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Notizie 16-28 febbraio 2018


Due feste così diverse eppure così uguali

Analogie e similitudini tra Purim e Kippur

di David Gianfranco Di Segni

 
La festa di Purim ricorda, come è noto, un fatto accaduto circa 2500 anni fa in Persia durante il regno di Assuero. Si racconta nella Meghillàt Estèr , uno dei libri della Bibbia, che Hamàn, il perfido consigliere del re, voleva sterminare tutti gli ebrei del regno, uomini, donne e bambini. Per intercessione della regina Ester, una giovane ebrea che era diventata moglie del re nascondendo la propria origine ebraica, e di suo zio Mordechai, che era il capo della comunità ebraica, gli ebrei vennero salvati e i responsabili della tentata "soluzione finale del problema ebraico" furono puniti. A ricordo dello scampato pericolo fu istituita la festa di Purim, che letteralmente significa "sorti", perché il giorno stabilito per il massacro era stato estratto a sorte dal perfido Haman.
  La festa è caratterizzata da uno spirito estremamente gioioso: sia la sera che la mattina si legge pubblicamente la Meghillàt Estèr , scritta a mano su uno speciale rotolo di pergamena; si fanno doni ai bisognosi; si inviano cibi e bevande in regalo agli amici; si partecipa a uno speciale banchetto festivo in cui si beve vino a volontà, fino a confondersi e a scambiare le benedizioni con le maledizioni, a tal punto da dire "benedetto Haman" e "maledetti Ester e Mordechai". I bambini usano mascherarsi, a ricordo del ribaltamento delle sorti.
  Purim è una festa contraddistinta da una dimensione molto materiale, in cui manca un rituale religioso specifico, come esiste invece per altre feste comandate dalla Bibbia. È una festa mascherata in tutti i sensi: sia perché ci si maschera, ma anche perché la dimensione spirituale è, per così dire, "mascherata", nascosta. Il nome stesso "Ester" viene fatto derivare dalla parola ebraica hastèr , che significa appunto "nascondere": Ester, quando fu prescelta per diventare regina, nascose la propria origine. Anche la dimensione del Divino è nascosta: non è un caso che il Nome di D-o non compaia mai nel libro di Ester, unico in questo fra tutti i libri della Bibbia; solo allusioni alla Divinità sono presenti, come quando Mordechai incita Ester a intercedere presso il re Assuero, perché se non lo farà lei - dice Mordechai - "la salvezza verrà comunque da un altro posto".
  Detto ciò e avendo sottolineato l'aspetto 'mondano' della festa di Purim, risulta tanto più sorprendente un'analogia proposta dai maestri della Kabbalà, il misticismo ebraico, e ripresa poi dai maestri del Chassidismo. Essi hanno detto che la festa di Purim è in stretta relazione con il giorno di Kippur, il giorno di digiuno e di espiazione, il giorno più solenne dell'anno ebraico. L'analogia fra le due feste parte da un'assonanza fra i due nomi: Kippur, che letteralmente significa espiazione, nella Bibbia è chiamato più propriamente con il termine kippurìm , la forma plurale di Kippur: ma kippurim assomiglia a ke-purim , che in ebraico significa "come Purim". Da questa assonanza partono i cabbalisti e i rabbini chassidici per asserire che il giorno di Kippur assomiglia alla festa di Purim, ed anzi, Purim è addirittura superiore a Kippur per importanza.
  Ma come è possibile fare un'analogia fra una festa così materiale come Purim e Kippur, il giorno più spirituale di tutto l'anno, spirituale in tutti i sensi, un giorno in cui per ben 25 ore si digiuna, non mangiando e non bevendo assolutamente nulla, un giorno che si trascorre in sinagoga per la maggior parte del tempo, assorti in preghiere che sono per numero ed estensione di gran lunga le maggiori di tutto l'anno? Che nesso può mai esserci fra Purim, un giorno in cui ci si ubriaca fino a perdere la capacità di distinguere fra chi sta dalla parte del bene e chi sta dalla parte del male, e Kippur, in cui si deve fare un attento e sincero esame della propria coscienza e delle proprie azioni, pentirsi del male fatto e ripromettersi di intraprendere una retta via nell'anno appena iniziato, e in cui quindi bisogna aver ben presente la differenza fra bene e male?
  Proviamo a rispondere a queste domande (e sottolineo "proviamo"): oltre all'assonanza fra Purim e Kippurim, ci sono in realtà altre analogie fra le due feste. Anche Purim ha un suo digiuno: è il digiuno di Ester, che precede immediatamente il giorno di Purim e ricorda i tre giorni di digiuno che Ester e le sue ancelle fecero prima di presentarsi al re Assuero per intercedere a favore del popolo d'Israele. E anche Kippur ha il suo banchetto festivo, anzi ne ha ben due, ossia i pasti festivi che si fanno prima e dopo il giorno di digiuno. Anche a Kippur, in un certo senso, ci si maschera: ci si ammanta con il tallèd (lo scialle rituale) anche la sera, e non solo di giorno come nel resto dell'anno; inoltre molti usano vestirsi completamente di bianco, in segno di purezza. Anche Kippur è contraddistinto dalla "sorte", dato che quando esisteva il santuario di Gerusalemme il rito del capro espiatorio veniva effettuato mediante l'estrazione a sorte.
  Anche Kippur viene dopo uno scampato pericolo: Kippur infatti ricorda il perdono concesso da D-o al popolo ebraico dopo il gravissimo peccato d'idolatria commesso con il vitello d'oro, subito dopo aver ricevuto i Dieci Comandamenti sul Monte Sinai. E così come nel primo Kippur nel deserto del Sinai gli ebrei ricevettero, come segno tangibile del perdono divino, le seconde Tavole della Legge in sostituzione delle prime che Mosè aveva rotto alla vista delle orge del popolo attorno all'idolo, nello stesso modo anche a Purim, dopo lo scampato pericolo, gli ebrei accettarono nuovamente su di loro - come afferma il Talmùd - la Torà, pienamente e coscientemente.
  Ma c'è un'analogia più profonda fra Kippur e Purim. Kippur è il giorno in cui si annulla tutta la nostra dimensione materiale, in cui non si mangia e non si beve, e ciò ci ricorda, almeno una volta l'anno, che - come dice la Torà nel Deuteronomio (8: 3)- "non si vive di solo pane, ma anche della parola divina". Purim, d'altro canto, è il giorno in cui si annulla la nostra parte spirituale, il nostro intelletto, in cui si beve e si mangia fino a perdere la cognizione delle cose. È questo un insegnamento importante: ci dice che anche la presunzione intellettuale può essere pericolosa, così come è rischioso vivere in una dimensione unicamente materiale.
  Dice il Sig-ore Idd-o, per bocca del Profeta Isaia (55: 8): "I Miei pensieri non sono i vostri pensieri". Affermano i mistici ebrei che il culmine dell'avvicinamento al Divino, al puro spirito, al "pensiero di D-o", si ha solo quando si riesce ad annullare totalmente e assolutamente la propria coscienza.
  Purim forse ci invita ad avere un'umiltà intellettuale che a volte ci manca. Annullare la propria dimensione spirituale, anche solo per un giorno, è forse più difficile che annullare la parte materiale: per questo, dicono i mistici, Purim è più importante di Kippur.

(Israele Storia e Cultura, 28 febbraio 2018)


Libano: Hariri a Riad, per la prima volta dopo la crisi di novembre

BEIRUT - Il primo ministro libanese, Saad Hariri, è arrivato oggi in Arabia Saudita per una visita che segna il riavvicinamento tra i due Paesi dopo una crisi provocata lo scorso novembre dalle sue dimissioni annunciate da Riad, poi revocate al suo ritorno in patria due settimane più tardi.
Hariri ha in programma colloqui con il re Salman e suo figlio Mohammad, giovane erede al trono.
Il primo ministro aveva detto che le sue dimissioni avevano lo scopo di provocare uno "shock positivo" in Libano contro il coinvolgimento del Paese nei conflitti regionali, denunciando in particolare l'influenza iraniana. Ma le autorità libanesi, tra cui il presidente Michel Aoun, avevano accusato Riad di aver orchestrato la crisi e di avere trattenuto Hariri contro la sua volontà.
Hariri è arrivato a Riad dopo una visita compiuta all'inizio della settimana a Beirut da un inviato del governo saudita, che ha incontrato le massime autorità libanesi, tra cui Aoun, nell'intento di risolvere la crisi tra i due Paesi.
Il primo ministro, dopo il suo ritorno in patria, avvenuto grazie ad una mediazione della Francia e dell'Egitto, aveva ritirato le dimissioni dicendosi soddisfatto delle assicurazioni su una politica di 'dissociazione' dai conflitti regionali ricevute da tutti i gruppi politico-confessionali del Paese. In particolare da Hezbollah, il Partito di Dio sciita legato all'Iran che in Siria combatte al fianco delle forze governative di Bashar al Assad.

(ANSAmed, 28 febbraio 2018)


USA, antisemitismo in aumento del 57% solo nel 2017

di Roberto Zadik

 
Aumenta la spirale di atti antisemiti negli Stati Uniti, Paese che veniva da sempre considerato "isola felice" per gli ebrei. Ebbene secondo il sito Ynet durante l'anno minacce, vandalismo, violenze fisiche o verbali sono in crescendo. L'Anti Defamation League ha contato quasi 2000 (1986) incidenti solo nel 2017 e disseminati in tutti gli Stati. L'organizzazione con sede a New York ha rilevato un netto innalzamento di questi fenomeni, che nel 2016 erano però 1267.
All'interno delle stime ci sono anche più di mille aggressioni, 1.015 episodi, e 163 allarmi bomba. Il direttore nazionale dell'ADL , Jonathan Greenblatt sembrerebbe stimolato dagli estremisti di destra" e come ha specificato "il degrado della civiltà ha portato a questo picco di intolleranza".

 Incidenti raddoppiati
  Ma quali sono gli episodi di antisemitismo e dove si sono verificati? Analizzando i dati, forniti da Ynet e riportati dall'ADL nelle scuole e nelle università gli incidenti sarebbero raddoppiati, con 457 incidenti di questo genere avvenuti presso scuole non ebraiche l'anno scorso. Lo stesso è avvenuto nelle università imbrattate di scritte razziste e antisemite. Il portavoce ADLTodd Gutnick ha poi spiegato che i dati contano solamente episodi in cui vi sono espliciti messaggi antisemiti e a questo proposito gli studi hanno anche registrato una diminuzione delle violenze fisiche, con 19 episodi rispetto al 2016. Gli autori delle minacce sono spesso molto giovani, specialmente gli allarmi bomba ai danni dei Centri Comunitari ebraici, come nel caso di un hacker di nazionalità israelo-americana 18enne arrestato poi in Israele.
Ma non è sempre così. Un altro caso riguarda un giornalista di St.Louis che è stato "beccato" mentre programmava una serie di finti allarmi bomba a un'organizzazione ebraica l'anno scorso nel tentativo di rovinare la vita della sua ex ragazza. Il Rabbino Shmuel Herzfeld della Sinagoga "Ohev Solomon" a Washington ha affermato "non ho mai visto un sostegno ai neonazisti in America di questa portata". "E' davvero spaventoso" ha proseguito il Rav, che ha ricevuto una minaccia di attacco bomba alla sua sinagoga lo scorso aprile "non c'è dubbio che tanta gente abbia queste idee e c'è molto su cui lavorare".

 Una legislazione contro l'antisemitismo
  Infine l'ADL sta organizzando un Congresso per mettere in atto una legislazione per aumentare la protezione federale contro le minacce ai danni di istituzioni religiose, e questo provvedimento è stato approvato in maggioranza anche se ancora in attesa della conferma da parte del Senato. Greenblatt dal canto suo ha ribadito la necessità che "tutti i personaggi pubblici condannino l'antisemitismo sia che tu sia il Presidente Americano o altra autorità". A questo proposito, il Presidente Trump, è stato ampiamente criticato per aver condannato "la violenza da entrambe le parti" in seguito agli scontri dell'estate scorsa a Charlottesville in Virginia dove la 32enne Heather Heyer è stata uccisa da un uomo entrato in macchina nella folla dei dimostranti. Greenblatt ha riaffermato: "il presidente americano dovrebbe esprimersi con maggiore fermezza su questa questione come fa su altri temi". Adl ha spiegato di aver condotto questo studio da notizie, resoconti e informazioni fornirti dalle vittime e dai capi comunitari. "Non raccogliamo solo quello che abbiamo sentito in giro" ha rassicurato Greenblatt "ma verifichiamo e controlliamo le informazioni"

(Bet Magazine Mosaico, 28 febbraio 2018)


Fiano contro il ministro M5s: "Fioramonti sostiene il boicottaggio di Israele"

Il deputato del Pd: Di Maio propone un ministro dell'economia che si rifiutò di incontrare l'ambasciatore israeliano.

Un ministro improponibile. E' quello che pensa Emanuele Fiano, deputato del Pd, del professor Lorenzo Fioramonti proposto da Luigi Di Maio, in caso di vittoria elettorale del M5s, come futuro ministro dell'Economia.
"Di Maio, ha scritto Fiano su Fb, propone un ministro dell'economia, il Prof. Fioramonti, docente a Pretoria in Sudafrica, che applica il boicottaggio di Israele, che si rifiutò di incontrare l'ambasciatore di Israele".
"E' una vergogna senza scusanti, ha scritto ancora il deputato dem, un fatto gravissimo, immorale, questo professore non accettò di partecipare ad un convegno perché avrebbe parlato anche l'ambasciatore di Israele. C'è una sua intervista in inglese dove spiega la sua posizione. Qui il link dell'intervista.
"Prima di qualsiasi ipotesi di notizie false, Luigi di Maio e il Professor Fioramonti ci spieghino la loro posizione sul tema Bds, il boicottaggio di Israele. Si possono esprimere - ha aggiunto Fiano - le critiche che si vogliono sulle scelte dei governi di qualsiasi paese, il boicottaggio di Israele è un'altra cosa, gravissima. Che un ministro proposto dal Movimento Cinque Stelle abbia questa posizione non ci stupisce, ci indigna".

(globalist, 28 febbraio 2018)


Kamel Daoud contro la visita di Erdogan: un sultano con la mani sporche di sangue

L'intellettuale algerino accusa il presidente turco per le sue politiche che stanno uccidendo la democrazia e per il sostegno ai partiti islamisti, sognando di rinverdire i fasti dell'impero ottomano.

 
Erdogan accolto ad Algeri
La visita del presidente turco Tayyp Erdogan in Algeria, accolto con tutti gli onori, ha aperto un fronte molto vasto di critiche, anche per quanto Ankara sta facendo in Siria contro i curdi. Per molti analisti ed osservatori riformisti, la visita di Erdogan segna un evidente tentativo di ingerenza negli affari interni dell'Algeria, un Paese in crisi economica che guarda ad Erdogan come ad un ricco partner commerciale.
Ma la maggior parte degli intellettuali algerini si sono schierati contro Erdogan e le sue politiche d'espansione, in termine di influenza politica, ma anche territoriale, come sta accadendo nel nord della Siria. Uno di coloro che ha avuto la forza ed il coraggio di esporsi è Kamel Daoud, una delle voce più importanti della cultura non solo algerina, da sempre molto critico sulle distorsioni di un certo Islam.

Questo il testo della lettera aperta che Daoud ha indirizzato ad Erdogan.
''Nel nome di coloro che ha ucciso, imprigionato, torturato, Erdogan, non lei è il benvenuto! No, Erdogan, non è il benvenuto in Algeria. Siamo un Paese che ha già pagato il suo tributo di sangue e lacrime a coloro che volevano imporre il loro califfato, coloro che hanno messo le loro idee davanti ai nostri corpi, che hanno preso in ostaggio i nostri figli, ucciso spiriti, élite e opportunità per il futuro. E di questa 'famiglia in declino' nel nome di Dio o di una religione, lei fa parte, la finanzia, la sostiene, sogna di essere il suo leader internazionale. L'islamismo di cui lei fa il suo pane quotidiano è stata la nostra sfortuna e non lo dimentichiamo e lei ce lo ricorda ogni giorno. Non offre solo la sua ombra e la sua ala a coloro che vogliono il nostro Paese in ginocchio davanti alla sua "Porta sublime'' (si trova nel palazzo di Topkapi, vecchia residenza del sultano ottomano, ndt), ma lei incarna anche lo spirito opposto della nostra nazione: odia la libertà, lo spirito libero, le piacciono le sfilate , gli affari per la religione, sogna un califfato sulle nostre spalle e un ritorno nelle nostre terre. Ciò avviene senza intoppi oggi, sostenendo i nostri partiti islamici, offrendo doni attraverso le vostre aziende, infiltrando il tessuto associativo, controllando le moschee. Vecchi metodi dei suoi 'fratelli musulmani che ci mostrano il Cielo di Dio con una mano, mentre scavano le nostre tombe con l'altra. No, signor Erdogan, lei non è un uomo di aiuto, di lotta per la libertà, di principi, né del 'diritto dei popoli all'autodeterminazione', quando vedi a che tipo di fuoco sottomette i curdi, gli avversari della sua dittatura.
   Piange con le vittime in Medio Oriente e firma contratti con il suo carnefice. Lui non ha a cuore la nostra dignità, ma il suo califfato. Ricordiamo le sue repressioni, i suoi elenchi di turchi da cacciare, le sue prigioni sinistre che si riempiono ogni giorno, la sua giustizia nel chiuso dei suoi palazzi, la sua insolenza ed il suo vanto.
   Non sogna l'umanità di condividere, ma di celebrare il remake degli Ottomani e dei loro signori assetati di sangue. L'Islam per lei è un trampolino di lancio, Dio una insegna, la modernità un nemico, la Palestina una vetrina e gli islamisti locali delle cortigiane. La Storia si terrà lontano dalle sue astuzie per mantenere il potere, i suoi colpi di Stato clandestini, le sue cacce all'uomo e alle differenze, le sue torture e le sue morti sulla coscienza in tutte le regioni della Turchia.
   La Storia ricorderà i suoi bombardamenti, le sue guerre punitive e la sua incapacità di contemplare il dialogo o la dignità, tranne che per la sua persona e il suo romanticismo personale. Il voto per El Qods (Gerusalemme, ndt) di cui fa commercio? Ci lasci ridere con i palestinesi: la Palestina è il suo fondo da carovaniere. Come per molti. (.....). In Algeria, abbiamo sofferto e soffriamo ancora per coloro che hanno fatto finta di essere Dio e hanno deciso di offrire e togliere la vita come volevano. Si rallegrano per la sua visita, ma non noi. Lei è l'idolo degli islamisti e dei populisti algerini, incapaci di pensare al potere senza il matrimonio con un califfo.
   Siamo un Paese di libertà sognata, anche sfidata, un Paese di dignità. Questa non è la sua ambizione, né la sua virtù.
   Della Turchia ha fatto una prigione e un bazar per i suoi cari, un principato. Speriamo che questa bella nazione possa sopravvivere, che sopravvivano i suoi prigionieri, torturati, uccisi e i bambini bombardati. Lei è un'illusione, lo sa e lo sappiamo. Gioca sulla storia delle nostre umiliazioni, dei nostri affetti, delle nostre convinzioni, per presentarsi come salvatore e, in verità, è il becchino. Prima del suo Paese e poi dei suoi vicini. La Turchia è un miracolo che non le deve nulla, ma lo deve a donne e uomini liberi che hanno contribuito alla sua rinascita ed al suo prestigio. Compreso Ahmet Altan che ha appena condannato all'ergastolo.
   Perché come ogni islamista, le piace rubare le vittorie degli altri, aspettare che le rivoluzioni crescano per montare in sella e chiamarsi califfo in nome di Dio o della Storia. Il suo populismo perderà questo bellissimo Paese e i suoi sermoni non potranno fare dimenticare i suoi crimini. I nostri islamisti e i nostri populisti che trovano in lei oggi il loro patrono dopo averlo trovato tra i wahabiti, non sono noi, non sono il nostro popolo. Sono solo il suo harem ideologico.
   La storia ricorderà i morti e i prigionieri in Turchia, il califfato di questo bellissimo Paese, le sue purghe ed appropriazioni, i suoi aerei e i tribunali della sua giustizia. Cose indegne della nostra memoria in Algeria. Dovevamo dirle di non tornare come un conquistatore ottomano, un Barbarossa liberatore (il riferimento è a Khayr al-Dīn Barberousse, corsaro e ammiraglio ottomano, Bey di Algeri e di Tlemcen e comandante della flotta ottomana, ndt). La storia dei pirati in posa come salvatori la conosciamo. Troppo bene. Sogniamo una nazione forte, libera, potente,felice delle sue radici e dei suoi raccolti. Che accetti le differenze, la fede e la rivolta, la religione come scelta, la speranza come dovere, la pluralità come legge, la felicità come obiettivo. Abbiamo bisogno di amici e alleati con mani che non siano macchiate di sangue. La sua astuzia non l'accettiamo a casa nostra. Ed i suoi agenti qui non hanno domani.
   Non è nella terra conquistata. Come i suoi antenati che ci hanno colonizzato, non metta radici qui. Solo un'illusione di conquista. Come tutti i coloni.»

(globalist, 28 febbraio 2018)


Scritte antisemite a Cesiomaggiore: la firma di Erostrato?

Nella notte tra il 26 e il 27 febbraio sono comparse cinque scritte contro gli ebrei, inneggianti alla liberazione della Palestina, con tanto di svastica nazista..

Cesiomaggiore torna nel mirino dei vandali e più di qualcuno si chiede se ci sia la firma di Erostrato dietro alle scritte antisemite apparse tra il 26 e il 27 febbraio sulle mura laterali della chiesa, sulla porta del bar Kaleido e in altri punti del paese. "Ebrei riapriremo i forni, Palestina libera" sono le parole lasciate da una mano ignota.
La firma di Erostrato? E' la domanda che si pongono gli abitanti di Cesiomaggiore, dopo che nella notte tra lunedì 26 e martedì 27 febbraio sono comparse cinque scritte antisemite.
"Ebrei riapriremo i forni Palestina libera" le parole lasciate in cinque diverse aree del paese: sulle mura laterali della chiesa, sull'edificio che si trova di fronte all'edificio sacro, sulla saracinesca dell'edicola-cartoleria che si trova dietro la chiesa, davanti all'asilo e sulla porta d'ingresso del bar Kaleido. Indagano i carabinieri.

(Corriere delle Alpi, 27 febbraio 2018)


Nuova base iraniana in Siria. Israele: «l'Iran gioca con il fuoco»

Una nuova base iraniana in Siria è stata scoperta da ImageSat International, il sistema satellitare ad altissima risoluzione di cui si avvalgono diversi governi tra i quali quello israeliano.
Le immagini satellitari mostrano quella che sembra essere una nuova base militare iraniana posizionata a circa 12 Km a nord-ovest di Damasco che l'intelligence israeliana ritiene essere gestita dalla Forza Quds, il braccio operativo speciale delle Guardie della Rivoluzione Islamica di Teheran (IRGC)....

(Right Reporters, 28 febbraio 2018)


Molti attori, nessun capofila

La guerra di Siria non è finita

di Eugenio Dacrema

Il primo dato che emerge chiaramente dagli sviluppi delle ultime settimane è che, al contrario di quanto molti davano ormai per scontato alla fine del 2017, la guerra di Siria non è finita. E, anzi, rischia ora di entrare in una fase ancora più complessa e potenzialmente pericolosa per gli equilibri interni, regionali e internazionali.
   Per capire come si è giunti a questo punto nonostante la solida posizione di vantaggio militare del regime di Bashar al-Assad, è necessario guardare oltre le diatribe e gli interessi delle varie forze in campo (Iran, Turchia, governo e ribelli siriani, e curdi delle Unità di protezione del popolo (Ypg) nel nord e nell'ovest del paese), e allargare lo sguardo ai profondi cambiamenti che in questi anni stanno investendo il Medio Oriente, ormai privo di qualunque solida forza egemonica in grado di fungere da arbitro efficace degli equilibri regionali.
   Il parziale e impacciato disimpegno americano ha inizialmente lasciato spazio al ritorno in grande stile della Russia, che per diversi mesi è apparsa in grado di giocare il ruolo di arbitro e pacificatore di ultima istanza del conflitto siriano, risolvendo una situazione in cui, fino a quel momento, gli interessi opposti e sovrapposti delle potenze regionali erano sembrati indistricabili.
   Dall'inizio del proprio intervento diretto nel settembre 2015, Mosca ha dimostrato la propria intenzione a tracciare un percorso di risoluzione della crisi parallelo a quello, per molti anni inconcludente, di Ginevra sotto l'egida delle Nazioni Unite. Dalla fine del 2016 fino a tutto il 2017 tale percorso parallelo si è concretizzato negli incontri avvenuti ad Astana tra Russia, Iran e Turchia, che hanno portato all'accordo sulle zone di de-escalation. Un accordo che è inizialmente apparso più credibile e concreto dei fallimentari incontri di Ginevra ma che a pochi mesi dal suo avvio sta già mostrando crepe strutturali.
   Delle zone di de-escalation stabilite, infatti, solo quella situata a sud, tra Daraa e Quneitra, si è dimostrata finora resiliente, grazie soprattutto alla cooperazione e alle garanzie fornite dalla Giordania. Una dopo l'altra, le rimanenti zone concordate ad Astana, in particolare nel sobborgo damasceno di Ghouta e la regione di Idlib, hanno visto il riaccendersi degli scontri armati. Ghouta, in particolare, in queste settimane è teatro di uno degli episodi più cruenti e spietati dell'intero conflitto, con oltre 300 mila civili da mesi privati di rifornimenti alimentari e quotidianamente colpiti dalle offensive aeree del regime.
   Ma il processo iniziato ad Astana, che doveva trovare il proprio culmine lo scorso gennaio a Sochi, ha lentamente dimostrato, al pari di Ginevra, l'incapacità di conseguire qualunque forma di concreto accordo politico per la risoluzione del conflitto. Esso si è infatti trasformato gradualmente in una operazione diplomatica di facciata, volta a coprire l'adozione da parte del regime e dei suoi alleati di una soluzione più drastica, costosa, e potenzialmente pericolosa: la soluzione militare. Le zone di de-escalation appaiono ormai come un puro espediente tattico, volto a congelare i vari fronti interni del conflitto e consentire alle forze del regime di concentrare le proprie limitate risorse sui fronti considerati prioritari.
   L'assenza a Sochi di qualunque rappresentante sia delle principali organizzazioni dell'opposizione armata sia dei rappresentanti del Partito curdo dell'Unione democratica (Pyd) ha inoltre dimostrato come ribelli armati e Pyd siano ormai esclusi da ogni parvenza di negoziato politico, a cui è stato permesso l'accesso solo a partiti curdi minoritari e a gruppi d'opposizione minori direttamente selezionati da Damasco. Per gli altri rimane sul tavolo solo la soluzione militare, che in queste settimane viene attuata con spietata efficienza dal regime nelle regioni di Ghouta e Idlib, e dalla Turchia e dalle milizie siriane sue alleate ad Afrin.
   Ma l'inesorabile trasformazione del processo di Astana in una semplice copertura per una sanguinosa soluzione militare segna soprattutto il primo vero ridimensionamento delle aspettative internazionali verso la nuova politica mediorientale russa, che era inizialmente apparsa in grado di forzare le parti in causa verso un realistico compromesso politico. Un sostanziale fallimento, che i russi sono riusciti a mascherare per mesi con abilità diplomatica e giochi di prestigio, lasciando mano libera alla Turchia su Afrin e allo stesso momento coadiuvando il trasporto di truppe del Ypg dall'est, o garantendo spazio di manovra all'aeronautica israeliana e allo stesso tempo mantenendo intatta la capacità di risposta della contraerea di fabbricazione russa in dotazione a Damasco.
   Un fallimento che però sta emergendo nelle sue reali dimensioni in alcuni episodi chiave dall'inizio del 2018, come l'imbarazzante giornata della conferenza di Sochi, chiusa tra polemica e nulla di fatto dopo il rifiuto perfino di quell'opposizione direttamente autorizzata da Damasco di scendere dall'aereo e partecipare ai lavori. Ma sono soprattutto gli episodi di questi ultimi giorni, l'abbattimento del drone iraniano e del caccia israeliano del 9-10 febbraio e il quasi scontro diretto tra turchi e siriani ad Afrin, a dare vera misura di quanto la situazione sia ormai fuori dal controllo di tutti gli attori in campo, Mosca compresa.
   Una situazione che segna una rivincita delle potenze regionali come Turchia, Iran e Israele, che ora più che mai appaiono come i veri attori determinanti del conflitto. Israele e Iran sembrano aver capito che, al contrario dell'America degli anni Novanta e Duemila (una potenza egemone in grado di proiettare la propria determinante influenza stabilmente sull'intera regione), la Russia non è in Siria per restare, o quantomeno per proiettare un'influenza determinante nel lungo periodo. Non è un caso che il 20 febbraio le milizie che hanno tentato di entrare ad Afrin a sostegno del Ypg all'insaputa (pare) di Mosca fossero gruppi direttamente legati a Teheran, o che da mesi Israele abbia cominciato a finanziare direttamente milizie siriane dislocate lungo il confine del Golan per crearsi autonomamente una buffer-zone contro la presenza del proxy iraniano.
   La guerra è sempre più chiaramente tornata saldamente in mano alle potenze regionali, di cui nessuna è in grado di dominare le altre ma che nessuno sembra più in grado di dominare. E finché non saranno queste potenze regionali a trovare un modus vivendi in Siria il conflitto non potrà dirsi concluso.

(ISPI, 27 febbraio 2018)


Esperimenti israeliani in vista di una missione su Marte.

Si apprende che Israele, nell'obiettivo di una futura missione su Marte, ha appena completato un esperimento di simulazione nel deserto del Negev durato ben quattro giorni .
Gli esperimenti hanno avuto luogo vicino a Mitzpe Ramon, luogo particolarmente arido e dalla conformazione geologica rosso-arancio, caratteristiche queste che lo rendono ambiente affine a Marte.
Questo progetto, finanziato congiuntamente dall'Agenzia Spaziale Israeliana e dal Ministero Israeliano per la Scienza, la Tecnologia e lo Spazio, ha lo scopo di contribuire alla ricerca per la pianificazione di una futura missione con equipaggio, ma soprattutto di rafforzare l'interesse pubblico alla materia.
La missione israeliana è una delle numerose "spedizioni" su Marte che si svolgono in tutto il mondo, ma la prima di molte missioni pianificate che si terranno all'interno del progetto D-MARS (Desert Mars Analog Ramon Station).

(CesareAlbanesi.com, 27 febbraio 2018)


Chiuso il santo sepolcro anche con il placet dei francescani

Quant'è pericoloso lo scontro tra i cristiani di Terra santa e Israele

 
Il patriarca greco ortodosso affiancato dal custode di Terra Santa e da un rappresentante del patriarca armeno legge la dichiarazione davanti alla basilica chiusa
 
Pellegrini pregano fuori della porta chiusa della basilica
ROMA - Da domenica il Santo Sepolcro a Gerusalemme è chiuso e non si sa quando riaprirà. Non era mai accaduto prima nella sua bimillenaria storia. Un gesto di protesta contro la decisione dell'amministrazione locale - presa dal sindaco Nir Barkat in persona - di chiedere il versamento di 151 milioni di euro di tasse attraverso la tassazione di 887 proprietà delle chiese presenti in loco e di organismi delle N azioni Unite, tra cui l'Unrwa che gestisce l'assistenza ai profughi palestinesi. Davanti alle porte sbarrate del Santo Sepolcro sono comparsi Theophilos III, patriarca greco-ortodosso, Nourhan Manougian, patriarca armeno e padre Francesco Patton, custode di Terra santa. I tre hanno firmato un comunicato dai toni inusualmente duri, in cui definiscono la decisioni israeliana una "flagrante violazione dello status quo esistente", una decisione che rientra "nella campagna sistematica di abusi contro le chiese e i cristiani" che "ora raggiunge il suo apice con questo disegno di legge discriminatorio e razzista che mira unicamente alle proprietà della comunità cristiana in Terra santa". Sulla facciata della basilica è issato un grande poster dove si legge "quando è troppo è troppo" e "stop alla persecuzione delle chiese". Il tutto, tra l'altro, mentre il Colosseo a Roma veniva illuminato di rosso in memoria dei martiri cristiani perseguitati per ragioni di fede. La misura - che secondo i tre rappresentanti cristiani vìola "ogni accordo esistente e gli obblighi internazionali che garantiscono i diritti e i privilegi delle chiese" - è "ripugnante" e ricorda "le leggi di natura simile emanate contro gli ebrei durante i periodi bui in Europa". Una campagna punitiva (così nel testo) che ha determinato "scandalosi avvisi di pagamento e blocco di beni, proprietà e conti bancari della chiesa" e che è arrivata fino alla Knesset, il parlamento israeliano, dove è stato presentato un disegno di legge che prevede di poter espropriare le terre vendute dalle comunità religiose ai privati dopo il 2010. Il testo è stato tradotto e pubblicato integralmente sull'Osservatore Romano, il che rende la questione ancora più delicata, considerando anche il pieno coinvolgimento della Custodia di Terra santa. Screzi pesanti con le autorità civili locali s'erano già avuti nel recente passato in merito alla ripartizione dei fondi per le scuole. Lo scorso settembre, il Patriarcato latino di Gerusalemme aveva lamentato il mancato versamento alle scuole cristiane del previsto importo pari al 75 per cento di quello versato alle scuole pubbliche. "Lo stato - si leggeva nella nota del Patriarcato - non rispetta questi impegni e le scuole cristiane ricevono solo il 25 per cento di tale importo". Non solo, visto che si metteva in risalto anche il differente trattamento riservato ai docenti delle scuole pubbliche rispetto a quelli degli istituti cristiani, con questi ultimi che "non godono degli stessi diritti in caso di congedo per malattia". Il disegno di legge, hanno spiegato i rappresentanti delle tre confessioni, sembra finalizzato a indebolire progressivamente la presenza cristiana nel paese. Il sindaco di Gerusalemme però non ci sta a passare da novello Nerone e ha domandato se "abbia senso che ci siano aree commerciali che hanno alberghi e negozi ma che non pagano tasse solo perché di proprietà della chiesa", aggiungendo: "Non permetterò che siano i cittadini di Gerusalemme a colmare questo debito".
   Il tutto si inserisce nel complesso negoziato, che va avanti ormai da anni, tra la Santa Sede e Israele per regolare lo status giuridico della chiesa cattolica in loco e dirimere le controversie fiscali. Da entrambe le parti, negli ultimi mesi, si era manifestato ottimismo circa un positivo esito dei colloqui. I cristiani in Israele non sono perseguitati e sarebbe un brutto segnale se questo contenzioso complicasse le cose, rendendo il terreno negoziale assai più sdrucciolevole.

(Il Foglio, 27 febbraio 2018)


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Soldi, sempre soldi, soltanto soldi
    «Noi, capi delle Chiese responsabili del Santo Sepolcro e dello status quo che governa i vari luoghi santi cristiani a Gerusalemme — il Patriarcato greco-ortodosso, la Custodia di Terra Santa e il Patriarcato armeno — seguiamo con grande preoccupazione la sistematica campagna contro le Chiese e le comunità cristiane in Terra Santa, in flagrante violazione del vigente status quo. Di recente questa campagna sistematica e offensiva ha raggiunto livelli senza precedenti quando la municipalità di Gerusalemme ha emesso scandalose notifiche di riscossione e ingiunzioni di confisca di beni, proprietà e conti bancari delle Chiese per presunti debiti di tasse municipali punitive. [...]

    La sistematica campagna di abuso contro le Chiese e i cristiani sta ora raggiungendo il suo apice dal momento che si sta promuovendo una legge discriminatoria e razzista che prende di mira solo le proprietà della comunità cristiana in Terra Santa. [...]

    Pertanto... come misura di protesta, abbiamo deciso di compiere il passo senza precedenti di chiudere la Chiesa del Santo Sepolcro. Insieme con tutti i capi delle Chiese in Terra Santa restiamo uniti, fermi e risoluti nel tutelare i nostri diritti e le nostre proprietà. Possa lo Spirito santo ascoltare le nostre preghiere e offrire una soluzione a questa crisi storica nella nostra città santa.»
Gli estratti che abbiamo riportato sopra fanno parte della "dichiarazione a firma del custode di Terra santa, Francesco Patton, del patriarca ortodosso di Gerusalemme, Teofilo III e del patriarca armeno di Gerusalemme Nourhan Manougian in merito alla decisione di chiudere a tempo indeterminato l'accesso alla Chiesa del Santo Sepolcro."
Sono parole che meritano di essere prese in considerazione perché rivelano il vero volto di quel protervo e trionfante cristianesimo politico istituzionale che ha profanato per secoli e continua ancora oggi a profanare il nome di Cristo. I soldi. I soldi sono quelli che contano. I soldi, che danno potere sui corpi e sulle anime. I soldi, che se non ci sono costringono a chiudere i luoghi appositamente preparati per far incontrare Dio con gli uomini. E se i soldi non ci sono, Dio resta imprigionato dentro e gli uomini restano abbandonati fuori. A distanza. Perché senza soldi non ci si può avvicinare a Dio. Fate arrivare i soldi, e le porte si riapriranno.
Ai semplici credenti in Gesù che si trovano a Gerusalemme, a qualsiasi confessione essi appartengano, ci permettiamo di far arrivare un piccolo consiglio: lasciate che quelle porte restino chiuse; non chiedete che si riaprano; e se le riaprono, non entrateci: non è lì che s’incontra il Signore. Se avete personalmente incontrato Gesù nella Sua parola, fate qualcosa di più: andate davanti a quelle porte chiuse, con cui si vorrebbe coinvolgere il Signore in una squallida vertenza sindacale, e distribuite - gratis ovviamente, senza chiedere un soldo - porzioni dei Vangeli in tutte le lingue. Lì c’è la Parola di Dio; lì si può incontrare quel Gesù che ai suoi discepoli ha detto: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo 10:8). M.C.

(Notizie su Israele, 27 febbraio 2018)


La Polonia «sospende» la legge-bugia sulla Shoah

di Fiamma Nirenstein

E' una gran bella cosa che la Polonia ieri abbia frenato rispetto a una scelta che prima di essere colpevole, era bugiarda e volgare quanto a volte riesce a esserlo il populismo: con scelta saggia è stata rimandata dal governo l'entrata in vigore della legge che puniva con una pena fino a tre anni di carcere chiunque facesse riferimento ai campi di sterminio nazisti come «campi polacchi» o accusasse i cittadini polacchi di complicità con il genocidio degli ebrei. Il presidente Andrej Duda l'aveva firmata dopo che il 1o febbraio era passata con il voto del Senato. Poi è stato tutta un'escalation retorica di nazionalismo d'accatto e dall'altra parte di accuse di antisemitismo. Ma le cose sono cambiate dopo che il primo ministro Mateusz Morawiecky, palesemente incartato nel ruolo, ha dichiarato in pubblico che esistevano certo, polacchi complici della strage degli ebrei, ma che c'erano anche degli ebrei fra i perpetratori.
   Qui è scoppiata la crisi che ha fatto capire quanto fosse fuori luogo la legge polacca: come si poteva comparare la vicenda degli ebrei, le vittime disperate e perseguitate, a quella dei persecutori e della masse dei loro complici? Troppi episodi dicono la verità sulla follia di questa affermazione. Allora Netanyahu ha parlato a lungo con il primo ministro, con l'idea invece contrastata dai critici scandalizzati che si dovesse ritrovare una strada per parlare con la Polonia. E la strada è stata trovata: il ministero degli Esteri polacco ha sospeso l'entrata in vigore del testo e una delegazione polacca arriverà nei prossimi giorni in Israele per trovare insieme una soluzione.
   Tecnicamente, è vero che lo sterminio è stato «nazista» e non certo «polacco», i polacchi hanno combattuto i nazisti; ma è vero che i polacchi hanno un orrido conto aperto con un antisemitismo di massa che si è espresso sia durante la Shoah sia dopo la guerra. E tuttavia la legge polacca era attribuibile non a antisemitismo, dato che è evidente nella legge stessa l'odierna repulsione verso la persecuzione degli ebrei. Ed è molto importante da parte dello Stato ebraico saper chiarire, in tempi di antisemitismo genocida verso Israele e il suo popolo soprattutto da parte dell'islam estremo e dei suoi sostenitori o vassalli, se i Paesi i cui governi eletti non sono di sinistra debbano essere sospettati o accusati di antisemitismo. Attualmente Israele, anche se è molto attento a ogni manifestazione di negazionismo, non sembra essere di questo parere. I suoi nemici sono i fascisti, i nazisti, ma non i governi moderati dell'Europa dell'Est, e questo è molto importante, a fronte di un'Unione europea ostile la cui bandiera è l'atteggiamento filo iraniano della Mogherini. E sull'Iran, sulle cui intenzioni genocide verso gli ebrei non è mai stata detta una parola. La muraglia innalzatasi verso la Polonia quindi sembra per ora eccessiva. C'è stata menzogna, ma non antisemitismo.
   Israele deve sorvegliare che i neonazisti non tornino a seminare odio, ma i polacchi non sembrano appartenere a questa schiera e bene ha fatto Israele a sospendere il giudizio.

(il Giornale, 27 febbraio 2018)


Israele, è un Giro a cinque stelle

I grandi ex Simoni, Savoldelli, Fondriest, Ballan e Tafi hanno provato le prime 3 tappe. «La crono di Gerusalemme, che spettacolo. Quante insidie nel deserto del Negev»

di Luca Gialanella

 
GERUSALEMME - Il Giro sarà un viaggio nella storia. Cultura, fede, sport. Anche i non credenti dovranno riflettere sull'essenza dell'uomo, quando venerdì 4 maggio la cronometro inaugurale del Giro 101 scatterà con lo sfondo delle mura della città vecchia di Gerusalemme, costruite da Solimano il Magnifico, e la Torre di Davide e la Porta di Giaffa come simboli. Convivenza e sacrificio verso il prossimo, sull'esempio di Gino Bartali, al quale è dedicata la Grande Partenza in Israele. La corsa Gazzetta è qui. Mancano poco più di due mesi, ma questa nazione vibra per l'evento sportivo più grande della sua storia. Il ministero israeliano del turismo sta investendo moltissimo in promozione. E ha portato cinque grandi del ciclismo a scoprire i percorsi delle tre tappe: due campioni del mondo, Maurizio Fondriest (1988) e Alessandro Ballan (2008); due vincitori del Giro, Gilberto Simoni (2001 e 2003) e Paolo Savoldelli (2002 e 2005), più Andrea Tafi, ultimo re italiano della Parigi-Roubaix nel 1999. Gente tosta.

 Tic-Tac
  Per prestigio, la prima maglia rosa del Giro 101 varrà quasi come quella finale di Roma, davanti al Colosseo. E bisognerà sudarsela, oh sì, sul tracciato spaccagambe della cronometro: 9,7 km. Si parte subito in salita, 450 metri divisi in due parti, e per chi faticherà a ingranare saranno guai. In salita pure l'arrivo, 400 metri che dal 2-3% arrivano al 7% sulla linea. Sono sorpresi, i nostri campioni. Fondriest: «La prima parte è nervosa, ma le curve sono veloci e ampie. Crono per specialisti alla Dumoulin, tratti in pianura pochi». Tafi: «Percorso molto impegnativo. Bisogna essere subito pronti dal via, moltissimi cambi di ritmo». Ballan: «Crono molto suggestiva e spettacolare. Partenza molto tecnica in salita, bisognerà scaldarsi bene». Savoldelli: «Mi sarebbe piaciuta moltissimo. Le curve sono facili all'inizio, ma molto tecniche: se esci con una velocità più alta, puoi superare di slancio la salitella successiva. Fondo stradale perfetto, quindi chi sa guidare la bicicletta può fare la differenza. Crono da specialisti e da uomini molto potenti. Uno scalatore come poteva essere Gilberto (Simoni, ndr) avrebbe pagato dazio». E Simoni, ridendo: «Proprio scontata non lo è. Il fatto di rilanciare la bici, con la velocità che cambia spesso, non la preclude proprio a tutti». Il trentino è forse il più colpito dall'ambiente che ha trovato: «Questa è un'esperienza che non avrei mai pensato di provare. Mai pensato che il Giro sarebbe potuto partire da un luogo così simbolico per noi cristiani». Ancora Fondriest: «Il punto più difficile? la parte finale: meno tortuosa, ma ci sono questi 500 metri che li affronti velocemente perché ci arrivi dalla strada in discesa (dove si toccano anche i 65 km all'ora), ma la seconda parte devi farla tutta di potenza. E l'arrivo sale sempre. Per me ci possono esser anche più di trenta secondi tra i big. È una prova con grandi differenze di velocità e perciò richiede grande forza». Andrea Tafi: «Pedalare qui è un'emozione unica, in un paesaggio incantevole. Per noi credenti è stato un orgoglio, questa sensazione ci resterà addosso. La crono? Sarà una partenza con il botto».

