  Ora vorrei sottolineare alcuni aspetti di come la profezia biblica può incoraggiarci nella nostra vita quotidiana. Il primo punto: essere incoraggiati dal piano di salvezza di Dio. Come cristiani, a volte corriamo il rischio di concentrarci solo su noi stessi. Siamo attivi nella nostra chiesa, il che è ottimo, ma non dobbiamo dimenticare che il piano di salvezza di Dio è molto più grande e comprende il mondo intero. Dio non ha lasciato questo mondo a se stesso, ma ha un piano che sta portando avanti. Questo consiglio include anche Israele e Gerusalemme.
  Gerusalemme è citata più di 2.500 volte nella Bibbia, Israele più di 2.500 volte. Ciò dimostra che questo argomento è di grande importanza per Dio. Il suo amore per il suo popolo è visibile ovunque nella Bibbia. Dobbiamo solo indossare gli occhiali giusti per scoprirlo.
  Se guardiamo un po' indietro: I padri della chiesa di cui ho parlato prima applicavano le parole maledette dell'Antico Testamento al popolo ebraico e rivendicavano le promesse per sé e per la chiesa. Ma se prendiamo alla lettera la parola di Dio, scopriamo che l'amore di Dio per il suo popolo trabocca ovunque nella Bibbia. Uno sguardo al libro di Isaia ce lo mostra chiaramente. Dio si definisce “il Santo d'Israele” (Isaia 41,20), “il Creatore d'Israele” (Isaia 43,15), “il Re d'Israele” (Isaia 44,1), “il Dio d'Israele” (Isaia 45,15) e parla del suo amore eterno per il suo popolo.
  Possiamo quindi essere incoraggiati dal piano di salvezza di Dio. Questo piano ci aiuta a guardare oltre i nostri orizzonti. Voi siete parte di questo piano, così come la chiesa. Il mondo fa parte di un piano più grande, e colui che porta avanti questo piano è Dio Onnipotente.
  La prossima volta che vi sveglierete preoccupati, ricordate che questo grande Dio tiene la vostra vita nelle sue mani. Così come dirige la storia e porterà Israele a destinazione, porterà anche voi a destinazione.
  Siate incoraggiati dal futuro di Israele. Dio ha detto in Isaia 44:21: “Considera questo, Giacobbe, e tu, Israele, perché sei mio servo! Io ti ho formato, tu sei il mio servo; o Israele, tu non sarai dimenticato da me!”. Che promessa meravigliosa! In Isaia 66:22, il Signore lega il futuro di Israele ai nuovi cieli e alla nuova terra. Israele ha un futuro e questo significa che non dobbiamo mettere in dubbio ciò che Dio ha promesso.
  Israele ha un futuro, e cosa significa concretamente per noi? Se Dio dice così chiaramente nella sua parola che non dimenticherà Israele e che ha un futuro, allora dovremmo chiederci come possiamo mettere in dubbio questo. Se affermiamo che Israele è stato sostituito, come possiamo essere sicuri che il nostro futuro come chiesa sia sicuro? Se Dio non dimenticherà il suo popolo Israele, non dimenticherà nemmeno la chiesa. Il nostro futuro dipende dal futuro di Israele. Dio ha promesso che porterà Israele a destinazione, e questo rimane vero.
  Siate incoraggiati dal ritorno di Gesù. Gesù tornerà per noi nel Rapimento e per Israele apparirà visibilmente nella gloria sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. Probabilmente non esiste un altro Paese al mondo in cui l'attesa del Messia sia così forte come in Israele. In Israele si attende il Messia e questo tema permea molti ambiti della vita quotidiana: dalle preghiere ai matrimoni e ai funerali. Questa attesa del Messia può ispirare e incoraggiare anche noi cristiani a sperare nel ritorno di Gesù.
  Da quando il popolo d'Israele è stato riunito e possiamo vedere come Dio sta realizzando le sue promesse davanti ai nostri occhi, il tema è diventato più esplosivo e attuale. Gesù sta per tornare, non a Berlino, Parigi o New York, ma prima per la sua chiesa e poi per il suo popolo Israele a Gerusalemme. Questo dovrebbe incoraggiarci a vivere in vista della profezia biblica e ad aspettare il ritorno di Gesù. Paolo ci incoraggia: “Confortatevi a vicenda con queste parole” (1 Tessalonicesi 4,18). Anche Gesù, in Luca 21:28, ci invita ad alzare il capo quando queste cose inizieranno ad accadere, perché la nostra redenzione si avvicina.
  Israele è un'immagine per noi e quando vediamo come Dio è fedele al suo popolo, dobbiamo essere incoraggiati anche noi. Dio è fedele e arriverà alla fine con noi, così come arriverà alla fine con Israele.
  In Romani 15:8-13, Paolo riassume il piano di salvezza di Dio dicendo che Cristo è diventato servo della circoncisione per confermare le promesse fatte ai padri. Dio non solo ha adempiuto a queste promesse, ma le ha anche confermate. Queste promesse includono la terra, la benedizione, la discendenza e il Messia, e sono solide e affidabili. Paolo usa la stessa parola qui e in 1 Corinzi 1:8, dove scrive che Dio ci stabilirà fino alla fine.
  Lo scopo di questo piano è che le nazioni glorifichino Dio e lo lodino insieme a Israele. Paolo cita qui diversi passi dell'Antico Testamento per dimostrare che questo era il piano di Dio fin dall'inizio. Le nazioni devono lodare e glorificare Dio insieme a Israele. Dio ha promesso il Messia e Gesù è venuto a confermare queste promesse. Non ha sostituito Israele, ma ha confermato le promesse. Questo ci dà fiducia come chiesa, perché Dio è fedele al suo popolo e altrettanto fedele a noi. Paolo parla di Gesù che viene come servo della circoncisione per confermare la verità di Dio. Questo ci mostra che Dio non ha dimenticato le sue promesse e ci dà speranza per il futuro.
  Siate incoraggiati mentre benedite Israele. Ci sono migliaia di popoli che hanno bisogno del Vangelo e come cristiani abbiamo il mandato di diffondere il Vangelo. Ma abbiamo anche un rapporto speciale con Israele e dobbiamo benedire questa nazione, sia con la preghiera che con il sostegno pratico. Paolo incoraggia la chiesa a fare collette per i bisognosi a Gerusalemme. Dice che le nazioni sono debitrici di Israele perché hanno partecipato ai suoi beni spirituali (Romani 15,25-27). Sono quindi obbligati a servire Israele anche nelle cose corporali.
  È interessante la storia di Hudson Taylor, il noto missionario in Cina, che ogni anno inviava un assegno a un missionario ebreo di Londra con la nota “Prima agli ebrei”. Il missionario rispondeva con un assegno a Hudson Taylor, con la nota “E anche ai gentili”. Questo bel gesto dimostra che Dio ha in mente sia gli ebrei che i gentili. Noi possiamo benedire Israele e Dio ci benedirà in contraccambio.
  Siate dunque incoraggiati dal piano di salvezza di Dio, dal futuro di Israele, dal ritorno di Gesù e dalla benedizione che sperimentiamo quando benediciamo Israele. Dio è fedele e raggiungerà il suo obiettivo con il suo popolo e la sua chiesa. 

(Nachrichten aus Israele, dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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La caduta di Bashar al-Assad segna la vittoria di Israele sull'Iran

Intervista a Frédéric Encel

di Antoine de Lagarde

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Frédéric Encel

L'improvviso crollo della dinastia el-Assad, al potere da più di mezzo secolo, è una diretta conseguenza degli assalti che lo Stato ebraico sta conducendo contro l'Iran e Hezbollah, analizza il dottore in geopolitica Frédéric Encel*.

- LE FIGARO. - Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha dichiarato domenica che la caduta del regime di al-Assad è “una diretta conseguenza dei colpi che (Israele) ha inferto all'Iran e a Hezbollah, (suoi) principali sostenitori”. È una spacconata politica o una realtà militare?
  FRÉDÉRIC ENCEL - È vero in larga misura. Non è l'unica spiegazione, ma è la principale. Quando tra il 2015 e il 2017 il regime di Bashar al-Assad era in agonia di fronte agli assalti della potente coalizione ribelle, Hezbollah ha salvato il regime, insieme all'aviazione russa. Tuttavia, nelle ultime settimane Hezbollah è stato talmente indebolito da Israele che non è stato in grado di venire in aiuto del regime, soprattutto perché gli israeliani avevano bloccato il flusso di truppe e attrezzature iraniane verso il Libano attraverso la Siria.
  L'altra spiegazione ha a che fare con la Turchia e la Russia. Così come a El-Assad mancavano i soldati di Hezbollah, gli mancavano anche gli squadroni di Mosca. La Russia sta così rivelando di essere incapace di sostenere il suo unico alleato militare nella regione dal 1959, grazie al quale aveva le sue uniche due basi nell'intera area del Mediterraneo-Medio Oriente: non ha altri alleati in questa zona strategica. Ciò dimostra sia la doppiezza di Putin che la sua debolezza militare. Inoltre, l'efficienza fulminea di questo attacco può essere collegata solo all'aiuto della Turchia: è l'unico Paese confinante con la sacca di Idlib e molti gruppi ribelli hanno legami con essa. È evidente che c'è stata una preparazione militare e un finanziamento da parte della Turchia.

- Israele si ritrova quindi con una potenza sostenuta dalla Turchia al suo confine. Che legami hanno questi due Stati?
  Le due potenze hanno interessi comuni che sono stati serviti da questa coalizione di ribelli guidata da Hayat Tahrir al-Cham (HTC). La caduta di Bashar al-Assad offre alla Turchia una mano libera nel nord della Siria, dove sta cercando di spezzare i tentativi curdi di stabilire un'autonomia. La caduta di Bashar al-Assad permette inoltre alla Turchia di rimandare a casa più di tre milioni di rifugiati siriani e di avere un regime al proprio confine con cui ha una complicità ideologica.
  L'interesse di Israele nella caduta del governo di al-Assad è quello di spezzare l'“ asse di resistenza” iraniano. Tuttavia, da quando l'AKP (il partito islamo-nazionalista di Erdogan) è salito al potere nel 2002, i loro rapporti sono sempre stati freddi, e sono addirittura rimasti in ghiaccio, almeno retoricamente, dopo la vicenda della Mavi Marmara nel 2010 (una nave turca che faceva parte di una flottiglia che cercava di rompere il blocco di Gaza, abbordata da Israele), ma non sono mai stati interrotti.

- La fine della dinastia el-Assad è davvero una buona notizia per Israele?
  Di per sé, la caduta di el-Assad è una buona notizia per Israele, ma è più simbolica e politica che militare. Hafez el-Assad, padre di Bashar, è stato uno dei principali artefici della Guerra dello Yom Kippur del 1973, che un'intera generazione di israeliani ricorda (morirono più di 2.200 soldati israeliani). Anche prima degli el-Assad, la Siria aveva accolto il criminale nazista Alois Brunner, aveva mantenuto una terribile presa sugli ebrei siriani (fino alla loro partenza nel 1994) e aveva guidato coalizioni arabe contro lo Stato ebraico.
  Israele aborriva questa dinastia ma, dal 1974, non ha avuto la capacità di danneggiarla militarmente. La caduta di Bashar al-Assad è soprattutto il risultato dello schiacciamento di Hezbollah da parte di Israele: Benyamin Netanyahu può ora mostrare alla sua popolazione, ancora traumatizzata dal gigantesco pogrom del 7 ottobre, una prova tangibile degli effetti della guerra che sta conducendo. È anche la traduzione della vittoria di Israele sull'Iran, che non aveva i mezzi per sostenere el-Assad e ora si trova isolato da un Hezbollah molto indebolito.

- C'era una sorta di alleanza oggettiva tra i gruppi ribelli e Israele contro l'Iran?
  Avevano un nemico comune. Oggi, la coalizione islamista sunnita che ha preso il potere in Siria sta cercando di rompere il continuum pan-sciita che è asservito all'Iran, perché la divisione politica e teologica tra sciiti e sunniti è abissale. Questa divisione è molto più efficace per comprendere il Medio Oriente rispetto a quella tra Israele e il mondo arabo, che è obsoleta se non addirittura fittizia. Da quando è salita al potere, questa coalizione ha stigmatizzato l'Iran e Hezbollah nelle sue dichiarazioni, e per il momento non ha menzionato Israele o l'Occidente. Non per dissimulazione, ma per ideologia: per i sunniti, gli sciiti sono veri e propri eretici. Lo dimostra l'attacco condotto da Daech in Iran il 3 gennaio.
  Domenica l'esercito israeliano ha lanciato una serie di raid sulle principali installazioni militari siriane e si è spostato sulle alture del Golan. Questo presuppone l'ostilità del nuovo governo?
  L'obiettivo di Israele è distruggere tutto ciò che potrebbe costituire un futuro esercito siriano. Per il momento, i ribelli non rappresentano una vera minaccia. È un attacco preventivo, come l'investimento militare nella terra di nessuno della zona cuscinetto del 31 maggio 1974 e del Monte Hermon, che si erge a 2.800 metri: si può vedere fino a Damasco a est e alla Bekaa a ovest!
  Il messaggio era: state lontani dai nostri confini. L'incursione nelle alture orientali del Golan ha anche lo scopo di rassicurare i drusi israeliani, fornendo loro una possibile protezione sul Jebel al-Druze (catena montuosa) in Siria. Tuttavia, lo Stato ebraico non sta espandendo il suo territorio: interverrebbe solo se la coalizione al potere decidesse di attaccare il Jebel al-Druze.

- Chi sono i gruppi ribelli che confinano con il Golan e che non dichiarano di far parte della coalizione guidata da HTC?
  Molti di loro sono ex membri di movimenti jihadisti, diverse centinaia, che non si sono mai arresi o che sono fuggiti dall'Iraq. In realtà, l'attuale coalizione detiene solo le principali città della Siria: non domina ancora pienamente la montagna marina alawita, il nord-est curdo, il deserto nell'est del Paese (dove Daech è ancora attivo), o il jebel al-Druze nell'estremo sud-ovest.
  Per di più, al-Joulani è considerato un traditore da Daech, che ha lasciato: tra i gruppi islamisti radicali è una permanente “notte dei lunghi coltelli” da almeno due decenni! Come nella vera e propria guerra tra Daech e al-Qaeda nello Yemen di qualche anno fa, con migliaia di morti. L'obiettivo è più o meno lo stesso, ma le strategie non lo sono di certo. Di conseguenza, a priori, Daech non si schiererà a favore di HTC senza negoziati preliminari.

- Quali sono le conseguenze del cambio di potere in Siria per le operazioni militari di Israele in Libano e a Gaza?
  A differenza di quanto accaduto alla fine della Seconda guerra del Libano nel 2006, gli israeliani non permetteranno a Hezbollah di scendere a sud del Litani (il fiume nel Libano meridionale e orientale) contro la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a causa del trauma del 7 ottobre. L'immediata vicinanza fisica al nemico è diventata intollerabile e Francia e Stati Uniti stanno esercitando una pressione maggiore su Hezbollah rispetto al 2006.
  Tuttavia, sono ottimista sul fatto che la situazione si calmerà, perché Hezbollah è guidato da fanatici ma non da pazzi: è consapevole dell'equilibrio di potere. La prova è che hanno accettato il cessate il fuoco quando erano vicini all'annientamento. Hezbollah è isolato e l'Iran non può più inviare truppe o attrezzature.
  Quanto ad Hamas, è militarmente morto. I suoi leader sono stati eliminati, non domina più la Striscia di Gaza e non ha tutti gli ostaggi, il che significa che non può nemmeno proporre a Israele un accordo globale. Tuttavia, il centinaio di ostaggi è ancora il tallone d'Achille di Israele. La Siria è persa per gli sciiti, quindi né l'Iran né Hezbollah possono venire in suo aiuto.
  Quanto all'Arabia Saudita, i suoi servizi segreti stanno già collaborando con gli israeliani. Il fallimento di Hamas, Hezbollah e dell'Iran è completo e totale.
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*Frédéric Encel ha un dottorato (HDR) in geopolitica, è docente a Sciences Po Paris e fondatore degli Incontri geopolitici di Trouville. È autore di Voies de la puissance (Prix de l'Académie des sciences morales et politiques, Odile Jacob, 2023).

(JForum fr, 14 dicembre 2024)

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Blinken in Turchia per parlare di Siria e di Hamas

Al centro dei colloqui anche la questione dei curdi siriani

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Il Segretario di Stato americano Antony Blinken stringe la mano al Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan dopo una conferenza stampa congiunta presso la sede del Ministero nella capitale turca Ankara il 13 dicembre 2024

Il segretario di Stato americano Antony Blinken e il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan hanno concordato venerdì sulla necessità di proseguire gli sforzi per contrastare qualsiasi rinascita dello Stato islamico in Siria dopo la caduta di Bashar al-Assad.
Nei suoi colloqui con il presidente e il ministro degli esteri della Turchia, Blinken ha detto di aver discusso anche dell’imperativo che Hamas dica “sì” a un accordo di cessate il fuoco a Gaza. Una fonte statunitense ha detto che Hamas ha ammorbidito la sua posizione nei colloqui di cessate il fuoco.
Blinken sta girando il Medio Oriente per creare un fronte unito con gli alleati arabi e turchi sui principi che Washington spera possano guidare la transizione politica della Siria, come l’inclusività e il rispetto delle minoranze.
Lunedì ha affermato che lo Stato islamico avrebbe cercato di sfruttare questo periodo per ripristinare le sue capacità in Siria, ma gli Stati Uniti erano determinati a non permettere che ciò accadesse.
“I nostri Paesi hanno lavorato duramente e hanno dato molto nel corso di molti anni per garantire l’eliminazione del califfato territoriale dell’ISIS, per garantire che la minaccia non si ripresenti, ed è fondamentale che continuiamo a impegnarci”, ha affermato Blinken insieme a Fidan dopo il loro incontro ad Ankara.
I colloqui si sono concentrati anche su un aspetto cruciale per il ripristino della stabilità in Siria: gli scontri nel nord del Paese tra le Forze democratiche siriane (SDF) guidate dai curdi e sostenute dagli Stati Uniti e i ribelli sostenuti dalla Turchia.
Le SDF sono il principale alleato di una coalizione statunitense contro i terroristi dello Stato islamico. Sono guidate dalla milizia YPG, un gruppo che Ankara vede come un’estensione dei militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).
Gli alleati della NATO Washington e Ankara hanno sostenuto i ribelli siriani durante i 13 anni di guerra civile, ma i loro interessi si sono scontrati quando si è trattato della fazione SDF.
I leader turchi hanno concordato con Blinken sul fatto che le SDF non dovrebbero essere distratte dal loro ruolo di proteggere i campi in cui sono detenuti i combattenti dello Stato Islamico e dal combattere i resti di quel gruppo, ha affermato una fonte statunitense, che ha parlato a condizione di mantenere l’anonimato.
All’inizio di questa settimana, le forze sostenute dalla Turchia hanno sequestrato la città settentrionale di Manbij alle SDF, che si sono poi dirette a est del fiume Eufrate. Una fonte dell’opposizione siriana ha detto che gli Stati Uniti e la Turchia avevano raggiunto un accordo sul ritiro.
Né Blinken né Fidan hanno fatto alcun riferimento all’accordo, ma il funzionario statunitense che viaggiava con Blinken ha affermato che era uno dei punti centrali dei colloqui.
Il funzionario ha affermato che il cessate il fuoco ha generalmente retto, ma che risolvere le tensioni più ampie tra i curdi in Siria e la Turchia richiederà più tempo, aggiungendo che Washington sta monitorando attentamente qualsiasi mossa della Turchia o delle forze sostenute dalla Turchia nella città di Kobani, controllata dai curdi.
Dopo l’incontro con Blinken, Fidan ha affermato che “la priorità della Turchia in Siria è garantire la stabilità… il prima possibile, impedire al terrorismo di guadagnare terreno e impedire allo Stato islamico e al PKK di dominare il Paese”.
“Abbiamo discusso in dettaglio cosa possiamo fare al riguardo, quali sono le nostre preoccupazioni comuni e quali dovrebbero essere le nostre soluzioni comuni”, ha affermato.
In un’intervista rilasciata all’emittente turca NTV venerdì sera, Fidan ha affermato che l’eliminazione delle YPG era “l’obiettivo strategico” della Turchia e ha esortato i comandanti del gruppo a lasciare la Siria.
Ha inoltre criticato l’Occidente, affermando che sta utilizzando il PKK per mettere in sicurezza i campi di detenzione in cui sono detenuti i combattenti dello Stato Islamico e che, attraverso questo ruolo, il PKK sta “ricattando” la comunità internazionale.

• CESSATE IL FUOCO A GAZA
  Durante i suoi incontri in Turchia, Blinken ha anche insistito sull’importanza di un cessate il fuoco per porre fine alle ostilità tra Hamas e Israele a Gaza, mentre Washington tenta nuovamente di concludere un accordo che sfugge all’amministrazione del presidente Joe Biden da oltre un anno.
“Nei miei colloqui con il presidente Erdogan e con il ministro Fidan abbiamo parlato dell’imperativo che Hamas dica sì all’accordo (di Gaza) affinché sia possibile contribuire finalmente a porre fine a tutto questo”, ha affermato Blinken dopo l’incontro con Fidan.
“Apprezziamo molto il ruolo che la Turchia può svolgere nell’usare la sua voce presso Hamas per cercare di porre fine a questa situazione”.
Hamas ha ammorbidito la sua posizione nei colloqui di cessate il fuoco e la Turchia ha iniziato a esercitare la sua influenza sul gruppo da quando molti leader di Hamas si sono trasferiti da Doha a Istanbul, ha affermato un funzionario statunitense.

(Rights Reporter, 14 dicembre 2024)

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Le donne riserviste israeliane: in divisa dal 7 ottobre lontane dai figli per amore d’Israele

di Michelle Zarfati

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Da quando il 7 ottobre del 2023 Hamas ha colpito Israele con un pogrom senza precedenti, centinaia di migliaia di riservisti hanno preso di nuovo servizio nell’IDF. Non solo uomini, ma anche moltissime donne: mogli e madri che hanno lasciato i loro figli, i loro mariti e la loro vita per trascorrere giorni e notti in uniforme. Le donne che hanno dato, e danno quotidianamente, così tanto ad Israele hanno parlato delle difficoltà del lungo servizio di riserva delle difficoltà e dei successi al notiziario Israeliano Ynet.
  Tra loro c’è il Soldato Maggiore S, 44 anni, da Ein HaBesor. La donna, che presta servizio come ufficiale operativo in un’unità classificata, ha già completato più di 300 giorni nelle riserve dal 7 ottobre. Non appena è atterrata in Israele il 7 ottobre da una vacanza all’estero, ha guidato dall’aeroporto a Ofakim e si è unita al sostegno dei feriti al Magen David Adom. Durante il suo volo di rimpatrio, i suoi figli Koren e Inbar sono stati chiusi nella casa del padre a Ein HaBesor. “Appena prima del decollo, sono riusciti a dirmi che avevano sentito degli spari e delle urla in arabo fuori dal finestrino. Ho detto loro di nascondersi. Ero terrorizzata”. Dopo una notte insonne in ambulanza, tra l’evacuazione dei feriti e la fornitura di cure a terra, S. è andata a trovare i suoi figli. “È stato un grande sollievo, ho potuto respirare di nuovo”, ha raccontato la donna. Da allora, i due non hanno avuto modo di vedere molto la madre, che viaggia tra le basi in tutto il paese. “Sto facendo qualcosa di grande, ma non posso condividere nulla con loro, e questa è la cosa più difficile”. Koren ha rivelato che le manca sua madre, soprattutto quando ha iniziato una nuova scuola a Tel Aviv, dove sono stati evacuati, o durante il suo quindicesimo compleanno, che avrebbe voluto festeggiare assieme a lei”.
  C’è anche Noa Tom e i suoi figli Gali di 8 anni, Omer di 5 e Yuval di 2, una famiglia di Zikhron Ya’akov. “Ho prestato servizio nelle riserve per 20 anni, sono stata anche chiamata nella seconda guerra del Libano”, dice il maggiore Noa Tom, 41 anni, ufficiale di addestramento nella 55a divisione. “I bambini sono abituati a vedere la madre in uniforme, ma non con questa intensità. Ora è davvero come se fossi tornata in servizio”. La donna, per più di un anno, ha accompagnato le forze, spostandosi tra la Striscia di Gaza e il Libano , dormendo in una tenda per mesi. “La divisione è composta principalmente da uomini, dal soldato al comandante di divisione – ha raccontato – di solito sono l’unica donna nella divisione. Vorrei davvero vivere in un mondo in cui non ci sia bisogno di fare articoli sulle madri riserviste. In un mondo che funziona è ovvio che sia l’uomo che la donna prestano servizio come riserve. In questo modo, smetteranno di dire a mio marito, ‘Bel lavoro con i bambini’, e di dire a me, ‘Grazie per il tuo servizio'”. Il 7 ottobre, Noa ha fatto la valigia, ha salutato il marito e i figli ed è partita per la base militare. “I miei figli sono fortunati perché il papà è più tenero della mamma, è il migliore”. Da allora, ogni volta che fa la valigia e prende la sua arma in mano “i bambini capiscono che il mio tempo a casa è finito e che sto tornando nell’esercito. Piangono molto, quindi li calmo e prometto di tornare presto”.
  C’è poi il soldato Maggiore A. e i suoi figli Yiftah, 9 anni, Eti, 7 anni, e Negev, 5 anni, residenti in un moshav nel centro di Israele. “Da quando è scoppiata la guerra, A. e suo marito, il Maggiore Assaf, indossarono l’uniforme insieme. Lei controlla i voli dell’aeronautica e lui è un soldato combattente. Da ottobre, lasciano i loro tre figli e cinque cani a casa “Grazie al cielo ci sono i nonni”, ha detto A. descrivendo con orgoglio il suo lavoro: “Sono responsabile della gestione dello spazio aereo di Israele. Sono in allerta 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per identificare le minacce nell’area e realizzare una valutazione precisa”. Grazie al suo ruolo, è anche responsabile del coordinamento delle forze di terra. “Sapevo sempre dove si trovava mio marito”, ha raccontato. “Da un lato, dovevo restare concentrata sulla missione, dall’altro, avevo paura quando lui era sul campo. In qualsiasi evento insolito o evacuazione di soldati feriti, dovevo disconnettere le mie emozioni e non farmi trasportare dalla paura che mio marito poteva esser ferito o peggio.
  A. afferma che la sfida più significativa sono le transizioni. “Dal gestire vite umane e missioni di importanza nazionale, torno a casa ad una pila di panni da lavare e al fare la spesa”. “La mamma dice agli aerei dove volare e papà sta combattendo a Gaza. In un attimo, entrambi i miei genitori hanno lasciato il lavoro per andare nell’esercito e da allora sono nella riserva. È dura perché non sono con me, o vengono per un po’ e poi vanno via – ha detto Yiftah, la figlia di nove anni – nel frattempo, sono con i miei nonni, che amo molto, ma non possono sostituire i miei genitori. Sto aspettando che la guerra finisca così da tornare presto ad essere una famiglia come prima”.

(Shalom, 13 dicembre 2024)

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Antisemitismo – Torna l’indagine triennale del JDC

«Immagino che il trauma sia ancora in corso. Sembra che sia il 7 ottobre ancora e ancora, ogni giorno. La mia vita e la vita di ogni ebreo che conosco sono cambiate da allora. Mi sento meno al sicuro, meno accettato, meno integrato in una società in cui pensavo di appartenere». A parlare è un professionista iscritto a una Comunità ebraica italiana. Il suo pensiero rispecchia l’opinione della maggioranza degli ebrei non solo italiani, ma europei, come emerge dalla sesta Indagine sui dirigenti e sui professionisti delle comunità ebraiche europee realizzata dal Centro internazionale per lo sviluppo comunitario (JDC-ICCD) e diretta da Marcelo Dimentstein. Uno strumento nato nel 2008 per inquadrare le sfide presenti e future dell’ebraismo europeo, che oggi fa i conti con una società stravolta dal 7 ottobre. «La simultanea crescita degli incidenti antisemiti e delle proteste antisraeliane in tutta Europa è stata la principale preoccupazione per i dirigenti ebrei del continente. Questo sondaggio fornisce dati preziosi sull’aumento dei livelli di isolamento, insicurezza e paura tra gli ebrei europei, assieme al crescente desiderio di riunirsi in comunità», spiega Stefano Oscar, direttore regionale di JDC Europa, nella presentazione dell’indagine. Una ricerca a cadenza triennale a cui ha lavorato la sociologa Betti Guetta della Fondazione Cdec e a cui ha collaborato l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Il sondaggio è stato condotto online in dieci lingue, hanno risposto 879 intervistati provenienti da 32 paesi europei ed è stata inserita una sezione dedicata agli effetti del 7 ottobre.
  Come nell’edizione precedente (2021), la lotta all’antisemitismo si conferma in cima alle priorità della leadership ebraica. Pensare che nel 2011 era al settimo posto. Un passato lontano. Il senso di insicurezza e di isolamento, raccontano i dati dell’indagine, sono cresciuti ovunque. «Un significativo 38% degli intervistati ha riferito che le proprie istituzioni hanno subito episodi di antisemitismo dal 7 ottobre, e un’ampia maggioranza (78%) afferma che è diventato meno sicuro vivere e praticare il proprio ebraismo», si legge nella ricerca, che sarà presentata durante il prossimo Consiglio Ucei. Ci si sente molto meno liberi di girare per le strade con la kippah o con segni che possano identificare la propria identità ebraica. Anche con gli amici fuori dal mondo ebraico sono aumentate le distanze e le incomprensioni.
  All’insicurezza e al senso di isolamento, sottolinea la leadership ebraica, le persone hanno risposto con una maggiore partecipazione alle attività delle rispettive comunità e con un maggior sostegno a Israele. «La stragrande maggioranza degli intervistati, l’82%, ha riferito che il proprio impegno nei confronti di Israele è stato più forte dopo il 7 ottobre e una maggioranza crescente ha affermato che tutti gli ebrei hanno la responsabilità di sostenere Israele e di farlo incondizionatamente», spiegano gli autori dell’indagine.
  In un clima di timori e diffidenza ci si attenderebbe anche una maggior propensione all’emigrazione e invece questo dato rispetto al 2021 non è aumentato. Segno di un impegno a resistere agli stravolgimenti dell’ultimo anno. Il pessimismo sul futuro dell’Europa non viene nascosto – pur con significative differenze tra Europa occidentale (più negativa) ed orientale (più ottimista) – ma si risponde rafforzando i legami interni.

• IL PANORAMA ITALIANO
  L’indagine ha poi un focus sull’Italia in cui si registrano trend coerenti con il resto d’Europa, con alcune differenze. Ad esempio l’80% degli intervistati dichiara di sentirsi al sicuro a vivere come ebreo nella propria città contro il 73% della media europea (considerando l’Europa occidentale la media è ancor più bassa, 67%). Resta, come in passato, una significativa preoccupazione per il declino demografico di cui risente l’ebraismo italiano (per l’85% degli intervistati italiani è una minaccia seria, contro il 64% dei colleghi europei).
  Tanti da mettere in fila e analizzare, sottolineano gli autori della ricerca, per cercare di trarne delle politiche concrete da applicare per il futuro. «La speranza di JDC-ICCD», scrive a riguardo Oscar, «è che le informazioni contenute in questa indagine servano da guida per la leadership delle comunità ebraiche in tutta Europa per aiutare a pianificare e innovare, rafforzare la vita ebraica per le generazioni a venire, trasformando le sfide in opportunità». d.r.

(moked, 13 dicembre 2024)

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Parashat Vayishlach. La fede, un viaggio continuo

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Perché Giacobbe è il padre del nostro popolo, l’eroe della nostra fede? Noi siamo “la comunità di Giacobbe”, “i figli di Israele”. Eppure è stato Abramo a iniziare il cammino ebraico, Isacco a essere disposto al sacrificio, Giuseppe a salvare la sua famiglia negli anni della carestia, Mosè a condurre il popolo fuori dall’Egitto e a darne le leggi. Fu Giosuè a portare il popolo nella Terra Promessa, Davide a diventarne il più grande re, Salomone a costruire il Tempio e i profeti che, attraverso i secoli, divennero la voce di Dio.
Il racconto di Giacobbe nella Torà sembra essere inferiore a queste altre vite, almeno se leggiamo il testo alla lettera. Ha rapporti tesi con il fratello Esaù, con le mogli Rachel e Leah, con il suocero Labano e con i tre figli maggiori, Ruben, Simone e Levi. Ci sono momenti in cui sembra pieno di paura, altri in cui agisce – o almeno sembra agire – con meno di una totale onestà. Rispondendo al Faraone, dice di sé: “I giorni della mia vita sono stati pochi e difficili” (Genesi 47:9). È meno di quanto ci si possa aspettare da un eroe della fede.
Ecco perché gran parte dell’immagine che abbiamo di Giacobbe è filtrata attraverso la lente del Midrash, la tradizione orale conservata dai Saggi. In questa tradizione, Giacobbe è tutto buono, Esaù tutto cattivo. Doveva essere così – sosteneva Rabbi Zvi Hirsch Chajes (1805-1855) nel suo saggio sulla natura dell’interpretazione del midrash – perché altrimenti avremmo avuto difficoltà a trarre dal testo biblico un chiaro senso di giusto e sbagliato, di buono e cattivo. La Torà è un libro eccezionalmente impercettibile, e i libri così tendono a essere fraintesi. Così la Tradizione orale ha semplificato le cose: bianco e nero invece di sfumature di grigio.
Tuttavia, forse, anche senza il Midrash, possiamo trovare una risposta – e il modo migliore per farlo è pensare all’idea di un viaggio. L’ebraismo parla di fede come di un viaggio. Inizia con il viaggio di Abramo e Sara, che si lasciano alle spalle la loro “terra, il luogo di nascita e la casa paterna” e viaggiano verso una destinazione sconosciuta, “la terra che ti mostrerò”.
Il popolo ebraico è definito da un altro viaggio, in un’epoca diversa: il viaggio di Mosè e degli israeliti dall’Egitto attraverso il deserto fino alla Terra Promessa. Quel viaggio diventa una litania nella parashà di Masè: “Partirono da X e si accamparono in Y. Partirono da Y e si accamparono in Z”. Essere ebrei significa muoversi, viaggiare e solo raramente, se non mai, stabilirsi. Mosè mette in guardia il popolo dal pericolo di stabilirsi e di dare per scontato lo status quo, anche nello stesso Israele: “Quando avrete figli e nipoti e vi sarete stabiliti nel paese per molto tempo, potreste diventare decadenti”. (Deuteronomio 4:25)
Da qui le regole per cui Israele deve sempre ricordare il suo passato, non dimenticare mai gli anni di schiavitù in Egitto, non dimenticare mai a Succot che i nostri antenati un tempo vivevano in abitazioni temporanee, non dimenticare mai che la terra non è di nostra proprietà – appartiene a Dio – e che noi siamo lì solo come gherim ve-toshavim di Dio, “stranieri e residenti di Dio” (Levitico 25:23).
Perché? Perché essere ebrei significa non essere pienamente a casa nel mondo. Essere ebrei significa vivere nella tensione tra cielo e terra, tra creazione e rivelazione, tra il mondo che è e il mondo che siamo chiamati a creare; tra esilio e casa, tra l’universalità della condizione umana e la particolarità dell’identità ebraica. Gli ebrei non stanno fermi se non quando si trovano davanti a Dio. L’universo, dalle galassie alle particelle subatomiche, è in costante movimento, e così l’anima ebraica.
Siamo, crediamo, in una combinazione instabile di polvere della terra e respiro di Dio e questo ci chiama costantemente a prendere decisioni, a fare scelte, che ci faranno crescere fino a diventare grandi come i nostri ideali o, se scegliamo male, ci faranno raggrinzire in piccole e petulanti creature ossessionate dalla banalità. La vita come viaggio significa sforzarsi ogni giorno di essere più grandi del giorno prima, individualmente e collettivamente.
Se il concetto di viaggio è una metafora centrale della vita ebraica, qual è la differenza tra Abramo, Isacco e Giacobbe?
La vita di Abramo è incorniciata da due viaggi che utilizzano entrambi la frase Lech Lechà, “intraprendere un viaggio”: una volta in Genesi 12 quando gli viene detto di lasciare la sua terra e la casa paterna, l’altra in Genesi 22:2 al momento della legatura di Isacco, quando gli viene detto “Prendi tuo figlio, l’unico che ami – Isacco – e vai [lech lecha] nella regione di Moriah”.
Ciò che è così commovente in Abramo è che egli va, immediatamente e senza fare domande, nonostante il fatto che entrambi i viaggi siano strazianti in termini umani. Nel primo deve lasciare suo padre. Nel secondo deve lasciare suo figlio. Deve dire addio al passato e rischiare di dire addio al futuro. Abramo è fede pura. Ama Dio e si fida assolutamente di Lui. Non tutti possono raggiungere questo tipo di fede. È quasi sovrumana.
Isacco è l’opposto. È come se Abramo, conoscendo i sacrifici emotivi che ha dovuto fare, conoscendo anche il trauma che Isacco deve aver provato al momento della “Legatura”, cercasse di proteggere suo figlio per quanto è in suo potere. Si assicura che Isacco non lasci la Terra Santa (cfr. Genesi 24:6 – per questo Abramo non lo lasciò viaggiare per cercare una moglie). L’unico viaggio di Isacco (nella terra dei Filistei, in Genesi 26) è limitato e locale. La vita di Isacco è una breve tregua rispetto all’esistenza nomade di Abramo e Giacobbe.
Giacobbe è ancora diverso. Ciò che lo rende unico è che ha i suoi incontri più intensi con Dio – sono i più drammatici di tutto il libro della Genesi – nel mezzo del viaggio, da solo, di notte, lontano da casa, fuggendo da un pericolo all’altro, da Esaù a Labano nel viaggio di andata, da Labano a Esaù nel ritorno.
Nel mezzo del primo viaggio ha la rivelazione sfolgorante della scala che si estende dalla terra al cielo, con gli angeli che salgono e scendono, che lo porta a dire al risveglio: “Dio è veramente in questo luogo, ma io non lo sapevo…”. Questa deve essere la casa di Dio e questa la porta del cielo” (Genesi 28:16-17). Nessuno degli altri patriarchi, nemmeno Mosè, ha una visione simile.
Il secondo viaggio, nella nostra Parashà, ha l’inquietante ed enigmatico incontro di lotta con l’uomo/angelo/Dio, che lo lascia zoppicante ma trasformato in modo permanente – l’unica persona nella Torà che ha ricevuto da Dio un nome completamente nuovo, Israele, che può significare “uno che ha lottato con Dio e con gli uomini” o “uno che è diventato un principe [sar] davanti a Dio”.
L’aspetto affascinante è che gli incontri di Giacobbe con gli angeli sono descritti dallo stesso verbo – פגע’ -‘p-g-‘a, (Genesi 28:11 e Genesi 32:2) che significa “un incontro casuale”, come se avessero colto Giacobbe di sorpresa, cosa che evidentemente fecero. I momenti più spirituali di Giacobbe sono quelli che non aveva pianificato. Pensava ad altre cose, a ciò che si lasciava alle spalle e a ciò che lo aspettava. È stato, per così dire, “sorpreso da Dio”.
Giacobbe è una persona con cui possiamo identificarci. Non tutti possono aspirare alla fede amorevole e alla fiducia totale di Abramo o alla solitudine di Isacco. Ma Giacobbe è una persona che possiamo capire. Possiamo sentire la sua paura, comprendere il suo dolore per le tensioni nella sua famiglia e simpatizzare con il suo profondo desiderio di una vita di quiete e di pace (i Saggi dicono, a proposito dell’incipit della Parashà della prossima settimana, che “Giacobbe desiderava vivere in pace, ma fu immediatamente spinto nei problemi di Giuseppe”).
Il punto non è solo che Giacobbe è il più umano dei patriarchi, ma piuttosto che, nel profondo della sua disperazione, viene innalzato alle più alte vette della spiritualità. È l’uomo che incontra gli angeli. È la persona sorpresa da Dio. È colui che, proprio nei momenti in cui si sente più solo, scopre di non esserlo, che Dio è con lui, che è accompagnato dagli angeli.
Il messaggio di Giacobbe definisce l’esistenza ebraica. Il nostro destino è viaggiare. Siamo un popolo inquieto. Rare e brevi sono state le nostre parentesi di pace. Ma nel buio della notte ci siamo trovati sollevati da una forza di fede che non sapevamo di avere, circondati da angeli che non sapevamo esistessero. Se camminiamo sulla via di Giacobbe, anche noi possiamo trovarci sorpresi da Dio.
- Redazione Rabbi Jonathan Sacks zz

(Bet Magazine Mosaico, 13 dicembre 2024)
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Parashà della settimana: Va-ishlach (Mandò avanti)

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Il mondo è stupito e l'Iran è arrabbiato

Forse l'Iran stesso è stupito di come le cose sono andate a favore di Israele negli ultimi mesi.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Se i chierici e i leader sciiti sono così religiosi come fingono di essere nei loro discorsi di odio contro Israele e i sionisti, devono chiedersi, a porte chiuse, che tipo di Dio potente stia combattendo per Israele. Tutti i loro slogan su Allah Al-Aksa, Al-Quds, la conquista di Gerusalemme e la distruzione di Israele sono andati in frantumi. Le continue grida di “Allah hu Akbar” non sono altro che un trauma pop e non hanno contribuito in alcun modo ai loro desideri e piani.
Naturalmente, gli iraniani sono frustrati e arrabbiati perché ammettere la sconfitta è percepito nella nostra regione come un segno di debolezza, che indebolisce la posizione del governo a livello interno e internazionale. Il regime dei mullah di Teheran ha una struttura politica caratterizzata da orgoglio e forza ideologica, soprattutto quando si tratta di resistere all'Occidente e ai suoi alleati.
I terroristi palestinesi di Gaza hanno coinvolto l'Iran e Hezbollah in una costosa avventura militare per la quale l'Iran sta pagando un prezzo altissimo e ha perso l'esistenza dell'asse sciita. Peggio ancora, Hamas è sunnita e non sciita come Hezbollah. E ora sono maledetti mille volte di più a Teheran solo perché sono terroristi sunniti. Gli Hezbollah, alleati dell'Iran in Libano, e il regime di Assad in Siria sono finiti, e devono ringraziare i sunniti di Gaza. È così che ragionano le loro teste.
L'attacco a sorpresa di Hamas ha costretto l'Iran e Hezbollah a combattere contro Israele per venire in aiuto di Hamas nella Striscia di Gaza. Israele non solo ha eliminato l'intera leadership di Hamas sul terreno, ma anche Ismail Haniyeh e il suo vice Saleh al-Arouri all'estero, così come l'intera leadership terroristica e politica di Hezbollah, compreso Hassan Nasrallah. Israele ha anche distrutto circa il 70% dell'arsenale missilistico della milizia terroristica. L'Iran ha investito più di 40 anni nell'asse del terrore sciita in Medio Oriente e ora tutto è crollato. Secondo fonti di intelligence occidentali, l'Iran è il principale perdente dell'attacco a sorpresa contro Israele del 7 ottobre. L'imminente insediamento del neoeletto Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il 20 gennaio, rischia di peggiorare ulteriormente la situazione strategica dell'Iran.
Il quotidiano britannico The Telegraph ha riferito che la leadership iraniana si è sentita in imbarazzo per la situazione in Siria e si stanno accusando a vicenda. “L'atmosfera qui è quasi da scontro fisico, con persone che sbattono sui muri, si urlano addosso e prendono a calci i bidoni della spazzatura. Si accusano a vicenda e nessuno si assume la responsabilità”, ha dichiarato una fonte. Dalla caduta del regime di Assad, si è sviluppata una “guerra di recriminazioni” all'interno delle Guardie rivoluzionarie, in cui i responsabili del fallimento sono ricercati a Teheran. La fonte ha aggiunto: “Nessuno ha mai pensato che Assad sarebbe fuggito perché per dieci anni ci si è concentrati solo sul mantenerlo al potere. Non perché ci piacesse, ma perché volevamo garantire la vicinanza a Israele e a Hezbollah”. Le lamentele iraniane continuano. Un comandante delle Guardie Rivoluzionarie sul crollo del regime di Assad: “Sapevamo dei movimenti dei ribelli diversi mesi fa, ma non facciamo la guerra in un altro Paese mentre l'esercito di quel Paese se ne sta con le mani in mano”.
Fonti di intelligence occidentali riferiscono che l'Iran è furioso con la leadership di Hamas, in particolare con Yahya Sinwar, che nel frattempo è stato eliminato. Sinwar si era servito dell'Iran e di Hezbollah per costruire le infrastrutture militari di Hamas nella Striscia di Gaza. Tuttavia, non ha rivelato la data esatta dell'attacco a sorpresa alle città israeliane di confine, il 7 ottobre 2023. A seguito di questa mossa e del massacro nel sud di Israele, l'Iran ha perso il suo prestigio terroristico. Di conseguenza, il regime di Assad è crollato pochi giorni fa con un effetto domino. Secondo fonti di intelligence occidentali, la guerra in Siria tra le milizie jihadiste e l'esercito siriano di Assad (che non esiste più) ha rivelato la profondità della crisi in cui si trova l'Iran.
Sinwar voleva raccogliere una gloria personale per il suo attacco “Flood Jerusalem” e passare alla storia come l'architetto musulmano sunnita dell'operazione, simile al capo militare musulmano Saladino, che liberò Gerusalemme dai crociati nel 1187. Sinwar non voleva dare il minimo riconoscimento all'asse sciita guidato dall'Iran. A posteriori, la sua strategia si è rivelata vincente, poiché l'Iran e i suoi alleati sono stati involontariamente coinvolti nel conflitto contro Israele. Secondo fonti di intelligence occidentali, l'attacco di Sinwar a Israele ha portato infine a un confronto militare diretto tra Iran e Israele. Di conseguenza, l'Iran ha perso il suo sistema di difesa aerea strategica e le sue strutture nucleari sono ora vulnerabili agli attacchi israeliani. Inoltre, l'attacco ha innescato un effetto domino in Medio Oriente che mette a rischio gli interessi dell'Iran. La Turchia, membro della NATO ed economicamente molto più forte dell'Iran, sta intervenendo nel conflitto siriano e anche Israele minaccia di intervenire militarmente in Siria se i suoi interessi di sicurezza sono minacciati. L'Iran sta quindi perdendo il dominio militare ed economico che ha costruito in Siria dal 2011.
Un'altra fonte delle Guardie Rivoluzionarie ha commentato la possibilità di continuare a rifornire Hezbollah di armi dopo la perdita della sua influenza in Siria: “Ci deve essere qualcuno sul terreno che può inviare armi, ma loro (la gente e i soldati di Assad) o vengono uccisi o fuggono. Al momento ci stiamo concentrando per uscire da questa impasse. Non ci sono discussioni sulle forniture di armi perché tutti cercano di capire cosa stia realmente accadendo e quanto questo metta a rischio l'Iran”.
All'esterno, il regime iraniano sta cercando di fingere la normalità. Ebrahim Rezaei, portavoce del Comitato per la sicurezza nazionale in Parlamento, ha parlato della sessione a porte chiuse del comitato in un'intervista all'agenzia di stampa iraniana Mehr. Alla riunione hanno partecipato il Comandante in capo delle Guardie rivoluzionarie, generale Hossein Salami, e cinque parlamentari che hanno espresso le loro opinioni su questioni nazionali e regionali. Rezaei ha dichiarato: “Il generale Salami ha analizzato la situazione nella regione e ha sottolineato che non siamo stati indeboliti e che il potere dell'Iran non è diminuito in alcun modo. Ha anche ribadito che il rovesciamento del regime sionista rimane nella nostra agenda”.
La Bibbia descrive situazioni in cui i nemici di Israele riconoscono la potenza del Dio di Israele e il suo ruolo nei successi di Israele nelle guerre. Durante le dieci piaghe, il faraone e gli egiziani riconobbero il potere di Dio come sovrano di tutto il creato. Anche se era difficile per il Faraone ammetterlo apertamente, a volte dice che “il Signore è giusto” e capisce che il potere che sta dietro le piaghe è di origine divina.
Rahab, la prostituta di Gerico, disse alle spie: “Abbiamo sentito come il Signore ha prosciugato le acque del Mar Rosso davanti a voi, quando siete usciti dall'Egitto, e cosa avete fatto ai due re degli Amorrei, Sihon e Og, al di là del Giordano, sui quali avete eseguito il bando” (Giosuè 2).
Quando i Filistei seppero che l'Arca dell'Alleanza era stata portata nell'accampamento di Israele, furono presi dal panico e dissero: “Guai a noi! Chi ci libererà dalla mano di questi potenti dèi? Questi sono gli dèi che hanno colpito gli Egiziani nel deserto con ogni sorta di piaghe!” (1 Samuele 4).
Oppure, dopo che i tre testimoni della fede Shadrach, Meshach e Abednego erano usciti illesi dalla fornace ardente, Nabucodonosor disse: “Benedetto sia il Dio di Shadrach, Meshach e Abednego, che ha mandato il suo angelo e ha liberato i suoi servi che hanno confidato in lui e hanno trasgredito il comandamento del re e hanno rinunciato ai loro corpi perché non adoravano e non adorano altro dio che il loro Dio soltanto!” (Daniele 3).
Sì, i nemici di Israele nella Bibbia riconoscono spesso la potenza del Dio di Israele, soprattutto quando sperimentano apparenti miracoli o subiscono sconfitte che naturalmente sembrano loro inspiegabili. Questo riconoscimento non sempre li portava a cambiare strada, ma rifletteva la soggezione e la comprensione del potere del Dio di Israele nelle guerre e nella storia. E sì, Israele sta vedendo miracoli davanti ai suoi occhi in questi giorni, e i nostri nemici non vogliono ammetterlo davanti alle telecamere, ma abbiamo agenzie di intelligence e fonti che lo rivelano a porte chiuse.

