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Notizie 16-28 febbraio 2021


Israele vaccinerà tutti entro marzo

55 per cento. E' la quota di israeliani che è stata vaccinata: in valori assoluti sono oltre 4,5 milioni di persone

Più di un cittadino su due: il 55% della popolazione. Vale a dire più di 4,5 milioni di persone vaccinate. Il modello Israele è quello a cui guarda il mondo per la capacità di immunizzare in tempi record la popolazione per fermare i contagi da Covid-19. Si vaccina di giorno e di notte. Nelle palestre così come nei bar. Nel Paese la campagna di vaccinazione è stata avviata insieme a un periodo di lockdown. Si è partiti dagli «over 80» e dalle categorie più a rischio, sanitari in primis. Scendendo poi con l'età. Secondo uno studio condotto su 1,2 milioni di " persone, e pubblicato sul New England Journal of Medicine, il vaccino Pfizer è risultato efficace al 94%. «E la prima prova convalidata dell'efficacia di un vaccino nelle condizioni del mondo reale», ha detto Ben Reis, uno dei co-autori dello studio che conferma il ruolo cruciale delle campagne di vaccinazione. Un altro studio ha calcolato una diminuzione dei contagi già dopo la somministrazione della prima dose L'obiettivo è ora quello di iniettare la doppia-dose a tutta la popolazione entro fine marzo.

(Corriere della Sera, 28 febbraio 2021)


Gilles Kepel: "Il Medio Oriente è cambiato"

Nel 2020 crollo del petrolio e pandemia hanno stravolto la geopolitica dell'area. Come spiega il grande intellettuale francese.

di Anais Ginori

"La combinazione tra pandemia e crollo del petrolio ha provocato un cataclisma in Medio Oriente". Il 2020 è stato un anno di svolta nella regione più tormentata del pianeta come racconta l'intellettuale Gilles Kepel nel nuovo saggio Il Profeta e la pandemia appena pubblicato da Gallimard e in corso di traduzione da Feltrinelli. Rispetto al suo precedente libro, Uscire dal caos, nel quale tornava su mezzo secolo di storia della regione, Kepel firma adesso quasi un instant book, presentando la cronologia degli eventi del 2020 - dagli Accordi di Abramo alle nuove tensioni nel Mediterraneo - in una documentata analisi e una vasta cartografia. "Quello che mi ha affascinato è l'importanza degli sconvolgimenti geopolitici concentrati in un unico anno. Credo che nessuno li abbia ancora raccontati con la giusta prospettiva".
  Docente all'École Normale Supérieure e all'università italiana di Lugano, Kepel è ormai un punto di riferimento fisso nel dibattito francese sull'Islam. Viene citato sia da Emmanuel Macron che da Marine Le Pen. "Spesso a sproposito" aggiunge lui dopo che la leader dell'estrema destra si è appropriata di alcune sue teorie. Descrivendo i nuovi equilibri nel Medio Oriente lo studioso arriva fino alla Francia, ai recenti attentati, dall'attacco al professore Paty alla basilica di Nizza. La minaccia è ora secondo Kepel il "jihadismo di atmosfera", terroristi autoproclamati che non rispondono a una organizzazione strutturata ma seguono "fomentatori della rabbia come il presidente turco Recep Tayyip Erdogan".

- La prima data chiave del 2020 è il 6 marzo. Perché?
  "È la riunione a Vienna dell'Opec +1, nella quale l'Arabia saudita e la Russia, il secondo e terzo produttore mondiale, decidono di far scendere i prezzi del petrolio per combattere l'egemonia che l'America ha riconquistato sul mercato. Il patto tra Riad e Mosca funziona ma non hanno immaginato l'effetto devastante della pandemia. Il prezzo del barile crolla molto di più di quanto avessero previsto, fino a 30 dollari in aprile. Putin riesce nella sua operazione ma con un costo economico e sociale considerevole sul Medio Oriente e il Nord Africa".

- Quali sono le conseguenze politiche?
  "È secondo me uno degli elementi chiave per capire perché gli Emirati arabi avviano il dialogo con Israele per concludere i Patti di Abramo. Le petro-monarchie capiscono che devono cominciare a proiettarsi in un mondo post-petrolio e quindi investire ed appoggiarsi sulle tecnologie israeliane. La pandemia funziona da acceleratore negli equilibri del conflitto israelo-palestinese che avevano già cominciato a modificarsi e porta a quello che ho chiamato, con una citazione indiretta della prima guerra mondiale, la "Triplice fratello-sciita", ovvero l'intesa fra Turchia, Qatar e, per la prima volta, l'Iran".

- Un'alleanza che spezza la tradizionale contrapposizione tra sunniti e sciiti?
  "Sono convinto che sia una contrapposizione ormai superata. L'asse tra Turchia, Qatar e Iran dimostra che non vale più la dimensione del nazionalismo arabo. Al tempo stesso, nel mondo sunnita la nuova linea di conflitto è tra chi è vicino o contrario ai Fratelli musulmani, che sono il collante del Qatar, della Turchia, ma anche - e molti lo ignorano - un modello intellettuale che ha ispirato i rivoluzionari iraniani".

- Accanto alla "Triplice" qual è l'altro blocco?
  "Di pari passo, si crea un blocco molto più vasto tra America, Israele, Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco. Uno degli effetti più sorprendenti, ad esempio, è che Benjamin Netanyahu potrebbe essere rieletto grazie al voto degli ebrei di origine marocchina. La monarchia di Rabat ha fatto un colpo da maestro poiché, in cambio del riconoscimento di Israele, ha ottenuto la sovranità sul Sahara occidentale. È uno dei tanti casi di come ognuno abbia cercato di trarre il massimo vantaggio da questa fase di disordine".

- Come ha fatto Erdogan?
  "Per lui la data cruciale è il 24 luglio 2020 quando inaugura la preghiera del venerdì nell'antica basilica bizantina di Santa Sofia, riconsacrata al culto musulmano. Erdogan cancellando il gesto di Atatürk, seppellisce il laicismo kemalista e riesuma il califfato ottomano. E sceglie di farlo proprio nell'anniversario del trattato di Losanna che disegnava le frontiere della giovane repubblica turca alla fine della prima guerra mondiale. In un colpo solo Erdogan combina il turbante e la spada, per affermare le sue pretese neo-imperialiste, come aveva già cominciato a fare mandando i suoi soldati in Libia o in Siria, le sue navi a cercare gas nelle acque greche e cipriote. Tutto questo approfittando del disimpegno dell'America di Donald Trump".

- E di un'Europa divisa?
  "Dobbiamo renderci conto che il Mediterraneo è diventato la regione più esplosiva del Pianeta. Erdogan non è stato fermato dall'Ue perché può esercitare il ricatto dei flussi migratori e si fa forte della sua appartenenza alla Nato, anche se poi compra missili russi. La Germania lo teme perché può manipolare a distanza i voti di una forte comunità turca. L'Italia non vuole guastare il forte export verso la Turchia. Ora lo scenario cambia con l'arrivo del presidente Biden. Gli Stati Uniti saranno più esigenti sia sul comportamento all'interno della Nato che sul rispetto dei diritti umani. Erdogan l'ha capito e ha già cominciato a riposizionarsi".

- Come?
  "Dopo essersi trasformato in una replica dall'ayatollah Khomenei con la sua fatwa, non contro Salman Rushdie, ma contro il giornale francese Charlie Hebdo e poi Emmanuel Macron, il leader turco sta tentando di riaprire un canale di comunicazione con la Francia. Non a caso ha mandato a Parigi come nuovo ambasciatore un diplomatico turco che ha studiato all'Ena, la stessa scuola di Macron".

- La Russia aveva già conquistato un ruolo di primo piano in Medio Oriente. La novità del 2020 è una presenza sempre più forte della Cina?
  "C'è un dato globale: Pechino ha vinto la terza guerra mondiale senza sparare un colpo. È la potenza mondiale che esce più rafforzata dalla pandemia e ha usato l'onda di destabilizzazione per avanzare le sue pedine anche in Medio Oriente. Prendiamo l'Iran, paese al tracollo tra le sanzioni Usa e una pandemia particolarmente grave. La Cina ha proposto al regime di Teheran un trattato di investimenti pari a 400 miliardi di euro. Per adesso è stato fermato a sorpresa dall'ex presidente Mahmud Ahmadinejad che l'ha giudicato troppo rischioso. Ma non sappiamo cosa succederà in futuro. Intanto i vaccini cinesi sono distribuiti a molti governi della regione, come in Marocco. E vediamo che nelle petro-monarchie c'è una fascinazione per il modello cinese in quanto rappresenta un misto di sviluppo economico e assenza di democrazia".

(la Repubblica, 28 febbraio 2021)


Gasdotto israeliano per Gaza, pagano Qatar e Ue. Hamas tace e ringrazia

Doha e Bruxelles finanzieranno una estensione del gasdotto israeliano che dal giacimento Leviatano arriverà fino alla centrale elettrica di Gaza. Intanto resta inutilizzato il gas palestinese scoperto al largo della Striscia.

di Michele Giorgio

 
GERUSALEMME - «Ognuno avrà il suo tornaconto. Israele ci venderà il suo gas e vedrà Gaza più autonoma e separata dalla Cisgiordania, il Qatar dirà di aver aiutato la popolazione civile e gli europei si sentiranno con la coscienza a posto mentre noi restiamo sotto blocco (israeliano). Hamas intanto ringrazia». Rievoca le finalità dell'«Accordo del secolo» di Donald Trump il giornalista Tareq Hijazi commentando la prossima costruzione di un gasdotto da Israele alla Striscia di Gaza che dovrebbe mettere fine alla crisi energetica che paralizza questo fazzoletto di terra palestinese. L'umanitario che materializza i disegni politici dei più forti è uno dei pilastri del «piano di pace» per israeliani e palestinesi presentato dall'ex presidente americano. E non è detto che la nuova Amministrazione Usa lo abbandoni del tutto.
   Gaza disperata, stretta nel blocco israeliano da oltre dieci anni, quasi priva di acqua realmente potabile, con poche ore di elettricità al giorno, con livelli di disoccupazione record, ha bisogno di tutto. Di conseguenza, spiega Tareq Hijazi, «tanti hanno applaudito all'annuncio che il gasdotto si farà. Anche se compreremo il gas da Israele e non potremo usare il nostro, che è proprio qui davanti a noi, al largo di Gaza, inutilizzato da quasi trent'anni». Il via libera al progetto è apparso due giorni fa sul sito del ministero degli esteri del Qatar. Doha, che con aiuti finanziari per centinaia di milioni di dollari da anni garantisce l'ossigeno che fa respirare Gaza e puntella il potere di Hamas, ha annunciato che finanzierà con almeno 60 milioni di dollari la costruzione del gasdotto, da completare entro il 2023.
   Il gas proveniente dal giacimento sottomarino israeliano Leviatano pertanto arriverà a Gaza grazie ai milioni del Qatar. E non è marginale che Doha, che non ha approvato la recente normalizzazione arabo-israeliana (Accordo di Abramo), si prepari a investire nello Stato ebraico con cui formalmente non ha rapporti. L'Unione europea invece finanzierà i lavori dal lato di Gaza. Per il governo dell'Autorità nazionale palestinese non c'è un ruolo di primo piano, oltre alle firme e ai timbri sui documenti ufficiali. Ma fa buon viso a cattivo gioco. «L'annuncio è un'ottima notizia, il gasdotto risolverà il problema dell'elettricità a Gaza», ha commentato il premier Mohammed Shttayeh.
   Il gas raggiungerà l'unica centrale di Gaza alimentata con il gasolio industriale, costoso e inquinante, e al momento in grado di coprire solo un terzo del fabbisogno di elettricità. In questo modo dovrebbe raddoppiare, forse quadruplicare, la sua capacità. All'inizio i palestinesi acquisteranno da Israele 0,2 miliardi di metri cubi di gas all'anno che saliranno a un miliardo con l'espansione del progetto. Qualche giorno fa l'Ue ha stanziato i primi cinque dei 20 milioni di euro per la porzione di gasdotto all'interno di Gaza lunga quattro chilometri. Il segmento israeliano si estenderà per 45 chilometri. L'aumento del flusso energetico potrebbe garantire un miliardo di dollari al Pil palestinese.
   Grazie al Leviatano Israele già esporta gas in Giordania e in Egitto. Ora si aggiunge Gaza e in un futuro non lontano sarà il turno della Cisgiordania, stando a intese di cui si parla da tempo. Per Tel Aviv i vantaggi politici e di sicurezza sono evidenti. Le chiavi della fornitura sono nelle mani di Israele e Hamas, al di là dei suoi proclami battaglieri, dovrà evitare frizioni e scontri altrimenti il flusso del gas per Gaza rischierà l'interruzione. Un punto sul quale, ci si può giurare, hanno battuto i generosi donatori qatarioti (ed europei).

