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Notizie 16-28 febbraio 2019


Corbyn, primo leader europeo che mette in dubbio lo stato ebraico

Quella sinistra che odia Israele. I Verdi olandesi adottano il boicottaggio

di Giulio Meotti

Lo scrittore olandese Leon de Winter
ROMA - "Non comprate dagli ebrei" è ora un concetto accettabile. In precedenza lo avevate sentito in un altro movimento olandese, il Partito nazionalsocialista". E' durissimo il commento dello scrittore olandese Leon de Winter sul voto con cui il partito verde del suo paese, Groenlinks, ha ufficialmente adottato il boicottaggio dello stato ebraico. In effetti non era mai successo che un grande partito europeo mainstream adottasse l'ostracismo programmatico nei confronti di Israele. Il boicottaggio è stato votato al Congresso generale del 16 febbraio del partito che ha 14 seggi alla camera bassa del Parlamento.
   Il Centro olandese per l'informazione e la documentazione su Israele, un gruppo ebraico impegnato nella lotta all'antisemitismo, ha condannato la risoluzione. "La sinistra verde ha ignorato come il boicottaggio vada di pari passo con espressioni di antisemitismo e sia collegato a gruppi terroristici", ha scritto il Cidi. Il gruppo pro-Israele Likoed Nederland ha scritto che la sinistra verde "si è dichiarata un movimento razzista", perché il partito non ha approvato altre mozioni di boicottaggio del Marocco, della Cina, della Turchia o della Russia, tutti paesi giudicati a livello internazionale come potenze occupanti. "Il movimento del boicottaggio afferma che si tratta di giustizia per i palestinesi" commenta De Winter. "Ma questo è un inganno. Ciò che i palestinesi intendono con quella forma di giustizia è la distruzione dello stato ebraico. "Israele ricorda ai musulmani la debolezza dei loro eserciti. Ricorda agli europei come abbiano tradito gli ebrei. E gli utili idioti proiettano su Israele tutto ciò che detestano nei valori occidentali, il patriottismo, i valori familiari, la continuità etnica, l'ottimismo culturale". Il voto senza precedenti dei Verdi rientra appieno nel fenomeno di quella parte della sinistra europea che ha un problemino con gli ebrei. Dopo la decisione inglese di bandire anche l'ala politica di Hezbollah, il leader del Labour, Jeremy Corbyn, ha annunciato di voler osteggiare questa decisione. "Friends", aveva definito Corbyn i terroristi di Hamas e Hezbollah.
   Quel Labour che, proprio sull'antisemitismo, ha appena perso per strada dieci deputati. "Se Corbyn entrasse al 10 di Downing Street sarebbe la prima volta nell'Europa post-hitleriana che una grande nazione è guidata da un leader dalle tendenze antisemite", ha detto al Guardian il filosofo francese Alain Finkielkraut, reduce da una aggressione antisemita.
   Anche se non si inverasse la profezia di Finkielkraut, Corbyn è già oggi il primo leader occidentale ad aver messo in discussione il diritto all'esistenza di Israele. Ecco perché i suoi sostenitori non sembrano infastiditi dalle accuse di antisemitismo. Ieri un parlamentare laburista, Chris Williamson, ha persino affermato che il Labour ha concesso "troppo terreno" alle critiche sull'antisemitismo. Il nuovo antisemita di sinistra, personificato da Corbyn, si proclama "amico dei musulmani"; sostiene che Israele è una impresa razzista; paragona il governo israeliano ai nazisti; considera la causa palestinese, rivisitata dal marxismo culturale, come la punta di diamante dell'anticolonialismo.
   L'avvocato inglese Anthony Julius ha detto che il portavoce di Corbyn, il giornalista Seumas Milne, ritiene che la principale questione politica in medio oriente sia il "1947", l'anno prima della fondazione di Israele. Ieri intanto, in una lettera alla scuola ebraica Yaguel Yaacov di Montrouge, fuori Parigi, qualcuno ha scritto che "i paesi arabi avrebbero vissuto in pace se Hitler avesse finito di sterminare tutti gli ebrei".

(Il Foglio, 28 febbraio 2019)



Israele e Iran si apprestano a unirsi entrambi alla zona di libero scambio guidata dalla Russia

Dopo due round di negoziati, Gerusalemme è vicina all'accordo con l'Unione Economica Eurasiatica; in separata sede, anche Teheran si appresta a firmare un accordo "nel prossimo futuro"
Secondo i funzionari di Mosca e Gerusalemme, Israele si appresta a firmare un accordo di libero scambio, nel prossimo futuro, con l'Unione Economica Eurasiatica (UEE) guidata dalla Russia.
Per inciso, l'Iran è anche in trattative avanzate per la creazione di una zona di libero scambio con l'unione, nota come UEE. Tuttavia, ogni Paese firmerebbe il proprio accordo di libero scambio con l'unione, il che significherebbe che Gerusalemme non sarebbe in grado di commerciare liberamente con Teheran, o con altri Stati firmatari di accordi simili.
"I negoziati con l'UEE sono stati avviati a Mosca nell'aprile 2018, in seguito ai risultati positivi di uno studio congiunto di fattibilità condotto dalle parti", ha detto lunedì un Portavoce del Ministero dell'Economia a The Times of Israel...

(Come Don Chisciotte, 28 febbraio 2019)


Tolti 24 milioni al Museo dell'ebraismo. "E solo un rinvio"

di Marco Franceschetti

I timori che si erano addensati attorno al Meis, il Museo nazionale dell'ebraismo di Ferrara, sono esplosi. Annunciati ieri mattina da Comune e Regione come quella che senza mezzi termini definiscono vigliaccata e cialtronata amministrativa: il Mibac ha revocato i fondi per completare il quarto e ultimo lotto della struttura. Sarebbero stati 24,5 milioni stanziati dall'allora ministro ferrarese Dario Franceschini per realizzare quattro padiglioni in vetro e alluminio tra l'attuale palazzina d'accesso e l'ex carcere cittadino riconvertito a spazio espositivo. A sera ci hanno provato il ministro Alberto Bonisoli e la sottosegretaria Lucia Borgonzoni a smorzare le polemiche, spiegando che l'intervento non è perduto ma solo rinviato, che i soldi intanto spesi per altre necessità torneranno a disposizione. Quando? Quando saranno terminati i lavori ora in corso, quelli per la costruzione del primo dei cinque padiglioni immaginati come simbolo dei cinque libri del Pentateuco.

 Le rassicurazioni del ministero
  «La decisione di rinviare il bando per l'ultimo lotto del museo - ha detto il ministro - è stata presa perché solo ora si stanno aprendo i cantieri per il secondo lotto e sarebbe stato impossibile mettere a gara anche il terzo e aprirlo prima del 2021. In quella data, infatti, scadono i finanziamenti che ci provengono dal Fondo per le Politiche di Sviluppo e Coesione, e dunque i soldi sarebbero stati persi. C'è stato un grave ritardo per la complessità di intervento per i lavori del secondo lotto il cui iter progettuale è stato molto più lungo di quanto immaginato. Ma rassicuro tutti: i soldi ci sono e quando il museo avrà la sostenibilità per l'apertura di un nuovo cantiere saranno spesi». La rassicurazione non convince né tranquillizza gli amministratori locali. «Senza questo completamento il museo potrà continuare l'attività, ma senza potersi esprimere al meglio, perché il progetto risulta fortemente compromesso e non più in grado di svolgere quel ruolo internazionale per il quale era nato»., ha detto l'assessore regionale alla Cultura Massimo Mezzetti. Vittorio Sgarbi, tra i padri del museo, racconta un'altra «verità», che chiama in causa la distrazione di un dirigente, ma ne approfitta per reclamare una nuova strada per lo sviluppo del museo «che guardi i vivi, non ai morti». Esterrefatto Franceschini: «Il Meis non è un progetto qualunque. Spero che le risorse possano essere recuperate al più presto».

(La Stampa, 28 febbraio 2019)


Ma perché Jared Kushner incontra Erdogan sul piano di pace americano?

Perché Jared Kushner incontra Erdogan per parlare del piano di pace tra israeliani e palestinesi? Certa gente è meglio tenerla fuori. La Fratellanza Musulmana non deve avere alcun ruolo nelle trattative tra Gerusalemme e Ramallah

Ieri il Consigliere del Presidente Trump per il Medio Oriente, Jared Kushner, ha incontrato ad Ankara il dittatore turco Tayyip Erdogan.
Motivo dell'incontro, secondo la Casa Bianca, discutere con il califfo turco del piano di pace tra israeliani e palestinesi che gli Stati Uniti si apprestano a presentare.
I due avrebbero anche discusso di nuove cooperazioni tra Stati Uniti e Turchia e della situazione geopolitica in Medio Oriente, anche se non è chiaro se hanno parlato della questione del Kusrdistan siriano e della volontà di Erdogan di invadere la regione....

(Rights Reporters, 28 febbraio 2019)


Visita lampo di Netanyahu in Russia

A tema nei colloqui con Putin la situazione in Medio Oriente e in Siria

Mercoledì il presidente russo Putin ha ricevuto al Cremlino il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. La visita - se escludiamo l'incontro fugace tra i due durante la celebrazione del 100o anniversario della fine della prima guerra mondiale a Parigi lo scorso novembre - è la prima dopo il gelo tra i due paesi calato a causa dell'abbattimento dell'aereo russo 'IL 20' avvenuto il 17 settembre scorso.
Al centro dell'incontro di oggi a Mosca le questioni di cooperazione economica tra i due paesi, e naturalmente, le problematiche internazionali con particolare attenzione sulla situazione in Siria ed in Medio Oriente.
Per cominciare l'incontro con i migliori auspici, Netanyahu ha reso omaggio alla Federazione russa ricordando l'enorme contributo della Russia alla sconfitta del nazismo, che - ha sottolineato - "non sarà mai dimenticato in Israele".
Sulla questione siriana il capo di stato israeliano ha ricordato che i contatti tra le forze armate israeliane e russe hanno comunque evitato gravi attriti e ha ribadito lo stretto legame con la Russia "Voglio ringraziare per l'amicizia e per il dialogo diretto, franco e reale su cui si basano le relazioni tra Israele e Russia", ed ha aggiunto: "Ho contato 11 incontri tra di noi da settembre 2016. Il legame diretto tra noi è il meccanismo di deconfigurazione che ha impedito il conflitto tra i nostri eserciti e ha contribuito alla sicurezza e alla stabilità nella regione" (Time of Israel).
Queste parole di Putin mi sembrano esprimano bene la posizione russa: "È importante continuare la cooperazione tra di noi. La Russia ha partecipato alla creazione di Israele. La vita continua e le negoziazioni sono necessarie. Vogliamo davvero discutere della situazione nella regione e dei problemi di sicurezza ".
Insomma un buon clima ma Netanyau è stato irremovibile sulla questione della presenza iraniana in Siria e, come aveva preannunciato prima della sua partenza, ha ribadito che "Israele è determinata a continuare gli attacchi in Siria per impedire il radicamento iraniano nel paese vicino" (Haretz).
Al termine della visita il presidente Israeliano ha invitato Putin per l'inaugurazione di un monumento dedicato all'assedio di Leningrado.

(Vietato parlare, 27 febbraio 2019)


*


Putin accetta l’invito di Netanyahu a Gerusalemme

Il presidente della Russia Vladimir Putin ha accettato l'invito del premier d'Israele Benjamin Netanyahu di recarsi al più presto a Gerusalemme in occasione dell'inaugurazione del monumento all'assedio di Leningrado.
Netanyahu ha iniziato una conversazione con Putin congratulandosi con il presidente russo in occasione del passato Giorno della difesa della madrepatria, prendendo atto del ruolo dell'Armata Rossa nella vittoria nella seconda guerra mondiale.
"Qualche giorno fa, il nostro governo ha deciso di stanziare fondi speciali per il completamento del museo ai soldati vittoriosi nella seconda guerra mondiale e la maggior parte di questo museo sarà dedicato ai soldati dell'Armata Rossa", ha detto.
Secondo le sue parole, un monumento alle vittime dell'assedio di Leningrado sarà inaugurato a Gerusalemme.
"Nel prossimo futuro a Gerusalemme inaugureremo un monumento speciale dedicato alle vittime dell'assedio di Leningrado e saremo molto felici di vederla, signor Presidente, e voglio invitarla all'inaugurazione di questo monumento", ha detto il primo ministro israeliano.
"Grazie, verrò," Putin rispose all'invito di Netanyahu.
Il presidente russo ha anche osservato che "il ricordo delle persone uccise durante la seconda guerra mondiale e dell'assedio di Leningrado è sacro".
I lavori per il progetto del monumento sono iniziati nel 2017.

(Sputnik Italia, 27 febbraio 2019)


Firmato il Patto di gemellaggio fra Reggio Emilia e la città palestinese di Beit Jala

 
 
 
"Firmiamo questo atto sapendo di compiere un passaggio controcorrente: nel tempo in cui si innalzano muri e si esalta l'isolazionismo, noi vogliamo costruire ponti", ha detto il sindaco Luca Vecchi, stasera in Sala del Tricolore durante la cerimonia di sottoscrizione del Patto di gemellaggio fra Reggio Emilia e la Municipalità di Beit Jala, città della Cisgiordania a una decina di chilometri da Gerusalemme.
  "Amiamo le culture, amiamo la pace e il vivere bene, amiamo incontrare e dialogare con gli altri popoli. Dopo questa firma, cari amici di Reggio Emilia, potete ritenervi cittadini anche di Beit Jala", ha sottolineato il sindaco della città palestinese, Nicola Khamis.
  Il sindaco Vecchi ha ricordato, nel corso del suo intervento, che "la Sala del Tricolore in cui ci troviamo e in cui nacque la nostra bandiera nazionale, vide gli albori l'esperienza democratica e repubblicana italiana nell'età moderna e qui si sono affermati diritti fondamentali e di cittadinanza che appartengono a tutti i popoli. Per questo abbiamo voluto accogliere qui la delegazione di Beit Jala, con la quale abbiamo una relazione già da diverso tempo, scaturita 14 anni fa nella Dichiarazione di amicizia e che oggi non solo formalizziamo con questo Patto di gemellaggio, ma rilanciamo con la forza di questo stesso Patto. Questa intesa ha un valore istituzionale ed è segno dell'attrazione fra le comunità delle nostre città, attraverso le diverse associazioni qui rappresentate e numerosi contatti internazionali sui temi dell'infanzia, della sanità, dello sport - consistente è stata ad esempio la partecipazione di ragazzi palestinesi ai recenti Giochi internazionali del Tricolore - e degli scambi fra giovani. Lavoriamo insieme per la difesa dei popoli e dei loro diritti, per lo sviluppo del dialogo internazionale. Su questi principi - ha concluso il sindaco di Reggio Emilia - daremo ulteriore vigore alla nostra cooperazione".
  "Firmato questo Patto, da domani saremo al lavoro per tradurlo in realtà - ha detto il sindaco Khamis - Siamo molto felici di questa intesa e di questa attenzione, in una fase difficile di rapporti in particolare con gli Stati Uniti. Beit Jala è praticamente contigua a Gerusalemme, la città santa, della pace e delle tre fedi monoteiste, eppure è divisa da Gerusalemme da un muro invalicabile. E' una realtà dura per chi, come noi, cerca la pace, non la divisione. Desidero ringraziare Reggio Emilia, la sua Amministrazione comunale, le diverse associazioni di questa città con cui siamo in dialogo, per l'opportunità di questo incontro e di questo gemellaggio".
  "Con la costituzione di un Comitato di Gemellaggio - ha detto l'assessore alla Città internazionale Serena Foracchia - il Comune di Reggio Emilia ha deciso di mettere in valore i numerosi contatti che molte realtà reggiane hanno con i Territori palestinesi. Ciò farà sì che questa relazione non rimanga solo un'occasione di incontro istituzionale, ma sia conosciuta, vissuta ed animata quotidianamente dai reggiani. Un vero incontro e dialogo tra comunità". Mirella Orlandi, responsabile per la Cooperazione internazionale della Regione Emilia-Romagna ha sottolineato fra l'altro che "la Palestina è prioritaria nei rapporti di cooperazione internazionale della nostra Regione".

 Un impegno di lunga data
  A 14 anni dalla firma della Dichiarazione di amicizia, il Patto di gemellaggio tra Reggio Emilia e Beit Jala conferma e rafforza l'impegno di lunga data al confronto reciproco, alla conoscenza e alla collaborazione tra i due territori nel settore culturale, educativo, economico e sociale.
  Con questo documento, vengono individuati gli ambiti prioritari di collaborazione tra le due città: tra questi, la promozione dei diritti umani, la partecipazione attiva, la promozione e la tutela dei diritti dell'infanzia in ambito culturale e socio-educativo, la tutela dei diritti nell'ambito dei servizi alla persona e dell'innovazione socio-sanitaria, il rafforzamento degli scambi giovanili e in ambito sportivo, la valorizzazione dell'imprenditoria giovanile e la promozione di iniziative di turismo responsabile. A rafforzare l'accordo sarà inoltre la costituzione di un Comitato di Gemellaggio che si occuperà di sviluppare questa relazione e di promuovere progettualità e iniziative ad essa collegata, mantenendo così vivo il dialogo tra le due città e assicurando il pieno coinvolgimento dei cittadini e dell'opinione pubblica. Il Comitato, presieduto dal sindaco o da un suo delegato, sarà composto da esponenti delle amministrazioni locali e delle varie associazioni, Ong e gruppi di cittadini del territorio reggiano impegnati in attività di solidarietà, dialogo e cooperazione con la Palestina. La segreteria e gestione del Coordinamento è affidata alla Fondazione E35 per la progettazione internazionale, già impegnata nella gestione e supporto dei numerosi interventi di cooperazione decentrata attivati tra Comune di Reggio Emilia, Comune di Beit Jala e Territori palestinesi. I soggetti reggiani che desiderano aderirvi potranno farlo contattando la Fondazione E35.
  Il rapporto con il Governatorato di Betlemme e la Municipalità di Beit Jala risalgono agli anni Novanta. Del 28 aprile 1999 è la firma del Patto di gemellaggio tra la Provincia di Reggio Emilia ed il Governatorato di Betlemme, seguito dal Patto di amicizia tra il Comune di Reggio Emilia e il Comune di Beit Jala del 2005. In questi anni il confronto tra i territori si è intensificato, concretizzandosi in scambi e progettualità in ambito educativo, gestione di servizi pubblici, artistico, culturale, sportivo e giovanile. Diversi gli organismi reggiani impegnati fra cui l'Associazione Giorgio La Pira. In particolare, tra i progetti oggi in corso, Aepic - Alleanza per un'Educazione inclusiva in Cisgiordania finanziata dalla cooperazione italiana; ed il progetto Pace - Partnership for a new approach to early childhood education, finanziati dalla cooperazione italiana.
  Queste iniziative di recente realizzazione vedono la collaborazione di realtà quali l'organizzazione non governativa Reggio Terzo Mondo, Reggio Children, lo stesso Comune e proseguono una collaborazione pluriennale in ambito educativo. Inoltre 35 giovani della città di Beit Jala hanno partecipato all'ultima edizione dei Giochi internazionali del Tricolore: proprio in questa occasione, l'incontro tra i due sindaci ha paventato l'opportunità di formalizzare il costante scambio tra le comunità attraverso un Patto di gemellaggio.

(Sassuolo2000, 27 febbraio 2019)


Gran Bretagna: polemica sull'antisemitismo, deputato sospeso dal Labour

Williamson aveva minimizzato il fenomeno, le scuse non sono bastate

LONDRA - Mano pesante del Labour sul deputato Chris Williamson, messo sotto accusa per una articolo considerato provocatorio sul tema dei rigurgiti di antisemitismo in cui rivendicava al partito di aver fatto "più di altri per estirpare la piaga" e d'essersi scusato "pure troppo". L'annuncio di un procedimento disciplinare nei suoi confronti, è stato seguito dalla decisione di sospenderlo dai ranghi laburisti per tutta la durata dell'investigazione. Una scelta fatta dopo qualche esitazione sulla scia delle pressioni interne ed esterne esercitate nei confronti di Jeremy Corbyn (di cui Williamson è considerato un alleato), e sancita dal braccio destro del leader, la segretaria organizzativa Jennie Formby. Al deputato non è bastato scusarsi. Il suo rammarico era stato giudicato del resto "insincero" da vari colleghi delle correnti più 'moderate che insistono ad accusare la sinistra interna (a cui sia Williamson sia Corbyn appartengono) di alimentare di fatto l'antisemitismo attraverso una cultura anti-sionista.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 27 febbraio 2019)


Il paese che "trova le soluzioni". Chiacchiere nello stand di Israele, alla fiera tech

A Barcellona, oltre la startup nation

di Eugenio Cau

BARCELLONA - Al MWC di Barcellona, la fiera tecnologica più importante d'Europa, le dimensioni contano molto. Ciascuna grossa azienda spende oscene quantità di denaro per organizzare un grosso stand pieno di luci e di hostess sorridenti (pochi steward). In questo contesto, più il tuo stand è grosso, più la tua azienda è importante, e questo è un buon test empirico per toccare con mano il dominio straordinario di certe aziende cinesi come Huawei, Xiaomi, Lenovo, benché compagnie come la svedese Ericsson non si siano tirate indietro. Tuttavia, uno degli stand più importanti della fiera non appartiene a una azienda, ma a un paese. Non è tanto comune vedere intere nazioni rappresentate in maniera unitaria al MWC, ma Israele ha adottato questo approccio dieci anni fa, e adesso il suo padiglione è una piccola città che ospita decine di startup e aziende innovative israeliane, e la prima cosa che ti viene da pensare è: eccola, la startup nation.
   Startup nation è la sigla che ha accompagnato l'industria tecnologica israeliana per anni: una nazione capace di proiettare tutto il tessuto sociale verso l'innovazione. "C'è un cambiamento in corso, stiamo passando da essere una 'startup nation' a essere un 'solution country"', dice al Foglio Adiv Baruch, presidente dell'Israel Export Institute. "Il mondo oggi ha bisogno di soluzioni, non soltanto di una generale immissione di tecnologia. Un anno fa, Israele ha presentato alle Nazioni Unite un rapporto sui 70 anni di sviluppo e sui 70 anni di soluzioni che il paese ha fornito al mondo, e vanno dalle tecnologie sanitarie all'agricoltura, la sicurezza, le comunicazioni. Questo vuole essere il modello: cercare di fornire soluzioni a un mondo che ne ha bisogno". E' un buon antidoto a tutte le lagne, che è una costante in Israele: "Il paese è privo di risorse naturali, così abbiamo dovuto sfruttare al meglio le nostre risorse intellettuali", dice Baruch.
   L'Israel Export Institute è una joint venture pubblico-privata nata 60 anni fa tra lo stato israeliano e la Confindustria locale che ha l'obiettivo di dare visibilità nel mondo alle aziende innovative dello stato ebraico. "Oggi Israele non è più soltanto terra di startup, ci sono imprenditori di seconda o terza generazione che sono stati in grado di portare le loro compagnie al livello di giganti tecnologici, come Mobileye, che è stata comprata da Intel, e che tuttavia ha deciso di mantenere quartier generale e ricerca in Israele. Con Mobileye (che fa alcuni dei più importanti sensori per le vetture a guida automatica, ndr) si è creato in Israele un enorme indotto innovativo sull'automotive".
   Le startup che Israele promuove a Barcellona sono indicative del pragmatismo del "solution country". C'è Biobeat, un'azienda che produce apparecchi medici indossabili per monitorare lo stato di salute, tra cui un cerotto che si indossa e che tiene monitorati i pazienti. Il ceo della startup lo ha indossato tutto il tempo mentre parlava, mostrando su tablet i suoi indicatori vitali (tutto nella norma, abbiamo controllato). Sonarax usa onde sonore impercettibili all'orecchio umano per veicolare dati, trasformando in apparecchi di comunicazione qualsiasi strumento che abbia un microfono e un altoparlante e consentendo il trasferimento di informazioni in luoghi come le miniere, dove le antenne dei cellulari non arrivano. Everysignt è uno spinoff di Elbit System, un'azienda della Difesa che produce tra le altre cose elmetti intelligenti per i piloti militari di mezzo mondo, compresi quelli italiani. Il suo spinoff ha commercializzato una versione di questi elmetti per i comuni mortali, degli occhiali smart perfetti per ciclisti e per le attività all'esterno.
   Messe tutte assieme, queste aziende innovative danno una buona idea della filosofia israeliana della soluzione. La decisione di presentare Israele al MWC come nazione "viene dalla nostra storia e dalla nostra educazione", dice Baruch. "Fin dai tempi della Bibbia il popolo ebraico è sempre stato molto unito, e oggi il servizio militare ci rende degli eccellenti giocatori di squadra".

(Il Foglio, 27 febbraio 2019)


Tele-medicina, big data e terza età. Alleanza sanitaria Piemonte-Israele

I due poli lanciano la collaborazione: la sfida chiave è legata all'invecchiamento della popolazione

di Federico Callegaro

Il sistema sanitario piemontese va a scuola da quello israeliano e viceversa. È stato un incontro tra due mondi che hanno scoperto di essere più simili di quello che credessero quello che si è tenuto ieri pomeriggio all'ospedale Mauriziano. Da una parte i professionisti delle aziende sanitarie locali del nostro territorio, dall'altra due professionisti della sanità che lavorano in Israele. Incontro proficuo che è nato grazie all'interessamento di Rosanna Supino dell'Associazione medica ebraica e di Angelo Pezzana, che ha lavorato da tramite per organizzarlo.
  «Penso che incontri come questo siano un'ottima opportunità di scambiare idee e creare collaborazioni. Che possono toccare più aspetti, primo tra tutti cercare di capire quali sono le sfide simili che il nostro sistema sanitario e il vostro devono affrontare in futuro, e quali sono le soluzioni che possiamo mettere in campo - afferma Nadav Davidovitch, direttore della scuola di Sanità Pubblica dell'Università Ben Gurion del Negev, intervenuto ieri al Mauriziano -. Penso a cose come il ridurre le diseguaglianze in campo medico, affrontare l'invecchiamento della popolazione, potenziare la tele-medicina e la medicina digitale e intelligente. E promuovere politiche utili non solo a curare le malattie ma anche a prevenirle».

 Le sfide del futuro
  Ma come si caratterizza la sanità in Israele? «La cosa più importante è che abbiamo una forte comunità medica e un sistema sanitario universalistico che tutela tutti i cittadini e che viene anche aiutato da quattro associazioni no profit. Poi che abbiamo una fortissima digitalizzazione medica che adesso viene anche usata per promuovere una medicina personalizzata, ritagliata sulle esigenze del paziente grazie allo studio dei big data - prosegue Davidovitch -. Le sfide che ci aspettano adesso sono legate all'invecchiamento della popolazione. Israele, quando è nato, era un Paese molto giovane. Ora sta invecchiano. Questo si porta dietro la necessità di studiare soluzioni per affrontare il numero delle cronicità. Secondo tema da affrontare è ridurre l'ineguaglianza nell'accesso alle cure, specialmente nelle aree periferiche del Paese. In più dobbiamo implementare il numero di infermieri e di spazi per formarli". Ma per il direttore ci sono anche cose che Israele deve imparare dall'Italia: «Trovo meraviglioso il fatto che il vostro sia un sistema universalistico che concede cure anche ai non cittadini. È una cosa che dovremmo importare, imparando come si fa dall'Italia».

 Storie di collaborazione
  «In questo incontro voglio raccontare la storia del nostro ospedale dove palestinesi e israeliani lavorano insieme per far nascere bambini palestinesi e israeliani - spiega Eitam Kerem, primario di pediatria dell'ospedale Hadassah di Gerusalemme - Può sembrare una cosa strana? Beh non lo è, perché sono più le cose che ci accomunano che quelle che ci rendono diversi. Siamo umani e aiutiamo bambini. In più grazie al lavoro a stretto contatto nascono tante amicizie. Il segreto comunque è non parlare di politica». Per il primario il sistema sanitario israeliano ha come caratteristica «l'equità, i cittadini pagano in base alle loro possibilità economiche - questo e una spiccata capacità di innovare-. E quello delle nuove tecnologie è un campo in cui dobbiamo collaborare molto con l'Italia».

(La Stampa, 27 febbraio 2019)


"Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social"

L'ultimo libro di Jaron Lanier, un informatico, giornalista e saggista statunitense, pioniere della realtà virtuale, che vive e lavora nella Silicon Valley. La segnalazione di un libro come questo sembra non rientrare negli scopi di queste pagine, ma non è così.

Dalla seconda pagina di copertina:

I segreti più profondi della Cia e dell'Nsa sono stati hackerati e resi pubblici, più di una volta. Ma stai certo che da nessuna parte, nemmeno nel dark web, troverai una copia dell'algoritmo di ricerca di Google o dell'algoritmo del feed di Facebook. Oggi questi algoritmi determinano l'andamento della vita umana sul nostro pianeta. Jaron Lanier, informatico della Silicon Valley, pioniere della realtà virtuale, non ha nessun account social. In Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social spiega perché non dovresti averne nemmeno tu.
Google e Facebook, insieme a Instagram, WhatsApp - cioè di nuovo Facebook -, Twitter e gli altri social, costituiscono l'impero della modificazione comportamentale di massa. Tirano fuori il peggio di te, spingendoti a manifestazioni d'odio di cui non ti pensavi neppure capace; ti ingannano con una popolarità puramente illusoria; ti spacciano dopamina a suon di like, intrappolandoti nella schiavitù della dipendenza. Distorcono il tuo rapporto con la verità e degradano la tua capacità di empatia, disconnettendoti dagli altri esseri umani anche se ti senti più connesso che mai. Corrompono qualsiasi politica che ambisca a dirsi democratica e devastano qualsiasi modello economico che non sia fondato sul lavoro gratuito. Inoltre - e questa è la cosa che ti scoccia di più, se ci pensi - si arricchiscono infinitamente vendendo tutti questi dati agli inserzionisti (che sarebbe più corretto chiamare manipolatori attivi della società e della natura umana), plasmando la tua volontà attraverso pubblicità targettizzate; e lo fanno attraverso algoritmi che spiano e registrano qualunque cosa tu faccia. I benefici che ti danno i social media non controbilanceranno mai le perdite che subisci in termini di dignità personale, felicità e libertà di scelta.
Jaron Lanier ci mette in guardia: questo totalitarismo cibernetico ci distruggerà. Internet non è il male, ma va ripensato profondamente. Compi un gesto che spinga le tech company a cambiare, non resterai tagliato fuori dal mondo. Riprenditi il controllo della tua vita. Cancella subito tutti i tuoi account social.


Dal sommario:
Ragione 1. Stai perdendo la libertà di scelta
Ragione 2. Abbandonare i social media è il modo più mirato per resistere alla follia dei nostri tempi
Ragione 3. I social media ti stanno facendo diventare uno stronzo [sic]
Ragione 4. I social media stanno minando la verità
Ragione 5. I social media tolgono significato a quello che dici
Ragione 6. I social media stanno distruggendo la tua capacità di provare empatia
Ragione 7. I social media ti rendono infelice
Ragione 8. I social media non vogliono che tu abbia una dignità economica
Ragione 9. I social media stanno rendendo la politica impossibile
Ragione 10. I social media ti odiano nel profondo dell'anima


Qualche estratto:
Il processo di base che consente ai social media di fare soldi e contemporaneamente danneggiare la società è la modificazione del comportamento, un metodo che comprende strategie in grado di cambiare i modelli comportamentali di animali e uomini. Può essere impiegato per trattare le dipendenze, ma anche per crearle.
Il danno che ne riceve la società deriva dal fatto che la dipendenza porta alla follia. Il tossicodipendente perde gradualmente il contatto con il mondo reale e le persone reali. Quando un gran numero di persone è dipendente da schemi manipolativi, il mondo diventa un posto cupo e malato.
La dipendenza è un processo neurologico che ancora non comprendiamo completamente. La dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto nel senso del piacere ed è ritenuto centrale nel meccanismo che crea una modifica del comportamento in risposta all'ottenimento di ricompense. Ecco perché Parker lo menziona.
La modificazione del comportamento, e in particolare la sua versione moderna implementata da gadget come gli smartphone, è un effetto statistico, cioè è reale ma non perfettamente attendibile; il suo effetto su un popolo è più o meno prevedibile, ma quello sul singolo individuo è impossibile da prevedere. In una certa misura, sei una cavia nell'esperimento di un comportamentista. Ma se una cosa è incerta o approssimativa non per questo non è reale.
In origine era il cibo la ricompensa usata negli esperimenti dei comportamentisti, sebbene la pratica risalga ai tempi antichi. Ne fanno uso tutti gli addestratori di animali, di solito dando un bocconcino in premio al cane che ha eseguito un numero. Lo fanno anche molti genitori con i loro bambini.

  Il gioioso rituale che sigla il tuo impegno con la MACCHINA dei social sembra il funerale del libero arbitrio. Stai cedendo gran parte del tuo potere di scelta a un'azienda remota e ai suoi clienti, i quali si fanno carico di una porzione statistica del tuo libero arbitrio, in modo che non sia più di tua competenza. Costoro cominciano a decidere chi conoscerai, quali sono i tuoi interessi e che cosa farai. Dietro questo schema ci sono persone che hanno accumulato eccezionali ricchezze e guadagnato grandissima influenza in un lasso di tempo molto breve. Insomma, hanno potere, ma come fa il potere a esistere senza libertà di scelta?
Quindi la macchina dei social attua intrinsecamente un cambiamento strutturale - e non ontologico - della natura del libero arbitrio, il quale continuerà a esistere, pure se sommerso dagli insulti. Che cosa cambia? Che tu hai meno libertà di scelta, mentre un ristretto novero di persone a te estranee ne ha molta di più. Una parte della tua libertà di scelta è stata trasferita nelle loro mani. Il libero arbitrio oggi è moneta di scambio. Questo cambiamento trascende l'economia e la politica: è la stessa cosa che succede quando una religione dice che solo il suo leader ha il mandato divino.

  Uno dei motivi per cui la MACCHINA dei social funziona in questo modo è che gli ingegneri al soldo delle MACCHINA-company spesso credono che la loro priorità assoluta, tra tutte le altre, non sia servire gli uomini di oggi, ma costruire le intelligenze artificiali che un giorno abiteranno il nostro pianeta. La sorveglianza costante e i test di modificazione comportamentale su vasta scala con tutta probabilità servono a raccogliere dati che si evolveranno nelle future intelligenze artificiali. C'è da chiedersi se gli ingegneri IA (Intelligenza Artificiale) credono che lo scopo delle IA sia manipolare le persone. Le grandi tech company sono pubblicamente impegnate in una folle «corsa all'IA», che spesso ha priorità su tutto il resto. È normale sentire un dirigente di una delle più importanti aziende al mondo che parla dell'imminente avvento della singolarità, quando cioè le IA prenderanno il nostro posto. La singolarità è la risposta della religione-MACCHINA al concetto evangelico del Rapimento della Chiesa. Nel momento in cui i clienti della MACCHINA, spesso essi stessi informatici, considerano l'IA un concetto coerente e legittimo e prendono decisioni di spesa basandosi su questo, l'anormalità viene normalizzata.
Questa è pura follia.

(Notizie su Israele, 27 febbraio 2019)



L'ex ministro israeliano Gonen Segev è stato condannato per spionaggio a favore dell'Iran

 
L'ex ministro dell'Energia israeliano Gonen Segev è stato condannato a 11 anni di carcere per spionaggio a favore dell'Iran, dopo aver confessato e patteggiato. Segev ha ammesso che nel 2012 ebbe contatti con alcuni funzionari dell'ambasciata iraniana e che è stato due volte in Iran per ricevere istruzioni su come passare messaggi cifrati all'Iran a proposito del settore energetico israeliano.
Segev ha 63 anni ed è stato ministro dal 1995 al 1996, nel governo laburista di Yitzhak Rabin: faceva parte del partito di destra Tzomet, ma ne era uscito per votare in favore degli accordi di Oslo, quelli che avrebbero dovuto aprire la via per una risoluzione definitiva dell'eterna questione fra Israele e Palestina. Era già stato in carcere, dal 2005 al 2007, per aver cercato di contrabbandare 30mile pillole di MDMA nei Paesi Bassi con un passaporto diplomatico. Dal 2007 si era trasferito in Nigeria, dove aveva potuto esercitare la professione di medico nonostante in Israele gli fosse stata revocata per la condanna ricevuta.

(il Post, 27 febbraio 2019)


Attacco brutale al gran rabbino. In Argentina è incubo antisemitismo

Davidovich colpito da sette sconosciuti in casa: polmone perforato

Il precedente
La scorsa settimana profanato il cimitero ebraico di Buenos Aires
Sospetti
«Il furto è solo una copertura». L'ombra di Hezbollah in Sud America

di Paolo Manzo

SAN PAOLO - Dopo 25 anni torna in modo tragico il fantasma dell'attentato dell'Amia, l'associazione di mutua assistenza israelita-argentina, colpita da un furgone carico di tritolo: quel 18 luglio del 1994 a Buenos Aires morirono 85 persone e ne rimasero ferite centinaia. Venticinque anni dopo, Gabriel Davidovich, 62 anni, dal 2013 gran rabbino dell'Argentina e a capo dell'Amia, è stato brutalmente aggredito da un gruppo di sette sconosciuti. Introdottisi di notte nella sua casa di Buenos Aires gli hanno gridato contro «sappiamo che sei il rabbino dell'Amia» per poi rompergli nove costole, perforargli un polmone, distruggergli la faccia e rubargli in casa, tutto questo davanti allo sguardo terrorizzato della moglie. Immediata la dura condanna di Israele. Per il premier Netanyahu «non bisogna permettere all'antisemitismo di rialzare la testa» mentre il presidente dell'Argentina Macri ha espresso parole di ripudio per l'accaduto garantendo il massimo supporto perché vengano individuati al più presto i responsabili.
   L'aggressione al gran rabbino arriva dopo che lo scorso fine settimana era stato profanato il cimitero ebraico di Buenos Aires. Per Jorge Knoblovits, presidente della Daia, la delegazione di associazioni israelita-argentina, non ci sono dubbi: «Il furto è solo una copertura, questo è un chiaro gesto di antisemitismo. Se questo atto rimarrà impunito come l'attentato dell'Amia o la morte di Nisman, l'impunità genererà nuova violenza».
   L'attentato dell'Amia è una delle pagine più nere del terrorismo di matrice islamica in America latina. A oggi è rimasto impunito. Il procuratore che prese in mano il caso, Alberto Nisman, fu ucciso con un finto suicidio il 18 gennaio del 2015, esattamente il giorno prima di presentare in parlamento il suo rapporto di fuoco in cui accusava il governo di Cristina Kirchner di aver voluto insabbiare l'inchiesta per paura che venissero fuori le sue relazioni con l'Iran.
   Nel 2006 Nisman aveva accusato formalmente l'Iran di essere mandante dell'attentato tramite Hezbollah e aveva chiesto l'arresto nazionale e internazionale di 9 persone, tra cui l'ex presidente dell'Iran Rafsanjani e l'ex ministro degli Esteri Ali Akbar Velajati. Mente operazionale della strage era invece Mohsen Rabbani, l'uomo di Hezbollah in Sudamerica, uno dei terroristi più ricercati al mondo che in America latina ha vissuto e girato liberamente per anni. L' attentato fu preparato nei minimi dettagli da una rete di cellule che agivano nella Triple Frontera ( tra Paraguay, Argentina, Brasile), in Brasile, in Colombia e in Argentina. I detonatori delle bombe furono a lungo tenuti in depositi al segreto alla Triple Frontera.
   Nell'attentato risultarono coinvolti persino personaggi della Jihad Islamica Egiziana come lo sceicco Tak-el Din, amico di Osama Bin Laden e di Khalid Sceikh Mohammed, la mente dell'attentato al World Trade Center dell'11 settembre, che ospita entrambi in Brasile alla Triple Frontera nel 1995 e che oggi vive tranquillamente nel paese del samba. L'aggressione al rabbino capo di Buenos Aires apre ora inquietanti interrogativi. Molti analisti da tempo sottolineano come l'ala militare di Hezbollah sia ormai fortissima in tutta l'America latina e che l'attuale crisi venezuelana stia ridisegnando la regione anche per Hezbollah. Che in Argentina - dove risiede la più grande comunità israeliana del continente - potrebbe muoversi ora in una nuova guerra asimmetrica contro Israele.