(Israel Heute, 13 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Si sarà notata la facilità con cui il direttore di "Israel heute" cita passi della Bibbia. Questo dipende certamente dalla famiglia in cui è cresciuto, in cui il padre Ludwig Schneider (che ho personalmente conosciuto) era un ebreo tedesco convertito a Cristo che ha fatto crescere i suoi nove figli in Israele. Per favorire la conoscenza di Israele in Germania, ha scritto un libro dal titolo 100 Fragen an Israel: was Sie schon immer wissen wollten (100 domande a Israele: quello che Lei avrebbe sempre voluto sapere). Riportiamo qui la domanda numero 32. M.C.


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“Possono essere salvati gli ebrei senza Gesù?”

Il Nuovo Testamento afferma inequivocabilmente che Gesù (in ebraico Yeshua) è diventato la pietra angolare e che la salvezza non si trova in nessun altro, perché non c'è altro nome sotto il cielo con cui noi uomini possiamo essere salvati (Atti 4:11-12). La validità di questa affermazione non può essere contestata. Gesù stesso dice: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6). Questo ricorda la storia di Giuseppe (Genesi, capitoli 37-50), in cui Giuseppe funge da prototipo del Messia. I fratelli di Giuseppe sono stati salvati da Giuseppe molto prima che lo riconoscessero come loro fratello. La consapevolezza che lo “straniero” fosse in realtà Giuseppe, il loro fratello, arrivò solo in seguito. Allo stesso modo, la consapevolezza che Yeshua è il Messia arriverà solo dopo, quando “guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zaccaria 12:10). Gli ebrei pregano da tempo nella loro benedizione settimanale della Hawdala: “L’Eterno è diventato Yeshua (salvezza) per me. Berrete con gioia l'acqua delle sorgenti di Yeshua (salvezza). Alzo il calice di Yeshua (salvezza) e invoco il nome dell'Eterno”.
Yeshua, non ancora riconosciuto dagli ebrei, provvede già ai suoi fratelli? Così come c'è una grazia che segue, c'è forse anche una grazia che precede? “O Signore, Tu lo sai!”.

(da “100 Fragen an Israel: was Sie schon immer wissen wollten”, Hänssler Verlag, 1997)

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Ora Israele valuta seriamente un attacco ai siti nucleari iraniani

Il controllo completo dei cieli siriani permette a Israele di studiare con più facilità un attacco ai siti nucleari iraniani

di Paola P. Goldberger

Le Forze di difesa israeliane (IDF) ritengono che, in seguito all’indebolimento dei gruppi paramilitari iraniani in Medio Oriente e alla drammatica caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria, ci sia la possibilità di colpire gli impianti nucleari iraniani.
L’aeronautica militare israeliana (IAF) ha quindi continuato ad aumentare la propria prontezza e i preparativi per possibili attacchi in Iran.
L’IDF ritiene inoltre che l’Iran, isolato dopo la caduta del regime di Assad e dall’indebolimento di Hezbollah in Libano, potrebbe proseguire con il suo programma nucleare e sviluppare una bomba, nel tentativo di ricostruire la propria deterrenza.
L’Iran ha sempre negato di voler dotarsi di armi nucleari e afferma che sia il suo programma spaziale sia le sue attività nucleari hanno scopi puramente civili.
Tuttavia, le agenzie di intelligence statunitensi e l’AIEA affermano che l’Iran aveva un programma nucleare militare organizzato fino al 2003 e ha continuato a sviluppare il suo programma nucleare oltre le necessità civili. Israele sostiene che la Repubblica islamica non ha mai veramente abbandonato il suo programma di armi nucleari e molti dei suoi siti nucleari sono sepolti sotto montagne pesantemente fortificate.
L’Iran è impegnato nella distruzione di Israele. Nell’ultimo anno, ha lanciato due volte massicce raffiche di missili contro Israele, che ha giurato di impedire a Teheran di ottenere armi nucleari. Israele, dal canto suo, ha colpito importanti strutture militari iraniane come rappresaglia per entrambi gli attacchi, avvenuti nel contesto di una guerra su più fronti aperta dai terroristi iraniani contro lo stato ebraico.

• SUPERIORITÀ AEREA COMPLETA IN SIRIA
  Giovedì, l’IAF ha dichiarato che, dopo oltre un decennio di elusione delle difese aeree sui cieli della Siria durante una campagna contro la fornitura di armi da parte dell’Iran a Hezbollah, aveva raggiunto la superiorità aerea totale nella zona.
Questa superiorità aerea sulla Siria potrebbe consentire un passaggio più sicuro agli aerei dell’IAF per lanciare un attacco contro l’Iran, hanno affermato fonti militari.
Una campagna di bombardamenti israeliana condotta all’inizio di questa settimana in Siria, volta a distruggere armamenti avanzati che potrebbero cadere nelle mani di elementi ostili dopo il crollo del regime di Bashar al-Assad, ha distrutto anche la maggior parte delle difese aeree del Paese.
Secondo l’esercito, l’IAF ha distrutto l’86% dei sistemi di difesa aerea dell’ex regime di Assad in Siria, per un totale di 107 componenti separati di difesa aerea e altri 47 radar.
I numeri includono l’80% del sistema di difesa aerea a corto e medio raggio SA-22, noto anche come Pantsir-S1, e il 90% del sistema di difesa aerea a medio raggio russo SA-17, noto anche come Buk.
Entrambi i sistemi di fabbricazione russa avevano rappresentato una sfida per l’IAF durante la cosiddetta campagna tra le campagne, o Mabam , come è nota con l’acronimo ebraico, volta a contrastare le consegne di armi iraniane a Hezbollah in Libano e i tentativi da parte di gruppi sostenuti dall’Iran di mettere piede nel paese, campagna iniziata nel 2013.
Ora in Siria restano solo pochi sistemi di difesa aerea, che non sono considerati una minaccia seria per l’IAF, che ha dichiarato di poter operare liberamente nei cieli del Paese.
“Il sistema di difesa aerea siriano è uno dei più potenti in Medio Oriente e il colpo infertogli rappresenta un risultato significativo per la superiorità dell’Aeronautica nella regione”, ha affermato l’IDF in una nota.
La nuova libertà di azione aerea offre all’IAF anche nuove opportunità in Siria, oltre a potenziali attacchi in Iran.
Se in passato l’IAF non avrebbe sorvolato direttamente Damasco quando effettuava attacchi su obiettivi legati all’Iran nella capitale, ora può farlo. L’IAF può anche inviare droni di sorveglianza sulla capitale siriana senza il timore che vengano abbattuti dagli avanzati sistemi di difesa aerea di fabbricazione russa.

• HEZBOLLAH CERCA DI IMPOSSESSARSI DELLE ARMI DI ASSAD
  Nonostante la caduta del regime di Assad, sostenuto dall’Iran, Israele ha affermato che avrebbe continuato a operare in Siria per garantire che le armi avanzate dell’esercito di Assad non raggiungessero Hezbollah in Libano o qualsiasi altro gruppo ostile a Israele nella regione.
La campagna di bombardamenti di domenica e lunedì, iniziata ore dopo la caduta del regime di Assad, ha colpito anche basi aeree siriane, depositi di armi, siti di produzione di armi e siti di armi chimiche, oltre ai sistemi di difesa aerea. Gli attacchi hanno distrutto centinaia di missili e sistemi correlati, 27 jet da combattimento, tra cui SU-22 e SU-24, 24 elicotteri e altro ancora. Gli attacchi della Marina israeliana hanno anche distrutto 15 navi militari siriane.
In totale, l’IAF ha utilizzato 1.800 munizioni negli attacchi, distruggendo quasi tutti i siti con “capacità militari strategiche” di cui Israele era a conoscenza.
L’IDF ha valutato di non aver distrutto tutte le capacità militari del regime di Assad e Hezbollah cercherà sicuramente di mettere le mani su tutte le armi avanzate finora risparmiate.
Secondo le valutazioni dell’IDF, le possibilità che armi provenienti dalla Siria raggiungano Hezbollah in Libano sono considerate elevate.
Per impedire che le armi raggiungano Hezbollah, l’IAF ha bombardato tutti i valichi di frontiera tra Siria e Libano, lasciandone solo uno, Masnaa, aperto al traffico pedonale. L’IAF ha affermato di monitorare costantemente i valichi per assicurarsi che Hezbollah non vi ritorni per prelevare armi.
Allo stesso tempo, l’esercito ritiene anche di aver inferto un duro colpo alle capacità di produzione di armi dell’intero asse guidato dall’Iran, in Libano, Siria e nello stesso Iran, con l’attacco di ottobre in risposta all’attacco missilistico balistico di Teheran.

(Rights Reporter, 13 dicembre 2024)

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Drusi del sud della Siria chiedono l'annessione del loro villaggio a Israele

La richiesta di annessione segna un radicale cambiamento di atteggiamento tra gli abitanti di Hader, un tempo fedeli al regime di Assad.

I video diffusi venerdì mattina mostrano un insolito raduno nel villaggio druso di Hader, nel sud della Siria, vicino al confine con Israele. Gli abitanti chiedono pubblicamente di essere legati allo Stato ebraico, esprimendo la loro riluttanza a vivere sotto la nuova autorità siriana.
  Queste richieste però non sono unanimi, secondo un attivista dell'opposizione citato da Ynet, e stanno causando preoccupazione tra gli altri gruppi della Siria meridionale.
  Hader presenta una situazione particolare: il villaggio è stato separato durante la Guerra dei Sei Giorni dagli altri quattro villaggi drusi che sono passati sotto il controllo israeliano - Majdal Shams, Restaurant, Buqaata e Ein Kiniya. Nel 2017, dopo un attacco mortale in cui sono state uccise nove persone, Tsahal si è impegnato pubblicamente a “proteggere i drusi e impedire l'occupazione del villaggio siriano di Hader”.
  Questa richiesta di annessione segna un cambiamento radicale di atteggiamento. Gli abitanti di Hader, in passato fedeli al regime di Assad, si erano opposti a Tsahal anche con la violenza, in particolare durante le operazioni condotte con Hezbollah. Gli incidenti del 2013 e del 2015 hanno provocato diverse vittime, tra cui quattro abitanti del villaggio uccisi mentre preparavano un attacco.
  Questa richiesta arriva sullo sfondo di una più ampia rivolta drusa. La scorsa settimana, la comunità ha preso il controllo di al-Sweida, una storica roccaforte drusa, dopo scontri con l'esercito siriano. Questa azione, approvata dal leader spirituale druso Sheikh Hekmat al-Hajri, ha portato al rilascio di prigionieri del regime.
  Il comandante della forza che ha preso al-Sweida, Sheikh Lui, ha sottolineato che questa azione contro il regime è stata coordinata con l'organizzazione ribelle Hayat Tahrir al-Sham, un attore chiave nella caduta di Damasco.

(i24, 13 dicembre 2024)

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Le comunità ebraiche: 'Lo sciopero non è una piazza per l'odio per Israele'

"Se da cittadini comprendiamo le ragioni di uno sciopero pur con tutti i disagi, da cittadini di questo paese ribadiamo che uno sciopero non è una piazza dalla quale si annunciano slogan di odio e distorsione".
Così Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, in merito allo sciopero oggi. "Leggiamo attoniti tra le motivazioni dello sciopero indetto per oggi e avallate anche dal Tar quella di esprimersi "contro il crescente coinvolgimento dell'Italia nei teatri di guerra tanto ad est quanto nel sostegno al genocida governo israeliano", trasformando così anche questo momento di rivendicazione salariale/sindacale in uno spazio prettamente prestato alla strumentalizzazione politica e alla distorsione che semina odio", aggiunge la presidente Ucei.
"In altre parole - prosegue Di Segni - il concetto è questo: va di moda il binomio Israele-genocidio e attrae attenzione? Usiamolo anche come sindacati per qualsiasi pretesa. E non importa che in altre parti del Medioriente e del mondo si è visto l'orrore proprio in questi giorni. Continuiamo ad insistere non solo per stigmatizzare l'abuso divenuto abitudine dei diritti costituzionali e dei fondamentali strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori, per di più attraverso un'azienda municipalizzata, ma anche sul diritto di Israele di difendersi e favorire negoziati in corso sostenendoli anziché frenarli con slogan e sentenze cieche di quanto realmente avviene e le minacce presenti anche nelle nostre democrazie europee".

• LA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA: NON RIMANIAMO IN SILENZIO
  "Sgomento e sconcerto. Non ci sono altre parole per descrivere quello che proviamo leggendo che tra le motivazioni dello sciopero indetto dall'Unione sindacale di base c'è il sostegno dell'Italia al 'genocida governo israeliano'. Purtroppo, siamo di fronte all'emergere di un sentimento di odio verso Israele che prescinde da qualsiasi ragionevole contesto, e che non può avere altra spiegazione se non l'urgenza di esprimere - anche fuori luogo - un antisemitismo che cova da sempre. Che non è mai stato debellato. Il nostro compito è non restare in silenzio e denunciarlo. Sempre e comunque". Così Victor Fadlun, presidente della Comunità Ebraica di Roma, in merito allo sciopero di oggi.

(ANSA, 13 dicembre 2024)
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La comunità ebraica dovrebbe chiedersi se non avrebbe dovuto opporsi con maggiore convinzione e forza all'equiparazione tra guerra in Ucraina e guerra in Gaza, come guerre in cui entrambi vanno difesi in quanto parti dell'Occidente libero e buono contro il barbaro Oriente tirannico e cattivo. Adesso in piazza contro Israele ci sono Oriente (propal) e Occidente (sindacati) ben assortiti che parlano genericamente di "teatri di guerra tanto ad est quanto ad ovest". E ci sono i buoni che si mettono contro i cattivi, tra cui naturalmente emerge come sempre il governo israeliano, quello del genocidio. Viva l'Occidente! M.C.
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Rivelazione choc per legami con Hamas. La World Central Kitchen licenzia 62 dipendenti a Gaza

di Anna Coen

In questi giorni la World Central Kitchen (WCK), nota organizzazione umanitaria statunitense specializzata nell’assistenza alimentare durante le emergenze, è finita al centro di una controversia dopo aver licenziato 62 dipendenti nella Striscia di Gaza. La decisione segue le accuse di Israele secondo cui alcuni di questi lavoratori avrebbero legami con Hamas e con altre organizzazioni terroristiche che governano la zona. Secondo Reuters, alcuni di questi dipendenti avrebbero addirittura preso parte agli attentati del 7 ottobre costati la vita a oltre 1.200 persone in Israele.
In un messaggio al personale, WCK ha confermato di aver «apportato delle modifiche» dopo che Israele ha chiesto un’indagine sulle sue pratiche di assunzione a Gaza.
Tra i dipendenti licenziati spicca il caso di Kahad Azmi Kadih (noto anche come Ahed Azmi Qudeih), un palestinese accusato di aver preso parte agli attacchi di Nir Oz e successivamente ucciso in un raid aereo il 30 novembre. La WCK ha dichiarato di aver agito con i licenziamenti per motivi di sicurezza, ma ha sottolineato che Israele non ha fornito prove sufficienti per verificare pienamente le accuse e che non ha condiviso le sue informazioni di Intelligence: «Non conosciamo su cosa Israele si sia basata per denunciare questi individui», ha affermato l’organizzazione, aggiungendo che queste misure sono state adottate «per proteggere la nostra squadra e le nostre operazioni».
L’organizzazione ha sospeso temporaneamente le operazioni a Gaza, manifestando preoccupazione per il suo personale e per la neutralità delle sue attività.

• IL COINVOLGIMENTO DI UNRWA E ALTRE ORGANIZZAZIONI
  Questa vicenda come noto non è isolata. L’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, è stata oggetto di critiche pesanti in questi mesi di conflitto  per il presunto coinvolgimento di alcuni suoi dipendenti con Hamas e altre fazioni armate. Secondo quanto riportato da The Jewish Press a seguito di interviste e di un’analisi dei registri condivisi con il New York Times  dall’esercito israeliano e dal Ministero degli Esteri, Israele avrebbe scoperto che almeno 24 dipendenti dell’UNRWA erano legati ad attività militanti, utilizzando le infrastrutture dell’agenzia per scopi bellici, come il deposito di armi e il lancio di razzi contro obiettivi israeliani.

(Bet Magazine Mosaico, 13 dicembre 2024)

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Trecentocinquanta attacchi aerei in sole 48 ore: cosa sta facendo l’IDF in Siria e perché?

di Sofia Tranchina

Dopo 14 truci anni di cui l’orrore si può soltanto evocare e non comprendere, tra torture e massacri insensati, il popolo siriano si concede di esultare. Ma, in mezzo ai festeggiamenti, i nodi irrisolti, le paure, le rivalità tra etnogruppi e le insidie ancora incombono sul Paese.
Tra questi, i bombardamenti dell’IDF, che nel caos della rivoluzione ha trovato una finestra per condurre la più riuscita operazione di smantellamento delle forze siriane, senza temere di innescare una guerra diretta.
L’IDF stima di aver annientato tra il 70 e l’80% delle capacità militari del precedente regime, con l’obiettivo dichiarato di impedire che – a seguito del crollo delle infrastrutture statali e della ritirata dell’esercito siriano – armi sofisticate abbandonate cadessero in mani sbagliate: Hezbollah, jihadisti, o altri gruppi ostili ancor più pericolosi dei precedenti proprietari.
Con trecentocinquanta attacchi aerei, le IDF hanno colpito obiettivi strategici – basi aeree, depositi di armi, siti di produzione di armamenti e infrastrutture militari – a Damasco, Homs, Tartus, Palmira e Latakia, dove hanno distrutto le quindici navi che componevano la flotta della marina militare siriana.
Quanto è vero che Assad era nemico di Israele e permetteva all’Iran di armare Hezbollah, è anche vero che dei nuovi padroni di casa si sa troppo poco per poter lasciare la sicurezza al caso.
Nei quattordici anni di guerra civile Israele ha dato supporto umanitario, economico e bellico ai ribelli. Nel 2016 ha avviato l’iniziativa umanitaria Operazione Buon Vicino per fornire assistenza ai civili siriani colpiti dalla guerra e a costruire relazioni positive con la popolazione siriana. Sono stati inviati 360 tonnellate di cibo, distribuite 12.000 confezioni di latte artificiale e 1800 pacchi di pannolini, fornite otto automobili e sei muli per le operazioni locali. Sono state costruite due cliniche in Siria, nella zona di Quneitra, e una clinica presso l’avamposto 116 in Israele, e oltre tremila siriani feriti sono stati trattati in ospedali israeliani.
Israele ha anche fornito armi leggere ai gruppi ribelli siriani nel Golan, ufficialmente destinate all’autodifesa, per contrastare l’influenza di Iran e Hezbollah nella regione (lo ha confermato nel 2019 l’ex capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eisenkot).
Lo stesso crollo del regime di Assad è in gran parte stato favorito (oltre che dalla resistenza dell’Ucraina che ha distolto la Russia dalle sue aspirazioni mediorientali) dalla resistenza di Israele, che ha decimato le forze di Hezbollah e messo in crisi la mezzaluna sciita dell’Iran.
Ciononostante, Israele guarda con circospezione i nuovi vicini.
Il leader della coalizione al Fatah al Mubin – che in dieci giorni ha respinto il vecchio regime e “liberato” la Siria – è Abu Muhammad al Jolani (o al Golani, prendendo il soprannome dalle alture del Golan di cui è originario), jihadista salafita dal passato a dir poco controverso.
Alleato di Al Baghdadi nel 2011, al Jolani fondò Jabat al Nusra come costola siriana dell’ISIS e si unì alla guerra civile, non con le aspirazioni democratiche dei ribelli della prima ora, bensì per fondare uno Stato fondamentalista basato sulla sharìa. Come i talebani afghani, le sue milizie non disdegnavano decapitazioni sommarie, torture, e attacchi terroristici.
Nel 2013 al Jolani voltò faccia e giurò fedeltà ad Al Qaida, ma tra il 2016 e il 2017 – per salvarsi dai bombardamenti americani e russi e aprire le porte all’approvazione e ai finanziamenti internazionali – al Jolani abbandonò anche questa, si mise in proprio, cambiò due volte il nome della sua organizzazione (attualmente conosciuta come Hayat Tahrir al Sham) e abbandonò la jihad globale per concentrarsi su obiettivi nazionali. Iniziò a mostrarsi in pubblico in abiti civili, a parlare di moderazione e rispetto delle minoranze, e permise la riapertura delle chiese a Idlib, la regione sotto il suo potere.
Adesso che ha preso il controllo di tutto il Paese, al Jolani ha scelto come nuovo Primo Ministro Mohammad al Bashir, incarnazione di quello che pare essere un nuovo “islamismo moderato in barba e cravatta”, come dice l’inviato del Corriere della Sera Andrea Nicastro. È stata una combinazione di incomprensione e di comportamenti sbagliati ad aver travisato l’Islam, spiega al Bashir, ma i membri di Hayat Tahrir al Sham, «proprio perché islamici», garantiranno «i diritti di tutte le genti e tutti i popoli della Siria». Ma, quando Nicastro gli chiede se sarebbe disposto alla pace con Israele, Bashir ‘ringrazia e se ne va;.
«Questo è l’accampamento dei musulmani. Da qui, veniamo Gerusalemme: sii paziente, popolo di Gaza! Allah uAkbar!», gridano alcuni militanti di Hayat Tahrir al Sham in un video pubblicato da Althawra Network Media, verificato e tradotto da MemriTV. «Così come siamo entrati nella moschea degli Omayyadi a Damasco, entreremo nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme».
Hamas ha espresso il suo sostegno e si è congratulata «con il fratello popolo siriano per il successo nel raggiungere le sue aspirazioni di libertà e giustizia», auspicando che la nuova Siria continui «il suo ruolo storico e fondamentale nel sostenere il popolo palestinese».
Dal canto suo Israele, pur mantenendosi – almeno a parole – aperta all’eventualità di trovare accordi con il nuovo governo siriano, si è preparata al peggior scenario. «Vogliamo relazioni corrette con il nuovo regime» e «non abbiamo intenzione di interferire negli affari interni della Siria», ha dichiarato il premier israeliano Netanyahu, «ma certamente intendiamo fare ciò che è necessario a garantire la nostra sicurezza. Se il nuovo regime permette all’Iran di ristabilirsi in Siria, o consente il trasferimento di armi a Hezbollah, o ci attacca, risponderemo con forza e gli faremo pagare un caro prezzo».
Le truppe dell’IDF si sono dunque schierate al confine tra Israele e Siria occupando anche la zona cuscinetto concordata nell’Accordo di Disimpegno del 1974.
A seguito della guerra del Kippur del 1973 – quando la Siria e l’Egitto attaccarono a sorpresa Israele, che si difese energicamente e vinse – l’Accordo di Disimpegno prevedeva il mantenimento di una Area di Separazione smilitarizzata di circa 235 chilometri quadrati, tra le linee alpha dal lato israeliano (dove è stato allestito il Camp Ziouani) e bravo dal lato siriano (con il Camp Faouar). Prevedeva inoltre che milleduecento soldati della Forza di disimpegno degli osservatori delle Nazioni Unite (UNDOF) effettuassero pattugliamenti regolari e monitorassero eventuali attività militari dai posti di osservazione.
Dopo la ritirata dell’esercito siriano, la situazione sulle strategiche alture del Golan è diventata critica. Da lì, infatti, è facile “dominare dall’alto” Israele; da lì, tra gli anni ’50 e ’60 la Siria lanciava numerosi attacchi contro civili israeliani in Galilea (come quelli che uccisero Ra’aya Goldschmidt al kibbutz Gadot e Kamus Ben Atiya al kibbutz Gonen).
Per prevenire infiltrazioni da parte di gruppi ribelli o jihadisti, che potrebbero aver acquisito tecnologie militari avanzate e droni di sorveglianza per spiare o attaccare Israele, l’IDF ha ritenuto necessario prendere il controllo del monte Hermon, rimasto vuoto.
«Non sappiamo chi ci contrasterà dalla parte siriana, che si tratti di Al Qaida, dell’ISIS, o di altri, quindi dobbiamo essere pronti a proteggere i nostri civili», ha spiegato il membro dell’intelligence Citrinowicz. Va stabilita una «zona di difesa sterile libera da armi e minacce terroristiche nella Siria meridionale», ha rincarato il ministro della Difesa Israel Katz.
Qatar, Turchia ed Egitto hanno accusato Israele di sfruttare e violare la sovranità della Siria, e le Nazioni Unite hanno accusato Israele di violare l’accordo di disimpegno. «L’accordo del 1974 è collassato», ha risposto Netanyahu, e in ogni caso si tratterebbe soltanto di una misura temporanea di sicurezza, chiarisce. Gli Stati Uniti ne comprendono la necessità, ma evitano di stabilire le tempistiche di quel “temporaneo” per adattarsi a una situazione in rapido svolgimento. Anche il Regno Unito ha riconosciuto le «legittime preoccupazioni per la sicurezza» di Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 12 dicembre 2024)

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500 anni della Comunità Ebraica di Roma moderna

di Claudio Procaccia

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Ettore Roesler Franz, Ghetto. Via Rua in fondo al Portico d’Ottavia (1878). Museo di Roma. Copia fotografica dell’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma

Era il 12 dicembre 1524, esattamente 500 anni fa: la bolla papale, emessa da Clemente VII, decretava la nascita dell’Universitas Hebraeorum Urbis, una sorta di federazione delle molte collettività ebraiche presenti sul territorio. In sostanza, era l’atto che segnava la nascita di una comunità con una struttura centralizzata. La presenza degli ebrei nella Città Eterna è attestata sin dal II secolo avanti l’era cristiana e nella prima età moderna nell’Urbe vi erano diverse compagini ebraiche, come si evince da una bolla del 1519, emessa durante il pontificato di Leone X nella quale erano annoverate ben 11 sinagoghe fra spagnole, francesi, tedesche e italiane.
  La creazione di una struttura comunitaria di tipo moderno si può ricondurre a più fattori, come la regolamentazione della rivalità tra le varie compagini ebraiche e le necessità associate alla formazione di uno Stato moderno, quello pontificio, che progressivamente stava accentrando le funzioni governative rispetto all’epoca medievale. Le diverse collettività ebraiche furono organizzate attraverso una sorta di statuto (i Capitoli) redatto da un banchiere toscano ed ebreo, Daniele da Pisa. Il nuovo organigramma prevedeva la Congrega dei Sessanta, una specie di organo legislativo formato da banchieri e mercanti. Questi nominavano i Fattori, che rappresentavano una sorta di esecutivo necessario per regolare la vita cultuale e materiale delle diverse collettività divise per sinagoghe di appartenenza. Pertanto, si stabilì un unico interlocutore per le autorità ecclesiastiche, quelle laiche e le altre comunità ebraiche.
  I primi anni della neonata comunità furono però contrassegnati da eventi drammatici: il sacco di Roma dei lanzichenecchi del 1527 e le crisi successive; l’istituzione del Sant’Uffizio (1542) e della Casa dei catecumeni (1543) per la conversione anche degli ebrei al cattolicesimo. Culmine di questo processo e di un rapporto sempre più difficile con la Chiesa di Roma furono il rogo dei libri del Talmud (1553) e l’istituzione del ghetto da parte di Paolo IV, il 14 luglio 1555. Segregata in spazi angusti e messa ai margini della società coeva, la comunità ebraica fu segnata da un periodo di declino economico, culturale e sociale. Ciononostante, la tenuta della vita ebraica si mantenne viva sia in termini materiali, sia identitari, grazie all’attività delle sinagoghe (le cosiddette “Cinque Scuole”) e alle confraternite, impegnate in opere di sostegno economico e spirituale. Dopo alcuni illusori momenti di libertà tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento legati alle guerre napoleoniche e alla Repubblica romana del 1849, la svolta si ebbe il 20 settembre 1870, con la breccia di Porta Pia, la fine dell’era del ghetto e dello Stato Pontificio, nonché l’inizio dell’emancipazione, che si inserì nell’impetuoso processo di crescita demografica, urbanistica, economica e politica che caratterizzò Roma nel periodo post risorgimentale. Questo periodo felice durò pochi decenni: le leggi razziali del 1938 impoverirono e marginalizzarono gli ebrei romani, facendo da preludio al periodo più drammatico, l’occupazione nazista della città (1943-1944), durante il quale maturarono le deportazioni di molti membri della compagine ebraica romana nei campi di sterminio e l’eccidio delle Fosse Ardeatine. La ripresa nel dopoguerra fu tanto faticosa quanto significativa, grazie alla guida di rabbini come David Prato (1945–1951) ed Elio Toaff(1951–2001) e al sostegno delle istituzioni ebraiche romane, italiane e internazionali.
  L’arrivo degli ebrei dalla Libia, tra il 1967 e il 1970, favorì trasformazioni economiche e culturali rilevanti in seno alla collettività ebraica della capitale.
  Successivamente, un evento drammatico ha colpito la nostra comunità: l’attentato al Tempio Maggiore del 9 ottobre 1982, in cui morì un bambino di soli due anni, Stefano Gaj Taché, e furono ferite 42 persone.
  Tuttavia, dagli anni Sessanta del secolo scorso, fino agli inizi del nuovo millennio, vi sono stati cambiamenti in positivo dovuti alla forte crescita economica e demografica della compagine ebraica romana, ma anche importanti trasformazioni nelle relazioni ebraico-cristiane segnate, tra l’altro, dalla visita al Tempio Maggiore di Roma di ben tre pontefici (Giovanni Paolo II nel 1986, Benedetto XVI nel 2010 e Papa Francesco nel 2016).
  A cinquecento anni dalla nascita dalla moderna struttura comunitaria, e a distanza di oltre due millenni dai primi stanziamenti, gli ebrei rappresentano una componente della città di Roma produttiva e culturalmente vivace.

(Shalom, 12 dicembre 2024)

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Il Paraguay riapre l'ambasciata a Gerusalemme

Nel 2018 per cinque mesi il Paraguay trasferì la sua ambasciata a Gerusalemme. Un gesto simbolico, sulla scia della decisione dell’allora presidente Usa Donald Trump di insediare la rappresentanza diplomatica statunitense nella capitale israeliana. Poi però il paese sudamericano aveva fatto marcia indietro. Il presidente Abdo Benitez, cancellando l’iniziativa del suo predecessore Horacio Cartes, aveva riportato a Tel Aviv l’ambasciata. Nelle prossime ore si prospetta un nuovo trasferimento, forse l’ultimo. L’attuale guida del Paraguay, Santiago Peña, è arrivato in Israele per riaprire gli uffici diplomatici a Gerusalemme. «È un punto di svolta per il nostro paese», ha dichiarato Peña incontrando il presidente d’Israele Isaac Herzog. È un gesto, ha aggiunto, che rappresenta «l’amicizia tra i due paesi e la fede in un futuro luminoso». Herzog ha ringraziato e si è detto contento dell’inaugurazione domani dell’ambasciata «nella nostra città santa, la capitale eterna dello stato d’Israele e del popolo ebraico».
  Anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha elogiato Peña. Durante una sessione speciale della Knesset, Netanyahu ha dichiarato: «La sua importante visita avviene nel mezzo di una guerra esistenziale che stiamo conducendo su sette fronti contro chi cerca di distruggerci». Il premier ha ricordato la lunga amicizia tra Paraguay e Israele, risalente al sostegno del Paraguay alla creazione dello stato ebraico nel 1947, e ha sottolineato come durante la Seconda guerra mondiale il rilascio di passaporti paraguaiani salvò dalla Shoah centinaia di ebrei, inclusa la famiglia di suo suocero. «Anche se migliaia di chilometri separano Israele dal Paraguay, le nostre due nazioni provano simpatia l’una per l’altra», ha affermato Netanyahu.
  Il Paraguay diventerà il sesto paese con un’ambasciata a Gerusalemme, insieme a Stati Uniti, Guatemala, Honduras, Kosovo e Papua Nuova Guinea.

(moked, 11 dicembre 2024)

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Premi Michelin USA, trionfo dei ristoranti con chef israeliani

di Michelle Zarfati

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La cucina israeliana è stata tra i protagonisti della cerimonia di premiazione Michelin per i migliori ristoranti degli Stati Uniti, tenutasi ieri sera a New York. Ancora una volta, è stata data una stella al ristorante Shmoné che continua a brillare, grazie ai suoi chef Eyal Shani e Nadav Greenberg. Una stella confermata e un posto unico nella prestigiosa lista Michelin in cui è entrato l’anno scorso. In tipico stile israeliano, i premiati sono arrivati in ritardo per ricevere l’ambita stella, che significa “vera cucina di alta qualità”.
  “Questo spazio piccolo ed elegante colpisce ben oltre il suo peso con l’abbagliante cucina neo-levantina. Molte cucine vantano di utilizzare ingredienti freschi, ma Shmoné porta questa filosofia a un altro livello, creando un nuovo menù ogni giorno (anche se alcuni elementi rimangono)” ha descritto la guida Michelin la cucina di Shmoné. “La cucina si basa sulla griglia fino al dessert. Un luogo in cui si possono trovare fichi grigliati sopra la crema chantilly. I piatti non si ripetono ma semplicemente certamente memorabili – continua la descrizione. I sapori sono composti in modo impressionante e rendono il posto sorprendente nella sua umiltà. L’interno del locale ha un’atmosfera unica: puoi prendere un posto al bancone per ammirare il bar e la cucina a vista”.
  Un altro rappresentante della cucina israeliana negli States è Galit a Chicago, che ha ricevuto anch’esso una stella Michelin. Lo chef Zachary Engel, porta nel suo locale quello che la guida definisce un “marchio personale della moderna cucina mediorientale”. “Il suo prezzo fisso consente ai commensali di fare le proprie selezioni tra una vasta gamma di opzioni. Un primo piatto generoso dà il via alle danze: hummus cremoso con petto e salatim (creme spalmabili e sottaceti) accompagnato da pita appena cotta dalla fiamma”, si legge nella guida. “Anche i piatti must come i falafel croccanti e croccanti con labneh di mango offrono un sapore sorprendente. L’impressionante intenzionalità del team si estende al suo programma di bevande, poiché i vini esoterici provenienti da Armenia, Libano, e Israele raccontano le loro storie e creando bellissimi abbinamenti” prosegue la recensione della guida.
  Diversi rappresentanti israeliani a New York sono stati premiati con il Bib Gourmand Award, che non assegna stelle ma riconosce “una cucina di buona qualità e di buon valore”, come “Miss Ada” dello chef Tomer Blechman. Tra loro anche Tanoreen, gestito da Rawia Bishara, sorella dell’ex deputato Azmi Bishara, fuggito in Qatar dopo le accuse di spionaggio. Ma anche il ristorante fusion Shalom Japan, che mescola influenze ebraiche e giapponesi, e locali classici come Katz’s Delicatessen e Russ & Daughters. Situato a Washington, D.C., anche Sababa ha ricevuto riconoscimenti. “Sababa”, che in gergo ebraico significa ‘figo’, è un ristorante cool di nome e di fatto. “Condividendo un muro e collegato da una splendida barra di zinco a Bindaas della porta accanto, questa ode al Medio Oriente è inondata di piastrelle mediterranee. Ma nonostante gli scavi alla moda, qui è tutta una questione di cibo” commenta la guida. “Il menu raffinato offre insalate israeliane, salse e kebab, ma i piccoli piatti sono il suo cuore e la sua anima. Si inizia infatti con le salatim, un antipasto di cinque insalate. L’elenco potrebbe continuare, ma una cosa da non saltare mai è l’hummus. È molto più del solito che è persino elencato come specialità del giorno. In linea con lo spirito c’è la loro carta dei vini incentrata su Israele e Grecia”.
  Ed infine c’è l’Ash’kara di Denver, guidato dallo chef Reggie Dotson, riconosciuto dalla lista Michelin. “In questo quartiere vivacemente ospitale, lo chef Reggie Dotson offre un’esplorazione della cucina israeliana contemporanea, attingendo alle influenze del Mediterraneo, del Nord Africa e del Medio Oriente. Il menu si apre con mini-antipasti, delle versioni di prim’ordine di prodotti familiari come hummus, babaganoush e falafel, abbinati a un’eccellente pita integrale cotta a legna a base di grano antico. La cena offre piatti più sostanziosi, come le tagine salate con melanzane o filetto di agnello – si legge nella recensione. La cucina è a base di verdure e si preoccupa di soddisfare tutte le restrizioni dietetiche (c’è anche un’opzione pita senza glutine), ma qui non ci sono espedienti, solo piatti premurosi e saporiti realizzati con ingredienti di alta qualità e un po’ di stile in più” conclude la recensione.