(il manifesto, 28 febbraio 2021)


Israele-Giordania: incontro "segreto" tra il ministro della Difesa Gantz e re Abdullah II

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz avrebbe recentemente incontrato in segreto il re di Giordania, Abdullah II. Lo riferisce oggi il sito di notizie israeliano "Ynet", senza citare fonti. L'incontro tra il leader del partito Blu e bianco con il re Abdullah II sarebbe avvenuto in territorio giordano, ma non si conosce la data della riunione. Venerdì scorso, riporta il quotidiano israeliano "The Times of Israel", Gantz ha parlato durante un evento su Zoom con gli attivisti del suo partito dei suoi contatti con la Giordania e ha criticato il rapporto del primo ministro, Benjamin Netanyahu, con Amman. "Penso che la Giordania sia una grande risorsa per Israele e penso che il nostro rapporto con la Giordania potrebbe essere 1.000 volte migliore. Sfortunatamente, Netanyahu è una figura indesiderata in Giordania e la sua presenza danneggia le relazioni tra i Paesi", ha detto Gantz. Il ministro della Difesa ha aggiunto: "Ho un contatto continuo con il re giordano e altri alti funzionari giordani e so che possiamo ottenere grandi risultati", ha detto. "Credo che sia possibile fare uno o due progetti civili ogni anno con la Giordania, ed entro 10 anni realizzarne fino a 20 o 30 progetti" per migliorare le relazioni con il Paese vicino, ha spiegato.
   Il quotidiano ricorda come il capo dell'esecutivo abbia provocato malumori tra i suoi partner della coalizione lo scorso anno tenendoli ripetutamente all'oscuro delle sue mosse diplomatiche con altri Paesi. Il riferimento è ai negoziati condotti da Netanyahu che hanno portato agli accordi di normalizzazione con Emirati Arabi Uniti e Bahrein e al successivo accordo con il Marocco, e al viaggio segreto a Neom, in Arabia Saudita, dove avrebbe incontrato il principe ereditario, Mohammad bin Salman. Giordania e Israele condividono forti legami di sicurezza, ma le relazioni politiche si sono inasprite di recente a causa delle politiche di Israele nei confronti dei palestinesi e del Monte del Tempio a Gerusalemme, che è sotto la custodia della Giordania.

(Agenzia Nova, 28 febbraio 2021)


Gli Usa vogliono tornare nel Consiglio per i diritti umani dell'Onu

di Ugo Volli

Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha annunciato mercoledì che gli Stati Uniti hanno presentato domanda di riammissione al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC). Parlando in un video discorso alle Nazioni Unite, Blinken ha detto all'organismo mondiale: "Sono lieto di annunciare che gli Stati Uniti cercheranno l'elezione al Consiglio dei diritti umani per il mandato 2022-24. Chiediamo umilmente il sostegno di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite nel nostro tentativo di tornare a un seggio in questo organo ()". E' l'ultima mossa di politica internazionale dell'amministrazione Biden, ormai in carica da un mese. Vale la pena di ricordare che del Consiglio fanno parte, oltre a qualche stato normale, campioni dei diritti umani come Cina, Costa d'Avorio, Cuba, Libia, Uzbekistan, Venezuela; che il suo alto commissario è Michelle Bachelet, implacabile nemica dell'Occidente e di Israele, che a partire dal 2006 l'UNHRC ha adottato più di 80 risoluzioni contro Israele (le trovate tutte elencate qui, sul sito ufficiale), che ha deciso anni fa di uscire dal Consiglio, seguiti due anni fa dagli Stati Uniti di Trump. Ora Biden "chiede umilmente" di rientrarvi, di seguito alla decisione di cercare di rientrare nel pessimo accordo del 2015 che ha rafforzato l'imperialismo iraniano senza arrestare la sua corsa alla bomba atomica, a quella di non fornire gli armamenti convenuti agli Emirati Arabi, boicottando così gli "Accordi di Abramo, o di smettere di appoggiare l'Arabia Saudita nella sua resistenza alla ribellione filoiraniana dello Yemen. Insomma le peggiori ipotesi pre-elettorali si avverano: l'amministrazione Biden è un terzo mandato di Obama senza neanche il glamour originale e la visione strategica (sbagliata ma fresca) del penultimo presidente. Puro ritorno dei fantasmi del passato, con tutta la puzza di marcio delle merci vecchie andate a male. Sarà molto difficile per Israele resistervi, ci vorrà tutta l'abilità e l'esperienza di Netanyahu. Ammesso che riesca a farsi rieleggere.

(Shalom, 28 febbraio 2021)


L'Anna Magnani d'Israele

Arriva in Italia «L'estate di Aviha», il libro in cui la grande attrice racconta la sua infanzia e i dolori di una generazione sfuggita ai lager, ma non ai traumi dei genitori.

di Cristina Battocletti

Anna Magnani
Gila Almagor aveva quarantotto anni quando si calò nei panni di sua madre nel film L'estate di Aviha (1988), tratto dall'omonimo bestseller a firma della stessa attrice israeliana. Quella che viene considerata l'Anna Magnani d'Israele ha dovuto aspettare la giusta distanza per recitare forse la parte più difficile della sua carriera costellata di successi, a partire dal suo esordio folgorante a diciassette anni con la La famiglia Antrobus di Thornton Wilder a teatro, fino a Munich per la regia di Steven Spielberg nel 2005.
   Ha dovuto rafforzare la sua impalcatura di donna e consolidare la sua identità artistica, piena di riconoscimenti in patria (per dieci volte ha vinto il Kinor David, il Donatello israeliano), e mettere nero su bianco Hakayitz shel Aviya, L'estate di Aviha, storia della sua infanzia e della malattia mentale della madre. Era il 1985 e il libro ebbe un successo immediato, fu adottato nelle scuole e trasposto in pellicola per la regia di Eli Cohen tre anni dopo. Il film però non restituisce il senso di sottrazione percepita tra le pagine del libro, oggi disponibile nella versione italiana per Acquario. Un volumetto snello che si legge in un sorso, come tutte le pubblicazioni di questa neonata e piccola casa editrice di alto artigianato. Nella pellicola sembra quasi che il regista si sia trovato in difficoltà a maneggiare una materia incandescente e si sia tenuto sul bordo della narrazione per non scottarsi. Avrebbe fatto bene Cohen a prendersi qualche libertà in più, perché la regia non è all'altezza delle notevoli interpretazioni delle due protagoniste, grazie a cui vinsero a Berlino l'Orso d'argento nel 1989. Kaipo Choen, Gila da piccola (anche se nel film il suo nome è Aviha, letteralmente Figlia di...), è massiccia nella sua magrezza e nell'imporre la sua presenza necessaria. Sa essere indomita, ostinata, passionale e sensibile quanto la stessa Gila doveva essere stata a quell'età. Il lavoro di Almagor è ancora più monumentale: pesca nella memoria personale e riesce a restituire senza retorica la figura materna nei cambi repentini d'umore, negli inneschi delle crisi isteriche e insieme la capacità di essere lucida e farsi leonessa, quando la figlia è in pericolo.
   Il film divenne emblematico per l'effetto di "terapia di gruppo" a beneficio della generazione dei sopravvissuti all'Olocausto, che, una volta arrivati nella Terra promessa, sentirono sulle proprie spalle un clima di sospetto, quando non addirittura la derisione da parte dei sabra, gli ebrei nati in Israele. Un atteggiamento crudele, esplicitato anche nel bel libro I bambini di Moshe (Einaudi, 2018), di Sergio Luzzatto, che ricorda l'espressione sabon, saponette, con cui venivano apostrofati i sopravvissuti. Il libro, L'estate di Aviha, ha una prosa comprensibile e piana, al servizio di un argomento combustibile, come può esserlo quello di una bambina costretta a passare gran parte del tempo in un villaggio-scuola insieme ai figli di immigrati e superstiti della Shoah. Almagor esplicita il fantasma dell'Olocausto attraverso il nomignolo Partizunke con cui veniva dileggiata la madre, nata in Polonia e poi emigrata in Israele, alludendo a un suo impegno nelle file della Resistenza.
   Su questa circostanza Almagor è tornata scrivendo nel 1992 un secondo libro autobiografico, Etz Ha-Domim Tafus, di cui nel 1995 Cohen realizzò un'ulteriore trasposizione cinematografica. Almagor chiarisce dettagli importanti, che rendono ancora più feroce la sua esperienza, circostanziati nell'edizione italiana nelle pagine finali a cura di Paola M. Rubini, anche traduttrice. Questo permette di non distrarre il lettore dall'urgenza e dalla verità della narrazione, dal rapporto di sostegno e di amore reciproco che si estrinseca tra le righe, senza essere formulato razionalmente dall'autrice. In ogni frase, ben soppesata, si sente la necessità di liberazione e insieme di pietà per la madre da parte di una ragazzina già mutilata dalla perdita del padre, un poliziotto di origini tedesche rimasto ucciso in Israele poco prima della nascita della figlia.
   L'estate di Aviha si inserisce nel filone letterario tracciato dai figli dei sopravvissuti, che ragiona sulle conseguenze de relato della persecuzione nazista. Forse l'esempio più delicato e dolente di questo tipo di riflessione rimane Lezioni di tenebra (Guanda, 1997) di Helena Janeczek, che non a caso ha confermato la sua abilità di narratrice vincendo poi lo Strega. Da poco, è uscita in Israele l'autobiografia di Galia Oz, secondogenita dello scrittore Amos, Qualcosa mascherato da amore, in cui denuncia le violenze psicologiche del padre, a sua volta colpito dal suicidio della madre, su cui ha scritto Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli, 2002). Gila Almagor, pseudonimo di Gila Alexandrowitz, ha convertito la sua profonda sofferenza in arte e in beneficenza attiva con una sua fondazione volta ad aiutare i bambini con malattie terminali. Continuare a recitare è il suo antidoto contro la morte e il male, imparato sin da bambina, come si intuisce già dalle prime pagine di questo intenso libro.

(Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2021)



Il quinto comandamento: Dio vuole essere onorato nei genitori
    «Onora tuo padre e tua madre, come l'Eterno, l'Iddio tuo, ti ha comandato, affinché i tuoi giorni siano prolungati, e tu sia felice sulla terra che l'Eterno, l'Iddio tuo, ti dà» (Deuteronomio 5:16).
Le questioni d'onore non godono oggi di buona fama. La qualifica di «uomo d'onore» non attira più nessuno; e quando si dice che «tutto è perduto fuorché l'onore», si vuol dire che proprio non si è riusciti a salvare niente. Le sole forme d'onore tuttora ambite sono quelle che si traducono nel potere politico di un posto di «onorevole» al Parlamento o nel valore economico dell'«onorario» di un libero professionista.
   Oggi si preferisce parlare di «rispetto» e «stima». Sono termini che in molti casi possono anche essere usati come sinonimi di «onore»; ma nell'uso corrente si sottintende che chi accorda stima e manifesta rispetto, lo fa sulla base di una sua propria valutazione. La persona viene letteralmente «stimata», cioè soppesata e valutata, prima di essere oggetto di quell'opinione favorevole che è la stima. E quanto
   al rispetto, si usa dire che «chi lo vuole se lo deve meritare».
   I genitori non fanno eccezione: se non si comportano in modo adeguato, perdono il diritto al rispetto e possono essere disprezzati.
   Ma il quinto comandamento esclude questa possibilità. Il motivo per cui la madre e il padre devono essere onorati non risiede nelle loro azioni, ma nelle azioni e nella volontà di Dio.
    «Rispetti ciascuno sua madre e suo padre, e osservate i miei sabati. Io sono l'Eterno, l'Iddio vostro» (Levitico 19:3).
Nel quinto comandamento è in gioco l'onore di Dio, e non solo quello dei genitori. Dio ha voluto darmi la vita attraverso due precise persone: ad esse dunque sono vincolato da un rapporto unico, dipendente soltanto dalla volontà di Colui che mi ha creato. Questa volontà di Dio, espressa nel mettermi al mondo attraverso i miei genitori, si esprime anche in una parola che mi è rivolta e mi dice:
    «Ascolta tuo padre che ti ha generato, e non disprezzare tua madre quando è vecchia» (Proverbi 23:22).
Non è dunque questione di gusti o di simpatie o di identità di vedute: i genitori devono essere onorati per il solo fatto che sono i genitori: se disprezzo loro, disprezzo la mia stessa vita e Colui che me l'ha data.
    «Maledetto chi disprezza suo padre e sua madre. E tutto il popolo dirà: Amen» (Deuteronomio 26:16).
Oltre al motivo che oggi diremmo (con linguaggio riduttivo) «biologico», per Israele c'era anche un motivo «storico» per osservare il quinto comandamento. I figli avevano l'obbligo di ascoltare i genitori e tenerli in grande considerazione perché attraverso di loro venivano a conoscere le azioni potenti operate da Dio nel passato e le sue promesse per il futuro. Inoltre, i genitori dovevano trasmettere ai figli tutti i precetti che Dio aveva ordinato e che il popolo doveva osservare se voleva «prolungare i suoi giorni ed essere felice» sulla terra che Dio gli aveva lasciato in dono.
    «Ricordati dei giorni antichi, considera gli anni delle età passate, interroga tuo padre, ed egli te lo farà conoscere, i tuoi occhi, ed essi te lo diranno» (Deuteronomio 32:7).
    «Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandamenti che oggi ti do, affinché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te, e affinché tu prolunghi in perpetuo i tuoi giorni nel paese che l'Eterno, l'Iddio tuo, ti dà» (Deuteronomio 4:40).
I genitori sono dunque i custodi di una promessa di Dio: una promessa di felicità anche per i loro figli. Questo implica per i genitori una responsabilità davanti a Dio: a loro compete l'incarico di trasmettere ai figli, perché le osservino e siano felici, le parole di Dio.
    «Prendete a cuore tutte le parole con le quali testimonio oggi contro di voi. Le prescriverete ai vostri figli; onde abbian cura di mettere in pratica tutte le parole di questa legge. Poiché non è una parola senza valore per voi: anzi, è la vostra vita; e per questa parola prolungherete i uostri giorni nel paese del quale andate a prendere possesso, passando il Giordano» (Deuteronomio 32:45- 47).
L'esplicita menzione della promessa di Dio ha fatto sì che il quinto comandamento venisse chiamato «il primo comandamento con promessa» (Efesini 6:2). Se il comandamento protegge i genitori, i quali hanno ricevuto l'incarico di trasmettere ai figli la vita e le parole di Dio, la promessa protegge i figli, mettendo in risalto che Dio vuole la loro felicità, e non la loro cieca e assoluta subordinazione.
   Davanti a disposizioni di Dio riguardanti due parti, come nel caso di genitori-figli, mariti-mogli, padroni-servi, autorità-cittadini, ci si chiede subito che cosa bisogna fare quando una delle due parti viene meno al suo dovere. Poiché il quinto comandamento si rivolge ai figli, e particolarmente ai figli adulti, è necessario dire con chiarezza che nulla, assolutamente nulla, può esimere un figlio dall'onorare i suoi genitori. Si tratta soltanto di capire che cosa significa «onorare».
   Onorare qualcuno significa riconoscere l'importanza del posto che occupa e del ruolo che è chiamato a svolgere nella comunità, e adoperarsi affinché il compito legato a tale ruolo sia svolto nel migliore dei modi.
   I miei genitori sono e restano coloro che mi hanno comunicato la vita. Se sono persone che temono il Signore, mi hanno anche comunicato le parole e la volontà di Dio. Per questi fatti, indipendentemente da ogni altra circostanza, a me spetta di rendere loro il dovuto onore. Nessuna parità di ruoli sarà mai possibile, e tanto meno nessuno scambio di ruoli. Nel Vecchio Testamento il padre poteva maledire il figlio, ma non viceversa:
    «Chi maledice suo padre o sua madre deve essere messo a morte» (Esodo 21:17).
Se ho incontrato il Signore vivente, se lo ringrazio della vita che mi ha data, allora devo ringraziarlo anche dei miei genitori, senza chiedermi se se lo meritino o no. Non è detto che i figli adulti debbano sempre ubbidire, e neppure che debbano per forza sentire particolari trasporti affettivi per i loro genitori; ma a loro è vietato proprio ciò che è più diffuso, cioè il dire male dei genitori, perché «dire male» è molto simile a «maledire». I figli possono anche incamminarsi per strade non approvate dai genitori, ma non hanno il diritto di giudicare, e tanto meno di disprezzare, il padre e la madre. Anche nel caso di vedute differenti, i figli dovranno fare in modo di non offuscare l'immagine dei genitori. L'osservanza del comandamento non dipende dal comportamento dei genitori, ma dalla volontà di Dio. Niente, quindi, può giustificare il disprezzo per il padre e la madre.
   In un passato non molto lontano si è parlato molto di contestazione giovanile e di conflitto tra generazioni. Adesso che l'ondata è passata, può essere facile demolire tutto e compiacersi dei fallimenti di quei movimenti giovanili. Se però analizzassimo con attenzione e onestà i vari tipi di contestazione che si sono susseguiti, dovremmo riconoscere che in molti casi i giovani avevano ragione. Quanti veli si alzarono in quegli anni di contestazione, e quanti spettacoli pietosi offrirono gli adulti! Tuttavia, anche se i giovani avessero avuto ragione in tutto, in una cosa certamente non avevano ragione: nel disprezzare padre e madre. Giudizi taglienti, inesorabili, definitivi si abbattevano da tutte le parti sui genitori. Certo, non fu così in tutti i casi, ma l'atmosfera generale era quella.
   Quei movimenti non ebbero alcun seguito, e la cosa non sorprende: non ci può essere «felicità e lunga vita» là dove vengono calpestati e irrisi gli istituti fondamentali che Dio ha posto a fondamento della società umana. Ma ciò che fa riflettere è che, in molti casi, quelli che una volta erano giovani rimproverano oggi ai loro genitori di non essere stati proprio ciò che allora contestavano, cioè dei genitori veri, capaci anche di essere autoritari se necessario, ma consapevoli di avere qualcosa da trasmettere, da inculcare, pronti ad affrontare ogni resistenza pur di svolgere il loro compito. La responsabilità fu dunque anche dei genitori, certamente. Ma questo non giustifica i figli. Chi disprezza padre e madre per i loro errori, si espone al giudizio di Dio, che non sopporta che i figli prendano, con senso di superiorità, le distanze dai loro genitori. Se si vuole evitare che le colpe dei padri ricadano sui figli (Deuteronomio 5:9), l'unico modo è quello di «vincere il male col bene» (Romani 12:21): si tratta cioè di rispondere all'eventuale comportamento riprovevole del genitore con un maggiore impegno nel manifestargli quel riconoscimento e quel rispetto che competono alla sua posizione di genitore. Solo così un figlio può impedire al male di espandersi e di trasmettersi anche a sé stesso, e può aiutare il genitore a diventare degno del ruolo che Dio gli ha dato.
   Una sera, in una grande città, un gruppo di giovani s'imbatté in un ubriaco che stentava a restare sulle sue gambe. Subito si radunarono intorno a lui e cominciarono a sghignazzare e a divertirsi alle sue spalle. Improvvisamente arrivò un altro giovane: si fece largo e, preso l'ubriaco sotto l'ascella, lo portò via. «E' mio padre», spiegò. Quel padre non si trovava certamente in una posizione degna di rispetto, ma quel figlio seppe osservare ugualmente il quinto comandamento.
   Un aspetto molto concreto dell'onore dovuto ai genitori consiste nel dovere di prendersi cura di loro quando sono vecchi. Come Dio protegge i bambini nella loro debolezza e incapacità, affidandoli ai genitori, così protegge i vecchi, che sovente sono altrettanto deboli e incapaci, affidandoli ai figli. E come i genitori devono prendersi cura dei loro bambini senza chiedersi se sono belli o brutti, così i figli devono prendersi cura dei loro genitori senza chiedersi se se lo meritano o no.
   L'Iddio che mi ha dato la vita mi ordina di prendermi cura di coloro attraverso i quali ho ricevuto la vita. E facendo questo non compio un atto facoltativo, degno di particolare lode, ma un atto dovuto, perché rendo il contraccambio di ciò che ho ricevuto quando ero bambino.
    «Ma se una vedova ha figli o nipoti, siano loro i primi a mostrarsi pii verso la propria famiglia e a rendere il contraccambio ai loro genitori, poiché questo è gradito davanti a Dio» (I Timoteo 5:4).
L'opinione corrente è che i figli non sono tenuti a dare nulla ai loro genitori, perché non hanno chiesto di essere messi al mondo. Così, mentre da una parte i figli rendono responsabili i genitori della vita che hanno, dall'altra rivendicano il diritto di appropriarsi di questa vita e di spenderla come meglio credono, senza sentirsi in debito con nessuno. Proprio un atteggiamento come questo, così diffuso, cosi «normale», manifesta chiaramente la ribellione dell'uomo verso Dio. La vita che abbiamo, in realtà, non ci viene dai genitori, ma da Dio. È Dio che lega insieme genitori e figli; e quindi ogni volta che si parla di genitori si ha a che fare con Dio. Se vogliamo onorare Dio e manifestargli gratitudine per la vita che ci ha data, dobbiamo onorare i nostri genitori, assistendoli nelle loro necessità materiali e spirituali, «poiché questo è gradito davanti a Dio».
    «Se uno non provvede ai suoi, e in primo luogo a quelli di casa sua, ha rinnegato la fede, ed è peggiore di un incredulo» (I Timoteo 5:8).
Ma questi vecchi, con tutte le loro pretese, con la loro mentalità legata al passato, con le loro necessità talvolta opprimenti, non rischiano forse di soffocare la vita delle giovani generazioni e di impedire la loro felicità? Non hanno forse diritto, i giovani, a vivere la loro vita? Come si può notare, il collegamento tra genitori e vita è chiaramente avvertito in queste domande. Solo che i due termini vengono messi in contrapposizione: o i genitori o la propria vita felice. Il quinto comandamento invece fa esattamente il contrario: accosta i due termini e li fa dipendere l'uno dall'altro: per avere una vita felice bisogna onorare i genitori.
    «Onora tuo padre e tua madre ... affinché tu sia felice e abbia lunga vita sulla terra» (Efesini 6:2).
I comandamenti di Dio possono anche essere trasgrediti, ma è da pazzi pensare che ciò possa avvenire senza conseguenze. Se ci sentiamo oppressi e infelici, invece di andare dallo psicologo sarebbe meglio che ci specchiassimo nella legge di Dio e ci chiedessimo, tra l'altro, di che tipo sono i rapporti con i nostri genitori. I comandamenti di Dio non sono un'opinione, né una semplice proposta: chi disonora padre e madre disonora l'Iddio che ha dato il quinto comandamento, e quindi non può sperare di avere una vita felice e benedetta.
   Ma Gesù non ha forse detto: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me» (Matteo 10:37)? Non ci sono forse dei limiti all'onore che si deve dare ai genitori?
   La Scrittura è sempre molto realista, quindi non disconosce la possibilità di conflitti tra genitori e figli, causati qualche volta proprio dal messaggio di Gesù Cristo. Ma è chiaro che, posti davanti a un bivio, non è possibile scegliere i genitori in alternativa a Colui che ha dato il comandamento sui genitori. Chi segue Gesù contro il volere del padre e della madre, non per questo li disonora, ma accetta con serenità e speranza il fatto che essi non sanno ancora riconoscere il suo desiderio di onorarli profondamente in Dio.
   Seguire Gesù significa allora, anche in questo caso, «prendere la propria croce» (Matteo 10:38), accettare cioè la sofferenza di questa incomprensione e far di tutto per manifestare amore e rispetto anche e proprio quando non è possibile seguire i genitori nella loro volontà.
   Il quinto comandamento, dunque, resta sempre valido, ma la felicità che esso promette passa, in questo caso, attraverso la «comunione delle sofferenze di Cristo» (Filippesi 3:10). E poiché quando « abbondano le sofferenze di Cristo, per mezzo di Cristo abbonda anche la consolazione» (I Corinzi 1:5), anche la promessa legata al comandamento conserva tutto il suo valore.
    «Il figlio saggio rallegra il padre, ma l'uomo stolto disprezza sua madre» (Proverbi 15:20).
(da “Le dieci parole”, di Marcello Cicchese)