 Cratere
  Nella seconda giornata, Tel Aviv, la città che non dorme mai, aspetta una sicura volata sul lungomare, dopo aver ammirato l'anfiteatro romano di Cesarea. Ma ciclismo significa anche le difficoltà dell'uomo a sfidare il deserto, il Negev, inospitale distesa di sassi, protagonista della terza tappa con arrivo a Eilat. Una frazione di 229 km a quattro stelle, quando, lasciata Be'er Sheva, si aprono colline di pietre da scavalcare e un gigantesco cratere, Ramon Crater, km 127 di gara, che qui chiamano il Grand Canyon d'Israele. Una depressione lunga 40 km, larga da 2 a 8 km, e profonda 500 metri. Fa paura solo a vedersi: l'altro giorno il vento soffiava a 40 km all'ora, e a maggio le temperature potranno arrivare anche a 40 gradi. Qui il Mar Rosso e il traguardo di Eilat sono un miraggio. La pianura c'è soltanto negli ultimi trenta chilometri, quando appare il fiume Giordano con il verde sulle sponde. La Giordania e l'Egitto li puoi quasi toccare. Tafi, abituato a lottare nell'Inferno del Nord, non ha dubbi: «Tappa molto difficile, con l'attraversamento del deserto. I 229 km sono lunghissimi in questo ambiente e per qualcuno possono diventare fatali. Dal cratere inizia un tour de frce incredibile». Fondriest: «Caldo e ventagli, non sottovalutate la tappa. Qui il Giro si può anche perdere».

(La Gazzetta dello Sport, 27 febbraio 2018)


Trieste - La Grande Guerra dei soldati ebrei sotto gli Asburgo

Martedì alle 17.30, al museo Wagner di via del Monte 7, si inaugura la mostra "Soldati ebrei austro-ungarici sul fronte dell'Isonzo".

di Patrizia Piccione

 
Agli inizi del '900 pressappoco il quattro per cento dei militari delle forze armate austro-ungariche era di religione ebraica. Durante la Prima guerra mondiale, trecentomila ebrei hanno indossato la divisa dell'imperial regio esercito. In altre parole, anzi, percentuali, significa più del tre per cento degli oltre 9 milioni di uomini mobilitati dalla real casa d'Austria tra il 1914 e il 1918.
   La presenza ebraica nelle fila dell'esercito austro-ungarico è un aspetto della Grande Guerra non molto conosciuto, sia per l'esiguità del materiale storico sia per la difficoltà di ricostruire le tracce lasciate dai soldati ebrei esattamente un secolo fa. Oltre a documenti, archivi e fotografie, il filo conduttore per risalire a queste pagine di storia, con un focus specifico sui territori dell'impero asburgico, sono i cimiteri militari le cui lapidi testimoniano la partecipazione di una rilevante fascia delle comunità ebraiche del territorio, che ha indossato la divisa delle forze armate della casata d'Asburgo. Soldati, ufficiali ma anche rabbini militari che offrivano assistenza spirituale alle truppe israelite.
   Martedì alle 17.30, al museo Wagner di via del Monte 7, si inaugura la mostra "Soldati ebrei austro-ungarici sul fronte dell'Isonzo", la rassegna itinerante che approda a Trieste nel centenario dalla fine della Prima guerra mondiale. Allestita originariamente nel 2011 dall'Istituto di storia "Milko Kos" con il Centro studi per la riconciliazione nazionale di Lubiana e il Centro culturale sinagoga di Maribor, la rassegna curata da Renato Podbersic e Petra Svoljcak, dopo Maribor, Lubiana, Vienna, Gorizia, fa ora tappa nella nostra città, dove sarà visitabile fino al 29 marzo (lunedì, mercoledì e venerdì dalle 10 alle 13; martedì dalle 16 alle 19, e giovedì dalle 10 alle 16).
   Alla vernice interverranno Tullia Catalan (Dipartimento di Scienze umanistiche), Lorenzo Drascek dell'Associazione Italia-Israele di Gorizia, e Matteo Perissinotto dell'Università di Lubiana. In esposizione oggetti (grazie all'associazione Isonzo), foto d'epoca, leggi dell'impero, diari e carteggi che restituiscono tracce di vita quotidiana lasciate dai soldati ebrei sul fronte dell'Isonzo, insieme alle immagini delle lapidi dei cimiteri di guerra ed ebraici, come quello a Valdirose in Slovenia (vicino alla Casa rossa, a Gorizia). I testi del materiale sono in italiano, sloveno, inglese e ebraico. Il 27 marzo, alle 17.30, sarà presentato il volume "L'apporto degli ebrei all'assistenza sanitaria al fronte della Grande Guerra".

(Il Piccolo, 26 febbraio 2018)


Israele e le sue Forze Armate: qual è il segreto della loro potenza?

Intervista agli esperti Francesco Tosato (Ce.S.I.) e Martin van Cleverd

di Francesco Snoriguzzi

Con i toni tra Israele ed Iran che si alzano di giorno in giorno (si pensi al pesante scambio di accuse tra il Primo Ministro di Tel Aviv, Benjamin Netanyahu, e il Ministro degli Esteri di Teheran, Mohammed Javad Zarif, durante la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco dello scorso 18 febbraio), in molti temono che si possa giungere ad uno scontro armato tra i due Paesi e che tale scontro possa arrivare ad infiammare l'intera regione.
  L'inimicizia tra lo Stato Ebraico e la Repubblica Islamica è oramai di vecchia data ma una serie di circostanze hanno fatto sì che la possibilità che una scintilla possa trasformare la tensione in guerra appaiano più concrete che in passato. In primo luogo c'è la situazione in Siria: la guerra civile, che ha dilaniato il Paese e che ora si avvia lentamente a conclusione, ha portato le truppe iraniane e le milizie sciite sostenute da Teheran (prime tra tutte quelle libanesi di Hezbollah) a pochi chilometri dal confine siro-israeliano del Golan, mettendo Tel Aviv in allerta. L'eventualità di uno scontro diretto tra Israele ed Iran, inoltre, rischierebbe di allargarsi a macchia d'olio in tutta la regione coinvolgendo, oltre al Libano e alla Siria, Paesi come l'Egitto e l'Arabia Saudita, avversari di Teheran, e come la Turchia, che sta spingendo in tutte le direzioni per allargare il proprio potere nell'area. Inoltre, in tutta l'area sono presenti truppe statunitensi e russe: se il supporto degli Stati Uniti ad Israele sarebbe probabilmente scontato, la reazione della Russia, vicina all'Iran e alla Siria, sarebbe tutta da vedere e rischierebbe di allargare ulteriormente i confini del conflitto.
  Se nella sua breve storia, le Forze Armate israeliane hanno spesso combattuto e vinto guerre in cui si trovavano in condizioni di inferiorità numerica e di accerchiamento, questa volta le cose potrebbero essere più complesse proprio a causa dell'entità dei propri avversari, ovvero l'Iran e, nella peggiore delle ipotesi, la Russia.
  Per tentare di capire quale sia l'entità e il funzionamento delle Forze Armate israeliane e a quali scenari potremmo andare incontro, abbiamo parlato con Francesco Tosato, analista del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.), e con Martin van Creveld, esperto di storia militare ed autore di diversi testi sull'argomento.
  In primo luogo, bisogna capire quale sia la struttura delle Forze Armate israeliane (Israelian Defence Forces: IDF). Martin van Creveld ci spiega che "la struttura dell'apparato miliare israeliano rimane ancora come quella che assunse nel 1949-50". Si può schematizzare dividendola in due parti principali: c'è "un esercito permanente, comprendente ufficiali, sottufficiali e marinai per un totale di circa 176.000 uomini e donne" a cui si aggiunge "un numero considerevolmente grande di riservisti che innalza il totale a circa 620.000". A differenza della gran parte delle Forze Armate dei Paesi più sviluppati, Israele "punta molto sui riservisti: molti riservisti operano nelle loro unità e ci si aspetta che siano chiamati in battaglia immediatamente e non dopo un periodo di organizzazione come spesso accade nelle altre Nazioni".
  La struttura organizzativa, continua van Creveld, è più o meno questa: "il Capo di Stato Maggiore, Tenente Generale, è responsabile delle IDF; sotto di lui c'è lo Stato Maggiore, in cui sono incluse le aree di divisione del personale, quelle operative, l'intelligence, l'area computer (C4I), quella logistica e tecnologica e l'area di programmazione". Le forze di terra, aeree e marine "hanno ognuna il proprio Comando Generale". Inoltre, "ci sono in tutto tre Comandi Territoriali: a nord, a sud e al centro; c'è un Comando di Difesa Interno e uno di Lunga Distanza predisposto per operazioni 'profonde' nelle retrovie nemiche; recentemente è stata annunciata l'istituzione di un altro Comando, con missili terra-terra, per sostituire le forze aeree nelle missioni a 300-500 chilometri in territorio nemico".
  Per quanto riguarda gli armamenti, van Creveld sostiene che "le IDF sono una delle forze armate più moderne al mondo. Le forze di terra si basano su pesanti carri armati progettati e prodotti da Israele (il Merkava, attualmente alla quarta generazione successiva) e moderni mezzi blindati, pesanti, corazzati (prodotti, in Israele, uno scafo e un sottocarro Merkava), oltre che vari tipi di missili terra-terra, razzi a lancio multiplo e artiglieria". La fanteria comprende "una brigata di paracadutisti e unità operative speciali, con armi moderne (il fucile d'assalto Tavor) come mitragliatrici e vari missili anticarro".
  Le forze aeree, invece, sono "responsabili di un certo numero di satelliti di intelligence che circondano la terra. Ha anche un numero di missili balistici medi e intermedi (1.500-5.000 chilometri) in grado di arrivare ben oltre il Medio Oriente. Le forze di combattimento aeree constano principalmente di F-15 costruiti negli Stati Uniti, cacciabombardieri F-16 e F-35. Altri importanti sistemi armati sono gli elicotteri d'attacco, gli aerei AWACS e le navi cisterna". Non bisogna poi dimenticare che un "elemento molto importante è quello delle difese antimissilistiche, un campo in cui Israele è un leader mondiale".
  Per quanto riguarda la Marina, invece, "è sempre stata la meno importante dei tre servizi: attualmente ha un numero di corvette armate con vari missili terra-aria e terra-terra. Le navi sono sufficientemente grandi da trasportare elicotteri e lavorare oltre l'orizzonte. Altre quattro corvette sono state ordinate ed in fabbricazione nei cantieri navali tedeschi. La Marina ha anche cinque sottomarini (con un sesto in arrivo)".
  Secondo Francesco Tosato, "le Forze Armate israeliane sono, non da adesso ma da decenni, le più potenti e meglio equipaggiate della regione". Questa superiorità militare è aumentata dagli anni '80 in poi in quanto "i Paesi limitrofi sono entrati in una fase calante a causa della crisi dell'Unione Sovietica che ha provocato l'impossibilità, specialmente per la Siria, di ottenere forniture militari avanzate a prezzi di favore. Dagli anni '80 in poi, quindi, abbiamo un incremento costante della superiorità tecnologica rispetto ai vicini".
  Alla superiorità tecnica, va affiancata una sostanziale superiorità industriale (oltre che il prezioso sostegno dell'industria militare USA): "Israele ha una industria nazionale in grado di produrre tutte le tipologie di munizionamento guidato di precisione: dispone sia di missili Cruise a raggio corto, medio e lungo (lanciabili sia da terra che dalle piattaforme dell'Aeronautica, in particolare quando parliamo di sistemi come il Popeye) e dispone anche della capacità di ingaggio con missili Cruise da parte dei sottomarini e, in questo caso, si tratta dei missili Turbo-Popeye. Israele dispone poi dei missili di classe Jericho che sono missili balistici, anche questi potenzialmente parte dell'arsenale nucleare".
  La questione fondamentale, però, non è semplicemente quella della superiorità tecnologica, ma quella di una "superiorità 'dottrinale' delle Forze Armate israeliane: ovvero, le Forze Armate israeliane sono uno strumento in continua evoluzione che trae beneficio dalle esperienze sul campo per continuare a migliorare nei settori ritenuti strategici per la sicurezza di Israele; questo miglioramento non avviene solo attraverso l'impiego di sistemi d'arma più avanzati, ma anche attraverso lo sviluppo di tecniche, di procedure e di capacità operative specifiche che non si rifanno esclusivamente e banalmente alla trasposizione di dottrine NATO o occidentali, bensì, cercano di sviluppare ogni volte delle capacità e delle modalità operative che ben si adattino a quella che è la particolarità del teatro operativo in cui le Forze Armate israeliane si trovano a combattere".
  Per fare un esempio, continua Tosato, "il più delle volte, le Forze Armate israeliane si trovano ad operare in un teatro di guerra urbano (pensiamo, ad esempio, alla Striscia di Gaza e alla Cisgiordania), contro una minaccia che è, in gran parte, di natura terroristica (pensiamo soprattutto a Hamas)". Andando ad analizzare la questione più a fondo, si può dire che i punti cardine che rendono Israele superiore ai vicini sono sostanzialmente due: l'Aeronautica e l'Intelligence.
  Secondo Tosato, "l'Aeronautica israeliana è uno strumento altamente tecnologico e in grado di colpire sostanzialmente in tutta la regione in una condizione, non di impunità totale (come abbiamo visto non più tardi del 10 febbraio scorso), ma quasi: si tenga presente che l'abbattimento del caccia F-16 da parte della contraerea siriana è il primo abbattimento in quarant'anni, dal 1982", una statistica impressionante. L'Aeronautica israeliana, quindi, "è lo strumento d'elezione per quanto riguarda l'utilizzo strategico della forza da parte dello Stato e, da un punto di vista tecnologico, è sicuramente all'avanguardia".
  In effetti, i già citati veicoli di fabbricazione statunitense, F-16 e F-15, hanno delle caratteristiche molto particolari: "gli Stati Uniti, infatti, permettono ad Israele, in maniera sicuramente unica, di poter modificare questi veicoli con dotazioni e capacità nazionali, prodotte dall'industria ad alta tecnologia israeliana, che sappiamo essere una delle più forti a livello mondiale: di conseguenza, i caccia israeliani hanno delle capacità specifiche che gli altri Paesi non hanno e non possono avere". L'industria israeliana, quindi, rende gli aerei forniti dagli USA ancora più adatti ad agire sul territorio mediorientale, soprattutto grazie ad interventi che riguardano il "comparto della guerra elettronica e dell'ingaggio di precisione che le permettono di colpire in maniera selettiva e di poter intervenire in relativa sicurezza anche in spazi aerei come quello siriano, che presenta delle bolle di difesa aerea piuttosto robuste".

(L'Indro, 26 febbraio 2018)


Modena, meravigliosa Sinagoga

La scorsa settimana, curiosa di conoscere le meraviglie della nostra città, mi sono recata alla Sinagoga. Come tanti di voi, ci sarò passata davanti centinaia di volte, ma non avevo mai avuto l'intere...

di Laura Tenebrosi

 
La scorsa settimana, curiosa di conoscere le meraviglie della nostra città, mi sono recata alla Sinagoga. Come tanti di voi, ci sarò passata davanti centinaia di volte, ma non avevo mai avuto l'interesse di visitarla. Molti credono che sia chiusa, per via delle transenne, ma in realtà non è così. Ormai la comunità ebraica modenese conta solo una sessantina di persone, ma alla fine del XIX secolo era ben più numerosa. È stato doloroso apprendere che solo nel 1859 gli ebrei di Modena ottennero l'uguaglianza e la parità con gli altri cittadini e che tutto intorno a dove sorge ora la Sinagoga, si estendeva il ghetto ebraico, chiuso con tanto di portoni in legno prima e cancelli di ferro poi. Uno di questi si trovava proprio all'estremità di Vicolo Squallore. In seguito alla parità ottenuta, i cittadini ebrei poterono professare liberamente il loro credo e, nel 1864, venne deliberato di poter erigere una sinagoga, la cui costruzione iniziò nel 1869. Vennero abbattuti alcuni edifici ed i fondi furono trovati grazie a sottoscrizioni e ad un prestito decennale.
   L'inaugurazione dell'edificio religioso risale al 19 dicembre 1873. Inizialmente la facciata principale era quella su via Coltellini, perché su piazza Mazzini erano presenti ancora edifici che successivamente saranno demoliti. Inoltre, dovendo essere orientata verso est, era necessario che l'ingresso fosse di fronte all'armadio che custodisce i rotoli della Torah. Quest'ultima consiste nei primi 5 libri dei 24 che compongono il Tanakh, detti Pentateuco dai cristiani. Dopo il 1903, furono abbattuti gli stabili fatiscenti di piazza Mazzini, permettendo così di costruire anche la facciata che ora riteniamo principale, uguale a quella di via Coltellini.
   Il custode della Sinagoga mi ha gentilmente introdotta alla visita dell'edificio. Gli interni sono bellissimi e vi si accede tramite la porta laterale di destra. La parte sovrastante, detta matroneo, è riservata alle donne, mentre gli uomini siedono sulla panche di legno di fronte all'altare. La cupola ellittica che sovrasta l'intera sala sembra un cielo stellato ed è meravigliosa. Non vi sono immagini religiose, nel rispetto del comandamento che lo vieta. È presente la Menorah, ossia il candelabro a 7 bracci simile a quello che si trovava nel Tempio di Gerusalemme.
   La Sinagoga è grande, progettata per quelli che allora erano circa un migliaio di fedeli. Ci sarebbe ancora tanto da dire e vi consiglio di visitare questo splendido edificio religioso, anche per approfondire una parte di storia che a molti di noi è sconosciuta.
   Potete prenotare un appuntamento scrivendo a comebraica.mo.re@gmail.com.

(Gazzetta di Modena, 26 febbraio 2018)


Cosa vogliono i palestinesi?

Sono passati da incolpare Israele ad accusare gli Stati Uniti

Scrive il Jerusalem Post (10/2)

Gli arabi palestinesi devono decidere qual è il loro obiettivo. Gli slogan non serviranno allo scopo. Sembra che aspirino più a ottenere soddisfazione emotiva che risultati concreti. Ad esempio, assicurarsi un gran numero di risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano Israele o esaltano la loro causa nazionale, e minacciare fino alla nausea di trascinare Israele e israeliani davanti a tribunali internazionali, sono cose che non hanno nessun effetto positivo sulle condizioni degli arabi palestinesi. E urlare a gran voce che si spalancheranno le porte dell'inferno ogni volta che qualcuno fa qualcosa che contrasta con la loro narrativa aggiunge forse una dimensione poetica (o patetica) alla loro causa, ma nient'altro. Imporre precondizioni per qualsiasi negoziato con Israele, e abbandonare i negoziati ogni volta che conviene, non ha migliorato granché la posizione negoziale degli arabi palestinesi rispetto a Israele. Hanno avuto otto anni di un'amministrazione americana molto ben disposta, sotto la guida del presidente Barak Obama, e li hanno inutilmente sprecati. Gli è stata offerta l'opportunità di tentare di dare vita a un processo diplomatico che fosse conveniente per loro, e non l'hanno fatto. Ma c'è un limite a quanto gli arabi palestinesi possono incolpare Israele per qualsiasi cosa vada loro storta.
   Ora hanno trovato un altro colpevole: gli Stati Uniti. Il loro modo di comportarsi con gli Stati Uniti è singolare, sebbene a suo modo coerente: anziché cercare di modificare le cose a proprio vantaggio, se ne stanno in disparte ad accusare, recriminare e boicottare. Il presidente Donald Trump ha detto in modo chiarissimo che il riconoscimento ufficiale degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale di Israele non predetermina i futuri confini della città. E ha anche chiarito che, per questo risultato, Israele avrebbe dovuto "pagare" (in termini di concessioni). Come mai gli arabi palestinesi non erano lì a esigere tale "pagamento"? La loro strategia volta a stremare Israele è fallita. Credevano che gli attentati contro i civili israeliani ne avrebbero indebolito la risolutezza (e qui bisogna ricordare che Abu Mazen, il presidente dell'Autorità palestinese, è stato costantemente contrario al terrorismo dai tempi degli Accordi di Oslo del 1993). Credevano che una virulenta campagna ostile diplomatica e legale avrebbe indebolito la posizione internazionale di Israele; che boicottare i prodotti israeliani avrebbe indebolito l'economia israeliana; che minacciare di sprofondare la regione nell'odio e nella violenza avrebbe indebolito il controllo israeliano su Gerusalemme e altre aree.
   Se preferiscono aspettare che Israele scompaia dalla realtà o che si indebolisca talmente da poterlo cancellare, molte altre generazioni di arabi palestinesi continueranno ad acclamare, inneggiare e annunciare l'apertura delle porte dell'inferno, mentre gli israeliani continueranno a svilupparsi, diventando ancora più forti e di successo.

(Il Foglio, 26 febbraio 2018)


Roni Alsheich, l'uomo che fa tremare Netanyahu

di Jacqueline Rastrelli

Nominato da Benjamin Netanyahu, il capo della polizia israeliana ha rapidamente preso le distanze dal Primo Ministro, per il quale raccomanda la disposizione di indagini.
  Aveva un curriculum impeccabile. Proveniente da una famiglia ebrea orientale, con genitori di origine yemenita e marocchina, Roni Alsheich è cresciuto a Kyriat Arba, una colonia situata nei pressi di Hebron. Studente brillante di una scuola religiosa, prende la maturità a soli 16 anni e continua gli studi nella grande scuola talmudica Yashivat Harav, alma mater del movimento di colonizzazione. Ufficiale ineccepibile, lascia l'esercito con il grado di comandante, prima di essere reclutato dal Shin Bet, l'Agenzia di intelligence per gli affari interni dello Stato di Israele, della quale sale rapidamente la gerarchia, per diventare nel 2014 a 52 anni il numero due. Roni Asheich, era per Benjamin Netanyahu il candidato ideale per la carica di comandante nazionale della polizia, una giurisdizione di marescialli scossa dagli scandali e dalle molestie sessuali. Nominato per tre anni con la promessa di diventare capo del Shin Bet, il nuovo super poliziotto vi avrebbe messo finalmente ordine e avrebbe cessato di indagare sugli affari sensibili riguardanti gli uomini politici. La famosa brigata Lahav 433, l'FBI israeliana, avrebbe finalmente potuto riposarsi.
  Sbagliato. Invece di mettere il bavaglio agli investigatori, Roni Alsheich ha dato loro l'ordine di raddoppiare gli sforzi. Risultato: il deputato del Likud David Bitan, capo della coalizione parlamentare, che si pensava fosse intoccabile, è oggi sospettato di corruzione aggravata. Ha dovuto dare le dimissioni dalla sua carica e passa ore sotto i proiettori della Lahav 433. Lo scorso 13 febbraio, Alsheich chiede agli operatori giudiziari di citare in giudizio il Primo Ministro in persona per corruzione, frode e appropriazione indebita. E' un po' la maledizione del Likud. Il Partito ha diverse volte messo in posti chiave alti funzionari dall'apparente devozione alla destra, per poi scoprire che non avevano fatto alcun regalo a chi li aveva nominati. Visto la piega che prendevano le cose, il Primo Ministro ha cominciato ad attaccare il capo della sua polizia. Già ad Ottobre lo ha accusato di aver autorizzato delle fughe di notizie su questioni che lo riguardavano e che ha definito illegali, sottolineando che: " queste inchieste fanno parte di una strumentalizzazione della sinistra volta a far cadere il Governo." I social network si sono ovviamente scatenati su tutto questo.
  Il tono si è ancor più scaldato quando il capo della polizia ha rivelato, durante un'intervista televisiva, che gli ufficiali della Lahav 433 erano soggetti a pedinamenti e sottoposti ad attacchi informatici da parte di "individui potenti". Sentendosi preso di mira, Netanyahu ha reagito smentendo qualsiasi coinvolgimento con questi misteriosi pedinamenti. Attacca ancora il fronte Asheich: "è scioccante scoprire che durante delle conversazioni con i giornalisti, il comandante della polizia abbia reiterato insinuazioni, deliranti e false, secondo le quali il Primo Ministro sarebbe coinvolto in un'accusa di molestie sessuali denunciata da una poliziotta durante un incontro con l'ispettore Roni Ritman". Quest'ultimo è stato costretto a lasciare la guida della Lahav 433. Netanyahu può effettivamente cadere?
  Tutto dipende ora dal consigliere giuridico del Governo che assume le funzioni di procuratore generale. Avichai Mendelblit è stato, anche lui, nominato da Benjamin Netanyahu, sulla fede di un curriculum senza macchia per la destra nazionale. Ebreo ortodosso, è nato 54 anni fa a Tel Aviv, da genitori simpatizzanti dell'Herut, il Partito di Menahem Begin. Il padre ha militato in seno all'Irgun, l'organizzazione clandestina che ha combattuto contro il mandato britannico. Dopo brillanti studi in diritto, è entrato nei ranghi dell'esercito in seno alla giustizia militare, che ha finito di dirigere nel 2009 con il grado di generale. Quattro anni dopo, il Primo Ministro gli ha offerto la carica prestigiosa di Segretario del Governo. In seguito, certo della sua devozione, lo ha promosso capo della magistratura.
  Mendelblit sarà un altro Alsheich? I due uomini sono molto diversi. Il giurista ha come priorità quella di esaminare minuziosamente tutti gli aspetti di un dossier e decidere in funzione della possibilità di vincere un processo. Ha dichiarato più volte "un atto d'accusa contro il Primo Ministro respinto dalla corte sarebbe un colpo di grazia per le prestazioni di un procuratore dello Stato". Si dice che l'esame delle conclusioni tratte dalla polizia da parte di Mendelblit prenderà mesi. Eppure, Mendelblit conosce tutti i dettagli sul caso. E' lui ad aver supervisionato le indagini, dall'inizio alla fine.

(Futuro Europa, 26 febbraio 2018)


Perché è probabile che la giustizia israeliana arrivi all'incriminazione di Netanyahu

Breve guida per raccapezzarsi fra i casi 1000, 2000, 3000... e la reazione dell'opinione pubblica israeliana

Persino un parlamentare israeliano, parlando alla radio la scorsa settimana delle varie inchieste che vedono coinvolto in un modo o nell'altro il primo ministro Benjamin Netanyahu, è andato in confusione e ha ammesso d'essersi un po' perso. Ecco perché il Jerusalem Post ha proposto ai suoi lettori una breve sintesi dei principali aspetti e personaggi delle cinque indagini, in continua evoluzione, che interessano Netanyahu o suoi stretti collaboratori....

(israele.net, 26 febbraio 2018)


In vendita per un milione di euro la "cappella del Simonino", l'ex sinagoga di Trento.

Ecco la storia di uno degli edifici storici più importanti della città. Le trattative sono curate dall'agenzia Hypo Vorarlberg Leasing Spa. Comune e la Provincia al momento non hanno le risorse per rilevare questo pezzo di storia della città. E' il simbolo di quell'antisemitismo dilagante che vide Trento al centro di un terribile atto di persecuzione degli ebrei.

di William Belli e Luca Pianesi

 
Palazzo Salvadori - Trento
 
Primo bassorilievo
Secondo bassorilievo
Particolare
TRENTO - Acquistarla costa un milione di euro. E' un "pezzo" unico della storia di Trento, un edificio che in sé racchiude storia, arte e misteri. Stiamo parlando di quella che i più (ma non sono tanti nemmeno loro) conoscono come "cappella del Simonino" ma che in passato era stata la sinagoga di Trento. Si trova "nascosta" all'interno di palazzo Salvadori, lo splendido edificio di via Manci che all'altezza dei portoni presenta delle effigi che ricordano l'uccisione di un bambino e ancora adesso, sulla mappa online della Fondazione per i Beni culturali ebraici in Italia viene segnalata come sinagoga.
  Ebbene, è in vendita e le trattative sono curate dall'agenzia Hypo Vorarlberg Leasing Spa. "All'interno potrebbero venirci degli uffici molto prestigiosi - ci spiegano - o potrebbe diventare uno studio di qualche professionista. Abbiamo provato a parlarne anche con il Comune e la Provincia ma al momento non hanno le risorse per rilevare questo pezzo di storia della città". E la storia, entrandovici, trasuda da ogni parete, da ogni affresco. All'interno vi è ancora il matroneo del tempio di culto ashkenazita e poi vi sono i dipinti di Cari Henrici del 1770. Ma quell'edificio è anche qualcosa di più: è il simbolo di quell'antisemitismo dilagante che vide Trento al centro di un terribile atto di persecuzione degli ebrei tanto che rese il capoluogo trentino "città maledetta" per tutta la comunità ebraica fino a poco più di 50 anni fa.
  Nel 1475, infatti, vivevano a Trento una trentina di ebrei, le famiglie di Samuele di Norimberga, con la moglie Brunetta e i figli Anna e lsrael, di Mosè il vecchio, proveniente da Wurzburg, con la moglie Anna e i figli Mohar e Bonaventura, di Angelo di Verona con la moglie Dolcetta e i giovanissimi figli, la suocera Brunetta e la cognata Bona, divorziata, con il figlio Salomone, Tobia con la moglie Sara e tre figli e infine lsrael, un giovane miniatore che vagava da una comunità ebraica all'altra.
  Samuele e Angelo tenevano un banco dei pegni, mentre Tobia era medico, apprezzato anche dai cristiani per la sua professionalità. L'anno dopo nessuno degli ebrei era più a Trento, in buona parte uccisi, gli altri banditi per sempre. La distruzione della comunità ebraica di Trento era frutto del clima di progressiva intolleranza che aveva caratterizzato soprattutto l'area tedesca nel XV secolo. Le comunità ebraiche erano guardate con diffidenza, sui loro riti gravavano sospetti e incomprensioni, si accusavano gli ebrei di omicidio rituale, avvelenamento dei pozzi, magia. Sovente gli ordini minori, specie i francescani, alimentavano questo atteggiamento d'intolleranza, come il francescano Bernardino da Feltre, detto "flagello degli ebrei", che nella quaresima del 1475 tenne in duomo una serie di prediche caratterizzate da un'aperta ostilità nei confronti degli ebrei.
  Il 23 marzo 1475 il cadavere di un bimbo, Simone, figlio del tintore Andrea abitante il Fossato (via del Simonino e Via Roma) viene trovato dagli ebrei nella roggia che scorre sotto le loro case (tuttora visibile nelle cantine). La roggia veniva dal Fossato, colma di rifiuti, il bimbo che vi era finito dentro era stato trascinato dalla corrente. Gli ebrei denunciano il rinvenimento segnando così la loro fine. Immediatamente si mette in moto la macchina giudiziaria destinata a provare l'accusa di omicidio rituale: gli ebrei avrebbero ucciso Simone per trarne il sangue da mescolare ai pani destinati al rito della Pesah (la Pasqua ebraica). Un processo viziato fin da subito dalla presunta colpevolezza degli accusati, voluto fortemente dal podestà di Trento e dal vescovo Giovanni Hinderbach.
  Gli ebrei sono incarcerati, le donne sequestrate in casa, eccetto Brunetta che viene anch'essa gettata in carcere perché gode di troppa considerazione fra i cristiani. Sottoposti a torture che prevedono tratti di corda che slogano gli arti (terribile la frase ricorrente che precede le confessioni riportata negli atti processuali: "Sìnatìs me. Deponatis me, quia dicam veritatem" ("Lasciatemi, mettetemi giù e dirò la verità"). Fiaccati dalle torture, Mosè e Brunetta muoiono in carcere, quest'ultima è l'unica a non dichiararsi colpevole e a protestare l'innocenza degli ebrei.
  Per Tobia, Samuele, Angelo, lsrael, Vitale, Mohar e Bonaventura c'è la condanna a morte. Gli ultimi due, che si convertono al cristianesimo, sono decapitati e bruciati, gli altri sono messi su un carro che attraversa tutta Trento mentre il boia li tormenta con tenaglie roventi, giunti al luogo del supplizio, la Malvasia, sono posti su un palo con in cima una ruota, con gli arti spezzati e lì lasciati morire, quindi bruciati. I beni degli ebrei sono confiscati, compresa la loro abitazione, sulla quale sorgerà il sontuoso palazzo Salvadori.
  Gli ebrei sono banditi per sempre da Trento, bando ritirato solo nel 1803, con la cessazione del principato vescovile, mentre gli ebrei lanciavano su Trento l"'herem", una sorta di maledizione. La condanna degli ebrei di Trento suscitò una vastissima eco. La città divenne un avamposto dell'antisemitismo che caratterizzava il mondo tedesco. Una forte devozione si sviluppò attorno al presunto martire, favorita dal vescovo e dalle autorità cittadine e Trento divenne meta di devoti che ripercorrevano l'itinerario legato alla storia di Simonino: la cappella barocca eretta nel 1747 sulla casa natale di Simonino (tuttora esistente in via Roma, chiusa perché di proprietà privata), il palazzo sorto là dov'erano le case degli ebrei (palazzo Salvadori in via Manci) e la chiesa di S. Pietro, dove il cadavere imbalsamato di Simonino era esposto in una teca.
  La devozione continuò a lungo, con tutti i risvolti antisemiti, solo ai primi del Novecento Giuseppe Menestrina dimostrò la falsità delle accuse mosse agli ebrei e negli anni Sessanta le ricerche del domenicano Paul W. Eckart, promosse dal Vaticano, ristabilirono la verità storica, a seguito della quale la Chiesa, nel 1965, aboliva il culto di Simonino e ne rimuoveva le spoglie dalla chiesa di S. Pietro riconciliandosi con il mondo ebraico, che vedeva cadere un'accusa secolare. Infine nel 1992, alla presenza di esponenti dell'ebraismo e delle autorità cittadine, il Comune di Trento apponeva una lapide in vicolo all'Adige con una scritta riparatrice, e recitava il Kaddish per la comunità ebraica trentina sterminata.
  La memoria dell'ingiusta distruzione della comunità ebraica trentina meriterebbe un ricordo più incisivo di una lapide defilata e difficilmente visibile. Il palazzo Salvadori, fregiato sulla facciata da due medaglioni marmorei dello scultore barocco Francesco Oradini raffiguranti la falsa uccisione di Simonino da parte degli ebrei e provvisto di un'artistica cappella affrescata da Carl Henrici nel 1770, quella che è in vendita. Potrebbe essere acquistato dall'Ente pubblico e utilizzato come centro di dialogo interreligioso e sede espositiva di iniziative centrate sulla tolleranza per la diversità, religiosa, sociale, etnica. Si spendono tante risorse.

(Il Dolomiti, 26 febbraio 2018)


L'affitto di casa

di Luciano Assin

Clamorosa protesta di tutte le confessioni cristiane oggi a Gerusalemme. Con un atto senza precedenti i vari rappresentanti del cristianesimo hanno chiuso, fino a nuovo ordine, i battenti del Santo Sepolcro, uno dei maggiori simboli di una religione che abbraccia oltre un miliardo di fedeli nel mondo.
   Nonostante la protesta venga rappresentata come un "attentato alla libertà di culto dei luoghi cristiani" ed "un tentativo di indebolire la Chiesa riportandoci così a periodi bui attraversati dagli ebrei in Europa neanche molto tempo fa", le motivazioni sono molto più banali e profane.
   Anche se con enorme ritardo l'attuale sindaco di Gerusalemme si è improvvisamente ricordato che tutte le confessioni religiose cristiane della città godono di una doppia esenzione immobiliare. La prima riguarda chiese, monasteri e tutti i luoghi di culto presenti nella città santa, e fin qui niente da eccepire. La seconda, molto consistente dal punto di vista economico, riguarda tutte le attività commerciali e immobiliari in mano alle diverse confessioni. Stiamo parlando di alberghi più o meno di lusso, ostelli, ristoranti ed altro ancora per un totale di oltre 887 proprietà in mano non solo alle chiese ma anche all'ONU.
   Il mancato pagamento dell'IMU israeliana viene calcolato in qualcosa come più di 160 mln di euro annui, una cifra che nessun amministratore comunale vorrebbe farsi scappare. Nonostante esistano delle regolamentazioni fra Israele e le diverse chiese cristiane, lo stato ebraico ha chiuso fino ad oggi occhi e orecchie per motivazioni prettamente diplomatiche, così che la decisione di Nir Barkat, l'attuale sindaco di Gerusalemme, può essere paragonata all'entrata di un elefante in un negozio di cristalli.
Barkat minaccia le chiese cristiane ma in realtà mira alle casse del tesoro. Il sindaco Gerosolomitano non è uno sciocco ed è perfettamente conscio delle ripercussioni diplomatiche che una decisione del genere possa provocare. Ma essendo la capitale di Israele una città relativamente povera, ogni mezzo è lecito per ingrossare le casse comunali.
   La situazione fra chiese cristiane e governo israeliano si fa ancora più tesa se si tiene conto che la deputata Rahel Azaria ha recentemente presentato una proposta di legge tesa a poter confiscare terreni di proprietà delle varie confessioni ecclesiastiche qualora fossero vendute a privati per scopi di lucro.
Ed è proprio questo il caso che più preoccupa Gerusalemme. Il Patriarca greco della città, Teofilo terzo, è infatti sospettato di aver venduto centinaia di appartamenti di proprietà della Chiesa greco ortodossa ad ancora sconosciuti investitori privati. Il Patriarca è accusato dai suoi stessi fedeli di aver effettuato la transazione per scopi di lucro, mentre il governo israeliano non è affatto tranquillo, ignorando chi possano essere i futuri proprietari di oltre 1500 appartamenti che sorgono su appezzamenti di terreno dati in affitto dai greci al governo israeliano negli anni '50. Un affitto lungo 99 anni, e trent'anni possono essere pochi o tanti per porre rimedio ad una situazione per il momento ingarbugliata.
   Vai a vedere che alla fine la lotta per Gerusalemme è solo una questione di affitti?

(L'altra Israele, 25 febbraio 2018)


Apple sponsorizzerà la "Machine Vision Conference" in Israele

Condurrà discussioni sul sistema True Depth dell'iPhone X.

Il prossimo mese Apple parteciperà alla Israel Machine Vision Conference a Tel Aviv. La società è elencata come sponsor per l'evento, mentre uno dei suoi lead di ingegneria video è in programma per condurre una presentazione …
Apple quest'anno è elencata come "Silver sponsor" per l'evento. Non è chiaro quale tipo di investimento rappresenti, ma è il terzo livello di sponsorizzazione più elevato che esista. Altri sponsor includono General Motors, Qualcomm, Intel e molti altri. Apple è anche accreditata come espositore.
A rappresentare l'evento Apple è Eitan Hirsh, che guida il team di ricerca e sviluppo della società che si occupa della profondità. Lì terrà un discorso intitolato "Depth Sensing @ Apple: True Depth Camera" che offre una panoramica delle tecnologie che alimentano il sensore True X dell'iPhone X:
"Daremo una panoramica del sistema di telecamere Apple X True Depth di Apple, del suo design e delle sue capacità. Descriveremo inoltre i livelli algoritmici che vengono utilizzati in alcune delle funzionalità abilitate e descrivono come può essere utilizzato dagli sviluppatori."
La Israel Machine Vision Conference, o IMVC, è una conferenza incentrata su tutti i tipi di apprendimento automatico e intelligenza artificiale. Gli argomenti includono intelligenza artificiale, apprendimento profondo, apprendimento autonomo, eye tracking, robotica e molto altro.
Le comunità di elaborazione delle immagini, visione artificiale, apprendimento automatico e apprendimento approfondito in Israele sono leader di livello mondiale in questi campi, con una presenza ampia e dinamica sia nell'industria che nel mondo accademico. IMVC rappresenta un'opportunità unica per le aziende di diversi settori industriali di incontrare gruppi di ricerca di istituzioni accademiche che dirigono la ricerca della visione artificiale in Israele.
L'evento si svolgerà il 6 marzo presso l'Hotel David Intercontinental di Tel Aviv. Avremo una copertura della discussione di Hirsh sul sensore True Depth di iPhone X.

(my apple pro, 25 febbraio 2018)


A spasso con Jeremy

di Ariella Lea Heemanti

Era il 10 febbraio 1986. A Palermo iniziava il maxiprocesso alla mafia, al quale si era arrivati grazie al coraggio, all'abnegazione e all'immensa probità dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, eredi del lavoro e della missione del giudice Rocco Chinnici, anch'egli saltato in aria per mano di quel campionario di corruzione, violenza, delitto, strage e viltà denominato Cosa Nostra.
Pietro Grasso con il magistrato Alfonso Giordano
Nelle foto di quel tempo, fra le altre, v'era questa che ritrae l'allora magistrato Pietro Grasso, giudice a latere, insieme al presidente Alfonso Giordano.
Per chi sin dall'adolescenza aveva visto riversi sulle strade i corpi esanimi di magistrati, poliziotti, giornalisti, uomini, donne e anche bambini trucidati dalla compagnia dei criminali con il senso dell'onore quello fu anche il "proprio" maxiprocesso.
L'istanza di giustizia che attanagliava il cuore e si realizzava nella misura ampia del diritto davanti al quale ora comparivano gli assassini, in contumacia come Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, la trinità del male, o con il ghigno beffardo e untuosamente rispettoso di Luciano Liggio, o ancora con le minacce al presidente Giordano condite da sballate citazioni bibliche da parte del papa di Ciaculli Michele Greco. E ognuno dei giudici di quel processo che in primo grado si concluse il 16 dicembre 1987, dopo trentacinque giorni di camera di consiglio, la più lunga della storia giudiziaria, con condanne e pene che assestarono un colpo decisivo a una struttura di sgherri pronta poi ad assassinare Antonino Saetta, il rigoroso magistrato disposto a presiedere il processo d'appello, era come una luce, un faro di verità in quelle tenebre dove il hamas, la violenza dei mafiosi, la loro bruttura e capacità di eradicare la radice stessa della vita erano al servizio della disonestà, della compravendita e del saccheggio di un'isola, delle terre del sud e dell'intera penisola che a quelle terre deve il nome di Italia.
  Magistrati. Giudici che nella cultura ebraica riflettono uno dei nomi di D-o, Elokim, e la middà, la misura della giustizia, dell'incorruttibilità, dell'equanimità. E anche questo trapelava da una delle foto del maxiprocesso di Palermo, dal gesto pensoso e sereno, responsabile, del presidente Giordano, dallo sguardo e dalla fronte alta del giudice Pietro Grasso.
  Più di trent'anni dopo è un'altra la foto dell'ex magistrato Pietro Grasso che campeggia sui profili twitter.
Pietro Grasso con Jeremy Corbin
Il presidente del Senato ancora in carica è volato a Londra a farsi ritrarre con Jeremy Corbyn, il presunto agente Cob dei servizi segreti dell'Est al tempo della guerra fredda; l'estimatore di una banda di delinquenti che a Gaza costruisce tunnel e rampe lanciamissili da spedire sulle scuole di Ashdod, Ashchelon, sui kibbutzim, sulle strade di una Israele sempre e solo da cancellare nel vano delirio mortale nel quale crescere i bambini, togliere loro i sogni, la vera libertà, costringendoli poi, a ogni guerra, a salire sui tetti delle case, a restarvi in forma di scudo umano, estraniandoli da un autentico desiderio di vita e apparentandoli con la perversa lirica degli ebrei figli delle scimmie e dei maiali, da distruggere con il proprio stesso corpo, con la religione e la promessa della morte per sé e per loro, per una Palestina libera che è la formula universale dell'odierno odio antisemita.
  Jeremy Corbyn, il frequentatore di convegni dove si edificano gli assassini degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, il luogo giusto dove massacrare ebrei, meglio ancora se sopravvissuti ad Auschwitz.
  Jeremy Corbyn, leader di un partito laburista oramai pieno zeppo di antisemiti conclamati che ora si esibiscono nella vergognosa panzana che "Hitler era un sionista" ora si sentono costretti, dall'imperiosa smentita della storia, anche la più elementare, a capitolare e a tornare però sul sentiero parrocchiano dell'infanzia, quello dove gli ebrei "sono tutti dei ributtanti nasoni".
  Non faceva nessuna impressione, mentre i missili di Hezbollah piombavano sul nord d'Israele e persino a Bersheeva, nel sud, in quell'estate del 2006 fatta di fumo nero e di sirene, di corse nei rifugi dove portare i vecchi e i bambini, le donne incinte e trepidanti, vedere Massimo degli Ulema, allora ministro italiano degli Esteri, già da tempo autoproclamatosi discendente del Saladino, passeggiare a braccetto del deputato Hezbollah Hussein Haij Hassan, democraticamente eletto, precisò con consueti boria e disprezzo baffino.
  Ciò che Jeremy Corbyn afferma di Hamas, poiché non furono solo i nazisti e il loro Führer ad attestarsi al quarantatré per cento nelle elezioni federali tedesche del 1933. Ed è certo, come no, che la popolazione ama i caporioni di Gaza poiché questi non sono corrotti, questo si permette di raccontare the comerade Corbyn, il fervente falsario della causa proletaria, che senza conoscere la poetica pasoliniana di Valle Giulia definisce i poliziotti, indistintamente, "nemici della classe operaia", ma si rifiuta di condannare le violenze della polizia del regime venezuelano di Nicolàs Maduro.
  Quanto agli attacchi del terrore, alle truci vestali mediorientali che bramano di dare all'Europa e al mondo l'assetto punitivo del loro credo di dissoluzione nell'uccidere e nel morire, il compagno Corbyn l'ha detto chiaro e tondo: colpa nostra, ce lo meritiamo. E questo sì, fa impressione, vedere un giudice del maxiprocesso, un magistrato la cui fotografia di giorni sofferti e di liberazione è parte anch'essa della propria storia, farsi ritrarre ora felice, contento e illuso, con un senza storia, il presunto agente Cob, un piccolo demagogo, un adulatore di criminali.
  Il passato è una fotografia anche grazie alla quale ricordarsi chi si era, chi in fondo continuiamo a essere e saremo, nella quale rivedere con rammarico e delusione chi era parte della propria storia anche quando difendeva la rappresentanza della Brigata ebraica dall'assalto degli antisemiti in kefiah al corteo del 25 aprile, definendoli negatori della storia, e invece così, dopo un improvvido abbraccio con baffino, sponsor di Hezbollah, vola a Londra per un'amena mezz'ora a spasso con Jeremy, patrono di Hamas, per un ritratto giulivo, come se avesse a che fare, questo, con un quadro serio, grave e non patetico, grottesco, della realtà; di un mondo dove sembrano tornare le tenebre e il hamas dei primordi, dove continuare a difendere le libertà, i diritti di ognuno, del povero, sì, della donna, dello straniero nel cui volto riconoscersi senza dimenticarsi e perdersi nelle ottuse blandizie dell'ideologia, accompagnandosi a personaggi privi di moralità storica e politica, che giustificano il terrore, finanziano le sue file, celebrano le sue schiere.