(Shalom, 12 dicembre 2024)

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Pure Forza Italia è per la vessazione eterna

di Carlo Tarallo 

Un Paese senza speranza (con la «s» minuscola): in Italia la politica arriva a dividersi pure sulla cancellazione di una multa che quasi nessuno ha pagato, che nessuno dei «morosi» avrebbe mai più pagato, sospesa già più volte e che appartiene a un'epoca fortunatamente chiusa, quella della pandemia da Covid. 
  Parliamo della famigerata contravvenzione da 100 euro che il governo Draghi, nel gennaio 2022, aveva previsto per chi avesse disatteso l'obbligo di vaccinazione anti Covid, obbligo che riguardava gli ultracinquantenni e alcune categorie di lavoratori, tra i quali medici e insegnanti. Queste multe sono state poi sospese dal governo guidato da Giorgia Meloni, e ora, con il decreto Milleproproghe, definitivamente annullate. 
  Due milioni circa sono state le multe comminate, pochissime quelle pagate (e la vera ingiustizia è non rimborsare i valorosi contribuenti che hanno versato i 100 euro) e intorno a questa decisione del governo si infiamma una polemica politica meritevole, a nostro parere, di argomenti di ben maggiore importanza per gli italiani. 
  Si spacca addirittura la maggioranza, con Forza Italia che va all'assalto: «Quello della vaccinazione», scrive sui social il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulé, «era un dovere morale e civico durante la pandemia, sottrarsi a quel dovere avrebbe significato mettere in pericolo la salute altrui. È come passare col semaforo rosso: non si mette a rischio solo la propria vita ma anche quella degli altri. Siccome non c'è nessuna evidenza», aggiunge Mulé, «che dimostri che i vaccini hanno fatto male, anzi, hanno salvato questo paese e il mondo intero dalla pandemia, non vedo perché adesso si debba fare un atto che va nella direzione di asseverare una condotta che è andata contro quello che era un dovere morale e civico. Si può agire in Parlamento, certamente io non voterò l'amnistia delle multe». 
  Sulla stessa lunghezza d'onda la vicepresidente del Senato, Licia Ronzulli, anche lei esponente di Fi: «Trovo assurda», sottolinea la Ronzulli, «la decisione del governo di annullare le multe per coloro che non si erano sottoposti alla vaccinazione Covid. Ritengo doveroso sollevare interrogativi importanti sulla responsabilità collettiva e sul valore della prevenzione. E non lo dico in una chiave etica, morale, alcuni dicono persecutoria, di chi non ha dato seguito ad una legge dello Stato. L'obbligo vaccinale», aggiunge la Ronzulli, «non era una misura coercitiva, punitiva, come qualcuno la descrive. Rappresentava invece il dovere per uno Stato serio di proteggere l'intera popolazione, di metterla in sicurezza da una malattia che era potenzialmente letale. L'assenza di una adeguata copertura vaccinale avrebbe potuto avere conseguenze devastanti». Maurizio Gasparri, capogruppo azzurro in Senato, ha detto che fu «giusto multare» i renitenti, ma ha precisato che il governo di centrodestra resta «favorevolissimo» all'uso dei vaccini. 
  Per il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Galeazzo Bignami, «l'obbligo vaccinale ha rappresentato una sconfitta per lo Stato, perché fu un'imposizione con cui si obbligava qualcuno a un trattamento sanitario. Lo Stato aveva il compito di convincere spiegando e non di obbligare. Con questa scelta», precisa Bignami, «abbiamo deciso di chiudere una vicenda che potrebbe avere più ombre che luci, senza considerare che i costi delle contravvenzioni rischiavano di rendere non economica l'esazione». Anche Maurizio Lupi, di Noi moderati, ne ha fatto una questione pratica:« Trattandosi di una cifra esigua, si rischia di spendere, per incassarla, più soldi di quanti ne entrerebbero». E invece è una questione di principio . 
  «Era una misura che avevamo già annunciato», spiega all'Adnkronos il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, «un impegno mantenuto. Parliamo anche di aspetti banalmente burocratici: creare del contenzioso per 100 euro significa arrecare un danno alle casse dello Stato, o comunque una burocratizzazione enorme in un'Italia che non ha bisogno di altra burocrazia». 
  Fornisce una spiegazione più articolata la deputata Alice Buonguerrieri, capogruppo di Fdi in Commissione Covid: «E’ ormai chiaro che i vaccini imposti surrettiziamente alla popolazione non impedivano il contagio, dunque manca il presupposto fondante obbligo e sanzioni». 
  Italia viva cerca di incunearsi nelle divisioni del centrodestra: « Se per Forza Italia la cancellazione delle multe ai no vax è uno schiaffo alle leggi dello Stato e un pericolo per la popolazione», sottolinea il capogruppo renziano alla Camera, Davide Faraone, «la soluzione è semplice: quando si tratterà di votare, Fi si comporti di conseguenza. Il partito di Tajani ha finalmente l'occasione per dimostrare che, al contrario di quanto accaduto sullo ius culturae o le carceri, non si limita sempre e solo alle chiacchiere ma fa quel che dice». Contrarissimi al condono anche Pd e M5s.

(La Verità, 12 dicembre 2024)


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Gli invasati delle multe covid

Il vaccino non impediva i contagi né la trasmissione del virus. L’obbligo era illegittimo e antiscientifico. Abolendo le sanzioni si è sanato un abuso di potere, un vulnus alla Costituzione.

di Maurizio Belpietro

Non è una questione sanitaria e nemmeno di giustizia, ma solo di ideologia. Anzi, di fondamentalismo ideologico. Roberto Burioni, Licia Ronzulli, Maria Elena Boschi, Roberto Speranza e tutti i virologi da salotto che abbiamo conosciuto durante la pandemia non si scagliano contro la decisione di annullare le multe a chi non si è vaccinato per tutelare la salute degli italiani, e neppure per onorare la memoria delle vitti me del Covid.
  Vogliono solo punire quanti non hanno offerto il braccio alla patria (ma forse sarebbe meglio dire ai fanatici dell'iniezione, visto il loro comportamento) per poter dire di averla avuta vinta. Non c'è alcuna motivazione scientifica nel continuare a dire che obbligare le persone a vaccinarsi fosse giusto. E non c'è alcuna spiegazione giuridica che consenta di insistere a sostenere che costringere le persone a sottoporsi all'immunizzazione minacciando la perdita del lavoro e dello stipendio fosse legittimo. In nessuna democrazia al mondo si è arrivati al punto di vessare i cittadini limitando diritti fondamentali come quello di circolare liberamente, prendere i mezzi pubblici, usufruire dei servizi di ristorazione e avere diritto al proprio lavoro. Ciò che è stato fatto negli anni del Covid è un palese abuso di potere e se allora politici, magistrati e alti papaveri delle istituzioni si sono inchinati al volere di un pugno di incompetenti e invasati, non significa che oggi, a distanza di anni, quando lentamente emerge la verità, si debba continuare nell'abuso.
  Non era vero, e ora lo ammettono anche i sassi, che vaccinarsi equivaleva a essere sicuri di non contagiarsi e non contagiare, come ebbe a dire l'allora presidente del Consiglio Mario Draghi, introducendo il green pass, ovvero la tessera annonaria per poter usufruire dei diritti sanciti dalla Costituzione. Essere vaccinati non era una garanzia di nulla se non, dopo l'istituzione di un lasciapassare legato al vaccino, di avere garantiti quei diritti che secondo la nostra Carta non possono essere negati ad alcun cittadino. La nostra Repubblica è fondata sul lavoro e assicura a tutti i cittadini pari dignità sociale, specificando che tutti sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di condizioni personali e sociali ed è compito dello Stato rimuovere ogni ostacolo che limiti la libertà e l'eguaglianza dei cittadini. Durante la pandemia invece, non soltanto la Repubblica non ha rimosso gli ostacoli che impedivano a una parte degli italiani di poter lavorare, avere pari dignità sociale, esercitare i propri diritti. Ma addirittura, quegli ostacoli sono stati posti dai governi - quello di Giuseppe Conte prima, di Mario Draghi dopo - con il dichiarato intento di dividere in due categorie gli italiani vaccinati e i non vaccinati. Contravvenendo così al dettato costituzionale, che vuole i cittadini uguali davanti alla legge, senza discriminazione alcuna.
  Lo so che la Corte costituzionale, a cui alcuni erano ricorsi, ha sostenuto la legittimità delle decisioni dei governi coinvolti. E che avreste voluto che facesse una corte nominata dalla politica e dalla sinistra se non assecondare le decisioni di esecutivi di sinistra e benedetti dai poteri forti? C'era da aspettarsi un pronunciamento in favore della violazione dei diritti e a tutela dell'establishment. A essere obbligati a vaccinarsi non erano i migranti, i quali hanno potuto continuare a sbarcare indisturbati, ma gli italiani e per loro non era prevista alcuna esenzione dai diktat di Palazzo Chigi.
  Che l'obbligo vaccinale fosse antiscientifico e illegittimo ormai è noto anche a chi si è sottoposto a prima, seconda, terza e quarta dose. E infatti ormai solo alcuni talebani in camice bianco insistono sull'urgenza di iniettare vaccini a chiunque (anche se alla comparsa della prima influenza in tanti ci provano). Però gli effetti collaterali del green pass ancora si sentono, prova ne sia che l'annullamento delle multe nei confronti di chi non aveva accettato di chinare il capo di fronte agli abusi ha scatenato gli haters dell'iniezione. Non so che cosa vorrebbero che si facesse Burioni, Boschi, Speranza e Ronzulli: forse privare del diritto di voto i non vaccinati, in modo da poterli escludere dal consesso civile? Può darsi: togliendo i diritti elettorali a milioni di italiani probabilmente pensano di poter vincere le elezioni. In tal caso farebbero meglio a farsi eleggere in qualche altro Paese, dove non c'è una Costituzione in cui, all'articolo 1, si sostiene che il popolo è sovrano. Se vogliono cancellare i diritti a chi non la pensa come loro, fondino la repubblica di Burioni, Boschi, Speranza o Ronzulli e vedremo quanti italiani vorranno farne parte. Così ci sarà da ridere.
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Quei 100 euro imposti per legge a sostegno della menzogna sono una cosa seria. Non per tutti, certamente, perché in fondo si tratta “soltanto” di una questione di coscienza. E per molti, come dice Trilussa, “in fatto di coscienza, male che vada se ne po’ fa senza”. M.C.

(La Verità, 12 dicembre 2024)

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Dopo Damasco si sbriciolerà anche Teheran?

Il fattore decisivo dell'uscita di scena di Assad è stata la crisi politico-militare dell'Iran dopo la sconfitta quasi totale di Hamas e il ridimensionamento di Hezbollah.

di Lodovico Festa

Sono sorprendenti la velocità e la facilità con cui un gruppo di ribelli ex Isis ha liquidato una dittatura degli Assad iniziata nel 1971 e durata dunque be 53 anni. Fattore decisivo di questa “velocità” è stata la crisi verticale politico-militare dell’Iran, che con gli Hezbollah e i rifornimenti via Iraq, costituiva il vero sostegno del potere di Bashar al Assad, ben più importante di quello dei russi, quest’ultimo comunque depotenziato dalla guerra in Ucraina.
Spesso troppo attenti alla cronaca colorata dei fatti invece che all’analisi, si è sottovaluto che cosa abbia significato per Teheran la sconfitta quasi totale di Hamas, il duro ridimensionamento degli Hezbollah, e non si è riflettuto adeguatamente sulla prova che l’aviazione israeliana ha dato (cento apparecchi, nessuno abbattuto) di dominare i cieli di Teheran e paraggi: una dimostrazione che ha gettato nel panico gli ayatollah e i loro alleati, a partire dalle milizie filoiraniane irakene che, pur sollecitate, non si sono mosse in soccorso del regime siriano.
E adesso che cosa accadrà? Non è irragionevole essere preoccupati di un regime di ex Isis insediato a Damasco. Però per inquadrare la situazione attuale non vanno sottovalutati alcuni altri fattori: c’è innanzi tutto il peso che Ankara gioca nella partita. E con tutte le sue spregiudicatezze Recep Erdogan resta pur sempre nella Nato e sebbene si muova su tutti i fronti (è entrato anche nei Brics) alla fine le sue velleità di restaurazione di un’egemonia ottomana sul mondo islamico si intrecciano a precisi interessi economici (a partire dai gasdotti). E queste implicazioni “economiche” ne condizionano i comportamenti.
Altro elemento da tener ben presente sarà quello delle reazioni di sauditi preoccupati dall’attivismo turco nel mondo musulmano e dal disordine che questo provoca. Con Teheran, Riyad aveva trovato (soprattutto dopo le batoste inferte da Israele al regime degli ayatollah) una qualche intesa per cercare di convivere senza troppi conflitti, adesso dovrà rimettere in moto la sua iniziativa diplomatica di fronte ai neo rischi neo ottomani. Infine va considerato quel che succederà in un Iran sempre più umiliato.
Due piccoli avvenimenti ci possono aiutare a capire quel che potrebbe avvenire. Il premio Nobel per la Pace, Narges Mohammadi, attivista per i diritti umani incarcerata nel 2016, è stata rilasciata per tre settimane dalla galera per motivi medici. Ahu Daryaei, giovane studentessa,  arrestata nei giorni scorsi per aver camminato in biancheria intima all’interno dell’Università Islamica Azad protestando contro soprusi che le Guardie rivoluzionarie avevano commesso contro di lei, è stata rimandata in famiglia per curarsi.
È evidente come solo qualche tempo fa la Mohammadi sarebbe stata lasciata morire nella sua cella e la Daryaei fustigata su una pubblica piazza. Questi piccoli ma significativi avvenimenti ci parlano del panico diffuso in un regime che da 45 anni opprime il popolo iraniano. Oggi a Damasco, domani a Teheran?

(Startmag, 11 dicembre 2024)

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Le mosse strategiche di Israele dopo il crollo di Assad

di Luca Spizzichino

Il collasso improvviso del regime di Bashar al-Assad, avvenuto in seguito a una rapida offensiva delle forze ribelli, ha scatenato una serie di operazioni strategiche da parte di Israele. L’obiettivo è stato duplice: garantire la sicurezza nazionale e impedire che tecnologie militari avanzate e armamenti siriani cadessero nelle mani di gruppi jihadisti o altre forze ostili.

• DISTRUZIONE DI INFRASTRUTTURE MILITARI
  Nei giorni successivi al collasso del regime, l’aviazione israeliana ha intensificato le operazioni contro obiettivi militari in Siria, conducendo centinaia di raid aerei. Tra i bersagli principali figurano basi militari, aeroporti e centri di ricerca collegati allo sviluppo di armi avanzate, incluso un importante impianto nella zona di Barzeh, a Damasco, già colpito da attacchi occidentali nel 2018 per la sua presunta connessione al programma chimico siriano. Questi raid hanno portato alla distruzione di decine di elicotteri, jet da combattimento e risorse dell’esercito siriano, azzerando di fatto le capacità militari residue. La marina israeliana, dal canto suo, ha eliminato una significativa porzione della flotta navale siriana, compresi missili antinave, attraverso attacchi mirati nelle località costiere di Latakia e Minet el-Beida.

• IL CONTROLLO DEL MONTE HERMON
  Il Monte Hermon, con un’altitudine di 2.814 metri, rappresenta uno dei punti strategici più importanti della regione. Situato al confine tra Israele, Siria e Libano, offre una posizione privilegiata per il monitoraggio e l’intercettazione di segnali nemici, fungendo anche da barriera naturale contro potenziali incursioni dal nord. Nelle ultime ore, l’unità d’élite Shaldag dell’aeronautica israeliana ha raggiunto il picco del monte senza incontrare resistenza, consolidando il controllo israeliano sull’area. Questo intervento permette a Israele di rafforzare la propria capacità di sorveglianza e difesa, trasformando il Monte Hermon in una postazione avanzata di monitoraggio e intelligence.

• ESTENSIONE DELLA BUFFER ZONE NEL GOLAN
  Con l’intento di prevenire incursioni ostili e proteggere il confine settentrionale, Israele ha inoltre esteso il controllo sulla zona cuscinetto del Golan creata nel 1974. Le forze di terra israeliane si sono temporaneamente posizionate in quest’area strategica, stabilendo presidi difensivi per monitorare i movimenti lungo il confine. Il governo israeliano ha sottolineato che tale presenza è “limitata e temporanea” e finalizzata esclusivamente a garantire la sicurezza nazionale.

• IL FUTURO DELLE ALTURE DEL GOLAN
  La situazione nelle alture del Golan rimane una questione centrale nella strategia di Israele. Il governo, guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha riaffermato che il Golan è e rimarrà parte integrante del territorio israeliano, una posizione riconosciuta ufficialmente dagli Stati Uniti nel 2019. Israele, anticipando le possibili minacce, ha adottato misure decisive per consolidare la propria sicurezza e preservare l’equilibrio strategico, rafforzando al contempo il controllo su aree chiave come il Monte Hermon e le alture del Golan, per evitare che diventino un punto di lancio per attacchi da parte di milizie ostili.

(Shalom, 10 dicembre 2024)
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Ecco cosa sta facendo Israele in Siria

A seguito di un’importante campagna di bombardamenti di 48 ore in Siria, le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato martedì di aver distrutto la maggior parte delle capacità militari strategiche dell’ex regime di Bashar al-Assad, nel tentativo di impedire che armi avanzate cadano nelle mani di elementi ostili.
In un comunicato, l’IDF ha affermato che l’aviazione e la marina hanno effettuato oltre 350 attacchi contro “obiettivi strategici” in Siria dalla caduta del regime di Assad nel fine settimana, eliminando “la maggior parte delle scorte di armi strategiche in Siria”.
L’esercito ha stimato di aver distrutto il 70-80% delle capacità militari strategiche dell’ex regime di Assad.
L’operazione è stata soprannominata dall’esercito “Freccia di Bashan”, dal nome biblico delle alture del Golan e della regione meridionale della Siria.
L’IDF ha pubblicato i filmati della campagna, durante la quale sono stati colpiti oltre 320 obiettivi in tutta la Siria.
Gli attacchi sono iniziati sabato scorso, eliminando le difese aeree siriane per dare più libertà all’aviazione israeliana.
Ondate dopo ondate di attacchi aerei condotti da jet da combattimento e droni dell’IAF hanno poi colpito basi aeree siriane, depositi di armi e siti di produzione di armi a Damasco, Homs, Tartus, Latakia e Palmira, secondo i militari.
L’esercito ha dichiarato che gli attacchi aerei hanno distrutto molti proiettili a lungo raggio, missili Scud, missili da crociera, missili coast-to-sea, missili di difesa aerea, jet da combattimento, elicotteri, radar, carri armati, hangar e altro ancora.
L’IAF ha anche preso di mira diversi siti di armi chimiche in Siria durante le ondate di attacchi, hanno dichiarato i funzionari israeliani.
Nel frattempo, lunedì sera, le navi missilistiche della Marina israeliana hanno distrutto 15 imbarcazioni appartenenti all’ex regime nella baia di Minet el-Beida e nel porto di Latakia, sulla costa siriana, hanno dichiarato i militari.
Il regime di Assad, caduto domenica dopo un’offensiva lampo delle forze ribelli, era un alleato del regime iraniano e faceva parte del suo cosiddetto Asse della Resistenza contro Israele.
Per molti anni, la Siria è stata utilizzata come via di passaggio per le armi iraniane, dirette ai gruppi terroristici, tra cui Hezbollah in Libano, con cui Israele ha raggiunto un traballante cessate il fuoco il mese scorso.
Israele temeva che, in seguito al crollo del regime di Assad, le armi dell’ex esercito siriano potessero cadere nelle mani di forze ostili nel Paese, oltre che degli Hezbollah sostenuti dall’Iran in Libano.
In un messaggio al nuovo regime che sta prendendo forma in Siria, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato martedì che Israele cercherà di stabilire relazioni, ma non esiterà ad attaccare se minaccerà lo Stato ebraico.
“Non abbiamo intenzione di interferire negli affari interni della Siria”, ha dichiarato in una dichiarazione video, ‘ma certamente intendiamo fare ciò che è necessario per garantire la nostra sicurezza’.
Per questo, ha detto, l’aviazione israeliana sta bombardando le “capacità militari strategiche” lasciate dall’esercito siriano del deposto regime di Assad, “in modo che non cadano nelle mani dei jihadisti”.
“Vogliamo relazioni corrette con il nuovo regime siriano”, ha proseguito. “Ma se questo regime permette all’Iran di ristabilirsi in Siria, o permette il trasferimento di armi iraniane o di qualsiasi altra arma a Hezbollah, o ci attacca, risponderemo con forza e gli chiederemo un prezzo pesante”.
“Ciò che è accaduto al regime precedente accadrà anche a questo regime”, ha avvertito.
Il Ministro della Difesa Israel Katz ha anche lanciato un avvertimento ai ribelli siriani, affermando che qualsiasi entità che rappresenti una minaccia per Israele sarà presa di mira senza sosta.
“L’IDF ha agito negli ultimi giorni per attaccare e distruggere le capacità strategiche che minacciano lo Stato di Israele”, ha dichiarato il ministro, durante una visita alla base navale di Haifa, nel corso della quale è stato informato degli attacchi della Marina contro le strutture navali del regime di Assad.
Ha avvertito i ribelli che “chiunque segua le orme di Assad farà la stessa fine di Assad. Non permetteremo a un’entità terroristica estremista islamica di agire contro Israele da oltre i suoi confini… faremo di tutto per eliminare la minaccia”.
Katz ha ribadito che l’IDF sta creando un’area smilitarizzata e ha detto di aver ordinato la creazione di una “zona difensiva sterile” nel sud della Siria, senza una presenza israeliana permanente, per prevenire qualsiasi minaccia terroristica a Israele.
Israele ha di nuovo smentito le notizie secondo cui le sue forze di terra si sarebbero spinte oltre una zona cuscinetto nelle alture del Golan, che l’IDF ha conquistato domenica, sottolineando che il suo controllo dell’area è una misura temporanea e difensiva.
“Le notizie che circolano su alcuni media e che affermano che le truppe dell’IDF stanno avanzando o si stanno avvicinando a Damasco sono completamente errate”, ha scritto su X il col. Avichay Adraee, portavoce dell’IDF in lingua araba.
“Le truppe dell’IDF sono presenti all’interno della zona cuscinetto e in posizioni difensive vicino al confine per proteggere la frontiera israeliana”, ha aggiunto.
Israele ha dichiarato che i suoi attacchi aerei continueranno per giorni, ma ha detto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che non sta intervenendo nel conflitto siriano. Ha dichiarato di aver preso “misure limitate e temporanee” solo per proteggere la propria sicurezza.

(Rights Reporter, 11 dicembre 2024)

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I ribelli siriani attaccheranno Israele?

L'Occidente è impegnato a dare una nuova veste ai vecchi terroristi dell'ISIS e di Al-Qaeda, ma i loro sostenitori stanno chiarendo che non hanno intenzione di fermarsi a Damasco.

di Ryan Jones

Abu Mohammed al-Julani, il leader dei ribelli che hanno conquistato la Siria, è impegnato a trasformare la sua immagine in quella di un “moderato” con l'aiuto dei media mainstream occidentali. Tuttavia, alcuni dei suoi combattenti subordinati (direttamente o indirettamente) stanno rivelando le loro vere intenzioni a lungo termine attraverso minacce registrate contro Israele e gli ebrei.
In una dichiarazione rilasciata all'emittente pubblica israeliana Kan 11, un leader dei ribelli siriani ha affermato che Israele sta “iniziando male” con la sua massiccia campagna aerea e l'incursione nel sud della Siria.
“Israele sta rovinando la gioia dei siriani invadendo il loro territorio”, ha sottolineato il portavoce.
In un video diffuso da un gruppo di ribelli della Grande Moschea di Damasco, essi promettono di continuare a combattere e conquistare Israele.
Nel video dichiarano che il loro prossimo obiettivo è Gerusalemme e Al-Aqsa, per poi passare a Gaza. “Siamo entrati nella moschea degli Omayyadi a Damasco e abbiamo gridato Allahu Akbar, e con l'aiuto di Allah entreremo anche nella moschea di Al-Aqsa e anche nella moschea del Profeta Maometto (ad Al-Madinah, in Arabia Saudita) e nella Kaaba alla Mecca”.
Un altro video pubblicato sui social media mostra i ribelli che festeggiano al mercato di Al-Hamdia a Damasco e si impegnano a dichiarare la Siria un califfato islamico e a giurare fedeltà a un califfo musulmano per “combattere gli ebrei”.
In un'altra clip, i combattenti siriani rispondono al Capo di Stato Maggiore israeliano, il generale Herzi Levi, che aveva precedentemente rilasciato una dichiarazione sulle operazioni in corso delle Forze di Difesa israeliane in Siria. “Noi diciamo al Capo di Stato Maggiore israeliano: 'Dove stiamo andando? A Gerusalemme!“ Stiamo venendo a prendere voi ebrei”.
È proprio per questo motivo che questa settimana Israele ha condotto un'operazione militare senza precedenti per distruggere tutte le rimanenti armi pesanti detenute dalle forze siriane. Non è ancora chiaro quale sarà la prossima mossa delle orde jihadiste che hanno conquistato la Siria. Se dovessero tentare di affrontare Israele, sarebbe meglio che fossero armati il meno possibile.
Le Forze di Difesa israeliane hanno dichiarato che l'operazione era volta a impedire che le armi dell'esercito siriano “cadessero nelle mani dei terroristi”.
A tal fine, l'esercito israeliano ha annunciato i seguenti dettagli delle sue attività in Siria per un periodo di 48 ore:
Operazioni navali: Lunedì sera, le navi missilistiche della marina israeliana hanno attaccato contemporaneamente due strutture navali siriane: il porto di Al-Bayda e il porto di Latakia, dove erano attraccate 15 navi della marina siriana.
Obiettivi: Sono state distrutte decine di missili mare-mare con una gittata compresa tra 80 e 190 chilometri. Ogni missile trasportava una carica esplosiva significativa, che rappresentava una minaccia per le navi civili e militari della regione.
Ore di volo: Gli aerei con equipaggio hanno sorvolato per centinaia di ore lo spazio aereo siriano e insieme ai caccia hanno effettuato oltre 350 attacchi aerei.
Obiettivi attaccati: Sono stati attaccati diversi obiettivi, tra cui batterie di difesa aerea, campi di aviazione dell'Aeronautica militare siriana e decine di siti di produzione di armi a Damasco, Homs, Tartus, Latakia e Palmira.
Scorte neutralizzate: Sono state neutralizzate numerose armi strategiche, tra cui missili Scud, missili da crociera, missili terra-mare, superficie-aria e superficie-superficie, veicoli aerei senza pilota, jet da combattimento, elicotteri d'attacco, installazioni radar, carri armati, hangar e altro ancora.

(Israel Heute, 11 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Riccardo Calimani: Gesù con la kefiah sciocchezza antistorica

di Adam Smulevich

Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione di Gesù ebreo, uno dei libri di maggior successo di Riccardo Calimani. «Chi si ricorda più del perché il capodanno arrivi otto giorni dopo Natale? Quanti ricordano, nel momento in cui brindano all’anno nuovo, che festeggiano la circoncisione di un bambino ebreo? Conoscere le origini di questa storia può, forse, avvicinare uomini che credono di essere molto diversi», premetteva lo studioso dell’ebraismo italiano all’inizio della sua dotta ricostruzione per calare «nel reale contesto storico» la vita di Gesù.
  Anche per questo Calimani si dice amareggiato per la “palestinizzazione” del presepe vaticano omaggiato da papa Francesco venerdì scorso, con al centro della scena il bambin Gesù avvolto da una kefiah. «Una vera sciocchezza. Lo dico da pacifista assoluto, che soffre senza distinzioni per tutte le popolazioni di quell’area. La guerra è lunga e logorante e sinceramente non capisco dove vada a parare. Ma prendere una posizione di quel tipo, farlo in quel modo, mina la comprensione dei fatti», sostiene Calimani, già presidente del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara e della Comunità ebraica di Venezia. Lo studioso si è dato una spiegazione per l’accaduto: «Il fatto è che gli ebrei sono “perturbanti”, ancor di più in una situazione di conflitto estenuante come questa. Ma non bisogna perdere di vista la realtà: Gesù è stato un ebreo osservante e come tale visse tutta la sua esistenza dalla nascita fino alla morte. Nel saggio mi sembra di averlo dimostrato in modo esauriente».
  Il libro di Calimani ricevette all’epoca «un positivo riscontro nell’opinione pubblica», sottolinea l’autore. Ma ci fu anche chi in ambito ecclesiastico non gradì, «come ad esempio il cardinal Gianfranco Ravasi, che scrisse una stroncatura: anni dopo comunque ci siamo rincontrati ed è stato più affettuoso rispetto ad allora; tra l’altro ha letto con attenzione e citato un mio successivo lavoro su Paolo di Tarso». Calimani ricorda che all’uscita del libro ci fu «anche qualche diffidenza nel mondo ebraico e ancora oggi in quest’ambito c’è chi fa confusione tra la proiezione messianica del “Cristo” e la figura storica di Gesù l’ebreo: la prima evidentemente non ci riguarda, la seconda invece sì». Non fosse altro per affrontare con maggiore consapevolezza eventuali storture e strumentalizzazioni come quelle di cui sopra, sostiene l’autore di Gesù ebreo. Per Calimani, «il Dialogo deve servire a progredire in ogni senso e per questo è bene essere franchi e schietti, mai dimenticando che il mondo ebraico è anche abbastanza anarchico di per sé; noi il papa non ce l’abbiamo e ogni ebreo pensa con la sua testa».

(moked, 11 dicembre 2024)
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E' proprio sicuro Calimani che "la proiezione messianica del Cristo" non riguardi gli ebrei? Ed è proprio sicuro che la presentazione di Gesù con la kefiah sia soltanto una "sciocchezza storica"? Che strana sorte quella degli storici, che da una parte pensano sia atteggiamento scientifico la "riduzione al minimo" della presentazione particolare dei fatti e dall'altra si esibiscono in un "innalzamento al massimo" della loro interpretazione generale. "Calzolaio, non oltre la scarpa!" M.C.
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Sul confine settentrionale di Israele con migliaia di contadini thai

Sul confine settentrionale di Israele con migliaia di contadini thai

di Rebecca Tan e Heidi Levine

Da circa un anno il confine settentrionale di Israele con il Libano è stato in gran parte sgomberato dalla presenza di civili. Anche prima che iniziasse a vacillare il cessate il fuoco con Hezbollah il governo israeliano aveva detto che il ritorno a casa dei residenti non era sicuro.
C’è stato un gruppo di civili, però, che sono rimasti lì per tutta la guerra.
Quando Israele ha ordinato l’evacuazione dalle regioni di frontiera per i 143 mila civili oltre un anno fa, permise ai lavoratori agricoli migranti, che provengono per lo più dalla Thailandia, di restare per innaffiare i raccolti, gli alberi delle prugne e raccogliere la frutta mentre i missili cadevano attorno a loro.
Secondo le autorità, migliaia di lavoratori thailandesi lavorano da mesi vicino alle frontiere di Israele, alcuni dentro zone militari chiuse dove sono i soli civili presenti insieme ai soldati israeliani.
Durante gli attacchi lungo la frontiera questo anno sono morti almeno sei migranti, cinque thailandesi ed un indiano. Quattro lavoratori thai sono stati uccisi dal fuoco dei missili ad ottobre dopo aver ricevuto il permesso militare di Israele di lavorare nella città evacuata di Metula, a qualche centinaio di metri dalla frontiera, hanno detto le autorità thailandesi.
“Abbiamo provato tutto il possibile per fermare questa situazione” ha detto l’ambasciatrice thai in Israele, Pannabha Chandraramya in un’intervista a Tel Aviv.
Anche prima dell’incidente a Metula, le autorità thai avevano pregato le autorità israeliane tantissime volte di non permettere di lavorare nelle zone ad alto rischio, ha detto l’ambasciatrice, ed ogni volta aveva ricevuto le rassicurazioni degli israeliani.
La legalità di inviare lavoratori stranieri nelle zone militari è vaga, dicono i gruppi dei diritti, fino ad ottobre, quando fu ucciso un thailandese. Poi il ministro degli interni israeliano Moshe Arbel disse che era illegale impiegarli in aree che erano state evacuate.
In incontro privato il mese seguente, dice Pannabha, Arbel promise di nuovo che non sarebbero stati mandati lavoratori thai sulle prime linee. E tuttavia, l’ambasciatrice sa che ci sono ancora cittadini thailandesi nei campi aperti della battaglia del nord come del sud di Israele, lontani dai rifugi e senza quasi nulla che li ripari dalle granate.
Quando a metà novembre si sono intensificati gli scontri sulla frontiera con il Libano, i giornalisti del WP vedevano camion di lavoratori thai entrare nelle zone militari chiuse presso i posti di blocco di Israele.
“E’ una cosa inaccettabile” dice l’ambasciatrice con la voce esasperata. La Thailandia ha già perso troppo in questa guerra, aggiunge. Sono infatti 41 i cittadini thailandesi uccisi il 7 ottobre 2023 dai militanti di Hamas, il terzo numero di morti maggiore dopo Israele e USA. Circa 30 sono stati presi in ostaggio e sei sono ancora lì.
La Federazione degli Agricoltori Israeliani, che rappresenta gli agricoltori del paese, non ha risposto alle richieste di commento. Il ministro degli Interni ha diretto le domande all’Autorità della Popolazione e Immigrazione, che ha detto che la responsabilità di permettere ai lavoratori di entrare nelle zone ad alto rischio sta nelle mani dei militari.
“L’agricoltura è una componente fondamentale dell’economia dei cittadini nel nord, e per bilanciare i vari bisogni e permettere il mantenimento dell’agricoltura per quanto possibile, sono riviste le richieste degli agricoltori nelle zone militari chiuse. Secondo la valutazione del caso si fanno eccezioni per permettere il lavoro agricolo nelle aree militari ristrette” si legge in una dichiarazione dei militari israeliani.

• UNA LIBERA SCELTA?
  Il governo israeliano dice che i lavoratori thai non sono costretti a lavorare nelle regioni di frontiera né a stare in Israele. Per i gruppi di difesa del lavoro si tratta di pura ipocrisia.
“Non si tratta di una scelta libera, per niente affatto” dice Nir Dvortchin, regista israeliano che ha prodotto un documentario sui lavoratori thailandesi in Israele. Anche se volessero cambiare datore di lavoro o cantiere, la maggior parte dei lavoratori thailandesi ha troppa paura di chiederlo o non è in grado di farlo perché parla poco o niente l’inglese, ha dichiarato Orit Ronen, responsabile del dipartimento per i lavoratori agricoli di Kav LaOved, un gruppo israeliano per i diritti.
Una decina di lavoratori thai intervistati da WP dicono che guadagnano in Israele dieci volte di più di quanto guadagnano nel povero Nordest Thailandese da cui proviene la maggioranza di loro. Hanno inoltre giovani figli da mantenere ed alcuni hanno fatto i debiti per poter raggiungere Israele.
Se scelgono in un dato giorno di non lavorare per questioni di sicurezza, i datori di lavoro non li pagano. Perciò lavorano quasi tutti giorni.
I video fatti dagli stessi li mostrano mentre raccolgono le mele e i kiwi durante il suono delle sirene, nascondendosi dietro gli alberi o sotto i camion mentre i missili scorrono sulle loro teste, e correre a piedi nei campo quando inizia il panico.
Non è un lavoro normale, dice Thitiwat Klangrit, mentre pota un albero di pesche a Metula durante un pomeriggio recente. Vestito con una camicia di cotone sottile e un cappello da sole, ha fatto una smorfia mentre i razzi scoppiavano nelle vicinanze.
Si era abituato ai rumori della guerra, dice, ma è diventato più nervoso qualche settimana fa, dopo che un gruppo di quattro operai che conosceva è andato a lavorare vicino alla collina dietro di lui. Thitiwat ha strizzato gli occhi al sole, indicando la direzione della linea di confine. I suoi amici hanno superato quella collina, ha detto, e non sono più tornati indietro.

• LASCIARE E RITORNARE
  Israele si è trovata sotto la forte pressione di far crescere il proprio settore agricolo dopo che la Turchia, che era un grande esportatore di alimenti, ha fermato tutti gli scambi a maggio.
La maggior parte dei raccolti nazionali di Israele, però, si trovano nelle regioni settentrionali e meridionali dove mancano i lavoratori. Ai lavoratori palestinesi è stato vietato di lavorare in Israele dopo la guerra e molti lavoratori israeliani sono stati arruolati per combattere.
Prima dell’attacco del 7 ottobre, circa 30.000 thailandesi lavoravano nelle aziende agricole israeliane, il risultato di uno sforzo di reclutamento pluridecennale da parte di Israele per liberarsi della forza lavoro palestinese, secondo i ricercatori del lavoro.
Circa 9.000 di loro sono tornati a casa subito dopo l’attacco. Ma gli agricoltori israeliani hanno offerto salari più alti a quelli disposti a tornare – e molti hanno accettato, arrivando a ondate dall’inizio dell’anno. A novembre, secondo i dati del governo, c’erano 35.000 lavoratori thailandesi in Israele.
Lior Bez, 51 anni, membro dell’unità di riservisti delle Forze di Difesa israeliane che sorveglia il posto di blocco a Metula, ha detto che ci sono “un sacco” di thailandesi che lavorano nella città pesantemente bombardata e nei dintorni.
“Hanno le loro ragioni per tornare”, ha detto Bez. “Non possiamo certo chiedere loro di andarsene”.
Suraphut Theerawuth lavorava ai sistemi di irrigazione lungo il confine con Gaza durante l’assalto di Hamas e ha detto di essere sopravvissuto chiudendosi in un bunker.
Ritornò nella sua provincia di Udon Thani in Thailandia, dove però non c’erano posti di lavoro che potessero competere con la sua paga in Israele, circa 2.700 dollari al mese, ha detto. Così è tornato alla sua vecchia fattoria, che era “abbandonata”, ha detto, tranne che per i thailandesi.
Il suono dei bombardamenti israeliani su Gaza settentrionale sono una costante. Occasionalmente razzi e granate arrivano sul lato israeliano della frontiera.
“Naturalmente ho paura ma devo lavorare” dice Suraphut che condivide la foto della figlia di cinque anni dagli occhi belli e scuri e dalle sopracciglia folte.
Anuchat Khokham, un uomo di 43 anni, ha detto di essere tornato a Metula dopo che sua moglie ha partorito due gemelli otto mesi fa.
Pradoemchai Samart ha detto di essere tornato nei terreni agricoli a nord di Haifa perché ha accumulato debiti in Thailandia che ora deve saldare. Pensava che a nord sarebbe stato più sicuro che a sud. Ma anche lì i suoni dei missili, dei jet e dei droni suonano a ripetizione e lo tengono sveglio di notte, ha detto Pradoemchai.
“Non sapevo che sarebbe stato così”, ha detto.

• NON AVEVO IDEA DI COME SENTIRMI
  Quando Thitiwat è arrivato ad aprile per lavorare a Metula, Prahyat Pilasrum era lì da sei mesi. I due condividevano una stanza, insieme a un terzo lavoratore, in un hotel a circa 17 miglia dal confine, ha raccontato Thitiwat. Cucinavano cibo thailandese l’uno per l’altro su una stufa a gas che avevano montato sul balcone e si scambiavano birre il sabato, il loro unico giorno libero.
Negli ultimi mesi hanno parlato di più della guerra. Prahyat è più ottimista di lui, dice Thitiwat. Una volta che la situazione fosse diventata meno pericolosa, gli ha detto il suo compagno di stanza, sarebbero andati a pescare insieme.
Il 31 ottobre, Thitiwat era al lavoro in un pescheto quando ha visto un’esplosione che sembrava più vicina del solito. Poco dopo, lui e altri lavoratori hanno visto un elicottero scendere sul luogo dell’esplosione. Thitiwat ha raccontato di aver chiamato più volte il telefono di Prahyat, ma il suo coinquilino non ha risposto.
“Non avevo idea di cosa fare. Non sapevo come sentirmi”, ha ricordato Thitiwat.
Prahyat era uno dei quattro lavoratori thailandesi uccisi quel giorno. Aveva 42 anni, era padre di tre figli ed era il capofamiglia della sua famiglia.
I resti dei lavoratori sono stati raccolti e inviati all’aeroporto Ben Gurion di Israele, dove Pannabha ha guidato i funzionari thailandesi e israeliani in una cerimonia. Pannabha ha detto che rimpatriare i resti dei cittadini thailandesi, cosa che ha dovuto fare più volte nell’ultimo anno, è stato l’incarico più difficile della sua carriera. “Ogni volta”, ha detto, “prego che sia l’ultima”.
Dopo l’incidente, il ministro degli Esteri thailandese ha inviato a Israele una lettera di protesta e ha chiesto a tutti i cittadini thailandesi di evacuare le regioni di confine. L’ambasciata thailandese a Tel Aviv ha diffuso degli opuscoli per informare i lavoratori che il nord non è sicuro. Ma alla fine, ha detto Pannabha, la Thailandia non ha autorità nel Paese.
Thitiwat ha detto di non essere riuscito ad andare al lavoro il giorno dopo l’uccisione di Prahyat. Non è andato nemmeno il secondo giorno. Il terzo giorno ha chiamato la moglie, che era a casa in Thailandia e si occupava della loro figlia di 2 anni.
Il quarto giorno, ha detto Thitiwat, si è alzato prima dell’alba, ha lasciato la stanza d’albergo con il letto vuoto di Prahyat ed è tornato al lavoro. (Le Terre Sotto Vento, 11 dicembre 2024)

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Netanyahu: “Stiamo smantellando l’asse iraniano pezzo per pezzo”

Lo Stato di Israele sta affermando il suo status di centro di potere nella nostra regione, come non accadeva da decenni
Con la caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria si è aperto un nuovo capitolo in Medio Oriente. Lo ha affermato ieri (lunedì) il primo ministro Benjamin Netanyahu in una conferenza stampa a Gerusalemme, la prima in 99 giorni.
Parlando ai giornalisti, ha affermato che Israele stava sconfiggendo i suoi nemici “passo dopo passo” in una “guerra per l’esistenza che ci è stata imposta”, e ha citato la Siria di Assad come “elemento centrale dell’asse del male dell’Iran”.
Domenica mattina, i ribelli siriani hanno preso il controllo di Damasco dopo un’offensiva lampo durata due settimane, ponendo fine a 13 anni di guerra civile contro il governo siriano e a oltre 50 anni di governo della famiglia Assad.
Netanyahu ha sottolineato i miliardi di dollari investiti dall’Iran per mantenere Assad al potere e la crudeltà del regime nei confronti dei suoi cittadini, sottolineando che ha “massacrato centinaia di migliaia di suoi connazionali”.
La Siria di Assad ha “fomentato ostilità e odio” verso Israele, lo ha attaccato nella guerra dello Yom Kippur del 1973, è stata “una postazione avanzata del terrore iraniano” e un canale di trasporto di armi dall’Iran a Hezbollah, ha aggiunto.
Facendo riferimento alla conquista delle alture del Golan da parte di Israele nel 1967 e alla successiva annessione, Netanyahu ha affermato che “oggi tutti comprendono la grande importanza della nostra presenza lì, sul Golan, e non sulle sue pendici”, aggiungendo che il controllo di Israele sul Golan garantisce la sua sicurezza e sovranità.
Il premier ha ringraziato il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump per aver “riconosciuto la sovranità israeliana” sul Golan nel 2019.
“Le alture del Golan saranno per sempre una parte inseparabile dello Stato di Israele”, ha affermato.
Netanyahu ha ribadito la sua precedente affermazione secondo cui la caduta di Assad è stata il “risultato diretto dei duri colpi che abbiamo inferto ad Hamas, a Hezbollah e all’Iran”, e ha affermato che fin dagli attacchi del 7 ottobre, Israele ha lavorato in modo “sistematico, misurato e ordinato” per smantellare l’asse iraniano.
A Gaza, ha affermato, Israele sta ora agendo “per smantellare i resti delle capacità militari di Hamas e tutte le sue capacità di governo” e per riportare indietro tutti gli ostaggi.
Passando al Libano, Netanyahu ha sottolineato che il leader di Hezbollah eliminato Hassan Nasrallah era stato il collegamento chiave tra Hezbollah, Siria e Iran. Era “l’asse dell’asse: colpiscilo e colpisci duramente l’asse”.
L’eliminazione di Nasrallah è stata una svolta nel crollo dell’asse,
ha sostenuto, aggiungendo che “Nasrallah non è più con noi e l’asse non è più quello di una volta”. Israele lo sta “smantellando passo dopo passo”.
Hezbollah ha iniziato a lanciare attacchi transfrontalieri contro Israele il giorno dopo l’attacco di Hamas dell’anno scorso, lanciando razzi e droni contro comunità di confine e postazioni militari, costringendo a sfollare circa 60.000 israeliani dalle loro case nel nord del paese. Nasrallah è stato ucciso a fine settembre 2024 da un attacco aereo israeliano a Beirut, mentre Israele intensificava la sua campagna contro Hezbollah, lanciando infine un’incursione di terra nel Libano meridionale.
Alla fine di novembre, le parti hanno concordato un cessate il fuoco, che ha sostanzialmente retto, nonostante alcuni attacchi aerei da parte di Israele contro gli agenti di Hezbollah, in seguito a violazioni della tregua.
“L’Iran ha creato una rotta del terrore dal Golfo Persico al Mar Mediterraneo, dall’Iran all’Iraq, dall’Iraq alla Siria, dalla Siria al Libano. A sud, hanno armato Hamas. Ancora più a sud, gli Houthi, che abbiamo anche duramente colpito”, ha detto, ma ha aggiunto che “l’asse non è ancora scomparso”.
“Chiunque collabori con noi, ne trae grandi benefici. Chiunque ci attacchi, perde molto”.
“Ma come ho promesso, stiamo trasformando il volto del Medio Oriente”, ha detto Netanyahu. “Lo Stato di Israele sta affermando il suo status di centro di potere nella nostra regione, come non accadeva da decenni”. ha detto, aggiungendo che vuole vedere una Siria diversa, a beneficio sia di Israele che dei siriani.
“Lo abbiamo dimostrato all’inizio della guerra civile quando abbiamo costruito un ospedale da campo al confine, e abbiamo curato migliaia di [civili] siriani feriti”, ha ricordato. “Centinaia di bambini siriani sono nati in Israele. Ancora oggi, [stiamo] tendendo una mano a chiunque voglia vivere con noi in pace, e taglieremo la mano a chiunque cerchi di farci del male”.
Passando alle nuove posizioni delle IDF in una zona cuscinetto tra Israele e Siria sulle alture del Golan, Netanyahu ha osservato di aver ordinato all’esercito di prendere il controllo della zona cuscinetto e dei punti di accesso, “incluso quello che viene chiamato l’Hermon siriano”.
L’IDF ha sottolineato che la mossa, che ha visto le forze israeliane prendere posizione all’interno della zona cuscinetto per la prima volta dall’Accordo di disimpegno del 1974, è temporanea, ma hanno riconosciuto che le truppe probabilmente rimarranno all’interno del territorio siriano per il prossimo futuro.
Guardando più lontano, Netanyahu ha affermato che la guerra su più fronti condotta da Israele ha avuto successo grazie a tre elementi: il coraggio dei soldati, la resilienza del fronte interno e la volontà sua e del suo governo di resistere alle forti pressioni interne e internazionali “per fermare la guerra prima di aver raggiunto tutti i nostri obiettivi”.
“Le nostre azioni stanno smantellando l’asse mattone dopo mattone, e tutto questo perché abbiamo resistito, io ho resistito, alla pressione” di fermare la guerra prematuramente, ha affermato, aggiungendo di essersi attenuto “agli obiettivi della guerra fino alla vittoria totale”.
L’obiettivo della vittoria totale – che “la gente derideva”, ha detto – “sta oggi diventando realtà”.
“L’isolamento di Hamas apre un’altra possibilità di progredire verso un accordo che riporterà indietro i nostri ostaggi”,
ha detto, promettendo che lui e il governo stanno “girando ogni pietra” per riportare a casa tutti gli ostaggi, “i vivi e i caduti”.
Parlando di Hamas, ha detto che il gruppo terroristico di Gaza è “più isolato che mai” dopo la caduta di Assad in Siria. “Sperava in un’unificazione dei fronti. Invece, ha ottenuto un crollo dei fronti. Si aspettava aiuto da Hezbollah, glielo abbiamo tolto. Si aspettava aiuto dall’Iran, gli abbiamo tolto anche quello. Si aspettava aiuto dal regime di Assad, beh, ora non succederà”, ha detto seccamente.
Le trattative per un accordo sugli ostaggi si sono arenate e sono fallite più volte nell’ultimo anno, ma sono state recentemente riprese in seguito al cessate il fuoco in Libano e ad altri sviluppi nella regione, insieme alla minaccia del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump che “sarà dura pagare l’inferno” se gli ostaggi non verranno rilasciati entro la sua entrata in carica il 20 gennaio.
Israele ritiene che 96 dei 251 ostaggi rapiti il 7 ottobre siano ancora a Gaza, compresi i corpi di almeno 34 morti confermati dalle Forze di difesa israeliane. Negli ultimi 14 mesi, le truppe dell’IDF hanno salvato otto ostaggi e recuperato i corpi di 38.
“Eravamo qui prima dei nostri nemici e saremo qui dopo i nostri nemici”, ha concluso Netanyahu, avvertendo che Israele ha ancora “grandi sfide” davanti a sé, ma è fiducioso che lo Stato ebraico prevarrà.