 


Laboratorio Israele, centri itineranti e birre gratis per vaccinare tutti

Metà della popolazione già raggiunta

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Metà della popolazione israeliana (9,2 milioni) risulta già vaccinata con la prima dose, il 35% con la seconda. L'abbondanza di dati raccolti da quello che è definito un "laboratorio mondiale" sull'efficacia del siero Pfizer, ha portato alla prima pubblicazione scientifica su un campione di 1,2 milioni di persone (metà vaccinati e metà no), sulla rivista New England Journal of Medicine . I risultati mostrano come, a una settimana dal richiamo, vi sia un calo del 94% nei contagi sintomatici e del 92% nei ricoveri gravi. Rispetto al quesito se il vaccino sia efficace nella prevenzione dei contagi asintomatici, gli studi sono ancora in corso, ma «c'è un'indicazione che si possa parlare di efficacia al 92%», spiega a Repubblica il professore Ran Balicer, capo dell'unità ricerca di Clalit, che ha condotto lo studio con epidemiologi di Harvard.
   Clalit è la più grande delle quattro casse mutua che gestiscono la campagna vaccinazioni, determinanti per il successo dell'operazione. Sono enti semi-privati, in concorrenza tra loro, che ricevono sovvenzioni pubbliche in base al numero degli assicurati. «Hanno una rete logistica radicata capillarmente sul territorio e fondata sul rapporto diretto con il cittadino. Ci sono centri vaccinali in tutto il Paese, comprese postazioni itineranti che si spostano a seconda della necessità». Nell'ultima settimana, queste postazioni si trovano ovunque per intercettare gli scettici e i più pigri, da Ikea, ai mercati aperti, ai bar di Tel Aviv. L'iniezione si è trasformata in happening sociale: birra omaggio a chi si vaccina per accattivare i giovani, la tipica minestra cholent nei quartieri ultraortodossi e humus e knaffe in quelli arabi. Tra gli incentivi, spicca l'iniziativa della città di Safed, che offre un premio di 1000 euro a ogni classe che raggiunga il 90% di copertura vaccinale. E poi l'introduzione del "pass verde", che consente solo a vaccinati o guariti di assistere a eventi culturali e sportivi, accedere a palestre, hotel, piscine.
   Balicer spiega l'importanza della digitalizzazione del sistema, che consente di gestire in autonomia la prenotazione dei vaccini, ma anche di monitorare chi si è vaccinato e chi no. Nei giorni scorsi ha destato polemica l'approvazione della legge che consente di trasferire alle municipalità i dati di chi non si è ancora vaccinato, per accelerare la campagna di sensibilizzazione. Balicer parla poi di «agilità operativa», la capacità di convocare, in tempo reale, chi ancora non è stato vaccinato per usufruire di dosi residue a fine giornata.
   Le dosi non mancano in Israele, che aveva chiuso con largo anticipo contratti con Moderna e Pfizer. Per il premier Netanyahu, che si spinge a parlare di uscita dalla pandemia già ai primi di aprile, i vaccini sono il principale cavallo di battaglia in vista delle elezioni del 23 marzo, le quarte in due anni. E non solo sul fronte interno: Netanyahu ha tentato la strada della "diplomazia vaccinale", offrendo migliaia di dosi a una ventina di Paesi, tra cui alcuni che potrebbero considerare lo spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme o la normalizzazione delle relazioni, come Niger e Mauritania. Honduras e Guatemala hanno già prelevato 10 mila fiale con un volo mercoledì, ma non è chiaro cosa ne sarà delle altre promesse: l'iniziativa è stata sospesa ieri dopo l'intervento di Benny Gantz, ministro della Sicurezza, che ha accusato il premier di speculare su un bene di proprietà pubblica.

(la Repubblica, 27 febbraio 2021)


Esplosione in un nave israeliana nel Golfo. Dietro c'è l'Iran?

di Franco Londei

 
Una nave di proprietà israeliana viene colpita nel Golfo Persico e, secondo quasi tutti gli esperti, sarebbe stata attaccata dagli iraniani. Se venisse confermato sarebbe un atto gravissimo che meriterebbe una adeguata risposta
Ci sarebbe Teheran dietro all'esplosione che ieri ha colpito una nave israeliana che navigava nel Golfo Persico.
A sostenerlo sono funzionari israeliani che hanno chiesto l'anonimato e lo stesso armatore della nave.
Secondo Channel 12, che cita fonti informate, sarebbe stato un missile sparato da una nave iraniana a provocare l'esplosione.
Si ritiene tuttavia che gli iraniani non sapessero che la proprietaria della nave fosse di proprietà di una azienda israeliana. La nave colpita è la MV Helios Ray, un cargo da carico battente bandiera delle Bahamas che trasportava veicoli e in transito dall'Arabia Saudita a Singapore.
La proprietaria della nave è la Ray Shipping Ltd, una società con sede a Tel Aviv che fa capo ad Abraham Ungar, 74 anni, considerato uno degli uomini più ricchi di Israele.

 Una pericolosa ritorsione iraniana?
  Molti analisti sostengono che questa sia una pericolosa ritorsione iraniana dopo che aerei americani avevano bombardato obiettivi iraniani in Siria. Pericolosa perché dimostra che gli iraniani possono facilmente bloccare il traffico navale nel Golfo Persico, una eventualità che nessuno può permettersi.
Un gesto del genere, se provato, potrebbe quindi innalzare ulteriormente la tensione tra Stati Uniti e Iran nel Golfo Persico, sempre ammesso che Biden non voglia seguire la timorosa politica militare di Trump nei confronti dell'Iran. Gli Stati Uniti non possono infatti permettersi il lusso di lasciare a Teheran il controllo del più importante tratto di mare del mondo.
Per la cronaca l'Iran ha negato qualsiasi coinvolgimento con l'esplosione sulla nave israeliana anche se dopo l'uccisione di Mohsen Fakhrizadeh, il padre dell'atomica iraniana, gli Ayatollah hanno lanciato decine di minacce tra le quali c'era proprio quella di colpire navi israeliane nel Golfo Persico.
Le ultime volte che gli iraniani hanno compiuto atti di forza nel Golfo Persico, alcuni anche gravissimi, l'ex Presidente Trump non è mai andato oltre le minacce verbali, quasi fosse intimorito da Teheran. Ora vedremo se con l'Amministrazione Biden cambierà qualcosa.

(Rights Reporter, 27 febbraio 2021)


Le mani di Pechino su Israele. Il nuovo fronte di rivalità con Washington

La Shanghai International Port Group (SIPG), nell'ambito della Belt and Road Initiative, sta costruendo un nuovo terminal per container su un'area di 830mila metri quadrati, nel quale avrà diritto ad operare per 25 anni. Un'operazione che preoccupa gli Stati Uniti e che darà vita al "porto più avanzato del Mediterraneo". Ma da Washington suona il campanello d'allarme.