(il Giornale, 27 febbraio 2019)


Gli Usa e il piano di pace di Kushner

"Confini sicuri tra Israele e palestinesi"

Gli Stati Uniti vogliono il supporto dei paesi del Golfo per il loro piano di pace tra israeliani e palestinesi. Un piano di cui si sa poco o nulla ma che Jared Kushner, consigliere e genero del Presidente Usa Donald Trump, ha presentato nelle scorse ore in Oman a diplomatici locali e degli Emirati Arabi Uniti. In una rara intervista, Kushner, a cui è affidato team per il negoziato di pace della Casa Bianca, ha detto a Sky News Arabia che il piano Usa si concentrerà sul "tracciare i confini" tra Israele e i palestinesi e risolvere le questioni centrali del conflitto. Il genero di Trump, nel Golfo assieme all'inviato speciale per il Medio Oriente Jason Greenblatt, ha spiegato in televisione che il piano non è molto diverso da quanto discusso negli ultimi 25 anni ma che allo stesso tempo il suo entourage ha cercato di trovare soluzioni originali ai problemi. Ha detto che il piano avrà un impatto economico su Israele, sui palestinesi e sull'intera regione. Kushner ha poi aggiunto che il piano cercherà di unire la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sotto un'unica leadership, "in modo da permettere al popolo palestinese di vivere la vita a cui aspirano".
   Queste affermazioni hanno rilanciato uno scontro interno alla destra israeliana. Naftali Bennett, leader del partito della Nuova Destra e ministro dell'Educazione dell'attuale governo Netanyahu, sostiene che le parole di Kushner siano la prova di come i suoi sospetti fossero giusti: Netanyahu, all'indomani delle elezioni del 9 aprile, formerà un governo di unità nazionale con il partito guidato da Benny Gantz e Yair Lapid e lavorerà con Trump per costruire uno Stato palestinese e dividere Gerusalemme. Netanyahu, che la settimana scorsa in un discorso ha detto che uno stato palestinese avrebbe messo in pericolo Israele, ha dichiarato: "Ho protetto la terra d'Israele contro l'ostile amministrazione Obama e continuerò a farlo con l'amministrazione Trump che ci sostiene".
   "Il conflitto tra Israele e i palestinesi è stato usato per molti anni per incitare e radicalizzare, mentre l'odio per Israele ha unito tutti i paesi della regione. Oggi la situazione è cambiata a causa dell'Iran, che è la più grande minaccia per l'intera area", ha dichiarato Kushner, che rispetto al piano ha spiegato che il suo team si è concentrato sul seguire alcuni principi: "Il primo, la libertà. Vogliamo garantire alle persone la libertà di avere opportunità, la libertà di religione, la libertà di culto, indipendentemente dalla fede". "Rispetto. Vogliamo che tutte le persone abbiano dignità e si rispettino a vicenda. Opportunità. Vogliamo che le persone siano in grado di migliorare la loro vita e di non permettere che il conflitto dei nonni dirotti il futuro dei figli".

(moked, 26 febbraio 2019)


Puglia e Israele: Emiliano e l'ambasciatore Sachs all'aeroporto di Grottaglie

GROTTAGLIE - Sviluppare nuove forme di collaborazione nel campo della ricerca e innovazione dell'industria aerospaziale. E presto una visita istituzionale della Regione Puglia e delle imprese pugliesi in Israele: questi gli obiettivi dell'incontro di ieri tra il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano e l'Ambasciatore d'Israele in Italia, Ofer Sachs, in visita all'aeroporto di Taranto-Grottaglie.
   Accompagnati dall'assessore regionale allo sviluppo economico Mino Borraccino, dal Console onorario di Israele a Bari Luigi De Santis, dai sindaci di Grottaglie Ciro D'Alò e di Taranto Rinaldo Melucci, dal vice presidente di Aeroporti di Puglia Antonio Vasile, il presidente Emiliano e l'Ambasciatore Sachs hanno visitato le strutture dei partner industriali coinvolti nel programma dell'insediamento produttivo di Grottaglie: le aziende Leonardo, Sipal, Ids.
   Emiliano, nel dare il benvenuto all'ambasciatore e al console d'Israele in Puglia, ha detto che "l'ambasciatore vedrà con i suoi occhi quanto in questi anni è stato fatto dall'industria aerospaziale italiana e pugliese. Sappiamo di poter contare su un'attenzione speciale che ci ha sempre concesso: non è questo il nostro primo incontro, ci sono state molte occasioni nelle quali l'ambasciatore si è informato seguendo con grande delicatezza e tanto approfondimento tutto ciò che di buono siamo in grado di fare. Ci auguriamo che con il suo aiuto possano arrivare tante aziende del suo Paese, che noi amiamo e stimiamo. Ci sono legami di profonda amicizia tra la Puglia e Israele. Siamo sempre vicini con il cuore, ma sappiamo anche che lo spirito pragmatico di Israele va premiato anche con le nostre iniziative concrete. Un anno e mezzo fa, noi ci siamo visti e ci siamo ripromessi di fare qualcosa di concreto insieme.
   L'ambasciatore ha mantenuto l'impegno: oggi è qui, e con noi ci sono anche il sindaco di Grottaglie e il sindaco di Taranto. Quello di Grottaglie è uno dei poli logistici più interessanti d'Italia: questo aeroporto si inserisce in un meccanismo ferroviario e portuale straordinario. È l'unico spazioporto autorizzato in Europa e qui esiste un distretto industriale di grandissimo interesse e di riferimento per l'industria sia civile che militare".
   Secondo l'ambasciatore di Israele a Roma, Ofer Sachs "Questa visita istituzionale è un'opportunità per due motivi: il primo, la cooperazione tra Politecnico di Bari e il Technion di Haifa. Oggi è il primo giorno di lavoro insieme tra studenti israeliani e italiani per creare occasioni per il futuro nel mondo dell'aerospazio. Siamo qui anche per cercare di lavorare insieme nell'industria. Sono molto felice di essere in Puglia e sono sicuro che dopo questa giornata ci saranno altre opportunità".
   Per il console De Santis "La visita dell'ambasciatore arriva a suggello di una serie di visite in diversi settori. Tre settimane fa abbiamo avuto il direttore generale del ministero dei trasporti che ha visitato il sistema portuale pugliese. Abbiamo collaborazioni con il Politecnico, nel settore biomedicale e della medicina: ci sarà una delegazione di medici pugliesi che sarà presto in Israele. Questa è la dimostrazione di come concretamente ci si metta al lavoro. Oggi si parla di aerospazio e delle tante occasioni di lavoro non solo per i grandi players internazionali ma anche per un indotto sia pugliese che israeliano, con nuovi posti di lavoro, per il benessere della nostra regione con partner affidabili e credibili come lo Stato di Israele".
   Per l'assessore allo Sviluppo Economico Borraccino "l'evento di oggi sottolinea l'importanza dell'aeroporto di Grottaglie dal punto di vista strategico. L'ambasciatore d'Israele in Italia ha compiuto una visita alla struttura che non è stata di circostanza ma un incontro all'insegna della concretezza con la società Leonardo, e le altre aziende dell'indotto presenti sul territorio, per promuovere future forme di collaborazione in ricerca e innovazione tecnologica nel campo dell'industria aerospaziale. Ho avuto modo di apprezzare la volontà dello Stato di Israele di lavorare insieme all'Italia, e in particolare alla Puglia, a importanti progetti innovativi.
   In questo contesto risulta particolarmente interessante il coinvolgimento di giovani studenti e ricercatori israeliani e pugliesi portato avanti dal Politecnico di Bari e dal Technion di Haifa.
   Si tratta di una cooperazione che consentirà a promettenti giovani e a imprenditori di lavorare insieme.
   Nella nostra regione, infatti, è ormai consolidata l'integrazione fra il sistema industriale e quello accademico al servizio del comparto aeronautico e aerospaziale, e questo aspetto fa del Distretto Tecnologico Aerospaziale Pugliese un esempio osservato con interesse a livello internazionale. Fra l'altro, l'aeroporto di Grottaglie è inserito dal Ministero dei Trasporti nella lista degli aeroporti di interesse nazionale, avendo tra l'altro la pista più lunga dell'Italia meridionale. E gli interventi di riqualificazione finanziati dalla Regione lo renderanno sicuramente appetibile anche alle compagnie aeree che gestiscono i voli civili. A questo si aggiunga il fatto che esso è stato inserito nell'ambito della Zona Economica Speciale Jonica deliberata dalla Giunta regionale pugliese e da quella lucana, e la cui realizzazione vede attualmente l'impegno lealmente collaborativo fra il Governo centrale, il Ministero del Sud e le Regioni Puglia e Basilicata. I rapporti di interscambio fra il Distretto Tecnologico Aerospaziale Pugliese e le imprese israeliane si tradurranno in maggiore sviluppo economico e occupazionale. Anche questo incontro va quindi nella direzione di offrire a giovani opportunamente qualificati importanti occasioni di inserimento".

(aise, 26 febbraio 2019)


Le dimissioni di Zarif spaccano l'Iran

di Cristoforo Spinella

ISTANBUL. - Le dimissioni di Javad Zarif spaccano l'Iran. Nella tarda serata di ieri, il ministro degli Esteri artefice dell'accordo sul nucleare aveva annunciato il passo indietro a sorpresa con un post sul suo profilo Instagram. Ma a 24 ore di distanza, il presidente Hassan Rohani non ha ancora sciolto la riserva sul futuro del diplomatico, legato a doppio filo con quello della politica estera di Teheran, stretta tra gli sforzi del governo moderato di salvare l'intesa del 2015 e il dialogo con l'Occidente e le pressioni degli ultra-conservatori per abbandonarli e tornare a uno scontro frontale.
   "Tutte le interpretazioni e le analisi sulle ragioni dietro i motivi delle dimissioni" diffuse finora "non sono accurate, e, come ha detto il capo di gabinetto del presidente dell'Iran, le dimissioni non sono state accettate", ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri, Bahram Ghasemi. Rohani ha difeso pubblicamente l'operato di Zarif, senza fare però riferimenti espliciti alle dimissioni: "Oggi - ha detto - la prima linea contro gli Stati Uniti sono i ministeri degli Esteri e del Petrolio, insieme alla Banca Centrale".
   Un braccio di ferro in cui sarà decisiva la posizione della Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei. Secondo i media locali, il primo vicepresidente Eshagh Jahangiri ha chiamato Zarif per convincerlo a tornare sui suoi passi. A sostegno del diplomatico si è schierata anche la maggioranza dei parlamentari iraniani. E sui social media, spopola in queste ore un hashtag in farsi che lo invita a restare.
   "Non possiamo lasciare il Paese in mano a 10 o 20 persone, perché il Paese è della nazione", ha detto ancora Rohani, rendendo esplicite le accuse agli ultra-conservatori. A spingere Zarif a lasciare è stata la clamorosa esclusione dagli incontri a Teheran con Bashar al Assad, nel primo viaggio all'estero del presidente siriano - Russia a parte - dall'inizio della guerra civile.
   Una visita "non diplomatica", ha tenuto a riferire Rohani. Ma oltre al presidente e alla Guida suprema, Assad ha incontrato anche il generale Qassem Soleimani, capo delle Brigate al Qods dei Pasdaran, i falchi che a Damasco hanno fornito in questi anni un decisivo appoggio militare. Per Zarif, uno schiaffo inaccettabile. "Spero che le mie dimissioni permetteranno al ministero degli Esteri di ritornare al suo ruolo legale nelle relazioni internazionali", ha detto in uno dei pochi commenti dopo la decisione.
Dall'assunzione della carica nel 2013, secondo gli analisti Zarif avrebbe minacciato le dimissioni una dozzina di volte per rafforzare l'appoggio alla sua linea, ma mai in pubblico. Uno scontro interno deflagrato dopo mesi di logoranti pressioni. Dall'abbandono dell'intesa sul nucleare di Donald Trump ai pesanti effetti economici delle sanzioni Usa, il capo della diplomazia è stato tra gli obiettivi privilegiati dei falchi. E le difficoltà europee nel mettere in atto iniziative concrete per salvare l'accordo hanno fatto il resto.

(La voce, 26 febbraio 2019)


Lugo: una conferenza dedicata all'umorismo ebraico con lo storico Daniel Fishman

Giovedì 28 febbraio alle 11 nel Salone estense della Rocca di Lugo ci sarà un incontro sul tema "L'umorismo nell'ebraismo - roba seria (ma non troppo)", insieme allo storico Daniel Fishman, curatore del volume Ebrei d'Emilia-Romagna. Voci, luoghi e percorsi di una comunità, edito da Pendragon (Bologna, 2018).
  L'umorismo è un elemento essenziale della cultura ebraica. Il saper ridere, anche di sé e della propria condizione, è una peculiarità che si è sviluppata nel mondo ebraico nel corso dei secoli, a diverse latitudini e con caratteristiche differenti di luogo in luogo. Secoli di persecuzione hanno dato importanza all'umorismo attraverso lo sviluppo di una capacità di sapere ridere delle proprie disgrazie. L'umorismo è servito a definire il rapporto della minoranza ebraica rispetto a una realtà circostante che a seconda dei momenti l'ha circuita, invitata, minacciata, colpita, integrata.
  Durante l'incontro saranno lette barzellette ebraiche.
  Daniel Fishman è nato a Bradford (Gb) nel 1961. Laureato in Storia, si occupa di comunicazione e valorizzazione dei patrimoni culturali. Ha pubblicato il saggio Il grande nascondimento. La straordinaria storia degli ebrei di Mashad (Giuntina, 2016), e i romanzi storici Il chilometro d'oro. Il mondo perduto degli italiani d'Egitto (Guerini, 2006) e La lotteria dei milioni. Combine al gran premio di Tripoli 1933 (Bookabook, 2017).
  Alla conferenza interverranno inoltre l'assessora alla Cultura del Comune di Lugo Anna Giulia Gallegati, la responsabile della biblioteca "Fabrizio Trisi" Luciana Cumino e il rabbino capo della comunità ebraica di Ferrara Luciano Caro.

(RavennaWebTv, 27 febbraio 2019)


L'antisemitismo e la soluzione che non si trova

La discriminazione contro gli ebrei aumenta in tutta Europa. Weber propone un patto per combatterla ma i suoi compagni di partito nel Ppe hanno molti scheletri nell'armadio

di Micol Flammini

ROMA - Domenica Manfred Weber ha scritto su Twitter che ha intenzione di proporre un patto contro l'antisemitismo. Il leader del Ppe al parlamento europeo lo ha ribadito anche al quotidiano tedesco Die Welt: "Proporrò un'iniziativa per inviare un messaggio chiaro" e far capire "che in Europa non c'è posto per l'antisemitismo". Ma il Partito popolare ha i suoi piccoli grandi scheletri che scalpitano da dentro l'armadio e qualcuno ha fatto notare a Weber che sarà difficile prendere iniziative importanti con Viktor Orbàn nel Ppe.
   Il premier ungherese conduce una sistematica campagna di un antisemitismo nemmeno troppo velato contro il miliardario George Soros. Qualcuno ha criticato anche la presenza di Sebastian Kurz che governa l'Austria con l'ultradestra dell'FpÖ, il cui leader Heinz-Christian Strache, che non ha mai nascosto il suo odio nei confronti del popolo ebraico, potrebbe decidere di seguire il premier austriaco anche dentro al Parlamento europeo. Dalla parte dei socialisti, invece, è Frans Timmermans che ha promesso che si impegnerà a combattere contro "questo flagello", mentre la scorsa settimana in Gran Bretagna un gruppo di parlamentari laburisti ha lasciato il partito in polemica con il leader Jeremy Corbyn e con i suoi attacchi contro gli ebrei.
   Tutti hanno il loro programma per combattere l'antisemitismo, è urgente, le iniziative aumentano ma gli episodi di violenza contro gli ebrei non si fermano. In Francia sono cresciuti del 74 per cento in un anno, e il comune di Parigi ha fatto sapere che da martedì scorso, quando la città ha organizzato la marcia contro l'antisemitismo dopo l'aggressione al filosofo francese di origine ebraica Alain Finkielkraut e dopo la profanazione del cimitero ebraico di Quatzeiheim in Alsazia, gli atti di violenza contro gli ebrei sono aumentati, sono due al giorno ha fatto sapere il sindaco della capitale Anne Hidalgo. Il dato è spaventoso, più se ne parla, più si cercano cure, punizioni e patti, più l'odio sembra aumentare.

(Il Foglio, 26 febbraio 2019)



Argentina: aggredito in casa il rabbino capo Gabriel Davidovich

Le condizioni sono gravi

Il rabbino capo dell'Argentina, Gabriel Davidovich
Il rabbino capo dell'Argentina è stato ricoverato in ospedale in gravi condizioni lunedì dopo essere stato picchiato durante un'invasione domestica lunedì 25 febbraio. L'attacco al rabbino Gabriel Davidovich nel quartiere di Once di Buenos Aires è stato condannato dai gruppi ebraici come un attacco antisemita.
   Gli aggressori, che sono entrati nella casa di Davidovich nelle prime ore dell'alba, hanno gridato "Sappiamo che sei il rabbino dell'AMIA", mentre lo picchiavano, secondo quanto riportato dalla stampa locale.
   Il rabbino è stato ricoverato in ospedale con diverse costole fratturate e un polmone perforato, ha riferito La Nacion. I resoconti della stampa in lingua ebraica riportavano le sue condizioni come "serie".
   Il gruppo ombrello della comunità ebraica della DAIA ha definito l'attacco antisemita e ha sollecitato le autorità ad agire, collegandolo agli attacchi antisemiti in Europa. Anche il gruppo locale di Avoda Labour ha descritto l'attacco come antisemita.
   L'amministratore delegato del World Jewish Congress e il vicepresidente esecutivo Robert Singer hanno affermato che l'individuazione di Davidovich come ebreo è "inquietante e preoccupante".
"Non è ancora chiaro se si tratti di un reato mirato di odioso antisemitismo o di un barbaro atto criminale, ma confidiamo che le autorità continueranno a fare tutto ciò che è in loro potere per determinare il movente e consegnare i colpevoli alla giustizia".
   Sharon Nazarian, funzionario dell'ADL, ha esortato "le autorità governative a indagare rapidamente su questo attacco odioso e chiedere ai leader della fede e ad altri funzionari di condannare questo crimine di odio judeofobico".
   L'Argentina ospita circa 200.000 ebrei, la maggior parte a Buenos Aires. Durante il fine settimana, le pietre tombali in un cimitero ebraico nella sezione di San Luis della capitale sono state vandalizzate. I funzionari hanno detto che non era chiaro se l'attacco fosse di natura antisemita.
   A novembre, i tifosi di calcio in Argentina avevano cantato "uccidere gli ebrei per fare sapone" durante una partita con una squadra storicamente associata alla comunità ebraica.

(Bet Magazine Mosaico, 26 febbraio 2019)


Perché la "Terrapromessa" degli ebrei a Parigi è nel XVII arrondissement

La libertà di portare la kippah in Francia

di Mauro Zanon

PARIGI - Fino a tre anni fa, il fenomeno dell"'Aliyah interno" era pressoché inesistente in Francia. Oggi, invece, il numero di francesi di confessione ebraica che, dinanzi alla recrudescenza dell'odio antisemita, sceglie di abbandonare il proprio quartiere per stabilirsi in una zona più sicura, è in constante aumento. Ieri, Le Parisien ha dedicato un approfondimento all'esodo silenzioso degli ebrei francesi, comunità che riunisce più di 500 mila persone in tutto il paese. Le cifre allarmanti sugli episodi di antisemitismo (541 nel 2018, pari a un più 74 per cento rispetto al 2017), l'importazione delle tensioni del conflitto israelo-palestinese, la radicalizzazione islamista e la diffusione di tesi complottiste mai definitivamente sepolte dal 1930, hanno spinto molti ebrei a cercare altrove la tranquillità che un tempo trovavano anche in certi quartieri popolari del Seine-Saint-Denis o dell'est parigino, oggi ghetti multi etnici e no-go zone per chi indossa la kippah. L'esempio più significativo è la diaspora degli ebrei di Parigi verso l'ovest, e in particolare verso il Diciassettesimo arrondissement, dove il rischio di farsi trattare da "sale juif" è praticamente inesistente. "E' la nuova Terra promessa esagonale!", scrive il Parisien. Lì, a nord ovest della capitale, a pochi passi dal sobborgo chic di Neuilly-surSeine, c'erano soltanto due ristoranti kosher negli anni Ottanta: oggi se ne contano diverse decine, affiancati da una quindicina di luoghi di culto. "Qui si è al sicuro", ha dichiarato Murielle Gordon-Schor, vicesindaco in quota Républicains (Lr) del Diciassettesimo arrondissement. Negli ultimi anni, gli arrivi si sono moltiplicati, in ragione del clima pacifico che si respira tra le strade del XVIIème, e ora l'arrondissement conta la più grande comunità ebraica francese. E persino europea. "Ci sono circa 45 mila ebrei, è la più importante comunità di Francia e anche d'Europa. Tutte le classi sociali sono presenti, perché è un quartiere dove ci sono appartamenti molto costosi ma anche abitazioni a prezzi più abbordabili", ha spiegato Murielle Gordon-Schor, anche vicepresidente del concistoro israelita di Parigi.
  Secondo le stime, un abitante su quattro nel Diciassettesimo arrondissement è di confessione ebraica. "Ci sono molti Lubavitch e molti liberi professionisti", ha aggiunto la responsabile politica di Lr, ma c'è soprattutto molta serenità legata all'assenza delle tensioni comunitarie che permeano i quartieri multiculturali dell'est e delle banlieue a nord di Parigi. "I nuovi arrivati hanno perso in termini di superficie ma hanno guadagnato in termini di serenità", riassume Garry Lévy, proprietario della macelleria kosher Berbeche. Non distante dalla rue de Lévis,arteria commerciale del Diciassettesimo con i suoi negozi tradizionali, sorgerà prossimamente il Centro europeo del giudaismo: un edificio di sette piani sviluppato su 4.900 m 2 e interamente dedicato alla cultura, al patrimonio e all'identità ebraiche. Una nuova oasi per gli ebrei parigini, che però non nasconde quello che il geografo Sylvain Manternach definisce "il fallimento della République". "Le comunità ebraiche hanno la sensazione di essere isolate e abbandonate, di non essere state ascoltate. Sentono che lo stato non ha preso atto della portata del problema", ha spiegato al Parisien Manternach, autore dell'inchiesta "L'an prochain Jérusalem" (Fayard) sulla tentazione degli ebrei francesi di tornare in Israele.
  Secondo quanto specificato da Sammy Ghozlan, presidente dell'Ufficio nazionale di vigilanza contro l'antisemitismo, la maggior parte delle partenze forzate si registra nei quartieri dei dipartimenti Seine-Saint-Denis, Val-de-Marne e Val-d'Oise. "In alcune città, ci sono state inutili battaglie pro palestinesi da parte dei consiglieri comunali. La popolazione locale ha ritenuto opportuno essere solidale al punto di prendersela con la comunità ebraica", ha spiegato Ghozlan. A Saint-Denis, il comune più islamizzato di Francia, le famiglie ebree non mandano più i loro figli nelle scuole pubbliche e una delle sinagoghe locali ha appena chiuso per mancanza di fedeli.

(Il Foglio, 26 febbraio 2019)


Iran - L'annuncio delle dimissioni di Zarif

I commenti ufficiali da Usa e Israele

 
  Mohammad Javad Zarif
ROMA - L'annuncio delle dimissioni del capo della diplomazia iraniana, Mohammad Javad Zarif, finora ha suscitato poche reazioni ufficiali, in particolare dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e dal leader druso libanese, Walid Jumblatt. Il capo della diplomazia di Washington sul suo profilo Twitter ha scritto: "Prendiamo nota delle dimissioni di Zarif. Vedremo se regge". Le dimissioni di Zarif necessitano, infatti, dell'approvazione da parte del presidente iraniano, Hassan Rohani. Pompeo si è scagliato, poi, contro la guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, affermando che prende lui le decisioni finali. "In ogni caso, Zarif e Rohani sono soltanto uomini di facciata di una mafia religiosa corrotta. Sappiamo che Khamenei prende le decisioni finali", ha scritto. Infine, il segretario di Stato ha ribadito che la politica di Washintgon verso Teheran non cambia: "Il regime deve comportarsi come un paese normale e rispettare la popolazione". Da parte sua, Netanyahu, ha esultato per le dimissioni del capo della diplomazia iraniana. "Finalmente. Finché sarò qui, l'Iran non avrà armi nucleari", ha affermato Netanyahu.

(Agenzia Nova, 26 febbraio 2019)


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Iran, si dimette il ministro degli Esteri Zarif

Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, si è dimesso. Lo ha riferito l'agenzia di stampa ufficiale Irna citando un portavoce, confermando il post che lo stesso Zarif ha pubblicato su Instagram, comunicando la sua volontà di uscire dal governo presieduto da Hassan Rohani.
   Zarif è stato uno dei protagonisti nel raggiungere l'accordo sul nucleare iraniano del 2015 con le potenze mondiali ma è stato attaccato da estremisti anti-occidentali dopo che gli Stati Uniti hanno revocato l'accordo lo scorso maggio e ripristinato le sanzioni che erano state abolite. Zarif ha offerto le sue «scuse» per la sua «impossibilità di continuare il suo servizio» senza, però, offrire alcuna motivazione immediata. In ogni caso, l'accordo negoziato nel 2015 sembra ora sul punto di collasso dopo che il presidente Donald Trump ha ritirato l'America l'anno scorso. Non è ancora chiaro se il presidente Hassan Rouhani accetterà le dimissioni di Zarif.
   Proprio ieri Zarif aveva fatto appello agli ambienti conservatori perché accettassero il varo di due leggi che puntano a mettere in regola Teheran con le normative antiriciclaggio per combattere il finanziamento al terrorismo e il crimine organizzato transnazionale previste dall'organizzazione intergovernativa Gruppo d'azione finanziaria internazionale (Fatf), per poter così mantenere aperti i canali commerciali e bancari con il resto del mondo nonostante le sanzioni americane. Ma lo schieramento conservatore teme che queste norme possano mettere a repentaglio il sostegno iraniano a diverse milizie all'estero, prime fra tutte quelle di Hezbollah in Libano. Oggi anche la Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, ha criticato l'insistenza di esponenti governativi - tra cui appunto Zarif - per l'approvazione di queste norme antiriciclaggio.

(Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2019)


C'è un software che traduce il Talmud in italiano

L'imponente "Progetto Talmud Babilonese", finanziato dal Miur, renderà comprensibile un testo fondamentale dell'antica cultura ebraica

di Maurizio Tortorella

È, probabilmente, la più imponente opera di traduzione mai intrapresa nella storia dell'umanità: trasformare in un testo italiano l'antico Talmud Babilonese, con i suoi 63 trattati in 517 capitoli.
   Il Progetto Traduzione Talmud Babilonese ha proprio l'obiettivo di produrre la traduzione digitalizzata di un testo che da oltre 15 secoli è tradizionalmente al centro dell'antica cultura ebraica.
   L'antico Talmud (scritto in ebraico e in aramaico) è il commento della Mishnà: la prima trascrizione della legge orale che i rabbini hanno cominciato a redigere nel 70 dopo Cristo, all'epoca della caduta del secondo tempio di Gerusalemme. Il testo che si sta traducendo risale dunque al terzo-quinto secolo, e non tratta soltanto di materia religiosa, ma si occupa di ogni aspetto dell'esistenza: dalla giurisprudenza alla scienza, dalla filosofia alla vita di tutti i giorni. È un'opera fondamentale, dunque, e non solo in campo religioso, ma in ogni aspetto della conoscenza umana.
   Da ormai quasi cinque anni, l'equipe al comando della costituzionalista Clelia Piperno è impegnata nella creazione di una traduzione commentata, con testo originale a fronte in lingua ebraica e aramaica. Al progetto lavorano una novantina di persone (non solo ebrei): sono traduttori, esperti di dottrina, informatici e redattori.
   La traduzione è opera del tutto umana, ovviamente, ma viene realizzata con avanzatissimi strumenti di linguistica computazionale e con l'ausilio di un'applicazione informatica, chiamata "Traduco". "È un sistema che migliora con il passare del tempo" spiega Piperno "perché la macchina impara, accumula dati e li connette, riconoscendo per esempio le frasi idiomatiche più ricorrenti". Dopo quasi cinque anni di lavoro, la memoria di "Traduco" è così ricca da consentire al sistema di suggerire automaticamente una traduzione esatta, in media, una volta su due.
   Sviluppata proprio per il Progetto Talmud dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, Traduco ha reso possibile la creazione di una comunità internazionale di traduttori altamente specializzati.
   Finanziato con 12 milioni di euro dal ministero dell'Università e della Ricerca, realizzato in collaborazione con il Cnr e con l'Unione delle comunità ebraiche italiane, Progetto Talmud è appena arrivato al terzo libro: dopo i primi due trattati sul Capodanno e sulle Benedizioni, è appena uscito Ta'anìt, cioè il Digiuno.
   Come spiega Piperno, l'immane lavoro di chi sta traducendo il Talmud "consente anche capire com'era l'insalata che si mangiava 15 secoli fa, o che cosa sia diventata quella certa verdura di cui si parlava allora: nell'antichità, per esempio, i datteri erano frutti grossi come una mano".
   Nel Talmud, del resto, si parla di piante e di animali, di fiumi e di venti. Nelle Benedizioni uno dei temi più analizzati è quello dei sogni e spesso sembra di leggere un trattato di Sigmund Freud.
   "Pochi avrebbero scommesso sull'uscita di un solo libro" dice oggi la professoressa Piperno "e invece siamo già arrivati a tre. Abbiamo presentato il progetto negli Stati Uniti e alle Nazioni Unite. In giugno andremo a Mosca per valutare la possibilità di applicare il software anche al cirillico".
   Il Progetto Traduzione del Talmud rappresenta uno straordinario arricchimento del patrimonio culturale italiano, e consentirà l'accesso a un'opera che ha caratterizzato l'ebraismo e influenzato la storia europea degli ultimi mille anni.

(Panorama, 25 febbraio 2019)



La Gran Bretagna mette fuori legge Hezbollah

Venerdì il voto in Parlamento: fino a 10 anni di carcere ai sostenitori

Il Parlamento britannico si appresta a mettere fuori legge Hezbollah, il movimento sciita libanese acerrimo nemico di Israele e appoggiato dall'Iran. Il voto è previsto venerdì e la mozione vuole includere anche l'ala politica del «Partito di Dio» fra le organizzazioni terroristiche. L'ala militare è già inclusa nella lista nera dalla maggior parte degli Stati europei e dagli Stati Uniti d'America. Nel Regno unito parti dell'organizzazione sono state bandite nel 2001 e l'ala militare nel 2008.
   Il governo britannico sostiene che però adesso è impossibile «distinguere fra l'ala militare e quella politica». Hezbollah, assieme agli alleati sciiti, ha ottenuto un buon risultato alle elezioni dello scorso maggio e ha ottenuto tre ministri nel nuovo governo libanese, appena formato sotto la guida del premier sunnita Saad Hariri. Gli sciiti in Libano sono almeno il 35 per cento della popolazione e hanno conquistato una influenza crescente, soprattutto dopo l'ultima guerra con Israele, nell'estate del 2006, che si è conclusa con il ritiro delle forze israeliane e una vittoria «tattica» dei miliziani.
   Se la legge verrà approvata, i sostenitori di Hezbollah rischieranno in Gran Bretagna fino a 10 anni di carcere. Il ministro dell'Interno Sajid Javid ha spiegato di voler mettere al bando il movimento per i suoi «continui tentativi di destabilizzare la fragile situazione in Medio Oriente». La decisione arriva dopo la Conferenza di Varsavia, organizzata dagli Stati Uniti per allertare gli alleati europei e arabi sulla pericolosità dell'Iran e delle milizie sciite alleate in Medio Oriente. La decisione britannica segna un punto a favore di Washington e di Israele, che hanno partecipato al summit, e rinsaldato i legami con i Paesi arabi sunniti anti-Teheran. Il governo israeliano «si è felicitato» della decisione di Londra.

(La Stampa, 25 febbraio 2019)


Israele, arrestata la massima autorità islamica nazionale

La prima reazione critica suscitata dall'incarcerazione del chierico è stata quella della Casa reale giordana, titolare del potere di nominare la massima autorità musulmana di Israele

di Gerry Freda

Le autorità israeliane hanno di recente arrestato la massima autorità islamica dello Stato ebraico.
Secondo i media locali, Sheikh Abdelazeem Salhab, "custode" dei luoghi di culto musulmani presenti a Gerusalemme, è stato infatti incarcerato con l'accusa di "terrorismo". In base a quanto riportato dai network del Paese mediorientale, la polizia avrebbe accusato il religioso di avere "preso parte" alle riunioni di un'associazione indiziata di "propaganda islamista". In particolare, Salhab avrebbe partecipato alle iniziative promosse dall'Islamic Waqf, una confraternita formalmente impegnata nella salvaguardia dei diritti di culto spettanti alla comunità maomettana israeliana. Per l'esecutivo Netanyahu, invece, tale sigla sarebbe in realtà un "ricettacolo di simpatizzanti di Hamas".
   Sono stati gli stessi vertici dell'associazione a confermare la notizia dell'arresto del chierico. Mahdi Abdelhadi, uno dei massimi rappresentanti dell'Islamic Waqf, ha poi accusato la polizia dello Stato ebraico di avere "montato ad arte" le accuse a carico di Salhab e di essere ispirata da "motivazioni politiche". L'esponente della confraternita ha quindi esortato "tutti i musulmani" presenti in Medio Oriente a "mobilitarsi" per indurre il governo Netanyahu a scarcerare il "custode" dei luoghi di culto islamici.
   Secondo un comunicato diffuso successivamente dall'ufficio stampa dell'Autorità nazionale palestinese, Salhab sarebbe stato "rilasciato" dalle autorità israeliane per "insufficienza di prove". Tuttavia, tale notizia è stata rapidamente "smentita" dalla polizia di Gerusalemme, la quale ha precisato che, a carico del religioso, vi sarebbe un "quadro indiziario estremamente compromettente".
   La prima reazione critica suscitata dall'incarcerazione del chierico è stata quella della Casa reale giordana, titolare del potere di nominare la massima autorità musulmana di Israele. Fonti vicine a re Abd Allah II attestano infatti che quest'ultimo avrebbe esternato "profondo risentimento" all'indirizzo dell'esecutivo Netanyahu e avrebbe poi "invitato" le forze dell'ordine dello Stato ebraico a "esaminare con imparzialità" gli indizi a carico di Salhab.

(il Giornale, 25 febbraio 2019)


Oscar all'israeliano Guy Nattiv per il corto contro il razzismo

Ambientato negli Stati Uniti, è una storia sull'odio radicato nel razzismo, in cui vengono coinvolti due bambini, uno figlio di un suprematista bianco, l'altro con la pelle nera.

di Ariela Piattelli

 
Guy Nattiv e Jaime Ray Newman   

 
È andato al regista israeliano Guy Nattiv l'Oscar per il miglior cortometraggio, per il suo "Skin", opera di venti minuti contro il razzismo. "Layla Tov Israel", ovvero "Buonanotte Israele" in ebraico, ha detto Nattiv dal palcoscenico degli Oscar, assieme alla moglie Jaime Ray Newman, che ha prodotto il corto, e Sharon Maymon, autore della sceneggiatura.
   "Skin", ambientato negli Stati Uniti, è una storia sull'odio radicato nel razzismo, in cui vengono coinvolti due bambini, uno figlio di un suprematista bianco, l'altro con la pelle nera. «I miei nonni erano sopravvissuti alla Shoah. - ha detto Nattiv ritirando la statuetta - L'odio che loro subirono oggi lo vediamo ovunque, negli Stati Uniti e in Europa. Questo film parla di educazione e di come insegnare ai vostri figli qualcosa di diverso, di migliore».
   Il Presidente dello Stato d'Israele Reuven Rivlin si è congratulato con Nattiv in un messaggio. «Caro Guy, tutto il merito per "Skin" va a te, Sharon e Jaime Ray, ma il film è un regalo ai nostri figli e nipoti, per il futuro che desideriamo per loro. Orgoglioso di essere israeliano! Mazal Tov!».
   Se negli ultimi anni il cinema israeliano ha portato a casa i più prestigiosi premi dei festival internazionali (con un Orso d'Oro appena assegnato a Nadav Lapid per il suo "Synonymes"), vero è che l'ultima statuetta ritirata da un israeliano ad Hollywood risale al 1978, quando toccò a Moshé Mizrahi con il suo "La vita davanti a sé", tratto dall'omonimo libro di Romain Gary.
   E adesso lo sceneggiatore Sharon Maymon, uno dei più importanti protagonisti del cinema israeliano e autore di commedie di successo, ricorda su un quotidiano israeliano quando un anno fa, forse un po' scherzando, scriveva in un messaggio a Nattiv: «Ho un'idea per un film che ci porterà agli Oscar».

(La Stampa, 25 febbraio 2019)


Imperia, il sindaco Claudio Scajola in Israele incontra il premier Benjamin Netanyahu

Il meeting si terrà tra Gerusalemme e Tel Aviv fino al 28 febbraio.

di Diego David

Imperia.Il sindaco Claudio Scajola, è partito nelle scorse ore alla volta di Israele per prendere parte alla 33a Conferenza Internazionale dei sindaci, dove questo pomeriggio incontrerà il premier israeliano Benjamin Netanyahu.
L'evento è un meeting che ha lo scopo di creare un network internazionale al fine di condividere esperienze e soluzioni per la buona amministrazione delle aree urbane. Il tema centrale di quest'anno è l'innovazione, che si lega allo sviluppo sostenibile e alla sicurezza delle città.
Il sindaco Scajola è l'unico rappresentante italiano presente alla Conferenza, che si terrà tra Gerusalemme e Tel Aviv fino al 28 febbraio.
La Conferenza è organizzata dal Ministero degli Esteri di Israele, in collaborazione con l'American Jewish Congress e l'American Council for World Jewry.

(Riviera24, 25 febbraio 2019)


Tour in Israele tra Bibbia, startup e lanci sulla Luna

In principio fu la Luna. Mica per nulla l'hanno chiamato Beresheet, «all'inizio». Il primo portabandiera della Stella di David nello spazio. Un gippone lunare. Un rover dell'Agenzia spaziale israeliana costato 100 milioni di dollari. Che è decollato nei giorni scorsi dalla base di Cape Canaveral, montato su un razzo Falcon 9, e che non è stato semplicemente l'esordio d'un privato sul Satellite: cinquant'anni dopo, è il primo passo d'Israele sulle orme di Neil Armstrong. Dal Mar Morto al Mare della Tranquillità, Beresheet è già un simbolo. Il principio, l'inizio di un'altra storia. Perché questa non è solo la Terra promessa della Bibbia, qui non ci si accapiglia solo per le antiche pietre: lo Stato ebraico è diventato negli ultimi dieci anni la nuova frontiera delle start up, dell'avvio di nuove tecnologie. Per densità di nuove imprese 2.0, non c'è città al mondo che batta Tel Aviv. L'Israele che non t'aspetti. Una nuova Silicon Wadi, traduzione mediorientale di Valley, che i lettori del Corriere accompagnati dall'inviato Francesco Battistini e dal corrispondente Davide Frattini - avranno occasione di sfiorare nella visita alla capitale del Bauhaus. Grande centro dell'innovazione, fabbrica di premi Nobel, un padre della patria come Shimon Peres che a 90 anni s'appassionò come pochi alle nanotecnologie, Israele sbarca sulla Luna in un momento di svolta sociale e politica. Nei giorni del loro viaggio, i lettori troveranno un Paese immerso nella campagna elettorale del 9 aprile: la sfida all'inossidabile Bibi Netanyahu portata, stavolta, dalla coalizione centrista dell'ex generale Benny Gantz e dell'ex ministro liberale Yair Lapid. Un inizio. O una conferma. Quando Beresheet macinerà i suoi primi chilometri sulla Luna, sapremo che spazio ci sarà per il futuro di questa terra.

(Corriere della Sera, 25 febbraio 2019)


Il ritorno dell'antisemitismo

di Paola Peduzzi

Paola Peduzzi
Non si vedeva tanto antisemitismo dalla Seconda guerra mondiale, ha detto il presidente francese Emmanuel Macron, riportando alla memoria l'orrore del passato che tornato vivo e palpabile nelle tombe ebraiche profanate, nelle svastiche blu e gialle, negli insulti per strada, «sionista di merda tornatene a casa», come ha detto un manipolo di gilet jaunes all'intellettuale Alain Finkielkraut la settimana scorsa, e nelle uccisioni, perché si muore ancora, nella modernissima Francia, per il semplice fatto di essere ebrei. Ci dimentichiamo tutto, in questa età della distrazione, ma soltanto un anno fa a Parigi, una signora di 85 anni sopravvissuta all'Olocausto, Mireille Knoll, è stata accoltellata undici volte nel suo letto, e poi bruciata viva (se era ancora viva).
  I dati del Ministero dell'interno dicono che l'antisemitismo è cresciuto del 74 per cento: 541 episodi nel 2018, nel 2017 erano stati 311. Nicole Yardeni, che era a capo del Consiglio delle istituzioni ebraiche di Tolosa quando, nel 2012, il giovane Mohammed Merah assaltò una scuola ebraica in città, ha fatto un commento preciso: «Ho l'impressione che quel che avveniva soltanto su internet, i fantasmi del complottismo antisemita, si sia riversato nelle strade, a viso scoperto.
  È come se il tabù della Seconda guerra mondiale sia stato superato». L'antisemitismo è stato sdoganato, e le rappresentazioni degli ebrei col naso adunco avidi e potenti sono tornate se non presentabili, almeno legittime: basta vedere quel che accade con il tycoon ungherese George Soros, per capire che quella è soltanto la cosa più visibile di un fenomeno più capillare e quotidiano. E infatti gli ebrei scappano, se possono tornano in Israele, perché nella nostra Europa non si sentono più al sicuro.
  Macron ha detto che sono già state prese delle misure e che altre ne saranno introdotte, e che questa cultura dell'odio sarà punita e governata. Gli strumenti ci sono, giudiziari e di sicurezza, ma si sa che questo tipo di recrudescenze non sono facili da debellare, nonostante il coro di scorno e di indignazione che si è sollevato un po' ovunque. Il presidente francese ha anche affrontato una delle questioni cruciali, che è stata sollevata in questi giorni quando si è scoperto che l'uomo che ha insultato Finkielkraut è islamico: «Accanto all'antisemitismo tradizionale c'è quello fondato sull'islamismo radicale», ha detto Macron. Il fanatismo islamista esiste ed è brutale, la Francia lo ha sperimentato sulla sua pelle, ma quel che è cambiato ha a che fare con lo sdoganamento dell'antisemitismo negli estremisti di destra e di sinistra, autoctoni. In America questa trasformazione è stata tragicamente chiara: l'attentatore della sinagoga di Pittsburgh, in cui sono morte undici persone, la più grave strage contro gli ebrei della storia recente statunitense, era un bianco convinto che Soros, l'ebreo Soros, stesse finanziando un'invasione di immigrati in America per «contaminare» e infine «distruggere» il paese.
  Nella folla che ha manifestato a Parigi questa settimana contro l'antisemitismo sono emerse tutte le fratture e le contraddizioni: ventimila persone a Place de la République per dire «ça suffit», ora basta, a questo odio. A pochi passi dalla piazza simbolo dei valori francesi, la sinistra radicale ha organizzato la sua manifestazione, sempre contro l'odio, ma anche contro i «tentativi di strumentalizzazione» di questa faccenda, per rivendicare il diritto di definirsi antisionisti, confondendo la critica a Israele e al suo governo con il diritto a esistere dello stato ebraico. Dell'estrema destra è quasi superfluo parlare: Marine Le Pen, leader del Rassemblement national (l'ex Front National), non ha partecipato alla manifestazione, dice che vuole mostrare solidarietà agli ebrei con altri gesti, senza mischiarsi con l'ipocrisia di questa protesta.
  Lo sdoganamento dell'antisemitismo è di fatto stato sancito con la protesta dei gilet gialli. C'è la tendenza a dare la colpa a questi manifestanti di tutti i guai culturali e politici della Francia e dell'occidente, ed è una tendenza eccessiva. Ma non si può negare il fatto che il clima di anarchia che si è creato attorno ai giubbetti catarifrangenti - si può sostenere tutto lì dentro, dalla guerra civile a «sionista di merda» - ha costruito un contenitore per la convergenza di destra estrema, sinistra estrema, islamismo, antiglobalizzazione, anticapitalismo, che si sfoga con l'odio per il denaro e per gli ebrei. Si discute se sia stato il comunitarismo di sinistra a creare questo sdoganamento o il solito, indomito fascismo, ma intanto sui muri i gilet gialli scrivono la sintesi del loro pensiero: «Macron, sei la puttana di Rotschild o degli ebrei?».

