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Notizie 1-15 febbraio 2018


La maratona di Gerusalemme l'8 marzo 2018: una comunione d'idee, stili e religioni

di Paola Farina

Ho sempre sostenuto e continuo a sostenere che Israele, padre della tecnologia e madre della comunicazione, non sa comunicare. Ho letto i vari press release sulla prossima Maratona di Gerusalemme e a costo di diventare antipatica, ammesso che gli sia simpatica, all'Ambasciatore Ofer Sachs ripeto che manca l'anima nei comunicati stampa. Quella di Gerusalemme non è una maratona vera e propria: è una comunione d'idee, stili e religioni. Mentre correte, la corsa passa in secondo luogo ed emerge invece Gerusalemme, capitale di Israele dal 1950, nella sua totale bellezza storica, religiosa e culturale che offre a turisti e atleti paesaggi, luoghi, scenari, emozioni, soldati e soldatesse mozzafiato.
   Qui Oriente e Occidente s'incontrano, passato e presente si toccano e le ideologie forgiano modi di vita diversi eppure uguali. Quattro millenni di tradizione ebraica, oltre cento anni di sionismo e oltre sei decenni di stato moderno, un po' di guerre, hanno contribuito alla formazione di una cultura che ha creato una propria identità, mantenendo nel contempo l'unicità delle almeno 120 comunità che la compongono...
   Ma se scrivo tutto ora cosa scriverò per il GFNY (maratona in bicicletta) del 27 aprile e per la partenza del Giro d'Italia del 4 maggio?
   Ritornando alla maratona, saranno almeno 30.000 i partecipanti, provenienti da 55 paesi (alla faccia di chi vuol boicottare Israele) e come nelle edizioni passate sono previste la maratona da 42 km., la mezza maratona, di solito preferita dai diversamente giovani e da quelli più pigri, i 10 km e tragitti più brevi per le famiglie.
   Lo scorso anno un ottantatreenne nato a Noventa Vicentina, ma ora residente a Illasi (Vr), Rodolfo Zanchetta è stato il primo dei senior, riporto una sua dichiarazione all'Arena del 18 aprile: "Mi ha mosso soprattutto il desiderio di continuare a camminare nel segno della fratellanza fra i popoli e poi non potevo trascurare almeno una presenza nelle terre che hanno visto l'origine della nostra fede cristiana".
   ‘Gerusalemme non potrà mai essere solo una maratona, è un mosaico dove sono inserite tutte le tessere, una struttura geografica e spirituale con le coordinate di dove noi ora siamo e di dove noi domani saremo.

(Vicenza Più, 15 febbraio 2018)


Dalla Città contesa può nascere uno Stato binazionale

di Umberto De Giovannangeli

Doveva essere la capitale della terza Intifada, la Città Santa che doveva mobilitare le masse arabe e musulmane contro la sua ebraizzazione. Così non è stato. E oggi Gerusalemme può diventare il punto di partenza per dare corpo all'idea di uno Stato binazionale. A darne conto è un sondaggio in cui emerge che quasi il 60% dei residenti palestinesi di Gerusalemme est ritiene che si dovrebbe partecipare alle elezioni municipali della città, mentre solo il 14% si dice contrario.
   Il rilevamento è avvenuto alcuni giorni dopo l'annuncio del presidente Usa Donald Trump di spostare l'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Il sondaggio commissionato dall'Università ebraica di Gerusalemme, in collaborazione con Ipcri - Israel-Palestine: Creative Regional Initiatives - è stato realizzato dal "Palestinian Center for Public Opinion", diretto da Nabil Kukali, uno dei più autorevoli statistici palestinesi.
   L'interesse del rilevamento non è solo nel dato quantitativo, senza precedenti, ma anche nell'individuazione dei tratti, sociali e anagrafici, della maggioranza di quel 60%: giovani, acculturati, in buone condizioni finanziarie. Dietro quel 60% c'è delusione e speranza, e comunque la presa d'atto del fallimento di una soluzione a due Stati. Attualmente i palestinesi rappresentano circa il 40% della popolazione (865.000 abitanti) di Gerusalemme. Dopo che Israele ha annesso Gerusalemme Est nel 1967 - in contrasto con le risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite che considerano la parte Est della città come parte dei Territori occupati - ha concesso agli abitanti palestinesi della zona la residenza permanente piuttosto che la cittadinanza, quindi hanno il diritto di votare alle elezioni municipali, ma non a quelle nazionali. Ciononostante, i palestinesi hanno costantemente boicottato le elezioni del consiglio comunale e del sindaco. Nelle ultime elezioni comunali di Gerusalemme, ad esempio, meno dell'1% dei palestinesi eleggibili ha votato.
   Ora gli orientamenti sembrano essere ribaltati. "Partecipare alle elezioni è visto come un modo per esprimere insoddisfazione per la situazione esistente a livello sia civile che diplomatico, data tutta l'incertezza che deriva dal proseguimento della situazione esistente, senza prospettive di cambiamento visibili all'orizzonte", rileva il professor Dan Miodownik, direttore dell'Istituto universitario "Leonard Davis" per le relazioni internazionali di Gerusalemme. "Non è che si stiano dicendo, 'se partecipiamo alle elezioni, andrà tutto bene' - puntualizza Miodownik - e nelle risposte alle altre domande dalle quali emerge una forte diffidenza verso la normalizzazione con Israele, ma partecipare alle elezioni municipali viene visto come l'unico modo in cui i palestinesi possono protestare legalmente in Israele", praticando un loro diritto civile e al tempo stesso cercando, con il voto, di accorciare il fortissimo gap, sociale, urbanistico, di vita, che oggi divide i quartieri ebraici di Gerusalemme da quelli popolati dai palestinesi. Il voto e la presenza nel consiglio municipale può servire ad accantonare definitivamente quella Legge sulla Grande Gerusalemme - presentata alla Knesset nel novembre scorso dai gruppi parlamentari della destra ultranazionalista ma "sospesa" dal primo ministro Benjamin Netanyahu - che è in pratica un cambiamento demografico compiuto attraverso le annessioni. Con questa legge, gli oltre 150.000 abitanti delle colonie sarebbero considerati residenti di Gerusalemme, permettendo pertanto loro di votare e, quindi, di influenzare le elezioni municipali. Farebbe inoltre declassare lo status di tre quartieri palestinesi di Gerusalemme, degradando con esso anche lo status dei circa 100.000 Palestinesi che vi risiedono - essenzialmente creando il loro Bantustan di Gerusalemme.
   Sei mesi fa, Eyad Bahbouh, un insegnante di A-Tur, un quartiere arabo di Gerusalemme Est, ha annunciato la creazione di un partito di Gerusalemme Est per partecipare alle elezioni municipali riuscendo in poco tempo a mobilitare centinaia di attivisti per questo obiettivo. Nel pronunciarsi per il voto, quel 60% di palestinesi, giovani e istruiti, danno anche conto di un dato politico estremamente significativo: il distacco crescente tra una parte, importante, della società palestinese e i partiti tradizionali, sia a carattere nazionalista (al-Fatah) sia a forte identità radicale e islamista (Hamas). Quel 60% è anche un segnale che incoraggia quanti, sia in campo israeliano che in quello palestinese, hanno rilanciato l'idea di uno Stato binazionale. Tra loro, c'è Abraham Bet Yehoshua. "Da democratico - ha rimarcato il grande scrittore israeliano in una intervista esclusiva concessa ad HuffPost - non posso rinunciare al principio che tutti i cittadini devono essere eguali di fronte alla Legge, senza distinzione per appartenenza etnica o religiosa. Come progressista, guardo con preoccupazione al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi e credo che in questo momento sia importante la prosa più che la poesia, e ciò significa che riconoscere agli abitanti della Cisgiordania diritti sociali di primaria importanza, quali sono, ad esempio, il diritto alla sanità e alla pensione, sia un tratto fondamentale, perché tangibile, di ciò che può volere dire uno Stato binazionale. Da democratico, penso che ogni cittadino debba essere uguale di fronte alla Legge e godere degli stessi diritti sociali e civili". Proviamoci, dice Yehoshua. Quel 60% ha risposto: siamo pronti.

(L'Huffington Post, 15 febbraio 2018)


Stato binazionale significa fine dello Stato ebraico. Sarà forse questa la prossima forma di antisionismo e quindi di antiebraismo? Perché allora non dovrebbe essere possibile, in linea puramente teorica (perché è sempre e soltanto immaginifica teoria politica quella che predilige il romanziere Abraham Bet Yehoshua), un unico Stato ebraico tollerante al suo interno minoranze non ebraiche? Evidentemente la semplice presenza di uno Stato che si ostina a dirsi ebraico costituisce un problema. Ma è lo stesso problema che ha costituito nella storia la presenza di ebrei sparsi in tutto il mondo. Prima di chiedersi dov’è la soluzione, bisognerà chiedersi qual è il problema. La Bibbia risponde a questa domanda, ma a molti non interessa. Al momento opportuno però verrà fuori, e non dagli uomini, qual è il vero problema e qual è la soluzione. E allora molti dovranno confrontarsi con nuovi, inaspettati problemi personali. M.C.


Le prove generali della guerra che verrà fra Iran e Israele

di Chiara Clausi

Che cosa è successo
Sabato 10 febbraio nei cieli della Siria si è combattuta la prima battaglia diretta tra Israele e Iran. All'alba Wl drone-spia di fabbricazione iraniana è penetrato nello spazio aereo israeliano sopra il Golan ed è stato abbattuto da un elicottero Apache. Israele ha lanciato otto caccia F-16 verso Palmira, in profondità nel territorio siriano, per distruggere la base di lancio del drone, gestita dai Pasdaran. La reazione della contraerea siriana è stata massiccia, come mai negli oltre 100 raid israeliani precedenti. Un F16 israeliano è stato preso di mira da decine di missili antiaerei ed è stato abbattuto mentre rientrava verso Israele. Si è schiantato vicino a Haifa: i piloti si sono buttati con i paracadute e uno è rimasto ferito. Dopo aver lanciato una nuova rappresaglia contro «12 obiettivi» iraniani in Siria, il premier Benjamin Netanyahu ha detto: «Continueremo a colpire chiunque ci colpisca». Ma nel «più violento scontro aereo dal 1982» i due rivali hanno soprattutto saggiato punti forti e punti deboli.

 Che cosa hanno scritto
  Haaretz, fra i più importanti quotidiani israeliani, spiega le possibili conseguenze di quanto successo: «La valutazione ampiamente condivisa è che entrambe le parti hanno ottenuto tutto ciò che potevano. Tuttavia Israele crede anche che, a lungo termine, un altro scontro con gli iraniani in Siria sia quasi inevitabile». L'iraniano The Tehran Times riporta le dichiarazioni di Hosseìn Salanti, secondo in comando dei Pasdaran: «L'Iran può creare un inferno per il regime sionista di Israele». E ha aggiunto: «Tutte le basi militari Usa nella regione sono nel raggio d'azione dei raid iraniani».

 Che cosa succederà
  Il parere di Carlo Jean, docente di studi strategici: “La situazione bellica nella regione potrebbe intensificarsi se Iran e Siria violeranno di nuovo lo spazio aereo israeliano. Israele a quel punto picchierebbe davvero duro, inviando non otto F16, ma 50, e l'escalation sarebbe inevitabile. Ci potrebbe essere a tal punto anche un'azione terrestre da parte di Israele contro il Libano per la difesa delle colline del Golan, punto nevralgico molto importante per la sua sicurezza. La situazione invece potrebbe distendersi se il regime di Assad non desse più sostegno a Hezbollah e alle milizie legate all'Iran. Ma il Paese-chiave è la Russia: se riuscirà a convincere Teheran a non fare più provocazioni contro Israele, la situazione della regione si calmerà. La Russia è anche essenziale per la pace in Siria, assieme a Usa e a Israele.”

(Panorama, 15 febbraio 2018)


Tillerson: "Hezbollah fa parte della politica libanese, bisogna ammetterlo"

Il segretario di Stato Usa in Libano per incontrare il presidente Aoun e il premier Hariri

di Gioradano Stabile

 
Rex Tillerson, segretario di Stato americano
Il segretario di Stato americano Rex Tillerson arriva a Beirut per una visita di poche ore, prima dell'ultima tappa del suo viaggio in Medio Oriente, in Turchia. Nel programma è previsto l'incontro con il presidente, il cristiano Michel Aoun, e il primo ministro Saad Hariri, musulmano sunnita. Non sono previsti incontri con esponenti della componente sciita.
   Ieri sera ad Amman, in Giordania, Tillerson ha ribadito che gli Stati Uniti sostengono un «Libano democratico, libero da ogni influenza straniera». «Sappiamo - ha aggiunto - che l'Hezbollah libanese è influenzato dall'Iran. Questa influenza non è positiva, riteniamo, sul lungo periodo».
   Il segretario di Stato ha poi ha aggiunto che «riconosciamo anche che in realtà Hezbollah fa parte del processo politico in Libano». Il Partito di Dio fa parte del governo di unità nazionale guidato da Hariri, con due ministri, ed è alleato del Fronte patriottico guidato dal presidente Aoun, che si contrappone alla coalizione dello stesso Hariri.
   Hezbollah controlla però anche un milizia armata di circa 40 mila uomini, con decine di migliaia di missili e razzi puntati contro Israele. Circa diecimila combattenti sono in Siria a sostegno del presidente Bashar al-Assad, sciita-alawita. Nel 2006 Hezbollah si è scontrato con l'esercito israeliano, in una guerra durata 33 giorni, nel Sud del Libano.

(La Stampa, 15 febbraio 2018)


I sauditi vogliono l'atomica e negoziano con Usa e Israele

di Lorenzo Vita

I rapporti fra Israele e Arabia Saudita sono da molto tempo al centro delle analisi sul Medio Oriente. Qual è il rapporto che lega questi due Paesi? Molto spesso si ritiene che questi due Stati siano profondamente alleati, ma è un ragionamento che rischia di essere fuorviante. Riad e Tel Aviv in questi anni hanno avuto molto motivi per essere in rapporti di collaborazione strettissima, ma sarebbe superficiale credere che vi sia una grande alleanza che li lega. Quello che è in atto è, molto più semplicemente, un perfetto matrimonio d'interesse che riesce a coniugare perfettamente i desideri di entrambi i Paesi. Sauditi e israeliani hanno soprattutto due fattori che li legano. Hanno alleato comune, gli Stati Uniti d'America, guidato da un presidente amico dei rispettivi governi. Ed hanno un nemico comune, l'Iran, così come tutti i suoi alleati regionali.
  Questi due fattori uniscono la geopolitica di entrambi gli Stati, ma non bisogna sottovalutare che i loro interessi, in molti campi, siano ancora divergenti. Uno di questi, in particolare, è stato analizzato da Haaretz in una recente inchiesta sulle relazioni israelo-saudite. Ed è il nucleare saudita. Secondo il quotidiano israeliano, il governo di Tel Aviv si trova attualmente nel pieno di una battaglia politica a Washington per impedire che gli Stati Uniti permettano che Riad sviluppi il proprio programma di energia nucleare che gli consentirebbe di arricchire l'uranio e dunque, eventualmente, di avere un proprio arsenale nucleare nazionale e indipendente da ogni alleanza militare.
  Secondo i rapporti dell'intelligence israeliana, l'amministrazione Trump, legata a doppio filo con Casa Saud, potrebbe essere disposta ad abbassare alcune misure di sicurezza che impediscono alle società statunitensi di condividere tecnologie nucleari sensibili con l'Arabia Saudita. In questo senso, l'attuale amministrazione Usa, che ha siglato con i sauditi enormi contratti in ambito militare, potrebbe non insistere sulle stesse precauzioni che, ad esempio, Obama impose nell'accordo di cooperazione nucleare siglato con Abu Dhabi, quando impose il fatto che si vietasse l'arricchimento dell'uranio e di riprocessare il plutonio.
  Nei suoi negoziati con gli Stati Uniti, l'Arabia Saudita non sembra disposta a rinunciare ad arricchire l'uranio nell'ambito del suo presunto programma nucleare civile. Una volontà che,per ironia della sorte, viene imposta basandosi sulle stesse condizioni contenute nell'accordo sul nucleare iraniano. Se però l'amministrazione Trump non sembra particolarmente contraria all'ipotesi di un semaforo verde a Riad, l'ostacolo per l'Arabia Saudita è il Congresso degli Stati Uniti, perché è qui che Israele ha molti più "amici" dei sauditi e può unire la sua vicinanza a Trump con un forte blocco congressuale. Il Congresso potrebbe infatti bloccare l'accordo eventualmente siglato dal governo Usa o aggiungere clausole che impediscano agli Stati Uniti di vendere tecnologie sensibili all'Arabia Saudita.
  Ma è possibile ritenere che Israele e Arabia Saudita siano così divise su questo fronte? È più che probabile, in realtà, che Israele stia mandando un segnale ai sauditi affinché comprendano che c'è un prezzo da pagare se vogliono un via libera al Congresso. Israele vuole qualcosa in cambio, perché Tel Aviv ritiene di avere ottenuto ancora poco da Riad e vuole certezze sul fatto che quest'ultima sia fedele alla linea voluta da Usa e Israele sul fronte mediorientale. Un do ut des che per Israele si tradurrebbe in: Gerusalemme capitale riconosciuta, diritto di sorvolo per gli aerei israeliani nei cieli sauditi (l'Arabia ha smentito le recenti voci su un accordo), cooperazione militare e d'intelligence diretta, investimenti cospicui per le imprese israeliane in Arabia Saudita e una serie di accordi commerciali.
  Un accordo tra Stati Uniti e Arabia Saudita potrebbe aiutare l'industria nucleare americana, che naviga in cattive acque anche grazie alle grandi capacità d'investimento dei russi. E potrebbe essere un mezzo per Washington proprio per evitare che la Russia imponga la sua linea sul nucleare saudita. Il principe ereditario Mohammed Bin Salman ha già visitato Mosca e firmato accordi con la Russia per costruire 16 reattori nucleari entro il 2030. E l'Arabia Saudita ha già accordo sul nucleare con Cina, Francia, Corea del Sud, Pakistan e Argentina. Insomma, gli Usa non sono gli unici a poter consegnare tecnologie nucleari. Ma è chiaro che i sauditi, per ora, preferiscano passare per Washington. Anche solo per evitare contraccolpi alla propria geopolitica. Tuttavia devono passare per Israele, che ha imposto, a quanto pare, un prezzo molto alto. Un prezzo che però reggerà finché durerà l'accordo sul nucleare iraniano. Qualora gli Usa dovessero dire addio all'accordo del 5+1, bisognerebbe sperare soltanto nella lucidità di Teheran e nella diplomazia europea. Altrimenti, il rischio che Riad decida da sé di sviluppare un proprio arsenale nucleare potrebbe essere molto alto.

(Gli occhi della guerra, 15 febbraio 2018)


Giro d'Italia. La corsa in rosa partirà ufficialmente dalla capitale dello Stato ebraico

La presentazione si è svolta presso lo stand di Israele che in occasione della Borsa Internazionale del Turismo 2018 di Milano ha accolto i numerosi visitatori con una maglia speciale disegnata per la prima tappa israeliana del Giro e una torta rosa realizzata appositamente per la manifestazione sportiva.
All'evento hanno partecipato l'ambasciatore dello Stato d'Israele Ofer Sachs, la direttrice dell'ufficio nazionale israeliano del turismo Avital Kotzer Adari e il vicedirettore della Gazzetta dello Sport Pier Bergonzi.
Ofer Sachs ha ringraziato l'Italia per il "regalo importante" fatto dal nostro paese e ha scherzato con i presenti, sottolineando che è arrivato il momento giusto per visitare lo Stato ebraico:
"Il Giro d'Italia è l'occasione per vedere e comprendere la bellezza di Israele. Bartali è una superstar in Israele e con il KKL Italia costruiremo una pista ciclabile intitolata al campione italiano".
Il vicedirettore della Gazzetta dello Sport Pier Bergonzi ha parlato dell'evento sportivo e ha ricordato che la prima tappa della corsa in rosa sarà speciale perché verrà dedicata al grande corridore Gino Bartali, il cui coraggio salvò moltissimi ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale:
"Per noi è la prima volta fuori dall'Europa. Solitamente la prima tappa parte fuori dall'Italia ma non ci siamo mai spinti fuori dai confini europei. Oggi lo sport è importante, basta vedere cosa sta accadendo con le Olimpiadi della Corea del Nord. Lo sport è un linguaggio universale di pace e di condivisione. Siamo molto felici che la tappa israeliana di apertura della 101esima edizione del Giro d'Italia sia dedicata al ciclista italiano. Parlare di Bartali, per noi della Gazzetta, è come parlare di casa nostra".
Giro d'Italia-Gerusalemme: la notizia è ufficiale, con buona pace di tutti i detrattori…

(Progetto Dreyfus, 15 febbraio 2018)


Israele fra gli europei

"Dalla Ue ai singoli stati, ecco le nostre pagelle". A colloquio con i diplomatici di Gerusalemme

di Giulio Meotti

ROMA - "Siamo preoccupati dall'Inghilterra". Si apre così il dialogo del Foglio con fonti qualificate della diplomazia israeliana. "Ci preoccupa la debolezza del premier Theresa May e siamo delusi dal ministro degli Esteri, Boris Johnson, che da sindaco di Londra era molto più filoisraeliano di oggi che è succube del Foreign Office, da sempre vicino al mondo arabo. Ci preoccupa l'ascesa di Jeremy Corbyn, la cui eventuale vittoria politica sarebbe un incubo. Sulla sicurezza, l'Inghilterra ci è ancora molto amica, lo vediamo sull'Iran ad esempio. E' invece preoccupante per l'atlantismo la crisi fra Londra e Washington".
   Gerusalemme vede alcune "criticità" in Europa. "La Svezia senza dubbio; l'Irlanda, al cui Parlamento è appena stata discussa e per ora bloccata una legge che boicotta i beni israeliani prodotti oltre la Linea verde; e la Slovenia, prossima temiamo a riconoscere lo stato palestinese. Siamo in ansia sulla Germania, dove la debolezza di Angela Merkel non spinge più quel paese a intervenire contro molte iniziative antisraeliane" .
   Meglio il fronte francese. "Tra Emmanuel Macron e Donald Trump c'è un buon feeling e Parigi eviterà lo scontro con gli Stati Uniti. I diplomatici francesi in questi giorni sono a Ramallah a convincere Abu Mazen a non abbandonare gli accordi di Osio. Questo ruolo francese è positivo per controllare i palestinesi. Con l'Olanda i rapporti erano buoni quando pensavano di aver salvato gli ebrei durante la Shoah, il mito di Anne Frank. Poi hanno scoperto che avevano tradito gli ebrei e questo ha cambiato sentimento anche verso Israele".
   Peggio i rapporti con l'Unione europea. "Ottimi quelli economici e commerciali, male quelli politici. C'è soltanto un dialogo 'informale'. La Ue lega sempre i suoi rapporti con Israele alla soluzione del conflitto con i palestinesi. La cosa per noi positiva è che l'Europa è divisa, come all'Unesco". Visegrad è una sorpresa per Israele. "I paesi europei dell'Est sono nostri grandi amici, dai cechi ai polacchi agli ungheresi di Orbàn". E la lite sulla Shoah? "I polacchi nel merito hanno ragione, avevano un governo in esilio e non hanno costruito loro i campi, ma non possono imbavagliare la ricerca storica. Ora lavoriamo a una soluzione della lite". Problemi grandi con le agenzia Onu in Europa. "Con il Consiglio dei diritti umani a Ginevra, dove vogliono una 'lista nera' delle aziende che hanno rapporti con Israele oltre la linea del 1967. Stiamo premendo sulle cancellerie europee perché evitino questo passo. Molti paesi europei danno troppi soldi alle ong antisraeliane, è l'industria della delegittimazione. Ma alcuni, come Danimarca e Norvegia, stanno rivedendo i criteri. Ong contrarie ai due stati, favorevoli a un solo stato e non Israele".
   L'Italia? "Ha un ruolo di temperamento e moderazione positivo, da voi c'è un diffuso sentimento sul dovere, non solo sul diritto, di Israele a esistere. Ma vorremmo che l'Italia guidasse in Europa, ad esempio unendosi all'asse con Cipro e Grecia, due nostri grandi alleati". In questi anni, quarantamila ebrei francesi sono fuggiti in Israele a causa del deterioramento della sicurezza. E in futuro? "Non se ne andranno, rimarranno in Europa 'till the bitter end'. Fino a che potranno andare in giro, anche senza kippah, gli ebrei non se ne andranno, sono troppo integrati. Per ora mandano i figli in avanscoperta in Israele. Mi duole dirlo ma, dopo settant'anni, siamo tornati a una mentalità di sudditanza, temo, alla negazione". Resta un paradosso: "Molti leader arabi oggi su Israele sono più pragmatici e aperti di tanti stati europei".

(Il Foglio, 15 febbraio 2018)


L’opposizione israeliana chiede le dimissioni di Netanyahu

Il Procuratore generale Avichai Mandelblit
Benyamin Netanyahu "è un corrotto" e deve dimettersi. L'opposizione al governo del primo ministro israeliano va all'attacco, forte della bufera politica scatenata dalle "raccomandazioni" dalla polizia al termine delle indagini sul premier.
   Ma Netanyahu, accusato dalla polizia di corruzione, frode e abuso di ufficio in due casi, non ha alcuna intenzione di lasciare: parla di "mondo alla rovescia", contesta le indagini e i testimoni come l'ex ministro delle finanze Yair Lapid, reitera le accuse contro il capo della polizia Roni Alscheich. Poi esclude ogni "elezione anticipata" rispetto alla scadenza della legislatura nel 2019 e mobilita i suoi elettori.
   Il braccio di ferro - hanno fatto notare molti commentatori - è solo all'inizio visto che il Procuratore generale Avichai Mandelblit, unico depositario della eventuale incriminazione formale del premier, potrebbe impiegare anche alcuni mesi per decidere, in attesa che le "raccomandazioni" di ieri siano vagliate da altri due livelli della magistratura.
   Qualunque sia il lasso di tempo - hanno sostenuto altri commentatori - c'è una grave impasse con un premier sul quale pende una vicenda giudiziaria. Nahum Barnea, autorevole opinionista di Yediot Ahronot ha scritto oggi che "il premier deve sospendersi fino alla decisione di Mandelblit. Lo stato è più importante del suo primo ministro". Ma è altrettanto vero - hanno sottolineato altri - che, fino a prova contraria, Netanyahu è innocente. E in base alla legge non c'è alcun obbligo di dimissioni.
   L'ex ministro degli esteri Tizpi Livni ha definito Netanyahu "un corrotto e un corruttore" e gli ha chiesto di fare un passo indietro. "Lui e il suo partito - ha detto - non fanno che colpire e delegittimare la polizia e la magistratura". Per l'ex premier Ehud Barak, Netanyahu deve dichiararsi "impossibilitato" a svolgere il suo incarico ed ha invitato la sua coalizione di governo a "sostituirlo in questa ora critica". "Il quadro che emerge dalle raccomandazioni della polizia - ha incalzato - mette i brividi".
   Furibondo lo scontro tra il premier e Lapid: "la polizia - ha osservato Netanyahu riferendosi alla deposizione dell'ex ministro delle finanze nel caso dei regali illeciti ricevuti da uomini d'affari - lo ha interrogato un'ora sola ed ora la definisce una testimonianza chiave in un'indagine durata un anno". Una inchiesta che invece per il premier "è piena di buchi, come una groviera". "Questo - ha subito rimbeccato Lapid - è come parlano i criminali. Non lasceremo fare di questo paese un luogo dove la gente onesta abbia paura di dire la verità".
   Ma è indubbio che, per ora, il premier abbia dietro di sé il suo partito, il Likud, e i tre principali alleati di governo: Moshè Kahlon di Kulanu, Naftali Bennett di Focolare ebraico, leader dei coloni, e Avigdor Lieberman di Beitenu. L'unico distinguo lo ha fatto proprio Bennett, ritenuto un potenziale rivale di Netanyahu: "ricevere regali così ingenti per un periodo così lungo - ha osservato - non rientra nelle aspettative dei cittadini di Israele dal loro premier". Ma ha aggiunto che occorre attendere il parere di Mandelblit.
   Tuttavia, la metà esatta degli israeliani, secondo due sondaggi televisivi, ha auspicato che Netanyahu si dimetta o si dichiari impossibilitato a governare. Il 42% ritiene invece che debba proseguire e un 34% concorda col premier: "Elementi nella polizia e nel mondo politico" con le indagini hanno "cercato di compiere un putsch".

(swissinfo.ch, 15 febbraio 2018)


Ma che follia processare Netanyahu

di Fiamma Nirenstein

Non posso immaginare gioia maggiore per: gli iraniani, i palestinesi, l'ultrasinistra europea, Obama, la Mogherini, i capi del movimento del bds, la stampa politically correct, per tutti quelli che accusano Israele, sapendo di mentire, di essere la responsabile del blocco del processo di pace... niente di meglio per loro della proposta della polizia israeliana al procuratore generale di incriminare il primo ministro Benjamin Netanyahu per corruzione, frode, abuso di fiducia, in due casi diversi investigati da più di un anno.
   Netanyahu ha il consenso del suo Paese da un decennio, i sondaggi lo danno vincente anche alle prossime elezioni nel 2019; 15 volte sono falliti i tentativi di farlo fuori con i tribunali e non con le urne. I suoi avversari lo odiano di odio viscerale, come si può odiare solo un leader che non rischia la vita del suo Paese in cambio del consenso internazionale, che non si è piegato al conformismo dell'accordo con l'Iran e della favola bella dei confini del '67.
   Netanyahu ha dichiarato che la relazione della polizia è «piena di pregiudizi e di estremismo, crivellata di buchi come un formaggio svizzero», e ha promesso che porterà a termine il suo mandato. Le due accuse di corruzione riguardano il fatto che Netanyahu avrebbe ricevuto dal suo amico uomo d'affari israeliano e produttore cinematografico Arnon Milchan, oltre che dall'australiano James Packer, regali per 750mila shekel, ovvero circa 180mila euro. Si tratta dei famosi «sigari e champagne», niente denaro, ma il valore dei regali offerti nel corso di 20 anni di un rapporto molto stretto con tutta la famiglia. Perché questo rappresenti corruzione, essa dovrebbe essere stata fornita in cambio di qualcosa, e così Netanyahu è accusato di aver aiutato l'amico con una legge che diminuisce le tasse di un cittadino che torna a vivere in Israele, cosa che il Pm dice di aver ignorato completamente. L'unica cosa di cui invece si dichiara colpevole è di aver aiutato Milchan a ottenere di nuovo, con telefonate, un visto negato dagli Usa. Il Primo Ministro spiega che si fa per chiunque perda il visto Usa per servizi a favore di Israele. Sul secondo caso, in una conversazione col padrone di Yediot Ahronot Noni Mozes, si ipotizzava secondo la polizia una più favorevole copertura da parte del suo giornale in cambio di una riduzione della concorrenza del giornale che riflette le idee di Netanyahu, Israel Hayom. Netanyahu allarga le braccia e ricorda come ha difeso Israel Hayom dalla legge con cui lo si voleva bloccare in quanto giornale gratuito. La questione resta se i politici possano scambiare al telefono pensieri e proposte con i giornalisti e manager dei giornali senza essere accusati di corruzione.
   Uno degli accusatori chiave di Netanyahu è un nemico politico giurato, Yair Lapid, che è in corsa per essere il prossimo primo ministro. Ma è miope pensare a Israele come a un Paese di semplici scontri politici: si è messa in forse, con un gesto poliziesco guascone, una leadership audace che da decenni affronta pericoli estremi, che è tornata a un rapporto positivo con gli Usa e che ha messo la questione iraniana sotto gli occhi del mondo.

(il Giornale, 15 febbraio 2018)


L'unica democrazia del medio oriente

Cosa ci dice l'incriminazione del premier di Israele Netanyahu

Il premier israeliano Benjamin N etanyahu va dunque verso l'incriminazione per corruzione. La polizia ha deciso, dopo una faticosa e controversa inchiesta durata un anno, di raccomandare la sua incriminazione per due delle inchieste nelle quali "Bibi" è coinvolto. La prima riguarda le accuse di aver ricevuto regali da uomini d'affari in cambio di favori nella sua azione di governo. La seconda verte su un accordo segreto che avrebbe raggiunto con il quotidiano Yedioth Ahronoth, il secondo per diffusione nel paese, perché riportasse un'immagine positiva del premier in cambio di pressioni sul principale concorrente, Israel Hayom.
   Netanyahu ieri ha rigettato le accuse "senza fondamento", oltre alla richiesta di dimissioni, evocando una persecuzione politica tesa a sbarazzarsi di un politico ideologicamente inviso a una parte di Israele. Per ora la coalizione al governo fa quadrato attorno al premier che ha segnato la storia di Israele negli ultimi vent'anni.
   Nel 2011 la Corte suprema israeliana aveva condannato già l'ex capo di stato Moshe Katsav a sette anni di carcere, per stupro. E poi ha mandato in prigione l'ex premier Ehud Olmert, per corruzione. Tanti altri ministri israeliani sono finiti in cella per reati simili, dal ministro degli Affari sociali Shlomo Benizri a quello delle Finanze, Avraham Hirschon. E un altro ex premier, Ariel Sharon, è sfuggito alla giustizia e alle accuse di corruzione soltanto grazie al fatto che il figlio Omri si è addossato tutte le colpe ed è andato in prigione.
   In una regione antidemocratica, incivile, caotica e violenta come il medio oriente, dove non esiste rule ag law, Israele ha la forza civile e democratica di mettere sotto processo un primo ministro in carica. Attorno ci sono soltanto una schiera di dittatori, da al Sisi ad Assad. Poi c'è Israele, che per diritto e democrazia è forse più evoluto di tanti paesi occidentali. A mandare in carcere Katsav fu un giudice della Corte suprema, George Karra, arabo e cristiano. E' questo lo stato ebraico.

(Il Foglio, 15 febbraio 2018)


Corruzione, la polizia israeliana chiede l'incriminazione di Netanyahu

di Giordano Stabile

Benjamin Netanyahu resta al suo posto, esclude le dimissioni perché è «innocente» e ha «dedicato tutta la vita ad Israele». In diretta tv, ieri sera alle nove, si è difeso come al solito, all'attacco. Ha detto che le accuse a suo carico sono «senza fondamento», ha insinuato che gli investigatori siano prevenuti. Ma l'assedio, dopo anni di indagini su tre filoni, è arrivato all'assalto finale, con la raccomandazione di incriminarlo ufficializzata dalla polizia ai giudici. E ora la sua posizione vacilla.
   Il premier israeliano è accusato di aver «agito contro il pubblico interesse» e aver intascato un milione di shekel, 230 mila euro, in regali. I casi di corruzione sono due, identificati dai codici 1000 e 2000. Il primo riguarda i favori fatti a due miliardari, il produttore di Hollywood Arnon Milchan, nato in Israele, e il tycoon australiano James Packer. Arnon Milchan ha prodotto film come «Pretty woman» e «C'era una volta in America«. Non aveva un visto di residenza stabile negli Usa e per aiutarlo, secondo l'accusa, Netanyahu è intervenuto con l'allora segretario di Stato americano John Kerry. E lo stesso avrebbe fatto per Packer.
   Come ricompensa Milchan e Packer hanno inondato per anni la casa dei Netanyahu di cassette di vini, champagne rosé e di scatole di sigari pregiati, gioielli per la moglie Sara. I Netanyahu non hanno mai negato di aver ricevuto regali dagli «amici» ma hanno respinto le accuse che fossero tangenti.
Le difese hanno cominciato a scricchiolare quando, nel settembre scorso, Sara è stata incriminata per frode dal procuratore generale di Israele Avichai Mandelblit ed è emerso che chiedeva alla segretaria di Milchan di far consegnare gli omaggi in scatole sigillate per celare il contenuto.
   Il caso 2000 riguarda invece un presunto accordo con il quotidiano «Yedioth Ahronoth», il secondo per diffusione nel Paese, perché riportasse un'immagine positiva del premier in cambio di un aiuto contro il principale concorrente, «Israel Hayoum». In una registrazione Netanyahu dice all'editore di Yedioth Ahronoth, Arnon Mozes, che avrebbe convinto il proprietario della testata rivale, Sheldon Adelson, a limitare la tiratura, in modo da favorirlo.
   Il premier ha cercato in tutti i modi di frenare le inchieste. Il commissario di polizia Roni Alsheich ha denunciato pressioni da parte di «persone molto potenti». Dalla richiesta di incriminazione resta fuori però il terzo caso, il 3000, legato alla vendita di sottomarini tedeschi Dolphins a Israele. L'anno scorso la polizia ha arrestato l'ex capo dello staff di Netanyahu, David Sharan.
   Il sospetto è di tangenti, ma finora non sono emerse prove sufficienti contro il premier.

(La Stampa, 14 febbraio 2018)


Netanyahu e l’abbraccio indiano

di Daniel Reichel

 
 
Sei giorni in India, aperti da un emblematico abbraccio, segno di un rapporto che si sta consolidando. Dopo la missione dello scorso anno di Narendra Modi in Israele - primo Premier indiano a recarsi in visita ufficiale nel Paese - a metà gennaio il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ricambiato il favore. Ad aspettarlo all'aeroporto di New Delhi, rompendo il protocollo, proprio Modi. I due si sono scambiati un caloroso abbraccio ma sono state le strette di mano quelle che hanno caratterizzato il viaggio, strette di mano che hanno suggellato intese: diversi infatti gli accordi bilaterali e i contratti siglati o messi a punto sia tra i due governi sia tra aziende private.
   Uno dei punti più importanti è stato il progetto per avviare la stesura di un accordo di libero scambio. Sarebbe un passo importante che potrebbe dare un notevole impulso al commercio tra i due Paesi, attualmente stimato in 4,5 miliardi di dollari. Netanyahu si è impegnato in prima persona per lavorare a un accordo e Modi ha accettato di avviare un tavolo, ha spiegato ai giornalisti il segretario del ministero degli esteri indiano VijayGokhale. "Una delegazione del ministero del Commercio si recherà (in Israele) il mese prossimo per discussioni inerenti al commercio", ha detto Gokhale. "Abbiamo avuto relazioni diplomatiche per 25 anni, ma qualcosa di diverso sta accadendo ora", ha affermato Netanyahu subito dopo aver firmato nove accordi bilaterali con Modi riguardanti la cooperazione in materia di sicurezza informatica, lo spazio e le esplorazioni per petrolio e gas. Ai corrispondenti israeliani che lo accompagnavano in India, il Primo ministro israeliano ha spiegato che il mercato indiano "è chiuso a causa delle difficoltà burocratiche che incidono sui passaggi che vogliamo portare avanti. Se ci sarà una direttiva del governo indiano e del primo ministro per aprire questo processo, tutto verrà accelerato. E avrà un riflesso sulla prossima riunione della loro delegazione per i colloqui su una zona di libero scambio. Ho detto al presidente indiano che vogliamo molto andare avanti su questo; è cosa nota, e ci stiamo lavorando. Come misura provvisoria, inoltre, abbiamo fornito un elenco di diverse centinaia di prodotti che vogliamo siano esentati dai dazi doganali, in modo che possano entrare" nel mercato indiano e le imprese israeliane possano arrivarci senza grandi ostacoli.
   L’India, ricorda il Jerusalem Post è nota per le sue ingombranti politiche mercantilistiche, che fanno parte di un progetto per incoraggiare la produzione locale: in passato il governo ha favorito l'autarchia che però sul lungo periodo, sottolineava l'economista indiano Jagdish Bhagwati, hanno danneggiato il paese. Bhagwati spiegava nel 2016 come New Delhi avesse imposto un cambio di rotta, ma rimangono tracce delle sue trascorse politiche autarchiche. Ad esempio, sembrano proprio questi strascichi ad aver portato alla sospensione da parte indiana di un acquisto da 500 milioni di dollari di sistemi di difesa dall'israeliana Rafael Advanced Defense Systems. Durante il suo viaggio al fianco di Modi, Netanyahu ha riportato sul tavolo l'accordo, che sembra possa tornare in piedi.
   Sul lato opposto, gli uomini d'affari indiani si sono lamentati dell'attesa che Israele riserva loro in materia di visti: i permessi a breve termine per l'ingresso nel paese, dicono dall'India, sono complicati da ottenere, mentre non esiste una tipologia a lungo termine. "Vedo che sempre più aziende indiane stanno arrivando a esplorare le tecnologie, a esplorare progetti di joint venture", ha spiegato Anat Bernstein-Reich, presidente della Camera di Commercio Israele-India, che viaggiava con la delegazione del Primo ministro. "Gli indiani stanno ora cercando di investire in startup, è una cosa totalmente nuova per l'India in generale, dal momento che sono avversi al rischio. Ma sono disposti a guardare le start-up israeliane, comprendendo che l'innovazione è qui”.

(Pagine Ebraiche, febbraio 2018)


Le attività criminali di Hezbollah in Sudamerica

Il Sudamerica è una base importante di operazioni per Hezbollah fin dagli anni '80. Dispone di un rete finanziaria e logistica consolidata, grazie alla quale ha potuto compiere massicci attentati a comunità ebraiche e all'ambasciata israeliana in Argentina negli anni '90, facendo centinaia di morti e feriti. Da allora Hezbollah ha cambiato lo scopo delle sue attività sul continente, si è specializzata in lucrative attività criminali, soprattutto inserendosi nel traffico globale di cocaina ed eroina, che ha le sue reti principali in Sudamerica.
   Il 5 febbraio 2017 il sito Strategic forecasting ha pubblicato un articolo dal titolo Hezbollah in South America: the threat to businesses. L'articolo sostiene che Hezbollah opera su vasta scala in Sudamerica, grazie alla protezione di poliziotti e istituzioni corrotte. Oltre a essersi inserita nelle reti internazionali del narcotraffico, Hezbollah gestisce il contrabbando di ogni tipo di prodotti di consumo copiati o 'piratati', dagli occhiali ai DVD ai medicinali. Il commercio delle auto rubate sul continente americano pare sia totalmente nelle mani di Hezbollah, che le vende in tutta l'Africa occidentale.
   Gli USA tentano di bloccare queste attività, ma non hanno l'appoggio dei governi locali, tanto più che i governi sudamericani non definiscono Hezbollah organizzazione terroristica. In Venezuela, anzi, il governo sostiene apertamente Hezbollah, sia politicamente, sia come fonte di profitti. Società di copertura riciclano i proventi illegali in attività apparentemente legali, per lo più vendite di sigarette, di auto usate, di prodotti elettronici.
   Gli attacchi terroristici non sono più il cuore dell'attività di Hezbollah in Sudamerica da anni, anche se ancora nel 2014 è stato sventato un suo attacco in Perù a danno della comunità ebraica. Ora il Sudamerica è il centro delle operazioni globali di autofinanziamento di Hezbollah.

(Fondazione Camis De Fonseca, 13 febbraio 2018)


L'Iran ha collegato la rete elettrica nazionale a quella europea attraverso paesi terzi

TEHERAN - L'Iran sta sfruttando l'opportunità di collegare la rete elettrica nazionale a quella europea attraverso alcuni paesi confinanti. Lo ha dichiarato oggi il ministro dell'Energia iraniano, Reza Ardekanian, parlando ai media a margine di un incontro a Teheran. "Attualmente, la Repubblica islamica dell'Iran ha la capacità di scambiare energia con tutti i paesi confinanti di Afghanistan, Pakistan, Turchia, Azerbaigian, Armenia e Iraq. Siamo disposti a creare migliori opportunità per i settori privati iraniani e stranieri che desiderano investire nel settore delle energie rinnovabili", ha dichiarato il ministro. Secondo Ardekanian, le condizioni per gli investimenti miglioreranno per consentire agli investitori di poter vendere la loro energia al ministero iraniano attraverso "contratti di acquisto garantiti". Ardekanian ha inoltre aggiunto che gli investitori "possono anche utilizzare contratti internazionali per vendere la loro potenza generata ad altri paesi usando la rete elettrica del paese".

(Agenzia Nova, 14 febbraio 2018)


Museo su ebrei salvati a Berlino

È quello dedicato agli Stille Helden, gli eroi silenziosi, e alla resistenza contro la Shoah. Chi li nascondeva sapeva che rischiava la propria vita.

di Roberto Giardina

All'interno della mostra
A Berlino abitiamo in un vecchio palazzo, del 1890, scampato a due ondate di bombardamenti che devastarono il quartiere. Ci piacciono le case antiche, comprese le inevitabili scomodità. Durante i lavori, prima del trasloco, mia moglie si accorse che la parete tra due stanze, aveva una lunghezza diversa da una parte e dall'altra. Doveva esserci un'intercapedine. Cosa vi avremmo trovato nascosto? Uno scheletro, documenti riservati, l'argenteria dei vecchi proprietari? La buttammo giù, e scoprimmo un cumulo di giornali di un'epoca lontana, che si polverizzarono appena li toccammo. Il tesoro giusto per un giornalista. Chissà a che cosa sarà servito quel rifugio?
  I nazisti uccisero 160 mila ebrei, sul mezzo milione residente in Germania. Questa, almeno, è la cifra ufficiale. Ma a Berlino, 1.900 sopravvissero nascosti per anni in casa di amici, o di sconosciuti che li accolsero con il rischio della vita. E cinquemila furono in tutto il Reich gli ebrei a cui i tedeschi salvarono la vita, rischiando la pena di morte. Si dovrebbe sapere dai libri di storia, ma i più lo ignorano. Una prova di eroismo che, naturalmente, non assolve i milioni che tacquero, o che fecero a gara per accaparrarsi quanto veniva abbandonato in casa dei deportati nei lager. A Berlino, i musei sono oltre 180, e uno dei meno conosciuti, e invece da non trascurare, è quello dedicato agli Stille Helden, gli eroi silenziosi, e alla resistenza contro la Shoah, in pieno centro, a pochi passi dalla Potsdamerplatz dove giovedì comincia la Berlinale, il Festival del cinema. Per la verità esisteva da qualche anno, ma da oggi viene riaperto completamente rinnovato in una nuova sede (Stauffenbergstrasse 13, al terzo piano, dalle 9 alle 18, al week end dalle 10; chiuso il lunedì) .
  Cosa c'è da vedere? Il nastro di cotone su cui lIse Rewald, allora di 25 anni, scrisse le iniziali e gli indirizzi in un suo codice personale, delle persone disposte a nasconderla a Berlino. Annotarli su un pezzo di carta sarebbe stato un rischio mortale. Il nastro era cucito nella fodera della gonna. Ilse e suo marito Werner, di dieci anni più anziano, non fecero in tempo a emigrare, forse si illusero, dopo non riuscirono più a fuggire.
  Nell'ottobre del '41, cominciano le deportazioni, si nascondono, ma devono separarsi. Proteggere una coppia è quasi impossibile. Leggere gli indirizzi provoca un'impressione profonda in chi vive a Berlino. Alcuni di questi eroi silenziosi sarebbero stati miei vicini di casa, come Paul Fromm, amministratore di condominio, che nascose Werner, nella Brandeburgischen Strasse al numero 22. Era ariano, ma sposato con un'ebrea. Ilse aveva annotato sul nastro: «P.F. Bstr.22». Dubito che le SS non sarebbero riuscite a decifrare la sigla. Ilse si nasconde da Kàh.te Pickardt e da sua figlia Ursula. Vennero salvati anche ebrei diventati poi famosi, come Hans Rosenthal, diventato un divo della tv, o l'attore Michael Degen, conosciuto anche in Italia.
  «I motivi che spinsero questi normali cittadini a rischiare la vita sono i più diversi», ha spiegato lo storico Johannes Tuchel, che dirige il museo. Il giovane Rosenthal fu nascosto da tre vecchie signore che conoscevano sua madre. Degen venne salvato da una coppia di vecchi comunisti. Oppure, come nel caso di Ilse e Werner ad aiutarli furono tedeschi che avevano un marito o una moglie ebrei (i matrimoni misti venivano tollerati caso per caso, non sempre). Non facile nascondere gli ebrei. Le vecchie case di Berlino, come la mia, sono in parte in legno. Ogni scricchiolio poteva mettere in sospetto i vicini. Ed era difficile procurarsi cibo per chi non aveva le tessere annonarie. Un'odissea da nascondiglio in nascondiglio fino all'arrivo dei russi a fine aprile del 1945. I Rewald rimasero a Berlino, lui ricominciò a lavorare come architetto, ed è morto nel 1992. Lei è scomparsa nel 2005. Il museo è piccolo ma richiede molto tempo, perché ogni oggetto racconta una lunga storia, e ognuna meriterebbe un romanzo.