di Lorenzo Forlani|

Israele "sta diventando un obiettivo dell'espansionismo geo-economico della Cina", la quale "sta silenziosamente scavando un solco tra due partner strategici come Stati Uniti e Stato ebraico, che presto, quasi senza accorgersene, potrebbero ritrovarsi in disaccordo". Queste le allarmate parole che Blaise Mizstal, vice presidente del think thank Jewish Institute for National Security in America (Jinsa), con base a Washington, ha rilasciato a The Algemeiner, a margine della presentazione del rapporto realizzato dallo stesso Jinsa, dall'emblematico titolo "Countering Chinese Engagement with Israel".
   Che Pechino persegua una geopolitica indirizzata dall'ambizioso progetto di interconnessione globale della Belt and Road Initiative non è una novità, perché l'iniziativa coinvolge oltre una settantina di paesi. Quel che è passato finora sottotraccia è la potenziale centralità, nel quadrante asiatico del progetto, di Israele, principale alleato statunitense in Medioriente e goniometro delle sue politiche regionali.
   La presentazione del rapporto del Jinsa è arrivata quasi in contemporanea ad una notizia per certi versi inattesa, e che delinea un quadro problematico: lo scorso 1 febbraio, infatti, il quotidiano israeliano Haaretz ha rivelato che alla fine dello scorso anno Israele ha rigettato una richiesta americana di ispezionare il porto di Haifa.
   Washington, infatti, guarda con preoccupazione a quanto sta accadendo da un anno nella città costiera israeliana: accanto al vecchio porto cittadino, infatti, la Shanghai International Port Group (SIPG) sta costruendo un nuovo terminal per container su un'area di 830mila metri quadrati, il cui completamento è previsto per quest'anno, e nel quale avrà diritto ad operare per 25 anni. Sono già tre i miliardi di dollari investiti, per quello che, a sentire il presidente di Sipg in una conferenza di gennaio 2020 in Cina, sarà "il porto più avanzato del Mediterraneo, semi automatizzato, con tecnologie 5g ed in grado a pieno regime di far transitare 1,86 milioni di container annuali.
   Due aspetti, interconnessi, preoccupano gli Stati Uniti: le tecnologie di sorveglianza impiegate dai cinesi e la posizione del nuovo terminal, che si trova a meno di un chilometro dai moli della base militare israeliana in cui attraccano le navi americane della sua Sesta flotta, le quali potrebbero essere oggetto delle attività di raccolta di intelligence dei cinesi. Preoccupazioni che erano state in qualche modo già formalizzate lo scorso anno, con la presentazione in Senato americano - dove tuttora si trova - del National Defense Authorization Act for the fiscal year 2020, nel quale si menzionano esplicitamente "le serie preoccupazioni in termini di sicurezza rispetto agli accordi di leasing al porto di Haifa" e si invita il governo israeliano a "considerare le implicazioni di investimenti stranieri nel Paese".
   Da parte sua, il governo israeliano ha specificato che tecnicamente la Sipg è una venture company registrata in Israele, pur con capitali e stakeholders cinesi, ma la posizione dello Stato ebraico è in realtà più complessa, perché gli investimenti in questione riguardano settori strategici. Israele non può che beneficiare dell'allargamento del porto di Haifa: specie considerando la diminuita servibilità del porto di Beirut, colpito lo scorso agosto da una devastante esplosione, il progetto cinese promette di convogliare enormi volumi di commercio verso Israele, e come ricorda Altay Atli su The Diplomat, maggiore commercio significa creazione di interconnessioni e interdipendenze, che finiscono per rendere i costi di un conflitto più alti, dispiegando quindi un effetto di "induzione alla pace".
   Se per la Cina il progetto di Haifa si inserisce nella Belt and Road Initiative, per Israele la parola chiave è MAGIC: Mediterranean Arabia Gulf International Corridor. Il porto di Haifa come ingresso principale della connessione tra Israele, Giordania e paesi del Golfo, con una parte dei quali sono stati appena sottoscritti gli "Accordi di Abramo". Un tentativo, insomma, di rafforzare sul piano commerciale una convergenza geopolitica, anche se ad oggi manca l'intera infrastruttura stradale o ferroviaria per connettere i diversi paesi. In un contesto regionale più stabile, tuttavia, è indubbio che Pechino continui ad investire in infrastrutture nell'ambito della Belt And Road, aprendo un nuovo e forse sottovalutato capitolo della rivalità con Washington.
   Da quando hanno allacciato rapporti diplomatici nel 1992, l'interscambio tra Cina e Israele è cresciuto molto: nel 2017, le esportazioni israeliane in Cina hanno toccato i 4 miliardi di dollari, mentre le importazioni da Pechino i 6 miliardi. Gli investimenti cinesi in Israele si attestano attorno agli 11 miliardi di dollari nello stesso periodo, anche se costituiscono solo il 3% degli investimenti cinesi all'estero.
   Israele, tuttavia, non ha ignorato i campanelli di allarme fatti risuonare da Washington: lo scorso ottobre, in seguito all'ennesima pressione americana, il governo ha annunciato l'istituzione del Committee for Approving Strategic Investments, un nuovo ente incaricato di monitorare investimenti stranieri in settori sensibili, e nello specifico di assicurarsi che alle aziende cinesi che operano in Israele non sia fornito accesso ai dati di cittadini israeliani o americani o informazioni sul settore della cybersicurezza.
   Va ricordato che all'inizio del nuovo millennio, Washington ha spinto Israele a tagliare ogni rapporto nell'ambito della Difesa con Pechino, mantenendo unicamente relazioni commerciali in ambito civile e cancellando diversi accordi già trovati con i cinesi. Dal 2004 i due paesi non hanno relazioni nell'ambito della industria della difesa.
   Da quando la Sipg ha iniziato a lavorare all'allargamento del porto di Haifa, Washington ha tenuto più di un occhio sulle attività di investimento cinesi in Israele, che da parte sua considera fondamentali i circa 4 miliardi di dollari in aiuti militari che gli Stati Uniti hanno fornito nel 2019: per questo, proprio lo scorso maggio, in sordina, Israele ha rimandato al mittente l'offerta da 1,5 miliardi di dollari di una azienda cinese di Hong Kong - Hutchinson Group - per sviluppare un impianto di desalinizzazione, appaltando il tutto alla IDE Technologies, basata a Israele. L'impianto, denominato Soreq B, sarà il più grande del Paese e sarà costruito non lontano dalla base aerea di Palmachim e, soprattutto, dal centro di ricerca nucleare Soreq.

(il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2021)


Da Londra a Israele: è il sovranismo che salva la vita

L’Unione sconta la sua lentezza e inefficienza. Invece chi ha fatto da sé è uscito meglio dalla pandemia. Non solo l’Inghilterra, anche Danimarca e Ungheria sono oasi felici

di Pietro Senaldi

Va di moda essere europeisti e il virus, che gli scienziati televisivi ci insegnano essere intelligente e opportunista, si è adeguato. Infatti prospera principalmente nell'Unione Europea mentre altrove inizia a battere in ritirata. La pandemia, nel molle corpaccione di Bruxelles, che ha ben più delle tre patologie gravi solitamente necessarie al Corona per mandarti al Creatore, ha trovato il suo habitat naturale. Burocrazia, lentezza, interessi in conflitto, incompetenza e arroganza al potere, scarsa responsabilizzazione politica, confusione istituzionale, insindacabilità delle scelte, incapacità di fare fronte comune: l'emergenza sanitaria ha dimostrato che l'Europa non è una cura ma una comorbilità perché l'Unione non fa la forza bensì la debolezza. Contro il Covid vincono il sovranismo e il motto «chi fa da sé fa per tre».
   Bruxelles nella lotta al virus ha sbagliato tutto quello che poteva, mal guidata da un capo, Ursula Von der Leyen, che è stata più confusionaria di Conte, più impreparata di Speranza, più inefficiente di Arcuri, più divisiva di Boccia, più presuntuosa di Casalino e più ideologica del Pd. Subalterna all'Organizzazione Mondiale della Sanità, istituzione che ha depistato gli Stati dall'inizio dell'epidemia, la Ue non è stata neppure capace di copiare i Paesi che da subito sono riusciti ad arginare il contagio, come Giappone o Australia. Ha chiuso tardi e senza la severità delle nazioni che sono riuscite a contenere la diffusione del virus e ha fallito sui tracciamenti e i tamponi. Quando poi ha riaperto, lo ha fatto senza regole né precauzioni e non si è più preoccupata di tenere sotto controllo i positivi, preparando la strada per nuove chiusure.
   Drammatica è stata anche la gestione del capitolo vaccini. Se in Europa scarseggiano le dosi, mentre grazie alla Brexit l'Inghilterra ha immunizzato circa il 25% della popolazione, è a causa di tre gravissimi errori. Prima l'Agenzia del Farmaco ha tardato nel concedere il via libera ai nuovi ritrovati, poi la Von der Leyen si è presentata buon ultima presso le case farmaceutiche produttrici per firmare i contratti d'acquisto e infine, quando lo ha fatto, non si è preoccupata di chiedere garanzie sufficienti sulle consegne.

 Nessuna garanzia
  La classe dirigente europea è stata incapace di studiare una strategia comune di contenimento del virus; anzi, non ha avuto neppure la velleità di provarci. Quando è stato il momento di finanziare le case farmaceutiche per la ricerca del vaccino, ha operato una selezione politica tesa a favorire gli interessi cli Francia e Germania, anziché> una scelta improntata a criteri di efficienza. Non si è preoccupata di pianificare una produzione alternativa comune delle dosi e ha comprato male, mercanteggiando sul prezzo e lasciando così strada aperta a nazioni più avvedute, che hanno ritenuto l'acquisto un investimento e non una spesa. Infine, dopo aver lasciato gli Stati membri scoperti, li ha pure diffidati dall'approvvigionarsi autonomamente, salvo consentire alla sola Germania di farlo.
   Il Covid ha dimostrato che l'Unione Europea di fatto ancora non esiste. È una Babele di popoli allo sbando, ammazzati dalla prosopopea dei loro leader, dove chi è piccolo e rapido ha più probabilità di salvarsi. La Danimarca e l'Ungheria sono le oasi felici, la prima perché ha acquistato più dosi di quante gli erano state assegnate dalla Ue, la seconda perché si è gettata sul vaccino russo Sputnik. Germania, Francia, Italia e Spagna invece sono i lazzaretti, oltre al Belgio, che non a caso è la sede della Ue.

 Abbaiare alla luna
  Tutti gli esempi virtuosi della lotta al virus sono nel segno del sovranismo. Meglio di noi sta non solo la Gran Bretagna, ma anche Israele, che ha vaccinato il 90% dei cittadini, o San Marino, che dopo aver stracciato il contratto con l'Italia si è rivolta a Mosca, o addirittura la Serbia, che ha immunizzato il 15% della popolazione. L'Europa è così vecchia e inadeguata che perfino Draghi, nel suo primo vertice da leader Ue e non da banchiere, è apparso non come il deus ex machina in grado di risolvere tutti i problemi ma come un cane che abbaia alla Luna. Il premier ha detto che dobbiamo essere inflessibili con le aziende in ritardo nel consegnare i vaccini e accelerare la profilassi. D'accordissimo signor presidente, ma come si fa?

(Libero, 27 febbraio 2021)


Chi era Golda Meir

di Giovanna Pavesi

 
Pubblicamente appariva come una donna modesta, dall'aspetto sobrio e dallo stile misurato: mai un filo di trucco, niente tacchi, abiti dalle forme essenziali e capelli quasi sempre raccolti. Come se volesse passare inosservata. Eppure, la personalità di Golda Meir determinante, non solo per aver ricoperto la carica di quarto premier d'Israele, ma anche per essere stata la prima (e unica) donna a guidare il suo Paese (a livello internazionale fu preceduta soltanto da Sirimavo Bandaranaike, nello Sri Lanka, e da Indira Gandhi, in India). Ebbe due grandi amori, il socialismo e la Terra promessa, per i quali si batté per tutta la vita. L'ambizione, il lavoro e probabilmente anche l'umiltà le fecero scalare negli anni i vertici dello Stato ebraico, fin dalla sua costituzione. Il futuro primo ministro nacque con il nome di Golda Mabovič e fu Ben Gurion a imporle un cognome che suonasse più "ebraico". Così lei scelse Meir, che significa "illuminato".
  Diresse la politica israeliana in periodi particolarmente incandescenti e complicati e si trovò ad affrontare conflitti interni, varie crisi internazionali (come quella successiva alla guerra dello Yom Kippur), i connessi contrasti militari con Egitto e Siria e, soprattutto, l'attentato ai Giochi olimpici di Monaco, nel 1972, dove i terroristi palestinesi di Settembre nero sequestrarono e uccisero 11 atleti e allenatori israeliani.
  Dal carattere risoluto e inflessibile, Ben Gurion la definì (in più di una circostanza) "il miglior uomo al governo". Oriana Fallaci, che la intervistò, la descrisse come una donna "dal viso stanco e grinzoso", con "un corpo pesante sorretto da gambe gonfie, malferme, di piombo", la cui ricchezza consisteva in una "semplicità disarmante, una modestia irritante e in una saggezza che viene dall'aver sgobbato tutta la vita". Perché Golda Meir lavorò molto (e forse più degli altri) per diventare ciò che era. E se Ben Gurion è considerato ancora oggi, a tutti gli effetti, il padre fondatore dello Stato ebraico, Golda Meir, oltre a essere una delle figure femminili più importanti del XX secolo, è sempre stata percepita dall'opinione pubblica come la "madre di Israele".