(Azione.ch, 25 febbraio 2019)


La Jihad Islamica mostra missile in grado di colpire Tel Aviv

La Jihad Islamica annuncia con un video di essere in possesso di missili in grado di raggiungere Tel Aviv mentre contemporaneamente Hezbollah diffonde un altro video dell'attacco avvenuto il 28 gennaio 2015 nel quale persero la vita due soldati israeliani e sette rimasero feriti. E' una propaganda a tutto campo ordita da Teheran per spaventare gli israeliani.

Ieri la televisione iraniana ha mostrato un video/documentario sulla Jihad Islamica, il gruppo terrorista palestinese sotto il completo controllo di Teheran che opera dalla Striscia di Gaza.
Nel video i terroristi presentano un nuovo missile in grado di raggiungere Tel Aviv e addirittura oltre....

(Rights Reporters, 25 febbraio 2019)


Neanche i radar cinesi fermano gli F-35

 
Le immagini di una satellite commerciale israeliano hanno mostrato le distruzioni causate da un attacco di F-35I ADIR (versione israeliana dell'F-35A), dell'Aviazione di Tel Aviv, contro una installazione militare nei pressi dell'aeroporto internazionale di Damasco, lo scorso 20 gennaio.
L'obiettivo dell'attacco - probabilmente compiuto utilizzando missili anti radiazioni AGM-88E AARGM - era il radar di costruzione cinese JY-27, in dotazione alle Forze di Difesa siriane. Si tratta di un sistema di scoperta rapido e a lungo raggio, progettato e sviluppato per fornire informazioni di preallarme (che vengono immediatamente trasmesse alle batterie di missili superficie-aria) e rilevare anche bersagli aerei dotati di tecnologia stealth, come i caccia F-35 e F-22.
Appare evidente - visti i successi riportati negli ultimi mesi - la relativa facilità con cui l'Aviazione con la Stella di David riesca a bucare le difese aeree siriane, nonostante l'acquisizione di equipaggiamenti moderni russi e cinesi.

(Difesa, 25 febbraio 2019)


Sinologie - Shanghai, porto sicuro per gli Ebrei

Dall'inizio degli anni trenta fino alla fine degli anni quaranta del 1900, Shanghai ospitò circa 20,000 rifugiati ebrei europei in fuga dal nazismo. Spesso la storia ci ha restituito una lettura acritica di quello che avvenne in quel periodo. Una tesi di laureata emergere le verità circa l'atteggiamento dei funzionari stranieri, dei giapponesi e dei cinesi stessi, restituendo verità storica a un momento importante.

Gran parte della letteratura su quel periodo sostiene che: per entrare a Shanghai non fossero necessari né il passaporto né il visto d'ingresso, che i cinesi accolsero e aiutarono i rifugiati con animo generoso e che i giapponesi, pur sotto la pressione della Germania, non sterminarono gli ebrei presenti in città per spirito umanitario. La realtà è però ben diversa e la finalità di questo lavoro è stato proprio di fare chiarezza su alcune dei punti fermi della storiografia di questo periodo per fare affiorare alcune verità.
   In primo luogo, le ambasciate cinesi all'estero continuarono a richiedere e a rilasciare il visto d'ingresso per la Cina anche durante gli anni della seconda guerra mondiale, ma, dal momento che circolava voce che era possibile entrare liberamente a Shanghai, molti ebrei non lo richiesero. Tale confusione deriva dal fatto che il territorio di Shanghai era estremamente frammentato dal punto di vista politico: il potere non era nelle mani dei cinesi, bensì, a partire dal trattato di Nanchino del 1842, degli occidentali (francesi, inglesi e statunitensi istituirono in città le loro concessioni), dei ricchi e influenti ebrei sefarditi e, dal 1937, anche dei giapponesi. Nessuna di queste enclaves straniere aveva il reale potere, o l'intenzione, di controllare i passaporti degli ebrei: gli occidentali avevano solo potere amministrativo e i giapponesi, pur controllando l'area del porto, non impedirono l'ingresso agli ebrei perché non volevano urtare né gli stranieri presenti in città, né la Germania, loro alleata.
   In secondo luogo, i cinesi accolsero sì gli ebrei, ma solo perché, non avendo potere nelle aree in cui questi ultimi si stabilirono, non avrebbero potuto fare altrimenti; se da un lato sono poche le testimonianze di screzi tra cinesi ed ebrei, dall'altro lato si parla più che altro di indifferenza dei cinesi verso i rifugiati e viceversa: in tempo di guerra ognuno pensava innanzitutto alla propria sopravvivenza, per non parlare poi dell'ostacolo della lingua.
   In terzo e ultimo luogo, se è vero che i giapponesi non sterminarono gli ebrei di Shanghai nonostante le pressioni da parte della Germania, è anche vero che agirono più per interesse che per umanitarismo. I cosiddetti "esperti della questione ebraica" giapponesi avevano infatti una visione distorta degli ebrei: erano convinti che controllassero l'economia e i media mondiali e insistettero quindi con le autorità giapponesi perché venissero salvati, per averli poi dalla loro parte e usare la loro presunta influenza per rendere il Giappone una super potenza. Il Giappone cedette solo parzialmente alle pressioni della Germania, istituendo, nel 1943, un ghetto nell'area di Hongkou, le cui condizioni erano, peraltro, di gran lunga migliori rispetto a quelle dei ghetti europei.
   Indipendentemente da quello che fu l'atteggiamento di giapponesi, cinesi e rappresentanti delle legazioni straniere in quel periodo verso i rifugiati ebrei, la verità è che più di 20000 persone riuscirono a fuggire all'olocausto rifugiandosi in Cina.

Titolo originale della tesi: "Shanghai: un'inattesa possibilità di salvezza per gli Ebrei in fuga dall'Olocausto", discussa presso l'Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Studi Umanistici, Corso di Laurea in Lingue e Civiltà dell'Asia e dell'Africa, Anno accademico 2017-2018.

(China Files, 25 febbraio 2019)


I bambini rapiti da Israele, sessant'anni fa

Furono sottratti a centinaia alle famiglie povere e dati in adozione a quelle più ricche, racconta il New York Times, in un caso sul quale si è cominciato a fare chiarezza solo da poco.

Il New York Times
ha raccontato la storia di diversi bambini protagonisti di un fenomeno poco noto dei primi anni di storia dello stato di Israele, dalla fine degli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta. In quel periodo, centinaia di neonati e bambini furono sottratti alle loro famiglie, generalmente povere e a cui veniva detto che era morta, per essere poi dati in adozione a famiglie senza figli aschenazite, cioè a famiglie ebree di origini centro-europee, più ricche. È un caso su cui ci sono denunce e testimonianze da decenni, ma sul quale soltanto negli ultimi anni si è cominciato a fare chiarezza.
Dopo la fondazione di Israele, moltissime famiglie ebree di ogni regione del mondo si trasferirono nei nuovi territori dello stato, e vennero alloggiate in campi di accoglienza provvisori. Erano delle tendopoli che lo stato allestiva per far fronte alla scarsità di case, e nelle quali le condizioni di vita erano piuttosto dure. Secondo i racconti di molte famiglie, simili tra loro, alle donne che partorivano negli ospedali o ai genitori che lasciavano il proprio neonato in uno studio medico per farlo visitare veniva detto che il loro bambino era improvvisamente morto. Altri genitori venivano invitati a lasciare il figlio in un asilo durante il giorno, e quando tornavano a riprenderlo veniva spiegato loro che il bambino era stato portato in ospedale, dove era poi morto. A queste famiglie non furono mai mostrati un corpo o una tomba, come testimonianza della morte dei loro figli: molte non ricevettero neppure un certificato di morte....

(il Post, 25 febbraio 2019)


Israele - Al via un’esercitazione che simula un possibile scontro a Gaza

GERUSALEMME - L'esercito israeliano ha lanciato oggi un'esercitazione su vasta a sorpresa, simulando una serie di scenari di guerra. Lo riferisce un comunicato stampa dell'Esercito israeliano. L'esercitazione durerà tre giorni e si concluderà martedì 26 febbraio. Tra gli scenari simulati durante l'esercitazione anche un possibile conflitto nella Striscia di Gaza. L'esercitazione vede l'impiego di forze di terre, mezzi, artiglieria e aerei. L'esercitazione "testa la preparazione operativa per una serie di scenari di combattimento, specialmente nella Striscia di Gaza", rende noto l'Esercito. Le ultime settimane hanno visto un drammatico aumento del livello di violenza lungo il confine di Gaza, con rivolte notturne e nuovi attacchi con palloni incendiari nell'aria, che si erano conclusi dopo un accordo di cessate il fuoco di fatto tra Israele e il movimento palestinese Hamas raggiunto lo scorso novembre.

(Agenzia Nova, 24 febbraio 2019)


Israele alle urne: come cambia la mappa politica

La prima novità è il patto tra Gantz e Lapid. Hanno deciso di presentarsi con una lista comune che consoliderà il centro e prenderà parte dell'elettorato di sinistra e di destra.

di Francesco De Palo

I gruppi politici si affrettano a presentare le liste elettorali, cui viene assegnata una lettera o un gruppo di lettere - e quest'anno a quanto pare ci sarà un grande numero di sigle a confondere gli elettori.
   La prima grande novità è il patto tra Gantz e Lapid: i due leader hanno deciso di presentarsi con una lista comune che consoliderà il centro e prenderà parte dell'elettorato di sinistra e di destra. Benny Gantz, ex capo di stato maggiore, ha fondato il partito "Hosen" (vigore), cui si sono uniti altri due generali, Moshe Ya'alon e Gabi Ashkenazi. Tra gli elementi dell'accordo anche la presidenza del consiglio a rotazione, iniziando da Gantz - che nei sondaggi è in testa a Lapid.
   L'accordo fa paura alla destra, e Netanyahu lo ha denigrato come "una colazione di sinistra che è appoggiata dagli arabi". La reazione del leader del Likud è stata rivolgersi agli altri partiti di destra: la "Nuova Destra" di Naftali Bennet e Ayelet Shaked, "Casa Ebraica" ora di Rafi Peretz, "Unione Nazionale" di Betzalel Smoutrich e "Potenza ebraica" di Itamar Ben-Gvir.
   Se l'elettorato del Likud ha dato un chiaro segnale votando di più l'ala liberale e lasciando fuori i populisti, ora si ritroverà a dover affrontare una coalizione con la destra radicale.
   I tre partiti della destra religiosa, Casa Ebraica, Unione Nazionale e Potenza Ebraica si sono uniti per passare la soglia di sbarramento, anche se questa unione non piace a nessuno, né all'interno del Likud né a molti religiosi. Il tentativo di ricostruire un gruppo politico che si rivolga all'elettorato religioso sionista può essere rischioso. Smutrich ha una retorica ostile alle minoranze, ma accettabile per i meno radicali di Casa Ebraica. Itamar Ben-Gvir invece può solo far perdere voti. Il suo partito affonda le radici nel movimento estremista di rav Kahana e nel partito Kach, squalificato dalle elezioni trent'anni fa perché propugnava un'ideologia razzista. Da partito di nicchia in cui si rispecchiano i più estremisti, che vedono anche nell'esercito una forza nemica, può diventare un partito di coalizione - anche se la Commissione per le Elezioni può escludere i candidati se riterrà che la loro agenda non rispecchia valori democratici.
   L'ala più liberale del Likud non ha per ora commentato, ma le critiche sono arrivate anche dall'America, dove la lobby pro-israeliana AIPAC, che solitamente non si esprime su questioni interne, ha pubblicato un comunicato stampa in cui condanna il patto politico: "le opinioni di Utzma Yehudit sono riprovevoli. Non rispecchiano i valori che sono il fondamento dello Stato di Israele". È la prima volta che AIPAC commenta su una coalizione, e per molti è un segnale di allarme per Netanyahu. Il comunicato arriva tre giorni prima dell'anniversario della strage di Hebron compiuta da un allievo di rav Kahane, Baruch Goldstein, durante l'ora di preghiera islamica alla Tomba dei Patriarchi. Goldstein tra le frange più estremiste è diventato un idolo e la sua foto compare nella bacheca di un candidato di Utzmah Yehudit.
   Gli sviluppi fanno discutere il pubblico religioso e le elezioni saranno una prova di sopravvivenza dei partiti di settore. Le primarie del Likud e di Avodah hanno dimostrato che l'identità religiosa o laica non è un elemento di preferenza del voto. L'abbandono di Casa Ebraica e la fondazione di un nuovo partito da parte di Bennett anche conferma la tendenza ad abbandonare la politica identitaria, mentre la ricostruzione di un gruppo che rispecchi l'elettorato religioso non è impresa facile (e alcuni credono non più necessaria).
   Un'altra novità arriva dai partiti arabi: dopo che Ta'al (movimento arabo per il rinnovamento, di stampo nazionalista e laico) di Ahmad Tibi si era separato dalla Lista Unita, ha fatto marcia indietro ed ha stretto un patto con Hadash di Udeh (già leader della Lista Araba Unita). Balad (acronimo di Patto democratico nazionale e in arabo anche Paese, di stampo nazionalista e pan arabista), invece, si presenterà con il partito del Movimento Islamico. L'elettorato arabo è complesso, e si divide per identità religiosa e culturale (i drusi per esempio tendono a votare Likud, gli ex comunisti per Balad, i Cristiani per Hadash), per contesto sociale (nelle cittadine a maggioranza islamica tradizionalista è il movimento islamico a dominare, nei villaggi invece era la Lista Araba) e per età (i giovani tendono ad esser più attenti alla retorica nazionalista palestinese che agli interessi socio-economici della comunità).
   Secondo le stime, la Knesset israeliana si rinnoverà di quasi il 50%, cioè circa 60 nuovi parlamentari occuperanno i seggi in un panorama politico quasi nuovo.
   Ma la domanda che tutti si pongono, e che cambierà il corso delle elezioni: cosa sarà dei procedimenti giudiziari contro Netanyahu? È una domanda importante perché è la prima volta nella storia politica di Israele che un Primo Ministro attende di sapere se sarà incriminato, in più proprio prima delle elezioni.

(formiche, 24 febbraio 2019)


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Elezioni in Israele: strategie a confronto

di Ugo Volli

 
Ugo Volli
Elezioni in Israele: strategie a confronto. Chi pensa a un paese e a un popolo come suoi, soprattutto da lontano, lo idealizza in molti modi: se è presuntuoso e se ne vuol distaccare si permette di giudicarlo secondo criteri diversi da quelli che applica normalmente, proponendosi come maestro di morale; se invece lo ama e lo appoggia tende a farsi delle illusioni sulla sua unità. Applicato a Israele, realizzazione storica di un popolo esiliato e perseguitato per millenni, il primo atteggiamento è ignobile, ma anche il secondo è sbagliato, destinato a produrre illusioni e delusioni.
   Lo si vede bene in queste elezioni. Lasciando da parte i partiti religiosi che più che avere una strategia per il paese tutelano i loro gruppi di riferimento, come si vede nel rifiuto del servizio militare obbligatorio per i frequentatori delle scuole religiose e ignorando i dettagli, si confrontano due blocchi. La destra non crede almeno a breve termine che una trattativa coi gruppi palestinisti, individua l'Iran come nemico principale, ha un atteggiamento realista in politica estera, coltivando buoni rapporti con i paesi sunniti impauriti dall'Iran, con le nazioni dell'Europa orientale e naturalmente con Trump, non rinunciando a cercare rapporti con la Russia di Putin e perfino con un avversario ideologico ma un importante partner commerciale come la Turchia. Dall'altra parte c'è una sinistra più o meno estrema che coltiva ancora l'illusione dell'Autorità Palestinese partner per la pace e tende ad allinearsi con il vecchio consenso "progressista" dell'attuale dirigenza europea e dei democratici americani, ignorando la loro fondamentale ostilità per lo stato ebraico (proprio perché ebraico, perché stato nazionale degli ebrei).
   E' una divisione che è nata con Oslo. Oggi si tende a dimenticare quale azzardata scommessa sia stato quell'accordo, promosso da Peres e seguito un po' obtorto collo da Rabin contro le promesse elettorali, con una minima maggioranza parlamentare in cui non solo furono determinanti i partiti arabi nemici del sionismo ma ci furono dei deputati letteralmente comprati con incarichi di governo e doni materiali. La scommessa era doppia: da un lato trasformare un gruppo di terroristi in pacifici amministratori e dall'altro ottenere la pace in cambio della concessione dell'autonomia (che solo dopo fu intesa come stato) degli arabi locali. L'esperienza ha mostrato che entrambe le scommesse erano sbagliate. I terroristi sono rimasti interessati alle diverse forme del conflitto con Israele, non al benessere del loro popolo; ma soprattutto essi non erano affatto interessati, propaganda a parte, a far nascere uno stato, bensì a cacciare gli ebrei dalla terra che considerano araba, e possibilmente a massacrarli. Fatto questo, che stato e che governo possano reggere la terra di Israele e la sua popolazione non ha per loro molta importanza: purché si tratti di musulmani, naturalmente.
   L'aspetto più inquietante di queste elezioni è che esse mostrano che le illusioni di Oslo persistono non solo fra i socialisti più o meno estremi, gli anarchici e gli odiatori dell'ebraismo che sono numerosi come sempre fra accademici, scrittori e altri sedicenti intellettuali; ma esse albergano anche in importanti settori dello "stato profondo". Che ben tre ex capi di stato maggiore dell'esercito israeliano siano oggi alla guida di un nuovo partito che per la prima volta da tempo ha la possibilità di cacciare dal governo non solo Netanyahu, ma la destra; che il loro leader Benny Gantz, terzultimo a comandare l'esercito abbia dichiarato di voler fare con gli insediamenti israeliani oltre la linea verde ciò che Sharon fece a Gaza (e si vede con che risultati), è estremamente significativo. Non vuol dire naturalmente che l'esercito di Israele sia di sinistra, perché si tratta di un'armata di popolo, che quindi condivide le opinioni negative che continuano a essere maggioritarie nella popolazione su Oslo e i suoi risultati. Ma vuol dire certamente che i suoi vertici (autoperpetrati attraverso un processo di cooptazione ancora più impermeabile alla volontà popolare di quanto non sia quell'altro corpo separato fortemente orientato a sinistra che è la corte suprema) conserva le illusioni di trent'anni fa e non ha preso pienamente coscienza del fallimento dell'ideologia "terra in cambio di pace" e neppure delle trasformazioni profonde della geopolitica intorno a Israele. Il che suscita apprensioni non solo per il risultato elettorale, dove la destra potrebbe comunque prevalere grazie alla sua superiore capacità di coalizione, ma anche sulla gestione della sicurezza del paese.
   La verità è che Israele ha potuto giocare con successo la sua grande partita strategica nell'ultimo decennio grazie alla capacità di Netanyahu di contenere questo stato profondo, rifiuta per esempio il disastroso accordo con l'Iran che Gantz invece accettava. Non a caso l'amministrazione Obama ha spesso cercato di far valere un asse con lo stato maggiore e con gli apparati di sicurezza di Israele per neutralizzare l'opposizione di Netanyahu. Questa è la divisione politica che spesso per amore di Israele abbiamo cercato di ignorare: non si tratta naturalmente di mettere in dubbio il sionismo e il patriottismo dei generali che si candidano a guidare Israele né dell'apparato che in qualche modo rappresentano. Ciò che va discusso è la loro lucidità politica, il rischio di un secondo azzardo dopo quello di Oslo o più probabilmente di una politica miope, incapace di prendere l'iniziativa perché legata ai vecchi schemi del secolo scorso. Saranno gli israeliani a decidere, com'è giusto, non il resto del popolo ebraico. Ma anche da lontano, anche e soprattutto con amore è importante considerare con lucidità un'occasione elettorale che certamente ha un valore storico.

(Progetto Dreyfus, 24 febbraio 2019)


«Attenti, i Gilet gialli virano verso la jihad»

La tensione in Francia. Intervista a Gilles Kepel

Secondo il politologo, l'islamismo radicale vuole infiltrare la rivolta. Più il movimento si indebolisce in termini di consenso più diventa ostaggio dei violenti La protesta è nata nelle aree rurali e si sta saldando con le banlieue. La deriva antisemita consente di unire gli estremismi di destra e di sinistra

di Francesca Pierantozzi

PARIGI Il movimento dei gilets jaunes è sempre meno dei gilets jaunes e sempre più di gruppi radicali, anche islamici. Il politologo e orientalista Gilles Kepel (il suo ultimo libro, "Uscire del caos: le crisi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente", sarà pubblicato in autunno in Italia) vede una trasformazione fondamentale in corso nelle ultime settimane: nella breccia aperta dal movimento si stanno infilando ragazzi di banlieue, e con loro gruppi radicali. «La novità - dice - è che questa rivolta, prima confinata nelle banlieue, è entrata nel centro di Parigi».

- Auto bruciate, insulti antisemiti: cosa sta diventando il movimento dei Gilets Jaunes?
  «I gilets jaunes sono nati come un movimento delle classi medio-basse della cosiddetta Francia periferica, della provincia, che è molto diversa da quella banlieue, anzi, a essa si contrappone. Da qualche settimana assistiamo all'innesto delle banlieue nel movimento dei gilets jaunes. Approfittano della profonda destabilizzazione provocata del movimento che le autorità non possono gestire come una "classica" rivolta urbana quale fu, per esempio, quella del 2005. Le banlieue si sono infilate nella breccia aperta dai gilets jaunes, ma non si sono unite a loro. Il fenomeno nuovo è che la rivolta delle banlieue ha superato il péripherique (la tangenziale, ndr) ed è entrata a Parigi, cosa che finora non era mai successa».
-
Non si tratta "semplicemente" di casseurs, di vandali?
  «I media parlano di casseurs, ma io vedo soprattutto ragazzi di banlieue. Non è la stessa cosa. L'ho visto con i miei occhi l'8 dicembre. All'uscita da TV5, in avenue de Wagram, stavo per farmi linciare. E non erano gilets jaunes, erano giovani di banlieue»,

- Ragazzi di banlieue e gilets jaunes non possono condividere le stesse rivendicazioni sociali?
  «No. E soprattutto non condividono gli stessi modi di protesta. Vediamo macchine date alle fiamme. Ma i gilets jaunes non vogliono bruciare le macchine, al contrario, le vogliono proteggere. Non dimentichiamo che la loro protesta è cominciata contro l'aumento delle tasse sui carburanti. Ma il movimento è a poco a poco diventato qualcos'altro, anche perché non ha una struttura e non ha leader».

- Quindi è più facilmente, diciamo, infiltrabile?
  «Sì. Non esiste una struttura, una gerarchia responsabile capace di opporsi a gruppi estremisti irresponsabili. Più il movimento s'indebolisce in termini di mobilitazione e più diventa ostaggio dei più violenti, come possiamo notare dall'aumento delle violenze contro la polizia. Anche questo evoca fenomeni di banlieue»,

- Ingrid Levavasseur, una delle figure più note dei gilets jaunes, è stata aggredita sabato scorso e ha subito anche insulti antisemiti. Ha parlato della presenza di gruppi di gilets jaunes musulmani. È davvero possibile parlare di gilets jaunes musulmani?
  «Direi che alcuni possono aver visto nei gilets jaunes un'opportunità per esprimersi. Il movimento di sostegno a Adama Traore, (un giovane morto nel luglio 2016 subito dopo il suo arresto da parte della gendarmeria, ndr) ha colto l'occasione di manifestare pur essendo molto diffidente nei confronti dei gilets jaunes, considerati espressione della classe media bianca. In queste ultime settimane assistiamo anche a un aumento della deriva antisemita che ha consentito di riunire i due rami dell'antisemitismo francese, di estrema destra e di estrema sinistra, secondo una logica che è quella dell"'alleanza" tra Alain Soral e Dieudonné. È un discorso molto influente sui social network e che ha presa sui giovani musulmani di banlieue, i quali considerano il sionismo internazionale come il peggior nemico delle classi popolari».

- Dalle banlieue si arriva per forza all'integralismo islamico?
  «No, ma esiste un vocabolario comune. È dalle sommosse urbane del 2005 che il movimento jihadista di terza generazione, quello di Abu Mussad al-Suri, ha tratto ispirazione per il suo modus operandi. L'idea è che nella società esistono enclave contro lo Stato e che bisogna usare la loro forza distruttrice per portarle ideologicamente dalla parte dell'estremismo islamico. La jihad di terza generazione si è costruita sull'analisi di quello che accadde nell'ottobre del 2005».

(Il Mattino, 24 febbraio 2019)


«I veri antisemiti sono gli antirazzisti»

Parola di Finkielkraut, aggredito dai gilet gialli. Il filosofo ebreo: «Più aumentano gli immigrati africani, più cresce l'odio verso di noi».

di Gianluca Veneziani

Com'era la storia per cui i migranti sono i nuovi ebrei e gli unici antisemiti sono gli estremisti di destra? Com'era la vulgata che fa tanto comodo alla sinistra e le consente insieme di spalancare le porte all'invasione, di gridare al fascista e fingere di difendere gli ebrei? Ebbene, ora tutto quel teorema politicamente corretto è stato smontato da una persona non certo tacciabile di simpatie razziste; non solo un intellettuale lucidissimo, ma anche un ebreo, vittima diretta del montante odio antisemita.
   Ci riferiamo al filosofo francese Alain Finkielkraut, colpito negli scorsi giorni da pesanti insulti e minacce di aggressione fisica da parte di alcuni manifestanti (islamici) dei gilet gialli. Un paio di giorni fa il pensatore transalpino ha rilasciato un'intervista a L'Osservatore romano, colpevolmente passata sotto silenzio dal resto della stampa, in cui ha spiegato finalmente a sinistresi e politologi che leggono la realtà con gli occhiali dell'ideologia quale sia la vera matrice degli attacchi contro gli ebrei. E la sua tesi è sorprendente per efficacia e anticonformismo. «Tra i migranti», afferma Fìnkìelkraut, «ci sono persone animate da ottime intenzioni, ma più aumenteranno i migranti in provenienza dall'Africa, dal Maghreb o dal Medio Oriente più aumenterà l'antisemitismo in Francia e in Europa». E ancora: «Vorrei dirlo a Papa Francesco: certamente bisogna trattare con dignità le persone che bussano alle nostre porte, ma si deve avere anche il senso della realtà, la nuova composizione demografica dell'Europa spiega ampiamente l'esplosione dell'antisemitismo». Sbam! Con un gancio e un diretto Finkielkraut manda in frantumi il mito del buon migrante perseguitato che viene qui solo a cercare accoglienza. No, spiega lui, spesso sono proprio i migranti, evidentemente in quanto di fede islamica in buona parte, i principali fautori dell'antisemitismo in Europa. Persecutori, dunque, anziché perseguitati.
   Ma nella sua disamina il filosofo francese non si ferma qua ed estende le responsabilità anche ai teorici che incoraggiano questa deriva migratoria, ai cattivi maestri che favoriscono l'afflusso di disperati, lo giustificano e lo auspicano, e soprattutto avallano impropri paragoni tra gli immigrati di oggi e le vittime della Shoah. «Smettiamo di dire che i migranti sono i nuovi ebrei», chiede a gran voce Finkielkraut, «e che la solidarietà esige di accoglierne un numero crescente. A forza di buone intenzioni stiamo preparando un avvenire cupo per gli ebrei europei». Ecco a cosa conduce il buonismo della sinistra: non solo è sterile, ma rischia di essere dannoso, trasformandosi in cattivismo contro i veri perseguitati del '900. Da cui l'appello accorato di Finkielkraut a «immaginare una nuova politica migratoria» perché da quella dipende non solo la tenuta dei nostri Stati nazionali e dell'Europa tutta, ma la stessa sorte del popolo ebraico.
   Lo aveva capito già quel genio di Karl Lagerfeld recentemente scomparso: accogliere troppi migranti significa incentivare l'odio contro gli ebrei. Qualcuno storcerà il naso, ma i veri antisemiti sono gli antirazzisti.

(Libero, 24 febbraio 2019)


Il sound di Baghdad che piace in Israele

Dudu Tassa riporta in voga il 'Makam' degli anni '30/'40

Dudu Tassa
לתת ולקחת (dare e prendere)



La musica araba che era in gran voga negli anni Trenta e Quaranta tra Basra e Baghdad torna alla ribalta con un Cd appena uscito in un moderno studio musicale di Tel Aviv. Si chiama 'al Hajar' e parla di una partenza, di una emigrazione, di uno stato melanconico di abbandono. La firma e' di due celebri compositori ebrei di musica irachena, i fratelli Daud e Salah al-Kuwaiti, morti in Israele oltre 30 anni fa con addosso la nostalgia delle notti di Baghdad. Il commosso recupero della loro vena artistica - ancora oggi ritenuta insuperata nel suo genere - e' del nipote di Daud: il musicista israeliano Dudu Tassa, che ha un passato di jazz, rock e 'fusion'. Nel 2017 ha eseguito in arabo le canzoni dei 'Fratelli al-Kuwaiti' negli Stati Uniti, aprendo un tour dei Radiohead. "Siamo stati accolti benissimo" ha raccontato Tassa in un'intervista rilasciata all'ANSA nel suo studio di Tel Aviv. All'inizio del secolo scorso i fratelli Daud e Salah erano i re della vita notturna nella capitale irachena. Si esibivano in locali in voga, avevano una stazione radio, erano seguiti dalla casa reale e da artisti di spicco del mondo arabo. Salah aveva infatti elaborato uno stile particolare di composizione del 'Makam', una scala musicale araba. La loro carriera subì però un contraccolpo con la nascita di Israele (1948). Nel 1950, in seguito al diffondersi di sentimenti anti-ebraici, i due furono costretti a troncare le attività e ad emigrare dall'Iraq. In Israele trovarono pero' una società proiettata verso una cultura occidentale, che non apprezzava il loro bagaglio musicale. I due celebri musicisti furono ridotti ad esibirsi in un modesto locale in un rione proletario di Tel Aviv, il Caffè Noah, e nelle feste familiari. Anni fa Dudu Tassa ha deciso di tornare ad ascoltare le loro canzoni e di proporre nuovi arrangiamenti secondo un gusto più moderno. "Non ho mai incontrato mio nonno - racconta con commozione - ma in quel modo mi sono sentito molto vicino a lui". Anche sua madre ha inciso una canzone nel primo dei tre Cd di 'Dudu Tassa con i Kuwaiti'. E con loro assoluta sorpresa l'Israele che negli anni Cinquanta aveva sbarrato le porte oggi e' più pronto ad apprezzare la loro arte. Anche il mondo esterno e' cambiato. Con YouTube e Facebook le canzoni del "nipote di Daud" si stanno affermando in Iraq, Egitto e Giordania. "Riceviamo - dice Tassa - messaggi di apprezzamento, ci invitano ad esibirci da loro". Per il momento 'Tassa e i Kuwaiti' si sono esibiti di fronte a pubblici arabi a Gerusalemme, Giaffa e in Turchia. "Magari in futuro potrebbero aprirsi i confini. Non c'e' migliore strumento della musica per la comprensione fra i popoli".

(ANSA, 23 febbraio 2019)


Netanyahu: Israele farà il necessario per contrastare l'Iran in Siria

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, alla vigilia del suo viaggio in Russia, ha dichiarato che Israele continuerà a fare ciò che è necessario per fermare i tentativi dell'Iran di conquistare militarmente un punto di appoggio in Siria.
"Ho un chiaro messaggio per il regime iraniano, che vuole distruggere Israele: Israele continuerà a fare il possibile per fermare l'affermarsi della sua presenza militare in Siria", ha detto Netanyahu.
Il premier israeliano intende discutere la minaccia iraniana durante il vertice di Mosca di mercoledì prossimo.
"Mercoledì incontrerò il presidente russo Vladimir Putin a Mosca. Ci siamo sentiti telefonicamente prima dell'incontro e, naturalmente, la questione iraniana sarà in testa ai temi che discuteremo… Tratteremo anche il rafforzamento del meccanismo di coordinamento tra le forze di difesa israeliane e le forze armate russe, per mantenere la stabilità e prevenire scontri accidentali nella regione", ha spiegato Netanyahu.
La fasatura dei meccanismi e delle procedure di interazione tra l'esercito russo e quello israeliano per evitare scontri accidentali e altri incidenti ha acquisito particolare rilevanza dopo l'abbattimento accidentale di un Il-20 russo da parte della contraerea siriana. Mosca sostiene che la responsabilità dell'incidente sia dell'aeronautica israeliana, che si sarebbe fatta scuso con l'aereo russo per evitare i colpi della difesa aerea. Il vertice di mercoledì prossimo rappresenta il primo incontro ufficiale tra Netanyahu e Putin dopo il disastro aereo. La visita di Netanyahu a Mosca, che è stata preceduta da diversi cicli di consultazioni tra i ministeri della difesa dei due paesi.

(Sputnik Italia, 24 febbraio 2019)



E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita...

Poi vidi un grande trono bianco e colui che vi sedeva sopra. La terra e il cielo fuggirono dalla sua presenza e non ci fu più posto per loro. E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. I libri furono aperti, e fu aperto anche un altro libro che è il libro della vita; e i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le loro opere. Il mare restituì i morti che erano in esso; la morte e l'Ades restituirono i loro morti; ed essi furono giudicati, ciascuno secondo le sue opere. Poi la morte e l'Ades furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda, cioè lo stagno di fuoco. E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco.

(dal libro dell’Apocalisse, cap. 20)

 


Secondo i sondaggi il partito di Netanyahu è in calo

Nonostante il crollo dei voti del partito, il leader mantiene buone possibilità di ottenere il sostegno della maggioranza dei parlamentari per formare il governo.

Il Likud, il partito del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è ora in ritardo rispetto ai suoi principali concorrenti, che si sono uniti nella speranza di porre fine al regime decennale del partito di destra, per la prima volta dall'inizio della campagna elettorale. È quanto rivelano i sondaggi condotti dalle emittenti Channel 12 e 13.
   Il blocco formato dai partiti di centro Yesh Atid e Israel Resilience, secondo entrambi i sondaggi, dovrebbe ottenere 36 seggi nella Knesset su un totale di 120, secondo entrambi i sondaggi. Il partito del Likud al potere, che aveva condotto nei sondaggi precedenti, si stima possa ottenere tra i 26 e i 30 seggi totali, secondo i sondaggi.
   Nonostante il crollo dei voti del partito, Netanyahu mantiene buone possibilità di ottenere il sostegno della maggioranza dei parlamentari, necessario per ottenere il diritto di formare un governo. Entrambi i sondaggi hanno indicato che la coalizione che sostiene Netanyahu, che consiste di partiti religiosi e di destra, otterrebbe circa 60 seggi in totale.
   Il sondaggio di Channel 13 è stato condotto tra 752 intervistati, mentre quello di Channel 12 ha intervistato 603 persone. Il margine di errore è rispettivamente del 3,7% e del 4,4%. A dicembre, Netanyahu ha indetto elezioni a sorpresa per il 9 aprile tra le accuse di corruzione contro di lui. Inizialmente, le elezioni parlamentari erano previste per novembre 2019. Il Comitato elettorale centrale ha smesso di ricevere le liste di candidati giovedì. Secondo i media locali, il comitato ha ricevuto un record di 47 liste.

(Sputnik Italia, 23 febbraio 2019)


La nuova lingua dell'antisemitismo

A colloquio con Alain Finkielkraut

di Charles De Pechpeyrou

 
Alain Finkielkraut
Il filosofo e accademico francese Alain Finkielkraut è stato aggredito verbalmente sabato scorso nel cuore di Parigi, a margine di una manifestazione dei gilet gialli. Un atto di violenza chiaramente antisemita - che a suo avviso avrebbe potuto degenerare senza l'intervento della polizia - che ha preceduto la profanazione di due cimiteri ebraici in questi ultimi giorni in Francia. L'intellettuale commenta per «L'Osservatore Romano» la sua visione dell'antisemitismo che dilaga attualmente in Europa.

- Può descrivere per i nostri lettori in poche parole quello che è avvenuto?
  Stavo rientrando a casa a piedi quando ho visto alcuni gilet gialli, mi sono avvicinato per vedere la manifestazione qualche istante. Sono stato rapidamente riconosciuto e alcune persone hanno iniziato a urlare talmente forte che non sentivo il significato di quello che dicevano, sono stato costretto a fare marcia indietro e sono stato immediatamente protetto da un cordone della polizia perché probabilmente alcuni scalmanati erano pronti per un regolamento dei conti. Sono tornato allora a casa attraverso un altro itinerario.

- Come ha vissuto quell'episodio?
  Non pensavo inizialmente che questa scena fosse stata filmata, non avevo visto le telecamere, e pensavo che la mia avventura sarebbe rimasta nel cerchio delle mie conoscenze. Invece ci sono state delle immagini, sono state diffuse e quello che è successo ha preso un'altra dimensione. E molto più spaventoso rivedere queste immagini che vivere la scena sul momento. Quando ho scoperto sugli schermi i volti degli aggressori, che erano un po' lontano da me, mi sembravano veramente terribili. Così la paura è venuta in un secondo tempo, dopo lo stupore iniziale. Devo dire che non ho subito sentito le terribili frasi che mi erano rivolte. Il mio aggressore ripreso dalle telecamere è senza dubbio un radicalizzato, come si dice oggi, d'altronde è stato già identificato dalla polizia. Lo slogan scandito "La Francia è nostra" non era una variante dello slogan dei nazionalisti "la Francia ai francesi". Voleva dire invece la "Francia all'islam", il salafita si poneva in un'ottica di rimpiazzo. D'altronde quando diceva di voler rimandarmi a Tel Aviv, per lui in realtà anche lì non ero al mio posto, visto che questa terra è occupata dagli ebrei mentre appartiene, sempre secondo lui, al popolo palestinese, quindi ai musulmani.
La conclusione che traggo da questa mia disavventura è che l'antisemitismo più frequente e più violento oggi si esprime nella lingua dell'antirazzismo.

- Non accetta invece l'ipotesi di un antisemitismo popolare, che potrebbe essere rappresentato da alcuni gruppi, come ad esempio i gilet gialli?
  In ogni caso, coloro che mi hanno aggredito non erano certamente degli artigiani, dei commercianti o dei piccoli imprenditori. Quelli che hanno lanciato il movimento dei gilet gialli, i rappresentanti delle periferie, di questa Francia invisibile, non erano certamente i miei insultatori. Ciò detto, un certo numero di gilet gialli è permeabile a discorsi tossici come quelli sulla potenza dei Rothschild, sul complotto ebreo, questo non posso negarlo. Uno dei suoi leader non vede nessun inconveniente a che si parli di una mafia ebrea che governa la Francia. Ma in ogni caso ribadisco che i miei assalitori non erano i gilet gialli della prima ora. Israele è demonizzato, il sionismo è demonizzato. È un premio Nobel e non un gilet giallo, ]osé Saramago, a dire che gli ebrei non meritano alcuna compassione per quello che hanno subito durante l'olocausto perché fanno subire un olocausto ai Palestinesi. I gilet gialli non fanno altro che tradurre in ingiurie e veleno la formula del premio Nobel ]osé Saramago. Dunque se sei complice di uno stato che ha commesso un genocidio, è legittimo aggredirti; è questo tipo di ragionamento dominante dell'antisemitismo contemporaneo.