(Rights Reporter, 10 dicembre 2024)

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Il mondo si meraviglia di Israele

La guerra di Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza sta cambiando il Medio Oriente e dimostra le straordinarie capacità militari di Israele. In un effetto domino che nessuno avrebbe potuto prevedere, soprattutto nei primi mesi di guerra, gli arcinemici di Israele stanno cadendo uno dopo l'altro: Hamas, Hezbollah, altre milizie terroristiche sciite, la Siria e un Iran strategicamente e moralmente indebolito. Né l'Iran né la Russia hanno voluto o potuto salvare il loro alleato di lunga data in Siria, il regime di Assad.

di Aviel Schneider

FOTO
Una foto di Nasrallah appesa durante il funerale di 30 combattenti di Hezbollah uccisi nel combattimento contro le forze israeliane

GERUSALEMME - La guerra in corso di Israele contro Hezbollah in Libano ha avuto ripercussioni strategiche nella regione e alla fine ha portato al collasso dell'asse iraniano nel nord di Israele. Fonti di intelligence occidentali sostengono che il regime degli ayatollah di Teheran sia furioso per i danni che Hamas ha inflitto all'intero “asse della resistenza”. L'asse sciita è stato costruito in quattro decenni e ora tutto è stato distrutto. È colpa di Israele e perché questo asse voleva distruggere Israele. Ma tutto è andato storto perché i nemici hanno colpito la sicurezza di Israele, il popolo di Israele, la biblica pupilla dell'occhio di Dio.
Dopo la caduta del regime di Assad, John Spencer, ex ufficiale dell'esercito statunitense, ha parlato al quotidiano Maariv della nuova realtà strategica di Israele: “I Paesi della regione devono assumersi la responsabilità della loro sicurezza e Israele è il chiaro leader. Israele ha difeso i suoi interessi di sicurezza con capacità militari eccezionali che lo rendono oggi uno dei Paesi più forti della regione”.
La gente vede il cambiamento nella guerra, ma non tutti vogliono o possono riconoscere il cambiamento positivo in Israele. Che sia per odio, stupidità o pura follia. Chi ha occhi vede, chi ha orecchie sente, ma non capisce. Non è forse di questo che parlava il profeta Isaia quando diceva: “Con le orecchie udrete ma non capirete, con gli occhi vedrete ma non riconoscerete”? Senza sicurezza, Israele non ha il diritto di esistere in questa regione. È una responsabilità del popolo, non solo del governo e dell'esercito. Il popolo israeliano, in senso collettivo, ha dimostrato il suo dovere in questo senso, nonostante le divisioni politiche tra i cittadini.
Il punto di svolta nella guerra è arrivato poco prima delle festività ebraiche di settembre, quando migliaia di cercapersone sono esplosi nelle tasche dei terroristi sciiti di Hezbollah in Libano. “Nonostante tutte le sfide, e dopo 14 mesi di combattimenti, Israele è più forte che mai, sia militarmente che politicamente”, ha dichiarato Spencer. “Si è affermato come potenza centrale nella regione e difensore dei valori democratici”. La distruzione delle basi iraniane e l'interruzione delle forniture di armi a Hezbollah sono elementi centrali della politica di deterrenza di Israele. “Israele non sta compromettendo la sua sicurezza e sta conducendo un'efficace campagna militare per ridurre la minaccia iraniana evitando un'escalation”.
Oltre a Spencer, anche il comandante dell'esercito britannico ha espresso il suo stupore per le capacità militari di Israele. “Israele ha quasi completamente distrutto il sistema di difesa aerea dell'Iran e paralizzato la sua capacità di missili balistici per un anno”. L'ammiraglio Tony Radakin, comandante dell'esercito britannico, ha dichiarato ieri in un discorso al Royal United Services Institute. “Israele ci ha dimostrato il vantaggio sproporzionato della guerra moderna nella sua risposta all'Iran”, ha detto Radakin. “Non entrerò nei dettagli, ma negli attacchi di rappresaglia contro l'Iran in ottobre, Israele ha schierato più di 100 aerei che trasportavano meno di 100 armi. Gli aerei sono rimasti a più di 100 miglia (160 km) di distanza dagli obiettivi della prima ondata. Questo dimostra la potenza dei velivoli di quinta generazione combinata con eccellenti tecniche di attacco e un'eccezionale ricognizione. E tutto questo in un'unica missione”.
Lo Stato di Israele considera la sua sicurezza di altissimo valore per ragioni storiche, geografiche, sociali e spirituali. Il popolo ebraico ha vissuto generazioni di persecuzioni, antisemitismo e Olocausto, che hanno portato alla consapevolezza dell'importanza dell'indipendenza e dell'autoprotezione. Lo Stato è stato fondato per garantire che il popolo ebraico non debba mai più affrontare una simile minaccia.
Dalla sua fondazione nel 1948, Israele ha affrontato una costante minaccia alla sua sicurezza da parte di Stati ostili e organizzazioni terroristiche. Conflitti come le guerre con gli Stati confinanti, gli attacchi terroristici e i lanci di razzi hanno evidenziato la necessità di una costante attenzione alla sicurezza. Israele si trova nel cuore del Medio Oriente, una regione caratterizzata da tensioni geopolitiche, conflitti religiosi ed etnici e interessi contrastanti delle potenze globali e regionali. Una forte sicurezza è considerata essenziale per preservare la sovranità di Israele e per poter condurre i negoziati di pace da una posizione di forza. Rispetto ai suoi vicini, Israele è geograficamente e demograficamente piccolo, il che lo rende più vulnerabile.
Gli investimenti nella sicurezza consentono al Paese di affrontare queste sfide. La società israeliana attribuisce grande valore alla coscrizione, al servizio militare e all'autodifesa come elementi centrali dell'identità nazionale. Israele sviluppa ed esporta tecnologie di sicurezza avanzate, non solo per garantire la propria sicurezza, ma anche per posizionarsi come potenza tecnologica e rafforzare le relazioni con altri Stati. La combinazione di tutti questi fattori porta Israele a investire notevoli risorse nella sua sicurezza, sapendo che questa è una condizione necessaria per la sua sopravvivenza e prosperità. Questo è ciò che vedono le persone che vogliono veramente vedere.

(Israel Heute, 10 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"Siano confusi e voltino le spalle tutti quelli che odiano Sion! Siano come l'erba dei tetti, che secca prima di crescere!" (Salmo 129:5-6). Stiano attenti quelli anche soltanto a parole esprimono ad alta voce il loro odio verso Israele. La maledizione di Dio può essere tremendamente pratica (Genesi 12:3). M.C.

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Evento zoom con Ugo Volli e Emanuel Segre Amar

Martedì 10 dicembre - Ore 21

La guerra di Israele su sette scenari + ONU

Modera Bruno Guazzo
Presidente Federazione Associazioni Italia Israele ì

Link

(Notizie su Israele, 10 dicembre 2024)

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Mosaico siriano

di Davide Cavaliere

Nel 1961, dopo lo scioglimento della Repubblica Araba Unita con l’Egitto, il governo siriano decise di «riconoscere i curdi» come entità allogena e nell’estate del 1962 avviò un censimento della popolazione della provincia di Jazira. Tutti i curdi identificati furono privati ​​della cittadinanza siriana e dichiarati «estranei». Nello stesso periodo fu lanciata una campagna mediatica contro i curdi con slogan come «Salvate l’arabismo in Jazira» e «Combattete la minaccia curda». Queste politiche coincisero, non a caso, con l’inizio della rivolta curda di Mustafa Barzani in Iraq e la scoperta di giacimenti petroliferi proprio nella provincia di Jazira. Nell’estate del 1963, le forze armate siriane si unirono all’esercito iracheno per attaccare la rivolta guidata da Barzani.
  La rapida avanzata delle fazioni dei ribelli in Siria e la fuga di Assad mette in luce alcuni aspetti di forte rilievo geopolitico sullo scacchiere mediorientale, al centro di una guerra che si protrae da un anno e due mesi tra Israele e Hamas spalleggiato da Hezbollah. I
  l primo è che con la caduta del regime di Assad, il cui esercito si è squagliato come neve al sole, Israele incassa un altro risultato favorevole.
  Dal 2013 ad oggi sono state centinaia le incursioni aeree israeliane sul territorio siriano per colpire le infrastrutture di Hezbollah, oggi che Hezbollah si trova fortemente indebolito, non ha potuto soccorrere il regime fantoccio russo alawita, lasciando di fatto spazio aperto all’avanzata dei ribelli. L’Iran, principale sponsor della formazione sciita libanese, viene così ulteriormente indebolito.
  Negli ultimi mesi ha dovuto incassare l’uccisione del proprio plenipotenziario in Libano, Hassan Nasrallah, la decapitazione dei vertici militari di Hezbollah, e la distruzione di una parte consistente dell’arsenale del proprio principale delegato. Ora perde anche la sponda siriana, mentre a Gaza, quel che resta di Hamas, si avvia all’inevitabile conclusione della sua egemonia politico-militare all’interno della Striscia.
  Tutto ciò mostra con evidenza che la strategia iraniana di accerchiamento di Israele, di un suo strangolamento dentro un cerchio di fuoco che avrebbe dovuto idealmente contemplare anche una sollevazione contro Israele in Cisgiordania, è fallito. Il cerchio è stato spezzato e sembra assai difficile che esso possa ricostruirsi in tempi brevi.
  Il secondo è che la Russia, grande protettrice della Siria, non è in grado di garantire ad Assad il supporto militare necessario. È sicuramente prematuro affermare che con la caduta del regime di Assad, la Russia abbia perso il suo avamposto in Medio Oriente acquisito dopo la rinuncia americana ad avere un ruolo risolutivo nel contesto della guerra civile siriana, ma certo la sua mancanza di determinazione nel fare da argine all’avanzata delle forze anti Assad, denuncia la difficoltà a impegnarsi su un altro fronte che non sia quello ucraino.
  Una Russia debole in Medio Oriente sicuramente non dispiace a Israele, considerando oggettivamente che le alleanze russe sono esplicitamente anti-israeliane come lo sono sempre state dal 1956 ad oggi. Nel dopo Assad, quale che sarà la fisionomia politica che assumerà il paese, se la Russia non si impegnerà a inviare forze per combattere i ribelli, essa perderà progressivamente peso.
  Lo scenario che si inaugura è ancora fluido, ma apre indubbiamente una prospettiva di consolidamento americana e rilancia Israele come la principale potenza regionale. Spetterà dunque alla nuova Amministrazione Trump cogliere l’opportunità che si presenta, consentire a Israele di indebolire ulteriormente l’Iran e congiungere agli anelli già forgiati degli Accordi di Abramo, l’anello più importante, quello saudita.

(L'informale, 10 dicembre 2024)

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Il New York Times conferma la presenza di Hamas nelle scuole dell’ONU

di Michelle Zarfati

“Almeno 24 persone impiegate dall’UNRWA – in 24 scuole diverse – appartenevano ad Hamas o alla Jihad islamica palestinese (PIJ)” ha riferito il New York Times. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), responsabile dell’istruzione e dei servizi sociali nella Striscia di Gaza, ha dunque assunto membri di Hamas, come conferma il noto quotidiano americano, ribadendo la rivelazione fatta un anno fa da Israele.
  Il giornale ha richiesto ad Israele documenti relativi ai dipendenti scolastici dell’UNRWA, dopo la distribuzione, ad opera dello Stato ebraico, di una lista di cento lavoratori dell’agenzia. Attraverso l’analisi dei documenti, ottenuti da Israele durante la sua campagna militare a Gaza, e le interviste con “attuali ed ex dipendenti dell’UNRWA, residenti ed ex studenti a Gaza”, il Times ha scoperto che “almeno 24 persone impiegate dall’UNRWA – in 24 scuole diverse” appartenevano ad Hamas o alla Jihad islamica palestinese (PIJ). La maggior parte erano amministratori di alto livello delle scuole – presidi o vicepresidi – il resto erano consulenti scolastici e insegnanti”, si legge nei documenti. “Quasi tutti gli educatori erano legati ad Hamas – secondo i registri – Erano quasi interamente combattenti delle Brigate Qassam”, ha riferito il giornale.
  “I residenti di Gaza hanno rivelato nelle interviste che l’idea che Hamas avesse agenti nelle scuole dell’UNRWA era un “segreto di Pulcinella”. Un educatore sulla lista dei cento d’Israele è stato regolarmente visto dopo ore in divisa di Hamas con un kalashnikov al collo”, ha detto il giornale. Il Times ha puntato i riflettori su Ahmad al-Khatib, vicepreside di una scuola elementare gestita dall’UNRWA a Gaza. Era un terrorista di Hamas attivo a Khan Younis. Al-Khatib era un comandante di squadra con “almeno una dozzina di armi, tra cui un kalashnikov e bombe a mano”, secondo dettagliati documenti di Hamas. I protocolli mostrano inoltre che Hamas considerava le scuole e le altre strutture civili come “i migliori ostacoli per proteggere la resistenza” nella guerra del gruppo contro Israele.
  L’uso da parte di Hamas delle scuole dell’UNRWA è andato oltre i confini di Gaza. Il Times ha osservato che a settembre Hamas ha annunciato la morte del suo leader in Libano. Si chiamava Fateh Sherif Abu el-Amin ed è stato ucciso in un attacco aereo nell’area di Tiro, nel sud del Paese, il 30 settembre. UN Watch ha rivelato che el-Amin era il preside della scuola secondaria Deir Yassin di El-Buss, gestita dall’UNRWA, e dirigeva il sindacato degli insegnanti dell’UNRWA in Libano, che supervisionava circa 39.000 studenti in 65 scuole. Nel corso degli ultimi mesi, Israele ha rivelato che l’UNRWA ha impiegato centinaia di terroristi grazie alle strutture scolastiche.
  A luglio, il ministero degli Esteri israeliano ha pubblicato quello che ha detto essere solo un elenco parziale, contenente i nomi e i numeri di identificazione di 108 dipendenti dell’UNRWA che, secondo Israele, lavoravano per Hamas. L’elenco più ampio non è stato ancora rilasciato a causa di considerazioni di sicurezza, secondo il ministero. “Abbiamo fornito molte prove che l’UNRWA lavorasse fianco a fianco con Hamas”, ha detto il portavoce dell’Ufficio del Primo Ministro David Mencer, riferendosi alla server farm di Hamas scoperta sotto il quartier generale dell’UNRWA a Gaza City e ai tunnel di Hamas sotto le scuole dell’UNRWA nella Striscia. A ottobre, la Knesset ha votato per bandire l’UNRWA, con il ministero degli Esteri che ha definito l’agenzia per i rifugiati “marcia”. “Non si tratta solo di poche mele marce, come sta cercando di sostenere il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres. L’UNRWA a Gaza è un albero marcio completamente infettato da terroristi”, ha aggiunto il ministero.

(Shalom, 10 dicembre 2024)

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L’ambasciatore Di Gianfrancesco visita il museo degli ebrei del Caucaso

L'ambasciatore d'Italia a Baku (Azerbaigian), Luca Di Gianfrancesco, ha visitato il museo 'Mountain Jews" a Qirmizu Qeseba.Il Museo degli Ebrei di Montagna è stato inaugurato nel 2020 ed è ospitato nella sinagoga Karzhog del XIX secolo.
Gli ebrei della montagna, ebrei del Caucaso o juhuro sono i gruppi ebraici del Caucaso orientale, principalmente del Daghestan e delle regioni settentrionali dell'Azerbaigian.
E' stata la fondazione "Stmeqi" che si è assunta la responsabilità di fornire reperti al museo. Questa fondazione è la più grande organizzazione che unisce gli ebrei di montagna nel mondo.
Durante la preparazione del museo, la fondazione ha invitato la diaspora e le comunità a trovare antichi manufatti.
"Il museo testimonia lo storico multiculturalismo e la secolare tolleranza religiosa in Azerbaigian" ha commentato l'ambasciatore.

(ANSA, 10 dicembre 2024)

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Milano – Beteavòn, dieci anni di mensa per tutti

di Daniel Reichel

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Le cuoche di Beteavòn

Era il 2014 quando a Milano apriva i battenti Beteavòn, la prima cucina sociale kasher d’Italia, nata su iniziativa del Merkos l’Inyonei Chinuch, il ramo educativo del movimento Chabad-Lubavitch. Da dieci anni la missione non è cambiata: offrire pasti gratuiti a quanti si trovano in difficoltà dentro e fuori la comunità ebraica. «Quello che è cambiato», testimonia Sonia Norsa, tra le prime cuoche volontarie di Beteavòn, «è la quantità. Quando ho iniziato, il mercoledì preparavamo le challot (il pane per il sabato) e il giovedì i piatti da consegnare il giorno seguente per shabbat. Parliamo di qualche decina di pasti». Oggi dalla stessa cucina, condivisa con la scuola ebraica del Merkos, escono centinaia di pasti al mese distribuiti a persone bisognose della comunità e ai senzatetto assieme ai volontari dell’associazione City Angels, come anche ai centri di accoglienza presenti sul territorio. «Ci siamo accorti ben presto che la necessità e il bacino di utenza erano molto più ampi e non potevamo rimanere indifferenti», spiega Igal Hazan, rabbino del movimento Chabad di Milano e fondatore di Beteavòn, che in ebraico significa «Buon appetito». «In questi dieci anni», prosegue Hazan, «uno dei più importanti risultati è stato riunire, attraverso un’iniziativa ebraica, diversi enti e associazioni del territorio e della società civile. Non bisogna sottovalutare il valore della coesione e dell’unità nell’aiutare il prossimo». Un impegno riconosciuto dalla città di Milano, che negli scorsi giorni ha conferito a Beteavòn l’attestato di benemerenza civica.
Tra i progetti più recenti c’è la collaborazione con il Centro accoglienza ambrosiano di via Tonezza. «Due anni fa abbiamo cercato un’associazione da aiutare nella nostra zona. Il centro è praticamente dietro di noi», racconta Nathalie Silvera, tra i responsabili di Beteavòn. «Abbiamo parlato con la direzione e c’è stata subito sintonia. Così è iniziata una nuova collaborazione: ogni mercoledì, da due anni, portiamo una quarantina di pasti per chi è ospite del centro». Si tratta di una struttura attiva da oltre 40 anni in cui sono accolte e sostenute mamme in difficoltà. «Offriamo alle madri e ai loro bambini una casa e le aiutiamo in un percorso verso l’autonomia», spiega Francesca Magna del Centro accoglienza ambrosiano. «L’obiettivo è integrare o reintegrare le donne che arrivano da noi nella società, evitando che entrino nel circolo vizioso dell’assistenzialismo. I motivi per cui sono qui sono diversi: difficoltà economiche, abusi o sfruttamento da parte del partner o di un altro membro della famiglia». Il focus iniziale, quando le madri sono accolte in comunità «è soprattutto il benessere del bambino: creare le condizioni perché cresca in un ambiente sano che tuteli la sua infanzia. Dopo l’attenzione alle capacità genitoriali, ci concentriamo sulle competenze per permettere alle donne di migliorare ad esempio la lingua, di trovare un lavoro, di conoscere tutti i servizi territoriali di cui possono aver bisogno: dai servizi scolastici, al doposcuola, ai presidi sanitari, fino all’assistenza legale». Un aiuto, aggiunge Magna, è arrivato da un’altra collaborazione legata al mondo ebraico: l’associazione Human in progress. «Sono un gruppo di professionisti che ci stanno aiutando su alcuni profili per dare sostegno terapeutico e assistenza legale». Coma Hazan, anche Magna sottolinea l’importanza di fare rete. «Con Beteavòn ci siamo conosciuti per un fattore di prossimità ». Gestire le case accoglienza ha molti costi e il vitto è uno di questi. «Poter contare ogni mercoledì sui pasti monoporzione della cucina sociale ebraica è un aiuto importante. In più, ci mettono la massima cura e attenzione, tutti gli alimenti sono ben specificati».
Chi da due anni porta fisicamente in via Tonezza i pasti è Yonathan Ferri Abarbanel, genovese, nato in Israele, e gestore di due locali a Genova e Milano. «Ho visto un post su Instagram di una mia amica in cui raccontava di essere andata la sera a distribuire cibo ai senzatetto in stazione Garibaldi. Per me l’orario serale vuol dire lavoro, ma volevo dare anch’io un contributo ». E così è iniziata la collaborazione con Beteavòn il mercoledì pomeriggio. «Io non faccio molto, se non andare a prendere il cibo già pronto, metterlo in macchina e consegnarlo al Centro di accoglienza. Mi sento però utile e nel mio piccolo do una mano». Ad eccezione di un incontro, non c’è interazione tra lui e le persone ospitate nel centro. «Se non sbaglio, per l’ebraismo la forma di beneficenza più nobile è quando chi dà non sa a chi sta dando e chi riceve non sa da chi sta ricevendo. E mi ritrovo in questa idea».
Anche per Norsa l’importante è fare, nel suo caso cucinare. «Per chiunque siano i nostri piatti, ci mettiamo amore. Vogliamo sentano che è una cucina di famiglia. Se faccio un brasato, lo faccio come lo farei per i miei figli e nipoti. Abbondante e saporito». Si cucina pesce, carne, verdure, e le ricette vengono decise a seconda di cosa viene comprato o regalato da chi sostiene Beteavòn. «Facciamo dal cholent (stufato della tradizione ebraica ashkenazita) al pollo al curry. Alcune ricette un po’ le inventiamo. L’importante è la cura e il sapore di casa». Nell’ultimo periodo Norsa ha rallentato. «Ho avuto un infarto per cui purtroppo non posso andare quanto vorrei, ma tutte le cuoche sono bravissime. Io ho mandato anche mio figlio e mio nipote a distribuire il cibo ai senzatetto. In passato distribuivamo direttamente dai pentoloni ed era bello vedere i sorrisi delle persone. Cucinare bene per loro significa anche rispettarne la dignità. Dire con il cuore Beteavòn».
Per ogni festa ebraica escono dalla cucina sociale pasti ad hoc. «Per Chanukkah (quest’anno il primo giorno è il 25 dicembre) prepariamo alcuni dolci per i nostri utenti e per la casa di riposo della Comunità ebraica», sottolinea Hazan, che ricorda anche il significato di Chanukkah. «È la festa in cui accendiamo i lumi. Per farlo deve necessariamente essere buio, questo perché è in quel momento che si vede il valore della luce. Quando il periodo è più buio, ancor più importante è portare la luce».

(moked, 10 dicembre 2024)

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Israele nel Golan siriano: per la prima volta dal ‘73

Netanyahu: il regime di Assad è finito e così l’armistizio del 1974. “Questo accordo è durato 50 anni e ieri sera è crollato”.

di Rossella Tercatin

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GERUSALEMME – Le immagini diffuse dall’esercito mostrano soldati con pesante equipaggiamento invernale farsi strada in un paesaggio vasto e deserto, con i versanti brulli delle montagne parzialmente ricoperti di neve. Per la prima volta dalla guerra del Kippur nel 1973, Israele è rientrata in territorio siriano, e ha schierato le sue truppe non solo nella zona cuscinetto demilitarizzata ma anche sul lato sotto controllo di Damasco nelle alture del Golan - quello israeliano, annesso dallo Stato ebraico nel 1981 viene considerato territorio occupato da gran parte della comunità internazionale. Il complesso montuoso è considerato strategico perché consente di mantenere la visuale sulla zona circostante.
La mossa israeliana è stata descritta dal primo Ministro Benjamin Netanyahu come necessaria per evitare che “forze ostili si insedino proprio presso il nostro confine”. Netanyahu però ha anche descritto il crollo del regime di Bashar al-Assad come un evento che potrebbe aprire nuove porte per un futuro diverso in Medio Oriente.
“Questa è una giornata storica,” ha sottolineato ieri il premier visitando il confine. “Il crollo del regime di Assad, della tirannia di Damasco, offre grandi opportunità, ma è anche irto di pericoli significativi”.
Netanyahu ha descritto gli eventi in Siria come una diretta conseguenza dell’azione israeliana contro Hezbollah e l’Iran, che avevano sostenuto il dittatore nel corso dei 14 anni di guerra civile. Allo stesso tempo però il primo ministro israeliano ha anche affermato che il collasso del regime segna anche quello dell’armistizio tra i due paesi risalente al 1974. “Questo accordo è durato 50 anni e ieri sera è crollato”, le parole di Netanyahu. “L'esercito siriano ha abbandonato le sue posizioni. Così abbiamo dato all'esercito israeliano l'ordine di prendere il controllo di queste posizioni per garantire che nessuna forza ostile si insedi proprio accanto al confine di Israele. Questa è una posizione difensiva temporanea finché non verrà trovato un accordo adatto”. In seguito ai movimenti delle truppe israeliane, il portavoce dell’Idf in lingua araba ha chiesto agli abitanti di cinque villaggi nelle zone limitrofe, Ofaniya, Quneitra, al-Hamidiyah, Samdaniya al-Gharbiyya and al-Qahtaniyah, di rimanere nelle proprie case fino a nuovo ordine. Israele non si è limitata a blindare il confine, con truppe e nuove trincee.
Nelle ultime 48 ore, l’aviazione ha compiuto ripetuti raid in territorio siriano per distruggere fabbriche e depositi di armi, incluse armi chimiche. L’Idf ha affermato di aver anche aiutato una postazione delle Nazioni Unite a sud della Siria a respingere un attacco di uomini armati non identificati.
Negli ultimi anni, Israele ha effettuato centinaia di raid nel paese, in massima parte senza assumersene ufficialmente la responsabilità, per contrastare le attività di Hezbollah e dell’Iran nella regione, con una sorta di patto di non belligeranza con la Russia, che della Siria ha controllato i cieli dall’inizio della guerra civile, e ha tollerato le attività dell’Idf in cambio dell’assicurazione che le sue forze non venissero in alcun modo coinvolte. Un equilibrio di interessi e attori in campo anche questo sgretolato dalla fine di Assad.
Negli anni più cruenti della guerra siriana, Israele rimase alla finestra e riuscì a evitare scontri tanto con le truppe governative quanto con i ribelli. Addirittura, la stessa Idf si dedicò all’operazione Buon Vicino, mettendo su un ospedale da campo proprio sulle alture del Golan, evacuando pazienti siriani nei propri ospedali al nord e organizzando un servizio di clinica dentistica e pediatrica per i bambini della zona.
Se oggi Israele guarda agli eventi in Siria con cautela, leader e analisti offrono qualche segnale di speranza.“Tendiamo la mano a tutti coloro che sono oltre il nostro confine in Siria: ai drusi, ai curdi, ai cristiani e ai musulmani che vogliono vivere in pace con Israele”, ha affermato Netanyahu. “Seguiremo gli eventi con molta attenzione. Se sarà possibile stabilire relazioni di buon vicinato con le nuove forze emergenti in Siria, questo è il nostro desiderio. Ma se non lo sarà, faremo tutto il necessario per difenderci.”

(la Repubblica, 9 dicembre 2024)

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Katz ordina una zona di sicurezza al confine con la Siria

L'Aeronautica militare israeliana (IAF) ha effettuato diversi attacchi in Siria nella notte di lunedì, distruggendo armi che Gerusalemme teme possano cadere nelle mani delle forze nemiche

di Akiva van Koningsveld e Amelie Botbol

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Truppe dell'unità d'élite Shaldag dell'Aeronautica israeliana sul versante siriano del Monte Hermon, 8 dicembre 2024

Il Ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha ordinato alle Forze di Difesa Israeliane (IDF) di creare una zona di sicurezza al di là della zona cuscinetto con la Siria, priva di “armi strategiche pesanti e infrastrutture terroristiche”, ha annunciato lunedì il Ministero della Difesa.
Katz ha dichiarato di aver ordinato all'IDF di assumere il pieno controllo della zona cuscinetto demilitarizzata sulle alture del Golan, creata dall'accordo di separazione delle forze del 1974 tra Damasco e Gerusalemme che pose fine alla guerra dello Yom Kippur del 1973.
Inoltre, Katz ha ordinato l'ulteriore distruzione di armi strategiche precedentemente detenute dal regime e dalle milizie sostenute dall'Iran per evitare che cadano nelle mani delle forze terroristiche. Secondo il ministero, queste armi includono “missili terra-aria, sistemi di difesa aerea, missili superficie-superficie, missili da crociera, missili a lungo raggio e missili da crociera costieri”.
Katz ha anche incaricato l'esercito di “prevenire e impedire il ripristino della via del contrabbando di armi dall'Iran al Libano attraverso la Siria, sul territorio siriano e ai valichi di frontiera”.
Infine, Katz ha detto di aver chiesto all'esercito di cercare di stabilire contatti con la comunità drusa in Siria e con altre popolazioni locali.
L'ex presidente siriano Bashar al-Assad è fuggito da Damasco domenica dopo che i gruppi di ribelli hanno preso d'assalto la capitale, ponendo fine al governo della sua famiglia durato cinque decenni.
Un portavoce dei ribelli ha dichiarato domenica mattina alla televisione di Stato: “Il tiranno Bashar al-Assad è stato rovesciato”.
In seguito agli eventi in Siria, l'IDF è stato schierato nella zona cuscinetto e in “alcune altre posizioni di difesa necessarie”. L'esercito ha spiegato che questa misura è stata presa a seguito di una valutazione della situazione, al fine di “garantire la sicurezza delle comunità delle Alture del Golan e dei cittadini di Israele”.
I capi dell'intelligence hanno avvertito che il crollo del regime potrebbe portare a un caos che potrebbe sfociare in minacce contro Israele.
L'IDF ha dichiarato nella tarda serata di domenica di continuare a operare lungo la nuova linea di confine con la Siria e di concentrarsi sulla ricognizione e sulla protezione della popolazione israeliana, in particolare sulle alture del Golan.
Il versante siriano del Monte Hermon è stato conquistato domenica dalle forze speciali israeliane, che non hanno incontrato resistenza durante l'operazione.
Tra le altre cose, le forze israeliane starebbero lavorando per portare avanti la costruzione di una barriera fortificata lungo il confine tra i due Paesi, il cosiddetto “Nuovo Oriente”.
Nel frattempo, due “fonti di sicurezza del Medio Oriente” hanno riferito alla Reuters che l'IDF ha attaccato una struttura di ricerca a Damasco che sarebbe stata utilizzata dall'Iran per sviluppare missili di precisione a lungo raggio.
L'IAF ha effettuato diversi attacchi in Siria nella notte di domenica e ha distrutto armi che Gerusalemme teme possano cadere nelle mani delle forze nemiche. Gli attacchi sono stati diretti contro depositi di armi, sistemi di difesa aerea e impianti di produzione di armi.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che domenica ha visitato il confine siriano, ha accolto con favore il crollo del regime di Assad, che ha descritto come un “anello centrale dell'asse del male dell'Iran”, e lo ha definito un “giorno storico nella storia del Medio Oriente”.
Tuttavia, Israele proteggerà innanzitutto i suoi confini. “Quest'area è stata controllata da una zona cuscinetto per quasi 50 anni”, ha detto durante una visita al Monte Bental, un vulcano spento nelle Alture del Golan.
“Ieri ho dato istruzioni all'IDF di prendere il controllo della zona cuscinetto e dei posti di blocco vicini. Non permetteremo alle forze nemiche di insediarsi ai nostri confini”, ha dichiarato il Primo Ministro.
L'ex deputato israeliano e tenente colonnello dell'IDF in pensione Anat Berko ha dichiarato domenica a JNS: “Vediamo chiaramente il conflitto secolare - che risale al VII secolo tra sunniti e sciiti - e gli effetti domino della risposta di Israele dopo il massacro del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas e della Jihad islamica sul suolo israeliano, e dopo l'indebolimento di Hezbollah, che è stato coinvolto nel conflitto siriano per molti anni”.
Sebbene il crollo del governo di Assad potrebbe avvantaggiare Israele nel breve termine, Berko ha affermato che “la Siria potrebbe diventare una terra di nessuno, simile a quella che io chiamo l'era dell'ISIS e del turismo jihadista”. Quando è iniziata la guerra civile, ha osservato Berko, cittadini di oltre 70 Paesi si sono recati in Siria per unirsi allo Stato Islamico, compresi cristiani convertiti all'Islam e arabi israeliani.
“Spero che gli israeliani abbiano imparato la lezione del 7 ottobre”, ha detto l'ex parlamentare del Likud. “Dobbiamo presumere che ci siano tunnel al confine siriano con Israele e dobbiamo essere preparati a questo e analizzare la situazione molto attentamente. Non abbiamo a che fare con il nemico del nostro nemico. Sono entrambi nemici; i sunniti e gli sciiti odiano gli ebrei”.
L'ex ambasciatore Jeremy Issacharoff, che è stato vicedirettore generale del Dipartimento di Stato a Gerusalemme e ha diretto la Divisione Affari Multilaterali e Strategici, ha osservato che mentre ci sono “elementi di pericolo e molta incertezza su ciò che accadrà e su chi prenderà il controllo”, la caduta di Assad è una “opportunità” in quanto “gli eventi attuali portano molti svantaggi ai nemici di Israele”.
“Il popolo siriano è intelligente; si renderà conto che, dopo tanti anni di governo della famiglia Assad, potrebbe esserci l'opportunità di stabilizzare lo Stato, ricostruire le istituzioni e unire il Paese; questo potrebbe essere difficile, poiché molte aree devono essere riunite”, ha detto Issacharoff.
“Stiamo seguendo da vicino e speriamo che in Siria possa emergere una leadership che possa creare maggiori opportunità per Israele”, ha aggiunto.
Allo stesso tempo, secondo l'ex diplomatico israeliano, Gerusalemme “osserva sempre ciò che accade in Siria e siamo sempre preoccupati di come l'Iran stia usando la Siria per trasferire armi a Hezbollah”.
“Penso che oggi ci sia un chiaro incentivo per i siriani a cercare una via di mezzo moderata invece di presentarsi come jihadisti islamici estremi”, ha concluso Issacharoff.

(Israel Heute, 9 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele distrugge le armi chimiche di Assad prima che finiscano in mano dei jihadisti

Decine di attacchi hanno distrutto anche arsenali di armi avanzate, missili e armi pesanti.

di Sarah G. Frankl

Domenica, i caccia dell’aeronautica militare israeliana hanno colpito decine di obiettivi in tutta la Siria, distruggendo armamenti che Israele temeva potessero cadere nelle mani di forze ostili, alla luce della drammatica caduta del regime di Bashar al-Assad.
Sempre domenica, le Forze di difesa israeliane hanno preso il controllo di una zona cuscinetto tra il confine tra Israele e Siria sulle alture del Golan, in quella che hanno descritto come una misura difensiva temporanea.
Decine di aerei dell’IAF hanno colpito numerosi obiettivi, concentrandosi sulla distruzione di “armi strategiche”, hanno riferito fonti della difesa, descrivendo gli attacchi come “molto intensivi”.
Le armi colpite dagli aerei da guerra includevano siti avanzati di stoccaggio di missili, sistemi di difesa aerea e strutture di produzione di armi. Israele ha anche colpito un sito di armi chimiche nella notte tra sabato e domenica.
Il regime di Assad, caduto domenica dopo un’offensiva lampo delle forze ribelli, era alleato del regime iraniano e faceva parte del cosiddetto Asse di resistenza contro Israele.
Per molti anni la Siria è stata utilizzata come passaggio per le armi iraniane, dirette verso gruppi terroristici tra cui Hezbollah in Libano, con cui Israele ha stipulato un traballante cessate il fuoco il mese scorso.
Secondo quanto riferito da fonti della sicurezza regionale, domenica Israele ha colpito almeno sette obiettivi nella Siria sudoccidentale.
Tra queste, la base aerea di Khalkhala a nord della città di Sweida, da cui le truppe dell’esercito siriano si sono ritirate sabato sera. Le fonti regionali hanno affermato che l’esercito ha lasciato dietro di sé un’ampia scorta di missili, batterie di difesa aerea e munizioni, che sono state colpite domenica.
Gli attacchi alla base aerea di Mezzeh a Damasco hanno preso di mira altri depositi di munizioni, hanno riferito le fonti.
Filmati pubblicati sui social media presumibilmente mostrano i grandi attacchi aerei israeliani che hanno preso di mira la base aerea di Mezzeh. I video hanno mostrato un pesante bombardamento della base aerea.
Successivamente, Israele ha condotto un’altra ondata di almeno tre attacchi aerei nella capitale siriana, prendendo di mira un complesso di sicurezza e un centro di ricerca governativo.
Tali attacchi hanno causato ingenti danni alla sede principale della dogana e agli edifici adiacenti agli uffici dell’intelligence militare all’interno del complesso di sicurezza, nel quartiere Kafr Sousa di Damasco, dove Israele aveva precedentemente affermato che gli scienziati iraniani stavano sviluppando missili.
Anche il centro di ricerca è stato danneggiato, ha riferito una fonte.
Una delle fonti regionali ha affermato che gli attacchi hanno colpito le infrastrutture utilizzate per immagazzinare dati militari sensibili, equipaggiamenti e componenti di missili guidati.
Secondo i media locali, sono stati segnalati attacchi anche nei governatorati di Daraa e Suwayda, nella Siria meridionale.

• PROTEGGERE IL CONFINE
  Nel frattempo, l’IDF ha diramato un “avviso urgente” ai residenti di diversi villaggi siriani vicini al confine israeliano, durante le operazioni nella zona cuscinetto tra Israele e Siria.
“I combattimenti nella vostra zona stanno costringendo l’IDF ad agire e non intendiamo farvi del male”, ha detto il colonnello Avichay Adraee, portavoce in lingua araba dell’IDF su X. “Per la vostra sicurezza, dovete restare a casa e non uscire fino a nuovo avviso”.
L’avvertimento è stato lanciato ai residenti di Ofaniya, Quneitra, al-Hamidiyah, Samdaniya al-Gharbiyya e al-Qahtaniyah, tutti vicini al confine israeliano.
Domenica l’IDF ha preso il controllo della zona cuscinetto tra Israele e Siria, sottolineando che si trattava di una misura difensiva e temporanea, dato il caos nel Paese dopo la caduta del regime di Assad.
È la prima volta dalla firma dell’Accordo di disimpegno del 1974, in seguito alla guerra dello Yom Kippur, che le forze israeliane prendono posizione all’interno della zona cuscinetto tra Israele e Siria, sebbene in passato l’IDF sia entrato brevemente nella zona in diverse occasioni.
“Stiamo agendo prima di tutto per proteggere il nostro confine”, ha detto il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, in visita alle Alture del Golan. “Quest’area è stata controllata per quasi 50 anni da una zona cuscinetto, concordata nel 1974, l’Accordo di separazione delle forze. Questo accordo è crollato, i soldati siriani hanno abbandonato le loro posizioni”.
Secondo l’esercito, le truppe israeliane sono state dispiegate in specifiche posizioni strategiche nella zona cuscinetto per impedire la presenza di uomini armati non identificati nella zona.
Israele ha informato gli Stati Uniti prima di assumere il controllo della zona, ha riferito Axios domenica sera, dicendo all’amministrazione Biden che si trattava di una mossa temporanea, che sarebbe durata solo pochi giorni o al massimo alcune settimane.
L’IDF ha affermato che lo spiegamento è stato effettuato in coordinamento con la United Nations Disengagement Observer Force (UNDOF), che ha il compito di gestire la zona cuscinetto. I membri dell’UNDOF, fino a domenica, sono rimasti nelle loro posizioni.
L’emittente pubblica Kan ha riferito domenica che il governo stava valutando di estendere ulteriormente l’area sotto il controllo delle IDF nelle alture del Golan, “prima che qualcun altro entri nel vuoto che si è creato”, citando una fonte anonima a conoscenza dell’argomento.
Tra i movimenti in atto nella zona, domenica le truppe dell’unità d’élite Shaldag dell’aeronautica militare israeliana hanno conquistato il versante siriano del monte Hermon, situato a circa 10 chilometri dal confine, senza incontrare alcuna resistenza durante l’operazione.
Un’immagine circolata domenica sui social media e ampiamente pubblicata sui media ebraici mostrava un gruppo di soldati dell’IDF che reggevano una bandiera israeliana sulla cima della montagna.