 Le origini, l'infanzia e la scuola
  Golda Meir nacque a Kiev, quando ancora l'Ucraina faceva parte dell'impero russo, il 3 maggio del 1898 da una famiglia estremamente modesta: il padre, Moshe Mabovič, era un carpentiere e la madre, Bluma Neidič, non aveva un impiego. Da bambina, conobbe con i propri occhi la violenza dei pogrom, termine con cui vengono identificati i gravi episodi di antisemitismo, che caratterizzavano la vita della comunità ebraica sotto l'impero russo tra Ottocento e Novecento. Nel 1903 il padre lasciò Kiev per emigrare negli Stati Uniti, con l'intenzione di farsi raggiungere anche dal resto della famiglia e nel frattempo, ciò che restava del nucleo familiare si trasferì a Pinsk, nell'attuale Bielorussia. Nel 1906, riuscì a raggiungere il padre a Milwaukee, nel Wisconsin, in America, dove completò il suo primo ciclo scolastico alla Fourth Street Grade School (che oggi porta il suo nome, in suo onore). Proseguì gli studi in città alla North Division High School e secondo quanto viene riportato, nonostante all'inizio non parlasse inglese, già a scuola, la giovanissima Golda Meir dimostrò spiccate capacità di leadership e si fece promotrice di diverse iniziative di solidarietà, soprattutto per le persone meno abbienti.

 L'emancipazione
  In base alle ricostruzioni storiche, ancora molto giovane Golda Meir lasciò il suo nucleo familiare, dopo essersi scontrata con i genitori, che volevano costringerla ad abbandonare gli studi da insegnante per sposarsi. Aveva poco più di 14 anni quando si trasferì dalla sorella a Denver, in Colorado. E fu proprio in quel luogo che iniziò a prendere parte a dibattiti culturali e a conoscere il mondo della letteratura, del femminismo e anche del pensiero sionista (che si stava diffondendo in tutto il mondo). Nella sua autobiografia, intitolata "La mia vita", Meir definì Denver "un vero punto di svolta" e scrisse: "A Denver la mia vita mi si aprì innanzi per davvero". E fu proprio durante la sua permanenza in Colorado che conobbe Morris Meyerson, che iniziò a frequentare nel 1913 e che sposò a 19 anni (il 24 dicembre del 1917). Si iscrisse poi alla Milwaukee Normal School e diventò insegnante. Venne assunta tempo dopo come docente in una scuola Yiddish e la sua personalità iniziò a distinguersi soprattutto per il continuo impegno sociale. Organizzò marce di protesta, frequentò i dibattiti pubblici e, infine, divenne un membro dell'organizzazione sionista laburista Poalei Zion (la stessa di cui faceva parte Ben Gurion). Nei due anni successivi, il suo impegno politico nell'associazionismo ebraico si intensificò a tal punto da partecipare, nel 1918, al Congresso degli ebrei americani in qualità di delegata di Milwaukee come la più giovane rappresentante dell'evento. Quel momento fu l'inizio della sua carriera politica.

 L'arrivo in Palestina e l'impegno sociale
  Come fecero in molti, nel 1921, insieme al marito, alla sorella e alla nipote, Golda Meir lasciò l'America per la Palestina, attraversando prima l'Oceano e poi il mar Mediterraneo. Al loro arrivo, lei e i suoi familiari riuscirono a unirsi a un kibbutz, nonostante l'iniziale diffidenza degli altri membri, che li percepivano non tanto come ebrei ma come stranieri (tutti erano cittadini americani). E fu proprio all'interno di questa comunità che Golda Meir iniziò ad avvicinarsi concretamente alla politica. Tre anni dopo, nel 1924, si trasferì con la famiglia a Gerusalemme, dove lavorò come tesoriere nell'ufficio generale della federazione dei Lavoratori dei territori di Israele, una delle più importanti organizzazioni economiche ebraiche. Dal 1928 divenne la segretaria dell'Unione delle donne lavoratrici e due anni dopo, nel 1930, aderì al partito Mapai, creato da Ben Gurion.

 L'attivismo e la carriera politica
  I primi impieghi in Palestina decretarono la sua indipendenza. Vent'anni più tardi, nel 1946, Golda Meir divenne capo del dipartimento politico dell'Agenzia ebraica per la Palestina, dopo essersi distinta per aver svolto un'ottima carriera nella centrale sindacale dell'Histadrut (ovvero l'Unione dei lavoratori israeliani). La sua passione politica emerse in quel preciso momento, quando iniziò a impegnarsi attivamente in attività politiche di tipo sionista. Come fece Gurion, anche Golda Meir, soprattutto poco dopo la Seconda guerra mondiale, organizzò l'immigrazione illegale di numerosi transfughi ebrei dall'Europa alla Palestina e si adoperò nell'istituzione di una realtà ebraica in Palestina. All'inizio del 1948 decise di tornare in America per cercare di raccogliere fondi per il progetto sionista e quando il 14 maggio dello stesso anno venne certificata la fondazione dello Stato, divenne membro del Consiglio provvisorio e una delle due donne tra tutti i firmatari della dichiarazione di indipendenza.

 Meir ministro del Lavoro
  Dopo la proclamazione dello Stato d'Israele e terminate le ostilità del primo conflitto arabo-israeliano, Golda Meir divenne la prima ambasciatrice del neonato Stato ebraico a Mosca. Nel 1949 venne eletta alla Knesset con il partito Mapai. Ben Gurion la propose come vice presidente del Consiglio, ma lei non accettò, accogliendo invece la proposta di diventare ministro del Lavoro. E nonostante il suo indiscusso impegno politico (consolidato anche nei tanti anni passati all'interno del kibbutz), molti laburisti e colleghi di partito, almeno all'inizio, consideravano molto rischioso e prematuro nominare una donna a quel dicastero. Meir, però, si impegnò a risolvere le questioni (e i problemi) legati alla sicurezza sociale dei nuovi coloni israeliani da subito e poco tempo dopo le ostilità verso di lei, all'interno del partito, cessarono. Nel 1955, su richiesta di Ben Gurion, Golda Meir si candidò a sindaco di Tel Aviv, ma in quella circostanza non venne eletta.

 Meir ministro degli Esteri
  Nonostante non ottenne la carica di primo cittadino, a Tel Aviv, Golda Meir venne nominata ministro degli Esteri e nel 1956 fu lei a dover affrontare la crisi di Suez. Tuttavia, negli anni in cui occupò il vertice di quel dicastero, non si lavorò soltanto per arginare i conflitti interni ed esterni al neonato Stato ebraico. Secondo quanto riportato da un articolo di Haaretz, pubblicato nel febbraio del 2009, Szymon Rudnicki, storico dell'università di Varsavia, avrebbe rinvenuto una corrispondenza risalente a quel periodo tra Meir e le autorità politiche polacche, in cui lei avanzava la possibilità di non permettere l'ingresso in Israele a ebrei anziani o disabili. Quella che in molti hanno definito un calcolo piuttosto cinico, ebbe un effettivo riscontro nella realtà, perché mentre prima veniva operata una selezione sulla base dalle professioni svolte dagli immigrati, a partire dal 1950, con la Legge del ritorno, Israele apriva i propri confini a tutti gli ebrei del mondo, garantendo loro la cittadinanza. Ma dal 1951, la norma subì alcune modifiche, che restrinsero il campo degli aventi diritto alla cittadinanza israeliana soltanto agli ebrei che correvano rischi nei loro Paesi o che fossero stati in grado di pagarsi da soli il viaggio (preferibilmente se giovani, in piena salute e con un'attività commerciale).

 La malattia e le scelte politiche
  Nel 1963, i medici le diagnosticarono un linfoma e Meir iniziò a pensare di abbandonare la politica (nel 1965, per esempio, rifiutò la proposta di diventare vice primo ministro di Levi Eshkol). Nel 1966 decise di lasciare il dicastero degli Esteri a causa della malattia, ma mantenne il suo seggio in parlamento. Il cancro, però, almeno all'inizio, non riuscì ad allontanarla troppo dalla sua attività politica, visto che nello stesso anno divenne segretario generale del partito laburista (che lei stessa aveva contribuito a tenere insieme, unendo il Mapai, l'Ahdur Ha'Ayodah e il Rafi). Il 2 giugno 1968, data in cui i tre grandi gruppi socialisti si unirono in un solo partito, Golda Meir decise di lasciare i suoi incarichi pubblici. Ma la morte di Levi Eshkol, improvvisa perché causata da un attacco cardiaco, e la ricerca di un suo successore rischiavano di causare una spaccatura all'interno dell'orbita socialista israeliana, che si era riunita da pochissimo.Il partito si divise a metà, tra chi sosteneva la candidatura di Yigal Allon, primo ministro reggente, e chi voleva il "leggendario" Moshe Dayan, che in quel momento era ministro della Difesa.

 Meir primo ministro
  In quella circostanza, l'incarico venne, però, affidato a Meir che, poco prima di aver compiuto 71 anni, venne eletta presidente del partito laburista e il 17 marzo 1969 fu nominata primo ministro di Israele. Fu il quarto presidente e la prima donna a ricoprire quel ruolo, rimanendo in carica per cinque anni e fu molto popolare. Al potere, Meir mantenne una certa continuità con le politiche del governo Eshkol, confermando anche diverse figure del precedente esecutivo. Come presidente del Consiglio, Meir incoraggiò l'immigrazione degli ebrei in Israele ed ebbe ottimi rapporti con gli Stati Uniti, in particolare con il presidente Nixon e con la comunità ebraica americana, la più grande del mondo.
  Nata per essere un'amministrazione di transizione e di unità nazionale, Meir fu costretta invece ad affrontare diverse crisi internazionali, come l'attentato di Monaco del 1972 e le conseguenze della guerra dello Yom Kippur.

 La crisi degli ostaggi di Monaco
  Nel 1972, un commando composto da alcuni terroristi palestinesi, appartenenti a Settembre nero, a Monaco di Baviera, nella Germania Ovest, prese in ostaggio (e uccise) l'intera delegazione di atleti israeliani che partecipavano a quelle Olimpiadi. In quello che fu uno degli attentati più mediatici del Novecento, i membri della cellula, come riscatto, chiesero al governo israeliano il rilascio di alcuni prigionieri politici palestinesi. Tuttavia, l'esecutivo di Meir mantenne una certa fermezza e non accettò di negoziare con i terroristi (che infatti uccisero tutti gli atleti). La morte degli sportivi israeliani colpì l'opinione pubblica di tutto il mondo, anche perché quelli furono i primi ebrei uccisi in Germania dal termine della Seconda guerra mondiale.