- Al di là delle espressioni di condanna e solidarietà, cosa si può fare per evitare che simili episodi si ripetano?
  La prima cosa essenziale è non ripetere sempre le stesse cose, non cedere alle esagerazioni e fare una buona diagnosi. La situazione attuale non è la peste nera ma quella di un altro tipo. Bisogna conoscere la lingua dell'antisemitismo, conoscere l'identità dei nuovi antisemiti. E difficile immaginare nuovi rimedi, soluzioni, ci vuole una buona diagnosi e non sbagliare di obiettivo e di nemico. Bisogna immaginare una nuova politica migratoria, e lo dico ancora più volentieri perché sono intervistato dall'Osservatore Romano, un'altra politica migratoria. Smettiamo di dire che i migranti sono i nuovi ebrei, che la solidarietà esige di accoglierne un numero sempre crescente. Naturalmente tra i migranti ci sono persone animate da ottime intenzioni, ma più aumenteranno i migranti in provenienza dall'Africa, dal Maghreb o dal Medio Oriente più aumenterà l'antisemitismo in Francia. E non parlo soltanto della Francia, parlo anche dell'Europa. Vorrei dirlo a papa Francesco, certamente bisogna trattare con dignità le persone che bussano alle nostre porte e che sono nello sconforto, ma si deve avere anche il senso della realtà, la nuova composizione demografica dell'Europa spiega ampiamente l'emergenza e l'esplosione dell'antisemitismo. A forza di buone intenzioni stiamo preparando un avvenire cupo per gli ebrei europei. L'espressione "i migranti sono i nuovi ebrei" utilizzata dagli operatori umanitari è un discorso ripreso dagli intellettuali di sinistra radicale, che dicono che gli ebrei di oggi sono i musulmani. Per quanto riguarda me, sono riconoscibile, basta che sia identificata la mia faccia per essere insultato, per non dire peggio, è vero, adesso non è opportuno che io partecipi a raduni come per esempio quelli dell'estrema sinistra.

- Come considera la mobilitazione popolare e la grande copertura mediatica di questi ultimi episodi di violenza rispetto a quello che denunciava nel 1983 nell'«Ebreo immaginario», cioè «l'ignoranza, lo scetticismo, il distacco» da parte di opinione pubblica e media nei confronti della Shoah?
  Per venire alla mia piccola avventura posso dire che i messaggi di solidarietà ricevuti sono stati davvero incredibili. C'è stata una grande mobilitazione popolare, una folla di persone anonime unite alle personalità politiche e religiose. Ho ricevuto la telefonata personale del presidente della Repubblica. La popolazione francese, nella sua stragrande maggioranza è ostile all'antisemitismo e quello a cui stiamo assistendo oggi da parte di coloro che fanno circolare messaggi di odio è il ribaltamento della Shoah contro gli ebrei. Si tratta tuttavia di una frangia minoritaria, ma è proprio quella che si è espressa contro di me. Hanno visto in me il sionista. Per la sinistra radicale sono un ebreo, amo lo stato di Israele e dunque sono complice di crimini contro l'umanità.

- Nel suo libro «Nel nome dell'altro» uscito nel 2003 sottolineava che gli intellettuali ebrei ricevevano delle «lettere estremamente sgradevoli». Abbiamo oltrepassato questo livello?
  Rispetto alla situazione descritta nel mio scritto, non sono più solo lettere a essere inviate, sono espressioni di odio gridate per strada. Penso che questo episodio possa ripetersi, anche se ho la fortuna di non essere anonimo.

(L'Osservatore Romano, 23 febbraio 2019)


Antisemitismo alla francese

di Karen Rubin

Sono bastati 6,5 centesimi di aumento sul gasolio per risvegliare il demonio antisemita francese, che non pago del clima d'odio generato dagli islamici si è impossessato anche dei gilet gialli. E come se non bastassero islamisti e questi novelli rivoluzionari ad aggiungersi al coro non potevano mancare le simulazioni di buone intenzioni della sinistra radicale francese, che se da un lato condanna l'antisemitismo, dall'altro sottolinea che non rinuncerà al suo diritto a deplorare l'operato del governo israeliano. In soldoni ribadisce la sua opposizione all'esistenza dello stato ebraico, dove il 20% degli ebrei francesi ha fatto ritorno negli ultimi anni proprio per fuggire a questa recrudescenza d'odio cui né Macron né il suo predecessore hanno posto rimedio.
   L'incremento di immigrazione islamica ha favorito un fenomeno che è alla base di ogni discriminazione: cambiando notevolmente le proporzioni tra le etnie si è accentuata la divisione all'interno della società e il gruppo islamico forte della sua numerosità ha cominciato a categorizzare l'altro come il nemico debole da poter finalmente eliminare. L'antisemitismo dei gilet gialli è assimilabile a quello di tutti gli europei che guardano con sospetto all'ingresso dei migranti. Favorire il proprio gruppo di appartenenza è fisiologico e risponde al bisogno di confermare l'autostima per la propria identità sociale. Se il mio gruppo d'appartenenza è migliore del suo anche io sarò migliore di lui. Se l'individuo che si confronta con il diverso manca di autostima il bisogno di attribuire al proprio gruppo una superiorità sarà finanche maggiore. Ma per attivarsi una discriminazione che genera violenza deve sussistere un'altra condizione: il bisogno fondamentale di certezze.
   L'incertezza soggettiva su credenze, sentimenti e percezioni che sono il frutto di norme sociali condivise da secoli non può venir meno senza che i singoli siano assaliti dalla paura di perdere la propria realtà. L'altro con il suo sistema di valori diventa un pericolo quando lo Stato non garantisce ai cittadini il rispetto dei loro diritti e della loro cultura. Mentre larghissima parte del mondo islamista odia l'ebreo perché così detta il Corano, i gilet gialli e la sinistra radicale con l'antisionismo discriminano gli ebrei per gli stessi motivi che portarono alla Shoah: condizioni socio-politiche ed economiche difficili che possono essere tollerate solo trovando un colpevole, cui attribuire la responsabilità di un fallimento che mina l'immagine del sé e della grande Francia.

(il Giornale, 23 febbraio 2019)


Il presidente Trump nomina Kelly Knight Craft ambasciatrice degli Stati Uniti all'Onu

L'attuale rappresentate in Canada prende il posto di Nikki Haley. Moglie di un ricco magnate del carbone, finanziatrice del Partito repubblicano, è appassionata delle corse dei cavalli in Kentucky.

 
Il Vice Presidente Mike Prence applaude Kelly Knight Craft, nominata ambasciatrice degli Stati Uniti all'Onu
Kelly Knight Craft
Ambasciatrice in Canada, moglie di un ricco magnate del carbone, finanziatrice del Partito repubblicano, e appassionata delle corse dei cavalli in Kentucky. E' il profilo breve di Kelly Knight Craft, nominata ieri dal presidente Trump come nuova rappresentante degli Stati Uniti all'Onu, dopo che la prima scelta Dina Powell aveva rinuciato, e la seconda Heather Nauert era stata costretta a ritirarsi quando si era scoperto che aveva assunto una babysitter giamaicana illegale. Se confermata, Craft prenderà il posto lasciato libero da Nikki Haley, destinata secondo molti osservatori a candidarsi in futuro per la Casa Bianca.
   Nata e cresciuta in Kentucky, da una famiglia democratica, Kelly è nota nel suo stato come una potenza del Gop. Già nel 2004 aveva sostenuto a finanziato la campagna presidenziale di Bush figlio, che in cambio l'aveva nominata delegata all'Onu, dove aveva fatto la sua prima esperienza diplomatica consigliando la missione sulle politiche degli Usa in Africa. Sposata tre volte, e madre di due figlie con i primi due mariti, nel 2016 è diventata la moglie di Joseph Craft, miliardario del Kentucky e proprietario della compagnia produttrice di carbone Alliance Resource Partners. Lui ha detto in passato di avere dubbi sul riscaldamento globale, mentre le ha diplomaticamente indicato che rispetta entrambe le posizioni sulla questione dei cambiamenti climatici.
   All'inizio delle ultime presidenziali la coppia aveva appoggiato Marco Rubio, ma dopo la sua sconfitta alle primarie aveva scelto Trump, donandogli in totale oltre due milioni di dollari. Gli osservatori locali dicono che il suo sostegno era stato molto importante, perché Kelly e Joe sono considerati persone influenti ed equilibrate, e la loro decisione era servita a sdoganare Donald tra gli scettici conservatori.
Una volta alla Casa Bianca, il presidente l'ha ricompensata facendola diventare la prima donna americana ambasciatrice degli Usa in Canada. In questa posizione ha contribuito a gestire la visita di Trump al G7 dell'anno scorso, finita con il memorabile rifiuto di firmare il comunicato congiunto, e soprattutto il negoziato per rimpiazzare il trattato commerciale Nafta. E' stato durante questa trattativa, terminata con l'intesa per varare il nuovo accordo USMCA, che Kelly ha conquistato la stima del presidente. Quando il posto al Palazzo di Vetro è rimasto vuoto, ll leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell, che viene dal Kentucky, l'ha proposta come candidata, e ieri il capo della Casa Bianca l'ha nominata.

(La Stampa, 23 febbraio 2019)


Israele porta la sua storia sulla Luna

Lanciato un rover. A bordo la Torah e i ricordi di un sopravvissuto alla Shoah. Netanyahu soddisfatto: Il nostro Paese ormai è un forza mondiale al pari di Stati Uniti, Russia e Cina

di Aldo Baquis

Libri sacri
A bordo della Bereshit è stata inserita una Torah, ovvero i primi cinque dei ventiquattro libri del Tanakh, detti anche Pentateuco
Capsula del tempo
All'interno della sonda ci sono dei dischi progettati per durare eoni, che contengono una copia di tutte le voci di Wikipedia e altre informazioni
Disegni di bambini
Nella capsula del tempo sono stati inseriti anche le copie di disegni fatti da bambini israeliani della Luna e di altri pianeti
Olocausto
Anche la Shoah è salita su Bereshit: all'interno della capsula del tempo sono stati registrati anche i ricordi di un sopravvissuto

TEL AVIV - Nel cuore della notte di giovedì, dall'interno degli stabilimenti dell'Industria aerea israeliana, il premier Benjamin Netanyahu era impegnato a seguire immagini provenienti da Cape Canaveral (Florida) che mostravano un missile Falcon 9 della SpaceX in procinto di lanciare nello spazio la prima navicella prodotta in Israele. Un velivolo di 600 chilogrammi, alto solo un metro e mezzo, simile a una grande lavatrice a cui siano state applicate le gambe. È comunque il frutto di anni di lavoro e di trovate geniali di oltre cento ingegneri e scienziati israeliani. E porta un nome più che impegnativo: 'Bereshit' - 'in principio', in ebraico - è la parola con cui inizia il Vecchio Testamento.
  Dopo una partenza da manuale, il Falcon - orgoglio della società guidata dal miliardario Elon Musk-ha sganciato la navicella israeliana ed è rientrato a Terra planando dolcemente su un battello drone che lo attendeva nell'Atlantico. In Israele Netanyahu - che attraversa un periodo difficile per complicazioni sia giudiziarie sia di politica interna, mentre si avvicinano le elezioni per la Knesset - era al settimo cielo. «È stato un passo grande per Israele e un passo gigantesco per la nostra tecnologia», ha esclamato mentre da Cape Canaveral informavano che Bereshit era entrata in orbita e già mandava segnali chiari e forti. «Israele è oggi un forza mondiale che sale, e sale fino alla Luna» al pari - ha poi notato senza false modestie - di Usa, Russia e Cina. «Ho chiesto espressamente - ha detto ancora il premier - che a bordo di Bereshit ci fossero una copia della Torah, la bandiera di Israele e la scritta: 'Il popolo ebraico vive'». Nella sonda ci sono anche i ricordi di un sopravvissuto alla Shoah e alcuni disegni di bambini.
  La sua missione - la prima del genere realizzata con fondi privati, dalla 'SpaceIL', che ha raccolto 100 milioni di dollari - è audace, ma è destinata a compiersi in un periodo breve. Prima di tutto dovrà passare dall'orbita terrestre a quella lunare. Poi, a metà aprile, dovrà scendere in maniera controllata e atterrare dolcemente, nel Mare della Serenità, dove compirà rilevazioni sui campi magnetici lunari.
  Ma la forte temperatura e le radiazioni le consentiranno di funzionare - nella migliore delle ipotesi - solo due o tre giorni. Poi per Bereshit inizierà un lungo sonno. L'iniziativa ha comunque acceso la fantasia degli scienziati non solo in Israele ma anche nella azienda di Musk, persuasi che la Luna possa rappresentare in futuro una basa avanzata per missioni interplanetarie di maggiore portata.
  L'intuizione di Musk è che innanzitutto sia necessario che i missili lanciati nell'atmosfera possano essere recuperati e poi riutilizzati centinaia di volte, riducendo così i costi dei lanci da 60 milioni di dollari ad appena 60mila. I suoi primi tre tentativi con i Falcon sono falliti, ma nel dicembre 2015 ha ottenuto un primo successo.
  In vari Paesi, e anche in Israele, si è inoltre compreso che sviluppi nel campo spaziale possono venire da iniziative di privati, come è avvenuto per Bereshit, e non necessariamente dai governi. Per gli Stati Uniti la prossima scommessa è la costituzione di una base spaziale avanzata in orbita attorno alla Luna dove organizzarsi e da dove partire in missioni per Marte.
  Le tecnologie di atterraggio morbido di Bereshit, se daranno esito positivo, potrebbero rivelarsi utili in futuro per una base del genere. Netanyahu, ieri, ha fatto sapere che anche su quel fronte Israele vorrebbe essere in prima linea. «Il combustibile che sospinge la nostra navicella spaziale - ha rivelato - è la nostra sfrontatezza, unita alla nostra genialità».

(Nazione-Carlino-Giorno, 23 febbraio 2019)


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Lo Spazio di Israele

Contro Mastro Ciliegia

di Maurizio Cr!ppa

Questa storia potrebbe raccontarvela molto meglio la nostra astroreporter Giulia Pompili (a cui ovviamente la devo), con quella sua magnifica ossessione che lo spazio sia una metafora luminosa di chi siamo e di quel che cerchiamo, qui sul pianeta Terra. Ma accontentatevi del riassunto, perché è bella. E' la storia del lander israeliano Bereshit, che vuol dire Genesi, che brivido di nome, che se n'è partito sul razzo SpaceX Falcon 9 verso la luna (esplorazione spaziale privata, wow). Ma non è soltanto il solito viaggio in cerca di foto e dati, quello intrapreso da questo marchingegno tecnologico, sono sempre un po' buffi a vederli, che ha la bandiera con la stella di David sopra. C'è una volontà di andare, portandosi dietro chi si è, che è dentro a tutto un popolo che ha la memoria lunga e gli occhi che sognano lontano. Dentro "Genesi" c'è infatti una "macchina del tempo" (ci crediate o no) digitale, con 50 milioni di pagine di dati, l'intera Bibbia, un memoriale dei sopravvissuti della Shoah, l'inno e la bandiera e la dichiarazione di indipendenza israeliana. Andrà nel Mare della tranquillità, non alla minacciosa scoperta della dark side of the moon come fanno i cinesi. E chissà se troverà una Terra Promessa di scorta, come cercano di fare in Alaska nel Sindacato dei poliziotti yiddish di Michael Chabon, perché non si sa mai. Ma adesso che a molti qui, sul nostro pianeta senza fantasia, sta montando la voglia insana di scacciarli ancora, l'orgoglio di cercare il Pianeta Promesso nello spazio è ancora più bello.

(Il Foglio, 23 febbraio 2019)


Politecnico di Bari e Technion di Haifa: il futuro dell'aerospazio tra Puglia e Israele

In gara progetti innovativi per le aziende del Distretto tecnologico aerospaziale

 
Un asse tra la Puglia e Israele per favorire la ricerca e l'innovazione e l'aeroporto di Grottaglie come centro di sperimentazione di nuove tecnologie e servizi.
Sarà l'aerospazio, con le sue enormi opportunità di sviluppo, il filo conduttore di Apulia Israel Joint Accelerator, un'iniziativa di open innovation in collaborazione tra il Politecnico di Bari e il Technion di Haifa - Israel Institute of Technology, che si svolgerà lunedì 25 febbraio, dalle 11 nell'aula magna "Attilio Alto" del Politecnico, nel campus di via Orabona.
Il Distretto Tecnologico Aerospaziale (Dta), che partecipa all'evento insieme a quattro sue aziende socie (Planetek, Sitael, Enginsoft e Dema), illustrerà qual è lo stato dell'arte dello sviluppo del Test bed, cioè la sperimentazione tecnologica dei voli a pilotaggio remoto nell'aeroporto di Grottaglie e quali sono gli obiettivi di innovazione necessari per favorire un ulteriore sviluppo dello scalo pugliese in una dimensione europea.
Lo sviluppo dei temi sarà affidato in modalità "challenge" a cinque gruppi composti da studenti italiani e israeliani che, una volta accettata la sfida, avranno il compito di presentare, sotto la guida di tutor esperti, progetti innovativi alla scadenza di un termine prestabilito. «Su Grottaglie si concentra una grandissima attenzione, in questo momento, e noi abbiamo le possibilità e la volontà di svolgere un ruolo importante per il territorio e per il Paese» commenta il rettore del Politecnico, Eugenio Di Sciascio. In qualità di aeroporto civile sperimentale, lo scalo jonico sarà infatti il sito in cui si testeranno nuove infrastrutture per applicazioni aerospaziali, in particolare per quanto riguarda i droni.
A testimoniare l'importanza della collaborazione sarà la presenza, all'incontro di lunedì, di Ofer Sachs, Ambasciatore di Israele in Italia. Aprirà l'evento il rettore Di Sciascio e parteciperanno, tra gli altri, Giuseppe Acierno, presidente del Distretto Aerospaziale; Domenico Laforgia, direttore del dipartimento Sviluppo Economico della Regione Puglia e Antonio Decaro, sindaco di Bari e della Città Metropolitana.

(BariLive.it, 23 febbraio 2019)


Spazio, lanciata la prima sonda lunare israeliana

La prima missione privata, arrivo previsto sulla Luna l'11 aprile

ROMA - La prima sonda lunare israeliana, finanziata da fondi privati, ha iniziato il suo viaggio verso la Luna, dove dovrebbe arrivare in sette settimane facendo di Israele il quarto Paese capace di riuscire nell'intento. La sonda è stata lanciata da Cape Canaveral su un vettore Falcon 9 della SpaceX: il lancio è stato seguito in Israele da numerosi ingegneri e dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha sventolato la bandiera dello Stato ebraico.
Circa mezz'ora dopo il lancio, più di 750 chilometri sopra l'Africa e a una velocità di 35.000 chilometri orari, il secondo stadio del vettore ha rilasciato la sonda, chiamata Bereshit (Genesi, in ebraico). La sonda, del peso di 585 chili, dovrebbe allunare l'11 aprile 2019; oltre a raccogliere dati sulla formazione del satellite, contiene anche dei cd con disegni di bambini, canzoni e immagini di simboli israeliani, gli oggetti personali di un sopravvissuto alla Shoah e una Bibbia ebraica.
Fino a oggi solo Stati Uniti, Russia e Cina avevano inviato sonde sulla Luna e solo la Nasa è riuscita a portarvi degli astronauti fra il 1969 e il 1973, grazie al programma Apollo. Dopo Israele, l'India spera di diventare il quinto Paese a inviare una sonda sulla Luna con la missione Chandrayaan-2. E il Giappone prevede di inviare una piccola sonda lunare, chiamata Slim, per studiare un'area vulcanica entro il 2020-2021.

(askanews, 22 febbraio 2019)


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Luna, "Bereshit": ecco perché l'ultima missione degli israeliani è importante

Il lander israeliano "Bereshit" montato a bordo del razzo SpaceX Falcon 9 segna un importante traguardo per l'esplorazione spaziale privata, non solo un'altra bandiera sulla luna.

di Fortunato D'Amico

 
 
 
Nel successo del decollo della Bereshit (parola ebraica che sta a significare Genesi) c'è molto di più di una sonda per l'acquisizione di foto e video e di uno studio sperimentale sul magnetismo. Difatti questa missione decollata da Cape Canaveral frutto della collaborazione tra SpaceX e dell'israeliana SpaceIL segna l'inizio di una nuova fase dell'esplorazione spaziale quella privata.
Il velivolo spaziale senza equipaggio da 95 milioni di dollari ha un'altezza di 1,5 m ed un diametro di 2 m e quando completamente alimentato, il propellente costituisce il 75 percento del suo peso. Invece di essere inserito nell'orbita translunare da un razzo di livello superiore, il lander si è separato dal secondo stadio di Falcon 9 ad un'altitudine di 37.282 mi (60.000 km) ed eseguirà una serie di manovre orbitali per spingerlo in traiettorie sempre più eccentriche sul corso di due mesi. Quindi azionerà autonomamente i suoi motori per un soft touchdown sulla Luna.
"Congratulazioni a SpaceIL e all'Agenzia spaziale israeliana. Questo è un passo storico per tutte le nazioni e per le attività commerciali nello spazio",
parole che si commentano da sole, quelle dell'amministratore della NASA Jim Bridenstine. Volontà e orgoglio Israeliano a bordo del lander, oltre all'attrezzatura tecnica, infatti la Bereshit contiene una capsula del tempo digitale con oltre 50 milioni di pagine di dati, tra cui l'intera Wikipedia, la Bibbia, disegni dei bambini, un memoriale dei sopravvissuti all'Olocausto, l'inno nazionale israeliano, la bandiera israeliana e la Dichiarazione d'indipendenza israeliana.
L'atterraggio nell'area lunare denominata "mare della tranquillità" è previsto per il prossimo 11 aprile, data che sarà sicuramente ricordata negli annali Israeliani, e probabilmente l'inizio di un nuovo cammino nello spazio, un altro tassello nel passaggio da esploratori a viaggiatori che oltre a intrigare la nostra curiosità, ci da un'altra conferma su un futuro sempre più spaziale e sempre più alla nostra portata.

(MeteoWeb.eu, 22 febbraio 2019)


Il giornalista e il militare: Israele e la strana coppia che spaventa Netanyahu

Hanno creato la nuova lista «Cabol Iauan» La promessa: rotazione nel ruolo di premier

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Qualcuno dice che la campagna elettorale è cominciata solo ieri sera, anche se il voto è vicino, il 6 di aprile. Infatti davanti a un profluvio di blu e bianco «Cahol lavan» come si chiama dai colori della bandiera israeliana la nuova formazione politica, i due protagonisti della guerra senza quartiere a Benjamin Netanyahu e al Likud hanno presentato il loro nuovo partito unitario. Ed ecco, davanti al pubblico israeliano, fieri e diritti, di bell'aspetto, colti e sicuri, Benny Gantz, 59 anni, ex capo di stato maggiore, e Yair Lapid, 55 anni, ex ministro e giornalista tv di successo.
  ;Due personalità molto diverse, costruite in mezzo ai soldati da una parte, e dall'altra fra gli intellettuali laici guidati dal padre, Tommy Lapid. La trattativa che li ha condotti a promettere l'uno all'altro la rotazione del ruolo di primo ministro è stata un corpo a corpo durato tutta la notte fra mercoledì e giovedì. La nuova lista, oltre a mettere insieme il generale che suona il piano e l'ex star tv scrittore di romanzi gialli e di libri per bambini, ha un'altra caratteristica: oltre a Gantz, ne fanno parte altri tre Capi di Stato Maggiore, tutti fra i primi della lista scritta al maschile: sono Moshe «Bogie Ya'alon (Capo di Stato maggiore dal 2002 al 2005, gli anni terribili della seconda Intifada), anche ex ministro della difesa di Bibi, e Gabi Ashkenazi, nel ruolo di capo dell'esercito dal 2007 al 2011. Essere stato il capo dell'esercito in un Paese perennemente in stato di allarme, di pericolo, di guerra, è certamente una grande carta da giocare per la lista «Blu e bianco»: il «Ramatcal» ha nelle mani la vita dei ragazzi israeliani, uno a uno, e se ognuno ha le sue zone grige per cui certo sarà criticato in campagna elettorale, pure può avvantaggiare la lista dei successi scritti nella storia di sopravvivenza e progresso di Israele. La nuova forza vuole presentarsi come centrista ma di fatto tende a raccogliere chi, per qualsiasi motivo, abbia voglia di vedere il primo ministro a casa: una forza che può raggiungere 35-36 seggi, entrando in diretta competizione con i circa 30-32 del Likud.
  Gli altri partitini, in un parlamento di 120 posti, giocheranno ciascuno la sua partita nel nuovo governo. Il partito laburista rifiuta l'unità con il Meretz, il partito di estrema sinistra, evidentemente teme che gli venga bloccato l'ingresso eventuale nelle stanze del potere; intanto Netanyahu, che appare preoccupato, ha aperto a una destra estrema che sicuramente non avrebbe accettato in circostanze diverse. Certo il nuovo partito ha dovuto discutere per trovare un accordo sulla linea da presentare, ma di certo vuole i voti di sinistra, quindi ambedue i leader attaccano Bibi pur presentando soluzioni in gran parte possibili anche per Netanyahu, come riprendere la trattativa con i palestinesi, coltivare l'appoggio arabo per raggiungere un assetto stabile anche se non definitivo, fermare l'Iran. Il rischio è che la sindrome «battere Netanyahu» porti Gantz e i suoi su strade molto estreme: due giorni or sono infatti l'ex Capo di Stato maggiore ha fatto un discorso pieno di insulti alla vita militare sostenendo che mentre lui (Gantz) soffriva coi soldati nelle trincee piene di fango e ghiaccio, Bibi frequentava i cocktail dei suoi amici americani e imparava il suo inglese perfetto. Una scelta che cozza con la realtà: Bibi è stato nell'unità più eroica e pericolosa dell'esercito, la Sayeret Matkal, ha messo a rischio la sua vita in azioni estreme oltre confine, ha salvato con Ehud Barak l'aereo della Sabena sequestrato, è stato ferito due volte e ha quasi perso la vita. Un passo falso raccontare tante balle, cui Bibi ha risposto: «Vergognati». Poi ha cancellato l'incontro di ieri con Putin: non un piccolo passo. Si vede che ritiene meglio sorvegliare il bidone.

(il Giornale, 22 febbraio 2019)


L'ebreo Mosè da Gualdo. Il '500 è ora

L'emblematica quanto amara vicenda dell'uomo accusato di un assurdo reato e processato torna come monito contro le nuove discriminazioni.

di Maurizio Schoepflin

Tra il 1510 e il 1511 Gualdo Tadina, la cittadina umbra situata a una cinquantina di chilometri da Perugia, fu teatro di un evento davvero singolare, che Marco Jacoviello racconta nel recente interessante volume Mosè da Gualdo. Una storia vera nel Rinascimento gualdese. Si trattò di una caso giudiziario, esattamente di un processo intentato da parte di Carlo Saraceni, vicario del Vescovo di Nocera, contro Mosè di Abramo di Gualdo. La documentazione relativa alla vicenda, molto precisa, è stata conservata sino a noi, permettendo di ricostruire i fatti con puntualità. Mosè è un ebreo che abita a Gualdo dal 1496: ha una buona reputazione, ma la sua appartenenza religiosa non piace a tutti. A un certo punto a suo carico vengono mosse numerose accuse, tra cui spicca quella di aver venduto illecitamente una patena. Nei panni dell'accusatore troviamo un importante prelato, il Saraceni da Cascia, inquisitore della diocesi di Nocera, che riesce a far giudicare colpevole l'ebreo. Ma, inaspettatamente, la vicenda non si chiude qui. Il presunto reo si rivolge al legato pontificio di Perugia, il quale riesamina la pratica e ribalta la sentenza: Mosè è pienamente assolto e del suo accusatore si perdono le tracce. Come è ovvio, la vicenda dell'ebreo gualdese richiama alla mente molte problematiche e questioni che da sempre hanno accompagnato la storia dell'uomo - la giustizia e l'ingiustizia, l'uguaglianza e la discriminazione e altre ancora - e che certamente non sono state ancora del tutto risolte, anche se molti passi avanti sono stati compiuti. Vari interventi contenuti nel libro ci ricordano tutto questo, spesso pure con toni aspri. Dense di significato sono le seguenti parole di Pierluigi Gioia, Rettore dell'Accademia dei Romiti che ha promosso la pubblicazione del volume: «Si fa molto bene a ribadire la verità dei fatti trattati in questa pubblicazione, che è scientifica - è condotta, cioè, con tutte le metodologie e i crismi dell'indagine storica- ma che, al contempo, è così bella ed edificante da sembrare un romanzo ... Va ribadito - prosegue Romiti - che quanto accadde nel XVI secolo all'ebreo Mosè, residente a Gualdo, non è in nessun modo una favola e tanto meno una fola, ma è semplicemente la conseguenza ovvia dell'uso della ragione umana, del buonsenso e - permettetemi - del rispetto verso un uomo culturalmente "diverso", ma pur sempre uomo, da parte di un giudice saggio". Nella sua semplicità, la vicenda di Mosè di Gualdo, svoltasi più di cinque secoli fa in un piccolo fazzoletto di terra della nostra Italia, ci insegna che il bene e il vero possiedono una forza capace di superare gli stereotipi che troppe volte i condizionamenti ideologici ci fanno ritenere validi e corretti.

(Avvenire, 22 febbraio 2019)


Il mercato Israeliano è interessato alla Tuscia

VITERBO - "Il mercato Israeliano è interessato alla Tuscia". La Borsa italiana del turismo si è conclusa e Ivana Pagliara di PromoTuscia, che ha partecipato all'iniziativa a Milano nel padiglione della Regione Lazio insieme a Maria Luigina Paoli, tira le somme. C'è attenzione verso il nostro territorio.
"Uno dei mercati che siamo riusciti a intercettare durante la Bit - ricorda Ivana Pagliara - è quello israeliano, interessato in modo particolare alle proposte di turismo esperienziale, legato ad attività che possono essere realizzate nelle nostre aziende artigiane. Per vivere, come chi in queste zone ci vive, esperienze manuali, ad esempio la lavorazione della ceramica e della pasta".

(NewTuscia, 22 febbraio 2019)


Francia - Nuove scritte antisemite sui muri di Parigi

Dopo gli episodi accaduti in Alsazia e a Lione, con cimiteri e tombe profanate da scritte e simboli nazisti, a sud della capitale francese sono apparsi insulti e croci uncinate su alcuni palazzi. Ieri il presidente Macron ha annunciato strumenti per combattere l'odio.
Non si fermano gli episodi di stampo antisemita compiuti in Francia. Dopo l'attacco dei gilet gialli al filosofo Alain Finkielkraut, dopo le svastiche apparse in un cimitero ebraico in Alsazia e dopo che una tomba è stata profanata con lo stesso simbolo nazista a Lione, nuove scritte antisemite sono state scoperte oggi a Parigi. Insulti diretti agli ebrei e simboli nazisti sono stati dipinti su alcune facciate di palazzi e su pensiline del XIV arrondissement della città, secondo quanto riferiscono alcuni media francesi.

 Le scritte antisemite
  L'episodio è accaduto all'indomani degli annunci del presidente Emmanuel Macron di nuovi "decisivi" strumenti per lottare contro "l'odio" antiebraico e della manifestazione che ha portato in piazza migliaia di persone. Le scritte antisemite - una decina - sono apparse nella zona sud della capitale. Le autorità del quartiere hanno allertato il commissariato. Fra le scritte, su dei bagni pubblici e su una porta di legno, "morte allo sporco ebreo", "fuori" e varie croci uncinate.

(skytg24, 21 febbraio 2019)


Lupi Neri, Combat 18: com'è triste la Francia antisemita

L'odio Svastiche e scritte come "Shoah blabla" su tombe e negozi: il nemico per i neonazi è sempre l'ebreo e Lione è diventata "capitale" dell'estrema destra

di Luana De Micco

PARIGI - Chi ha profanato le tombe del cimitero ebraico di Quatzenheim, in Alsazia, ricoprendole di svastiche, ha lasciato su una tomba una scritta blu in alsaziano: "Elsassisches Schwarzen Wolfe",i Lupi neri alsaziani. E il nome di un gruppo autonomista radicale che fu molto attivo nella regione tra il 1976 e il 1981. La maggior parte dei suoi membri sono stati condannati o sono morti.Una delle loro azioni risale al maggio 1976, quando i "Lupi" saccheggiarono il museo del campo di concentramento di Struthof, il solo campo nazista in Francia, presso Strasburgo. I cimeli dei deportati erano andati distrutti. "Il gruppo non è più davvero attivo da tempo, ma ha lasciato delle tracce nella regione", ha spiegato a Le Parisien lo storico Yves Camus. Martedì Emmanuel Macron era arrivato a Quatzenheim, indossando la kippa. La sera migliaia di persone hanno manifestato contro l'antisemitismo, che sta crescendo: +74% di atti antisemiti in Francia nel 2018.
  Gli episodi si moltiplicano: gli insulti al filosofo Alain Finkielkraut, la svastica sul ritratto di Simone Veil, la scritta "Juden" sulla vetrina di un negozio kosher e "Shoah blabla" su una stele di un cimitero vicino a Lione. E appena ieri, nuove svastiche sui muri del quartiere di Plaisance, a Parigi. Davanti al Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, Macron ha promesso "misure forti" per lottare contro l'odio anti-ebrei che raggiunge un livello "senza precedenti dalla seconda guerra mondiale". "Ho chiesto al ministro dell'Interno di avviare le procedure necessarie a sciogliere associazioni e gruppi che con il loro comportamento nutrono l'odio, promuovono la discriminazione e appellano all'azione violenta". Ne ha citati tre: Bastion social, Blood and Honour Hexagone e Combat 18. Blood and Honour Hexagone è l'ala francese, fondata nel 2011, di un gruppo neonazista britannico nato nel 1987. Il nome, "Sangue e onore", ricorda il motto della gioventù hitleriana. Combat 18 (o C18) si considera il "braccio armato" di Hexagone. I loro militanti ruotano intorno agli ambienti razzisti skinhead e della musica RAC ("Rock against communism"). Ma negli ultimi anni hanno fatto parlare poco di loro. Più attivo e violento è Bastion social, creato a Lione nel 2017 da ex membri dell'organizzazione studentesca Groupe union défense(Gud),sulla base delle teorie negazioniste del teorico del nazionalismo rivoluzionario François Duprat,
  Un gruppo "fascista, violento e ostile agli ebrei che accusa di guidare il complotto mondiale immigrazionista", ha detto lo storico Nicolas Lebourg a France Soir. Nel frattempo la formazione ha aperto sedi a Marsiglia, Aix en-Provence, Angers e si è radicato a Strasburgo. Ma il quartier generale resta nel centro di Lione, sulle sponde del fiume Saona. Lo scorso maggio i suoi militanti hanno occupato un edificio comunale vuoto per darlo "agli indigenti di razza bianca" contro i "clandestini extraeuropei". Ad agosto, l'ex leader, Steven Bissuel, è stato condannato per l'ennesima "provocazione all'odio razziale". Nel giorno del 70o anniversario della liberazione del campo di Auschwitz aveva scritto sui social:
  "Buon compleanno Auschwitz. 70 anni di business". "Lione è storicamente una città dove l'estrema destra è fortemente radicata", ha spiegato a Le Point, Joèl Gombin, membro dell'Osservatorio delle radicalità. Una presenza che non si traduce nelle urne: il suo sindaco è l'ex socialista e ex ministro di Macron, Gérard Collomb. Ma è all'università di Lione che negli anni '90 si era costituito un gruppetto di storici che fomentava le tesi negazioniste. Ed è sempre a Lione che Marion Maréchal, nipote di Jean-Marie Le Pen, il fondatore del Front National (oggi Rassemblement National), ha aperto il suo istituto di scienze sociali, economiche e politiche. I membri di Bastion social starebbero infiltrando da mesi il movimento dei Gilet gialli. Due di loro sono stati condannati per violenze a margine delle manifestazioni parigine e per il saccheggio dell'arco di Trionfo. Per Mediapart, al ministero dell'Interno già dal dicembre scorso stanno pensando a scioglierlo perché "inciterebbe alla costituzione di un gruppo armato".

(il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2019)



Israele, l'ex giornalista e l'ex generale alleati per battere Netanyahu

Yair Lapid e Benny Gantz hanno faticato a fidarsi l'uno dell'altro ma hanno trovato un'intesa. E alle elezioni di aprile hanno buone chance di riuscire a battere il Likud.

di Davide Frattini

 
GERUSALEMME - Le trattative sono andate avanti tutta la notte perché l'ex giornalista che nell'esercito ha fatto il fotografo e l'ex generale che in divisa ha passato 38 dei suoi 59 anni fino all'ultimo hanno faticato a fidarsi l'uno dell'altro.
Ha prevalso la voglia di battere Benjamin Netanyahu, di interrompere i suo dieci anni ininterrotti al potere. E i sondaggi predicono che l'accoppiata Yair Lapid-Benny Gantz potrebbe riuscire nell'impresa, per i due leader separati sembrava impossibile. Lapid - celebre per le interviste televisive e i romanzi gialli - porta l'esperienza politica acquisita da quando ha fondato il partito Yesh Atid (C'è un futuro) sei anni fa, nato per raccogliere i voti di quella classe media che fatica a pagare l'affitto e nel 2011 si è accampata sotto le jacarande di viale Rotschild a Tel Aviv per protestare contro i tagli e le tasse troppo alte. Al governo c'è già stato - sotto Netanyahu - come ministro delle Finanze, proprio per provare a raddrizzare i conti.
Se dovessero vincere le elezioni del 9 aprile, hanno stabilito una rotazione sulla poltrona di primo ministro, i primi due anni e mezzo toccano a Gantz che ha fatto pesare i numeri nei sondaggi del suo Resilienza per Israele, creato pochi mesi fa. Soprattutto arriva con la guardia d'onore del club degli ex capi di Stato Maggiore: è riuscito a coinvolgere i due predecessori Moshe Yaalon e Gabi Ashkenazi, i tre raggruppano sotto la stessa insegna politica le mostrine e il carisma di chi ha comandato le forze armate in un Paese dove tutti - uomini e donne - prestano il servizio militare obbligatorio.
I sondaggisti calcolano - l'indagine è stata condotta prima dell'annuncio ufficiale - che l'intesa tra i due partiti garantirebbe un seggio in più (32 contro 31) del Likud di Netanyahu, abbastanza perché il presidente Reuven Rivlin affidi a Gantz il mandato per provare a formare la coalizione di governo.

(Corriere della Sera, 21 febbraio 2019)


L’idea dell’alternanza rivela che l’interesse per la poltrona sopravanza quello per il bene nazionale. Nulla di strano in politica: un esempio di guida bicefala (anzi tricefala) ce l’abbiamo in casa. Con Israele però le conseguenze di incauti giochini politici possono essere tragiche. M.C.


Israele presenterà un nuovo drone-kamikaze

L'azienda israeliana Israel Aerospace Industries presenterà alla fiera Aero India 2018 il drone-kamikaze Mini Harpy.

Nel video della IAI, disponibile su YouTube, uno degli obiettivi della nuova arma volante ricorda un radar 96L6E, con il quale sono equipaggiati i sistemi missilistici russi S-300 e S-400.
In un comunicato stampa, pubblicato sul sito web dell'azienda israeliana, si nota che il Mini Harpy combina le capacità dei droni Harop e Harpy. Secondo lo sviluppatore, il drone-kamikaze è in grado di bloccarsi, in attesa che l'obiettivo venga visualizzato e trasmettere il video corrispondente all'operatore. Il drone può essere lanciato sia da terra che dal mare, e pure dagli elicotteri.
Il Mini Harpy pesa 45 chilogrammi, la testata è di otto chilogrammi ed ha un'autonomia di 100 chilometri o due ore di volo.
A gennaio l'esercito israeliano ha attaccato delle strutture in Siria legati all'Iran. Durante l'attacco, condotto con i droni SkyStriker, è stato distrutto il complesso Pantsir-S1 di fabbricazione russa.
Nell'ottobre 2018, la Russia ha completato il dispiegamento di tre divisioni S-300 in Siria.

(Sputnik Italia, 21 febbraio 2019)


Macron: l'antisionismo è una forma moderna di antisemitismo

di Paola Grassani

PARIGI - Il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia adotterà nei suoi testi di riferimento una definizione di antisemitismo allargata all'antisionismo.
"L'antisionismo è una delle forme moderne di antisemitismo", ha detto Macron in un discorso tenuto questa sera durante una cena del Crif, il Consiglio di rappresentanza delle istituzioni ebraiche francesi, a Parigi.
"La Francia, che l'ha assunta in dicembre con i suoi partner europei, metterà in pratica la definizione di antisemitismo adottata dall'Alleanza internazionale per la memoria della Shoah", ha affermato il capo dell'Eliseo.

 Macron ha deplorato "la rinascita dell'antisemitismo"
  "La situazione dopo tanti anni è peggiorata. Il nostro paese - come tutta l'Europa e la quasi totalità delle democrazie occidentali - è di fronte a una recrudescenza dell'antisemitismo senza dubbio inedita dalla Seconda guerra mondiale", ha sottolineato il presidente francese.