(ItaliaOggi, 14 febbraio 2018)


Siria: è confronto diretto tra Iran ed Israele

Quello che nessuno di noi voleva osservare in Siria si sta materializzando sotto i nostri occhi. Israele e l'Iran, giorno dopo giorno, aumentano l'intensità del confronto militare sul suolo di Damasco, e se per ora l'escalation si è fermata, siamo certi che il prossimo round si sta già avvicinando.
   La nostra ragionevole certezza si base su due punti fissi: il primo è che l'Iran non interromperà le sue attività militari e politiche atte a trasformare la Siria in una pseudo-provincia di Teheran, il secondo è che Israele non permetterà mai che le Guardie della Rivoluzione possano trasformare la Siria in un porto franco dal quale far partire attacchi contro Gerusalemme nel caso in cui dovesse determinarsi un conflitto nel sud del Libano oppure uno scontro che veda assetti israeliani colpire i centri nevralgici della ricerca nucleare militare iraniana.
   L'Iran ha come obiettivo palese quello di poter utilizzare la Siria sia come via di transito terrestre per congiungere il Mediterraneo al territorio iraniano, sia lo scopo di utilizzarla come base per attaccare direttamente Israele, alterando profondamente i rapporti di forza tra Teheran e Gerusalemme.
   Qualsiasi tensione nel Golfo Persico potrebbe riverberarsi immediatamente contro il principale alleato americano nella regione e allo stesso tempo connotare le azioni iraniane come una guerra santa per il controllo del terzo luogo santo dell'Islam: Gerusalemme.
   Per questi scopi al momento Teheran disponeva solo del Libano meridionale, un'area di terreno limitata, all'interno di un paese dove le tensioni etniche e religiose non sono mai state fino in fondo sopite e dove una sconfitta per l'Hezbollah libanese poteva significare la perdita del controllo dell'intero paese da parte degli sciiti alleati dell'Iran.
   In Siria la situazione è diversa. L'area potenzialmente utilizzabile per dispiegare sistemi missilistici offensivi e apparati antiaerei per la difesa è immensa, i caccia di Israele potrebbero essere costretti a volare in ambiente ostile per diverse decine di minuti e a grande distanza dai confini di Israele, limitando ritmo delle azioni, carico utile ed aumentando il rischio di perdite di mezzi e uomini. La Siria potrebbe in sostanza trasformarsi nel "gruppo attacco portaerei" che l'Iran non possiede e non possiederà mai.
   Se agli iraniani verrà concessa la possibilità ed il tempo di organizzare in Siria una efficace difesa aerea, il passo successivo sarà l'installazione di decine, forse centinaia di migliaia di razzi e missili tutti puntati contro Israele dispersi su una superficie in grado di ridurre l'efficienza della forza aerea israeliana ed in grado di minacciare di distruzione le città ed i poli produttivi (civili e militari) di Israele.
   E' per questo motivo che Israele non può permettere agli iraniani di stabilirsi in Siria, ed è sempre per questo motivo che il prossimo raid israeliano contro obiettivi iraniani in Siria non è questione di "se" ma di "quando".
   Ma mese dopo mese questi raid diventano sempre più complessi e sempre più rischiosi per i caccia con la stella di Davide. Ne abbiamo avuta una prova durante i giorni scorsi quando un caccia F-16 di Gerusalemme è stato abbattuto dalla difesa aerea siriana (in realtà nelle mani degli iraniani) che ha bersagliato la formazioni di quattro aerei, di cui faceva parte quello abbattuto) con oltre venti missili terra-aria radar guidati, e probabilmente anche mediante sistemi passivi a ricerca di calore a corto raggio.
   Gli iraniani continuano a trasportare in Siria sistemi anti aerei, alcuni dei quali forse non nelle librerie di guerra elettronica di Israele, fatto che può aver influito nell'abbattimento dell'F-16.
   Se gli iraniani non si fermeranno potremmo assistere ad una sorta di tentativo di azzeramento delle capacità iraniane in Siria da parte di Gerusalemme, in modo da riportare al punto zero i tentativi di organizzazione da parte di Teheran.
   E' poi non prevedibile al momento l'eventuale reazione iraniana ad un tale gesto da parte di Israele. Dovremo seguire l'evolversi della vicenda per cercare di capire quale tra i diversi scenari oggi possibili sarà il più probabile…
   
(GeopoliticalCenter, 13 febbraio 2018)


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Così Israele e Iran si avvicinano allo scontro armato in Siria

Un confronto pericoloso nel quadro di un equilibrio fra le potenze che si contendono l'influenza sull'entità territoriale trasformata dalla guerra.

di Luciano Tirinnanzi

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo ha sempre detto: Israele si difenderà da ogni attacco e da ogni minaccia.
È per questo motivo che dal 2011 a oggi, cioè dall'inizio della guerra civile siriana, le forze aeree di Gerusalemme hanno compiuto oltre un centinaio di raid clandestini contro postazioni e depositi di armi appartenenti tanto agli Hezbollah libanesi quanto al regime siriano.
Clandestini nel senso che non sono mai stati ufficialmente riconosciuti dal governo, secondo una consolidata tradizione bellica israeliana.
Di certo però hanno avuto il loro effetto, quello di convincere il nemico del fatto che Israele risponderà colpo su colpo a ogni minaccia - spesso colpendo preventivamente - ogni volta che riterrà il rischio incombente.
L'ultimo caso si è verificato il 7 febbraio scorso quando l'IDF, Israel Defense Forces, ha lanciato una vasta operazione sopra i cieli siriani che puntava a distruggere "obiettivi iraniani" in risposta al drone di provenienza iraniana intercettato da un elicottero mentre attraversava il confine tra Siria e Israele e subito abbattuto.
Durante una di queste sortite punitive, le difese antiaeree di Damasco sono riuscite ad abbattere un jet da combattimento israeliano F-16, che si è quindi schiantato nel nord di Israele (i piloti sono riusciti a lanciarsi dall'aereo e sono stati recuperati vivi nei pressi di Harduf).
Si ritiene che dal 2006 a oggi sia la prima volta che Israele perde un caccia durante un'operazione militare. Damasco ha aggiunto che altri aerei israeliani sono stati colpiti, ma al momento non si ha conoscenza di altri episodi simili.
Secondo l'IDF, in ogni caso, le recenti incursioni aeree rappresentano gli attacchi più significativi di questo tipo contro la Siria dalla guerra del Libano del 1982.

 L'illusione della fine della guerra
  Tanto è bastato per scatenare una ridda di polemiche internazionali sul caso. "L'Iran ha violato sfacciatamente la sovranità di Israele" si è giustificato il premier Netanyahu. "Hanno inviato un drone iraniano dal territorio siriano contro di noi. Israele ritiene l'Iran e le sue armate siriane responsabili". Teheran ha ovviamente negato.
Il Dipartimento di Stato americano ha sostenuto il diritto di Israele a difendersi, incolpando l'Iran per lo scontro aereo. In un colloquio telefonico con Netanyahu, invece, il presidente russo Vladimir Putin ha sottolineato la necessità di evitare una "pericolosa escalation" ribadendo il sostegno di Mosca al governo del presidente Assad nella guerra civile in Siria.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha commentato le ultime manovre belliche come una «pericolosa ricaduta» sul conflitto in corso.
Di certo, chi riteneva che in Siria fosse in corso una de-escalation militare si dovrà presto ricredere.
Scomparse o quantomeno rese inoffensive le milizie che imperversano da anni nel teatro di guerra siro-iracheno, è il tempo degli eserciti ufficiali: Israele, Turchia, Russia, Stati Uniti e Iran hanno ormai ingolfato i cieli siriani e alcuni di loro hanno persino schierato truppe e tank per difendere le posizioni acquisite.
Il che porta a due semplici considerazioni:
  1. la Siria per come l'abbiamo conosciuta non esiste più e non ci sono le condizioni perché torni a essere un paese unito, ma semmai terra di conquista;
  2. partendo da questo assunto, le potenze regionali e internazionali intendono profittare della situazione ora per espandere la propria area d'influenza ora per assicurarsi zone di sicurezza e tenere quanto più lontana la minaccia di un contagio.
 Le certezze di Israele e Iran
  Il che ci riporta a Israele. Dal momento che Teheran da anni ha inviato in Siria consiglieri militari, milizie volontarie e centinaia di uomini delle Forze Al Quds, ovvero il braccio armato del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane (IRGC), e poiché l'Iran foraggia le forze del presidente Bashar al-Assad e degli Hezbollah filo-iraniani fornendo loro migliaia di tonnellate di armi e munizioni, il governo di Gerusalemme ha deciso di passare all'azione.
Secondo gli strateghi israeliani, infatti, Teheran sta cercando di stabilire non soltanto un'area d'influenza quanto più vasta tra Iraq e Siria, ma anche una linea di fornitura logistica via terra che dall'Iran arrivi direttamente fino a Hezbollah in Libano, garantendo una continuità territoriale funzionale a rifornire militarmente gli alleati. In attesa di stabilire poi lungo la traiettoria di questi paesi falliti, il cosiddetto "corridoio sciita", ossia una linea diretta che consentirebbe a Teheran di avere uno sbocco nel Mar Mediterraneo, replicando quanto già fatto dal Cremlino.
Ovviamente, questo rappresenta un incubo per Israele, consapevole del fatto che l'espansione dell'Iran corrisponderebbe al suo ridimensionamento e isolamento in Medio Oriente.
Se non direttamente l'annientamento, visto che il paese è notoriamente considerato dalle frange più estreme delle élite arabe regionali "un'entità da cancellare". Per questo e per altre ragioni, nei prossimi mesi non ci si può aspettare altro che la prosecuzione di questo schema da ambo le parti.

 Vincitori e vinti
  È illusorio, infatti, immaginare che tacciano le armi e che gli eserciti coinvolti nel conflitto retrocedano, proprio adesso che è caduta la foglia di fico dello Stato Islamico e che la guerra si presenta per ciò che è davvero: un tentativo di scrivere un nuovo capitolo di storia del Medio Oriente, con la definizione di nuovi confini geografici e politici da cui le potenze vincitrici potranno ricavare un profitto non indifferente.
Tutto sta a capire chi potrà emergere come vero vincitore, dal momento che non si palesano altro che "secondi classificati".
Israele potrà ottenere obiettivi strategici nelle "terre di nessuno" lungo le Alture del Golan.
Gli Hezbollah libanesi potranno allargare il proprio raggio d'azione ed espandere i traffici vitali per sostentarsi oltre la Valle della Bekaa e fin quasi a Damasco.
La Turchia potrà sradicare la minaccia curda e allungare di molti chilometri il proprio confine, sino quasi ad Aleppo.
La Russia ha già preso la provincia di Latakia e si è assicurata lo sbocco al Mediterraneo proprio come sognavano gli Zar.
L'Iran insegue la medesima direttrice e punta a condizionare i futuri governi di ciò che resta di Siria e Iraq.
Mentre l'obiettivo strategico degli Stati Uniti resta molto confuso, chiaro soltanto nel voler arginare l'espansione dei suoi avversari storici e nel moltiplicare i profitti delle vendite di armi.
Dunque, a vincere potrebbero essere un po' tutti, mentre a perdere di sicuro è la popolazione locale. Che vivrà in miseria e nel lutto ancora a lungo, bandita da casa propria sino a data da destinarsi.

(Panorama, 13 febbraio 2018)


Ahed Tamimi e il suo clan: anamnesi famigliare

La storia di Ahed Tamimi e della sua famiglia è un chiaro esempio di come funziona la propaganda palestinese contro Israele.

Una nuova icona "resistenzialista" ne scaccia un'altra nel pantheon della fervida setta palestinista che in Occidente agglomera numerosi adepti, di destra e di sinistra, anche se, a dire il vero, è a sinistra che da decenni batte più intensamente il cuore per la "causa palestinese", sia in forma radicale sia in forma salottiera. Dismesso in fretta Marwan Barghouti che ebbe un momento fugace di gloria l'anno scorso, quando, per il pluriomicida arabo incarcerato a vita in Israele, si mobilitarono comitati e giornali amici come il New York Times, dipingendo l'incallito pianificatore di omicidi in un emulo di Ghandi e Nelson Mandela, ora è il turno della diciassettenne Ahed Tamimi. Capelli biondi crespi, pelle chiara, gradevole d'aspetto, la giovane Ahed ha un allure ben maggiore dell'irsuto e pingue ergastolano, colto in fallo mentre divorava uno snack in cella durante lo sciopero della fame in solidarietà con i terroristi e criminali palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
Ahed Tamimi è stata arrestata a dicembre dopo un incidente filmato in cui, insieme alla cugina maggiorenne Nur prende a schiaffi e a pugni due soldati israeliani di stanza a Nabi Salih, un piccolo villaggio a nordest di Ramallah. Qui, dal 2009 al 2016 sono state inscenate (e vedremo quanto non vi sia verbo più preciso in questo caso), proteste con cadenza settimanale contro i soldati israeliani a salvaguardia dell'insediamento di Halamish edificato negli anni '70. Il contenzioso riguarda il pozzo naturale di Ein al Kis e il suo status. Per gli abitanti del villaggio esso apparterrebbe a loro e non agli abitanti dell'insediamento che vi avevano costruito intorno strutture per attività ricreazionali....

(Progetto Dreyfus, 13 febbraio 2018)


Israele deve difendersi, costi quel che costi

di Galliano Nabissi

Dopo anni di minacce di annientamento, lanci di missili qua e là, l'Iran,insieme a Hezbollah e altri" compagnucci" ci riprova, ma lo Stato ebraico non ha mai perso la testa.
Ultimamente un sofisticato drone iraniano è entrato in territorio israeliano, è stato intercettato e subito abbattuto. La risposta di Israele è partita immediatamente distruggendo 12 obiettivi, ma un missile terra-aria siriano ha colpito un aereo, salvi i due piloti.
Intanto l'esercito israeliano sta installando al Nord altre batterie di missili antimissili per proteggere la popolazione della zona.
Dopo queste provocazioni nessuno ha condannato, ma si è detto a Israele di stare tranquillo, "sereno" e di non rispondere in modo"eccessivo", mentre L'America ha detto che è a fianco di Israele, qualsiasi cosa accada, e il Premier israeliano ha ricordato che lsraele è stato istituito per difendere la vita degli ebrei e si riserva sempre il diritto di difenderlo. Parole chiare e sintetiche per chi vuole intendere….
Ritengo che Israele, lo Stato ebraico, non può stare con le mani in mano quando si minaccia la Sua esistenza e non potrà mai accettare un coinvolgimento militare iraniano sul suo territorio.
Anche se i cittadini israeliani vengono allertati spesso di giorno e di notte da missili in arrivo, l'atmosfera è tranquilla, si lavora, si studia ci si diverte come sempre, perché in caso di pericolo tutti sanno come

(Radio Erre, 13 febbraio 2018)


Niente più violini a Palmira

La "Perla del deserto" scelta dai russi come simbolo della guerra all'Isis in Siria si è trasformata in una base iraniana al centro del primo atto di guerra con Israele.

"L'Iran e le Forze Quds operano nella base aerea T4 vicino Palmira, con l'appoggio dell'esercito siriano e con l'autorizzazione del regime" Quel che è accaduto tra Israele e l'Iran in Siria, due abbattimenti e dodici obiettivi colpiti, è il primo atto di guerra diretto tra i due paesi
Che qualcosa non tornasse, nella retorica legata a Palmira, era chiaro da tempo. Il valzer tra Israele e Russia ora è calcolato al millimetro Il drone usato dall'Iran era un Saeqeh: è stato costruito a partire da un drone molto sofisticato perso dagli americani nel settembre 2011

di Daniele Raineri

La mattina di sabato 10 febbraio gli aerei israeliani hanno raso al suolo (quasi raso al suolo, come vedremo) una base militare iraniana vicino Tadmor, una piccola città nel deserto siriano che in occidente conosciamo con il nome greco di Palmira. Ricordate Palmira, luogo simbolo della guerra contro lo Stato islamico? Ricordate gli autobus carichi di giornalisti che, scortati dai russi e grazie all'organizzazione del regime di Bashar el Assad, raggiungevano le rovine archeologiche e visitavano l'anfiteatro romano per raccontare la liberazione trionfale avvenuta nel marzo 2016? In meno di due anni anche Palmira si è trasformata nel simbolo di qualcos'altro ed è diventata un avvertimento: la lotta contro lo Stato islamico non era che una fase del conflitto in Siria, ci possono essere nuovi capitoli, possono essere molto pericolosi e uno senz'altro è lo scontro tra Israele e Iran.
  Sabato mattina è stato un atto di guerra diretto tra i due stati, il primo di cui si abbia memoria dopo tante dichiarazioni ostili e dopo tanti scontri clandestini e per interposta persona. Alla vigilia dell'anniversario della rivoluzione islamica del 1979, i militari iraniani hanno fatto decollare un drone da quella base vicino Palmira e lo hanno guidato fin dentro lo spazio aereo di Israele, dove è stato abbattuto da un elicottero da guerra Apache novanta secondi dopo l'intrusione. L'aviazione israeliana, che aveva tenuto d'occhio tutto il tentativo di incursione a partire dal decollo, ha deciso di distruggere anche il camion comando iraniano che aveva guidato il drone e ha fatto decollare un gruppo di caccia F-16 per raggiungere Palmira. La zona è nel centro della Siria, quindi molto in profondità, ma non è la prima volta che gli israeliani si spingono da quelle parti per una missione. Meno di un anno fa, il 17 marzo 2017, gli aerei israeliani avevano bombardato un convoglio carico di armi sofisticate per il gruppo libanese Hezbollah sulla strada tra la base e la città. Questa volta, tuttavia, le batterie di missili terra aria siriane hanno abbattuto uno degli aerei impegnati nei raid di ritorsione. Secondo gli esperti il pilota israeliano ha commesso un errore, è stato troppo tempo ad alta quota sulla via del ritorno invece che seguire le rotte a volo radente tra canaloni e rocce che potevano proteggerlo di più. Così uno tra i venti missili sparati per raggiungerlo è esploso abbastanza vicino da danneggiare l'aereo e da costringere lui e il copilota a eiettarsi dall'abitacolo e ad atterrare con il paracadute nel nord di Israele. Subito dopo l'abbattimento, il governo di Gerusalemme ha deciso una missione di risposta - di nuovo - e ha ordinato una seconda ondata di bombardamenti, questa volta molto più estesi, contro una lista di almeno dodici bersagli sparsi in tutta la Siria. Ora il regime siriano non lascia trapelare i danni subiti e vuole soltanto magnificare l'abbattimento - è dal 1982 che nessuno tirava giù un aereo israeliano - ma secondo gli esperti il secondo raid dell'aviazione ha smantellato "metà del sistema di difesa aerea siriano". Si è trattato del più grande attacco aereo da parte di Israele contro la Siria dai tempi della guerra in Libano, nel 1982, con la differenza che questa volta almeno quattro obiettivi erano iraniani.
  La base aerea di Palmira è stata chiusa per la devastazione inflitta dalle bombe, almeno per un po', ma la questione è: lì dentro ci sono anche i russi, è facile supporre che i caccia israeliani non li abbiano presi di mira per evitare complicazioni diplomatiche (per questo la base non è stata distrutta per intero) ma è difficile credere che i russi non abbiano visto il drone dell'Iran decollare verso Israele. Sapevano ma non potevano fare nulla? Alcune bombe della rappresaglia israeliana hanno centrato sistemi di difesa aerea che i siriani avevano di recente acquistato dalla Russia. Gerusalemme e Mosca danzano un valzer preciso al millimetro, per ora.
  Che sotto l'immagine da bel presepe di Palmira ci fosse una messinscena ambigua si era già capito nella primavera 2016, a dispetto della coreografia allestita dai russi e dai governativi per festeggiare la prima, effimera vittoria contro lo Stato islamico. A maggio l'orchestra del teatro Mariinskij di San Pietroburgo era arrivata per eseguire alcuni brani di Bach e di Prokofiev diretta dalla bacchetta del direttore Valery Gergiev, amico del presidente russo Vladimir Putin, proprio nell'anfiteatro dove i terroristi avevano trucidato alcuni prigionieri davanti alle telecamere e a una enorme bandiera nera con il sigillo del profeta Maometto. Putin stesso era intervenuto da Sochi con un video messaggio per il pubblico sugli spalti. Noi suoniamo Bach fra le stesse antiche pietre dove quelli sparavano nella nuca ai prigionieri. Più simbolico di così, per le sorti dell'occidente, sarebbe stato difficile. Pochi giorni prima del concerto tuttavia era saltato fuori grazie alle confessioni di alcuni disertori che lo Stato islamico si era ritirato da Palmira anche grazie a un accordo discreto con l'esercito siriano, che aveva concesso al gruppo terrorista di abbandonare la città portandosi dietro tutto l'equipaggiamento pesante - cannoni e carri armati - in direzione della loro capitale Raqqa. Palmira inoltre presidia una strada molto importante ed è famosa perché è una città d'arte, ma di sicuro non regge il confronto con altre operazioni di liberazione, come per esempio Mosul e Raqqa sostenute rispettivamente dall'esercito iracheno e dalle milizie curde. La "Perla del deserto" ha molti meno abitanti di Tivoli, il piccolo comune del Lazio - tanto per avere un'idea - e se non fosse così apprezzata per le rovine romane le sue vicende militari sarebbero insignificanti rispetto alle altre battaglie contro lo Stato islamico.
  Quell'equipaggiamento da guerra salvato grazie all'accordo sottobanco non si dissolse nel nulla, ma fu nascosto abilmente tra le colline desertiche un po' più a est e tornò in azione pochi mesi dopo, a dicembre 2016, quando lo Stato islamico prese Palmira per la seconda volta con una rapidità tale che i video di quel giorno mostrano i piatti ancora pieni nella mensa di una base militare abbandonata dai soldati russi. A quel punto fu necessario l'intervento del deus ex machina di questi anni di lotta contro lo Stato islamico, quindi le bombe di precisione degli aerei americani, capaci di sbloccare qualsiasi impasse militare. Con discrezione i jet del Pentagono individuarono ed eliminarono tutte le armi pesanti dello Stato islamico in un'area che in teoria era di competenza dei russi, come ogni storico della guerra può confermare scorrendo i rapporti giornalieri delle missioni scritti dal Comando centrale nel gennaio e febbraio 2017: due carri armati qui, due autocarri là, cinque postazioni di tiro il giorno dopo, e così via. In un'occasione particolarmente fortunata gli aerei americani eliminarono quattordici carri armati dello Stato islamico nel giro di poche ore, distrutti uno per uno mentre tentavano di difendere il perimetro della città. Privato delle zanne e degli artigli, a fine febbraio 2017 il gruppo terrorista abbandonò l'area per la seconda e ultima volta, anche perché ormai non c'era più tempo e voglia per restare a combattere nella minuscola Palmira, i curdi già s'affacciavano attorno alla capitale Raqqa e anche in Iraq per loro le cose andavano male, metà Mosul era già stata perduta.
  Che ci fosse una parte della storia oltre al simbolismo che non riusciva ad arrivare fino al grande pubblico, dicevamo, era sicuro. Tutti ricordiamo Khaled al Asaad, l'eroico soprintendente ai tesori artistici di Palmira che si era rifiutato di abbandonare la zona ed era stato assassinato dallo Stato islamico e legato a una colonna. A settembre 2015 il figlio Walid al Asaad era andato sulla tv di stato siriana in qualità di nuovo soprintendente a spiegare chi c'era dietro la distruzione della città secondo lui: "la mafia sionista", perché "gli ebrei vogliono eliminare ogni traccia antica dell'esistenza degli arabi" e per questo vogliono cancellare Palmira dalla faccia della terra. Insomma, l'arrivo dei terroristi fanatici di Al Baghdadi che distruggevano le opere d'arte in nome dell'islam non era che un complotto degli ebrei, diceva Walid al Asaad, figlio dell'icona nazionale, alla tv di stato. Le sue parole mettono in prospettiva tutto il conflitto siriano, perché è quello che pensano molti dell'establishment di Damasco e anche gli sponsor iraniani della controrivoluzione. Prima c'è da mettere in sicurezza il protetto Bashar, alleato principale, e se è il caso si può assestare qualche colpo duro contro gli estremisti sunniti - ma senza sprecare troppi uomini, lasciate pure che i curdi si occupino di Raqqa. Poi ci sarà la possibilità di affrontare il nemico vero, più strutturato e pericoloso: Israele.
  E torniamo a questi giorni. Sabato notte le forze armate israeliane hanno accusato l'Iran di controllare la base militare fuori Palmira da dove è partito il drone. "L'Iran e le Forze Quds da tempo operano nella base aerea T4 vicino Palmira, con l'appoggio dell'esercito siriano e con l'autorizzazione del regime siriano". Il comunicato non menziona la Russia, come se i russi non conoscessero cosa succede nello spazio aereo siriano, perché Gerusalemme ritiene evidentemente di avere ancora grossi margini di trattativa con Putin. Un ufficiale israeliano dice che la T4 è usata dall'Iran per trasferire armi avanzate agli altri membri dell'asse, formato da Siria, Hezbollah e da altre milizie sciite attive nella regione. "E' la costruzione in corso di una forza militare contro Israele".
  Il capo dell'aviazione israeliana, il generale Ein Dar, smentisce l'ipotesi molto circolata di un agguato contro gli aerei israeliani: in sintesi il drone avrebbe fatto da esca, gli israeliani ci sono cascati, le batterie di missili terra aria li aspettavano. Come in molte faccende mediorientali, uno strato di ambiguità copre gli eventi. Simbolismo dentro il simbolismo, il drone usato dall'Iran era un Saeqeh, che in lingua farsi vuol dire fulmine, ed è stato progettato e costruito dagli ingegneri iraniani a partire da un drone molto sofisticato - l'RQ-170 Sentinel - perso dagli americani nel settembre 2011. Il drone americano, detto anche "La bestia di Kandahar" perché era usato dalla Cia per la sorveglianza in Afghanistan, cadde sulle montagne iraniane e fu ritrovato intatto. Allora c'era l'Amministrazione Obama, che aveva come linea guida della propria politica estera un approccio molto conciliante con Teheran, per mitigare le voci ricorrenti di guerra con Israele. Adesso il drone copia nato da quello smacco e trasferito in Siria è il protagonista del primo scontro diretto.
  Vale la pena notare che i raid israeliani arrivano due giorni dopo un'azione pesantissima degli americani poco più a ovest, sulla sponda del fiume Eufrate vicino Deir Ezzor. Per impedire a cinquecento miliziani fedeli al governo Assad di attraversare il fiume e attaccare i curdi, il Pentagono ha risposto con una salva violentissima di raid di elicotteri e aerei, che ha ucciso circa cento uomini. La narrativa ultrasemplice che ci è stata impartita per anni, anche al concerto di Palmira e in decine di interviste con i prelati siriani - il governo di Damasco è il salvatore che ci protegge dalla marea nera dei fanatici - non riesce chiaramente a spiegare la situazione reale sul campo.

(Il Foglio, 13 febbraio 2018)


Serbia-Israele: la presidente del parlamento serbo Gojkovic inizia la visita in Israele

Maja Gojkovic, presidente del parlamento della Serbia
BELGRADO- La presidente del parlamento della Serbia, Maja Gojkovic, ha iniziato oggi una visita ufficiale di due giorni in Israele. Secondo una nota del parlamento di Belgrado, è previsto un incontro con l'omologo israeliano, Youli Edelstein. Nel corso della visita la Gojkovic incontrerà anche il leader dell'opposizione in Israele, il laburista Isaac Herzog, oltre che il presidente del partito Yesh Atid, Yair Lapid. Gojkovic presenzierà infine ai lavori della commissione parlamentare per la Parità dei diritti. Si tratta della prima visita in Israele da parte di un presidente del parlamento della Serbia da quando 26 anni fa sono stati istituiti i rapporti diplomatici fra i due paesi.

(Agenzia Nova, 13 febbraio 2018)


Analisti Mossad: l'Iran cambia strategia in Siria. Il problema del jet abbattuto

Per la prima volta Iran e Israele si sono scontrati militarmente in maniera diretta. L'abbattimento del caccia israeliano non ha mancato di sollevare molti dubbi tra gli israeliani sulle armi a disposizione degli iraniani in Siria. E il Mossad aveva avvisato che c'era la possibilità che Teheran spostasse i propri S-300 i Siria o che la Russia facesse l'upgrade di quelli siriani.

Quanto successo sabato scorso sui cieli di Israele è un rivoluzionario cambio di strategia da parte di Teheran nella guerra non dichiarata allo Stato Ebraico. Per la prima volta gli iraniani hanno evitato di usare i loro tanti proxy per attaccare Israele e si sono esposti direttamente.
La mossa iraniana non ha tuttavia sorpreso più di tanto gli analisti del Mossad che ormai da anni monitorano il fronte nord e registrano tutte le mosse dei pasdaran iraniani e degli Hezbollah loro alleati. Era prevedibile che prima o poi gli iraniani facessero una mossa diretta volta a testare le difese israeliane ma soprattutto mirata a misurare la reazione israeliana. A Teheran dovevano sapere fino a dove si sarebbe spinto Israele in caso di "violazione diretta"....

(Right Reporters, 13 febbraio 2018)


A David Grossman il premio Israele per la letteratura

GERUSALEMME - Lo scrittore David Grossman è stato insignito del prestigioso Premio Israele per la letteratura. Lo ha detto il ministro dell'istruzione Naftal Bennett, «felìce» che l'autore abbia vinto il premio nell'anno in cui si festeggiano i 70 anni della nascita di Israele. «È una delle voci più emozionanti, profonde e influenti - ha detto - della letteratura israeliana». Il premio a Grossman - noto per le sue battaglie pacifiste e per le critiche al governo - sarà consegnato nel Giorno dell'indipendenza, tra due mesi. Nato a Gerusalemme nel 1954, alla sua opera più nota, Vedi alla voce: amore del 1988, ha fatto seguito una produzione copiosa e diversificata, tra cui il romanzo Qualcuno con cui correre o il saggio Con gli occhi del nemico. Raccontare la pace in un paese in guerra entrambi pubblicati in italiano da Mondadori.

(Avvenire, 13 febbraio 2018)


Lanciato il primo acceleratore israelo-tedesco per la cyber-sicurezza

 
Si chiama Hessian Israeli Partnership Accelerator for Cybersecurity (HIPA) ed è il primo acceleratore israelo-tedesco recentemente lanciato dall'Università Ebraica di Gerusalemme.
L'acceleratore riunirà i migliori talenti nella sicurezza informatica di Israele e Germania per lavorare congiuntamente su progetti di sicurezza in settori quali le tecnologie di rete, l'infrastruttura internet e la sicurezza del software.
HIPA collega i partecipanti con imprenditori, ricercatori, mentori, clienti e influencer.
Viene appreso che l'obiettivo principale dell'acceleratore è quello di collaborare fattivamente ed incentivare lo sviluppo di innovazioni ed imprese che si occupano di cyber-sicurezza sia in Israele sia in Germania permettendo alle startup del settore, elevate possibilità di riuscire nel mercato.
Queste le parole di Yigal Unna, responsabile della Cybersecurity Technology Unit, della Direzione Nazionale di Cybersecurity israeliana:
È molto importante combattere gli attacchi hacker e lanciare l'acceleratore è un passo importante per contribuire a creare uno spazio informatico migliore per la società.
Il programma dell'acceleratore è iniziato con due settimane di approfondimento sull'imprenditorialità e cyber-sicurezza.
L'HIPA è organizzato dall'Istituto Fraunhofer per la Sicurezza dell'informatica SIT di Darmstadt, Germania, e dal Cyber Security Research Center presso la Facoltà di Scienze Informatiche e Ingegneria dell'Università Ebraica di Gerusalemme.
Questa partnership collega uno dei principali centri di ricerca europei in materia di cyber-sicurezza con la vibrante Israele al fine di sviluppare una nuova generazione di ricercatori e promuovere la collaborazione tra Germania e Israele.

(SiliconWadi, 13 febbraio 2018)


Israele valuta l'annessione delle colonie

di Davide Frattini

Il vuoto di iniziative diplomatiche per far sedere insieme gli israeliani e i palestinesi sembra riempito dall'esuberanza dell'ultradestra di lotta e di governo. Ieri il parlamento israeliano avrebbe dovuto discutere una legge per annettere le colonie in Cisgiordania. Il dibattito è stato rinviato su pressione di Benjamin Netanyahu anche per non «infastidire» - come ha spiegato lui - l'alleato americano. Il premier sa però di dover tranquillizzare, per garantirsi la stabilità della coalizione, i deputati e i ministri che spingono per una svolta: il suo partito Likud ha già votato qualche mese fa una mozione per sostenere «l'applicazione della legge e della sovranità israeliane in tutte le aree liberate dove sorgono insediamenti». In sostanza, l'annessione degli insediamentì e delle terre palestinesi su cui sono stati costruiti. Così Netanyahu rassicura: «Da mesi stiamo discutendo con gli americani questa possibilità. Dobbiamo però coordinarci con loro e deve essere un'iniziativa del governo perché avrebbe una portata storica». E riesce a «infastidire» ancora di più la Casa Bianca che nega: «Tutto falso». I territori arabi sono stati catturati nella guerra del 1967. La Cisgiordania è sotto la giurisdizione militare, mentre i quasi 400 mila coloni che vivono in mezzo a oltre 3 milioni di palestinesi rispondono alle leggi civili israeliane. Le alture del Golan, conquistate ai siriani, sono state annesse nel 1981, decisione che la comunità internazionale non riconosce. Donald Trump, il presidente Usa, ha promesso «l'accordo di pace definitivo», ma nell'intervista al quotidiano Israel Hayom è sembrato scoraggiato fino ad avvertire gli israeliani («Le colonie complicano la ricerca di un'intesa») e i palestinesi: «Una follia se non cogliessero questa occasione». Netanyahu non ha mai smentito il discorso tenuto all'università Bar Ilan nel 2009 in cui accettava la soluzione dei due Stati. Ma non incontra il leader palestinese Abu Mazen dall'aprile del 2014: i negoziati più che congelati sembrano ibernati.

(Corriere della Sera, 13 febbraio 2018)


Tipico esempio di articolo “moderatamente”, viscidamente e accanitamente anti-israeliano, proveniente dalla grande stampa nazionale "seria". Le sparate antisemite di Hamas fanno meno male a Israele. M.C.


In Sinagoga. Tajani incontra i vertici della comunità ebraica romana

Il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajanì, ha incontrato in Sinagoga la presidente della comunità ebraica della Capitale, Ruth Dureghello, e il rabbino capo, Riccardo Disegni, per dei colloqui sulla lotta congiunta all'antisemitismo e ad ogni forma di deriva antisemita in Europa. «Ho avuto un confronto positivo e costruttivo - ha detto - E' stata l'occasione di confermare e rinnovare l'impegno del Parlamento europeo a sostegno del dialogo interreligioso e culturale. Come presidente dell'assemblea eletta dai cittadini europei ho assicurato la massima vigilanza contro ogni forma di odio e discriminazione».

(Il Messaggero, 13 febbraio 2018)


Gruppo Cunial investe 3,3 milioni sulle tegole in Israele

Il Gruppo Cunial investe sulle tegole in Israele. La società di Possagno, tramite la controllata Cunial Antonio Ilca S.p.A., ha concluso un aumento di capitale nella controllata israeliana Artile Roof ltd del valore di 3,3 milioni di euro. Denaro che servirà a sostenere il piano di sviluppo industriale e commerciale che porterà Artile Roof ltd a produrre oltre 15 milioni di tegole all'anno nello stabilimento nel deserto del Negev.
Le nuove risorse, si legge in una nota del gruppo, sono finalizzate a sostenere investimenti tecnici per migliorare l'efficienza produttiva della fornace con l'obiettivo di aumentare la produzione del 25% nel numero di pezzi prodotti annualmente e, dall'altro, a finanziare l'incremento di capitale circolante dell'azienda alla luce di una politica commerciale più incisiva e mirata ad aumentare le percentuali di vendite export.
La Cunial Antonio Ilca S.p.A. è tra le sei fornaci di Possagno che, nel 1998, hanno deciso di confluire in un'unica entità societaria, la Industrie Cotto Possagno S.p.A. - oggi la più grande realtà italiana nella produzione di coperture in cotto. La famiglia Cunial è socia di maggioranza relativa del gruppo con il 41% del capitale.
L'aumento di capitale è stato sottoscritto dalla Cunial Antonio Ilca S.p.A. per il 51% e per il 49% da Simest, la Finanziaria Pubblica che con SACE costituisce il polo italiano dell'export e dell'internazionalizzazione. Significativa è la presenza di Simest nell'operazione, poiché era stata proprio la società stessa del Gruppo Cassa Depositi e Prestiti ad affiancare la Cunial Antonio Ilca S.p.A. nelle fasi iniziali di crescita di Artile Roof ltd, con una prima entrata nel capitale della società israeliana avvenuto nel 2005 con circa 1,5 milioni di euro.

(Venetoeconomia, 12 febbraio 2018)


Sabato siamo andati vicini a una nuova guerra

Israele ha abbattuto un drone dell'Iran, poi la Siria ha tirato giù un F-16 israeliano dentro Israele: tutte le cose da sapere, spiegate bene.

di Elena Zacchetti

 
Sabato mattina si è pensato che potesse iniziare una nuova guerra in Siria. Nel giro di poche ore è successo un po' di tutto: tra le altre cose, Israele ha abbattuto un drone iraniano che era entrato nel suo spazio aereo e la Siria ha abbattuto un F-16 israeliano che aveva appena colpito una base aerea siriana. «Siamo arrivati a un passo dalla guerra», ha scritto Amos Harel su Haaretz. «Una delle più pericolose escalation nella lunga e brutale guerra siriana è avvenuta lo scorso fine settimana», ha scritto Ishaan Tharoor sul Washington Post. Alla fine non è successo niente di più, forse grazie a un intervento del governo russo, che avrebbe calmato entrambe le parti. Ma gli attacchi e i contrattacchi di sabato potrebbero avvenire di nuovo - avverranno quasi certamente, dicono diversi analisti - e le cose potrebbero non finire sempre così bene.
  Quello che è successo sabato non è stato improvviso. Da mesi la situazione al confine tra Siria, Libano e Israele è tesissima: il governo israeliano sta infatti cercando di proteggere a ogni costo il suo confine con la Siria e tenere lontane le milizie sciite appoggiate dall'Iran e alleate del presidente siriano Bashar al Assad. Negli ultimi anni Israele è rimasto fuori dalla guerra siriana, ma non del tutto: considera Hezbollah e l'Iran come minacce dirette alla propria sicurezza nazionale, e per questo ha continuato ad attaccare depositi e convogli di armi diretti a Hezbollah, gruppo libanese sciita alleato all'Iran e ad Assad. Ma come succede in altre zone della Siria, raggiungere un obiettivo non è per niente facile: si rischia di far saltare alleanze, pestare i piedi agli amici o fare un passo di troppo che potrebbe provocare l'inizio di un nuovo conflitto.
  Gli eventi di sabato mostrano nella loro completezza tutte queste difficoltà e ci dicono parecchio di quello che bisogna tenere d'occhio nelle prossime settimane.
  Le cose sono andate così: sabato mattina Israele ha abbattuto nel suo spazio aereo quello che ha detto essere un drone iraniano partito da una base militare siriana vicino a Palmira, nel sud della Siria.
  Israele ha definito il volo del drone una «violazione della propria sovranità» e ha risposto anche attaccando la base militare siriana da cui era partito il drone: uno degli F-16 israeliani impiegati nell'attacco però è stato abbattuto da un missile siriano mentre stava tornando alla base, quando era già rientrato nello spazio aereo israeliano. Erano decenni che un aereo militare israeliano non veniva abbattuto dal fuoco nemico, per giunta dentro Israele.
  Israele ha risposto nuovamente e ha compiuto attacchi aerei contro otto obiettivi militari siriani e quattro iraniani, tutti in Siria. Nel giro di qualche ora la situazione si è calmata: Haaretz ha scritto che Israele stava valutando di proseguire l'attacco, ma poi il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ricevuto una telefonata del presidente russo Vladimir Putin, che l'avrebbe convinto a lasciare perdere e non aggravare la situazione.
  Ci sono diverse cose importanti da dire su tutto quello che è successo sabato, e la più rilevante riguarda il ruolo della Russia in tutto questo trambusto. Come avrebbe fatto Putin a convincere Netanyahu a lasciar stare? E più in generale, quanta importanza ha la Russia nel gestire la tensione cresciuta tra Israele e Iran in territorio siriano?
  Anzitutto va detta una cosa. La Russia è intervenuta in Siria per garantire la sopravvivenza del regime di Assad, e il suo impegno militare degli ultimi due anni e tre mesi si è dimostrato decisivo, ma questo non significa che il governo russo condivida gli obiettivi dell'Iran, anch'esso alleato di Assad. I due paesi vedono le cose in maniera diverse su parecchie questioni, per esempio sul ruolo che l'Iran dovrebbe avere in Siria una volta finita la guerra: la Russia non è contenta dell'aggressività iraniana e preferirebbe che l'Iran avesse una presenza molto più marginale di quella attuale. Al momento, però, non è possibile cambiare le cose: gli attacchi aerei russi non sono sufficienti da soli a riconquistare i territori perduti e consolidare il potere di Assad su quelli riconquistati; c'è bisogno anche delle numerose milizie sciite appoggiate dall'Iran.
  Allo stesso tempo, però, la Russia ha continuato a mantenere buone relazioni con Israele. Dall'inizio dell'intervento russo in Siria, nel novembre del 2015, Russia e Israele hanno raggiunto un tacito accordo: i russi avrebbero permesso agli israeliani di attaccare in territorio siriano il gruppo Hezbollah - alleato del regime siriano, e quindi dalla stessa parte della Russia - solo se questi attacchi non avessero indebolito troppo Assad. In pratica per tutti questi anni la Russia ha cercato di tenere un piede in due scarpe: sia in quella dell'alleanza con Assad che in quella dell'amicizia con Israele. Finora la Russia è riuscita con grande abilità a gestire la situazione, e soprattutto a tenere a bada la minaccia iraniana, ma gli eventi di sabato potrebbero avere cominciato a cambiare le cose: con l'aumentare della tensione tra Israele e Iran, la Russia potrebbe a un certo punto essere costretta a dover decidere da che parte stare (qualcuno potrebbe vedere qualche somiglianza con quello che sta capitando agli Stati Uniti nel nord della Siria, dove il governo americano è in balia della rivalità tra Turchia e curdi siriani.
  Gli eventi di sabato, però, ci dicono almeno tre cose che non riguardano il ruolo della Russia in Siria.
  Primo: l'abbattimento di un F-16 israeliano è stata un'enorme sorpresa praticamente per tutti. L'ultima volta che un aereo militare israeliano è stato abbattuto da fuoco nemico era il 1982. Come ha scritto Alon Ben-David sul giornale israeliano Maariv, gli israeliani «sono cresciuti abituati all'idea che nessuno nella regione potesse minacciare» un loro aereo militare. L'abbattimento è stato usato dall'Iran e dalla Siria per fare propaganda contro Israele: un modo per non parlare del fatto che l'intelligence israeliana era stata in grado nel giro di pochissimo tempo di individuare la base militare di partenza del drone iraniano.
  Secondo: il fatto che Assad abbia sparato contro gli F-16 israeliani è una dimostrazione di forza e di rinnovata fiducia, ha scritto David Halfbringer sul New York Times. Secondo Ofer Zalzberg, analista del centro di analisi International Crisis Group, vedremo sempre più spesso tensioni e scontri di questo tipo, soprattutto se Assad continuerà a consolidare il suo potere in Siria indebolendo i ribelli siriani, che controllano ancora una parte di territorio nel nord-ovest del paese.
  Terzo: in tutta questa storia non sono mai venuti fuori gli Stati Uniti, ed è una cosa rilevante. L'obiettivo principale del governo americano in Siria è sempre stato sconfiggere lo Stato Islamico (o ISIS): è un discorso che valeva per l'amministrazione di Barack Obama e che sembra valere anche per quella di Donald Trump, anche se capire quale sia la strategia di Trump in Medio Oriente non è cosa facile. Gli americani sono impegnati per lo più a combattere l'ISIS e a gestire la crisi tra turchi e curdi nel nord della Siria, mentre la sicurezza di Israele, almeno per il momento, è stata messa in secondo piano.
  Non è chiaro cosa succederà ora, o quando sarà la prossima grande escalation di tensione tra Israele e Iran in Siria. Ofer Zalzberg, analista di International Crisis Group, ha detto: «Stiamo vedendo una rinegoziazione delle regole del gioco riguardo al tipo di attività militari che ciascuna parte è disposta a tollerare dall'altra». Il pericolo è che possa iniziare una nuova guerra in Siria, al confine occidentale, che peggiorerebbe ancora di più una situazione disperata. Le prime settimane del 2018 sono state infatti uno dei periodi con più morti della guerra, con centinaia di civili uccisi negli attacchi aerei, circa 300mila persone senza casa nel nord-ovest del paese e altre 400mila a rischio malnutrizione a causa degli assedi compiuti dal regime nell'area a est di Damasco.

(il Post, 12 febbraio 2018)


Israele - Migliorano i piloti dell'F16

Migliorano le condizioni del pilota israeliano ferito sabato mattina nello schianto del suo F16 in Galilea dopo essere stato colpito, secondo fonti di Damasco, dalla contraerea al ritorno da una missione in Siria. Lo riferiscono fonti, citate dai media, dell'ospedale di Haifa dove il militare è stato ricoverato. L'altro pilota dell'F16, ferito in maniera più leggera, secondo le stesse fonti, potrebbe essere dimesso dall'ospedale in poche ore. I due piloti si sono lanciati con il paracadute prima che il velivolo si abbattesse al suolo già all'interno dello stato ebraico. È la prima volta che un aereo militare israeliano viene abbattuto dalla contraerea di un paese arabo confinante.

(Il Mattino, 12 febbraio 2018)


«Duello chiuso? Teheran prepara la guerra totale»

Lo scontro non avrà un solo fronte. Sarebbe la prima guerra Israele--sciiti

GERUSALEMME - Appesa in ufficio tiene la copertina della rivista Time con la fotografia di un F- 16 in volo, il jet che ha pilotato verso l'Iraq - assieme ad altri sette aviatori - per distruggere nel 1981 il reattore nucleare costruito da Saddam Hussein. Amos Yadlin è stato vicecomandante dell'aviazione e capo dell'Intelligence militare, adesso dirige l'Institute for National Security Studies. II Centro di ricerca e analisi legato all'Università di Tel Aviv nel «bilancio strategico per il 2018» ha innalzato il rischio di conflitto sul fronte Nord. «Per oltre dieci anni, dalla guerra del Libano nel 2006, l'abbiamo sempre stimato zero - precisa YadIin a un gruppo di giornalisti stranieri -. La situazione è cambiata e questa volta (se scoppierà) lo scontro non avrà un solo fronte. Non la dovremo chiamare Terza guerra del Libano ma Prima guerra Israele-sciiti».

 La battaglia di sabato è un episodio chiuso almeno per ora?
  «È stata l'operazione più significativa dal raid contro il reattore atomico a Damasco nel 2007. La massiccia risposta israeliana dovrebbe aver spinto
a congelare il duello, sono state colpite batterie antimissile siriane e obiettivi iraniani. I nostri nemici dovranno impiegare un po' di tempo a capire che cosa sia successo. Gli iraniani si sono imbaldanziti dopo aver garantito la vittoria ad Assad. Osano di più, allo stesso tempo non amano prendere rischi. Vogliono prima essere pronti per una guerra totale: per questa ragione stanno cercando di costruire impianti in Siria per fabbricare missili di precisione» .

 Per la prima volta in trent'anni un jet israeliano è stato abbattuto.
  «È inevitabile che possa succedere, non credo che le nostre tattiche cambieranno dopo questo incidente. Sono un veterano della guerra dello Yom Kippur e nel mio squadrone abbiamo perso 17 aerei, in quella dei Sei Giorni nel 1967 - che pure è stata un enorme vittoria per l'aviazione - ne sono caduti 19».

 I missili sparati dai siriani sono russi e i russi hanno addestrato i militari del regime a usarli.
  «I russi non sono nostri nemici ma hanno altri interessi. Devono capire che se continuano a sostenere la presenza degli iraniani e dell'Hezbollah libanese in Siria mettono in pericolo la stabilità e l'obiettivo di ricostruire il Paese. Israele è l'unica forza in Medio Oriente che può distruggere il loro piano di salvare Assad e mantenerlo al potere».

 Putin occupa il ruolo abbandonato dagli Stati Uniti.
  «Gli americani sono occupati in altre faccende, però a differenza di quello che tutti pensano non hanno lasciato la Siria. Sono dislocati con le forze speciali a est del fiume Eufrate e questo limita il potere e la libertà di movimento dei russi». D.F.

(Corriere della Sera, 12 febbraio 2018)


Gerusalemme: crescita straordinaria degli italiani nel 2017

Gerusalemme, quartiere ebraico
Tra storia e innovazione, eventi di livello internazionale e un dinamico panorama artistico, nuove attrazioni e una ricca offerta gastronomica, Gerusalemme conquista il mercato italiano. Nel 2017, con 14.470 arrivi italiani, la città ha infatti ottenuto un incremento del 38,5% sullo scorso anno, superando alla lunga le aspettative annunciate da Jerusalem Development Authority lo scorso novembre che prevedevano una chiusura d'anno con circa 13mila presenze. Nel corso di tutto il 2017, JDA ha puntato su di un ampio mix di azioni strategiche che ha avuto un impatto significativo sul mercato, spaziando da media partnership a co-marketing con i key player del comparto turistico italiano. Crescono gli arrivi italiani e la competitività di Gerusalemme sul palcoscenico delle city destination internazionali e la città quest'anno mette in campo anche alcuni dei più famosi eventi sportivi del panorama mondiale. Già nota per la sua Maratona, Gerusalemme ospiterà anche il GFNY e il Giro d'Italia, che per la prima volta nella storia partirà da un paese extraeuropeo.

(Travel Quotidiano, 12 febbraio 2018)


Israele, unico vero alleato dell'occidente

In un medio oriente che sta cambiando come mai prima

Scrive Bloomberg (19/1)

Nel corso di una cena aTel Aviv, il mese scorso, l'ex ministro della Difesa israeliano Moshe 'Bogie' Ya'alon ha detto che 'ci sono più cambiamenti in atto nel medio oriente oggi che in qualunque altra epoca successiva al Settimo secolo"', ha riportato su Bloomberg il giornalista James Stavridis. "Ovviamente si stava riferendo allo scisma interno all'islam, che lo ha diviso nelle sue due principali correnti religiose: i sunniti e gli sciiti. Nei giorni successivi, diverse figure eminenti della difesa israeliana - sia civili che militari, in servizio o in pensione - ne hanno echeggiato il pensiero. Il mondo israeliano sta cambiando, e ciò porta sia pericoli che promesse.
   Per fortuna, i nostri alleati israeliani hanno in mano ottime carte, al momento: un'alleanza adamantina con gli Stati Uniti; un'amministrazione americana che li supporta strategicamente in tutta una serie di aspetti chiave; un'economia vibrante e innovativa che si merita la sua reputazione di 'nazione startup'; un esercito a prova di conflitto capace di mettere in atto diverse forme di offensive militari, incluse le sue forze speciali e cibernetiche; riserve di gas naturale da poco scoperte; e, a quanto pare, una significativa strategia di deterrente nucleare. Sotto diversi punti di vista, Israele è la 'superpotenza' del medio oriente. D'altro canto, però, Israele deve fronteggiare l'ascesa di un'altra superpotenza regionale: la repubblica islamica iraniana. L'Iran ha ambizioni imperiali radicate nelle millenarie incarnazioni dell'impero persiano; ha una popolazione vasta, giovane e in crescita; presidi militari potenti ed esperti; ed enormi riserve di petrolio. Gli iraniani stanno spingendo per il controllo politico dell'Iraq, della Siria e del Libano, in modo da costruire un 'corridoio sciita' che colleghi Teheran al mediterraneo".
   Gli Stati Uniti, secondo Stavridis, dovrebbero "rafforzare la cooperazione militare bilaterale e aumentare il coinvolgimento di Israele all'interno della Nato. Israele è stato un membro fondatore del 'dialogo mediterraneo' della Nato, una confederazione 'leggera' di paesi non-Nato confinanti con il mediterraneo. Gli Stati Uniti dovrebbero provare ad accrescere l'entità di questo coinvolgimento, offrendo agli israeliani l'opportunità di lavorare con la Nato nelle esercitazioni, negli allenamenti e potenzialmente nelle operazioni e nella condivisione di intelligence. Sopratutto, gli Stati Uniti dovrebbero continuare a sostenere imperturbabilmente Israele, dagli scranni delle Nazioni Unite alle installazioni dei missili balistici nel polveroso deserto del Negev, dove le nostre truppe sono state stanziate per la prima volte in modo permanente. Le nostre due nazioni saranno sempre in disaccordo su vari temi, politici e internazionali: Israele, però, sarà sempre l'alleato più importante degli Stati Uniti, nella regione più bellicosa del mondo. Questo, perlomeno, non sta cambiando".
   