(Rights Reporter, 9 dicembre 2024)

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Diario minimo (di un conflitto). La casa di carta

di Luciano Assin

È bastata meno di una settimana per far crollare, come un castello di carte, il sanguinoso regime della famiglia Assad, che da oltre 54 anni governava incontrastata la Siria. Anche questa volta, come è accaduto troppe volte in questo recente passato, le maggiori agenzie di Intelligence mondiali non sono state in grado di prevedere un simile collasso. Nonostante i proclami di Abu Muhammed el Julani, il nuovo astro nascente dello scacchiere mediorientale, la prolificazione di etnie, minoranze e correnti sunnite e sciite unite nell’odio contro la dittatura halawita ma profondamente distanti fra di loro su come affrontare il futuro non promette nulla di buono. Paradossalmente in una regione così martoriata come la nostra sono proprio i regimi più sanguinari e crudeli quelli che hanno garantito una discreta “stabilità” politica. Basti pensare a ciò che succede in Iraq e Libia dopo l’eliminazione di due figure chiave come Sadam Hussein e Gheddafi. Gli avvenimenti si sono svolti ad un ritmo così serrato che nessuna analisi è ancora possibile. Questa volta preferisco sottolineare alcuni spunti di riflessione.

• L’INCRINAMENTO DELL’ASSE SCIITA
Questo è sicuramente il risultato più eclatante di questi ultimi avvenimenti. Hezbollah ha siglato, con l’assenso iraniano, una tregua con Israele per riorganizzare le proprie fila. Hamas, lasciato solo al suo destino, cercherà anche lui di arrivare ad un compromesso col quale possa mantenere il suo potere nella striscia di Gaza. Proprio questo indebolimento dei tradizionali alleati degli Ayatollah porterà a mio avviso ad una accelerazione del programma nucleare iraniano. In questo Khamenei punta sulle incertezze europee e sulle dichiarazioni di Trump che preludono ad un graduale distacco dallo scacchiere mediorientale.

• IL MANCATO INTERVENTO RUSSO
   Putin è sempre stato attento a garantire una copertura politica e militare ai suoi alleati. Non aver saputo reagire in tempo reale all’implosione del regime halawita lede enormemente il suo prestigio e i suoi interessi geopolitici. La Russia ha in territorio siriano delle basi navali che rappresentano il suo unico sbocco sul Mediterraneo, è un patrimonio di vitale importanza per lo zar, che farà di tutto per non perderlo.

• L’IMPORTANZA STRATEGICA DEL GOLAN
  Oggi più che mai l’altopiano del Golan ha assunto un’importanza strategica che dopo la guerra del Kippur sembrava definitivamente scomparsa. Nel caso di un attacco sul fronte siriano le alture in questione rappresenterebbero un cuscinetto abbastanza profondo per arrestare un’operazione terrestre in larga scala. Proprio per evitare un simile scenario l’esercito israeliano ha già occupato delle postazioni strategiche nella zona cuscinetto stabilita negli accordi di non belligeranza siglati nel ’74.

• L’ATOMICA DEI POVERI
  Anche i siriani tentarono di realizzare un progetto nucleare che si concluse con la distruzione da parte di Israele nel 2007, di una centrale atomica in costruzione di progettazione nordcoreana. In mancanza della bomba atomica la famiglia Assad sviluppò un programma basato su ordigni chimici e batteriologici, usato con triste “successo” sia dal padre che dal figlio contro il loro stesso popolo. Una minaccia da non prendere assolutamente sottogamba.

• FIDARSI E BENE, NON FIDARSI È MEGLIO
  Anche la Giordania è governata da una minoranza, quella hascemita, non si tratta di una vera e propria dittatura ma esiste indubbiamente un pugno di ferro. Nonostante un’economia malandata e oltre 650mila profughi siriani, fuggiti dalla guerra civile, Re Hussein è riuscito fino a mantenere una buona stabilità politica nel paese, ma tutto è possibile e Israele, nonostante gli accordi di pace, dovrà guardare al vicino orientale con un certo sospetto.
  A proposito di vicini, sulle alture del Golan esistono 4 villaggi drusi che da sempre si considerano parte della Siria. Già stasera, nella piazza principale di Majdal Shams, sventolavano in segno di solidarietà diverse bandiere siriane. Per il momento è da considerarsi più come un fatto di folklore che non come una rivolta civile, a mio avviso la minoranza drusa del Golan ha solo da perdere in tal caso.
  Insomma, per il momento tutti navigano a vista, e nemmeno il capitano più esperto è in grado di prevedere dove soffierà il vento.
  Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di ognuno di noi.

(Bet Magazine Mosaico, 9 dicembre 2024)

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Il tribunale di Gerusalemme assegna 2,3 milioni di dollari ai “collaboratori” torturati dall’Autorità Palestinese

di Michelle Zarfati

La Corte Distrettuale di Gerusalemme ha ordinato all’Autorità Palestinese di pagare un risarcimento a cinque palestinesi per un totale di circa 8 milioni di shekel (2,3 milioni di dollari) dopo che i civili sono stati torturati dalle forze dell’Autorità Palestinese con l’accusa di “collaborare” con le autorità israeliane. La sentenza è stata riportata per la prima volta domenica dal quotidiano israeliano Maariv.
  Il giudice incaricato Miriam Ilany ha affermato che l’Autorità Palestinese “è responsabile dell’incarcerazione illegale e della tortura dei collaboratori”, aggiungendo che la condotta in corso di Ramallah “costituisce una palese violazione dei diritti umani fondamentali”. Ilany ha anche scritto che “non si tratta solo della perdita della libertà dei querelanti, ma anche di torture fisiche e psicologiche prolungate che lasceranno cicatrici per tutta la vita”.
  Lo studio legale Arbus, Kedem e Tzur con sede a Gerusalemme, che ha rappresentato i palestinesi e le vittime del terrorismo, ha detto che le sentenze della corte inviano “un chiaro messaggio che lo Stato di Israele sosterrà chiunque gli tenda la mano nella sua lotta contro il terrorismo”. “Queste sentenze non riguardano solo il risarcimento, ma anche il ritenere responsabile un’autorità malvagia che perpetua il terrorismo a tutti i livelli”, ha condiviso l’azienda. Lo studio legale di Gerusalemme è attualmente coinvolto in un caso della Corte Suprema che mira ad espandersi, portando della legge israeliana a tutti coloro che hanno collaborato con lo Stato ebraico contro il terrorismo, nel tentativo di fornire un risarcimento aggiuntivo alle vittime della tortura palestinese.
  A settembre, la Corte distrettuale di Gerusalemme ha emesso sentenze che ordinano all’Autorità Palestinese di risarcire tre “collaborazionisti” palestinesi che sono stati torturati per circa 3 milioni di shekel (840.000 dollari). Tra gli altri metodi di tortura, le vittime sarebbero state picchiate su tutto il corpo con fucili, manganelli e cavi elettrici, private del sonno, costrette a bere sapone. Sarebbero stati rotti anche dei denti alle vittime, con minacce e torture ai familiari.
  “Gli atti definiti dai terroristi di ‘tradimento’ avevano lo scopo di prevenire ulteriore terrorismo contro Israele e contro gli israeliani – ha detto il giudice – cosa che l’Autorità Palestinese si era impegnata a prevenire nell’accordo provvisorio [degli Accordi di Oslo]”. Secondo i termini degli accordi di Oslo, che lo Stato ebraico ha firmato con Yasser Arafat negli anni ’90, la neonata Autorità Palestinese aveva il compito di combattere il terrorismo in alcune parti della Giudea e della Samaria.
  Secondo Ilany, l’Autorità Palestinese “ha il diritto di proteggere la propria sicurezza e di agire contro spie e collaboratori, purché ciò non danneggi gli interessi di sicurezza di Israele”. Il 4 settembre, Kedem ha ottenuto un ordine provvisorio che consente a un gruppo di famiglie israeliane, che hanno perso i propri cari a causa del terrorismo, di sequestrare 160 milioni di shekel (42 milioni di dollari) di fondi dell’Autorità Palestinese congelati da Gerusalemme in attesa del procedimento. La causa ha segnato la prima azione intrapresa da quando la Knesset israeliana ha approvato il “Compensation for Terror Victims Bill” a marzo. La legge richiede ai tribunali di concedere danni punitivi di 10 milioni di shekel (2,66 milioni di dollari) per ogni decesso. Per facilitare la riscossione dei risarcimenti punitivi da parte delle vittime e dei loro eredi, le sentenze possono essere eseguite contro “qualsiasi proprietà dell’imputato, comprese le proprietà sequestrate o congelate dallo Stato di Israele”. L’Autorità Palestinese ha una delle più grandi forze di sicurezza pro capite del mondo, addestrata e armata dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali. L’amministrazione Biden aveva avanzato una proposta nei mesi precedenti che vedeva l’Autorità Palestinese al centro, assumendo il controllo della Striscia di Gaza dopo la fine della guerra contro Hamas, una proposta finora non vista di buon occhio a Gerusalemme.

(Shalom, 9 dicembre 2024)

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La caduta di Assad è una vittoria di Israele

di Ugo Volli

• LA SIRIA PRESA DAI RIBELLI
  Il regime siriano è caduto la notte scorsa. Con un’operazione straordinariamente rapida i ribelli della HTS (Commissione per la salvezza della Siria) hanno conquistato in dieci giorni prima Aleppo, la seconda città del paese, e poi sono avanzati a sud fino a prendere le città della fascia più fertile e popolosa (Hama e poi Homs), fino ad arrivare a Damasco. Nel frattempo crollavano anche i bastioni del regime a sud, al confine con Israele, e a est, verso la Giordania e l’Iraq. Stamattina sono entrati a Damasco; il primo ministro siriano, Ghazi al-Jalali, ha sancito il passaggio del potere politico, il presidente Assad è fuggito in aereo per direzione ignota. Non vi è stata sostanzialmente resistenza militare e anche i protettori del regime (Russia, Iran con i suoi satelliti di Hezbollah e delle milizie sciite dell’Iraq), pur avendo basi e forze militare nel paese, non hanno tentato di resistere.

• UN CAMBIAMENTO STORICO
  È un fatto storico. Il partito Baath controllava il paese dal 1961, la famiglia Assad ne aveva preso le redini nel 1970, prima col generale Hāfiẓ al-Asad, poi dopo la sua morte nel 2000 col figlio ed erede designato, Bashār al-Asad. Sotto la loro guida e quella dei loro predecessori la Siria era stata fra i nemici più pericolosi di Israele, partecipando a tutte le guerre contro lo Stato ebraico. Il suo esercito era temuto, nel ’73 solo l’eroica resistenza di un reparto carrista impedì alle truppe siriane di dilagare dal Golan in Galilea, fino a Haifa. Per un lungo periodo la Siria degli Assad esercitò un potere di fatto anche sul Libano. Poi l’inefficienza e la corruzione del regime e il fatto di essere basato sulla minoranza religiosa degli alawuiti (più simili agli sciiti dell’Iran che alla maggioranza sunnita) produsse una forte resistenza che fra il 2011 e il 2016 divenne rivolta e guerra civile. Questa fu repressa da Assad con atroce violenza, anche con l’uso di gas contro le città ribelli, nonostante la velleitaria opposizione di Obama. Alla fine il regime riuscì a stare il piedi, ma solo grazie all’aiuto militare di Russia, Iran e Hezbollah. Larghe zone del paese restavano fuori controllo, presidiate dai curdi appoggiati dagli americani e dai sunniti sostenuti dalla Turchia.

• IL DOPPIO ROVESCIAMENTO STRATEGICO
  Il regime però era diventato un satellite dell’Iran e la base militare mediterranea della Russia. Per l’Iran, la Siria era l’anello centrale del suo progetto di un “ponte terrestre” fra il territorio persiano e il Mediterraneo e di un “anello di fuoco” mirato a distruggere lo Stato di Israele. Per la Russia era il punto di partenza per conservare e restaurare il potere che l’URSS aveva avuto nel Mediterraneo e nell’Africa. Entrambe queste grandi strategie imperialiste oggi sono crollate, per merito esclusivo di Israele. È stato lo smantellamento di Hezbollah e la distruzione delle difese aeree dell’Iran che hanno permesso ai ribelli di prendere l’iniziativa e di vincere. Gli ayatollah iraniani che pensavano il 7 ottobre del 2023 di dare il via alla distruzione dell’“entità sionista” ora si ritrovano con la liquidazione dei principali satelliti (Hamas e Hezbollah) che avevano addestrato, finanziato, armato e con l’instaurazione di un potere nemico nel paese centrale del loro progetto geopolitico, che avevano pure sostenuto con armi, finanziamenti, soldati. È un fallimento sostanziale, il crollo di un progetto decennale che ha impegnato centinaia di miliardi di dollari, tutto il potere militare e politico degli ayatollah: un crollo che potrebbe avere echi importanti anche dentro l’Iran. La Russia ha subito pure una sconfitta durissima, che mostra il costo enorme della guerra in Ucraina, che ha consumato le sue forze.

• LA PROSPETTIVA DI PACE
  C’è ora una possibilità di pace per il Medio Oriente, condizionata però alla distruzione (negoziata o armata) del progetto nucleare dell’Iran e al problema del panturchismo che diventa improvvisamente di attualità. La vittoria dei ribelli siriani è stata infatti sostenuta logisticamente e politicamente dalla Turchia, che ha ambizioni imperiali neo-ottomane sull’Asia centrale, sul Mediterraneo e sul Medio Oriente, con toni sempre più aggressivi nei confronti di Israele. Bisognerà anche vedere se il nuovo regime siriano manterrà la faccia non aggressiva che ha ostentato finora, in particolare nei confronti di Israele, ma anche dei curdi. Israele si è preparata a tutti i possibili scenari, rafforzando il dispositivo militare nel Golan e occupando anche delle posizioni difensive nella fascia smilitarizzata tra il suo confine e quello siriano. Ma la sconfitta del tentativo imperialista iraniano apre comunque una finestra di pace possibile.

• UNA VITTORIA PER ISRAELE
  Questi sviluppi hanno un grande significato per Israele. È chiaro che la strategia della guerra fino alla vittoria sostenuta dal governo Netanyahu contro il freno dell’amministrazione Biden e anche di importanti forze interne (l’opposizione di sinistra, ma anche parte dell’apparato militare e dei servizi) ha pagato. Israele potrebbe uscire da questa guerra con una vittoria militare che significa un sostanziale ridimensionamento dei suoi nemici, e – nella logica politica mediorientale – la possibilità di consolidare i rapporti con il mondo sunnita, in particolare con l’Arabia Saudita. Per concludere la terribile pagina di storia aperta dal pogrom del 7 ottobre, Israele deve però ottenere la liberazione dei rapiti, eliminare del tutto la struttura militare di Hamas e Hezbollah e soprattutto liquidare la minaccia nucleare iraniana. È probabile che con la presidenza Trump questi obiettivi siano a portata. Sarebbe una vittoria per tutto il mondo libero, ottenuta nonostante la freddezza di buona parte della politica europea e americana, in particolare dei suoi settori che a torto si dicono progressisti.

(Shalom, 8 dicembre 2024)

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La caduta di Assad e la saldatura degli anelli

di Niram Ferretti

La rapida avanzata delle fazioni dei ribelli in Siria e la fuga di Assad mette in luce alcuni aspetti di forte rilievo geopolitico sullo scacchiere mediorientale, al centro di una guerra che si protrae da un anno e due mesi tra Israele e Hamas spalleggiato da Hezbollah.
  Il primo è che con la caduta del regime di Assad, il cui esercito si è squagliato come neve al sole, Israele incassa un altro risultato favorevole.
  Dal 2013 ad oggi sono state centinaia le incursioni aeree israeliane sul territorio siriano per colpire le infrastrutture di Hezbollah, oggi che Hezbollah si trova fortemente indebolito, non ha potuto soccorrere il regime fantoccio russo alawita, lasciando di fatto spazio aperto all’avanzata dei ribelli. L’Iran, principale sponsor della formazione sciita libanese, viene così ulteriormente indebolito.
  Negli ultimi mesi ha dovuto incassare l’uccisione del proprio plenipotenziario in Libano, Hassan Nasrallah, la decapitazione dei vertici militari di Hezbollah, e la distruzione di una parte consistente dell’arsenale del proprio principale delegato. Ora perde anche la sponda siriana, mentre a Gaza, quel che resta di Hamas, si avvia all’inevitabile conclusione della sua egemonia politico-militare all’interno della Striscia.
  Tutto ciò mostra con evidenza che la strategia iraniana di accerchiamento di Israele, di un suo strangolamento dentro un cerchio di fuoco che avrebbe dovuto idealmente contemplare anche una sollevazione contro Israele in Cisgiordania, è fallito. Il cerchio è stato spezzato e sembra assai difficile che esso possa ricostruirsi in tempi brevi.
  Il secondo è che la Russia, grande protettrice della Siria, non è in grado di garantire ad Assad il supporto militare necessario. È sicuramente prematuro affermare che con la caduta del regime di Assad, la Russia abbia perso il suo avamposto in Medio Oriente acquisito dopo la rinuncia americana ad avere un ruolo risolutivo nel contesto della guerra civile siriana, ma certo la sua mancanza di determinazione nel fare da argine all’avanzata delle forze anti Assad, denuncia la difficoltà a impegnarsi su un altro fronte che non sia quello ucraino.
  Una Russia debole in Medio Oriente sicuramente non dispiace a Israele, considerando oggettivamente che le alleanze russe sono esplicitamente anti-israeliane come lo sono sempre state dal 1956 ad oggi. Nel dopo Assad, quale che sarà la fisionomia politica che assumerà il paese, se la Russia non si impegnerà a inviare forze per combattere i ribelli, essa perderà progressivamente peso.
  Lo scenario che si inaugura è ancora fluido, ma apre indubbiamente una prospettiva di consolidamento americana e rilancia Israele come la principale potenza regionale. Spetterà dunque alla nuova Amministrazione Trump cogliere l’opportunità che si presenta, consentire a Israele di indebolire ulteriormente l’Iran e congiungere agli anelli già forgiati degli Accordi di Abramo, l’anello più importante, quello saudita.

(L'informale, 8 dicembre 2024)

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Scandalo Wikipedia: un gruppo di editor sta riscrivendo le voci contro Israele

Da enciclopedia libera a megafono di propaganda pro-pal. Smascherata operazione per rimodellare la percezione del conflitto israelo-palestinese: alterati migliaia di articoli.

In tempi recenti, diverse ricerche e analisi hanno dimostrato come Wikipedia, pur essendo nata come un enciclopedia digitale aperta a tutti e con l’obbligo dell’imparzialità, si sia sempre più spesso prestata a riflettere i pregiudizi degli utenti che vi creano e modificano contenuti, rivelando un bias politico sbilanciato a sinistra. Tanto che persino il suo co-fondatore Larry Sanger, intervistato nel luglio 2021 dalla testata online UnHerddisse che la sua creazione non era più affidabile.
  Tale pregiudizio è diventato particolarmente evidente nelle pagine dedicate a Israele e al popolo ebraico: dopo che già nel marzo 2024 una ricerca condotta dall’accademica israeliana Shlomit Aharoni Lir e pubblicata dal World Jewish Congress, dal titolo The Bias Against Israel on Wikipedia, ha rivelato un forte sbilanciamento contro lo Stato ebraico da parte dell’enciclopedia, ulteriore conferma è giunta di recente dal giornalista investigativo americano Ashley Rindsberg, che in una recente inchiesta ha smascherato un’operazione coordinata da parte di un gruppo di utenti di Wikipedia per rimodellare la percezione del conflitto israelo-palestinese.
  Intervistato a inizio dicembre dalla rivista Algemeiner, Rindsberg ha dichiarato che questa campagna telematica ha “cambiato quello che sembra essere il volto non solo del conflitto israelo-palestinese, ma dell’intera giustificazione e legittimità del diritto di Israele a esistere, che è il loro vero obiettivo”.

• PULIZIA IDEOLOGICA
  Nel report, pubblicato ad ottobre dalla testata digitale Pirate Wires, Rindsberg ha messo in luce una coalizione di circa 40 editor di Wikipedia che ha sistematicamente alterato migliaia di articoli per spostare l’opinione pubblica contro Israele. Questi individui, agendo in maniera coordinata, hanno eseguito circa 850.000 modifiche su quasi 10.000 articoli legati al conflitto, spostando sottilmente il fondamento ideologico dei contenuti relativi a Israele, ai palestinesi e più in generale alla geopolitica del Medio Oriente. Nell’inchiesta si legge:
  Questi sforzi hanno un successo notevole. Digita “Sionismo” nella casella di ricerca di Wikipedia e, a parte l’articolo principale sul sionismo (e una pagina di disambiguazione), il riempimento automatico restituisce: “Sionismo come colonialismo dei coloni”, “Sionismo nell’era dei dittatori” (in titolo del libro di un trotskista filo-palestinese), “Sionismo dal punto di vista delle sue vittime” e “Razzismo in Israele”.
  Le modifiche in questione spaziano dalla rimozione dei legami tra la storia ebraica e la terra di Israele all’omissione di riferimenti alle atrocità commesse durante l’attacco condotto da Hamas nel sud di Israele lo scorso 7 ottobre, tra cui, in modo più eclatante, riferimenti a stupri e altri atti di violenza sessuale.
  Gli editor filopalestinesi hanno anche ripulito articoli su personaggi storici controversi, tra cui quelli legati alla Germania nazista, come il Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, oltre ad aver diluito i riferimenti alle violazioni dei diritti umani da parte del regime iraniano.
  In un articolo sugli “ebrei”, ad esempio, un editor ha rimosso la frase “Terra di Israele” da una frase sull’origine del popolo ebraico, del quale si cerca di negare il legame storico con la terra in cui vivevano prima della distruzione del Secondo Tempio.

• TECH FOR PALESTINE
  L’operazione è stata appoggiata da Tech for Palestine, un gruppo filopalestinese. Secondo l’indagine di Rindsberg, il gruppo lavora in tandem con editor veterani di Wikipedia per eseguire campagne di editing coordinate. Gli editor lavorano quindi in coppia o in trio nel tentativo di non essere smascherati.
  Tech for Palestine ha creato un canale dedicato, Wikipedia Collaboration, allo scopo di semplificare i loro sforzi. L’iniziativa prevedeva il reclutamento di volontari, che andavano guidati attraverso sessioni di orientamento ben strutturate. Il messaggio di benvenuto del canale ha evidenziato il suo intento con questa domanda: “Perché Wikipedia? È una risorsa ampiamente accessibile e il suo contenuto influenza la percezione pubblica”.
  Una editor veterana conosciuta come Ïvana, il cui nome utente presenta come logo un triangolo rosso (simbolo spesso utilizzato dai filopalestinesi per identificare e prendere di mira gli ebrei), è stata nominata esperta di Wikipedia del canale. L’influenza del gruppo si estende oltre gli articoli relativi al conflitto, includendo anche profili di celebrità, con l’obiettivo di amplificare narrazioni vicine alle loro posizioni e di mettere a tacere le critiche verso organizzazioni terroristiche come Hamas e Hezbollah.

• PERCEZIONE ALTERATA
  Milioni di lettori vengono influenzati da questa campagna. Siccome gli articoli di Wikipedia sono spesso in cima ai risultati dei motori di ricerca, e in particolare di Google, questi cambiamenti dettano di fatto la percezione che l’opinione pubblica mondiale ha del conflitto israelo-palestinese. “Milioni e milioni di persone vengono imbottite di informazioni che sono state essenzialmente prodotte da un gruppo di 40 redattori pro-Palestina che agiscono in modo coordinato”, ha detto Rindsberg ad Algemeiner.
  Gli effetti sono molteplici. Il modello di Wikipedia di editing aperto e guidato da una comunità di utenti si basa sul presupposto della buona fede. Alterando narrazioni storiche e omettendo dettagli chiave, non stanno semplicemente influenzando le opinioni, ma stanno attivamente rimodellando la realtà per un pubblico globale ignaro di queste dinamiche e, in questo caso, come ha detto Rindsberg, “alterando completamente il modo in cui il mondo vede il conflitto e la regione”.
  Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del Pirate Wires, l’utente filopalestinese Ïvana ha dichiarato di essere stata “convocata” dal Wikipedia’s Arbitration Committee, e per le sue violazioni rischia un potenziale ban a vita dalla piattaforma. Rindsberg ha affermato che sono state avviate anche altre indagini in seguito alla pubblicazione dell’articolo.

(ATLANTICO, 8 dicembre 2024)

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Sarà restaurato il regno di Israele?

di Michael Vlach

Un passo della Bibbia che conferma l'attesa di una restaurazione del regno d'Israele è Atti 1:6-7.
“Essi dunque, riuniti, lo interrogarono dicendo: ”Signore, è in questo tempo che ricostituirai il regno a Israele? Egli rispose loro: Non spetta a voi conoscere tempi o date che il Padre ha riservato alla propria autorità”.
Questo passo, in cui sono riportate le ultime parole di Gesù agli apostoli prima della sua ascensione, conferma l'idea di una restaurazione del regno d'Israele in un duplice senso. In primo luogo, è chiaro da questi versetti che a questo punto avanzato del ministero terreno di Gesù, gli apostoli stavano ancora facendo i conti con la restaurazione del regno d'Israele. In secondo luogo, Gesù non li rimprovera né li redarguisce per questo. La sua risposta conferma quindi la correttezza della loro comprensione. Per quanto riguarda il primo punto, Atti 1:6 mostra chiaramente che gli apostoli si aspettavano una futura restaurazione del regno di Davide. McLean afferma che:
  “I termini «Israele» e «Israelita» ricorrono 32 volte nel Vangelo di Luca e negli Atti. Ogni volta si riferiscono al popolo di Israele come unità nazionale. Sembra quindi corretto mettere in relazione la domanda dei discepoli in Atti 1:6 con la restaurazione del dominio del popolo d'Israele. Essi volevano sapere da Gesù quando sarebbe avvenuta la restaurazione del regno di Davide, come descritto e definito nell'Antico Testamento”.
  Che questa aspettativa dei discepoli non fosse un'idea sbagliata è evidente per le seguenti due ragioni: in primo luogo, Atti 1:3 dice che Gesù parlò con i suoi discepoli per quaranta giorni dopo la sua risurrezione “delle cose riguardanti il regno di Dio”. È improbabile che i discepoli avessero ancora idee sbagliate sul regno di Dio dopo questi quaranta giorni di istruzione da parte del Signore risorto. Penney afferma: “La domanda dei discepoli (1,6) non può essere interpretata come un malinteso nazionalistico. È modellata sulle parole di Gabriele dei capitoli iniziali del Vangelo (Luca 1:26-32)” .
  In secondo luogo, la mancanza di un rimprovero da parte di Gesù in Atti 1,7 è una conferma che i discepoli avevano ragione nella loro fede nella restaurazione di Israele. Se i discepoli si fossero sbagliati, Gesù avrebbe corretto il loro errore, come ha fatto in altri casi. La mancanza di rimprovero può essere vista come una conferma del loro punto di vista. McLean afferma che:
  “Il ministero di Gesù consisteva, tra le altre cose, nell'indicare i falsi insegnamenti o nel rimproverare i falsi maestri. È quindi notevole che Gesù non abbia corretto la domanda dei suoi discepoli sulla restaurazione del regno di Israele. Data l'insistenza con cui Gesù correggeva i suoi discepoli ogni volta che erano in errore, sembra ragionevole concludere che la loro domanda in Atti 1:6 esprimesse la legittima aspettativa di una futura restaurazione del regno di Israele”.
  Gesù ha rifiutato di parlare dei tempi della restaurazione di questo regno, ma non ha respinto l'idea che ce ne sarà uno. Chance scrive:
  La risposta di Gesù è, in breve, un rifiuto della speranza di un'imminente restaurazione di Israele. Non è, tuttavia, un rifiuto della speranza di una tale restaurazione in sé e per sé”.
  Sebbene i supersessionisti abbiano spesso ammesso che i discepoli nutrissero aspettative nazionalistiche a questo punto, non ritengono che Atti 1:6 sia una prova di una futura restaurazione di Israele come nazione. I supersessionisti offrono due spiegazioni alternative per il significato di Atti 1,6. In primo luogo, alcuni sostengono che i discepoli avevano semplicemente una falsa comprensione del regno di Dio, o che non avevano ancora capito il vero significato del messaggio di Gesù. Secondo Zorn, Atti 1:6 descrive “l'ultimo guizzo della speranza degli apostoli che la nazione di Israele sarebbe tornata a essere una teocrazia politica”.
  In secondo luogo, altri come Robertson sostengono che Israele sarà effettivamente restaurato, ma in un modo che non ha nulla a che fare con l'aspettativa nazionalistica dei discepoli. Egli scrive:
  “Il regno di Dio sarà restaurato in Israele attraverso il regno del Messia, attraverso l'opera dello Spirito Santo nei discepoli di Cristo, che porteranno la loro testimonianza fino alle estremità della terra”.
  Quindi, la restaurazione del regno di Israele consisterebbe nella proclamazione del messaggio del regno di Dio nel mondo, operata dallo Spirito Santo. A sostegno della sua tesi, Robertson collega la domanda dei discepoli in Atti 1,6 con le parole di Gesù , secondo cui i discepoli riceveranno la forza dello Spirito Santo e saranno testimoni di Gesù fino agli estremi confini della terra:
  “Queste parole [in 1,8] non devono essere disgiunte dalla domanda dei discepoli. Esse hanno un riferimento diretto alla restaurazione del regno di Israele”.
  Nonostante questi tentativi di spiegazione, Atti 1,6 è e rimane un'importante prova del punto di vista non supersessionista. Considerando che i discepoli erano stati istruiti sul regno di Dio dal Signore risorto per 40 giorni (cfr. Atti 1,3), è improbabile che avessero un'idea completamente sbagliata sulla natura di questo regno e sulla relazione di Israele con esso. Sebbene Gesù nella sua risposta non confermi esplicitamente la loro speranza, conferma indirettamente la correttezza della loro aspettativa. Mc Knight ha ragione quando dice: “Poiché Gesù era un così buon maestro, abbiamo il diritto di supporre che le speranze impulsive dei suoi ascoltatori fossero giustificate”. Sono quindi d'accordo con l'opinione di Walaskay secondo cui Gesù “non disse nulla che avrebbe smorzato le speranze dei suoi discepoli per un regno nazionale”.
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Estratto da Hat die Gemeinde Israel ersetzt?

(Nachrichten aus Israele, novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)



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Hamas verifica le condizioni degli ostaggi: la mossa in vista di un accordo

La leadership politica di Hamas ha chiesto a vari gruppi nella Striscia di Gaza una verifica delle condizioni degli ostaggi in vista di un possibile accordo che preveda il loro rilascio. Lo scrive il quotidiano arabo Asharq Al-Awsat citando fonti palestinesi secondo le quali appunto Hamas avrebbe chiesto aggiornamenti sugli ostaggi tenuti da altri gruppi a Gaza in quanto prevede possibili sviluppi su un accordo di cessate il fuoco con Israele.
  Israele ritiene che siano 100 gli ostaggi ancora nella Striscia di Gaza, tra vivi e morti. Il Times of Israel riferisce che si ritiene che circa la metà siano vivi.
  Sul fronte dei negoziati per Gaza, ''questa volta c'è la possibilità concreta di raggiungere un accordo sugli ostaggi'' con Hamas, aveva dichiarato il 4 dicembre scorso il ministro della Difesa israeliano Israel Katz, esprimendo il suo ottimismo durante una visita alla base aerea di Tel Nof e sottolineando che ''riportare a casa gli ostaggi è una priorità per Israele''. Katz aveva quindi spiegato che c'è una ''crescente pressione'' su Hamas affinché accetti l'accordo.
  "La cosa più importante oggi nella guerra è riportare a casa gli ostaggi. Questo è l'obiettivo supremo che ci sta di fronte e stiamo lavorando in ogni modo per far sì che ciò accada", aveva poi affermato Katz in una nota diffusa dal suo ufficio. "L'intensità della pressione su questa mostruosa organizzazione chiamata Hamas sta aumentando e c'è la possibilità che questa volta possiamo davvero arrivare a un accordo sugli ostaggi", aveva aggiunto.

(Adnkronos, 7 dicembre 2024)

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Dopo il 7 ottobre

di Micol Flammini

Le milizie di Hayat Tahrir al Sham (Hts) potrebbero nominare il vescovo latino Hanna Jallouf nuovo governatore provvisorio di Aleppo. Il rumor, inizialmente limitato a qualche account su X, è stato ripreso da Hassan I. Hassan, fondatore e direttore di New Lines Magazine. Hassan si è detto “scettico” che ciò possa accadere, ma se invece fosse tutto vero, “non ne sarei sorpreso: ormai è difficile definire qualcosa come impossibile”. L’eventualità pare inverosimile, tant’è che lo stesso Jallouf ha smentito tutto: “Siamo uomini di Dio, non ci occupiamo di politica”. Ma il punto rilevante della questione è un altro. Ciò che conta è la volontà di Hts di farsi percepire dal mondo come una compagine politica “normale”, senza marchi di sorta: niente legami con il terrorismo, tantomeno con quello islamista che fu di Abu Bakr al Baghdadi.
  Gli uomini di Nasrallah impararono a combattere al fianco dei soldati russi e anche dei mercenari della Wagner. Mentre combattevano, Israele li ha osservati per anni, li ha seguiti, ha tracciato la catena di comando: in Siria Hezbollah è diventato un libro aperto per Israele. Nasrallah nel 2015 non poteva sapere che sarebbe successo il contrario, non sapeva che lui sarebbe stato eliminato a Beirut in un pomeriggio di fine settembre e che proprio la caduta di Hezbollah sarebbe stata tra gli elementi determinanti di un possibile crollo del regime di Assad in Siria.
  Negli ultimi giorni Tsahal ha rafforzato la sua presenza lungo il confine con la Siria, mentre l’avanzata dei ribelli guidati dal gruppo Hayat Tahrir al Sham si spinge verso sud e si avvicina alla frontiera con Israele. Contemporaneamente i soldati israeliani e l’intelligence devono tenere sotto osservazione i jihadisti, che stanno sbaragliando l’esercito di Assad, e Teheran, che da sempre è un alleato prezioso del regime siriano e insieme a Mosca ha contribuito alla fortificazione del dittatore mandando i suoi uomini a fare guerra per mantenerlo al potere. Non ci sono alleati per Israele in questo stravolgimento siriano, c’è una situazione da osservare, ci sono opportunità da cogliere con cautela. Se Teheran ha aiutato Assad a sopravvivere, Assad ha dato a Teheran la possibilità di utilizzare la Siria come un crocevia per rifornire le sue milizie, per armare Hezbollah, renderla sempre più numerosa e dotata di un arsenale potente quanto quello di un esercito regolare. Nel 2015, tuonando nel suo discorso, Nasrallah aveva definito la Siria la “spina dorsale” delle milizie iraniane: intendeva Hezbollah in primo luogo, ma poi dal Libano le armi e il denaro di Teheran si spostavano altrove. L’occhio di Israele sulla Siria è sempre stato presente per contenere Teheran e anche adesso, nel caso doppio di un regime che cade sotto i colpi di gruppi che non saranno mai alleati, lo stato ebraico osserva due variabili: fino a che punto i ribelli jihadisti possono essere una minaccia e quanto la Repubblica islamica intende aiutare Assad a sopravvivere e utilizzare il momento per introdurre uomini e armi, da utilizzare poi contro Israele. Alcune fonti vicine a Teheran hanno raccontato del ritorno in Siria di Javad Ghaffari, comandante delle brigate al Quds, conosciuto come tanti con l’appellativo di “macellaio di Aleppo”, la prima città presa dai ribelli nella loro avanzata è stata distrutta da russi e iraniani con attacchi in aree residenziali prive di interesse militare, il titolo onorifico di “macellaio” è stato diviso da molti generali fra Mosca e Teheran. Ghaffari però non è stato soltanto ad Aleppo, ha combattuto in molte parti della Siria, è uno di campo, e nel 2021 venne richiamato: soltanto alcune fonti israeliane diedero una spiegazione per il suo ritorno a Teheran e dissero che il regime siriano era contrario ad alcune sue azioni contro soldati americani e ne comandò l’espulsione. Ghaffari è un generale incauto, vorace, pronto a tutto, il suo ritorno rappresenta una mossa disperata tanto per Teheran quanto per il regime di Assad e a Israele non è sfuggita.
  La Siria è stata un campo di addestramento per le guerre dei russi e degli iraniani, per Israele è stato un campo di osservazione per studiare il combattimento dei nemici, per seguirne i movimenti e per bloccare i crocevia delle armi che Teheran mandava a Hezbollah proprio attraverso la Siria. Dopo il 7 ottobre, Israele ha fatto una valutazione diversa riguardo alla propria sicurezza: l’Iran ha mosso attorno a Israele una strategia di accerchiamento che contava sul Libano, controllato da Hezbollah, come elemento di maggior prestigio; sulla Striscia di Gaza come punto di destabilizzazione; sulla Siria come punto di rifornimento per il passaggio degli interessi del regime e poi sugli houthi nello Yemen e le milizie sciite in Iraq. Per bloccare Hezbollah e non permettere a Teheran di ricostituire in tutta la sua potenza l’anello di fuoco, Israele ha scelto di togliere le certezze del regime iraniano, ha iniziato a colpire la Siria sempre più in profondità, bloccando le autostrade più usate per il trasporto delle armi, ha minacciato Assad, e in questo contesto si sono inseriti i ribelli, che da tempo preparavano l’avanzata. Non ci sono alleati per Israele in Siria, ma se crolla Assad, Teheran perde la sua “spina dorsale”. Dovrà ricostruire tutta la sua infrastruttura contro Israele.

Il Foglio, 7 dicembre 2024)

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L’Iran in fuga dalla Siria. Assad abbandonato a se stesso

La Forza Quds, elite delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, ha lasciato la Siria venerdì mattina, mentre è fuga generale anche dei diplomatici iraniani. Spariti nel nulla i combattenti sciiti iracheni. Assad è solo

Secondo fonti iraniane, l’Iran ha iniziato venerdì a evacuare i suoi comandanti militari e il personale dalla Siria, a dimostrazione dell’incapacità da parte di Teheran di contribuire a mantenere al potere il presidente Bashar al-Assad.
Tra coloro che sono stati evacuati nei vicini Iraq e Libano c’erano anche i comandanti di alto rango delle potenti Forze Quds, il ramo esterno del Corpo delle Guardie della Rivoluzione.
Questa decisione ha segnato una svolta notevole per Assad, il cui regime è stato sostenuto dall’Iran durante i 13 anni di guerra civile in Siria, e per l’Iran, che ha utilizzato la Siria come rotta chiave per fornire armi a Hezbollah in Libano.
Anche il personale delle Guardie, alcuni membri dello staff diplomatico iraniano, le loro famiglie e civili iraniani sono stati evacuati, tra loro anche i funzionari regionali. Gli iraniani hanno iniziato a lasciare la Siria venerdì mattina.
Sono state ordinate evacuazioni presso l’ambasciata iraniana a Damasco e presso le basi delle Guardie rivoluzionarie. Almeno una parte del personale dell’ambasciata è partita.
Alcuni partono in aereo per Teheran, mentre altri via terra diretti in Libano, Iraq e al porto siriano di Latakia, hanno affermato i funzionari.
“L’Iran sta iniziando a evacuare le sue forze e il suo personale militare perché non possiamo combattere come forza consultiva e di supporto se l’esercito siriano stesso non vuole combattere”, ha affermato in un’intervista telefonica Mehdi Rahmati, un importante analista e consigliere iraniano.
“La conclusione”, ha aggiunto, “è che l’Iran ha capito che non può gestire la situazione in Siria in questo momento con alcuna operazione militare e questa opzione è fuori discussione”.
Insieme alla Russia, l’Iran è stato il più potente sostenitore del governo siriano, inviando consiglieri e comandanti alle basi e in prima linea e sostenendo le milizie.
Ha inoltre schierato decine di migliaia di combattenti volontari, tra cui iraniani, afghani e sciiti pakistani, per difendere il governo e riconquistare il territorio dal gruppo terroristico dello Stato islamico al culmine della guerra civile siriana. Alcune delle forze iraniane, come la brigata afghana Fatemiyoun, erano rimaste in Siria presso basi militari gestite dall’Iran; venerdì, sono state trasferite anche a Damasco e Latakia, una roccaforte del governo di Assad. Un video pubblicato su account affiliati alle Guardie mostrava le Fatemiyoun in uniforme che si rifugiavano nel santuario di Seyed Zainab vicino a Damasco.
L’offensiva a sorpresa di una coalizione ribelle ha cambiato radicalmente il panorama della guerra civile. In poco più di una settimana, i ribelli hanno invaso grandi città come Aleppo e Hama, conquistato fasce di territorio in quattro province e si sono mossi verso la capitale siriana, Damasco.
Fonti iraniane hanno affermato che due generali di alto rango delle forze Quds iraniane, schierate per consigliare l’esercito siriano, sono fuggiti in Iraq mentre venerdì vari gruppi ribelli hanno preso il controllo di Homs e Deir al-Zour.
“La Siria è sull’orlo del collasso e noi la guardiamo con calma”, ha detto Ahmad Naderi, membro del Parlamento iraniano, in un post sui social media venerdì. Ha aggiunto che se Damasco cadesse, l’Iran perderebbe anche la sua influenza in Iraq e Libano, dicendo: “Non capisco il motivo di questa inazione, ma qualunque cosa sia, non è un bene per il nostro Paese”.
L’offensiva dei ribelli è arrivata in un momento di relativa debolezza per tre dei più importanti sostenitori della Siria. La capacità dell’Iran di aiutare è stata ridotta dal suo conflitto con Israele; l’esercito russo è stato indebolito dalla sua invasione dell’Ucraina; e Hezbollah, che in precedenza aveva fornito combattenti per aiutare il governo di Assad nella lotta contro lo Stato islamico, è stato duramente colpito dalla sua stessa guerra con Israele.
La caduta di un ulteriore territorio in mano alle forze ribelli, guidate dal gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham, potrebbe anche minacciare la capacità dell’Iran di fornire armi e consiglieri al regime di Assad o a Hezbollah.
Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, si è recato a Damasco questa settimana, incontrando Assad e garantendogli il pieno sostegno dell’Iran.
Ma venerdì a Baghdad, è sembrato fare una dichiarazione più ambigua. “Non siamo cartomanti”, ha detto in un’intervista alla televisione irachena. “Qualunque sia la volontà di Dio accadrà, ma la resistenza adempirà al suo dovere”.