(Caratteri Liberi, 25 febbraio 2018)


Antisemitismo, antisionismo e debunking

La versione di Pappè: Il convegno contro Israele all'Università di Torino

di Niram Ferretti

 
Ilan Pappè con due guardie del corpo filopalestinesi
Ilan Pappè, lo "storico" israeliano emigrato in Inghilterra nel 2008 e docente all'Università di Exeter è uno dei mostri sacri dei palestinisti o fliopalestinesi hardcore, e non potrebbe essere altrimenti. Per anni non ha fatto che scrivere libri e articoli in cui lo Stato ebraico e il sionismo sono descritti come una grande impresa coloniale e una ideologia perversa. E' poi stato negli anni Novanta un solerte sostenitore del boicottaggio politico economico e accademico di Israele al punto che, la sua stessa università di allora, quella di Haifa, gli chiese per coerenza di rassegnare le dimissioni. E' invece un'altra università, quella di Torino, che ora si appresta a riceverlo a braccia aperte nella due giorni di studio che si terrà al Dipartimento di Politica, Culture e Società, dove da tempo vengono allestiti veri e propri processi a Israele organizzati da docenti ammaliati dalla narrativa martirologica araba e supportati dal collettivo studentesco Progetto Palestina.
   Pappè in realtà non è uno storico, ma un fabulatore e un ideologo per sua esplicita ammissione. I suoi testi sacri, "La pulizia etnica della Palestina" e "Una storia della Palestina moderna" scrutinati dall'occhio attento di storici veri, come Benny Morris e Efraim Karsh, si sono rivelati per ciò che sono, patacche grossolane costruite intenzionalmente su errori, omissioni, deformazioni, insomma su un intero apparato scenico costruito per simulare la realtà, di cui a Pappè importa assai poco. Le sue dichiarazioni in merito sono assai esplicite:
    "La lotta riguarda l'ideologia non i fatti. Chi sa quali sono i fatti? Cerchiamo di convincere quante più persone possibili che la nostra interpretazione dei fatti è quella giusta, e lo facciamo per ragioni ideologiche, non perché cerchiamo la verità" ("Una intervista con Ilan Pappé," Baudouin Loos, Le Soir [Bruxelles], Nov. 29, 1999).
Dunque, chiunque leggesse i libri di Pappé per trovarvi la verità su come si sono svolti gli avvenimenti relativi alla storia di Israele è come se cercasse in un libro di fisica teorica la ricetta per la bouillabaisse. Il motivo è semplice, i fatti non esistono, esistono solo le interpretazioni. Così ci dice questo tardo epigonetto di Nietzsche in ossequio al dettato postmoderno secondo cui dalla nozione di verità dovremmo prendere definitivamente congedo e accontentarci di una molteplicità di giochi linguistici al suo posto. Nulla di nuovo sotto il sole. Si tratta di questioni un po' vecchiotte, dibattute già in Grecia nel V secolo da Platone attraverso il suo portavoce Socrate in dialoghi immortali, in cui gli eristici e i sofisti vengono mostrati per ciò che erano, ciarlatani impenitenti, affabulatori scaltri e meno scaltri. Sono loro gli antenati diretti di Pappé, coloro che non cercano la verità, contrariamente a Socrate che alla verità dona tutto se stesso fino alla morte.
   La riscrittura della storia della Palestina da parte di Pappé, il cui mentore è stato, non per niente Edward Said, il grande mistagogo di "Orientalismo" a cui è dedicata la due giorni torinese, è al servizio della vittimologia palestinese senza se e senza ma. Trattasi di un epos della soggiogazione colonialista, in cui la virtù è interamente araba e il vizio una prerogativa ebraica. Nulla da fare, per la sinistra radicale filopalestinese a cui appartiene anche Pappé, la coazione a ripetere le parole d'ordine è inevitabile quando si è fondamentalmente un megafono della narrativa colpevolista nei confronti di Israele.
   Così, quando Pappé propaga la nozione della "pulizia etnica" che sarebbe avvenuta in Palestina da parte degli "occupanti" non solo distorce clamorosamente e grottescamente la realtà ma contribuisce alla grancassa dei denigratori militanti di Israele a cui appartiene a pieno diritto. Lo stesso accade quando propone altrettanto grottescamente l'idea di uno stato bi-nazionale arabo-ebraico come possibile modello di convivenza civile. Il suo divorzio dalla realtà è ancora più radicale disconoscendo alla radice la stessa ragione del rifiuto arabo-musulmano originario nei confronti di Israele e degli ebrei e la radicalizzazione islamista del conflitto. La storia nulla insegna in questo senso, a proposito di conflitti etnici, tribali culminati in orge di sangue tra popoli ed etnie artificialmente composti in unità di comodo. Di nuovo wishful thinkings da parte di fautori di utopie, di sogni ad occhi aperti che dovrebbero essere poi gli altri a pagare sulla propria pelle. Ma questa proposta null'altro è se non la prova provata del desiderio della sparizione di Israele come Stato ebraico, come realtà autonoma a tutto vantaggio delle "vittime" palestinesi, e perché no? dell'Umma islamica.
   E' così la realtà affonda inevitabilmente insieme alla verità suo corollario necessario, e, ovviamente affondano insieme a esse i fatti, come potrebbe essere altrimenti? "Chi sa quali sono i fatti?". L'importante è convincere sposando ideologicamente un punto di vista unilaterale. Banalmente, al di là di questioni squisitamente tecniche, che riguardano l'epistemologia e la storiografia, si tratta qui di sola propaganda. Anche la propaganda non si prende in carica i fatti e la realtà, ma ne costruisce un'altra del tutto alternativa in cui dimorano rappresentazioni funzionali al racconto che si vuole imporre.
   Questo è dunque ciò che avverrà a Torino al convegno contro Israele promosso dall'Università. Gli studenti convenuti assisteranno a uno spettacolo teatrale, a una messinscena, in cui, messa da parte la storia, rimossa la realtà, la farà da protagonista il grande romanzo criminale su Israele di cui Pappé è da anni uno degli specialisti più affermati.

(L'informale, 25 febbraio 2018)


Shoah, Israele e Polonia trattano sulla legge

Il partito di governo non fa retromarcia, ma evita la rottura con Netanyahu. Una delegazione di Varsavia a Gerusalemme per cambiare il testo.

di Monica Perosino

La notizia di una possibile riapertura del dialogo tra Israele e Varsavia arriva in tarda serata. La crisi diplomatica era esplosa all'indomani della controversa legge polacca sulla Shoah che il presidente Duda aveva controfirmato lo scorso 6 febbraio dopo l'approvazione di Camera e Senato.
   La legge sui campi di sterminio prevede pene fino a tre anni di carcere per chiunque si riferisca ai lager nazisti come campi «polacchi». Ma il punto che più ha indignato Israele e la comunità internazionale è un altro: è illegale accusare i polacchi di collaborazionismo con il regime hitleriano. In teoria, la norma sarebbe dovuta essere un «messaggio di sensibilizzazione» ai media e ai politici internazionali che «troppo spesso parlano di "campi polacchi"» senza specificare che la Polonia era «occupata dai nazisti». Un tentativo di censurare chi suggerisce che, almeno in parte, la Polonia, come diversi altri Paesi europei, sia responsabile della morte di milioni di ebrei. Peccato che la legge tenti maldestramente di cancellare una tragica evidenza, quella dei collaborazionisti.
   La crisi diplomatica tra Israele e Polonia era precipitata ulteriormente lo scorso sabato, quando il premier ultranazionalista Mateusz Morawiecki, a margine della Conferenza sulla Sicurezza a Monaco aveva accusato gli ebrei di «avere responsabilità per l'Olocausto».
Ieri sera il primo segnale di disgelo: secondo i media israeliani, una delegazione di Varsavia si recherà quanto prima a Gerusalemme per «riformulare, almeno in parte, la legge», o alcune parole del testo, in questi giorni all'esame della Corte Costituzionale di Varsavia. Il gabinetto del presidente Duda avrebbe confermato di «aver lasciato aperta la possibilità di «emendarne alcuni passi».
   Secondo fonti diplomatiche polacche «la legge non può in nessun modo essere bloccata o congelata, essendo già in vigore», ma dopo la bufera di polemiche il partito al governo avrebbe deciso di «mostrare apertura verso Israele per non esacerbare ulteriormente gli animi», anche se un passo indietro, a questo punto dell'iter legislativo «sarebbe un suicidio politico interno», e quindi impensabile.
   Il direttore generale del ministero degli Affari esteri a Gerusalemme Yuval Rotem, ha definito la mossa di Varsavia un «successo» per Israele visto le lunghe polemiche che hanno diviso i due Paesi dall'annuncio del varo della legge. Proteste - oltre che dai sopravvissuti alla Shoah - erano giunte anche dagli Usa che avevano espresso, con il segretario di Stato Rex Tillerson, «disappunto» per la firma di Duda. Di recente il premier israeliano Benjamin Netanyahu si era detto «indignato»: «In questa legge c'è un problema di mancanza di comprensione storica e di mancanza di sensibilità per la tragedia del nostro popolo».

(La Stampa, 25 febbraio 2018)


Israele: folla ai funerali del rabbino

Era il leader di una corrente massimalista

Molte migliaia di fedeli hanno partecipato oggi a Gerusalemme, fra severe misure di sicurezza, ai funerali del rabbino Shmuel Auerbach (86 anni), il leader di una corrente massimalista dell'ebraismo ortodosso in Israele. Il religioso è morto ieri nella propria abitazione e la stampa ortodossa scrive che ha lasciato dietro di sé un senso di desolazione fra i discepoli. "Padre, oh padre - titola Ha-Peles, il suo giornale - Siamo tutti orfani". Nell'ultimo anno il rabbino Auerbach aveva ingaggiato un duro braccio di ferro con le autorità militari israeliane in quanto vietava ai suoi discepoli non solo di prestare il servizio militare, ma anche di recarsi nei centri di arruolamento per richiedere l'esonero che comunque era loro garantito. Dietro sua istruzione, gli studenti dei suoi collegi rabbinici hanno bloccato a più riprese le arterie israeliane e si sono scontrati con la polizia. Le attività del rabbino Auerbach sono state oggetto di forti critiche nelle stesso mondo ortodosso.

(ANSAmed, 25 febbraio 2018)


Chiese cristiane chiudono il Santo Sepolcro a Gerusalemme

Per protesta contro le tasse municipali. Il sindaco: 'Luogo esente da imposte'

Le Chiese cristiane a Gerusalemme (ortodossa, cattolica e armena) hanno deciso di chiudere oggi al pubblico, in una rara mossa, il Santo Sepolcro.
Lo confermano fonti religiose, secondo cui la decisione è stata assunta per protesta contro la legge in discussione al parlamento israeliano sull'esproprio di terreni delle chiese e la possibilità di introdurre tasse municipali.
"La Chiesa del Santo Sepolcro e gli altri luoghi di preghiere delle Chiese sono esenti da tasse municipali. In merito non c'è alcun cambiamento e così continuerà ad essere". Questa la risposta del sindaco di Gerusalemme Nir Barkat alla chiusura del luogo santo cristiano della città. "Ma sembra forse ragionevole che aree commerciali come alberghi, sale di ricevimento e altri affari siano esenti da tasse municipali per il solo fatto - ha aggiunto - di essere di proprietà delle Chiese? Perché l'albergo Mamilla le paga e il Notre Dame che gli sta di fronte deve essere esentato?"
GIUSTO!


(ANSA, 25 febbraio 2018)


Se stiamo insieme «Dio risiede»

di Giulio Busi

Lo studente ha viaggiato a lungo, solo per vedere il Rabbi. Un attimo di attenzione gli basta, poiché la sua domanda è semplice. «Maestro, qual è la via?». La risposta è altrettanto breve: «Non c'è una via»
Gesù gli disse: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Giovanni 14:6)
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   Gag e Magog di Martin Buber, apparso dapprima a puntate sul giornale ebraico «Davar», tra l'ottobre 1941 e il gennaio 1942, è un romanzo-non-romanzo. A tratti appassionante, talvolta lento, sempre profondo. Forse per la sua ibrida forma letteraria, quest'opera della maturità, ambientata durante le guerre napoleoniche, non ha trovato l'attenzione critica che merita. Eppure, tra le pieghe del racconto, incentrato su due grandi maestri chasidici, è nascosto molto del miglior Buber mistico e, cosa che può sorprendere, anche non poco del filosofo. Perché non c'è una strada? Perché ciascuno ha la propria, tagliata sulla sua storia individuale. L'uno dovrà servire la Torah con lo studio. Ad altri vien data la preghiera. «C'è un cammino che si compie digiunando, e un altro che consiste nel mangiare». Nessuna di queste diverse strade la si può percorrere in solitudine. L'insegnamento di Buber, e quello di tutto il giudaismo, è che soli non si arriva. E forse nemmeno si riesce a partire. Il maestro insegna che la strada va scelta assieme, discussa. D'altronde, anche per il maestro, ogni allievo è una via nuova. Il maestro insegna la via e ne viene insegnato. Non è grammaticalmente corretto? Rassegnatevi, mistica e grammatica son fatte per bisticciare.
   Giovanni Stanghellini prende le mosse dalla filosofia dialogica di Buber. È il pensiero che permea Ich und Du, il capolavoro del 1923, con cui viene fondato un decisivo asse ermeneutico del Novecento. Non esiste un Io preso in sé, ma solo l'Io della coppia Io-Tu e l'Io della coppia Io-Esso. Dal primo nasce il mondo della relazione, dal secondo, il mondo come esperienza. Cosa succede, se si proietta - o dovremmo meglio dire, se si getta - questa polarità conoscitiva sul tavolo della psicopatologia? Se si esce dal confortevole studio del filosofo e ci si avventura nella dimensione del disagio psichico e della cura? Qualora s'intenda la terapia come riconoscimento di sé e dell'altro, allora il dialogo buberiano può passare agevolmente dalla teoria all'azione, sciogliersi dai vincoli della carta e dell'inchiostro e farsi parola che guarisce o, perlomeno, che ristora. «Il compito del clinico - scrive Stanghellini consiste nell'assistere il paziente nel processo di riconoscimento e deliberazione, cioè, in primis, nel fornire gli strumenti per fare della disforia non semplicemente un'emozione disturbante da sopportare, o da medicare, ma l'indizio di un'alterità ancora tutta da decifrare». Per uno storico del misticismo, è sorprendente come la trasposizione della filosofia dialogica in campo terapeutico riattivi i principi vitali dell'Io-Tu di Buber, quell'«incontro in situazione» che ha il suo modello indiscutibile nell'idea ebraica di Shekinah. Tradotta di solito con «Presenza» o «Immanenza» di Dio, la Shekinah è in realtà una relazione. Dio "risiede" tra gli uomini quando questi sono assieme. Non uno accanto all'altro, ma l'uno con l'altro. Non quando si sfiorano, ma se si vedono e interagiscono. Che cos'ha a che fare la Shekinah, che è pienezza del divino, con la cura della sofferenza psichica? Prendete in mano Gog e Magog, e chiedete al maestro. «I luoghi in cui incontriamo la Shekinah, sono quelli in cui bene e male si mescolano ... la Shekinah ci guarda, e il suo sguardo ci chiede di dividerli l'uno dall'altro». Assieme, possiamo riuscirci.

Giovanni Stanghelllnl, Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologla, cura, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 282, €26

(Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2018)


Gerusalemme, in bici coi campioni, "Percorso tosto, per specialisti"

Il giudizio è unanime: una gran bella partenza, e non solo per gli evidenti stimoli paesaggistici di un contesto urbano unico nel suo genere. Il via del prossimo Giro d'Italia, con il cronoprologo di Gerusalemme del 4 maggio, ha passato l'esame di cinque osservatori doc: Alessandro Ballan, Maurizio Fondriest, Paolo Savoldelli, Gilberto Simoni e Andrea Tafi. E cioè le vecchie glorie del ciclismo italiano che, su invito del ministero del Turismo, hanno iniziato a percorrere le strade delle prime tre tappe della corsa rosa. Una simulazione della prova d'esordio, che lambisce in molti tratti le mura della Città Vecchia (il via nei pressi della Porta di Giaffa). E poi, nei prossimi giorni, un assaggio di quello che il Giro offrirà tra Haifa e Tel Aviv (seconda tappa) e Beersheva ed Eilat (terza tappa)....

(moked, 25 febbraio 2018)



«Egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele»

Quando furono compiuti gli otto giorni dopo i quali egli doveva essere circonciso, gli fu messo il nome di Gesù, che gli era stato dato dall'angelo prima che fosse concepito. E quando furono compiuti i giorni della loro purificazione secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore, come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà consacrato al Signore»; e per offrire il sacrificio di cui parla la legge del Signore, di un paio di tortore o di due giovani colombi.
Ed ecco, vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest'uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d'Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto il Cristo del Signore. Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo:
«Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».
Il padre e la madre di Gesù si meravigliavano delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, dicendo a Maria, madre di lui:
«Ecco, egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele, come segno di contraddizione, affinché i pensieri di molti cuori siano svelati, e a te stessa una spada trafiggerà l'anima».

Dal Vangelo di Luca, cap. 2

 


Adelson vuole finanziare la costruzione dell'ambasciata Usa a Gerusalemme

La donazione del magnate ebreo e conservatore potrebbe 'privatizzare' la politica estera degli Stati Uniti. Il dipartimento di Stato sta valutando l'ipotesi dal punto di vista legale. Intanto, il 14 maggio sarà inaugurata l'ambasciata ad interim

Sheldon Adelson, uno dei maggiori sostenitori di Israele tra gli ebrei statunitensi, ha offerto il proprio aiuto economico per la costruzione della nuova ambasciata a Gerusalemme. Lo ha reso noto il dipartimento di Stato, che sta valutando se possa legalmente accettare la donazione del magnate dei casinò.
   Il prezzo totale per la costruzione della nuova ambasciata, necessaria per lo spostamento della sede da Tel Aviv a Gerusalemme, è di circa 500 milioni di dollari, secondo un ex funzionario del dipartimento di Stato, consultato dal New York Times. In passato, donazioni private hanno contribuito alla ristrutturazione delle ambasciate statunitensi nel mondo, ma il contributo che ha intenzione di versare Adelson non ha precedenti e potrebbe creare ulteriori tensioni in Medio Oriente, perché valutata come un tentativo di privatizzare la politica estera degli Stati Uniti. Adelson, da sempre un grande sostenitore dello spostamento dell'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, non è solo un filantropo, ma uno degli attori più importanti nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele. È un conservatore, un donatore del presidente Donald Trump, il proprietario del quotidiano israeliano più diffuso (Israel Hayom, distribuito gratis) e sponsor del primo ministro Benjamin Netanyahu.
   Prima di costruire una nuova ambasciata, per cui potrebbero servire tra i sette e i dieci anni, gli Stati Uniti hanno quindi deciso di accelerare i tempi, aprendo un'ambasciata 'ad interim' nella struttura consolare di Gerusalemme Ovest, ad Arnona, da dove l'ambasciatore David Friedman lavorerà con uno staff ridotto; in un secondo momento, la sede provvisoria sarà ampliata per permettere lo spostamento da Tel Aviv di molti funzionari; infine, la terza fase prevede una nuova ambasciata permanente a Gerusalemme. Solo lo scorso mese, il vicepresidente Mike Pence aveva parlato di uno spostamento da Tel Aviv "entro la fine del 2019".
   A dicembre, il presidente Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale d'Israele, al contrario di quanto fatto dai suoi predecessori, che avevano preferito sospendere la legge votata in tal senso dal Congresso nel 1995 per non compromettere i colloqui di pace tra israeliani e palestinesi. Trump invece ha voluto seguire la strategia dell'America First, dando la precedenza al sentimento della sua base negli Stati Uniti e mettendo in secondo piano l'equilibrio dei rapporti in Medio Oriente. Il presidente ha poi annunciato lo spostamento dell'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

(America 24, 24 febbraio 2018)


Gerusalemme è molto di più - Tante scoperte insolite

Maratona - bike - gastronomia e scoperte insolite

 
“Gerusalemme è molto di più”, potrebbe essere questa la sintesi perfetta per descrivere una città millenaria che ha trovato il suo percorso contemporaneo. Non esiste una sola Gerusalemme, ma una città dal fascino storico con contrasti urbani, che unisce una movida giovane e quartieri eleganti dove provare un ottimo street food, o che sa conquistare con le molte terrazze con vedute uniche sulla Città Vecchia.
  Ora più che mai gli asset della città spaziano tra storia e innovazione, eventi di livello internazionale e un dinamico panorama artistico, nuove attrazioni e una ricca offerta gastronomica.
  Tutto questo accresce anno dopo anno l'appeal di Gerusalemme sul mercato italiano e lo dimostrano le performance positive messe a segno nel 2017: 14.470 arrivi italiani in città, pari ad un aumento del 38,5% sullo scorso anno; il 2016 si era infatti chiuso a quota 10.450 presenze italiane.
  Crescono gli arrivi italiani e la competitività di Gerusalemme sul palcoscenico delle city destination internazionali e la città quest'anno mette in campo anche alcuni dei più famosi eventi sportivi del panorama mondiale.
  Già nota per la sua Maratona, Gerusalemme ospiterà anche il GFNY e il Giro d'Italia, che per la prima volta nella storia partirà da un paese extraeuropeo.

 Maratona di Gerusalemme - 9 marzo 2018
  Nota per le sue strade collinari e il clima mite, Gerusalemme ospita uno degli eventi più entusiasmanti del calendario sportivo. Il 9 marzo la Maratona di Gerusalemme sarà una prova di resistenza unica nel suo genere, che unisce lo sport agli incantevoli panorami naturali e architettonici della città. Giunta alla sua ottava edizione, la Maratona vedrà gareggiare più di 30.000 partecipanti tra dilettanti e professionisti provenienti da oltre 55 Paesi. Come negli anni passati, anche nel 2018 sono previste la maratona da 42Km, la mezza maratona, i 10 km e tragitti più brevi e per famiglie. Il percorso attraversa sia la Città Vecchia che i nuovi quartieri, iniziando dal Parlamento israeliano (la Knesset) e proseguendo verso i luoghi storici per poi arrivare nell'esclusiva zona commerciale di Mamilla, che connette la zona moderna a quella più antica. Il percorso toccherà i quattro quartieri della città, passando dalla Porta di Giaffa, uscendo dalla Porta di Sion e risalendo verso la foresta di Gerusalemme. I runner taglieranno il traguardo di questa indimenticabile maratona a Sacher Park, vicino al Parlamento israeliano. Maggiori informazioni disponibili al sito: www.jerusalem-marathon.com

 GFNY - 27 Aprile 2018
  Si corre in bici attraverso la storia e i luoghi con più 3000 anni di storia. I ciclisti potranno scegliere tra Gran Fondo (130km) e Medio Fondo (70km). Il Gran Fondo è caratterizzato da una pendenza di 2.500 metri ed è il percorso più impegnativo che, con un totale di quattro principali salite fuori dall'area urbana, porterà i partecipanti nei luoghi di Davide e Golia. Il Medio Fondo è invece un percorso meno intenso, con salite di 1.200 metri, ma unisce anch'esso l'attività sportiva alla storia e alla cultura, concentrandosi intorno alle mura della Città Vecchia e le affollate bancarelle del mercato. La giornata terminerà con una cerimonia di premiazione, in cui i ciclisti potranno celebrare i risultati della gara. Maggiori informazioni disponibili al sito: www.gfnyjerusalem.com

 Giro d'Italia - 4 Maggio 2018
  Giunto alla sua centunesima edizione, il Giro d'Italia partirà per la prima volta in una città extraeuropea. Il percorso di Gerusalemme offrirà ai partecipanti scenari naturali mozzafiato, partendo dal famoso King David Hotel e proseguendo verso i luoghi storici e culturali più significativi della città. Si tratta di un percorso a tempo di 9,7 km che vedrà i ciclisti gareggiare lungo le colline della città e le sue ripide salite, con una difficoltà sempre maggiore. La corsa si sposterà a Tel Aviv, dove i ciclisti correranno 167 km prima di raggiungere la città costiera di Haifa e proseguire poi verso Eilat. Per maggiori informazioni visitate il sito: www.giroditalia.it

(Donne Cultura, 24 febbraio 2018)


Aria di guerra in Libano fra Israele ed Hezbollah

di Gianluca Savoini

La guerra in Siria, nonostante tutti gli sforzi della Russia, non è ancora finita e già un nuovo confronto geopolitico si sta delineando in Medio Oriente tra Israele, Siria, Libano e Iran. Al centro è la disputa per le risorse di petrolio e gas. Israele e Libano si stanno confrontando duramente su una precisa demarcazione della Zona Economica Esclusiva tra i due Paesi e questo scenario coinvolge anche la Russia e gli Usa. Sono noti gli interessi russi in Siria. Meno noti invece sono i legami altrettanto forti tra Mosca e il Libano. È infatti stato siglato un trattato di cooperazione militare tra Beirut e Mosca che prevede un «quadro generale di coordinamento» con l'esercito libanese.
   Secondo quanto riferito dai vertici libanesi, l'accordo include esercitazioni militari congiunte e l'uso russo di porti e aeroporti libanesi, nonché uno «scambio di informazioni sui mezzi di difesa, l'attivazione della cooperazione antiterrorismo e di addestramento tra gli eserciti dei due Paesi». Insomma, un'alleanza militare vera e propria russo-libanese, che però non è esattamente nella lista dei desideri del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Gli analisti militari di Tel Aviv hanno infatti scoperto che sulla direttrice Iran-Siria-Libano si muovono linee di rifornimento che potrebbero sostenere gli Hezbollah in Libano. Da qui il piccato titolone del Jerusalem Post in lingua inglese di qualche giorno fa: «Cinque motivi per cui Israele è pronto per la guerra con Hezbollah in Libano».
   È evidente che se si dovesse arrivare a una nuova guerra tra Israele, Libano e Siria, non sarebbe un conflitto con l'unico obiettivo di controllare le potenziali risorse petrolifere o di gas nelle acque offshore libanesi. Il vero obiettivo sarebbero invece gli Hezbollah libanesi e le milizie sciite appoggiate dall'Iran. Ovvero una parte importante schierata dalla parte di Assad e della Russia nella guerra siriana.
   La drammatica escalation dei recentissimi attacchi di Tel Aviv contro obiettivi siriani, l'incursione e l'abbattimento di un drone iraniano nei cieli d'Israele, fanno capire quanto sia esplosiva l'intera regione. E Mosca segue con trepidazione gli sviluppi nell'area, utilizzando strumenti militari in dotazione nelle sue due grandi basi militari in Siria (una aerea e una navale).
   «Non è ancora chiaro se la Russia sarà in grado di contenere questa situazione ed evitare che si trasformi in una guerra a tutto campo», spiega l'analista geopolitico dell'Università di Princeton, William Engdahl. «La decisione russa di firmare un accordo di cooperazione militare con il Libano si è accompagnata all'accordo stipulato tra Beirut e un'importante compagnia energetica russa, che ha ottenuto i permessi per trivellare in mare aperto ed estrarre gas e petrolio». Engdahl descrive la situazione come una delicata partita a scacchi che si sta giocando in una delle zone più instabili del mondo. «Per il bene dell'umanità speriamo che Putin riesca a frenare gli interessi di coloro che vorrebbero la guerra», conclude il docente americano.

(Libero, 24 febbraio 2018)


Israele ad alzo zero

La storia segreta della campagna di omicidi mirati e sabotaggi del Mossad contro i nemici dello stato

Un libro di Ronen Bergman racconta la campagna permanente di operazioni compiuta dai servizi segreti in decenni di attività Meir Dagan "Non dobbiamo mai più finire in ginocchio e privati della possibilità di combattere per le nostre vite" Un dilemma etico: può uno stato decidere di eliminare i suoi nemici e di creare una struttura dedicata soltanto a questo scopo? Le difficili operazioni per uccidere il capo militare di Hezbollah Mughniyeh e il generale siriano Suleiman

di Daniele Raineri

Ronen Bergman è un esperto di cose militari che scrive per il giornale israeliano Yedioth Ahronoth e nel suo settore è molto quotato. Ha passato gli ultimi sette anni e mezzo a lavorare su un argomento che è molto difficile da raccontare, la campagna permanente di omicidi mirati e di sabotaggi compiuta dai servizi segreti di Israele in decenni di attività. Ha intervistato un migliaio di fonti e tra queste molti uomini di governo, dell'esercito e ovviamente dell'intelligence di Israele, ha scritto una bozza lunghissima, l'ha riassunta fino a ridurla della metà e ha ottenuto un libro di settecentocinquanta pagine che è uscito in inglese l'ultimo giorno di gennaio: Rise and Kill First, edizioni Random House. Il titolo è preso da un verso del Talmud: "Alzati e uccidi per primo", che nella versione integrale dice: "Se qualcuno viene da te per ucciderti, alzati e uccidi per primo" e contiene una giustificazione per questo tipo di operazioni che continua a ricorrere in tutti i capitoli del libro: l'abbiamo fatto perché era necessario, altrimenti loro lo avrebbero fatto - o avrebbero continuato a farlo - a noi. Bergman è un cronista con una padronanza spaventosa dei dettagli, molto più che un apologeta. Sostiene che anche il Mossad, come tutte le organizzazioni di uomini e sebbene ce lo immaginiamo come una macchina fredda e razionale, a volte è guidato da impulsi perfettamente umani come il desiderio di vendetta, la rabbia o la vanità. Nel 2011 il capo di staff delle Forze armate lo ha accusato di essere una spia e uno degli uomini del Mossad che ha tentato di contattare gli ha risposto: "Disprezzo chiunque ti abbia dato il mio numero di telefono, proprio come disprezzo te". Ma il lavoro di Bergman alla fine spiega perché il luogo comune corrisponde al vero, e quindi perché il Mossad gode di una fama leggendaria di servizio segreto capace di compiere operazioni impossibili. E spiega anche perché nei circoli dell'establishment di alcuni paesi arabi e dell'Iran - dove la paranoia è considerata una qualifica professionale e non una malattia - in così tanti sono nevrotizzati dall'esistenza dei servizi segreti israeliani e sono spinti ad attribuire qualsiasi fatto della vita e del mondo a una loro macchinazione. Anche quei circoli, come i lettori di Bergman, pensano: se questo è quello che trapela in un libro, in pubblico, figurarsi quello che fanno e ancora non è trapelato.
  La figura centrale degli ultimi capitoli è Meir Dagan - direttore del Mossad dal 2002 al 2011 passato sotto i governi di Ariel Sharon, di Ehud Olmert e di Benjamin Netanyahu- che ha comandato le operazioni dell'intelligence israeliana dopo il trauma inguaribile dell'11 settembre, quando divenne chiaro a tutti fino a che punto era salito il livello di minaccia e che il mondo era diventato un luogo molto complicato da decifrare. Trascuri un gruppo di esuli arabi che si sono rifugiati in Afghanistan negli anni Novanta e ti trovi per le mani l'attacco terroristico più grave della storia. Meir Dagan teneva nel suo ufficio una fotografia del nonno materno, Ber Erlich Sloshny, avvolto nello scialle da preghiera e inginocchiato davanti a due soldati tedeschi - uno dei due fissa con un'espressione strafottente la macchina fotografica - durante un rastrellamento, poco prima di essere ucciso. Quando affidava a un agente del Mossad un'operazione particolarmente importante Dagan lo chiamava nel suo ufficio, gli mostrava la fotografia e gli spiegava che la maggior parte degli ebrei morti nell'Olocausto non aveva combattuto. "Non dobbiamo mai più finire in quella situazione di nuovo, in ginocchio e privati della possibilità di combattere per le nostre vite".
  Il tema più forte nelle pagine di Bergman in teoria è il dilemma etico. Può uno stato decidere di eliminare i suoi nemici e di creare una struttura apposta, dedicata a tempo pieno a questo scopo? E come fa a prendere la decisione migliore caso per caso? Si tratta in realtà di un quesito su cui è difficile concentrarsi. Forse è stato un interrogativo d'avanguardia nei decenni passati, adesso è una situazione normalizzata dalle notizie. Distinguere tra un tempo di pace e un tempo di guerra, tra un esercito avversario in uniforme regolare e un nemico letale in abiti civili oggi suona come un esercizio obsoleto - anche se non dovrebbe.Nel 2011 i commando americani sono atterrati in Pakistan per uccidere Osama bin Laden dentro la sua villa-rifugio. Sette anni più tardi non facciamo più caso al fatto che ogni mese un qualche capo dello Stato islamico che ha compiuto massacri - o che aveva promesso di compiere massacri - è localizzato e ucciso dai droni. Il dilemma etico che voleva essere l'asse portante del libro è ancora fortissimo e attuale, ma di sicuro siamo noi a essere desensibilizzati.
  Cosi altri temi catturano di più l'attenzione. Uno è la necessità suprema dell'autocontrollo quando si dispone di un potere così grande. In un capitolo si racconta la storia di come gli israeliani dessero una caccia ossessiva al capo dell'Olp palestinese, Yasser Arafat, e di come un giorno il Mossad lo rintracciò mentre s'imbarcava su un piccolo aereo privato che stava decollando da Atene. L'aviazione di Israele fece alzare un jet con l'ordine di abbattere l'aereo di Arafat, ma il comandante tenne in attesa il suo pilota perché non si fidava dell'identificazione fatta dagli agenti ad Atene e voleva una conferma definitiva. Invece che il leader palestinese, sull'aereo c'era suo fratello che faceva il dottore assieme con trenta bambini che erano in viaggio per essere curati. I servizi segreti si accorsero in tempo dell'errore, il pilota con il dito sul grilletto fu richiamato e Israele evitò quello che sarebbe stato un disastro davanti agli occhi di tutto il mondo.
  Un secondo tema molto forte è la sensazione di avere finalmente sotto gli occhi le soluzioni dei tanti rebus che in questi anni hanno reso misteriosa la cronaca del medio oriente degli ultimi anni. L'attacco aereo preventivo di Israele contro i siti nucleari dell'Iran, che una volta arrivò a meno trenta giorni dall'essere lanciato - se ne era parlato tantissimo sui giornali, ma senza avere mai una data precisa in mano. La morte degli scienziati che in Iran si occupano del programma di ricerca atomico, di nuovo un tema molto trattato sui media ma senza avere informazioni in mano. La guerra clandestina, colpo su colpo, tra Israele e il gruppo libanese Hezbollah e il governo di Bashar el Assad in Siria. E' come assistere al replay di vicende che più o meno già si conoscevano, ma questa volta da un'altra angolazione e con uno zoom aumentato.
  Prendiamo la distruzione di un reattore nucleare segreto nell'est della Siria nel settembre 2007. Il presidente Bashar el Assad era convinto che qualsiasi comunicazione attraverso mezzi moderni in Siria fosse intercettata da Israele, via telefono, internet, fax, radio: il che è difficile da credere e anche tecnicamente irrealizzabile, ma rende bene il clima di sospetto permanente che si respira a Damasco. Per aggirare la sorveglianza, il rais aveva chiesto a un suo generale, Mohammed Suleiman, di creare un piccolo esercito parallelo, della cui esistenza l'esercito regolare era all'oscuro, che per comunicare usava soltanto corrieri in motocicletta con messaggi sigillati con la cera. Grazie a questa segretezza i siriani cominciarono a costruire un reattore nucleare in grado di produrre combustibile utilizzabile per un'arma atomica, ma uno degli uomini di Suleiman commise un errore e durante un viaggio a Ginevra, in Svizzera, lasciò alcuni progetti del reattore dentro la sua borsa nella camera dell'hotel. Una donna lo abbordò nella hall, gli fece perdere tempo davanti a un bicchiere di vino - che lui offrì con prontezza - mentre una squadra apriva la porta della camera, fotografava il contenuto della borsa ancora senza sapere cosa fosse e poi usciva senza lasciare tracce. Quando una settimana dopo gli israeliani capirono che si trattava di un reattore nucleare, e che andava distrutto prima che entrasse in funzione e diventasse ancora più pericoloso, nacquero due scuole di pensiero: una che sosteneva che Assad avrebbe reagito all'umiliazione dichiarando una guerra di rappresaglia contro Israele, l'altra che credeva che Assad avrebbe incassato senza reagire, che non avrebbe imboccato la strada dell'escalation, a patto che l'operazione fosse condotta con molta discrezione e non fosse seguita da nessuna spiegazione ufficiale. Il direttore Dagan era il capofila di questa seconda scuola. Così a settembre durante un'esercitazione militare che era stata ampiamente pubblicizzata e che quindi i vicini arabi osservavano con un occhio chiuso dalla distrazione, sette aerei israeliani si staccarono dal resto della formazione, cambiarono rotta, varcarono il confine siriano, rasero al suolo il reattore semicostruito e rientrarono prima che il sistema di difesa aereo nemico riuscisse a rispondere. I due governi - Gerusalemme e Damasco - non dettero spiegazioni e negarono l'esistenza di un reattore, i giornali raccontarono quel che poterono con dettagli molto scarni e la questione si chiuse senza lo scoppio di un conflitto.
  Prendiamo, pochi mesi più tardi, l'operazione per uccidere Imad Mughniyeh, imprendibile ed efficientissimo capo militare di Hezbollah, che aveva scelto di lavorare da Damasco, capitale della Siria, e non a Beirut, capitale del Libano, proprio perché sapeva di essere sulla lista dei bersagli e voleva stare più al sicuro. Per arrivare a lui il Mossad contravviene a una delle sue regole ferree, quella di non condividere azioni con altri stati e altri servizi segreti. In questo caso invece chiama la Cia e si fa aiutare nella localizzazione di un bersaglio che si muove in Siria a inizio 2008, quindi un paese dove i cittadini americani hanno ancora la possibilità di muoversi ma gli israeliani non possono ovviamente penetrare - almeno ai livelli che servono per questo tipo di attività (in un altro punto del libro si dice che una squadra mandata a Dubai per eliminare un capo di Hamas era formata da ventisette persone, tutte con finti passaporti di altri paesi, ma la Siria è formalmente in guerra con Israele, i rischi sarebbero troppo alti). Gli americani localizzano Mughniyeh, che vive una vita discreta fatta di incontri con gli altri leader del cosiddetto asse della Resistenza, quindi Iran, Hamas e Siria, in alcuni edifici messi a disposizione da Assad, e di visite galanti a tre amanti anche quelle messe a disposizione dal governo siriano. Gli israeliani pensano a come bucare la sicurezza professionale fornita a Mughniyeh da quella stessa forza segreta messa in piedi da Assad per coprire la costruzione del reattore. Scartano l'idea di piazzare una piccola carica esplosiva nel suo telefonino, da far detonare quando lo porta all'orecchio, perché lo cambia di continuo. Si rendono conto che l'unico elemento fisso accanto al capo di Hezbollah è la sua auto, un fuoristrada Mitsubishi Pajero color argento. Riescono a contrabbandare in Siria una finta ruota di scorta per Pajero imbottita di esplosivo e dotata di microfoni e telecamere per capire cosa succede nei dintorni. Una notte smontano la ruota di scorta vera, attaccata al retro della macchina, e la sostituiscono con la loro, poi cominciano una paziente opera di sorveglianza. Hanno promesso agli americani che uccideranno soltanto lui, quindi devono aspettare l'occasione giusta. In sei settimane arrivano all'attimo prima di premere il bottone in una trentina di occasioni, ma alla fine c'è sempre qualche cosa che consiglia di rimandare. Un giorno accanto a Mughniyeh c'è una figura conosciuta, il generale iraniano Qassem Suleimani, architetto di tutte le operazioni militari dell'Iran in medio oriente, dall'Iraq alla Siria al Libano. E' l'uomo che in questi anni ha salvato Assad dalla guerra civile - fu lui a convincere il presidente russo, Vladimir Putin, della necessità di intervenire nel 2015 - e in cambio si sta prendendo il suo paese per usarlo come una grande postazione militare contro Israele. Ma il Mossad ha promesso agli americani, in cambio della loro collaborazione, che soltanto Mughniyeh sarebbe stato il bersaglio e quindi non fanno detonare la bomba (un gesto che avrebbe cambiato la storia del medio oriente come la conosciamo). Quando poi fanno esplodere la bomba, per i siriani e per Hezbollah è la conferma delle loro peggiori paure: Mughniyeh muore sotto le finestre del quartier generale dell'intelligence siriana, gli israeliani in qualche modo hanno perforato il sistema di protezione. Assad è in panico, chiede persino a Hezbollah di spostare il pajero a Beirut in modo da far credere che il loro comandante è morto in Libano e non in Siria, quelli rifiutano con sdegno e lo accusano di non avere fornito una protezione adeguata. E' febbraio, ad agosto gli israeliani uccidono anche il generale siriano Suleiman (da non confondere con l'iraniano Suleimani), l'uomo a cui Assad aveva ordinato di creare una forza clandestina e impenetrabile dall'esterno. Due cecchini delle forze speciali sbarcano su una spiaggia siriana vicino Tartous, aspettano che il generale arrivi a cena con la moglie e un gruppo di amici nella sua villa con terrazza sul mare, gli sparano sei colpi da angolazioni diverse, fuggono con gommoni, lasciano sulla spiaggia alcune sigarette dozzinali di marca siriana per far credere che si tratti di un qualche regolamento di colpi interno. La notizia scompare dai giornali occidentali dopo tre giorni di speculazioni, non scompare dalle conversazioni in medio oriente. Dieci anni dopo a noi viene da sorridere quando leggiamo che in qualche nazione araba gli uccelli migratori con un chip legato alla zampa per seguirne i movimenti - un espediente innocente da studiosi della natura - sono scambiati per un qualche piano del Mossad, ma tendiamo a scordare questi precedenti.
  E si potrebbe andare avanti, a raccontare per esempio anche i fallimenti, come il tentativo disastroso nel 1997 di uccidere il capo di Hamas Khaled Mashal in Giordania, spruzzandogli veleno sul collo da distanza ravvicinata con un congegno nascosto nella manica di un killer, che è accompagnato da un complice che deve aprire nello stesso esatto momento una lattina di coca-cola per coprire il rumore e far credere alla vittima di essere stato spruzzato per sbadatezza. La squadra s'addestra a fare questo esercizio per le strade di Tel Aviv, spruzzando con una sostanza neutra turisti ignari. Mashal è ancora oggi il leader di Hamas.
  Il libro di Bergman s'arresta a qualche anno fa, a prima della rivoluzione siriana, perché nessuno parla delle operazioni più recenti ed è un peccato. Sarebbe interessante, per esempio, sapere perché nell'autunno 2015 una decina di alti ufficiali iraniani impegnati in Siria morì nel giro di poche settimane, oppure di come gli israeliani sono riusciti a penetrare una cellula dello Stato islamico che a Raqqa preparava attentati sugli aerei di linea - una vicenda che conosciamo soltanto perché il presidente americano Donald Trump ne ha parlato incautamente durante una visita dei russi alla Casa Bianca.