(Il Foglio, 12 febbraio 2018)


Milano - Il Giro alla Borsa Internazionale del Turismo

Omaggio alla grande partenza. Nello stand d'Israele c'è una maglia in più

C'è anche il Giro d'Italia alla Bit, la Borsa Internazionale del Turismo che si conclude domani a Fieramilanocity. Ieri, nello stand di Israele, su iniziativa dell'Ufficio israeliano del turismo è stato inaugurato il corner dedicato alla corsa Gazzetta, alla presenza dell'ambasciatore di Israele in Italia, Ofer Sachs. l'edizione numero 101 del Giro scatterà da Gerusalemme venerdì 4 maggio; l'indomani ci sarà la Haifa-Tel Aviv e domenica 6 la Be'er Sheva - Eilat, prima del trasferimento in Italia da dove si ripartirà martedì 8. Nel corner alla Bit fanno bella mostra le quattro maglie ufficiali del Giro. Ieri, prima del taglio di una grande torta a tema realizzata dallo chef pasticcere Ernst Knam, è stata presentata anche quella speciale dedicata alla Grande Partenza da Israele. L'ambasciatore Sachs ha poi confermato che si sta pensando di intitolare a Gino Bartali, il cui nome è indelebile nel Giardino dei Giusti, una pista ciclabile a Gerusalemme proprio in occasione della partenza del Giro.

(La Gazzetta dello Sport, 12 febbraio 2018)


Se i coppi di Possagno si consolidano in Israele

La Cunial (con Simest) rafforza il capitale della controllata mediorientale. Advisor finanziario lo Studio Giolai.

Da Possagno, la «capitale» italiana delle tegole, al deserto del Negev, nel sud di Israele, il passo è tutt'altro che breve. Ma per la Cunial Antonio Ilca, storica azienda trevigiana produttrice di coperture in laterizio, il mercato israeliano è talmente strategico di avere richiesto l'apertura di una controllata in loco, la Artile Roof, di cui Cunial ha da poco concluso un aumento di capitale per 3,3 milioni di euro, rafforzando la propria presenza nell'area.
   L'azienda israeliana, con una produzione superiore ai 15 milioni di tegole all'anno, copre oltre il 65% del mercato locale.
   L'aumento di capitale è finalizzato a dotare l'azienda di nuove risorse per sostenere un piano di sviluppo industriale e commerciale che porterà Artile Roof a produrre oltre 15 milioni di tegole all'anno, nel sito produttivo localizzato nel deserto del Negev. Le nuove risorse andranno, da un lato, a migliorare l'efficienza produttiva della fornace, con l'obiettivo di aumentare la produzione del 25%, e, dall'altro, a finanziare l'incremento di capitale circolante dell'azienda, alla luce di una politica commerciale più incisiva.
   La Cunial è presente nel mercato israeliano sin dalla fine degli anni Novanta. I tassi di crescita registrati nel tempo hanno indotto l'azienda trevigiana a insediarsi nel Paese con una propria struttura produttiva per accrescere la catena del valore, eliminando la figura dell'importatore e confrontandosi direttamente con il mercato locale.
   L'aumento di capitale in Artile Roof è stato sottoscritto dalla Cunial per il 51% e per il 49% da Simest, la finanziaria pubblica che, con Sace, costituisce il polo italiano dell'export e dell'internazionalizzazione. il nuovo impegno di Simest in Artile Roof sta a dimostrare la valenza insita nell'operazione, tanto in termini aziendali, quanto alla luce della rilevanza geopolitica che essa riveste nel tormentato scacchiere mediorientale.
   La Cunial è stata assistita nell'operazione dallo Studio Giolai di Bassano del Grappa, professionisti specializzati in internazionalizzazione d'impresa, con all'attivo oltre 80 milioni di euro d'investimenti complessivi generati in più di 25 Paesi. Lo Studio Giolai ha svolto il ruolo di advisor finanziario, di responsabile di progetto e di referente per la Cunial nei confronti di Simest. il Banco delle Tre Venezie ha sostenuto finanziariamente l'azienda trevigiana, mettendo a disposizione della Cunial la bondistica a garanzia della operazione.
   Particolarmente interessanti sono le prospettive di crescita commerciale di Artile Roof nel mercato israeliano, dove l'azienda consolida il ruolo di primo produttore e distributore, nonché nei mercati limitrofi, con quote di export crescente. Esporta infatti le coperture in cotto anche in Palestina e nella Striscia di Gaza, mercati non proprio semplici per il «Made in Israel», ma che, riconoscendo la matrice italiana del prodotto, dimostrano un atteggiamento commerciale decisamente più favorevole.

(Corriere Imprese Nordest, 12 febbraio 2018)


Liste d'attesa, accordo Idi-Israelitico

Decisi percorsi terapeutici comuni. E con il Gemelli avviato scambio di chirurghi.

di Clarida Salvatori

 
Il prof. Antonio Maria Leozappa
ROMA - Riduzione dei tempi di attesa per le prestazioni, interscambio di percorsi terapeutici per tutti gli utenti e servizi più vicini alle esigenze dei pazienti. Sono questi in sintesi gli obiettivi contenuti nell'accordo sottoscritto dall'Idi, l'Istituto dermopatico dell'Immacolata, e l'ospedale Israelitico di Roma. Il protocollo prevede, infatti, «una collaborazione strategica - ha spiegato il presidente Idi, Antonio Maria Leozappa a margine della firma del nuovo progetto - tra i due poli ospedalieri che oggi offrono specialità diverse e che diventano complementari a tutto vantaggio dei cittadini». In pratica se un ospedale è super affollato, il paziente viene indirizzato nell'altro. «Facciamo incontrare due percorsi sanitari per offrire servizi migliori - precisa Leozappa - e evitare perdite di tempo a migliaia di malati che potranno intraprendere un percorso terapeutico unitario».
   Soddisfazione è stata espressa dal presidente dell'ospedale Israelitico, Bruno Sed che sottolinea «l'importanza delle sinergie nel mondo sanitario per migliorare l'offerta». L'accordo mira quindi a offrire al paziente maggiori opportunità di percorsi di cura completi e più efficienti. L'intesa tra Idi e
Israelitico arriva pochi giorni dopo la sigla del protocollo dello stesso Idi con la Fondazione Gemelli, il cosiddetto «taglia-tempo»: in pratica i chirurghi dei due ospedali collaboreranno per effettuare interventi e ricoveri nelle strutture dell'Idi, in particolare per chirurgia generale, plastica e vascolare, così da ridurre le liste di attesa.
   In questi ultimi mesi il nuovo Consiglio di amministrazione della Fondazione «Luigi Maria Monti», che gestisce l'Idi, ha messo in campo una profonda azione di spending review con l'obiettivo di far superare all'ospedale i momenti di crisi e le turbolenze che hanno coinvolto i dipendenti, in passato più volte a rischio licenziamenti. I nuovi vertici sono riusciti a non tagliare il personale, a risparmiare circa 4 milioni su forniture e razionalizzazione degli organici, trasferendo i laboratori di ricerca da Pomezia alla sede centrale Idi in via Monti di Creta. Inoltre razione di rilancio ha portato nel 2017 a superare quota 650 mila prestazioni, il 10% in più del 2016 e ad attivare nuovi ambulatori specialistici di ginecologia, endocrinologia, maxillofacciale, agopuntura, auricoloterapia e oculistica.
   
(Corriere della Sera - Roma, 11 febbraio 2018)


Si incendia il Medio Oriente. Abbattuto un F-16 israeliano

Il velivolo precipitato vicino al confine con la Siria. Un drone iraniano era penetrato nei cieli della Galilea

di Fiamma Nirenstein

E' cominciato alle 4 di mattina fra venerdì e sabato l'evento bellico che cambia le regole del gioco mettendo Israele faccia a faccia con l'Iran, anche se con l'intermediazione della complicità di Assad con gli ayatollah. Un'operazione audace da parte israeliana in risposta a una provocazione iraniana, che è costata la perdita di un F16 nelle prime ore della mattina. Un grosso drone ultimo modello, esempio dell'impegno tecnologico e strategico del regime iraniano, si avventura nel cielo israeliano del Golan e della Galilea. Un'impresa che se fosse riuscita avrebbe rappresentato una vittoria e uno sberleffo da parte dell'alleanza Iran-Hezbollah-Assad, mentre sullo sfondo la Russia diventa parte di uno scontro forse troppo caldo per Putin. Un elicottero Apache si leva in volo e neutralizza il drone, i siriani rispondono mandando gli abitanti del nord di Israele nei rifugi, fra sirene e scoppi. Qui si organizza l'operazione che segue decine di manovre di disturbo contro obiettivi stranieri in Siria, ma che la sopravanza di parecchio. È una decisione fulminea presa sulla base di una lunga preparazione e nella convinzione che il Paese islamico più radicale e sostenitore del terrorismo non debba basare le sue armi sul confine del Paese che condanna a morte ogni giorno.
   I piloti israeliani dormono con le scarpe e con i caschi accanto al letto, possono raggiungere la base in un'ora al massimo. Una squadra di aerei da guerra si solleva in volo al nord e colpisce fino a 400 chilometri dentro i confini siriani obiettivi che hanno a che fare con la nuova dimensione strategica di Assad e dell'Iran. Gli obiettivi colpiti sono stati dodici, di cui quattro direttamente gestiti in proprio dagli iraniani fino alla proibizione ai siriani di entrarvi, e sono molto importanti, tali da cambiare il gioco sul terreno. Aeroporti, basi militari, depositi, strutture tecnologiche. È stata colpita la base da cui è partito il drone di sorveglianza; il centro di smistamento delle forze iraniane dalla sconfitta di Daesh, nel cuore della Siria; tre batterie antimissile dei siriani; due aeroporti militari di cui uno a cinque chilometri dal palazzo di Assad, che quindi deve aver sentito fisicamente gli scoppi, la torre di controllo e la camera di coordinamento; è stata colpita la caserma dell'unità speciale siriana 104 che difende personalmente il regime alawita.
   Come mai l'F16 si è schiantato al suolo? Probabilmente lo ha colpito un missile antiaereo siriano. Le notizie sicure riguardano i piloti che sono riusciti a riportarlo su territorio israeliano e poi si sono proiettati fuori col paracadute. Uno di loro è ferito gravemente ma stabile, il secondo ha ferite lievi.
   La versione siriana è eccitata, la televisione trasmette musiche militari, per le strade si distribuiscono caramelle, il nemico sionista in una delle sue più temibili espressioni, i suoi aerei da guerra, è stato battuto. E gli iraniani negano che il drone provenisse dai suoi arsenali. Ambedue le cose non hanno attualmente peso nell'opinione pubblica israeliana: la consultazione che tutto il giorno si è svolta freneticamente ai massimi vertici del governo, Netanyahu in testa, prende in considerazione due punti: come evitare che la situazione si complichi ulteriormente portando a una guerra in cui Siria-Iran-Hezbollah si muovano in preda a illusioni di vittoria; e come convincere il mondo che è impossibile immaginare che l'Iran si permetta la violazione dello spazio sovrano di Israele. La risposta è internazionale, i russi, interessati alla stabilità siriana che vedono (illusoriamente) legata ad Assad, potrebbero accendere una luce rossa alla presenza iraniana. È possibile, ma solo se a Putin conviene.
   
(il Giornale, 11 febbraio 2018)


Teheran e Gerusalemme. La guerra che soltanto Putin ha il potere di fermare

Il monito degli esperti: il conflitto si allargherà anche al libano

di Davide Frattini

GERUSALEMME - La risposta alla prima domanda del dossier di 36 pagine sembra scritta a poche ore dalla mattinata di guerra. In realtà gli analisti dell'International Crisis Group hanno lavorato nei mesi passati al rapporto. «Israele, Hezbollah e Iran: prevenire un'altra guerra in Siria» è stato pubblicato giovedì e già riusciva a prevedere quel che poi è successo ieri. Prova anche a indicare delle soluzioni, perché è questo il mandato del centro studi: capire per aiutare a risolvere.
   Il quesito è semplice: che cosa c'è di nuovo? Il responso premonitore e allarmante: «Questa fase nel conflitto siriano fa presagire un'escalation con Israele. Mentre il regime di Assad sta prendendo il sopravvento, Hezbollah si espande verso il Sud del Paese e l'Iran cerca di aumentare le capacità militari dei suoi alleati, così gli israeliani temono sempre di più che la Siria stia diventando una base iraniana».
   Gli esperti che hanno compilato il documento sono convinti che la calma relativa seguita ai 34 giorni di guerra nell'estate del 2006 tra gli israeliani e il gruppo sciita libanese sia ormai destinata a fracassarsi. «Le regole del gioco che hanno contenuto gli scontri Israele-Hezbollah per oltre un decennio sono ormai erose. Nuove regole possono essere stabilite in Siria attraverso un'intesa reciproca o un ciclo letale di attacchi e rappresaglie in cui tutti perdono. Da qui a una guerra allargata basta un errore di calcolo».
   Dopo le prime manifestazioni pacifiche in Siria nel 2011 per chiedere le riforme e la fine degli abusi perpetrati dal clan al potere, il governo di Benjamin Netanyahu aveva deciso di adottare una strategia da spettatore, certo che l'era degli Assad stesse per finire. Nel dicembre di quell'anno Ehud Barak prediceva: «I giorni di Bashar sono contati». Da allora è andato in pensione da ministro della Difesa e si è lasciato crescere la barba, mentre il dittatore porta ancora gli stessi baffetti e resta nel palazzo presidenziale.
   La scelta della neutralità verso gli eventi dall'altra parte del confine - da Tel Aviv a Damasco ci sono poco più di 200 chilometri - si è incrinata dopo l'intervento di Hezbollah a sostegno del regime: gli israeliani hanno a quel punto stabilito delle linee rosse da non oltrepassare, come il trasferimento sul territorio siriano di tecnologie militari dall'Iran all'organizzazione libanese. Ogni volta che i satelliti hanno individuato un convoglio carico di armamenti lo Stato Maggiore ha ordinato raid aerei per distruggerlo, operazioni che Tsahal non si è mai attribuita.
   Le possibilità di questo ping pong bellico - le «regole del gioco» dell'introduzione al dossier - sembrano esaurite. «Con Assad sempre più saldo al potere - continua l'International Crisis Group - gli israeliani sono costretti a manovrare per contrastare il deterioramento della loro posizione strategica. Gli ostacoli da superare sono però cresciuti: il regime dipende sempre più dall'Iran, altri nemici (Hezbollah e le milizie sciite) sono ormai arroccati in Siria con la benedizione russa, e gli Stati Uniti - nonostante i proclami retorici di Donald Trump - non stanno facendo nulla per contrastare i successi accumulati da Teheran».
   Allo stesso tempo le visite ripetute di Netanyahu a Mosca o nella residenza di Sochi sul Mar Nero gli hanno permesso di ottenere qualche rassicurazione da Vladimir Putin. Il presidente russo gli ha lasciato spazio di manovra nei cieli «per colpire gli interessi militari legati all'Iran e sembra più interessato a tenere in equilibrio le diverse coalizioni combattenti che a far ricatturare ad Assad ogni pezzo di territorio perduto. Ma se la Russia vuole arrivare a ritirare o a ridurre le sue truppe dalla Siria deve prima imporre delle nuove regole del gioco, altrimenti le ostilità tra Israele e l'Iran rischiano di mettere in pericolo i risultati che ha ottenuto, in particolare la stabilità del regime».
   Perché gli autori del rapporto sostengono che - almeno nelle prime fasi -la prossima guerra tra Israele, Iran, Hezbollah avrà come campo di scontro la Siria per poi allargarsi al Libano, da dove il gruppo sciita è in grado di colpire le città israeliane con un arsenale di oltre 100 mila missili. «I russi hanno ancora tempo per evitare un conflitto totale proteggendo così l'investimento di questi anni per la sopravvivenza del regime e le vite di siriani, israeliani, libanesi».
   
(Corriere della Sera, 11 febbraio 2018)


Guerra tra Israele e Iran: il mondo messo davanti alla realtà

Il mondo non può più sorvolare sulle vere intenzioni di Teheran e invece di invitare Israele alla calma dovrebbe rendersi conto che solo fermando l'Iran può fermare la guerra.

Sono mesi che si parla di una guerra tra Israele e Iran, sono mesi che il Premier israeliano Benjamin Netanyahu fa il giro delle parrocchie per mettere in guardia sul pericolo che rappresenta la presenza iraniana in Siria e per ribadire che Israele non può permettere che Teheran si posizioni a pochi Km dal confine con lo Stato Ebraico.
Tutto inutile. Se si escludono gli americani, tutti gli altri hanno allegramente sorvolato sul pericolo rappresentato dalla politica iraniana in Medio Oriente. Troppo presi a fare affari con gli Ayatollah per pensare alle legittime preoccupazioni israeliane....

(Right Reporters, 11 febbraio 2018)


"Israele, un paese bike friendly"

Da sinistra. l’ambasciatore Ofer Sachs, Avital Kotzer Adari, Pier Bergonzi
L'atteso appuntamento con il Giro d'Italia, al via tra meno di tre mesi da Gerusalemme. Un momento che segnerà inevitabilmente uno spartiacque nella percezione che si ha di Israele come di paese "bike friendly". Perché la sfida è anche quella di costruire qualcosa che guardi più in là del 6 maggio, il giorno in cui la carovana rosa lascerà Eilat. E le prospettive, come è stato evidenziato anche oggi, sono incoraggianti.
Grande interesse a Milano, nella giornata di apertura della Borsa internazionale del turismo, per l'inaugurazione del corner dedicato al Giro presso lo stand israeliano. Assieme, tra gli altri, all'ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs, al consigliere per gli affari turistici dell'ambasciata Avital Kotzer Adari e al vicedirettore della Gazzetta dello sport con delega al ciclismo Pier Bergonzi, tanti gli appassionati di ciclismo incuriositi dalla prospettiva di una pedalata nel deserto del Negev o sul lungomare di Tel Aviv. Una possibilità che passa anche dalla grande potenzialità mediatico-comunicativo di questo Giro davvero unico nel suo genere.

(moked, 11 febbraio 2018)


Il cielo sopra Tel Aviv. Perché, oltre la sicurezza, contano le nuove rotte

Jonathan Pacifici

Per Jonathan Pacifici, presidente del Jewish Economic Forum, l'apertura di spazi aerei fino ad oggi preclusi potrebbe rendere ancora più forte il ruolo di Israele nella nuova mappa della economia globale
   Nelle ultime ore la questione degli spazi aerei mediorientali torna alla ribalta. Le milizie iraniane in Siria hanno violato lo spazio aereo israeliano facendo sconfinare un drone che viene immediatamente abbattuto da un Apache israeliano. Le conseguenti incursioni dell'aviazione israeliana in Siria distruggono buona parte dei radar di Damasco e dei sistemi missilistici appena installati dai russi. I siriani a loro volta abbattono un F-16 israeliano. Netanyahu chiama Putin e sembra essere ripristinato il coordinamento tra le due aviazioni che dominano i cieli siriani, russi e israeliani.
   Gli eventi delle ultime ore rischiano di fare ombra sulla vera novità che influenzerà i cieli del Medio Oriente. È infatti degli ultimi giorni la notizia che l'Arabia Saudita ha intenzione di concedere lo spazio aereo per i voli di linea dell'Air India che collegano Tel Aviv con i principali scali indiani. Fino ad ora tutti i voli che collegano Israele all'Asia devono aggirare la Penisola arabica ed il resto degli stati ostili ad Israele con conseguente spreco di tempo e denaro. Molti businessman israeliani preferiscono le connection della Turkish (con scalo a Istanbul) al volo diretto "allungato". Nel caso di Air India i voli vengono accorciati da 7,5-9 a 5-6 ore. Se il trend verrà confermato si tratta di una vera e propria rivoluzione per i collegamenti di un Israele che guarda con grande attenzione al mercato asiatico ed è molto interessante che ciò avvenga dopo poche settimane dalla visita del Premier Modi.
   Nel mondo della Connectography, il termine coniato dall'autore Parag Khanna, Israele sta perseguendo una chiara politica di investimenti infrastrutturali che ben si sposano con i disegni delle grandi economie asiatiche. La Cina sembra avere l'intenzione di giocare un ruolo importantissimo nella pianificazione della linea ferroviaria Red-Med che collegherà Eilat ad Ashdod fornendo una alternativa su rotaia al canale di Suez ed il contestuale allargamento del porto di Eilat. La Cina sta infatti presidiando la partita dei porti: Pan-Mediterranean Engineering Ltd, una controllata della China Harbour Engineering Company ha vinto un tender di circa un miliardo di euro per il nuovo porto di Ashdod, mentre Shanghai International Port Group (SIPG) si è aggiudicata per due miliardi la gestione del porto di Haifa. Dall'Agosto del 2016 poi China Ocean Shipping Company (COSCO) controlla il principale porto del mediterraneo, il Pireo di Atene che diviene così un vero e proprio hub cinese. L'apertura del corridoio Cina-Israele è perciò assolutamente strategico nel disegno di Beijing.
   Ora l'apertura di spazi aerei fino ad oggi preclusi potrebbe rendere ancora più forte il ruolo d'Israele nella nuova mappa della economia globale.
   
(formiche.net, 11 febbraio 2018)


Le fiction anti-israeliane dell'Huffington Post: un'altra gemma su Gerusalemme

Analisi di un recente articolo pubblicato sull'Huffington Post contenente tesi su Gerusalemme che non corrispondono alla realtà.

di Niram Ferretti ed Emanuel Segre Amar

 
Emanuel Segre Amar e Niram Ferretti
Riciclatore di quanto può essere avverso ad Israele l'Huffington Post è ugola assai solerte nel propalare notizie tendenziose e false, vere e proprie fole, quando non leggende nere. La corrispondente Giulia Berardelli si presta alla bisogna, qualcuno dovrà ben farlo. E dunque accade che in un articolo di inizio febbraio "Israele sta usando il turismo per legittimare i suoi insediamenti a Gerusalemme Est", la denuncia in un report Ue si racconti che Israele oltre alla terribile arma del cemento (e di questo abbiamo già dato conto) per opprimere le "vittime" palestinesi ora armerebbe pure il turismo.
   La metafora è scontata, ma piace a chi si rappresenta lo Stato ebraico come una distopia militare in cui militi spietati e coloni fanatici opprimono la popolazione autoctona discendente dai Gebusei financo dai Canaanei. La Berardelli ci informa dunque che c'è un allarme lanciato dai capi missione della UE:
    "Israele - denunciano i diplomatici Ue - sta sviluppando siti archeologici e turistici per legittimare insediamenti illegali nei quartieri palestinesi di Gerusalemme. Il rapporto cita progetti in alcune parti di Gerusalemme Est - occupate da Israele dal 1967 - che vengono usati come 'strumento politico per modificare la narrativa storica e sostenere, legittimare ed espandere gli insediamenti'".
L'assunto è sempre quello. Tutto ciò che si muove in Israele è "strumento politico", ogni azione, ogni sospiro, naturalmente e sempre ai danni delle ormai imperiture "vittime" così designate a Mosca dalla Guerra dei Sei Giorni in poi, cioè esattamente cinquantuno anni fa. Quando si vuole parlare di "narrativa" occorre però stare attenti perché si rischia di fare come il bue che dà del cornuto all'asino.
   Il rapporto UE approda al Guardian, una delle testate più visceralmente anti-israeliane europee, e da lì, con amorevole attenzione, l'Huffington Post lo preleva. Nel rapporto UE nessuna menzione viene riservata al fatto che i "progetti turistici pensati per la parte palestinese della città", non potranno che portare benefici economici in una zona che vive soprattutto grazie al turismo. Così come appare astruso il nesso tra "siti archeologici" e "insediamenti illegali". Più onesto sarebbe stato fare riferimento ai siti archeologici israeliani che, mese dopo mese, portano alla luce nuove prove di episodi ricordati nella Bibbia ebraica o Vecchio Testamento per i cristiani. Ma ciò disturba assai la narrativa araba, quella che fa del Muro Occidentale, del Monte del Tempio e delle Tombe dei Patriarchi, secondo la vulgata UNESCO, siti islamici o palestinesi che dir si voglia. Così accade che reperti di valore scavati illegalmente sul Monte del Tempio vengano gettati nelle discariche. Ma l'Europa in questo caso sembra voltarsi altrove quando si tratta di sottolineare i legami storici degli ebrei con Gerusalemme.
   Nello "scottante" documento UE viene puntato il dito su cantieri e scavi gestiti dai coloni nel cuore dei quartieri a maggioranza araba, ma anche su un progetto di teleferica con fermate nei terreni confiscati e sulla designazione di aree urbane edificate come parchi nazionali. "Gerusalemme Est è l'unico posto in cui parchi nazionali israeliani vengono istituiti in quartieri popolati", viene affermato.
   Chi conosce la realtà israeliana non può nascondere ai lettori la scientificità con la quale si effettuano gli scavi archeologici in Israele; non sono i "coloni" (parola di sicuro effetto, sempre utile, per gettare fango su tutto ciò che si fa in Israele), ma professori universitari, magari anche abitanti oltre la linea verde (ma che non devono essere qualificati come "coloni") i realizzatori degli scavi archeologici. Il "Progetto teleferica" oggi, così come la metropolitana leggera tanto avversata ieri, servono a facilitare gli spostamenti di tutti, arabi ed ebrei. Viene da chiedersi perché alla Berardelli faccia piacere volere ghettizzare gli arabi verso i quali la sua simpatia è assai evidente.
   Altra frase ad effetto, ma priva di significato, è quella in cui viene fatto riferimento ad "aree urbane edificate come parchi nazionali". Israele è l'unica nazione al mondo che vede, anno dopo anno, crescere il numero delle proprie piante, essendo questo l'unico modo, in quelle aree, per bloccare la desertificazione, ma questa verità va accuratamente nascosta ai lettori ignari, si preferisce raccontare che queste aree sono sottratte ai palestinesi. Ma torniamo al dettato originario:
    "Il documento - sintetizza il Guardian - presenta un quadro desolante, da cui emerge un grave peggioramento della situazione generale della città e delle prospettive per la pace. L'emarginazione dei palestinesi, che costituiscono circa il 37% della città, è continuata senza sosta - denunciano i diplomatici Ue - con oltre 130 demolizioni di edifici e lo spostamento di 228 persone".
"Emarginazione" è altra parola di indubbia allure nella narrativa vittimistica. Evoca immediatamente altre parole ben radicate, come "apartheid" e "razzismo". Che l'incremento possa avvantaggiare anche gli arabi non viene detto, non può essere detto. Come può infatti il "turismo armato" beneficiare chi lo "subisce"? Subito, senza un nesso logico si sposta il discorso sulle "oltre 130 demolizioni di edifici". Alla UE non è andata giù l'ordinanza di demolizione di costruzioni da essa finanziate senza permesso di costruzione, cioè abusive. E così vale anche per le altre costruzioni di cittadini arabi che trovano spesso più semplice costruire senza rispettare leggi e regolamenti cittadini.
    "Il documento certifica un processo già denunciato da diversi urbanisti, tra cui l'italiano Francesco Chiodelli che qui ci ha spiegato il ruolo delle politiche urbane israeliane nel ridisegnare il volto di Gerusalemme a discapito della parte palestinese della popolazione. Secondo i diplomatici Ue, un numero record di progetti di insediamento e l'isolamento fisico dei palestinesi sotto un rigoroso regime di regole e permessi hanno fatto sì che 'la città cessasse in larga misura di essere il centro economico, urbano e commerciale palestinese che era' un tempo".
Rispunta il nome "dell'urbanista Francesco Chiodelli" che già ispirò un articolo pubblicato sul medesimo Huffington Post lo scorso 16 dicembre e da noi riletto criticamente il 4 gennaio. E' solo da ricordare la tradizione araba di rispettare l'unione tribale nella scelta del quartiere dove vivere. Che cosa griderebbero i nemici di Israele se si cercasse di interrompere questa antica tradizione che, in sé, non arreca alcun disturbo?
   "L'archeologia e lo sviluppo del turismo da parte delle istituzioni governative e delle organizzazioni di coloni privati hanno stabilito quello che è stato definito un 'racconto basato sulla continuità storica della presenza ebraica nell'area a spese di altre religioni e culture'. Il documento cita come esempio lampante la Città di David, un parco archeologico finanziato dal governo nel quartiere palestinese di Silwan che offre visite nelle rovine dell'antica Gerusalemme. Il sito è gestito da un'organizzazione di coloni 'che promuove una narrativa esclusivamente ebraica, mentre distacca il luogo dai suoi dintorni palestinesi'".
   Frode ispira frode. La continuità della presenza ebraica dall'epoca di Davide non ci fu mai a spese delle altre religioni per la evidente ragione che le altre nacquero successivamente; ma questa verità è in contrasto con l'unione ideologica euro-araba la quale con la pretesa di essere irenica ed ecumenica in realtà ha come scopo quello di relativizzare, quando non di negare apertamente, una primogenitura ebraica nella regione. Che siano coloni o meno, i gestori del sito archeologico potrebbero forse parlare di una "narrativa -non- esclusivamente ebraica"?
   Ma procediamo con altri spunti:
    "Circa 450 coloni vivono sotto pesante protezione a Silwan, secondo il rapporto, insieme a quasi 10.000 palestinesi. Gli sfratti prolungati delle famiglie palestinesi e l'aumento della presenza di forze di sicurezza israeliane hanno creato una tensione particolare, avverte il report".
Sul fatto che la tensione tra arabi ed ebrei, nei territori menzionati duri invariata da almeno un secolo è opportuno tacere, come è altrettanto opportuno farlo sulla ragione dell'"aumento della presenza delle forze dell'ordine", servito recentemente a calmare le acque.
    "Più recentemente, un progetto di funivia approvato dal governo israeliano a maggio prevede di collegare Gerusalemme Ovest con la Città Vecchia, parte di Gerusalemme internazionalmente riconosciuta come occupata. La funivia dovrebbe essere operativa nel 2020, con l'obiettivo di trasportare oltre 3.000 persone all'ora. Il documento Ue avverte che il piano - definito 'altamente controverso' - contribuirà al consolidamento degli 'insediamenti turistici'. Una seconda fase del progetto, non ancora approvata, punta a estendere la linea ancora più verso Est. Il progetto- scrivono i diplomatici europei - è stato descritto dai critici come 'la trasformazione del sito patrimonio mondiale di Gerusalemme in un parco a tema commerciale, dove i residenti palestinesi locali sono assenti dalla narrazione presentata ai visitatori'. Ma non è tutto: i diplomatici avvertono anche che la funivia potrebbe portare a un deterioramento della situazione di sicurezza, dato che si troverebbe a circa 130 metri dal complesso del Monte del Tempio/ Haram al-Sharif, venerato come luogo sacro sia dai musulmani che dagli ebrei. Questa estate, uomini armati hanno ucciso due poliziotti israeliani all'ingresso del sito, e la successiva installazione da parte delle autorità israeliane di metal detector ha portato a una fase di intensi scontri".
La conclusione dell'articolo riprende la questione, già più sopra analizzata, del progetto della funivia, ma diventa occasione per parlare di "Gerusalemme internazionalmente riconosciuta come occupata" dimenticando che, secondo tutte le considerazioni legali imparziali si può al massimo parlare di Gerusalemme "contesa", non esistendo, nel 1967, quando Israele la "occupò" nella sua interezza, nessuno stato che la detenesse legalmente. Che si vogliano poi dare lezioni di gestione della sicurezza a chi sta dando in materia consigli al mondo intero è esercizio surreale; sono piuttosto gli arabi palestinesi che rifiutano tutte le metodologie necessarie a mantenere la sicurezza di tutti. Ducis in fundo, i citati "metal detector" che furono installati dagli israeliani e poi fatti togliere da coloro che erano corresponsabili dell' "uccisione dei due poliziotti ebrei" che erano invece drusi, serve a dimostrare quanto alla Berardelli sfugga la realtà, come sfugge agli estensori del rapporto UE, ennesima fiction anti-israeliana.

(Progetto Dreyfus, 11 febbraio 2018)


Bettina vs. Hannah: la verità del Male

Caso Eichmann: uno studio negli archivi rivela il volto, tutt'altro che "banale", del nazista. Contro gli ebrei, un odio inestinguibile

di Laura Ballio

Non è certo la prima volta, che la tesi di Hannah Arendt sulla "banalità del male" viene messa in discussione. Ma l'imponente volume scritto da Bettina Stangneth (filosofa tedesca esperta di teoria dell'inganno e di psicologia della manipolazione, strumenti particolarmente adatti al caso), si propone di contrastare alle radici il pensiero arendtiano: lo fa per seicento pagine - almeno un centinaio sono dedicate alle ricchissime note - con un incalzante susseguirsi di colpi di scena tra storie private e pubblici orrori. Il tutto, senza mai perdere il fil rouge della ricerca condotta in prima persona per anni in archivi e istituzioni sia pubbliche che private, fra mille resistenze e difficoltà di ogni tipo e qualche importante collaborazione.
   Hannah Arendt era stata inviata dal New Yorker in Israele per seguire le 120 sedute del processo al criminale nazista Adolf Eichmann, responsabile dell'organizzazione degli spostamenti degli ebrei verso i campi di sterminio. Ebbe l'impressione, così scriveva nel 1963 in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, che «le azioni erano mostruose ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso».
   Bettina Stangneth, nel suo La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme (edito per la prima volta in Germania nel 2011, ora uscito in Italia con la bella traduzione di Antonella Salzano grazie al Goethe Institut e al Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Federale Tedesca), dipinge invece così l'Obersturmbannführer (tenente colonnello) delle SS, che fuggì in Sudamerica nel 1950, dopo essersi sottratto al processo di Norimberga, uno tra i principali responsabili della Shoah: «Il nazista redento e l'amante della natura ormai completamente apolitico non arrivarono mai in Argentina. L'idillio non faceva per Eichmann. Per lui la guerra, la sua guerra, non era mai finita. (…) Poteva aver svestito la divisa, ma il nazionalsocialista fanatico era ancora in servizio».
   Per ricostruire la complessa personalità di Eichmann in chiave non-arendtiana, con tanto di amanti, coniglietti e cagnolini, accanto al racconto di macabri rituali e nuovi deliranti progetti neonazisti, Bettina Stangneth scandaglia le 1300 pagine di manoscritti e documenti, e le 25 ore di registrazioni che vanno sotto il titolo di Carte Argentine. In uno dei nastri raccolti dal giornalista Willem Sassen, volontario olandese nelle Waffen-SS, anche lui fuggito in Argentina, nel 1957 Eichmann dice (e La verità del male riporta): «(…) Non mi pento di nulla! Non mi cospargo il capo di cenere! (…) Le dico, camerata Sassen che non ce la faccio (…). Devo dirle in tutta sincerità che se dei 10,3 milioni di ebrei stimati da Korrherr, come sappiamo oggi, ne avessimo uccisi 10,3 milioni, allora sarei soddisfatto e direi "bene, abbiamo sterminato un nemico"».

Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, traduzione di Antonella Salzano, Luiss University Press, pp. 604, euro 24.

(Bet Magazine Mosaico, 11 febbraio 2018)



«Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose...»

Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, l'accolse in casa sua. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola. Marta allora, tutta presa dalle molte faccende, si fece avanti e disse: «Signore, non t'importa che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma la cosa di cui c'è bisogno è una sola. Maria ha scelto la buona parte, che non le sarà tolta».

Dal Vangelo di Luca, cap. 10

 


Siria, Israele cerca di imporsi, ma è Putin che guida il gioco

di Lorenzo Vita

Gli attacchi in Siria e lo scontro sull'influenza iraniana nella regione rendono sempre più accesa la sfida tra Israele e Russia per il controllo della guerra e della regione. Uno scontro che dura ormai da mesi e che sia Putin che Netanyahu non sembrano riuscire a limitare per le esplicite divergenze d'interessi fra Mosca e Tel Aviv su come deve essere gestita e conclusa questa travagliata guerra che appare sempre più interminabile e densa di complicazioni. Israele, a detta dei media israeliani, vorrebbe imporre alla Russia e a tutti gli attori in gioco nella regione una serie di "linee rosse" per limitare l'influenza dell'Iran e della milizia di Hezbollah in Siria.
   Tuttavia, come riporta Haaretz, Israele non può farlo senza l'accordo con la Russia. E questo resta un problema poiché, come ormai è chiaro da anni, è soprattutto il presidente russo Vladimir Putin "a guidare il gioco" nel Paese arabo. Gli ultimi raid israeliani sono la concretizzazione di questo scontro geopolitico fra i due Stati. L'esercito israeliano ha dichiarato che sono stati i missili della contraerea siriana ad abbattere l'F-16 della Fionda di Davide.
   C'è però un dato che non va dimenticato: la Siria difficilmente avrebbe agito senza una sorta di semaforo verde russo che lasciasse che la contraerea di Damasco colpisse l'aeronautica militare di Israele. Come riporta Haaretz, tra le fila dell'esercito siriano i consiglieri russi sono molti e hanno in particolare anche il controllo sulle batterie di missili siriane. Sembra quindi difficile che Mosca potesse essere completamente all'oscuro della decisione siriana di reagire all'ennesimo bombardamento
   La questione è molto semplice. La Russia ha bisogno di Iran e di Hezbollah per permettere all'esercito siriano di controllare il Paese. Non può abbandonare i suoi alleati in questo momento né lo farà. La scelta delle de-escalation zones insieme a Iran e Turchia e con l'ok di Donald Trump è stato il segnale evidente della volontà russa di fare in modo che Israele non potesse intervenire eccessivamente, lasciando che Tel Aviv si sfogasse lanciando attacchi mirati e chirurgici.
   Tuttavia, sembra che in queste ultime settimane la pressione di Israele sulle dinamiche siriane sia nettamente aumentata. Dalla Difesa israeliana arrivano parole sempre più minacciose nei confronti delle milizie sciite presenti in Libano e Siria e Netanyahu continua a chiedere a Putin di evitare che le milizie legate all'Iran possano rimanere a pochi chilometri dal confine israeliano. Il recente intervento diretto degli Stati Uniti contro le milizie pro-Assad può essere letto anche all'interno di questa dinamica. A Washington, l'idea che Mosca controlli ormai le dinamiche belliche siriane inizia a stare stretta. E, come se non bastasse, è stata anche messa in scacco dalla Turchia di Erdogan che, con "Ramoscello d'ulivo", ha reso di fatto impossibile agli americani il proseguimento del sostegno ai curdo-siriani senza intaccare i rapporti interni alla Nato.

(Gli occhi della guerra, 10 febbraio 2018)


Siria: le motivazioni dell'incursione aerea di Israele

Il timore della crescente influenza iraniana sullo sfondo della decisione.

Un aereo da combattimento israeliano, un F-16 per la precisione, è stato abbattuto alcune ore fa mentre si trovava nello spazio aereo siriano. I due piloti sono riusciti a paracadutarsi fuori dal velivolo prima del distruttivo impatto a terra e si trovano ora, al sicuro, nel nord di Israele. L'incursione israeliana era avvenuta in risposta al lancio di un drone iraniano dal territorio siriano verso lo Stato Ebraico.
  Un comunicato siriano - che cita fonti militari - afferma che la contraerea di Damasco ha colpito "più di un velivolo" nemico che si trovava in Siria per compiere azioni ostili. In un comunicato congiunto la Russia, l'Iran e il movimento di Hezbollah, in Libano, hanno negato che un drone sia entrato nello spazio aereo israeliano.
  Ma qual è il contesto strategico in cui è stata pianificata l'incursione di Israele contro la Siria? Perché una decisione così estrema?

 Un'escalation potenzialmente pericolosa
  Non è la prima volta, da quando la guerra civile siriana ha avuto inizio nel 2011, che Israele conduce blitz aerei contro obiettivi militari iraniani in Siria. L'Iran rappresenta, infatti, uno dei peggiori nemici dello Stato Ebraico sullo scacchiere politico internazionale. Teheran, oltre ad aver minacciato più volte di cancellare Israele dalla cartina geografica, è uno stretto alleato del governo siriano e delle milizie sciite di Hezbollah in Libano.
  Tanto il governo di Bashar al-Assad in Siria, quanto il movimento di Hezbollah in Libano, sono estremamente ostili nei confronti di Israele. Tra la Siria e lo Stato Ebraico non è mai stato firmato un trattato di pace in seguito alle tre guerre combattute nel 1948,1967 e 1973, con Israele che continua ad occupare le alture del Golan, rivendicate da Damasco.
  Hezbollah, il movimento radicale sciita che costituisce una sorta di "secondo Stato" in Libano, si è scontrato più volte, militarmente, con le forze di difesa israeliane, che hanno cercato di sradicare la sua presenza dal territorio libanese.
  Israele accusa il governo iraniano di rifornire il movimento di Hezbollah di missili, utilizzati da quest'ultimo per colpire lo Stato Ebraico. I missili sarebbero depositati, prima della consegna, in territorio siriano (la Siria confina con il Libano, e il governo di Damasco è alleato di Hezbollah). Israele è, inoltre, preoccupato della crescente influenza che Teheran esercita in Siria, e teme la costruzione di basi militari iraniane vicino ai suoi confini.

(Blasting News, 10 febbraio 2018)


Quei maestri di Israele

Dopo mezzo secolo con Mehta, la Filarmonica avrà un nuovo direttore. I concerti con la maschera antigas.

Gli ultimi cinquanta anni segnati dalla direzione di Zubin Mehta che, da indiano Parsi, dice di avere un'affinità col popolo ebraico Il primo a dirigerla, senza compenso, fu Toscanini: "Lo faccio per l'umanità". Hitler era furioso: "è andato da quegli sporchi ebrei". A Rehovot, la sirena antiaerea interruppe Bernstein, che riprese subito a suonare. lsaac Stern suonò sotto i missili di Saddam. Nel 1973 , su richiesta di Golda Meir, Pablo Casals, vecchissimo, volò a Gerusalemme per un ultimo concerto all'estero

di Giulio Meotti

 
Zubin Mehta
Una volta, al New York Times, Zubin Mehta disse che la sua affinità con Israele aveva qualcosa di culturale, di spirituale, di profondo. Il grande musicista fa parte dei Parsi, i discendenti degli zoroastriani dispersi dalla Persia all'arrivo dell'islam. "Siamo chiamati gli ebrei dell'India". La sua storia d'amore con Israele iniziò per caso, nel 1961, quando Mehta aveva venticinque anni e venne chiamato a sostituire Eugene Ormandy alla testa dell'Orchestra Filarmonica d'Israele. Non se ne è più andato. Il 2018 sarà il suo ultimo anno, prima del ritiro, dopo aver diretto per mezzo secolo la musica in Israele. Il successore è già designato: sarà il Wunderkind, il bambino prodigio della musica israeliana, Lahav Shani, trentenne allievo di Daniel Barenboim.
  Mehta partì con la moglie Carmen per Israele, un paese che gli era totalmente sconosciuto. A quei tempi, l'orchestra era formata principalmente da fuorusciti fuggiti dall'Austria o dall'Europa dell'Est, prima e dopo l'Olocausto. "Tel Aviv, con quella sua confusione organizzata che travolge chiunque la attraversi, mi ricordava la mia città natale, Bombay, dove tutti parlano sempre contemporaneamente, tutti danno continuamente consigli, tutti hanno opinioni decise su tutto" dirà Mehta. "A Bombay, quando si apre la finestra, si vedono cinquemila persone per la strada; a Vienna questo non succede. In Israele mi sentii subito a casa".
  La Israel Philharmonic Orchestra era stata fondata nel 1936 dal violinista polacco Bronislaw Huberman e inizialmente si chiamava Palestine Philharmonic Orchestra. Huberman convinse settantacinque musicisti a emigrare, perché aveva visto avvicinarsi la tragedia immane che il nazionalsocialismo avrebbe rappresentato per gli ebrei. Un documentario e un libro di Josh Aronson, "Orchestra for exiles", ha raccontato la storia di Huberman e di come abbia fondato una orchestra straordinaria e salvato molti ebrei dalla Shoah. Il direttore del concerto inaugurale, che si svolse il 26 dicembre 1936 in un hangar del porto vecchio di Tel Aviv, fu nientemeno che Arturo Toscanini.
   Erano presenti David Ben Gurion e Chaim Weizmann, fra i politici più importanti del futuro stato israeliano. "Lo faccio per l'umanità" disse Toscanini. La prima comprendeva opere di Brahms, Beethoven, Schubert e - come provocazione verso la Germania nazista - il compositore ebreo Mendelssohn. Quando Whilhelm Fürtwangler seppe che Toscanini era andato a Tel Aviv, lo comunicò a Hitler, che rispose: "So tutto, ha rifiutato di suonare a Bayreuth e va in quella orchestra di sporchi ebrei". Il 15 febbraio 2007, alla presenza della nipote di Toscanini, Emanuela di Castelbarco, i musicisti israeliani guidati da Riccardo Muti diedero un concerto per ringraziare Toscanini di quel gesto. Il direttore italiano fu uno dei pochi in Europa a sfidare così apertamente il nazifascismo. Per la sua performance, non volle compenso. I pionieri israeliani gli regalarono un frutteto d'aranci a Ramot Ha Shavim, dove il Maestro, in seguito, tornò a raccogliere le arance. Albert Einstein scriverà poi a Toscanini: "Lei non è soltanto l'interprete impareggiabile della letteratura musicale mondiale… Si è dimostrato un uomo di grandissima dignità".
  La storia di questa orchestra coincide con quella di Israele, con il suo assedio, le sue guerre, la sua resilienza, la sua surreale normalità in una situazione anormale. Nel 1948, quando nacque Israele, l'orchestra cambiò nome e da allora in poi si chiamò Israel Philharmonic. Il 14 maggio 1948 suonò nel Museo di Tel Aviv l'inno nazionale, la Hatikvah; e nel novembre dello stesso anno, il giovane Leonard Bernstein diresse un concerto davanti a cinquemila soldati, seduti sulle colline del deserto di Ber Sheva. Suonò la "Rapsodia in Blue" di Gershwin al pianoforte tra le macerie. Il giorno prima, l'Onu aveva ordinato a Israele di ritirare le truppe dalla città di Negev, che era stata catturata il mese prima. Israele rifiutò di adempiere all'ordine delle Nazioni Unite e vi rimase. Fu in queste condizioni che Bernstein arrivò a intrattenere le truppe. La biografa di Bernstein, Susan Gould, cita un testimone oculare, lo scrittore sudafricano Colin Legum: "L'anfiteatro è vivo con i soldati che chiacchierano - uomini e donne dell'esercito di prima linea, ebrei della Palestina e del Commonwealth britannico e Stati Uniti, Marocco, Iraq, Afghanistan, Cina, Balcani, Baltico, persino uno dalla Lapponia". Un violinista tenne la sedia a Bernstein mentre gli scivolava via lungo la piattaforma precaria. In un altro concerto di Beethoven a Rehevot, una sirena antiaerea interruppe la musica. Bernstein si fermò e disse: "Chi deve andarsene, lo faccia subito". Nessuno lasciò il concerto. E Bernstein riprese a dirigere. Nel 1948 Bernstein aveva diretto un altro concerto sul Monte Scopus a Gerusalemme per i soldati e i feriti. Nel 1967 tornò durante la guerra per dirigere la "Resurrezione" di Mahler, mentre durante la guerra del 1973, quando Israele sentì che era vicino alla distruzione, Pinchas Zukerman volò per esibirsi come un atto di solidarietà in una sala buia e per i soldati in un ospedale di ustionati gravi.
  Il Requiem di Verdi verrà eseguito da Zubin Mehta a Betlemme, appena liberata nel 1967, e per i soldati israeliani a Sharm el Sheikh, in Egitto. L'orchestra è stata decisiva anche per elaborare il lutto della Shoah nei rapporto con la Germania. Israel Zohar ha suonato il clarinetto per l'orchestra per 38 anni. Il momento più importante della sua vita fu un tour in Germania nel 1971, la prima visita dell'orchestra israeliana dopo l'Olocausto e la fondazione dello stato ebraico. Diversi musicisti erano sopravvissuti all'Olocausto e ci fu un acceso dibattito se fosse giusto andare. L'orchestra suonò i compositori ebrei, come Mendelssohn e Mahler. "Per una delle prime volte nella mia vita, ho avuto le lacrime", ricorderà Zohar. Mentre suonava, ha aggiunto, pensò tra sé: "Siamo vivi".
  Negli anni seguenti molti direttori andarono in Israele per dirigere l'orchestra: Celibidache e Fricsay, Giulini e Markevitch, Mitropoulos e Kubelik, Krips e Koussevitzky. E poi i solisti: Rubinstein, Heifetz, Arrau e naturalmente uno dei più grandi amici dell'orchestra, Isaac Stern. Gli anni Cinquanta videro una crescita del prestigio dell'orchestra e l'inizio di molte amicizie durature con grandi musicisti, tra cui Menuhin, Heifetz e Francescatti, che rimasero in Israele anche dopo lo scoppio della guerra del Sinai nel 1956. Zino Francescatti, non ebreo, si rifiutò di fuggire da Israele durante la guerra assieme al maestro Francesco Molinari-Pradelli. Sono ancora ricordati per quel gesto.
  Nel maggio del 1967, l'Egitto riunì massicci contingenti di truppe sul Sinai e chiuse l'accesso al porto di Eilat, vitale per Israele. Israele era accerchiato dagli eserciti arabi e si sentiva pesantemente minacciato. Il 5 giugno iniziò la Guerra dei sei giorni, con un attacco preventivo dell'aviazione israeliana alle basi aeree egiziane nel Sinai. I confinanti stati arabi avevano l'obiettivo dichiarato di annientare Israele, tuttavia a livello internazionale era diffusa l'opinione che Israele, per la sua grande superiorità militare, non avrebbe potuto perdere la guerra. In quei giorni, Zubin Mehta si trovava a Porto Rico. E capì immediatamente che doveva subito tornare in Israele. "Io volevo semplicemente esserci, nient'altro; ci tenevo talmente tanto che abbandonai a rotta di collo Porto Rico e volai a New York, per tentare di raggiungere Israele da lì". Gli serviva urgentemente un visto. Vera, la moglie di Isaac Stern, si occupò personalmente di trovargli un posto sull'aereo per Israele. Mehta stava sorvolando il Mediterraneo, quando il pilota annunciò che la guerra era scoppiata e che pertanto avrebbero dovuto atterrare a Roma, perché agli aerei dell'aviazione civile non era più permesso proseguire fino a Israele. Mehta salì a bordo di una specie di aereo da trasporto della El Al, che avrebbe dovuto condurlo direttamente a Tel Aviv. Era pieno di israeliani che volevano tornare a casa, per aiutare il loro paese e le loro famiglie, o erano stati chiamati alle armi. Avevano viaggiato in un velivolo che dalla cabina di pilotaggio fino alla coda era pieno zeppo di armi, accuratamente imballate nelle casse che ci avevano fatto da sedili. Trascorse una notte al King David di Gerusalemme. La mattina dopo, il quadro sopra il letto era appeso storto. E aveva un foro di proiettile. Il primo giorno dopo la fine della guerra Abba Eban e il suo entourage si recarono al Muro del Pianto, e Mehta poté andare con loro. Fu uno dei primi civili ad andare a Gerusalemme Est.
  Nell'agosto del 1973, il famoso violoncellista Pablo Casals accettò un invito dell'allora primo ministro Golda Meir a dirigere un'orchestra a Gerusalemme. Anche se Casals aveva 97 anni, accettò di volare in Israele insieme a sua moglie Marta. Era l'ultima volta che Casals portava il suo violoncello fuori dagli Stati Uniti. Sarebbe morto due mesi dopo. Ma un bambino israeliano, Amit Peled, sarebbe nato nel Kibbutz Yizre'el, e in seguito gli sarebbe stato affidato il prezioso strumento musicale di Casals e lo avrebbe suonato in Israele e in tutto il mondo. In quei giorni del 1973, Mehta girò Israele per tenere concerti di solidarietà. Uno a Gerusalemme venne interrotto per un blackout elettrico. La sua orchestra perse sei musicisti che erano stati richiamati fra i riservisti. Mehta tenne un concerto anche al nord, in una base militare, con il comandante che si scusò in anticipo per l'acustica: la melodia sarebbe stata disturbata dalla partenza di aerei Phantom. Un'altra volta, entrando in Siria per portare aiuto ai soldati, incontrò un ufficiale. Mehta voleva offrirgli dell'acqua. L'ufficiale rifiutò, ma chiese al grande direttore d'orchestra: "Perché la scorsa settimana ha cambiato il programma musicale?".
Zubin Mehta avrebbe eseguito tanti altri concerti in zone militari. Come il concerto nel gennaio 1982 sul confine tra il Libano e Israele, in mezzo a un campo di tabacco. Una specie di palcoscenico era circondato dagli schermi solari protettivi in dotazione all'esercito. Il pubblico, composto prevalentemente da libanesi, era seduto all'aperto. Mehta strinse amicizia con un capitano libanese, che sarebbe poi stato ucciso dall'Olp in quanto "traditore" e "collaborazionista". Nel 2011, Mehta suonerà al confine con la Striscia di Gaza per sostenere la liberazione del caporale Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da Hamas per quattro anni.
  Quando nel 1991 scoppiò la prima Guerra del Golfo, Mehta stava tornando da Vienna a New York, dove doveva suonare con la New York Philharmonic Orchestra. Capì che la guerra era imminente, e prese un volo per Tel Aviv. Mehta passeggiò per le strade della capitale finanziaria di Israele con la maschera antigas. Voleva vedere i crateri dei missili iracheni. Si temeva che Saddam Hussein potesse lanciare testate con armi chimiche. La Filarmonica di Mehta in quei giorni offrì conforto alla popolazione. L'oboista Bruce Weinstein disse che era importante "concedere alle persone un paio di ore di pausa dal preoccuparsi di sirene e maschere antigas". Il bassista Micha Davis spiegherà che era stato costretto a limitarsi principalmente a brevi note rapide, perché le note prolungate potrebbero spaventare i vicini. Erano troppo simili al lamento della sirena.
   In un concerto televisivo le maschere antigas erano visibili sotto quasi tutte le sedie dei musicisti. Quando le sirene antiaeree gridarono all'esterno, la Filarmonica lasciò il palco e il pubblico si mise le maschere antigas. Un imperturbabile Isaac Stern, nel frattempo, prese il violino e continuò a suonare da solo. Fu una delle immagini più sorprendenti di quella guerra. Per sette minuti, Stern riempì la sala da concerto con le maestose note di una sarabanda di Bach. Una scultura di Stern è esposta oggi nella galleria permanente del museo dell'arte di Baltimora.
L'artista che l'ha realizzata, Gerald Hawkes, si è ispirato alla performance del violinista del 1991. "Questo è il più grande atto del secolo", dirà Hawkes.
  Ma non tutti ebbero lo stesso coraggio. Il musicista Eric Leinsdorf, senza dire nulla a nessuno, mentre nel 1967 la radio egiziana annunciava lo sterminio degli ebrei, invece di andare a dirigere prese un taxi per l'aeroporto e se ne tornò a casa. Abbandonò Israele così velocemente che lasciò anche lo smoking all'Opera di Tel Aviv.
   E' ancora lì quello smoking, a ricordarci l'abbandono di Israele.