(LaPresse, 21 febbraio 2019)


Lo storico e il giornalista la battaglia per l'anima di Israele

Benny Morris e Gideon Levy hanno idee opposte su palestinesi, pace e sicurezza: sono lo specchio perfetto di un Paese spaccato.

di Bernardo Valli

 
Gideon Levy                                                    Benny Morris
Molte famiglie, in Israele, hanno alle spalle un romanzo. Una vita avventurosa. Spesso tragica. Risali un paio di generazioni, o anche meno, nell'esistenza di amici o conoscenti e li scopri fratelli, figli, nipoti di vittime dello sterminio. Sono ormai rari gli scampati dai campi della morte. Ci sono anziani sradicati dai Paesi d'origine e giovani che non conoscono le terre da cui sono arrivati genitori o nonni. I temperamenti sono passionali. L'ansia dell'insicurezza è l'inconscia origine di posizioni difensive, ma anche di reazioni offensive.
   Ed ecco il sabra, l'israeliano nato in Israele, soldato sicuro di sé, al quale Natalia Ginzburg preferiva il curvo abitante del ghetto, scandalizzando i suoi lettori di Tel Avìv, La letteratura e la storiografia israeliane percorrono questi sentimenti in opere tra le più avvincenti del nostro tempo, scritte in ebraico, una lingua antica rinnovata. Convinzioni, altrettanto antiche, animano una società tra le più tecnologicamente avanzate. Le contraddizioni non mancano: una democrazia dinamica, spigliata, la sola della regione, occupa militarmente terre in cui gli abitanti non hanno i diritti dei cittadini di Israele.
   Questo è un filtro attraverso il quale seguire questo Paese unico al mondo, sicuro di sé, ma sensibile per le tante cicatrici. Una società che sa guardarsi senza infingimenti, con un dibattito politico animato, a volte spregiudicato, verbalmente violento, come sembra esigere lo stato di emergenza, psicologico, ma anche reale, in cui vive. A neppure due mesi da un'elezione (9 aprile) in larga parte dominata dall'inamovibile problema della sicurezza, uno storico, Benny Morris, e un editorialista del quotidiano Haaretz, Gideon Levy, animano una polemica su un problema essenziale: arabi e israeliani possono convivere e per quanto tempo Israele potrà esistere?
   E' un interrogativo che può sollecitare il dubbio tra non pochi elettori.
   Benny Morris è uno dei "nuovi storici" che non si sono rassegnati alla interpretazione ufficiale del passato, e l'hanno scavato in piena libertà, non risparmiandosi reciproche critiche. Lui, Morris, è stato uno dei bersagli preferiti dai colleghi. Ha avuto atteggiamenti giudicati progressisti quando ha rifiutato di fare il servizio militare nei Territori occupati per motivi morali e per questo è finito in prigione.
   Ma ha anche preso posizioni opposte quando ha sostenuto che lo Stato di Israele, appena creato, avrebbe dovuto favorire, sollecitare l'esodo totale dei palestinesi. I suoi scritti restano comunque indispensabili per ricostruire quel periodo. Oggi, a settant'anni, professore universitario, Benny Morris pensa (e dice) che col tempo una maggioranza araba sommergerà Israele. Prevede ripetute esplosioni di violenza, tra le popolazioni di diversa origine, grazie alle quali gli arabi saranno nelle condizioni di chiedere il ritorno dei profughi. Così gli ebrei saranno ridotti a una minoranza, come erano quando vivevano nei Paesi musulmani. Chi ne avrà i mezzi raggiungerà l'America o qualche Paese occidentale. Per Benny Morris i palestinesi vedono tutto in una prospettiva di lungo termine. Al momento osservano "cinque-sei-sette milioni di ebrei", circondati da centinaia di milioni di arabi. " ... che tra trenta o cinquant'anni ci sommergeranno", conclude lo storico.
   Gideon Levy, 65 anni, è una delle più efficaci voci critiche israeliane. E' uno dei protagonisti della permanente polemica politica che rende vitale la democrazia. E' vero, dice, che fin dall'inizio i palestinesi si sono opposti al sionismo, considerandolo un potere coloniale che ha invaso e occupato il loro Paese. Nella loro prospettiva è la verità. La loro verità. A loro non interessa il diritto alla terra della Bibbia, né la promessa divina, né l'Olocausto. Questo riguarda il passato, dice sempre Gideon Levy; in quanto al presente, Morris trascura il regime militare nei Territori occupati, uno dei più severi e umilianti. Da più di cinquant'anni le ispezioni notturne gettano fuori dai loro letti anche i bambini. In quale altro Paese democratico ci sono milioni di persone senza cittadinanza? Morris prevede negli anni il prevalere della maggioranza musulmana ed è convinto che quel che è già accaduto nel passato altrove si verificherà in Israele nel futuro. Sbaglia. Come storico, gli ricorda Levy, dovrebbe sapere che, più che ripetersi, la storia può essere, al massimo, simile. E' vero che la democrazia ha scarse speranze di realizzarsi nei Paesi arabi, ma i palestinesi hanno dimostrato di sapersi comportare diversamente. Eleggono il loro Consiglio legislativo, e i palestinesi che sono cittadini israeliani eleggono i loro deputati alla Knesset. Morris è convinto che gli arabi non perdoneranno Israele. Levy ribatte che gli ebrei hanno perdonato la Germania per crimini più orribili; i neri negli Stati Uniti e nell'Africa de Sud hanno perdonato i bianchi; Francia e Germania sono diventati alleati dopo la Seconda guerra mondiale. Soltanto i palestinesi non dovrebbero perdonare?
   Uno storico come Morris dovrebbe sapere che tutto può svolgersi in maniera diversa se Israele assume le sue responsabilità morali e concrete. Esistono già città arabo-israeliane come Haifa e Jaffa. Ed esistono tanti modi per tentare una convivenza. Ma quando si è ultranazionalisti non si trova nulla da discutere con quelli considerati inferiori. E allora si è portati a credere all'apocalisse, conclude Gideor Levy.
   Quelle di Morris e di Levy sono posizioni opposte ed estreme. Il panorama politico mediorientale è cambiato. Israele non è più isolato. Con i Paesi sunniti, dall'Arabia Saudita all'Egitto, ha un comune nemico: l'Iran sciita degli ayatollah. Benjamin Netanyahu partecipa a riunioni con dirigenti arabi che un tempo chiedevano la fine di Israele.
   Ma i rapporti al vertice, tra governi, non corrispondono ai sentimenti prevalenti nelle popolazioni. Non contribuiscono alla convivenza né il muro eretto tra Israele e i Territori occupati; né la legge sullo stato-nazione ebraica, approvata in luglio dalla Knesset, che di fatto fa degli arabo-israeliani cittadini di una classe inferiore, nonostante la dichiarazione di indipendenza parli di uguaglianza per tutti i cittadini, senza distinzione etnica o religiosa; né la riduzione della lingua araba, un tempo ufficialmente la seconda, a lingua a status speciale. Né del resto gli incontri tra dirigenti arabi e israeliani, per concertare azioni contro il comune nemico iraniano, hanno cambiato gli umori ostili delle popolazioni arabe.
   Benny Gantz, l'avversario di Benjamin Netanyahu alle elezioni di primavera, pur auspicando un dialogo con gli arabi, parla di un'ostilità destinata a durare a lungo. Netanyahu non la pensa diversamente. E agisce di conseguenza.

(la Repubblica, 21 febbraio 2019)


Repubblica presenta le posizioni di Benny Morris e Gideon Levy come "idee opposte", quando in realtà hanno molto in comune. In particolare, come ai palestinesi a loro non interessa la promessa divina e il diritto biblico di Israele alla terra. In quanto intellettuali laici pensano di avere il dovere di non far intervenire Dio nelle loro considerazioni e previsioni. A loro probabilmente non interesserà, ma la Bibbia li definisce “stolti”. “Lo stolto ha detto nel suo cuore: non c’è Dio” (Salmo 14). M.C.


Il lander israeliano Beresheet sta per essere lanciato verso la Luna

di Massimo Zito

Beresheet effettuerà alcune misurazioni del campo magnetico della Luna.
Il 22 febbraio alle 01:45 UTC (21 febbraio 20:45 EST), un razzo Falcon 9 di SpaceX lancerà il lander israeliano Beresheet verso la Luna.
Il lancio, che è anche il primo di SpaceX con destinazione Luna, verrà effettuato da Cape Canaveral. Beresheet, che è la parola ebraica per "inizio"(ed è anche la prima parola del libro della Genesi della Bibbia), dovrebbe raggiungere la Luna il 4 aprile.
Il lander, realizzato dall'organizzazione non-profit israeliana SpaceIL, con il contributo della statale Israel Aerospace Industries, si staccherà dal vettore di lancio circa 30 minuti dopo il liftoff, per avviarsi lungo una traiettoria che utilizzerà la gravità terrestre per farsi spingere sempre più in alto fino all'incontro con la Luna, attorno alla quale entrerà in orbita dopo circa 40 giorni di viaggio. Per effettuare l'allunaggio sul Mare della Tranquillità sarà, però, necessario aspettare un'altra settimana.
La missione Beresheet sarà anche la prima condotta completamente da privati, lanciatore e lander, a raggiungere il satellite naturale della Terra.
Oltre alla missione scientifica di cui condividerà i risultati con la NASA, Beresheet avrà a bordo anche una capsula del tempo che resterà sulla Luna. Composti da tre dischi, i dati della capsula temporale comprendono simboli come la bandiera israeliana e l'inno nazionale del paese, "Hatikvah". Vi saranno, inoltre, anche i dizionari in 27 lingue, insieme alla Bibbia e un libro per bambini ispirato alla missione.
Beresheet e la sua capsula temporale rimarranno sulla superficie lunare indefinitamente.

(Recom Magazine, 20 febbraio 2019)


L'israeliana Rafael presenta nuovo missile anti-bunker

GERUSALEMME - L'azienda del settore della difesa israeliana Rafael Advanced Defense presenterà il nuovo missile a lungo raggio aria-superficie, progettato per distruggere obiettivi bunker e altre strutture sotterranee, all'Aero India Air Show che ha preso il via oggi a Bangalore. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". La presentazione del nuovo missile, soprannominato Rocks, avviene in un momento di particolare tensione tra Israele e Iran. Come fa notare la stampa israeliana, all'inizio di febbraio un alto comandante delle guardie rivoluzionarie iraniane ha dichiarato che l'Iran avrebbe "raso al suolo le città di Tel Aviv e Haifa" in caso di un attacco degli Stati Uniti contro la Repubblica islamica. Secondo una dichiarazione rilasciata da Rafael, il nuovo missile è dotato di una testata a frammentazione esplosiva che è in grado di distruggere bersagli sia sopra la superficie che in profondità in aree altamente difese. Il missile può essere impiegato contro obiettivi fissi, mobili e anche contro bersagli e aeree difese da contromisure per sistemi Gps. Come sottolineato dall'azienda, il Rocks utilizza il segnale Gps/Ins per la navigazione fino a metà percorso, per poi attivare il sistema elettro ottico ad infrarossi e l'elaborazione con algoritmi di immagini ad alta risoluzione per raggiungere e colpire l'obiettivo con grande precisione. Nella nota Rafel precisa che il Rocks può essere lanciato da varie unità di attacco da una distanza che va ben oltre le difese anti-aeree del nemico. "Rocks offre una soluzione all'avanguardia e conveniente che combina diverse tecnologie sperimentate in combattimento ereditate dal nostro sistema Spic di ultima generazione", ha dichiarato Yuval Mille, vicepresidente esecutivo e direttore generale di Rafael. Secondo Miller, l'India Air Show è un'ottima vetrina per presentare questo nuovo sistema.

(Agenzia Nova, 20 febbraio 2019)



Ancora svastiche a Lione, Macron annuncia stretta

di Paolo Levi

 
 
 
 
PARIGI. - All'indomani della grande manifestazione a Parigi e in altre città di Francia contro l'antisemitismo, arriva un nuovo attacco antiebraico con svastiche e scritte negazioniste sulla Shoah, vicino Lione. E il presidente Emmanuel Macron è pronto ad annunciare, mentre incontra la comunità ebraica francese, un severo giro di vite per fermare una deriva contro cui martedì la Francia è scesa, unita, in piazza.
   Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha chiamato, intanto, il filosofo francese, Alain Finkielkraut, per esprimergli tutto il suo sostegno dopo gli insulti antisemiti di cui è stato vittima durante la manifestazione dei gilet gialli sabato scorso a Parigi.
   Ma Rivlin ha anche preso carta e penna e scritto a Macron, che ha deciso di annunciare una stretta, che riguarderà probabilmente anche i social, contro gli atti antisemiti. Il presidente ha deciso di farlo proprio durante la cena annuale del Crif, il consiglio rappresentativo degli ebrei di Francia, a cui sono attesi oltre mille invitati al Carrousel du Louvre.
   "Questi atti sono un affronto al popolo ebraico, alla Repubblica francese e a tutta l'umanità", scrive Rivlin nella missiva in cui ringrazia personalmente il leader francese di essersi recato personalmente nel cimitero ebraico con oltre 90 tombe profanate poche ore prima nonché al Memoriale della Shoah a Parigi.
   A quanto si apprende, Macron ha sentito per telefono anche il premier Benjamin Netanyahu. In una giornata in cui la Francia si è svegliata con un nuovo oltraggio. Svastiche rovesciate e la scritta 'Shoah blabla…' sono state rinvenute nel 'Giardino della memoria' situato nei pressi del cimitero di Champagne au Mont d'Or, vicino Lione, proprio all'indomani della manifestazione unitaria di praticamente tutti i partiti politici per dire basta all'antisemitismo, 20.000 i partecipanti soltanto in Place de la République a Parigi.
   Aurore Bergé, deputata e portavoce de La République En Marche, ha denunciato da parte sua le "dichiarazioni pericolose" del ministro israeliano dell'Immigrazione, Yoav Gallant, che ieri ha lanciato un appello agli ebrei francesi affinché tornino "a casa", leggi: in Israele. "Casa loro è la Francia - ha ribattuto Bergé ai microfoni di RFI -, sono persone francesi e penso che questo genere di dichiarazioni siano pericolose".
   Una "ferma condanna" per quanto accaduto vicino a Lione è stata espressa dal prefetto della regione Rhône-Alpes Pascal Mailhos. "L'antisemitismo, la xenofobia, l'omofobia od ogni altra forma di odio - ha ammonito in un tweet - non hanno spazio nella nostra Repubblica". Il 'Jardin du Souvenir', dove sono state ritrovate le scritte, è un luogo multiconfessionale per deporre le ceneri dei defunti. L'inchiesta è stata affidata ai gendarmi di zona.
   Intanto, è stato prolungato il fermo di uno degli individui che sabato scorso, durante la manifestazione dei gilet gialli, ha circondato e violentemente offeso Finkielkraut, gridandogli - fra l'altro - "sionista", "la Francia è nostra" e "morirai". L'uomo, che nel video che ha ripreso l'episodio appare con gilet giallo e kefiah attorno al collo, si è recato spontaneamente in commissariato rispondendo a una convocazione degli inquirenti. L'inchiesta che lo riguarda è stata aperta per "offese in pubblico per origine, etnia, nazionalità, razza o religione".

(ANSA, 20 febbraio 2019)


Allarme antisemitismo, la Francia in piazza. Israele: «Ebrei, tornate»

Già in 55 mila hanno lasciato il Paese. Tombe profanate in Alsazia Macron: «Misure forti, ma senza introdurre il reato di 'antisionismo'».

di Francesca Pierantozzi

PARIGI - Ça suffit. Adesso basta. Era scritto ieri su tutti i cartelloni, le bandiere, a Parigi, alla République, ma anche a Bordeaux, Lille, Lione, Marsiglia. La Francia è scesa di nuovo ieri sera per le strade e le piazze. Questa volta non sono stati i gilets jaunes, ma ministri, capi di partito, due ex presidenti della Repubblica, intellettuali, leader religiosi, e cittadini. Ebrei, musulmani, cattolici, atei. Tanti. Per dire no all'antisemitismo. Negli ultimi giorni, gli insulti al filosofo Alain Finkielkraut durante la manifestazione dei gilet gialli di sabato, e poi, ieri la profanazione del cimitero ebraico di Quatzenheim in Alsazia, con le tombe imbrattate con svastiche di pittura blu, hanno confermato quello che le cifre dicono da tempo. Gli atti antisemiti in Francia sono in costante aumento. In drammatico aumento: più 74 per cento nell'ultimo anno. E anche se mancano statistiche ufficiali, aumentano gli ebrei francesi che decidono di partire, di andarsene all'estero, soprattutto in Israele. Lo storico Mare Knobel ha citato al quotidiano Libération soltanto un numero complessivo: più di 55 mila ebrei (sono 456 mila in Francia) hanno lasciato il paese tra il 2000 e il 2017. Ieri il ministro dell'Immigrazione di Israele Yoav Gallant ha addirittura rivolto un appello ufficiale agli ebrei francesi: «Condanno vigorosamente l'antisemitismo in Francia e dico agli ebrei: tornate a casa, immigrate in Israele». Emmanuel Macron annuncerà oggi delle «misure forti» per combattere l'antisemitismo, anche se si è detto contrario alla proposta di introdurre il reato di antisionismo accanto a quello di antisemitismo. «Non penso che penalizzare l'antisionismo sia una buona soluzione» ha detto Macron. Ieri il presidente si è raccolto davanti alle tombe profanate di Quatzenheim. Su una lapide la scritta: "Elsassisches Schwarzen Wolfe", i lupi neri alsaziani, in riferimento a un gruppo autonomista e antisemita attivo negli anni Settanta. La procura di Strasburgo ha aperto un'inchiesta. «Faremo leggi, puniremo - ha detto Macron - La Repubblica si impara e si porta. Adesso è il momento dell'emozione, ci sono manifestazioni che mostrano la mobilitazione del paese. Ma oltre l'emozione, questo sentimento deve durare, soprattutto nelle coscienze. Chi pensa che si possa far balbettare la storia, sbaglia. Prenderemo iniziative forti, e chiare».

 La cerimonia
  In serata il residente si è raccolto a Parigi al memoriale della Shoah, lasciando la piazza ai rappresentanti politici. In place de la République, su iniziativa del partito socialista si sono riuniti quattordici ministri, nove sottosegretari, il premier Philippe, gli ex presidenti Hollande e Sarkozy. Su una tribuna in mezzo alla folla si sono succeduti dei ragazzi. Hanno letto testi di Georges Moustaki, di Primo Levi. Non era presente Marine Le Pen - non invitata - che ha preferito raccogliersi davanti una targa in memoria di Ilan Halimi, il ragazzo ebreo torturato e ucciso nel 2006. Dopo aver denunciato la «strumentalizzazione politica dell'antisemitismo» che nella fattispecie servirebbe a denigrare e soffocare il movimento dei Gilets Jaunes, Jean Luc-Mélenchon si è materializzato alla manifestazione di Marsiglia. «Spero che usciremo più forti da questa manifestazione ha detto Mélenchon - spero che i francesi saranno più consapevoli di essere il popolo della libertà e dell'uguaglianza».

 L'attacco
  Nel pomeriggio, mentre la gente cominciava a recarsi sulle piazze delle manifestazioni, a Marsiglia un uomo ha cominciato ad attaccare dei passanti vicino alla Canabière, l'arteria centrale della città. Prima col coltello, poi con una pistola. Dei poliziotti del vicino commissariato hanno aperto il fuoco e lo hanno ucciso. Tre i feriti, di cui uno in modo grave. L'uomo, un 36enne, senza tetto, aveva precedenti con la Giustizia, in particolare per omicidio, non era conosciuto dai servizi né era mai stato segnalato come radicale. La prefettura ha infatti subito escluso che si sia trattato di un atto di terrorismo.

(Il Messaggero, 20 febbraio 2019)


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Svastiche sulle tombe a Strasburgo. Profanato il cimitero ebraico

di Leonardo Martinelli

 
PARJGI - Doveva essere la giornata del riscatto, della reazione della Francia repubblicana all'antisemitismo che ritorna e dilaga. E la giornata di ieri lo è stata, con una settantina di manifestazioni in tutta la Francia per dire no a quella brutta bestia e un fiume di persone (politici e pure tanta gente comune) che ha invaso la piazza della République a Parigi. Ma non è stato solo quello: nella mattina gli 800 abitanti di Quatzenheim, un villaggio a una ventina di km a Ovest di Strasburgo, hanno trovato 96 tombe profanate, nel loro antico cimitero ebraico, che risale al 1795.
   Sì, una serie di svastiche disseminate qui e là. Emmanuel Macron ha deciso subito di lasciare la capitale e di recarsi sul posto. Con la kippah sulla testa, si è raccolto davanti a quei sepolcri. Ma ha anche pronunciato frasi forti: «Coloro che l'hanno fatto non sono degni della Repubblica.
   E questa li punirà». E ancora: «Agiremo, ci saranno leggi e puniremo». Intanto il premier Edouard Philippe, dinanzi all'Assemblea nazionale, evocava la possibilità «prima della fine dell'anno» di varare nuove norme che puniscano «i social netwok che ospitano e non rimuovono frasi antisemite». Un gruppo di deputati sta addirittura chiedendo di riconoscere come reato l'antisionismo ma il Governo non è d'accordo e su questo ha espresso il suo dissenso anche Macron, che in serata ha raggiunto il memoriale della Shoah a Parigi.
   Prima le svastiche apparse sulle vetrine di alcuni negozi a Parigi. Poi, sempre nella capitale, sabato scorso, gli insulti lanciati contro il filosofo Alain Finkielkraut, ai margini di un corteo di gilet gialli. Ecco, l'antisemitismo è di ritorno in Francia, dove vivono 470 mila ebrei, la comunità più grande d'Europa. Secondo gli ultimi dati del ministero degli Interni, si è passati da 311 atti antisemiti nel 2017 (aggressioni verbali e fisiche denunciate alla giustizia) a 541 l'anno scorso. Chi c'è dietro al ritorno di queste antiche minacce? Uno strano miscuglio tra antisemitismo a matrice islamista, quello tipico dell'estrema destra e uno atavico e latente. Nel cimitero di Quatzenheim è stata trovata una scritta, in tedesco, «Lupi neri alsaziani», gruppo autonomista e di estrema destra che prosperava alla fine degli Anni Settanta: «gente normale», compresi diversi commercianti, poi condannati.
   Ieri da Israele è intervenuto il premier Benyamin Netanyahu. «Oggi qualcosa di scioccante è avvenuto in Francia», ha detto, riferendosi alla profanazione del cimitero. «Faccio appello ai leader di Francia ed Europa - ha aggiunto - perché mettano in atto una forte azione contro l'antisemitismo». Poco prima Yoav Galant, ministro dell'Immigrazione, aveva lanciato un appello agli ebrei di Francia: «Rientrate a casa, immigrate in Israele!». Tra il 2006 e il 2016 l'aliyah, il ritorno degli ebrei della diaspora verso Israele, ha già riguardato 45 mila francesi. Intanto, ieri sera, alla manifestazione in piazza della République erano presenti Philippe e più della metà dei componenti del Governo, oltre agli ex presidenti François Hollande e Nicolas Sarkozy. Marine Le Pen, invece, per evitare polemiche, ha preferito rendere omaggio nella periferia parigina a Ilan Halimi, giovane ebreo massacrato nel 2006 da una gang di delinquenti. Altro tragico episodio di questo ritorno agli spettri di un tempo.

(La Stampa, 20 febbraio 2019)


Crimini contro gli ebrei in aumento a New York

Anche a New York sono in crescita i crimini d'odio, e in particolare l'antisemitismo. Secondo i dati riportati ieri dal New York Times, nella Grande Mela ci sono stati già 55 reati di odio dal primo gennaio 2019, tasso che fa registrare un +72% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. E due terzi (36, invece dei 21 del 2018) sono avvenuti contro gli ebrei, in particolare a Brooklyn. Il New York Times riporta alcuni casi avvenuti nel quartiere di Crown Heights, che hanno scatenato l'allarme della comunità ebraica. Un video mostra un ebreo di 51 anni picchiato da tre giovani, in un altro filmato un ebreo ortodosso viene inseguito per strada da un uomo che brandisce il ramo di un albero. E un terzo mostra un ebreo ortodosso attaccato ad una recinzione mentre un aggressore tenta di soffocarlo. L'ondata di attacchi antisemiti a Brooklyn è proseguita sabato, quando due uomini hanno infranto la vetrata di una sinagoga a Bushwick, nessuno è rimasto ferito. Il governatore di New York, Andrew Cuomo, ha commentato parlando di «atto di odio scioccante e ripugnante».

(Avvenire, 20 febbraio 2019)


Islamismo, antisemitismo e la cattiva coscienza

di Loredana Biffo

L'aggressione di matrice antisemita avvenuta a Parigi nei confronti del filosofo ebreo Alain Finkielkraut (apostrofato con epiteti significativi: "sporco ebreo"; "sporco sionista"; "buttati nel canale"; "Palestina"; "vattene in Israele"; "la Francia è nostra"), ha scatenato un tam tam giornalistico sia in Francia che in Italia, le voci di dissenso si sono levate in particolare a sinistra, nel tentativo di difendere quello che quest'area politica considera un proprio valore; ovvero la "memoria della Shoah". Dimenticando però, che l'interdipendenza tra antisionismo e antisemitismo è la variabile dipendente della questione e che proprio questo è l'errore più grossolano che viene fatto quando si parla di antisemitismo che ripetutamente viene mascherato con l'antisionismo, quasi che questi e lo Stato di Israele fossero un corpo separato ed estraneo all'antisemitismo, veicolato attraverso il mantra del "non sono antisemita, sono antisionista". Questa frase molto abusata, rivela in realtà tutte le contraddizioni rispetto alla storia della shoah prima e dello Stato di Israele dopo; nonché l'egemonia che la cultura di sinistra vorrebbe maldestramente esercitare a tal proposito.
  Questa vicenda dei gilet gialli presenta un'altra istanza che ha una genesi nella storia del socialismo e del comunismo, ma che oggi viene ignorata dalla sinistra, ovvero la questione della "rappresentanza" e della storia dei "movimenti" come portatori di istanze sociali e politiche; una questione che oggi interpella tutte le società occidentali, in particolare in Europa, ma che tutti si affrettano a definire violenti e non desiderabili, oscurandone quindi il complesso intreccio di questioni sociali (lavoro, immigrazione, sicurezza ecc..) che esistono e ribollono al loro interno e che non cesseranno di esistere per il solo fatto che li si oscuri o delegittimi. Per usare una categoria gramsciana, possiamo dire che la sinistra ha perso definitivamente la "connessione sentimentale con il popolo", stabilendola ormai in modo univoco con l'immigrato - meglio se islamico - che riconosce come il nuovo proletariato. Questo ha una forte ricaduta sul piano politico-sociale, è la tendenza prevalente soprattutto sul piano della divulgazione giornalistica e dell'uso pubblico della storia, che troppo spesso subisce contraffazioni grottesche, senza che i "grandi media" mettano in luce questa dissociazione.
  Si pensi per esempio al fatto che ovunque si scriva che Israele ha "invaso la Palestina", "deportando gli arabi", quando incontrovertibili fonti storiche dimostrano che quelle terre paludose erano state a suo tempo vendute dagli arabi (per altro provenienti da altri Paesi mediorientali, cosa che dimostra l'invenzione "dell'arabo palestinese") agli ebrei, per poi rivendicarne successivamente il possesso una volta rese fertili.
  Così come non si scrive mai delle numerose risoluzioni di pace che gli arabi hanno rifiutato. Colpisce che a sinistra non si colga la contraddizione implicita nel fatto che degli islamici francesi urlino ad un intellettuale ebreo di origine francese "tornatene in Israele", "la Francia è nostra", quando agli israeliani viene detto dagli arabi palestinesi di andarsene; di quanto sia evidente la volontà degli islamisti di colonizzare e islamizzare l'Europa e distruggere Israele negandone il diritto ad esistere, ma questo venga taciuto o giustificato con il fatto che l'Europa è stata colonialista, omettendo anche il fatto che Israele sia l'unica democrazia esistente nel Medio Oriente.
  Inoltre vi è un fatto ancor più evidente in questa incapacità di analizzare i movimenti o peggio di leggere la realtà, ovvero la drammatica perdita da parte della sinistra, della dimensione del "sociale", della subordinazione e della spoliazione dei diritti economici e per l'appunto sociali che i cittadini vivono nelle nostre società, dove i lavoratori autoctoni sono stati messi in competizione con quelli provenienti da parti più povere e meno tutelate del mondo, abbassando drasticamente il salario dei primi; è sufficiente a tal proposito leggere qualsiasi libro del sociologo Luciano Gallino a tal proposito (Finanzcapitalismo, Il lavoro non è una merce, Il colpo di stato di banche e governi, Globalizzazione e disuguaglianze, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Il costo umano della flessibilità e molti altri), il quale spiega molto bene come la classe capitalistica transnazionale ha operato in modo eccellente in questo senso.
  Sembra altresì che gli argomenti che scandirono le lotte per l'emancipazione femminile ai primi del novecento ora la sinistra li abbia rimossi, che non veda lo stretto collegamento con i diritti inesistenti e i gravi soprusi per le donne nel mondo islamico, anzi, sedicenti femministe e rappresentanti della nostra classe politica sono ben felici di velarsi in occasione di incontri con i barbuti ayatollah. Vi è poi un aspetto ancor più evidente, del quale i cittadini parlano, ma che la politica oscura, ossia il fatto che i gilet gialli sono nati come movimento per la rivendicazione dei diritti sociali ed economici e che in un contesto come quello francese, (dove ci sono cifre ufficiali che dichiarano l'esistenza di 6 milioni di islamici, in realtà sembrerebbero essere molti di più secondo le dichiarazioni di un ex ministro francese) era facile immaginare che si sarebbero infiltrati i radicalizzati di seconda e terza generazione, ma la stampa urla al pericolo del fascismo e del nazismo che secondo il sinistrume sarebbe alle porte, facendo di questa teoria la solita arma di distrazione di massa, salvo poi tacciare di nazionalismo e islamofobia chiunque osi avere un pensiero contrario. Insomma, la sinistra ha ormai da tempo perso la peculiarità di interpretare il sociale e le trasformazioni culturali che toccano nel vivo le forme stesse dell'autocoscienza, che scaturiscono dai rapporti reali di produzione e dominio - per usare la categoria marxiana - consegnando così le nostre società all'imminente islamizzazione, oltre che alla pauperizzazione, sottendendo che il mondo islamico sia il "nuovo proletariato" a cui fare riferimento per la sua propria rinascita politica - qui invece sta la sua sconfitta più grande, che ha consegnato l'elettorato a Lega e 5 Stelle - ma avendo gli occhi bendati sul fatto che sono proprio i rapporti economici ad aver spianato la strada a Paesi come l'Iran e l'Arabia Saudita che dei diritti umani, sociali, politici ed in primis economici (si vedano i tassi di povertà assoluta in questi Paesi) ne fanno polpette.
  A questo punto viene spontaneo chiedersi se la sinistra non farebbe bene a pensare di considerare che il concetto di antisionismo di cui è fieramente portatrice (sic!), sia la vera chiave di volta di tutta la questione, e che questo sia più che altro utilizzato come il tappeto sotto il quale nascondere la sua vera natura antisemita indissolubilmente legata a quella islamista, declinata in antisionista, cominciando magari ad assumersi le sue responsabilità nei confronti della nuova vulgata antisemita, invece di trastullarsi con il fantasma del fascismo.

(L'Opinione, 20 febbraio 2019)


"Sono fiera di essere araba israeliana e sionista"

Una coraggiosa testimonianza in video, a dispetto di menzogne odio e minacce.

"Sono molto fiera, innanzitutto, di essere un'araba israeliana sionista, e ho legato il mio destino a Israele e al popolo ebraico, un popolo di pace". Lo afferma Sara Zoabi, una cittadina araba d'Israele, in un video di poco più di 3 minuti postato sabato scorso da Hananya Naftali, un famoso YouTuber israeliano. "La nazione ebraica è un modello di pace e amore", aggiunge Sara Zoabi.
Alla domanda su perché si senta così vicina agli israeliani e non ai palestinesi, Zoabi risponde: "Io sono israeliana, sono nata qui, vivo qui. Punto. Non sento nessuna molestia né discriminazione per il fatto che sono araba. E' vero il contrario: come araba e musulmana, ho tutti i miei diritti"....

(israele.net, 20 febbraio 2019)


Il jihad palestinese contro la pace

di Bassam Tawil*

I leader palestinesi hanno di recente intensificato i loro sforzi per impedire ai paesi arabi di normalizzare le loro relazioni - o addirittura firmare accordi di pace - con Israele.
   La campagna prende posizione contro le notizie in merito a un miglioramento nelle relazioni tra Israele e alcuni paesi arabi, nonché a una recente visita in Oman da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu.
   Lo spettro della pace tra i paesi arabi e Israele è diventato un incubo per i leader palestinesi. Invece di preoccuparsi della possibilità di costruire un futuro migliore - di cui i palestinesi hanno disperatamente bisogno - i dirigenti palestinesi lavorano febbrilmente per ostacolare qualsiasi tentativo di avvicinamento tra i paesi arabi e Israele.
   Come parte della campagna "anti-normalizzazione", i leader palestinesi in Cisgiordania stanno ora esercitando pressioni sui paesi arabi affinché questi ultimi boicottino un summit globale promosso dagli Stati Uniti per discutere di Medio Oriente e Iran, che è previsto per il prossimo mese in Polonia.
   Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato in un'intervista televisiva che l'incontro "si concentrerà sulla stabilità in Medio Oriente, sulla pace, la libertà e la sicurezza qui e in questa regione e ciò include un importante elemento per assicurare che l'Iran non sia un'influenza destabilizzante".
   Il summit, ha affermato Pompeo, "raggrupperà numerosi paesi da tutto il mondo, da Asia e Africa, le nazioni dell'emisfero occidentale, l'Europa e ovviamente il Medio Oriente".
   I leader palestinesi sarebbero convinti che l'imminente conferenza faccia parte di uno sforzo statunitense volto a normalizzare le relazioni tra i paesi arabi e Israele. Il presidente dell'Autorità palestinese (Ap) Mahmoud Abbas e i suoi alti funzionari e portavoce a Ramallah ritengono che qualsiasi cosa l'amministrazione americana faccia o dica sia una "cospirazione, volta a liquidare la causa palestinese e a minare i diritti nazionali dei palestinesi".
   Abbas e la sua Ap boicottano l'amministrazione americana sin dalla decisione presa nel dicembre del 2017 dal presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come la capitale di Israele. Da allora, hanno sfruttato ogni occasione per esprimere la loro condanna del piano di pace per il Medio Oriente della Casa Bianca che ancora non è stato presentato, noto anche come "l'accordo del secolo".
   Il 23 gennaio, i leader palestinesi che si sono incontrati a Ramallah, in Cisgiordania, la capitale palestinese de facto, hanno respinto il piano americano di tenere la conferenza in Polonia e hanno anche invitato i paesi arabi a non partecipare al summit. Piuttosto, hanno loro chiesto di riaffermare il loro impegno nei confronti dell'Iniziativa di pace araba, una proposta in dieci punti per porre fine al conflitto arabo-israeliano che fu approvata dalla Lega araba nel 2002.
   Israele ha espresso riserve in merito al piano di pace della Lega araba, soprattutto sulla richiesta di ritirarsi ai confini indifendibili esistenti prima del 1967, con aggiustamenti territoriali, incluso un ritiro dalle alture del Golan, come pure il "diritto al ritorno" per i profughi e i loro discendenti alle loro vecchie case in Israele. Inondare Israele con milioni di palestinesi trasformerà gli ebrei in una minoranza - com'è presumibilmente intenzione del piano.
   In altre parole, l'Iniziativa di pace araba di fatto richiede la creazione di due Stati palestinesi: uno in Israele e un altro in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est.
   Il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe affermato che l'unica parte positiva del piano è la volontà delle nazioni arabe di raggiungere la pace e ottenere la normalizzazione delle relazioni con Israele.
   I leader palestinesi non hanno trovato il tempo per discutere dei modi per migliorare le condizioni di vita della loro popolazione. Non hanno discusso della "crisi economica e umanitaria" in corso nella Striscia di Gaza. Tali questioni non sono mai state sulla lista delle loro priorità.
   Ciò che tormenta Abbas e l'Autorità palestinese sono le notizie di un riavvicinamento tra alcuni paesi arabi e Israele.
   Il segretario generale dell'Olp Saeb Erekat, che ha dedicato gli ultimi due decenni della sua vita a stigmatizzare Israele e gli Stati Uniti, è stato uno dei primi leader palestinesi a lanciare un segnale d'allarme sull'imminente conferenza organizzata dall'amministrazione statunitense.
   In linea con la lunga tradizione palestinese di bollare tutto ciò che riguarda Israele e gli Stati Uniti come una "cospirazione", Erekat ha dichiarato che il summit in Polonia è "finalizzato ad aggravare le divisioni nella regione".
   Erekat sembra particolarmente preoccupato del fatto che alcuni paesi arabi parteciperanno alla conferenza e parleranno a nome dei palestinesi, o addirittura normalizzeranno le loro relazioni con Israele. L'Olp, egli ha chiosato, è l'unica parte autorizzata a parlare a nome dei palestinesi in qualsiasi negoziato relativo alla questione palestinese.
   Anche altri dirigenti di punta palestinesi si sono spinti oltre avvertendo i paesi arabi che qualsiasi forma di normalizzazione dei rapporti con Israele sarebbe considerata un atto di tradimento. Abbas Zaki, ad esempio, un alto esponente di Fatah, la fazione al potere del presidente Abbas, ha detto a proposito del palese riavvicinamento tra alcuni paesi arabi e Israele: "La normalizzazione delle relazioni tra diversi paesi arabi e Israele è un atto di tradimento e codardia". In un'altra dichiarazione, Zaki ha biasimato la recente visita in Israele da parte di certi arabi, definendola "una profonda pugnalata alla lotta nazionale palestinese". Il riavvicinamento tra alcuni paesi arabi e Israele, egli ha aggiunto, fa parte di una cospirazione finalizzata a facilitare il controllo esercitato da Israele e l'egemonia sulle risorse arabe.
   Mohammed Shtayyeh, un altro esponente di punta di Fatah ed ex negoziatore di parte palestinese, ha dichiarato che i palestinesi sono delusi e rattristati per la normalizzazione delle relazioni tra gli arabi e Israele. In un'intervista rilasciata all'emittente radiofonica dell'Autorità palestinese Voce della Palestina, Shtayyeh ha attribuito il riavvicinamento tra alcuni arabi e Israele alla "situazione di declino" nei paesi arabi e islamici.
   Tre gruppi palestinesi - il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), il Fronte democratico per la liberazione della Palestina (FDLP) e Hamas - hanno inoltre invitato gli arabi a opporre resistenza a qualsiasi tentativo da parte dei loro leader di fare pace con Israele e hanno detto che è giunto il momento di adottare "severe misure per affrontare i pericoli della normalizzazione delle relazioni con Israele".
   Anche il primo ministro dell'Ap, Rami Hamdallah, si è unito al coro, esortando gli arabi ad astenersi da qualsiasi forma di normalizzazione dei rapporti con Israele. In un discorso pronunciato il 20 gennaio a un summit arabo per lo sviluppo sociale ed economico, tenutosi in Libano, Hamdallah ha affermato che la normalizzazione dei rapporti tra i paesi arabi e Israele non dovrebbe avvenire prima della creazione di uno Stato palestinese indipendente, con Gerusalemme Est come sua capitale, sui confini esistenti prima del 1967. Egli ha invitato tutte le istituzioni e le imprese arabe ad attenersi alle direttive della Lega araba di boicottare Israele.
   È quantomeno pura ipocrisia per l'Autorità palestinese e per i suoi leader pretendere che gli arabi boicottino Israele quando essi stessi parlano e lavorano con Israele. Lo stesso Hamdallah, che invita gli arabi a boicottare Israele, s'incontra regolarmente a Gerusalemme con il ministro delle Finanze israeliano Moshe Kahlon. Un altro ministro palestinese che partecipa regolarmente a riunioni con i funzionari israeliani è Hussein al-Sheikh, anch'egli un alto dirigente di Fatah.
   La strategia palestinese si basa ora sull'istigazione degli arabi contro i loro leader. Questo è il messaggio che Abbas e i suoi funzionari inviano agli arabi: "Dovete unirvi a noi nella nostra campagna volta a impedire ai nostri leader di fare pace con Israele. Dovete condannare, come se fosse un traditore, qualsiasi leader che cerchi di normalizzare le relazioni con Israele".
   La campagna "anti-normalizzazione" dei palestinesi fa anche parte del loro sforzo volto a contrastare "l'accordo del secolo" promesso da Trump, che, secondo alcune voci, invocherà la normalizzazione delle relazioni tra gli arabi e Israele. I palestinesi affermano di essere determinati a sventare il piano di pace di Trump che non è ancora stato reso pubblico e il suo tentativo di normalizzare le relazioni tra Israele e i paesi arabi. Attualmente, dunque, la "diplomazia" palestinese si è ridotta a questo: vanificare i piani di pace e la normalizzazione arabo-israeliana. Questo è ciò che accade quando Mahmoud Abbas e i suoi dirigenti non hanno nulla di buono da offrire alla loro popolazione. Adesso resta da vedere se i paesi arabi si arrenderanno all'ultima campagna palestinese di incitamento e intimidazione.

* Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 19 febbraio 2019)


L'aggressione verbale a Finkielkraut e il contesto

di Niram Ferretti

Nulla di nuovo sotto il sole, si fa per dire. L'aggressione verbale subita da Alain Finkielkraut a Parigi durante un corteo dei gilet gialli dove è stato insultato perché "sionista" e dunque difensore di Israele, e dunque suscettibile di punizione divina, non proveniva, come ha cercato di fare credere un atro filosofo ebreo francese vicino a Israele ma molto gauche caviar, come Henri Bernard Levy, dal fascismo risorgente di cui i gilet gialli sarebbero un contenitore. No, il principale aggressore verbale di Finkielkraut è un musulmano radicalizzato. Lo stesso intellettuale francese e accademico di Francia lo ha detto chiaramente durante una trasmissione televisiva dopo l'incidente facendo riferimento alle frasi ingiuriose di cui è stato fatto oggetto. "Questa è retorica islamista".
   Alcuni fatti vanno ricordati. La strage alla scuola ebraica Ozar Hatorah di Tolosa del 2012, quella dell'Hypercasher del 2015,gli omicidi individuali di ebrei come quello di Ilan Halimi nel 2006, di Sarah Halimi nel 2017, di Mireille Knoll nel 2018. Tutti episodi riconducibili all'odio islamico nei confronti degli ebrei.
   La realtà è dunque questa. Che vi sia in Francia, come altrove in Europa, un antisemitismo autoctono, è una ovvietà assoluta, ma non è quello egemone e non è quello che in Francia ha mietuto le vittime elencate, e non è quello che ha in Israele il suo obiettivo principale e che a Parigi si è manifestato contro Finkielkraut.
   "Oggi, la Francia", ha Guy Millière, "E' l'unico paese nel mondo occidentale in cui gli ebrei vengono uccisi solo per essere ebrei" . Ed è sempre Millière a sottolineare come, "In due decenni più del 20% degli ebrei francesi hanno lasciato la Francia. Secondo un sondaggio, il 40% degli ebrei che vivono attualmente in Francia, vogliono andarsene. Malgrado gli ebrei rappresentino attualmente meno dello 0.8% della popolazione, metà dei militari e della polizia impiegata nelle strade francesi si trova di guardia davanti alle scuole ebraiche a ai luoghi di culto".
   La Francia è anche il paese che in nome della libertà di espressione ha permesso che l'umorista e attivista di colore Dieudonné, dal 2002 in poi, nei suoi spettacoli e nei suoi interventi propagasse una narrativa ferocemente antisemita e antisionista che non sarebbe dispiaciuta ad Alfred Rosenberg e Julius Streicher. Ma la Francia non è la Germania degli anni '40, è un grande paese democratico culla ed erede dell'Illuminismo, dove la libertà di espressione, che, il 7 gennaio del 2015 è costata la vita a una parte della redazione di Charlie Hebdo, rea di avere pubblicato vignette blasfeme su Maometto, è un caposaldo, fino a quando, certo, non si tocca troppo da vicino l'Islam. Allora le cose cambiano. Ci si deve nascondere, e vivere sotto scorta, come Robert Redeker oppure si viene uccisi, o, nel migliore dei casi, si viene portati in giudizio, come è accaduto a Georges Bensoussan. Ma Dieudonné se ne guarda bene da lanciare invettive contro l'Islam, per lui i musulmani, insieme ai neri, sono vittime dello stesso potere terribile e implacabile che si presenta sotto l'effige della Stella di Davide. Egli ha preferito mascherarsi da paladino degli oppressi di colore, restando quindi fermamente saldo su un terreno in sintonia con lo Zeitgeist, e dunque capace di intercettare un ampio consenso, appoggi, simpatie, dall'estrema destra (Jean Marie Le Pen), come dall'estrema sinistra.
   Dieudonné è un sintomo della malattia grave di cui soffre la società francese, e di cui una buona parte dell'Europa è affetta. Basta guardare al Regno Unito dove il principale partito di opposizione è virulentemente antisionista e rigurgitante di antisemiti, basta guardare alla Svezia, all'Olanda, alla Norvegia, all'Irlanda, dove, in nome delle magnifiche sorti e progressive, Israele è rappresentato come uno Stato canaglia.
   Non c'è quindi da sorprendersi eccessivamente se Alain Finkielkraut sia stato aggredito verbalmente. E' uno dei frutti marci del clima avvelenato, dell'odio diffuso a piene mani contro Israele, soprattutto da parte islamica da cinquanta anni a questa parte.

(Progetto Dreyfus, 19 febbraio 2019)



Il vertice non si fa più, Israele e Polonia litigano sull'Olocausto

Varsavia offesa dalle accuse di Netanyahu: «Complici dei nazisti». E lui: è un equivoco

di Fiamma Nirenstein

Forse tutto sommato non è una sfortuna che sulla politica talvolta sventoli la bandiera della verità storica, e con essa la forza dei sentimenti.
   E però, dopo l'alzabandiera, tutti dovrebbero tornare al buon senso e al presente. Invece qui non ha funzionato, e così il vertice di Visegrad che avrebbe dovuto tenersi a Gerusalemme da giovedì (ovvero la convergenza nella capitale d'Israele dei primi ministri di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, e Ungheria) è stato annullato in seguito allo scontro fra Israele e Polonia sulla Shoah. E sì che l'atteggiamento di questi quattro Paesi è molto importante per Israele a fronte della critica incessante dell'Unione Europea. Ma l'enorme coda di paglia della Polonia per il genocidio degli ebrei di cui è stata senza dubbio volenterosa testimone e anche complice, ha preso fuoco dopo svariati capitoli di un duro scontro sulla Shoah. I rappresentanti degli altri tre Paesi condurranno qui incontri bilaterali, ma certo essi non saranno così simbolicamente importanti come la determinazione a disegnare proprio in Israele il futuro di quattro Paesi Europei legati da un patto e in polemica con la UE.
   Persino con la Germania del dopoguerra, quando Ben Gurion con Adenauer decise fra lacrime e sangue, si evitò lo scontro. La Germania aveva motivi vitali per non negare le sue colpe verso gli ebrei, ed era impegnata in un processo di elaborazione legato alla sua sopravvivenza stessa. Adesso invece, in mezzo alle migliori intenzioni politiche, è stata inevitabile la caduta delle tessere del domino polacco-israeliano l'una sull'altra: l'ultima botta l'ha data in un empito di iperattivismo il nuovissimo ministro degli esteri Yisrael Katz, nominato domenica. Intervistato appena eletto e in piena campagna elettorale, ha anche detto che i polacchi hanno succhiato l'antisemitismo col latte della mamma, e questo ha sopravanzato ma ha anche rafforzato, la presa di posizione corretta alla meglio da Bibi Netanyahu. Al summit di Varsavia aveva detto al Museo della Storia Ebraica che «i polacchi hanno collaborato con i nazisti, non c'è dubbio su questo». Poi ha corretto la sua posizione: certi polacchi, alcuni polacchi: «poles» non «the poles». Ma l'affermazione veniva dopo la lunga tensione a causa della legge polacca che condannava come offesa criminale, compresa la prigione, chi dice che i polacchi sono stati complici dello sterminio, e poi, dopo molti scontri con Israele, la procedura è diventata civile. Ma ai polacchi brucia troppo il passato, e questo mentre la politica dei quattro Paesi europei in questione ha una fondamentale importanza polemica nei confronti dello stile mogheriniano Ue, che mentre criminalizza spesso Israele sostiene l'accordo e il commercio con l'Iran. Non è affatto un caso se, seduto accanto a Mike Pompeo e al ministro degli esteri yemenita per la prima volta nella storia, Netanyahu proprio a Varsavia, durante un summit in cui l'Europa era rappresentata solo dall'Italia e dall'Inghilterra, ha condiviso il punto di vista sull'Iran con 60 stati, di cui molti arabi. Il ministro degli Esteri del Bahrain Khalid bin Ahmed al Khalifa ha detto che senza «il denaro tossico» che i palestinesi ricevono da Iran e altri committenti sospetti, il conflitto con Israele sarebbe da tempo risolto; il ministro degli Esteri degli Emirati al Nabyan ha dichiarato addirittura che Israele ha il diritto all'autodifesa; il presidente dell'Oman si è mostrato entusiasta di rivedere Netanyahu. Tutto questo a Varsavia, che i palestinesi avevano chiesto agli arabi di disertare, mentre a Soci si riunivano coi russi gli iraniani e i turchi. Il mondo forma nuove isole e continenti di qua e di là, la Polonia e Israele sono dalla stessa parte. Eppure adesso la storia li trascina alla deriva.

(il Giornale, 19 febbraio 2019)


*


La comunità ebraica polacca contro le parole del ministro degli Esteri israeliano

L'Unione delle Comunità ebraiche polacche ha preso le distanze dalle parole del neo ministro degli esteri israeliano Yisrael Katz che hanno fatto divampare nuove tensioni tra Israele e Polonia con il forfait di quest'ultima dal summit dei Paesi di Visegrad in programma oggi a Gerusalemme. In una lettera, resa nota nei media israeliani, il presidente Monika Krawczyk e il rabbino capo di Polonia Michael Schudrich hanno scritto che "accusare tutti i polacchi di antisemitismo offende i Giusti e anche tutti quelli che oggi vogliono vedere in loro la vera immagine della società polacca. Ed offende anche noi, ebrei polacchi, che siamo parte di questa società".
   "Le parole di Yitzhak Shamir citate dal ministro Yisrael Katz - hanno continuato - erano già ingiuste quando furono pronunciate la prima volta nel 1989... e sono ingiuste anche oggi". "E' un fatto che diversi polacchi abbiano partecipato all'uccisione tedesca degli ebrei, direttamente o indirettamente... ma va ricordato - ha proseguito la lettera - che durante l'occupazione della Polonia, la Polonia non ha mai istituito un regime di collaborazione con il Terzo Reich". "Ed è un fatto che i polacchi - hanno sottolineato - siano il gruppo più numeroso tra i Giusti tra le Nazioni".

(Shalom, 18 febbraio 2019)


Fronda Labour, in sette scaricano Corbyn. E la Brexit fa scappare anche la Honda

I parlamentari ribelli vogliono un nuovo referendum. La casa, giapponese chiuder&aggrave; il suo impianto nel 2022

di Francesco Malfetano

ROMA - Non ci sarà «un piano B laburista» per la Brexit. A minare le crescenti aspettative sull'accordo "soft" a cui stanno lavorando l'Europa e i Labour di Jeremy Corbyn, sono alcuni membri dello stesso Partito. Ieri infatti, 7 deputati laburisti hanno annunciato la propria fuoriuscita dal raggruppamento di centrosinistra. Principale motivo del contendere tra il Labour Party e i dissidenti - che appartengono all'ala centrista e liberal - è il fatto che, all'intesa più moderata con l'Unione europea prospettata dai vertici, preferiscono un secondo referendum che rimetta in discussione tutto.

 Le accuse
  Non solo. I 7 dissidenti - Chuka Umunna, Chris Leslie, Angela Smith, Mike Gapes, Gavin Shuker, Ann Coffey, e Luciana Berger - contestano anche la scarsa intraprendenza mostrata da Corbyn nel contrastare l' «antisemitismo istituzionalizzato» emerso in settori della base laburista e soprattutto la svolta a sinistra imposta da Jezza - soprannome affibbiato al leader dell' opposizione. L'ex ministro Leslie infatti, parlando a nome degli altri fuoriusciti, ha accusato Corbyn di aver «sequestrato» il Partito.
  Non si sono fatte attendere le reazioni. Da un lato chi si rammarica per l'uscita dei 7 e parla di un'occasione persa per conquistare spazi di manovra grazie alle divisioni dei Tory; dall'altra il plauso della comunità ebraica e dei liberal-democratici, che vedono negli ormai ex-labour una risorsa importante. Tra chi condanna i dissidenti, ad esempio si è iscritta la porzione più giovane del partito. Lo Youth Labour ha bollato i fuoriusciti addirittura come «codardi e traditori». Il riferimento è al socialismo di Tony Blair «fatto di privatizzazioni, tagli delle tasse ai ricchi e deregulation per le banche». Negative anche la reazioni dei sindacati e di laburisti come il deputato Stephen Kinnock o come il sindaco di Londra, Sadiq Khan, che descrivono la scissione come una strada per «far vincere il Partito conservatore» alle elezioni.
Tra chi invece ha sostenuto i 7 deputati 'centristi' anti-Corbyn, figura non solo la comunità ebraica britannica ma anche il Partito liberal-democratico di Vince Cable.

 Il sostegno
  Il gruppo ha incassato anche il sostegno del Partito Conservatore. Brandon Lewis, presidente dei Tory, ha infatti colto la palla al balzo per lanciare un proclama contro Jezza, affinché non gli venga «consentito di fare al Paese ciò che sta facendo al suo partito». E cioè far scappare sostenitori e aziende, non solo a causa della Brexit. Proprio ieri infatti, la Honda ha annunciato di voler chiudere nel 2022 il suo impianto di Swindon dove produce i modelli Civic. La chiusura, che metterebbe in pericolo 3.500 posti di lavoro, andrebbe a sommarsi alle aziende come Sony, Panasonic e Nissan.

(Il Messaggero, 19 febbraio 2019)


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Spaccatura nei Labour, sette deputati contro Corbyn

I «ribelli», sostenitori del secondo voto su Brexit, creeranno un nuovo partito

di Nicol Degli Innocenti

 
Luciana Berger
LONDRA - Terremoto nel partito laburista: sette deputati ieri hanno lasciato il partito per protesta contro la gestione autocratica del leader Jeremy Corbyn e la mancanza di una chiara strategia su Brexit. I sette resteranno in Parlamento come indipendenti e hanno invitato altri deputati scontenti sia laburisti che conservatori a unirsi a loro per creare un nuovo movimento politico moderato.È lo strappo più grave nel partito laburista da quando la cosiddetta "Banda dei quattro" di ex ministri aveva lasciato per fondare il Partito Socialdemocratico nel 1981, che nel 1988 si era poi fuso con il partito liberale creando i LibDem.
   Il più noto dei sette è Chuka Umunna, ex ministro ombra che era considerato anche un possibile candidato per la leadership e che negli ultimi mesi è stato uno dei maggiori sostenitori di un secondo referendum su Brexit. Sia il Labour che i Tories hanno dimostrato di voler sempre mettere gli interessi di partito sopra gli interessi nazionali, ha detto Umunna, e per questo «serve un'alternativa. Noi abbiamo deciso di lasciarci la vecchia politica alle spalle e invitiamo altri a fare altrettanto».
   In una conferenza stampa congiunta i sette ieri hanno dato ragioni diverse per la decisione di lasciare. Mike Gapes, membro del partito da 50 anni, ha detto di essere «furibondo perché la leadership laburista sta facilitando la Brexit dei conservatori, bloccando la possibilità di dare l'ultima parola agli elettori». Un altro deputato in uscita, Chris Leslie, ex cancelliere-ombra, ha dichiarato che il partito laburista è stato «preso ostaggio dagli estremisti di sinistra» e che «lasciare che le vite e le opportunità future dei cittadini siano danneggiate da Brexit è una violazione dei valori fondamentali laburisti». Luciana Berger, ebrea, ha detto di essere stata vittima di attacchi antisemiti da parte di sostenitori di Corbyn e di voler lasciare un partito ormai «disgustosamente e istituzionalmente razzista».
   Corbyn ha reagito con pacatezza, dichiarando di essere «deluso che questi deputati non se la sentano di continuare a lavorare insieme per le politiche laburiste che hanno ispirato milioni alle ultime elezioni aumentando i nostri voti». Il cancelliere-ombra John McDonnell è stato meno conciliatorio, dichiarando che i sette dovrebbero dare le dimissioni da deputati, dato che alle ultime elezioni grazie a Corbyn sono stati tutti rieletti con più voti.
   Diversi altri deputati laburisti potrebbero seguirne le orme, forse anche qualche Tory. Le profonde divisioni su Brexit nei due partiti principali hanno sgretolato le tradizionali lealtà di partito, rendendo più probabile la creazione di un nuovo movimento centrista moderato.
   Il People's Vote, a favore di un secondo referendum, è stato fondato da deputati di tutti i partiti. I sette deputati che hanno lasciato il Labour, sostenitori di un secondo referendum, non sono i soli a sentirsi frustrati per la posizione ambigua di Corbyn. Nonostante il voto dei delegati al Congresso del partito che un secondo voto deve essere una delle opzioni sul tavolo, il leader ha sempre evitato di sostenerlo perché teme la reazione negativa dei molti elettori laburisti che hanno votato a favore di Brexit, soprattutto nell'Inghilterra del Nord.

(Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2019)


L'aggressione antisemita al filosofo Finkierkraut

Sotto il gilet giallo c'è l'islam che odia gli ebrei

Individuato il manifestante che sabato aveva minacciato il filosofo francese: è un musulmano vicino agli ambienti estremisti. L'uomo con la barba, è lui a dirmi: «La Francia è nostra». Vuol dire: «Noi siamo la grande sostituzione e tu sarai il primo a pagare».

di Andrea Morigi

Alain Finkielkraut non ha dubbi nel ricostruire l'aggressione subìta da un manifestante con il gilet giallo, sabato nel quartiere parigino di Montparnasse: «L'uomo con la barba, il più vendicativo, chiaramente non un bianco, è lui a dirmi, a me che sono ebreo: "La Francia è nostra"».
  Ventiquattr'ore dopo l'episodio che lo ha visto circondato da un gruppo di persone ostili che lo hanno raggiunto da epiteti antisemiti, rielaborato lo choc e incassate le rituali attestazioni di solidarietà, il filosofo francese commenta l'accaduto durante un'intervista serale in diretta a BFM Tv, interpretando la frase che gli è stata rivolta come un annuncio implicito della prossima conquista islamica: «Sta dicendo: noi siamo la grande sostituzione e tu sarai il primo a pagare». Non lo attribuisce a tutto il gruppo, che semmai ripeteva gli slogan di una retorica dell'«antisionismo di base di una certa estrema sinistra», invitandolo ad andare «a casa», cioè a «tornare a Tel Aviv» perché «odiatore» destinato «a morire e ad andare all'inferno».

 L'inchiesta
  Che l'uomo in questione indossasse un gilet giallo, ormai, è quasi un elemento marginale. Quel che c'è sotto il giubbotto spiega ben di più. Le autorità francesi hanno individuato l'autore delle minacce, riprese in video diffusi online e divenute subito virali sui social network. Si tratterebbe, secondo il quotidiano Parisien, di un soggetto già conosciuto dai servizi di sicurezza d'Oltralpe per essere entrato nel 2014 nel movimento del radicalismo islamico, di obbedienza salafita. Ma non sarebbe mai stato oggetto di una segnalazione all'archivio per la prevenzione della radicalizzazione a carattere terrorista (FSPRT), la nota "fiche S" che indica i personaggi potenzialmente pericolosi per la sicurezza dello Stato. Tant'è che non risulta che né il manifestante né nessun altro componente del gruppo che si è scagliato contro Finkielkraut sia stato né fermato né interrogato.
  La procura di Parigi tuttavia ha aperto un'inchiesta sull'aggressione verbale per «ingiuria pubblica a motivo dell'origine, dell'etnia, della nazione, della razza o della religione attraverso parole, scritti, immagini o mezzi di comunicazione», anche se il 69enne accademico di Francia, vittima dell'aggressione, non ha per ora sporto denuncia. Ha annunciato di voler presentare un esposto alla magistratura, invece, la Lega internazionale contro il razzismo e l' antisemitismo (Licra), poiché «l'ingiuria pubblica a carattere antisemita o razzista è punita dalla legge del 29 luglio 1881», spiega l'avvocato David-Olivier Kaminski, presidente della Licra parigina.
  «L'antisemitismo si sta diffondendo come un veleno», aveva osservato appena una settimana fa il ministro dell'Interno, Christophe Castaner, promettendo che «il governo prenderà provvedimenti», in seguito a un aumento boom degli atti antisemiti, saliti nel 2018 del 74%, passando dai 311 dell'anno precedente a 541. Svastiche sono apparse su cassette delle poste decorate dall'artista Christian Guèmy col volto di Simone Veil, sopravvissuta all'olocausto e deceduta lo scorso anno. Graffiti antisemiti e la parola Juden («ebrei» in tedesco) sono stati apposti in più punti di Parigi, tra cui sulla vetrina di un panificio Bagelstein nel quartiere ebraico sull'isola Saint Louis. Tra gli atti vandalici che hanno suscitato più clamore, c'è lo sradicamento di un albero piantato del sobborgo di Sainte Geneviève du Bois, in memoria di Ilan Halimi, un giovane ebreo torturato a morte nel 2006. «Graffiti antisemiti fino ad avere la nausea. L'odio per gli ebrei corrisponde all'odio per la democrazia. Il linguaggio fascista si ritrova su tutti i muri. Mi sono rivolto al prefetto di polizia e al procuratore di Parigi» aveva scritto su Twitter Frèdèric Poitiers, rappresentante speciale del governo francese su razzismo, antisemitismo e discriminazione.

 Le cause nascoste
  Nessuno, tuttavia, sembrava finora avere il coraggio di indicare che il fenomeno è strettamente connesso all'odio antiebraico coltivato nelle comunità islamiche. Piuttosto, si tirano fuori da armadi polverosi gli scheletri dell'antico antigiudaismo cattolico e il negazionismo degli estremisti di destra, ma del Corano non se ne parla mai. Eppure, il testimone della teoria del complotto ordito dagli ebrei ai danni degli altri popoli è passato dal nazionalsocialismo alla Repubblica iraniana, alle tv satellitari che trasmettono dai Territori palestinesi nella Striscia di Gaza, ma il cui segnale giunge fino alle abitazioni degli immigrati arabofoni in Europa. I bambini delle banlieue di Parigi hanno accesso a cartoni animati dove si descrivono gli ebrei e i cristiani come scimmie e maiali, mentre s'incoraggiano i giovani spettatori a immolarsi come attentatori suicidi.
  C'è chi, come il portavoce del governo Benjamin Griveaux, aveva collegato l'aumento degli episodi al deteriorarsi del clima sociale, citando direttamente il movimento di protesta dei gilet gialli accompagnato da gravi violenze. Ma per il quotidiano Le Monde, se da una parte la crisi dei gilet gialli «ha incoraggiato alcuni comportamenti, con esponenti dell'estrema destra che cercano di approfittare di questa dinamica sociale per diffondere i suoi slogan», dall'altra «il risorgere di un antisemitismo che spesso non ha volto non può essere attribuito al movimento di protesta sociale». Hanno taciuto le cause, perciò non sono riusciti ad arginarne gli effetti.

(Libero, 19 febbraio 2019)


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"Chi attacca Finkielkraut vuole una Francia senza ebrei". Parla Robert Redeker

Antisemitismo, anticattolicesimo, autodistruzione dell'Occidente

di Giulio Meotti

ROMA - "Alain Finkielkraut è un pensatore essenziale e rappresenta il popolo della Francia molto più degli ubriachi che gli urlavano in faccia 'siamo il popolo'", ha detto ieri al Figaro Robert Redeker. "E' un momento di fusione tra il vecchio antisemitismo e il nuovo, sempre più forte, del tipo islamo-goscista, in cui l'antisionismo spesso nasconde l'antisemitismo". Sabato, durante una manifestazione dei gilet gialli a Parigi, contro Finkielkraut sono fioccati insulti del tipo "sporco sionista di merda", "Palestina", "ebreo di merda", "tornatene a Tel Aviv" e "Dio ti punirà" (uno degli aggressori identificati dalle forze dell'ordine gravitava nella galassia dell'islam radicale).
   "Era un miscuglio di giovani della periferia - ha detto poi Finkielkraut - dell'estrema sinistra e forse di soraliani", dal nome dell'agitatore di estrema destra che raduna sotto di sé anche la sinistra complottista. L'aggressione è avvenuta sullo sfondo di un boom di episodi antisemiti, che nel 2018 in Francia sono stati 541, il 74 per cento in più rispetto all'anno precedente. C'è chi ha minimizzato l'attacco all'accademico figlio di ebrei polacchi e che siede fra gli "immortali" dell'Académie française, la prestigiosa istituzione fondata dal cardinale Richelieu nel 1635. "Alain Finkielkraut ha diffuso l'odio in Francia, contro i giovani nei sobborghi, contro i musulmani, contro l'istruzione nazionale", ha twittato Thomas Guénolé, un politologo vicino alla sinistra di Jean-Luc Mélenchon. L'avvocato vicino all'ex presidente Hollande, Jean-Pierre Mignard, ha detto invece che "Finkielkraut è un apologeta del conflitto".
   "Al momento c'è un clima molto malsano in Francia", dice Robert Redeker al Foglio. Lui è il professore di Filosofia di Tolosa che, nel 2006 dopo la lectio di Papa Benedetto XVI a Ratisbona, venne condannato a morte e costretto a nascondersi in Francia da una fatwa islamista. Redeker, il cui libro "L'eclissi della morte" uscirà in Italia per la Queriniana alla fine di marzo, ci spiega che non è un caso che l'aggressione antisemita a Finkielkraut sia avvenuta negli stessi giorni del boom di attacchi alle chiese.
   "L'antisemitismo e l'anticattolicesimo sono virulenti. Ci sono stati diversi attacchi questa settimana alle chiese. E ci sono molti atti antisemiti. Credo che questi due tristi fenomeni siano collegati. L'antisionismo è la stessa cosa dell'antisemitismo. Questi insulti vogliono dissociare gli ebrei e la Francia. Vogliono far credere che gli ebrei siano un corpo straniero in Francia. Ma mentre è un argomento tradizionale per l'estrema destra, ora si trova sulla bocca dell'estrema sinistra, come in questa aggressione contro il mio amico Finkielkraut. L'antisionismo ricicla l'accusa degli anni Trenta in cui si respingevano gli ebrei come coloro che non hanno posto in Francia. Questo è il nuovo antisemitismo islamo-goscista. Non si nasconde più. E' una fusione di tre elementi: l'antisemitismo tradizionale di estrema destra, l'anticapitalismo di estrema sinistra (il famoso 'socialismo degli imbecilli') e l'islamismo".
   Cosa sta succedendo nella patria dei Lumi? "La Francia è afflitta da un accumulo di odii. Non dobbiamo dimenticare l'odio di sé dimostrato da un virulento anticattolicesimo, molto presente nella casta dei media, nell'educazione, e che, ovviamente, non infastidisce gli islamisti. Questo violento anticattolicesimo, che non confondo con la laicità, indebolisce enormemente la salute del nostro paese. L'antisemitismo e l'anticattolicesimo in occidente sono una guerra contro le Scritture (i Vangeli, l'Antico testamento), quindi credo anche alla letteratura e alla cultura in generale. Un attacco alla cultura del libro. Questo fenomeno è ovviamente un'autodistruzione dell'occidente. L'antisemitismo è il segno di una civiltà che non ha più fiducia in sé stessa. Gli ebrei sono al centro dell'identità francese. L'antisemitismo è quindi un attacco alla Francia. Il nuovo antisemitismo islamico di sinistra è l'arma di questo suicidio dell'occidente".
In una intervista al Point, il sociologo Danny Trom, autore di un libro appena uscito sulla fine dell'ebraismo europeo, ha detto che "il processo di emigrazione farà il suo corso, completando la partenza degli ebrei dell'Europa che iniziò alla fine del XIX secolo e culminato nell'Olocausto". Conclude Robert Redeker al Foglio: "La Francia senza gli ebrei è qualcosa di impensabile. Sarebbe la sua morte".

(Il Foglio, 19 febbraio 2019)


Come si evolve lo spazio strategico iraniano in Iraq

Le forze iraniane, sciite libanesi, le forze speciali iraniane e quelle di Bashar el Assad stanno allontanandosi dal confine con Israele per raggrupparsi nel Nord e nell'Est della Siria, fino ai confini con l'Iraq. Il premier israeliano Netanyahu, nei suoi prossimi incontri con Putin a Mosca, il 21 febbraio, discuterà di queste tematiche.

di Giancarlo Elia Valori

Attualmente, è proprio l'abbandono, da parte delle 2000 truppe Usa, delle loro attuali postazioni siriane e giordane, operazione che prosegue con notevole rapidità, ciò che sta creando uno spazio strategico notevole per l'Iran. Il presidente Trump, peraltro, afferma di voler far rimanere una quota imprecisata di soldati statunitensi in Iraq, proprio per controllare le evoluzioni iraniane verso il confine siriano con l'Iraq. È quindi del tutto probabile che, in un non lontano futuro, le tensioni, già molto evidenti, tra Hezb'ollah e Israele sul confine Bekaa-Golan potrebbero esplodere e, in questo caso, lo scontro non potrebbe non riguardare anche le forze iraniane, poi quelle di Bashar el Assad e, perfino, altri gruppi sunniti e libanesi che stazionano in quell'area.
  L'obiettivo primario del "partito di Dio" sciita libanese e anche dello stesso Assad, che non può più dire di no a Teheran, è quello di fornire, in questa fase, missili efficaci alle forze libanesi e iraniano-siriane per colpire le postazioni nel nord di Israele. E poi, magari, passare dalla tenuta dell'asse Bekaa-Golan direttamente verso l'interno dello stato ebraico. L'Iran, però, tutto vuole, in questa fase, piuttosto che un confronto, di tipo convenzionale, con Gerusalemme e gli alleati Usa di Israele. Teheran, anche nelle aree che attualmente detiene in Siria, è interessata, oggi, solo alla sua tradizionale guerra asimmetrica, quella che permette all'Iran uno scontro a basso costo e con il minimo impegno delle sue forze. Questo, però, non ci permette di poter pensare ad una guerra iraniana contro Israele che sia unicamente a bassa intensità: ricordiamo, infatti, le operazioni degli UAV di Teheran nello spazio aereo israeliano dello scorso febbraio 2018, o i molti lanci missilistici di prova del giugno di quell'anno. Ma anche lo stato ebraico non vuole affatto passare ad uno scontro aperto: infatti, dal 2013 ad oggi Gerusalemme ha compiuto oltre 230 operazioni in Siria, soprattutto contro i passaggi di armi destinate a Hezb'ollah, oltre a compiere numerose operazioni, nella "guerra tra le guerre", contro le basi iraniane in Siria, e ciò almeno dal 2017.
  Hezb'ollah, peraltro, nelle dichiarazioni di questo febbraio 2019 di Hassan Nasrallah afferma che, se ci sarà uno scontro tra il "partito di Dio" sciita e Israele, esso non sarà necessariamente limitato al sistema siriano-libanese o libanese-israeliano, ma coinvolgerà immediatamente tutte le forze "volontarie" del mondo arabo. Tutte le organizzazioni che fanno, a vario titolo, parte del sistema iraniano tra Libano e area sunnita a sud di Israele, saranno certamente organizzate dalle "Guardie della Rivoluzione" di Teheran per operare, in modo integrato, contro lo stato ebraico. La linea del "corridoio" tra l'Iraq, l'Iran, la Siria e il Libano, obiettivo di Teheran nella guerra siriana, è l'asse su cui si svolgeranno tutte le future operazioni contro lo stato ebraico, ed è un fronte ampio e difficilissimo da tenere per entrambe le parti, Israele e Iran. Quindi, gli scenari futuri potrebbero essere, in linea di massima, questi: a) una guerra convenzionale in Libano del Nord, con la partecipazione di Hezb'ollah, degli iraniani, della rete di Hamas già presente sul Litani, di alcuni gruppi siriani. Oppure, b) uno scontro sulla linea del confine Bekaa-Golan che muove inizialmente sul territorio siriano, lasciando il Libano meridionale libero per un eventuale attacco secondario a Israele, in una fase successiva delle operazioni. I partecipanti a questa guerra contro Gerusalemme sarebbero, evidentemente, le forze di Bashar el Assad, i Pasdaran iraniani, Hezb'ollah, i gruppi sciiti sul confine siriano, poi Hamas, senza dimenticare il Jihad islamico sunnita del sud e, con ogni probabilità, anche i gruppi filosiriani presenti sulle linee di confine della Autorità Nazionale Palestinese con lo stato ebraico. Infine, potrebbe esserci c) una "doppia guerra", in Libano e in Siria contemporaneamente, con sostegno ulteriore e successivo di attacchi di Hamas e Jihad Islamico a Israele, da Sud. Non bisogna dimenticare nemmeno che la guerriglia Houthy, in Yemen, è già capace di bloccare gli interessi marittimi israeliani nello stretto di Bab-el-Mandeb e in tutto il Mar Rosso; senza pensare poi anche agli attacchi, sempre possibili, delle postazioni missilistiche iraniane in Iraq verso lo stato ebraico, con un probabile portato di ulteriori attacchi sul rimanente personale Usa tra Siria, Iraq e Giordania.
  Ma possiamo, in questo caso, dire solo due cose: che la guerra futura di Israele in Libano sarebbe certamente meno limitata delle operazioni già poste in atto dal 1978 al 1982 fino al 2000 (la stabilizzazione di Hezb'ollah) e delle azioni del 2006. E possiamo aggiungere che le forze iraniane, sunnite, siriane passeranno, oggi, il più rapidamente possibile da un attacco contro le infrastrutture critiche israeliane ad una vera e propria occupazione controforze del terreno. Ma i centri di gravità di Hezb'ollah e degli iraniani, oltre che delle forze sunnite in Libano, saranno rapidamente identificabili da Israele, in un prossimo attacco? Non è invece sempre più probabile, in futuro, una zona vasta di azione, dal Nord, che implicherà fin dall'inizio le postazioni Hezb'ollah, siriane, iraniane su tutto il confine siriano con Israele? E, poi, cosa farà la Federazione Russa? Vorrà essere egemone in tutto il Medio Oriente e, quindi, avrà un qualche accordo con Israele, oppure sceglierà la vecchia postura strategica di fare da difensore del mondo arabo contro lo stato ebraico? E dove andrebbe, Mosca, con una prospettiva geopolitica così vecchia e debole? Comunque vada, sarà proprio la Federazione Russa la chiave di volta di ogni tipo di operazione tra Israele, il Libano e l'asse sirio-iraniano.
  Le possibilità, per Mosca, sono quindi solo due: o si mette da parte, nel prossimo conflitto sirio-libanese-israeliano, e quindi rischia di perdere tutto il suo potere anche in Siria; oppure sceglie di prendere parte agli scontri, magari indirettamente, per favorire gli uni o gli altri, ma solo al momento opportuno. Nulla però farà mai la Russia, in futuro, per riaccendere le micce siriane. Ogni operazione bellica, in tutto il quadrante siriano, rischia in primo luogo di compromettere i nuovi asset strategici di Mosca. Gli americani comunque potrebbero, in tempi stretti, sostenere le difese missilistiche di Gerusalemme, poi Mosca sostenere solo per onore di firma iraniani e siriani, bloccando loro l'uso delle armi evolute russe sul territorio di Assad, poi ancora gli Usa potrebbero sostenere Israele ma, anche, uno sforzo diplomatico internazionale che trasformerebbe lo scontro in una guerra breve e convenzionale, senza l'"accesso agli estremi" da parte di Israele, nello stile consueto in auge del 1973. Israele, a questo punto potrebbe scegliere di depotenziare sistematicamente le forze nemiche, oppure di separare gli avversari tra di loro, secondo la tecnica degli Orazi e Curiazi o "dell'amico lontano" oppure ancora, come ha già dimostrato di poter fare, di poter destabilizzare la Siria e, magari, anche l'Iraq ai confini di Baghdad con il regime di Bashar el Assad. Quanto, in questa scelta operativa e strategica, Gerusalemme possa ancora fidarsi di Washington è largamente aleatorio, quando non improbabile. Se sarà possibile, Israele potrà organizzare in futuro solo una pace fredda con Mosca, aumentando però la possibilità di pressione, anche militare, sulla Federazione Russa. Prima regola, come sempre, per lo stato ebraico, sarà quella di evitare il frazionamento delle sue forze e, quindi, sarà sempre primaria la necessità di individuare subito il centro di gravità del nemico, anche se complesso e frutto di alleanze tra diversi fini strategici.
  Cosa può fare, quindi, il solo Hezb'ollah, in questa fase? Il "partito di Dio" potrebbe evitare di portare lo scontro con Gerusalemme nel Libano meridionale, per evitare di trasformare i suoi asset primari in obiettivi, relativamente facili, per Israele. Un movimento come il "partito di Dio" sciita, ma senza retroterra libanese o area di copertura tra il Litani e Beirut è sconfitto in partenza. E quanto parteciperebbero alle operazioni contro Israele i siriani? Probabilmente, tanto quanto da poter decidere gli effetti politici della guerra ai loro confini con il Libano, ma mai così tanto da consumare le forze in vista di una destabilizzazione sul Golan. E come e quanto gli iraniani armerebbero, poi, gli Houthy per bloccare i rifornimenti di Israele nel Mar Rosso? E se l'obiettivo primario degli Houthy, per l'Iran, fosse proprio quello di tenere l'Arabia Saudita lontana dalla nuova guerra in Libano? E se, poi, a Teheran convenisse utilizzarli ancora per la sola pressione sull'Arabia Saudita, soprattutto in attesa di una rivolta sciita dal Bahrein, per poi arrivare nelle province del Regno a maggioranza shi'a Baharna, il Qetif e la Al Ahsa, con la potente e occulta comunità duodecimana dei Nakhawila, da sempre abitanti a Medina? Non si può fare tutto contemporaneamente. Oppure, iraniani e Hezb'ollah potrebbero optare, ai confini di Israele, per una "guerra lunga" a bassa-media intensità. Ma Hezb'ollah, per quello che si può oggi osservare, non ha ancora le idee chiare. È sempre di più il figlio, questo movimento sciita, delle innumerevoli tensioni che operano dentro il complesso e ormai frazionato regime iraniano. Il "partito di Dio" della Shi'a libanese possiede comunque, secondo le fonti più attente, almeno 110.000 missili e razzi sul confine verso Israele. L'Iran, tra il confine del Litani e l'asse Bekaa-Golan, ne ha almeno 3800. Ma comunque l'80% di questi vettori di Teheran non può ancora raggiungere, oggi, con sicurezza operativa il territorio israeliano.
  La Siria, salvo quello che hanno lasciato, con mille occhi, i russi, ha ancora pochi vettori propri, e tutti controllati direttamente dal centro per le Forze Aerospaziali di Mosca. Ovvio che l'unico potenziale spendibile, per Hezb'ollah, sia oggi il suo sistema missilistico e militare nel Libano meridionale. Che ha occhi anche iraniani e, per quel che ci risulta, una catena a doppio comando per i missili più rilevanti. I tempi sono stretti, quindi, per una "guerra tra le guerre" contro Israele degli sciiti libanesi, iraniani e siriani. Ma, se il centro di gravità del "partito di Dio" è così evidente e piccolo e solo libanese, Israele potrà sempre attaccare in massa e in brevissimo tempo, bloccando la risposta di Hezb'ollah e minacciando implicitamente gli eventuali alleati della Shi'a libanese. Quindi il problema, per il "partito di Dio", è anche quello di essere pronti a una guerra efficace contro Israele, ma senza mai mettere in campo il territorio libanese, che potrebbe diventare un necessario safe haven dopo le prime salve di Gerusalemme. Quindi, una concreta possibilità è quella che Hezb'ollah, Iran e una quota di siriani si creino i loro gruppi di guerriglia su tutta la linea del "corridoio" Bekaa-Golan e Iraq-Libano, per distribuire lo sforzo contro Gerusalemme e evitare l'immediata eliminazione del loro centro di gravità da parte di Israele. In Siria ci sono, attualmente, circa 20.000 foreign fighters sciiti, anche se l'Iran ha sempre dichiarato di averne chiamati e addestrati almeno 180.000. Mobilitazione, quindi, inevitabilmente lenta, facile obiettivo di interdizione da parte delle forze aeree israeliane. La quantità dei soli vettori di Hezb'ollah è però sufficiente per saturare le difese israeliane. Ma la qualità della salva e la sua precisione, malgrado i recenti sostegni di Teheran, lascia ancora a desiderare. Ancora, l'unica possibilità per l'Iran e il Libano sciita contro Israele è oggi quella di lanciare un attacco limitato, per poi utilizzare la diplomazia e le reti internazionali degli affari e delle influenze per contenere la forza della risposta di Gerusalemme. E, quindi, una buona possibilità per lo stato ebraico è quella di sfruttare, o sostenere, la tendenza di Teheran a innescare un conflitto non-convenzionale, ma con la evidente possibilità che il conflitto siriano o libanese si espanda direttamente, fin dall'inizio, anche sul territorio iraniano.
  Quindi, potremmo pensare ad uno sforzo ulteriore di Israele per, parafrasando Lord Ismay per la Nato, "tenere gli americani dentro", ma perfino anche i "russi dentro", ma ancora allontanare Hezb'ollah dalla linea del confine del Litani e dell'asse Bekaa-Golan, ben oltre gli 80 chilometri già richiesti da Israele. Se la Russia rimane, come è ormai certo, in Siria, allora Mosca non avrà alcun interesse ad una guerra lunga in Siria o in Libano. E, quindi, potrebbe separare lentamente le sue forze da quelle sciite e siriane, oppure interdire alcune aree alla guerriglia sciita che l'Iran ha già chiamato in Siria. Ma, in ogni caso, i Servizi militari di Gerusalemme hanno già segnalato la presenza delle forze iraniane dal confine con Israele verso il nord e l'est della Siria, con una forte pressione militare siriano-libanese e iraniana che avverrà, quasi certamente, intorno alle prossime elezioni politiche israeliane del 9 aprile. Subito dopo, Gerusalemme dovrà valutare la proposta di Donald J. Trump per una pace definitiva tra Israele e il mondo palestinese. Una pace che, quindi, cambierà tutta la formula strategica del grande Medio Oriente. Quindi, non è difficile prevedere che la Striscia di Gaza diverrà un'area di guerra conclamata. Messa in atto dai palestinesi e dei loro sostenitori iraniani. Già in questi giorni si sono verificati incidenti di rilievo al confine tra la Striscia e Israele; quindi la tensione elettorale a Gerusalemme non potrà non essere un ulteriore innesco di fortissime e future azioni politico-militari a Nord e a Sud.
  Al confine nord, tra Bekaa e Golan, vi saranno ulteriori tensioni, che vedranno azioni su territorio israeliano da parte delle organizzazioni della guerriglia sciita. Sia Hezb'ollah che le Brigate Al Qods dei "Guardiani della Rivoluzione" di Teheran sceglieranno il momento giusto per colpire con i loro missili lo stato ebraico, ovviamente olo quando vi sarà il massimo della tensione verso la Striscia di Gaza. O, anche, ma non è una alternativa, sulle linee di confine tra Autorità Nazionale Palestinese e Israele. Nulla vieta poi che le organizzazioni sciite possano usare come scudi le postazioni russe che, naturalmente, non parteciperanno mai alle operazioni dei loro alleati sirio-iraniani o libanesi contro Gerusalemme. Le organizzazioni jihadiste palestinesi opereranno, sempre durante il periodo elettorale israeliano, soprattutto tra la Giudea e la Samaria; e magari saranno perfino appoggiate dalla Federazione Russa, che gioca ancora la carta dell'unità palestinese sia in concorrenza con Teheran, sia per organizzare un appoggio a Mosca da parte del mondo sunnita. Ma niente vieta di pensare che Mosca abbia anche un qualche "campione" politico all'interno dell'agone elettorale israeliano. Non a caso, la prima Conferenza per l'Unità Palestinese ha avuto inizio il 13 febbraio, a Varsavia, con ben 60 paesi invitati e la proposta iniziale di mediazione da parte degli Usa. Ma si è, proprio in questi giorni, dall'11 al 13 febbraio, organizzata una nuova Conferenza, a Mosca, unicamente inter-palestinese, con la partecipazione di Hamas e delle altre sigle del jihad sunnita. Cosa vuole Mosca, da queste operazioni? Intanto, i russi vogliono evitare che vi sia una nuova egemonia iraniana in quest'area che, da sempre, la Russia coltiva. E per scopi evidenti, che sono cambiati di poco dalla fine della guerra fredda.
  Poi, la Federazione Russa vuole prendersi il sostegno geopolitico di quest'area palestinese unificata, per diventare il vero broker di una nuova pace mediorientale, mettendo così fuori dalla porta sia gli Usa che i ben più sciocchi "mediatori" della ignara e ormai comica Unione Europea. La scommessa della Federazione Russa è quindi, come si direbbe in matematica, un minimax: raggiungere l'obiettivo primario, ovvero l'egemonia russa su tutto il Medio Oriente, con il minimo sforzo, ovvero la trattativa sistematica con tutti gli attori. Mosca chiederà, molto probabilmente, allo stato ebraico di diminuire la pressione militare a Est e a Sud, ma solo per sostituirla con una propria e futura "forza di dissuasione" ai bordi dei vari confini. Utilizzando tutti gli alleati della Russia, naturalmente. Il premier israeliano Netanyahu, nei suoi prossimi incontri con Putin a Mosca, il 21 febbraio prossimo venturo, discuterà di queste tematiche. Ma Siria e Iran non saranno certamente i soli argomenti della discussione bilaterale con Putin. Quindi, lo ripetiamo, le forze iraniane, sciite libanesi, i proxies della guerriglia sciita che Teheran ha chiamato in Siria, le forze speciali iraniane e quelle di Bashar el Assad stanno allontanandosi dal confine con Israele per raggrupparsi nel Nord e nell'Est della Siria, fino ai confini con l'Iraq. La notizia non è affatto buona, per i decisori di Gerusalemme. L'Iran, con i suoi gruppi "rivoluzionari" chiamati dall'Afghanistan, dall'Iraq e perfino dal Pakistan, ma anche gli Hezb'ollah e i corpi speciali dei Pasdaran si allontanano oggi e rapidamente dal Golan e, quindi, di conseguenza, diventano inattaccabili da parte delle forze israeliane.
  È ovvio che ciò accada in funzione dell'abbandono delle postazioni da parte delle forze Usa, abbandono che l'Iran vuole capitalizzare rapidamente e in pieno, togliendo forze dalla Siria e, quindi, raggiungendo una piena profondità strategica in Iraq, un Paese dal quale i missili iraniani possono comunque raggiungere il territorio israeliano. Quindi, il programma di Teheran è quello di lasciare al confine, siriano-israeliano le varie milizie, i suoi proxies sciiti e una quota di Hezb'ollah, come se fossero vari cuscinetti; per poi coprirsi stabilmente dagli attacchi di Gerusalemme e rendere, comunque, difficile il controllo militare del Nord di Israele da parte delle sue stesse FF.AA. Che non potrebbero controllare le operazioni remote, se non quando è troppo tardi. Quindi, Israele è oggi obiettivo primario di missili che sono in possesso del Jihad palestinese, a sud e a est, delle forze iraniane e sciite in Iraq, di Hezb'ollah a nord e, ancora, di Hamas nella Striscia di Gaza. Per non parlare poi delle reti iraqene dell'Iran e di parte dei suoi proxies sciiti. Sarà una guerra su più fronti e con centri di gravità diversi da quelli consueti.