(Il Foglio, 24 febbraio 2018)


È la libertà a renderci veri, non il contrario. Ecco la casa dell'«ebreo errante» Isaiah Berlin

Gli incontri con Churchill, Wittgenstein e Thatcher e il rifiuto del determinismo.

di Giancristiano Desiderio

Il pensiero e la vita di Isaiah Berlin (1909-97) sono molto istruttivi perché ruotano intorno alle relazioni tra verità, potere e libertà. Si dà per scontato che verità e libertà vadano d'amore e d'accordo, ma non è così, e sir lsaiah lo sapeva molto bene. La verità quando è intesa come «verità della necessità» scaccia e nega la libertà e in nome del determinismo e della perfezione chi detiene il potere passa sopra a quello che Berlin, riprendendo Kant, chiamava «il legno storto dell'umanità». Se questo concetto di verità fosse reale - diceva l'autore di Libertà - non solo non avrebbe senso la nostra vita, ma non avrebbero senso nemmeno le parole del vocabolario con le quali ci sforziamo di conoscere. Berlin credeva che la conoscenza non è sempre fautrice di libertà. Ecco perché non faceva sua la famosa frase del Vangelo «conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» e, all'inverso, si può ritenere che si ritrovasse di più nell'idea che sia la pratica della libertà a farci veri. Non c'è da stupirsi, allora, se per questo «ebreo errante», che scappò con la famiglia da Pietrogrado al tempo della Rivoluzione d'ottobre, che trovò riparo in Inghilterra e girò per il mondo alla ricerca di una casa per gli ebrei, l'origine della filosofia non è in una teoria statica, ma nella vita pratica degli uomini che per essere liberi devono appartenere a una storia o a una patria nella quale sentirsi a casa.
   Il tema dell'appartenenza, fino a giungere alla composizione di un «liberalismo nazionale», è la chiave di lettura che Alessandro Della Casa propone per avvicinarsi alla vita e all'opera di Berlin con un libro uscito per Rubbettino (Isaiah Berlin. La vita e il pensiero, pagg. 342, euro 18), la più completa ma, ahimè, un po' accademica, biografia di Berlin scritta da un italiano. La ricerca si distende su tutto l'itinerario esistenziale e intellettuale di Berlin, poggiando su non poche fonti inedite e mettendo in rilievo l'importanza di alcuni eventi e incontri con le maggiori personalità del Novecento: Weizmann e Ben Gurion, Churchill e Thatcher, Eliot e Wittgenstein. Maurice Bowra disse: «Sebbene, come Nostro Signore e Socrate, non pubblichi molto, egli pensa e parla un bel po' e ha avuto un'influenza grandissima sul nostro tempo». Cosa, questa, che non dovrebbe destare eccessiva meraviglia perché il pensiero di Berlin non nasce fra quattro mura accademiche, ma come costante risposta a quelli che Benedetto Croce chiamava «i problemi della libertà» del proprio tempo. Le sue cene a Downing Street con Margaret Thatcher avevano questo scopo: la Thatcher si fidava del giudizio del filosofo sul proprio tempo. Alla cena dell'ottobre dell'82 presso il futuro Lord Thomas of Swynnerton, vi erano anche Stephen Spender e Mario Vargas Llosa e proprio Vargas Llosa avrebbe poi ricordato che la Thatcher mostrò «rispetto e affetto» sinceri soltanto per Berlin che ricambiava con stima e simpatia pur avanzando critiche e distinguo. «Non sono mai stato tentato, nonostante la mia lunga devozione alla libertà individuale - scrisse il vichiano Berlin - di marciare con coloro che, in suo nome, rigettano l'adesione a una nazione, comunità, cultura, tradizione, lingua particolari».

(il Giornale, 24 febbraio 2018)


Il canto del cigno della causa palestinese

Con il suo rancoroso discorso alla Nazioni Unite, del tutto ignorato dai media mondiali compresi quelli arabi, Mahmoud Abbas è sembrato tentare il tutto per tutto. Inutilmente.

a causa palestinese? Non interessa più a nessuno né in Israele né nel mondo arabo. Questa mattina un editoriale di Herb Keinon sul Jerusalem Post fa notare come «in tempi normali» il discorso e le minacce proferite martedì scorso alle Nazioni Unite dal Presidente palestinese, Mahmoud Abbas, avrebbe fatto titoloni nei giornali israeliani e in quelli arabi.
Invece nulla. I giornali israeliani non hanno dato alcun risalto alle parole di Abbas, mentre quelli arabi gli hanno dedicato appena un trafiletto.
Se per i giornali israeliani, come appunto spiega Herb Keinon, il discorso può essere ricollegato in parte alle vicende che interessano il Premier Netanyahu e le accuse di corruzione che gli sono state mosse dalla polizia, per quelli arabi non tiene nemmeno questa scusa....

(Right Reporters, 24 febbraio 2018)


Ambasciata Usa a Gerusalemme dal 14 maggio

 
«Vorrei congratularmi con Donald Trump per la sua decisione di trasferire l'ambasciata Usa nella nostra capitale nel 70esimo anniversario dell'Indipendenza». Lo ha detto, via Twitter, il ministro dei trasporti e dell'intelligence Israel Katz confermando così indirettamente le notizie media sul trasferimento dell'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme nella sede dell'attuale consolato nel quartiere di Arnona. «Non c'è regalo più grande di questo. La mossa più corretta e giusta. Grazie amico», ha concluso.
L'ambasciata americana in Israele trasferirà la propria sede da Tel Aviv a Gerusalemme il prossimo 14 maggio. Lo scrive su Twitter il corrispondente diplomatico israeliano di Channel 10 Barak Ravid. Il giorno è quello in cui si celebra l'anniversario dell'indipendenza di Israele, conquistata nel 1948 e in cui il presidente americano Harry Truman riconobbe quello Stato.
Anche i media americani hanno dato la notizia, che però al momento non è stata confermata dalla Casa Bianca. Il trasferimento quindi arriverà molto prima di quanto si immaginasse: durante l'ultima visita in Israele, il vicepresidente, Mike Pence, aveva dato come indicazione fine 2019.
La mossa americana, che implica il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale d'Israele e ha suscitato la rabbia palestinese, è arrivata prima del previsto. Il vicepresidente americano, Mike Pence, aveva indicato come termine entro cui realizzare il trasferimento la fine del 2019. Vi sarà «un'ambasciata a interim», che sarà aperta nel consolato americano già presente a Gerusalemme Ovest, nel quartiere Arnona. L'ambasciatore David Friedman lavorerà lì insieme con un ristretto staff. Il consolato diventa così un'ambasciata, mentre il luogo in cui edificare sede permanente della rappresentanza diplomatica sarà deciso in seguito. La sezione consolare continuerà a essere operativa, fornendo servizi sia a israeliani sia a palestinesi.
In una seconda fase arriverà a Gerusalemme altro personale diplomatico da Tel Aviv, mentre quella che oggi è l'ambasciata in quest'ultima città si trasformerà in un "ramo" di quella nella Città Santa. La terza fase prevede la costruzione del nuovo edificio a Gerusalemme: una volta completato, in un luogo ancora da definire, vi si trasferirà il resto del personale oggi presente a Tel Aviv.
La residenza dell'ambasciatore resta, per il momento, a Herzliya, una città a nord di Tel Aviv. A Gerusalemme resterà operativo il consolato americano di Agron, che gestisce le relazioni con i palestinesi.

(Il Secolo XIX, 23 febbraio 2018)


La prima Bibbia ebraica tornerà presto in Calabria

 
Nei giorni scorsi è pervenuta al Presidente della Giunta regionale, Mario Oliverio, una lettera del prof. Simone Verde, direttore del Complesso Monumentale della Pilotta di Parma, che raccoglie la Biblioteca Palatina, la Galleria Nazionale, il Museo Archeologico Nazionale e il Museo Bodoniano, in cui si legge: "Il Complesso Monumentale della Pilotta, come già in passato la Biblioteca Palatina, è lieto di concedere in prestito l'incunabolo ebraico St. De Rossi 1178 per esporlo in Calabria, dove fu impresso nel febbraio del 1475".
   "Una lettera - afferma il Presidente della Giunta regionale, Mario Oliverio - che mi ha riempito di gioia. La Bibbia ebraica, infatti, è uno degli importanti tasselli di quello straordinario, ma purtroppo finora dimenticato, mosaico culturale che per secoli è stata la nostra regione. In particolare, il legame con l'ebraismo è fra l'altro documentato da diverse memorie e tracce presenti sul nostro territorio regionale: dai resti del tempio di Bova Marina, risalente al IV secolo e costituente la più antica sinagoga d'Europa, alla consuetudine che vede ogni estate l'arrivo in Calabria di centinaia di rabbini da tutto il mondo lungo la riviera tirrenica cosentina, fra Diamante e S. Maria del Cedro, per cogliere i cedri migliori da destinare al Sukkot, la Festa delle Capanne, per finire con la leggenda che vuole Aschenez, pronipote di Noè citato nella Bibbia, quale fondatore di Reggio Calabria, personaggio dal quale deriverebbe uno dei principali ceppi ebraici attuali, gli Ashkenaziti".
   "Il 3 settembre scorso, durante un evento svoltosi a Santa Maria del Cedro sul tema "Il cuore calabro dell'ebraismo" - ricorda Oliverio - annunciai che avremmo fatto qualsiasi sforzo affinché la Bibbia ebraica potesse fare ritorno a Reggio Calabria per essere ammirata da tutti, calabresi e non. Abbiamo mantenuto la promessa. Oggi tutti i nostri sforzi vengono premiati. La notizia comunicataci nei giorni scorsi dal direttore del Complesso Monumentale della Pilotta di Parma, dott. Verde, ci pone ora nelle condizioni di accingerci a preparare il più grande evento culturale mai verificatosi nella nostra regione".
   "Finalmente, dopo 600 lunghi anni - conclude il Presidente della Regione - è giunto il momento di esporre questo prezioso documento nella città e nella terra che gli diedero i natali, facendo in modo che questo evento possa diventare un'occasione per gli appassionati della cultura di tutto il mondo di venire in Calabria e a Reggio per scoprire ed apprezzare le bellezze e i tesori della nostra terra"
   La prima Bibbia in lingua ebraica, un esemplare dalla rarità straordinaria, il più antico stampato ebraico recante data certa, fu scoperta da Giovanni Bernardo De Rossi, presbitero, orientalista e bibliografo piemontese e contiene il commento al Pentateuco ad opera del talmudista Šelomoh ben Yişhah.
   Certo è che questo prezioso volume venne alla luce a Reggio Calabria nel quartiere della Giudecca, zona a residenza ebraica della città, presso la bottega tipografica di Avrhaham ben Garton situata fra Porta Mesa e via Malfitana, e la sua realizzazione fu resa possibile grazie ai finanziamenti dei commercianti di seta ebrei della città.
   Dopo la scoperta del De Rossi, il volume, insieme ad altri importanti documenti della cultura ebraica in Italia, venne acquistato nel 1816 da Maria Luigia d'Austria per donarla alla Regia Bibliotheca Parmense ed ora è esposto nella Biblioteca Palatina. Formata da 115 carte, la Bibbia "calabrese" presenta legatura in cuoio, titolo, dati editoriali e fregi impressi in oro, ed è considerato un esemplare di inestimabile valore. Di questa preziosa opera - che risulta citata anche nella "Storia di Reggio Calabria" di Domenico Spanò Bolani e nelle "Memorie delle Tipografie Calabresi " di Vito Capialbi - esiste una sola copia, appunto quella della Biblioteca Palatina di Parma di cui un fac-simile è stato edito a Gerusalemme nel 1969. Ne esiste, infine, una moderna copia anastatica custodita presso la Biblioteca comunale "Pietro De Nava" di Reggio Calabria, dove si conservano anche altri libri in lingua ebraica risalenti al tempo della Giudecca di Reggio.

(Telemia.it, 23 febbraio 2018)


L'assessore intervista L'Informale: la serata su Israele a Genova è stata un successo

L'assessore alla cultura Elisa Serafini
E' stata un successo la serata organizzata a Genova dall'Associazione Per l'Amicizia Italo-Israeliana (Apai) di Bruno Gazzo, che ha invitato l'assessore locale alla Cultura, Elisa Serafini, e il fondatore del sito L'Informale, Riccardo Ghezzi, a parlare di Israele. "Cinque domande su Israele", questo il titolo dell'evento, ha ottenuto una partecipazione di pubblico al di là delle più rosee aspettative.
Una bella risposta della città di Genova, che incoraggia ancor di più a contrastare la disinformazione su Israele e sul Medio Oriente.
Dal capoluogo ligure partiranno presto i voli estivi per Tel Aviv con la compagnia privata Israir, una delle nuove rotte dell'aeroporto Cristoforo Colombo, e si sta lavorando anche per un futuro gemellaggio tra Genova ed Haifa. Merito anche e soprattutto della presenza in giunta di Elisa Serafini, probabilmente l'assessore italiano che maggiormente ama Israele. E' stata proprio Elisa Serafini a rivolgere le cinque domande su Israele a Riccardo Ghezzi, scegliendo di parlare del sito L'Informale, dei viaggi in Israele di Ghezzi e le differenze riscontrate rispetto alla narrativa della stampa, del movimento Bds, della decisione del presidente Usa Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e dei motivi per cui Israele è costretto a subire l'ostilità di una parte del mondo occidentale.
Al termine delle cinque domande, sono stati numerosi gli interventi di un pubblico che ha mostrato un alto interesse per tutta la durata del dibattito.
L'intervista, introdotta dal presidente di Apai Genova, Bruno Gazzo, si è rivelata un'esperienza positiva, sicuramente da ripetere in altre città.
A Genova, a Bruno Gazzo e all'assessore Elisa Serafini va il sentito ringraziamento di Riccardo Ghezzi e di tutta la redazione de L'Informale per aver contribuito alla buona riuscita dell'evento, che si è svolto presso il Museo Biblioteca dell'Attore, in via del Seminario.
Un grazie di cuore anche ai tanti partecipanti.

(L'informale, 22 febbraio 2018)


L'Isis cercò di colpire Sydney, Israele sventò l'attentato

L'informazione dell'intelligence israeliana

Nel corso dell'American Jewish conference a Gerusalemme, il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha raccontato che grazie a un'informazione fornita dall'intelligence israeliana la scorsa estate è stato sventato un attentato del gruppo dello Stato islamico a un aereo in partenza da Sydney. Il piano dei terroristi, ha affermato Netanyahu, era di utilizzare un tritacarne come ordigno esplosivo per poi farlo scoppiare in volo. "Sarebbe stato un massacro inimmaginabile", ha detto il Premier spiegando che l'attacco è stato evitato grazie alle informazioni fornite dall'unità speciale 8200 dell'esercito israeliano. Questa unità si occupa di raccogliere e analizzare informazioni intercettate utilizzando sofisticate tecnologie informatiche. L' esercito israeliano ha confermato che l'informazione sul presunto attacco all'areo partito dall'Australia ha "salvato la vita di decine" di persone, ma non ha specificato quale fosse il volo preso di mira. L'anno scorso due fratelli sono stati arrestati a Sydney - Khaled Khayat e Mahmoud Khayat - e accusati di aver complottato per abbattere un aereo passeggeri dell'Etihad Airways con destinazione Abu Dhabi.

(moked, 23 febbraio 2018)


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L'Australia ringrazia il Mossad: l'Isis voleva abbattere un aereo Ethiad

L'intelligence israeliana ha aiutato l'Australia a sventare una complotto terroristico dello Stato Islamico teso a far esplodere un aereo della compagnia Etihad. Lo ha confermato il ministro per l'Immigrazione, Peter Dutton, riferendosi all'arresto, avvenuto lo scorso luglio, di 4 uomini che avevano cercato di imbarcare su un volo della compagnia degli Emirati Arabi, diretto ad Abu Dhabi, un ordigno esplosivo artigianale. "Siamo molto grati per l'assistenza che ci ha fornito Israele", ha detto Dutton in un'intervista radiofonica precisando che le informazioni hanno "direttamente" impedito l'attacco poco prima che si realizzasse. Il ministro ha reso noto poi che negli ultimi anni sono stati 14 gli attacchi terroristici sventati in Australia, con 85 persone incriminate. La conferma del ministro arriva dopo che il quotidiano israeliano The Times of Israel ha rivelato la notizia, citando fonti dell'intelligence militare israeliano riguardo alle "informazioni esclusive" comunicate all'Australia.
Anche il premier Benjamin Netanyahu ha confermato lo scambio di informazioni: "posso dirvi che questa è stata una delle tantissime occasioni in cui noi abbiamo impedito attacchi terroristici in tutto il mondo". Secondo quanto rivelato, un terrorista dello Stato Islamico aveva inviato dalla Turchia, su un aereo cargo, i componenti dell'ordigno alla cellula di Sydney dando loro istruzioni su come assemblarlo. Ma l'ordigno, nascosto in un tritacarne, non era stato imbarcato e bloccato al check-in. Due degli arrestati sono stati incriminati per terrorismo, un terzo per possesso di armi ed un quarto rilasciato. Uno degli arrestati è di origine libanese e, secondo il ministro dell'Interno libanese Nohad Machnouk che lo scorso agosto ha rivendicato che era stato il Libano ad aver aver aiutato gli australiani a sventare l'attentato, si era arruolato nello Stato Islamico a Raqqa.

(Il Secolo d'Italia, 23 febbraio 2018)


All'Università di Torino seminario contro Israele

Aspettiamo quello sugli accademici iraniani suicidi e i turchi all'ergastolo

di Giulio Meotti

Gianmaria Ajani, Rettore dell'Università di Torino
ROMA - Cosa sta succedendo all'Università di Torino? Da mesi, questo ateneo prestigioso fa notizia per una serie di iniziative contro Israele. Il primo marzo sarà l'apice di queste campagne volte a demonizzare e delegittimare lo stato ebraico con una due giorni dedicata a Edward Saìd nell'Aula magna del campus Einaudi. Ospite d'eccezione sarà il professore inglese Ilan Pappé, che ha aderito al boicottaggio di Israele, autore di libri come "La pulizia etnica in Palestina" e che ha auspicato di trascinare Gerusalemme di fronte al tribunale dell'Aia. Al suo fianco, Ruba Salih della Scuola di studi africani e orientali di Londra. E' la stessa attivista palestinese e antisraeliana che l'Università di Cambridge lo scorso novembre ha rimosso come moderatrice da un dibattito sul medio oriente, chiedendo che fosse "aperto e legittimo", e spiegando che Salih non sarebbe stata in grado di farlo a causa del suo background. Lo stesso storico antisionista Ilan Pappé avrebbe dovuto parlare a Monaco. Ma una lettera dell'Associazione israelo-tedesca, in cui si sosteneva che la conferenza di Pappé si sarebbe trasformata in "uno spettacolo propagandistico anti-israeliano", ha spinto il comune di Monaco a riconsiderare l'evento e annullare l'iniziativa.
   Nei giorni scorsi una lettera aperta indirizzata al rettore di Torino, Gianmaria Ajani, da parte di cento intellettuali, giornalisti e politici denunciava che "all'Università di Torino si dibatte e si mostrano documenti falsi contro lo stato di Israele, diffondendo analisi e informazioni menzognere su sionismo, nazismo e su presunte forme di apartheid da parte degli israeliani. Il tutto nell'indifferenza generale". Le studentesse e gli studenti che avranno la possibilità di partecipare al seminario contro Israele otterranno il riconoscimento di tre crediti formativi. Il seminario si inserisce in un ciclo di eventi da marzo a maggio "sulle violazioni dei diritti fondamentali in Israele".
   Finito il processo a Israele, aspettiamo con ansia un convegno nell'Aula magna di Torino sui suicidi degli accademici iraniani in carcere. Il New York Times ieri dedicava loro un articolo, paragonando l'Iran degli ayatollah alle "Memorie dalla casa dei morti" di Fédor Dostoevskij. L'ultimo caso pochi giorni fa: Kavous Seyed Emami, accademico e ambientalista, una delle maggiori figure intellettuali in Iran con cittadinanza canadese, si sarebbe tolto la vita nelle galere di Evin. Il regime ha costretto la famiglia, che non crede al suicidio, a seppellirlo in fretta e senza autopsia. Sempre a Evin, la Lubianka iraniana, si sarebbe tolto la vita il blogger Omidreza Mirsayafi. Siamak Pourzand, giornalista e intellettuale, si è invece buttato dalla finestra dopo anni di persecuzioni.
   Poi i professori e il rettore di Torino, in nome della nobile tradizione democratica e antifascista che quella città ha sempre preteso di incarnare, potrebbero ospitare un seminario sulla condanna all'ergastolo in Turchia di accademici e scrittori, come i fratelli Altan. In questo modo l'università di Torino potrebbe davvero fornire il suo contributo al tema "democrazia e diritti umani" in medio oriente, anziché trasformare le proprie aule in grotteschi tribunali contro l'unica democrazia della regione e l'unico stato al mondo sotto odioso boicottaggio: Israele.

(Il Foglio, 23 febbraio 2018)


La bellezza depredata degli ebrei

Due sale del Louvre ospitano una trentina di quadri che i nazisti requisirono nel periodo in cui la Francia era occupata. Viaggio attraverso alcune delle migliaia di opere che attendono di essere restituite agli eredi delle vittime. Sui muri non c'è ordine cronologico, né unità di luogo o di stile Si mischiano dipinti del Cinquecento e altri dell'Ottocento, anonimi veneziani e fiamminghi.

di Anais Ginori

 
Louvre, esposizione di alcuni dipinti trafugati durante l'occupazione nazista
PARIGI - E' una postilla che passa inosservata sotto a ogni quadro. «Opera in attesa di essere restituita al legittimo proprietario». Nell'ala Richelieu, in fondo alla galleria Medici, davanti ai magnifici ritratti di Rubens, sono ancora pochi i visitatori che osano entrare nelle due piccole sale affacciate su rue de Rivoli. I gruppi di turisti non ci fanno caso. Sui muri non c'è ordine cronologico, né unità di luogo o di stile. Si mischiano dipinti del Cinquecento e altri dell'Ottocento, pittori fiamminghi e anonimi veneziani, artisti famosi come Eugène Delacroix, François Boucher, Théodore Rousseau, e nomi molto meno prestigiosi. «Abbiamo fatto un'eccezione, tralasciando ogni criterio artistico», racconta Sébastien Allard parlando come di un'eresia necessaria. Il direttore del dipartimento Dipinti del Louvre fa visitare con un punta di emozione le nuove sale dedicate alle opere requisite alle famiglie ebree durante il nazismo. Il più grande museo del mondo ha deciso di esporre, in un'apposita area, trentuno dipinti "orfani" dalla fine della guerra. Il Louvre ha quasi 800 dipinti trafugati durante l'occupazione nazista. «Li abbiamo in custodia ma non ne siamo proprietari», ripete più volte Allard, evocando le varie tappe del contenzioso intorno a questi quadri e disegni. Secondo alcune stime, i nazisti hanno requisito agli ebrei francesi oltre 100mila beni, opere d'arte ma non solo. A partire dal 1945, oltre 60mila beni sono tornati dalla Germania verso la Francia, di cui 45mila restituiti ai legittimi titolari o agli eredi. Un'altra parte è stata venduta dallo Stato che ha però mantenuto 2143 opere iscritte in un registro speciale, quello dei Musées Nationaux Récupération (Mnr), di cui tre quarti sono conservate nelle riserve del Louvre.
 
Tête de Lionne di Théodore Géricault
  Alcuni dei dipinti del Mnr, come la Tête de Lionne di Théodore Géricault, sono già visibili all'interno della collezione permanente del museo. In passato, ci sono state alcune mostre temporanee con questo filo conduttore ma è la prima volta che viene creato uno spazio permanente. L'obiettivo, spiega Allard, non è solo ricordare i rastrellamenti che hanno subito migliaia di famiglie ebree, derubate di tutto, ma anche tentare di rintracciare finalmente le vittime dei trafugamenti o i loro eredi. Una missione tutt'altro che facile.
  A lungo la procedura prevedeva che l'onere della prova fosse a carico delle vittime. Per chi aveva perso tutto durante la guerra era complicato ritrovare documenti o foto che potessero convincere lo Stato ad autorizzare la restituzione. La questione è rimasta in sonno. Tra il 1957 e il 1994 sono state riconsegnate solo 4 opere sulle oltre 2 mila in mano allo Stato. «Era un periodo in cui la società francese voleva voltare pagina», dice con pudore Allard. Secondo molti storici, si trattava di una rimozione collettiva, della volontà di tacere le zone d'ombra e le colpe di chi aveva collaborato con i tedeschi. Solo nel 1995 il presidente Jacques Chirac ha riconosciuto la responsabilità della Francia nei rastrellamenti. Ed è in quegli anni che - non a caso - si sono ricominciate a muovere le autorità a proposito dei trafugamenti. Il governo ha chiamato l'ex partigiano Jean Matteoli per fare un rapporto, nel 1999 è stata creata la Commission d'indemnisation des victimes de spoliations (Civs).
  «Stabilire l'identità dell'ultimo proprietario legittimo di questi dipinti resta un rompicapo», commenta Allard. Le ricerche richiedono tempo e mezzi. Talvolta sono inconcludenti. Lo Stato ha messo online la collezione completa delle opere cosiddette Mnr. La banca dati si chiama Rose Valland, dal nome dell'eroica conservatrice che lavorava al Jeu de Paume, museo usato dai nazisti per smistare le opere sequestrate. Valland ha tenuto un archivio clandestino diventato fondamentale nel dopoguerra per rintracciare centinaia di famiglie derubate. Secondo la definizione delle autorità francesi, per bene «trafugato» si intende rubato durante un rastrellamento ma anche «venduto sotto costrizione» o comunque a causa delle leggi razziali.
 
Mesdemoiselles Duval di Jacques Augustin Pajou
  È probabilmente il caso del dipinto Mesdemoiselles Duval di Jacques Augustin Pajou, esposto all'ingresso delle nuove sale del Louvre. Il ritratto delle sorelle, finito nella collezione privata del gerarca Joachim von Ribbentrop, era stato venduto l'11 febbraio 1942. Consultando la banca dati Rose Valland si nota che molti altri dipinti sono stati acquisiti durante l'occupazione. Le autorità hanno digitalizzato i cataloghi di vendita delle gallerie parigine tra il 1939 e il 1945. È grazie a questi documenti che gli eredi della coppia Hertha ed Henry Bromberg, fuggita prima dalla Germania e poi anche dalla Francia, ha potuto ottenere la restituzione di alcuni quadri, in particolare dagli archivi dell'antiquario Yves Perdoux. L'ultimo - il trittico di un pittore fiammingo - è stato riconsegnato alla famiglia Bromberg a metà febbraio dalla ministra della Cultura, Françoise Nyssen.
  Negli ultimi anni il ritmo delle restituzioni si è accelerato. Il precedente governo ha creato gruppi di lavoro che, anziché lasciare l'iniziativa solo ai parenti delle vittime, hanno avuto una parte attiva nelle ricerche, mobilitando magistrati, conservatori, archivisti. Sono stati chiamati genealogisti per rintracciare gli eredi, ora che i protagonisti dell'epoca non ci sono più. Dopo ottant'anni, le chance di ridare una casa alle opere "orfane" sono sempre meno. «Ci piacerebbe pensare che un giorno questo spazio sarà vuoto», conclude Allard. Il Louvre, e lo Stato francese in generale, sono stati anche criticati per le lungaggini, l'ottusa burocrazia. «Sappiamo che gli sforzi non sono mai abbastanza», risponde il responsabile. Nel lanciare la lodevole iniziativa il museo ha fatto una gaffe non piccola. Nel primo cartello informativo non erano citate le famiglie ebree. Come se le opere fossero state un semplice bottino di guerra e non il frutto di una persecuzione sistematica. Il Louvre ha parlato di "svista". Il cartello è stato ovviamente corretto. Il peso della Storia continua a farsi sentire.

(la Repubblica, 23 febbraio 2018)


E' davvero di Isaia il sigillo trovato a Gerusalemme?

Durante alcuni scavi è stato rinvenuto un sigillo in argilla di 2.700 anni fa che potrebbe recare la dicitura "Di proprietà del profeta Isaia": se fosse così, sarebbe il primo riferimento a Isaia al di fuori della Bibbia.

di Kristin Romey

Secondo un nuovo articolo pubblicato su Biblical Archaeology Review, un sigillo in argilla dell'IIX secolo a. C. scoperto nel corso di uno scavo a Gerusalemme potrebbe recare il nome del profeta biblico Isaia.
Il sigillo in argilla danneggiato di 2.700 anni fa, scoperto in un'antica fossa dell'età del ferro a Gerusalemme, potrebbe recare il nome del profeta biblico Isaia.
L'autrice dell'articolo "È la firma del profeta Isaia?" (Is This the Prophet Isaiah's Signature?), l'archeologa Eilat Mazar, suggerisce che la scrittura in ebraico antico impressa nel sigillo ovale danneggiato grande più di un centimetro, potrebbe un tempo avere avuto il significato di "Di proprietà del profeta Isaia".
Se l'interpretazione dei caratteri impressi sul sigillo di 2.700 anni fa fosse corretta, si tratterebbe del primo riferimento a Isaia al di fuori della Bibbia. Il profeta ebreo viene descritto come consigliere di Ezechia, re del regno di Giuda.
Il sigillo in argilla (bulla, in latino) è stato rinvenuto durante gli scavi condotti da Mazar nel 2009 nella zona di Ophel, alla base del muro meridionale del Monte del Tempio di Gerusalemme (in arabo, Haram al-Sharif), assieme ad altri 34 sigilli. Questi erano stati recuperati da piccole fosse risalenti all'età del ferro (1.200-586 a. C.), al di fuori del muro del Tempio, utilizzato per la fornitura di prodotti da forno alla corte reale, che fu raso al suolo dai babilonesi nel 586 a. C durante la distruzione di Gerusalemme.

 Il profeta Isaia
  Sul sigillo è impressa un'iscrizione in antico ebraico contenente il nome Yesha'yah[u], il nome Isaia in ebraico, seguito dalla parola nvy.
La bulla in argilla con il sigillo del re Ezechia è stata rinvenuta nella stessa area di scavo a soli tre metri di distanza da quello che si suppone essere quello di Isaia.
Essendo il sigillo danneggiato in corrispondenza della parola nvy, l'archeologa suggerisce che l'iscrizione potrebbe contenere dell'altro. Se a seguito di nvy era presente la lettera ebraica aleph, il risultato sarebbe il termine "profeta", e dunque è possibile che il sigillo riportasse la dicitura "Di proprietà del profeta Isaia".
Secondo l'archeologa, ad avvalorare questa interpretazione ci sarebbe il contesto archeologico nel quale il sigillo è stato scoperto.
Nel 2015, molte testate a livello internazionale avevano diffuso la notizia del rinvenimento, nel corso degli scavi di Ophel, di un sigillo di argilla appartenente al re Ezechia. Secondo il nuovo articolo, il sigillo di Isaia è stato trovato a soli tre metri da quello di Ezechia, durante lo stesso scavo compiuto nel 2009.
La stretta relazione fra il profeta e il re, che trova fondamento nella Bibbia, insieme alla vicinanza dei due ritrovamenti "sembra lasciare aperta la possibilità che, nonostante le difficoltà derivanti dal danneggiamento della bulla, si tratti del sigillo su cui è impresso il nome del profeta Isaia, consigliere del re Ezechia", spiega Mazar.

 Ostacoli insormontabili?
  Per quanto affascinante possa essere questa interpretazione, Mazar ammette la presenza di alcuni "importanti ostacoli" nell'identificazione del sigillo, riguardanti soprattutto la parola nvy. Senza la lettera
I ricercatori suggeriscono che la parte danneggiata del sigillo potrebbe avere in origine riportato i caratteri ebraici vav e h, nel registro medio, e aleph nel basso registro (in blu, le parti di testo ricostruite). La dicitura completa impressa sul sigillo sarebbe dunque "Di proprietà del profeta Isaia".
aleph alla fine, nvy può essere probabilmente ricondotta a un semplice nome di persona (spesso si tratta del nome del padre) o di luogo (quello di provenienza della persona in oggetto).
Christopher Rollston, docente di Lingue semitiche alla George Washington University concorda sulle possibili criticità derivanti dall'interpretazione di nvy.
"La lettera aleph è di fondamentale importanza per confermare che la seconda parola dell'iscrizione è 'profeta'. Ma sulla bulla non si legge nessuna aleph e dunque quell'interpretazione non può essere confermata", dichiara.
Inoltre, come osserva Rollston, manca l'articolo determinativo h. E nella maggior parte dei riferimenti biblici, i titoli sono preceduti dall'articolo (si trova 'il profeta', piuttosto che semplicemente 'profeta'). "In sintesi, se la parola fosse 'profeta', sarebbe dovuta essere preceduta da 'il', come nell'espressione 'il profeta Isaia'", puntualizza.
Tuttavia, secondo Mazar, la mancanza dell'articolo determinativo è un problema che riguarda l'interpretazione del sigillo, suggerendo che l'articolo potrebbe essere stato presente in origine in una parte danneggiata sopra la parola nvy o, citando altri esempi archeologici e della letteratura, potrebbe semplicemente non esserci stato.
Inoltre, come nota Rollston, la radice ebraica yš' si ritrova non sono in Isaia il profeta, ma in quasi venti personaggi diversi della Bibbia. "C'erano molte persone con il nome Isaia o nomi simili costituiti dalla stessa identica radice", osserva. E se la parola nvy costituisse parte del nome del padre di qualcuno, di certo quel qualcuno non sarebbe il profeta, il cui padre, secondo la Bibbia, era Amoz.
L'eventuale scoperta di manufatti associati sia al re Ezechia, sia a Isaia - il profeta biblico che consigliò il re durante il tumultuoso periodo successivo alla conquista assira del Regno di Israele e alla continua minaccia del Regno di Giuda, a sud - "rappresenterebbe un'eccezionale opportunità per conoscere in modo approfondito questo momento specifico della storia di Gerusalemme", dichiara Mazar.
"Naturalmente, l'ipotesi che quello rinvenuto sia il sigillo del profeta Isaia è allettante, ma non è ancora possibile affermarlo con certezza", conclude Rollston.

(National Geographic Italia, 23 febbraio 2018)


Putin e la partita in Siria

di Ovidio Diamanti

 
La rivista americana The Atlantic pone un quesito centrale: la Russia ha imparato in Siria che è molto facile entrare in una guerra mediorientale, ma è molto difficile uscirne.
Subito dopo, l'autore spalanca il portone di uno scenario finora impensabile.
Mosca è intervenuta nel 2015 nella guerra civile siriana per aiutare il governo di Bachar al-Assad. Per mostrare che non era un gioco, Vladimir Putin ha portato in Siria anche i missili da difesa S-400, altamente tecnologici. I militari russi sono intervenuti con l'aviazione e artiglieria ogni volta che le circostanze minacciassero il regime di Damasco.
Eppure, nel momento dell'incidente causato dal drone iraniano e dall'abbattimento del jet militare israeliano, Mosca non ha mosso un dito.
L'impressione è stata che la Russia volesse un'aggressione violenta di Israele all'Iran in modo da dissuadere Assad dall'allinearsi troppo con Teheran.
L'obiettivo dell'intervento russo in Siria non è mai stato solo quello di garantire la sopravvivenza del presidente siriano. In realtà, lo scopo di Putin era quello di inserirsi in un contesto geopolitico cruciale e a obbligare gli Stati Uniti, impegnati all'epoca a isolare diplomaticamente la Russia, che Mosca non poteva essere trascurata.
Ma Putin puntava anche a evitare che la Siria divenisse un vassallo iraniano. Mosca e Teheran sono "frenemies", amici nemici. Amici quando devono contrastare la potenza americana, nemici e in competizione quando cercano di conquistare zone di influenza in Medio Oriente e nel Caucaso meridionale.
Russia e Israele hanno buone relazioni. E Putin probabilmente si sente più vicino a Tel Aviv che a Teheran. Putin sa bene che dall'Iran e dagli Hezzbollah può arrivare un supporto forte al regime di Assad. Ma sa anche che la loro visione della Siria è completamente diversa dalla sua.
Inoltre, la Russia potrebbe aspirare in questo momento a diventare un mediatore di fiducia nel conflitto israeliano-palestinese. Soprattutto, dopo la "capitolazione" degli Stati Uniti dopo il riconoscimento di Gerusalemme est.
Mosca quindi è più coinvolta in Medio Oriente di prima.
Una via d'uscita potrebbe averla. E gliela offre lo scontro di questi giorni tra Israele e Iran. Mosca guarda con attenzione all'alta tensione Tel Aviv Teheran. L'eventuale escalation in Siria tra Damasco e Teheran da un lato e Israele dall'altro offrirebbe a Putin l'occasione per giustificare la sua ritirata.
Mosca potrebbe sostenere che l'Iran non ha rispettato gli accordi di Astana, voluti dalla trilaterale Russia-Iran-Turchia. E che le provocazioni ripetute verso Israele fanno saltare i principi e il percorso stabiliti nel tavolo negoziale della capitale Kazhaka.
Uno scenario finora mai immaginato, ma comunque realistico. La Russia si trova in una fase di stallo nella sua avventura siriana. E' riuscita a salvare l'alleato Assad sull'orlo del precipizio e ha schiacciato l'acceleratore per il rilancio del negoziato tra governo di Damasco e opposizione dopo il fallimento del tavolo di Ginevra (sul quale Mosca ha avuto una certa responsabilità).
Ma abbandonare la Siria in questo momento significherebbe lasciarla nelle mani dell'Iran. Putin insomma sta imparando la lezione che molte potenze del passato hanno imparato a loro spese: è molto più facile entrare in un conflitto in Medio Oriente che uscirne. Putin avrà conquistato il suo ruolo di attore geopolitico in Siria. Ma la partita non è ancora finita, è difficile, e i costi rischiano di essere alti.

(Affaritaliani.it, 23 febbraio 2018)


Viaggio della Memoria ad Auschwitz, gli studenti alla fabbrica di Schindler

Prosegue il Viaggio della Memoria 2018 organizzato da Istoreco, l'Istituto storico di Reggio Emilia

CRACOVIA - Gli studenti che partecipano al Viaggio della Memoria organizzato da Istoreco oggi hanno visitato a Cracovia i luoghi in cui polacchi e tedeschi salvarono centinaia di ebrei dalla Shoa, su tutti il farmacista Tadeusz Pankiewitz e Oscar Schindler, reso celebre dal film di Spielberg Schindler's List.

(Reggionline, 22 febbraio 2018)


Dopo Israele anche Cipro si prepara a vendere gas attraverso l'Egitto

di Sissi Bellomo

Dopo Israele anche Cipro si prepara a esportare gas attraverso l'Egitto, una mossa che rafforza ulteriormente l'aspirazione del Cairo a diventare hub energetico nel Mediterraneo orientale, a scapito della Turchia. È stato il ministro dell'Energia cipriota Georgios Lakkotrypis a rivelare, attraverso un'intervista alla Bloomberg, che Nicosia «potrebbe raggiungere un accordo nelle prossime settimane» per vendere la produzione di Aphrodite «a impianti egiziani di gas naturale liquefatto». Il giacimento in questione, scoperto nel 2011, non è stato ancora sviluppato perché le sue riserve (128 miliardi di metri cubi) sono troppo limitate per giustificare la realizzazione di infrastrutture di trasporto. Lo scenario è cambiato grazie al successo delle esplorazioni di Eni e Total, che questo mese hanno individuato risorse «promettenti» nel pozzo Calypso1.
   La tensione nell'area è alle stelle: la nave da perforazione italiana Saipem 12.000 è bloccata dal febbraio al largo di Cipro, dove la Turchia - che contesta i confini delle acque territoriali sta effettuando esercitazioni navali militari che ha appena prorogato fino al 10 marzo. Ma se Cipro riuscirà a sviluppare i suoi giacimenti, come ha ribadito di voler fare, costruire un gasdotto verso l'Egitto potrebbe essere la soluzione più efficiente per commercializzare il gas.
   Nicosia ha anche siglato l'intesa a sostegno di EastMed, pipeline che collegherebbe Israele all'Italia, passando per Cipro e Grecia. Ma per Aphrodite ci sono una serie di fortunate «coincidenze».A controllare il giacimento sono le stesse società coinvolte nello sfruttamento di Tamar e Leviathan al largo di Israele e che hanno appena sottoscritto un contratto decennale per cedere gas all'egiziana Dolphinus Energy, ossia la texana Noble Energy (35%) e l'israeliana Delek (30%). L'altro socio di Aphrodite, al 35%, è Royal Dutch Shell, che guarda caso controlla uno dei due impianti di liquefazione del gas sulla costa egiziana, quello di Idku. L'altro, Damietta Lng, fa capo all'Eni attraverso Union Fenosa. Anche questo tornerà utile per l'export, grazie all'avvio di Zohr e allo sviluppo di altri depositi di gas in Egitto.

(Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2018)


La donna ebrea nel Basso Medio Evo

di Fiorella Kostoris, economista

 
Le banchiere nel Basso Medio Evo esistevano. Erano ebree, anzi quasi tutte askenazite. Le prime a comparire in numero non esiguo sono quelle della Renania nel XII e XIII secolo, grazie alla lungimiranza di rabbini tedeschi come Rabbenu Gershom nell'XI secolo e uomini di fede quali i pietisti, Hassidei Ashkenaz, che, da un lato, all'epoca assegnarono alle loro donne diritti patrimoniali senza eguali nel mondo ebraico e cristiano del tempo, e forse anche in quello occidentale di oggi (attraverso lasciti testamentari non unicamente in linea maschile, doti femminili cedute ai consorti non in proprietà, bensì esclusivamente in usufrutto, divorzi solo consensuali e non gratuiti), e, dall'altro lato, impedirono loro di dedicarsi "anima e corpo" agli amati studi talmudici, spesso ottenendo dalle loro mogli di supportare finanziariamente le famiglie e, per eterogenesi dei fini, di emanciparsi, con sensibili miglioramenti nel loro empowerment. Le terribili persecuzioni iniziate in Germania nel 1096 con le Crociate, i successivi massacri incitati dall'odio antigiudaico per presunti omicidi rituali e dissacrazioni dell'ostia, la fuga dovuta sia alle tante accuse mosse agli ebrei tedeschi e austriaci di essere gli "untori" che avevano causato la peste nera del 1348-1350, sia alle continue tribolazioni di natura economica da essi subite a partire dalla seconda metà del '300, comportarono negli ultimi due secoli del Basso Medioevo (di nuovo per eterogenesi dei fini) un benefico flusso di askenaziti nel nord Italia, inizialmente giunto nel Friuli-Venezia Giulia, poi espanso, per ondate susseguenti, verso il Piave e il Po, fino ad arrivare più tardi, nell'area del centro, alle rive dell'Arno. Le feneratrici dell'Italia tardomedievale sono tanto più numerose e potenti quanto più elevata e duratura è la percentuale di askenaziti di origine transalpina, nelle Comunità di appartenenza. Non a caso, in un luogo come Trieste, risultano già risiedere dalla fine del '200 e operare dalla metà del '300 varie correligionarie di lingua tedesca, proprietarie e gestrici continuative di banchi usurai.
  Le donne ebree del Basso Medio Evo, esercitanti nell'Italia centrosettentrionale un'attività feneratizia ufficiale, attraverso il sistema delle condotte, non solo diminuiscono in quantità e qualità di coinvolgimento via via che si scende verso il sud della Toscana e dello Stato della Chiesa, a Roma azzerandosi del tutto, ma vedono pure deteriorarsi l'empowerment derivante dal loro eventuale impegno creditizio, perché diventano sempre più frequenti quelle che sono solo compartecipi in un investimento finanziario altrui, senza gestire in autonomia alcun banco di loro proprietà, o addirittura sono costrette a operare underground, concedendo prestiti esclusivamente "sotto banco" (e mai un siffatto uso lessicale figurato fu più appropriato): la Tabella 3, allegata, riassume i principali risultati cui sono finora pervenuta, basandomi su fonti secondarie, salvo nel caso di Siena, dove ho potuto consultare anche l'Archivio di Stato.
  Il fenomeno di relativamente alto empowerment femminile, goduto dalle banchiere nell'Italia centrosettentrionale del Basso Medio Evo, si chiude alla fine del '400 per molte ragioni, non ultime l'apertura dei Monti Pii (a partire dal primo, quello di Perugia, del 1462) e la ghettizzazione cinquecentesca (iniziata nel 1516 a Venezia), che rappresenta per le donne ebree del nostro Paese una forma di doppia emarginazione. Il Monte dei Paschi di Siena, nato appunto nel 1472, e perciò, oggi, orgogliosamente vantante la posizione della più antica banca del mondo, ha dovuto attendere 543 anni e una legge (utile ma sperabilmente solo temporanea) sulle cosiddette "quote rosa" nelle società quotate e partecipate, per poter esprimere (unica in Italia) una percentuale femminile nel Consiglio di Amministrazione addirittura eccedente, fino a poco tempo fa, il 50%. Da dicembre, nel cda, di cui sono lieta di fare ancora parte, la frazione delle donne è scesa a 1/3, cioè al minimo sindacale, secondo la legge vigente, ma in compenso include, per la prima volta nella storia delle grandi banche del nostro Paese, il vertice presidenziale. Nella prospettiva quali-quantitativa qui adottata, voglio sperare che questo sia un segno di progresso per il futuro dell'Italia.