(Il Foglio, 10 febbraio 2018)


Israele-Libano, nuove tensioni sui confini marittimi e territoriali

Confine tra Israele e Libano
ROMA - La tensione diplomatica fra Israele e Libano sta vivendo una nuova fase di crisi che si articola su due fronti: una è la demarcazione territoriale dei due paesi, l'altra riguarda la sovranità marittima delle rispettive zone economiche esclusive e lo sfruttamento delle risorse energetiche. Fonti contattate da "Agenzia Nova" evidenziano come le due questioni non siano connesse: la prima riguarda la sicurezza di Israele; la seconda è datata nel tempo. Lo Stato ebraico da alcune settimane, infatti, ha iniziato la costruzione di un muro con scopi difensivi che si estende dal Mar Mediterraneo al Monte Hermon, al confine fra Libano e Siria. Se da Gerusalemme fanno sapere che l'infrastruttura difensiva sarà costruita sul versante meridionale della "blue line" (la linea di demarcazione tracciata dall'Onu), Beirut sostiene che in alcuni punti il muro sarà eretto in territorio libanese. La seconda questione riguarda il confine delle acque territoriali tra Israele e Libano, paesi che non hanno relazioni diplomatiche ufficiali perché quest'ultimo non riconosce lo Stato ebraico. A fungere da supervisore gli uomini impegnati nella missione di interposizione delle Nazioni Unite in Libano (Unifil) che monitorano costantemente la linea di demarcazione fra i due paesi.
   Fonti contattate da "Agenzia Nova" spiegano che le questioni della sovranità territoriale e marittima non sono interconnesse. La costruzione del muro, infatti, mira a garantire la sicurezza delle comunità ebraiche che vivono nel nord di Israele a ridosso del sud del Libano. A provocare la contestazione di Beirut è il luogo dove sono iniziati i lavori di costruzione del muro, ovvero a sud della "blue line" la linea di demarcazione tra Israele e Libano dettata dalle Nazioni Unite il 7 giugno del 2000, per determinare l'area da dove i militari israeliani dovevano ritirarsi. Lo scorso 16 gennaio il presidente del parlamento libanese, Nabih Berri, aveva contestato l'iniziativa affermando che "il muro che gli israeliani intendono erigere include delle zone contese che si trovano a Naqura, Alma el-Chaab e Odeissé".
   L'intenzione di Israele è minimizzare il rischio per tutta l'area a ridosso della linea di demarcazione e di evitare una escalation di tensione, evidenziano le fonti contattate da "Nova". L'obiettivo dichiarato di Gerusalemme per giustificare la costruzione del muro è evitare che vengano uccisi dei civili che vivono a ridosso della linea di demarcazione. In tal caso, chiarisce la fonte, ci sarebbe una risposta da parte dei militari israeliani. Il timore dello Stato ebraico è che il movimento sciita Hezbollah possa concretizzare l'idea di conquistare la regione della Galilea. Ieri la stampa israeliana ha reso noto che le milizie del movimento sciita filo-iraniano potrebbero incaricare le loro "unità speciali", la forza Radwan, di attaccare villaggi israeliani. A sostegno dello scopo difensivo dell'infrastruttura, aggiunge la fonte, il muro verrà costruito soltanto in alcuni punti, proprio quelli dove si concentrano comunità ebraiche lungo la linea di demarcazione. Il periodo è comunque difficile e c'è il rischio di calcolare male il rischio di alcune iniziative. Gerusalemme afferma, inoltre, che l'obiettivo è mantenere la stabilità e che la decisione di erigere un muro è stata espressa anche nel corso degli incontri tripartiti che dal 2006 avvengono fra ufficiali libanesi ed israeliani sotto la supervisione di Unifil.
   La questione della sovranità delle acque territoriali, invece, è datata nel tempo e Gerusalemme si è detta ripetutamente disponibile alla mediazione diplomatica. La tensione sullo sfruttamento delle risorse energetiche è scoppiata dopo che sono state attribuite al ministro della Difesa israeliana, Avigdor Lieberman, dichiarazioni in merito alla sovranità del blocco esplorativo numero 9 per il quale Beirut oggi firmerà il contratto di assegnazione della licenza al consorzio vincitore della gara (formato da Total, Eni e Novatek). Secondo quanto riportato dalla stampa locale, Lieberman avrebbe rivendicato la sovranità israeliana del blocco esplorativo numero 9 ed avrebbe definito "un'aggressione" l'assegnazione delle licenze da parte di Beirut.
   Sulla questione è intervenuto il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, dichiarando che lo Stato ebraico sta cercando una soluzione diplomatica alla disputa con il Libano sui confini territoriali e marittimi, ma qualsiasi aggressione vedrà l'uso della forza. Gerusalemme è aperta anche alla mediazione statunitense, ha aggiunto. "Penso che sia Israele che il Libano siano interessati a una soluzione diplomatica, ma (Beirut) non dovrebbe fare alcuna minaccia, e sicuramente non infiltrarsi nelle nostre acque economiche", ha detto Steinitz. Nel caso di attacco, ha proseguito Steinitz, "la risposta sarebbe molto più severa, rapida e inequivocabile rispetto al passato". Steinitz ha affermato che Israele è disposto ad accettare la mediazione statunitense per risolvere la questione a livello diplomatico. "In passato c'era una mediazione internazionale sulla questione: eravamo vicini a raggiungere un compromesso nel 2013, ma l'intera faccenda è andata in fumo nella fase finale", ha aggiunto. Il ministro dell'Energia ha sottolineato che "non ci sono dubbi: lo Stato di Israele è la nazione più forte della regione e difenderemo le nostre acque economiche e le nostre piattaforme e i nostri impianti di gas".
   Al termine della riunione avvenuta due giorni fa, il Consiglio superiore della Difesa libanese ha garantito il sostegno politico a "tutte le forze militari affinché possano affrontare tutte le aggressioni militari sulla frontiera marittima e terrestre". Nel comunicato finale, il Consiglio evidenzia che "se il muro israeliano verrà costruito sulla frontiera libanese rappresenta una violazione della sovranità (nazionale) e della risoluzione 1701". Inoltre, il Consiglio ha deciso di "proseguire le iniziative a livello regionale ed internazionale per impedire ad Israele di costruire un muro di separazione" e ha "denunciato la violazione della Zona economica esclusiva" del Libano che si estende su circa 860 chilometri quadrati. Il governo di Beirut nelle ultime settimane ha espresso preoccupazione per l'intenzione di Israele di costruire un muro parallelo alla "blue line".
   Oltre al ruolo di supervisione di Unifil, soltanto gli Stati Uniti, forti del loro legame con Israele e del loro sostegno alle Forze armate libanesi, potrebbero avere una voce in capitolo per dirimere la questione. Ieri un esponente del governo libanese citato dalla stampa locale ha detto che il segretario di Stato aggiunto statunitense, David Satterfield, avrebbe rassicurato il governo di Beirut sul fatto che Israele non vuole una escalation di tensione con il Libano. Satterfield ha incontrato, infatti, nei giorni scorsi le massime cariche dello Stato libanese e tra gli argomenti affrontati vi è stato proprio quello della sovranità marittima e territoriale fra Israele e Libano. "A proposito della visita dell'inviato statunitense, ha avuto colloqui sulla costruzione del muro con Israele ed ha affermato che non vi è ragione di preoccuparsi e non c'è intenzione di una escalation", ha affermato il funzionario libanese. Secondo la stampa internazionale, la visita del segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, in Libano nelle prossime settimane potrebbe allentare la tensione e consentire di trovare una soluzione.

(Agenzia Nova, 9 febbraio 2018)


Ambasciata di Polonia - Comunicato manifestazione Comunità Ebraica di Roma

Riceviamo e pubblichiamo il comunicato dell'Ambasciata di Polonia a Roma riguardo alla manifestazione comunità ebraica di Roma:

"Oggi pomeriggio [ieri, 8.02.2018 - red.] sotto la sede dell'Ambasciata di Polonia a Roma ha avuto luogo una manifestazione promossa dai giovani studenti ebrei e dai Figli della Shoah, alla quale ha aderito la Comunità Ebraica di Roma.
  Abbiamo invitato nella nostra sede i rappresentanti dei manifestanti per parlare dei temi oggetto della loro protesta.
  L'incontro con la delegazione dei manifestanti, con a capo la presidente della Comunità di Roma Ruth Dureghello e la presenza di due Figli della Shoah, si è svolto in buona atmosfera e con volontà di dialogo per chiarire le disposizioni della nuova legge.
  I rappresentanti della comunità ebraica hanno espresso le preoccupazioni e i timori della comunità legati alla legge sull'Istituto di Memoria Nazionale, approvata dal parlamento polacco e firmata dal presidente Andrzej Duda. Hanno altresì chiesto alla rappresentanza diplomatica polacca, dopo aver preso atto di quanto da loro rappresentato, di trasmettere quanto espresso alle autorità di Varsavia.
  Durante l'incontro si è convenuto che i rapporti e la collaborazione tra l'Ambasciata e la Comunità Ebraica romana e italiana è sempre stata ottima. Da parte nostra abbiamo pertanto cercato di chiarire per quanto possibile i dubbi e le conseguenti paure che, a nostro parere, derivano dalla non corretta interpretazione della nuova disposizione.
  Da parte nostra abbiamo sottolineato e teniamo a sottolineare che siamo sempre aperti a parlare delle incomprensioni che accompagnano la legge approvata in Polonia. Una legge concepita con il fine principale di combattere la negazione e la falsificazione della verità sull'Olocausto, ivi compreso lo sminuire la responsabilità dei veri colpevoli di questi crimini. Una legge concepita come difesa da chi attribuisce allo Stato e al popolo polacco, pubblicamente e contrariamente ai fatti, la corresponsabilità per i crimini nazisti compiuti dal Terzo Reich, inducendo in errore e ledendo le vittime-cittadini della Polonia, sia di origine ebraica che polacca.
  La nostra Ambasciata ha sempre ritenuto prioritario il rapporto con la comunità ebraica italiana. E' per noi naturale. Ebrei e polacchi hanno convissuto per secoli sulla stessa terra, è in Polonia che si trovava la più grande comunità ebraica in Europa.
  Lavorare insieme su progetti comuni era e rimane per noi importante. Questi progetti riguardano sempre la memoria, la storia comune, che il nostro paese e il nostro popolo è ben lungi dal voler cancellare.
  Noi, in quanto polacchi e in quanto rappresentanti del governo polacco in Italia, abbiamo dimostrato di prenderci cura della memoria sull'Olocausto, una tragedia che è parte integrale della storia della Polonia e della nazione polacca. Per decisione dei nazisti tedeschi che occupavano il nostro paese, la nostra terra è divenuta luogo di sterminio degli ebrei provenienti da tutta l'Europa. Ogni famiglia in Polonia è stata duramente toccata dalla tragedia e dai crimini commessi dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale.
  Ogni anno una delegazione dell'Ambasciata rende omaggio alle vittime depositando il 27 gennaio i fiori sotto la lapide che ricorda la deportazione degli ebrei romani nel 1943.
  La Polonia non vuole dimenticare. E' la Polonia che preserva con grande sforzo l'area museale dell'ex campo di sterminio Auschwitz-Birkenau, divenuto patrimonio mondiale Unesco, luogo di visite e di viaggi della memoria dei giovani di tutto il mondo.
  I polacchi non sono negazionisti, né lo vuole essere la nuova legge.
  Come hanno sottolineato nelle loro dichiarazioni sia il premier Mateusz Morawiecki che il presidente Andrzej Duda, nessuno vuole negare le colpe di singoli individui che hanno commesso atti vergognosi e crimini rivolti contro gli ebrei. Ma questi comportamenti che la Polonia condanna severamente non possono essere attribuiti a una nazione intera che con gli ebrei ha condiviso le sofferenze dei crimini nazisti.
  La nuova legge non limiterà la libertà di ricerca scientifica né la pubblicazione dei risultati di questi studi, non limiterà il dibattito storico, la libertà di parola o di espressione artistica: l'esclusione di queste attività è espressamente indicata nella legge (art. 55o, par. 3). La legge non impedisce in alcun modo la discussione pubblica riguardante l'Olocausto.
  La legge si propone di difendere la verità storica e il buon nome della nazione dello stato polacco. Nella maniera più assoluta non protegge i criminali, indipendentemente dalla loro nazionalità.
  Come hanno chiarito le massime autorità polacche, la legge non prevede pene per l'indicazione di concreti, vergognosi casi di crimini commessi da persone concrete, indipendentemente dalla loro nazionalità, ivi quella polacca.
  La legge non limiterà le discussioni pubbliche su i casi di pogrom contro gli ebrei, verificati in tutta l'Europa occupata, inclusa la Polonia. A questi crimini hanno partecipato anche i polacchi. Sono stati eventi scioccanti e vergognosi. Abbiamo il dovere morale di onorare la memoria degli ebrei uccisi durante questo tipo di avvenimenti.
  La Polonia era e rimane sempre a favore dello dialogo. Il presidente Duda, come da lui stesso dichiarato, nel prendere la decisione ha tenuto presente tutte le voci che si sono levate sul tema, compreso quella dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane che venerdì scorso gli aveva rivolto un appello.
  Ripetiamo: la Polonia è per il dialogo e per la libertà di espressione. Ed è proprio per avere la sicurezza che la libertà sia mantenuta e garantita che il presidente Andrzej Duda ha trasmesso la legge da lui firmata alla Corte Costituzionale, come d'altronde egli stesso ha spiegato".

Ambasciata della Repubblica di Polonia a Roma
8 febbraio 2018 r.

(naszswiat.it, 9 febbraio 2018)


Commemorata a Vercelli la figura di Irena Sendler

di Pasquale De Fazio

 
Irena Sendler
Lo spirito di Irena Sendler, Giusto tra le Nazioni, alla quale era dedicata la serata organizzata dalla Associazione Italia Israele di Vercelli, Novara e Casale Monferrato, per la Giornata della Memoria di quest'anno, presso la Sala del Centro Territoriale per il Volontariato, giovedì 1 febbraio 2018, ha permeato tutti i convenuti, e sono stati veramente tanti.
Irena Sendler, polacca, infermiera e assistente sociale ha salvato durante l'occupazione tedesca della Polonia più di duemilacinquecento bambini ebrei del Ghetto di Varsavia.
La vita e le opere di Irena Sendler, sono state illustrate da una "collega", la dott.ssa Cristiana Masuero, vice Presidente del Collegio degli infermieri di Vercelli, che, pur svolgendo la sua attività in un contesto fortunatamente assai diverso. ha dedicato tutta la sua vita professionale ad alleviare i tormenti di chi soffre.
La figura di Irena Sendler ci è apparsa in certo qual modo condizionata dall'etica della sua professione, nella dedizione e nello scrupolo del suo agire, ma anche dal rispetto per la "vita" di tutti indipendentemente dal ceto o dalla etnia di appartenenza.
Irena infatti era abituata dall'esempio del padre, medico, sin dalla più tenera età a trattare tutti, anche gli ebrei non come diversi, ma come esseri umani di pari diritti e dignità.
La conoscenza della lingua yiddish, appresa da bambina, le fu preziosa nel soccorrere gli ebrei racchiusi
Avvalendosi del suo essere alle dipendenze della Municipalità di Varsavia il che le permetteva di accedere liberamente nel ghetto, organizzò la fuga di gruppi di bambini ebrei da lei accompagnati e muniti di documenti di riconosci- mento falsi.
nel Ghetto di Varsavia dagli occupanti tedeschi nel 1940.
Irena si rese conto del tragico destino che attendeva gli ebrei segregati, oltre quattrocentomila, la deportazione nei campi di sterminio e la morte, anche per i bambini.
Avvalendosi del suo essere alle dipendenze della Municipalità di Varsavia il che le permetteva di accedere liberamente nel ghetto, organizzò la fuga di gruppi di bambini ebrei da lei accompagnati e muniti di documenti di riconoscimento falsi. I bambini venivano sistemati presso famiglie polacche, oppure conventi o altre istituzioni religiose. Il numero dei bambini salvati raggiunse alla fine i duemilacinquecento.
Ecco in questa fase evidenziarsi la scrupolosità professionale unita al rispetto per l'identità culturale di ciascuno che caratterizza Irena Sendler: a fianco del nome falso assegnato a ciascun bambino era riportato il nome vero, in appositi elenchi compilati e poi nascosti.
Nel 1943 Irena Sendler venne catturata dalla Gestapo. Interrogata e torturata non parlò. Fu condannata a morte, ma la Resistenza riuscì a farla fuggire dal carcere, dopo di che visse in clandestinità ma invalida, avendole i torturatori spezzato entrambe le gambe…
Durante l'insurrezione della città di Varsavia prestò servizio in un centro si soccorso medico.
Alla fine della guerra recuperò gli elenchi con i nomi veri dei bambini salvati e li fornì al Comitato Internazionale Ebraico. in tal modo quasi tutti i bambini salvati, oltre duemilacinquecento, poterono riavere la loro identità.
Ma la storia di Irena Sendler non terminò con la fine della guerra, non solo nessun riconoscimento le venne concesso ma subì anche delle persecuzioni da parte delle Autorità comuniste per i suoi contatti con il Governo in esilio polacco.
Finalmente nel 1965 venne il riconoscimento da parte dallo Yad Vashem di Gerusalemme come Giusto tra le Nazioni. La notorietà, a livello mondiale le giunse in occasione di uno spettacolo teatrale allestito da un docente americano, Norman Conrad del Kansas, e ispirato alla sua vita.
Venne proposta per l'assegnazione del premio Nobel, ma inutilmente, il premio non le fu mai concesso.
Nel 2008 terminò la sua vita terrena , convinta, forse, di aver fatto semplicemente il suo dovere.

(IMG Press, 9 febbraio 2018)


Grandi manovre per il metano in Israele

I veicoli a gas naturale sono una rarità sulle strade israeliane, ma negli ultimi due anni il governo sta dando un forte impulso alle energie alternative, complice la scoperta di una grande giacimento di metano in acque territoriali. Fiat Chrysler Automobiles e CNH Industrial sono partner privilegiati.

di Leonardo Tancredi

In Israele qualcosa di importante sta per succedere: sarà una svolta epocale. È questa l'impressione che si ricava osservando la situazione del metano per autotrazione nel paese mediorientale. I programmi del governo israeliano per favorire la diffusione del gas naturale nei trasporti si muovono in un territorio quasi vergine. Difficile questa volta partire dai dati perché Israele non è neanche contemplato dalle statistiche di pubblicazioni di riferimento come The Gas Vehicle Report, ma, muniti di lente di ingrandimento possiamo leggere il numero 3 nella colonna dei veicoli a metano circolanti nel 2016 e nel 2017. Il dato è fornito da NGV Global. Di questi tre, l'origine del veicolo numero 1, il primo sbarcato in terra israeliana, è importante per capire la natura e la portata delle prospettive del metano nel paese.

 Obiettivo ridurre l'uso di petrolio
 
  In principio fu la Fiat, è proprio il caso di dire. La corporation italo-statunitense con sede olandese con i suoi due bracci Fiat Chrysler Automobiles (FCA) e CNH Industrial (il settore capital goods) ha portato nel 2015 uno Stralis 4x 2, autotreno con motore Iveco a gas naturale Cursor 8 Euro VI: il primo veicolo a metano di Israele.
  L'operazione si è svolta nell'ambito della collaborazione tra FCA - CNH e il Fuel Choices Initiative, programma decennale del governo israeliano, gestito direttamente dall'ufficio del Primo Ministro, che punta a ridurre la dipendenza dell'economia mondiale dal petrolio per i trasporti e a promuovere lo sviluppo di combustibili alternativi. Prima di quella consegna era stato siglato un Memorandum of Understanding che sanciva la partenership: FCA e CNH Industrial giocheranno un ruolo, anche attraverso i loro brand, nella ricerca, nello sviluppo e nella diffusione di soluzioni di trasporto alimentate a gas naturale. Altro importante anello della filiera in questo caso è stato Friedenson Group, società leader nella logistica israeliana, che ha importato materialmente il veicolo Iveco annunciando che questo sarebbe stato il primo mattone di un ampio programma di sostituzione di automezzi diesel in favore di motori a metano (la flotta Friedenson conta oltre 140 mezzi).

 Una stretta per l'inquinamento
  Alla fine del 2014, qualche mese prima della sigla dell'accordo tra la casa produttrice italo-statunitense e le autorità israeliane, il ministero della Protezione Ambientale aveva battuto i primi colpi verso una stretta ai veicoli inquinanti. Forte di un dato secondo il quale un terzo delle emissioni derivanti dai trasporti provenivano da bus e autotreni, nonostante questi rappresentassero solo il 5% dei veicoli circolanti, il Ministero ha imposto la sostituzione con mezzi elettrici o a metano alle flotte con più di 100 veicoli dal peso superiore a 10 tonnellate. Un provvedimento che ha riguardato soprattutto le grandi compagnie di trasporti pubbliche e private. Lo scopo era raggiungere, entro il 2020, il 3% di flotte alimentate con energie alternative, ma come succede in tutti i paesi che inaugurano politiche di abbattimenti delle emissioni nei trasporti, uno degli ostacoli maggiori è l'insufficienza di infrastrutture per il rifornimento.

 Non solo ecologia
  La grande spinta di Israele verso lo sviluppo di un mercato interno del metano non ha solo un'impronta ecologista. Legare le nuove politiche energetiche con la scoperta di Leviathan, l'imponente giacimento di gas in acque territoriali, è del tutto plausibile. Di fatto, l'apertura di un nuovo mercato del metano per i trasporti ha attirato i grandi operatori internazionali del settore. Il colosso russo Gazprom di recente ha firmato un accordo bilaterale con il ministero dell'Energia israeliano per lo sviluppo di tecnologie che favoriscano l'implementazione del metano per autotrazione. Abbiamo ragione di pensare che presto la colonna del numero di veicoli a metano in Israele presenterà cifre ben diverse nelle statistiche mondiali.

(MetAuto, dicembre 2017)


Crisi a Gaza, Israele presta aiuti e collabora anche con il Qatar

Da alcune settimane alti funzionari della difesa israeliana - membri del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (Cogat), ufficiali dell'esercito, e il servizio di sicurezza interno dello Shin Bet - hanno espresso la loro preoccupazione per la situazione nella Striscia di Gaza. L'economia della Striscia è sull'orlo del collasso totale, hanno avvertito, e lo stesso vale per le infrastrutture civili. Pochi giorni fa il governo di Gerusalemme ha fatto sapere di aver una proposta per la ricostruzione di Gaza da un miliardo di dollari: un piano, come raccontava La Stampa, "centrato sulla ricostruzione delle infrastrutture, a partire a impianti di desalinizzazione, linee elettriche e un gasdotto proveniente da Israele. Prevede anche il rilancio del parco industriale di Erez, sulla frontiera con lo Stato ebraico. In particolare, la linea elettrica ad alto voltaggio permetterà di raddoppiare le forniture a Gaza, dove l'elettricità manca fino a 20 ore al giorno". A fianco di questo progetto israeliano nelle scorse ore è emerso che al fianco di Gerusalemme, in un'inusuale collaborazione, sta lavorando per Gaza anche il Qatar: giovedì un inviato qatarino ha rivelato - scrivono i quotidiani israeliani - che il suo paese sta lavorando a stretto contatto con Israele per inoltrare gli aiuti alla striscia di Gaza. "Quando vuoi lavorare a Gaza, devi passare attraverso gli israeliani", ha dichiarato Mohammed Al-Emadi, capo del comitato per la ricostruzione di Gaza del Qatar, in un'intervista a Associated Press. "Senza l'aiuto di Israele non succede nulla".
   Nell'ambito di un sistema istituito dopo la guerra del 2014, i materiali per la ricostruzione vengono consegnati a Gaza attraverso un valico di frontiera controllato da Israele. L'Autorità palestinese in Cisgiordania coordina i progetti, i funzionari di sicurezza israeliani approvano l'ingresso dei materiali e le Nazioni Unite controllano le consegne per assicurarsi che non siano dirottate dai miliziani di Hamas. Nel corso degli anni, Al-Emadi ha detto di aver sviluppato un rapporto cordiale con la sua controparte israeliana, il generale Yoav Mordechai, a capo del Cogat.

(moked, 9 febbraio 2018)


È l'Europa il nemico di Israele

Non si tratta solo di una politica filo-palestinese, ma di una vera e propria ossessione contro lo Stato ebraico. Molte le ragioni sia storiche che politiche ed economiche.

di Ugo Volli

I cittadini spagnoli, francesi, belgi, austriaci e così via, ma soprattutto quelli italiani, sono sottoposti da decenni a una linea di pensiero nettamente maggioritaria, il cui senso si può riassumere nell'affermazione che l'Europa è buona. E' buona rispetto ai limiti evidenti dei sistemi politici nazionali, che compaiono nella cronaca di tutti i giorni soprattutto come i luoghi in cui si governa male, le prepotenze contro i cittadini vengono compiute, regnano incompetenza e magari corruzione. L'Europa è buona però anche rispetto ai suoi due grandi vicini, la Russia che è un sistema autoritario, anche se non bisogna dirlo forte; e l'America che è prepotente, incurante delle preoccupazioni ecologiche, volgare, incolta, imperialista - salvo naturalmente che sia governata da straordinarie eccezioni come Obama e Clinton. L'Europa è buona perché "tutela i consumatori", anche se non si capisce bene se lo fa davvero e da chi, "esercita il principio di precauzione" proibendo i prodotti avanzati messi a punto dalla scienza e "mette limiti alle multinazionali" (cioè sostanzialmente le tassa), perché distribuisce fondi regionali che noi però non sapremmo spendere e finanzia la ricerca, anche se questi fondi e finanziamenti non si capisce da dove verrebbero (sono le nostre tasse che ci tornano solo in parte e dunque i generosi finanziamenti sono fatti a spese di chi poi li riceve). L'Europa protegge gli emigranti, garantisce la giustizia (anche se non si capisce bene come). E' suo il merito della pace che regna nel continente da settant'anni.
  Rispetto a questa visione ottimistica vi sono però delle contraddizioni. Da un lato una parte consistente dell'elettorato non sembra essere d'accordo su questa funzione: non lo è stata la maggioranza degli elettori inglesi che ha votato la Brexit, quella di austriaci, ungheresi, polacchi, cechi, slovacchi, danesi che ha scelto governi in disaccordo più o meno marcato con le politiche dell'Unione Europea; non lo sono minoranze più o meno consistenti ma sempre significative in Francia, Germania, Olanda, Svezia, Grecia e in altri paesi, fra cui probabilmente anche nel nostro, a partire dalle prossime elezioni. Dunque la capacità di convinzione di quello che una persona impegnata e di sinistra ha chiamato in un libro intitolato proprio così "Il mostro buono di Bruxelles" ha avuto pochissimo successo negli anni recenti. Questo fallimento non è determinato, come alcuni pretendono dalla crisi economica, dato che è continuato e si è accentuato anche nell'ultimo periodo, quando l'economia si è rimessa in discrete condizioni. Ed è certamente infantile e pericoloso attribuirlo alle "fake news" o all'azione sovversiva di nemici più o meno oscuri che si svolgerebbe sui social media: chiunque abbia un po' di memoria storica sa bene che la lotta politica si è sempre svolta anche in termini di disinformazione e che per esempio l'Unione Sovietica ha finanziato continuamente i movimenti di sinistra europei, compresi quelli italiani. Si legge in queste teorie del complotto il riflesso profondamente autoritario di una burocrazia (e di una intellighenzia ad essa legata) che non accetta il principio base di ogni democrazia liberale, e cioè che le opinioni possono essere diverse e che nessuno ha il diritto di selezionarle, se non il voto del corpo elettorale.
  Il problema dell'Europa, dal mio punto di vista, è anche e soprattutto la sua posizione rispetto a Israele. In un articolo recente la più interessante e acuta giornalista politica che scrive oggi sui giornali israeliani, Caroline Glick, ha parlato di "guerra" dell'Europa a Israele. Una guerra che si svolge negli organismi dell'Unione Europea, che si collocano sistematicamente in modo da contrapporsi ai gesti pro-Israele degli USA (per esempio al riconoscimento di Gerusalemme come capitale) appoggiando esplicitamente i movimenti palestinisti contro Israele, più di quanto facciano molti paesi arabi sunniti. Ma si svolgono anche nei fori internazionali come Onu e Unesco, dove i voti europei (e purtroppo quasi sempre anche quelli italiani) rientrano sistematicamente nella maggioranza automatica musulmana, terzomondista e comunista (o ex) che domina questa assemblee da decenni. L'Europa masochisticamente appoggia anche dei nemici evidenti del suo modo di vivere, come l'Iran e la Turchia, mostrando per queste dittature aggressive una tolleranza che non esercita con nessun altro. Ma soprattutto si svolge dentro Israele stesso, dove le rappresentanze diplomatiche finanziano sistematicamente iniziative illegali contro Israele e appoggiano in tutti i modi le Ong antisraeliane e i tentativi palestinisti di forzare la situazione sul terreno.
  In questo momento bisogna ammettere che l'Unione Europea è la più grande sponda per il terrorismo e l'illegalismo contro Israele. Bisogna chiedersi le ragioni di questa guerra dell'Europa contro Israele. A mio avviso sono due. Da un lato c'è il riemergere di un millenario antisemitismo che nella storia d'Europa si è presentato prima e massicciamente come antigiudaismo cristiano (diventato pratico e virulento almeno dai tempi di Ambrogio vescovo di Milano), poi come prevenzione laica condivisa dalla cultura romantica (da Kant a Hegel a Fichte a Wagner fino a Scmhitt e Heidegger}, poi ancora come odio economico e culturale per il dinamismo degli ebrei emancipati, poi ancora come odio razziale e oggi, mettendo assieme tutti questi diversi temi, come delegittimazione del popolo ebraico e del suo diritto a una patria. Dall'altro lato vi è una scelta di campo, che risale all'atteggiamento britannico durante il mandato di Palestina a partire dagli anni Venti, alle politiche di De Gaulle sul mondo arabo, agli ammiccamenti verso l'Islam dell'Italia, che continuano da Mussolini fino a Moro e Craxi e della Germania. I politici europei hanno sempre valutato di dover venire a patti con i loro vicini meridionali arabi e musulmani, già prima di importarsene in casa milioni e milioni. E di questi patti, come ha documentato abbondantemente Bat Yeor, fa parte la collocazione internazionale dell'Unione Europea. a fianco del blocco arabo e contro Israele.
  Insomma, il mostro buono dell'Europa, guardato da vicino, risulta assai più mostruoso che buono, soprattutto dal punto di vista di chi tiene ad Israele. Ricordiamocene nei dibattiti che certamente verranno, anche in occasione delle prossime elezioni.

(Shalom, gennaio 2018)


Ebrei che si sognavano tedeschi
      Articolo OTTIMO


Nella Berlino di Gershom Scholem una comunità laica cercava l'assimilazione. Einaudi ripubblica i ricordi giovanili dello studioso che nel 1923 lasciò la Germania per trasferirsi a Gerusalemme

di Giorgio Montefoschi

«Negli anni precedenti la Prima guerra mondiale - racconta Gershom Scholem all'inizio del suo libro di memorie intitolato Da Berlino a Gerusalemme - Berlino era tutto sommato una città molto tranquilla. Durante i miei primi anni di scuola andavo con la mamma a trovare i nonni a Charlottemburg con il tram a cavalli, partendo da Kupfergraben e attraversando il Tiergarten, che era ancora un vero, grande parco. Solo la metà delle strade era asfaltata, e in molti quartieri, soprattutto nell'est e nel nord, gli omnibus a cavalli strepitavano ancora sul selciato. I primi autobus furono una novità sensazionale, e salire sull'imperiale era un ambito piacere».
  La comunità ebraica alla quale appartenevano gli Scholem, una tipica famiglia delle media borghesia di orientamento liberale che, da piccoli e modestissimi inizi, aveva risalito la scala sociale grazie al proprio lavoro - erano proprietari di una tipografia - raggiungendo il benessere, contava all'epoca 144 mila persone. A Berlino esistevano ovunque sinagoghe, scuole e licei ebraici, circoli culturali e politici di ispirazione ebraica, e stava nascendo il sionismo. Ma la pratica religiosa non era particolarmente seguita, mentre l'assimilazione all'elemento tedesco, nonostante il montante antisemitismo, era molto avanti. Un giovane ebreo che non fosse appartenuto alla minoranza fedele ai precetti si trovava, da un lato, di fronte a un progressivo sfaldamento spirituale dell'ebraismo, dall'altro, di fronte a una confusa mescolanza di tradizioni e di costumi, al desiderio della maggioranza degli ebrei di sentirsi parte della nazione germanica.
  Il tema dell'assimilazione - al quale Giulio Busi, nella sua postfazione, dedica osservazioni illuminanti - è l'argomento centrale di questo libro imprescindibile per comprendere la tragedia dell'Olocausto. Scholem lo chiama autoinganno: «L'incapacità di giudizio della maggior parte degli ebrei in ciò che li riguardava direttamente, benché fossero altamente capaci di ragionevolezza, discernimento e lungimiranza quando si trattava di altri fenomeni, questa inclinazione all'autoinganno, rappresenta uno degli aspetti più importanti e sciagurati dei rapporti fra ebrei e tedeschi». Gli ebrei volevano essere tedeschi; volevano partecipare alla vita pubblica e a quella politica; volevano - e tra coloro ci fu Martin Buber - combattere in guerra nell'esercito tedesco. I loro collegi, al di là di alcuni elementi del rituale ebraico, erano rigidamente nazionalisti. Nelle famiglie, come in quella di Gershom Scholem, la figura dell'ebreo ortodosso, proveniente in prevalenza dall'Europa orientale, era vista con fastidio. E se qualcuno - per esempio un appartenente al gruppo Jung Juda - proponeva di istituire in una scuola religiosa un corso che comprendesse lo studio dell'ebraico, delle fonti bibliche e del Talmud, il progetto veniva lasciato cadere. «Oggi - scrive Scholem - nessuno mi crederà se dico che, prima della Grande guerra, la numerosa e ricca comunità ebraica di Berlino si rifiutava ostinatamente di permettere l'istituzione di un simile corso».
  In quanto al sionismo, il sentimento più diffuso era quello della diffidenza. Basterebbe ricordare che cosa disse in proposito Hermann Cohen, un grande filosofo, veneratissimo, capo della scuola neokantiana di Marburg, autore di un libro intitolato La religione della ragione secondo le fonti dell'ebraismo, a un altro importante studioso, Franz Rosenzweig, traduttore di preghiere e poesie liturgiche, autore di un libro intitolato Stella della redenzione, quando quest'ultimo gli chiese che cosa avesse in fondo contro quel movimento. Come se volesse rivelargli un segreto, Cohen gli sussurrò all'orecchio: «Quei tipi vogliono essere felici!». Secondo lui, come secondo molti altri, quegli uomini che, invece di immergersi nell'ancestrale magia del mondo ebraico, non delimitabile in uno spazio terreno, fondavano colonie e villaggi, perdevano il loro tempo inutilmente.
  Per reagire a questa dispersione dell'identità, il giovane Scholem chiede aiuto alla storia. E ai libri. L'esperienza decisiva l'ha avuta una domenica di primavera del 1913: in uno stesso giorno ha imparato a memoria la prima pagina del Talmud e letto un commento al primo capitolo della Genesi. Da quel momento, la sua ansia di imparare l'ebraico, di riappropriarsi della tradizione, di conoscere ogni testo, ogni glossa, ogni commento, non conosce limite. Pur frequentando le lezioni di matematica, e con tale interesse e profitto da ricevere, dopo la laurea, l'offerta di una cattedra universitaria, non smette di leggere, leggere e poi ancora leggere, di trascorrere settimane nelle biblioteche, di scovare libri antichi e preziosi nelle librerie antiquarie. Finché non incontra lo Zohar (Il libro dello splendore), il misticismo ebraico e la qabbalah, nello studio della quale si getta con tutta la passione della scoperta e la furia filologica che non lo abbandonerà mai, diventando ben presto uno dei più grandi conoscitori di quel mondo misterioso e affascinante, fitto di simboli inestricabili, delle combinazioni numeriche più ardite.
  Insomma, lui così giovane, scacciato di casa da un padre deluso che non sia messo negli affari, curioso di ogni nuovo incontro «è già Scholem». Un ragazzo che immediatamente diventa amico e sodale di Walter Benjamin; che passeggia nei parchi col mitico Agnon (futuro Premio Nobel), ascoltando da quella tenera voce le sue meravigliose leggende; che parla a tu per tu con Martin Buber; e scrive articoli; fa conferenze nei circoli, dove ad ascoltarlo c'è anche Felice Bauer, la fidanzata di Kafka.
  Il ritratto che nella terza età della sua vita fa della Germania ebraica e non ebraica dei primi anni del Novecento quest'uomo famosissimo, inesorabilmente critico e litigioso, autore di libri importantissimi, ma soprattutto di quel capolavoro che è Shabbetay Sevi. Il messia mistico (la storia di un pazzo visionario che alla metà del Diciassettesimo secolo volle persuadere se stesso e gli altri di essere il Messia, e per riscattare l'ultima impurità del male si fece musulmano), ebbene, questo ritratto è stupefacente e grandioso: le università, le biblioteche, i giornali, le riviste, i sionisti e gli antisionisti, la borghesia torpida e un mare di cultura. E un intero popolo, cieco, sull'orlo di un abisso.
  Altrettanto grandioso, ma per altri motivi, e per chi sappia leggere fra le sue righe, abbandonando Scholem alla inesausta ostinazione del filologo, nonché del bibliofilo in giro per le botteghe di Mea Sharim, è il capitolo finale del libro - che avremmo voluto più impastato nella bellezza dei luoghi, e più lungo - nel quale, siamo nel 1923, l'autore racconta il suo arrivo e i suoi primi anni nella Terra Promessa e a Gerusalemme. Anche qui ci troviamo in una situazione abbastanza incredibile. Scholem sembra che non «veda» nulla. Non ci descrive neppure una volta la mura della città, il deserto della Giudea, il grano della Galilea, il mare di Jaffa. Il suo interesse è, e continua a essere, uno soltanto: la carta stampata, magari consumata dalle cimici, nella quale può esserci una precisazione fondamentale sulla Parola di Dio. Ma quei contadini - che ci appaiono fra un libro e un altro - piegati a dissodare la terra di Israele, quei mormorii delle preghiere che salgono dalle «case ungheresi», quelle quattro strade fuori delle mura, quell'unico cinema, quella voglia di continuare a esistere in un luogo perenne, sono commoventi. Così come è commovente la descrizione, sempre così asciutta, dell'inaugurazione, nel 1924, dei primi edifici dell'Università di Monte Skopus, oggi una delle più famose del mondo: con Lord Balfour nella luce del tramonto, a pronunciare in piedi l'elogio del popolo ebraico sui gradini dell'anfiteatro che guarda la valle del Giordano.

(Corriere della Sera, 9 febbraio 2018)


Israele - Scoperto mosaico di 1800 anni fa con iscrizione in greco antico

L’opera, composta da 12mila tessere, è stata rinvenuta a 60 chilometri da Tel Aviv e rappresenta tre figure umane ancora sconosciute. Data l’iscrizione in greco antico è possibile datarla attorno al II-III secolo d.C.

 
Scoperto un mosaico di 1800 anni fa in Cesarea, uno dei più importanti siti archeologici israeliani. Delle trame geometriche multicolori disegnano tre figure umane,arrivando a un totale di 12mila piccole tessere. Data l'iscrizione presente sul mosaico, in greco antico, è possibile datare l'opera attorno al II-III secolo d.C. Il mosaico è stato rinvenuto a circa sessanta chilometri da Tel Aviv, nei pressi di un edificio commerciale risalente all'epoca bizantina, probabilmente anticamente era conglobato in un edificio di circa duemila anni fa.
   Dallo stato del mosaico non emerge con evidenza chi siano i soggetti rappresentati. Come sempre, in questi casi, di fondamentale importanza sarà capire se l'edificio in cui si trovava il mosaico si trovasse in un'abitazione privata o meno. In questo caso, si tratterebbe dei proprietari dell'edificio. Se invece,come è altamente probabile, si tratta di un palazzo pubblico, potrebbero essere rappresentati alcuni membri del consiglio comunale. Di grande interesse anche una lunga iscrizione in greco antico, molto danneggiata, attualmente al vaglio dell'Istituto archeologico dell'Università ebraica.
   Peter Gendelman, archeologo dell'Israel antiquities authority, ha dichiarato al The Times of Israel che si tratta di una scoperta importante, poiché "Reperti di questa epoca non si trovano frequentemente in Israele". La Cesarea non è nuova a scoperte di questo genere. Di recente, come ha dichiarato Michael Karsenti, responsabile della Caesarea development corporation, sono stati rinvenuti altri sorprendenti reperti, tra cui un altare nel tempio di Erode, risalente a duemila anni fa, una tavoletta di madreperla incisa, una statua di un ariete e molto altro.Per tacere del ritrovamento, nel maggio scorso, sui fondali al largo della città di un tesoro romano di 1600 anni fa. Uno dei ritrovamenti più importanti degli ultimi trent'anni.

(fanpage.it, 9 febbraio 2018)


L'antisemitismo è il cuore pulsante dell'islamogoscismo francese

Miti sfatati e ideologie mai dome. Un saggio di Alexis Lacroix

di Mauro Zanon

PARIGI - Alexis Lacroix, editorialista dell'Express, scrittore e storico delle idee, combatte da anni contro quel male che la sinistra francese non ha mai curato fino in fondo, e che in questi ultimi tempi è tornato a farsi sentire, mostrandosi ancora più aggressivo: l'antisemitismo. Sulla recrudescenza di questo virus che troppi si ostinano a non vedere, Lacroix aveva già scritto un saggio molto commentato nel 2004, quando aveva trent'anni, che si intitolava Le socialisme des imbéciles e aveva un sottotitolo che all'epoca fece rizzare i capelli agli intellettuali della rive gauche: "Quando l'antisemitismo torna a essere di sinistra". Riprendendo la formula del politico e scrittore socialdemocratico tedesco August Bebel, Lacroix constatava l'insopportabile giudeofobia che ha percorso per troppo tempo il campo dei progressisti in Francia, e in che modo la gauche radicale continuava a mascherare il suo odio verso Israele e gli ebrei dietro un discorso antisionista. "Lo dico senza mezzi termini: se un giorno i riformisti dovessero implorare la misericordia dell'ultrasinistra, sarebbe la fine del dreyfusismo in questo paese", scrisse allora Lacroix. Oggi, quest'ultimo, torna in libreria con un saggio altrettanto stimolante, J'accuse: 1898 - 2018. Permanences de l'antisemitisme (Editions de l'Observatoire), nel quale analizza la situazione francese in una prospettiva storica, sfatando molte idee dominanti a partire da quella secondo cui l'antisemitismo è soltanto di estrema destra e la gauche è immune da questo male. "Oggi, il cuore dell'islamogoscismo, che è permanentemente in una posizione di complicità tacita con l'antisemitismo di sinistra, è incontestabilmente il movimento degli Indigènes de la République, che si ramifica nelle banlieue e diffonde un discorso di 'razzializzazione' della società. E sappiamo bene che gli ebrei, in ragione dell'attaccamento allo stato di Israele da parte di molti di loro, sono i bersagli privilegiati", ha detto Lacroix alla rete all-news Bfm.tv. E ancora: "Tutto ciò risveglia una vecchia tradizione dell'antisemitismo di sinistra che consiste nel dire che gli ebrei sono vicini a tutti i poteri, le banche e la politica. E l'aspetto inquietante è che questo discorso islamogoscista radicale attecchisce nella testa di una parte dei nostri compatrioti".
  E' l'"eterno ritorno dell'antisemitismo", come scrive il settimanale Valeurs Actuelles, un "neoantisemitismo", secondo la definizione di Lacroix, largamente diffuso tra le forze vicine all'islam politico come la France Insoumise (Fi) di Jean-Luc Mélenchon. Daniele Obono, deputata Fi di origini gabonesi, non si è tirata indietro quando bisognava difendere l'amica antisemita Houria Bouteldja, leader del Parti des indigènes de la République, che si era fatta fotografare accanto a una sedia con su scritto "Sionisti nei gulag!", dopo aver detto che "gli ebrei sono gli scudi, i tiratori scelti della politica imperialista francese e della sua politica islamofoba". E sono parole di Mélenchon "Manuel Valls è vicino all'estrema destra israeliana". L'ex premier Valls, in J'accuse: 1898-2018, viene elogiato da Lacroix per il suo coraggio nell'aver denunciato "gli agitatori dell'odio contro Israele", ma anche le torbide complicità tra l'ultrasinistra mélenchonista e alcuni personaggi sulfurei che flirtano con gli islamisti. Si chiede l'autore: "Chi, a sinistra, all'interno o accanto alla 'vecchia casa' socialista, ha avuto il coraggio di dire nettamente e senza prudenti circonvoluzioni che l'incrocio possibile tra un anticapitalismo mai spento dai tempi di Drumont (autore del libro antisemita La France juive, nel quale attaccò il ruolo degli ebrei in Francia, invocando una loro esclusione dalla società, ndr) e la giudeofobia strutturale dei Fratelli musulmani potrebbe presto scatenare nei quartieri periferici, ma anche negli altri territori francesi, una bomba atomica morale di un'incalcolabile efficacia? Chi, a parte Manuel Valls, ha il coraggio di affermare che se l'altra sinistra, quella di Mendès France e del radicale Clemenceau, lascerà che si formi questa diabolica fusione, sarà finita per la Francia che amiamo, quella Francia che ha saputo dividersi sulla sorte di un piccolo capitale ebreo?" Sono pochi i "dreyfusardi" rimasti nella classe politica e intellettuale, sostiene Lacroix. Per Eric Brunet, uno dei pochi animatori televisivi ad aver ospitato l'autore, "contrariamente a quello che si pensa, la maggior parte degli antisemiti in Francia appartiene ai ranghi dell'ultrasinistra".