(formiche, 19 febbraio 2019)


Israele - 22 febbraio, lancio della navicella sulla Luna

'Bereshit' condurrà rilevazioni sui campi magnetici

Una navicella spaziale israeliana alta un metro e mezzo e larga due sarà lanciata il 22 febbraio da Cape Canaveral (Usa), e secondo i progetti dovrebbe atterrare l'11 aprile sulla Luna dopo aver compiuto un tragitto complessivo di 6.5 milioni di chilometri. Una volta raggiunta la collocazione definitiva la navicella 'Bereshit' (Genesi, in ebraico) condurrà rilevazioni sui campi magnetici lunari. Durante il volo e dopo l'atterraggio, e' stato precisato oggi in una conferenza stampa a Tel Aviv, i contatti con la navicella saranno mantenuti da un centro di comunicazioni allestito a Yehud, presso Tel Aviv.
I momenti critici della missione saranno il passaggio dall' orbita terrestre a quella lunare e l'atterraggio sulla Luna, mai compiuto finora da una navicella di dimensioni talmente ridotte.
Il progetto 'Bereshit' (frutto della partnership fra la associazione privata SpaceIl e l'Industria aerea israeliana Iai) e' nato su iniziativa privata nel 2015 ed e' stato finanziato da uomini d'affari.

(ANSAmed, 19 febbraio 2019)


Stretta di Israele ai fondi dell'Anp, ira palestinese

Giro di vite di Israele sui fondi destinati dall'Autorità nazionale palestinese ai detenuti nelle carceri israeliane e alle loro famiglie. Una mossa - calcolata in 138 milioni di dollari, pari a 123 milioni di euro - che ha suscitato l'ira della dirigenza palestinese. "Un atto di pirateria inaccettabile di soldi palestinesi", l'ha attaccata il portavoce di Abu Mazen Nabil Abu Rudeina prefigurando "gravi conseguenze". "Una dichiarazione di guerra contro il nostro popolo" l'ha definita senza mezzi termini il premier Rami Hamdallah e che rischia di avere profonde ripercussioni anche sulla cooperazione di sicurezza tra israeliani e palestinesi. Dando applicazione ad una legge già votata dalla Knesset, il governo, su proposta del premier Benyamin Netanyahu, ha deciso oggi di mettere in pratica il provvedimento fino ad ora rimandato per vari motivi. E così dalle tasse raccolte per l'Anp, Israele ha congelato i 138 milioni dollari che in base al budget statale la stessa Autorità palestinese destina ai detenuti nelle carceri israeliane che hanno compiuto atti di terrorismo e alle loro famiglie.
   "Ufficiali della sicurezza - ha spiegato un comunicato del governo - hanno presentato dati secondo cui nel 2018 l'Anp ha trasferito la somma indicata ai terroristi detenuti in Israele, alle loro famiglie e anche a quelli che sono stati rilasciati. Per questo è stato deciso di congelare lo stesso ammontare di fondi dalle tasse raccolte per conto dell'Anp". "Il premier e ministro della difesa - ha aggiunto il governo - ha dato mandato alle forze di sicurezza di effettuare controlli su ulteriori pagamenti dell'Anp legati al terrorismo, inclusi quelli ai terroristi e loro famiglie. La somma congelata sarà aggiornata in base alle informazioni ricevute".
   Finora la legge non era stata applicata per vari motivi: tra questi la contrarietà degli stessi apparati di sicurezza israeliani a giudizio dei quali un ulteriore taglio al budget dell'Anp avrebbe danneggiato la cooperazione in materia di sicurezza con i palestinesi e anche destabilizzato la Cisgiordania, già colpita dal tagli dei fondi Usa. Anche il governo sino a questo momento aveva soprasseduto nell'applicazione della legge, sebbene fosse stata intensa la pressione pubblica a favore del congelamento dei finanziamenti, visti da parte israeliana come un incentivo ai responsabili degli attacchi terroristici. Infine il recente brutale omicidio della ragazza israeliana da parte di un palestinese di Hebron - secondo i media - ha spinto il Gabinetto e lo stesso Netanyahu a dare il via all'applicazione della legge. "Non accetteremo - ha sostenuto Rudeina - alcun danno al sostentamento dei nostri eroi prigionieri e delle famiglie di martiri e feriti. La decisione arbitraria di Israele è un colpo unilaterale agli accordi firmati, incluso l'Accordo di Parigi".

(L'Opinione, 18 febbraio 2019)


Lo show di Zarif alla conferenza di Monaco: "Israele vuole la guerra, fate affari con noi"

Il ministro cli Teheran invita l'Ue a violare le sanzioni Usa. Gantz replica: gli ayatollah esportano il terrorismo.

di Alberto Simoni

 
L'Iran, convitato di pietra dei primi due giorni della Conferenza sulla sicurezza di Monaco si materializza nella sala nobile del Bayerischer Hof poco prima dell'aperitivo. La Repubblica islamica nel consesso bavarese ha il volto di Javad Zarif, ministro degli Esteri. Al terzo giorno e dopo aver incassato i paragoni fra Iran e nazisti fatti dinanzi a una platea basita dal vice presidente Usa Milze Pence, Zarif può replicare.
Gli ha aperto la strada Mohammed Al Thani, ministro degli Esteri del Qatar, che descrive una regione a forte rischio escalation e dove le guerre per procura rischiano di travolgere la già precaria stabilità.
   Ma Zarif alla parola escalation preferisce il termine guerra. Dice che gli israeliani la stanno cercando con le loro azioni e che gli europei non stanno facendo abbastanza per impedirlo. «Se chiudete gli occhi dinanzi alle violazioni internazionali, il rischio che scoppi un conflitto è altissimo».
   Chi credeva che l'inviato di Teheran sarebbe arrivato a Monaco a ringraziare per il sostegno europeo dinanzi al pressing americano anti-Iran, è rimasto di sasso. Agli europei Zarif dice che non «basta fare dichiarazioni a favore dell'accordo sul nucleare, ora è tempo di pagare il prezzo e di fare business con Teheran». Inglesi, francesi e tedeschi hanno creato un meccanismo finanziario denominato in euro (Instex) per evitare le sanzioni Usa.
   Ma non genererà, dicono alcuni diplomatici, un gran giro di affari: resterà ridotto ad aiuti umanitari e medicinali, poco per evitare la rabbia degli iraniani che potrebbero - minaccia Zarif - chiedere a Rohani di ritirarsi dall'accordo sul nucleare del 2015.
   Gli americani - accusa poi il ministro - sono «ossessionati in modo patologico» dall'Iran e «le accuse di antisemitismo sono ridicole». Il vero problema è che - aggiunge - Washington accusa l'Iran di interferire negli equilibri regionali ma «manda uomini da 10 mila chilometri di distanza nelle basi militari che circondano il nostro territorio».
   Mentre Zarif parla, due rampe di scale più su sbuca Benjamin Gantz, l'ex generale che vuole soffiare con il suo Partito della Resilienza, il posto al premier Netanyahu nelle elezioni del 9 aprile. Giunge a sorpresa e quello che va in scena a Monaco è un duello ravvicinato fra due mondi, quello della Repubblica islamica e dello Stato ebraico, inconciliabili. Gantz butta subito sul tavolo le sue credenziali: «Parlo da ex generale, certe cose le ho viste, l'Iran è il male, perseguita i gay, le minoranze religiose, esporta il terrorismo». Con me al potere, spiega, Teheran non avrà mai il nucleare. Il luogo in cui si trova gli evoca la storia: «Con Rohani non faremo mai un accordo come a Monaco nel 1938». Niente appeasement. L'ex generale ricorda le interferenze iraniane in Siria e le milizie sciite in Libano, «che hanno un arsenale così potente da far impallidire alcuni membri della Nato». «Hezbollah - dice - dovrebbe essere messa al bando e considerata un'organizzazione terroristica dall'Unione europea». Poi ribadisce che i rapporti fra «Israele e arabi pragmatici non sono mai stati così buoni».
   Il braccio di ferro con l'Iran e i suoi tentacoli assume quasi i contorni di una sfida generazionale a cui tutti gli israeliani sono chiamati, «di destra e di sinistra, laici e ortodossi». Insomma non è Netanyahu contro Gantz se si parla di fronteggiare chi «vuole la distruzione del nostro Stato». Il nemico è chiaro. Sta al piano di sotto.

(La Stampa, 18 febbraio 2019)


Benny occhi d'acciaio. Il generale tutto d'un pezzo che ora insidia Netanyahu

A meno di due mesi dalle elezioni, l'ex capo di Stato maggiore Gantz è l'unico che può minare la riconferma di un premier sotto inchiesta

di Bernardo Volli

GERUSALEMME - E' alto, la schiena dritta, un sorriso appena disegnato sul volto scavato dal sole, occhi blu acciaio, poco loquace. Quella di Benny Gantz è la figura ideale del comandante con i nervi saldi che infonde fiducia. Un generale autentico di cinquantanove anni, adesso a riposo, ma già lanciato in una nuova carriera, quella di candidato a primo ministro. In Israele non è una novità che un ex capo di Stato maggiore di Tsahal, le forze armate, quale è stato Gantz, si proponga come capo del governo. Ci sono i precedenti di Yitzhak Rabin, assassinato nel '95 a Tel Aviv per avere tentato la pace con i palestinesi, e di Ehud Barak, un tempo pure lui, come Rabin, laburista. Barak fu sconfitto alle elezioni da Ariel Sharon, un altro generale, molto popolare che diventò primo ministro, ma senza avere mai ricoperto la carica di capo di Tsahal. Non si contano i generali che andati in pensione hanno intrapreso la vita politica, come ministri o responsabili a vari livelli in partiti di governo o d'opposizione. In un Paese in cui il servizio militare impegna uomini e donne, puntualmente, in più periodi della vita, le forze armate hanno stretti rapporti con la società. Capita a Benny Gantz di ricordare la madre, Malka, di origine ungherese (il padre era rumeno), scampata al campo di sterminio di Bergen-Belsen, Quando lui era impegnato in un'operazione militare a Gaza lei lo invitava a non colpire i rifugi dei civili e a non interrompere l'invio dei viveri necessari alla popolazione, al tempo stesso lo esortava a combattere. Questa ed altre citazioni tracciano l'autoritratto di un soldato che si presenta duro ma giusto. Ed anche integro rispetto al suo concorrente, Benjamin Netanyahu, del quale riconosce il patriottismo, non dimenticando di sottolineare che rischia l'incriminazione per vari casi di corruzione prima ancora dell'elezione del 9 aprile. È impensabile, ridicolo, aggiunge, che uno inseguito dalla giustizia ricopra la carica di primo ministro. Lui, Benny Gantz, ha le mani pulite. Senza nominarlo accusa Netanyahu di fomentare la discordia tra le comunità, di attizzare l'odio nel Paese per perpetuare il suo potere e di subordinare il problema della sicurezza ai propri interessi. Questa severità nei confronti del concorrente non esclude del tutto che dopo il voto, secondo i risultati, Gantz venga a patti con Netanyahu per formare insieme un governo. Il pragmatismo è una virtù della democrazia israeliana.

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A questo stadio della campagna elettorale, con il partito appena creato, Hosen L'Yisrael ("Vigore di Israele"), Gantz è comunque il primo a sfidare, con qualche probabilità di successo, il capo del governo in carica da dieci anni filati ( più i tre dal '96 al '99), vale a dire tanto a lungo da poter rivaleggiare con Ben Gurion, il fondatore dello Stato d'Israele. La sicurezza è il tema principale. Chi non dimostra di poterla assicurare ha scarse probabilità di scalzare dal potere Netanyahu. Al quale vengono rimproverati tanti difetti, umani e politici, ma la maggioranza degli israeliani si è finora affidata a lui, perché («nonostante tutto») ha dato l'impressione di saper difendere il Paese dalle minacce interne ed esterne. Anche se gli capita di accentuare i pericoli. La tragica memoria della popolazione di Israele e l'agitata, incerta situazione mediorientale, all'origine dell'ansia per la sicurezza, hanno dato a lungo legittimità al suo stile di governo. Un tempo isolato, oggi Israele è schierato con il fronte arabo sunnita irriducibile avversario dell'Iran sciita: tra i suoi alleati di fatto ci sono l'Arabia Saudita, i Paesi del Golfo, oltre all'Egitto e alla Giordania, con i quali esistono da tempo regolari rapporti diplomatici. Netanyahu era presente alla riunione sul Medio Oriente avvenuta di recente a Varsavia. Il tema era l' Iran e il primo ministro israeliano ha espresso insieme ai ministri dei Paesi arabi sunniti presenti la necessità di arginare il regime degli ayatollah e di impedire che costruisca armi nucleari. In quella conferenza nella capitale polacca Israele era ufficialmente integrato al fronte anti-iraniano.

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A questa "integrazione" ha contribuito una politica che ha allentato il legame con alcune comunità ebraiche, in particolare quelle americane, in disaccordo con la forte impronta di destra del governo di Gerusalemme. Un palestinese cittadino di Israele, laureato in scienze politiche, mi fa notare che quella che io definisco «integrazione» di Israele nel mondo arabo ha condotto all' evidente disinteresse di molti governi arabi per la sorte dei palestinesi. Disinteresse anche per i continui insediamenti israeliani in Cisgiordania e nella Gerusalemme orientale, dove vivono ormai, nell'insieme, più di mezzo milione di coloni.

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Presentandosi come un'alternativa a Benjamin Netanyahu, Benny Gantz si dichiara «né di destra né di sinistra, anzitutto di Israele». Nei video che hanno preceduto il primo discorso elettorale si è attribuito l'eliminazione nel 2012 di Ahmed Jabari, un capo militare di Hamas; la distruzione di 6.23l obiettivi nemici, sempre di Hamas; la morte di 1.364 terroristi palestinesi durante l'operazione militare del 2014 ("bordo protettore") nella striscia di Gaza; e si è dichiarato soddisfatto di avere «riportato all'età della pietra» dei sobborghi di quella città. Non ha però dimenticato di evocare i leader israeliani che hanno esplorato la via della pace con gli arabi. Con questa presentazione Gantz ha voluto disinnescare le accuse della destra che lo definiscono un esemplare della «sinistra molle», vale a dire rinunciataria, e al tempo stesso ha cercato di non compromettere i voti di centrosinistra o di sinistra. Gantz, appoggiato da un altro ex capo di stato maggiore, il generale Moshe Yaalon, e col tempo da altri generali, non ha parlato di uno Stato palestinese. Se ne è ben guardato. Né di una possibile confederazione. Al contrario ha assicurato che non abbandonerà mai il Golan, al confine con la Siria, conquistato nel 1967, né la valle del Giordano nella Cisgiordania occupata e che non rinuncerà mai alla Gerusalemme unificata. L' Iran, per lui, resta il principale avversario di Israele.

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Nella forma Benny Gantz è l'anti-Netanyahu, nella sostanza lo è molto meno. Il fatto di essere l' antagonista di un primo ministro che pur restando popolare è logorato dal lungo potere e dalle accuse di corruzione, ne fa un concorrente con più probabilità di successo dei precedenti sfidanti. Non sono tuttavia in molti a credere in una sua vittoria, ma se questa vittoria si avverasse per Israele sarebbe una svolta storica. Netanyahu incarna il revisionismo, ossia la destra sionista creata da Vladimir Jabotinski (1880-1940), del quale il padre di Netanyahu fu il segretario. Ormai da decenni i seguaci del revisionismo hanno preso il sopravvento in Israele, con qualche parentesi, sul sionismo di sinistra di David Ben Gurion (1886-1973), fondatore dello Stato di Israele. L'avvento del generale Benny Gantz non significherebbe la chiara rivincita postuma di Ben Gurion su Jabotinsky. Ma se si osservano le intenzioni di voto ci si accorge che gli elettori del Partito laburista in decomposizione, quelli del partito di sinistra Meretz in preda a un'inarrestabile decadenza, quelli di centrosinistra laici del giornalista Lapid ed altri di questa tendenza, dovrebbero riversarsi in gran parte sul candidato Grantz. Lui si guarda bene da mettere in evidenza l'attrazione che esercita sull' elettorato di sinistra, in quanto anti-Netanyahu. Apparire un avversario di sinistra del leader del Likud, il partito di destra finora dominante, in quanto garante della sicurezza, sarebbe controproducente. Meglio la figura del patriota intransigente che si distingue per l'onestà.

(la Repubblica, 18 febbraio 2019)


Il filosofo aggredito a Parigi: "Era un odio da pogrom"

Identificato, ma non ancora fermato il principale assalitore di Finkielkraut. Almeno uno dei gilet gialli aveva una retorica islamista Se non fosse intervenuta la polizia, mi avrebbero spaccato la faccia.

di Leonardo Martinelli

 
PARJGI - «Non mi sento una vittima, né un eroe». Ha commentato così Alain Finkielkraut, filosofo e accademico di Francia, gli insulti antisemiti ricevuti sabato per le strade di Parigi, ai margini della manifestazione dei gilet gialli. Non vuole sporgere denuncia «ma vorrei sapere chi sono queste persone, mi interessa», precisando che «almeno una di loro aveva una retorica islamista».
  La procura di Parigi ha comunque deciso di aprire un'inchiesta. Ed è stato il ministro degli Interni, Christophe Castaner, ad annunciare ieri pomeriggio su Twitter che «un sospetto, riconosciuto come il principale autore degli insulti, è stato identificato», ma non ancora arrestato. Lui e i suoi compari rischiano fino a sei mesi di carcere («se non fosse intervenuta la polizia, mi avrebbero spaccato la faccia - ha detto il filosofo, intervistato sulla tv Lei -: era una violenza pogromista»). Sono fioccati insulti del tipo «vattene, sporco sionista di merda». Ma quelle persone hanno pure gridato «Palestina». O «Dio ti punirà» e «questa - secondo Finkielkraut - è retorica islamista».

 L'«islamo-gauchisme»
  «Era un miscuglio di giovani della periferia - ha aggiunto-, dell'estrema sinistra e forse di soraliani», Il termine si riferisce al franco-svizzero Alain Soral, ideologo che si richiama sia al nazionalismo che alla sinistra marxista e che è un referente sia per un'estrema destra antisemita che per il cosiddetto «islamo-gauchisme», surrogato di islamismo e di sinistra antisemita (e anti-israeliana).

 L'escalation di aggressioni
  Nel 2018 le aggressioni antisemite in Francia (fisiche e verbali, denunciate alla giustizia) sono state 541, il 74% in più rispetto all'anno precedente. E, secondo il filosofo Pascal Bruckner, «il fenomeno si spiega con la convergenza di tre ostilità: dell'islamismo radicale, dell'estrema destra (vedi le scritte Juden comparse sulle vetrine di alcuni negozi) e dell'estrema sinistra antisionista. E con passerelle tra l'islamismo radicale e l'estrema destra via Soral o Dieudonné», comico già condannato per gli spettacoli sull'antisemitismo. Per Bruckner poi «tutto questo risveglia le passioni più infime in un Paese dove vivono le più grandi comunità di ebrei e di musulmani d'Europa».

 Sulla scia della II Intifada
  E i gilet gialli cosa c'entrano in questa storia? «L'antisemitismo non rappresenta assolutamente la colonna vertebrale del movimento - dichiara alla Stampa Jean-Yves Camus, esperto di estrema destra-, ma nei suoi cortei confluisce chiunque, senza un vero servizio d'ordine che faccia da filtro». Per Camus «l'aumento degli atti antisemiti in Francia cominciò a partire dai primi anni Duemila nelle periferie e nelle aree con una maggiore concentrazione di popolazioni musulmane, sulla scia della seconda Intifada. E ancora negli ultimi anni i responsabili delle aggressioni più violente sono persone che provengono da quel mondo e che vi aggiungono un passato nella delinquenza comune».

 Il simbolo
  Intanto, anche Emmanuel Macron è intervenuto su twitter. «Figlio di emigranti polacchi - ha scritto-, diventato membro dell'Accademia di Francia, Finkielkraut non è solo un uomo di lettere eminente ma anche il simbolo di quello che la Repubblica francese può permettere a ognuno». Suo padre era un modesto artigiano del cuoio a Parigi ma il figlio, che oggi ha 69 anni, poté frequentare le migliori scuole, anche a livello dell'università del Paese. E per domani in tutta la Francia è convocata una serie di manifestazioni all'insegna del «no all'antisemitismo». In rete, però, Finkielkraut, spesso polemico contro un certo buonismo multiculturale (e in media odiato dalla gauche classica), ha trovato anche voci polemiche nei suoi confronti, della serie «se l'è andata a cercare». -

(La Stampa, 18 febbraio 2019)


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In Francia torna l'odio per gli ebrei ogni volta che si scatena una crisi

Negli ultimi anni diecimila ebrei hanno deciso di lasciare il Paese Il 44% dei manifestanti pensa che esista un complotto sionista

di Tahar Ben Jelloun

Vetrine imbrattate da insulti antisemiti. Tombe profanate nei cimiteri ebraici. Bambini con la kippah aggrediti per strada. Il ritratto di Simone Veil, una grande donna che a malapena adolescente finì in un campo di concentramento nazista, sfregiato da una croce uncinata.
Torna l'antisemitismo in Francia dove i Gilet gialli turbano la vita quotidiana dei negozianti e dei politici. Secondo un sondaggio il 44% di questo genere di manifestanti pensa che esista un complotto sionista contro la Francia. A questo ritorno dell'odio antisemita segue une serie di omicidi di ebrei in una decina di anni in un Paese dove trova facilmente esca anche l'islamofobia.

 La «lobby ebraica»
  Tra i manifestanti che aderiscono alle proteste dei Gilet gialli, alcuni accusano Emmanuel Macron non solo di essere esclusivamente al servizio dei più ricchi ma anche di essere colluso con la banca Rothschild per cui ha lavorato. Rothschild significa soldi, i soldi degli ebrei! Si perpetua l'eterna immagine dell'ebreo che traffica con il denaro. «Macron jews'bitch» (Macron puttana degli ebrei) hanno scritto sulla porta di un garage nel 1o arrondissement.

 Gli attacchi
  Per questo il giovane Ilan Halimi è stato preso, sequestrato, torturato e ucciso da una «gang di barbari» a febbraio del 2006 a Sainte-Geneviève-des-Bois, nella regione di Parigi. I suoi assassini avevano chiesto un riscatto ai suoi genitori pensando che essendo ebrei fossero ricchissimi.
  Questo odio antisemita oggi viene amplificato dai social media, dai video dove gli antisemiti parlano a volto scoperto. Sul social media russo VKontakte (VK), gente come Dieudonné e Soral - alcuni dei loro siti in Francia sono oscurati - s'esprime liberamente ogni giorno.
  La lista degli ebrei assassinati in Francia in questi ultimi anni è lunga. Dopo la morte di Ilan Halimi, bisogna ricordare Mohamed Merrah che nel marzo 2012 uccise dei bambini ebrei alla scuola Ozar-Hatorah di Tolosa. Nel dicembre 2014, a Créteil, una giovane coppia di ebrei è stata selvaggiamente aggredita. Subito dopo l'attentato che ha decimato la redazione di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, c'è stato l'attacco mortale all'Hyper Casher della Porte de Vincennes. Ad aprile del 2017, l'assassinio nell'11o arrondissement di Parigi di Sarah Halimi, un atto gratuito di odio antisemita. Lo stesso anno e con la stessa motivazione, il sequestro di una famiglia ebraica a Livry Gargan. Il 27 marzo 2018, dei criminali si sono accaniti fino a ucciderla, contro Mireille Knoll, una signora di 85 anni, solo perché era ebrea.
  Certo, la Francia ha un'antica tradizione di antisemitismo: l'affaire Dreyfus (1894-1906), aveva diviso il Paese e intaccato i valori della terza repubblica. Il capitano Alfred Dreyfus, era stato accusato di tradimento in quanto ebreo. Benché innocente, nello spirito di molti era rimasto sospetto. Il 16 luglio 1942, il governo collaborazionista di Vichy, arrestò in massa 13.152 ebrei di origine straniera, tra cui 4115 bambini e li consegnò ai campi di sterminio nazisti.

 La trappola dell'antisionismo
  Ecco i punti deboli della società francese. L'odio per gli ebrei compare regolarmente quando la Francia attraversa una crisi sociale o economica. Gli ebrei sono il tradizionale capro espiatorio. A questo quadro bisogna aggiungere l'antisemitismo di certi francesi di recente immigrazione che reagiscono al conflitto israelo-palestinese. Esprimono la loro solidarietà al popolo palestinese sotto i bombardamenti di Gaza, ad esempio, come la grande parte degli ebrei francesi appoggia senza riserve lo Stato di Israele.
  Dal momento in cui l'ex presidente della repubblica francese François Hollande con il suo primo ministro Manuel Valls, seguito poi da Emmanuel Macron, ha deciso che «l'antisionismo è la nuova forma che assume l'antisemitismo», qualsiasi critica alla politica israeliana è percepita come una critica rivolta a tutti gli ebrei. Cosa che gli arabi francesi contestano. E la frattura tra le comunità si allarga. Questo ha spinto molti ebrei francesi a emigrare in Israele o in altri Paesi. Si parla di 10 mila persone su una comunità di circa 600 mila.
  Quando Netanyahu è stato in Francia per commemorare il massacro di Charlie Hebdo e quello dell'Hyper Casher di Vincennes, ha chiesto agli ebrei di trasferirsi in Israele: «Tutti gli ebrei che vogliono immigrare in Israele saranno accolti a braccia aperte», ha dichiarato l'11 gennaio 2015 alla sinagoga de la Victoire a Parigi.
  Un appello che non è stato gradito dal governo e da una parte della comunità ebraica francese. In quella occasione l'allora primo ministro Manuel Valls aveva detto: «La Francia senza gli ebrei non sarebbe più la stessa».
  Oggi che, secondo le stime gli atti di antisemitismo sono aumentati del 74% rispetto all'anno scorso, la Francia si mobilita per denunciare questa nuova ondata di odio antisemita montata proprio nel momento in cui i Gilet gialli chiedono la testa di Macron come ai tempi di Luigi XVI!
  Già nel 2017 Alain Finkielkraut era stato insultato e molestato dai sostenitori di «La Nuit debout», manifestanti che non sopportavano questo pensatore ebreo. Sabato scorso, alcuni elementi dei gilet gialli lo hanno attaccato urlando insulti antisemiti «Vattene via sionista di merda», «Ritorna a Tel Aviv». L'episodio ha toccato l'intera classe politica, da Marine Le Pen al presidente Macron, che gli ha telefonato e gli ha detto «non tollereremo questi insulti antisemiti». Alain, nel frattempo ha detto: «Ho sentito un odio assoluto, e sfortunatamente non è la prima volta».
  Domani diversi partiti e associazioni marceranno a Parigi per protestare contro il risorgere dell'antisemitismo.

(La Stampa, 18 febbraio 2019 - trad. Carla Reschia)


Alain Finkielkraut e i nuovi antisemiti

di Pierluigi Battista

Non per insistere, non per stonare nella condanna unanime del linciaggio che gli energumeni antisemiti in gilet giallo hanno messo in scena contro il filosofo ebreo Alain Pìnkielkraut, ma bisogna sottolineare che, tra le grida vomitate dalla teppa, si stagliavano anche: «sporco sionista», «sionista di merda», «Palestina», «torna a Tel Aviv». Non è un dettaglio trascurabile, è la prova di una saldatura mostruosa che l'opinione pubblica europea tende a ignorare e che esprime l'odio antiebraico in una forma nuova. La fusione è tra un antisemitismo di matrice esplicitamente nazista, cascame mai del tutto sepolto di razzismo hitleriano, alimentato dalla propaganda negazionista sull'Olocausto e fatto proprio da bande di picchiatori con le teste vuote e rasate, e un antisemitismo che si presenta con le forme più oblique dell'antisionismo, con i tratti della torsione jihadista che ha trasformato definitivamente l'appoggio all'originario indipendentismo nazionalista palestinese in un'esortazione, rimbalzata anche nelle piazze europee, a cacciare i «maiali ebrei» dalla terra santa dell'Islam e ad annegarli in mare, come del resto già incitava la tambureggiante propaganda bellicista dell'Egitto nasseriano alla vigilia della Guerra dei Sei giorni del 1967. È questa saldatura, questa fatale mescolanza, che unisce l'antisemitismo «bianco» di ascendenza nazistoide del gilet giallo di provincia che oramai non ha più remore a urlare «sporco sionista» per dire «sporco ebreo» e l'odio antiebraico rigurgitato dalle banlieue parigine a maggioranza islamica in cui nel 2006 venne torturato e bruciato vivo il giovane ebreo Ilan Halimi, nel silenzio imbarazzato e indifferente dell'opinione pubblica «democratica». Questa saldatura che non vogliamo vedere, ma che gli scritti dello stesso Fìnkìelkraut hanno più volte messo in evidenza suscitando l'ostilità chiassosa e intollerante della cultura conformista, viene tacitata per allontanare i «barbari» da noi, rinchiudendoli in un recinto infetto. Per non vedere le ragioni avvelenate che da anni stanno spingendo molti ebrei francesi a cercare rifugio in terra di Israele. Per non porsi problemi quando mostriamo indulgenza per gli Stati che fanno dell'antisemitismo un dogma e della distruzione di Israele e degli ebrei la loro missione. Per rassicurarci, e portare il mostro lontano da noi. Ma è molto peggio di così.

(Corriere della Sera, 18 febbraio 2019)


«Reggiano giudeo», l'adesivo sul palo fa indignare un lettore: «Punite l'imbecille»

La scritta in prossimità dello stadio Tardini a Parma. «Cì sono cose su cui non è possibile scherzare»

 
PARMA - Un adesivo con la scritta «Reggiano giudeo» attaccato su un palo ha provocato l'indignazione di un lettore, Claudio Bruschi, che si è rivolto alla Gazzetta per protestare: «La fotografia che allego è stata scattata alle 12.30 circa di oggi e ritrae il palo di un lampione d'illuminazione che si trova nel piazzale antistante il Tardini, più o meno all'altezza delle strisce pedonali che attraversano viale Partigiani d'Italia. Probabilmente l'imbecille che ha attaccato l'adesivo crederà di aver fatto solo uno scherzo, insomma, una semplice goliardata, dimenticando che ci sono cose - e l 'antisemitismo è una di esse - sulle quali non è lecito scherzare, e men che meno in pubblico. Ma c'è un'altra cosa: quell'adesivo non è opera di un privato: dev'essere stato prodotto da una ditta specializzata, su specifica ordinazione di qualcuno. Spero che questo consenta a chi di dovere la rapida identificazione e la conseguente esemplare punizione degli autori di questo gesto inqualifìcabile». r.c.

(Gazzetta di Parma, 18 febbraio 2019)


Le polemiche Polonia-Israele per una frase di Netanyahu

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Benjamin Netanyahu ha dovuto aspettare una notte prima di ripartire da Varsavia (guasto all'aereo). Cortocircuito più innocuo di quello diplomatico generato da una frase del primo ministro, con un «the» di troppo che ha riaperto le polemiche con il governo di Mateusz Morawiecki. Quell'articolo determinativo ha fatto intendere che Netanyahu accusasse tutti «i polacchi» di aver collaborato allo sterminio degli ebrei locali. Morawiecki ha reagito («siamo stati vittime dell'occupazione tedesca») e ha deciso di non partecipare al vertice del gruppo di Visegrad (oggi a Gerusalemme ). Il chiarimento di Netanyahu («mi riferivo ad alcuni polacchi») non è bastato. Il primo ministro rispondeva a una domanda sulla legge votata un anno fa a Varsavia: tre anni di carcere a chi usi la formula «campi polacchi» (per Auschwitz ad esempio).

(Corriere della Sera, 18 febbraio 2019)


Gli insulti antisemiti al filosofo Finkielkraut. «Sporco sionista. Il popolo ti punirà»

Gli atti antisemiti in Francia sono aumentati del 74% nel 2018. C'è chi sogna di riunire una Francia nera, bianca e araba attorno all'odio per gli ebrei.

La reazione
«Ho sentito contro di me, un odio assoluto e purtroppo non è la prima volta»
Recrudescenza
Per martedì era già in programma una manifestazione contro i casi di antisemitismo

di Stefano Monteflorl

PARIGI - Il filosofo Alain Finkielkraut è nato a Parigi 69 anni fa da Daniel e Janka, ebrei polacchi rifugiati in Francia dopo avere conosciuto Auschwitz e lo sterminio delle proprie famiglie.
Accademico di Francia noto anche al grande pubblico per le frequenti e talvolta polemiche apparizioni televisive e per le idee conservatrici, ieri pomeriggio Finkielkraut si trovava in boulevard de Montparnasse quando un gruppo di gilet gialli lo ha riconosciuto.
Nella valanga di urla, fischi e gestacci che in pochi minuti gli sono stati rovesciati addosso, si possono riconoscere queste frasi:
- «Vattene, sporco sionista di merda».
- «Bastardo».
- «Sporco razzista».
- «È venuto apposta per provocarci».
- «La Francia è nostra».
- «Torna a casa tua».
- «Torna a Tel Aviv».
- «Il popolo siamo noi».
- «Il popolo ti punirà».
I gilet gialli che aggrediscono Finkielkraut, due dei quali indossano la kefiah palestinese, non gli perdonano il sostegno allo Stato di Israele e il fatto di avere osato denunciare in passato, alla radio, in tv e sui giornali, la deriva islamista e integralista di una parte dei musulmani di Francia, soprattutto nelle periferie.
   L'altra colpa del filosofo, secondo chi lo insulta, è di non essere un vero francese, di non fare parte del popolo francese, perché è ebreo. I violenti che si autoproclamano «il popolo di Francia» gli gridano di tornare a casa sua, e siccome è ebreo casa sua non può essere Parigi, dove è nato e dove ha vissuto per 69 anni, ma Tel Aviv, in Israele. E lì che secondo gli antisemiti Finkielkraut deve tornare.
   All'epoca del movimento Nuit Debout, nella primavera 2016, il filosofo reagì agli insulti di alcuni militanti. Ieri invece è rimasto pietrificato, prima di venire allontanato e protetto dalla polizia. «Ho sentito contro di me un odio assoluto - ha detto poi al giornale JDD -, e purtroppo non è la prima volta».
   Prima dell'aggressione verbale di ieri pomeriggio l'antisemitismo in Francia - e nel movimento dei gilet gialli - era già diventato una questione centrale. Martedì è in programma a Parigi una grande manifestazione patrocinata da quasi tutti i partiti politici - tranne il Rassemblement National di Marine Le Pen, non invitato - per reagire ai numerosi casi di antisemitismo degli ultimi giorni: per esempio la scritta gialla «Juden» (ebrei in tedesco) sulla vetrina del ristorante Bagelstein nel Marais, le svastiche sul murales di Simone Veil, gli insulti a Macron definito «prostituta degli ebrei» e «servo degli ebrei Rothschild» durante le manifestazioni dei gilet gialli.
   Proprio alla vigilia dell'aggressione, Finkielkraut aveva rilasciato al Figaro un'intervista molto interessante. Ricordava di avere guardato con rispetto al movimento dei gilet gialli, all'inizio, e di avere preso poi le distanze quando le violenze sono diventate ripetute e non episodiche.
   «Gli atti antisemiti sono aumentati del 74% nel 2018», aveva sottolineato Finkielkraut, denunciando ancora l'antisemitismo di stampo arabo-musulmano ma anche quello innegabilmente presente, a suo dire, tra i gilet gialli. «Dieudonné e Soral (antisemiti pluri-condannati, ndr) hanno un sogno: riunire una Francia blackblanc-beur (nera, bianca e araba) attorno all'odio per gli ebrei». L'aggressione di ieri sembra dargli ragione.
   L'emozione in Francia è enorme. Tra le moltissime dichiarazioni di solidarietà, quella del presidente Macron: «Gli insulti antisemiti di cui è vittima Alain Pinkìelkraut sono la negazione assoluta di quel che noi siamo e di quello che fa di noi una grande nazione. Non li tolleriamo».