(Pagine Ebraiche, febbraio 2018)


Le fragole di Gaza: un futuro (rosso) dorato

Molti non sanno che questa particolare varietà, coltivata con un metodo originale, viene esportata negli altri Paesi del Medio Oriente, arrivando fino in Europa.

(Quotidiano.net, 22 febbraio 2018)


Il no alla circoncisione in Islanda. Più rispetto per le minoranze

Il testo della legge prevede fino a sei anni di carcere per chi fosse colpevole di «rimuovere una parte o del tutto gli organi sessuali di un bambino. E' immaginabile cancellare uno dei cardini della vita religiosa di ebrei e musulmani?

di Paolo Salom

In Islanda il Parlamento si prepara a bandire la circoncisione maschile infantile, per intenderci quella praticata da ebrei e musulmani non per motivi medici ma in virtù di un comandamento religioso. Il testo della legge — che ha l'approvazione dei partiti di governo e anche dell'opposizione e dunque una buona probabilità di essere approvata — prevede fino a sei anni di carcere per chi fosse colpevole di «rimuovere una parte o del tutto gli organi sessuali di un bambino». Questo provvedimento si accosterebbe al divieto di praticare la cosiddetta «circoncisione femminile», approvata già nel 2005. «Stiamo parlando di diritti dei bambini, non di libertà di credo», ha detto la parlamentare Silja Dögg Gunnarsdottir, che ha presentato la legge all'inizio di febbraio, aggiungendo che «chiunque ha il diritto di credere in ciò che vuole, ma i diritti dei bambini vengono prima del diritto di credere».
   Ora, al di là degli aspetti fisici (le due pratiche, maschile e femminile, sono ovviamente impossibili da paragonare), è interessante notare gli aspetti sociali di una prescrizione che andrebbe a colpire una libertà — quella religiosa — data per scontata nelle democrazie. Può uno Stato decidere fino a dove una fede può arrivare — in questo caso fisicamente — nel formare un individuo? In Islanda vivono 250 ebrei e 1.500 musulmani. Ma le reazioni sono state accese e hanno coinvolto rabbini e imam dell'Europa continentale. Il timore è che venga incastonato un principio cui altri potrebbero ispirarsi (la Danimarca ha già manifestato interesse). È dunque immaginabile una legge che obliteri uno dei cardini della vita religiosa di due storiche minoranze? Forse i deputati islandesi dovrebbero stare attenti a non trasformare il laicismo in un canone altrettanto prescrittivo.

(Corriere della Sera, 22 febbraio 2018)


Torino, capitale del boicottaggio d'Israele

Un appello al rettore Ajani perché fermi la marea d'odio nelle sue aule

 
Torino da città antifascista a città antisionista? Quello che sta succedendo nella sua università è a dir poco grave. E meritava una lettera aperta al rettore Ajani, che ora circola in quella università e firmata da numerose personalità.
Il 18 gennaio del 2017 nel Campus Einaudi dell'Università ha avuto luogo il seminario autogestito "Ricordare Auschwitz per ricordare la Palestina" corredato da dispense universitarie dal titolo infamante: "Collusioni tra sionismo e nazifascismo prima e durante la Shoah".
In un secondo seminario, promosso dal Dipartimento di Culture, Politica e Società e alla presenza delle relatrici Eliana Ochse e Simona Taliani, Salim Vally, dell'Università di Johannesburg, si è potuto dipingere Israele come un paese dove si praticherebbe l'apartheid.
Il 24 gennaio, sempre al Campus Einaudi e a ridosso della Giornata della memoria, con un altro seminario autogestito tenutosi nell'Aula A3, si è parlato dello "sfruttamento della Shoah da parte di Israele".
Quando, un anno fa, 350 docenti, ricercatori e assegnisti delle università italiane lanciarono un appello per il boicottaggio di Israele, in particolare dell'Università Technion di Haifa, ben 61 di loro provenivano dall'Università di Torino. L'Università di Torino è stata la prima (e finora unica) in Italia a votare ufficialmente una mozione di boicottaggio di Israele, sostenuta a maggioranza (sedici favorevoli e cinque contrari) dal Consiglio degli studenti.
L'ateneo torinese ha anche fatto notizia per un altro caso incredibile. "Rinuncio a fare ricerca per boicottare l'università di Tel Aviv e Israele". Questa la decisione di una giovane ricercatrice, Ilaria Bertazzi, che dopo il dottorato ha rifiutato la proposta di continuare a studiare le energie rinnovabili perché il progetto prevedeva la collaborazione con atenei israeliani. Ci sono docenti torinesi, come Daniela Santus, che hanno subito non poche contestazioni per le loro idee anticonformiste su Israele. Il rettore Ajani può e deve fare di più per evitare che la sua gloriosa università, che vanta progetti di collaborazione con Israele, non si trasformi nella capitale del suo boicottaggio accademico. Sarebbe un disonore per la città di Primo Levi.

(Il Foglio, 22 febbraio 2018)


I curdi sono schiacciati dal gioco cinico tra i governi vincenti

Piuttosto che cedere davanti ai turchi, aprono le porte alle milizie filo Iran. Assad li aiuta a nord e li attacca a est.

di Daniele Raineri

ROMA - Il conflitto siriano è entrato in una nuova fase, molto disorientante. I curdi del cantone di Afrin si sono resi conto di non potere resistere alla pressione militare dei soldati turchi e dei gruppi di ribelli siriani loro alleati (più che di un'alleanza, sarebbe a questo punto meglio parlare di un rapporto di vassallaggio), L'operazione militare "Ramo d'ulivo" della Turchia è molto lenta, ma rosicchia territorio a ritmo costante e gode di copertura aerea, quindi per i curdi non era rimasta che una soluzione: aprire le porte alle forze del presidente Bashar el Assad. I curdi non volevano tornare sotto il controllo pieno di Assad, perché nella Siria pre rivoluzione del 2011 subivano discriminazioni dal governo: la loro lingua non era riconosciuta e Damasco negava a una gran parte di loro i documenti d'identità, per limitarne i movimenti. Se però l'alternativa è la vittoria dei turchi, i nostri nemici storici, devono aver pensato nel comando generale curdo di Afrin, allora scegliamo l'opzione Assad. Del resto il Pkk, il partito fuorilegge del Kurdistan, ha vecchi legami con Damasco, che negli anni d'oro riusciva a ospitare tutte le fazioni terroristiche della regione, dagli sciiti di Hezbollah ai palestinesi di Hamas ai sunniti internazionalisti di al Qaida fino appunto ai guerriglieri comunisti curdi.
   Che accorrere in soccorso di Afrin si tratti di un calcolo cinico da parte del regime è chiaro come il sole: in un'altra zona della Siria, vicino Deir Ezzor, gli assadisti stanno infatti attaccando i curdi per farli sloggiare dalle zone ricche di campi petroliferi che i curdi stessi hanno strappato in tre anni di guerra allo Stato islamico. Proprio due giorni fa il ministero della Difesa russa ha ammesso dopo due settimane di silenzio imbarazzato che decine di contractor russi sono ricoverati negli ospedali in Russia dopo il fallito assalto a un comando curdo protetto dall'aviazione americana. I contractor russi erano la spina dorsale di una forza di cinquecento miliziani schierati con Assad. Quindi gli assadisti appoggiano i curdi di Afrin in chiave anti turca e assaltano i curdi nell'est in chiave antiamericana. Così funziona il conflitto in Siria. E c'è di più. Quando i curdi nei cantoni dell'est vogliono andare a combattere nell'ovest, ad Afrin, allora cessano di essere nemici e ricevono trasporti e piena libertà di movimento da parte del regime, che controlla le aree fra le due diverse zone.
   Le forze assadiste che sono entrate ad Afrin per ora non sono parte dell'esercito regolare, e questo in qualche modo renderà più facile trattare con il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ha già minacciato il governo siriano: "Se vi mettete di mezzo, colpiremo anche voi". E' invece una milizia irregolare locale, la Liwa al Baqir, molto vicina al gruppo libanese Hezbollah e alle guardie della Rivoluzione iraniana - il corpo che si occupa delle missioni militari all'estero e non ufficiali dell'Iran. Gli iraniani sono contro i curdi nel vicino Iraq e ne hanno spento con brutalità i sogni d'autonomia dopo il referendum di settembre, ma come abbiamo visto è tutto fluido: in Siria invece appoggiano i combattenti curdi di Afrin, ma non i combattenti curdi a Deir Ezzor. A dare manforte secondo l'analista Aymenn al Tamimi potrebbero arrivare anche gli uomini della Muqawama Suriya, una fazione di comunisti turchi che nel 2013 si è macchiata di un massacro di civili sulla costa siriana.
   Gli americani per ora si sono posizionati con i curdi, ma lontano da Afrin, e attendono di vedere cosa succede. Se la situazione sembra troppo complessa, potrebbe essere descritta cosi. I tre governi che hanno preso in mano la situazione siriana, Russia Turchia e Iran, non hanno ancora trovato un accordo solido e condiviso sulla questione curda e lo spezzettamento confuso del campo di battaglia nel nord e nell'est ne è la conseguenza. Sembrava tutto più facile, quando il nemico designato era soltanto il gruppo di fanatici decapitatori di Abu Bakr al Baghdadi,

(Il Foglio, 22 febbraio 2018)


Firenze - Dialoghi in sinagoga

Letture, dibattiti, piatti della tradizione: al via domenica con Benjamin Stein gli incontri del «Balabrunch» con scrittori che vivono in Germania. Enrico Fink: «Fino a settembre focus sul Novecento e sui nostri anniversari».

di Edoardo Semmola

 
La Sinagoga di Firenze
FIRENZE - «Il 18 è il numero della vita nella simbologia ebraica. E in questo 2018 ricco di anniversari, gli 80 anni dalle leggi razziali, i 70 dello Stato di Israele, i 50 dal Sessantotto, e altri ancora, li vogliamo raccontare tutti attraverso singoli episodi delle vite delle persone. Tra musica, libri, teatro, degustazioni». Ci pensa Enrico Fink, musicista, attore, direttore dell'Orchestra Multietnica di Arezzo, storico animatore della comunità ebraica fiorentina, a presentare lo spirito con cui la Sinagoga fiorentina intende ritagliarsi un ruolo da protagonista nei prossimi mesi. A partire da domenica con il primo incontro del Balabrunch d'autore, e poi fino alla fine dell'estate. Per raccontare i grandi momenti del Novecento sotto la lente della cultura ebraica.
   Si comincia con la serie di incontri domenicali mensili del «Balabrunch»: se l'anno scorso sono stati ospitati scrittori israeliani, quest'anno tocca agli ebrei tedeschi, scelti insieme al Deutsches Instìtut di Firenze: Benjamin Stein, Katja Petrowskaya, Wladimir Kaminer, Motti Lerner, «scrittori che in buona parte non abbiamo ancora letto in traduzione, giovani, attenti al contemporaneo» come ha specificato la presidente della comunità ebraica Daniela Misul. Per leggere, discutere, e mangiare insieme i piatti della tradizione ebraica, «legati ai temi e ai luoghi protagonisti degli incontri» e cucinati dagli chef Michele Hagen e Jean Michel Carasso: i primi tre incontri sono dedicati alla memoria della Shoah, all'immigrazione e al rapporto tra diverse culture nei Paesi di origine. Questa domenica si raddoppia: Stein sarà alla Sinagoga fiorentina alle 11.15 e alle 17 in quella pisana di via Palestro 24: si confronterà con il pubblico a partire dal suo ultimo romanzo La tela a cui è stato legato un menu di Stangerl con crema al tofu, insalata di aringhe alla Bismark, gulashsuppe, knodel e schmarren alle amarene. Il 18 marzo Katja Petrowskaja racconterà la sua infanzia sovietica trascorsa ignara di qualsiasi appartenenza religiosa, 1'8 aprile sarà la volta del più conosciuto del gruppo, lo scrittore, giornalista e disk jockey russo-tedesco Wladimir Kaminer, e infine il 13 maggio tocca a Motti Lerner.
   «Sono autori che raccontano la Shoah, rompendo gli stereotipi e che si confrontano tra l'io del presente e il noi della storia - spiega l'assessore alla cultura della comunità Laura Forti - ma anche la complessità dell'identità culturale ebraica in Germania prima e dopo il Muro di Berlino, la nascita della società multiculturale, le leggi razziali, la Costituzione, il '68, la nascita di Israele, mettendo in discussione molti preconcetti e stereotipi».

(Corriere fiorentino, 22 febbraio 2018)


Tempo di guerra. La preoccupazione: «Ma chidda è ebrea!»

di Antonino Giganti

Anno 1940. Nonostante i bombardamenti eravamo ancora a Palermo dove papà e nonno Antonino avevano una pasticceria. Era l'epoca in cui le signore si scambiavano pomeridiane visite di cortesia nel corso delle quali venivano offerti, con i servizi buoni, assieme ai biscottini dolcificati col miele o la melassa di carrube, il karcadè (una bevanda succedanea dell'introvabile te) o un più genuino rosolio fatto in casa, al pistacchio o al mandarino del quale era buona norma non chiedere la ricetta: ogni famiglia aveva il suo segreto.
   Quel pomeriggio mia madre stava per andare a rendere visita a una sua conoscente; sull'uscio di casa incontra la nostra dirimpettaia, una ragazza bionda simpatica e prosperosa che veniva da noi spesso per esercitarsi nel canto (brani di opere) con l'accompagnamento pianistico di mamma. Rapido scambio di convenevoli e poi la domanda quasi ovvia: «Unni va? Dove se ne va di bello?». Mamma «Vado a restituire una visita alla signora Citone». Al che l'altra, abbassando la voce e con tono quasi cospiratorio: «Ma non lo sa ca chidda è ebrea?». Mamma: «E allora? E una persona per bene, è amica mia, anzi...». E qui scattò per me e mia sorella un primo allarme, perché il viso di mamma era arrossito e noi quel rossore lo conoscevamo bene, era uno dei due segnali (rari ma inequivocabili) di irritazione contenuta ma profonda; l'altro segnale preoccupante era l'abbandono della lingua italiana per scivolare nel dialetto romanesco (mamma infatti era nata e cresciuta a Roma). Il duplice allarme scattò inducendo me e mia sorella a nascondere le teste nei libri di scuola «prima de tutto è amica mia, poi è 'na perzona per bene e ppoi pò ppregà chi je pare!».
   La cosa non ebbe conseguenze diplomatiche né sociali, nel senso che la simpatica bionda continuò a venire in casa nostra a cantare e a turbare confusamente i miei sogni di novenne e mia madre, che Dio l'abbia in gloria, continuò a frequentare «chi je pareva». Noi bambini rialzammo la testa rasserenati ma consapevoli di aver appreso una importante lezione di vita. E non dai libri.

(il Giornale, 22 febbraio 2018)


Da Israele una startup che crea tubi intelligenti per il monitoraggio dei pazienti

La startup israelo-americana di dispositivi medici ART Medical ha recentemente comunicato di aver trovato un modo per evitare complicazioni potenzialmente letali nelle unità di terapia intensiva con tubi intelligenti basati su sensori che consentono a medici e infermieri di raccogliere dati completi sui pazienti.
Quando i pazienti vengono ricoverati nell'unità di terapia intensiva, purtroppo potrebbero avere bisogno di numerosi tubi: tubi per la respirazione, tubi per l'alimentazione o cateteri delle urine. Tuttavia, non c'è nulla che indichi in modo efficace e tempestivo se il paziente stia avendo delle complicazioni associate all'intubazione.
Infermieri e medici sono tenuti a monitorare costantemente i pazienti per identificare infezioni e complicazioni, un'attività sensibile al fattore tempo che viene generalmente eseguita manualmente. I ritardi possono portare a complicazioni o addirittura alla morte.
ART Medical, con sede a Palo Alto e a Netanya, in Israele, ha sviluppato una piattaforma intelligente basata su sensori per monitorare il reflusso gastrico, la saliva e l'urina in modo continuo e automatico, per rilevare e allertare infermieri e medici di eventuali anomalie durante le procedure, consentendo quindi di intraprendere le azioni necessarie. I sensori raccolgono i dati e li trasmettono, in tempo reale, in modo che i medici possano intervenire immediatamente se necessario.
L'azienda offre una gamma di prodotti che ottimizzano l'alimentazione enterale, quando un tubo di alimentazione viene inserito nello stomaco, consentendo un monitoraggio corretto della quantità di cibo somministrato. Altri possono rilevare e prevenire la polmonite da aspirazione e la polmonite associata alla ventilazione e le lesioni renali acute, comunemente associate a pazienti intubati.
La tecnologia ha ricevuto l'approvazione della FDA ed è ora nelle fasi finali delle sperimentazioni cliniche. Le vendite del prodotto dovrebbero iniziare alla fine del prossimo anno.

(SiliconWadi, 22 febbraio 2018)


Gaza: proteste della popolazione. «Non date più soldi ad Hamas e alla ANP»

La popolazione di Gaza accerchia l'inviato del Qatar e chiede di smettere di mandare denaro ad Hamas e a ANP.

Abitanti di Gaza furiosi con i donatori, accerchiano la macchina dell'inviato del Qatar per chiedere a gran voce che i donatori la smettano di dare denaro ad Hamas o alla ANP perché di quel denaro non arriva praticamente nulla alla popolazione.
E' successo ieri a Gaza quando l'inviato del Qatar, Mohammed al-Emadi, ha improvvisato un conferenza stampa nella quale ha annunciato un intervento d'emergenza per circa 9 milioni di dollari volto ad acquistare carburante e medicinali per gli ospedali di Gaza....

(Analitiko, 21 febbraio 2018)


L'Europa che odia, o ignora Israele rinnega la sua stessa storia

Una certa intellighentia presente in politica, nella cultura e nell'informazione, è mossa da pregiudizi di fondo circa Israele che rasentano l'antisemitismo vero e proprio.

di Roberto Penna

Anni fa l'indimenticabile Marco Pannella sosteneva l'ingresso di Israele nell'Unione Europea. Era un'idea bella ed affascinante, più sul piano teorico che su quello pratico e infatti essa è rimasta soltanto teoria. Tutto questo a causa soprattutto dell'UE di allora e di quella attuale che ha subìto ulteriori involuzioni. Un'Unione Europea dedita al piccolo cabotaggio ed incapace politicamente e culturalmente di accogliere un'idea alta come quella pannelliana in merito a Israele. Se otto o nove anni fa le contraddizioni di questa UE erano magari meno evidenti, oggi è abbastanza diffusa la consapevolezza circa gli obiettivi primari delle istituzioni comunitarie e pure delle classi dirigenti di importanti Paesi del Vecchio Continente come Francia e Germania. Non vi è molto spazio per la politica nel senso più nobile di questo termine, per la cultura, per una visione lungimirante del futuro e per quegli Stati Uniti d'Europa sognati da Altiero Spinelli e dallo stesso Pannella. Esiste un nucleo di Paesi più forti che cerca di trarre vantaggio il più possibile dalle debolezze di altri membri UE, fra i quali l'Italia, afflitti da malgoverno e da una cronica fragilità politico-economica.
  Un'Unione più del tirare a campare che spinta da grandi principi non può avere la determinazione sufficiente per affrontare una sfida storica come potrebbe essere l'ingresso dello Stato ebraico nella
L'Europa vuole fare affari a tutti i costi con i principali nemici di Israele, primo fra questi l'Iran degli ayatollah. Questi ultimi hanno un sogno: la cancellazione definitiva dello Stato ebraico.
comunità europea. Ma c'è anche dell'altro. Questa Europa di forti sulla tenuta economico-finanziaria di un ristretto club di Paesi, ma debosciati per quanto riguarda la difesa dei valori occidentali di libertà, vuole fare affari a tutti i costi con i principali nemici di Israele, primo fra questi l'Iran degli ayatollah. Questi ultimi hanno un sogno: la cancellazione definitiva dello Stato ebraico. I vertici europei cercano quindi di non essere mai troppo offensivi ed aggressivi verso Teheran e i suoi sodali palestinesi. Non a caso, gli attacchi di Hamas e le frequenti uccisioni di militari e civili israeliani non suscitano grande sdegno pubblico da parte di Bruxelles, ma in compenso le reazioni di Israele sono sempre, chissà perché, sproporzionate. Le colonie israeliane sono un crimine contro l'umanità, ma le impiccagioni e le repressioni varie in Iran possono anche essere ignorate. Che l'UE non abbia seguito Trump nel sostenere Gerusalemme come unica Capitale dello Stato ebraico, non ha destato nemmeno troppa sorpresa perché in coerenza con l'equidistanza vigliacca di chi governa l'Europa in questo tempo.
  Sul fronte del business internazionale occorre fare un po' di chiarezza. E' possibile fare affari anche con regimi illiberali del mondo musulmano e del resto del pianeta, tuttavia non bisogna mai perdere la dignità. Rimanendo in Medio Oriente le democrazie devono, dovrebbero dire: parlo in nome della realpolitik anche con chi comprime la libertà e non disdegno occasioni di eventuali scambi commerciali, ma sappiate che il mio sistema di valori e le mie radici sono rappresentati dallo Stato liberale e laico d'Israele, non certo dalla teocrazia sciita iraniana e nemmeno, sia chiaro, dalle monarchie sunnite del Golfo. Questa distinzione è netta per gli Stati Uniti e assai più sfumata, purtroppo, per l'Unione Europea.
  Infine una certa intellighentia presente in politica, nella cultura e nell'informazione, è mossa da pregiudizi di fondo circa Israele che rasentano l'antisemitismo vero e proprio. Questa componente dell'Europa è
Gli estremisti antisemiti sono riconoscibili da lontano, mentre l'intellighentia radical-chic si guarda bene dal riconoscere che in fondo odia gli ebrei, anzi, è in prima linea ad ogni celebrazione della Shoah, salvo poi mettere Israele sullo stesso piano dei suoi nemici terroristi.
persino più insidiosa ed odiosa degli estremismi, rossi e neri, che si dichiarano palesemente anti-sionisti essendo però antisemiti. Almeno gli estremisti sono riconoscibili da lontano, mentre l'intellighentia radical-chic si guarda bene dal riconoscere che in fondo odia questi ebrei che sono riusciti a resistere a storiche e tragiche persecuzioni. Anzi, è in prima linea ad ogni celebrazione della Shoah, salvo poi mettere Israele sullo stesso piano dei suoi nemici terroristi. E' l'ipocrisia di chi ama tanto gli ebrei soprattutto se sono morti. Gli ebrei vivi invece hanno reazioni sproporzionate oppure hanno istanze che è opportuno ignorare per non farci troppi nemici.
  Gli europei, più che ignorare Israele o le arrabbiature di Netanyahu, ignorano anzitutto la loro stessa storia. Lo Stato ebraico ha le proprie radici più in Europa che negli altri continenti. L'odierno Israele è stato formato da famiglie immigrate provenienti soprattutto dal Vecchio Continente. Se l'antisemitismo è un dramma che affligge l'Europa da prima ancora dell'avvento del nazismo in Germania, il Giudaismo ha caratterizzato fortemente l'identità del continente tanto quanto il Cristianesimo e non è un caso infatti che si parli di radici giudaico-cristiane dell'Europa. Proprio tutto il male che è stato fatto agli ebrei prima e durante il nazismo, dovrebbe eliminare ogni esitazione nelle menti dei vertici europei di oggi, democratici e forse "liberali", sul fronte della doverosa solidarietà verso lo Stato d'Israele.
  Theodor Herzl, il padre del sionismo e David Ben Gurion nacquero in Europa e non a Washington o Toronto, ma oggi gli israeliani e gli ebrei in generale si sentono certamente più a loro agio in Nord America che nella parte di mondo ove hanno le radici maggiori. E' triste doverlo ammettere, soprattutto per chi vive in Europa, ma questa UE, dalla quale è fuggito il Regno Unito, non merita Israele e probabilmente agli stessi israeliani conviene rimanerne lontani.

(Atlantico, 20 febbraio 2018)


Grosseto Export riceve gli importatori israeliani interessati all'agroalimentare di qualità

Al via il primo incontro B2B del 2018 nella sede del Consorzio.

A Grosseto arrivano gli importatori israeliani. Sono stati ricevuti ieri dal Consorzio Grosseto Export la Guild Enterprises e la Roberto food, due importanti società d'importazione, provenienti da Israele, che distribuiscono prodotti italiani a tutte le catene della grande distribuzione israeliana.
E' questo il primo appuntamento del 2018 con gli incontri B2B, organizzati dal Consorzio, per mettere in contatto le aziende italiane che producono agroalimentare di qualità, con gli importatori esteri della grande distribuzione, interessati a selezionare i prodotti e a visitare il territorio da cui questi prodotti provengono.
   Gli Israeliani sono stati ricevuti a Grosseto nella sede del Consorzio Grosseto Export per gli incontri B2B con le aziende il Boschetto Maremma Toscana; Mircio e Serrata Lunga; il pastificio Chelucci; Granai di Toscana; Gastronomia Toscana; Il Borgo Genovese; il Vecchio Forno Italiano.
La Piccola Gerusalemme di Pitigliano
Oggi, Mercoledì 21 febbraio, gli importatori israeliani saranno accompagnati a Pitigliano dove prenderà il via la visita del paese, con la guida di Elisabetta Peri, che li accompagnerà in un suggestivo viaggio alla scoperta dei luoghi simbolo della Piccola Gerusalemme, compresa la sinagoga. Seguirà la degustazione di prodotti tipici, organizzata dalla Cantina di Pitigliano. A ricevere gli ospiti israeliani nella cantina storica saranno il sindaco di Pitigliano Giovanni Gentili, il presidente di Grosseto Export Daniele Lombardelli e il direttore responsabile Gabriele Zappelli; il presidente della Cantina di Pitigliano Renato Finocchi e il direttore Pietro Ferri.
La Guild Enterprises Limited è una grossa società di importazione di prodotti agroalimentari con base a Tel Aviv e una distribuzione su tutta Israele, con contatti commerciali sui principali mercati occidentali. L'azienda, specializzata nell'importazione e distribuzione di prodotti alimentari per il canale Retail, oltre alla sede principale di Israele è attiva negli Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Irlanda, Svizzera, Austria, Francia, Belgio, Sud Africa, Australia e Nuova Zelanda. Distribuiscono a più di 9mila clienti in Israele, incluso le principali catene di supermarket, mini markets e grocery stores. Inoltre, distribuiscono anche nel canale istituzionale e Horeca. L'azienda crea private label per catene di supermercati come Shufersal e Mega Retail, Tiv Ta'am, Rami Levi e Yaynot Bitan in Israele, ed anche per catene negli USA e in Regno Unito.
   La Roberto food Ltd, si occupa da oltre 20 anni in Israele di importazione/distribuzione e rifornisce i più importanti supermercati e grossisti promuovendo molteplici brands europei e italiani. L'azienda, in costante crescita ed espansione, è sempre alla ricerca di nuovi prodotti da promuovere sul mercato israeliano.

(Maremma News, 21 febbraio 2018)


Siria, venti di guerra tra Ankara e Damasco: Erdogan-Assad, è la resa dei conti?

Le truppe filogovernative siriane arrivano ad Afrin, l'artiglieria turca apre il fuoco: il mosaico creato da Putin rischia di rompersi

Michele Caltagirone

Sale la tensione tra Damasco ed Ankara. L'intervento delle milizie filogovernative ad Afrin, in difesa dei curdi, rischiano di creare un nuovo ed imprevisto fronte di guerra in #Siria. Il pericolo, piuttosto concreto, è quello di gettare ombre sul tavolo 'politico' aperto con i colloqui di Astana e di Sochi che dovrebbero avere un seguito in sede ONU. La Turchia è uno dei tre garanti delle trattative tra il governo siriano retto da Bashar al-Assad e l'opposizione moderata, insieme a Russia ed Iran. I nuovi sviluppi potrebbero rompere questo fronte che, da oltre un anno, ha contribuito a creare un clima di distensione relativa tra Damasco ed i ribelli (sarebbe opportuno definirla una tregua armata).

 Milizie pro-Assad ad Afrin, i turchi aprono il fuoco
  Come previsto, le milizie vicine al governo siriano sono arrivate alle porte di Afrin, ma sono state costrette a ripiegare a causa dei colpi di avvertimento sparati dall'artiglieria turca. Ora si trovano a circa 10 km di distanza dal villaggio di Nabul, alla periferia di Afrin. L'accaduto è stato confermato tanto dall'agenzia Sana, principale organo di informazione del governo di Damasco, quanto dal media turco Anadolu.

 Il 'Sultano' in difficoltà
 
  Recep Erdogan è in seria difficoltà, forse per la prima volta nella lunga e tormentata storia della questione siriana. Finora è stato abile a saltare di palo in frasca, dall'alleanza di comodo con gli Stati Uniti, determinata dal fatto che la Turchia resta comunque un potente partner NATO, a quella ancora più conveniente con la Russia di Vladimir Putin.
Pur di recitare un ruolo da protagonista in quello che sarà il futuro politico della Siria ed accrescere in tal modo la sua influenza in Medio Oriente, Erdogan ha bevuto da un calice molto amaro che prevede la possibilità che l'odiato Assad rimanga alla guida del suo Paese, oltre alla certezza di doversi sedere allo stesso tavolo con l'Iran. Un sapore acre sopportabile, però, se paragonato a quello molto più dolce di poter scongiurare la creazione di uno Stato curdo indipendente nel Nord della Siria. Ora però l'accordo tra i miliziani curdi dell'Ypg ed il governo di Assad lo ha decisamente spiazzato. Quest'ultimo si dimostra un abile stratega: stringendo un patto con i curdi compie un passo importante verso la riunificazione del Paese ad oggi diviso dai numerosi fronti di guerra. Se Assad si è mosso in questa direzione, c'è il sostegno di Russia ed Iran. Mosca vede di buon occhio il consolidamento dell'influenza governativa siriana, ulteriore garanzia per i propri progetti politici e strategici come quello di rafforzare lo sbocco sul Mediterraneo.
Teheran ha intenzione di creare una serie di postazioni militari in Siria tenendo aperto il canale con l'alleato libanese, le milizie Hezbollah, ulteriore segnale di crescita della mezzaluna sciita. Ankara, al contrario, non guadagna nulla: non potrebbe distruggere indisturbata le milizie Ypg che considera 'terroriste' e si ritroverebbe a rinunciare al progetto di estendere la propria influenza nel Nord della Siria. Inoltre la risalita politica di Assad allontanerebbe quella che, in fondo, è una speranza che Erdogan continua a nutrire nemmeno tanto segretamente e cioè che il presidente siriano si faccia da parte.

 Una nuova guerra in Siria non è improbabile
  A conti fatti, difficile che Erdogan accetti di assicurare ad Assad piena libertà di movimento a pochi km dal confine turco, men che meno accoglierà con favore l'ipotesi della permanenza delle milizie curde nello stesso territorio. Motivo per cui se le milizie pro-Damasco dovessero tentare l'ingresso ad Afrin, lo scontro con l'esercito turco sarebbe inevitabile. Stavolta Ankara ha intenzione di non fare troppi equilibrismi politici. "Se le milizie pro-Asssad entrano ad Afrin per eliminare i terroristi dell'Ypg sono le benvenute - ha detto a chiare lettere il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu - ma viceversa, se tentano di proteggerli saranno attaccate dai nostri militari".

 La 'palla' passa a Vladimir Putin
  Alla luce di questa situazione che rischia di veder precipitare tutto ciò per cui il Cremlino ha lavorato negli ultimi due anni, l'intervento di Vladimir Putin potrebbe essere l'unico modo di dare luogo ad una soluzione praticabile. Una sorta di compromesso che possa andar bene tanto ad Erdogan quanto ad Assad. Al momento non è semplice nemmeno per un leader che in Medio Oriente ha fatto il bello ed il cattivo tempo, diventandone il vero punto di riferimento politico e militare. Quanto ai curdi, sono condannati per l'ennesima volta al ruolo di 'pedina': attaccati dai turchi, poco amati da Assad ed 'usati' dagli Stati Uniti nella guerra contro l'Isis. La mossa di Assad, diventato improvvisamente il loro 'protettore', è audace quanto logica: Damasco fa comprendere all'Ypg di essere l'unico partner credibile perché gli Stati Uniti li hanno sfruttati nella guerra allo Stato Islamico e poi lasciati al loro destino. Una scelta pericolosa, perché potrebbe dare il via ad una nuova guerra che, stavolta, nemmeno Mosca sarebbe in grado di fermare.

(blastingnews, 21 febbraio 2018)


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La sconfitta dell'lsis riaccende la guerra fra i due eterni rivali

Il presidente Erdogan e i sunniti contro il rais come nel 2013. Ma oggi Damasco è più forte e conta sull'appoggio dei russi.

Bashar al-Assad
Rispetto all'inizio del conflitto oggi il rais è più potente. Nel 2013 controllava solo un quinto della Siria, oggi ha in mano i due terzi del territorio
Recep Tayyip Erdogan
Anche lui è più forte: dopo il fallito golpe del 2016 ha accentrato il potere nelle sue mani. Ma in Siria i suoi alleati sono divisi

di Giordano Stabile

La periferia di Damasco martellata dall'aviazione governativa, con centinaia di vittime, mentre i mortai dei ribelli colpiscono i quartieri dei lealisti. La Turchia che interviene nel Nord e si scontra con le milizie sciite alleate di Damasco e i guerriglieri curdi, e intanto i gruppi sostenuti da Ankara contendono agli jihadisti eredi di AI-Qaeda la città di Idlib. La Siria del febbraio 2018 assomiglia molto a quella del 2013. Potenze regionali che si sfidano con i loro eserciti per procura, i civili stretti in mezzo, in ostaggio e massacrati.
   Come nel 2013 i duellanti più accaniti, spinti da un'antipatia personale insuperabile, sono Bashar al-Assad e Recep Tayyip Erdogan. Nell'enclave curda di Afrin sembra essere arrivata la resa dei conti, a lungo rimandata.
   Assad è riuscito a stoppare le ambizioni del leader turco sul Nord della Siria, e in particolare su Aleppo, con l'aiuto prima delle milizie sciite inviate dall'Iran, poi con l'intervento diretto dei russi. Ma la mossa vincente l'aveva decisa, da solo, alla fine del 2012, quando aveva ritirato le sue truppe dai territori curdi e «appaltato» ai guerriglieri dello Ypg la difesa dei confini contro i gruppi jihadisti.
   I curdi hanno difeso Afrin, ma anche Kobane, Hasakah, Qamishlo, e alcuni quartieri della stessa Aleppo. Solo l'irruzione devastante dell'Isis, nel 2014, li aveva messi con le spalle al muro, ma poi erano arrivati i raid e le truppe speciali americane a salvarli. L'alleanza con gli americani non ha però precluso lo Ypg da accordi locali con Damasco. Assad si teneva la carta curda nella manica e ha deciso di giocarla ora, anche contro il consiglio di Vladimir Putin, che ritiene prematuro un confronto aperto con la Turchia. Ma il raiss si sente sicuro dell'appoggio dei Pasdaran e vuole rischiare.
   I rapporti di forza sul terreno sono diversi dal 2013. Il regime allora controllava solo un quinto della Siria e i proiettili dei mortai dei ribelli cadevano nel giardino del palazzo presidenziale. Oggi Assad ha riconquistato i due terzi del territorio. Erdogan lo ha accusato, persino dopo gli accordi di Soci con la Russia e l'Iran, di aver «le mani sporche di sangue» e «mezzo milione di morti sulla coscienza».
   L'odio di Assad per il leader turco ha radici più profonde, nel nazionalismo siriano che è stato anti-turco prima ancora che anti-francese, nella sua visione laica della Siria, con un ruolo guida per le minoranze, opposta all'orgoglio sunnita della Turchia neo-ottomana.
   Sono due mondi inconciliabili che neppure Putin può tenere assieme. Per sopravvivere, però, Assad ha dovuto costruire dietro la facciata laica del regime un'armata di milizie settarie. Ha dovuto manovrare le minoranze etnico-religiose, quella sciita, la cristiana, ora quella curda, contro il nemico comune, l'estremismo sunnita alimentato da Turchia e Arabia Saudita. L'azzardo di Afrin è stato deciso su pressione delle milizie sciite, le stesse che per assurdo si sono scontrate con i curdi nella regione di Deir ez-Zour. L'Iran sembra spingere sull'acceleratore, per superare persino la Russia nell'influenza sulla Mesopotamia.
   Ma anche la Turchia di oggi è un'altra cosa rispetto al 2013. Erdogan è riuscito, dopo il fallito golpe del 2016, a imporre un regime presidenziale, ha accentrato il potere nelle sue mani, annichilito i nemici interni. Il prezzo però è una società esausta per le purghe e i processi che coinvolgono centinaia di migliaia di persone e hanno indebolito il corpo ufficiali delle forze armate, soprattutto l'aviazione.
   I suoi alleati in Siria sono divisi e hanno perso l'aura di «combattenti per la libertà» che avevano nel 2013. Ma ad Afrin Erdogan non può perdere la faccia. Come Assad si gioca il tutto per tutto.

(La Stampa, 21 febbraio 2018)


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Il rischio dell'escalation, solo Putin può mediare

Cresce il timore che la guerra civile siriana si trasformi in un vero e proprio conflitto tra stati

Il conflitto potrebbe incrinare i rapporti tra le grandi potenze Mosca decisiva. Il pericolo del coinvolgimento di Israele e Iran

di Marco Ventura

In Siria la guerra civile rischia di trasformarsi in vera e propria guerra fra Stati. Con le potenze regionali diversamente affiancate da Russia, Stati Uniti ed europei. Raramente si è stati così vicini a un conflitto generale in Medio Oriente, che potrebbe coinvolgere Israele e Iran. Questo lo scenario che emerge, lungamente annunciato, nelle ultime ore di battaglia sulla strada di Afrin, caposaldo curdo-siriano a ridosso della frontiera con la Turchia. Sia le milizie curde Ypg, sia i rinforzi da Damasco sono sotto attacco dei turchi che martellano valichi e strade nel tentativo di spezzare la resistenza curda e circondare Afrin, eliminare le Ypg e bonificare la fascia frontaliera rompendo il cordone con i curdi turchi del Pkk, il partito di Ocalan fuorilegge dal 1984.

 Le posizioni
  L'offensiva turca "Ramo d'ulivo", scattata il 20 gennaio, è considerata da Damasco e dalla Russia un attentato ai confini della Siria. Le parole più pesanti quelle pronunciate dal ministro degli Esteri francese, Jean Yves Le Drian, ieri all'Assemblea di Parigi prima di partire «nei prossimi giorni» per Teheran e Mosca, alleate sul fronte siriano: «Il peggio in Siria è davanti a noi, andiamo verso una catastrofe umanitaria». Monito nel quale riecheggiano le battaglie nelle aree contese. Le forze leali a Damasco e Assad, militarmente appoggiate dai russi a terra e dal cielo, bombardano l'enclave ribelle di Goutha, a est di Damasco, mietendo vittime fra i civili. Ma la situazione più esplosiva, miccia potenziale di un conflitto non più da guerra civile ma fra nazioni, è quella di Afrin e Manbij, nord della Siria. Qui si scontrano plasticamente gli interessi di Usa, Russia e Turchia, mentre sul terreno si combattono turchi, curdi, lealisti e ribelli siriani, jihadisti, sotto gli occhi dei consiglieri militari russi e americani.
L'attacco, ordinato dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan, mira a tutelare quello che Ankara considera un interesse vitale e strategico di difesa nazionale, stroncare la minaccia curda. Ma russi e americani sostengono i curdi, non foss'altro perché decisivi nella vittoriosa guerra al Califfato. A riprova della gravità della situazione, il presidente russo Putin ha fatto sapere tramite il suo portavoce, Dmitrij Peskov, di avere affrontato la crisi di Afrin presiedendo il Consiglio di sicurezza nazionale. Addirittura come primo argomento all'ordine del giorno rispetto all'Ucraina. E fra Putin e Erdogan sono in corso colloqui telefonici per tenere sotto controllo la situazione.

 Il messaggio
  Il leader turco ha voluto comunicare a Putin di non accettare, ha poi detto in pubblico, «altri passi sbagliati» come l'invio ieri da Damasco di colonne militari di rinforzo alle Ypg curde, pena «un prezzo alto». Afrin - dice Erdogan - sarà assediata dall'esercito turco «per non permettere ai curdi di negoziare alcuna alleanza».
A sua volta il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, avverte che lo scontro «dev'essere risolto nel quadro dell'integrità territoriale dello Stato, in questo caso la Repubblica araba di Siria». Si può comprendere, per Mosca, la preoccupazione dei turchi, ma vanno anche riconosciute le «legittime aspettative dei curdi», evitando che qualcuno soffi sul fuoco per «estendere il caos nella regione». Per Lavrov l'unica via resta quella politica: «dialogo diretto con il governo siriano». No alla soluzione militare.

 L'alleato
  Sullo sfondo, l'ansia degli americani e degli europei per i quali la Turchia è prima di tutto un pilastro della Nato (di qui il braccio di ferro perché Ankara si armi con sistemi europei e non russi) e l'attrito sul terreno con gli americani pro-curdi a Manbij non è solo fonte d'imbarazzo ma di inquietudine. Sullo sfondo, ancora, l'azione costante, capillare dell'Iran alleato in questa fase di Mosca e Damasco, e sempre più considerato una minaccia da Israele. Infine, la stonatura della resiliente rete di Al Qaeda il cui portavoce, Ayman al-Zawahiri, fa appello all'unità dei combattenti jihadisti e ai musulmani perché si preparino a una guerra «lunga decenni».

(Il Messaggero, 21 febbraio 2018)


A Trento la mostra 'Ebrei per l'Italia'

Dal 27 febbraio su iniziativa dell'Unione comunità ebraiche

Palazzo Trentini, a Trento, ospiterà dal 27 febbraio la mostra fotografica "Ebrei per l'Italia 1915-1918".
Si tratta di una rassegna voluta dall'Unione delle comunità ebraiche italiane, con il patrocinio della presidenza del Consiglio dei ministri che l'ha inserita tra le manifestazioni in calendario per il centenario della Grande Guerra.
Le fotografie testimoniano e raccontano la partecipazione convinta degli ebrei italiani alla prima guerra mondiale, all'interno di un processo di ricerca di assimilazione per guadagnarsi lo status di cittadini. Un itinerario per ragionare sull'origine del concetto di cittadinanza nell'Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento.
La mostra, a cura di Baruch Lampronti e Stefania Roncolato, è promossa dalla presidenza del Consiglio provinciale di Trento, in collaborazione con la Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano.