(Il Foglio, 9 febbraio 2018)


Unifil. Gli italiani smontano le mitragliatrici prima di entrare nei paesi controllati da Hezbollah

 
Un lungo reportage sul contingente UNIFIL è stato pubblicato il 29 gennaio scorso sul Corriere della Sera a firma di Guido Olimpio.
  Nell'articolo si dice che "i terroristi si travestono da contadini". L'affermazione appare del tutto erronea in quanto un Hezbollah non ha bisogno di nascondersi in Sud Libano agli occhi di chi ha il compito di disarmarli e restituire la sovranità del territorio al legittimo governo libanese, essendo padrone assoluto del territorio. Il gruppo che controlla anche una canale televisivo satellitare, Al-Mana, finanzia tutti i servizi sociali, le scuole, gli ospedali nonché l'agricoltura, ha un peso non indifferente nella politica libanese , e dispone pure di una sorta di banca per il credito del partito. Olimpio continua scrivendo che "mantengono un profilo basso rivelando solo il volto dei loro martiri, stampati sui manifesti appesi ovunque, e mostrando il colore giallo delle loro bandiere. Accanto appaiono quelle verdi di Amal, l'altra fazione sciita, e le insegne di qualche gruppo minore. Simboli esteriori per marcare le zone di influenza a pochi chilometri dal confine con il «nemico» che neppure menzionano: Israele".
  Quanto descritto appare come una presenza "ossessiva e minacciosa" che non sembra proprio basso profilo.
  Tutto ciò riporta al dibattito sull'opportunità di tenere in Libano uno schieramento di oltre diecimila uomini che, i fatti lo dimostrano, ha fallito su tutto la linea il compito assegnatogli. Dibattito dal quale ONU e nel nostro caso l'Italia, sembrano assenti e distratti.
  Secondo quanto "prescritto" dalla risoluzione 1701, UNIFIL dovrebbe supervisionare e garantire che il Libano adotti "misure di sicurezza atte a prevenire la ripresa delle ostilità, che preveda l'istituzione, nella zona compresa tra la Linea Blu e il fiume Litani, di un'area priva di personale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell'esercito libanese e delle forze UNIFIL come previsto dal paragrafo 11, che operano in questa zona".
  Una risoluzione, quella dell'ONU, come al solito contradditoria poiché prescrive "l'eliminazione di tutte le forze straniere dal Libano che non abbiano l'autorizzazione dal governo", facendo intendere quindi che se il governo libanese autorizza o tace, chiunque può costituire a sud del Libano gruppi armati.
  Quindi, ancora una volta, l'ambiguità delle Nazione Uniti si evidenzia in tutta la sua tragica realtà e, ove si consideri che il presidente libanese Michel Aoun considera Hezbollah elementi a difesa del Libano e non sembra aver messo in atto quelle disposizioni atte a fermare l'arrivo ingente di materiale bellico dall'Iran verso Hezbollah. L'Iran quindi, può continuare a gestire, armare e finanziare il gruppo che è, ricordiamo, dal 2013 inserito nella lista dei gruppi terroristici.
  In questa situazione UNIFIL si trova chiaramente sotto ricatto perché l'unica cosa che può fare è essere presente ma silente e distratta. Spetterebbe, pertanto, all'ONU, sulla spinta degli stati che fanno parte del contingente, ritirare una forza inane, dispendiosa e per certi aspetti anche controproducente per la pace.
  Secondo quanto riporta Guido Olimpio, UNIFIL organizza "incontri con sindaci e esponenti religiosi di tutte le comunità per colloqui per stabilire rapporti e rispondere alle richieste d'aiuto" e di frequente, continua il giornalista "i nostri militari distribuiscono doni e giocattoli ai bambini che vivono nel settore occidentale. Altri soldati si recano nei paesini a fare acquisti e per contatti diretti con la popolazione" .
  Una conferma, qualora ce ne fosse mai stata la necessità, che UNIFIL, ostaggio di Hezbollah, e per certi aspetti del timoroso (nei confronti del gruppo armato) governo libanese, è funzionale alla sua economia.
  Che le forze dell'ONU in Libano siano "ostaggio di Hezbollah" lo ha dichiarato il 16 Agosto 2008 ai giornalisti anche Toni Nissi , coordinatore generale del Comitato di Monitoraggio internazionale-libanese per la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1559 (2004), smentendo in questo modo quanto affermato la settimana prima dal comandante delle forze UNIFIL in Libano, il generale italiano Claudio Graziano, il quale aveva sostenuto che "Hezbollah starebbe sostanzialmente rispettando la risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1701 (2006), che ha posto termine alla seconda guerra in Libano". (cfr. JPost)
  L'organizzazione ha il controllo sistematico sul territorio ed arriva anche al punto di utilizzare i bambini per la coltivazione dell'hashish. (Linda Lovitch del quotidiano JOL ).
  A sud del Fiume Litani migliaia di soldati, tra cui qualche migliaio di italiani, "non vedono" che Hezbollah si arma, diventa stato e coltiva droga sfruttando il lavoro minorile.
  Il milione di dollari recentemente stanziato dal governo italiano a favore della popolazione, è linfa per Hezbollah che si guarda bene dal creare attriti con UNIFIL, il quale appare come il suo miglior benefattore per l'indotto che la sua presenza comporta, oltre, ovviamente, all'Iran che finanzia, arma ed addestra il gruppo paramilitare in funzione anti Israele ma non solo.
  Ma come dicevamo all'inizio, lascia perplessi e allibiti la notizia riportata da Olimpio, secondo cui "oggi le pattuglie hanno un approccio flessibile, svolgono il loro compito senza offendere. Quando entrano in un villaggio rimuovono la mitragliatrice, procedono a passo d'uomo e periodicamente fanno acquisti in mercatini".
  "La popolazione ha gradito, dobbiamo essere meno invasivi e conquistarci il sostegno" avrebbe affermato il comandante del reggimento folgore dispiegato nell'area.
  Dallo Stato Maggiore della Difesa ci confermano che questa disposizione è in vigore da almeno otto anni, seguendo le direttive/raccomandazioni inserite nella risoluzione ONU 1701 che ha autorizzato il dispiegamento della forza multinazionale, anche se viene precisato che le armi quando i militari entrano a piedi e camminano all'interno dei mercati o delle strade, le tengono con loro, ma in modo non molto visibile.
  Però dalle parole di Olimpio sembrerebbe che la disposizione si attua all'interno del settore di competenza UNIFIL.
  Strano, qui in Italia l'esercito schiera pattuglie di militari con tanto di fucile ben in vista e la situazione non è certo di "conflitto", e in zona di guerra, anche se latente, disarmiamo i nostri uomini o li facciamo camminare con armi non in vista.
  Ma la mitragliatrice perché viene smontata dal tetto del veicolo?
  Da una attenta lettura della risoluzione 1701, non abbiamo trovato traccia di disposizioni e/o raccomandazioni che giustifichino, a livello ONU, un tale comportamento; rileviamo al para 1 che UNIFIL deve " ….. proteggere il personale, le attrezzature, le installazioni e l'equipaggiamento delle Nazioni Unite, garantire sicurezza e libertà di movimento al personale umanitario delle Nazioni Unite e, senza pregiudizio alla responsabilità del Governo Libanese, proteggere i civili dalla minaccia imminente di violenza fisica".
  Attuando disposizioni del genere UNIFIL rispetta la risoluzione 1701 ?
  In ogni caso, pensiamo che nessun comandante, in zona di guerra, e il Sud del Libano fino a prova contraria è zona di guerra considerata la presenza massiccia di gruppi armati che dovrebbero essere stati disarmati da UNIFIL, possa pensare di disarmare i suoi uomini, o metterli in condizione di difficoltà a reagire a minacce improvvise, per aggraziarsi le simpatie della popolazione, né sembra che questo sia scritto nei manuali di guerra.
  Pensiamo quindi che la sicurezza del personale sia messa seriamente a rischio, anche in considerazione del fatto che la popolazione è ben lungi dall'essere quietata come si riporta.
  E di episodi di violenza se ne contano diversi. Lorenzo trombetta, editorialista di Limes riporta su Limes i fatti del 19 Luglio 2013, quando un gruppo di civili ha impedito ai militari di UNIFIL di entrare nell'agglomerato urbano senza prima consegnare loro le macchine fotografiche. Poi c'è l'attentato del 2011 quando un mezzo italiano è stato oggetto di un attacco che ha provocato 6 feriti, e l'attacco contro truppe spagnole e colombiane che ha provocato 6 morti.
  Nel 2016, quindi in tempi non lontani, l'intelligence ha lanciato l'allerta per possibili attacchi contro le truppe internazionali.
  "I soldati italiani presenti nel sud del Libano nuotano ora in un mare di terroristi", scriveva Trombetta.
  Hezbollah è forte oltre 45 mila uomini pesantemente armati e dispongono un arsenale di 120 mila razzi tipo Grad, Fajr, Fateh e Zelzal di fabbricazione iraniana, droni, missili terra - mare, missili anti carro e sistemi anti aerei di fabbricazione russa di ultima generazione.
  "La missione di peacekeeping e interposizione dell'Onu al confine tra Libano e Israele è «cieca» dinanzi al «traffico di armi» diretto al movimento sciita libanese Hezbollah" ha dichiarato nel 2017 Nikki Haley, l'ambasciatrice Usa all'Onu.
  Ma già nel 2009 Miriam Bolaffi si chiedeva "come sia obbiettivamente possibile che un volume così consistente di armi sia passato sotto gli occhi di migliaia di soldati dell'ONU senza che essi se ne accorgessero e, soprattutto, come sia possibile che un osservatore esterno riesca a individuare con precisione i depositi di armi di Hezbollah ma non lo facciano i militari di UNIFIL con tutte le attrezzature in loro possesso e coperti dal mandato ONU"
  Ed ancora "Perché UNIFIL ha permesso a Hezbollah, un gruppo riconosciuto come terrorista, di riarmarsi? Perché viene implicitamente riconosciuto a Hezbollah di avere un potentissimo apparato militare quando legalmente questo non sarebbe possibile all'interno di uno Stato sovrano? Perché persone come Hassan Nasrallah non vengono arrestate?
  Eppure le direttive ONU sono chiare. Ne riportiamo alcuni stralci: para 3, 5 e 8 della Risoluzione:
  • 3 - Sottolinea l'importanza dell'estensione del controllo del governo del Libano su tutto il territorio libanese come previsto dalle disposizioni della risoluzione 1559 (2004) e della risoluzione 1680 (2006), e dalle disposizioni degli Accordi di Taif, per l'esercizio della sua piena sovranità, in modo tale che non possano esserci armamenti senza il consenso del governo del Libano e non possa esserci altra autorità che quella del governo del Libano;
  • 5 - Ribadisce inoltre il proprio forte sostegno, come previsto in tutte le sue principali, precedenti risoluzioni, per l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza politica del Libano all'interno dei confini riconosciuti dalla comunità internazionale, come contemplato dall'Accordo di armistizio generale israelo-libanese del 23 marzo 1949
  • 8 - (par. 3) la piena attuazione dei regolamenti previsti dagli Accordi di Taif e dalle risoluzioni 1559 (2004), 1680 (2006), che impongono il disarmo di tutti i gruppi armati in Libano, in modo che, in accordo con la decisione del gabinetto libanese del 27 luglio 2006, non possano esserci armi o autorità in Libano se non quelle dello Stato libanese;)
  Se ne deduce, pertanto, che UNIFIL avrebbe dovuto disarmare i gruppi terroristici e garantire al legittimo governo libanese, in verità molto ondivago e timoroso sulla questione Hezbollah, la sovranità sul territorio, ma è finito per essere funzionale e sotto controllo di Hezbollah che a Sud del Fiume Litani, ha un governo, un esercito pesantemente armato, controlla l'economia e la finanza, scuole e ospedali.
  Solo il farisaismo delle Nazioni Unite può ritenere UNIFIL, operante a queste condizioni, sia utile alla pace.

(Osservatorio Sicilia, 9 febbraio 2018)


Il j'accuse ottocentesco di Carlo Cattaneo contro il boicottaggio degli ebrei

La nuova edizione delle "Interdizioni israelitiche"

di Francesco Berti

Che il boicottaggio contro gli ebrei non fosse né giusto né utile l'aveva dimostrato già nella prima metà dell'Ottocento Carlo Cattaneo, e non può che essere salutata favorevolmente una nuova edizione, curata con rigore da Gianmarco Pondrano Altavilla e con prefazioni Di Noemi di Segni, Ofer Sachs e Maurizio Bernardo, delle sue Interdizioni israelitiche (Castelvecchi): eccellente testo pubblicato in prima edizione nel 1837, utile monito a chi oggi cerca di rinverdire i fasti di tale pratica.
   Cattaneo, generoso patriota risorgimentale e profeta molto rispettato, benché assai meno seguito, del federalismo liberale, pensatore italiano tra i più profondi, prolifici e versatili del XIX secolo, trasse spunto da un caso legale in cui si trovarono invischiati i fratelli Wahl, ebrei francesi che si erano visti annullare dal gran Consiglio di Basilea-Campagna un contratto di acquisto di una proprietà fondiaria in quello stesso cantone elvetico. Motivazione: gli acquirenti erano ebrei, e gli ebrei lì non potevano accedere a questo tipo di negozio giuridico. Poco importava che pochi anni prima la repubblica svizzera avesse stipulato con la Francia, stato che nel 1791 aveva esteso agli ebrei i diritti di cittadinanza, dei trattati volti a garantire la reciprocità nei diritti civili dei cittadini francesi in Svizzera e di quelli svizzeri in Francia: gli ebrei dovevano essere trattati in qualità di ebrei, in barba ai principi sanciti dalla Rivoluzione francese, a prescindere dalla cittadinanza.
   Erede, via Romagnosi, dell'Illuminismo lombardo di Beccaria e Verri, Cattaneo ne riprende, in questo scritto, uno degli assiomi principali: i princìpi di giustizia e quelli di utilità sociale si compenetrano vicendevolmente, quasi a formare un blocco indisgiungibile. A chi è giovato il divieto posto nei secoli agli ebrei di godere della proprietà fondiaria, si chiede Cattaneo? Tale impedimento, osserva, non è infatti solo un atto di lesa maestà verso i valori della tolleranza religiosa e dell'eguaglianza giuridica sui quali dovrebbe essere fondata ogni legislazione moderna e civile; non solo ha costretto gli ebrei a "un'esistenza tutta tessuta di risparmi e sordidezze"; non costituisce, infine, solamente una violazione dell'universale e imprescrittibile diritto di proprietà; ma ha inoltre prodotto un danno incalcolabile all'economia, poiché ha impedito a un ricco ceto mercantile di investire i propri capitali nelle campagne, rallentando, così, lo sviluppo economico dell'intera società.
   Con mirabile sintesi e ampiezza di citazioni, il grande lombardo ripercorre l'origine e lo sviluppo delle severissime restrizioni imposte agli ebrei in Europa, a partire dal momento in cui, al tramonto dell'impero romano, il cristianesimo acquisiva sempre più forza e influenza nelle sfere del potere. Cattaneo evidenzia il paradosso su cui, in età medievale, si è fondato il prestito a interesse di denaro, gestito in parte considerevole da ebrei: "i nostri avi", impedendo agli israeliti gran parte delle professioni, "condannavano l'ebreo a vivere di usura e baratti; e poi lo maledicevano come usurajo e barattiere". Ma, scriveva ancora Cattaneo, citando a conforto i luminosi esempi dei filosofi Baruch Spinoza e Moses Mendelssohn, del maestro incisore Samuele Jesi e di altri ebrei che si andavano distinguendo nelle scienze e nelle arti, "l'arte usuraia non è un affare di sangue, ma di educazione e di posizione; e gli ebrei sono capaci d'altri generi di bene e d'altri generi di male".
   L'eccezionale contributo ebraico alla cultura occidentale nel XIX e nel XX secolo ha ampiamente comprovato la tesi di Cattaneo. Gli odierni boicottatori di Israele, governativi ed extraistituzionali, ne devono tenere in conto: il boicottaggio fondato su preconcetti ideologici, come già quello originato da pregiudizi religiosi, non solo è eticamente riprovevole, ma anche può ritorcersi economicamente contro coloro che lo mettono in atto.

(Il Foglio, 9 febbraio 2018)


Piani del governo palestinese per il disimpegno da Israele

Il governo palestinese, seguendo una decisione dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di iniziare a pianificare il disimpegno da Israele, martedì ha deciso di istituire una commissione per valutare le procedure.
Nel suo ultimo incontro a Ramallah, avvenuto sabato, il Comitato esecutivo dell'OLP ha deciso di chiedere al governo di elaborare piani per scollegarsi da Israele politicamente, amministrativamente, economicamente e nell'ambito della sicurezza.
Il governo ha dichiarato in seguito al suo incontro settimanale del governo a Ramallah che ha deciso di formare un comitato di vari ministeri per elaborare piani per il disimpegno.
Ha anche detto che un'altra commissione prenderà in considerazione le opzioni per usare una valuta per sostituire lo shekel israeliano, che è in uso nei Territori palestinesi dall'inizio dell'occupazione nel 1967. Ha affermato che una possibilità è avere una valuta palestinese.
Oltre allo shekel, i palestinesi usano anche il dinaro giordano e il dollaro USA nelle loro transazioni, e l'euro in quantità inferiori.

(InfoPal, 9 febbraio 2018)


Basta con la comprensione ad oltranza dei palestinesi, paternalistica e controproducente

Ciò che vale per ogni conflitto sembra completamente sbagliato nel caso dei palestinesi: più li comprendiamo, più sosteniamo il loro rifiuto e le loro illusioni.

Il discorso era forte e chiaro. E non si tratta solo della pittoresca maledizione "possa la tua casa essere demolita" che il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha lanciato contro il leader della più forte potenza mondiale. Si tratta dell'ideologia farneticante basata su false affermazioni, che non fanno che affondare sempre più i palestinesi in un mare di illusioni e tracolli.
Le reazioni erano prevedibili: bisogna capirlo, è sottoposto a molta pressione, non ha un orizzonte politico, i palestinesi sono disperati, non intendeva dire davvero quelle cose. Bisogna invece ammettere che Abu Mazen è semplicemente vittima dello straordinario successo della macchina propagandistica palestinese. Per decenni, questa macchina è stata favorita da un ben oliato sistema di agit-prop che continuano a spiegare a tutti che bisogna "capire" i palestinesi. Quando sono stati lanciati missili da Gaza, Robert Fisk, considerato uno dei maggiori esperti britannici di Medio Oriente, si è affrettato a spiegare che in molti casi i palestinesi di Gaza possono dire: "Beh, mio nipote sta lanciando razzi sulla mia città perché prima del 1948 era di proprietà palestinese". Il prof. Oren Yiftachel, dell'Univesrità Ben-Gurion, ha spiegato che il razzo deve essere visto come "un tentativo di ricordare al mondo, a Israele e anche alla dirigenza palestinese, che il problema dei profughi è ancora vivo e vegeto". Insomma: sono contrari al terrorismo, ma forniscono giustificazioni al terrorismo....

(israele.net, 9 febbraio 2018)


Israele avvia la costruzione di un muro al confine con il Libano

BEIRUT - Il governo israeliano ha iniziato ieri la costruzione di un controverso muro di difesa, lungo il confine che separa lo Stato ebraico dal Libano. Una barriera che i vertici di Beirut hanno già criticato con forza, sottolineando che essa "invade" il proprio territorio nazionale. La tensione fra Libano e Israele non accenna dunque a diminuire, dopo le parole di fuoco pronunciate nei giorni scorsi dal premier israeliano Benjamin Netanyahu secondo cui il Paese dei cedri ha permesso all'Iran la costruzione di "fabbriche di missili ad alta precisione".
   La costruzione del muro divisorio fra Libano e Israele preoccupa anche il portavoce della forza di pace delle Nazioni Unite (Unifil) impegnate da tempo nel pattugliamento del territorio fra le due nazioni. In una nota Andrea Tenenti conferma l'inizio del lavori nell'area di Naqoura e sottolinea che i militari sono "impegnati nel confronto con entrambe le parti per trovare soluzioni comuni". "Qualsiasi lavoro - aggiunge il portavoce - condotto lungo la Linea Blu [il confine virtuale fra Libano e Israele] deve essere prevedibile e coordinato con l'Unifil, per evitare incomprensioni e l'aumento della tensione". Israele negli ultimi giorni ha innalzato il livello di scontro, finora verbale, con il Libano per i legami fra Beirut e l'Iran e per il controllo di alcuni giacimenti di gas naturale al largo della costa (il Blocco 9), lungo il confine marittimo che separa i due Stati.
   Il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman ha definito "altamente provocatorie" le mosse del governo libanese, rivendicando il possesso di tutto il giacimento. Immediata la replica del movimento filo-sciita libanese Hezbollah e delle massime istituzioni libanesi, fra cui lo stesso Primo ministro (sunnita) Saad Hariri. Le parole di Lieberman sono una "provocazione" che Beirut "respinge al mittente". Di Libano ha parlato nei giorni scorsi anche il premier israeliano Netanyahu, durante un incontro ufficiale a Mosca con il leader russo Vladimir Putin, Egli ha denunciato quello che definisce il "tentativo dell'Iran di trasformare il Libano in un grande sito missilistico" per la "produzione di missili ad alta precisione contro Israele".
   Infine, sempre ieri, poco prima dell'alba, i caccia israeliani hanno colpito per la seconda volta il centro di ricerche militari siriano di Jimrayah, a nord di Damasco. Fonti siriane riferiscono che i cacciabombardieri con la stella di David hanno lanciato i loro missili dallo spazio aereo libanese, alcuni ordigni sarebbero stati intercettati dalle difese anti-aeree siriane ed esplosi in volo. L'attacco è stato confermato dai media ufficiali siriani. Di contro, le forze armate israeliane non hanno né confermato né smentito; tuttavia, negli ultimi sei anni l'esercito israeliano ha ammesso di aver compiuto "dozzine di raid in Siria". La maggior parte di essi ha avuto come obiettivo depositi o convogli di armi, munizioni o materiale militare diretto a Hezbollah, in territorio libanese.

(WorldMagazine, 8 febbraio 2018)


Antisemiti go home

Tifosi blues e quei cori inaccettabili.

di Elisabetta Zampieri

LONDRA - Il Chelsea ha detto basta. Il club di Londra ha deciso di muoversi attivamente per cercare di fermare i cori anti-semiti provenienti da alcuni tifosi. La decisione è stata presa dalla società dopo che un sito internet ebraico ha parlato di un episodio avvenuto durante la partita con il Watford che ha portato alcuni tifosi a lasciare lo stadio disgustati da qualche coro anti-semita proveniente da una piccola frangia di supporters dei Blues. L'incidente, che ha costretto l'apertura di un'indagine in cooperazione con il Watford e la polizia, ha portato il Chelsea a prendere una decisione senza precedenti. «Chiunque risulterà colpevole di episodi anti-semiti subirà delle azioni da parte del club, tra cui il bando dallo stadio e dei corsi di educazione all'uguaglianza», ha spiegato in un comunicato stampa la società. Un problema questo che non è nuovo al Chelsea, già in passato alcuni tifosi sono stati scoperti a cantare contro gli appartenenti alla religione ebraica. Per questo il club di Londra Ovest ha inaugurato, solo la settimana scorsa, un'iniziativa chiamata «Say no to Anti-Semitism» (No all'Anti-Semitismo). Una campagna nata come parte del progetto Building Bridges e volta all'inclusione: «l'Anti-Semitismo non ha nessun posto nella nostra squadra, nel calcio o nella società in generale», ha commentato il club. Il progetto Building Bridges nasce nel 2010 e ha come obiettivo quello di promuovere l'uguaglianza nel calcio attraverso attività concrete. In questi anni il Chelsea ha usato il progetto per arrivare ai giovani tramite corsi nelle scuole oppure tramite un'iniziativa che ha costruito una squadra interamente composta da atleti disabili. Punto forte del progetto è la partita dell'uguaglianza, evento annuale promosso dal Chelsea che si occupa di festeggiare in un unico giorno tutte le attività del club. All'evento partecipano anche i giocatori della prima squadra tramite delle attività che vengono poi promosse anche nei profili social della società. Un'iniziativa a tutto tondo quindi, che il club ha preso veramente a cuore e che continua a dare i suoi frutti. E per il Chelsea, che gode di tifosi da ogni parte del mondo appartenenti a culture e religioni diverse, l'obiettivo è quello di unire tutti nell'amore per i Blues.

(Tuttosport, 8 febbraio 2018)


Israele modello nella gestione dei migranti

II premier Netanyahu ha offerto 3.500 dollari a 38.000 africani per lasciare il Paese: «Fuori entro 60 giorni, altrimenti in carcere». Stringendo accordi bilaterali con altri Stati, ha assicurato accoglienza agli espulsi. Un esempio che potremmo seguire anche noi.

Anche Trudeau, idolo della sinistra, ha raggiunto intese simili con il Congo Ma le espulsioni verso Paesi infiltrati da jihadisti rischiano di alimentare tensioni

di Claudio Antonelli

Nel 1991 la compagnia di bandiera israeliana con il supporto del Mossad organizzò l'evacuazione di circa 15.000 ebrei d'Etiopia. In 36 ore i velivoli El Al andarono avanti e indietro da Addis Abeba per portare a termine un'operazione dell'agenzia di intelligence che passò alla storia con il nome in codice Salomone. A fine marzo 38.000 immigrati, per la stragrande maggioranza sudanesi ed etiopi, saranno espulsi dal governo di Gerusalemme perché irregolari.
   Ovviamente è partita la manfrina delle polemiche e la gogna mediatica che nemmeno tanto implicitamente vuole mettere in contrapposizione la spola aerea del 1991 con quella del 2018 con il chiaro intento di far passare il concetto che un tempo Israele accoglieva mentre ora deporta. Nulla di più falso. I rapporti tra Gerusalemme e le nazioni africane non sono mai stati intensi come in questo periodo. Non solo per l'assistenza dei Beth Israel sparsi nel continente, ma anche per i flussi di aiuti continui diretti alle comunità locali. Chiaro, non si tratta di sostegno fine a sé stesso. L'obiettivo del primo ministro, Benjamin Netanyahu, è garantirsi un dialogo continuo con i governi dell'Africa orientale su questioni di sicurezza e una crescente cooperazione nel sistema della Difesa che porti non solo a rilanciare l'export militare israeliano ma anche a riequilibrare le mosse dei rivali nell'area. Un obiettivo a lungo raggio che, di fatto, segnala le preoccupazioni israeliane per la tenuta del sistema geopolitico mediorientale.
   Gli accordi conclusi lo scorso anno in Sudafrica alla presenza di undici capi di Stato hanno consentito di chiudere anche il patto di ferro con Paul Kagame, numero uno del Ruanda. Sarà questa piccola nazione ad accogliere quella parte di espulsi che non potrà essere trasferita nei Paesi di origine. Gerusalemme ha offerto 3.500 dollari a ciascuno dei clandestini. Aveva però bisogno di un luogo fisico dopo finalizzare l'espulsione. In questo modo Israele dimostra di saper fare un salto di qualità. Invece di impelagarsi nel falso buonismo all'europea, sceglie la praticità e la ragion di Stato. Risultato? La nazione otterrà il rispetto delle leggi e gli espulsi si troveranno in condizioni concrete e di più facile reintegrazione.
   Al momento lo schema avviato da Israele si palesa come il migliore, come un modello concreto e in quanto tale da perseguire. Ma non è certo l'unica nazione che ha pensato bene di chiudere accordi bilaterali. L'Australia si è mossa nella medesima direzione. La Svezia a sua volta ha redatto una lista di circa 80.000 richiedenti asilo senza i legittimi requisiti e si appresta all'espulsione, anche se una fetta resta in pendenza perché non ha un vero Paese nel quale rientrare. Il Canada di Justin Trudeau, sempre al centro delle cronache radical chic, ha avviato un piano (esiguo nei numeri) di espulsione verso la Repubblica democratica del Congo. Si tratta complessivamente di nazioni che al di là della facciata hanno scelto una via pratica e realizzabile. L'Italia aveva chiuso un accordo con l'allora leader o dittatore della Libia, Muammar Gheddafi. Oggi è ovviamente improponibile. Al contrario valutare accordi con altre nazioni subsahariane potrebbe garantire al nostro Paese nuovi input economici da un lato e umanitari dall'altro. Se lo fa Israele non è impossibile.
   Certo ci vuole volontà ma soprattutto estrema cautela. Anche perché il continente nero comincia a diventare estremamente affollato. Sempre più zone nel Sahel sono sotto l'influenza di gruppi vicini ad Al Qaeda o all'Isis. Ma la grande migrazione terroristica in atto dalla Siria sta creando nuova instabilità anche in altre zone dell'Africa. Per la prima volta gruppi di Al Shabab, originariamente collegati al Califfato, hanno fatto capolino sotto il tropico del Capricorno. Da quattro mesi infatti le istituzioni mozambicane hanno messo sotto osservazione la provincia di Cabo Delgado. «Il primo attacco, riporta Africa Rivista, è avvenuto il 5 ottobre scorso quando tre stazioni della polizia nella località di Mocimboa da Praia sono state attaccate da una trentina di uomini armati di machete e mitragliatori. Per due giorni, la cittadina è rimasta isolata a causa degli scontri che hanno provocato 17 vittime».
   Da allora le imboscate proseguono. E toccano anche le aree costiere limitrofe ai giacimenti offshore della nostra Eni. Il rischio è che i gruppi islamici terroristici già infiltrati in Kenya si fondano con quelli mozambicani e sfondino la barriera al momento formata dalla Tanzania. Barriera che non si è mai cementata del tutto perché soffre ancora del drammatico attentato del 1998, contro l'ambasciata Usa. Creare nuove comunità di accoglienza dei migranti all'interno della nazione può avere il beneficio di bloccare l'avanzata del terrorismo islamico, ma se lo scacchiere viene gestito male potrebbe creare l'effetto opposto.

(La Verità, 8 febbraio 2018)


«lo, ambulante romano, non mi vergogno»

di Giovanni Sermoneta

 
Sono un ambulante romano. Avrei dovuto dirlo con un tono di voce più basso? D'altronde oggi credo sia chiaro come i mali della città siano dovuti tutti a noi. Ho iniziato a guardare mio padre con un occhio diverso, lui che questo lavoro lo ha iniziato prima di me. È stato, e mio nonno prima di lui, il delinquente che andando a vendere le merci in giro per Roma ha mantenuto la mia famiglia: io, le mie tre sorelle e mia madre. Siamo tre ragionieri e una diplomata in lingue. Oggi però ho capito che quei soldi, pochi, erano soldi sporchi di cui vergognarsi: non importa che lui e mia madre si alzassero alle 5 per andare nei vari mercati col freddo d'inverno e un caldo da schiattare d'estate.
   L'ambulante è di norma brutto, ignorante e maleducato. Grazie assessore, grazie Comune, e governo, grazie per avermi aperto gli occhi. Ora però voglio provare ad aprire i vostri di occhi. Mio padre è nato nel 1941, in vigore all'epoca c'erano le leggi razziali: la nostra famiglia era ebrea. Dopo la guerra, essendo la nostra famiglia senza un soldo, mio padre con qualche suo fratello si sono trovati costretti a emigrare in Canada, nel frattempo a mio nonno veniva rilasciata una licenza ambulante: allora ci si voleva pulire la coscienza e così si mettevano coloro a cui erano stati tolti tutti i diritti a fare i lavori più umili possibili, e l'ambulante è il peggiore, no? Mio padre torna, perché non può fare a meno di questo Paese. Ecco che nasce quell'idea malsana di fare l'ambulante. Mia madre nasce a Tripoli in Libia, anche lei da una famiglia di ebrei, e nel' 67 come tutti gli ebrei libici è costretta a fuggire. Ho sempre pensato che fosse una donna buona, forte e generosa, oggi però ho dei seri dubbi. Non si può spiegare altrimenti come mai abbia seguito mio padre nella folle idea di essere ambulanti. Cara gente per bene, che inorridisce quando vede una bancarella, voglio dirvi con un po' di vergogna, che vi invidio. Se non avessi avuto questi mostri di genitori, oggi non mi troverei a fare anche io questo lavoro, e anche io non sarei un mostro. Ma lo sono davvero? E i miei genitori? Alzarsi la mattina, rompersi la schiena, tornare a casa con le mani spaccate dal freddo, e solo per poter sostentare la propria famiglia non può e non deve essere considerato un lavoro di cui vergognarsi. Essere decorosi e ambulanti non è un utopia, è possibile. Sentire un assessore dire "è finita, da ora in poi andremo avanti ancora più velocemente in questa pulizia», lo dico con un filo di imbarazzo perché credo di questo si tratti, etnica, e non chiedersi il perché del malumore che suscita, è per me fonte di preoccupazione. L'impegno principale del politico dovrebbe essere il benessere dei suoi elettori, dei suoi figli, perché il politico dovrebbe essere un padre, austero magari, ma attento che cerchi di capire il malumore dei figli. Caro assessore, il padre non dovrebbe mai chiudere la porta al figlio, e se lo fa, non è altro che un padre fallito.
   Non voglio e non posso vergognarmi di essere un ambulante, e a chi mi chiede di farlo rispondo che mi dispiace per loro, Sono persone di basso spessore morale, che non sanno cosa sia vivere una vita dura e onesta.

(la Repubblica - Roma, 8 febbraio 2018)


Israele-Libano: si sta cercando una soluzione diplomatica alla disputa sui confini

GERUSALEMME - Israele sta cercando una soluzione diplomatica alla disputa con il Libano sui confini territoriali e marittimi, ma qualsiasi aggressione vedrà l'uso della forza. Lo ha dichiarato oggi il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, in un'intervista rilasciata al quotidiano "Yedioth Ahronot", spiegando che Gerusalemme è aperta anche alla mediazione statunitense. "Penso che sia Israele che il Libano siano interessati a una soluzione diplomatica, ma (Beirut) non dovrebbe fare alcuna minaccia, e sicuramente non infiltrarsi nelle nostre acque territoriali", ha detto Steinitz. Nel caso di attacco, ha proseguito Steinitz, "la risposta sarebbe molto più severa, rapida e inequivocabile rispetto al passato". La leadership libanese ha minacciato ieri di voler impedire ad Israele di costruire un muro sul territorio libanese lungo la linea di demarcazione. Per quanto riguarda il muro, Israele sostiene che il muro che sta costruendo si trova in territorio israeliano. Da parte sua, Beirut sostiene che il muro, pur trovandosi sul lato israeliano della "blue line" ricade sotto la sovranità libanese.

(Agenzia Nova, 7 febbraio 2018)


Luoghi ebraici: 180 punti d'interesse in Italia

Più di 700 mila visitatori nel 2017 e le nuove opportunità del turismo culturale

di Ilaria Ester Ramazzotti

 
Il MEIS di Ferrara
Un patrimonio antico e ancora da scoprire: 20 musei, 60 sinagoghe e 100 cimiteri storici, per un totale di 180 luoghi ebraici d'interesse, in gran parte situati presso le 21 comunità ebraiche italiane. Un ampio valore culturale e spirituale che la società JFC srl di Faenza ha analizzato mettendone in luce le caratteristiche e le opportunità dal lato turistico e secondo la prospettiva di visitatori potenzialmente interessati a conoscerlo meglio.
  Ad oggi sono infatti meno di una trentina i luoghi ebraici che generano forte interesse turistico. "Complessivamente, nel 2017, i 25 luoghi più rappresentativi della cultura ebraica in Italia hanno attirato 711.210 visitatori, con un incremento del +12,1% rispetto all'anno precedente - afferma Massimo Feruzzi, amministratore unico di JFC -. Si tratta di ospiti provenienti da diversi paesi, con una quota di internazionalizzazione pari al 36,7% e con una forte concentrazione di studenti italiani, che rappresentano oltre il 50% dei visitatori nazionali. Un comparto turistico, questo legato alla cultura ebraica, che nel 2017 ha generato un valore complessivo pari a 45 milioni e 750 mila euro e che crescerà nel 2018 del 24,5%".
  I 711.210 visitatori dei luoghi della cultura ebraica in Italia del 2017 hanno garantito un fatturato di 2 milioni 687 mila euro con il solo biglietto di ingresso, dal valore medio di 4,2 euro. I musei hanno poi incassato ulteriori 1,3 milioni di euro per attività extra, che vanno dai laboratori alle vendite di libri, oggettistica, prodotti tipici e cibi kasher. Fra questi turisti, quelli che hanno soggiornato almeno una notte sono stati rispettivamente 85.582 per quanto riguarda gli italiani (generando 102.699 presenze), e 68.454 quelli stranieri (per 130.063 presenze). Un numero sicuramente limitato rispetto alle reali potenzialità di questo segmento del mercato turistico, fa sapere JFC.
  Osservando più da vicino il target dei visitatori, si vede che la quota maggiore è data dagli studenti, che sono il 50,6% del totale. Seguono le famiglie con bambini (8,8%) e i gruppi di organizzazioni religiose (8,4%), gli appassionati di storia, religione e cultura ebraica (7,9%) i pensionati (7,4%), le persone che sono in vacanza in zona o crocieristi (7%), i membri di cral e associazioni culturali (5,6%), oltre ad altri. Le maggiori quote di visite si registrano nel periodo dell'anno che va da aprile a settembre, con il 78,1% delle visite complessive. Il mese di punta è settembre, quando si svolge la giornata della cultura ebraica.
  "Ampliare questa offerta culturale - continua Feruzzi - è un'opportunità più che un'esigenza storico-culturale. Nel 2018 si stima una crescita di visitatori con questo interesse primario, nel nostro paese, del +24,5%, raggiungendo nell'anno appena iniziato quota 885 mila visitatori, anche grazie alla recente apertura del MEIS di Ferrara. Ma ciò rappresenta solo un incipit, per le amministrazioni e le società di gestione e promozione di tali beni, a sviluppare percorsi e itinerari culturali, come pure il sistema ospitale e ristorativo, che deve sapere esattamente con quali servizi rispondere alle esigenze di questi ospiti. Il potenziale mercato è infatti molto più ampio di quello attuale, pari a 11 milioni 803 mila clienti ebrei solo in Israele e negli USA".
  In Italia sono ancora pochissime le strutture in grado di ospitare clienti di religione ebraica, offrendo ristorazione kosher e altri servizi, legati per esempio al rispetto dello Shabbat. Tra le poche strutture adeguate, si legge ancora nella ricerca di JFC, ci sono il My Kosher Hotel & Spa di Canazei, l'Olympic Kosher Holidays di Sirmione e l'Hotel Kosher Giardino dei Melograni di Venezia. Su questo fronte, i tour operator italiani propongono in prevalenza itinerari di sola una giornata costruiti su misura. Gli operatori esteri organizzano invece viaggi che durano dai 3 ai 15 giorni, unendo al percorso ebraico la scoperta dei principali luoghi della cultura italiana.
  Principali luoghi ebraici d'interesse in Italia
  • In Lombardia: il Museo e la Sinagoga di Sabbioneta e il Memoriale della Shoah a Milano.
  • In Piemonte: il Complesso Museale Ebraico di Casale Monferrato, la Sinagoga e la Mostra Permanente di Carmagnola, la Sinagoga e il Museo Ebraico di Asti.
  • In Veneto: il Museo Ebraico di Venezia e il Museo della Padova Ebraica di Padova.
  • Nel Lazio: il Museo Ebraico di Roma e il Sacrario delle Fosse Ardeatine.
  • In Toscana: il Museo Ebraico di Firenze, quello di Pitigliano e quello di Livorno, la Sinagoga di Siena.
  • In Emilia Romagna: il Meb di Bologna, il Museo Ebraico di Soragna, il Meis di Ferrara (nella foto), il Museo ed il Campo di Fossoli di Carpi.
  • In Friuli Venezia Giulia: il Museo Ebraico e la Risiera San Sabba di Trieste, il Museo della Sinagoga di Gorizia.
  • Infine, nelle altre regioni: il Museo Sinagoga Sant'Anna di Trani, il Museo Ebraico di Merano e il percorso della Lecce Ebraica Medievale e Palazzo Taurino.
(Bet Magazine Mosaico, 7 febbraio 2018)


«Sono sempre contro la malattia universale del comunismo»

Intervista a Ismail Kadare. L'ottantunenne scrittore albanese "Premio Internazionale Nonino 2018" racconta le sue scelte e convinzioni.

di Francesco Mannoni

Ismail Kadare
Occhiali scuri spessi e aspetto ascetico d'assoluta serenità, ma parola pronta, cuore intrepido e visione lucida di un tempo vissuto come un'avventura perigliosa. E una voce flebile ma decisa, con la quale l'ottantunenne scrittore albanese Ismaìl Kadare, "Premio Internazionale Nonino 2018", afferma:
«Sono sempre stato contro la malattia universale del comunismo, e non ho mai cambiato idea perché i comunisti non cambiano mai e non mollano mai il potere al mondo libero. Sono contrario anche a personalità come Karl Marx, ma non ne parlo perché ho dei nemici personali anche in Occidente. Penso che sia sbagliato considerare Marx, un genio assoluto perché ha detto delle cose sbagliate e fatto degli errori. La letteratura mi ha insegnato che Marx poteva essere chiunque, e non è sicuramente un genio. Per avviare un progetto di rovesciamento del mondo ha scritto più di mille pagine, ma neanche mezza pagina per lanciare un monito ai proletari se avessero avuto la meglio, tipo: quando sarete vittoriosi non siate troppo avidi né implacabili o impietosi contro i vinti».
  Ismail Kadare, è uno di quegli autori che vogliono esplorare il senso della vita per diagnosticare l'insondabilità dell'animo umano. Così ha saputo condensare una severa critica e la profondità dei sentimenti in una sessantina di libri tra raccolte di poesia, saggi e romanzi, alcuni riconosciuti capolavori assoluti come «Il generale dell'armata morta», «La città di pietra» o «La provocazione» (pp. 40, 7 euro), appena riproposto da La Nave di Teseo.
  Ismail Kadare, che ha conosciuto i rigori del regime comunista, per sfuggire al quale negli anni '90 ha chiesto asilo in Francia, è stato più volte candidato al Nobel per la letteratura, e oltre al "Nonino", ha vinto i maggiori premi letterari internazionali.

- E' per il troppo rigore comunista che da studente lasciò Mosca prima di finire gli studi?
  Dopo il primo anno, le relazioni fra l'Albania e l'Unione Sovietica si erano interrotte e quella che era la nazione amica più prossima all'Albania divenne la peggiore nemica del mio paese. Rientrato in Albania, fui dichiarato ufficialmente nemico dell'Unione Sovietica, perché era diventata un paese da combattere. La storia era cambiata: l'Albania per i sovietici era un paese fascista».

- E lei cosa fece?
  «Scrissi un romanzo "Il crepuscolo degli dei della steppa" dove non mi schieravo da una parte né dall'altra: la neutralità è sempre stata la migliore posizione per la letteratura. Per qualcuno, a causa del mio comportamento sono stato un nemico mortale dell'Unione Sovietica, per altri un nemico giurato degli occidentali».

- Com'era l'Albania che lasciò nel 1990?
  «Era un paese peggiore dell'Unione Sovietica. Ma l'impressione era che fosse migliore perché si schierava contro l'Unione Sovietica. Da un lato brandiva la bandiera dell'occidentalismo, dall'altra quella dello stalinismo più feroce. Era un paese perso da entrambi i lati. Ma per il dittatore Hoxha era interessante questa posizione perché gli permetteva di comandare l'Albania come voleva».

- Come ha trovato l'Albania al suo ritorno?
  «E' un paese un po' anarchico, ma come tutti popoli balcanici è un paese di sognatori, e circola sempre la speranza che tutti i problemi possono superarsi. Molte cose sono poco chiare (estremismi da ogni lato) e diversi interventi che tentano di orientare la politica verso poli asiatici, Russia compresa. L'Albania è paese membro della Nato, ma alcune forze politiche sono contro l'alleanza Atlantica. Per questo è un paese caotico soprattutto nell'attuale congiuntura economica e, secondo me - sembrerà un paradosso ciò che dico - c'è anche troppa libertà per tutti».

- Lei, musulmano, è stato accusato di vedere favorevolmente l'esistenza di Israele. E' sempre dello stesso parere?
  Sono sempre della mia posizione. In Israele ho avuto anche un premio nonostante la polemica che circolava, se fosse opportuno premiare un musulmano, ma ciò che conta, per me, è l'onestà dei singoli, attraverso la quale si può giungere a sanare il diverbio collettivo che oppone popoli e religioni».

- A che cosa sta lavorando attualmente?
  «Sto scrivendo un saggio su Pasternak, su una voce diffusa dopo il Nobel: pare che fra lui e Stalin in passato ci fosse stata una telefonata di tre minuti. Che cosa si dissero? Per noi scrittori che abbiamo vissuto in paesi dittatoriali, soffrendo divieti di ogni genere, è interessante capire come si creano le leggende e i miti fra dittatori e scrittori. Mi sembra di assolvere un dovere, perché dopo aver vinto il Nobel in Unione Sovietica Pasternak era diventato un nemico giurato del comunismo e fu travolto da un'isteria collettiva, quasi patologica. Anche in Albania si calunniava Pasternak e avrei dovuto schierarmi contro di lui perché quello che aveva scritto - secondo loro - era un tradimento».

(Gazzetta di Parma, 7 febbraio 2018)


ONG israeliana e UNICEF insieme per il Camerun

Una ONG israeliana, Innovation: Africa, ha collaborato con UNICEF Camerun in un progetto per installare una innovativa tecnologia dell'acqua pulita e servizi sanitari per migliaia di persone provenienti dalla Repubblica Centrafricana.
La collaborazione è in vigore dallo scorso mese di aprile 2017, quando gli ingegneri hanno cominciato a individuare siti e costruire piani per i villaggi rurali selezionati.
Il progetto è stato lanciato dall'Ambasciatore israeliano in Camerun, Ran Gidor con l'obiettivo di cercare "partenariati sostenibili" che porteranno ad un efficace "cambiamento generazionale".
Il progetto è variegato e si concentra sul miglioramento delle strutture idriche e sanitarie per i più bisognosi. Un progetto di acqua pulita a energia solare, utilizzando la tecnologia israeliana, è stato installato nei villaggi della regione orientale consentendo l'accesso per tutti gli abitanti all'acqua pulita dei sotterranei acquiferi.
Il progetto ha anche fornito energia solare a tre centri medici - Garga Sarali, Tongo Gandima e Ngoura Central - come un modo per estendere fino alla notte gli accessi alle cure e ai farmaci.
Sivan Yaari, fondatore e amministratore delegato dell'Innovation: Africa, ha dichiarato in un comunicato stampa:
Sono così grato all'Ambasciatore Ran Gidor per averci presentato all'UNICEF e ringrazio la leadership del Camerun dell'UNICEF per la partnership con Innovation: Africa per portare l'assistenza necessaria a questi villaggi. Essere qui in Camerun e avere l'elettricità in centri medici e acqua pulita, mostra come possiamo cambiare il mondo lavorando insieme.


(SiliconWadi, 7 febbraio 2018)


Commento sullo scontro storico-diplomatico tra Polonia ed Israele

L'opinionista del canale israeliano ITON.TV Alexander Gur-Arie commenta il discorso del presidente polacco Andrzej Duda relativo alla firma degli emendamenti alla legge sull'Istituto di Memoria Nazionale.

La decisione del presidente della Polonia Andrzej Duda di firmare gli emendamenti sulla legge che regola l'Istituto di Memoria Nazionale suscita scalpore e reazioni negative in Israele. Di che cosa è colpevole Varsavia?
  In effetti gli emendamenti alla legge sull'Istituto di Memoria Nazionale della Polonia possono essere divisi in due parti.
In primo luogo viene reso punibile, anche con responsabilità penale, l'uso del termine "campi di sterminio polacchi". Questo termine è entrato in uso molto di recente, ma solo geograficamente. Le giovani generazioni in Europa, a proposito anche in Israele, quando sentono questa espressione restano sorpresi e non capiscono. Ma dopo tutto i "campi di sterminio polacchi" sono polacchi solo geograficamente. Tutti sanno che questi sono i campi di sterminio nazisti costruiti dalla Germania e tutte le attività al loro interno erano gestite dalla Germania.
Naturalmente c'erano dei collaborazionisti tra i polacchi, ma il termine "campi di sterminio polacchi" è usato in modo errato. Distorce la realtà nelle fragili menti delle giovani generazioni. La seconda parte degli emendamenti alla legge sull'Istituto di Memoria Nazionale, che ha causato le reazioni più calde, consiste nel fatto che è vietato incolpare il governo polacco e il popolo polacco per il genocidio del popolo ebraico
Il governo polacco è privo di colpe, semplicemente perché non c'era fisicamente: la Polonia era stata occupata dai nazifascisti, c'era un governo polacco in esilio a Londra. Inoltre il governo in esilio aveva ripetutamente chiesto ai leader dei Paesi europei di prestare attenzione a quello che la Germania nazista stava facendo in Polonia.
Ora non si può dire nemmeno che i polacchi abbiano aiutato i nazisti ed abbiano preso parte ai rastrellamenti e alle fucilazioni, ma questo non è scritto nella legge. I miei colleghi polacchi hanno tradotto i punti della legge. In effetti la legge proibisce di accusare il popolo polacco nel suo complesso. Allo stesso tempo nessuno nega che ci fossero dei collaborazionisti, che ci fossero dei complici dei fascisti e che ci siano stati dei processi: è successo in tutti i Paesi.
  Serve ricordare il termine "persone giuste dei popoli del mondo". Sono le persone che hanno salvato gli ebrei durante l'Olocausto. Il più grande numero di queste persone lo si conta tra i polacchi.
  Allo stesso tempo l'antisemitismo in Polonia c'è sempre stato, esiste ancora, è stupido negarlo. In certa misura, questa reazione della società polacca è scaturita dall'ondata di negatività proveniente da Israele. Il nostro ministro della pubblica istruzione Naftali Bennet doveva recarsi a Varsavia… La parte polacca ha annullato la visita, per molti aspetti per queste dichiarazioni. Ma per amore della giustizia, bisogna notare che la legge dice solo quello che c'è scritto.
  Probabilmente alcune formulazioni devono essere chiarite. Quando il nostro primo ministro ha parlato al telefono con la leadership polacca, hanno concordato di scrivere più correttamente alcuni passaggi in modo da non permettere ambiguità.
  In Israele e a Varsavia si parla del richiamo dell'ambasciatore israeliano in Polonia per consultazioni, ma spero che non accada. Penso che tutto si possa risolvere attraverso il dialogo. Le relazioni tra Israele e Polonia erano abbastanza buone. Credo che ci sia solo un malinteso dietro tutto questo, spero che tutto finirà solo con schermaglie verbali.

(Sputnik Italia, 7 febbraio 2018)


Pomponesco, un progetto per la sinagoga

Una tesi di laurea sul rilievo e sul progetto di recupero della sinagoga ottocentesca di Pomponesco (Mantova) che l'attuale proprietario intende alienare è stata oggetto di una presentazione pubblica nel teatro cittadino.
Curatrice del progetto la studentessa Yulie Hisi Panhoca, che appena poche settimane fa ha discusso una tesi di laurea sul tema presso il Polo mantovano del Politecnico di Milano, cattedra Unesco.
Come è stato ricordato nel corso della serata, che molti spunti ha offerto agli addetti ai lavori, la piccola comunità ebraica di Pomponesco si è estinta all'inizio del secolo scorso e oggi restano soltanto il cimitero, ben custodito, e la sinagoga che merita di essere riportata a nuova vita. L'iniziativa è avvenuta con la partecipazione del sindaco Giuseppe Baruffaldi, l'architetto Maria Grazia Basso Bert della Soprintendenza, dei docenti David Palterer e Andrea Adami, relatori della tesi, e del presidente della Comunità ebraica mantovana Emanuele Colorni, che ha fortemente sostenuto questa iniziativa.
Costante e proficua, è stato evidenziato, la collaborazione tra la Comunità ebraica e il Polo Universitario. Come testimonia tra gli altri, insieme all'UCEI, il progetto di recupero del cimitero antico nell'area San Nicolo, nell'ambito di Mantova Hub. Sempre la Comunità ebraica e la Fondazione Istituto Franchetti, con Aldo Norsa, stanno sostenendo il seminario internazionale del Polo con lo Shenkar College in Israele che avrà inizio domani ad Acri.