(Rights Reporter, 7 dicembre 2024)

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Siria e poi Iran. Chi sfida Israele finisce a pezzi

Non avremmo assistito alla caduta di Aleppo se la forza complessiva dell'Iran non fosse stata devastata dall'annientamento da parte di Israele dei suoi alleati di Hezbollah e dallo schiacciamento delle difese aeree di Teheran

di Edward Luttwak

Dal quinto giorno della guerra in Medio Oriente (12 ottobre 2023, con l'articolo titolato «Che cosa otterrà l'invasione di Gaza da parte di Israele?»), ho cercato di spiegare e persino di prevedere gli eventi in corso, guidato dalla certezza che questa guerra non poteva essere fondamentalmente diversa dalle precedenti guerre di Israele, che risalgono al 1947 e che hanno portato a una vittoria israeliana decisiva attraverso sconfitte iniziali, aspre controversie politiche e molta confusione.
Non avremmo assistito alla caduta di Aleppo se la forza complessiva dell'Iran non fosse stata devastata dall'annientamento da parte di Israele dei suoi alleati di Hezbollah e dallo schiacciamento delle difese aeree di Teheran. Per questo la caduta di Aleppo suggerisce che il regime iraniano stesso potrebbe crollare, se questa guerra dovesse continuare per qualche altro round.
La situazione era molto diversa quando tutto è iniziato il 7 ottobre 2023 con l'attacco a sorpresa di Hamas e il leader iraniano Ayatollah Khamenei che allegramente vaticinava l'imminente distruzione di Israele.
D'altronde, da sempre tutte le guerre di Israele sono state accompagnate da una costante fiducia dei suoi nemici nella imminente vittoria. Tra la prima e l'ultima guerra, quando il presidente egiziano Abdul Gamal Nasser inviò l'esercito egiziano nel Sinai nel maggio 1967 e impose un blocco del Mar Rosso, sapendo che Israele avrebbe combattuto, accolse con favore l'opportunità: «Gli ebrei minacciano la guerra. Noi diciamo loro che siete i benvenuti. Siamo pronti alla guerra». I combattimenti iniziarono il 5 giugno e l'esercito e l'aviazione egiziana crollarono in quattro giorni.
Nell'ultima guerra, il riuscitissimo attacco a sorpresa di Hamas del 7 ottobre è stato accolto con reazioni entusiastiche e senza riserve non solo da parte di folle esaltate, ma anche da parte di professori statunitensi di ruolo, come Joseph Massad della Columbia, che l'ha definito «meraviglioso». L'8 ottobre, Hezbollah si è unito con fiducia alla guerra lanciando il primo di migliaia di razzi e missili, ricordando la profezia ottimistica del suo leader Hassan Nasrallah, per cui «Israele non è più forte di una tela di ragno».
Un altro elemento di continuità è che il primo ministro israeliano di turno è sempre visto come il peggior leader possibile per il Paese in tempo di guerra, o forse per qualsiasi Paese in qualsiasi momento. Alla vigilia della guerra del 1967, il premier e ministro della Difesa era Levi Eshkol, un fedele uomo di partito con l'atteggiamento di un contabile stanco, che rispondeva alle fragorose minacce di annientamento dei leader arabi con parole incerte e inficiate da un difetto di pronuncia, finché la popolazione furiosa non costrinse a promuovere a ministro della Difesa il suo principale nemico politico, l'eroe di guerra guercio Moshe Dayan. Quella fu la guerra che si concluse con la totale sconfitta dei nemici di Israele in soli sei giorni di combattimento.
Nella Guerra dello Yom Kippur dell'ottobre 1973 il primo ministro era Golda Meir, alla fine molto celebrata come una delle pioniere del Paese, ma all'epoca aspramente criticata per aver rifiutato l'autorizzazione agli attacchi aerei quando le offensive a sorpresa di Egitto e Siria furono imperdonabilmente rilevate troppo tardi per mobilitare l'esercito. Migliaia di morti, ma la guerra si concluse molto bene, con l'esercito israeliano che attraversava il Canale di Suez sulla strada per il Cairo e con entrambi i Paesi pronti a passare da un cessate il fuoco a una pace duratura.
Nella guerra del Libano del 1982, che spinse l'esercito dell'Olp con carri armati e artiglieria fuori dal Libano, il primo ministro Menachem Begin fu platealmente incapace di controllare il ministro della Difesa ed eroe di guerra Ariel Sharon. Tutti concordarono sul fatto che Begin fosse assolutamente inadatto alla carica, come nel caso del primo ministro Ehud Olmert nella guerra del 2006 contro Hezbollah. Con una formazione da ufficiale inferiore, Olmert permise al Capo di Stato maggiore, appartenente all'aeronautica, di condurre una guerra di bombardamenti che non uccise molti combattenti di Hezbollah, ma scatenò in compenso una guerra di propaganda a livello mondiale, quando i giornalisti libanesi sotto il controllo di Hezbollah presentarono all'opinione pubblica i combattimenti come un massacro di donne e bambini, senza mai menzionare gli uomini armati. Proprio come a Gaza dopo il 7 ottobre.
In questa guerra, Netanyahu è stato pre-condannato politicamente per la sua disponibilità ad accettare due imbarazzanti ultra-estremisti nella sua coalizione di governo, per raggiungere i 61 voti di una maggioranza risicata nel Parlamento israeliano di 120 seggi, e ulteriormente condannato dai «progressisti» israeliani per il suo tentativo di riformare il sistema giudiziario con la nomina di giudici da parte dei ministri della Giustizia, in contrapposizione ai giudici più anziani. Netanyahu è così odiato dai suoi oppositori infinitamente frustrati - le sue continue manovre di coalizione lo hanno tenuto al potere per due decenni - che persino la sua riforma giudiziaria, perfettamente democratica, è stata travisata come un «golpe giudiziario» in innumerevoli manifestazioni. I suoi nemici hanno trovato molti simpatizzanti negli Stati Uniti, ma non in Europa, dove tutti i giudici sono nominati da ministri eletti dal governo e non da giudici più anziani.
Un'ultima accusa che Netanyahu non può negare: avendo formato il suo primo governo di coalizione il 18 giugno 1996, a cui ne sono seguiti altri cinque ma con brevi interruzioni, Netanyahu è stato al comando nei due decenni in cui Israele non ha cercato di fermare Hamas mentre costruiva la sua vasta rete di tunnel da combattimento, né Hezbollah mentre accumulava migliaia di missili da bombardamento sempre più efficaci e decine di migliaia di razzi. L'unico rimedio possibile era quello di prevenire entrambe le minacce prima del 7 ottobre 2023, lanciando offensive massicce sia con le forze di terra sia con quelle aeree, ottenendo la sorpresa di attaccare in un giorno perfettamente tranquillo, senza crisi o provocazioni precedenti. Ma in realtà nessun governo democratico può fare una cosa del genere, tanto meno quello di Netanyahu, ogni decisione del quale viene immediatamente interpretata come del tutto egoistica, oltre che ovviamente del tutto sbagliata.
I critici che continuano a trovare nuovi modi per deplorare i due decenni di vergognoso abbandono, non notano però cos'altro è successo in quei vent'anni. L'economia israeliana ha fatto un balzo in avanti (gli israeliani, un tempo molto più poveri della media europea, sono diventati molto più ricchi), sono stati forniti rifugi antiaerei ben costruiti ovunque, evitando decine di migliaia di vittime solo nella guerra in corso. Con uno sforzo immane, Israele ha anche acquisito affidabilissime difese missilistiche balistiche «spaziali» che nessun altro Paese possiede. I combattimenti a terra hanno inoltre rivelato che i veicoli blindati israeliani sono attualmente i più avanzati al mondo, mentre il raid aereo contro la base iraniana più segreta di Parchim ha dimostrato la capacità di Israele di lanciare attacchi di precisione a lungo raggio anche con i suoi caccia F-16 più vecchi e a corto raggio, grazie ai loro missili balistici lanciati in aria. Completamente surclassati, i leader iraniani sanno ora che qualsiasi altro bombardamento missilistico contro Israele potrebbe evocare il bombardamento della sede di Khamenei a Teheran o, più concretamente, del principale terminale di esportazione del petrolio del Paese.
Niente di tutto ciò è bastato a evitare la terribile sorpresa e le uccisioni di massa del 7 ottobre, ma i due decenni di investimenti in tecnologie militari hanno fatto sì che il numero di vittime israeliane nei successivi 14 mesi di combattimenti urbani - normalmente molto letali anche senza i pericoli aggiunti dei tunnel - sia rimasto molto più basso del previsto. Invece di decine di morti o disabili al giorno, la media è di uno o due.
Nel corso di questi due decenni, ci sono stati anche altri sforzi precauzionali, sia da parte degli agenti segreti sia degli ingegneri, che alla fine hanno permesso la decapitazione in tre fasi dell'intera leadership di Hezbollah. Prima sono riusciti a dissuadere dall'uso degli smartphone in quanto irrimediabilmente insicuri, per suggerire invece l'uso di telefoni casuali se sollecitati da avvisi acustici, con nuove radio da campo come back-up. Poi lo stesso ufficiale della Guardia rivoluzionaria iraniana che ha convinto i leader di Hezbollah a privarsi dei loro smartphone facilmente compromessi, ha suggerito dove sarebbe stato meglio acquistare dei cercapersone su misura e anche delle ricetrasmittenti portatili. Quando entrambi hanno iniziato a esplodere, l'intera linea di comando si è dovuta riunire faccia a faccia nel bunker di comando di Hezbollah, a sud di Beirut, ultra profondo, multilivello e in ferrocemento, che nessuna bomba poteva penetrare. Ma dove il colpo di grazia è arrivato con una sequenza di bombe da 2000 libbre con rivestimento in acciaio che sono cadute verticalmente esattamente nello stesso punto, uccidendo Hassan Nasrallah e tutto il suo alto comando, insieme al loro responsabile e supervisore delle Guardie Rivoluzionarie iraniane. Una mossa che a sua volta ha reso impossibile il bombardamento concentrato di Israele, pianificato da tempo da Hezbollah con migliaia di missili e più di centomila razzi. Al contrario, l'aviazione israeliana ha così potuto distruggere le batterie di missili e razzi con attacchi aerei giorno dopo giorno, fino al cessate il fuoco.
La guerra rivela i veri punti di forza e di debolezza di ogni nazione, inducendo i suoi nemici alla giusta cautela. Il religioso al potere in Iran e i suoi generali della Guardia Rivoluzionaria, rigorosamente non rasati, si sono finora rifiutati di accettare le prove schiaccianti della superiorità militare di Israele su tutta la linea, così come i sostenitori più accesi della vittoria totale dei palestinesi «dal fiume al mare» in tutto il mondo. Poiché non partecipano mai ai combattimenti, gli entusiasti stranieri non possono mai essere dissuasi, anche se incitano i palestinesi che finiscono prigionieri o morti.
I leader iraniani non sono né studenti ingenui né accademici sprovveduti.
Avendo subìto la pesantissima conseguenza di un attacco aereo di un solo giorno da parte di una manciata di aerei, è probabile che si ritirino prudentemente. Se non lo faranno, ciò che è iniziato con la caduta di Aleppo potrebbe continuare fino in fondo e poi proseguire in Iran. Tutti i regimi devono finire, anche quello iraniano.

(il Giornale, 7 dicembre 2024)

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Palermo – Sinagoga nell’ex oratorio, firmato il nuovo protocollo

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Nel 2017, la notizia che l’Arcidiocesi di Palermo aveva deciso di concedere in comodato d’uso gratuito un oratorio di proprietà ecclesiastica per ricavarne una sinagoga fece il giro del mondo. “500 Years After Expulsion, Sicily’s Jews Reclaim a Lost History”, titolò tra gli altri il New York Times, richiamando la valenza anche simbolica dell’atto a oltre cinque secoli dall’espulsione degli ebrei dall’isola. Un nuovo documento siglato in queste ore nel capoluogo siciliano dà ulteriore slancio al progetto di trasformare l’ex Oratorio di S. Maria del Sabato in un luogo di culto e aggregazione ebraico, stabilendo che sia la città a farsi carico di tutte le spese di ristrutturazione previste nel primo accordo. A garantire una svolta in tal senso il protocollo condiviso dal Comune, dall’Arcidiocesi, dall’Ucei e dalla Comunità ebraica di Napoli, con le firme in calce del sindaco Roberto Lagalla, di monsignor Corrado Lorefice, della presidente Ucei Noemi Di Segni e della presidente della Comunità ebraica partenopea Lydia Schapirer.
  «Siamo molto contenti. Per diverso tempo questo “dono” era rimasto in sospeso, in attesa della possibilità di avviare il restauro. Ciò diventa oggi possibile grazie all’intervento del Comune», sottolinea Di Segni. «In raccordo con il rabbinato italiano, si procederà per far sì che questo spazio diventi luogo non solo di culto, ma anche di cultura ebraica. Un polmone che questa città merita di avere, perché non bisogna mai dimenticare che è la cultura a generare convivenza e dialogo».

• IL RICORDO DI EVELYNE AOUATE
  Di Segni dedica questa giornata a Evelyne Aouate, fondatrice dell’Istituto siciliano di studi ebraici e referente della sezione locale della Comunità di Napoli fino alla morte, avvenuta nel 2022. A rappresentarla erano oggi le sue figlie. Anche l’istituto sarà accolto nei locali della sinagoga. «Evelyne è stata la promotrice di tutto quanto, intessendo rapporti fondamentali», riconosce Di Segni. Concorda l’avvocato Giulio Disegni, vicepresidente Ucei: «Evelyne è stata l’anima della riscoperta dell’ebraismo a Palermo». Disegni, riflettendo sulla giornata odierna, parla di «documento importante per rafforzare la cultura del dialogo, a suo modo esemplare perché mette insieme amministrazione comunale, mondo cattolico e mondo ebraico, forse un unicum a livello europeo». Il progetto è a suo modo peculiare anche perché «la storia del Sud ebraico è spesso una storia di sinagoghe trasformate in chiese, mentre in questo caso abbiamo una chiesa che diventerà sinagoga, nel quartiere un tempo ebraico della città». Disegni loda al riguardo la decisione e lo slancio del sindaco Lagalla, ricordando che già al tempo in cui era rettore dell’Università di Palermo «decretò l’installazione a Palazzo Steri di una lapide in ricordo dei docenti ebrei cacciati nel 1938 dal fascismo; tra loro Emilio Segrè, vincitore nel 1959 del Premio Nobel per la Fisica».
  Il protocollo è un nuovo capitolo di una lunga storia di persecuzione, rimozione e oggi riscoperta e prevede che sarà ora il Comune a provvedere «con proprie risorse e mezzi» a dar corso alla ristrutturazione e all’adeguamento funzionale dello spazio. Sempre il Comune consentirà gratuitamente alla sezione ebraica di Palermo «lo svolgimento delle proprie attività di religione e di culto e di quelle ad esse correlate», mentre la Comunità di Napoli, in raccordo con la sua sezione, «assumerà la custodia dell’edificio e di tutte le sue pertinenze e con essa ogni onere e responsabilità». Tutti e tre i soggetti insieme, Comune, Comunità e sezione locale, promuoveranno poi «iniziative culturali e formative in occasione di ricorrenze ebraiche, per la conoscenza della lingua e della cultura ebraica, per la lotta ad ogni forma di antisemitismo e la Memoria». a.s.

(moked, 6 dicembre 2024)

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L'IDF elimina sette terroristi che hanno partecipato all'attacco del 7 ottobre

Le forze di difesa israeliane hanno affermato questo martedì di aver ucciso sette terroristi palestinesi che hanno partecipato agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, nelle ultime due settimane nel centro della Striscia di Gaza.
"In attacchi selettivi, le truppe della Brigata 990 hanno eliminato numerosi terroristi, tra cui sette terroristi che hanno partecipato al massacro del 7 ottobre", indicano in un comunicato militare. L'esercito ha identificato i membri di Hamas eliminati come Abd al Razzeq, Marzuk al Hur, Abd Abu Awad Yusri, Omar Abu Abdalah, Ahmed Zahid e Maad Abu Garboua.
Nei loro raid nella zona, le truppe hanno anche smantellato le infrastrutture “terroristiche” di Hamas, come strutture militari, posti di osservazione e postazioni di cecchini.
Il massacro di Hamas, costato la vita a 1.200 persone in territorio israeliano, ha dato origine alla controffensiva delle truppe israeliane contro la Striscia di Gaza che dura da più di un anno e che secondo Israele permette che le infrastrutture militari di Hamas e della Jihad islamica vengano distrutte.
Netanyahu ha anche giustificato la sua offensiva a Gaza garantendolo. Solo così potranno salvare le quasi cento persone – 35 le vittime accertate – che sono ancora sequestrate da Hamas, nonostante i parenti degli ostaggi gli chiedano da mesi di privilegiare i canali diplomatici.
Per ora, Hamas e il partito laico Fatah, antagonista da decenni, hanno concordato al Cairo i dettagli del comitato di professionisti indipendenti che governerà Gaza una volta finita la guerra, hanno confermato fonti palestinesi.
Durante i negoziati sull'accordo di cessate il fuoco a Gaza, Israele ha chiesto che Hamas non facesse parte del futuro governo dell'enclave dopo la guerra.

(Aurora Israel, 6 dicembre 2024)

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Tzahal allerta chi ha combattuto a Gaza

Dopo la decisione della Corte penale, viaggiare all’estero può essere rischioso

di Ludovica Iacovacci

Chi ha prestato servizio a Gaza dovrà scegliere le mete per la villeggiatura con più attenzione rispetto al passato. L’esercito israeliano ha detto di mettere in guardia decine di soldati dal viaggiare all’estero per potenziali accuse di crimini di guerra, in seguito al mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale contro il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il suo ex Ministro della Difesa Yoav Gallant.
Le forze di difesa hanno scoperto che gruppi anti-israeliani hanno presentato denunce contro circa 30 soldati che hanno prestato servizio nella Striscia di Gaza per presunti crimini di guerra. A 8 soldati che hanno viaggiato all’estero è stato immediatamente detto di tornare in patria per paura di essere arrestati o interrogati dal Paese che stavano visitando, riferisce il sito di notizie Ynet. I soldati avevano viaggiato a Cipro, in Slovenia e nei Paesi Bassi.
L’esercito israeliano non ha vietato ai soldati di viaggiare all’estero, ma conduce “valutazioni di rischio” su quanto sia sicuro che chi ha prestato servizio a Gaza si rechi in un determinato Paese. Per questo è consigliato ai riservisti che hanno recentemente combattuto di verificare mediante il Ministero degli Esteri il livello di pericolo di qualsiasi Stato desiderino visitare.
I funzionari sono preoccupati che alcuni alti ufficiali potrebbero affrontare un’azione penale presso la Corte penale internazionale, che il mese scorso ha emesso mandati di arresto per il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della difesa Yoav Gallant per presunti crimini di guerra. A rafforzare l’allerta ci sono video e foto pubblicati dai soldati sulle piattaforme social che potrebbero essere usate come prova contro loro stessi. Tale contenuto online è servito da materiale per gruppi filo-palestinesi nel compilare “liste nere” di soldati. Gli attivisti anti-Israele stanno monitorando attentamente gli account sui social media dei soldati poiché nel caso in cui condividano anche immagini dei loro viaggi all’estero prevedono di presentare accuse locali contro di loro: è per questo si consiglia ai soldati che stanno pianificando di recarsi all’estero di non pubblicare immagini che rivelino la loro posizione.
Nonostante gli esperti legali di Tzahal hanno valutato che la Corte penale internazionale non ricercherà gli ufficiali e i soldati di rango inferiore che stavano eseguendo gli ordini della leadership politica, i funzionari sono preoccupati che i comandanti anziani come i Capi di Comando nord e sud, o il Capo di Stato maggiore Herzi Halevi, possano essere presi di mira dalla CPI, ha detto il rapporto pubblicato mercoledì. Sebbene finora da parte della Corte non sono state monitorate tali azioni, il potenziale rischio è considerato una minaccia significativa.
“I procedimenti individuali contro soldati e ufficiali minori che viaggiano all’estero potrebbero essere basati su sentenze della CPI”, ha detto Tzahal. “A qualsiasi soldato o ufficiale, se viene arrestato, convocato per l’interrogatorio o sente di essere seguito o fotografato mentre è all’estero, Israele fornirà assistenza legale immediata attraverso la sua ambasciata locale o la stanza della situazione del Ministero degli Esteri”.
Un fattore chiave nella valutazione è vedere quali Paesi dicono che sosterranno i mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant. Ad esempio in Sudafrica, un soldato dell’esercito israeliano in possesso della cittadinanza sudafricana sarebbe probabilmente detenuto per essere interrogato dato che il ministro degli Esteri sudafricano Naledi Pandor ha detto che i soldati di Tzahal in possesso della doppia cittadinanza israeliano-sudafricana saranno soggetti a arresto immediato. Bisognerà monitorare nei vari Paesi i cambiamenti nella legislazione e nella giurisprudenza relativi ai funzionari israeliani e al personale militare: per questo Israele ha assunto esperti legali locali in dozzine di Stati.

(Bet Magazine Mosaico, 6 dicembre 2024)

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Conosciamo Abu Mohammed al-Golani, il Jihadista che sta conquistando la Siria

In qualità di comandante della divisione di al-Qaeda nella guerra civile siriana, Abu Mohammed al-Golani era una figura oscura che si è tenuta lontana dagli occhi dell’opinione pubblica, anche quando il suo gruppo è diventato la fazione più potente che combatteva il presidente Bashar al-Assad.
Oggi è il ribelle più noto della Siria, salito gradualmente alla ribalta dopo aver reciso i legami con al-Qaeda nel 2016, rilanciando il suo gruppo e affermandosi di fatto come il capo della Siria nordoccidentale controllata dai ribelli.
La trasformazione è stata messa in mostra da quando i ribelli guidati da Hayat Tahrir al-Sham (HTS) di Golani, precedentemente noti come Fronte al-Nusra, hanno conquistato Aleppo la scorsa settimana, con Golani in primo piano e che ha inviato messaggi volti a rassicurare le minoranze siriane che da tempo temono i jihadisti.
Mentre i ribelli entravano ad Aleppo, la città più grande della Siria prima della guerra, un video lo mostrava in tenuta militare mentre impartiva ordini al telefono, ricordando ai combattenti le direttive per proteggere la popolazione e vietando loro di entrare nelle case.
Mercoledì ha visitato la cittadella di Aleppo, accompagnato da un combattente che sventolava una bandiera della rivoluzione siriana, un tempo evitata da Nusra in quanto simbolo di apostasia, ma recentemente adottata da Golani, in omaggio all’opposizione più tradizionale in Siria.
Fin dall’inizio dell’offensiva, ha rilasciato dichiarazioni utilizzando il suo vero nome, Ahmed al-Sharaa.
“Golani è stato più intelligente di Assad. Si è riorganizzato, si è rimodellato, ha trovato nuovi alleati e ha lanciato la sua offensiva di fascino” verso le minoranze, ha affermato Joshua Landis, esperto di Siria e direttore del Center for Middle East Studies presso l’Università dell’Oklahoma.
Aron Lund, membro del think-tank Century International, ha affermato che Golani e HTS sono chiaramente cambiati, pur sottolineando che sono rimasti “piuttosto intransigenti”.
“È presto, ma il fatto che si stiano impegnando in questo sforzo dimostra che non sono più rigidi come una volta. La vecchia scuola di al Qaeda o lo Stato islamico non lo avrebbero mai fatto”, ha detto.
Golani e il Fronte al-Nusra sono emersi come le più potenti tra le numerose fazioni ribelli nate nei primi giorni dell’insurrezione contro Assad, più di un decennio fa.
Prima di fondare il Fronte al-Nusra, Golani aveva combattuto per al-Qaeda in Iraq, dove aveva trascorso cinque anni in una prigione statunitense. Tornò in Siria una volta iniziata la rivolta, inviato dal leader del gruppo dello Stato islamico in Iraq all’epoca – Abu Omar al-Baghdadi – per rafforzare la presenza di al-Qaeda.
Gli Stati Uniti hanno definito Golani un terrorista nel 2013, affermando che al Qaeda in Iraq gli aveva affidato l’incarico di rovesciare il regime di Assad e di stabilire la legge islamica della sharia in Siria, e che Nusra aveva compiuto attacchi suicidi che avevano ucciso civili e sposato una violenta visione settaria.
La Turchia, principale sostenitore straniero dell’opposizione siriana, ha definito HTS un gruppo terroristico, pur sostenendo alcune delle altre fazioni che combattono nel nord-ovest

• RAPIDA ESPANSIONE
  Golani ha rilasciato la sua prima intervista ai media nel 2013, con il volto avvolto in una sciarpa scura e mostrando solo le spalle alla telecamera. Parlando ad Al Jazeera, ha chiesto che la Siria fosse governata secondo la legge della sharia.
Circa otto anni dopo, si è seduto per un’intervista nel programma FRONTLINE dell’emittente pubblica statunitense, rivolto verso la telecamera e indossando una camicia e una giacca.
Golani ha affermato che la definizione di terrorista era ingiusta e che si opponeva all’uccisione di persone innocenti.
Ha raccontato nei dettagli come il Fronte al-Nusra sia cresciuto, passando dai sei uomini che lo avevano accompagnato dall’Iraq a 5.000 nel giro di un anno.
Ma ha detto che il suo gruppo non ha mai rappresentato una minaccia per l’Occidente. “Ripeto: il nostro coinvolgimento con al Qaeda è terminato, e anche quando eravamo con al Qaeda eravamo contrari a svolgere operazioni al di fuori della Siria, ed è completamente contro la nostra politica svolgere azioni esterne”.
Ha combattuto una guerra sanguinosa contro il suo vecchio alleato Baghdadi dopo che lo Stato islamico ha cercato di assorbire unilateralmente il Fronte al-Nusra nel 2013. Nonostante i suoi legami con al-Qaeda, il Fronte al-Nusra era considerato più tollerante e meno duro nei suoi rapporti con i civili e altri gruppi ribelli rispetto allo Stato islamico.
Successivamente, lo Stato Islamico è stato sconfitto nei territori che controllava sia in Siria che in Iraq da una serie di avversari, tra cui un’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti.
Mentre lo Stato Islamico stava crollando, Golani stava consolidando la presa di HTS nella provincia nordoccidentale siriana di Idlib, istituendo un’amministrazione civile chiamata Governo della Salvezza.
Il governo di Assad considera HTS un gruppo terrorista, insieme al resto dei ribelli insorti contro Damasco.
Con i ribelli musulmani sunniti ora in marcia, l’amministrazione HTS ha rilasciato diverse dichiarazioni volte a rassicurare gli alawiti sciiti e altre minoranze siriane. Una dichiarazione ha esortato gli alawiti a staccarsi dal governo di Assad e a far parte di una futura Siria che “non riconosce il settarismo”.
In un messaggio inviato mercoledì ai residenti di una città cristiana a sud di Aleppo, Golani ha affermato che saranno protetti e che le loro proprietà saranno salvaguardate, esortandoli a rimanere nelle loro case e a respingere la “guerra psicologica” del governo siriano.
“È davvero importante. Il principale leader ribelle in Siria, l’islamista più potente”, ha detto Lund.
“Hanno adottato i simboli della più ampia rivolta siriana…, che ora usano e cercano di rivendicare l’eredità rivoluzionaria: ‘noi siamo parte del movimento del 2011, il popolo che si è ribellato ad Assad, e siamo anche islamisti'”.

(Rights Reporter, 6 dicembre 2024)

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Trito canovaccio

Il decino di credibilità di una organizzazione come Amnesty International, dura inarrestabile da anni e non mostra neanche lontanamente di volersi fermare, come attesta il suo recente report, per altro contestato dalla sua stessa filiale israeliana, secondo cui Israele starebbe perpetrando a Gaza un genocidio.
Ormai, l’accusa di genocidio è diventata una boutade, e riesce difficile capire come, dopo più di un anno, le genocide forze israeliane, con i mezzi di cui pur dispongono, non siano state in grado di eliminare nemmeno l’un per cento della popolazione della Striscia, (approssimativamente tra i due milioni e duecento mila abitanti), nulla a che vedere con la efficacissima macchina nazista, e ai nazisti, si sa, gli israeliani vengono paragonati dai loro demonizzatori dalla fine degli anni Sessanta.
Quando questa guerra sarà finita e la spessa coltre della propaganda contro Israele si sarà dissolta, i fatti appariranno nella loro evidenza, come accadde nel 2008 dopo l’Operazione Piombo Fuso a Gaza, quando, come da copione, Israele venne accusato di crimini contro l’umanità, venne istituita all’ONU (e dove, se no?), una apposita commissione che alla fine dei suoi lavori condannò lo Stato ebraico per crimini di guerra, per poi essere ricusata clamorosamente qualche anno dopo, dallo stesso giudice che l’aveva presieduta, o come era accaduto precedentemente con “l’assedio di Jenin” nel 2002, quando i soldati israeliani vennero accusati di avere ucciso migliaia di civili e i numeri veri rivelarono che si era trattato di non più di cinquanta morti.
Attendiamo fiduciosi.
Da anni Amnesty International confeziona requisitorie contro Israele fondate su dati forniti in loco da ONG di estrema sinistra finanziate da governi stranieri o da testimoni collusi con l’Autorità Palestinese, https://www.linformale.eu/la-esibita-parzialita-di-amnesty-international/.
Terzomondismo e antioccidentalismo sono i suoi traini ideologici principali. Tenendo alti i loro stendardi, un paese come Israele, visto come avamposto americano e imperialista in Medio Oriente, secondo la vulgata confezionata a Mosca e sempre attuale, ha un posto fisso nel banco degli imputati.
Non c’è da preoccuparsi troppo, fa tutto parte dell’offensiva propagandistica contro lo Stato ebraico iniziata subito dopo il 7 ottobre, e che ha mobilitato come mai prima d’ora, piazze, media, istituzioni sovranazionali, chiese, tribunali, il mondo glamour degli attori e dei registi “impegnati” e quello degli artisti e degli intellettuali più accorati per la difesa dei diritti umani selettivamente scelti.
Non c’è da preoccuparsi nel senso che alla fine, Israele, come sta facendo, e come si impegnerà a fare con ancora più lena dopo la vittoria di Donald Trump, sta vincendo questa guerra. Ha rotto l’anello di fuoco iraniano, colpendo Hezbollah gravemente e riducendo Hamas al fantasma di se stesso, mettendo l’Iran sul chi vive e contribuendo a fare crollare il suo argine siriano.
Non siamo ancora all’epilogo, ma i risultati iniziano a palesarsi chiari. Un antico proverbio arabo recita, “I cani abbaiano, la carovana prosegue il suo tragitto”.

(L'informale, 6 dicembre 2024)

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Gerusalemme, scoperta la più antica iscrizione cinese sul Monte Sion

di Jacqueline Sermoneta

“Per sempre custodiremo l’eterna primavera”. È quanto riportato sulla base di un frammento di una ciotola in porcellana cinese, risalente a 500 anni fa e rinvenuta durante uno scavo sul Monte Sion, a Gerusalemme. Si tratta della più antica iscrizione in lingua cinese conosciuta in Israele, nonché la prima prova archeologica del legame storico tra la Terra d’Israele e la Cina.
  Il reperto è stato scoperto nell’ambito di un progetto, guidato dal Prof. Dieter Vieweger e coordinato dall’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) e dall’Istituto Protestante Tedesco di Archeologia (GPIA).
  In Israele erano già stati rinvenuti antichi oggetti in porcellana cinese, ma questo è il primo a recare un’iscrizione. La maggior parte dei manufatti scoperti risalgono al periodo bizantino o, anche prima, al periodo del Secondo Tempio, ben oltre 1.500 anni fa. Tuttavia, secondo il ricercatore dell’Università ebraica di Gerusalemme, Jingchao Chen, questo frammento di vaso con l’iscrizione, da lui stesso decifrata, è più recente: è datato tra il 1520 e il 1570 e risale al periodo della dinastia Ming.
  Alcuni documenti dimostrano, infatti, le strette relazioni commerciali fra l’Impero cinese e l’Impero ottomano, che governava in Terra d’Israele nel XVI secolo. Ciò spiega come il vaso cinese sia giunto a Gerusalemme. Tra il XV e il XVII secolo, secondo quanto riportato dagli annali della dinastia Ming, venti delegazioni ottomane visitarono la corte imperiale di Pechino. I rapporti commerciali tra questi due imperi sono descritti anche nei libri di viaggio dei mercanti di quel periodo. Per l’appunto, gli scritti dello studioso cinese Ma Li del 1541 raccontano la presenza di colonie di mercanti cinesi a Beirut e a Tripoli e citano anche altre importanti città come Gerusalemme, Il Cairo e Aleppo.
  “Nella ricerca archeologica sono note testimonianze di relazioni di commercio, per esempio, di varie spezie, tra i mercanti della Terra d’Israele e l’Estremo Oriente già in epoche precedenti. – ha affermato il direttore dell’IAA, Eli Escusido, – Ma è affascinante incontrare prove di queste relazioni anche sotto forma di una vera e propria iscrizione, scritta in lingua cinese, e in un luogo inaspettato, sul Monte Sion a Gerusalemme”.

(Shalom, 6 dicembre 2024)

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Ricercatori israeliani scoprono il legame genetico tra la mutazione negli ebrei ashkenaziti e l'autismo

Un gruppo di scienziati del Rambam Medical Center di Haifa, guidati da Sharon Bratman-Morag e Karin Weiss, ha identificato una mutazione genetica nel gene TBCB (Tubulin Folding Cofactor B), molto comune negli ebrei azkenazi, che ha un legame con un tipo di disturbo dello spettro autistico (ASD). 
  Lo stesso studio ha rivelato che 1 ebreo ashkenazita su 80 è portatore della mutazione del gene TBCB e, se entrambi i genitori sono portatori, c'è una probabilità del 25% che il loro figlio o figlia erediti la mutazione e presenti i sintomi correlati.
  La scoperta apre nuove possibilità per la diagnosi precoce e la gestione di questa condizione genetica. Sulla base di ciò, a novembre il Ministero della Salute israeliano ha incluso un test per individuare questa mutazione nel paniere sanitario nazionale, rendendolo accessibile a tutte le coppie che intendono avere figli.
  Oltre ai sintomi dell’ASD, le persone con questa mutazione possono sviluppare paraparesi spastica ereditaria, un disturbo motorio che causa rigidità muscolare e rende difficile camminare e mantenere l’equilibrio.

(Aurora Israel, 5 dicembre 2024)

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Israele inizia a riaprire i parchi nazionali del nord

La graduale riapertura è un barlume di speranza per il nord, ma le cicatrici della guerra restano visibili.

L'Autorità israeliana per la natura e i parchi ha annunciato martedì la prima fase della riapertura dei parchi nazionali e delle riserve naturali nel nord di Israele, con la riapertura dei primi parchi prevista per mercoledì. La decisione arriva dopo mesi di chiusura a causa del conflitto in corso con il gruppo terroristico Hezbollah in Libano.
Il ministro della Protezione ambientale Idit Silman ha salutato la riapertura come un “momento emozionante e pieno di speranza” dopo un anno di combattimenti che hanno devastato il nord di Israele.
L'opportunità di tornare a visitare i magnifici paesaggi del nord è un barlume di speranza per ricongiungerci alla nostra natura, alla nostra terra e al nostro patrimonio”, ha dichiarato.
Nella prima fase saranno riaperte sette aree:

Tuttavia, sei aree rimangono chiuse per la riabilitazione, tra cui la Riserva Naturale di Ein Afek e la Riserva Naturale di Nahal Hermon (Banias).
Raya Shoraki, amministratore delegato dell'Autorità israeliana per la natura e i parchi, ha dichiarato: 

    “Siamo lieti di riaprire al pubblico le aree settentrionali, alcune delle quali sono rimaste chiuse per più di un anno dall'inizio del conflitto. Il personale dell'Autorità sta lavorando diligentemente per preparare e allestire tutti i siti per dare il benvenuto ai visitatori negli amati luoghi che tutti abbiamo perso”.

FOTO
Cavalli selvaggi pascolano all'alba sulla Valle di Hula, vicino alla Strada 978 nelle Alture del Golan israeliano, 27 novembre 2024

Sebbene questa riapertura porti un senso di rinnovamento, le cicatrici del conflitto nel nord di Israele sono ancora chiaramente visibili. Gli attacchi di Hezbollah hanno devastato il paesaggio della regione, bruciando oltre 57.000 ettari di terreno. Gli incendi non solo hanno distrutto gli habitat naturali, ma rappresentano anche una sfida importante per le comunità locali e la fauna selvatica. Le foreste e i campi di Israele nel nord del Paese portano le cicatrici di numerosi incendi. La terra annerita e gli alberi carbonizzati ricordano il conflitto in corso. Il direttore esecutivo del Keren Kayemeth LeYisrael - Fondo Nazionale Ebraico Regione Nord, Shali Ben Yishai, ha descritto la guerra all'inizio di quest'anno come “il più grande disastro naturale dalla fondazione di Israele, e ci vorranno anni per rimediare”.
In risposta a queste sfide, a settembre il KKL-JNF si è impegnato a sostenere il nord di Israele con circa 5 milioni di dollari (4,7 milioni di euro). Questi fondi saranno utilizzati per rafforzare la capacità della regione di combattere gli incendi e proteggere le sue risorse naturali. (JNS)

(Israel Heute, 5 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Roma, 120 anni del Tempio Maggiore

Fadlun: "Fieri di essere italiani ed ebrei"

"La vicinanza del presidente, oggi di nuovo, è per noi fonte di grande importanza, perché ci fa sentire solidarietà e chiarezza della nostra nazione. Siamo fieri di essere italiani e di essere ebrei, in un momento in cui antisemitismo e antisionismo si fondono. Perché l'antisionismo è questo, una forma di antisemitismo. La presenza del presidente ci rafforza nella nostra fede e nella certezza della nostra democrazia", lo ha detto Victor Fadlun, presidente della comunità ebraica di Roma, a margine delle celebrazioni per i 120 anni del Tempio Maggiore alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
In merito a quanto sta accadendo in Medio Oriente, Fadlun risponde: "Oggi purtroppo si parla addirittura in termini di ipotetico genocidio, ma sono termini che respingiamo e che sono fuori luogo. Il genocidio è quello che cercarono di compire i nazisti. La definizione di genocidio fu fatta dopo il nazismo, nelle conferenze in cui si cercava di capire cosa fosse il crimine commesso. Oggi Israele sta combattendo una guerra di sopravvivenza contro l'Iran e i proxy, che hanno come dichiarato intento la distruzione dello stato di Israele e il martirio di tutti gli ebrei. Quindi è una guerra di resistenza, in cui dovrebbe essere unito tutto l'occidente, di cui Israele è il baluardo nel mondo orientale".
Infine, anche un commento per i 100 ostaggi ancora nelle mani di Hamas dopo il 7 ottobre: "Questi 100 ostaggi sono rinchiusi in zone terribili perché sono ebrei. Questo è chiaramente antisemitismo puro e razzismo", conclude.

(LaPresse, 5 dicembre 2024)


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"Hamas in ebraico vuol dire violenza", il messaggio di Di Segni a Mattarella

"Con una sinistra evocazione, la parola violenza traduce il termine ebraico biblico che è hamàs, sì proprio hamàs". Lo ha detto il Rabbino Capo Riccardo Di Segni al Tempio Maggiore di Roma per la cerimonia di celebrazione dei 120 anni della Sinagoga.

IL TESTO INTEGRALE DEL MESSAGGIO DI SALUTO A MATTARELLA
"Siamo qui a celebrare i primi 120 anni di questa Sinagoga. La prima volta che compare nella Bibbia il numero 120, proprio collegato agli anni, è al sesto capitolo della Genesi in cui si formula un giudizio severo per l’uomo che si sta comportando male e si annuncia che i suoi giorni saranno 120 anni. Per qualche interprete sarebbe l’annuncio che da quel momento la durata della vita dell’uomo non avrebbe superato i 120 anni, ma per la maggioranza degli interpreti è l’annuncio di una proroga concessa all’umanità; non vi state comportando bene, sappiate che per questo rischiate l’estinzione, vi dò 120 anni per ravvedervi. L’annuncio non fu preso sul serio e alla fine arrivò il diluvio. In base a questi racconti, quale è la lezione e quale è la sfida per noi una volta arrivati al traguardo dei 120 anni? Coloro che edificarono questo Tempio non ebbero una proroga tanto lunga.
Le loro certezze e le loro speranze si infransero molto prima davanti alle tragedie che colpirono l’Europa e si accanirono contro questa comunità. Ma non ci furono solo eventi tristi. Ci furono gioie collettive come la liberazione, la Costituzione repubblicana, la nascita dello Stato d’Israele e le sue vittorie, la creazione di nuovi rapporti con la cristianità segnata dalle visite di tre pontefici. E insieme a questo le gioie dei singoli e delle famiglie, che festeggiano qui i figli che crescono, celebrano matrimoni e festeggiano persino le nozze di diamante. Sembra che dai tempi lontani del diluvio la dinamica non sia più quella della fine del mondo, preannunciata, e totale, ma che tutto avvenga in una dimensione più locale fatta di gioie e dolori ai quali dobbiamo prepararci. Resistere, sperare e costruire. La storia di questo edificio e della comunità che rappresenta serve a dimostrare che ce la possiamo fare, che non c’è limite alla misericordia divina ma che c’è da parte nostra il dovere di comportarci bene. Il diluvio arrivò perché, dice la Bibbia 'la terra si era corrotta e si era riempita di violenza' (Genesi 6:11 e 13). Con una sinistra evocazione, la parola violenza traduce il termine ebraico biblico che è hamàs, sì proprio hamàs. La sopravvivenza della nostra società sta nella convivenza pacifica di cittadini che rispettano le leggi e che condividono il dovere di costruire insieme un mondo migliore. E tutto questo non riguarda tempi eccezionali ma è l’obbligo della quotidianità.
Il rabbino Spagnoletto nel suo intervento spiegherà alcuni simboli di questo edificio che tra l’altro conserva la memoria della Sicilia da cui arrivarono gli esuli del 1492. Ogni dettaglio di questo Tempio tramanda una storia, che spesso è storia di sofferenze, ma anche di tenacia, di volontà di sopravvivere e vivere, di trasformare l’umiliazione in bellezza.
Dopo le turbolenze del secolo scorso basate su ideologie e nazionalismi, il primo quarto di questo secolo sta conoscendo altre forme di turbolenze sanguinose. Il mondo occidentale sembra quasi impotente a fronteggiare le nuove sfide. La piccola grande storia della nostra comunità e del Tempio che la rappresenta può dare un contributo positivo. Perché è un monito contro le derive violente, le espulsioni, le emarginazioni -il ghetto di Roma era proprio qui-, la privazione dei diritti. Ma è l’esempio virtuoso di come una comunità può rimanere fedele alle sue tradizioni e al contempo integrarsi virtuosamente, rappresentando una ricchezza per Roma e l’Italia.
Ogni società anche quella più solida, è a rischio, se non avverte i sintomi della crisi e non vi pone riparo per tempo. I nostri valori fondanti, che sono quelli stabiliti dalla Costituzione, vanno difesi e promossi. La costituzione, la carta fondamentale scritta dopo la fine della barbarie nazifascista, - aggiunge Di Segni - il documento che afferma il principio di uguaglianza dei cittadini, e che tra l’altro, porta la firma di un ebreo, Umberto Terracini. Per questo, Signor Presidente, in tempi difficili come questi, la nostra comunità guarda a Lei come il primo garante di quel testo e della stabilità del nostro Paese.
Anche se la storia e la attualità concentrano la nostra attenzione, non dobbiamo dimenticare il senso essenziale questo edificio. Quando il re Salomone costruì il primo Tempio di Gerusalemme si pose una domanda, parlando al Signore: 'Il cielo e la terra non Ti possono contenere e che cosa può pretendere questo edificio', benché grandioso? (1 Re 8:27). La risposta sta già nelle parole dell’Esodo, con cui il Signore ordina la costruzione del tabernacolo: 'mi faranno un santuario e abiterò in mezzo a loro' (Es. 25:8). Si nota subito che non è detto che abiterò nel santuario', ma abiterò in mezzo a loro. Ogni sinagoga è un piccolo santuario. Serve a portare il sacro in mezzo a noi, e ad avvicinare noi al sacro. Ad ognuno di noi, noi tutti, che siano per questo disponibili. E sacro, nell’ebraismo, è ciò che innalza l’umanità, che gli dà dignità, che riconosce l’immagine divina in ogni essere umano. Di questo abbiamo bisogno, tanto più in momenti come questi. Grazie signor Presidente".