(ANSA, 21 febbraio 2018)


Contro la rassegnazione dell'Europa

Parla Bat Ye'Or: "Ci autodissolveremo se daremo via i valori di Atene e Gerusalemme per quelli della Mecca e di al Quds". L'autobiografia della studiosa di origini egiziane

di Giulio Meotti

ROMA - Nell'omaggiarla con due pagine sul quotidiano francese le Monde, Jean Birnbaum la castiga un po', chiamandola "la musa dei nuovi crociati", e descrivendola come "una figura controversa dall'influenza globale". L'occasione è l'Autobiographie politique di Bat Ye'Or, studiosa inglese nata al Cairo nel 1933 da una famiglia ebrea e che ha dedicato tutta la vita allo studio dei "dhimmi", le minoranze nei paesi islamici, e alla denuncia di quella che ha ribattezzato "Eurabia". Fino a qualche anno fa non si sapeva neppure chi fosse questa storica. Enzo Bettiza nel 2002 le dedicò un lungo articolo definendola "studioso egiziano", maschile. Successivamente omaggiata da studiosi come Niall Ferguson e Jacques Ellul e da scrittori come Michel Houellebecq, Bat Ye'Or da anni castiga un'Europa senza identità, dinoccolata, capitolazionista.
Aveva ventitré anni Gisèle Orebi (questo il suo nome prima di adottare lo pseudonimo ebraico di "figlia del Nilo") quando bruciò quaderni e manoscritti.
   Sessant'anni dopo, Bat Ye'or spiega così quel gesto: "Le case e le imprese ebraiche furono saccheggiate, le ragazze violentate, le sinagoghe e le scuole ebraiche bruciate, le bibbie distrutte. Avevo paura che questi testi sarebbero stati usati contro di noi. In tutti questi anni non ho smesso di scrivere, prendere appunti, perché ero consapevole di aver assistito a un fenomeno straordinario: la cancellazione di una comunità presente in Egitto per tremila anni". Bernard Heyberger, uno dei più celebri esperti di cristiani orientali, riconosce al Monde che Bat Ye'or è stata "la prima ad attirare l'attenzione sul fenomeno dei dhimmi". E anche il grande scrittore algerino Boualem Sansal confessa:    "Quello che Bat Ye'or dice corrisponde a ciò che vivo nel mio paese". Al Foglio, Bat Ye'Or spiega le origini del suo libro, che parla del tradimento.
   "L'Eurabia è il volto oscuro e nascosto di una Europa che rimuove la Bibbia per accogliere il Corano, sostituendo i valori giudaico-cristiani con quelli dell'islam, cancellando il Gesù ebreo che prega al Monte del Tempio col Gesù musulmano-palestinese che predica il Corano sulla Spianata delle moschee". Un'Europa, dice ancora, che "ha adottato il metodo di Edward Said di decostruire la civiltà occidentale con il cavallo di Troia della narrazione islamica" e che si è data a "un processo quasi irreversibile di auto dissolvimento volendo, ancora una volta, sradicare Israele dalla sua anima. La rimozione della cultura, della storia, della Bibbia e del cristianesimo sono misure anticipatrici della sostituzione di Gerusalemme e Atene da parte della Mecca e di al Quds, la sostituzione della libertà dell'uomo proclamata da Mosè con l'asservimento nella dhimmitude. Ngo Monitor ha rivelato i milioni versati da molti stati europei e dalla Commissione europea alle ong per spezzare Israele dall'interno".
   Bat Ye'or crede che l'Europa politica sia irrecuperabile. "Coloro che si sono preoccupati così tanto dei rifugiati palestinesi, che erano responsabili di guerre che solo loro avevano scatenato, non hanno mai mostrato un tale entusiasmo per i rifugiati provenienti da paesi arabi, ebrei, cristiani o di altri paesi. L'assenza di protesta sviluppa nella vittima una rassegnazione suicida. La distruzione del cristianesimo orientale, molto più profonda e radicale di quella del giudaismo, data la sua espansione e il suo potere nel Settimo secolo, illustrava questo processo. L'Unione europea è dedicata alla creazione della Palestina, il suo trofeo, la sua creatura e la sua mascotte".
   Bat Ye'Or risponde così agli attacchi subìti: "Ho osservato con una certa distanza il mio nuovo status di paria. Indossavo la stella gialla dei miei libri. E improvvisamente mi sono sentita orgogliosa. Orgogliosa di appartenere al popolo della stella gialla, il popolo degli schiavi che per primo si oppose alla tirannia in nome della libertà e della dignità dell'uomo. Le mie idee, i miei libri erano armi di verità contro l'odio e le bugie. Hanno aperto la strada al percorso di liberazione non violenta dell'anti jihad in cui ebrei, cristiani, musulmani, bianchi, neri, gialli e altre nazioni potevano unirsi. Hanno resuscitato moltitudini dimenticate e disumanizzate, rimettendole nella storia per restituire la dignità umana negata loro dalle politiche che subivano". Sarebbe bello togliere una nota di ottimismo a Bat Y e'Or, ma si fatica. "L'Europa è tornata alla barbarie degli anni Trenta, tollerando l'uccisione di persone innocenti nelle sue strade, come se la vita umana non avesse valore, come se qualcuno potesse venire e concedere il diritto di uccidere. Le macerie cui ho assistito in Egitto io le ho riviste in questa Europa così piena di generosità e di talenti, così ricca di genio, ma che si crogiola nello splendore infinito dei secoli passati, ignara della fragilità delle civiltà".

(Il Foglio, 21 febbraio 2018)


E morto Gérard Nahon, storico del medioevo ebraico

 
Gérard Nahon
Lo storico francese Gérard Nahon, eminente studioso dell'ebraismo medievale e moderno, è morto a Parigi a 87 anni. Professore emerito dell'École Pratique des Hautes Études di Parigi, aveva diretto la sezione di scienze religiose dell'Università della Sorbona. Nahon ha insegnato anche al Centro universitario di studi giudaici di Bruxelles e all'Università di Aix-en-Provence ed è stato docente alla Scuola rabbinica di Francia. Inoltre ha diretto «Nouvelle Gallia Judaica» (1981-1992), una collana di libri dedicata alla storia degli ebrei in Francia, la Revue des études juives dal 1980 al 1997 e la Collection de la Revue des études juives. Per l'insieme dei suoi studi, lo storico ha ottenuto il Premio Gerusalemme 1995. Tra i suoi libri tradotti in italiano figura La Terra Santa all'epoca della qabbalah (Ecig, 2000), in cui descrive la prima modernità che vede il rifiorire della vita ebraica in Israele. Nahon esplora questa ricca realtà nei suoi aspetti politici ed economici ma soprattutto intellettuali, soffermandosi in particolare sulle scuole di dottrina mistica.

(La Stampa, 21 febbraio 2018)


Netanyahu plaude allo storico accordo con l'Egitto per l'esportazione del gas

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha espresso il proprio apprezzamento per "lo storico accordo" raggiunto oggi con l'Egitto per l'esportazione di gas. L'intesa "porterà dei miliardi nelle casse dello Stato a beneficio dell'istruzione, della salute e del benessere sociale degli israeliani", ha detto Netanyahu. "Molte persone non credevamo nel settore del gas. Lo abbiamo portato avanti sapendo che avrebbe rafforzato la nostra sicurezza, l'economia, le relazioni e soprattutto avrebbe rafforzato i cittadini israeliani", ha commentato il capo dell'esecutivo attraverso un videomessaggio.
   Oggi Delek Drilling e Noble Energy hanno annunciato di aver firmato due accordi vincolanti per esportare gas alla società egiziana Dolphinus Holdings. Le compagnie energetiche forniranno 64 miliardi di metri cubi di gas naturale dai giacimenti di gas Tamar e Leviathan per un periodo di 10 anni. Il gas ha un valore stimato di circa 15 miliardi di dollari. La fornitura di gas naturale sarà avviata quando sarà disponibile l'infrastruttura necessaria per convogliare trasportare il gas verso l'Egitto. Si sta esaminando la possibilità di trasportare il gas attraverso il gasdotto Arish-Ashkelon, di proprietà dell'operatore East Mediterranean Gas Company (Emg).
   Il gasdotto Arish-Ashkelon, è una delle ramificazioni del "gasdotto arabo" che in precedenza trasportava gas dall'Egitto a Israele. Tra le altre opzioni per trasportare il gas da Israele all'Egitto vi è quella di trasferirlo prima in Giordania e successivamente nel paese delle piramide attraverso la città israeliana di Nitzana.

(Agenzia Nova, 20 febbraio 2018)


Israele sceglie l'Egitto per esportare il gas del Bacino del Levante

I retroscena delle intese che irritano la Turchia

di Sissi Bellomo

La nave dell'Eni Saipem 12000
Israele ha scelto l'Egitto come destinazione per il gas del Bacino del Levante: una decisione che ancora una volta rimescola le carte nel Mediterraneo orientale, dove si sta giocando una partita sempre più delicata.
L'annuncio di ieri riguarda un accordo da 15 miliardi di dollari, sottoscritto da società private: Delek Drilling e il socio americano Noble Energy si sono impegnate a vendere 64 miliardi di metri cubi di gas nell'arco di dieci anni all'egiziana Dolphinus Holding, provenienti per metà dal giacimento Tamar (già in produzione) e per metà da Leviathan, scoperto nel 2010 ma che sarà avviato solo nel 2019-20.
Gli aspetti commerciali dell'intesa - che stavolta, a differenza di altre in passato, è vincolante - scivolano però in secondo piano rispetto alle possibili implicazioni per gli equilibri energetici, politici e militari nell'area.
Le ricadute più pesanti riguardano la Turchia, che aveva sperato a lungo di attirare il gas israeliano, per rafforzarsi ulteriormente come hub energetico. Gli ultimi sviluppi privilegiano l'Egitto per questo ruolo. Grazie agli accordi con Israele il Cairo potrebbe anche esportare una parte della produzione di Zohr, magari con destinazione Italia: una possibilità che l'Eni non ha mai escluso, nonostante i forti consumi domestici del Paese nordafricano.
L'Egitto tra l'altro non ha l'assillo delle infrastrutture, poiché dispone di due impianti per la liquefazione del gas, Idku e Damietta, che lasciano aperta l'opzione Gnl.
È comunque probabile che a orientare le trattative sul gas israeliano non siano state queste considerazioni: l'intesa di ieri sembra piuttosto il frutto di complessi intrecci diplomatici, che si sono dipanati nell'arco degli anni.
Il premier israeliano Benjamin Netanyau, che ha acclamato gli accordi parlando di «una giornata felice» per il Paese, ha incontrato pochi giorni fa il segretario di Stato Usa Rex Tillerson, con cui ha discusso le tensioni sollevate dagli sviluppi energetici nell'area.
Con il Libano - che ha assegnato a Eni, Total e Novatek licenze in acque disputate da Tel Aviv - ci sono frizioni che rischiano di sfociare in una guerra: Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, venerdì ha minacciato attacchi alle piattaforme estrattive israeliane in caso di interferenze con le attività esplorative libanesi.
Tel Aviv è sempre più ai ferri corti anche con Ankara, da quando il presidente turco Recep Erdogan, accusato di appoggiare Hamas, ha alzato la retorica contro lo Stato ebraico e gli Stati Uniti di Trump, affermando che «Gerusalemme non può essere affidata a una nazione che uccide i bambini». Le relazioni tra Israele e l'Egitto - a lungo acerrimi nemici - sono invece migliorate da quando al potere c'è il generale Abdel Fattah al Sisi.
Anche la futura rotta di esportazione del gas israeliano verso l'Egitto svela forse qualche retroscena. Delek afferma che si potrebbe utilizzare il gasdotto sottomarino tra Ashkelon e Arish, della East Mediterranean Gas (Emg), conduttura costruita nel 2008 per portare gas egiziano in Israele, ma in disuso dal 2011 dopo una serie di attentati e una lunga disputa giudiziaria col Cairo.
Un arbitrato internazionale ha dato ragione a Israel Electric Corp (Iec) che reclamava risarcimenti per 2 miliardi di $ a fronte di mancate forniture di gas, ma secondo il giornale egiziano Mada Masr ci sarebbe stato un accordo dietro le quinte in base al quale Tel Aviv avrebbe concesso uno "sconto" in cambio della liberalizzazione dell'import di gas in Egitto. Il Cairo ha appena completato proprio questa riforma.

(Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2018)


Intel investirà miliardi in Israele sui chip a 7 nanometri

Intel ha intenzione di investire 4,5 miliardi di dollari nel sito di Kiryat Gat (Fab 28). A confermarlo il ministro delle finanze Moshe Kahlon.

di Manolo De Agostini

 
Anche se ancora si attendono i processori a 10 nanometri, Intel continua a lavorare ai processi produttivi futuri e più segnatamente sui 7 nanometri.
L'anno passato l'azienda statunitense annunciava che avrebbe avviato una prima produzione pilota entro la fine del 2017. Un mese più tardi, davanti all'allora fresco presidente Trump, rivelava la volontà di investire 7 miliardi per completare la Fab 42 di Chandler in Arizona e realizzare chip proprio a 7 nanometri nei prossimi anni.
L'azione del colosso dei microchip per perdere rilevanza nel mondo produttivo, ormai sempre più agguerrito, coinvolgerà però anche Israele, più precisamente Kiryat Gat, città che ospita la Fab 28.
Il giornale locale Globes ha fatto sapere che Intel riceverà parte del denaro tramite sovvenzioni governative (sussidi statali e sgravi fiscali, si parla del 20/30% del totale). "Intel ha deciso d'investire miliardi di dollari in Israele nel 2018", ha dichiarato il ministro delle finanze Moshe Kahlon davanti al Knesset Finance Committee. "La scorsa settimana ho ricevuto conferma di ciò da Intel. Non l'avrei rivelato senza la sua approvazione".
Complessivamente l'operazione costerà qualcosa come 4,5 miliardi di dollari. L'accordo tra Intel e il governo israeliano sarà presentato a un comitato di tre cariche composto dal direttore generale del ministero delle finanze, il direttore generale del ministero dell'economia e dell'industria e il capo dell'autorità fiscale israeliana.
Il sito di Kiryat Gat è già tra i più avanzati, avendo ricevuto investimenti per circa 6 miliardi di dollari in espansione e aggiornamento nel biennio 2016-2017. L'impianto dovrebbe quindi essere in grado di gestire la produzione a 10 nanometri e la nuova ondata di investimenti servirà probabilmente per adeguarlo ai 7 nanometri.
Questo non è l'unico investimento programmato da Intel in Israele: l'azienda è in trattativa con il governo per un ulteriore ampliamento delle operazioni di Mobileye, azienda con sede a Gerusalemme acquistata per 15,3 miliardi di dollari al fine di diventare leader nel settore delle auto autonome.

(tom’sHardware, 20 febbraio 2018)


Nel risiko siriano Assad vede alleanze coi curdi mentre vacilla l'intesa con Putin

Si complica il risiko siriano. Salgono le tensioni tra i vecchi alleati mentre i nemici di un tempo scoprono inattese unità di intenti.

di Lorenzo Cremonesi

MANBIJ (Siria nord-orientale) - Sino a che punto Recep Tayyip Erdogan è disposto a sfidare gli americani, gli alleati della Nato e persino i russi pur di distruggere le basi curde nella zona di Afrin e nella Siria nordorientale? E Bashar Assad è davvero pronto a scontrarsi con il suo grande garante Vladimir Putin per scacciare le truppe turche dal suo Paese? Quanto invece le sue prese di posizione bellicose contro Erdogan rispondono all'agenda del suo altro protettore, l'Iran sciita, per il quale le scelte pro-Damasco non sono affatto coincidenti con quelle russe?
   Gli sviluppi della crisi siriana nelle ultime ore enfatizzano la ridda di interessi diversi tra le forze in campo volte a riposizionarsi sulle rovine del Califfato, dove capita che i nemici di ieri diventino gli alleati di oggi. Avviene così che le milizie curde, con le quali Assad ha mantenuto dallo scoppio delle rivolte nel 2011 un atteggiamento di cauta non belligeranza, scosso peraltro da momenti di crisi acuta, possano diventare adesso alleate contro i turchi.
   La situazione è precipitata ieri mattina, quando i media di Damasco hanno fatto sapere che le loro truppe sarebbero state pronte ad entrare ad Afrin «nelle prossime ore» e dopo che un ufficiale curdo nell'enclave sotto assedio aveva parlato di un'intesa con il regime siriano. Presa di posizione quest'ultima che peraltro non viene confermata dai portavoce delle forze curde da noi interpellati ad Hamuda, loro quartier generale nel Nordest. Tutto ciò è comunque bastato perché Ankara lo trattasse come casus belli. Erdogan in una telefonata a Putin nel pomeriggio ha ribadito l'intenzione di proseguire l'offensiva ad ogni costo e che Damasco ne avrebbe pagato le conseguenze.
   Frasi ribadite da Erdogan al presidente iraniano Hassan Rouhani, con il quale ha anche trattato i tentativi di pacificazione nella regione di Idlib, dove sono concentrati i resti delle milizie sunnite attaccate soprattutto dalle milizie sciite dell'Hezbollah.
   Occorre adesso verificare se Assad è davvero disposto di passare ai fatti. Già dopo l'inizio delle operazioni turche il 20 gennaio aveva minacciato di fare intervenire la sua aviazione: ma erano rimaste parole al vento. Contraddette tra l'altro dalla mossa di Putin di ritirare le proprie truppe da Afrin con il chiaro intento di facilitare i dissidi nel fronte Nato, dove gli americani alleati ai curdi in chiave anti-Isis sono adesso in aperto contrasto con le forze turche.

(Corriere della Sera, 20 febbraio 2018)


Islanda, guerra alla circoncisione la rivolta di ebrei e musulmani

Il Presidente dell'associazione islamica di Reykjavìk: «E' un attacco alla religione»

Nel Parlamento islandese è allo studio una legge particolarmente severa contro la circoncisione sui bambini, una pratica antichissima imposta dalla religione sia ebraica che islamica, solitamente viene praticata sui neonati. Il testo della legge ha sollevato un putiferio in mezza Europa, anche perché il Parlamento islandese è il primo ad avere calendarizzato un passaggio legislativo del genere. Il testo propone sei anni di prigione per coloro che vengono ritenuti responsabili di rimozione di organi, o parti di organi sessuali.
  Una normativa simile in Islanda è già in vigore anche se riguarda solo la mutilazione genitale femminile, che è illegale dal 2005 ma non quella sui bambini di sesso maschile. L'iniziativa politica è stata immediatamente al centro di una battaglia trasversale e interreligiosa che ha unito cristiani, ebrei e musulmani e che, piano piano, si è estesa al resto dell'Europa, visto che se la legge passasse costituirebbe un precedente anche per gli altri Paesi dell'Unione.

 «Questione di civiltà»
  Salmann Tamimi, presidente dei musulmani islandesi, ha guidato la protesta: «È un attacco alla religione». L'aria che tira non è delle migliori anche perché il blocco dei parlamentari che la spingono hanno spiegato che non c'è bisogno di sentire le associazioni ebraiche o islamiche per andare avanti, che si tratta di una «questione di civiltà» e pensata per la tutela dei bambini ai quali verrà risparmiata la recisione del prepuzio. Insomma una violazione. Per la cultura ebraica la circoncisione viene fatta sui neonati la prima settimana di vita.
  La vescova protestante, Agnes Sigurðardóttir, ha chiesto una riflessione generale; a suo parere il testo di legge finisce per criminalizzare i fedeli ebrei e musulmani. «Ci sono forme di estremismo che è bene evitare». In Islanda i partiti che intendono appoggiare il progetto al momento sono quattro e non sembrano disposti a mediazioni. Non è la prima volta che in Europa si affacciano suggerimenti simili.
  Alcuni anni fa era accaduta in Germania una cosa analoga anche se allora si era trattato della sentenza del tribunale di Colonia: aveva messo nero su bianco che la circoncisione dei neonati per motivi religiosi resta una lesione corporale e dunque andrebbe vietata. Quei pochi millimetri di pelle del prepuzio erano riusciti a compattare subito le tre religioni abramitiche. Probabilmente anche Gesù stesso era circonciso secondo l'antico precetto ebraico.
  A Colonia i giudici avevano deciso sul caso di un ragazzo musulmano, portato d' urgenza al pronto soccorso per le conseguenze di un' operazione andata male. Alla lettura della sentenza il Rabbino capo di Berlino aveva tuonato: «si tratta di una dichiarazione di guerra all' ebraismo», e anche la comunità musulmana era pronta a scendere in piazza.

(Il Messaggero, 20 febbraio 2018)


Gaza - Israele ha distrutto un tunnel terroristico

Generale Mordechai agli abitanti della Striscia: dimostrate contro Hamas

Nel raid condotto la scorsa notte, in reazione al lancio di un razzo contro il Neghev, l'aviazione israeliana ha distrutto un "tunnel terroristico" scavato nel sud della Striscia di Gaza, nei pressi del valico commerciale di Kerem Shalom. Lo ha rivelato il ministro della difesa Avigdor Lieberman, in una seduta del suo partito Israel Beitenu. Intanto il coordinatore delle attività israeliane nei Territori, generale Yoav Mordechai, ha avvertito che Israele non tollererà più il ripetersi di manifestazioni di protesta di abitanti di Gaza accanto ai confini, perché esse - ha affermato - servono da copertura ad attacchi terroristici. Negli ultimi mesi già 15 dimostranti "inviati da Hamas", ha aggiunto, sono stati colpiti a morte. "I dirigenti di Hamas non mandano i loro figli al confine. Fareste meglio - ha concluso il generale - a dimostrare piuttosto contro di loro".

(ANSA, 19 febbraio 2018)


Una nuova start-up israeliana contro le truffe nell'e-commerce

di Nathan Greppi

 
Eido Gal e Assaf Feldman.
Immagina che stai facendo compere su internet, clicchi per fare il check-out ma la tua transazione viene rifiutata: è per impedire certe eventualità che è nata Riskified, una nuova start-up di Tel Aviv.
   Secondo il Jerusalem Post, Riskified è nata per analizzare le transazioni eseguite con carte di credito per conto di rivenditori nell'e-commerce, al fine di identificare e bloccare hacker e truffatori. Questa compagnia può annoverare, tra le sue migliaia di clienti, grosse aziende quali Burberry, Macy's, Footlocker e Giftcards.com.
   Molti venditori di questi tempi sono scettici ad accettare alcune transazioni, soprattutto a causa di possibili truffe. A causa di queste ultime, spesso le compagnie decidono di non accettare più transazioni da intere località. "Ci siamo accorti che la paura delle frodi porta i commercianti a lasciare i soldi sul tavolo," ha dichiarato Assaf Feldman, amministratore delegato e co-fondatore di Riskified. "Essi hanno paura di accettare brutte transazioni, il che li porta a rifiutare anche molti buoni clienti."
   Riskified vuole aggiornare i sistemi di verifica di molte aziende, che a causa di truffe in passato hanno perso anche milioni di dollari. Per farlo, intende usare l'intelligenza artificiale per monitorare il singolo consumatore in base a come si muovono nel sito, portando a una maggiore accuratezza nelle transazioni. "Mettiamo che qualcuno guardi le politiche di restituzione di un sito," ha detto Feldman. "In tal caso hanno meno probabilità di essere dei truffatori, poiché di solito intendono rivendere i prodotti rubati. Inoltre, se qualcuno entra nel sito, seleziona i prodotti dal più al meno costoso, lo aggiunge al carrello e va subito al check-out, quello può essere un comportamento sospetto".
   Israele è molto all'avanguardia nell'individuare truffatori nel campo dell'e-commerce. Questo perché molti esperti di tecnologia hanno affinato le proprie abilità in certi settori dell'esercito. Molti dei dipendenti di Riskified sono ex-membri dei servizi segreti, compreso il co-fondatore Eido Gal. Attualmente la compagnia da lavoro più di 200 persone, di cui circa 130 vivono a Tel Aviv e gli altri nella sede di New York. Ad oggi, essa ha guadagnato 63,7 milioni di dollari.
   Nei cinque anni trascorsi dalla sua fondazione, la compagnia si è resa conto che molte transazioni fraudolente si verificano dopo che degli hacker hanno ottenuto migliaia di informazioni da carte di credito rubate. Con tali dati, un uomo può cliccare sul sito di Burberry, comprare prodotti di lusso e rivenderli altrove. Ironicamente, spesso rubare informazioni su carte e conti in banca può essere più proficuo e meno complesso che rivendere le merci. Per prevenire tali problemi, Feldman suggerisce di controllare regolarmente la situazione delle nostre carte di credito e contattare subito i gestori se riscontriamo anomalie.

(Bet Magazine Mosaico, 19 febbraio 2018)


Dal deserto ai city break: tutte le facce di Israele

Spingere il deserto del Negev come novità di prodotto: l'ente del Turismo israeliano è al lavoro per promuovere la principale area desertica del paese, con un focus specifico sulla città di Eilat.
"Vogliamo far passare il concetto che è una meta adatta a diverse tipologie di target - spiega Avital Kotzer Adari, direttore dell'ente del turismo israeliano in Italia -: stiamo già lavorando con i t.o. per pacchetti che includono il Negev e probabilmente lanceremo una campagna pubblicitaria per la prossima stagione".
Prosegue intanto anche la comunicazione dedicata ai city break che accomunano Gerusalemme e Tel Aviv, città a 45 minuti di macchina. Lanciata a fine gennaio con il claim 'Two sunny cities one break', "mira a spingere le partenze anche nei mesi invernali. Israele sta attirando sempre più nuovi target, incluse le famiglie con i bambini".

(TTG Italia, 19 febbraio 2018)


Roma, un nuovo centro Chabad. "Luogo di studio e aggregazione"

Un nuovo luogo di studio, identità, aggregazione. Un luogo per incontrarsi, un luogo per crescere come individui e comunità. Nasce sotto i migliori auspici il nuovo centro Chabad coordinato dalla sezione Piazza Bologna, inaugurato ieri davanti a oltre 150 persone (tra cui diversi rappresentanti istituzionali).
La nuova sede, in via di Villa Massimo al civico 39, nasce come potenziamento di un'offerta che negli anni si è fatta sempre più significativa. Alcune centinaia, spiega rav Menachem Lazar, che di questa iniziativa è il principale artefice, le persone che già oggi orbitano attorno a questa sezione.
"È una grande gioia e una grande responsabilità" racconta il rav, che in questa giornata speciale ha voluto al suo fianco tanti amici e Maestri. Numerose le testimonianze personali, e tante anche le offerte a sostegno del centro. Ad intervenire tra gli altri la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni e la Presidente della Comunità ebraica romana Ruth Dureghello.
"Inizia una nuova sfida. E inizia - dice il rav - nel segno del calore e dell'amore per lo studio".

(moked, 19 febbraio 2018)


Netanyahu sfida Teheran col frammento di drone: non metteteci alla prova

Il premier israeliano davanti al ministro degli Esteri Zarif: «Porti il messaggio ai tiranni». Davanti agli occhi del mondo: il rottame abbattuto era partito dalla Siria, simbolo delle ambizioni iraniane.

di Fiamma Nirenstein

Netanyahu mostra un pezzo del drone iraniano abbattuto
GERUSALEMME - Se c'era bisogno di una sveglia sullo stato dei rapporti fra Israele e Iran, Benjamin Netanyahu si è preso buona cura di suonarla al massimo del volume ieri, alla conferenza di Monaco sulla Sicurezza, presenti tutti i grandi del mondo. E il titolo del suo discorso è: «Non metteteci alla prova, ayatollah». I due protagonisti hanno calcato lo stesso palcoscenico, naturalmente non in una discussione diretta. Le immagini parlavano da sole: un azzimato, settecentesco Mohammad Javad Zarif, ministro degli Esteri iraniano, lo stesso che ha gestito, col sorriso del gatto di Alice e il gioco facile che gli ha fornito Obama insieme all'Ue, le trattative che hanno portato all'incredibile accordo-farsa sul nucleare ha risposto a un Netanyahu furioso, diretto, pallido di determinazione e realtà dei fatti quando ha sventolato nell'aria un pezzo del drone iraniano che lo stato islamico ha spedito dalla Siria per spiare dentro Israele.
   L'episodio è accaduto due venerdì fa, seguito dalla reazione israeliana, 12 obiettivi in Siria, di cui quattro strutture strategiche iraniane. I giornali europei hanno poi preferito soffermarsi sul fatto che i siriani, sempre con tutta probabilità gestiti dall'Iran che sostiene Assad, hanno atterrato un F-16 israeliano. Quindi Netanyahu ha voluto riportare l' attenzione su una presenza sempre più aggressiva ai suoi confini, quella iraniana con i suoi valvassini hezbollah. Zarif, che ha chiamato direttamente in causa chiedendo se riconosceva il suo pezzo di ferro («Lo riconosce? Dovrebbe! È suo. Porti con sé un messaggio ai tiranni di Teheran: non metteteci alla prova») ha risposto ostentando un'aria signorile, dicendo che si trattava di una pagliacciata da cartone animato, ha accusato Israele con disprezzo, come se la sua piazza non urlasse «morte a Israele» una volta al giorno e le sue guardie della Rivoluzione non stessero ormai dando fuoco a tutto il Medio Oriente.
   Di fatto la scelta di Netanyahu di un gesto plateale come mostrare la fisicità ferrea dell'attacco iraniano non è casuale in tempi che si vanno riscaldando sempre di più, mentre il mondo, esclusi gli Usa che chiedono all'Iran (Rex Tillerson, mercoledì) di ritirare le sue forze dalla Siria, sembrano non capire che cosa rappresenti davvero l'Iran oggi: la repubblica islamica seguita a ostentare una diplomazia melensa mentre i diritti umani sono violati fino alle impiccagioni degli omosessuali e i dissidenti silenziati con la forza; lo scopo del dominio religioso del mondo è dichiarato, il suo sviluppo balistico clamoroso, il suo corridoio di controllo va dal Golfo Persico al Mediterraneo, e include la maggior parte dell'Irak, della Siria ( controllati dalle guardie della Rivoluzione), del Libano, controllato dai suoi Hezbollah. Giordania, Egitto, Arabia Saudita sono angosciate dall'assedio iraniano. Le sue milizie combattono in tutti i conflitti, come quello in Yemen. Anche il Corno d'Africa e il mar Rosso sentono il fiato sul collo.
   La spesa per il terrorismo internazionale, compreso quello contro l'Occidente ha portato gli iraniani nelle strade a gridare «Lasciate la Siria, pensate a noi». Stephen Heydemann, mediorientalista del Brookings Institute, valuta che l'Iran abbia speso nel 2015 15-20 miliardi di dollari per sostenere Assad, l'aiuto agli hezbollah è di 700-800 milioni, fra i 100 e 250 milioni per Hamas e la jihad islamica. Oltre a tenere bollente il fronte Nord di Israele, l'Iran cura anche Gaza che, dopo l'esplosione di sabato che ha colpito una pattuglia israeliana facendo due feriti gravi e due lievi, è ora a rischio di guerra. Distruggere Israele è sempre l'obiettivo preferito, ma è l'orchidea nel mazzo di fiori che gli ayatollah vogliono cogliere. Netanyahu gli ha riportato il loro pezzo di ferro.

(il Giornale, 19 febbraio 2018)


Netanyahu, monito all'Iran: "Se attaccate, reagiremo"

Spunta un piano Usa con l'Ue per migliorare l'accordo sul nucleare

Benjamin Netanyahu
Israele non consentirà al regime iraniano di stringere un cappio al nostro collo. Invitando l'Iran a casa sua Assad ci sta sfidando
Javad Zarif
Netanyahu è un fumettista da circo, il suo show non merita commento, lo fa per distogliere l'attenzione dai problemi interni

di Alberto Simoni

MONACO - Benjamin Netanyahu ha appena avvertito l'Iran di non varcare più la «sottile linea rossa». Altrimenti «Israele agirà», non solo contro i terroristi, ma «colpirà la stessa Teheran». Il messaggio è già forte di suo. Ma poi il premier israeliano si abbassa e prende da sotto il podio sul palco della sala del Bayerischer Hof a Monaco di Baviera un pezzo di metallo. Lo brandisce e, come a cercare il nemico, scandisce: «Zarif, lo riconosci? È tuo. Non sfidare la risolutezza di Israele».
   Netanyahu dice che si tratta di un rottame del drone iraniano che il 10 febbraio gli israeliani hanno abbattuto sui loro cieli. Da lì è scaturito il raid su postazioni di Teheran in Siria. E un F-16 dello Stato ebraico è stato colpito.
   «Ci siamo tenuti fuori dalla disputa siriana per sei anni - precisa Netanyahu - ma se il signor Assad ha deciso di invitare l'Iran sul suo territorio», per trasformarlo in una piattaforma di Teheran con basi aeree e uno sbocco sul Mediterraneo, allora «cambia lo status quo». E Israele reagirà.
   Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif nel frattempo sbarca in Baviera proveniente dall'India. Interviene quando Netanyahu se ne è da poco andato, ma l'odore del duello, pur se a distanza, è acre. Zarif liquida il nemico come un «fumettista da circo», il cui show «non merita alcun commento, lo fa solo per distogliere l'attenzione dai problemi interni».
   Affonda la lama nell'orgoglio militare israeliano ferito: «L'aereo distrutto è un colpo al mito della invincibilità israeliana».
   «Noi - dice Zarif - non vogliamo nessuna egemonia regionale, anzi cerchiamo una nuova architettura di sicurezza nel Golfo». Quest'ultima idea resta sospesa per pochi minuti.
   La scansa subito Al Jubeir, ministro degli Esteri di Riad, che concludendo il panel riporta il discorso sui temi di Netanyahu dando ancora più plasticamente l'immagine di una convergenza solida fra saudita e israeliani: «L'Iran alimenta il terrorismo. È un fatto: o cambia approccio o continueremo a combatterlo».
   Secondo Riad e Gerusalemme Hamas, Hezbollah e gli Houti yemeniti sono rinvigoriti negli ultimi anni. E l'Iran è diventato più sfacciato nel muovere le pedine.
   Colpa anche dell'accordo sul nucleare del 2015. Aveva un secondo fine - quello di smorzare le velleità egemoniche iraniane - ma ha fallito. «L'appeasement con l'Iran non può funzionare, non ripetete gli errori del passato», ammonisce Netanyahu ricordando la morbidezza con cui a Monaco nel 1938 vennero trattati i nazisti e sottolineando che «l'Iran è una minaccia anche per l'Europa».
   L'elenco dei nodi dell'intesa sul nucleare è lungo: ispezioni monche e parziali, durata limitata e cecità sui missili. Il timore israeliano è che Teheran potrà arrivare a costruire un arsenale atomico appena l'accordo andrà in scadenza (fra 10 anni). «Le parole di Netanyahu non sono accurate, le ispezioni funzionano», replica poco dopo John Kerry, ex segretario di Stato Usa. «Se rigettiamo l'intesa - è la tesi che filtra in alcuni ambienti americani - come potremo avere la fiducia degli iraniani quando discuteremo delle altre questioni calde?» Diritti umani, guerre regionali, dossier dei missili balistici su tutti.
   Parole «profetiche» visto che in serata da Washington la Reuters riferisce di una bozza di piano Usa sul nucleare. Mira a coinvolgere gli europei nell'individuare i punti sui quali il Jpcoa è migliorabile; in cambio l'America offre di mantenere le sanzioni in stand-by. È un modo per prendere tempo e arrivare alla deadline del 12 maggio, data fissata da Trump per decidere su misure punitive. Difficile che basterà al Netanyahu visto a Monaco.

(La Stampa, 19 febbraio 2018)


Dopo i curdi l'America tradirà Israele?
Sì, lo farà, se questo sarà nei suoi interessi. America first


L'America deve fare la sua parte e non lasciare soli gli alleati

Scrive il Jerusalem Post (11/2)

La battaglia dello scorso fine settimana tra Israele e forze siriane e iraniane segna un nuovo capitolo nel riallineamento delle potenze in atto in medio oriente. Eppure, mentre Russia, Turchia e Iran continuano ad affermarsi nella regione costituendo una sorta di asse di potenze, l'America è gravemente assente dall'equazione geopolitica. Il mese scorso, alla Stanford University, il segretario di stato americano Rex Tillerson ha delineato una nuova politica siriana che, almeno ufficialmente, postula l'ampliamento degli obiettivi statunitensi in Siria al di là della lotta contro lo Stato islamico. Tillerson ha parlato del mantenimento di una forza militare in Siria non solo per combattere i terroristi affiliati a Isis e al Qaeda, ma anche per contrastare la perniciosa influenza dell'Iran. Ha anche fatto capire che gli Stati Uniti avrebbero esteso la loro presenza militare in Siria fino a comprendere la creazione di una forza di sicurezza di confine di 30.000 uomini nel nord del paese insieme agli alleati degli Stati Uniti, i curdi.
   Finora, però, alle parole non sono seguiti i fatti. Pochi giorni dopo il discorso di Tillerson, la Turchia ha intensificato la sua offensiva nel nord della Siria contro le forze curde alleate con gli Usa. Forze turche appoggiate da aerei e artiglieria hanno catturato territori precedentemente controllati dalle forze curde, mentre Washington non faceva nulla. Questo voltare le spalle ai curdi siriani, il gruppo che ha fatto più di ogni altro per combattere l'Isis, lascia tristemente presagire quella che potrebbe essere la reazione degli Stati Uniti nel caso in cui Israele venisse trascinato in un conflitto diretto con Hezbollah, Siria, Iran e forse persino la Russia. L'inerzia degli Stati Uniti circa la difesa dei curdi ha conseguenze anche più ampie. Indirettamente rafforza la Russia e l'Iran, mentre la Turchia va ad aggiungersi all'elenco delle nazioni che provocano apertamente gli Stati Uniti. E mina la Nato, un'organizzazione creata per contrastare la Russia, nel momento in cui lascia mano libera alla Turchia, che è membro della Nato, per promuovere gli interessi russi.
   Il sostegno degli Stati Uniti è quindi fondamentale se Israele vuole continuare a godere degli spazi di manovra militare necessari per difendersi dall'Iran quand'anche tali spazi fossero osteggiati dalla Russia. Ma Tillerson è stato considerevolmente silenzioso sulla recente "giornata di guerra" fra Israele, Siria e Iran. E finora non ha nemmeno annunciato di voler modificare le tappe della sua visita in corso in medio oriente per includere una sosta in Israele. Sin dall'inizio, il suo programma che non prevedeva di fare tappa in Israele attestava il suo approccio disimpegnato.
   Ma i problemi circa la politica americana in Siria non sono iniziati con Tillerson. Quando Barack Obama lasciò che le sue proclamate linee rosse venissero violate senza la minima reazione, dimostrò al mondo che gli Stati Uniti non erano seriamente impegnati a risolvere la crisi siriana, e del medio oriente in generale. Non è troppo tardi perché Tillerson cambi rotta. Nonostante il forte coinvolgimento della Russia nella regione, gli Stati Uniti rimangono la nazione più potente, sostenuta dall'economia più grande e dinamica del mondo. Non agendo, l'America incoraggia l'Iran e aumenta le probabilità di guerra".

(Il Foglio, 19 febbraio 2018)


«Shoah, ebrei tra i responsabili». Bufera sul premier polacco

Nuova polemica sulla memoria. Morawiecki omaggia la brigata filonazista

di Maria Serena Natale

Mateusz Morawiecki rende omaggio ai caduti polacchi alleati dei nazisti
Parole come lame di ghiaccio in quest'inverno di scontri sul passato che divide. Prima, l'approvazione della legge sulla Shoah voluta dal governo nazional-conservatore di Varsavia che prevede fino a tre anni di carcere per chiunque attribuisca alla nazione polacca complicità con i crimini nazisti. Poi la rottura alla conferenza sulla sicurezza di Monaco, dove il premier polacco Mateusz Morawiecki ha parlato di «responsabilità degli ebrei» nella voragine dell'Olocausto, provocando l'immediata reazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: «Affermazioni oltraggiose che dimostrano incapacità di comprendere la Storia e mancanza di sensibilità per la tragedia della nostra gente». Una polarizzazione pericolosa, nella quale il linguaggio non trova più un senso condiviso e la verità storica cede il passo alla politica e a un frainteso orgoglio nazionale.
   La nuova legge - che vieta di definire «campi di morte polacchi» i Lager nazisti nella Polonia occupata come Auschwitz, Treblinka, Belzec, Sobibor - era stata presentata come una forma di difesa della «reputazione» del Paese dalle accuse di collaborazionismo e antisemitismo. La successiva contrapposizione frontale con i partner, dall'Europa al Medio Oriente, ha rafforzato il clima d'assedio. E sul sito web del Senato è comparso un appello affinché i polacchi all'estero segnalassero qualsiasi dichiarazione volta a danneggiare «il buon nome» della patria.
   A Monaco lo scontro è stato innescato dalla domanda rivolta a Morawiecki dal reporter israeliano Ronen Bergman: «Mia madre fuggì dalla Gestapo in Polonia poco dopo aver saputo che i suoi vicini l'avevano denunciata, se raccontassi questa storia sarei considerato un criminale nel suo Paese?». Risposta: «Non sarà incriminabile per aver detto che c'erano criminali polacchi, se si aggiungerà che ce n'erano anche di ebrei, russi, ucraini, e tedeschi». Poche ore dopo il premier, che segue la visione della Polonia vittima della Storia coltivata dal leader del partito di governo Jaroslaw Kaczynski, ha esacerbato ulteriormente gli animi rendendo omaggio ai caduti della Brigata delle montagne della Santa croce, unità militare clandestina che in guerra combatté i tedeschi per poi passare dalla loro parte contro i comunisti.
   Ricordi di lotte feroci, nel Centro-Est dalla memoria lacerata, in un continuo sovrapporsi di confini fisici e mentali. La legge sulla memoria ha innescato una crisi anche con Kiev poiché punisce la negazione dei «crimini commessi da nazionalisti o esponenti di formazioni ucraine che collaborarono con il Terzo Reich». Gruppi oggi riabilitati dall'altra parte della frontiera.
Ieri, sui muri dell'ambasciata polacca a Tel Aviv sono comparse svastiche e scritte oscene. In una nota il governo di Varsavia ha spiegato di non voler negare l'Olocausto o alludere a responsabilità degli ebrei «nel genocidio perpetrato dai nazisti».

(Corriere della Sera, 19 febbraio 2018)


I cinici doppi giochi di Abu Mazen

Per tornare a essere l'unico sovrano palestinese, Abu Mazen vorrebbe spingere Israele a fare lo "sporco lavoro" contro Hamas, e tanto meglio se nel farlo verrà accusato di crimini di guerra

Il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) è pronto a combattere Hamas fino all'ultimo soldato israeliano. Per quanto detesti Israele e i suoi leader, teme molto di più Hamas e i suoi capi, perché mentre Israele si oppone alle sue scelte politiche, Hamas rappresenta una autentica minaccia alla sua stessa vita. E' chiaro che Abu Mazen non si fa nessuno scrupolo di ricorrere a qualunque mezzo per eliminare i capi di Hamas. L'ideale, per lui, sarebbe che Israele facesse il "lavoro sporco" al posto suo, meglio ancora se nel farlo venisse accusato di crimini di guerra....

(israele.net, 18 febbraio 2018)


L'incubo dello Stato ebraico è un «corridoio» da Teheran fino al Mediterraneo

I diversi punti di vista secondo gli osservatori della crisi mediorientale «Quello che per Israele è un rischio imminente non inquieta altrettanto gli alleati»

di Davide Frattini

 
Le chiamava «le medaglie che ti danno quando qualcosa va storto». Ne ha ricevute due al valore, la seconda dopo aver guidato i commando israeliani nella notte di Beirut — sbarcati dai gommoni, un gruppo di soldati travestiti da donna — per colpire le basi palestinesi, un raid ordinato nell'aprile del 1973 come rappresaglia alla strage durante le Olimpiadi di Monaco un anno prima.

 Il fronte nord
  È a una conferenza in memoria del generale Amnon Lipkin-Shahak — e di quel fronte nord mai pacificato — che all'inizio di gennaio Gadi Eisenkot ha divulgato le previsioni dello Stato Maggiore, lo sforzo da oracoli degli analisti dell'intelligence militare per rispondere a una domanda: Israele dovrà combattere (un'altra) guerra nel 2018? Le possibilità sono state valutate «quasi inesistenti», con un grosso «ma» rispetto all'anno precedente: la situazione è volatile e il rischio che degeneri è cresciuto.
Uno degli scenari delineati da Eisenkot — in quella che gli ufficiali definiscono «fase delle campagne tra i conflitti» — «è la reazione di una forza nemica a un'operazione israeliana per evitare il trasferimento di tecnologie militari agli avversari». È il caso dei raid — almeno un centinaio — compiuti in Siria per impedire il trasferimento di armamenti dagli iraniani ai miliziani libanesi di Hezbollah.

 Le regole del gioco
  O la reazione israeliana a una mossa che potrebbe cambiare le regole del gioco e il peso della deterrenza reciproca: i gruppi paramilitari sciiti sponsorizzati da Teheran tentano di arroccarsi a pochi chilometri dalla frontiera e dalle alture del Golan; gli iraniani stanno per completare una delle basi che vogliono costruire in Siria, il segno visibile — e per Israele inaccettabile — che la loro presenza è permanente.