(moked, 7 febbraio 2018)


Israele bombarda anche il Sinai

Dove non arriva Il Cairo arrivano i jet di Tel Aviv

di Giovanni Galli

Dal 2015, un centinaio di raid aerei sono stati effettuati da Israele nel Sinai, con l'avallo del Cairo, contro le cellule dello Stato islamico. Da qualche tempo non era più un segreto.
   A più riprese, dall'estate del 2015, gruppi jihadisti attivi nella penisola egiziana del Sinai hanno accusato Israele di attacchi aerei contro di loro, secondo quanto ha riportato Le Figaro. I due paesi, Egitto e Israele, confinanti, hanno fatto di tutto per mantenere il riserbo sui dettagli e sull'ampiezza di questa campagna fino a che il New York Times li ha rivelati, secondo Le Figaro.
   Le testimonianze di alti responsabili americani e britannici hanno rivelato oltre un centinaio di attacchi condotti con droni, elicotteri da combattimento, o caccia israeliani che hanno preso di mira, negli ultimi due anni, cellule dello Stato islamico nel deserto del Sinai. Né lo Stato ebraico, né l'Egitto hanno reagito a queste affermazioni, secondo quanto ha riportato il quotidiano francese. L'esercito israeliano, dovendosi difendere dal lancio di razzi provenienti dal Sinai, ha fatto sapere che non avrebbe lasciato violare impunemente la propria sovranità dagli jihadisti che operano davanti alla sua frontiera.
   Un'incapacità dei militari egiziani di ristabilire l'ordine nel Sinai l'ha costretto progressivamente ad assumere un ruolo più attivo. Il colpo di stato del maresciallo Abdel Fattah al Sissi, nel cuore dell'estate 2013, poi la sua presidenza del paese hanno coinciso con un'intensificazione dell'insurrezione dei terroristi islamici nel Nord della penisola. Centinaia di militari egiziani sono stati uccisi. Il 31 ottobre 2015, un aereo russo decollato da Sharm el-Sheikh è stato distrutto da un attentato rivendicato da un ramo locale dello Stato islamico, l'Isis. I due paesi hanno allentato l'allegato 3 del trattato di pace firmato nel 1979. Gli elicotteri e gli F16 egiziani sorvolano liberamente la penisola del Sinai alla ricerca degli jihadisti.
   È accaduto che alcuni apparecchi egiziani siano entrati in territorio israeliano per errore, ma l'eccellente coordinamento fra i due eserciti, israeliano e egiziano, ha permesso di gestire gli incidenti senza che degenerassero. È pure è aumentata la trasmissione delle informazioni tra i militari egiziani e gli israeliani.
   In un certo numero di casi dove le forze armate egiziane non sono in condizioni di intervenire in tempo sulla base delle indicazioni fornite dagli israeliani è possibile che gli apparecchi israeliani procedano a degli attacchi in Sinai con l'accordo pieno delle autorità egiziane. Secondo il New York Times, ripreso da Le Figaro, questa collaborazione senza precedenti fra i due paesi, che si sono affrontati in tre riprese prima di siglare la pace nel 1979, è stata personalmente approvata dal presidente egiziano.

(ItaliaOggi, 7 febbraio 2018)


Polonia: il Presidente Duda firma la controversa legge sulla Shoah

Ma Duda la rinvia anche alla Corte Costituzionale per analisi. Israele prende atto.

Il presidente polacco Andreij Duda ha firmato la controversa legge sulla Shoah, ma ha anche deciso di rinviarla, per analisi, alla Corte costituzionale. Secondo l'ordinamento polacco, infatti, il Capo dello stato può chiedere un'opinione sulla costituzionalità di un testo legislativo sia prima che dopo la sua promulgazione.
Il presidente Andreij Duda ha detto, tra l'altro:
"Lo Stato e le istituzioni polacche, che non esistevano al tempo dell'Olocausto, non hanno preso parte all'impresa di sterminio condotta dalla Germania, le istituzioni polacche non hanno collaborato con i tedeschi. In molti Paesi ci sono stati governi filo-nazisti o governi fantoccio nominati dalla Germania nazista, questo non è accaduto in Polonia."

 Israele 'prende atto'
  Israele ha espresso critiche perché la legge vieta di associare in qualunque modo i polacchi al concetto di 'soluzione finale', ma prende atto della decisione di far esprimere anche gli Alti giudici e ne attende il pronunciamento.
E c'è una polemica nella polemica: la prevista visita del ministro dell'educazione israeliano Naftali Bennett a Varsavia è stata cancellata, proprio perché Bennett avrebbe parlato di responsabilità polacche, almeno individuali, nella Shoah.

(euronews, 7 febbraio 2018)


Due sale al Louvre per esporre le opere trafugate dai nazisti

Si cercano i proprietari

di Ida Bozzi

Un'iniziativa senza precedenti dagli anni Cinquanta a oggi: al Louvre, due sale esporranno in modo permanente 31 tele depredate dai nazisti alle famiglie ebree francesi. L'esposizione dovrebbe consentire ai legittimi proprietari, o ai loro eredi, di riconoscere i dipinti esposti al pubblico e avviare le pratiche per la restituzione. Altre 76 opere della medesima provenienza sono esposte nella collezione permanente del Louvre. Caratteristica la targhetta dei dipinti, con la sigla «Mnr» (Musées Nationaux Récupération) accompagnata dalla scritta «affidato alla custodia del museo, in attesa della restituzione ai legittimi proprietari». «Il nostro obiettivo - afferma il direttore del dipartimento di pittura del Louvre, Sébastien Allard - è restituire quanto possiamo. Siamo consapevoli che queste opere non ci appartengono». Tra i dipinti si trovano lavori di epoche diverse, dalla ritrattista di Maria Antonietta, Élisabeth Vigée- Le Brun, al romantico Théodore Rousseau. Le opere «Mnr» sono elencate sul catalogo di Rose Valland, la conservatrice che ispirò un personaggio del film Monuments Men sul recupero delle opere trafugate (oltre 2 mila delle quali ancora non sono state restituite ai legittimi proprietari).

(Corriere della Sera, 7 febbraio 2018)


L'Egitto apre per tre giorni il valico di Rafah

IL CAIRO - L'Egitto aprirà oggi il valico di Rafah al confine con la Striscia di Gaza. Lo riferisce l'ambasciata palestinese al Cairo. Il valico resterà aperto fino a venerdì, 9 febbraio, in entrambe le direzioni. L'apertura del valico è avvenuta l'ultima volta lo scorso dicembre, dopo essere stata rimandata più volte a causa dell'attentato terroristico che ha colpito la moschea di Rawda, nel Sinai settentrionale, a novembre 2017. Il valico di Rafah consente alla popolazione di Gaza di recarsi all'esterno dell'enclave palestinese per soddisfare necessità primarie. Le autorità egiziane razionano le aperture del valico per timori legati alla sicurezza. Il movimento palestinese di Hamas, che governa la Striscia di Gaza, è stato ideologicamente legato al gruppo Stato del Sinai (Wilayat Sinai) ritenuto responsabile dal Cairo degli attacchi nel Sinai settentrionale.

(Agenzia Nova, 7 febbraio 2018)


Israele, Hamas alza il tiro e decide di colpire i religiosi

Il movimento islamista cambia strategia. Caccia all'uomo in Cisgiordania

9 gennaio
Ucciso a colpi di pistola il rabbino Shevach
5 febbraio
Ucciso a coltellate il rabbino ltamar Ben-Gal

di Giordano Stabile

 
Il rabbino Raziel Shevach con la sua famiglia
Le forze di sicurezza israeliane individuano e uccidono il killer del rabbino Raziel Shevach e intanto scatta una gigantesca caccia all'uomo per trovare anche l'assassino di un altro religioso, Itamar Bel-Gal, accoltellato a morte lunedì. La distruzione delle cellule di Hamas che hanno compiuto gli attacchi è la priorità dello Shin Bet, i servizi interni dello Stato ebraico, perché il timore è che i gruppi islamisti in Cisgiordania abbiamo lanciato una Intifada contro le figure religiose. Non più attentati a caso, ma mirati, per indebolire le comunità ebraiche negli insediamenti nei Territori, al centro più che mai del conflitto fra Israele e i palestinesi.

 Il blitz
  Il blitz di ieri ha rimediato a un parziale errore in una operazione del 17 gennaio, quando lo Shin Bet pensava di aver eliminato Ahmed Nasser Jarrer, responsabile dell'omicidio del rabbino Shevach, ucciso a colpi di pistola il 9 gennaio mentre guidava lungo la Route 60 alle porte di Nablus. Nel raid le forze di sicurezza israeliane in realtà avevano colpito a morte il suo complice, dal nome quasi identico, Ahmed Ismail Muhammed Jarrer.
  Ahmed Nasser Jarrer era però molto più importante, il ricercato numero uno in Cisgiordania. Figlio di un dirigente di Hamas ucciso durante la Seconda Intifada, aveva un ruolo decisivo nel lancio della Terza, proclamata dal movimento islamista dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Donald Trump. Ieri all'alba Jarrer è stato individuato nel villaggio di Yamun, vicino a Jenin: è uscito dal covo con un fucile mitragliatore M-16 ed è morto nel conflitto a fuoco. Ne è seguita una battaglia con centinaia di giovani che lanciavano pietre sui militari, finita con nove feriti da gas lacrimogeni e proiettili di gomma.

 Il governo
  Il premier Benjamin Netanyahu, in visita sul Golan, si è complimentato «per la complessa operazione» ma ha subito ribadito che la caccia continua perché bisogna trovare chiunque «attacchi cittadini israeliani» e in particolare il killer «del rabbino Itamar Ben-Gal». La sua uccisione, lunedì, ha suscitato nello Stato ebraico una emozione ancora più forte. Ben-Gal, ventinovenne, si trovava a una fermata dell'autobus alle porte dell'insediamento di Har Bracha, a pochi chilometri da Gerusalemme, quando un palestinese, identificato nel 19enne Abed al-Karim Adel Asi, lo ha accoltellato per poi fuggire. Centinaia di poliziotti di frontiera e militari stanno rastrellando i villaggi arabi vicini.
  Ai funerali, ieri, hanno partecipato migliaia di persone e al lutto si è unito l'ambasciatore americano in Israele, David Friedman, con un messaggio su Twitter che è anche un duro attacco alla leadership palestinese: «Vent'anni fa ho donato una ambulanza ad Har Bracha, nella speranza che potesse aiutare a far nascere bambini in sicurezza, ora però un uomo è stato assassinato ad Har Bracha da un terrorista e i leader palestinesi plaudono al killer». Se Hamas ha approvato esplicitamente, anche senza rivendicare, le azioni dei terroristi, dal presidente Abu Mazen non sono arrivate parole di condanna.

(La Stampa, 7 febbraio 2018)


Abed al-Karim Adel Assi, il terrorista ricercato

Abed al-Karim Adel Assi
Abed al-Karim Adel Assi, il terrorista ricercato per l'assassinio lunedì vicino ad Ariel del rabbino Itamar Ben-Gal, è un cittadino israeliano 19enne di Giaffa (Tel Aviv), figlio di un palestinese di Nablus e di una israeliana di Haifa. Abbandonato dai genitori e con problemi di tossicodipendenza, Adel Assi ha trascorso gli ultimi anni vivendo per strada e in diversi istituti per giovani senzatetto. I servizi sociali israeliani hanno ripetutamente cercato di aiutarlo, ma nessuna delle soluzioni offerte è durata più di qualche mese.
Adel Assi ha trascorso tre mesi in una casa-rifugio per adolescenti a rischio nel quartiere di Neve Tzedek, a Tel Aviv, gestito dall'organizzazione non-profit Shanti House, ma se ne andò quando il personale lo esortò a diradare le visite a suo padre a Nablus perché rischiava di essere strumentalizzato da elementi ostili. "Shanti House accoglie oltre 1.500 ragazzi all'anno senza distinzioni di religione, etnia o genere - ha detto a YnetNews Halit Levy, coordinatrice dell'istituzione - Qui ci sono ebrei, arabi, musulmani, cristiani, eritrei, etiopi, gay e lesbiche. Sono 50mila i ragazzi che sono passati da Shanti House e non abbiamo mai visto niente di simile".
Adel Assi ha trascorso anche sei mesi in un rifugio per senzatetto a Tel Aviv gestito dalla ong ELEM, e venne preso in cura dai servizi sociali di Haifa trascorrendo un certo tempo in varie case-rifugio sotto la supervisione del Ministero del welfare.
In tempi recenti la pagina Facebook di Adel Assi si era riempita di elogi a Saddam Hussein e Ahed Tamimi, frasi inneggianti ai "martiri" e alla fine del sionismo e video con palestinesi che sparano in aria come sfoggio di forza.
Martedì la madre ha lanciato un appello dicendo alla tv Canale 10: "Mio figlio non ha il diritto di colpire nessuno; condanno quello che ha fatto e lo esorto a consegnarsi perché quello che ha fatto non aiuterà nessuno, anzi, ha rovinato se stesso e tutto". La madre ha anche detto che il figlio le venne portato via 40 giorni dopo la nascita: "L'ho rivisto solo 16 anni dopo e non potevo credere che fosse mio figlio".

(israele.net, 7 febbraio 2018)


Itamar, vittima dell'odio

Itamar Ben Gal con la moglie Miriam
Nell'insediamento di Har Bracha, nel nord della Cisgiordania, centinaia di persone hanno preso parte nelle scorse ore al funerale di Itamar Ben Gal, 29 anni, il cittadino israeliano assassinato in un attentato terroristico nei pressi della cittadina di Ariel. Ben Gal, insegnante in una yeshiva e padre di quattro figli, è stato ucciso a coltellate da Abd al-Hakim Adel Asi, diciannovenne arabo israeliano di Jaffa. Il giovane attentatore è riuscito a fuggire e al momento le forze di sicurezza lo stanno cercando. Le autorità israeliane hanno invece nella notte ucciso Ahmad Nassar Jarrar, il terrorista considerato responsabile dell'attentato del 9 gennaio in cui è stato assassinato rav Raziel Shevach, nei pressi dell'avamposto di Havat Gilad, in Cisgiordania. Quest'ultimo attentato, legato al movimento di Hamas, è diverso da quello di cui è rimasto vittima Ben Gal: in questo secondo caso non c'è una diretta affiliazione e la madre dell'attentatore ricercato nelle scorse ore ha lanciato un appello affinché si costituisca alle autorità.
"Ti prometto che saremo forti. Continuerò a crescere i nostri figli, e vivremo con gioia, come volevi tu", le parole della moglie di Ben Gal, Miriam, nel corso del funerale. "Abbiamo ricevuto un dono prezioso circa 30 anni fa, e oggi ci dividiamo da questo dono con grande dolore", ha affermato Daniel Ben-Gal, padre di Itamar. "Non abbiamo idea di come continuare senza di te, senza il tuo sorriso, senza il tuo bel volto, che irradiava sempre gioia. La tua gioia di educare le prossime generazioni in Israele illuminava il tuo volto".
"Abbiamo perso il rabbino Itamar, che ha dedicato tutta la sua vita all'educazione e ha illuminato il mondo con la sua grazia", ha affermato Yuli Edelstein, portavoce della Knesset, presente al funerale.

(moked, 6 febbraio 2018)


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Israeliano ucciso in Cisgiordania, Hamas esulta

GERUSALEMME - Un israeliano è stato accoltellato a morte nei pressi dell'insediamento ebraico di Ariel. L'autore dell'attacco è un 19enne arabo israeliano che è riuscito a fuggire subito dopo, nonostante la caccia all'uomo avviata dalle forze di sicurezza israeliane. L'agguato ha subito fatto risalire la tensione nella regione, con Hamas che da Gaza ha immediatamente lodato l'attacco come dimostrazione che non si ferma «l'Intifada di AlQuds», come in arabo è chiamata Gerusalemme, scatenatasi all'indomani della dichiarazione di Trump sulla città. Itamar Ben Gal, 29 anni, padre di 4 figli e insegnante in una scuola religiosa, è stato colpito mentre era fermo ad una stazione di autobus all'ingresso di Ariel. In un video, mostrato dai media israeliani, si vede l'aggressore scendere da un taxi, dirigersi verso Ben Gal e colpirlo ripetutamente. La vittima ha provato a fuggire, ma, raggiunto di nuovo, è stato ferito altre volte.
Quello di ieri è il secondo attacco in meno di un mese in Cisgiordania: lo scorso 9 gennaio il rabbino Raziel Shevaeh (35 anni) fu ucciso da colpi d'arma da fuoco sparati da una cellula palestinese di Jenin legata ad Hamas che è stata sgominata lo scorso 18 gennaio dall'esercito.

(La Stampa, 6 febbraio 2018)


1968, i carri armati a Praga convinsero noi ebrei a lasciare l'Unione Sovietica

Dopo nove anni di gulag, dall'86 l'ex leader dei "refusenik", Natan Sharansky, vive in Israele. "Capimmo che non poteva esistere un comunismo dal volto umano".

Speravamo che la Primavera trionfasse per proporre al mondo un modello nuovo di socialismo L'Occidente restò passivo per ragioni di Realpolitik: allora tutti gli equilibri erano basati sulla paura Proprio questo era il messaggio lanciato all'Occidente: smettetela di avere paura, fate pressione Lo stesso, se non peggio, accade oggi con alcuni regimi totalitari. L'.accordo con l'Iran è scandaloso

di Elena Loewenthal

 
 
Sono passati cinquant'anni da quella Primavera di Praga che fu nella realtà una lunga stagione di lotta, di speranze e disillusioni. Per Natan Sharansky non è solo una questione di tempo, ma anche e forse soprattutto di mondi che ha attraversato da allora in poi. Il cammino a ritroso nella sua biografia è quasi vertiginoso: dal 2009 è presidente della Agenzia Ebraica, è stato parlamentare del Likud, ministro di vari dicasteri fra cui l'Interno e il ministero per i Rapporti con la Diaspora, vice primo ministro d'Israele, dove è arrivato nel 1986 dall'Unione Sovietica dopo una lunga battaglia per la libertà propria e altrui che gli è costata lunghi periodi di detenzione e 9 anni nel gulag di Perm. Natan Sharansky è stato il leader, anzi l'icona del movimento dei refusenik, i dissidenti ebrei dell'Urss che insieme alla democratizzazione invocavano la libertà di emigrare in Israele.

- Che ricordi ha della Primavera di Praga? Che cosa ha significato quel periodo per la dissidenza in Russia?
  «È passato molto tempo ... Non sono in grado di dare valutazioni politiche su quello che successe allora, ma i ricordi personali, i sentimenti sono assai vivi. Ero un giovane studente all'università, a Mosca, frequentavo la facoltà di matematica in una università prestigiosa, il che era di per sé un fatto eccezionale per un ebreo. Gli ebrei erano sempre in una posizione "critica", fragile. Io sognavo una carriera nel campo delle scienze. Tra la fine del 1967 e i primi mesi del 1968 avevamo gli occhi puntati su Praga: c'era grande speranza. C'era soprattutto l'illusione che potesse esserci un'altra via, che potesse esistere un comunismo diverso, "dal volto umano". E se questo era possibile, doveva cominciare proprio dall'Europa. Guardavamo con attenzione a Occidente, sperando nella costruzione di un socialismo più aperto. Se ne discuteva, fra studenti. Ma c'era al tempo stesso paura: paura di sollevare il dibattito pubblicamente e paura che la via di un socialismo dal volto umano non fosse praticabile. Era dunque una condizione ambivalente, quella di noi studenti, giovani scienziati, dissidenti in Unione Sovietica».

- Che cosa per l'appunto ha significato per il movimento dei dissidenti, la Primavera di Praga? Quanto li ha formati, posti di fronte alla realtà e alla necessità di cambiarla?
  «Quanto avremmo potuto resistere, qual era la forza della dissidenza? Sono le domande che ci siamo posti di fronte agli eventi che hanno segnato la Primavera di Praga. Ma la nostra grande fonte di ispirazione, la nostra guida era Sacharov. Mentre i carri armati sovietici arrivavano a Praga, nell'agosto del 1968, lui scriveva che la scienza non può esistere senza la libertà: le sue Considerazioni sul progresso, la coesistenza pacifica e la libertà intellettuale sono state la Bibbia di noi dissidenti, in particolare di coloro tra noi che credevano nella scienza. Ci diedero la certezza che le cose non potevano andare avanti in quel modo. Grazie a lui abbiamo capito che non si doveva più tacere. A costo di andare in prigione ... Allora pensavamo ancora nella possibilità di un'altra via dentro il comunismo, speravamo che la Primavera di Praga trionfasse per proporre al mondo un modello nuovo di socialismo, più aperto, compatibile con i diritti civili. Poi è venuta la disillusione, anche se nella realtà c'è sempre stato in noi, sin dall'inizio della rivolta, un fondo di scetticismo».

- Quanto hanno influito i fatti di Praga nella dissidenza ebraica, nel movimento dei refusenik che andava in cerca di una via d'uscita, politica e fisica dal comunismo e dal suo terrore?
  «Il movimento ebraico era già "formato" a quell'epoca. Esisteva già, ma Praga ha dato un impulso molto forte. Due erano per noi le strade: andare via o darsi alla dissidenza attiva. Allora la pressione per uscire divenne più forte, alla fine della Primavera di Praga c'era in tutti ma più che mai nei dissidenti ebrei la certezza che in Russia non ci fosse più alcuna speranza».

- Come si spiega allora la passività dell'Occidente e in particolare dell'Europa di fronte alla repressione sovietica? Come avrebbero dovuto e dovrebbero reagire le democrazie di fronte alle aggressioni - interne ed esterne - dei regimi totalitari?
  «Allora era una questione di Realpolitik. La passività dell'Occidente testimonia quanto fosse "profondo" e consolidato il regime sovietico. Le potenze occidentali un po' non hanno capito, un po', quando hanno capito, hanno avuto paura. Tutti gli equilibri di allora erano controllati dalla paura. E proprio questo era il messaggio che la dissidenza ha invano lanciato all'Occidente: smettetela di aver paura, fate pressione. Si può. Si deve. Lo stesso, se non peggio, accade oggi con regimi totalitari quali l'Iran. L'accordo con l'Iran è scandaloso non tanto per la questione nucleare, quanto per la cascata di dollari che comporta a fronte del silenzio sui diritti umani calpestati. Senza contare che l'accordo non ha neanche scalfito il lessico della propaganda di regime, la sua retorica contro l'Occidente: l'Iran continua a parlare dell'America come del male assoluto. E invece il primo passo per aiutare la dissidenza a conquistare la libertà dovrebbe essere non collaborare con i regimi totalitari, in alcun modo».

(La Stampa, 6 febbraio 2018)


Polonia: un passo in avanti verso l'isolazionismo

di Diego Audero

La Polonia di Legge e Giustizia ha fatto un ulteriore passo in avanti nel sentiero dell'isolazionismo internazionale.
   Dopo le pretese di risarcimenti alla Germania per i danni subiti durante la seconda guerra mondiale, il perenne fronte aperto con Bruxelles sulla questione immigrati, le scaramucce frequenti con l'Ucraina per i conti storici ancora aperti (sempre che lo siano davvero) ed i flussi migratori con l'apertura dei visti verso la UE; il governo di Varsavia getta sale sulla ferita ancora non rimarginata con Israele.
   Il varo della nuova legge che condanna a tre anni di reclusione chiunque sostenga che i campi di sterminio della seconda guerra mondiale fossero polacchi e non tedeschi ha causato una vera e propria tempesta geopolitica dalla quale Varsavia, schiacciata tra necessità di consenso interno ed isolamento esterno, sembra non trovare via di uscita.
   Il proposito della legge può sembrare a primo acchito sacrosanto: benché geograficamente ubicati entro le frontiere della Polonia post-guerra, i campi di sterminio nazisti furono prodotto della pazzia del Reich. In una approssimativa ricerca che ho potuto compiere, nel 2016 l'espressione "Campi di sterminio polacchi" è apparsa nella stampa ben 56 volte, delle quali 7 in Italia. In tutti i casi che ho potuto trovare, tuttavia, la dicitura sembra avere più carattere geografico che non revisionista. La qual cosa, a mio avviso, non giustifica l'ignoranza del giornalista, ma nemmeno tre anni di carcere.
   Eppure basta scorrere il testo della legge per comprendere il vero pericolo: per incappare nella tagliola della giustizia polacca sarebbe infatti sufficiente mettere anche solo in dubbio una qualsivoglia collaborazione dei polacchi con i nazisti nel corso dello sterminio.
   Ora, detto che la Polonia ha dato il più alto tributo di sangue, detto che la Polonia detiene, e con differenza, il maggior numero dei "Giusti", detto che la Polonia è la terra di Tadeusz Pankiewicz, Irena Sendler, Janusz Korczak, Witold Pilecki … e detto che si potrebbe continuare questa lista per altre quattro pagine; ebbene detto tutto questo, gli storici hanno già dissotterrato da sotto il manto dell'oblio molti casi di partecipazione attiva di parti della società polacca nell'uccisione di ebrei. Soprattutto nell'Est del paese, in casi molto simili a quanto sia avvenuto in Lituania e Bielorussia.
   E che questi casi, così come quelli ancora da portare a galla, non cambierebbero nulla rispetto all'assioma di cui sopra, ossia che lo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale sia un fatto che pesi sulla coscienza dei soli nazisti o al massimo, per dirla con Baumann, su quella dell'umanità moderna nella sua interezza.
   Logico pensare quindi che tale legge impedisca una ulteriore analisi di questi casi soprattutto ad opera di giovani storici o giornalisti che non siano protetti da strutture universitarie o grandi giornali.
   Essendo una legge impossibile da applicare - come arrestare un giornalista finlandese? Portare alla sbarra un sopravvissuto dell'olocausto che accusa un vicino di casa di collaborazionismo? - risulta evidente come l'obiettivo del partito di Jarosław Kaczynski sia gettare benzina sul già infuocato sentimento di nazionalismo che divide il paese e spostare l'attenzione dalla scandalosa riforma della giustizia che ha fatto reagire muscolosamente Bruxelles.
   Mentre Israele reagisce in modo deciso, e a mio avviso esagerato ed esacerbato anch'esso da lotte interne al governo Netanyahu, mentre gli Stati Uniti minacciano il ritiro dell'ambasciatore se il pavido presidente Duda controfirmasse la legge rendendola effettiva, in Polonia sembra essere saltato il coperchio al vaso di Pandora di un antisemitismo latente da anni.
   Era infatti dalla fine degli anni sessanta, dall'epoca di Gomułka, che non si vedevano nella società manifestazioni così dichiarate di antisemitismo, con scandalosi fiumi di parole sui social, deputati della maggioranza che si producono in dichiarazioni contro Israele e manifestazioni pubbliche di antisemitismo nelle piazze. Tutto ciò peraltro in un contesto già di per sé reso incandescente dalle manifestazioni fasciste di parte delle marce in occasione della festa nazionale dell'11 di novembre, della scoperta fatta dalla tv indipendente di incontri inneggianti ad Hitler e celebrati nei boschi della Slesia ai quali ai quali hanno partecipato personaggi legati, direttamente o indirettamente, alle ali più estreme del governo in carica.
   Il rimpasto di governo del mese scorso ha reso possibile l'eliminazione delle figure più controverse del governo, ma sembra solo un trompe-l’œil volto a calmare gli animi del mondo occidentale mentre il governo solletica all'interno del paese il lato più revanscista di una società che, per dirla come l'ex presidente Aleksader Kwasniewski, ancora non ha superato i traumi e i complessi del proprio passato.
   Non resta che attendere la decisione del presidente Duda. Ma per le relazioni internazionali della Polonia non sarà una firma o meno a dissipare le nere nuvole di tempesta che si addensano su Varsavia e rischiano di rimanervi per molti decenni. Già, quella stessa Varsavia resa celebre nel mondo dalle pagine in Yiddish dei fratelli Singer .
   
(Avanti!, 6 febbraio 2018)


Polonia: rinviata la legge sulla Shoah

Israele prende nota

Israele "ha preso nota che il presidente polacco ha sottoposto la legge alla Corte costituzionale per chiarimenti e emendamenti". Lo dice il ministero degli affari esteri israeliano dopo la decisione di oggi di Andrzej Duda. "Speriamo che in un tempo determinato fino a che la Corte concluda le sue deliberazioni, riusciremo a trovare un'intesa - ha aggiunto - sui cambi e sulle correzioni".
Israele e Polonia "hanno una comune responsabilità di indagare e preservare la Storia della Shoah".

(ANSAmed, 6 febbraio 2018)


"Accoglieva i profughi ebrei. Genova ha gli anticorpi contro fascismi e razzismi"

di Michela Bompani

 
Lia Levi
«Genova accolse molti profughi. È una città accogliente, lo è sempre stata. Così come è sempre stata antifascista»: Lia Levi, 87 anni, scrittrice e giornalista, parla di profughi nel 1939. Erano gli ebrei che fuggivano da Germania ed Austria e che trovarono ospitalità nelle case degli ebrei genovesi, prima di ripartire e cercare di mettersi in salvo. Nel pieno delle leggi razziali, vennero accolti e nascosti. Lia Levi illumina questo settore meno conosciuto della storia di Genova nel libro "Questa sera è già domani" (edizioni e/o), appena pubblicato e già in ristampa e avviato sul podio dei principali premi letterari italiani, a cominciare dallo Strega. Racconta la storia di suo marito, Luciano Tas, e della sua famiglia ebraica che abitava a Genova, prima di fuggire dalle persecuzioni, nel' 43, in Svizzera. Levi sgrana temi e scandisce scenari che si specchiano, urgentemente, con ciò che sta accadendo in Italia e in Europa.

- Lia Levi, dice che Genova è sempre stata antifascista. Suo marito dovette fuggire, però. E forse qualcosa sta cambiando anche in questo momento storico.
  «Perché è un momento di grande crisi, ci sono tanti nuovi megafoni che fanno rimbombare messaggi d'odio. Penso ai social, dove addirittura si gioca, si scherza con l'odio. Ma la civiltà è fatta del contrario, respinge l'odio. Penso che si dovrebbero fermare le nuove associazioni di ispirazione fascista».

- Il presidente genovese di Anpi, Massimo Bisca, ha chiesto al ministro della Giustizia Andrea Orlando di sciogliere i gruppi neofascisti: è d'accordo?
  «Credo che tutto ciò che nasce di nuovo, con quell'ispirazione, debba essere fermato. C'è un nuovo fermento negativo, dopo Casapound, ne possono nascere chissà quante, si moltiplicano e vanno fermate. Si alimentano della difficile vicenda della gestione dei migranti, parlano agli istinti delle persone».

- Com'è successo a Macerata?
  «Non vorrei ascoltarle, certe notizie. Come la nuova legge in Polonia. Ma invece dobbiamo costringerci a farlo. Ti toccano dentro. Mi ricordo quando si sentivano vicende del genere, negli Stati Uniti, e si allontanava la paura dicendo che in Italia una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere. Proprio come dicevamo noi, nel 1938».

- Cosa si diceva?
  «Che quello che accadeva in Germania qui non sarebbe mai potuto succedere: e invece. E anche adesso diciamo: e invece».

- Nel suo libro ricuce le storie di profughi ebrei che vennero accolti nelle case genovesi: ci sono quartieri, oggi, a Genova, come Multedo dove gli abitanti hanno organizzato fiaccolate contro l'arrivo di profughi.
  «Per non lasciare agli impulsi la valutazione sulla questione dei migranti, occorrerebbe una gestione vera e un'integrazione vera, perché tenere queste persone "sospese" per molti mesi, li spinge, inevitabilmente, ad andare per strada, a chiedere l'elemosina, diventare facile preda della malavita. La soluzione francese, di qualche tempo fa, di ammucchiarli nelle banlieue, non ha fatto che creare dei ghetti. Nei quali neppure la polizia entra più. E in Italia di ghetti ce ne sono stati fin troppi. Se ci fosse vera ed efficace inclusione, il problema non esisterebbe o almeno non esisterebbe il rigurgito che li respinge».

- Anche suo marito fu respinto.
  «Sì, nel libro racconto quando la famiglia, fuggita da Genova, tentò di passare in Svizzera, ma in un primo tempo furono respinti. Ricacciati nell'inferno. Poi riuscirono finalmente ad entrare».

- A Genova 5000 persone sono scese in piazza per difendere la sua radice antifascista e a Sestri Levante una manifestazione analoga ha riunito centinaia di persone, solidali con la sindaca minacciata dopo aver approvato la delibera che vieterà la concessione di spazi pubblici a formazioni neofasciste: perché c'è nuovamente bisogno di scendere in piazza per questo?
  «Perché è ora di smetterla di fare la parte dei democratici fiduciosi. Ciò che pareva impensabile è successo. É ora di scendere in piazza, invece, per ciò che più è importante: si sente ribollire la terra, con queste nuove vene di stampo fascista. É necessaria una risposta compatta, ferma, enorme. Altrimenti ci troveremo schiacciati. Genova è la città del 30 giugno del 1960: sì Genova li ha gli anticorpi contro il fascismo, li ha ancora».

- Qual è il punto del libro cui lei è più affezionata?
  «C'è un passaggio che trovo fondamentale per raccontare quello a cui dobbiamo stare attenti. La famiglia, tutta, si riunì a un certo punto a Livorno, per decidere cosa fare: c'era chi non voleva andarsene per non lasciare la propria casa, chi pensava che alla fine non sarebbe potuto accadere nulla e chi invece diceva di scappare. Per gli ebrei osservanti era più facile capire, nella follia, i motivi della discriminazione. Ma per gli ebrei laici, invece, era sconcertante. Erano semplicemente italiani. Mio nonno aveva combattuto come italiano, come ufficiale, nella prima guerra mondiale».

- Di Genova, cosa diceva suo marito?
  «Aveva questa città dentro. Per questo la amava e la odiava. A volte ne parlava malissimo (ride), come a volte si parla di un amore che ti fa arrabbiare».

(la Repubblica, 6 febbraio 2018)


Stato d'assedio

Più di cento attacchi in Siria, più di cento attacchi nel Sinai. La doppia guerra silenziosa di Israele

ROMA - Scrive l'ex corrispondente del New York Times al Cairo, David Kirkpatrick, che droni, elicotteri da guerra e jet di Israele hanno colpito per più di cento volte le posizioni dello Stato islamico nel Sinai, per aiutare l'Egitto nella guerra al gruppo terroristico, a partire dal 2015 - grazie a un accordo segreto con il presidente Abdel Fattah al Sisi. I guerriglieri islamisti infestano la penisola desertica del Sinai, posta tra il resto dell'Egitto e il confine sud di Israele, dove in virtù di accordi di pace risalenti agli anni Settanta entrambi gli stati non dovrebbero fare manovre militari. Invece entrambi violano quelle vecchie misure di sicurezza e danno la caccia agli uomini del cosiddetto Wilayat Sinai (si pronuncia Sainà in arabo), la divisione locale dello Stato islamico nata nel novembre 2014. Israele non riconosce dal punto di vista ufficiale queste operazioni militari, come fa anche con i bombardamenti contro le posizioni del gruppo Hezbollah in Siria, ma secondo le fonti sentite dal New York Times ha colpito "più di cento" volte. Che Israele desse la caccia agli uomini dello Stato islamico nel Sinai non era più un segreto per nessuno da tempo, ma colpisce questo numero dato per la prima volta, "più di cento", perché è lo stesso numero fornito da un generale israeliano pochi mesi fa quando ha descritto anche in quel caso per la prima volta i bombardamenti però in Siria, cominciati nel gennaio 2013.
   Questo vuol dire che da anni l'aviazione israeliana colpisce in media ogni dieci giorni sul versante egiziano contro lo Stato islamico e ogni diciotto giorni sul versante siriano per mitigare la minaccia dell'Iran e dei suoi alleati. E' una doppia campagna di guerra che va avanti senza troppo rumore ma rende l'idea di pericoli permanenti, di una situazione minacciosa, che se non fosse tenuta sotto controllo diventerebbe pure peggiore e finirebbe per assomigliare a uno stato d'assedio. L'esercito egiziano ha subito negato la cooperazione, perché i governi arabi sono spesso in grave imbarazzo a spiegare che fanno accordi con il governo di Gerusalemme dopo decenni spesi in durissima propaganda anti israeliana. Del resto l'Egitto vive in questa stagione una difficoltà particolare a essere rappresentato come vorrebbe, vedi per esempio il caso delle elezioni, dove il presidente al Sisi stenta a trovare uno sfidante credibile, oppure il caso dell'omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni, rimasto impunito. Ma questa intesa militare nel Sinai fa parte di un cambiamento generale che riguarda tutta la regione, ci sono stati segnali di disgelo importanti tra Israele e l'Arabia Saudita per esempio. E' probabile che i droni israeliani colpissero nel Sinai anche prima dell'accordo del 2015, soprattutto dopo l'attacco islamista che nell'agosto 2012 uccise otto soldati israeliani su un bus vicino al confine, ma secondo la solita procedura non ci sono informazioni ufficiali.

(Il Foglio, 6 febbraio 2018)


Ora Assad rassicura Netanyahu (sotto il consiglio della Russia)

di Davide Malacaria

Israele ha più volte espresso preoccupazione per la presenza di milizie iraniane e di Hezbollah in Siria, a ridosso dei suoi confini.
Dare una risposta a tali preoccupazioni è vitale per tentare di trovare una soluzione al conflitto siriano che dura ormai da sei anni.
Per questo appare rilevante quanto riferisce il 5 febbraio una nota di Debkafile, che riporta informazioni provenienti dall'intelligence israeliana.
«La scorsa settimana», scrive Debka «un intermediario europeo ha segretamente consegnato al primo ministro Netanyahu una nota personale del presidente siriano Bashar Assad. "Non cerco la guerra. Tutto ciò che voglio è concentrarmi sulla riunificazione della Siria e sulla ricostruzione delle rovine causate dalla guerra"».
Quindi «una frase chiave»: La Siria «è una nazione sovrana. Non consegneremo i nostri confini al controllo di forze diverse da quelle siriane».
Secondo Debka tali parole indicano che le forze di Hezbollah che «combattono in Siria non sarebbero state autorizzate a schierarsi ai confini» di Israele.
«Il giorno seguente», continua Debka, «è arrivata sulla scrivania di Netanyahu, una seconda nota segreta, inviata dal presidente libanese Michel Aoun», il quale assicurava «che non ci sono industrie missilistiche iraniane in Libano - né il governo libanese avrebbe permesso la loro installazione in futuro».
La realizzazione di industrie missilistiche iraniane in Libano, infatti, è un'altra fonte di preoccupazione per Israele, dal momento che offrirebbe a Hezbollah la possibilità di ottenere con facilità armamenti sofisticati.
Tali messaggi sono giunti in Israele a seguito della visita in Russia di Benjamin Netanyahu del 29 gennaio.

(Gli occhi della guerra, 6 febbraio 2018)


Torino - Valigie per ridere e ricordare

 
Su quattro pile di vecchie valigie viene posata una valigia aperta, contenente uno schermo su cui sono proiettate testimonianze di diverse persone che raccontano in ebraico, yiddish, italiano, spagnolo e francese, battute, storielle e tradizionali witz. Gli ebrei di tutto il mondo ridono di se stessi, degli altri, del passato e un po' anche del futuro. Così si presenta l'installazione dell'artista Thierry Forte che sarà inaugurata oggi (ore 18.00) al Polo del '900 di Torino: un progetto - curato da Sarah Kaminski, docente di ebraico dell'Università di Torino, promosso da Polo del '900, Istituto di studi storici Gaetano Salvemini con la collaborazione di Comunità ebraica di Torino, Gruppo di Studi Ebraici - che vuole raccontare attraverso le valigie e l'ironia storie complicate come quelle di uomini e donne costretti a scappare dalle persecuzioni. "L'idea di questa installazione - spiega l'artista, fotografo, produttore e sceneggiatore colombiano - è di riunire in un solo spazio-oggetto più di 300 storie e barzellette ebraiche, in sei lingue diverse. Sono raccolte in tablet inseriti all'interno delle valigie del nonsense. Grazie alla tecnologia, la registrazione dei volti della gente e dei loro racconti è spontanea e autentica e il visitatore può interagire con lo schermo". "L'obiettivo è mostrare attraverso il simbolo di molte tragedie e migrazioni, la capacità di costruire percorsi di resilienza nonché il miracolo della sopravvivenza delle comunità ebraiche sparse in tutto il mondo".
   Ad aprire la mostra, la tavola rotonda con protagonisti, assieme alla curatrice Sarah Kaminski, il presidente del Polo del '900 Sergio Soave, il vicepresidente dell'Istituto Salvemini Marco Brunazzi, Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica di Torino, il rabbino capo della città Ariel Di Porto.
   A seguire lo spettacolo di danza, "Amor Porteño", a cura del Laboratorio Baires di Torino, diretto da Patrizia Pollarolo e Carlo Margiocchi. Il balletto, insignito di diversi premi internazionali, è stato creato dalla danzatrice e regista argentina di origine ebraica, Silvia Vladimivsky. Il balletto è un'espressione del linguaggio universale, in stile teatrodanza, in cui il tango diventa uno strumento corporeo e dinamico per esprimere i difficili percorsi dell'emigrazione, dell'abbandono e della ricerca d'asilo in terre straniere. Valigia e ballerino si muovono insieme; nello zaino o nel fagotto si trova il loro passato e i traumi lasciati alle spalle, mentre sul palco la mente vola con il ritmo del tango, cercando nella logora valigia un po' di consolazione e uno spiraglio di speranza.

(moked, 5 febbraio 2018)


Ministro dell'Istruzione israeliano atteso mercoledì a Varsavia

GERUSALEMME - Il ministro dell'Istruzione israeliano, Naftali Bennett, si recherà il 7 febbraio a Varsavia in un momento di forte tensione fra lo Stato ebraico e la Polonia. La scorsa settimana il Senato polacco ha approvato un disegno di legge che condanna qualsiasi accusa di complicità del paese nei crimini dell'Olocausto. Secondo quanto riporta il quotidiano "Jerusalem Post", Bennett incontrerà gli studenti polacchi e l'omologo Jaroslaw Gowin. "Sono determinato ad affermare chiaramente che la storia ha già confermato che il popolo polacco ha un coinvolgimento provato nell'uccisione di ebrei durante l'Olocausto", ha affermato oggi Bennett. Il ministro dell'Istruzione ha auspicato che la "disputa" con il governo di Varsavia possa essere risolta attraverso il dialogo prima che sui media. Bennett visiterà, inoltre, il museo "Warsaw Uprising", che commemora la rivolta del popolo polacco contro i nazisti nella Seconda guerra mondiale, ed il memoriale "Jewish Suffering", nel cuore del vecchio ghetto ebraico di Varsavia.

(Agenzia Nova, 5 febbraio 2018)


Abu Mazen all'Onu "Riconoscete la Palestina"

di Giordano Stabile

I palestinesi puntano a tagliare ogni rapporto con Israele, anche sulla sicurezza e le finanze, e a farsi riconoscere come Stato indipendente dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. Anche se al Palazzo di Vetro sono destinati a scontrarsi con il veto degli Stati Uniti, il documento emerso nella notte fra sabato e domenica, in una riunione tesa e interminabile del Comitato esecutivo dell'Olp, mostra la volontà di «bruciarsi i vascelli alle spalle» e tentare il tutto per tutto.
   Il patto di Oslo del 1993 è stato svuotato dopo la crisi seguita al riconoscimento da parte del presidente americano Donald Trump di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. La dirigenza palestinese è esausta dopo un quarto di secolo di colloqui senza risultati, indebolita dalla corruzione e gli scandali interni, e dalla lotta contro il movimento islamista di Hamas. Vede nella rottura dello status quo di Oslo l'unica strada per sopravvivere e tenere viva la speranza di arrivare all'indipendenza «all'interno dei confini del 1967», quindi con Gerusalemme Est inclusa.
   Dopo aver congelato il riconoscimento di Israele, l'Olp ora si prepara al ritiro anche dal Protocollo di Parigi del 1994, che regola le finanze e la gestione della sicurezza nei Territori passati sotto controllo parziale o totale dei palestinesi. In base al protocollo è Israele a raccogliere tasse e dazi doganali per poi girarli ogni mese all'Autorità nazionale palestinese. Il controllo del territorio è gestito invece, nelle aree A e B, in stretta coordinazione con le forze di sicurezza israeliane, compresa quella fra i servizi segreti. È questo ultimo punto a esercitare la maggiore pressione sullo Stato ebraico, perché senza la collaborazione dei servizi palestinesi la lotta ai gruppi islamisti che si sono infiltrati nei Territori sarà molto più difficile.
   Ma è all'Onu che sarà la vera battaglia. Abu Mazen ha chiesto un mese fa l'appoggio dell'Unione europea nella sua visita a Bruxelles. L'Ue si è discostata dalla linea americana, su Gerusalemme, ma in un voto al Consiglio di Sicurezza i palestinesi sono comunque destinati a perdere. La volontà sembra soprattutto quella di innescare un cambio nell'opinione pubblica e nella politica israeliana. Un piccolo segnale l'hanno ottenuto da parte del nuovo leader dei laburisti, Avi Gabbay, che ha parlato per la prima volta di un possibile «ritiro unilaterale» di Israele dai Territori se la situazione dovesse diventare ingestibile.

(La Stampa, 5 febbraio 2018)


Nessuno si fila i palestinesi

Sono irresponsabili. E' giusto tagliare i loro aiuti

Scrive il Washington Times (10/1)

Il presidente Trump ha causato l'ennesima tempesta mediatica su Twitter, quando due settimane fa ha lasciato intendere di voler tagliare centinaia di milioni di dollari di aiuti americani ai palestinesi" ha scritto sul Washington Times il classicista e storico di Stanford Victor Davis Hanson. "Trump era arrabbiato per l'indisponibilità dei palestinesi di impegnarsi in un dialogo di pace con Israele, dopo che l'amministrazione ha annunciato di voler spostare l'ambasciata israeliana a Gerusalemme. Visto che gli Stati Uniti mandano i propri aiuti finanziari alla Palestina tramite organizzazioni terze connesse alle Nazioni Unite, non è chiaro a quanti soldi esattamente Trump si riferisca. In totale, però, si vocifera siano più di 700 milioni di dollari l'anno. Dieci anni fa, una diatriba del genere tra gli Stati Uniti e l'Autorità palestinese avrebbe occupato tutte le prime pagine di giornale. Oggi no. Perché? Il medio oriente è cambiato radicalmente, e con esso il ruolo e l'immagine dei palestinesi.
   La prima ragione è che gli Stati Uniti sono oggi uno dei maggiori produttori di energia fossile al mondo. L'America è attualmente immune al tipo di embargo petrolifero arabo che nel 1973-74 paralizzò l'economia americana, in risposta al supporto di Washington a Israele. Anche Israele, grazie alle scoperte di nuovo petrolio e di gas naturale marittimo, è diventato autosufficiente dal punto di vista energetico, e perciò immune ai tagli degli arabi.
   Secondo, il medio oriente è diviso in mille fazioni diverse. L'Iran sta cercando di diffondere la sua radicale teocrazia sciita in Iraq e in Siria, e negli stati del Golfo Persico. Oltretutto è il maggiore sostenitore della resistenza armata palestinese. Le cosiddette autocrazie sunnite 'moderate' disprezzano l'Iran. Comprensibilmente, gran parte dei paesi arabi temono lo spettro del nucleare iraniano molto più di quanto temano la realtà di un Israele democratico e egualmente armato.
   Terzo, il mondo stesso sembra essere stufo della questione palestinese.
   Quarto, i palestinesi non sono mai riusciti a creare un governo consensuale, trasparente, di successo. Dopo trent'anni di attesa, il mondo sta iniziando a lasciar perdere la loro retorica di autogoverno e di riforma della Cisgiordania.
   L'incapacità dei palestinesi di governare la Cisgiordania in una maniera costituzionalmente accettabile è la ragione per cui centinaia di migliaia di espatriati palestinesi danno voce alla propria solidarietà da una distanza di sicurezza, visto che vivono in Nord America o in Europa. Più di un milione di palestinesi preferiscono rimanere in Israele. Sono convinti che avranno più sicurezza, libertà e prosperità in uno stato democratico, piuttosto che sotto il regime autoritario offerto dalla Palestina a qualche chilometro di distanza. Trump sarà pure impreciso e ignorante, rispetto allo stagnante processo di pace medio orientale, ma i suoi istinti politici sono probabilmente giusti."

(Il Foglio, 5 febbraio 2018)


La svolta dopo una telefonata al Pontefice «Su Gerusalemme Bergoglio è con noi»

Così il gesto di Erdogan ha portato al riavvicinamento tra Vaticano e Ankara

di Franca Giansoldati

 
CITTÀ DEL VATICANO - Pur di non irritare Erdogan e compromettere la visita di stamattina, il Papa, da quando è iniziata l'operazione militare turca denominata "ramoscello d'ulivo" contro i curdi in territorio siriano, ha evitato di fare qualsiasi commento. Su quel fronte silenzio totale. Solitamente sensibile ai teatri di guerra, Francesco ha però alzato la voce per i morti in Afghanistan e, ieri all'Angelus, per le violenze in Congo e Sud Sudan.

 Visita inattesa
  La realpolitik con le sue regole impone persino al pontefice una certa cautela. Tutto a ragion veduta considerando che stamattina Erdogan sarà il primo presidente turco da 59 anni in qua nel Palazzo Apostolico. Una visita inattesa dopo la crisi del 2015 causata dal riconoscimento vaticano del genocidio armeno.

 La telefonata
  L'arrivo di Erdogan al di là del Tevere è stato anticipato da una telefonata. Prima di Natale aveva preso il telefono per congratularsi con Francesco per
essersi schierato contro la decisione di Trump di spostare a Gerusalemme l'ambasciata Usa.
Persino il giorno di Natale, Francesco aveva chiesto il rispetto dello status quo della città «in conformità alle Risoluzioni Onu». Parole che avevano avuto una grande eco nel mondo islamico ed erano state al centro di immediate riflessioni ad Ankara. «Il Papa sta con noi». Il "noi" è riferito, ha spiegato ieri Erdogan, a un miliardo 700 milioni di musulmani. Da qui la telefonata al Papa per chiedere udienza.
Per il Sultano è un rientro in grande stile nella diplomazia d'Occidente dopo la tensione per le misure restrittive del suo governo. Temi spinosi sui quali il Papa ha preferito non intervenire.

 L'orizzonte comune
  Stamattina quando saranno uno davanti all'altro capiranno se l'orizzonte comune include davvero punti di contatto su Gerusalemme, oppure se sussistono differenze persino su questo dossier. Erdogan punta a raccogliere adesioni tra i governi per fare di Gerusalemme Est la capitale della Palestina.
Una idea che il Papa eviterà di appoggiare anche perché in Vaticano, sin dai tempi di Paolo VI, spinge sul progetto di una città tutelata dall'Onu, internazionalmente garantita e protetta. Un sogno. Ma visto il muro contro muro generale chissà se la terza opzione non riesca a prendere quota.