(Inside Over, 27 febbraio 2021)


Gli Stati Uniti hanno avvertito in anticipo Israele del raid in Iran

di Barak Ravid

È passato poco più di un mese dall'insediamento e Joe Biden ha già autorizzato il primo raid in Siria: sferrato un attacco nella zona orientale, al confine con l'Iraq, contro alcune infrastrutture delle milizie filo-iraniane. Sono morti 17 combattenti e secondo il pentagono si tratta di una risposta all'attacco missilistico del 15 febbraio in Iraq.
L'amministrazione Biden ha avvertito in anticipo Israele dell'attacco aereo contro una base della milizia sciita sostenuta dall'Iran al confine tra Siria e Iraq questa notte, secondo quanto riferiscono funzionari israeliani.
L'attacco aereo è stata la prima azione militare degli Stati Uniti in Medio Oriente da quando Biden ha assunto l'incarico, e i funzionari israeliani la interpretano come un segnale positivo sulla posizione della nuova amministrazione nei confronti dell'Iran.
La notifica degli Stati Uniti a Israele ha avuto luogo giovedì mattina in alcuni colloqui tra funzionari di livello operativo al Pentagono e il Ministero della Difesa israeliano.
A quanto dicono i funzionari israeliani si tratta di un aggiornamento standard che si verifica ogni volta che un'operazione militare degli Stati Uniti può influenzare Israele e viceversa.

 Dietro le quinte
  L'attacco è arrivato diverse settimane dopo un attacco missilistico contro una base statunitense a Erbil, nel nord dell'Iraq. La rappresaglia degli Stati Uniti è stata ritardata principalmente per coordinarla con il governo iracheno ed evitare di creare una crisi con l'Iraq.
Nelle ultime settimane, i funzionari israeliani erano preoccupati per le crescenti provocazioni dell'Iran e dei suoi delegati sia in Yemen che in Iraq.
Gli israeliani hanno condiviso le loro preoccupazioni con l'amministrazione Biden. I funzionari israeliani hanno detto che si aspettavano una risposta da parte di Biden.

 Tra le righe
  Un anno fa, un gruppo di esperti del "Center for New American Security" guidato dall'ex funzionario dell'amministrazione Obama Ilan Goldenberg ha pubblicato un documento intitolato "Contrastare l'Iran nella zona grigia".
Hanno parlato con numerosi funzionari della difesa israeliana per determinare ciò che gli Stati Uniti possono imparare dalla campagna militare israeliana contro il radicamento iraniano in Siria, che gli israeliani chiamano la "Campagna tra le guerre", o MABAM in ebraico.
La linea di fondo del rapporto era che gli Stati Uniti dovrebbero esaminare se possono adottare o meno la politica israeliana, sottolineando che gli attacchi mirati contro l'Iran o altri avversari in Medio Oriente non porterebbero sicuramente a un'ampia escalation, come invece temono molti nell'establishment della difesa.

 Cosa succederà
  Non è chiaro se l'attacco è stato un evento una tantum o se si trasformerà in una strategia più ampia, ma è un tentativo di Biden di inviare all'Iran un primo messaggio che non ha paura di usare la forza come rappresaglia contro gli attacchi alle forze statunitensi nella regione. Indica anche che il suo desiderio di tornare all'accordo nucleare del 2015 non lo dissuaderà dall'usare la forza militare quando necessario.

(Dagospia, 26 febbraio 2021)


E Israele regala i vaccini ai vicini

Oltre 9 abitanti su 10 hanno ricevuto almeno una fiala, così il governo vuole distribuire le eccedenze all'estero. Previsti premi per chi immunizza e hub allestiti anche all'Ikea.

di Antonio Grizzuti

Pizza gratis per chi si vaccina. Ma anche pasta e cappuccino, hummus e knafeh, la tipica pasta filata dolce della tradizione mediorientale, tutto gentilmente offerto dalla casa. E questa l'innovativa strategia messa in campo da Israele per convincere i più reticenti a farsi somministrare l'antidoto contro il Covid. Si tratta in prevalenza di ebrei ortodossi, notoriamente recalcitranti nei confronti delle vaccinazioni, e giovani, meno propensi a rispettare le rigide regole imposte dal governo per limitare i contagi. Proprio ieri, il ministro della Salute Yuli Edelstein si è scagliata contro le migliaia di ragazzi israeliani scesi in strada a bere e chiacchierare, approfittando dell'ultima notte prima del coprifuoco introdotto in occasione della festa di Purim: «Chi ha preso parte a queste "feste del contagio" sappia che una risalita dei casi, una nuova chiusura delle attività, e la perdita di altre vite umane avverrà solo per colpa loro».
   Polemiche a parte, la campagna di vaccinazione israeliana procede a gonfie vele. E anche l'idea di introdurre piccole gratificazioni ha sortito effetti positivi all'interno delle fasce di popolazione più scettiche. «Per convincere i no-vax a vaccinarsi sono stati anche istituiti dei premi: per esempio nei quartieri ultraortodossi pizza familiare per tutti, mentre per i giovani un thermos in omaggio, e ha funzionato», ha spiegato a Radio Capital la professoressa Francesca Levi Schaffer, epidemiologa dell'Università di Gerusalemme. Perfino alcuni punti vendita Ikea sono stati trasformati in centri vaccinali. Secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della Salute, fino a mercoledì un israeliano su due (49,6%) era vaccinato, per un totale di 4,6 milioni di cittadini con la prima dose, e 3,2 milioni con la seconda. Numeri che confermano il Paese in testa alla classifica mondiale con 90,2 abitanti ogni 100 ad aver ricevuto almeno una dose, contro gli appena 6,3 su 100 dell'Italia.
   Grazie anche all'impegno profuso nella campagna vaccinale, Israele sta venendo a capo della terza ondata di contagi. La media mobile a 7 giorni si attesta intorno ai 3.500 casi, meno della metà rispetto al picco superiore agli 8.000 casi di metà gennaio, e intorno ai livelli raggiunti nel periodo natalizio. Un risultato di cui vantarsi. «Siamo riusciti ad aprire palestre, teatri e concerti, sempre con distanziamento e mascherina», ha aggiunto la Levi Schaffer, «abbiamo così tanti vaccini che alcuni li regaliamo ai Paesi vicini». E così, mentre in Italia non si riesce a immunizzare nemmeno le categorie più deboli ed esposte, a poche migliaia di chilometri da casa nostra hanno talmente tante dosi da non sapere che farsene. Tuttavia, a tal riguardo, il ministro della difesa, Benny Gantz, ieri ha chiesto al premier Benjamin Netanyahu di sospendere «immediatamente» l'invio di vaccini non essendo il tema «mai stato portato in discussione nelle sedi opportune».
   Il Parlamento israeliano, ha approvato mercoledì una controversa legge che consente per i prossimi tre mesi (e comunque fino al perdurare delle stato di emergenza) la trasmissione alle autorità locali delle generalità dei non ancora vaccinati. Ufficialmente, la misura servirà a «incoraggiare» i diretti interessati a procedere con la somministrazione. Protesta l' Associazione dei medici pubblici, ma il presidente della commissione competente, Haim Katz, difende la legge. «Molti si lamentano, ma io chiedo: la privacy è più importante della vita stessa, », argomenta Katz, «il prossimo step sarà impedire a coloro che non sono stati vaccinati di recarsi al lavoro».

(La Verità, 26 febbraio 2021)


Almagor, la lunga estate della "Loren" d'Israele

Parla Gila, la stella del teatro e del cinema israeliano. Il suo nome passa anche tra i banchi di scuola per aver scritto un romanzo autobiografico che è diventato un bestseller «Anna Magnani è stata la mia musa, il regista Gilberto Tofano, amico e figura fondamentale».

di Fiammetta Martegani

Gila Almagor
TEL AVIV - «Anche se il mio italiano non è un gran che, vorrei provare a leggere la prima pagina» propone, sorridendo un po' intimidita, Gila Almagor quando le viene consegnata la copia del suo capolavoro L'estate di Aviha, tradotto nella nostra lingua. Si è conquistata una fama internazionale la stella del cinema e del teatro, quella di "Sophia Loren israeliana". Una lunga carriera con alle spalle settant'anni tra palcoscenico e grande schermo, con oltre una cinquantina di film, tra i quali anche Life according to Agfa, di Asaf Dayan, figlio del celeberrimo Generale Moshe Dayan.
Ma la sua vera opera d'arte, sta nella Almagor scrittrice e un libro tradotto in più di venti lingue. Un caso letterario internazionale, diventato «il bestseller» in Israele e addirittura inserito a pieno titolo nei programmi scolastici come testo "didattico" di narrativa.
  Un "fenomeno" anche quello della Gilmor scrittrice di successo che sembra quasi il prodotto del caso. Lei cosa ne pensa? Non avrei mai pensato di poter scrivere e, soprattutto, di pubblicare un libro. L'estate di Aviha è cominciato come un processo catartico - racconta mentre sfoglia le pagine dell'edizione italiana-. In Israele venne pubblicato per la prima volta nel 1985, e il successo immediato la portò a trarne un monologo teatrale con cui ha poi girato i teatri di tutto il mondo, fino a produrre, in collaborazione con il celebre regista israeliano Eli Cohen, il film omonimo, vincitore dell'Orso d'argento al Festival di Berlino nel 1989.

- Da dove nasce l'esigenza di scrivere questa storia?
  Faccio parte della "seconda generazione" (facendo riferimento ai figli dei sopravvissuti alla Shoah). Con molti di loro sono cresciuta nelle case di accoglienza per orfani che negli anni Cinquanta, in Israele, erano moltissime. Ma a differenza dei miei compagni di infanzia io, almeno, una madre ce l'avevo, e per questo mi sono sempre sentita molto fortunata, anche se era malata mentalmente, a causa dei traumi subiti in Polonia. Pur non avendola al mio fianco, la sentivo sempre vicina e in quel contesto, correndo con i miei compagni tra i campi di gladioli, ho riscoperto la vita. Il mio processo di guarigione è cominciato proprio tra i fiori. - esclama, indicando il suo terrazzo fiorito - . Alla fine sono riuscita a sbocciare anch'io, grazie alla mia passione per il teatro.

- Com'è cominciato questo "processo di guarigione" attraverso il teatro?
  Sono arrivata a Tel Aviv in autobus, partendo dal piccolo villaggio di Petah Tikva, e dalla stazione centrale sono andata dritta all'Habima (il Teatro Nazionale). Non me ne sono andata fino a quando non mi hanno fatto un'audizione. Avevo solo 15 anni. Allora nessuno sapeva la storia di mia madre, non perché mi vergognassi a raccontarla, ma perché volevo proteggerla. Col tempo, la carriera mi ha dato sicurezza, e la forza per riconciliarmi con il mio passato, fino a spingermi a trascrivere le mie memorie in una storia al limite tra l'autobiografia e la fiction. Avevo ormai più di quarant'anni quando ho finalmente trovato il coraggio di farlo. E stata una necessità: ho scritto per dieci giorni, senza fermarmi, su un quaderno per gli appunti che avevo trovato tra i cassetti della scrivania di mia figlia.

- La scelta di cambiare il proprio cognome fa sempre parte di questo percorso?
  Assolutamente sì. Per fare i conti col mio passato avevo bisogno di dare un taglio netto con i traumi della nostra generazione, e il mio cognome ebraico, Alexandrowitz, mi ricordava anche la morte di mio padre, ucciso da un cecchino arabo ad Haifa quando mia madre era incinta di me. Quando sono nata, l'ostetrica aveva proposto a mia madre di chiamarmi Aviha, in memoria di mio padre (aviha in ebraico significa «il padre di lei», come la protagonista del romanzo). Invece mia madre decise di chiamarmi Gila che significa «gioia», e io ho scelto di chiamarmi Almagor, «senza paura», perché attraverso la mia carriera artistica ho ricominciato a vivere, senza paura.