(Corriere della Sera, 17 febbraio 2019)


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I gilet gialli contro il filosofo: «Sporco ebreo, ti puniremo»

Ancora violenze a Parigi. Poi l'aggressione xenofoba a Finkielkraut. Macron duro: «Non li tollereremo»

di Francesco De Remizis

PARIGI - Tre mesi dopo l'inizio della mobilitazione dei gilet gialli, nel cielo di Parigi volano ancora sampietrini, bottiglie e petardi. I «giubbotti» sono sempre in strada, nonostante gli 8.400 fermi e i 7.500 arresti dal 17 novembre. Tre nuovi cortei ieri, 4 rassemblement e le stesse recriminazioni scosse da violenze, giustificate dall'ala dura che torna a pungolare governo e presidente della Repubblica di cui chiedono le dimissioni. Emmanuel Macron è protagonista di un grande dibattito nazionale con i sindaci che non sembra in grado di placare i gilet. Ieri 41.500 manifestanti in tutta la Francia, oltre 5mila a Parigi secondo il ministero dell'Interno. Come non pare risolutiva l'azione dei giubbotti fluorescenti: sostenuta, secondo l'ultimo sondaggio Elabe per BfmTv dal 58% della popolazione rispetto al 75% degli inizi. Le violenze «di Stato» contro i gilet sono tuttora al centro di alcune inchieste. Il confine tra repressione e prevenzione è labile. Ieri almeno 19 fermi a Parigi, dove oltre ai casseur, ancora insulti antisemiti; stavolta al filosofo Alain Finkielkraut: «Sporco ebreo», «sionista», «la Francia è dei francesi», «il popolo ti punirà», grida un gruppo in passamontagna dopo averlo riconosciuto responsabile di opinioni ostili ai gilet gialli per una sua intervista a Le Figaro. «Gli insulti antisemitici che ha subìto sono la negazione assoluta di chi siamo e di ciò che ci rende una grande nazione. Non li tollereremo» commenta Macron. «Finkielkraut non è solo un eminente uomo di lettere, ma un simbolo di ciò che la Repubblica permette a tutti».
   Dopo le minacce dell'ex interlocutore di Luigi Di Maio e del Movimento Cinque Stelle, Cristophe Calençhon, tornato a parlare di milizie paramilitari non meglio specificate pronte a cacciare Macron dall'Eliseo, questa settimana sono arrivate le prime condanne. Un mese di prigione e 500 euro di multa al camionista Eric Drouet, uno dei leader dei gilet, per manifestazione non autorizzata. Il tribunale di Parigi si è espresso pure sul pugile Cristophe Dettinger: per lui, un anno di semilibertà e divieto di entrare nella capitale per sei mesi. Dovrà inoltre pagare a due poliziotti aggrediti il 5 dicembre 2 e 3mila euro di risarcimento.
   Se i casseur lanciano oggetti contro la polizia, le forze dell' ordine rispondono. Tensioni e scontri ieri davanti alla cattedrale di Notre-Dame, poi l'evacuazione dell'intera spianata degli Invalides. Lungo il percorso incendi di cassonetti e la devastazione di un supermercato sul boulevard Saint-Michel. Una giornata a cui seguirà un bis, oggi per festeggiare le 14 settimane.
   Imponente il dispositivo di sicurezza: 80mila agenti in tutta la Francia. Intanto «pedaggio gratuito» a oltranza sull'autostrada a ovest di Parigi, blocchi sulle rotatorie per ostacolare il traffico. A Rouen, in Normandia, un automobilista ieri ha forzato il blocco dei dimostranti ferendone tre. Tensioni anche a Nantes, Strasburgo e Tolosa. Qui una settantina di gilet hanno bloccato un deposito di Amazon. La rabbia resta. «Bisogna riconciliarsi», dice per la prima volta anche Brigitte Macron. Ma come?

(il Giornale, 17 febbraio 2019)


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Gilet gialli e odio antiebraico

Assalto a Finkielkraut

di Maurizio Molinari

L'aggressione dei Gilet Gialli contro il filosofo francese Alain Finkielkraut ci dice che il più pericoloso antisemitismo è tornato nel cuore dell'Europa. A descriverlo è quanto avvenuto in boulevard Montparnasse, a Parigi, nella giornata di ieri. Un gruppo di Gilet Gialli ha riconosciuto il filosofo, lo ha spinto in un angolo e mentre lui era spalle al muro uno dei manifestanti gli si è avvicinato, gli ha puntato l'indice contro ed ha iniziato a gridare «noi siamo il popolo, noi siamo il popolo». Altri Gilet Gialli sono arrivati, Finkielkraut si è allontanato protetto da alcuni passanti e dietro di lui i manifestanti gli hanno gridato: «Torna a Tel Aviv», «Palestina, Palestina», «vi cacceremo». Più il filosofo era lontano, più le grida dei Gilet Gialli crescevano, con i singoli che si toglievano mascherine e passamontagna per meglio gridare la propria rabbia. La sovrapposizione fra esaltazione del «popolo», insulti antisemiti, odio antisionista e promesse di espulsioni rappresenta quanto di più simile e contemporaneo può esserci alla dinamica con cui si innesca l'odio antiebraico nelle piazze, identificando nella casuale vittima di turno il male assoluto, da additare ed estirpare per il «bene delle masse». È la stessa feroce dinamica con cui si originavano i pogrom in Russia al tempo degli zar, in Germania al tempo dei nazisti e nei Paesi arabi- da Baghdad a Tripoli- fra gli Anni Quaranta e Cinquanta. Ciò significa che nelle viscere dei movimenti di protesta presenti in Francia - e forse in altri Paesi d'Europa - alberga la più buia, miope e aggressiva delle intolleranze.
   Aggravata dalla volontà di chi ne è protagonista di diffonderla sul web per trasformarla in contagio: chi ha aggredito Finkielkraut ha anche filmato la scena con l'evidente intento di far capire ad altri fanatici come lui che questo è il modo in cui si devono aggredire i «nemici del popolo», spingendoli con la forza degli insulti e della rabbia ad «andarsene a Tel Aviv». Quale che sia l'opinione politica, la fede religiosa o la cittadinanza, ogni europeo deve sentirsi non solo offeso ma minacciato da questo germe dell'odio che è tornato a germogliare fra noi. Con la complicità di tutti coloro che assistono, passivamente, davanti a simili violenze o addirittura le legittimano riconoscendo politicamente i Gilet Gialli.

(La Stampa, 17 febbraio 2019)


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I padri movimentisti dell'antisemitismo

di Fiamma Nirenstein

Finkielkraut è un filosofo liberale, la cui affezione per la sua ebraicità, per Israele e per il mondo della giustizia sociale sono sempre andati insieme. È una bella sfida: il movimento dei gilet gialli pretende di far parte del movimento in lotta contro la burocrazia, l'ingiustizia economica, l'élite ladra. È un movimento di popolo quella banda di mostri antisemiti che gli si è rovesciata addosso urlando «sporco ebreo» e «sionista di m ... » e berciando che la Francia non è degli ebrei ma dei francesi, e così Finkielkraut ha una faccia oltre che dispiaciuta anche piuttosto imbarazzata.
   Il movimento di popolo in Europa ha sempre attratto gli intellettuali e i politici, anche il più feroce, nazista, comunista, terrorista. Lo dice anche Hanna Arendt. Questi stessi gilet gialli sono stati visitati il 5 febbraio da Di Maio e da Di Battista in uno slancio di solidarietà internazionale: eppure lo sapevano che questo movimento che sfascia e odia, aveva anche gridato nelle piazze «Macron, sei la puttana degli ebrei», «Ebrei attenti avete abbassato le tasse ai ricchi», «la Francia muore di fame e gli ebrei accendono le luci di Chanucca», «Macrone Zion» nel Paese che ha mandato a morire i suoi ebrei coi loro bambini per ordine di Petain. In un anno crescevano del 74% gli incidenti antisemiti. I gilet gialli sono la somma movimentista dell'antisemitismo, come il Labour di Corbyn lo è in Inghilterra.
   Robert Wistrich, il migliore di tutti gli storici dell'antisemitismo, scrisse un pezzo di testimonianza stupefatta a come le élite francesi commentassero con un'alzata di spalle snobistica, una levata di sopracciglia filosofica, una boccuccia stupita, gli attacchi sanguinosi del 2014 e '15 alle sinagoghe di Parigi. Il comico Dieudonné seguita a dare di nazista a Israele nel plauso generale; gli assassini islamici di Ilan Halimi non furono trovati perché la mentalità liberal rifiutava di cercarli nelle banlieu. Oggi si rifiuta di cercare l'antisemitismo nei movimenti populisti, o inconsciamente si associano i propri sentimenti per gli ebrei ai loro, come ha fatto forse M5s. No, non è bello respingere gli impulsi antisemiti che provengono da folle in marcia mentre pretendono di migliorare la società; o fare muro a quelli in lotta per una società migliore e che sulla strada contano di incenerire un paio di ebrei e di distruggere il loro Stato.

(il Giornale, 17 febbraio 2019)


Berlino, alla Paranza la miglior sceneggiatura. Saviano dedica il premio alle Ong

L'israeliano Lapid vince e batte Ozon. La prossima edizione sarà guidata da un italiano.

di Fulvia Caprara

 
Il regista israeliano Nadav Lapid, 43 anni, riceve l'Orso d'oro per il miglior film da Juliette Binoche, presidente di giuria alla Berlinale
BERLINO - Spogliarsi della propria identità e cercare di costruirsene una nuova, in un'altra città, usando una lingua sconosciuta. Partendo dalla propria esperienza autobiografica, l'israeliano Nadav Lapid racconta, in Synonymes, Orso d'oro della 69a Berlinale, l'ultima diretta da Dieter Kosslick, la difficile rinascita di un uomo deciso a chiudere i conti con le proprie radici. Il massimo trofeo della rassegna, accolto dalla platea degli addetti ai lavori tra dissensi e stupore, sancisce un verdetto discutibile, con varie incongruenze, quasi a sottolineare la fase di transizione che la Berlinale sta evidentemente attraversando.
  Alla Paranza dei bambini di Claudio Giovannesi va il premio per la migliore sceneggiatura, firmata dal regista con Maurizio Braucci e con l'autore del libro Roberto Saviano: «Dedico il premio - dice Saviano - alle organizzazioni non governative che salvano vite nel Mediterraneo e ai maestri di strada che salvano vite nei quartieri popolari. Oggi, nel nostro Paese, è molto complicato raccontare la verità». Dopo di lui parla Braucci: «I ragazzi del nostro Sud hanno bisogno di supporto maggiore, questo deve essere un obiettivo fondamentale». E poi Giovannesi: «Speriamo che in Italia la cultura, la formazione, l'arte, tornino a essere una priorità».

 Lo scandalo dei preti pedofili
  La delusione più grande è sul volto di François Ozon che guadagna il Gran Premio della Giuria per Grace à Dieu, ma è evidente che abbia sperato di ottenere il riconoscimento più importante. Il suo film sullo scandalo dei preti pedofili in Francia debutta in un momento significativo, visto che, proprio ieri Papa Bergoglio ha deciso di «spretare» l'ex-arcivescovo di Washington McCarrick colpevole di abusi: «Non so se il cinema può davvero cambiare il mondo, ma sicuramente può aiutarci a capirlo. Ringrazio la giuria e dedico il premio ai protagonisti delle storie vere che racconto nel film».
  Sinceramente felici Yong Mei e Wang Jingchun, marito e moglie nel magnifico So Long, My Son di Wang Xiaoshuai, affresco sulla Cina in mutamento che secondo molti avrebbe meritato di più. Grande entusiasmo anche da parte di Angela Schanelec, premiata per la regia di I Was at Home, But, e di Nora Fingscheidt che ha ottenuto l'Alfred Bauer riservato alle nuove prospettive del cinema. I riconoscimenti al femminile, in una giuria guidata da una donna, con sei registe in gara, erano attesi, ma ci si aspettava altre scelte. E il super favorito dei pronostici God Exists, Her Name is Petrunya, regia di Teona Strugar Mitevska, è stato infatti ignorato.

 Gala e passaggio di consegne
  Sul palcoscenico del gala finale, più diluito del solito per via del lungo omaggio al direttore Kosslick che, dopo aver diretto la kermesse dal 2002 al 2019, passa il testimone all'italiano Carlo Chatrian, affiancato dalla tedesca Mariette Rissenbeek, annunci e proclami hanno avuto ruolo preponderante.
  La prima dichiarazione tocca a Binoche e riguarda l'assenza, per motivi di censura, del maestro Zhang Yimou che alla Berlinale avrebbe dovuto presentare la sua ultima opera One Second: «Rimpiangiamo di non aver potuto vedere il suo film. Zhang Yimou è stata una voce centrale nel cinema del mondo, non l'abbiamo potuta ascoltare, e ci manca molto».
  Subito dopo la fine della cerimonia, parlando della Paranza dei bambini (prodotto da Palomar con Vision Distribution e in collaborazione con Sky Cinema) Saviano è tornato sul tema migranti: «Si parla della loro invasione e non di quella dei capitali criminali. Si fermano i corpi e si lascia passare il veleno dei capitali».
  Nel filmato proiettato in onore di Kosslick, un montaggio di immagini dei momenti top della rassegna, pieno di divi dello star system mondiale, si avvertiva, ieri, un vago rimpianto per una manifestazione che forse, non potrà più raggiungere quelle vette di popolarità. Le date della prossima edizione, spostate in avanti, dopo la cerimonia degli Oscar, fanno immaginare maggiori difficoltà nella selezione di film Usa che in quel periodo, attendono di essere selezionati per Cannes o per Venezia. Insomma, dal 2020, qualcosa potrebbe cambiare, toccherà al neo-direttore italiano decidere in quale senso.

(La Stampa, 17 febbraio 2019)



«Sforzatevi di entrare per la porta stretta»

Gesù attraversava città e villaggi, insegnando e avvicinandosi a Gerusalemme. Un tale gli disse: «Signore, sono pochi i salvati?» Ed egli disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché io vi dico che molti cercheranno di entrare e non potranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, stando di fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici”. Ed egli vi risponderà: “Io non so da dove venite”. Allora comincerete a dire: “Noi abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, e tu hai insegnato nelle nostre piazze!” Ed egli dirà: “Io vi dico che non so da dove venite. Allontanatevi da me, voi tutti, malfattori”. Là ci sarà pianto e stridor di denti, quando vedrete Abraamo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi ne sarete buttati fuori. E ne verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, e staranno a tavola nel regno di Dio. Ecco, vi sono degli ultimi che saranno primi e dei primi che saranno ultimi».

Dal Vangelo di Luca, cap. 13

 


Gli ebrei di Kaifeng perseguitati con tutte le altre religioni

La comunità ebraica non è riconosciuta fra le religioni ufficiali e le sue attività sono considerate "illegali". La persecuzione è incrementata dopo il varo dei Nuovi regolamenti sulle attività religiose. La comunità ebraica di Kaifeng data dal 10mo secolo ed è composta da circa 1000 membri. Bloccato dal governo il progetto di ricostruzione della sinagoga

KAIFENG - La piccola comunità ebraica di Kaifeng (Henan) soffre la persecuzione insieme a tutte le altre religioni in Cina. È quanto afferma Lela Gilbert, membro dell'Hudson Institute ed autrice di vari libri sulla persecuzione. In un articolo pubblicato ieri sul "Jerusalem Post", ella scrive: "L'aspro trattamento della minuscola popolazione ebraica in Cina emblematica della soppressione delle fedi religiose da parte del Partito comunista cinese senza Dio. E la vulnerabilità degli ebrei di Kaifeng è terribile e fin troppo familiare ai milioni di buddisti tibetani, musulmani uiguri, cinesi cristiani".
   La comunità ebraica di Kaifeng ha meno di 1000 membri, ma essa è sottoposta a pesanti controlli, a raid polizieschi, ostacoli di diverso tipo, soprattutto dopo il febbraio 2018, al varo dei nuovi regolamenti sulle attività religiose. "Durante un raid - racconta la Gilbert - agenti del governo [cinese] hanno rotto una Stella di David all'entrata [del Centro ebraico] e l'hanno gettata a terra. Hanno strappato dai muri citazioni delle Sacre Scritture. Hanno riempito di sporcizie e pietre un pozzo che serviva da mikveh (per il bagno rituale)".
   Il problema è che il governo cinese riconosce solo cinque comunità religiose: taoisti, buddisti, musulmani, cristiani protestanti e cattolici. Le altre religioni - fra cui quella ebraica - sono ritenute illegali e subiscono una sorte simile a quella delle comunità sotterranee. Nell'Henan, molte chiese cattoliche e protestanti sono state costrette a chiudere e a proibire l'entrata ai giovani minori di 18 anni.
   La comunità israelitica di Kaifeng ha una storia che data dal 10mo secolo, quando sono arrivati in Cina degli ebrei dalla Persia. La prima sinagoga a Kaifeng è stata costruita nel 1163. Dopo alterne vicende nei secoli, negli ultimi anni la comunità è riuscita ad instaurare rapporti con l'ebraismo mondiale e ha creato un piccolo Centro di cultura ebraica. Alcuni benefattori sono pronti a sostenere la ricostruzione della sinagoga. Ma, da febbraio, tale progetto è stato bloccato.

(Asia News, 16 febbraio 2019)


Chi ha in odio l'Occidente

di Niram Ferretti

Dall'Islam spira un'aria di novità, di fascinazione irresistibile. In passato esso era un afrodisiaco, un viagra psicologico per gli amanti della forza, dell'ordine, del sacro istituzionalizzato. Hitler ne apprezzava le virtù guerriere molto più vicine allo spirito delle Männerbunde teutoniche, rispetto a ciò che egli poteva rinvenire in qualsiasi altra religione. Ed è un paradosso della storia, uno dei tanti, che non siano più le destre antimoderniste, se non in sacche di testimonialità criogenica, o in sporadici casi individuali, a subirne l'allure, ma la sinistra, soprattutto quella più radicalizzata.
  La vocazione sistemica e totalitaria islamica convertirono Roger Garaudy, ex comunista duro e puro e Ilich (in onore di Lenin) Ramírez Sànchez meglio conosciuto come Carlos lo Sciacallo. Garaudy, autore di Les Mythes fondateurs de la politique israélienne, in cui ripropose le immarcesicibili tesi dei Protocolli dei Savi di Sion, condendole con tesi negazioniste che gli costarono cinque procedimenti penali, si convertì all'Islam nel 1982. Carlos lo Sciacallo, pluriassassino condannato all'ergastolo, e membro attivo del FPLP, Fronte Popolare Per La Liberazione della Palestina, organizzazione che rivendicava nel marxismo-leninismo la propria matrice ideologica, a seguito della sua conversione all'Islam redasse insieme al giornalista francese Jean Michel Vernochet, L'Islam rivoluzionario.
  Dispositivo combinato di indubbia efficacia quello tra lotta armata, revolucionaria, Islam e virulento antisionismo e antiamericanismo. Quando si identifica nell'Occidente e nei suoi derivati, democrazia, liberalismo e capitalismo, il nemico da abbattere avendolo trasformato in una rapace entità imperialista e colonizzatrice, è difficile non trovarsi uniti da un afflato molto simile. Maometto e Che Guevara che danzano a braccetto.
  Il fatto che l'Occidente sia da abbattere, purgandolo dalla propria decadenza attraverso una buona e severa profilassi coranica, oppure sia da sovvertire politicamente nelle sue strutture economiche imperanti in virtù di un socialismo di stato talebano, non modifica di un'oncia il comune intento. Soprattutto quando si è in grado di identificare chiaramente i propri nemici dichiarati, gli Stati Uniti e Israele, vero asse del male. In questo, i radicalismi di sinistra e di destra si sovrappongono, trovano amorose convergenze, neofascisti, terzomondisti, etno-nazionalisti, amanti di Assad e Hezbollah, della "purezza" islamica sciita: gagliardetti, croci uncinate, falci e martello, sacro suolo, mistica del sangue, della terra, dell'ardore. Il solito bric a brac della subcultura antimodernista, perché quello che aliena l'uomo è il capitale e il consumismo, mica la sharia, o la teocrazia, no, è la talassocrazia americana, mano longa dell'internazionale ebraica.
  L'Islam diventa dunque liberatorio, liberante, rappresenta una nuova prospettiva orgasmica. Come nel caso di Michel Foucault, inebriato dalla nuova "dimensione spirituale in politica" inaugurata a suo dire dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Khomeini nuovo Lenin, liberatore del pueblo oppresso dal regime filoamericano e filoisraeliano dello Scià. Il vecchio e cupo ayatollah ebbe l'idea felice di innestare il tradizionalismo islamico più severo sulla pianta della rivoluzione degli oppressi, di cui, lui, anima ferventemente pia, si faceva custode, guardiano, paraclito.
  Non è un caso se Hamas, movimento integralista islamico, costola palestinese di quei Fratelli Musulmani fondati in Egitto nel 1928 e il cui manifesto programmatico recita "Il Corano è la nostra costituzione, il jihad, la nostra strada, e la morte nel nome di Allah il più nobile dei nostri desideri", è visto agli occhi della sinistra così come dell'estrema destra un movimento resistenziale contro l'occupante "colonialista" ebraico.
  Sono dell'estate del 2014, durante l'ultimo conflitto a Gaza, le dichiarazioni di Gianni Vattimo ex filosofo del pensiero debole ed ex parlamentare di sinistra a favore di Hamas. Durante un programma radiofonico invitò volontari europei a partire per Gaza per unirsi al movimento islamico contro Israele. Lui, omosessuale dichiarato che da Hamas verrebbe prontamente giustiziato mentre in Israele, dai temibili sionisti, potrebbe, tranquillamente indossare se l'estro lo ispira, piume e paillettes o hot pants di pelle nera durante il Gay Pride annuale che si tiene a Tel Aviv.
  In antisionismo e afflato antisraeliano patologico Vattimo è stato preceduto da Noam Chomsky, il quale, nel 2010, andò in ossequiosa visita in Libano per incontrare l'allora capo spirituale di Hezbollah, Mohammad Hussein Fadlallah, grande sostenitore della distruzione di Israele e degli attacchi terroristici contro civili inermi. Il medesimo che definì eroico il massacro alla yeshiva Mercaz HaRav avvenuto nel 2008 e in cui vennero massacrati otto studenti ebrei.
  Nello stesso anno, in Libano si recò anche la primogenita del natural born killer, Ernesto Che Guevara per deporre una corna sulla tomba del cofondatore del gruppo terrorista, Abbas al Musawi, ucciso dalle forze armate israeliane. Aleida Che Guevara parlò della necessità della "resistenza dei popoli che devono confrontarsi con l'occupazione". Hasta la victoria siempre, dai rivoluzionari cubani al partito di Dio. Una parabola esemplare.
  Prima di loro fu il turno di Hugo Chavez. Nel 2009, Il leader maximo venezuelano ricevette in Venezuela Mahmoud Ahmadinejad e abbracciandolo lo chiamò un compagno rivoluzionario definendo Israele, "Il braccio armato omicida dell'impero americano". Le vecchie parole d'ordine coniate a Mosca non hanno mai smesso di essere di moda in Venezuela, dove ancora oggi le pronuncia l'ex conducente di autobus Maduro, patetico caudillo da operetta con cui il cleptocrate russo Putin ha ottimi rapporti.
  Il romanzo d'amore tra radicalismo di sinistra e destra e le forze dell'Islam militante non può destare meraviglia. Coloro che oggi coniugano il mai tramontato lessico sovietico del terzomondismo da combattimento o la passione per l'ordine del sacro militarizzato con l'oscurantismo maomettano, sono gli stessi che a sinistra negli anni Sessanta e Settanta hanno abbracciato con fervore tutte le peggiori dittature del globo, elogiando a turno Stalin, Fidel Castro, Tito, Mao Zedong, Pol Pot mentre a destra rimpiangevano il Duce e il Fuhrer.
  Orfani della loro tutela e delle palingenesi che proponevano, si sono rivolti all'Islam come succulento succedaneo. Lungo la strada, questi vecchi e maturi antioccidentalisti hanno incontrato nuovi acquisti da imbarcare. Sul mercato attuale, niente come l'islam militante può garantire loro l'opposizione più tenace e minacciosa nei confronti di quella civiltà in cui vivono ma di cui senza sosta additano gli "orrori" anelando la sua distruzione.

(Caratteri liberi, 16 febbraio 2019)


Di Segni: "l'Europa è nata quando si sono aperti i cancelli dei campi di concentramento"

"La memoria è fondamentale per capire chi siamo e come orientarci nella nostra vita": apre così il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, il suo intervento al convegno promosso nei giorni scorsi dalla diocesi di Frosinone sulla Shoah. "Quella tragedia ha fatto emergere le contraddizioni di una società intera: come essa può reggersi se non accetta chi non si piega alla maggioranza per differenze di qualunque motivo? Le differenze arricchiscono e non indeboliscono" aggiunge. Dal punto di vista storico, secondo Di Segni, "la Shoah non ha distrutto solo il popolo ebraico ma tutta l'Europa, che in fondo è nata nel momento in cui si sono aperti i cancelli dei campi di concentramento".
Alla domanda sulla singolarità della Shoah rispetto ai tanti massacri della storia, il rabbino capo di Roma ha risposto insistendo sul "progetto criminale intenzionale di uno Stato, che poi ha coinvolto altri Stati per la distruzione di un popolo. A questo progetto, si è unita la tecnologia, che si è messa a suo servizio e che negli anni Quaranta era rappresentata da treni, camere a gas, forni crematori, modalità di ricerca poliziesca…". In un confronto sugli ebrei di ieri e di oggi, Di Segni ha infine sottolineato "i contributi significativi, spesso poi cancellati, portati da questa comunità in ogni società in cui ha vissuto. Come minoranza, hanno sempre cercato di conservare pensieri e tradizioni, anche con spirito critico rispetto alla maggioranza".

(SIR, 16 febbraio 2019)


Come sarebbe la mia vita se scoprissi di essere ebreo?

Da un'indagine sull'origine degli antenati l'idea del nuovo romanzo Lo scrittore scandinavo abbandona il mare per il suo libro "più difficile".

di Björn Larsson

Björn Larsson
Quando e come nasce un romanzo? Perché scrivere proprio quel romanzo e non un altro, e proprio in quel momento e non in un altro? Sono interrogativi che sicuramente si pone la maggior parte degli scrittori. Qualche anno fa, in omaggio al mio editore, Iperborea, che festeggiava i suoi 25 anni di vita, e anche per rispondere alle domande dei miei lettori, soprattutto italiani, ho scritto un libretto intitolato Diario di bordo di uno scrittore. Ed è stato proprio scrivendolo che mi sono reso conto che non è poi così difficile risalire al punto di partenza di ogni romanzo, ricordare quello che mi è servito da ispirazione e ripercorrere il cammino che mi ha portato al risultato finale, comprese le deviazioni sterili, i vicoli ciechi e le sorprese - buone e cattive - incontrate strada facendo.
   Anche questa volta sono in grado di identificare abbastanza facilmente il momento in cui, più di quindici anni fa, è stato gettato il primo seme del mio ultimo romanzo La lettera di Gertrud, anche se poi sono dovuti passarne altri dieci prima che il seme cominciasse a germogliare sulle pagine di uno dei miei quaderni.
   È stato a Vancouver, in Canada, dove ero invitato da Peter Stenberg, professore di lingue e letterature scandinave. Quando ho raccontato a Peter che mia madre aveva ripreso il cognome da nubile di sua nonna, Zander, mi ha subito chiesto se non era un nome ebreo. Ho risposto che non lo sapevo: nessuno in famiglia, neppure mia madre, aveva precise notizie su questa nonna. Peter stava preparando un'antologia di scrittori ebrei svedesi e voleva che io fossi ebreo per potervi includere delle pagine de La vera storia del pirata Long John Silver che gli erano piaciute molto.
   Da una zia paterna sono poi venuto a sapere che con tutta probabilità noi abbiamo «sangue vallone nelle vene», il che spiegherebbe anche gli occhi marroni occhi e i capelli castani della nostra famiglia. E ho letto in seguito in un saggio sui gitani in Svezia che molti di loro si definivano «valloni» per sfuggire alle persecuzioni degli anni Cinquanta.
   Non era quindi escluso che potessi avere origini ebraiche da parte di mia madre e rom da parte di mio padre. Questa novità si è presto trasformata in una domanda nella mia testa: se la cosa venisse dimostrata, cosa cambierebbe per me? 0, un po' più tardi, per Martin Brenner, cinquantenne, sposato, padre di una ragazzina, che scopre alla morte della madre che lei non era, come lui aveva sempre creduto, una tedesca scampata ai bombardamenti di Dresda, bensì un'ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, cosa che aveva sempre tenuta nascosta al figlio per paura che la storia si ripetesse.
   Martin si ritrova dunque nella situazione eccezionale in cui può scegliere se essere ebreo oppure no. Se non dice niente a nessuno, non lo sarà, ma dovrà pagare il prezzo di avere un segreto nei confronti dei suoi cari e degli amici. Se, al contrario, accetta di esserlo, nessuno vi si opporrà, né gli ebrei né gli antisemiti, che si ritroveranno con un ebreo in più da odiare. La terza opzione, che sarebbe rivelare pubblicamente che la madre era ebrea, ma che lui non lo è e, soprattutto, non vuole diventarlo, non avrebbe l'approvazione di quasi nessuno. È in pratica la posizione presa da Hanna Arendt quando dichiara di non poter amare - o odiare - nessun «popolo», che fosse ebreo, americano, francese o proletario.
   Posto il dilemma iniziale e trovato il protagonista, il romanzo potrebbe sembrare ben avviato. Ma è lì che comincia il vero lavoro, cioè immaginare la trama di una storia e dei personaggi che possano incarnare il tema di fondo del romanzo.
   La lettera di Gertrud in realtà non riguarda solo l'identità ebraica, ma diverse questioni esistenziali e ideologiche associate alla ricerca sfrenata di identità - che sia religiosa, culturale, etnica, nazionale o sessuale - che caratterizza l'epoca attuale, a detrimento dell'umano: la paura e l'odio nei confronti dell'altro, il peso del passato in rapporto all'avvenire, il bisogno o il rifiuto di appartenenza, la generalizzazione abusiva delle persone in categorie, eccetera.
   Resta certamente il fatto che l'identità ebraica è la più controversa di tutte e una grande sfida. Perché il romanzo fosse credibile, dovevo quindi, sulla scia di Martin Brenner, leggere decine di migliaia di pagine sull'ebraismo, scritte da rabbini, intellettuali e ricercatori, ebrei e non, e da romanzieri. Bisognava anche trovare una forma narrativa che potesse riflettere l'evoluzione di Martin Brenner nel corso della vicenda. Tanto per fare un esempio: dato che l'antisemitismo, purtroppo, non è confinato in un solo luogo o in un solo paese, gli eventi raccontati dovevano potersi svolgere in qualsiasi paese europeo, a parte la Germania.
   Ne è risultato un romanzo, credo, abbastanza particolare e forse anche un po' unico nel suo genere, anche se, ovviamente, l'originalità non è di per sé un criterio di qualità. Comunque non cerco il plauso generale di tutti, critici e lettori. Si può provare o meno simpatia per Martin Brenner, dargli torto o ragione, ma, se non si è in malafede, non si può accusarlo di mancare di coraggio o di non affrontare con rigore il dilemma davanti al quale si trova, senza sua colpa.
   Mi ci sono voluti cinque anni per scrivere questo libro, che è nel complesso quello che mi ha richiesto più fatica di tutti. Ma, come l'originalità, anche lo sforzo costato non è un criterio di eccellenza. Ho tuttavia una speranza: che il lettore, arrivato alla fine, sia stimolato a porsi seriamente la domanda di cosa avrebbe fatto, trovandosi nei panni di Martin Brenner. Chi eventualmente fosse tentato di cavarsela con la constatazione che dopo tutto La lettera di Gertrud non è che letteratura, farebbe bene a immaginare un Martin Brenner italiano nel momento della promulgazione delle leggi razziali del 1938, seguita dalle deportazioni degli ebrei verso la morte nei lager.

(La Stampa, 16 febbraio 2019 - trad. Emilia Lodigiani)


Israele in formato luxury: il nuovo trend fra boutique hotel e spa

Aumenta la richiesta di viaggi di lusso in Israele e, di conseguenza, cresce anche l'offerta. La nuova tendenza della destinazione, spiega Avital Kotzer Adari, direttore dell'ente del turismo israeliano in Italia, è anche merito delle adv: "Conoscono meglio il paese e le sue possibilità, quindi sanno cosa proporre ai clienti".
Alle spalle c'è la volontà del Ministero del Turismo israeliano di investire in questa direzione, favorendo soprattutto la nascita di nuovi boutique hotel di lusso e "aiutando gli investitori internazionali nel recupero di edifici storici da trasformare in strutture ricettive".
Tra le nuove aperture c'è quella di Nobu Hotel Tel Aviv, che al suo interno avrà 38 camere di lusso, un centro fitness, piscina, rooftop, giardino e ovviamente il celebre omonimo ristorante.

(TTG Italia, 16 febbraio 2019)



Seguendo le tracce del sentimento antiebraico

Seguendo le tracce del sentimento antiebraico nell'Italia dei nostri giorni è bastato grattare poco, pochissimo per far emergere quella rogna da cui la civiltà occidentale non si è mai sanata anche quando ha riconosciuto alla tradizione ebraica un ruolo primario in termini di produzione intellettuale, scientifica, morale, sociale. Una rogna che sembra essersi installata sotto la pelle dei non ebrei e da cui i non ebrei pare non si siano mai liberati preferendo piuttosto aggiornare quella malattia, coltivarla e nutrirla rinnovando ossessioni e deliri.
   Gli italiani sono antisemiti? Lo sono spesso in modo obliquo, quasi mai esplicito. A meno di esplodere in momenti inattesi. Te ne accorgi una sera a cena, quando una donna sofisticata che credevi di conoscere bene, a metà di una conversazione abbassa la voce e ti soffia: «Tu non sai come sono fatti gli ebrei. Io che ho lavorato con loro posso dirtelo». Poi, afferrando il coltello come un pugnale, mima un gesto che resta a mezz'aria: «Quelli son capaci di accoltellarti alle spalle».
   Oppure quel sentimento si appalesa quando un colto intellettuale, con tanto di cuore e cervello, dichiara la sua inimicizia totale: «Gli israeliani? Fanno schifo. Gli ebrei fanno schifo. Smettetela di compiangerli. Hanno avuto quel che si meritavano». Schiuma rabbia con sguaiatezza isterica, protagonista di uno sfogo che arriva nemmeno lui sa da quanto lontano. C'è nelle sue parole un surplus di disprezzo che non riserverebbe a nessun altro appartenente al genere umano. Speciali anche in questo gli ebrei, nel risvegliare istinti arcani e totalmente slegati dall' esperienza personale di chi è a loro ostile.
   Poi un altro signore, in una sera d'estate, se la prende prima con coloro che «vorrebbero gli israeliani nella Comunità europea, ma ti rendi conto?!» e, paonazzo, lui che pure vive di commercio, accusa gli ebrei di essere dei «bottegai meschini e imbroglioni», gente che pensa solo al guadagno, che non ha onesta considerazione se non per i propri correligionari.
   Capisci allora quanti danni provochi l'arzigogolo del politicamente corretto che in questo caso ha per di più un duplice standard: pubblicamente si mantiene un comportamento educato come dettano le convenzioni civili, una sorta di meccanica preghiera laica che permette di sentirsi in regola con l'ordine civile; dall'altra parte ci si riserva la possibilità di coltivare, nutrire e ingigantire il contrario senza per questo correre il rischio di venire accusati di nulla di sconveniente.
   È allora inevitabile istruire uno spericolato processo alle intenzioni per rendersi conto che sono proprio quelle, semisegrete, a governare i ragionamenti e i giudizi di molti. Ecco perché la condanna assennata nei confronti delle bestie naziste, ecco perché tanto disprezzo compunto che li fa sentire esonerati da ogni sentimento di corresponsabilità e di continuità.

(da “I soliti ebrei”, di Daniele Scalise)

 


L'idea di Ossicini inventò il morbo K per salvare gli ebrei

Addio al partigiano, psichiatra e ministro. Ci lascia in eredità l'idea della Resistenza come base della convivenza civile e una moderna concezione della laicità.

di Umberto Gentiloni

Ha concluso la sua lunga traversata all'ospedale Fatebenefratelli sull'Isola Tiberina dove era ricoverato per una caduta da qualche giorno. Lo stesso luogo dove Adriano Ossicini (classe 1920) era riuscito a nascondere e isolare decine di ebrei romani colpiti da un non meglio definito "Morbo K", con sfrontata ironia preso dalle iniziali di Kappler e Kesselring nella lunga notte dell'occupazione nazista della capitale. Si era inventato una scorciatoia, una sorta di tranello per evitare che dopo la grande retata del 16 ottobre '43 altre vite potessero finire nei terribili ingranaggi della soluzione finale. Ossicini non aveva avuto dubbi: partigiano nella lotta di liberazione dai primi passi della Resistenza in città.
   Dopo l'armistizio combatte a Porta San Paolo e nelle settimane successive si muove tra culture e sensibilità differenti cercando di costruire ponti, occasioni di dialogo e collaborazione tra ispirazioni religiose e forze organizzate nel terreno d'incontro tra cattolici, comunisti e sinistra cristiana. Sente il peso della minaccia nazifascista, unisce l'approccio critico di un combattente per la libertà con una spiritualità profonda, la fede nel cattolicesimo come scelta di vita e di libertà. Non si risparmia nelle tappe successive che attendono una vita ricca di occasioni di militanza e partecipazione.
   Un percorso originale e intenso: psicologo e psichiatra, medico impegnato in prima fila con lo sguardo rivolto all'impegno politico. Un'identità composita: cattolico e comunista, docente di psicologia alla Sapienza, parlamentare della sinistra indipendente, vicepresidente del Senato, ministro della Famiglia e della Solidarietà sociale nel governo Dini nello scorcio conclusivo del '900. La sua storia è quella di una generazione che attraversa gli anni del fascismo e la tempesta della seconda guerra mondiale: le radici affondano nelle inquietudini del mondo cattolico, nell'associazionismo diffuso che lo caratterizza, nella radicalità del messaggio delle Scritture fino a trovare nell'antifascismo una dimensione esistenziale, coinvolgente e irriducibile. Ossicini è stato un protagonista di stagioni diverse, fino alle fasi successive del lungo dopoguerra, spesso controcorrente, mai banale o scontato nelle sue apparizioni pubbliche o nei tanti scritti che hanno segnato una produzione continua e qualificata.
   Dagli spunti di un diario personale nella stagione della Resistenza ai problemi di psicologia clinica, dalle dense pagine di un colloquio con Giuseppe De Luca alle riflessioni sul valore della politica e sulla distinzione per lui irrinunciabile tra cattolici e democristiani. Un cammino rilanciato dalle ragioni di fondo del Concilio Vaticano II e dalle critiche che hanno accompagnato le sue posizioni «da sovversivo». Non si nascondeva, preferiva argomentare con puntualità a fronte delle obiezioni di chi chiedeva fedeltà di partito o di corrente. Una ricca e generosa attenzione alle novità del mondo contemporaneo lo ha visto partecipe e interessato alle ultime stagioni del centrosinistra al governo della capitale.
   Si è occupato con passione di cose diverse in contesti modificati senza perdere di vista le sue convinzioni più profonde, un lascito non consumato. L'idea della Resistenza come base preziosa della convivenza civile in una stagione nella quale forze diverse, culture distanti e conflittuali hanno prodotto un risultato alto, un bene prezioso. E su un altro versante una moderna concezione della laicità, una costante tensione nella coerenza di un principio di libertà inteso come «non mancanza di fede, ma modo di vivere una fede, un orientamento filosofico o ideale in termini non integralistici».

(Avvenire, 16 febbraio 2019)


Noa: "No Baby" è il suo nuovo video

Da oggi è online il video di "No Baby", primo singolo estratto da "Letters To Bach" (Believe International), il nuovo progetto discografico di Noa in uscita il 15 marzo. Il video, animato da Guy Hirsch.
Noa, una delle voci internazionali più emozionanti, è un'artista unica capace di cambiare ed evolversi in ogni progetto, mantenendo sempre il suo tratto distintivo elegante e raffinato.
Un disco prodotto dal leggendario Quincy Jones, in cui Noa riprende 12 brani musicali del compositore tedesco Johann Sebastian Bach e li arricchisce con le sue parole, grazie ai testi in inglese ed ebraico, ispirati a temi che spaziano dalla sfera personale a una più universale.
Gli arrangiamenti per chitarra sono stati realizzati da Gil Dor, collaboratore con cui lavora ormai da anni. Un musica che va oltre i confini di genere musicale e della lingua, una musica capace di parlare al cuore delle persone e di emozionarle, creando un punto di contatto tra di loro.
Un omaggio al compositore tedesco unita alla capacità di sperimentare di un'artista che in 28 anni di attività ha saputo attraversare stili e argomenti, sempre in perfetta armonia tra di loro.

(Onda Musicale, 16 febbraio 2019)


Istituito integruppo su sport e antisemitismo, più attenzione a scuole e stadi

Negli ultimi mesi si sono susseguiti in maniera crescente fenomeni di violenza e intolleranza di matrice antisemita, sia in Italia che in Europa, per questa ragione è stato istituito l'intergruppo "Sport e lotta all'antisemitismo" promosso dai deputati del Movimento 5 Stelle Paolo Lattanzio, Felice Mariani e Antonio Zennaro e dalla vicepresidente della Camera Mara Carfagna, un progetto a cui sono stati invitati ad aderire tutti i parlamentari.
L'iniziativa nasce con l'obiettivo di portare concretamente nel mondo dello sport i valori di amicizia, cooperazione, collaborazione e inclusione, affrontando e superando recenti episodi di discriminazione e intolleranza che si sono verificati in tanti stadi e luoghi di aggregazione sportiva.
"Avvieremo tavoli di dialogo e progetti con le federazioni e le organizzazioni sportive, anche qui in Abruzzo, affinché le associazioni possano partecipare attivamente a questo contrasto all'odio e alla violenza" - spiega Antonio Zennaro. "Intendiamo dedicare maggiore attenzione agli spazi di incontro soprattutto giovanile, come scuole e stadi, che purtroppo sono ancora terreno fertile per il proliferare di idee antisemite. Lo sport nella sua complessità deve essere valorizzato come momento di aggregazione, di fratellanza e di complicità." - conclude il deputato Zennaro, tra i promotori dell'intergruppo.

(equonews, 16 febbraio 2019)


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