(Il Messaggero, 5 febbraio 2018)


Erdogan, le accuse e quel prete ucciso

Ma il sultano sta tirando troppo la corda

di Fiamma Nirenstein

Il presidente Recep Tayyip Erdogan è abituato a farla franca. Da tempo dice e fa qualsiasi cosa senza vergogna, viola i diritti umani dei suoi cittadini, ha schiere di giornalisti in galera, violenta la sua stessa folla quando manifesta e si ribella, e accusa gli Usa di essere autoritari e terroristi, spinge il suo popolo sempre più avanti nella stretta dell'integralismo. E tuttavia può contare sul pregiudizio positivo che lo disegna come un mediatore fra occidente e il mondo islamico arabo in memoria di Kemal Ataturk, che lui ha seppellito per sempre. Adesso bombarda la popolazione di Afrin, un'enclave curda siriana e si vanta di stare battendo l'Isis, di cui invece, palesemente, i curdi sono i peggiori nemici. Aggredisce ogni minuto Israele e gli ebrei con evidenti toni antisemiti, accusandolo di essere «uno stato terrorista» e gli americani di essere «perpetratori del medesimo bagno di sangue», proclamandosi difensore islamico di Gerusalemme. Eppure gli si dà credito. Adesso è a Roma mentre qualcuno osa qualche dimostrazione a favore dei curdi assediati, pure lui conta sul fatto che, dichiarandosi rappresentante di 1,7 miliardi di musulmani, riuscirà a intimidire i governanti italiani e anche il Papa. Tutti temono chi strilla e sbraita e rappresenta la fratellanza musulmana, e in più tiene le chiavi di quel Paese che ha trattenuto e quindi ridotto, in cambio di una ricca mercede, la marea di profughi che nel 2015 si stava rovesciando nei confini europei dalla Siria in fiamme. Il fatto, però, è che la Siria rischia di tornare sui carboni ardenti proprio per colpa del suo atroce odio per i curdi, che li fa definire tutti terroristi e li mostrifica nonostante abbiano aiutato in modo decisivo contro l'Isis. Erdogan ha riportato armi e bombardamenti sul campo, ha umiliato gli Usa. Rischia di irritare anche la Russia che nella sua complessa e cinica politica ha coinvolto Iran e Turchia, e ora se li ritrova su fronti opposti per quel che riguarda la sopravvivenza politica di Assad.
   Quanto agli Usa, Erdogan è andato a caccia di consensi sulla scia dell'antipatia che Trump suscita in Europa e nel Papa, ma ha esagerato. Chi ha voglia di litigare con gli Stati Uniti? Nessuno, né in Europa e neppure nel mondo arabo. È difficile, per quanto Erdogan si incontri con Salman di Arabia, che egli preferisca un'alleanza con colui che viene a proclamarsi difensore di Gerusalemme contro Trump piuttosto che con gli americani che chiedono ai sauditi di farsi promotori di un nuovo processo di pace in cambio di un rapporto privilegiato. Chi combatteva contro l'Isis, americani, francesi, tedeschi, italiani volontari, adesso sono ad Afrin schierati contro Erdogan. Forse ha esagerato, presidente.

(il Giornale, 5 febbraio 2018)


Ribelli sciiti nello Yemen minacciano la sicurezza dello Stretto di Bab el Mandeb

GERUSALEMME - I miliziani sciiti yemeniti Houthi minacciano una delle rotte marittime più trafficate al mondo: lo Stretto di Bab el Mandeb. Lo ha dichiarato un alto ufficiale della Marina israeliana citato dal quotidiano "Haaretz". "Il coinvolgimento dell'Iran nello Yemen e le armi avanzate che contrabbandano ai ribelli Houthi rappresentano una minaccia per le navi commerciali che si dirigono verso il Mar Mediterraneo", attraverso lo Stretto di Bab al Mandeb, ha chiarito l'ufficiale israeliano. Oggi i più avanzati sistemi vengono trasferiti agli Houthi ed al movimento sciita libanese Hezbollah, ha aggiunto l'ufficiale, sottolineando che "è sicuramente una minaccia per le navi mercantili e per i giacimenti di gas israeliani". Gli alti ufficiali israeliani aggiungono che Hezbollah adesso dispone di armi che minacciano la zona economica esclusiva (Zee) di Israele e può colpire qualsiasi piattaforma di gas naturale. "In tempo di guerra dobbiamo essere in grado di ordinare la chiusura delle piattaforme in modo che anche se venissero colpite, potrebbero ritornare funzionanti", ha proseguito l'ufficiale.
   Poche settimane fa, "Haaretz" ha riferito che l'esercito israeliano teme che Hezbollah abbia la capacità di attaccare le piattaforme di gas naturale israeliane offshore, avendo acquisito gli armamenti necessari per farlo, come i razzi. Un alto ufficiale delle Forze di difesa israeliane aveva dichiarato che, secondo informazioni dell'intelligence, "anche se attualmente Hezbollah ha questa capacità, non pensiamo che compirà un passo così estremo solo per provocare". Secondo l'alto ufficiale, il movimento sciita filo-iraniano ha percezione che l'attacco alle piattaforme offshore sarebbe una dichiarazione di guerra.

(Agenzia Nova, 5 febbraio 2018)


Morte in Europa, rinascita in Israele storie degli orfani di una rivoluzione

di Wlodek Goldkorn

La parte più drammatica - forse la sineddoche non solo del libro ma di tutta la storia e vicenda degli ebrei in Europa tra la fine dell'Ottocento e il 1948 (data di nascita dello Stato d'Israele) - del fondamentale testo di Sergio Luzzatto I bambini di Moshe. Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele si trova alle pagine 37 e 38. E, forse non a caso, riguarda soprattutto alcune donne. La prima, Recha Freier, è la fondatrice dell'organizzazione Jugend Aliyah, che si occupa dell'immigrazione in Palestina di giovani ebrei. L'altra è Hannah Arendt, trentenne esule a Parigi responsabile del locale ufficio della stessa organizzazione. Hitler è da pochissimi anni al potere. Freier capisce che occorre portare quanti più giovani possibile fuori dalla Germania. E li prepara per la vita in Palestina, perché per andare a vivere nella Terra Promessa occorre saper fare gli agricoltori, lavorare con le mani, usare le armi. Arendt percepisce la portata e la potenza della rivoluzione sionista; la ribellione dei giovani contro le tradizioni e l'inadeguatezza degli adulti. Tutto questo, mentre i nazisti vorrebbero collaborare con i sionisti nell'opera di trasferimento degli ebrei fuori dalla Germania. E siamo così nel cuore dei paradossi, delle antinomie, della tragedia, con cui l'Europa ancora non ha fatto i conti.
  Ma procediamo con ordine. In apparenza, il libro di Luzzatto, storico all'Università di Torino, spesso controverso, ha per protagonista Moshe Zeiri, un giovane sionista socialista, nato nella Galizia austroungarica poi diventata polacca, emigrato in Palestina, arruolatosi nell'esercito britannico per combattere i nazisti e arrivato, da liberatore, in Italia. Qui, a Selvino, mette in piedi una colonia per bambini ebrei da tutta l'Europa, orfani dei genitori assassinati dai tedeschi. I ragazzi di Moshe finiscono in Israele, partecipano alla guerra del 1948, cominciano una nuova vita. Ecco, questa storia può essere raccontata come una favola, drammatica ma bella, a lieto fine. Dalla morte (dell'ebraismo europeo) verso la rinascita (in Israele). Qualcuno ha provato a leggerla così.
  E invece Luzzatto ha avuto il coraggio di sovvertire la categorie e il modo di scrivere degli storici. In una narrazione in prima persona, seppur costruita su fonti e testimonianze verificate, l'autore mette in piedi una struttura narrativa da grande romanzo ottocentesco. Con molti protagonisti, con una trama estesa nel tempo e nello spazio e con forti dosi di emozioni. Ma soprattutto, con la piena consapevolezza della tragicità delle utopie, dovuta non alla cattiveria delle utopie, ma alla tragicità della storia e della nostra condizione umana. Si parte dunque dalla Polonia e dai sogni degli ebrei. Documentati nelle foto di Alter Kacyzne che Luzzatto cita e evoca. Kacyzne era un militante della sinistra ebraica, scrittore, giornalista, agitatore culturale in yiddish, allievo del padre del romanzo moderno yiddish Itzhak Peretz, Sognava il riscatto degli ebrei lontano dall'utopia sionista, vicino a quella sovietica. Finì massacrato dai collaborazionisti ucraini dei nazisti. Quelle foto, scattate per il giornale americano Forverts dove scrivevano i fratelli Singer restano un documento sulla vita prima della catastrofe.
  Luzzatto narra pure altri sogni. Parla dei giovani sionisti che vogliono vedere nascere un ebreo nuovo, rigenerato, alieno alle miserie della Diaspora, immune agli attacchi degli antisemiti. Sono ragazzi influenzati da Tolstoj e da Nietzsche. Sono figli della volontà di potenza dell'Ottocento. Organizzano kibbutz, diventano davvero agricoltori e soldati.
  Poi arrivano i ghetti e le camere a gas e non si sogna più. Bisogna cercare di sopravvivere e le utopie sono poco utili. Contano la fortuna e la geografia (ci si salva là dove non ci sono i nazisti). E per chi si è salvato arriva la prospettiva della vita in Palestina e la guerra del 1948. Israele vince e conquista l'indipendenza. Molti dei sopravvissuti profughi rendono profughi i palestinesi: esemplare la vicenda della città di Lydda, oggi Lod. Le storie umane intrecciate alla grande Storia sono sempre più affascinanti dell'invenzione. Ma raramente sono consolatorie.

(la Repubblica, 5 febbraio 2018)


La sfida dei russi laici di Ashdod a Israele: negozi aperti di sabato

E il governo punisce la disobbedienza civile con le multe

di Davide Lerner

TEL AVIV - Hanno deciso di disobbedire alla legge secondo cui è obbligatorio chiudere gli esercizi commerciali di sabato, e la municipalità di Ashdod ha risposto sguinzagliando pattuglie di poliziotti per fargli le multe.
   I russi laici della cittadina portuale nel sud di Israele, che di solito sale agli onori delle cronache nazionali solo quando piovano i razzi dalla vicina Gaza, tutto si aspettavano tranne che diventare protagonisti di una battaglia culturale che investe tutto il paese.
   Ma la reazione di pancia di una popolazione perlopiù composta da immigrati dall'ex Unione Sovietica, una componente demografica tradizionalmente laica, è stata quella di scendere in piazza contro la decisione del sindaco di applicare il divieto all'apertura dei negozi di sabato senza deroghe.
   La resa dei conti è arrivata ieri, in occasione del santo Shabbat in cui la legge religiosa ebraica prescrive di astenersi dal «negozio», oltre che dall'uso di soldi o mezzi di locomozione, e la municipalità ha risposto col pugno duro alla disobbedienza dei negozianti.
   «Possono farmi tutte le multe che vogliono ma io non posso permettermi di non lavorare di sabato», dice Mikhal, che è arrivata in Israele diciotto anni fa quando ancora si chiamava Tatiana. «E' una legge che danneggia l'economia oltre che violare le libertà di noi laici, assecondando la prepotenza dei religiosi», dice, mentre fuma una sigaretta davanti al supermercatino dove lavora.
   In realtà la legge che proibisce di lavorare di sabato in Israele c'è sempre stata, e riguarda tutti i comuni del paese. Quello che sta cambiando, per volere del Ministro degli Interni religioso Aryeh Deri, è lo spazio di manovra che le amministrazioni locali hanno per dribblare il divieto statale.
   «Fino ad oggi i comuni sono stati liberi di applicare la legge in maniera più o meno severa», spiega l'analista israeliano di Haaretz Anshel Pfeffer. «Con la legge passata nelle scorse settimane, in teoria il Ministro degli Interni Aryeh Deri potrebbe imporre un'applicazione severa della norma da parte delle autorità locali».
   Il sindaco di Ashdod Yehiel Lasri, che appartiene al "Likud" del premier Benjamin Netanyahu, ha reagito alla cosiddetta "hok hamarcolim" (legge dei super-mercatini) mettendosi subito in regola. L'intenzione era quella di accontentare l'elettorato ultra-ortodosso della città, più potente della propaggine degli ex sovietici anche se numericamente inferiore, e prevenire i possibili strali del Ministro religioso Deri.
   Tutt'altra la posizione del sindaco di Tel-Aviv, Ron Huldai, che non intende discutere l'esenzione dalla legge sullo Shabbat della città più libertina di Israele.
   La questione è già arrivata sul tavolo della Corte Suprema, che ha dato ragione al potente sindaco, ed è improbabile che venga rimessa in discussione malgrado i nuovi poteri conferiti a Deri dalla nuova legge.
   Nel frattempo la protesta dei negozianti di Ashdod spariglia le carte della politica nazionale israeliana. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, oltre a quello dell'Istruzione Naftali Bennett, rappresentano una destra sciovinista ma laica e si trovano improvvisamente in rotta di collisione col Primo Ministro alleato Benjamin Netanyahu.
   Bibi, questo il nomignolo israeliano del premier, ha sostenuto la "legge dei super-mercatini" non tanto perché abbia a cuore il rispetto di codici religiosi ortodossi, quanto per accontentare il religioso Deri da cui dipende la tenuta del governo.
   Avigdor Lieberman, il ministro della Difesa di origini moldave, è la figura di spicco più attiva nel sostenere la protesta dei negozianti di Ashdod. Per dimostrare la propria solidarietà nei loro confronti si è fatto immortalare con un carrello della spesa mentre faceva la spesa proprio nella giornata del santo Shabbat.

(La Stampa, 4 febbraio 2018)


Storia degli Ebrei in Piemonte

Domenica 18 febbraio, alle ore 16, ci sarà a Canelli un'appendice alle commemorazioni del Giorno della Memoria 2018. La Biblioteca G. Monticone ospiterà, infatti, il professor Alberto Cavaglion per un appuntamento sulla storia della presenza ebraica in Piemonte, a partire dalla fine del quindicesimo secolo. Cavaglion ripercorrerà tale storia affrontandone i suoi risvolti più vari: non solo storico-politici, ma anche religiosi, letterari ed etico-filosofici, perché Cavaglion è convinto che "esista un modo ebraico-piemontese di studiare la storia delle idee". Tra i molti argomenti che verranno toccati: le specificità della liturgia ebraico-piemontese e il rito Appam (nato tra Asti, Fossano e Moncalvo e studiato in tutto il mondo), il gergo ebraico-piemontese, lo Statuto Albertino, il patriottismo degli ebrei piemontesi, la deportazione. La partecipazione all'evento, organizzato da Memoria Viva e patrocinato dal Comune di Canelli e dall'Ufficio Scolastico Provinciale, dà diritto a crediti formativi per gli insegnati di ogni ordine e grado. L'ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili. Seguirà aperitivo.
   Alberto Cavaglion, studioso dell'ebraismo, insegna all'Università di Firenze e fa parte del comitato di redazione delle riviste "L'indice dei libri del mese" e "Mondo contemporaneo" e della direzione della rivista "Rassegna mensile di Israel". Ha, tra gli altri, pubblicato: "Il senso dell'arca. Ebrei senza saperlo", "Nella notte straniera. Gli ebrei di St. Martin Vésubie". Nel 2005 con il libro "La Resistenza spiegata a mia figlia" ha vinto il Premio Lo Straniero. Ha curato l'edizione commentata di "Se questo è un uomo" di primo Levi (Einaudi, 2012). Nel 2016 ha pubblicato "Verso la Terra promessa. Scrittori italiani a Gerusalemme da Matilde Serao a Pier Paolo Pasolini" e "Gli ebrei in Piemonte" (Impressioni Grafiche).

(Associazione Memoria Viva Canelli, 4 febbraio 2018)



“Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli”

Gesù, vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui, ed egli, aperta la bocca, insegnava loro dicendo:
Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati.
Beati i mansueti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli.
Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia.
Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli; poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi.
Dal Vangelo di Matteo, cap. 5

 


Sinai, Israele ha condotto oltre 100 raid con l'accordo dell'Egitto

Missioni segrete di droni, elicotteri e caccia contro gli islamisti

di Giordano Stabile

L'Egitto ha permesso a Israele di compiere oltre cento raid contro l'Isis nella penisola del Sinai, negli ultimi due anni. I dettagli di questa "guerra segreta" sono stati rivelati da una inchiesta del New York Times. Il rapporto precisa che "droni, caccia ed elicotteri" senza insegne nazionali sono stati autorizzati a colpire in territorio egiziano fin dalla fine del 2015, anche più volte a settimana.

 Minaccia per entrambe le nazioni
  Il Sinai è tornato sotto il controllo egiziano nel 1979, ma è in gran parte una zona demilitarizzata, in base agli accordi di Camp David. Lo Stato islamico ha stabilito qui una delle sue province, "wilaya", nel 2014, con centinaia, se non migliaia di combattenti, in parte stranieri, e lo usa come base per colpire in tutto il Nord del Paese e anche per infiltrarsi nella Striscia di Gaza. Rappresenta quindi una minaccia strategica per tutte e due le nazioni.

 Aiuto indispensabile
  I raid, secondo il NYT, hanno ricevuto l'approvazione dal presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi in persona. Israele, per mascherarli, ha coperto le tracce radar, inviato velivoli privi di insegne, e utilizzato lunghe deviazioni per farli sembrare mezzi locali. Il Sinai è da oltre due anni una zona off limits per i giornalisti, proprio per le difficoltà che incontra il governo del Cairo contro il gruppo jihadista, che continua ad attaccare avamposti militari e obiettivi civili, come chiese copte o la moschea sufi dove lo scorso 24 novembre ha ucciso oltre 300 fedeli musulmani considerati "eretici". Senza l'aiuto di Israele, hanno rivelato funzionari americani, l'Egitto non sarebbe riuscito a contenere l'offensiva islamista.

 Nuova fase dei rapporti con i Paesi arabi
  La cooperazione fra le forze armate israeliane ed egiziane segna però una nuova fase dei rapporti fra i due Paesi, che hanno combattuto una lunga serie di guerre fra il 1948 e il 1973. Dopo gli accordi di Camp David, però, l'Egitto è stata la prima nazione araba a riconoscere formalmente lo Stato ebraico e ad avviare normali relazioni diplomatiche. Oggi Egitto e Israele hanno in comune i principali avversari: l'Iran sciita degli ayatollah e l'estremismo jihadista sunnita, incarnato dall'Isis e da Al-Qaeda. Una situazione che sta portando all'avvicinamento anche di altri Paesi arabi allo Stato ebraico.
  Negli ultimi due anni Israele ha compiuto oltre 100 raid aerei in Egitto, in media uno alla settimana, con il beneplacito del presidente egiziano Al Sisi. Lo sostengono sette funzionari americani e britannici citati dal New York Times che parla di una «alleanza segreta» tra Israele ed Egitto per combattere i jihadisti affiliati all'Isis che hanno messo a ferro e fuoco il nord del Sinai.
  L'intervento militare israeliano, scrive il quotidiano americano, ha consentito al Cairo di riguadagnare un po' di terreno nella battaglia contro i miliziani che sta conducendo ormai da cinque anni. Dall'altro lato Israele si è assicurato un maggior controllo delle sue frontiere e la stabilità del suo vicino.

(La Stampa, 3 febbraio 2018)


Dieci domande a Emanuel Segre Amar

Emanuel Segre Amar, nato a Gerusalemme, già vice presidente della Comunità ebraica di Torino. Si laurea a Torino in ingeneria meccanica. Nel 2015 ha fatto rinascere il Gruppo Sionistico Piemontese. Scrive per Il Foglio, Progetto Dreyfus e l'Informale.

di Gerardo Verolino

- Emanuel Segre Amar lei è il figlio dello scrittore che è sopravvissuto all'Olocausto, è stato in prigione per il suo antifascismo con Leone Ginzburg ed ha lasciato un'impronta fondamentale nell'ebraismo torinese ed italiano. Che ricordi ha di lui?
 
Emanuel Segre Amar
  Mio Padre è stato per me un vero padre nel corso degli anni, ed i ricordi che ho di lui vanno dalla primissima infanzia, quando mi insegnava a giocare col meccano e ad andare in bicicletta, a quando sono entrato nel mondo del lavoro nella piccola azienda che aveva creato, legandola al mio nome, Manuel, che appariva stampigliato, in giro per il mondo, sui trattori Ford e Massey Ferguson fino al ciao che mi disse l'ultimo giorno della sua vita, lui che da alcuni anni non proferiva più parola; in quel momento mi ha ancora insegnato che, anche nella malattia che colpisce il cervello, può continuare una presenza attiva che, forse, la scienza non ha ancora del tutto compreso.
Leone Ginzburg fu fondamentale per la personalità di mio Padre; si conobbero quando Leone arrivò nella sua stessa classe del liceo d'Azeglio di Torino direttamente dalla Russia, furono insieme quando andarono sorridenti ad ascoltare la sentenza di condanna comminata loro dal Tribunale speciale nel '34, furono insieme per alcuni mesi nella stessa cella di Regina Coeli in quello che mio Padre considerò essere stato uno dei periodi più belli della sua vita, ed a lui dedicò un libro, "Non ti vedrò mai più Leone", in ricordo del loro ultimo incontro alla stazione torinese di Porta Nuova. Ma non direi che mio Padre sia stato un sopravvissuto all'Olocausto, ma lo considererei piuttosto un testimone di un periodo storico nel corso del quale fiorirono le condizioni che portarono alla Shoah, si ricostruì poi una società civile fino alla rinascita dell'antisemitismo che dura tuttora (penso ad esempio al suo intervento presso il cimitero ebraico di Saluzzo vandalizzato quando era presidente della Comunità).

- Suo padre riformò l'ebraismo. In che senso…
  Non credo che di riforma si possa parlare, ma ricorderei piuttosto l'azione che egli, con pochi amici, quasi tutti ebrei torinesi, con diverse opinioni politiche, intrapresero nel 1933/34 nonostante le posizioni ufficiali della Comunità ebraica di Torino, in quel momento dichiaratamente fascista, così come, d'altronde, era la maggioranza degli italiani. Quando poi divenne presidente della stessa Comunità, cercò di gestirla da imprenditore, coadiuvato da alcuni amici che gli rimasero vicini anche quando, terminata la sua presidenza, la Comunità si trovò immersa in una delle sue frequenti spaccature e, pur tuttavia, pronta a guardare al futuro con bilanci e strutture risanate. Ed infine, negli anni '80 e '90, scrisse articoli per alcuni giornali, tutti aventi come sfondo Israele, alcuni ancora di grande attualità.

- Cosa pensa della recente nomina a senatore a vita di Liliana Segre?
  La domanda mi è rivolta anche in considerazione delle polemiche che ha generato? Ritengo che il presidente Mattarella, per le sue ripetute manifestazioni di vicinanza agli ebrei ed alla nostra storia, debba essere tenuto fuori da queste polemiche, ma penso anche che, forse, la nomina, giusta e anche doverosa, avrebbe potuto arrivare in un momento lontano dalle elezioni politiche, perché non sarebbe diventato oggetto di alcuna polemica, ma piuttosto un rinforzo all'opera che Liliana Segre svolge da anni presso i giovani.

- Ritiene, come ritengono alcuni, che la nomina a ridosso delle elezioni politiche sia stato un motivo per "ingraziarsi" l'elettorato ebraico?
  Aggiungo, a quanto prima detto, che non ritengo che possa esserci tale intenzione, sia per la personalità, al di sopra di ogni sospetto, del presidente Mattarella, sia per la conoscenza che ho del mondo ebraico che, pur diviso tra le varie forze politiche, non si lascerebbe di sicuro influenzare da questa nomina.

- A proposito della banalizzazione della Shoah. In un articolo su "La Stampa" cito le parole di Sion Segre Amar che scrive: "Non chiamatelo Olocausto. A quell'orrore si può dare il nome che si vuole, ma non se ne renderà mai il concetto". Cosa voleva dire?
  Vorrei aggiungere queste parole che scrisse nello stesso articolo cui lei si riferisce: "Per Dante Olocausto significa l'offerta a Dio di tutto se stesso. La parola è fuorviante, nel suo significato sacrificale ed espiatorio, che nulla ha a che fare con Auschwitz e dintorni… Io l'ho talvolta usata, quella parola, facendola però precedere dal correttivo: cosiddetto.

- Pensa che tale correttivo ha fatto sì che un giorno ho scoperto il nome di Sion Segre Amar tra i negazionisti.
  La risposta alla sua domanda sta tutta nel significato della parola "Olocausto" per Dante, del tutto differente da quello della Shoah, perché gli ebrei non pensavano affatto di offrirsi a Dio.
Vede, mio Padre ricordò per tutta la vita il telegramma che ricevette in Palestina quando sua suocera venne presa e rinchiusa prima a Borgo San Dalmazzo, poi a Fossoli, per essere infine uccisa appena arrivata ad Auschwitz, ed è stato un testimone diretto di quel periodo storico, più che direttamente della Shoah, perché fu capace di riflettere e, di conseguenza, potendolo fare, scappò in Palestina nel '39.
Ricordo che, quando lui era ancora un bambino, nel '22, suo padre rifletté e rifiutò la nomina a podestà perché non era convinto della politica del fascismo che aveva appena preso il potere; negli anni '90 raccolse le confidenze della nostra amica Natalia Tedeschi che da Auschwitz tornò, ma che non ebbe mai la forza di raccontare a nessun altro che a mio Padre, sotto il vincolo del segreto.

- Lei ha assistito al convegno negazionista di un gruppo di studenti tenuto, in occasione del Giorno della memoria, al Campus di Torino. Ci può dire come è andata?
  Non erano studenti quelli che avevano organizzato l'ultimo convegno. Purtroppo questi si ripetono con continuità da anni nelle aule dell'Università torinese, talvolta organizzati da istituti universitari, talaltra da autodichiarati membri del BDS, piuttosto che da studenti. In tutti questi convegni si devono purtroppo ascoltare, senza contraddittorio, parole di mera propaganda, ovviamente prive di un serio supporto documentario (che infatti non esiste), nell'apparente disinteresse di chi dovrebbe vegliare. Purtroppo oggi le aule sono a disposizione soprattutto di costoro, e sottolineo la parola "soprattutto", avendone le prove, sia quando i convegni sono organizzati da istituti con programmi che dimostrano, all'atto pratico, di non avere nulla di scientifico, sia quando sono organizzati da questi membri del BDS che, guarda caso, si trovano sempre le aule a disposizione, e non chiuse come dovrebbe essere se si volessero davvero impedire simili convegni.

- Anche lei pensa che oggi il pericolo per gli ebrei venga dagli ambienti di sinistra?
  Io penso che il pericolo per gli ebrei sia sempre dietro l'angolo, ma credo che al pericolo di un'estrema destra, forse oggi meno incombente perché l'estrema destra è meno forte, si debbano aggiungere i pericoli della sinistra che spesso, in Italia come nel resto dell'Europa, da molti anni si è legata a filo doppio col mondo islamico; era vero ieri, quando l'URSS passò dalla parte degli arabi, seguita dai partiti comunisti di tutta Europa, è vero oggi quando la sinistra, ovunque, non perde occasione di criticare Israele e di votare contro alle Nazioni Unite o di prendere provvedimenti che possono persino essere considerati antisemiti nel parlamento di Bruxelles. Questa vicinanza della sinistra, e di una certa chiesa, col mondo musulmano finisce poi col nascondere l'antisemitismo più pericoloso e diretto, quello islamico, e dico islamico e non islamista, diretto discendente del nazi-fascismo. Ecco, proprio questo mix è il vero pericolo per noi ebrei oggi, e non capisco la cecità di coloro che non vogliono vedere che il pericolo dell'islam per noi ebrei è lo stesso che corrono anche tutti coloro che sono considerati infedeli dai musulmani.

- Qual è il suo giudizio sul movimento BDS che vuole boicottare Israele?
  Purtroppo il BDS è un movimento ammalato di antisemitismo puro, dotato di enormi risorse finanziarie, che si sta manifestando ovunque nel mondo, con un'accurata regia, e, in particolare, è presente nelle università. Se avesse come finalità un'autentica vicinanza ai popoli sofferenti e deboli, crede forse che gli arabi palestinesi potrebbero essere il loro unico interesse? Recenti statistiche hanno dimostrato che gli arabi palestinesi sono i musulmani con la più lunga speranza di vita, con le maggiori libertà e con le maggiori possibilità di studiare e di raggiungere una ricchezza che altrove non potrebbero mai sognarsi. Non vedo invece nessuna attenzione da parte del BDS nei confronti del regime siriano, di quello iraniano (musulmano ma non arabo), né di quello turco (oggi vicino ai fratelli musulmani), e l'elenco potrebbe continuare a lungo.

- Ultima domanda sul futuro di Israele. Lei è nato a Gerusalemme e torna spesso in patria. Come si prevede il 2018 per lo Stato ebraico?
  Premetto che ho sempre considerato l'Italia la mia patria, perché qui sono arrivato quando avevo un solo anno. E purtroppo non sono mai nemmeno riuscito ad ottenere il passaporto israeliano. L'economia israeliana è da alcuni anni in pieno boom, con tassi di sviluppo nemmeno sfiorati nella maggior parte dei paesi occidentali; è un'economia che permette oggi ai cittadini israeliani di essere davanti agli abitanti di paesi considerati ricchi nel mondo come la Germania e il Giappone. Ma di questo non parlano i media, così come non si parla di ciò che Israele sta facendo per tanti paesi poveri, in particolare in Africa. Anziché spendere fortune immense nel tentativo, per me sbagliato, di accogliere i migranti dove non hanno modo di integrarsi né di trovare un lavoro che li renda autosufficienti, Israele ha scelto di aiutare questi popoli più sventurati, spesso governati da dittature corrotte, in casa loro dove, portando acqua ed elettricità grazie alle metodologie di loro recente invenzione, gli uomini potranno sperare in un futuro migliore, in casa propria.

(Italia Israele Today, 3 febbraio 2018)


Il molo del pianto degli ebrei a Leivi

Pierpaolo Fuiano ospite dell'associazione per non dimenticare

Tanta partecipazione per l'evento organizzato dal Centro di cultura La Torre, l'argomento trattato è stato quello legato al libro di Pierpaolo Fuiano: «Il Molo del pianto gli Ebrei nel Levante Ligure dal XII al XVIII secolo», quindi non prettamente legato a doppio filo al Giorno della Memoria, ma comunque contestualizzato dal momento che si è parlato degli Ebrei: popolo che ha subuto persecuzioni nel corso dei secoli.

 Il molo del pianto degli ebrei a Leivi
  «L'autore ha fatto un exursus sulla storia degli Ebrei in generale e poi di quelli che, arrivati dalla Spagna, sono giunti a Genova dove sono stati a lungo sul Molo e poi in seguito si sono integrati», spiega la presidentessa del centro di Cultura La Torre di Leivi Mirna Brignole. A introdurre la professoressa Barbara Bernabò. «Molte le persone che hanno presenziato a questa interessante presentazione - conclude - che hanno anche partecipato attivamente ponendo diverse domande all'autore». Il Molo del Pianto, metafora del gerosolimitano Muro del Pianto, si riferisce a quando molti ebrei sefarditi, scacciati nel 1492 dalla Spagna, approdarono a Genova e, stretti tra il mare e le mura cittadine, languirono per lungo tempo sul molo del suo porto. Alcuni di essi si dispersero nelle due Riviere e si unirono idealmente ai discendenti di quei correligionari che da secoli già le abitavano.

(Il Nuovo Levante, 3 febbraio 2018)


Palermo, l'espulsione degli ebrei fra i documenti dell'Archivio comunale

di Paola Pottino

Dal caso di Grazia e della sua tormentata vita matrimoniale durata dal 1338 al 1342 e la richiesta di separazione dal marito violento, all'Editto di espulsione degli ebrei dalla Sicilia del 1492 proclamato da Ferdinando il Cattolico. Dal registro di Gabelle regie di epoca angioina al Fondo di Ricordi patrii, raccolta di cimeli risorgimentali tra i quali l'album fotografico nel quale vengono ritratti Garibaldi, Umberto I e Crispi. Sono alcuni dei preziosi documenti custoditi all'interno dell'Archivio storico comunale di via Maqueda, capolavoro d'ingegneria, costruito nel 1866 nell'ex convento di San Nicolò da Tolentino nel quale è riposta tutta la documentazione della città dal 1298 al 1950. L'Archivio è aperto al pubblico dal lunedi al venerdi dalle 9 alle 13 e il mercoledi dalle 15.30 alle 17.30 e vengono organizzate visite guidate. L'ingresso è gratuito.

(la Repubblica, 3 febbraio 2018)


Arafat, L'Espresso: «Scoperti i diari segreti»

Il settimanale afferma di aver trovato i 19 volumi scritti in arabo dal leader dell'Olp. E ne pubblicherà ampi stralci «in esclusiva mondiale». Dal caso Achille Lauro ai presunti «fondi neri di Berlusconi»: cosa sappiamo.

Il settimanale L'Espresso afferma di aver scoperto i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell'Olp e poi presidente dell'Autorità nazionale palestinese. In tutto 19 volumi, scritti in arabo a partire dal 1985 e conclusi nell'ottobre del 2004, quando Arafat lasciò Ramallah per essere ricoverato in un ospedale francese, alla periferia di Parigi, dove morì un mese dopo. I 19 volumi conterrebbero informazioni inedite e dal potenziale esplosivo. Fra queste, il fatto che Arafat avrebbe aiutato Silvio Berlusconi quando l'imprenditore era sotto processo per aver finanziato illecitamente il Partito socialista di Bettino Craxi.

 Il presunto incontro all'estero con il cav.
  Arafat avrebbe incontrato segretamente il Cav nel 1998 in una capitale europea. E dopo quell'incontro avrebbe deciso di confermare la falsa versione data da Berlusconi ai giudici, cioè che i 10 miliardi di lire al centro del processo erano destinati non al Partito socialista italiano, bensì all'Olp, per sostenere la causa palestinese. Non era vero, ma Arafat avrebbe confermato pubblicamente questa versione in cambio di un bonifico. Nel diario sarebbero annotati anche i dettagli, con i numeri di conto e i trasferimenti di denaro.

 I diari affidati a due fiduciari lussemburghesi
  I 19 volumi di cui L'Espresso pubblicherà gli stralci sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione avrebbero ceduto i documenti a una fondazione francese, con la clausola che il contenuto sarebbe stato usato solo come «documentazione di studio», non per pubblicare libri o girare film.

 La fuga di Abbas favorita da Andreotti.
  I diari rivelerebbero anche la trattativa tra Arafat e l'Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era primo ministro e Giulio Andreotti ministro degli Esteri, durante la vicenda dell'Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi. Arafat rivela che fu Giulio Andreotti (e non Bettino Craxi, come si era sempre creduto) a consentire al terrorista Abu Abbas di scappare in Bulgaria e poi di rifugiarsi in Tunisia. Andreotti, infatti, avrebbe sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di mediatore nascosto tra l'Olp e gli americani.

 L'Italia al riparo dagli attentati.
  Nessun attentato dell'Olp coinvolse l'Italia dopo il 1985. «L'Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», avrebbe scritto in proposito Arafat nei suoi diari, confermando gli accordi segreti tra Olp e governo di Roma affinché il territorio del nostro Paese venisse preservato. Arafat, inoltre, sarebbe stato fortemente contrario alla Prima Guerra del Golfo (1990-1991), scatenata da Saddam Hussein: «Devo schierarmi con lui, il mio popolo me lo impone», scrive nei diari, «ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo».

 Le negoziazioni segrete con Rabin.
  Il leader palestinese, infine, avrebbe portato avanti negoziati di pace segreti con l'allora premier israeliano, Yitzhak Rabin. Mentre sarebbe stato duro il suo giudizio nei confronti dell'ex presidente Shimon Peres: «Una bravissima persona, un bel soprammobile». Nei diari di Arafat molto spazio verrebbe dedicato anche ai rapporti stretti con il dittatore cubano Fidel Castro, attraverso il racconto affettuoso dei diversi incontri avuti con lui, fino all'ultimo avvenuto all'Avana.

(Lettera43, 2 febbraio 2018)


Fabriano, l'ex imam che inneggia alla jihad ha casa popolare dal 2008

L'ex imam di Fabriano è in Polonia ma gode di alloggio popolare. Intanto il presidente del centro islamico di Fabriano lo difende: "L'ha pubblicato, immagino, come simpatizzante in quanto difende la causa palestinese".

di Giorgio Borghetti

L'ex imam di Fabriano è in Polonia ma gode di alloggio popolare. Intanto il presidente del centro islamico di Fabriano lo difende: "L'ha pubblicato, immagino, come simpatizzante in quanto difende la causa palestinese".
   L'ex imam di Fabriano Mustapha Qandyly che due giorni fa ha condiviso su Facebook un filmato proveniente dalla pagina "end Israel" (terminare Israele), dove si inneggia alla violenza jihadista e rimosso poche ore fa dalla bacheca, beneficia di un alloggio pubblico a Fabriano dal 2008, ciò nonostante il fatto che l'imam vive in Polonia da circa 5 anni. Secondo un documento dell'Ente Regionale per l'Abitazione Pubblica di Ancona datato 31 agosto 2017, tra l'elenco dei beneficiari del comune di Fabriano compare infatti anche Qandyly con data assegnazione risalente al 1o agosto 2008 e presentazione nuova domanda datata 26 maggio 2017. Risulta infatti, come confermato dal Resto del Carlino, che moglie e figli dell'imam vivono ancora nel fabrianese. Intanto il presidente del centro islamico di Fabriano, l'algerino Mekri Kader, già noto per aver organizzato la conferenza islamica assieme al Comune di Fabriano (poi annullata e alla quale era stata invitata anche l'ambasciatrice palestinese Mai al- Kaila che aveva definito Hamas "un gruppo di resistenza contro l'occupazione, che rappresenta una parte della popolazione Palestinese", minimizzando tra l'altro la pericolosità dei missili lanciati contro Israele) rilascia dichiarazioni piuttosto discutibili: "Quelle sono immagini diffuse da tempo in tutti i social. L'ha pubblicato, immagino, come simpatizzante in quanto difende la causa palestinese…Si sta montando un caso sul nulla visto che questa persona è all'estero da cinque anni".
   Al Corriere Adriatico Kader ha poi dichiarato: "ognuno è responsabile dei suoi atti e tutti dobbiamo stare molto attenti quando maneggiamo uno strumento insidioso come i social network. Purtroppo viviamo un tempo dove basta poco per accendere gli animi e rinfocolare i beceri sentimenti di odio e razzismo". Forse più che stare attenti a come si maneggiano i social network sarebbe più importante fare attenzione a chi si inserisce a predicare nei centri islamici, visti i risultati. A cosa serve fare il presidente della Comunità islamica se poi quando emergono casi di questo tipo si ricorre a un "ognuno è responsabile dei suoi atti"? Kader dimentica poi che nel mondo islamico sunnita sono in molti a sostenere che la figura dell'imam non decade con un eventuale trasferimento altrove dato che il termine indica una guida morale/spirituale e carismatica particolarmente esperta nelle scritture dottrinarie, nella tradizione e nei movimenti rituali obbligatori della preghiera canonica. E' chiaro che un imam che per anni è stato attivo in un determinato contesto lascerà un'eredità spirituale e ideologica per la quale verrà comunque considerato tale e plausibilmente manterrà contatti sul posto.
   E' indubbio che Qandyly per anni abbia ricoperto il ruolo di imam a Fabriano, in particolare quando il centro islamico era in via Dante e vantava la sala di preghiera più grande delle Marche, prima di trasferirsi in zona industriale. Qandyly appariva in numerose foto assieme a predicatori e ad ex sindaci oltre che ad eventi organizzati in piazza, per il Ramadan ma anche a favore di Gaza in piazza del Comune, come annunciato dallo stesso Qandyly a suo tempo su Facebook quando riportava il discorso: "discorso effettuato dal centro culturale islamico di Fabriano oggi alla manifestazione pro-Gaza in piazza del Comune". Anche l'ex sindaco del PD, Roberto Sorci, si esprime positivamente nei confronti dell'ex imam: "Di Quandyly ho sempre avuto l'immagine di una persona mite, aperta al confronto e non certo un guerrafondaio. Con lui ho un ottimo rapporto personale, anche se ormai da tempo non ho più avuto modo di parlarci proprio perché vive all'estero". Emergono intanto altri elementi d'interesse dal profilo Facebook dell'imam. Tra i moltissimi post pubblicati sulla propria bacheca, buona parte di tipo dottrinario salafita, ne emerge uno del settembre 2016 in difesa dell'ex presidente islamista Mohammed Mursi, attualmente in carcere in Egitto con l'accusa di spionaggio, alto tradimento e indicato come responsabile per il massacro di manifestanti che protestavano contro gli islamisti nel 2012 fuori del Palazzo Presidenziale al Cairo. Altri post ritraggono il leader spirituale dei Fratelli Musulmani, Yusuf Qaradawi, che dal Qatar aveva invocato la jihad in Siria. Oggi i Fratelli Musulmani sono inseriti nella lista nera delle organizzazioni terroriste di paesi come Bahrein, Emirati, Arabia Saudita, Siria, Russia, Egitto e il Qatar è stato isolato dagli altri Paesi del Golfo proprio a causa del suo supporto a tale organizzazione.
   Un altro predicatore a cui fa riferimento il profilo di Qandyly è Muhammad al-Arifi, che aveva invocato la jihad in Siria e la "jihad del sesso" (matrimoni brevi tra donne e combattenti islamici). Compaiono poi vignette con il presidente egiziano, Abdelfattah al-Sisi, dipinto come spia di Israele e Usa; un maiale con la testa del presidente americano Donald Trump, un video di Pierre Vogel, predicatore salafita tedesco accusato dalle autorità tedesche di avere contribuito con le sue parole alla radicalizzazione dei musulmani. Immancabile il post in supporto al Qatar, stato canaglia. Infine, un video pubblicato ieri come "risposta a Trump" nella quale si vedono centinaia di musulmani in preghiera nelle strade degli Usa, una sfida, un'offensiva nei confronti del presidente eletto dagli americani. Insomma, a quanto pare l'ex imam di Fabriano si spinge ben oltre la "simpatia per la causa palestinese", come sostenuto dal presidente della comunità islamica Mekri Kader e se per quest'ultimo "si sta montando un caso sul nulla" e si "accendono beceri sentimenti di odio e razzismo" allora forse all'interno della comunità islamica di Fabriano c'è veramente qualcosa che non va. Il presidente della Comunità islamica fabrianese è pronto a condannare Hamas? Dire che "la violenza genera violenza" e sminuire il caso affermando che l'imam non è più a Fabriano è decisamente insufficiente.
   
(il Giornale, 3 febbraio 2018)


"Così la scuola ha creato una generazione di individualisti e narcisisti"

In Francia scoppia il caso sul nuovo libro di Barbara Lefebvre

di Mauro Zanon

PARIGI - Nel 2002, Barbara Lefebvre ha trent’anni, è insegnante di Storia e geografia da quattro in una scuola di un quartiere difficile della banlieue parigina, e assieme allo storico della Shoah, Georges Bensoussan, contribuisce in prima persona a rivelare la portata della disintegrazione culturale in atto in molte scuole delle periferie di Francia, dove l’odio antioccidentale e l’antisemitismo vanno a braccetto con la propagazione dell’ideologia islamista. Quell’inchiesta, che provò a risvegliare dal torpore la classe politica e intellettuale, si intitolava “Les Territoires perdus de la République”, e resta tuttora un libro capitale per capire che cosa succede da vent’anni a questa parte nelle zone dimenticate dalle luci euforiche di Parigi. Di quei quartieri abbandonati a loro stessi, tra derive del modello assimilazionista e rigetto dei valori repubblicani, la Lefebvre è tornata a parlare in un pamphlet corrosivo appena pubblicato da Albin Michel, che in Francia è già un caso editoriale.
  “Génération ‘j’ai le droit’” è una severa constatazione del fallimento del sistema educativo francese, raccontato da un insider che ha vissuto sulla sua pelle la crisi della trasmissione dei saperi e dell’autorità tra i banchi di scuola. “L’atto di insegnare è stato dipinto da alcuni come un atto di violenza nei confronti dell’allievo in ragione della sua verticalità. Tuttavia, nell’universo scolastico, l’autorità è il contrario della dominazione: l’obiettivo dell’insegnante è quello di trasmettere dei saperi per permettere allo studente di essere autonomo, di staccarsi progressivamente da questa autorità. Purtroppo, però, abbiamo fatto credere ai genitori e agli stessi insegnanti che la scuola era il luogo dell’arbitrario culturale e della violenza istituzionale”, ha spiegato l’autrice in un’intervista al Figaro Magazine. I demolitori della scuola repubblicana, quelli che hanno creato questa generazione di individualisti e narcisisti, convinti di avere soltanto diritti e nessun dovere, sono “gli ideologi della decostruzione dell’autorità istituzionale”, dice la Lefebvre, i figli del ’68 che non hanno mai smesso di ripetere che “l’autorità è sinonimo di autoritarismo e la cultura un’arma della dominazione borghese occidentale”. La sua ruvida analisi su questa generazione di giovani che mette il “je” davanti a tutto, dà del tu ai propri insegnanti e rifiuta ogni forma di autorità, ha fatto arricciare il naso alla stampa progressista, che rapidamente l’ha bollata coma la “solita reazionaria”. Christophe Carron, caporedattore vedette di Slate.fr, ha accusato Le Parisien di “delirio réac”, per aver dedicato un dossier al testo della Lefebvre, altri, sui social network, hanno accusato l’autrice di essere “una vecchia che attacca le nuove generazioni”. Il settimanale Les Inrocks, bibbia della sinistra post sessantottina, lo ha stroncato come “libro anti-giovani”.
  Eppure, lungo le sue pagine, sono anzitutto i genitori e gli insegnanti ad emergere come i principali colpevoli di questa fabbricazione di Mesdames et Messieurs “Moi, moi et moi”, accanto ai decisori politici e alla loro opera di “sradicamento” in nome del multiculturalismo. “Il reale era ciò che gli sradicatori producevano metodicamente giorno dopo giorno facendo credere ai piccoli insegnanti di periferia come me che partecipavamo alla grande opera repubblicana. Purtroppo, però, eravamo soltanto dei piccoli impiegati della grande macchina di sradicamento della cultura e della storia dal cuore e dai cervelli delle nuove generazioni”, scrive la Lefebvre nella sua opera. La sacralizzazione del vivre-ensemble e dell’islam nei manuali scolastici francesi, a discapito di un’obiettività critica, è stata denunciata anche dalla presidente del Consiglio superiore dei programmi, Souad Ayada, appena nominata dal capo dello stato, Emmanuel Macron. L’auspicio di Barbara Lefebvre è che il nuovo ministro dell’Istruzione, Jean-Michel Blanquer, ascolti, a differenza dei suoi predecessori, questo grido d’allarme.

(Il Foglio, 3 febbraio 2018)


Tre gemelli a Gaza chiamati "Gerusalemme, Capitale, Palestina"

KHAN YOUNIS - C'è chi lancia pietre e chi ricorre a una provocazione pacifica per contestare la decisione americana di riconoscere Gerusalemme capitale d'Israele: una coppia di palestinesi nella Striscia di Gaza ha deciso di chiamare i loro tre figli gemelli Gerusalemme, Capitale, Palestina. Il neo papà Nidal Al-Saiqli:"Dico a Trump che Gerusalemme è la capitale della Palestina. Dopo la decisione di Trump, i nomi dei miei tre figli sono Quds, Assema e Falestine (ovvero Gerusalemme, Capitale, Palestina)."Spero che quando i miei figli saranno grandi, Gerusalemme sarà liberata", si è augurato.

(askanews, 2 febbraio 2018)


Milano - Comunità ebraica: liste senza odio. E su Israele Apuzzo si difende

Il candidato spiega: «Io non boicotto, lavoro per la pace»

di Alberto Giannoni

MILANO - Stefano Apuzzo, candidato alle Regionali, spiega e si difende. E viene difeso anche da Giorgio Gori, che lo vuole schierare nella sua lista civica. Intanto però arriva il monito della Comunità ebraica. «Crediamo che la nostra Regione abbia già tanti problemi, e che non debba esserci spazio per chi collabora con chi predica odio» hanno dichiarato i co-presidenti Raffaele Besso e Mila Hasbani, evocando il caso che ha coinvolto Apuzzo. Dell'assessore di Rozzano si è parlato perché sul suo profilo è apparso un post, non suo, contenente insulti alla giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein. Inoltre, delle iniziative di Apuzzo aveva parlato anche l'ambasciatore israeliano, chiedendo al sindaco di Rozzano un intervento per fermare le «campagne di diffamazione e di odio contro Israele». Apuzzo ha spiegato di far parte della «rete internazionale e italiana degli Ebrei contro l'occupazione», cosa che ha fatto suonare un campanello d'allarme nella comunità. «Ricordiamo che tale gruppo non è rappresentativo dell'ebraismo dicono i presidenti anche perché costantemente schierato su posizioni discriminatorie e di odio nei confronti di Israele».
   In campo anche l'Associazione milanese pro Israele. «È tempo dice il presidente Alessandro Litta Modignani che tutte le forze politiche, in questo caso Pd e Lista Gori, facciano pulizia al loro interno e mettano alla porta i propagatori d'odio contro l'unica democrazia del Medio Oriente». Su Israele il candidato di un tizio mi ha "taggato" nella mia totale ignoranza e quella foto è finita nella mia galleria. Ora l'ho tolta, non condivido, mi confronto e litigo con tanti amici israeliani ma non insulto per un'idea».
   E la lettera dell'ambasciatore sul Bds (la sigla che promuove il boicottaggio di Israele)? «Da giornalista spiega Apuzzo seguivo azioni di movimenti pro Palestina e Bds, qualcuna l'ho postata nel mio canale you tube, non necessariamente condividendola. Non sono un militante del Bds, condivido alcune campagne». «Non ho mai parlato di genocidio a Gaza prosegue nel mio cartello c'è scritto stop bombing, io non affronto la questione come gli estremisti o come alcune associazioni pro Palestina che fanno più male che bene ai palestinesi». «L'estremismo fa male spiega Apuzzo io sono impegnato in un progetto per scuole che ci vengono rase al suolo, ma non addestrano militanti di Hamas. Non ho simpatia per movimenti islamici fondamentalisti, sono per la libertà, sono laico e cristiano e abbiamo contatti coi rabbini per la pace e i pacifisti». «In Israele dice c'è uno stato di separazione etnica, non vogliamo chiamarla apartheid? Chiamiamola in altro modo. Io contesto, come molti ebrei e israeliani, le politiche del governo israeliano. A differenza di molti difensori dei palestinesi, penso che un cittadino israeliano abbia il diritto-dovere difendere Israele e che Israele abbia diritto di esistere in pace e sicurezza a fianco di un'autorità palestinese. Mia madre ha un cognome di origine ebraica, mia moglie ha un cognome tipicamente ebraico. Vedermi dipinto come antisemita mi fa arrabbiare. Sono "anti" solo in un caso: antifascista».