 L'intelligence
  Più che dal cemento macinato per erigere le fortificazioni, l'intelligence israeliana è preoccupata dall'asfalto versato per disegnare attraverso vari deserti quello che viene chiamato «il corridoio»: un ponte via terra da Teheran fino a Beirut, dall'Iran attraverso l'Iraq, la Siria e il Libano fino al Mediterraneo. «La possibilità che i Guardiani della rivoluzione usino questa tratta — commenta Ephraim Kam dell'Institute for National Security Studies, legato all'università di Tel Aviv — rappresenta una provocazione ulteriore: può servire per rinforzare Hezbollah e può portare al deterioramento dello scontro con l'Iran».
James Mattis, il segretario alla Difesa americano, un paio di mesi fa ha assicurato che «il corridoio» per ora non è completato e il suo uso — spostamenti di miliziani sciiti da mandare in Siria per sostenere il regime di Bashar Assad — è per ora limitato. In ogni caso gli americani — come ha annunciato il segretario di Stato Rex Tillerson — hanno tra gli obiettivi in Medio Oriente «quello di distruggere il sogno iraniano di muoversi liberamente fino al Mediterraneo».

 Il premier
  Questi proclami non bastano a rassicurare gli israeliani, perché — continua Kam nella sua analisi — «Donald Trump non sembra in grado di mantenere la promessa di limitare l'egemonia iraniana nella regione». Anche se — riconosce — «la presenza americana nel nord-est della Siria (da dove passerebbe il "corridoio") contribuisce a ridurre la serietà della minaccia».
Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, potrebbe sentirsi lasciato solo nell'affrontare l'espansionismo degli ayatollah, che considera una questione esistenziale per il Paese. «A Monaco si renderà conto che le sue preoccupazioni non sono le stesse delle nazioni più potenti — scrive Shlomo Shamir sul quotidiano Maariv —, quello che Israele vede come pericolo imminente non inquieta la comunità internazionale».

(Corriere della Sera, 19 febbraio 2018)


Hezbollah, nuovo fronte contro Israele. Ora minaccia i giacimenti di gas

E lo Stato ebraico punta a impedire l’”autostrada sciita"

di Giordano Stabile

Hezbollah apre un nuovo fronte con Israele, contro le piattaforme marine per l'estrazione del gas, e la contrapposizione fra l'Iran e lo Stato ebraico assume contorni ancora più precisi. Da una parte l'assedio su più lati da parte delle milizie alleate di Teheran. Dal Sud del Libano con Hezbollah, dal Sud-Ovest della Siria con forze addestrate dai Pasdaran, dalla Striscia di Gaza con Hamas, movimento sunnita ma legato agli iraniani, e ora anche dal mare.
   Dall'altra ci sono le azioni israeliane, sempre più muscolari, per spezzare «l'autostrada sciita» che dagli altopiani iranici scende verso la Mesopotamia, tocca Baghdad e Damasco e sfocia a Beirut sul Mediterraneo. Una sfida culminata con l'abbattimento di un drone iraniano e di un F-16 israeliano sabato 10 febbraio in una battaglia sui cieli siro-israeliani.
   L'ultimo discorso del venerdì del leader del Partito di Dio libanese, Hassan Nasrallah, ha avuto però come tema principale la sfida sul gas. È stato innescato dalla visita del Segretario di Stato americano Rex Tillerson a Beirut giovedì scorso. Tillerson ha offerto la mediazione statunitense per la disputa sul confine marittimo fra Israele e il Libano.
   Sono soltanto 812 chilometri quadrati contesi, ma sopra il Blocco 9, la porzione di fondale più promettente per l'estrazione del gas. Hezbollah ha respinto la mediazione perché ritiene quegli 812 chilometri quadrati parte delle acque libanesi. Nasrallah è andato oltre, ha minacciato di colpire con i suoi missili le piattaforme israeliane, in particolare quella del giacimento Tamar, che fornisce tutto il fabbisogno di metano a Israele.
   Nasrallah ha già evocato in passato altre azioni devastanti, come colpire il deposito di ammoniaca ad Haifa per provocare «una piccola esplosione atomica». Gli ha risposto più di una volta il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, con la minaccia di «riportare all'età della pietra» il Libano. Ma dieci giorni fa dalle parole si è passati ai fatti. Una fiammata, o le prove generali della guerra. Il fronte sciita si sente più forte di 12 anni fa, quando Hezbollah e le forze armate israeliane si confrontarono per 33 giorni a Sud del fiume Litani. Oggi il conflitto è visto come «totale». Al fronte libanese si aggiungerà senza dubbio quello siriano. La scorsa settimana il sito filo-hezbollah Dahiyah ha rivelato che il movimento sciita conta non soltanto su «180 mila razzi e missili» in Libano, ma anche su «70 mila in Siria», compresi «1.600 a lungo raggio».
   L'azione del generale Qassem Suleimani, a capo delle forze d'élite dei Guardiani della rivoluzione, ha «libanesizzato» le forze armate siriane e irachene, complici le guerre settarie degli ultimi quindici anni. In Iraq 100 mila uomini delle Forze di mobilitazione popolare, Hashd alShaabi, dipendono da Teheran. In Siria oltre a 10 mila uomini di Hezbollah, ci sono 40-50 mila fra iracheni e afghani, e anche Damasco ha creato le sue Hashd al-Shaabi, altri 20-30 mila miliziani. Sono forze che gli ayatollah possono spingere verso il Golan. Mentre la crisi nella Striscia di Gaza - con la mancata «riconciliazione» fra palestinesi e la Terza Intifada lanciata dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte Trump - ha spinto di nuovo Hamas verso l'Iran.
   L'attacco di sabato, con quattro soldati feriti da un bomba-trappola, ha innescato ieri i raid «più massicci dal 2014». Lo Stato ebraico conta sullo strapotere dell'aviazione per avere ancora una volta ragione dei suoi nemici. Dal 2013 ha colpito con regolarità depositi e convogli di armi iraniane dirette a Hezbollah. Il 10 febbraio si è confrontato però con una reazione inattesa, ha perso un caccia per la prima volta dal 1982 e ha reagito con un'azione devastante sulle difese missilistiche siriane lungo l'autostrada sciita. Questa volta lo spettro degli avversari è più insidioso. E «i persiani» contano di riuscire laddove «gli arabi» hanno sempre fallito.

(La Stampa, 19 febbraio 2018)


Adàr, 3 dell'anno 5778. I simboli dell'ebraismo: Purim

di Fabrizio Tenerelli

 
Shavua tov, carissimi lettori. Oggi è il 3 del mese di Adàr dell'anno 5778. Il simbolo dell'ebraismo di oggi è Purim (פורים)- che tradotto significa "sorti" - una delle poche festività la cui allegria e insolenza, sembrano ribaltare l'aspetto religioso della tradizione. Purim è la festa che commemora la vittoria degli ebrei contro il malvagio Hamman il persiano.
  Viene celebrata nell'attuale mese di Adàr. Si parte il 13 di Adàr (che quest'anno cade il 28 febbraio), con il Digiuno di Ester; mentre il 14 di Adàr è Purim. Il Talmud (Taanit 29a) dice che con l'inizio di Adàr la gioia comincia a crescere; al contrario insomma di quanto accade con il mese di Av, che nella tradizione ebraica è legato a numerosi eventi nefasti. Secondo alcuni lo stesso Messia è atteso nel mese di Adàr.
  L'arte e il folclore rappresentano questa festa con una serie di immagini eccentriche e, ad esempio, disegni di animali, come l'orso che è il simbolo della Persia o il pesce, simbolo del segno zodiacale dei Pesci che contraddistingue la festa di Purim, la cui origine del nome resta piuttosto oscura.
  La festa racconta di come il destino della comunità ebraica persiana fu determinato, secondo quanto raccontato nel libro di Ester.

 La storia
  La storia narra che Mardocheo salvò il re Assuero da un complotto di corte. Per questo motivo venne promosso funzionario, ma scatenò l'invidia di Hamman, potente consigliere del re. Assuero diede una serie di banchetti in onore dei dignitari mediorientali e al rifiuto della regina Vasti, sua moglie, di presenziare a uno di questi banchetti, prese come sposa Ester (portata dal cugino Mardocheo) la quale divenne regina.
  Mardocheo venne a conoscenza di un nuovo complotto e fece avvertire il re da Ester. Perchè Hamman il perfido voleva annientare il popolo ebraico? Una volta elevato al massimo rango del regno, tutti dovevano inginocchiarsi e prostrarsi in sua presenza. Tutti, tranne Mardocheo, che in quanto ebreo aveva l'obbligo di prostrarsi soltanto di fronte a D*o. Una volta conosciute le origine di Mardocheo, decise come punizioni di sterminare tutto il popolo ebraico.
  Il re, in un primo tempo, diede il benestare ad Hamman per agire come meglio ritenesse opportuno, gettando nella disperazione l'intero popolo ebraico. Fu allora che Mardocheo chiese a Ester di incontrare il re.
  Lei, tuttavia, rispose che nessuno poteva recarsi dal re, senza essere chiamato: pena la morte. Alla fine Ester viene convinta e dopo aver chiamato a raccolta tutti gli ebrei, li invita a digiunare, annunciando che si sarebbe recata dal re, pur col rischio di perire. Fu così che Ester, Mardocheo e tutto il popolo ebraico digiunano e pregano per tre giorni, implorando la clemenza divina. Alla fine Ester incontrerà il re e otterrà la grazia per il proprio popolo e Hamman venne impiccato.

 La tradizione
  I due eroi della storia sono Ester e suo cugino Mardocheo (Mordechai), i cui nomi potrebbero derivare dalle divinità persiane: "Ishtar" e "Marduk". La "favola", che celebra il trionfo dei deboli sui forti, è divenuta molto popolare tra gli ebrei anche della diaspora . Alcune comunità, inoltre, hanno festeggiato altri Purim (chiamati "piccoli") per celebrare determinate ricorrenze, soprattutto legate al salvataggio di una comunità. La Festività di Purim inizia sempre al tramonto e si celebra leggendo innanzitutto la "Megillah" (il Libro di Ester), in Sinagoga.
  Quindi, scatta il carnevale, indossando costumi, improvvisando giochi di parole, scherzi, battute sulla base dei testi tradizionali "Purim Torah". E' anche usanza consegnare "mishloach manot" o "shalas manos" (cesti di cibo) ai vicini o ai bisognosi. In questa occasione vengono mangiati anche dei particolari dolcetti di forma triangolare (a base di frutta o semi di papavero), gli "hamentashen" chiamati anche "ozney Haman" (orecchie di Haman). E poi degli spaghettini (noodle) molto fini, chiamati i "capelli di Haman".
  In alcune comunità si mangiano anche ceci e lenticchie. Malgrado qualcuno abbia espresso disapprovazione sull'eccessiva frivolezza di questa festa, si usa bere a Purim a tal punto da non riconoscere più Mordechai dal perfido Hamman. Un'altra pratica caratteristica del Purim è quel di far rumore in Sinagoga - solitamente vietato durante il pubblico servizio - per cancellare la memoria di Amalek, del quale Hamman sarebbe discendente (Deuteronomio 25:19).
  “Quando dunque l'Eterno, il tuo Dio, t'avrà dato requie, liberandoti da tutti i tuoi nemici all'intorno nel paese che l'Eterno, il tuo Dio, ti dà come eredità perché tu lo possegga, cancellerai la memoria di Amalek di sotto al cielo: non te ne scordare!”
  E' prevista l'usanza di dire il nome di Amalek, seguito dall'utilizzo di un gragger uno strumento che provoca rumore.

(Vivi Israele, 18 febbraio 2018)


Netanyahu sente il premier polacco, tensioni ma il dialogo va avanti

Nel corso di una telefonata con il premier polacco Matheusz Maraviecki, Benyamin Netanyahu ha sostenuto che "non è possibile paragonare le attività dei polacchi con quelle degli ebrei durante la Shoah". Ha però assicurato che il dialogo fra i due paesi continuerà.
Ciò "con la speranza che le reciproche équipe si incontrino presto per discutere la questione", rende noto un comunicato odierno dell'ufficio del premier israeliano.
Nel colloquio - si legge nel comunicato - Netanyahu ha precisato che "l'obiettivo della Shoah era la distruzione del popolo ebraico e che ogni ebreo in quanto tale si trovava in una condizione di 'condanna a morte'". Riferendosi alle rivendicazioni polacche per una revisione dei testi storici, Netanyahu ha notato che "non si può correggere la distorsione nei confronti della Polonia con un'altra distorsione".
Il colloquio si è comunque concluso, secondo l'ufficio di Netanyahu, con un tono conciliante: con "l'intesa" e cioè che il dialogo fra i due paesi continuerà e con "la fiducia" che esperti delle due parti si incontreranno presto.

(tvsvizzera.it, 18 febbraio 2018)


Netanyahu attacca l'Iran: "Non metteteci alla prova"

Il premier israeliano duro col ministro degli affari esteri iraniano in prima fila a Monaco di Baviera: "Questo drone è tuo, lo riconosci? Riportatelo a casa".

MONACO - Benjamin Netanyahu ha rivolto dure parole all'indirizzo dell'Iran alla Conferenza sulla Sicurezza a Monaco di Baviera. Il premier israeliano, brandendo un pezzo del drone iraniano abbattuto da Israele, sul proprio territorio, la scorsa settimana, ha accusato Teheran di "seminare il terrore in Medio Oriente" e ha tuonato: "Agiremo se necessario, non solo contro coloro che ci attaccano, ma contro l'Iran stesso".
   Netanyahu ha accusato l'Iran di voler "stabilire un impero dal Caspio al Mediterraneo". Il primo ministro israeliano si è rivolto alla platea in cui era seduto lo stesso capo della diplomazia iraniana, Mohammad Javad Sharif: "Non metteteci alla prova".
   Il frammento sarebbe parte del drone militare lanciato dalla Siria verso il territorio israeliano. "Ecco un pezzo del drone iraniano, signor Zarif, lo riconosci? Dovresti... E' tuo, riportatelo a casa". E ha continuato: "E riporta a casa anche un messaggio: non bisogna mettere alla prova la determinazione di Israele".
   Netanyahu si è rivolto anche personalmente contro Zarif, accusandolo di "mentire in modo eloquente". "Israele non permetterà al regime iraniano di mettere il cappio del terrore intorno al nostro collo". Infine il premier di Tel Aviv ha detto che l'Iran non è il regime nazista, ma gli assomiglia molto. Netanyahu ha paragonato l'accordo sul nucleare negoziato da Teheran con le grandi potenze, con quello di Monaco del 1938 firmato per placare Adolf Hitler.
   "Un accordo per pacificare, come 80 anni fa, ha solo reso il regime più determinato e reso più probabile la guerra. L'accordo nucleare con l'Iran è l'inizio del conto alla rovescia verso un arsenale nucleare iraniano. L'Iran cerca di dominare il mondo attraverso l'aggressione e il terrorismo, sviluppando missili balistici per raggiungere l'Europa e gli Stati Uniti: è la più grande minaccia per il mondo".
   Bibi è un fiume in piena, "la morbidezza non funziona", e ha invitato a "non ripetere gli errori del passato" e ad agire "prima che sia troppo tardi". "L'unica cosa positiva", ha concluso, "è che l'accordo ha portato arabi e israeliani più vicini che mai, e paradossalmente potrebbe portare a una pace ampia e magari anche a una pace tra Israele e Palestina".
Infine poco dopo il duro attacco verbale contro Teheran, il primo ministro israeliano ha espresso il cordoglio all'Iran per l'incidente aereo avvenuto sui monti Zagros. "Colgo quest'opportunità per inviare le condoglianze alle famiglie dei 66 civili che hanno perso la vita nell'incidente di oggi", ha detto Netanyahu. "Noi non abbiamo nulla contro il popolo dell'Iran, solo con il regime che li tormenta".

(Quotidiano.net, 18 febbraio 2018)


Trump: non digerisco i soldi dati da Obama a Teheran

Tweet del presidente Usa che si scaglia contro l'accordo sul nucleare

ROMA - "Non riesco a superare il fatto che Obama è stato in grado di dare 1,7 miliardi di dollari in contanti all'Iran e nessuno, né il Congresso, né l'Fbi o la Giustizia abbia aperto un'indagine!". E' il tweet del presidente Usa, Donald Trump, che torna ad attaccare l'accordo sul nucleare firmato dalle potenze mondiali e da Teheran.

(ANSA, 18 febbraio 2018)


Il dilemma del giudice Avichai che decide su Bibi l'invincibile

Il procuratore generale che dovrà giudicare le inchieste contro Netanyahu è un ex funzionario dello staff del premier. Ma ha sempre mostrato autonomia.

Regali da uomini d'affari
Il capo d'accusa classificato come "caso 1000" parla di doni fatti recapitare a Netanyahu, alla moglie Sarah e al figlio Yair: beni costosi, da sigari a bottiglie di champagne.
La registrazione
Il caso 2000 si basa su una registrazione del 2014 da cui emerge un presunto accordo con l'editore del quotidiano Yedioth Ahronoth, per scrivere articoli favorevoli al premier.
I sottomarini tedeschi
Il caso 3000 si riferisce invece a tangenti legate all'acquisto di sottomarini tedeschi Dolphins. È il caso più grave, ma è anche quello su cui si hanno meno prove.

di Vincenzo Nigro,

TEL AVIV - C'è un giudice a Tel Aviv, la sua casa è a pochi chilometri dal centro, dal lungomare di alberghi e dai grattacieli di Tel Aviv. Lì la città cambia nome, diventa Petah Tikva, ma ormai è un continuo di autostrade, grattacieli, centri commerciali. Ieri sera, come ogni sabato, i manifestanti che da mesi chiedono al giudice di incriminare il primo ministro Bibi Netanyahu, hanno provato a sfilare sotto casa sua. Ma questa volta non è stata la polizia a fermarli: Te! A viv ieri sera era rinchiusa nelle case, c'era qualcosa più vicino alla bufera che al semplice acquazzone, una vera tormenta. In centro, Iungo Rothschild Boulevard, la manifestazione più grossa ha provato a partire dalla casa in cui Ben Gurion fondò lo Stato di Israele. Il meteo ieri sera era schierato con Bibi, ma la tempesta passerà, e molti torneranno in piazza per chiedere conto delle inchieste che adesso sono nelle mani di quel giudice. Martedì scorso il capo della polizia Roni Alsheich ha chiesto che il premier venga ufficialmente incriminato per due casi in cui è accusato di corruzione, frode e abuso di potere. E la polizia continua a indagare su altri due casi, entrambi molto seri.
   Adesso tocca a lui: Avichai Mandelblit, il procuratore generale che fino a pochi anni fa era un oscuro magistrato militare e che Netanyahu, l'uomo di cui deciderà il futuro, ha portato a Tel A viv. Prima Mandelblit è stato promosso segretario del governo, poi "attorney generai", procuratore generale. È a quel giudice che adesso tocca decidere se Bibi deve essere processato. Mandelblit ha sul tavolo per ora due dossier: nel "caso 1000" ci sono le prove dei circa 230 mila euro di champagne, vini, gioielli e sigari che il produttore cinematografico Arnon Milchan gli ha consegnato in IO anni.
   Milchan è un personaggio incredibile: ex agente segreto per conto di Shimon Peres, a Los Angeles è diventato il produttore cinematografico milionario di film come "Prettywoman" o "C'era una volta in America". Un mostro di ricchezza e capacità: quando gli amerìcanì scoprirono questo suo passato di operazioni segrete per Israele, gli annullarono il visto permanente e a fatica iniziarono a concedergli un visto annuale. Milchan si rivolse all'amico Bibi, e Bibi intervenne per 3 volte addirittura su John Kerry. Nel caso 2000 non sono girati soldi o casse di champagne, ma Netanyahu è accusato di aver concordato con l'editore del giornale Yedioth Ahronoth una linea più favorevole a lui in cambio di leggi contro il giornale rivale Israel Hayom. Ma la polizia continua a indagare. "Caso 3000" è quello in cui Netanyahu ha fatto acquistare sommergibili e motovedette dalla Thyssen Kmpp tedesca per 1,8 miliardi di dollari. Lì i poliziotti sono a caccia di mazzette, hanno arrestato suo cugino che era anche il suo avvocato e un ex capo della Marina. L'ultimo caso, il numero "4000", riguarda traffici con la società di telecomunicazioni Bezaq, ancora se ne sa molto poco. Potrebbero passare anche 6-7 mesi prima della decisione di Mandelblit: David Horovitz, il direttore di Times of lsrael, dice che «il giudice non si prenderà tutto questo tempo, ha seguito ogni passo dell'inchiesta, la decisione sarà più rapida». E per l'uomo sarà una decisione drammatica. Mandelblit è diventato un religioso ortodosso per scelta, quando aveva 20 anni. È molto grato a Netanyahu che lo ha tirato fuori dalla terza fila di una carriera di magistrato militare. Ma tutti i segnali che ha dato fino ad oggi sono di indipendenza.
   Allo stesso tempo Bibi non è il premier normale di un paese normale: fra due anni diventerà il più longevo di Israele, un paese perennemente in guerra. Netanyahu governa da un ventennio, è stato ribattezzato "Mr Teflon" (come Reagan) o anche "Mr Sicurezza": il paese con lui ha avuto un progresso economico ampio. «Noi oggi lo consideriamo il nostro Nicolae Ceausescu, con sua moglie Sarah nel ruolo di Elena», scrive Gideon Levy, un giornalista di Haaretz assolutamente critico dell'establishment: «Ma siamo sicuri di cosa ci sarebbe dopo Netanyahu, non c'è un solo leader capace di generare un vero cambiamento». Il futuro dopo Bibi fa paura. Inevitabilmente, anche questo ci sarà nella scelta di Mandelblit.

(la Repubblica, 18 febbraio 2018)


Gerusalemme - Sconvolgente scoperta archeologica: "La Bibbia ha detto la verità"

 
La Bibbia ha raccontato quel che è veramente accaduto. La clamorosa sentenza arriva da Israele, dove gli archeologi dell'Israel Antiquities Authority hanno effettuato una scoperta rivoluzionaria. Gli scavi nella Città di David, il primo storico insediamento, hanno portato alla luce una serie di reperti e artefatti datati 600 avanti Cristo, ritrovati bruciati. Come spiega HuffingtonPost.it, si tratta di semi di vite, legno, ceramiche, ossa bruciacchiate, tutto ricoperto di cenere. La datazione è stata resa possibile dai sigilli visibili sopra gli oggetti, "caratteristici del periodo di costruzione del Primo Tempio", come ha spiegato il capo-archeologo Joe Uziel.
In pratica, la Città di David avrebbe subito un devastante incendio proprio nello stesso periodo indicato dall'Antico Testamento. Nel libro di Geremia (52, 12-13) si cita proprio un incendio, con queste parole: "Nel quinto mese, il dieci del mese, essendo l'anno decimonono del Regno di Nabucodònosor re di Babilonia, Nabuzaradàn, capo delle guardie, che prestava servizio alla presenza del re di Babilonia, entrò a Gerusalemme. Egli incendiò il tempio del Signore e la reggia e tutte le case di Gerusalemme, diede alle fiamme anche tutte le case dei nobili".

(Libero, 18 febbraio 2018)


Israele lancia un attacco contro la Striscia di Gaza

Colpiti diciotto obiettivi di Hamas

GERUSALEMME - Le Forze armate israeliane hanno colpito 18 obiettivi di Hamas tra ieri sera questa mattina, secondo quanto riferito dal quotidiano israeliano "Jerusalem Post" che cita una dichiarazione di un portavoce militare. Tra questi obiettivi vi erano due avamposti di Hamas e strutture per la produzione di armi. L'attacco è stato effettuato dall'Aviazione e da altre unità dell'esercito. Secondo quanto riportato dall'agenzia dell'Autorità nazionale palestinese "Wafa" due adolescenti palestinesi sono rimasti uccisi durante i raid aerei nella Striscia di Gaza. L'attacco giunge dopo che un ordigno esplosivo ha ferito ieri quattro militari mentre erano in pattuglia lungo il muro di confine che divide lo Stato di Israele dalla Striscia di Gaza. Nell'esplosione due militari hanno riportato ferite gravi. Fonti palestinesi citate dall'emittente israeliana "Reshet Bet" hanno affermato che i leader di Hamas hanno informato l'Egitto che erano interessati a intensificare l'attuale conflitto con Israele, ma che non erano responsabili dell'attacco contro i militari israeliani.

(Agenzia Nova, 18 febbraio 2018)


Da leggere nelle scuole

Affinché la Storia cessi di essere manipolata, un libro che mette ogni fatto nella giusta prospettiva e ci aiuta a comprendere anche il presente nel quale siamo

di Flaminia P. Mancinelli

Bambini in fuga, di Mirella Serri, Longanesi, pag. 256 - € 14,96
Un altro libro dedicato alle tragiche vicende correlate alla Seconda guerra mondiale, all'anti-ebraismo e alla persecuzione e assassinio di milioni di essere umani?
Ma se ne sentiva il bisogno?
Non si conosce già tutto quello che, storicamente, si deve sapere su quel periodo così buio della civiltà umana?
La risposta, dopo aver letto lo splendido lavoro di Mirella Serri, è decisamente: "No. Un libro come questo mancava".
Se poi aggiungiamo fenomeni come il revisionismo e il negazionismo, teorie che pur non avendo alcun fondamento storico, raccolgono adepti e manipolano coscienze, è ancor più necessario che lo si legga. Questo "romanzo" difatti non solo accresce le nostre conoscenze su un periodo devastante del nostro passato, ma ci consente di comprendere con maggiore lucidità il presente che stiamo attraversando. L'irrisolta "questione dei territori della Palestina" e la contesa città di Gerusalemme dilaniate tra due popolazioni diverse e opposte per credo religioso e formazione socio-culturale. Ebrei e arabi palestinesi, entrambi originari del ceppo sionista ma fedeli a due religioni monoteiste opposte, che non si muovono verso una conciliazione ma, al contrario, si combattono senza alcuna possibilità di reciproca empatia.
È per queste ragioni che per "I bambini in fuga - I giovanissimi ebrei braccati da nazisti e fondamentalisti islamici e gli eroi italiani che li salvarono" è un libro molto attuale. Difatti può aiutarci a comprendere le ragioni storiche e politiche che portarono - dalla fine degli anni Trenta - alcuni dirigenti europei a espropriare i territori abitati da popolazioni arabo-palestinesi per insediarvi gli ebrei dei quali il vecchio continente voleva disfarsi. Inoltrandosi nella lettura apprendiamo di quando e come Adolf Hitler - con la sua delirante ideologia sulla razza inferiore - decise di modificare quelle espulsioni in condanne a morte, mettendo in funzione i campi di sterminio per mettere in atto "la soluzione definitiva".
Quello messo in atto dal nazismo fu un meccanismo inumano e implacabile ma… Ma qualcuno riuscì a sfuggire alle sue maglie grazie all'impegno morale di uomini e donne, cui in seguito fu dato l'onorifico appellativo di "i Giusti".
Il Giusto, che conosciamo nelle pagine di Bambini in fuga, era un ragazzo poco più che ventenne, cui fu affidato un compito tanto al di sopra della sua preparazione ma non della sua forza di volontà: portare in salvo, lontano dai territori controllati dai nazisti, un nutrito gruppo di ragazzi ebrei, bambini e ragazze dai quattro ai diciott'anni, i cui genitori erano già stati "rastrellati" e inviati ai campi di sterminio…
Al racconto di questa vicenda, l'autrice alterna quella biografica di Amin al-Husaynt (1897-1974), colui che Hitler aveva definito "la volpe" e che, senza averne i meriti, divenne Gran Muftì di Gerusalemme, dichiarando guerra a oltranza al popolo ebraico. Attraverso la ricostruzione, ben documentata, della sua vita possiamo conoscere una figura un po' trascurata dagli storici e che comunque riuscì a non pagare per i crimini commessi, morendo quasi ottantenne senza aver mai conosciuto la prigione.
Oggi, quando si parla di "fondamentalismo islamico", di shiad e di sterminio degli ebrei darebbe importante rileggere gli atti di certi individui che - come il Muftì al-Husaynt - alimentarono il fuoco dell'odio e della violenza, rendendosi responsabili della morte di migliaia di ebrei.
È anche per questo che sarebbe necessario far leggere "Bambini in fuga" nelle scuole superiori delle nostre scuole. Al di là del racconto di una toccante vicenda umana, questo libro ci insegna a "leggere la Storia" e a comprendere l'origine di tante tragedie contemporanee e di quanto la realtà dei fatti possa essere mistificata.

(La Rivista, 18 febbraio 2018)


Siria, primo rovinoso scontro tra Usa e Russia

Uccisi o feriti in un attacco aereo dagli americani circa 200 tra consiglieri militari e mercenari di Mosca. Il Cremlino non commenta, ma fa trasparire la propria irritazione. El-Sisi lancia un’offensiva antiterrorismo nel Sinai

di Piero Orteca

Le cose in Siria stanno prendendo una brutta piega: circa 200 consiglieri militari russi (ma forse sarebbe più corretto parlare di mercenari) sarebbero stati uccisi o feriti, la scorsa settimana, nel corso di un’offensiva lanciata dalle milizie ribelli sunnite sostenute dagli Usa. Secondo gli specialisti del think-tank israeliano “Debka”, si tratta del primo grave incidente che vede coinvolte le due grandi potenze, che finora erano riuscite a far coesistere il loro interventismo con la necessità di evitare incontri ravvicinati, forieri di grosse rogne. L’attacco era diretto contro le forze governative di Damasco e i loro alleati sciiti. Iraniani ed Hezbollah. Tra i bersagli dell’offensiva coordinata dagli americani c’erano anche uomini della milizia sciita afghana, truppe pro-Assad delle Syrian National Defense Forces, esponenti di tribù arabe locali e, appunto, i mercenari russi assoldati da un contractor privato di Mosca, la “Wagner”.
   La manovra Usa è stata di quelle “a basso rischio”. Sono stati usati infatti aerei F-22 Raptor, F-15 Strike Eagles, Air Force AC-130 (meglio conosciuti come “cannoniere volanti”) ed elicotteri d’attacco al suolo “Apache”. Il tutto completato da un massiccio tiro artiglieria dei Marines. Nell’attacco pare che siano anche stati utilizzati piccoli reparti del Gruppo Operazioni Speciali. Il ribaltamento della strategia militare della Casa Bianca, che finora aveva accuratamente evitato di scontrarsi con i russi, era cominciato una settimana fa circa, quando erano state colpite squadre di ingegneri e tecnici di Putin incaricati di gettare un ponte mobile sull’Eufrate, nei pressi di Deir ez-Zour. Per la verità, gli americani erano anche intervenuti per arginare un attacco di siro-iraniani e di Hezbollah, condotto con carri T-55 e T-72, contro una base delle Syrian Democratic Forces, nei pressi di Tabiye.
   Il portavoce di Putin, Dimitri Peskov, ha evitato ogni commento sull’accaduto, aggiungendo che il suo governo si preoccupa di “contabilizzare” solo le perdite delle forze armate ufficiali e non si interessa della eventuale sorte dei mercenari ingaggiati da Damasco. In ogni caso, spifferi di corridoio parlano della crescente irritazione del Cremlino nei confronti di Trump, forse colpevole di rimangiarsi tutti gli accordi non scritti assunti con Mosca. Mai resi pubblici, perché l’affaire del “Russiagate” sta lievitando e rischia di travolgerlo rovinosamente.
   Intanto, la situazione resta bollente anche in altre aree della regione, dove, con un effetto-domino, si fanno sentire i contraccolpi della guerra in Siria. Per esempio, appare sempre più chiaro che il Sinai resta ormai una delle ultime frontiere del Califfato. Dopo la sconfitta sui campi di battaglia, le schegge impazzite dell’Isis, fiancheggiate dalle tribù beduine della regione, stanno cercando di fare della Penisola una nuova roccaforte del terrorismo. El-Sisi, presidente-generale egiziano, saltimbecca dall’odio viscerale per il radicalismo sunnita alla supponenza da condottiero, stile Tutmosi III. E non cede di un millimetro, rispondendo colpo su colpo. Sa di essere seduto su un barile di polvere da sparo, perché l’Egitto di oggi non è proprio un Giardino dell’Eden e la fame si taglia col coltello. Il passo, dalle rivendicazioni sociali allo scontento mascherato da “irredentismo” religioso è breve, e il rischio che il Paese salti in aria si fa sempre più concreto.
   Tutto questo basta e avanza per spiegare le continue operazioni di “contro-terrorismo” ordinate dal nuovo faraone nel Sinai, dove il grande Paese arabo si gioca la credibilità. Cosa che tradotta in maniera più prosaica significa, soprattutto, il materializzarsi di una bella catasta di dollari. Quelli depositati ogni anno grazie ai russi turistici che portano un fiume di valuta pregiata. Tutto questo spiega l’ultima “setacciata” contro i jihadisti che ha causato la morte di una sessantina di terroristi e la cattura di quasi settecento tagliagole, allievi di Abu Bakr al-Baghdadi. El-Sisi è costretto, quindi, a tenere alta la guardia. Alle sue spalle premono ottanta di milioni di senza-casta. Basterà giocare d’anticipo per evitare una possibile sollevazione, che sarebbe devastante?

(Gazzetta del Sud, 18 febbraio 2018)



«... per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani»

Quelli che erano stati dispersi per la persecuzione avvenuta a causa di Stefano, andarono sino in Fenicia, a Cipro e ad Antiochia, annunciando la Parola solo ai Giudei, e a nessun altro. Ma alcuni di loro, che erano Ciprioti e Cirenei, giunti ad Antiochia, si misero a parlare anche ai Greci, portando il lieto messaggio del Signore Gesù. La mano del Signore era con loro; e grande fu il numero di coloro che credettero e si convertirono al Signore.
La notizia giunse alle orecchie della chiesa che era in Gerusalemme, la quale mandò Barnaba fino ad Antiochia. Quand'egli giunse e vide la grazia di Dio, si rallegrò, e li esortò tutti ad attenersi al Signore con cuore risoluto, perché egli era un uomo buono, pieno di Spirito Santo e di fede. E una folla molto numerosa fu aggiunta al Signore.
Poi Barnaba partì verso Tarso, a cercare Saulo; e, dopo averlo trovato, lo condusse ad Antiochia. Essi parteciparono per un anno intero alle riunioni della chiesa, e istruirono un gran numero di persone; ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani.

Dal libro degli Atti, cap. 11

 


La Polonia è pronta a rivedere la legge sulla Shoah

Prima di incontrare Merkel a Berlino, il premier Matheus Morawiecki si è mostrato aperto alla possibilità di modificare la nuova norma

Varsavia, dopo scontri e polemiche sulla legge sulla Shoah, lancia un segnale di apertura: poche ore prima d'incontrare Angela Merkel a Berlino, il premier Matheus Morawiecki si è mostrato aperto alla possibilità di modificare la nuova norma, che prevede fino a tre anni di carcere, per chi attribuisca alla Polonia crimini commessi dai nazisti tedeschi.
La legge è già stata firmata dal presidente Andrejz Duda il 6 febbraio scorso, ma è stata inviata alla Corte costituzionale per una revisione. Se dovesse risultare che vada modificata, si potrà precisare la formulazione di alcuni passaggi, ha affermato il primo ministro alla radio polacca.
Di fronte alle critiche di chi sostiene che la misura potrebbe limitare la libertà di stampa e di espressione artistica, Morawiecki replica: "Non era questo il nostro intento". E che non tutti siano entusiasti dei gravi problemi diplomatici insorti con Israele, e delle critiche arrivate da mezzo mondo, lo dimostra anche il commento di una consigliera di Duda, Zofia Romaszewska, che ha liquidato l'argomento in modo secco: "Si tratta di una legge idiota e come tale probabilmente sarà cambiata".
È a Berlino poi, dove nessun giornalista osa chiedere direttamente di questo argomento, troppo sensibile in Germania, che il premier afferma fra l'altro: "Noi vogliamo che nel mondo non vi sia una cattiva impressione dei polacchi". Un principio di fondo, che ha ispirato anche la richiesta del presidente del Senato ai diplomatici in giro per il pianeta di segnalare chiunque offenda i polacchi: misura, questa sì, della quale la stampa tedesca chiede conto.
La cancelliera ha affrontato questi nodi in modo molto accorto: a proposito dell'Olocausto ha ribadito che "la Germania riconosce in modo chiaro le sue colpe e la propria responsabilità storica". E ha auspicato che i giovani tedeschi possano sempre andare numerosi ad Auschwitz a visitare il monumento alla Shoah, nel luogo che fu simbolo del genocidio ebraico.
La bilaterale con il nuovo premier del Pis, arrivato dopo il recente rimpasto, è occasione per sollecitare Varsavia anche sulla riforma della giustizia: "Intende modificare anche quella?", ha chiesto un giornalista tedesco. Sul punto Morawiecki ha replicato di essere assolutamente convinto che "alla fine l'apparato della giustizia uscirà migliorato e più efficiente" di quanto sia ora.
E ha aggiunto: "La giustizia sarà poco dipendente dalla politica, deve essere autonoma. E posso garantire che questo sia l'obiettivo finale". Si tratta del tema oggetto di una inedita procedura di sanzionamento da Bruxelles, sul quale i polacchi devono rispondere ai richiami della Commissione.
Dall'incontro con la cancelliera è emersa una volontà di scambio e confronto: "C'è un enorme potenziale nei nostri rapporti", ha detto Merkel, ma anche "molto lavoro da fare". Ci sono "punti comuni", come l'atteggiamento da tenere sulla Brexit e con la Russia, ha fatto eco il premier, e divergenze. In parte sui migranti e sulla valutazione di Nord Stream 2, il gasdotto che Morawiecki oggi è tornato ad attaccare, mettendo in guardia Berlino dall'aumento della sua dipendenza energetica dai russi.

(laRegione, 17 febbraio 2018)


Marcel Marceau: il Re del Mimo francese salvò centinaia di bambini ebrei

di Annalisa Lo Monaco

"L'arte del silenzio": così il grande mimo francese Marcel Marceau definì la sua straordinaria capacità di esprimere, senza l'ausilio della parola, la poesia della vita. Bip il Clown, il personaggio che lo ha reso famoso, era una maschera al tempo stesso comica e tragica, com'è del resto la realtà.
  Nella sua vita Marceau non si è distinto solo come attore, ma anche come coraggioso membro della Resistenza francese, durante l'occupazione nazista. Molti bambini ebrei chiusi in un orfanotrofio riuscirono a salvarsi dalla deportazione nei campi di sterminio: Marceau li condusse sani e salvi in Svizzera, grazie anche alla sua capacità di stupire con la mimica, usata per tenere buoni i piccoli.
  Marcel, il cui vero cognome era Mangel, apparteneva a una famiglia ebrea che viveva a Strasburgo, proprio vicino al confine con la Germania. A 16 anni comprese bene cosa avrebbe significato l'occupazione nazista, per sé e per la sua famiglia, che si trasferì a Limoges, nella Francia centrale.
  Marcel Mangel capì che avrebbe dovuto lottare per sopravvivere, e quando l'esercito francese capitolò davanti alle forze di invasione tedesche, decise di cambiare il cognome in Marceau, in onore di un generale della Rivoluzione Francese.
  Insieme al cugino George Loinger si unì alla Resistenza, ma non riuscì comunque a salvare il padre, che venne catturato e mandato ad Auschwitz, dove morì.
  Durante gli anni della guerra riuscì a sfuggire ai nazisti grazie a documenti falsi, cambiando spesso identità. La sua conoscenza dell'inglese e del tedesco, oltre che ovviamente del francese, lo rese adatto a diverse missioni, come tenere i collegamenti con il generale Patton, dell'esercito statunitense.
  Nel 1944, quando i nazisti volevano arrivare quanto prima alla soluzione finale, sterminando anche i bambini ebrei ormai rimasti orfani, Marceau si improvvisò eroe, e riuscì a salvarne molti.
  C'era un orfanotrofio appena fuori Parigi, che ospitava molti bambini ebrei. La loro evacuazione divenne indispensabile, perché entro breve sarebbero stati portati nei campi di sterminio nazisti. Marceau, impersonando un capo dei boy-scout, per tre volte portò via i piccoli dall'orfanotrofio, fingendo di accompagnarli a una gita in montagna. Non si sa molto di come il futuro mimo sia riuscito in quest'impresa, ma un piccolo particolare dà la misura della sua versatilità.
  Marcel, che all'epoca non era ancora il grande artista che poi diventò, era rimasto affascinato, già all'età di 5 anni, da Charlie Chaplin, soprattutto dal personaggio di Charlot, l'iconico vagabondo del cinema muto. Da bambino si divertiva a improvvisare scenette teatrali per i suoi amici, sullo stile di Charlot. Questa capacità gli tornò molto utile quando si trovò a dover tenere tranquilli molti bambini, durante un viaggio estremamente pericoloso: se fossero stati scoperti dai tedeschi nessuno di loro avrebbe avuto scampo. Marceau ideava personalmente delle pantomime che, come ha detto Phillipe Mora, il figlio di un amico e compagno d'armi di Marcel, servivano a "tenere i bambini tranquilli mentre scappavano. Non aveva nulla a che fare con lo spettacolo. Stava facendo il mimo per (salvare) la sua vita".
  Secondo George Loigner "I bambini adoravano Marcel e si sentivano al sicuro con lui. Aveva già iniziato a fare spettacoli nell'orfanotrofio, dove aveva già incontrato un mimo istruttore. Doveva sembrare che i bambini stessero semplicemente andando in vacanza in una casa vicino al confine svizzero, e Marcel li ha davvero messi a loro agio ". Geniale l'idea di tenerli in Arte che probabilmente gli salvò la vita quando, ormai verso la fine della guerra, si imbattè in un'unità di 30 soldati tedeschi. Usando la sua mimica finse di essere un soldato d'avanguardia di una consistente forza francese, e riuscì convincere i nazisti a ritirarsi.
  La sua prima esibizione in pubblico avvenne nel 1944 (dopo la liberazione di Parigi), davanti a tremila soldati americani, ma fu alla fine della guerra che iniziò a studiare mimo, e nel 1947 nacque il suo personaggio più famoso, Bip, il perdente per antonomasia che al tempo stesso è un simbolo di speranza, vestito con una camicia a righe e un cappello a cilindro ornato da un fiore rosso.
  Fino al 2001, quando gli è stata conferita la medaglia Raoul Wallenberg, Marceau non aveva mai parlato del suo passato nella Resistenza, perché le persone che sono tornate dai campi di concentramento non sono mai state in grado di parlarne… Mi chiamo Mangel. Sono ebreo. Forse questo, inconsciamente, ha contribuito alla mia scelta del silenzio.