(Adnkronos, 5 dicembre 2024)

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Hamas e gli ostaggi: sei uccisi nei tunnel, recuperato un corpo e le rivelazioni sulle direttive degli assassini

di Luca Spizzichino

A tre mesi dal ritrovamento dei corpi a Khan Younis, l’IDF ha confermato che sei ex ostaggi israeliani sono stati probabilmente giustiziati dai loro carcerieri durante un bombardamento aereo su un tunnel di Hamas avvenuto lo scorso febbraio.
  Le vittime — Alex Dancyg (75 anni), Yagev Buchshtav (35 anni), Chaim Peri (79 anni), Yoram Metzger (80 anni), Nadav Popplewell (51 anni) e Avraham Munder (78 anni) — erano state rapite durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. I loro corpi sono stati recuperati dall’esercito israeliano il 20 agosto 2024 in un tunnel situato nel complesso residenziale di Hamad Town a Khan Younis.
  Secondo l’indagine presentata alle famiglie delle vittime, gli ostaggi sono stati uccisi poco dopo un bombardamento aereo israeliano del 14 febbraio, che aveva colpito una rete di tunnel utilizzata da Hamas. Gli ostaggi erano trattenuti in condizioni estremamente precarie: un passaggio stretto lungo appena 100 metri, sigillato da sacchi di sabbia e da una porta metallica, senza alcuna possibilità di sopravvivenza a lungo termine. Il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha descritto il tunnel come “inadatto alla sopravvivenza umana” per le sue dimensioni anguste e l’assenza di condizioni vivibili.
  Sempre ieri, l’IDF e lo Shin Bet hanno annunciato il recupero del corpo di Itay Svirsky, un ostaggio israeliano rapito il 7 ottobre 2024 da Hamas e assassinato durante la prigionia. Il corpo è stato recuperato nella Striscia di Gaza, a 14 mesi dalla cattura e quasi un anno dalla sua uccisione. Durante una conferenza stampa, Hagari ha spiegato che il recupero è avvenuto durante un’operazione “i cui dettagli non possono essere divulgati per motivi di sicurezza operativa.”
  Svirsky, rapito durante l’attacco di Hamas nell’ottobre 2024, sarebbe stato assassinato circa quattro mesi dopo. Durante la prigionia, era stato detenuto insieme a Yossi Sharabi e Noa Argamani. L’IDF ha respinto la versione di Hamas, secondo cui Svirsky sarebbe morto in un bombardamento, confermando invece che l’uccisione è avvenuta giorni dopo l’attacco in cui perse la vita Sharabi.
  Secondo quanto riportato da Reuters sempre nella giornata di ieri, i leader di Hamas hanno ordinato ai propri operativi di “neutralizzare gli ostaggi” in caso di operazioni di salvataggio da parte di Israele. L’informazione proviene da un presunto “documento interno” che dà le istruzioni sulla custodia degli ostaggi israeliani. Il documento, datato 22 novembre, sostiene che Hamas avrebbe ricevuto informazioni su un possibile piano israeliano per un’operazione di salvataggio, simile a quella condotta a giugno nel campo di Nuseirat, in cui furono liberati quattro ostaggi israeliani. Nonostante non vi siano indicazioni precise su quando potrebbe avvenire questa operazione o se Israele abbia informazioni sul luogo di detenzione degli ostaggi, il documento raccomanda agli operativi di “non considerare le possibili conseguenze” nell’eseguire gli ordini.

(Shalom, 5 dicembre 2024)

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Onu: decisa con la maggioranza una conferenza internazionale a giugno 2025 per creare lo Stato palestinese

di Ludovica Iacovacci

L’Assemblea Generale dell’Onu ha deciso che dal 2 al 4 giugno 2025 a New York sarà convocata una conferenza internazionale per cercare di dare il via a una soluzione a due Stati, preceduta da una riunione preparatoria che si terrà a maggio 2025.
Rivolgendosi ai 193 membri dell’Assemblea, il Presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, il 77enne camerunense Philémon Yang, ha ribadito l’importanza della soluzione dei due Stati definendola “l’unica via per una pace duratura”. Yang ha aggiunto che tale soluzione, concepita per la prima volta nella risoluzione 181 del 1947 dell’Assemblea generale adottata 77 anni fa, resta ancora fuori portata e si è concentrato sulla “negazione dello Stato palestinese”. Preme precisare che 77 anni fa come oggi, è stata soltanto la parte araba a non aver mai accettato l’esistenza di una controparte.
La “Conferenza internazionale di alto livello per la soluzione pacifica del Medio Oriente e l’attuazione della soluzione dei due Stati” sarà co-presieduta da Francia e Arabia Saudita. “Nei prossimi mesi, insieme moltiplicheremo e combineremo le nostre iniziative diplomatiche per portare tutti su questo percorso”, ha detto Macron citando l’AFP.
La risoluzione ( A/79/L.23 ) è stata approvata con 157 voti favorevoli e 8 contrari (Argentina, Ungheria, Israele, Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea e Stati Uniti), con 7 astensioni (Camerun, Repubblica Ceca, Ecuador, Georgia, Paraguay, Ucraina e Uruguay). L’Italia ha votato a favore.
La risoluzione ha anche chiesto la fine dell’”occupazione israeliana iniziata nel 1967”, inclusa “Gerusalemme Est”. L’Assemblea ha detto che i due Stati dovrebbero “vivere fianco a fianco in pace e sicurezza all’interno di confini riconosciuti, sulla base dei confini pre-1967”.
Su questo punto, l’Australia per la prima volta dal 2001 ha cambiato il suo posizionamento politico votando a favore della misura che chiede a Israele di ritirarsi dalla Giudea e Samaria e da Gaza. Canberra ha rotto con la sua consolidata opposizione adottata per due decenni. Peter Dutton, leader dell’opposizione australiana, ha criticato il cambiamento di politica del governo accusando il primo ministro Anthony Albanese di aver “venduto” la comunità ebraica del Paese per conquistare i cuori degli elettori progressisti. Dopo il 7 ottobre, gli attacchi antiebraici in Australia sono quadruplicati, secondo il Consiglio esecutivo dell’ebraismo australiano (ECAJ) in un rapporto pubblicato domenica. Un totale di 2.062 incidenti sono stati registrati tra ottobre 2023 e settembre 2024, molto più dei 495 incidenti rilevati un anno prima. Il totale non include le dichiarazioni antisemite fatte sui social media.
Infine, il testo della risoluzione invita le parti ad “agire in modo responsabile” per invertire “le tendenze negative, comprese tutte le misure adottate sul campo che contravvengono al diritto internazionale”. Più specificamente, l’Assemblea chiede ancora una volta che “i diritti inalienabili del popolo palestinese, primo fra tutti il diritto all’autodeterminazione e il diritto a creare uno Stato indipendente, siano realizzati”. Tolto Israele, solo 7 Stati su 193 sono contrari alla creazione dello Stato palestinese.
Parallelamente ai vertici internazionali, si muovono anche i tavoli della diplomazia palestinese per il futuro della Striscia, luogo del mondo dove la gran parte dei gazawi non vede Israele come una forza liberatrice, bensì come un nemico da combattere ad ogni costo. Hamas e Fatah, il partito del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, hanno concordato di formare un comitato per l’amministrazione della Striscia di Gaza dopo la guerra: Hamas si riconferma, in tal modo, espressione di larghe fasce del popolo palestinese.
Inoltre, nella stessa giornata l’Assemblea Generale ha votato per altre due risoluzioni. La prima è intitolata “Divisione del Segretariato per i diritti dei palestinesi ” (documento A/79/L.24). La votazione registrata ha avuto 101 voti a favore, 27 contrari e 42 astensioni. L’Assemblea ha chiesto al Segretario generale di continuare a fornire risorse e chiede di garantire che la Divisione continui a svolgere efficacemente il suo lavoro.
La seconda risoluzione, adottata dall’Assemblea con 97 voti a favore, 8 contrari (Australia, Canada, Israele, Stati Federati di Micronesia, Palau, Papua Nuova Guinea, Regno Unito, Stati Uniti) e 64 astensioni, riguarda “Il Golan siriano” (documento A/79/L.19). Il documento dichiara che Israele non ha rispettato la risoluzione 497 (1981) del Consiglio di Sicurezza e stabilisce che la decisione di imporre la propria giurisdizione sul “Golan siriano occupato” è nulla e non valida. Si invita inoltre lo Stato ebraico a riprendere i colloqui sui binari siriani e libanesi e a ritirarsi da tutto il “Golan siriano occupato”.
Insomma, una giornata di festa per Hamas e Bashar al-Assad nel rispetto del cosiddetto “diritto internazionale”.

(Bet Magazine Mosaico, 5 dicembre 2024)

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Il conflitto in Siria e la crisi della strategia iraniana

di Ugo Volli

• L’AVANZATA DEI RIBELLI FILOTURCHI
  La situazione in Siria sembra essersi provvisoriamente stabilizzata. Le varie forze sunnite filoturche ma legate anche all’eredità dell’Isis e di Al Qaida, oggi riunite sotto la sigla HTS (Commissione per la salvezza della Siria), controllano un’ampia zona nel nord-ovest del paese, dai confini turchi alla seconda città del paese, Aleppo, a Idlib, fino a Hama, a metà strada con Damasco. Hanno conquistato aeroporti con aerei e elicotteri, fabbriche d’armi, impianti antimissile, grandi centri abitati, industrie; procedendo in direzione sud hanno anche tagliato i collegamenti terrestri est ovest fra il centro del paese e la costa, isolando le basi navali russe. Se raggiungeranno la prossima città del loro percorso, Homs, a meno di 50 km dalle posizioni attuali, bloccheranno l’imbocco orientale della valle della Bekaa, il principale accesso al Libano (e a Hezbollah) per l’Iran. Sono stati segnalati anche vari episodi di appoggio all’HTS nel sud del paese, nella capitale Damasco e ai confini con la Giordania. L’annunciata controffensiva delle forze governative, come l’intervento di reparti sciiti dall’Iraq e addirittura dell’esercito iraniano, per ora non si sono realizzate. Le forze curde, sostenute dagli Stati Uniti, si sono ritirate dalle zone di contatto. A contrastarli per ora sono solo i bombardamenti dell’aviazione russa. Il rallentamento della loro avanzata, all’inizio travolgente, deriva dalla necessità di consolidare le linee di rifornimento e di difesa, che si sono molto estese, e forse dalla pressione di Usa e Russia sulla Turchia.

• IL SIGNIFICATO STRATEGICO
  L’irruzione dell’HTS costituisce uno sviluppo strategico importantissimo per tutto il Medio Oriente. L’incapacità del governo siriano, pur appoggiato dalla Russia e dall’Iran, di tenere la parte più ricca e popolosa del paese, mostra non solo il fallimento della sanguinaria dittatura di Assad, ma quello della grande strategia imperialista dell’Iran, concepita quindici anni fa dal generale Qasem Soleimani, cioè la realizzazione di un “ponte terrestre” fra l’altopiano persiano e il Mediterraneo, attraverso Iraq, Siria e Libano, e la conseguente accensione di un “anello di fuoco” intorno a Israele, capace di isolare e distruggere lo Stato ebraico. Proprio il tentativo di iniziare a sfruttare questo “anello” con il pogrom del 7 ottobre e gli attacchi missilistici di Hezbollah, con la conseguente reazione israeliana che ha decimato la forza dei terroristi libanesi, ha provocato le difficoltà attuali del regime siriano. Erano stati infatti proprio i mercenari di Hezbollah a evitare la caduta di Assad. La loro debolezza attuale lo mette di nuovo a rischio.

• I PRECEDENTI
  La situazione attuale in Siria non è infatti una novità assoluta. Il regime di Assad non si era mai del tutto ripreso dalle conseguenze delle agitazioni del 2011 (che la stampa occidentale aveva descritto col nome molto inappropriato di “primavere arabe”). La rivolta integralista dei Fratelli Musulmani sunniti contro il regime alawita protetto dagli sciiti iraniani era stata repressa da Assad in maniera crudelissima, soprattutto perché Obama non aveva fatto rispettare la “linea rossa” da lui stesso proclamata contro le armi chimiche; si era affermato poi in parte della Siria lo “Stato Islamico” (ISIS). Dopo la sua sconfitta si era formato un equilibrio complicato: il governo controllava i grandi deserti al confine sudorientale con l’Iraq e la Giordania, il confine con Israele, la striscia fra Damasco e Aleppo fino alla costa; i curdi tenevano una zona a nordest, fra l’Iraq e la Turchia; i ribelli che oggi avanzano avevano già un loro territorio a Nordovest vicino al confine turco; c’erano basi russe sulla costa e anche sul Golan, dove erano insediate pure truppe di Hezbollah. Gli americani avevano una base a sudest, vicino alla Giordania. La spinta dell’Hts ha più che raddoppiato il loro territorio e rischia di far saltare questi precari equilibri.

• GLI INTERESSI DI ISRAELE
  A Israele naturalmente la crisi della strategia imperialistica degli ayatollah e soprattutto il blocco delle vie di rifornimento delle armi iraniane a Hezbollah non possono che far piacere; anche le difficoltà di un nemico permanente come Assad non dispiace – anche se certi media hanno rilanciato la voce poco plausibile che il dittatore siriano avrebbe chiesto aiuto proprio allo Stato ebraico che in linea di principio non lo avrebbe rifiutato. Ma non vi è dubbio che i jihadisti dell’Hts con la loro ideologia integralista e i loro metodi terroristi siano dei nemici pericolosi per cui Israele non ha alcuna simpatia. Averli al confine del Golan aumenterebbe il rischio di avere un nuovo fronte attivo di offensiva terroristica. Del resto il loro grande protettore Erdogan non ha mancato occasione negli ultimi anni per esprimere odio per lo Stato ebraico e solidarietà per il terrorismo di Hamas. A Israele può dunque convenire che l’azione dei ribelli si estenda fino a Homs, rendendo più difficile l’accesso dell’Iran al Libano, ma non è auspicabile la loro conquista di Damasco e tantomeno del Golan siriano.

• LE PROSPETTIVE
  È impossibile prevedere come si evolverà la situazione. Iran e Russia hanno certamente i mezzi per bloccare i ribelli, ma non è detto che si sentano di usarli, impegnati come sono su altri fronti. Gli Usa non sembrano avere deciso un intervento. Né il regime siriano né Hezbollah sembrano in grado da soli di respingere Hts; potrebbero intervenire milizie irachene, ma della loro capacità bellica si sa poco. La Turchia potrebbe negoziare su diversi fronti (Russia, Iran, la stessa Siria) dei vantaggi politici come prezzo per fermare i suoi protetti, che però sono divisi in gruppi autonomi, non tutti facilmente controllabili. E vi sono molti in Siria che attendono una vendetta per le stragi di massa di cui Assad si è reso responsabile nell’ultimo decennio. Insomma la situazione è aperta e incerta e potrebbe degenerare in una grande guerra. Ma dato che non è possibile attribuirne la responsabilità a Israele, pochi vi badano.

(Shalom, 4 dicembre 2024)

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La paura di Israele: jihadisti con i gas di Assad

Gerusalemme teme che, nel caos partito da Aleppo, le armi chimiche del regime possano finire nelle mani degli estremisti filo iraniani o filo turchi. Ribelli alle porte di Hama, la capitale degli alawiti, la componente religiosa più vicina al leader. 

di Stefano Piazza

Prosegue senza sosta la marcia dei jihadisti siriani che ieri hanno conquistato quattro nuove città - Halfaya, Taybat Al Imam, Maardis e Soran. che si aggiungono alle altre sedici già sotto il loro controllo. La notizia della conquista di queste città è stata riferita dall'amministrazione delle operazioni militari dei jihadisti ed è stata confermata dall'Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdh), con sede nel Regno Unito. I ribelli hanno anche dichiarato di aver eliminato 50 soldati governativi durante le operazioni militari di ieri. Questo sviluppo rappresenta un'importante vittoria per il fronte anti-Assad, guidato dal gruppo jihadista salafita Hayat Tahrir Al Sham e dalle forze dell'opposizione sostenute dalla Turchia. Attualmente, i ribelli si trovano a meno di 10 chilometri da Hama, la quarta città più popolosa della Siria ed è evidente che tutto quanto accade in questi giorni ha avuto una minuziosa pianificazione durata mesi. 
  Hama è una città strategica nella Siria centrale, sulla strada che collega Aleppo alla capitale Damasco (obiettivo finale dei jihadisti) e secondo RamiAbdel Rahman, direttore dell'Osdh «l'avanzata dei ribelli su Hama minaccia la base popolare del regime», dato che i dintorni della città sono popolati da alawiti, la comunità da cui proviene il presidente Bashar Al Assad. Secondo quanto riportato dall'Osdh, «scontri violenti si stanno verificando nel Nord della provincia di Hama, mentre aerei russi e siriani stanno conducendo decine di raid sulle posizioni occupate dai ribelli», ma la sensazione è che anche Hama possa cadere nelle mani dei jihadisti. Nelle ultime ore il conflitto siriano ha visto una riaccensione del fronte orientale, dove si affrontano forze filo-Usa e filo-iraniane, ciascuna a sostegno di fazioni armate locali. Fonti sul terreno, in linea con quanto riportato dall'Osdh, indicano che le forze filo-Usa, composte dal Pkk curdo e da tribù arabe alleate con Washington, stanno tentando di prendere il controllo di sette località situate a Est del fiume Eufrate, attualmente occupate da milizie filoiraniane e da clan tribali affiliati a Teheran. I media siriani segnalano che gli insorti filo-turchi hanno preso il controllo di cinque aeroporti strategici attorno alla città di Aleppo, privando il governo centrale siriano, insieme ai suoi alleati Russia e Iran, di importanti infrastrutture militari e civili. Oltre all'aeroporto civile, gli insorti controllano ora anche quattro aeroporti militari: Nayrab, Kuw e iris, Menagh e Abu Dhuhur. Questi scali, considerati risorse strategiche di primaria importanza, erano utilizzati dal governo di Damasco e dai suoi alleati per operazioni militari e logistiche. In particolare, l'Iran si avvaleva degli aeroporti di Aleppo per rifornire regolarmente le linee degli Hezbollah libanesi, sfruttando il corridoio di Homs che collega la Siria centrale alla valle libanese di Bekaa. Mentre scriviamo gli scontri tra le due fazioni sono ancora in corso. Il gruppo armato iracheno Kataeb Hezbollah, alleato dell'Iran, ha sollecitato Baghdad a inviare truppe in Siria per sostenere il governo di Damasco. Un portavoce di Kataeb Hezbollah, parte dell’«asse della resistenza» sostenuto dall'Iran, ha dichiarato che il gruppo non ha ancora deciso di mobilitare i propri combattenti, ma ha invitato il governo iracheno ad agire. Kataeb Hezbollah ha già partecipato al conflitto siriano al fianco delle forze fedeli al presidente Assad. In Iraq, il gruppo è parte integrante di Hashed Al Shaabi, una coalizione di ex forze paramilitari ora integrate nelle forze armate regolari. Nel frattempo, Baghdad ha confermato di aver inviato veicoli blindati per rafforzare la sicurezza lungo il confine di 600 chilometri con la Siria. 
  E l'Iran principale sostenitore del regime siriano? Secondo alcune indiscrezioni potrebbe inviare truppe a combattere, tuttavia, alcuni analisti ritengono che «potrebbe non bastare arrivati a questo punto». In ogni caso il ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, in un estratto da un'intervista pubblicata sul suo canale ufficiale Telegram ha affermato: «Se il governo siriano ci chiede di inviare forze in Siria, studieremo la loro richiesta». Iran che ieri ha attaccato Ankara con le parole di Ali Akbar Velayati, consigliere della Guida suprema iraniana Khamenei: «Non avremmo mai immaginato che la Turchia, con una lunga storia islamica, potesse cadere in una trappola tesa dagli Stati Uniti e dai sionisti. Gli Stati Uniti, i sionisti e i Paesi della regione, sia arabi che non arabi, dovrebbero tenere a mente che la Repubblica islamica dell'Iran sosterrà il governo della Siria fino alla fine». Recep Tayyip Erdogan non ha commentato ma ha affermato che il governo di Assad «deve impegnarsi in un genuino processo politico per impedire che la situazione peggiori» che sembra un modo elegante per dire al presidente siriano di andarsene. 
  Israele segue con grande preoccupazione quanto accade in Siria e il timore principale è che i jihadisti di Hts o le milizie filoiraniane possano prendere il controllo dei laboratori militari dove sono custodite le armi chimiche siriane che verrebbero poi usate contro lo Stato ebraico. In tal senso secondo fonti della tv saudita Al Hadath ieri mattina gli israeliani hanno ucciso in un attacco sulla strada per l'aeroporto di Damasco Salman Jumaa, responsabile del collegamento tra Hezbollah e l'esercito siriano. Meglio prevenire che curare.

(La Verità, 4 dicembre 2024)

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Trump avverte Hamas che “ci sarà da pagare un inferno” per gli ostaggi di Gaza

Il Presidente entrante promette un'azione decisiva se gli ostaggi rimarranno prigionieri oltre il giorno dell'inaugurazione.

Lunedì il presidente eletto Donald Trump ha lanciato un severo avvertimento ad Hamas, chiedendo l'immediato rilascio di tutti gli ostaggi detenuti a Gaza. Scrivendo sulla sua piattaforma Truth Social, Trump ha dichiarato che se gli ostaggi non saranno liberati entro il suo insediamento, il 20 gennaio 2025, i responsabili dovranno affrontare conseguenze senza precedenti.
“Vi prego di lasciare che questa VERITÀ serva a far capire che se gli ostaggi non saranno liberati prima del 20 gennaio 2025, data in cui assumerò con orgoglio l'incarico di Presidente degli Stati Uniti, ci sarà TUTTO L'INFERNO DA PAGARE in Medio Oriente”, ha scritto Trump. Ha promesso che i responsabili “saranno colpiti più duramente di quanto sia mai stato fatto nella lunga e storica storia degli Stati Uniti d'America”.
La dichiarazione di Trump arriva sulla scia dell'attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele, durante il quale il soldato dell'IDF di origine statunitense, il capitano Omer Maxim Neutra, è stato ucciso e il suo corpo è stato portato a Gaza. Inoltre, un video di propaganda pubblicato sabato ha mostrato l'ostaggio americano Eden Alexander in cattività, intensificando ulteriormente gli appelli all'azione.
Domenica Sara Netanyahu, moglie del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha incontrato Trump al suo Mar-a-Lago Golf Club in Florida. Durante la cena, Sara Netanyahu ha sottolineato la situazione degli ostaggi e l'importanza di combattere quello che ha definito “l'asse del male”.
La promessa di Trump di ritenere Hamas responsabile sottolinea l'importanza degli ostaggi negli sforzi globali in corso per stabilizzare la regione. La sua dichiarazione amplifica l'urgenza del loro rilascio come condizione fondamentale per la sicurezza del Medio Oriente e segna un punto centrale per la sua imminente presidenza.
Mentre la crisi degli ostaggi continua, la dichiarazione di Trump segnala un approccio duro nei confronti di Hamas e dei suoi sostenitori.

(Israfan, 4 dicembre 2024)

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Germania: cancellata lezione del noto storico israeliano Benny Morris all’Università di Lipsia

L’Università di Lipsia ha annullato una lezione prevista per la giornata di giovedì, che vedeva la presenza del famoso storico israeliano Benny Morris. In una dichiarazione, Gert Pickel e Yemima Hadad, docenti dell’ateneo, hanno detto che la cancellazione è dovuta alle proteste degli studenti per le considerazioni dello studioso (senza però specificare quali) “che potrebbero essere interpretate come offensive e persino razziste”. A riportare la notizia è il Jewish News Syndicate
Inoltre, hanno aggiunto che le proteste erano “comprensibili, ma di natura spaventosa”. Quindi l’annullamento dell’intervento di Morris sarebbe dovuto anche a problemi di sicurezza. Noto per essere un esperto del conflitto arabo-israeliano, nella sua lezione avrebbe dovuto trattare “Il 1948 e la Jihad” all’interno di una serie di conferenze sull’antisemitismo.
In seguito, i docenti avrebbero aggiunto: “Vogliamo esprimere la nostra preoccupazione per il doppio standard che viene applicato agli studiosi israeliani, che sono sempre più emarginati ed esclusi dagli eventi con il pretesto di divergenze di opinione politica, mentre ad altre voci viene dato libero accesso all’università”.
Dopo l’accaduto il think tank MENA di Vienna ha condannato la decisione dell’università, mettendo in chiaro il ben noto curriculum di Morris, già definito dallo stesso The Guardian come “un radicale che ha costretto il suo Paese a confrontarsi con il suo ruolo nello sfollamento di centinaia di migliaia di palestinesi”. Morris è risaputo essere un oppositore dichiarato del controllo israeliano sulle zone della Giudea e della Samaria. Un oppositore le cui scoperte spesso non erano in linea con le affermazioni di diversi gruppi sostenitori di Israele.
A maggior ragione, MENA ha scritto che l’opposizione a Morris “non fa che evidenziare ulteriormente il comportamento patetico dell’Università di Lipsia, che può essere giustamente considerato un grande successo da parte di coloro che odiano Israele”.
Tra i vari gruppi che ne hanno chiesto l’annullamento compariva quello degli Studenti per la Palestina di Lipsia. In seguito, Morris, 75 anni, ha dichiarato al quotidiano israeliano Haaretz che la decisione di annullare la lezione è stato un gesto codardo: “vergognosa, soprattutto perché è il risultato della paura di una potenziale violenza da parte degli studenti.

(Bet Magazine Mosaico, 4 dicembre 2024)

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Il cuore della Sicilia che batte per Israele

di Angelica Calò Livnè

Dopo più di 400 giorni di guerra, con un’Israele ferita, sanguinante, divisa, che lotta strenuamente per mantenere il suo spirito e per continuare a sopravvivere siamo arrivati a Palermo. «Ti abbiamo sentita alla radio, parlavi di pace e di speranza mentre suonavano le sirene, mentre arrivavano i missili di Hezbollah sulla tua casa al confine con il Libano e abbiamo subito pensato che dovevi essere una delle premiate in ricordo di padre Pino Puglisi, il prete che combatté contro la mafia con coraggio e dedizione verso i suoi ragazzi, per dare dignità, amore e futuro alla gente del suo quartiere, Brancaccio a Palermo. Saremmo onorati se volessi accettare il nostro invito». Il primo pensiero è stato «Mi ani ki elech el paro’ – Chi sono io per andare dal Faraone?», poi di istinto, con gioia e profonda gratitudine, ho detto sì, certamente. «Sono io che devo ringraziarvi per la vostra fiducia e per il vostro coraggio di andare contro corrente in questo momento buio di solitudine per il mio Paese!».
  Nel primo giorno del cessate il fuoco, immediatamente la speranza si è fatta largo tra la gente, si è insinuata nei cuori, ha accarezzato le spalle curve dal dolore e dal peso di una guerra senza fine, benedicendo le fronti.
  Cosi è Israele: si abbarbica a ogni piccolo raggio di positività e ricomincia la sua lotta per la ricostruzione, per riempirsi dell’energia così urgente per non soccombere. E questo è stato il nostro viaggio in una Palermo effervescente, dove il profumo del pistacchio si mescola ai colori delle danze di strada per denunciare la violenza contro le donne, dove l’oro di Monreale brilla e ispira al Bene preti, vescovi e associazioni di periferia per strappare giovani e non dalla povertà, dalla droga, dall’ingiustizia e dalla disperazione. Gente nobile, che dedica la propria vita e si batte per una Sicilia sana, regina delle bellezze che ha ricevuto dalla natura e da tradizioni antiche.

• UN’ACCOGLIENZA CHE SCALDA IL CUORE
  Sono partita con dolori in tutto il corpo, accompagnata da Yehuda, mio angelo custode, con una paura profonda di imbattermi in sorprese spiacevoli da parte di chi si alimenta delle notizie dei media. Ero preoccupata dall’antisemitismo dilagante, devastante che non lascia respiro. Avevo il cuore pesante per i nostri soldati che cadono ogni giorno a Gaza e nel sud del Libano, per i 101 ostaggi in procinto di affrontare un altro inverno in condizioni disastrose, e per il nostro kibbutz abbandonato.
  L’accoglienza dei fedeli nella Chiesa diroccata di padre Antonio Garau di Borgo Nuovo direttamente dall’aeroporto Falcone e Borsellino è stata un diluvio di affetto, di empatia profonda verso le nostre storie dolorose del 7 ottobre, sulle donne stuprate, i bambini che hanno assistito all’assassinio dei loro genitori, le famiglie bruciate. Gemma Ocello – di nome e di fatto, un vero diamante grezzo, che splende e illumina al suo passaggio – mi scriveva ormai da mesi per prepararmi alla cerimonia. Saremmo stati in sette: padre Alex Zanotelli, sacerdote comboniano, Gino Cecchettin che con straordinaria forza interiore ha trasformato il dolore per la tragica perdita della figlia Giulia in un esempio luminoso di amore. Andrea Rinaldo, scienziato di fama mondiale e vincitore dello Stockholm Water Prize. Francesco Zavatteri, che ha trasformato il dolore per la perdita del figlio Giulio in un impegno concreto contro le dipendenze, Zenaida Boaventura che con La Casa di tutte le genti ha dato un’opportunità a tante mamme lavoratrici e ai loro figli, creando un luogo di accoglienza e integrazione. E io, messaggera di pace e di speranza in piena guerra.
  «La presenza di personalità di tutto il mondo», ha commentato padre Garau, «che vivono la loro vita testimoniando il senso del rispetto e della dignità dell’uomo sono la nostra forza nel credere che le cose possano cambiare, come diceva padre Pino Puglisi».
  Nel corso della settimana trascorsa sotto la protezione affettuosa di Gemma e della sua famiglia, ci sono stati momenti di grazia senza fine, di rispetto profondo per il nostro essere ebrei, israeliani e fratelli maggiori. Abbiamo ricevuto manifestazioni di affetto nel Liceo Mamiani di Palermo dove abbiamo presentato uno dei nostri laboratori di Educazione al dialogo attraverso le arti da palcoscenico per 120 ragazzi: «Voi siete la testimonianza vivente di ciò che accade veramente in Medio Oriente dovete raccontare a tutti la verità dietro le immagini che mostrano in televisione!», ha sottolineato Giovanni, professore di storia e filosofia. Uno dei carabinieri che ci ha accompagnato ci ha confidato la sua frustrazione, durante le manifestazioni propal, per chi prova a sostituire la bandiera italiana con quella palestinese. In più, quando affrontano il caos, le forze dell’ordine vengono demonizzate.

• CON UN GIOVANE LIBANESE A PALERMO
  Concluderò con uno dei momenti più toccanti di questo viaggio: un testo scritto da Germana Porcasi che ha partecipato a un altro dei laboratori presentati in questi giorni a Palermo:
  «Oggi abbiamo partecipato alla lezione di Angelica alla fondazione Fscire.
  Angelica esordisce raccontando brevemente del suo kibbutz, degli sfollati, dei missili… A un certo punto prende la parola un ragazzo, si presenta “sono libanese” dice “di Beirut”… tutti trattengono il respiro, abbiamo anche pensato… speriamo non nasca una discussione. Angelica, pronta come sempre, con massima gioia e accoglienza. “Non sai quanto sono felice ed emozionata… il mio kibbutz è proprio davanti al confine con il Libano…”. Lui trattiene a fatica le lacrime raccontando con tanto dolore la paura e la sofferenza che continuano a infliggere ai libanesi. “Abbiamo paura, abbiamo paura… non possiamo dire nulla, ci chiamano sionisti… traditori, ci minacciano… siamo stanchi non ne possiamo più, noi siamo brave persone, non vogliamo il male di nessuno… ma loro… loro ci hanno catapultato 40 anni indietro”. E allora Angelica gli chiede: “Ma questi –«loro»– chi intendi Hezbollah?”. “Si”, dice lui “Hezbollah” e ancora trattiene le lacrime, la voce spezzata, un nodo in gola… Molti dei presenti si asciugano le lacrime che scendono irrefrenabili. Incredibile davvero questo incontro e lo sfogo liberatorio di questo ragazzo, consegnato proprio al cuore di Israele».
  E con questo spirito, con queste immagini negli occhi, nell’anima e nel cuore torniamo a casa. Proprio a casa, e dopo più di un anno torniamo a dormire nella nostra stanza da letto con la sua finestra sul Monte Hermon. Ora non ci resta che aspettare con fiducia 60 giorni per rivedere il kibbutz pieno di bambini e Amen, gli abbracci delle madri e le famiglie da tutta Israele che accolgono i loro figli che tornano dall’inferno dei tunnel. Siamo nati per la luce e per la luce combatteremo fino in fondo!

(moked, 2 dicembre 2024)

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Il presidente della Siria chiede aiuto a Israele!

Questo è il titolo del sito ortodosso Kikar Hashabbat, e sembra semplicemente fantastico. Io dico la mia opinione apertamente e senza mezzi termini. Secondo il quotidiano saudita Elaph, il presidente siriano Bashar al-Assad ha chiesto aiuto a Israele per respingere i ribelli sunniti che negli ultimi giorni hanno conquistato ampie zone del nord-ovest della Siria. Israele non ha immediatamente respinto la richiesta, ma ha posto delle condizioni. Fonti ufficiali non hanno ancora confermato la notizia. Per il portale ortodosso Kikar questo è un segno dell'arrivo del Messia. Il capo di Stato siriano chiede aiuto allo Stato di Israele? È qualcosa di anomalo nella politica regionale in cui viviamo. Ma l'intera regione è in una nuova fase che può esplodere o aprire nuove possibilità. Stiamo vivendo un periodo anomalo in cui ci saranno sicuramente molte sorprese. A.S.

di Aviel Schneider

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Ribelli siriani strappano un ritratto del presidente siriano Bashar al-Assad nel centro di Aleppo, Siria, 30 novembre 2024.

GERUSALEMME - Elaph ha rivelato ieri che il Presidente Assad ha inviato un messaggio a un'agenzia di sicurezza israeliana attraverso uno dei suoi consiglieri in Europa. In questo messaggio, Assad avrebbe chiesto aiuto militare per sostenere il suo regime a Damasco contro i ribelli sunniti. Secondo il giornale saudita, Israele ha risposto ad Assad che gli sviluppi in Siria non rappresentano una minaccia immediata per Israele. Tuttavia, Israele non ha rifiutato categoricamente la richiesta. L’apparato di sicurezza israeliano aveva chiarito ad Assad che le milizie iraniane avrebbero dovuto lasciare la Siria prima che Israele potesse considerare una risposta positiva alla richiesta.
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Il presidente siriano Bashar Al-Assad (R) parla con il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi (L), a Damasco, in Siria, il 1° dicembre 2024

Se questo rapporto è vero, cosa che ritengo abbastanza possibile, allora dimostra che il regime siriano di Assad è ai ferri corti con il regime degli ayatollah in Iran. Assad chiede aiuto al regime sionista di Gerusalemme? Il regime sionista di Gerusalemme è il diavolo che deve sparire dalla faccia della terra per i suoi alleati iraniani. C'è qualcosa di sbagliato in questa teoria, oppure spiega gran parte del successo delle eliminazioni di Israele in Libano, Iran e Siria. Da tempo circola la voce che Assad abbia aiutato Israele a eliminare una figura chiave dopo l'altra dall'asse del terrore sciita. Non è una novità nel mondo arabo in cui viviamo. Dietro le quinte, i governi arabi hanno spesso chiesto aiuto al loro nemico sionista a Gerusalemme. Il padre dell'attuale re giordano, re Hussein, durante il suo mandato ricevette da Israele la promessa che l'aviazione israeliana sarebbe intervenuta se la Siria avesse continuato a sognare una Grande Siria e avesse voluto conquistare parti della Giordania. All'epoca, il padre di Bashar al-Assad , Hafez al-Assad, governava la Siria. Non è quindi una novità che gli arcinemici di Israele chiedano aiuto.
D'altra parte, ci sono anche notizie secondo cui Assad avrebbe chiesto aiuto all'Iran, il che ovviamente suona molto più logico. “È probabile che Assad riceva decine di migliaia di soldati iraniani per aiutarlo a combattere i ribelli, che negli ultimi giorni hanno fatto qualche passo avanti”. Commentando i combattimenti in Siria, il professor Eyal Zisser, esperto di Medio Oriente e Siria, ha dichiarato:

    "La cosa davvero sorprendente di questo evento è stato il rapido crollo dell'esercito siriano di fronte ai ribelli. Questo dimostra quanto l'esercito sia davvero debole e che non può sopravvivere senza il sostegno dei suoi amici e alleati. Da quando Iran e Russia sono intervenuti, la guerra in Siria è rimasta a un livello basso e Assad ha avuto il tempo di ricostruire e rafforzare il suo esercito. Si tratta di decine di migliaia di soldati e di attrezzature russe e iraniane. Questo esercito avrebbe dovuto essere molto più forte dei ribelli. Ma l'esercito siriano è semplicemente fuggito - non c'è stata nemmeno una battaglia”.

Il sito web saudita ha citato l'esperto israeliano di Medio Oriente Mordechai Kedar e lo ha ritratto mentre descriveva i ribelli siriani come “amici di Israele”. Kedar aveva detto che si sarebbe potuta aprire un'ambasciata israeliana a Damasco se i ribelli avessero preso il controllo della Siria e rovesciato il regime di Assad. Tuttavia, questo resoconto non corrisponde alle sue reali dichiarazioni. In un video clip, Kedar ha detto:

    "Oggi sono a favore dei ribelli. Domani non lo so! Ma oggi i ribelli vogliono combattere le milizie sciite in Siria e liberarsi del regime di Assad. Oggi dovete sostenere i ribelli. Domani non lo so. Oggi combattono contro le milizie sciite e contro il regime di Assad. Se saranno amichevoli nei nostri confronti, continueremo a sostenerli. Se non lo saranno, non lo faremo”.

L'Iran è fortemente coinvolto negli sviluppi strategici in Siria perché vuole creare una “autostrada d'attacco” sciita da Teheran alle alture del Golan. Per il regime degli ayatollah, la Siria è solo un mezzo per raggiungere il fine di distruggere Israele. La conquista da parte dei ribelli sunniti vanifica questo piano e danneggia gli interessi nazionali dell'Iran, il che non preoccupa particolarmente Israele. Tuttavia, Israele teme che gruppi terroristici estremisti possano sfruttare il vuoto di potere nelle aree incontrollate del nord-ovest della Siria. È molto probabile che Assad capisca meglio l'intera situazione e veda la vera salvezza negli ebrei piuttosto che nei suoi soliti alleati. Ecco perché ci si chiede cosa stia accadendo intorno a noi, soprattutto nell'ultimo anno. Viviamo davvero in tempi messianici? Israele è stato colto di sorpresa il 7 ottobre 2023. Da allora c'è stata guerra. E ora, dopo che Israele ha eliminato alcuni dei suoi nemici più potenti, il presidente siriano Assad chiede aiuto? Fantastico!

(Israel Heute, 3 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Israele in allerta per arrivo Guardie Rivoluzionarie in Siria

In Israele temono che l'Iran approfitti della crisi in Siria per far entrare un elevato numero di Guardie Rivoluzionarie in Siria e minacciare così lo Stato Ebraico

di Haamid B. al-Mu’tasim

GERUSALEMME - Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto domenica sera una consultazione di sicurezza ad alto livello sugli sviluppi in Siria, in seguito all’attacco a sorpresa dei ribelli nella zona di Aleppo e Idlib.
  Alti funzionari della sicurezza a Gerusalemme affermano che Israele teme che il presidente siriano Bashar Assad permetta all’Iran di introdurre forze delle Guardie Rivoluzionarie nel territorio siriano per aiutare l’esercito di Damasco a difendere il suo regime, e che tale mossa avvicinerà le Guardie Rivoluzionarie al confine con Israele.
  Secondo le stesse fonti, Hezbollah avrebbe già inviato forze dal Libano nel nord della Siria per proteggere i beni dell’organizzazione e dell’Iran dai gruppi terroristici jihadisti.
  Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è arrivato ieri a Damasco e ha incontrato il presidente Assad per coordinare le mosse tra Iran e Siria, con l’obiettivo di proteggere il regime siriano.
  Secondo la stampa araba, l’Iran sta già pensando di inviare forze militari in Siria. Ieri sera ha messo in guardia gli Stati Uniti dall’approfittare della situazione in Siria e ha lanciato segnali sulla possibilità di inviare forze “consultive” delle “Guardie rivoluzionarie” nella città di Aleppo in Siria se gli sviluppi sul terreno lo richiedessero.
  Fonti di stampa hanno riferito che il deputato iraniano Ismail Kavehtri, responsabile per gli affari militari presso la commissione per la sicurezza nazionale del parlamento, ha affermato ieri sera che esiste la possibilità che l’Iran invii forze “consultive” in Siria, ma secondo lui , “questo dipende dagli sviluppi sul terreno e dalle decisioni della leadership israeliana”.
  Kavehtri ha affermato infatti che gli attacchi dei ribelli ad Aleppo avevano lo scopo di impedire gli aiuti iraniani a Hezbollah durante il cessate il fuoco di 60 giorni, secondo un piano americano-israeliano. Ha sottolineato che il numero dei consiglieri iraniani in Siria non è molto elevato e, se il loro numero fosse elevato, agirebbero immediatamente. Ha stimato che “il fronte della resistenza interverrà con forza in Siria per impedire il ritorno delle fazioni armate, al fine di contrastare il piano americano-israeliano”.
  Le stesse fonti sostengono anche che il generale Hossein Dakiki, consigliere del comandante delle “Guardie rivoluzionarie”, ha affermato che “il nemico israeliano sta complottando in Siria e in Libano, ma in Siria gli verrà tagliata la mano in modo tale da passare2 per sempre alla storia.”
  Secondo quanto riferisce la rete Farda in lingua persiana, migliaia di combattenti delle milizie sciite in Iraq si stanno dirigendo verso la città di Aleppo in Siria per partecipare ai combattimenti.
  Israele sta monitorando attentamente ciò che sta accadendo in Siria, e fonti politiche dicono che Israele agirà se le forze iraniane o le milizie filo-iraniane tentano di avvicinarsi al confine con Israele, e che “Israele è pronto per qualsiasi scenario”.

(Rights Reporter, 2 dicembre 2024)


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Caos Siria, opportunità e rischi per Israele

Gli sviluppi in Siria, con i ribelli jihadisti filoturchi che hanno preso il controllo della città di Aleppo otto anni dopo la sua riconquista da parte dell’esercito siriano, stanno destando preoccupazione in Israele. Il regime di Bashar al-Assad, sostenuto da Iran, Russia e Hezbollah, appare sempre più debole nel nord, e il consolidamento di forze jihadiste sunnite vicino al confine israeliano rappresenta un rischio crescente per lo stato ebraico. Il premier Benjamin Netanyahu ha convocato una riunione straordinaria per discutere l’impatto di questi eventi: le autorità di sicurezza temono che armi pericolose – come quelle chimiche già usate da Assad in passato – cadano nelle mani dei ribelli. Anche l’aiuto di Teheran ad Assad è sotto osservazione. «Stiamo seguendo da vicino ciò che sta accadendo in Siria, abbiamo visto che il regime iraniano sta inviando rinforzi. Lavoreremo per impedire il contrabbando di armi verso il Libano e Hezbollah attraverso il territorio siriano», ha dichiarato il portavoce dell’esercito Daniel Hagari in un’intervista a Sky News.
  L’attacco su Aleppo è stato guidato da Hayat Tahrir al-Sham (HTS), evoluzione di Jabhat al-Nusra, precedentemente affiliato ad al-Qaeda in Siria. A differenza dell’inizio della guerra civile nel 2011, quando il movimento ribelle era rappresentato dall’Esercito siriano libero, con posizioni anche laiche, oggi il conflitto vede protagoniste fazioni jihadiste. «Non è lo Stato Islamico, ma non è nemmeno così diverso,» spiega all’emittente N12 Carmit Valensi, ricercatrice senior dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale (INSS). «I prossimi giorni saranno cruciali per comprendere la portata di questo evento» aggiunge Valensi. «Se i ribelli jihadisti riusciranno a conquistare il potere in Siria, la loro ostilità verso Israele non sarà inferiore a quella di Assad e soprattutto degli iraniani che lo sostengono. Ma se nella rivolta la corrente più moderata riuscirà a integrarsi, prendere il controllo e tradurre i successi militari di Hayat Tahrir al-Sham in un cambiamento politico significativo, allora per noi potrebbe essere una notizia positiva».
  L’emittente Kan ha raggiunto alcune delle voci più moderate di chi ad Aleppo e Idlib guida l’avanzata anti-Assad. «Ci accusano di collaborare con voi [Israele] perché siamo stati molto contenti quando avete attaccato Hezbollah e siamo felici che abbiate avuto successo», ha affermato un residente di Idlib alla radio israeliana. Secondo lui, molti siriani non considerano Israele un nemico «perché non è ostile verso chi non lo è nei suoi confronti. Non vi odiamo. Anzi». Kan ha raccolto un’altra testimonianza simile. «Il popolo siriano non era così felice da molto tempo. È la prima volta che proviamo un senso di gioia e vittoria, e con l’aiuto di Allah ci libereremo di Bashar al-Assad e dell’Iran», ha affermato un residente dell’area di Aleppo. «Forse non vi piacciamo e non ci volete liberi, ma noi vogliamo liberare il nostro paese. Non abbiamo problemi con nessuno stato vicino, con nessuno. Abbiamo solo un problema con l’Iran e il regime, questi criminali assassini».
  Per Israel Shammai, analista del sito Makkor Rishon, la posizione d’Israele sul conflitto in corso in Siria ricorda quella di Menachem Begin sulla guerra tra Iran e Iraq del 1988. Quando gli fu chiesto per chi parteggiasse, Begin rispose: «Auguro successo a entrambe le parti».
  Per Shammai in questa fase il conflitto interno in Siria sta giocando a favore di Gerusalemme. Tsahal continuerà a colpire i convogli di munizioni ed equipaggiamenti che l’Iran trasferisce a Hezbollah attraverso il corridoio siriano. «Le guerre interne renderanno molto difficile per Assad aprire un fronte contro Israele», scrive Shammai. Tuttavia, nel lungo termine, le organizzazioni islamiste più radicali, sottolinea l’analista, «possono rappresentare un pericolo maggiore del presidente siriano, nonostante i suoi ben noti difetti. Quindi, dopo aver augurato successo a entrambe le parti, speriamo che non siano proprio questi ribelli a uscirne vincitori». d.r.