(il Giornale, 3 febbraio 2018)



Gli antisemiti e il potere della ragione

«Vi ingannate se pensate che la ragione abbia un qualunque potere. Essa non serve a nulla, assolutamente a nulla. Gli antisemiti [...] sono sordi di fronte alla voce della ragione, del diritto e della morale».
Theodor Mommsen, 1903

 


Abbas terrà un discorso al Consiglio di sicurezza dell'Onu

NEW YORK - Il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, terrà un discorso al Consiglio di Sicurezza dell'Onu il 20 febbraio, durante l'incontro mensile sul Medio Oriente, dopo le tensioni per la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Secondo quanto ha reso noto l'ambasciatore del Kuwait presso l'Onu, Mansur Ayad al Oteibi, che presiede questo mese il Consiglio di Sicurezza, la visita del presidente palestinese sarà "molto importate". Il Kuwait "ha preso l'iniziativa per consentire tale intervento", mentre Israele non ha chiesto ancora di poter inviare un rappresentante di alto rango alla riunione del Consiglio di sicurezza.

(Agenzia Nova, 2 febbraio 2018)


70 candeline, Israele prepara la festa

 
Miri Regev, ministro popolare
Aggressiva, esuberante, a volte sboccata, Miri Regev, ministro della Cultura e dello Sport israeliano, trova un sempre più solido apprezzamento all'interno dell'elettorato del Likud, il partito del Premier Benjamin Netanyahu. In un sondaggio lanciato a inizio gennaio dal canale di informazione HaHadashot, Regev risulta infatti in testa con il 76 per cento di gradimento, seguita da Gideon Saar - ex delfino di Netanyahu, tornato alla politica lo scorso anno dopo una pausa - e dal ministro alla Pubblica sicurezza Gilad Erdan. Davanti c'è dunque lei, Regev, che in passato ha più volte invocato la censura o il taglio dei finanziamenti a spettacoli o pellicole per il suo gusto poco patriottici o proprio anti-israeliani. Recente esempio, la sua condanna del film Foxtrot di Samuel Maoz, premiato a Venezia, e definito dalla Regev una disgrazia. Questo atteggiamento censorio non sembra però aver intaccato il gradimento tra il suo elettorato, anzi.


"70 ore di festa che riuniranno i cittadini di tutto il paese in eventi diversi e gioiosi". Così il ministro della Cultura israeliano Miri Regev ha definito le iniziative organizzate dal ministero in occasione delle celebrazioni dei 70 anni di Indipendenza dello Stato d'Israele. Durante una conferenza stampa tenutasi a Yad LaShirion, nel centro urbano di Latrun, Regev ha anche presentato il logo dedicato ai festeggiamenti. Il ministro ha spiegato che la cerimonia annuale al Monte Herzl del 18 aprile sarà accompagnata da una canzone ufficiale per celebrare il 70o anniversario, seguita "dal più grande spettacolo pirotecnico della storia del paese". Poi prenderà il via una festa in spiaggia, che durerà tutta la notte, "lunga 70 chilometri, da Tiberiade a Eilat" Il 19 aprile sarà caratterizzato da una "sfilata leggera" in onore dell'innovazione israeliana, vi sarà l'annuale quiz dedicato alla Torah e la cerimonia del Premio Israele. Venerdì 20 aprile, in tutto il paese, si terranno delle feste di strada in omaggio e ricordo delle esplosioni di gioia e delle danze spontanee che furono organizzate nelle strade dopo che David Ben-Gurion dichiarò la nascita dello Stato (14 maggio 1948).
Secondo i media israeliani, il costo della celebrazione ammonterebbe a 100 milioni di Shekel (24 milioni di euro), meno dei 160 milioni spesi per il 60esimo anniversario.
"Gli eventi - ha dichiarato Regev - sono pensati per essere adatti sia al pubblico giovane sia per i più anziani, per intere famiglie, per gli ebrei di tutto il mondo. Stiamo per ospitare gli eventi più discussi e commoventi della società israeliana, pieni di energia, positività e gioia. Sarà emozionante, elegante e commovente, proprio come questo paese che amiamo merita.
Il tema generale della 70esimo anniversario di Israele è "Patrimonio dell'Innovazione", basato sui successi della cosiddetta Start-Up Nation così come sulla tecnologia all'avanguardia sviluppata nel paese. La società. israeliana è creativa, guarda al futuro, pensa fuori dagli schemi ed è pioniera nella ricerca, nella medicina e nell'agricoltura "e ha fornito così un contributo vitale per tutta l'umanità", ha detto Regev. Il citato logo ufficiale porta il numero 70, una Stella di Davide dal design moderno, che disegna un continuum storico dai tempi di re David con la sovranità israeliana moderna, e "Israele" come scritto da uno scriba in un rotolo di Torah, che esprime "l'indissolubile legame tra il moderno Stato di Israele e l'antico nazionalismo, tra il 2018 e i tempi biblici, tra Gerusalemme celeste e Gerusalemme terrena", secondo una dichiarazione del ministero della Cultura.

(Pagine Ebraiche, febbraio 2018)


Negazionismo e Shoah

Non ci sarà nessun silenzio per gli innocenti, ma una verità difficile tra Austria e Gerusalemme

di Fiona Diwan

«La mia verità? La tua verità? La loro verità? No signorina. Esistono i fatti. Ed esiste una sola verità. Si tratta di decidere solo se accettarla o negarla». E' la verità dei fatti accaduti, è la conta dei morti, è l'oggettività brutale degli eventi, quella di cui parla Yoel, il protagonista del film israeliano-austriaco La Testimonianza, in uscita nelle sale italiane, un ricercatore e storico impegnato in una battaglia legale largamente ripresa dai media, contro interessi economici potenti di famiglie austriache.
   Quella che cerca Yoel nei prati e nei boschi intorno al paesino di Lendsdorf in Austria è la verità di una fossa comune dove nel marzo del 1944 vennero trucidati 200 ebrei dalla popolazione locale, un eccidio ad opera di civili austriaci, non per mano delle SS o delle truppe naziste. Dopo il massacro, con l'Armata Rossa a soli 10 chilometri di distanza dal paesino, vengono seppelliti in fretta e furia i 200 cadaveri, ma la fossa non si riesce a trovare e sembra che nulla sia mai esistito né avvenuto. Il silenzio regna sovrano e il tempo che tutto ricopre, chiede che in quell'area oggi si costruiscano, per i vivi, strade, case, villette, supermarket. Ma Yoel, da bravo storico, si mette per traverso e cerca con ostinazione quella fossa comune, contro tutto e tutti, i complici di ieri, i solerti insabbiatori di oggi, persino contro i suoi capi israeliani che vorrebbero chiudere la ricerca e accettare il compromesso delle autorità austriache che offrono un memoriale a Lendsdorf in memoria dell'eccidio.
   Yoel è un ebreo religioso, israeliano, duro con se stesso e con gli altri, integro moralmente: la proposta dei palazzinari austriaci è inaccettabile. La sua ricerca della verità lo precipita in un loop ossessivo, e la sua identità di storico e appartenente alla comunità haredì di Gerusalemme verrà scossa fin dalle fondamenta dall'intera vicenda. Il piano storico e personale si rincorrono, come sempre avviene nei film sulla Shoah. Nulla è come appare e anche gli affetti più cari vacillano sotto la lente della ricerca storica e dell'emergere di verità nascoste.
   Asciutto, intenso, eccezionalmente ben diretto e sceneggiato da Amichai Greenberg, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e premiato come miglior film al Festival di Haifa, un cast di ottimi attori, La Testimonianza è una storia sorprendente soprattutto per le implicazioni e le ricadute sulla coscienza religiosa ebraica, ed è tra i film più originali in circolazione sul tema del Negazionismo e sulle implicazioni che le vicende della guerra possono riservare alla sensibilità spirituale ebraica. La Negazione della Shoah avvolge gli accadimenti di cui parla il film come una sottile e invisibile barriera di vetro. Un muro di silenzio, l'occultamento delle tracce, la rimozione collettiva di un intero paese, di una intera nazione, l'Austria, che non ha ancora del tutto saldato i conti con i suoi ebrei né con la Shoah; l'Austria che fu il vero incubatore di quello che è stato l'orrore nazista, il paese dove nacque Hitler.

(Bet Magazine Mosaico, 2 febbraio 2018)


Israele bombarda postazione di Hamas dopo lancio di razzo

L'aviazione israeliana ha bombardato la scorsa notte una postazione del movimento islamista Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta al razzo lanciato dall'enclave palestinese in territorio israeliano. Lo ha reso noto l'esercito israeliano, ribadendo in un nota di "ritenere Hamas responsabile di tutte le violenze che arrivano dalla Striscia di Gaza". Fonti dei servizi di sicurezza palestinesi hanno fatto sapere che non ci sono state vittime nel raid israeliano. Dal 6 dicembre scorso, quando il presidente americano Donald Trump ha annunciato di voler riconoscere Gerusalemme capitale di Israele, sono stati lanciati almeno 20 razzi dalla Striscia di Gaza, spesso da gruppi islamisti marginali

(Quotidiano.net, 2 febbraio 2018)


L'industria militare israeliana svela un "super proiettile" calibro 5,56

GERUSALEMME - L'Industria militare israeliana (Imi) ha creato un nuovo proiettile da 5,56 millimetri, dotato di maggiore precisione e capacità di provocare la morte. Secondo quanto riportava ieri il quotidiano di informazione economica israeliano "Globes", il proiettile è in grado di penetrare lastre di acciaio da 3,4 millimetri ad una distanza di 800 metri. Il segretario della divisione delle munizioni per armi di piccolo calibro di Imi, Israel Shmilovitz, ha dichiarato che il nuovo proiettile è stato sviluppato in risposta alle richieste operative di molti eserciti e forze di sicurezza di tutto il mondo che cercano uniformità nei tipi di munizioni che usano, senza sacrificare le prestazioni. In precedenza, infatti, ha evidenziato Shmilovitz soltanto i proiettili calibro 7,62 adattati ad armi semi-automatiche erano in grado di penetrare superfici corazzate. Il nuovo proiettile ha migliorato le capacità dei militari, aumentando la potenza di fuoco equivalente a quella di una mitragliatrice Fn Mag e riducendo il peso dell'attrezzatura necessaria da portare sul campo di battaglia.

(Agenzia Nova, 1 febbraio 2018)


Gerusalemme capitale hi-tech con il summit di Ourcrowd

La piattaforma israeliana conta 25mila investitori

145 - Il numero
Gli investimenti realizzati dalla piattaforma israeliana dalla nascita nel 2013.
25mila - Gli investitori
Gli iscritti alla piattaforma da 112 Paesi al mondo. I più numerosi sono gli statunitensi.
650 milioni - Gli asset
Asset gestiti da Ourcrowd che punta nel corso dell'anno di superare quota un miliardo.

di Monica D'Ascenzo

 
Diecimila persone da 90 Paesi, 300 startup e 200 fondi di venture capital. I numeri del più grande evento mondiale per le società innovative la dicono lunga su come Gerusalemme si giochi un ruolo di primo piano nel panorama globale delle startup. L'occasione è quella del Global Investor Summit organizzato dalla israeliana Ourcrowd, una delle maggiori piattaforme al mondo di crowdfunding.
   Il modello di business di Ourcrowd ha raccolto particolare interesse, perché la piattaforma investe in ogni singola startup presente nel proprio sistema di raccolta. Questo permette un perfetto allineamento fra gli interessi di Ourcrowd e quello degli investitori. Inoltre rappresenta per questi ultimi una garanzia nella scelta delle società in cui investire. L'impegno di Ourcrowd rappresenta, infatti, un biglietto da visita notevole per realtà che magari sono solo agli albori. «Se in soli cinque anni, Ourcrowd ha costruito un network globale di oltre 20mila fra investitori, imprenditori, società e venture capital, questo ci permette di portare l'intero ecosistema al Summit e di aiutare a guidare l'era dell'innovazione tecnologica, a trovare diverse vie per trasformare il mondo e la nostra vita» ha sottolineato Jon Medved, ceo di Ourcrowd presentando l'evento.
   OurCrowd, con uffici sparsi in tutto il mondo, ha raccolto oltre 650 milioni di dollari ad oggi e investito in 145 società e 12 fondi di venture capital a livello globale. Non solo. In settimana Ourcrowd ha anche annunciato che nei prossimi 10 anni conta di investire in 100 società attraverso l'incubatore Labs/02, costituito in partnership con Motorola Solutions, Reliance Industries e Yissum, il technology transfer della Hebrew University di Gerusalemme. L'incubatore, peraltro, fa parte del programma di incubatori tecnologici di Israele che fa capo all'Israel Innovation Authority. «Labs/02 è l'unità di comando dei fondi che investono nell'earlystage. Il nostro lavoro è veloce, professionale e supportato da partner di alto livello, che si concentrano sulla creazione di valore aggiunto per le aziende. A Labs/02 crediamo che il vero valore risieda nelle persone. Un team di startup vincente è composto da persone che hanno assaporato il successo e che desiderano ardentemente di più» commenta Moshe Raines, che guida le attività dell'incubatore, dando la cifra di quale sia il vero valore delle startup: più che l'idea in sé, le persone.
   E non è che Ourcrowd si muova in un mercato incoraggiante, se si conta che nel corso del 2017 gli investimenti seed in early stage hanno registrato una flessione del 49% rispetto all'anno precedente. La piattaforma, però, è positiva per l'anno in corso e conta di superare il miliardo di asset gestiti, raccolti attraverso l'equity crowdfunding. Nel 2017 La base degli investimenti ha superato la soglia dei 25mila da oltre 112 Paesi al mondo. Tanto che Ourcrowd ha spinto sull'internazionalizzazione aprendo uffici a London, Hong Kong e Madrid, arrivando a un totale di 10 sedi fuori da Israele. Fra gli investitori i più numerosi sono gli statunitensi con il 49% seguiti dall'Asia con il 26 per cento. Il numero medio di investimenti fatti da ogni singolo è di 6,5 con un portafoglio investito attorno ai 250mila dollari.
   Ieri sera la giornata si è chiusa con un post-summit party a cui, tanti assicurano, si è continuato a parlare di deal.

(Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2018)


Piccardo vota 5 stelle. Non sorprendetevi

C'è attrazione tra islamismo e grillismo? Il caso del leader musulmano.

I musulmani d'Italia voteranno per i Cinque stelle. Ad assicurarlo è un esponente di primo piano della comunità islamica come Davide Piccardo, a lungo portavoce delle associazioni milanesi che fanno capo all'islam politico e carismatico leader dei giovani musulmani. "Finora la maggior parte degli islamici votava la sinistra, adesso vedo che si orientano sui 5 stelle, anch'io voterò il movimento", ha dichiarato alla Zanzara. Piccardo ha anche chiesto l'introduzione della poligamia in Italia, "una battaglia di civiltà". Se confermato poi dai trend elettorali, la dichiarazione di Piccardo confermerebbe una naturale attrazione fra l'islam e i 5 Stelle. Quest'ultimo non brilla per una forte cultura democratica e per una sana concezione dei rapporti di forza in senso liberale. Molti esponenti dei 5 stelle flirtano con il terzomondismo, con la cultura del complotto e con il viscerale antiamericanismo. Pur senza generalizzare, questi sono tutti tratti comuni anche del mondo islamico radicale. Inoltre, i 5 stelle sono il partito più fieramente antisraeliano in circolazione. Hanno invitato sostenitori del boicottaggio d'Israele, che i grillini vedono come uno strumento dell'imperialismo. "Siamo davanti a un'invasione, a una segregazione che dura da molti anni, con il popolo palestinese chiuso come fosse in una prigione", ha detto Alessandro Di Battista. Piccardo e compagni non troverebbero un'altra simile offerta di menzogne in Parlamento. Lo stesso Beppe Grillo ha spesso prestato il fianco alla retorica antisraeliana. A inveire contro Israele ci si sente non soltanto islamisti, ma anche un po' grillini.

(Il Foglio, 2 febbraio 2018)


Nessuna «verità di Stato» può alterare la realtà dei fatti

La Polonia ha approvato la legge sull'Olocausto che vieta di accusare i polacchi di connivenza con il nazismo. Fino a 3 anni di carcere per chi accusi la Polonia di complicità con i crimini nazisti o definisca «polacchi» i «campi di sterminio installati in Polonia».

di Giovanni Belardelli

E' stata appena approvata in Polonia una legge che vieta, pena una sanzione che può arrivare fino a tre anni di carcere, di attribuire ai polacchi qualunque responsabilità nei crimini contro l'umanità commessi dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. La legge ha suscitato le proteste del governo israeliano che vi ha visto il tentativo di negare ogni responsabilità di quel Paese nello sterminio degli ebrei: ad esempio in tutto ciò che riguardava i rifornimenti e la manutenzione dei campi che, come Auschwitz, si trovavano in territorio polacco. In Italia questa legge non ha suscitato particolare attenzione, benché abbia implicazioni molto rilevanti, che vanno al di là della questione riguardante la presenza, nella società polacca, di comportamenti antisemiti durante la guerra, e non soltanto allora. Presenza, questa, innegabile indipendentemente da ciò che sostenga o meno la nuova legge polacca. Uno storico americano, Jan Gross, dedicò anni fa un libro (I carnefici della porta accanto, Mondadori) all'eccidio di ebrei compiuto in un villaggio polacco dai loro «vicini di casa» non ebrei. Ne ha scritto poi un altro sul più sanguinoso pogrom in tempo di pace nell'Europa del secolo XX, quello avvenuto nella cittadina polacca di Kielce il 4 luglio 1946, che testimoniava il permanere di sentimenti antisemiti anche nella Polonia diventata comunista.
  Ma la legge voluta in Polonia dal partito nazional-conservatore al governo, Diritto e Giustizia, dovrebbe essere criticata anche, e direi soprattutto, per un altro motivo d'ordine più generale. Questa legge infatti conferma quanto sia sbagliato in sé - cioè a prescindere dalla tesi che si vuole vietare o prescrivere - varare norme che fissino una sorta di «verità storica» di Stato. Qualcuno potrebbe osservare che le leggi sul negazionismo, che colpiscono chi nega la realtà storica della Shoah, sanzionano una tesi manifestamente infondata; mentre nel caso della legge polacca è vero e documentato proprio ciò che si proibisce di sostenere, il rapporto tra la popolazione della Polonia e lo sterminio degli ebrei. È un'obiezione sbagliata per due motivi. In primo luogo perché sottende l'idea che la libertà di espressione debba essere garantita, sì, purché non la si usi poi per sostenere tesi chiaramente erronee. Ma una simile concezione della libertà di opinione, pur molto diffusa, si adatta più alla Russia di Putin che a Paesi come l'Italia, la Germania o la Francia. In una democrazia, infatti, la libertà di espressione si misura proprio sulla possibilità di sostenere tesi che la maggioranza ritiene sbagliate ( e naturalmente sulla facoltà di criticarle anche duramente).
  In secondo luogo, cosa o chi può mai certificare che una tesi storica è infondata oppure no? La nostra rappresentazione del passato - sempre provvisoria e in evoluzione - dovrebbe prendere forma attraverso una libera ricerca e una libera discussione; al contrario, se ci si mette sulla strada di una versione ufficiale sancita per legge, c'è poco da fare: ci si deve affidare alla maggioranza parlamentare che approva le leggi, accettando dunque che in Paesi diversi si sanzionino (o impongano) tesi diverse, anche manifestamente (per noi) assurde. Oltre al caso polacco, pensiamo a quello della Repubblica Ceca dove non solo è vietato negare i crimini del regime comunista ma essi devono essere obbligatoriamente definiti quali «crimini contro l'umanità», cosa a dir poco discutibile.
  È stato soprattutto in Francia che sono state approvate varie «lois mémorìelles», leggi sul passato che sanzionavano il negazionismo della Shoah o del genocidio degli armeni, che obbligavano a definire lo schiavismo un crimine contro l'umanità oppure, qualche anno dopo, chiedevano che i programmi scolastici riconoscessero «il ruolo positivo della presenza francese oltremare». Non a caso fu proprio in quel Paese che venne fondata da alcuni studiosi un'associazione in difesa della «libertà per la storia», il cui manifesto iniziava con queste parole: «La storia non è una religione. Lo storico non accetta alcun dogma, né rispetta alcun divieto, né conosce tabù. Lo storico può essere disturbante». Era il 2005 e da allora molti Stati, tra i quali l'Italia, si sono dotati di leggi - sul negazionismo e non solo - che fissano una versione ufficiale del passato, nel sostanziale disinteresse delle opinioni pubbliche e in barba alle proteste degli storici. C'è solo da sperare che la legge polacca, mostrando a quali esiti si possa arrivare una volta che venga accettato il principio di una verità di Stato, ci induca a riflettere sulla connessione tra ricerca storica e libertà.

(Corriere della Sera, 2 febbraio 2018)


L'unanimità con cui si condanna questa legge polacca è sospetta. Assomiglia molto alla corale indignazione che si è levata per l'uso improprio fatto da alcuni laziali dell'immagine di Anna Franck: occasioni propizie per dar prova a buon mercato di un incrollabile anti-antisemitismo. Nel dopoguerra i polacchi hanno manifestato in modo troppo chiaro "il permanere di sentimenti antisemiti" anche dopo il massacro della Shoah, dunque è bene che questo sia chiaramente stigmatizzato affinché non si pensi che "il permanere di sentimenti antisemiti" alberghi anche tra noi. Ma le cose stanno proprio così. Non in quella forma, certamente, ma in una forma adatta ai tempi e alle circostanze. Bisogna rallegrarsi di questo? Si sono levate alte grida perché il Parlamento polacco ha voluto istituire una "verità di Stato" nazionale, ma non si sono fatte sentire grida altrettanto alte per quelle scandalose "verità di ONU" internazionali emesse dall'Unesco a proposito della città di Gerusalemme e del Monte del Tempio. Ancora una volta, gli ebrei morti muovono a compassione molto di più degli ebrei vivi. Si legga la notizia riportata sotto. M.C.


L'ONU pubblica la lista nera delle società collegate agli insediamenti israeliani

MADRID - Dopo mesi di attesa, l'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha reso pubblico ieri l'elenco delle società che hanno interessi economici negli insediamenti israeliani all'interno dei territori palestinesi, condannati dall'ONU in varie risoluzioni, l'ultima delle quali è stata approvata nel dicembre del 2016. Le società che "direttamente o indirettamente" hanno reso possibile, facilitato o beneficiato della costruzione e della crescita degli insediamenti ebraici in Cisgiordania sarebbero almeno 206, con sede in una ventina di paesi. Lo riferisce il quotidiano spagnolo "Abc" che specifica come di queste, 143 società abbiano sede a Israele, 22 negli Stati Uniti, 7 in Germania, 4 in Francia, 5 in Olanda, 3 in Italia e una in Spagna.

(Agenzia Nova, 1 febbraio 2018)


Lorde non canta in Israele. I fan protestano e impugnano la legge antiboicottaggio

Un gruppo per la tutela dei diritti civili israeliani ha citato in giudizio le due attiviste neozelandesi che avevano indirizzato una lettera aperta alla cantante perché riconsiderasse l'idea di suonare nel Paese.

Lorde
Justine Sachs e Nadia Abu-Shanab
Quando a dicembre Lorde ha annunciato di voler annullare il suo concerto a Tel Aviv previsto per il prossimo 5 giugno, c'è stato chi si è schierato a favore e chi contro la sua decisione, come del resto è sempre successo quando un artista si è trovato a scegliere se esibirsi o meno in Israele: lo stesso avevano fatto, prima di lei, Roger Waters, Brian Eno o Lauryn Hill. Avevano confermato i propri show, invece, Radiohead e Nick Cave, quest'ultimo, a dire la verità, dopo anni di "no".
   Stavolta però, un gruppo per la tutela dei diritti civili israeliani ha citato in giudizio le due attiviste neozelandesi che avevano indirizzato una lettera aperta alla cantante perché riconsiderasse l'idea di suonare nel Paese. Per la prima volta da quando è stata prevista nel 2011, quindi, si farà ricorso alla legge anti boicottaggio contro Israele. Il 20 dicembre scorso, Justine Sachs e Nadia Abu-Shanab, due ragazze neozelandesi come Lorde, ma di origini ebree la prima e appartenente a un gruppo contro l'occupazione della Palestina, palestinesi la seconda, hanno scritto una lettera aperta alla cantante, pubblicata sul sito The Spinoff, nella quale la implorano di annullare il concerto di Tel Aviv. Con tutte le violazioni dei diritti perpetrate da Israele e la condizione di apartheid in cui sono costretti a vivere i palestinesi, scrivono le ragazze, fan della musicista, "un concerto nel Paese manderebbe un messaggio sbagliato. Suonare a Tel Aviv sarebbe visto come un segno di supporto alle politiche del governo israeliano, anche senza un tuo esplicito commento su quelle politiche. Queste conseguenze non possono essere evitate né dalle migliori intenzioni, né dalla musica migliore". In un primo momento Lorde ha ammesso di stare valutando tutte le opzioni e pochi giorni dopo ha confermato l'annullamento del concerto: "ho parlato con tantissime persone, ognuno con il proprio punto di vista, e la decisione migliore credo sia quella di cancellare lo show".
   Le denuncia alle due attiviste è stata fatta sulla base dei danni che avrebbero subito tre ragazzi che avevano acquistato il biglietto del concerto che non c'è mai stato. Justine Sachs e Nadia Abu-Shanab sono state chiamate a pagare danni per una cifra di circa tredicimila dollari. La legge approvata, non senza proteste, dal parlamento israeliano nel 2011, prevede infatti che chiunque creda di aver subito danni economici dal boicottaggio contro Israele, le sue istituzioni o le aree sotto il suo controllo può intentare una causa civile. Da quell'anno, però, nessuno vi aveva mai fatto ricorso. I tre ragazzi hanno scelto di farlo ora perché "feriti dall'annullamento dello show" dicono gli avvocati. "Sono fan della musicista - continuano i difensori - e hanno acquistato i biglietti non appena hanno saputo del concerto in Israele". D'altra parte, esponenti di movimenti come il BDS - Boycot, Divest and Sanction per il boicottaggio e le sanzioni a Israele, rispondono che è improbabile che un tribunale israeliano accetti l'idea che "essere privati del piacere di ascoltare la propria cantante preferita sia considerato un danno".

(la Repubblica, 1 febbraio 2018)


Dispensati dal lavoro perché ebrei

Le storie dei dipendenti comunali vittime delle leggi razziali

È stato presentato in Consiglio lo studio realizzato degli studenti della Statale presso la Cittadella degli Archivi e in collaborazione con il CDEC, frutto di un ordine del giorno votato dall'Aula un anno fa.
  Quindici persone, quattro donne e undici uomini, quattro delle quali sarebbero state deportate nel campo di concentramento polacco di Auschwitz. Tanti sono i dipendenti del Comune di Milano che tra la fine del 1938 e l'inizio del 1939 furono "esonerati" o "dispensanti", tecnicamente non "licenziati" dal lavoro per effetto delle leggi razziali fasciste, di cui il prossimo 17 novembre cade l'ottantesimo anniversario.
  Nomi e numeri che sono il risultato non definitivo di una ricerca condotta presso la Cittadella degli Archivi del Comune di Milano da nove studenti del Dipartimento di Storia dell'Università Statale, che hanno lavorato per tutto il 2017 grazie all'attivazione di stage trimestrali e in collaborazione con il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC).
  L'indagine, presentata oggi a Palazzo Marino, è frutto di un ordine del giorno votato dal Consiglio comunale il 26 gennaio del 2017 e si concluderà il prossimo novembre con la messa online dell'intero lavoro.
  Intanto, l'esito della ricerca effettuata incrociando i dati delle deliberazioni podestarili del 1938 e del '39 con il "Censimento degli israeliti", i "Registri delle denunce di appartenenza alla razza ebraica" del Comune di Milano e la "Rubrica degli ebrei residenti a Milano" nel 1942, ha permesso di ricostruire le vicende di queste 15 persone.
  Storie di impiegati, medici, farmacisti, ragionieri, operai, scrivani, segretarie, costretti a lasciare il posto di lavoro presso l'Amministrazione milanese a seguito del Regio Decreto legge 17 novembre 1938 nr. 1728, che all'articolo 13, riferendosi "alle amministrazioni dei Comuni e degli Enti, Istituti e Aziende mantenute con il concorso dei Comuni" prescriveva il divieto di "avere alle proprie dipendenze le persone appartenenti alla razza ebraica". Quattro dei 15 furono poi deportati nei campi di concentramento nazisti e uno di questi morì internato ad Auschwitz. Per lui, venti anni dopo la fine della Guerra la moglie riuscì ad ottenere dal Comune il riconoscimento degli anni di servizio perduti e quindi la pensione da dipendente dell'Amministrazione.

(Vivere Milano, 2 febbraio 2018)


Un'eredità difficile

di Rav Alberto Moshe Somekh

 
Rav Giuseppe Laras
"Giusto Tu sei H. e retta è la Tua Giustizia". Ogni volta che accompagniamo un defunto all'estrema dimora ripetiamo queste parole. La morte, si sa, è momento di din ("giudizio") per eccellenza. Ma non solo per l'anima di chi non c'è più. Nella nostra Tradizione due sono gli attributi della Divinità. Il chessed ("bontà, misericordia") connesso strettamente con la nozione di "dare". E il din, appunto. Questo è legato al concetto di "ricevere". Nel senso che quando ci si aspetta di ricevere qualcosa, si viene giudicati se si è meritevoli di riceverlo. Il trapasso è dunque momento di din anche per gli eredi. Se questo vale per la prospettiva di un'eredità materiale, tanto più nel caso di un'eredità intellettuale e spirituale.
  La figura di rav Giuseppe Laras, recentemente scomparso, ci ha lasciato un'eredità morale di enorme portata. Legata non solo alla sua versatilità e alla molteplicità dei suoi interessi (rabbino, filosofo, scrittore, come è stato giustamente ricordato), ma anche per la straordinaria varietà dei ruoli che ha ricoperto: rabbino capo di tre Comunità, presidente dell'Assemblea rabbinica, presidente di un Tribunale Rabbinico, docente universitario. Un'eredità che non sarà facile raccogliere e gestire. Ben inteso, non mi riferisco in questo momento alla sua successione nelle cariche formali, ma al suo messaggio complessivo e complesso a un tempo. Nella Menorah, il candelabro a sette braccia del Bet ha-Miqdash, un lume era perpetuo (Ner Tamid), nel senso che mentre gli altri sei erano accesi dalla sera alla mattina soltanto, questo ardeva sempre.
  E' nota la controversia sulla sua identificazione. Secondo una scuola era il lume posto a una delle due estremità; secondo l'altra scuola era invece il lume centrale, verso cui tutti gli altri erano rivolti. Nella sua prefazione alla versione italiana degli Shemonah Peraqim ("Otto capitoli"), la dottrina etica di Maimonide che rav Laras pubblicò negli anni Settanta, egli ricorda come nella storia del pensiero ebraico convivano due dottrine differenti sulla qedushah, la virtù ideale nel comportamento. Una prima dottrina, che ha la sua base nei libri biblici di Iyov (Giobbe) e Qohelet predilige un impegno "estremo", ai limiti dell'ascesi. Pensatori come R. Yonah da Gerona nel Medioevo e R. Moshe Chayim Luzzatto (Ramchal) in epoca più prossima a noi hanno condiviso questa veduta. L'altra trova la sua espressione biblica nel libro dei Mishlè (Proverbi) ed è rappresentata proprio da Maimonide: essa stabilisce che la massima virtù consiste nel perseguire il giusto mezzo tenendosi lontani dagli estremi. E il lume centrale cui ci si appella come guida.
  Rav Laras ha incarnato quest'ultima visione non solo nei suoi interessi accademici, ma anche nella sua attività rabbinica in un'epoca in cui sembrava prevalere decisamente la prima. In un frangente in cui l'unità del gruppo non pareva all'ordine del giorno del mondo ebraico e tendenze particolariste sembravano avere il sopravvento anche nel nome di principi importanti ed elevati, egli ha sempre messo l'accento sulla necessità primaria di mantenere la compagine della Comunità al di sopra di ogni altra considerazione. A mio modesto avviso ciò va anche collegato a due esperienze personali che lo hanno profondamente segnato. La sua infanzia di figlio della Shoah gli deve aver suggerito quanto una Comunità piccola come la nostra non possa permettersi divisioni di sorta a fronte di un nemico esterno la cui violenza è endemica. In secondo luogo, giova ricordarlo, rav Laras ha ricoperto la cattedra di una Comunità "grande" (nel suo caso Milano) dopo essere passato da una Comunità "piccola" (Ancona) e da una Comunità "media" (Livorno). Prima di lui anche rav Toaff z.l. era approdato da Livorno a Roma passando per Ancona e Venezia. Rav Laras era nato a sua volta a Torino, dove si era formato alla Scuola di Rav Dario Disegni z.l. Chi meglio di rav Laras avrebbe potuto rendersi conto, anche una volta giunto all'apice della carriera, delle esigenze di realtà dalle risorse deboli, legate a una sopravvivenza quotidiana sempre più ardua e certamente lontane dalle esperienze sia pure interessanti e accattivanti dei "grandi" centri. Da qui l'urgenza da lui sentita di creare un Bet Din (Tribunale Rabbinico) che dedicasse i propri sforzi alle Comunità più esigue e marginali. Un'iniziativa che a suo tempo fu accolta non senza incomprensioni. Forse queste avrebbero potuto essere mitigate se solo il Bet Din in questione avesse avuto sede a sua volta in una Comunità diversa da Roma e Milano, vicino al proprio raggio d'azione e lontano dal rischio di interferenze. Ma a questo punto non spetta a noi giudicare.
  Oggi l'interrogativo da porsi è proprio come salvare l'ebraismo italiano, o anche solo mantenerlo in equilibrio fra la dissoluzione per mancanza di forze e l'assimilazione per mancanza di ideali. Ci si domanda se promuovere le due realtà maggiori, qualitativamente più significative e promettenti, consci del fatto che solo fra Testaccio e Trastevere vivono oggi più ebrei di quanti sono gli iscritti alle diciannove Comunità minori messe assieme; o se dare un'estrema fiducia a queste ultime in tutti i sensi, che domandano di non essere lasciate al proprio destino. È un dilemma obbiettivamente difficile. Rav Laras una risposta ha cercato di darla, nel segno della mediazione. Con la saggezza di chi operava conciliando il cervello con il cuore. Ora "udii la Voce di H. che diceva: chi manderò? chi andrà per noi" (Yesha'yahu 6,8).

(Pagine Ebraiche, febbraio 2018)


Sui campi di sterminio basta bugie. Ma punire non serve

Questo è l'appello rivolto al Parlamento polacco e sottoscritto da centinaia di sopravvissuti alla Shoah, rabbini, membri delle comunità ebraiche polacche e cittadini non ebrei, dopo la decisione del partito nazionalista "Diritto e giustizia" (PiS), al potere dal 2015, di vietare per legge l'utilizzo dell'espressione «campi di sterminio polacchi» a proposito dei lager creati dai nazisti nel Paese. Chiunque insinui che la Polonia sia stata responsabile del genocidio degli ebrei è passibile di condanna fino a tre anni di carcere.

"Noi, ebrei polacchi, ci rivolgiamo ai membri del Parlamento polacco affinché cambino il contenuto degli emendamenti alla legge riguardante l'Institute of National Remernbrance.
   Senza dubbio, l'espressione «campi polacchi di sterminio» è un vistoso errore. I campi di sterminio furono predisposti dai nazisti sul territorio dell'allora Polonia occupata al solo scopo di sterminarvi il popolo ebraico nel contesto della «soluzione finale». Di conseguenza, sarebbe falso attribuire al popolo polacco una qualsiasi forma di complicità nella costruzione di simili campi. In qualità di testimoni oculari e anche di discendenti degli ebrei, uomini e donne, assassinati nell'Olocausto, condanniamo questa definizione ingannevole. Nondimeno, non possiamo approvare le clausole con le quali si impongono condanne al carcere per chi faccia uso di tale espressione.
   Noi crediamo che chi la usa lo faccia non per accusare i polacchi di aver creato i campi di sterminio, bensì per utilizzare una designazione geografica: di per sé, questa espressione non è in ogni caso fedele al vero, perché la condizione di Stato indipendente della Polonia durante l'Olocausto era stata eliminata. Dal nostro punto di vista, tuttavia, l'uso di questa designazione geografica errata non dovrebbe essere perseguito con sanzioni economiche, e tanto meno con condanne al carcere come prevede la legge.
   Infine, l'adozione degli emendamenti alla legge nella loro forma attuale potrebbe condurre a penalizzare chi racconta la verità al riguardo dei ricattatori polacchi e di quei cittadini polacchi che assassinarono i loro vicini di casa ebrei. Siamo dell'opinione che questa definizione faccia ben più che limitare la libertà di parola, in quanto di fatto essa mira a distorcere la storia. Questo è il motivo che ci spinge a rivolgere un appello ai parlamentari polacchi affinché in sostanza respingano gli emendamenti dell'atto legislativo.
   Sappiamo bene tutti quanto possa essere dolorosa una menzogna al riguardo dei crimini nazisti. Noi vogliamo tutelare il buon nome della Polonia e individuare parole di uso comune per descrivere quei tragici eventi, e per questo vi invitiamo a dialogare con noi, gli ebrei polacchi."

(la Repubblica, 1 febbraio 2018)


Il caso Kielce e non solo. La Shoah oltre la Shoah

Il pogrom del 1946 nella città polacca e la commemorazione di Babi Yar in Ucraina

di Daniel Mosseri

 
4 luglio 1946 - Sopravvissuti al pogrom di Kielce
 
BERLINO - Settantacinque anni fa a Babi Yar, in Ucraina, nazisti tedeschi e collaborazionisti locali massacravano alcune decine di migliaia di ebrei: gli storici non hanno ancora stabilito se i civili uccisi furono 33 mila o anche tre volte tanto, come indicano alcuni ricercatori. Quella compiuta alle porte di Kiev nel settembre del 1941 resta una delle peggiori carneficine della storia recente e il segno di come la macchina dello sterminio del popolo ebraico fosse già ben avviata dopo un rodaggio avviato con la Notte dei cristalli il 9 novembre del 1938. L'Ucraina di oggi ricorda con una serie di commemorazioni aperte dal presidente Poroshenko assieme al suo omologo israeliano Rivlin, poi rientrato a Gerusalemme per i funerali di Shimon Peres. Babi Yar è una macchia di sangue indelebile sulla mappa dell'Europa in guerra, eppure la fine del Secondo conflitto mondiale non ha comportato la fine delle violenze contro gli ebrei.
   E' il caso di Kielce, il 4 luglio del 1946. Quel giorno, nella città della Polonia centromeridionale si consuma il peggiore pogrom del Dopoguerra: l'efferata violenza di civili su altri civili in tempo di pace in virtù di odii antichi e moderni. La guerra è finita da un anno e la Polonia ricomincia appena a respirare. Nelle città ha fatto ritorno qualche sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e qualche altro sparuto ebreo che era riuscito a scappare a est prima dell'arrivo delle SS. Non è un controesodo ma un rientro alla spicciolata: nel 1939 gli ebrei di Kielce erano 24 mila, un terzo della popolazione; sotto i nazisti la città viene dichiarata Judenrein, libera da ebrei; dai lager torneranno in 200 e, di questi, 42 perderanno la vita nel pogrom scatenato dai loro vicini di casa.
   Al loro rientro i sopravvissuti non sono bene accolti: non amati perché ebrei, ora sono anche considerati traditori filosovietici; in prima fila a odiarli ci sono i comunisti polacchi. La miscela esplosiva trova la sua miccia in un'accusa tanto abusata nella storia quanto ancora attuale nel 1946: l'omicidio rituale. Il 1o luglio del 1946 Henryk Blaszczyk, 8 anni, sparisce da Kielce; due giorni dopo torna a casa spiegando di essere riuscito a scappare da una palazzina abitata da ebrei che si accingevano a ucciderlo per impastarne il sangue. Da anziano Blaszczyk confesserà che il suo racconto fu pura messinscena. E tuttavia il ricorso all'accusa del sangue vecchia di mille anni scatena la furia dei suoi concittadini. Miliziani comunisti entrano nella palazzina "del rapimento", disarmano e fucilano 17 fra gli ebrei presenti. Gli altri, datisi alla fuga, sono linciati dalla folla, sostenuta da un gruppo di minatori provvidenzialmente apparsi a dare man forte. Le forze dell'ordine restano a guardare: a fine giornata si contano 42 ebrei uccisi e 80 feriti. I fatti di Kielce spinsero molti degli ultimi ebrei polacchi a emigrare per sempre.
   "Il comportamento della polizia, dell'intelligence e dei comunisti fu scandaloso", dice al Foglio Jan Rydel, docente di Storia all'Università Jagellonica e promotore di una giornata di studi a Kielce 70 anni dopo. Lo scorso 4 luglio il presidente polacco Andrzej Duda ha inaugurato i lavori ricordando "i cittadini polacchi di origine ebraica scampati per miracolo alla Gehenna dell'Olocausto" e trucidati per mano di altri concittadini. Non si trattò di un caso isolato: "In tutta l'Europa orientale", riprende Rydel, "la fine della guerra coincise con rinnovate violenze antiebraiche", ma il pogrom del 4 luglio spicca per truculenza. Lo storico tenta di spiegare le ragioni dell'odio attraverso la dura situazione dell'epoca, fra miseria e delinquenza diffuse in una popolazione abbrutita dalla guerra: "Al loro ritorno i pochi ebrei sopravvissuti reclamarono le proprietà che i nazisti non avevano depredato", come i beni immobili distribuiti fra la popolazione polacca, "suscitando odio anziché solidarietà".
   Alla violenza seguì la menzogna. La macchina della propaganda si attivò per imputare la strage alle milizie nazionaliste malate di antisemitismo, "per una volta invece estranee al pogrom". Il regime comunista polacco fece cadere i fatti di Kielce nel silenzio, rotto dagli storici solo dopo l'avvento di Solidarnosc. Oggi il clima è cambiato, assicura Rydel: la popolazione cittadina ha partecipato al ricordo e il presidente Duda, la cui moglie è di origine ebraica, "è molto impegnato su questo tema". La Polonia di oggi non è un paese più antisemita degli altri, sottolinea l'accademico polacco citando una ricerca israeliana secondo cui ben il 20 per cento dei tedeschi ha pregiudizi antiebraici. Punti di vista. Due settimane dopo le celebrazioni, la ministra polacca dell'Istruzione Anna Zalewska ha declassato a "opinioni" le responsabilità polacche nel pogrom di Kielce e in quello terribile di Jedwabne del 1941 (340 ebrei furono arsi vivi in un granaio).

 C'è stata rimozione collettiva o no?
  In un'intervista a Deutschlandradio Kultur, lo storico Jörg Baberowski dell'Università Humboldt di Berlino punta il dito contro la "rimozione collettiva" dell'antisemitismo in Polonia. Chiesa cattolica e Partito comunista "si sono sempre presentati come i veri oppositori del nazismo, per cui solo i tedeschi sarebbero responsabili dello sterminio". Un discorso tanto più vero per i comunisti, "che nell'antinazismo trovavano la loro principale fonte di legittimazione. Secondo Baberowski, "i vecchi continuano a rimuovere, mentre i giovani si disinteressano di avvenimenti così lontani nel tempo". Lo storico tedesco sposa la tesi del collega americano Jan Gross, secondo cui i polacchi sono stati ben lieti di aiutare i tedeschi nello sterminio. Per Rydel, che ricorda anche "i moltissimi polacchi 'giusti fra i popoli'", i rapporti fra polacchi ed ebrei "non possono essere letti solo alla luce dell'Olocausto".
   Al di là delle battaglie storiografiche restano i numeri: "Prima della guerra eravamo più di 3,5 milioni, oggi siamo poco più di 4 mila", dice al Foglio Artur Hofman, impresario teatrale e presidente delle associazioni sociali e culturali ebraiche di Polonia. Nonostante l'anno scorso a Breslavia una dimostrazione di xenofobi abbia dato fuoco in piazza a un pupazzo raffigurante un ebreo, per Hofman l'antisemitismo non è più un'emergenza in Polonia "e idioti del genere si trovano ovunque nel mondo". Atti antiebraici potranno ripetersi, "ma la situazione è in continuo miglioramento" osserva, elencando un fiorire di musei, festival, e rassegne teatrali dedicate all'ebraismo polacco con una crescente partecipazione del pubblico. "Da Cracovia a Varsavia, da Breslavia fino a Kalisz l'interesse del pubblico per 'Il violinista sul tetto' è sincero". E questi eventi, conclude, si possono tenere senza massicci spiegamenti di poliziotti, "una cosa impensabile a Londra, Copenaghen o Parigi". E' la triste sorte degli ebrei polacchi. Odiati da vivi, rimpianti solo da morti.

(Il Foglio, 2 ottobre 2016)


Israele, via libera all'arrivo di generatori elettrici nella striscia di Gaza

di Paolo Fernandes

Tzachi Hanegbi, ministro israeliano per la cooperazione regionale
RAMALLAH - All'esito di una riunione d'urgenza del Comitato internazionale che coordina gli aiuti allo sviluppo dei territori palestinesi, nella giornata di ieri è arrivato il via libera del governo di Israele all'introduzione di generatori elettrici nella striscia di Gaza, allo scopo di allentare la morsa della crisi energetica ed umanitaria che ormai da tempo stringe l'area costiera palestinese.
   Alla riunione tenutasi a Bruxelles hanno partecipato i ministri del governo di Israele ed Egitto, il primo ministro palestinese ed un alto funzionario statunitense. Stando a quanto dichiarato nel rapporto pubblicato al termine dei colloqui, Israele si impegnerà a consentire l'ingresso dei gruppi elettrogeni, ma contestualmente procederà all'applicazione di misure di sicurezza ad hoc, volte ad evitare che questi possano finire sotto il controllo di gruppi terroristici attivi nella regione. Ma non è tutto.
   Il ministro israeliano per la cooperazione regionale, Tzachi Hanegbi ha infatti annunciato alla stampa che il governo intende portare avanti progetti per l'espansione della rete elettrica e la costruzione di impianti per il trattamento delle acque reflue, insieme alla realizzazione di uno stabilimento per la desalinizzazione dell'acqua interamente dedicato al territorio della striscia di Gaza. Per quest'ultimo, tuttavia, Hanegbi ha sottolineato la necessità di attendere anche l'arrivo di finanziamenti internazionali.
   L'arrivo dei generatori rappresenta una boccata d'aria per il territorio Palestinese: proprio nella giornata di ieri, infatti, il ministero della Sanità di Ramallah ha annunciato che in sette centri medici della striscia di Gaza è stata interrotta l'attività ospedaliera a causa dell'assenza di carburante per alimentare i gruppi elettrogeni. E lo stesso problema si era verificato già ad inizio settimana a Beit Hanoun.
   Stando ai dati diffusi dall'ANP (Autorità Nazionale Palestinese), sarebbero infatti 450mila i litri di carburante necessari ogni mese ad alimentare i generatori, un fabbisogno che quasi mai viene soddisfatto a causa dei frequenti blocchi nelle forniture da parte della autorità israeliane, preoccupate per un possibile uso del combustibile da parte dei gruppi ribelli locali. Semplificando, Gaza ha bisogno di 500 megawatt di energia al giorno, ma riesce ad averne meno della metà, il che si traduce in un ridotto numero di ore di elettricità per gli abitanti della zona.
   Allo stato attuale, dunque, la situazione è insostenibile: oltre un milione e ottocentomila persone sono infatti nel pieno di una crisi umanitaria, tra assenza di acqua potabile, pressoché totale mancanza di reti di comunicazione e continui blackout elettrici. Il recente accordo, tuttavia, potrebbe essere una (quantomeno temporanea) piccola svolta.

(infoOGGI, 1 febbraio 2018)


Il candidato di Gori e le offese antisemite contro la Nirenstein

Sulla bacheca Facebook di Apuzzo insulti alla giornalista. Fece lo stesso con Matteoli

di Alberto Glannoni

MILANO - Insulti pesantissimi, visibili nella pagina di un assessore comunale di sinistra, Stefano Apuzzo, che è candidato alle regionali in Lombardia nella lista civica dell'aspirante governatore del Pd, Giorgio Gori.
   Insulti di stampo antisemita indirizzati a Fiamma Nirenstein, giornalista e scrittrice, editorialista del Giornale e vicepresidente della commissione Esteri fino al 2013. Una «firma» che ha ricevuto molti riconoscimenti, una cittadina italiana e israeliana che dal 2001 nel nostro Paese vive sotto scorta per le minacce ricevute dagli antisemiti di destra e di sinistra. La sua «colpa»? Aver smascherato pregiudizi e falsità fatte circolare contro Israele, unica democrazia del Medio oriente. «Questa donna sionista - si legge in questa pagina Facebook - quintessenza della criminale impresa degli insediamenti, è cancerogena, vettrice di gravissime malattie umane, culturali e sociali. Va tenuta alla larga». Apuzzo non ne è l'autore, ma il post compare fra le sue foto perché un amico lo ha - come si dice - taggato, cioè ha inteso condividerlo con altri, fra cui lui, che non ha ritenuto di prenderne le distanze o cancellarlo in tanti mesi.
   Apuzzo, va detto, non è un principiante. Ex deputato verde, ex Pd, ex Liberi e uguali, oggi corre per la Regione nella lista «personale» di Gori ed è assessore a Rozzano. Si era già parlato di lui prima di Natale: in quel caso gli insulti erano partiti direttamente dalla sua tastiera, indirizzati ad Altero Matteoli, l'ex ministro che quel giorno era morto in un incidente stradale. Gori ha candidato comunque Apuzzo, ma ora rischia di pagare questa scelta. L'ennesimo grave incidente in cui cade l' assessore, infatti, scaturisce da un contesto politico ben preciso, riconducibile al Bds, la sigla che promuove il boicottaggio dei prodotti israeliani ( spesso peraltro irrinunciabili per l'alto tasso di innovazione). In rete è reperibile una lettera di «reprimenda» che l'allora ambasciatore israeliano Naor Gilon scrisse nel 2013 al sindaco di Rozzano, per informarlo dell'attività di Apuzzo e per chiedergli di intervenire ponendo fine a «simili campagne di diffamazione e di odio». Nella pagina del candidato, d'altra parte, una foto lo ritrae con un cartello «Gaza, fermiamo il genocidio». Siamo insomma nell'area che accusa Israele di essere Stato di «apartheid» o peggio artefice di crimini nei confronti dei palestinesi.
   Per gli ebrei milanesi è un momento di inquietudine, dopo il corteo di filopalestinesi e centri islamici in cui sono risuonati slogan antisemiti. In questo clima, qualcuno nella comunità ebraica locale ha mostrato aperta simpatia per Attilio Fontana, il candidato governatore leghista che si è sempre proclamato al fianco di Israele, come tutto il centrodestra peraltro. E un presidente di municipio di Forza Italia, Marco Bestetti, lunedì ha invitato proprio Fiamma Nirenstein a un evento dedicato alla Giornata della memoria. In quella occasione la scrittrice ha ricevuto un'accoglienza calorosa e una targa. E ha ricordato che «la vera lotta contro l'antisemitismo si combatte sul fronte dell'odio contro gli ebrei come popolo e quindi contro lo stato d'Israele».

(il Giornale, 1 febbraio 2018)


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