(Vanilla Magazine, 17 febbraio 2018)


I santissimi peccatori

Grondano carineria e pure molestie. Dietro le ong, bande di furboni che incolpano l'occidente e Israele

Le ong inglesi hanno più dipendenti del Servizio sanitario e un budget superiore alla Difesa. La metà va in burocrazia Dalla Halo di Lady Diana alla Kids Company, alcune gloriose ong cadute in disgrazia per gli stipendi luculliani
Marie Stopes International, che pratica aborti, paga il proprio amministratore delegato con mezzo milione di sterline Più della metà delle donazioni dall'Inghilterra alla Siria è finita nelle mani dei gruppi di estremisti islamici e terroristi

di Giulio Meotti

In un occidente secolarizzato, le organizzazioni non governative sono i nuovi dèi, i santi laici del nostro tempo, i paladini della big society che ci sommergono di benevolente beneficenza e delle mirabilia offerte da questi virtuosi di professione in piena levitazione morale. Due diligence? Figuriamoci, il loro è filantrocapitalismo. Intoccabili, i nuovi santi, mica come i sacerdoti della chiesa cattolica, messi in ginocchio da inchieste di stampa e tv ed esposti al pubblico ludibrio.
   Eppure, gli ultimi mesi sono stati a dir poco infelici per le organizzazioni britanniche, le più antiche, nobili e gloriose, per storia e tradizione. Non è passata una settimana senza che una brutta notizia apparisse sui media.
   La commissione delle ong ha denunciato un ente benefico del Derbyshire - la National Hereditary Breast Cancer Helpline - dopo che era emerso che l'organizzazione aveva speso solo il tre per cento del suo budget in beneficenza nel 2014-15. Oltre 800 mila sterline erano andate in amministrazione e campagne pubblicitarie. Stanno diventando questo le ong, gli architetti del grande spettacolo dei nostri riti espiatori, la monotonia ripetuta di appelli a lenire i mali del mondo, grondano di carineria e grazie a loro possiamo vivere vicino a cataclismi lontani, tirano le fila della fantasia di redenzione in cui gli abitanti del sud del mondo sono collocati come lo sfondo su cui "i bravi ragazzi del primo mondo" possono mettere in risalto il senso di sé. Esotismo, avventure lontane, senso di colpa, è il gran bazar filantropico. La kermesse delle cause buone e giuste.
   "Molte associazioni sono mostri famelici che mettono al primo posto i propri interessi, non quelli dei bisognosi", scrive David Craig, autore di The great charity scandal. Le ong inglesi hanno più dipendenti del servizio sanitario e un budget superiore alla Difesa. E' una carità vaporosa, ammiccante, spesso spregiudicata, in cui c'è sempre tantissimo da perdere: reputazione, fiducia pubblica e donazioni. Sta affondando Oxfam, la ong inglese fra le più ricche e importanti al mondo, per una serie di scandali ad Haiti e in Africa. Usava i soldi per i terremotati per pagare festini sessuali, "orge in stile Caligola", con annesso silenzio da parte dei più alti dirigenti (stanno rotolando numerose teste dei quadri apicali di Oxfam).
   E' la stessa Oxfam che ha cacciato l'attrice di Sex and the city Kristin Davis, dopo che la diva ha fatto pubblicità all'azienda israeliana di cosmetici Ahava, e Scarlett Johansson, cacciata anche lei per aver lavorato con l'azienda israeliana Sodastream. Avrebbero prestato il proprio nome e volto per "opprimere i palestinesi". Intanto Oxfam ci metteva del suo per opprimere gli haitiani.
   Ma non è solo Oxfam. Ogni anno più di mille incidenti sulla protezione di bambini e le persone vulnerabili, come ha rivelato il regolatore del Regno Unito in seguito allo scandalo di Oxfam. Priti Patel, ex segretario internazionale per lo Sviluppo, ha accusato il settore degli aiuti di costruire una "cultura della negazione". Le cifre separate sulle molestie sessuali raccolte da associazioni di beneficenza nel 2017 hanno dimostrato che Oxfam ha registrato 87 episodi, Save The Children 31, Christian Aid due e la Croce Rossa britannica un "piccolo numero di casi" . Anche la ong del leader laburista David Miliband avrebbe messo a tacere 37 accuse di abuso sessuale, frode e accuse di corruzione. Miliband è il presidente dell'International Rescue Committee.
   Israele ne ha appena messe alla porte venti di queste organizzazioni non governative. In testa due ong britanniche, War on Want e la Palestine Solidarity Campaign, di cui Jeremy Corbyn è un patrono. Si tratta di organizzazioni che fabbricano accuse di "genocidio" e "crimini contro l'umanità" contro Israele.
   "E' considerato il settore degli angeli", dichiara Gina Miller, fondatrice di Miller Philanthropy e attivista per una maggiore trasparenza nel non profit. Alcune ong senza scopo di lucro hanno abusato del loro status di beneficenza. Nel 2013, il Cup Trust, che aveva raccolto donazioni per 176 milioni di sterline, si è rivelato essere - nelle parole del comitato per i conti pubblici di Westminster - un "veicolo per l'elusione fiscale" che ha dato solo 55 mila sterline alle cause umanitarie.
   Un altro ente di beneficenza più piccolo, il Melton Arts and Crafts Trust, è stato chiuso dopo che la Charity Commission non ha rilevato "alcuna prova di attività caritatevole". La storica Halo Trust, amatissima da Lady Diana che si faceva fotografare nei territori pieni di mine antiuomo, è stata scaricata dall'attrice Angelina Jolie che ha accusato i vertici della ong di trattenere per sé salari troppo elevati e di pagare profumatamente le consulenze. Due esperti sono stati pagati rispettivamente venticinquemila e centomila sterline per meno di due mesi di lavoro. E il capo della Halo, Guy Willoughby, prendeva 220 mila sterline all'anno.
   In ginocchio è finita la Kids Company, associazione per l'aiuto dell'infanzia, la cui fondatrice, Camila Batmanghelidjh, una signora originaria dell'Iran, spendeva cinquemila sterline al mese per affittare una casa con piscina, ma soprattutto donava 800 mila sterline a figure esterne all'associazione senza apparente motivo. Se non bastasse, c'è una inchiesta anche per abusi sessuali nella sua ong.
   Milioni di sterline di denaro pubblico destinate ad aiutare i veterani di guerra sono scomparse nel buco nero delle ong. E' lo scandalo del famoso fondo Libor da 35 milioni di sterline, istituito dall'allora cancelliere George Osborne per sostenere i veterani. Il Sunday Times ha scoperto che 933 mila sterline del fondo sono stati girati a una ong, il Warrior Program, che sottoponeva i veterani alla "terapia del tempo" e alla "programmazione neurolinguistica", tecniche descritte dagli psichiatri come pseudoscientifiche, non dimostrate e persino pericolose. Altre 414 mila sterline di denaro pubblico sono state date al Veterans Outreach Support, una ong dedita alla "terapia veterinaria craniosacrale", un'altra tecnica ritenuta a dir poco inutile dai medici.
   In Inghilterra, le organizzazioni filantropiche sono diventate un apparato famelico. Ci sono più di 195.289 organizzazioni di beneficenza registrate nel Regno Unito che raccolgono e spendono quasi 80 miliardi di sterline all'anno. Tutte assieme, le ong impiegano oltre un milione di dipendenti, in pratica più dei settori automobilistico, aerospaziale e chimico dell'Inghilterra. Gran parte delle ong più grandi e conosciute del Regno Unito sta spendendo meno della metà del proprio reddito ogni anno sulle opere di beneficenza. Lo ha rivelato un rapporto della True and Fair Foundation.
   Il rapporto "Un nido di calabroni" ha rivelato ad esempio che la British Heart Foundation ha speso in media solo il 46 per cento delle sue entrate in attività di beneficenza. Il rapporto sostiene che analizzando 1.020 organizzazioni non governative viene fuori che queste spendono la metà o meno dei loro soldi in buoni lavori. Quasi trecento ong spendono solo il dieci per cento in beneficenza e la Lloyd's Register Foundation addirittura soltanto l'uno per cento.
   Diciassette grandi organizzazioni con un bilancio annuo di cinquanta milioni di sterline o superiore spendono in media solo il 43 per cento in opere buone. Un'inchiesta del Mail on Sunday ha scoperto che i direttori di alcune ong arrivano a portare a casa pacchetti del valore di 618 mila sterline all'anno. L'Asia Foundation ha distribuito 2,25 milioni di sterline fra i suoi dieci membri più anziani (il presidente, David Arnold, ha ricevuto 387.156 sterline). Il capo di Save The Children, Helle Thorning Schmidt, ex primo ministro danese noto come "Gucci Helle" per i gusti raffinati e costosi, riceve 246.750 sterline all'anno. Marie Stopes International, la ong inglese degli aborti, paga il suo capo Simon Cooke 251.831 sterline in bonus, cui se ne aggiungono 168.924 di salario di base.
   In Inghilterra e Galles ci sono 1.939 associazioni di beneficenza attive incentrate sui bambini; 581 organizzazioni benefiche che cercano di trovare una cura per il cancro; 354 enti di beneficenza per gli uccelli; 255 enti di beneficenza per gli animali; 81 enti di beneficenza per persone con problemi di alcol e 69 enti di beneficenza che combattono la leucemia.
   Il dirigente più pagato della Croce Rossa del Regno Unito (bilancio di 228 milioni di sterline l'anno, 3.200 dipendenti) guadagna 210 mila sterline, con un incremento del 18 per cento. Greenpeace (bilancio 2011) spende due milioni e 482 mila euro per pubblicizzare e raccogliere fondi e meno di questa cifra, due milioni e 349 mila euro, per salvare animali in via di estinzione e foreste. Le sei maggiori organizzazioni di beneficenza contro la povertà hanno 142 dipendenti pagati 60 mila sterline all'anno o più e 17 con salari superiori a 100 mila sterline.
   Circa 27 mila organizzazioni di beneficenza britanniche dipendono dal governo per tre quarti o più dei loro finanziamenti. Senza denaro del governo, molte crollerebbero. Ma poi, tutto questo aiuto fa davvero bene? Su questo c'è grande dibattito. Dambisa Moyo, economista dello Zambia, ha denunciato che il primo mondo ha inviato oltre un trilione di dollari in Africa negli ultimi cinquant'anni. Lungi dal porre fine alla povertà estrema, questa favolosa somma l'ha promossa. Tra il 1970 e il 1998, quando gli aiuti per l'Africa arrivarono al loro apice, la povertà in Africa passò dall'11 per cento a uno sbalorditivo 66 per cento. Ovviamente ci sono altri fattori. Ma nel suo libro "Dead Aid" (pubblicato anche in Italia con il titolo "La carità che uccide"), Moyo afferma: "L'aiuto è stato e continua a essere un disastro politico, economico e umanitario assoluto per gran parte del mondo in via di sviluppo".
   E alcune ong hanno pure finito per finanziare il terrorismo islamico in quei paesi. Alcuni dei loro soldi sono "senza dubbio" finiti a gruppi estremisti, come ha affermato William Shawcross, presidente della Charity Commission. Si è passati dai 234 casi quattro anni fa agli attuali 630. Più della metà delle donazioni umanitarie del Regno Unito in Siria attraverso piccole ong sono finite nelle mani dell'Isis e di altri gruppi islamici, secondo il think-tank anti-radicalizzazione di Londra, la Quilliam Foundation.
   La ong Fatiha-Global sulla carta si occupava di portare supporto e aiuti ai profughi siriani in fuga dalla guerra, ma in realtà dirottava i fondi per comprare armi per lo Stato islamico. La Charity Commission del Regno Unito ha anche fatto sapere che i "convogli di aiuti" in Siria sono stati sfruttati dai jihadisti britannici. L'amministratore delegato della Fatiha, Adeel Ali, è stato fotografato in Siria a braccetto con i jihadisti del Califfato. Sono gli stessi che hanno staccato la testa al volontario inglese Alan Henning, in Siria per conto delle sussidiarie della Fatiha. La carità che uccide.

(Il Foglio, 17 febbraio 2018)


Arkia apre la rotta Catania Fontanarossa-Tel Aviv Ben-Gurion

 
L'aeroporto di Catania si arricchisce di un nuovo collegamento aereo con Tel Aviv operato dalla compagnia aerea israeliana Arkia disponibile dal 28 maggio al 5 ottobre con due frequenze settimanali il lunedì e venerdì. Nel periodo di maggior traffico verrà introdotta una terza frequenza il mercoledì.
Atterra all'aeroporto di Tel Aviv-Ben-Gurion vicino alla città di Lod, 15 chilometri (9 miglia) a sud-est di Tel Aviv. Dall'aeroporto, per andare verso Gerusalemme, dovete prendere gli autobus 945 e 947 della compagnia Egged che passano all'incirca ogni mezz'ora dalle 05:30 alle 21:00. Una delle opzioni più comode, economiche e popolari è, sicuramente, quella del Monit Sherut, un taxi collettivo che parte davanti agli Arrivi dell'aeroporto e vi porta (esattamente come un taxi) direttamente alla vostra destinazione finale.

 Cosa vedere a Gerusalemme
  La città di Gerusalemme è un luogo ricco di storia, monumenti e musei in cui convivono ebrei, musulmani e cristiani. Il Muro del Pianto è sicuramente uno dei luoghi più suggestivi, poiché è il punto di raccolta per la preghiera ed è inoltre un'area protetta e sorvegliata per motivi di sicurezza.
Un luogo veramente sacro ai cristiani è la Basilica del Santo Sepolcro, attorno alla quale si sviluppa il Quartiere Cristiano. All'interno si trova la pietra sulla quale venne steso Gesù per essere preparato alla sepoltura,
La Porta di Damasco permette di accedere ad un quartiere davvero particolare ovvero quello arabo, che appare subito come un bazar in cui vi è un mix di profumi di spezie, pane ed altri aromi che si mescolano nell'aria creando un'atmosfera davvero unica.

(Catania mobilita.org, 16 febbraio 2018)


Gerusalemme, la Palestina chiede alla Santa Sede di alzare la voce

di Iacopo Scaramuzzi

CITTÀ DEL VATICANO - I ripetuti appelli del Papa e della Segreteria di Stato dopo che il presidente Donald Trump ha annunciato di voler spostare l'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme non sono stati sufficienti «per convincere gli israeliani a non fare attacchi e pressioni sulle Chiese locali», ad esempio con la recente decisione di innalzare le tasse. E per convincere Trump «a tornare sulla propria decisione», e per questo lo Stato palestinese ritiene che «la voce cristiana» - non quella «evangelica» che sostiene l'inquilino della Casa Bianca - «debba essere ascoltata di più». Ne è convinto il ministro degli Esteri palestinese, Riyad al-Maliki, che ha incontrato giovedì il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin e il monsignore, "ministro degli Esteri", Paul Richard Gallagher per sottolineare «il legame cristiano» della Città Santa e proporre alla Santa Sede di promuovere una «conferenza» con le Chiese della regione e del mondo per esprimere la loro preoccupazione per la mossa di Trump e le sue implicazioni «sulla stabilità e la pace nella regione». In questo colloquio con un gruppo di giornalisti, il responsabile della diplomazia palestinese racconta cosa è emerso nel suo incontro con i responsabili della diplomazia vaticana.
«Abbiamo richiamato la loro attenzione sulle implicazioni della decisione presa dal presidente Trump di attribuire a Gerusalemme il titolo di capitale di Israele e stabilire così un legame esclusivo con l'ebraismo, abbandonando il legame cristiano e musulmano della città e ignorando l'idea che Gerusalemme est sia capitale della Palestina. Abbiamo detto loro che questa decisione sta minando la possibilità di riprendere i negoziati, perché se Gerusalemme viene tirata fuori dal tavolo come possiamo convincere Israele a sedere al tavolo e negoziare sul futuro di Gerusalemme? Abbiamo detto loro che tale decisione sta complicando ancora di più i già complicati rapporti tra noi e gli israeliani, perché introdurre una dimensione religiosa al conflitto complica le cose, e abbiamo detto loro che è molto importante che Trump ascolti la voce cristiana della Santa Sede e delle diverse Chiese cristiane presenti non solo in Palestina ma nella regione e nel mondo, l'interesse che i cristiani hanno per Gerusalemme, il legame che hanno con Gerusalemme, la storia che hanno a Gerusalemme, tutte cose che non dovrebbero essere cancellate dalla decisione unilaterale di Trump: dovrebbe ascoltare queste voci perché le voci cristiane che sostengono Trump sono voci evangeliche che non sono realmente cristiane. Per questo la Santa Sede a nostro avviso dovrebbe prendere l'iniziativa di portare insieme le diverse Chiese cristiane per esprimere la loro preoccupazione e ricordare al presidente Trump e agli israeliani che i cristiani hanno un interesse per Gerusalemme e un legame non solo morale ma anche storico e religioso che non può essere ignorato e cancellato. Noi come leadership palestinese rappresentiamo sia i musulmani che i cristiani, la nostra popolazione è sia cristiana che musulmana e anche samaritana, e continueremo a combattere per Gerusalemme città aperta per tutte le religioni dove possano venire e beneficiare della città e di ciò che essa rappresenta dal punto di vista religioso. Noi siamo per l'inclusività, non per l'esclusività delineata dalla decisione del presidente Trump o dal modo in cui Israele afferma che Gerusalemme è l'esclusiva capitale eterna di Israele, ignorando che sia la capitale della Palestina e cancellando totalmente i legami cristiani e musulmani della città».

- Quale è stata la risposta del cardinale Parolin e di monsignor Gallagher alle vostre richieste?
  «Hanno mostrato preoccupazione. Noi abbiamo parlato dello Status quo che deve essere protetto e preservato e rispettato da tutte le parti, la situazione di Gerusalemme non può essere imposta unilateralmente dalla decisione di Trump o dalla decisione di unificazione di Israele in violazione della legge internazionale e degli accordo di Oslo. Da parte della Santa Sede abbiamo sentito comprensione su quello che succede e sulla posizione palestinese e abbiamo visto una chiara preoccupazione per l'impatto che la decisione di Trump può avere sulla situazione della nostra regione e su come questa decisione, portando la dimensione religiosa nel conflitto, complicherà ulteriormente la situazione. Noi diciamo sempre che se mantieni il conflitto a livello politico puoi trovare soluzioni, ma quando introduci la dimensione religiosa complichi la situazione. A livello politico il conflitto è tra israeliani e palestinesi, con una dimensione religiosa sarà aperta a ogni musulmano, cristiano o ebreo del mondo, ogni musulmano in Indonesia, Malesia o Senegal sentirà che ha la responsabilità e l'obbligo di fare qualcosa per proteggere i suoi interessi religiosi, lo stesso vale per i cristiani e gli ebrei, e questo complica ulteriormente la situazione. Abbiamo sentito da parte della Santa Sede questo tipo di preoccupazione, preoccupazione su come la situazione sta deteriorando e preoccupazione perché riprendere i negoziati sta diventando più difficile. Abbiamo detto loro che Israele ha approfittato della decisione di Trump e hanno iniziato a prendere iniziative contro la presenza delle Chiese locali a Gerusalemme, cercando di rendere loro la vita difficile, imponendo tasse, congelando i conti in banca, prendendo il controllo delle loro proprietà. È una pressione tesa a forzare le Chiese locali fuori da Gerusalemme, per cercare di cambiare la città e renderla più ebraica, anziché condivisa da cristiani, ebrei e musulmani. È molto chiaro che c'è una campagna del governo e della municipalità per porre pressione sulle Chiese cristiane e forzarle a limitare la loro presenza, la loro attività sociale e i loro servizi alle comunità locali».

- Dopo la decisione di Trump il Papa e la Segreteria di Stato hanno già fatto più volte appello per Gerusalemme: cosa altro chiedete?
  «È vero, il Papa ha già parlato tre o quattro volte, la Segreteria di Stato è già intervenuta. Lo riconosciamo. La questione è: è abbastanza per prevenire un ulteriore deterioramento della situazione e dei cristiani in Terra Santa? Solo ieri le autorità israeliane hanno imposto tasse sulle Chiese locali, questo significa che stanno cercando di comprimere la presenza e i servizi della Chiese locali. È chiaro che quello che è stato detto dal Papa e dalla Segreteria di Stato non è stato sufficiente a convincere gli israeliani a non fare attacchi e pressioni sulle Chiese locali e a convincere Trump a ribaltare la propria decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele negando il legame cristiano e musulmano della città. È chiaro che la voce cristiana debba essere ascoltata di più e il presidente Trump riconosca la dimensione cristiana di Gerusalemme. Per questo abbiamo pensato che ci fosse una conferenza organizzata dal Vaticano affinché le diverse Chiese esprimano la preoccupazione sulle implicazioni di tale decisione sulla stabilità e la pace nella regione e sulla presenza delle Chiese cristiane, specialmente a Gerusalemme, sarebbe molto importante affinché l'amministrazione israeliana e quella statunitense realizzino che ci sono interessi cristiani da riconoscere e che le Chiese cristiane non rinunceranno ai loro diritti e a al loro legame con Gerusalemme che faranno il possibile per mantenere. Vorrei poi aggiungere che i palestinesi cristiani di Gerusalemme e della Terra Santa si sentono abbandonati sotto l'enorme pressione delle autorità israeliane. Stanno attaccando le chiese, alzano le tasse, i cristiani locali sentono di essere presi di mira dalle politiche e dalle azioni israeliane. Faccio pochi esempi: c'è un piccolo villaggio a nord di Betlemme, Beit Jala, dove ci sono anche chiese e ora gli israeliani hanno deciso di confiscare il terreno a 58 famiglie cristiane; abbiamo parlato al Vaticano che ha sollevato la questione con gli americani e gli israeliani e continuano a tenere le famiglie fuori dall'area. Lo consideriamo una chiara intenzione a spingere i cristiani fuori dalle loro terre e dalla Terra Santa. A Gerusalemme est, inoltre, hanno confiscato le carte di identità delle famiglie cristiane. È chiaro che i cristiani a Gerusalemme sono presi di mira, e se non si sentono protetti dal Vaticano e dalle Chiese chi li proteggerà? Quando parliamo di legame cristiano con Gerusalemme non parliamo solo di pietre ma di persone viventi, sì una storia, di persone e famiglie che erano lì dai tempi di Gesù Cristo, una presenza cristiana continua. Eliminarla per convincere tutti che Gerusalemme è esclusivamente ebrea è inaccettabile, per la Santa Sede e per l'Autorità palestinese. I cristiani palestinesi erano lì prima dei musulmani palestinesi: noi siamo fieri del legame cristiano con la Terra Santa e faremo il possibile per mantenerlo».

- Il cardinale Parolin e monsignor Gallagher come hanno risposto alla specifica richiesta di una conferenza cristiana su Gerusalemme?
  «Non ho visto alcuna obiezione all'idea che la Santa Sede guidi un'iniziativa del genere o svolga il ruolo di principale promotore. Ho avuto la sensazione, quando abbiamo parlato di questa idea, che l'atmosfera fosse positiva: nessun rifiuto o obiezione, ho avuto l'impressione che l'idea sia stata ben ricevuta e abbiamo anche sviluppato il concetto».

- Lei ha detto che introdurre una dimensione religiosa, anziché rimanere nella dimensione politica, complica il conflitto. Ma il recente vertice dei Paesi musulmani su Gerusalemme che si è svolto a Istanbul non ha già introdotto una connotazione religiosa che può mettere a repentaglio il processo di pace?
  «Come leadership palestinese abbiamo sempre cercato di tenere fuori la dimensione religiosa fuori perché siamo preoccupati che introdurla renderebbe tutto più complicato, nonché fuori controllo. Possiamo controllare la nostra gente, non le manifestazioni a Giacarta, Kuala Lampur o Dakka, o anche nelle strade di Londra, questo è molto chiaro. Ma nel momento in cui il presidente Trump ha detto "riconosco i 4mila anni di presenza ebraica nella città", ha introdotto la dimensione religiosa. Immediatamente i membri della Organizzazione della Cooperazione islamica, che riunisce i Paesi musulmani, hanno sentito che era loro obbligo reagire e hanno convocato un vertice straordinario a Istanbul per dimostrare che i Paesi musulmani non accetteranno questa affermazione che nega la dimensione musulmana della città. Abbiamo pensato che non potevamo fare qualcosa del genere con i Paesi cosiddetti cristiani, perché non ci sono Paesi cristiani in quanto tali: abbiamo parlato ai Paesi europei, che sono cristiani, a quelli dell'America latina, che sono prevalentemente cattolici, ed hanno espresso preoccupazione, ma sono laici e non possono parlare a nome dei cristiani. Abbiamo chiesto loro di reagire a livello politico, e abbiamo chiesto alle Chiese di questi Paesi di prendere iniziative. Per questo l'idea di organizzare una conferenza della Chiesa mondiale mostra che la dimensione cristiana non è assente, c'è ed è pronta ad impegnarsi in questa direzione».

- Qual è la posizione ufficiale palestinese sul Patriarcato ortodosso greco, criticato da alcuni gruppi palestinesi per la gestione delle proprietà?
  «All'interno della comunità palestinese alcuni sono molto critici della Chiesa ortodossa perché sui mass media sono arrivate informazioni relative al fatto che stavano vendendo proprietà palestinesi ai coloni (gli israeliani degli insediamenti, ndr) e questo ha fatto infuriare tutti palestinesi perché la proprietà è certamente controllata dalla Chiesa ma in definitiva è proprietà palestinese e la Chiesa non ha alcun diritto a venderla ai coloni. Dalla nostra prospettiva è un tradimento. Ma come Governo non possiamo controllare la reazione dei singoli individui. Quando succede un incidente, ad esempio quando hanno attaccato la macchina del patriarca, abbiamo indagato e punito i responsabili, cerchiamo di imporre legge e ordine e proteggere la Chiesa. Se c'è qualsiasi problema sappiamo come affrontarlo a livello ufficiale. Ma non puoi controllare le reazioni dei singoli individui. Adesso c'è un caso specifico relativo alla porta di Jaffa nella Città vecchia di Gerusalemme (l'ex patriarca aveva venduto la proprietà ad alcuni coloni ebraici, successivamente il Patriarcato si è opposto alla vendita avviando un contenzioso in tribunale, ndr) e siamo pronti a fornire loro qualsiasi cosa necessaria per mostrare alla corte come stanno le cose. Dobbiamo proteggere la proprietà della Chiesa e cooperare con loro per proteggere la loro proprietà. Al tempo stesso è nostro obbligo dire alla nostra gente che se ci sono problemi ci sono modi per affrontarli, stabilire cosa è vero e cosa non è vero, e gestirlo senza reagire attaccando la macchina del patriarca. Quando è successo abbiamo chiesto scusa, abbiamo aperto una indagine formale e abbiamo preso misure contro i singoli individui responsabili e siamo pronti a impiegare ulteriori misure di sicurezza perché eventi del genere non si ripetano all'interno della Palestina».

(Vatican Insider nel Mondo, 16 febbraio 2018)


Cari pacifisti, quando una flottilla contro l'occupazione di Hamas a Gaza?

di Giulio Meotti

L'11 settembre 2005, il disimpegno fu completato. E la Cnn annunciò: "La bandiera israeliana è stata ammainata su Gaza, a simboleggiare la fine di 38 anni di occupazione israeliana del territorio palestinese, due settimane prima del previsto". Terminò così l'evacuazione delle "colonie" israeliane. Da allora, salvo i quattro orribili anni in cui il caporale Gilad Shalit è stato tenuto in ostaggio da Hamas senza vedere un giorno di luce, non un solo israeliano si trova nella Striscia di Gaza. Ma da allora, "l'occupazione israeliana di Gaza", spesso sotto il termine "assedio", è diventato un mito. Ora se ne riparla, sui media di tutto il mondo, anche italiani, a causa della nuova "crisi umanitaria" a Gaza, la mancanza di luce ed elettricità.
   Hamas ha speso 120 milioni di dollari in armi e tunnel dal 2014. Avrebbe potuto costruirci 1,500 case, 24,000 letti di ospedale, 6 cliniche mediche e 3 impianti per l'acqua. L'unica elettricità che i palestinesi hanno a Gaza gliela passa Israele e l'Anp si rifiuta di pagare le bollette della luce. Anzichè i tunnel, i palestinesi avrebbero potuto scavare i pozzi per cercare l'acqua. E anziché usare l'elettricità per fabbricare i missili da lanciare su Israele, avrebbero potuto usarla per costruirci un impianto di desalinizzazione. Israele ne è leader mondiale. Sono certo che gli israeliani sarebbero felici di aiutarli.
   Ma Hamas vuole lasciare i palestinesi nella miseria per sfruttarla, mungere la comunità internazionale e usare i soldi per fare la guerra a Israele e stiparli nei conti bancari all'estero. Ci sono, infatti, tanti, troppi soldi in ballo. Prendiamo i dati al 2014, all'ultima guerra di Gaza. 94 milioni di etiopi ricevono la metà degli aiuti che vanno ai 4,2 milioni di palestinesi. E la Liberia? Sono 4,3 milioni, come i palestinesi. Ma hanno avuto soltanto 571 milioni di dollari di aiuti. E il Kenya? Sono 44 milioni e ricevono 2,7 miliardi di aiuti. Col Piano Marshall, l'America distribuì 60 miliardi di dollari (rapportato a oggi) agli europei ricostruendola dopo la Seconda guerra mondiale. Secondo la Banca Mondiale, dal 1994 a oggi i palestinesi hanno ricevuto 31 miliardi di dollari in aiuti. Soldi finiti in gran parte nei tunnel del terrore.
   La situazione per Gaza cambierà quando vedremo annunci di questo tipo: "Gaza, senza elettricità, ha emesso un mandato di cattura per i capi di Hamas che hanno dirottato miliardi di aiuti umanitari nei loro conti bancari privati". Di Khaled Meshaal, capo di Hamas per vent'anni, si stima una ricchezza personale di 2,6 miliardi di dollari nei conti nel Golfo. Il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, ha comprato una villa a Rimal, quartiere ricco di Gaza City. E il suo vice, Mousa Abu Marzouk, ha una fortuna personale. Per loro, l'elettricità non manca mai.
   Cari pacifisti e giornalisti, quando vedremo articoli di giornale, proteste di piazza e flottille contro "l'occupazione di Hamas"? Sarebbe un giorno davvero epocale.

(Progetto Dreyfus, 16 febbraio 2018)


L'insistenza di Trump sulla pace in Medio Oriente causa frizioni con Israele

NEW YORK - Il presidente Donald Trump sembra aver ricalibrato la sua linea di politica estera nei confronti di Israele, dopo aver sostenuto il primo ministro Benjamin Netanyahu in ogni occasione. È quanto riporta il quotidiano "New York Times", ricordando che, ancor prima dei recenti "guai" del premier israeliano, la Casa Bianca aveva smentito di aver discusso di annessioni di porzioni della Cisgiordania e Trump aveva espresso dubbi sulla disponibilità di Israele ad affrontare apertamente un accordo di pace. Il segretario al dipartimento di Stato Rex Tillerson ieri ad Amman ha dichiarato che il piano di pace della Casa Bianca è ad uno "stadio avanzato" e che "deciderà il presidente quando riterrà opportuno presentarlo" alle parti. La mancanza di segnali visibili e il cono di silenzio che avvolgono l'iniziativa di pace, secondo il "Nyt", hanno sollevato dubbi sull'esistenza stessa di un piano. Alcune autorità tuttavia hanno affermato che il progetto concepito dal genero del presidente, Jared Kushner e da Jason Greenblatt è dettagliato e concreto, tanto che il presidente si espone a possibili frizioni con il leader di Israele proprio per la sua determinazione a portare fino in fondo l'accordo di pace.

(Agenzia Nova, 16 febbraio 2018)


Giudici israeliani: "Dare asilo a chi fugge dall'esercito eritreo"

Una sentenza di un tribunale d'appello di Gerusalemme, resa pubblica nelle scorse ore, potrebbe cambiare lo stato della cose rispetto al delicato tema dei migranti in Israele. La decisione della Corte, che si occupa di immigrazione, sembra infatti incidere sul modo in cui sono accolte le richieste d'asilo presentate da migliaia di cittadini eritrei attualmente in Israele e potrebbe bloccare - almeno parzialmente - il piano di espulsione dei migranti deciso dal governo a partire dal Primo aprile.
   Il giudice Elad Azar, riporta il quotidiano online ynet, ha criticato l'Autorità statale che si occupa della questione migranti (Autorità per la popolazione e l'immigrazione) per non aver esaminato singolarmente le richieste di asilo provenienti da persone eritree, scegliendo invece di respingerle a priori. Azar contesta in realtà anche la posizione del ministero dell'Interno su cui si fondano i provvedimenti della citata autorità: secondo il ministero, "il semplice atto di aver evitato o disertato l'esercito eritreo non costituisce di per sé motivo per ottenere lo status di rifugiato". "L'appellante - scrive invece il tribunale di Gerusalemme - ha dimostrato con sufficiente validità come vi sia un fondato sospetto di persecuzione a causa delle opinioni politiche attribuitegli dal regime del suo paese per il fatto di aver disertato l'esercito". La Corte ha poi stabilito che venga concessa al ricorrente lo status di rifugiato entro 45 giorni. La decisione a questo punto potrebbe toccare anche migliaia di altre persone provenienti dall'Eritrea (sono 28mila in Israele) e su cui pende il provvedimento d'espulsione (contro cui sono state organizzate diverse manifestazioni): molti eritrei infatti raccontano di essere fuggiti da un regime restrittivo in cui gli uomini sono costretti a prestare servizio militare in condizioni di schiavitù. A tanti è già stata respinta la richiesta di asilo ma la sentenza della Corte di Gerusalemme potrebbe portare a una revisione della loro situazione.

(moked, 16 febbraio 2018)


La Città Santa vuol far pagare le tasse alle Chiese

Il sindaco di Gerusalemme contro edifici religiosi e delle Nazioni Unite, finora esentati.

Tensione a Gerusalemme tra le Chiese e il sindaco Nir Barkat che esige che centinaia di immobili religiosi e delle Nazioni Unite paghino le tasse comunali, da cui finora erano stati esentati. L'obiettivo del municipio, ha spiegato il giornale Israel ha-Yom, è raccogliere una cifra che dovrebbe ammontare a 650 milioni di shekel, circa 150 milioni di euro. L'iniziativa - giunta in apparenza a sorpresa per gli interessati - ha innescato la reazione dei Capi delle Chiese di Gerusalemme: "Contrasta con la posizione storica delle Chiese nella Città santa rispetto alle autorità civili nel corso dei secoli". In passato quelle autorità civili "hanno sempre riconosciuto e mostrato rispetto - hanno scritto in un documento-per il grande contributo delle Chiese cristiane, che hanno investito miliardi nella Terra santa nella costruzione di scuole, ospedali e case a beneficio degli anziani e dei bisognosi". Sta adesso al sindaco, affermano, revocare la sua decisione e confermare lo status quo.
   Una portavoce del sindaco ha assicurato che "il municipio mantiene contatti buoni e rispettosi con le Chiese della città. Continuerà a provvedere alle loro necessità e a garantire piena libertà di culto". Le esenzioni dalle tasse municipali (Arnona, in ebraico), ha precisato, resteranno sempre in vigore per i luoghi di preghiera. "Ma non possiamo esentare invece - ha aggiunto - alberghi, sale ed esercizi per il semplice fatto che sono di proprietà delle Chiese. Essi sono utilizzati per attività commerciali". Spiegazioni che non convincono i Capi delle Chiese. Nel documento - sottoscritto da una quindicina di religiosi fra cui l'amministratore apostolico del Patriarcato Latino Pierbattista Pizzaballa e il Custode di Terra Santa Francesco Patton, oltre al Patriarca greco-ortodosso Teofilo III - si avverte che la politica del sindaco "mina alla base il carattere sacro di Gerusalemme, e minaccia la capacità della Chiesa di condurre il proprio ministero in questa terra a beneficio delle sue comunità".
   Da parte sua il municipio indica già una via di uscita dalla crisi e ne addossa la responsabilità al governo israeliano il quale, afferma, ha imposto alla popolazione di Gerusalemme il fardello delle esenzioni dalle tasse municipali per quelle istituzioni. Perciò o il governo, per continuare a onorare gli impegni con le Chiese e con l'Onu, indennizzerà il municipio per i mancati proventi, oppure quelle tasse saranno effettivamente riscosse.
   Secondo il quotidiano Israel ha-Yom la vicenda rientra nelle tensioni maturate negli ultimi mesi fra il sindaco Barkat che aspira a diventare un protagonista politico, possibilmente nelle fila del Likud - e il ministro delle Finanze Moshe Kahlon, accusato dal municipio di non aver destinato a Gerusalemme fondi necessari.

(il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2018)


«...
la politica del sindaco "mina alla base il carattere sacro di Gerusalemme» dicono in coro il Patriarca Latino Pierbattista Pizzaballa insieme al Custode di Terra Santa Francesco Patton e al Patriarca greco-ortodosso Teofilo III. Dunque alla base del carattere sacro della Città Santa ci sarebbero i soldi, quelli delle tasse. Tasse che non devono essere pagate quando si tratta di edifici gestiti da preti, affinché non sia perso il carattere sacro della Santa Città. La sacralità dei preti è sempre strettamente legata ai soldi. Si veda l’articolo che segue. M.C.


Cara Chiesa, quanto ci costi!

di Federico Tulli

La cifra più nota che la Chiesa incassa dai contribuenti italiani ogni anno è senza dubbio il miliardo di euro determinato dal meccanismo dell'otto per mille ideato nel 1984 da Giulio Tremonti ed entrato in vigore con il Concordato bis del 18 febbraio 1984. Ma le voci in uscita (dalle nostre tasche) e in entrata nelle casse vaticane sono numerose, molto più di quanto si tende a pensare. E l'otto per mille non è nemmeno quella più rilevante, Da alcuni anni la Uaar-Unione degli atei e degli agnostici razionalisti ha iniziato a censirle aggiornando la stima elaborata su un sito internet che vi invitiamo a consultare. Secondo l'ultimo rilevamento nel 2017 la somma complessiva si è aggirata intorno ai 6,5 miliardi di euro. Questa sorta di mini finanziaria serve a soddisfare ogni sorta di necessità ecclesiastica, come si può vedere dalle tabelle pubblicate in questo servizio. Si va dal miliardo e 200mln erogati dallo Stato per gli stipendi degli insegnanti di religione nella scuola pubblica, agli 800 milioni per le convenzioni su scuole private e sanità "ecclesiastica", alle diverse centinaia di milioni con cui lo Stato e gli enti locali finanziano i "grandi eventi" ecclesiastici. E poi ci sono i circa 600 milioni di euro per le mancate entrate derivanti dalle esenzioni Imu (Ici, Tares, Tasi), altri 400 mln tra riduzioni Ires e Irap ed esenzione Iva ed esenzioni doganali, il restauro e la manutenzione degli edifici di culto (200mln) e così via.

(Left, 16 febbraio 2017)


Un'altra dittatura araba. Il bavaglio di Abu Mazen silenzia media e social

Chi critica l'Autorità palestinese rischia multe e galera. Ma uccidere israeliani resta «eroismo». Dopo l'ultimo arresto i professionisti dell'informazione lanciano la campagna per la libertà

di Lorenza Formicola

Da qualche settimana i giornalisti palestinesi hanno deciso di ricominciare la loro campagna contro l'aggressione dell' Autorità palestinese alla libertà di espressione. Complice l'ultima vittima, Tareq Abu Zeid. Un giornalista accusato di «incitamento» e di «mettere in pericolo la sicurezza dello Stato della Palestina».
  Lo scorso giugno Abu Mazen - presidente dell'Autorità palestinese (Ap) - ha firmato una strana legge sulla criminalità informatica palestinese. Una nuova legge nata dal tentativo di mettere a tacere e intimidire giornalisti e oppositori politici dell'Ap e del suo presidente.
  All'articolo 4 del testo di legge che non ha neanche un anno si può leggere:
  1. Qualsiasi persona che abbia violato intenzionalmente e illegittimamente un sistema o una rete elettronica, che abbia abusato di qualsiasi tecnologia informatica o anche di una parte di essa, o che abbia violato l'accesso autorizzato, è passibile di pena detentiva, una multa dai duecento ai mille dinari giordani o una combinazione tra le due sanzioni.
  2. Se l'atto specificato nel paragrafo (1) di questo articolo è commesso contro qualsiasi dichiarazione ufficiale del governo, il colpevole sarà punito con la reclusione per un periodo di almeno sei mesi, o con una multa non inferiore a duecento dinari giordani.
Continuando, nel medesimo articolo della legge si può leggere che se l' «abuso» riguarda le informazioni del governo, la sentenza prevede «un minimo di cinque anni di lavoro forzato temporaneo e occorrerà pagare una multa non inferiore a 5mila dinari giordani ... », L'articolo 20 poi recita:
  1. Chiunque crei o gestisca un sito web che mira a pubblicare notizie che mettano in pericolo l'integrità dello stato palestinese, l'ordine pubblico o la sicurezza interna o esterna dello Stato, sarà punito con la reclusione per un periodo di almeno un anno o con una multa di non meno di mille dinari giordani e non più di cinquemila dinari giordani o da una combinazione di entrambe le pene.
  2. Qualsiasi persona che propaga il tipo di notizie di cui sopra con qualsiasi mezzo, compresa la trasmissione o la pubblicazione, deve essere condannata a un massimo di un anno di carcere o costretta a pagare una multa non inferiore a duecento dinari giordani e non oltre mille dinari giordani o essere sottoposti a entrambe le pene.
La nuova legge, che mina la libertà d'espressione, la libertà di pensiero e i diritti umani ha già mietuto le sue vittime.
  Una decina di giorni fa, la corte di un magistrato palestinese a Nablus - la più grande città palestinese della Cisgiordania - ha deciso di deferire il caso di Abu Zeid al Tribunale penale generale dell'Autorità palestinese. Abu Zeid è stato arrestato nell' agosto del 2017, ed è rimasto in carcere per quindici giorni, perché avrebbe criticato su Facebook l'Ap. Se sarà condannato, è probabile che non gli verrà fatto alcuno sconto né per la multa né per l'anno di galera.
  Prima di lui, altri quattro giornalisti palestinesi sono stati arrestati dall'Ap, colpevoli di «crimini» simili. Ma anche per loro il destino è ancora incerto: non si sa quando saranno processati. Mamdouh Hamamreh, Kutaiba Qassem, Amer Abu Arafeh e Ahmed Halaikah vivono da mesi ormai i loro giorni da incubo, e non sono i soli. Recentemente sono diversi i giornalisti e tanti gli utenti di Facebook che sono stati convocati per gli interrogatori perché «sovversivi». Troppe parole fuori posto. E quindi tante spade di Damocle a pendere sulle loro teste, in un destino che vede professioni e vite - chi porterà il pane a casa se questi padri di famiglia finiranno in gattabuia? - messe a repentaglio.
  Intanto si azzardano piccole manifestazioni, dal mondo del giornalismo fino alle aule di tribunale: pare che gli avvocati palestinesi abbiano deciso di boicottare la corte specializzata in reati gravi commessi contro la sicurezza dello «Stato della Palestina». Ma figuriamoci se qualche striscione potrà mai suggestionare l'Autorità palestinese.
  Le vaghe definizioni di ciò che costituisce un reato punibile, l'estensione della pena a qualsiasi individuo che assiste o concorda con ciò che il decreto considera un crimine e i chiari attacchi a dissidenti, giornalisti e divulgatori disegnano il profilo sempre più autoritario, che gode di un supporto «legale» utile a reprimere efficacemente qualsiasi forma di dissenso.
  Eppure la nuova forma di repressione messa a punto dall'Autorità Palestinese non può sorprendere. La repressione, e in particolare la repressione della libertà di espressione, è peculiarità della leadership palestinese sin dalla sua fondazione. È dal 1994 che, dapprima con Arafat, e poi con Abu Mazen, l'Ap ha dimostrato di avere tutte le caratteristiche tipiche di una dittatura araba: colpire con ostentata indifferenza la stampa e gli oppositori politici. L'Ap non può tollerale quello che definisce come «incitamento», ovvero la critica ad Abu Mazen e alla sua politica. Ma c'è un «incitamento» che invece tollera, e pure con un certo entusiasmo, quello diretto da sempre contro Israele e gli Stati Uniti. L'uno è ricompensato con la repressione; l'altro con la gloria.
  D'altronde, la soppressione della libertà di espressione è solo il corollario perfetto dell' odio per Israele e della violenza come parte del Dna di parte della comunità palestinese.
  Quando un rabbino è stato ucciso, all'inizio di gennaio, a colpi di arma da fuoco, vicino a Nablus, i palestinesi hanno accolto con estremo piacere la notizia. Una morte che rientra in quelle operazioni militari considerate «eroiche», perché contro l'occupazione israeliana, e inserite nel rilancio della rivolta contro Gerusalemme capitale. La vittima, infatti, era perfetta: un ebreo, rabbino, padre di sei figli. E l'attacco eroico e motivo di orgoglio non è stato condannato dall'Autorità palestinese e dal suo leader, perché semplicemente rientra nel perverso meccanismo d'incitamento all'odio anti-israeliano.

(Giornale Controcorrente, 16 febbraio 2018)


Ma qual è l'obiettivo degli arabi palestinesi?

Continuare a urlare che si spalancheranno le porte dell'inferno può essere gratificante, ma non porta a nessun risultato concreto

Gli arabi palestinesi devono decidere qual è il loro obiettivo. Gli slogan non serviranno allo scopo. Sembra che aspirino più a ottenere soddisfazione emotiva che risultati concreti. Ad esempio, assicurarsi un gran numero di risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano Israele o esaltano la loro causa nazionale, e minacciare fino alla nausea di trascinare Israele e israeliani davanti a tribunali internazionali, sono cose che non hanno nessun effetto positivo sulle condizioni degli arabi palestinesi. E urlare a gran voce che si spalancheranno le porte dell'inferno ogni volta che qualcuno fa qualcosa che contrasta con la loro narrativa aggiunge forse una dimensione poetica (o patetica) alla loro causa, ma nient'altro. Imporre pre-condizioni per qualsiasi negoziato con Israele, e abbandonare i negoziati ogni volta che conviene, non ha migliorato granché la posizione negoziale degli arabi palestinesi rispetto a Israele....

(israele.net, 16 febbraio 2018)


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