(moked, 2 dicembre 2024)

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Israele, il primo impianto che produce energia dal movimento delle onde a Jaffa

di Jacqueline Sermoneta

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Sarà inaugurato giovedì nel porto di Jaffa, in Israele, il primo impianto che sfrutta il movimento delle onde per produrre energia elettrica pulita. Il progetto, che coniuga innovazione e sostenibilità, è promosso congiuntamente dal comune di Tel Aviv-Yafo, dalla società municipale “Atarim”, dalla startup israeliana Eco Wave Power e da EDF Renewables Israel.
  ‘Una tecnologia pioneristica’, l’ha definita il Ministero dell’Energia e delle Infrastrutture israeliano, quella sviluppata da Eco Wave Power, che sfrutta dispositivi galleggianti istallati su moli, frangiflutti e pontili. “Questi galleggianti si alzano e si abbassano in base al movimento ascendente e discendente delle onde, alimentando un motore idraulico e un generatore, situati sulla terraferma. Inoltre, un sistema di automazione intelligente controlla e monitora l’intero processo, sollevando i galleggianti dall’acqua durante le tempeste per evitare danni”.
  Attualmente l’azienda sta costruendo stazioni energetiche anche in altri Paesi: una nel porto di Los Angeles, in California, e un primo impianto elettrico su scala commerciale è in fase di progettazione finale in Portogallo.
  La fondatrice e CEO di EcoWave Power, Inna Braverman, ha partecipato al programma “Donne per il clima”, una delle iniziative ambientali e di sostenibilità del comune di Tel Aviv-Yaffo, che permette alle “donne selezionate di ricevere una guida professionale e gli strumenti per portare avanti progetti innovativi che fanno progredire la sostenibilità urbana e affrontano il cambiamento climatico”.
  Eco Wave Power ha ricevuto finanziamenti dal Fondo di sviluppo regionale dell’Unione europea, da Innovate UK e dal programma quadro Horizon 2020 della Commissione europea ed è stata insignita del Global Climate Action Award dalle Nazioni Unite.

(Shalom, 3 dicembre 2024)

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Antisemitismo neonazista a Vienna

Aggredito ultraortodosso mentre andava in sinagoga

di Roberto Zadik

Come ogni Shabbat stava recandosi alla preghiera pomeridiana, quando a Vienna il 30 novembre, un gruppo di neonazisti l’ha aggredito “rubandogli” il suo Shtreimel copricapo in pelliccia tipicamente Est Europeo e la kippà con cui era coperto il capo
  Secondo i siti Ynetnews nell’articolo firmato da Itamar Eichner, il religioso si era imbattuto casualmente nella manifestazione a sostegno del partito di estrema destra, FPO, che lo scorso 29 settembre ha trionfato alle elezioni entrando nel governo austriaco  ottenendo il ventinove percento dei voti, quando è stato attaccato da ignoti.
  Ma chi può essere stato a compiere questo gesto così brutale e cosa è successo? Il presidio si preannunciava da giorni estremamente pericoloso tanto che l’FPO aveva fatto affiggere per le vie della capitale viennese dei cartelli che dicevano di “stare moto attenti perché nel centro di Vienna inizierà verso mezzogiorno un presidio neonazista a Heidenplatz”.
  Attualmente la polizia viennese sta indagando sui possibili responsabili dell’aggressione al malcapitato ortodosso sessantaseienne e a questo proposito il Jerusalem Post fornisce alcuni interessanti dettagli sull’accaduto. Stando all’articolo, l’uomo è stato assalito nello storico quartiere ebraico viennese di Leopolstadt “famoso per il suo valore storico e culturale” come ha evidenziato il testo, mentre recandosi per la preghiera di Minchà, verso le 15.45 ha incrociato la manifestazione nel centro della città.
  Secondo le prime ricostruzioni gli  aggressori, membri del gruppo neonazista Vienna Dance Brigade gli hanno rubato lo Shtreimel per poi indossarlo come scherno sfilando per le strade. Successivamente però un testimone è riuscito a ritrovare il copricapo in un negozio di vestiti usati riportandolo al proprietario. A quanto pare i presunti colpevoli sarebbero due adolescenti, uno dei quali, un diciassettenne austriaco identificato come ideatore del gesto e accusato di “disturbo della quiete pubblica”. La polizia ha confermato che anche le unità antiterrorismo stanno indagando sul caso, come ha assicurato il portavoce delle forze dell’ordine viennesi Markus Dittrich “siamo decisi a andare fino in fondo su questo incidente con ulteriori investigazioni”.

(Bet Magazine Mosaico, 3 dicembre 2024)

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Joe Biden grazia il figlio. Ai buoni tutto è concesso

di Daniele Capezzone. 

«La salita dell’inflazione? E' transitoria». «Il confine con il Messico? E' sicuro». «Grazierò mio figlio? No». Sono tre - scelte a caso tra le decine possibili - delle bugie raccontate negli ultimi anni da Joe Biden.
  Balle spettacolari, paragonabili solo a quelle - ancora più vertiginose - dette su di lui da amici, collaboratori, sostenitori e media embedded: «Biden è lucidissimo», «Biden non sarà sostituito», e via mentendo e inseguendo le menzogne con nuove bugie ancora più luccicanti e fantasiose.
  Provate a immaginare se il portavoce di Trump e Trump stesso, alla presidenza, avessero reiteratamente negato l’intenzione di graziare il figlio, e se poi invece la grazia fosse arrivata dopo una campagna elettorale, quindi alle spalle dei votanti.
  Da ieri sui social circola una formidabile compilation di filmati, di clippini (tutti veri, ahinoi) in cui Biden sembrava escludere categoricamente questa eventualità («Non ci sono re in America, nessuno è al di sopra della legge»). E più volte il presidente uscente aveva inflitto agli americani discorsetti retorici sul suo assoluto rispetto della giustizia che gli avrebbe impedito di usare i poteri presidenziali per favorire il figlio.
  « La sua portavoce, Karine Jean-Pierre, era apparsa addirittura sprezzante e infastidita verso i giornalisti che osavano ripetere la domanda («Ho già risposto», «Ho detto no», «$ ancora un no»).

• SOTTO ATTACCO
   Ma si sa, gli autoproclamati “buoni” possono fare tutto. Vale anche per media e social. Oggi X di proprietà di Elon Musk è selvaggiamente sotto attacco (un paio di giorni fa è arrivata anche la reprimenda di padre Paolo Benanti, ascoltato pure a destra come un guru), nonostante che Musk abbia da tempo reso più trasparente l’algoritmo, con ciò aprendo una inedita pagina di chiarezza.
  Quando invece, con la proprietà pre-Musk, negli ultimi giorni della campagna per le presidenziali 2020, il vecchio Twitter fece sparire la storia del laptop di Hunter Biden, arrivando perfino a bannare il profilo del giornale che l’aveva tirata fuori, il New York Post. Di fatto divenne impossibile condividere il link all’inchiesta, e furono pure limitati e bloccati sia il profilo dell’allora portavoce della Casa Bianca sia quello della campagna Trump.
  Tutto questo accadde a un paio di settimane dal voto del 2020, e ovviamente va ricordato che il famigerato laptop del figlio di Biden custodiva informazioni scottanti sui suoi rapporti economici con società di paesi stranieri (Cina inclusa). Ecco, provate a immaginare se la metà di queste cose le avessero fatte Trump e Musk.
  Curioso, eh? I detrattori di Donald Trump gli hanno spesso rimproverato (talora, ammettiamolo, a ragione), una propensione alla post-verità, a una post-truth manipolata e ricostruita a posteriori in base a esigenze di riadattamento propagandistico delle cose.
  Peccato però che loro (i “buoni e giusti”) siano i campioni incontrastati della pre-truth, cioè di una verità preconfezionata a tavolino, in cui i torti e le ragioni non dipendono da ciò che si fa ma da ciò che si è. E se – per tua fortuna – sei nel perimetro del pensiero accettato, delle opinioni ammesse dal sinedrio progressista, allora puoi fare qualunque cosa. Se invece sei nel girone infernale dei reietti, fai orrore a prescindere.
  Questi signori - i “buoni” hanno calcolato tutto. Gli è però sfuggito un “dettaglio”, chiamiamolo così, e cioè i cuori e le menti delle persone comuni.
  E' la common people che ha scoperto il gioco, che ha smascherato l’inganno, e che ora non crede più ai trucchi e ai mediocri illusionismi di chi l’aveva fatta franca per troppo tempo.

Libero, 3 dicembre 2024)
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«Si sa, gli autoproclamati “buoni” possono fare tutto.» Questo è l’Occidente. Questo è il mondo dei buoni. Questo è l’impero americano. L’impero della menzogna, così l’ha definito una volta Putin, che si sa è un cattivo, quindi non può  arrivare a capire il livello di bontà in cui si muovono i buoni. Sia chiaro, tutti i politici mentono, anche Putin, e Putin lo sa. Una volta però ha umilmente ammesso che nessuno può superare l’America in quella suprema arte della menzogna che è la propaganda. A che serve infatti la verità in politica? Al massimo può essere usata come una clava in testa all’avversario  caduto davvero in un grave, innegabile peccato. Però, anche in questo caso, se a cadere è un “buono”, nell’impero dei buoni interverrà sempre un altro ancora più buono a rialzarlo, nel nome di un superiore livello di bontà presentata come misericordiosa virtù morale, corrispondente a un più elevato livello di menzogna. Viva l’America! M.C.

Libero, 3 dicembre 2024)

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Turismo e solidarietà: Israele non si ferma

Un piano da milioni di shekel per rinnovare le strutture ricettive e sostenere la comunità in tempi di crisi.

In un momento di profonda sfida, l’industria turistica israeliana si distingue per la sua straordinaria capacità di adattamento e resilienza. Negli ultimi mesi, oltre 90.000 sfollati sono stati accolti in strutture ricettive di ogni tipo, dagli hotel alle pensioni, fino alle case vacanza. Questo impegno collettivo sottolinea il ruolo cruciale del turismo non solo come forza trainante dell’economia, ma anche come elemento di coesione sociale, dimostrando una profonda sensibilità verso le esigenze della comunità.
Per garantire una ripresa solida e sostenibile, il Ministero del Turismo, guidato da Haim Katz, ha presentato un piano di ristrutturazione completo, che si configura come una svolta strategica per il settore. Il programma prevede lo stanziamento di 175 milioni di shekel (ILS) destinati alla riabilitazione delle strutture ricettive. Gli operatori turistici, infatti, riceveranno supporto economico per migliorare le loro infrastrutture e renderle pronte a soddisfare le aspettative di un turismo moderno e internazionale. Parallelamente, ulteriori 10 milioni di shekel sono stati stanziati per promuovere il turismo domestico, incoraggiando i cittadini israeliani a riscoprire le meraviglie del proprio paese e sostenendo così l’intero ecosistema del settore.
Il Ministro Haim Katz ha ribadito l’impegno del governo in questa direzione, sottolineando come gli hotel abbiano svolto un ruolo fondamentale nel fornire rifugio a migliaia di persone, trasformandosi temporaneamente in veri e propri centri di accoglienza. Ora, il compito è quello di restituire a queste strutture la loro vocazione originaria, preparandole a riaccogliere turisti da ogni parte del mondo. Questo approccio integrato, che combina il ripristino delle infrastrutture con la promozione del turismo interno, mira non solo a rilanciare il settore, ma anche a creare un impulso economico diffuso in grado di beneficiare tutta la nazione.
Il piano del Ministero del Turismo riflette un impegno costante per l’innovazione e il rinnovamento, elementi indispensabili per mantenere il paese competitivo nel panorama globale del turismo. L’obiettivo è chiaro: garantire un’esperienza di ospitalità di altissimo livello, che sappia attrarre visitatori sia nazionali che internazionali, mostrando al mondo un Israele capace di trasformare le sfide in opportunità.

(AdvTraining, 2 dicembre 2024)

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Israele spera nel nuovo capo della politica estera dell'UE

Con Kaja Kallas, l'Unione Europea ha un nuovo rappresentante per gli affari esteri. Israele ritiene che le relazioni con l'associazione di Stati possano migliorare in qualche modo. Ma i dubbi sono giustificati.

di Sandro Serafin

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La premier estone Kaja Kallas

Quando è stato annunciato che il capo del governo estone avrebbe sostituito lo spagnolo Josep Borrell come capo della politica estera dell'UE, i media israeliani si sono sentiti sollevati: “È una buona notizia per Israele”, ha detto ad esempio il quotidiano “Israel Hayom”. La gioia si spiega probabilmente più con il sollievo per la partenza di un feroce critico di Israele che con una reale conoscenza delle posizioni di Kallas sullo Stato ebraico. Perché finora non se ne sa molto.
  Kallas, che è nata a Tallinn nel 1977 e ha studiato legge, ha già una notevole carriera politica. La figlia dell'ex primo ministro estone e commissario europeo Siim Kallas è diventata leader di un partito liberale co-fondato dal padre nel 2018. Meno di tre anni dopo, si è ritrovata nel ruolo di Primo Ministro dell'Estonia.

• IL GOVERNO KALLAS HA VOTATO A FAVORE DELLA “PALESTINA”
  In questo ruolo, Kallas ha dovuto anche rispondere all'attacco dei terroristi palestinesi al sud di Israele il 7 ottobre 2023. Si è comportata come molti suoi omologhi: poco dopo l'attacco, ha dichiarato che il suo Paese era “fermamente dalla parte di Israele”. Tuttavia, ha presto accompagnato la sua solidarietà con parole di avvertimento per Gerusalemme: “Israele ha il pieno diritto di difendersi. Ma deve farlo in modo da proteggere vite innocenti e rispettare le norme del diritto internazionale”.
  Il suo governo ha agito chiaramente contro gli interessi di Israele nel maggio 2024: alle Nazioni Unite, l'Estonia ha votato a favore di una risoluzione che estendeva i diritti dello “Stato di Palestina” all'interno dell'ONU e raccomandava al Consiglio di Sicurezza di ammettere la “Palestina” come membro a pieno titolo. Israele ha descritto la risoluzione come una “decisione assurda” che ha rivelato ancora una volta la “strutturale unilateralità” delle Nazioni Unite nei confronti di Israele. Altri membri dell'UE, tra cui la Germania, si sono astenuti.huti• “PRONTI A SACRIFICARE GLI INTERESSI DI SICUREZZA DI ISRAELE”
  Il governo estone ha giustificato il suo comportamento di voto con la “situazione geopolitica intorno a noi”, che è cambiata: “È importante che il sostegno globale all'Ucraina aumenti e che non siamo accusati di usare due pesi e due misure”. L'Estonia alludeva al fatto che molti Paesi del Sud globale accusano i Paesi che sostengono sia Israele che l'Ucraina di applicare due pesi e due misure: vedono Israele nello stesso ruolo della Russia di Putin.
  Kallas è ora un feroce critico della Russia. La formazione di un fronte anti-russo è per lei una priorità assoluta. “Per attirare l'attenzione del mondo sulla Russia, l'Estonia è pronta a sacrificare gli interessi di sicurezza di Israele”, ha criticato il giornalista conservatore israeliano Eldad Beck in un articolo per il portale ‘Mida’. Strano il comportamento di voto: Già nel novembre 2022, il ministro degli Esteri Kallas aveva dichiarato che in futuro avrebbe votato meno a favore delle risoluzioni critiche nei confronti di Israele all'ONU e si sarebbe allineato maggiormente ai voti degli Stati Uniti.

• KALLAS PROMETTE UNA “STRATEGIA GLOBALE PER IL MEDIO ORIENTE”
  Ciò che Kallas ha formulato finora sul tema del Medio Oriente in vista dell'assunzione della carica di Commissario agli Affari Esteri non è andato oltre i luoghi comuni: in un questionario di ottobre, ha dichiarato il suo sostegno alla “soluzione dei due Stati”. Inoltre, ha promesso di concentrare “tutti i miei sforzi” sulla promozione di una “strategia globale dell'UE per il Medio Oriente”.
  In definitiva, anche quando entrerà in carica, è improbabile che il capo della politica estera dell'UE cambi radicalmente la sua posizione su Israele. Non dovrebbe essere difficile per lei apparire meno ossessiva nei confronti di Israele rispetto al suo predecessore. Ma anche se Kallas dovesse avere una posizione più filoisraeliana di Borrell, le cariche politiche spesso plasmano le opinioni individuali del politico che le ricopre. Non solo Borrell, ma anche i suoi predecessori erano fortemente critici nei confronti di Israele.

(Israel Heute, 2 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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"Diventa un miliziano di Hamas". Un videogioco omaggia la strage del 7 ottobre

Bandito in Germania e Regno Unito, lo sparatutto "Fursan al-Aqsa: The Knights of the Al-Aqsa Mosque" è ancora disponibile in diversi Paesi

di Massimo Balsamo

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Si rimpolpa l’elenco dei Paesi che hanno deciso di bandire “Fursan al-Aqsa: The Knights of the Al-Aqsa Mosque”, videogioco dal retrogusto antisemita. Già vietato in Australia e in Germania, il videogame è stato rimosso dalla piattaforma Steam anche in Gran Bretagna su richiesta dell’unità speciale antiterrorismo che si occupa di monitorare i contenuti estremisti su internet (la Counter Terrorism Internet Referral Unit, ndr). Rilasciato nel 2022, il videogioco consente ai giocatori di vestire i panni di un membro di Hamas che può sparare tra le strade di Gerusalemme al grido di “Allahu Akbar”. Ma non solo.
Grazie all’aggiornamento dell’esperto brasiliano Nidal Nijm “Operation al-Aqsa Flood”, il videogame consente ai giocatori di rivivere la strage di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023. Nei panni di un miliziano con la fascia verde sul braccio, il giocatore approda nei pressi di una base israeliana in paracadute: l’obiettivo è sparare a distanza ravvicinata ai soldati israeliani disarmati. Sembrerebbe quasi una clip di propaganda dell’organizzazione terrorista, in realtà è semplicemente il trailer del videogioco.
Le immagini che circolano in rete mostrano i soldati di Hamas mentre uccidono i militari israeliani in modo cruento. Gli sviluppatori hanno respinto le accuse di antisemitismo e di estremismo, sottolineando che sulle piattaforme di videogame sono presenti contenuti molto simili.“È triste sentirlo perché, come tutti sappiamo, il mio gioco non è troppo diverso da qualsiasi altro gioco sparatutto su Steam, come Call of Duty, per esempio”normal la versione del già citato Nijm riportata da Wired.
Nonostante ciò, "Fursan al-Aqsa: The Knights of the Al-Aqsa Mosque" resta disponibile senza restrizioni nella maggior parte dei Paesi del mondo, inclusa la Francia. Secondo il sito web SteamDB, le vendite sono stimate tra 7.000 e 36.000 copie. Il numero dei giocatori rimane molto basso: il picco è stato raggiunto il 19 febbraio con solo 16 giocatori contemporaneamente.

(il Giornale, 2 dicembre 2024)

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Israele in allerta per arrivo Guardie Rivoluzionarie in Siria

In Israele temono che l'Iran approfitti della crisi in Siria per far entrare un elevato numero di Guardie Rivoluzionarie in Siria e minacciare così lo Stato Ebraico

di Haamid B. al-Mu’tasim

Gerusalemme, Israele (Rights Reporter) Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto ieri sera una consultazione di sicurezza ad alto livello sugli sviluppi in Siria, in seguito all’attacco a sorpresa dei ribelli nella zona di Aleppo e Idlib.
Alti funzionari della sicurezza a Gerusalemme affermano che Israele teme che il presidente siriano Bashar Assad permetta all’Iran di introdurre forze delle Guardie Rivoluzionarie nel territorio siriano per aiutare l’esercito di Damasco a difendere il suo regime, e che tale mossa avvicinerà le Guardie Rivoluzionarie al confine con Israele.
Secondo le stesse fonti, Hezbollah avrebbe già inviato forze dal Libano nel nord della Siria per proteggere i beni dell’organizzazione e dell’Iran dai gruppi terroristici jihadisti.
Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è arrivato ieri a Damasco e ha incontrato il presidente Assad per coordinare le mosse tra Iran e Siria, con l’obiettivo di proteggere il regime siriano.
Secondo la stampa araba, l’Iran sta già pensando di inviare forze militari in Siria. Ieri sera ha messo in guardia gli Stati Uniti dall’approfittare della situazione in Siria e ha lanciato segnali sulla possibilità di inviare forze “consultive” delle “Guardie rivoluzionarie” nella città di Aleppo in Siria se gli sviluppi sul terreno lo richiedessero.
Fonti di stampa hanno riferito che il deputato iraniano Ismail Kavehtri, responsabile per gli affari militari presso la commissione per la sicurezza nazionale del parlamento, ha affermato ieri sera che esiste la possibilità che l’Iran invii forze “consultive” in Siria, ma secondo lui , “questo dipende dagli sviluppi sul terreno e dalle decisioni della leadership israeliana”.
Kavehtri ha affermato infatti che gli attacchi dei ribelli ad Aleppo avevano lo scopo di impedire gli aiuti iraniani a Hezbollah durante il cessate il fuoco di 60 giorni, secondo un piano americano-israeliano. Ha sottolineato che il numero dei consiglieri iraniani in Siria non è molto elevato e, se il loro numero fosse elevato, agirebbero immediatamente. Ha stimato che “il fronte della resistenza interverrà con forza in Siria per impedire il ritorno delle fazioni armate, al fine di contrastare il piano americano-israeliano”.
Le stesse fonti sostengono anche che il generale Hossein Dakiki, consigliere del comandante delle “Guardie rivoluzionarie”, ha affermato che “il nemico israeliano sta complottando in Siria e in Libano, ma in Siria gli verrà tagliata la mano in modo tale da passare per sempre alla storia.”
Secondo quanto riferisce la rete Farda in lingua persiana, migliaia di combattenti delle milizie sciite in Iraq si stanno dirigendo verso la città di Aleppo in Siria per partecipare ai combattimenti.
Israele sta monitorando attentamente ciò che sta accadendo in Siria, e fonti politiche dicono che Israele agirà se le forze iraniane o le milizie filo-iraniane tentano di avvicinarsi al confine con Israele, e che “Israele è pronto per qualsiasi scenario”.

(Rights Reporter, 2 dicembre 2024)

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Il 90° anniversario della Marina di Israele a Santa Marinella

di Nicole Nahum

C’è una storia poco conosciuta che lega un angolo di Italia, Santa Marinella, in provincia di Roma, alla nascita della Marina di Israele. Una storia che iniziò nel 1934, quando un gruppo di giovani ebrei, in fuga dalle persecuzioni naziste, arrivò in questo piccolo borgo del litorale laziale, per frequentare la Scuola Marittima di Civitavecchia. Lì, in quel luogo simbolico di speranza, questi ragazzi intrapresero un percorso che li avrebbe condotti a diventare i pionieri della futura Forza Navale israeliana. In occasione del 90° anniversario di questa nascita, il sindaco di Santa Marinella, Pietro Tidei, ha voluto rendere omaggio a tale evento, organizzando una celebrazione speciale, durante la quale il professor Livio Spinelli, da sempre legato a questa terra, ha tracciato il percorso di memoria che ha portato alla fondazione della Marina israeliana.
  Santa Marinella, già conosciuta per le sue proprietà terapeutiche, aveva attirato in passato l’attenzione della famiglia reale, che l’aveva scelta come luogo di cura per la figlia del re, affetta da una grave malattia polmonare. Fu proprio il dottor Guido Aronne Mendes a fare di Santa Marinella un punto di riferimento per il trattamento delle malattie polmonari.
  Nel contesto in cui in Europa si profilavano le tragiche ombre del nazismo e delle persecuzioni contro gli ebrei, nel 1934, su richiesta di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, capo del movimento sionista Bethar, il dottor Mendes si impegnò ad aiutare un gruppo di giovani ebrei provenienti da vari paesi europei, offrendo loro un’opportunità di istruzione e formazione. “Il generale e dottore Mendes, insieme all’aiuto dell’Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, ministro della Marina Italiana, si misero d’accordo per accogliere un primo gruppo di questi giovani”, racconta il professor Spinelli in un’intervista rilasciata a Shalom. Nasce così la Sezione Ebraica della Scuola Marittima di Civitavecchia, dove, il 28 novembre dello stesso anno, 28 cadetti provenienti da Polonia, Cecoslovacchia, Lituania, Lettonia, Austria e Italia intrapresero il loro percorso di formazione navale, segnando l’inizio della futura Marina israeliana.
  Il simbolo di quel primo corso di formazione fu il veliero “Sara I”, un’imbarcazione a quattro alberi che, al termine del corso, venne regalata agli allievi. La cerimonia di consegna, che si svolse nel porto di Civitavecchia, rimase nel cuore di chi vi partecipò, come testimoniato nelle parole del professor Spinelli durante una video intervista con la signora Bonfiglioli, l’ultima testimone vivente di quell’evento.
  Nel corso dei successivi anni, tra il 1934 e il 1938, la Sezione Ebraica formò oltre 300 cadetti, che avrebbero dato vita alla Marina Militare, Mercantile e Peschereccia di Israele. Questi giovani, spiega Spinelli, mostravano grande devozione, come testimonia un episodio emblematico: “Una volta misero accanto alla bandiera italiana quella con la stella di David. Il generale Fusco, impressionato e allo stesso tempo impaurito, disse loro di lasciarla, sperando che nessuno sollevasse obiezioni. Fu forse una delle prime volte nella storia che la bandiera italiana venne posta accanto a quella con la stella di David”. Durante questi anni, i giovani cadetti navigarono per tutto il Mediterraneo, toccando porti in Francia, Tunisia e Palestina. Utilizzando motopescherecci come Necha e Leah, i ragazzi praticavano la pesca al largo di Santa Marinella, vendendo il pescato al negoziante locale, il signor Varchetta.
  Tuttavia, il clima politico dell’epoca stava volgendo al peggio per le sorti degli ebrei. Nel maggio del 1938, una visita congiunta di Mussolini, Hitler e del Re d’Italia Vittorio Emanuele III a Santa Marinella segnalò l’inizio della fine per la Sezione Ebraica della Scuola Marittima. Il regime fascista, influenzato dalle leggi razziali e dalla crescente pressione del nazismo, ordinò la chiusura della scuola, ponendo fine a un’esperienza che aveva dato speranza a molti giovani ebrei.
  Un’altra testimonianza significativa legata a questo periodo e a questo luogo – spiega il prof. Spinelli – è quella di Franco Modigliani, economista e premio Nobel. Modigliani ricordò con affetto il gioco della “Repubblica di Caccia Riserva”, inventato durante le estati trascorse a Santa Marinella. Il gioco venne, purtroppo, interrotto dalla milizia fascista, che non tollerava l’uso del nome “Repubblica”.
  Il 90° anniversario della nascita della Marina di Israele, celebrato a Santa Marinella, è un’occasione che va oltre la semplice commemorazione storica. È un momento per guardare indietro e riflettere su come un piccolo angolo d’Italia sia stato testimone di speranza e coraggio in un periodo buio della storia. In quel luogo, giovani ebrei, costretti a fuggire dalle persecuzioni naziste, hanno trovato un’opportunità per costruire un futuro che sembrava lontano e impossibile e che, nonostante tutto, continua a riguardarci. Guardando oggi a quelle storie, non possiamo fare a meno di sentirne l’umanità: il desiderio di riscatto, la forza di volontà, ma anche la bellezza di sogni condivisi che hanno trovato il loro porto sicuro proprio a Santa Marinella.

(Shalom, 2 dicembre 2024)

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Il sesto comandamento: Dio protegge la vita

di Marcello Cicchese
    «Non uccidere (Esodo 20: 13). 

Questo è forse l'unico comandamento di Dio contro il quale non sono sollevate obiezioni, neppure da parte di chi non crede né in Dio né nella validità della sua legge. In una forma o nell'altra, tutte le legislazioni civili contengono questo divieto. I motivi sono fin troppo evidenti: in una società in cui l'omicidio non costituisse un reato, ben presto ogni forma di umana convivenza diventerebbe impossibile.
  Ma i motivi per cui Dio vieta di uccidere sono diversi dai nostri. Noi siamo interessati soprattutto a noi stessi, alla nostra tranquillità; vorremmo poter continuare a vivere facendo gli affari nostri senza correre mai il pericolo di incontrare qualcuno che ci tolga la vita: per questo accettiamo volentieri il divieto dell'omicidio. Se fosse possibile, anzi, estenderemmo questo divieto anche a Colui che ha il potere di pronunciare l'ultima e definitiva sentenza di morte. E così ci sentiamo più buoni di Dio: se noi rifiutiamo l'omicidio e condanniamo chi lo compie, perché allora Dio, che dovrebbe essere migliore di tutti noi, non si oppone alla morte delle sue creature?
  Ma è proprio qui che viene fuori la differenza tra Dio e noi. La vita e la morte di ogni uomo sono nelle mani di Dio: la vita esprime il suo amore e la morte esprime il suo giudizio; a Lui, come creatore, compete il diritto di far morire e far vivere.

    «L'Eterno fa morire e fa vivere; fa scendere nel soggiorno dei morti e ne fa risalire» (I Samuele 2:6).

Nel giardino d'Eden Dio aveva solennemente avvertito Adamo:

    «... del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai» (Genesi 2:7).

Adamo disubbidì e la parola di Dio andò ad effetto: l'uomo, tratto dalla terra, tornò alla terra:

    «... mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da dove fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai» (Genesi 3:19).

Dio, dunque, uccide. L'Iddio creatore è anche l'Iddio giudice della sua creatura caduta nel peccato. E proprio per il fatto che la morte dell'uomo esprime il giudizio insindacabile '' di Dio sull'uomo disubbidiente, tu, uomo, non hai alcun diritto di uccidere il tuo fratello. L'uccisione di un uomo costituisce un giudizio definitivo dato su quell'uomo, e tu, uomo, non hai alcun diritto di ergerti a giudice del tuo fratello. Il giudizio deve essere lasciato a Colui che può uccidere te e il tuo fratello, perché entrambi peccatori davanti a Lui.
  Ogni uomo che vive si trova, per il solo fatto che vive, sotto la misericordia di Dio. Certamente è un peccatore; forse è un mio nemico; forse mi ha offeso e colpito in modo grave; forse sono tentato di castigarlo con la morte. Ma molto più che offendere me, egli ha offeso il suo Creatore; e tuttavia Egli manifesta pazienza verso di lui, lasciandolo ancora in vita. Mi ribellerò io alla bontà di Dio e usurperò il diritto di giudizio che gli compete, colpendo a morte il mio fratello contro il volere di Dio che lo lascia in vita per la sua misericordia?
  Chi uccide un uomo fa risaltare la natura profonda del peccato, che consiste nel voler essere «come Dio» (Genesi 3:5). L'omicidio è dunque una sfida a Dio, un tentativo di scalzarlo dalla sua posizione di giudice.
  Consideriamo infatti il primo omicidio avvenuto sulla faccia della terra: quello di Caino. E chiediamoci: quale fu il movente? Certamente non fu un contrasto tra i due fratelli: Abele e Caino non avevano litigato fra loro per questioni di pecore o di terreni. Il motivo dell'uccisione fu il giudizio di Dio su di loro. Caino non accettò né il giudizio su di sé, né quello su Abele, ma anzi «ne fu molto irritato, e il suo viso ne fu abbattuto» (Genesi 4:6). L'Eterno non aveva gradito l'offerta di Caino e aveva invece espresso un giudizio favorevole su Abele e la sua offerta. A questo giudizio di Dio Caino sovrappose il suo, e giudicò il fratello degno di morte.
  In Caino posso ritrovare gli elementi fondamentali che mi spingono all'omicidio: il rifiuto del giudizio di Dio su di me e il rifiuto della sua misericordia verso l'altro.
  Però, a voler essere sinceri, dobbiamo ammettere che Caino non manca di suscitare in noi una certa comprensione. In generale, bisogna dire che gli eletti di Dio ci appaiono spesso meno simpatici degli esclusi. Che cosa avevano di particolare figure come Abele, Giacobbe, Giuseppe rispetto alle altre persone che non furono scelte da Dio? Ma è proprio qui, in questo movimento di simpatia verso gli esclusi, che si manifesta la nostra tendenza a ribellarci ai giudizi di Dio. Noi vogliamo che Dio ci renda conto di quello che fa; vogliamo poter misurare il grado di giustizia delle sue azioni prima di decidere se è il caso di accettarle. E la nostra ribellione ai suoi giudizi trova sfogo nell'aggressività verso i nostri simili, proprio come nel caso di quegli impiegati che, non potendo esprimere il risentimento verso il capoufficio, si sfogano a casa con i familiari.
  Ma se non sempre riusciamo a capire le ragioni dell'agire di Dio, ciò non significa che tali ragioni non ci siano. Dio non ci abbandona, anche quando ci giudica, e noi dobbiamo ascoltare le sue parole con cui ci invita a « non irritarci» e a «non abbatterci», a «rialzare il nostro volto facendo il bene» e a «dominare il peccato che sta spiandoci alla porta» (Genesi 4:7).
  Dopo quanto detto, dovrebbe essere chiaro che il sesto comandamento non è un principio astratto e universale, per cui ogni forma di vita dovrebbe esser sempre e in ogni caso difesa. Il comandamento sottolinea piuttosto che tutte le questioni riguardanti la vita e la morte dell'uomo sono di competenza diretta di Dio. Dopo il peccato, Dio ha messo nelle mani degli uomini la vita di tutti gli animali della terra, del cielo e del mare (Genesi 9:1-4), ma ha solennemente avvertito che « chiederà conto della vita dell'uomo alla mano dell'uomo» (Genesi 9:5). E ha aggiunto:

    «Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell'uomo sarà sparso dall'uomo, perché Dio ha fatto l'uomo a immagine sua» (Genesi 9:6).

Non c'è quindi da sorprendersi né da scandalizzarsi se la stessa legge che contiene il divieto di uccidere ordina poco dopo di mettere a morte l'omicida (Esodo 21:12). Chi uccide un uomo si scaglia contro l'immagine di Dio, e Dio ha il potere di eseguire quella sentenza di morte che è già stata pronunciata su ogni uomo peccatore. L'Iddio che dà la vita all'uomo e ne fa una sua immagine in mezzo al creato non può restare indifferente davanti al sangue sparso dall'uomo. L'uomo è stato tratto dalla terra e alla terra ritornerà a motivo del giudizio di Dio. Ma se la vita dell'uomo torna alla terra nella forma del sangue sparso da un altro uomo, allora la terra resta contaminata, e « la voce del sangue grida a Dio dalla terra» (Genesi 4:10). Secondo la legge di Mosè, nessun pagamento di riscatto poteva sostituire la morte di colui che aveva ucciso un uomo: la terra profanata dal sangue dell'ucciso poteva essere purificata soltanto dal sangue dell'uccisore:

    « Non contaminerete il paese dove sarete, perché il sangue contamina il paese; e non si potrà fare per il paese alcuna espiazione del sangue che vi sarà stato sparso, se non mediante il sangue di colui che l'avrà sparso» (Numeri 35:33).

Il divieto di uccidere dunque non si estende a Dio, che attraverso gli uomini può punire con la morte il peccato di altri uomini. La «spada» che i magistrati civili portano, in qualità di autorità stabilite da Dio (Romani 13:4), fa capire che questo fatto resta valido anche nel Nuovo Patto. Non è qui il caso di discutere se sia opportuno o no, in una legislazione moderna, avere tra le pene anche la pena capitale; quello che si può dire è che non ci si può appellare al sesto comandamento per escluderla. Una conferma si può trovare anche nel verbo usato nel testo, che nell'originale ha un significato molto più limitato del nostro «uccidere», e sarebbe meglio tradotto con «assassinare».
  Cadono invece tra le infrazioni al sesto comandamento l'aborto, l'eutanasia e il suicidio. E sono proprio queste particolari forme di uccisione che ci fanno capire la differenza che c'è tra i nostri motivi contro l'omicidio e quelli di Dio. Perché il suicidio non è un reato per la legge civile? Perché l'aborto e l'eutanasia possono essere, se non del tutto liberalizzati, almeno regolamentati, e quindi ammessi nella società? Il motivo è chiaro: questi fatti non sembrano disturbare la convivenza umana; anzi, si direbbe che in certi casi servano addirittura ad attenuare la gravità di alcuni problemi sociali. Perché dunque condannarli? Non è forse vero che con questi interventi si riesce a porre rimedio a molte sofferenze umane?
  Ancora una volta, non è il caso di esaminare qui questi problemi nella loro dimensione sociale. Ma chi crede nel Dio della Bibbia non può lasciarsi guidare soltanto dal desiderio di raggiungere il piacere o di evitare la sofferenza. Quello che veramente conta è la volontà di Dio. E Dio riserva a sé il diritto di giudicare quando una vita è giunta al suo termine. Il comandamento deve porre fine alle nostre speculazioni: dobbiamo smettere di argomentare intorno a ciò che può essere più o meno conveniente per noi. Se ci sembra che il rispetto del comandamento di Dio porti ad accrescere le sofferenze umane sulla terra, dobbiamo ricordare che le sofferenze dell'uomo sono una conseguenza del peccato, e non un deplorevole incidente a cui porre rimedio in tutti i modi possibili. Il vero nemico dell'uomo non è la sofferenza, ma il peccato. Voler sempre e a tutti i costi ridurre le sofferenze conduce l'uomo a irrigidirsi nella sua rivolta contro Dio, e non garantisce affatto che, alla lunga, le sofferenze umane possano essere veramente diminuite. Chi trasgredisce gli ordini di Dio per evitare il dolore cade poi in preda a quelle sottili e indefinibili angosce da cui non ci si può difendere perché non si capisce da dove provengano, mentre in realtà sappiamo che provengono da quel mondo di tenebre che si oppone all' azione di salvezza di Dio. L'uomo che soffre può certamente cercare di lenire le sue sofferenze, ma deve ricordare che in questo ha dei limiti. La vita dell'uomo è uno di questi limiti. Ed è un limite che non si può superare senza trovarsi a fare i conti con Dio, perché «Dio chiederà conto della vita dell'uomo alla mano dell'uomo ... perché Dio ha fatto l'uomo a immagine sua» (Genesi 9:5-6).
  Certo, non si può negare che qualche volta l'uomo può venire a trovarsi in circostanze angosciose in cui, pur volendo fare la volontà di Dio, si sente quasi costretto a scegliere tra due delitti. Tuttavia, l'esistenza di tali situazioni-limite non deve invogliare a discussioni teoriche o alla formazione di casistiche da cui possa dedursi che «in certi casi» all'uomo sia lecito uccidere. Non esistono «casi»: esistono solo specifiche, uniche situazioni nelle quali si deve appassionatamente ricercare la volontà di Dio, tenendo comunque sempre conto del fatto che il potere «di far morire e di far vivere» spetta soltanto a Dio. E se, per un qualunque motivo, a qualcuno dovesse capitare di togliere la vita ad un altro uomo, quali che siano le circostanze che hanno portato a quel fatto, chi ha ucciso non potrebbe che sentirsi obbligato a richiedere il perdono di Dio e a invocare la sua misericordia. Ma è bene vegliare e pregare il Signore di non condurci mai in simili situazioni di smarrimento e turbamento della coscienza.
  Dal Nuovo Testamento sappiamo poi che Gesù ha radicalizzato anche il sesto comandamento, dicendo che non soltanto colui che uccide sarà giudicato, ma anche chi si adira contro il fratello e gli rivolge parole ingiuriose cadrà sotto il giudizio di Dio (Matteo 5:21-27). Con queste parole Gesù non sposta indebitamente l'attenzione dal fatto concreto dell'omicidio a quello psicologico dei moti dell'animo. Gesù continua a parlare dell'omicidio, anzi va alla radice di esso, sottolineando il fatto che, davanti a Dio, questo reato si compie molto prima di quando gli uomini sono in grado di riconoscerlo. «È dal di dentro, è dal cuore degli uomini - dice Gesù - che escono... gli omicidi» (Marco 7:21). E Giovanni aggiunge, con parole lapidarie:

    «Chiunque odia il suo fratello è omicida» (1 Giovanni 3:15).

L'odio ha a che fare con la morte, come l'amore ha a che fare con la vita. L'amore genera vita e l'odio genera morte. Quindi chi odia si trova già sulla china che conduce all'omicidio.
  Giacomo è anche capace di indicare uno strumento con cui si può dare la morte: la lingua. Non sempre ci pensiamo, ma il sesto comandamento può essere infranto anche con la lingua, che sembra essere un mezzo capace di procurare la morte per avvelenamento:

    « ... ma la lingua, nessun uomo la può domare; è un male continuo, è piena di veleno mortale» (Giacomo 3:8).

I movimenti che conducono all'omicidio possono dunque essere ordinati in questo modo: l'odio, l'ira, la parola che offende, l'azione che uccide. Se vogliamo rispettare il sesto comandamento dobbiamo esercitarci a contrastare questi movimenti seguendo un ordine inverso a quello indicato. Se sono capace di controllare le mie azioni e sono riuscito a «non colpire a morte» un uomo, allora devo imparare a non colpirlo con la lingua, a non demolirlo con giudizi offensivi, a non deturpare la sua immagine diffamandolo presso i suoi simili. Se ho imparato a controllare le mie parole, allora devo imparare a controllare i sentimenti di irritazione e di ira, perché con la mia ira vorrei imitare la giusta ira di Dio contro l'uomo peccatore; ma io non sono Dio, anzi, sono io stesso un peccatore che si trova sotto l'ira del Dio tre volte santo, e solo in Gesù Cristo posso essere perdonato e accolto.

    «... che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira; perché l'ira dell'uomo non compie la giustizia di Dio» (Giacomo 1:19-20).

L'unica forma d'ira che devo avere non è contro il mio fratello, ma contro il male che tiene asserviti me e il mio fratello. E questo tipo di ira non si alimenta con l'odio e la violenza, ma con l'umiliazione e la preghiera.
  Se poi ho imparato a tenere sotto controllo anche i sentimenti di ira, allora ho liberato l'anima mia da molti spiriti cattivi e la mia casa, come dice Gesù, è diventata «spazzata e adorna» (Luca 11:25). Se allora voglio evitare che altri spiriti cattivi, peggiori dei primi, tornino ad abitare in me e rendano la mia condizione «peggiore di prima» (Luca 11:26), l'unica cosa da fare è riempire l'anima di quell'amore che Gesù ha sparso nei nostri cuori e che tende a traboccare verso gli altri. L'odio che dà la morte viene sconfitto soltanto dall'amore che dà la vita. Non è possibile limitarsi a non uccidere e a non odiare; non ci sono zone intermedie: se non si vuole cadere nelle mani dell'odio bisogna consegnarsi interamente all'amore di Dio e diventare strumenti del suo amore verso tutti gli uomini.

    «Da questo abbiamo conosciuto l'amore: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli» (1 Giovanni 3: 16).




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