- È la prima volta che il suo libro, già tradotto in oltre 20 lingue, viene pubblicato in italiano. Quale è il suo rapporto con l'Italia?
  Ho sempre avuto un legame speciale con il vostro Paese - racconta sorridendo mentre mostra con orgoglio le foto di Anna Magnani, appese alle pareti della sua casa di Tel Aviv - La Magnani è stata la mia musa a cui mi sono sempre ispirata nel mio lavoro. Un'altra figura fondamentale è stato Gilberto Tofano, regista italiano eccezionale, ma anche un grande amico. Lo ricorderò sempre con affetto per aver descritto in modo unico Israele durante la Guerra dei Sei Giorni, nel meraviglioso film The Siege (presentato al Festival di Cannes del 1969) di cui sono stata anche protagonista. Vedere il mio libro pubblicato in italiano è per me un grande onore e un omaggio a un Paese che amo così tanto.

(Avvenire, 26 febbraio 2021)


Lockdown alternati di una settimana: la proposta degli scienziati israeliani

Uno studio della rivista Nature Communications per mantenere le attività funzionanti al 50%

ROMA - Una proposta destinata a far discutere, ma che potrebbe coniugare la necessità di mantenere in vita le attività commerciali, con l'isolamento e la conferma delle restrizioni: un lockdown alternato. L'idea arriva da Israele: dividere la popolazione in due gruppi, ognuno dei quali alterna lockdown di una settimana. Questa la strategia proposta sulla rivista Nature Communications da alcuni ricercatori israeliani dell'università Bar-Ilan per ridurre i contagi da Covid-19 e far funzionare al 50% le attività socio-economiche. Un modello che, come spiegano, permetterebbe di isolare le persone positive che ancora non mostrano i sintomi e ha un'efficacia paragonabile a quella di un lockdown quasi totale (all'80%).
   L'idea è stata studiata nel dettaglio: la popolazione viene divisa in due gruppi, ognuno dei quali con turni settimanali di lockdown e attività di routine. Con l'isolamento dei sintomatici e l'adozione dei comportamenti di prevenzione, con questa strategia si riduce la diffusione dei contagi e si possono tenere isolati i positivi ancora nel loro periodo di incubazione. "Ad esempio se una persona si contagia durante la sua settimana 'attiva', in cui è presintomatico - spiega Baruch Barzel, coordinatore dello studio -, stando a casa la settimana seguente, inizierà probabilmente a mostrare i sintomi, e rimanendo isolato può curarsi". Se dopo sette giorni di lockdown i sintomi non sono sorti, è molto probabile che sia riuscito ad evitare il contagio. "In questo modo isoliamo non solo i malati, ma anche la maggior parte dei positivi ancora senza sintomi", continua Barzel. I ricercatori hanno calcolato che questa strategia può aiutare a ridurre i contagi con un'efficacia simile a quella di un lockdown all'80%.

(ANSA, 26 febbraio 2021)


Purim: una festa sempre attuale che ricorda la lotta del popolo ebraico contro l'antisemitismo

Le feste ebraiche molto spesso hanno un doppio significato, storico/politico ed etico/religioso; e inoltre hanno della caratteristiche espressive e pedagogiche, che le rendono facili da comunicare e da ricordare. Ma non bisogna confondere questa dimensione comunicativa della festa con il suo significato o i suoi significati.
   A Shavuot per esempio è d'uso mangiare cibi a base di latte e di formaggio; la spiegazione che se ne dà è spesso simbolica:
    "Il latte è sangue raffinato; infatti in un processo complesso e meraviglioso le ghiandole mammarie trasformano il sangue in puro latte bianco. C'è qualcosa di particolarmente soprannaturale in questo processo: prendere un liquido acre e spiacevole quanto il sangue e trasformarlo in cibo nutriente e commestibile è incredibilmente miracoloso. Anche noi possiamo simulare questo miracolo nelle nostre vite. Il sangue rappresenta la passione cruda e l'istinto indomito. Mentre il latte è simbolo di un carattere puro e raffinato. Fare latte dal sangue, ovvero raffinare i nostri istinti più bassi, è lo scopo della nostra vita".
   E però la festa celebra il dono della Torah, riassorbendo un'antica festa agricola.
   Così a Pesach con le matzot e il rituale del Seder; ma il senso della festa è la conquista della libertà collettiva del popolo ebraico e la riaffermazione del potere divino sull'oppressione umana; Chanukkà colpisce per i lumi esposti in pubblico per ricordare i miracoli, ma essi poi in sostanza sono la vittoria della resistenza ebraica sul dominio ellenistico e la sopravvivenza della cultura tradizionale di Israele in mezzo a un mondo assai più forte, insieme seducente e ostile.
 
I bambini del quartiere ultraortodosso di Mea She'arim a Gerusalemme indossano i costumi per la festa di Purim
   Così è soprattutto per Purim, la festa che inizia questo giovedì sera. C'è chi ritiene che il cuore della festa sia il mascheramento, il fracasso, il teatro e l'abbondante uso del vino - "come fosse Carnevale". Ma queste sono semplicemente le forme che la festa ha assunto nel corso del tempo per ragioni pedagogiche. In realtà si tratta della ricorrenza più politica del calendario liturgico ebraico. Basta leggere con attenzione la Meghillà per vederlo. Segnalo a questo proposito il bellissimo libro di Yoram Hazony, oggi forse il più importante filosofo ebraico: God and Politics in Esther, purtroppo disponibile solo in ebraico e in inglese. In sostanza la storia è quella di un complotto antisemita, del progetto di eliminare tutti gli ebrei dell'impero persiano, cioè tutti gli ebrei del mondo, dato che gli insediamenti ebraici di quel tempo (Israele, Egitto, Mesopotamia, Persia vera e propria) erano compresi nel territorio dell'impero. Il complotto viene sconfitto da una contro-congiura di palazzo, in cui ha parte essenziale Esther, una fanciulla ebrea che diventa avventurosamente regina senza rivelare la sua identità nazionale. Al culmine della storia i due complotti si scontrano in un confronto teatrale davanti al sovrano, in cui ha la meglio Esther; ma dopo avviene uno scontro armato, in cui ancora prevalgono gli ebrei e gli antisemiti vengono liquidati.
   Il senso religioso della festa ha a che fare col suo andamento apparentemente casuale (la parola Purim viene tradotta come "le sorti", ma non compare altrove nelle Scritture ed è probabilmente un prestito dal persiano). L'assenza del nome divino dalla versione ebraica del testo e l'aspetto profano della narrazione alludono all'azione nascosta della provvidenza. In ambienti segnati dalle persecuzioni, come gli ebrei della penisola iberica nel Cinquecento, Esther rappresenta la difficile resistenza di chi deve nascondere la propria appartenenza.
   Il piano politico o nazionale della festa è più chiaro. Si tratta dell'antisemitismo e della battaglia per sconfiggerlo, che si ripete continuamente nella storia, sempre con grandi difficoltà e sofferenze. Non a caso il cattivo della storia, il vicerè Haman, è presentato come un discendente del primo nemico del popolo ebraico nell'Esodo, Amalek. Per questo la considerazione del Talmud che la festa di Purim sarà celebrata anche quando tutte le altre feste saranno state abolite (in epoca messianica), non è affatto consolante, perché sembra alludere alla previsione della perennità dell'antisemitismo, come del resto si ritrova in un passaggio chiave della Haggadà di Pesach, dove si dice che tutte le generazioni future dovranno fare i conti con l'odio di chi vuole distruggere Israele.
   La lezione positiva della festa di Purim è che è possibile sconfiggere l'antisemitismo, anzi che bisogna farlo, combattendo sul piano politico-diplomatico ma anche su quello della prova di forza. Non è un caso che un grande antisemita come Martin Lutero abbia dichiarato di odiare il Libro di Esther e di preferire che fosse escluso dal canone biblico. E neanche che Julius Streicher. il direttore di "Der Sturmer" e il maggiore specialista, per così dire, di antisemitismo del regime nazista, proprio prima di essere impiccato a Norimberga per i suoi crimini, abbia accostato la sua sorte a quella di Haman, esclamando come ultima parola "Purimfest!"
   Come si vede non vi è nulla di infantile, nulla di "carnevalesco", di puramente "teatrale" in questa ricorrenza che pure è celebrativa e gioiosa. Si tratta solo di uno strato superficiale, che serve a coinvolgere i bambini e magari a confondere i nemici. Sentendo recitare la storia della persecuzione fallita, com'è precetto della festa, siamo invece invitati a pensare alle vie nascoste della provvidenza ma anche alla necessità di resistere all'oppressione, ai costi richiesti dalla sopravvivenza di un piccolo popolo "separato"; facendo i doni alimentari (e non) che sono un altro obbligo della festa, siamo richiamati al legame di solidarietà e di appoggio reciproco che sono alla base dell'esistenza collettiva del popolo. Va benissimo festeggiare, mascherarsi e cantare; ma bisogna anche sapere che questa gioia deriva dalla celebrazione di una vittoria difficile e imprevista contro un progetto di "soluzione finale".

(Progetto Dreyfus, 25 febbraio 2021)


Roma Cares festeggia Purim con la deputazione ebraica

 
Mattinata diversa dal solito nel quartiere ebraico: c'è un ospite particolare, noto ai tifosi della AS Roma, Romolo, il simpatico lupo mascotte della squadra giallorossa.
   In occasione di Purim Roma Cares ha donato alcuni gadgets alle famiglie indicate dalla deputazione ebraica.
   Alla consegna erano presenti il vice presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruben Della Rocca, il presidente della Deputazione Ebraica Piero Bonfiglioli, il direttore del Roma Department Francesco Pastorella e Alessandra Panzieri della Deputazione Ebraica.
   "Con Roma Cares portiamo un sorriso alle famiglie che in questo momento stanno attraversando un momento delicato - ha dichiarato a Shalom il Presidente della Deputazione Ebraica Piero Bonfiglioli - e il mio ringraziamento va a tutta la AS ROMA"
   Tra i promotori dell'iniziativa anche il vicepresidente CER Ruben Della Rocca che ha commentato: "Il gesto dell'AS ROMA è di grande sensibilità. In un momento come quello che stiamo vivendo riuscire a donare un sorriso ad un bambino o ad una persona anziana è una della cose più belle in assoluto. Con la speranza di farne tanti altri in futuro magari allo stadio. Un ringraziamento particolare al direttore del Roma Department Francesco Pastorella e al ristorante Bellacarne che ha ospitato l'evento."

(Shalom, 25 febbraio 2021)


Israele inaugura la "diplomazia dei vaccini": donate 100mila dosi a venti Paesi

Polemica per il fatto che si tratterebbe di Paesi che hanno o potrebbero considerare di trasferire la loro ambasciata a Gerusalemme.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Israele si appresta a donare 100mila dosi di vaccini anti Covid a una ventina di Stati, e tra questi alcuni con cui non intrattiene relazioni diplomatiche. "Alla luce del successo della campagna vaccinale in Israele, abbiamo ricevuto molte richieste di assistenza nella fornitura di vaccini", si legge in una nota diffusa dal primo ministro Benjamin Netanyahu. "Israele non produce i vaccini e le dosi ordinate sono destinate all'inoculazione della nostra popolazione. Tuttavia, nell'ultimo mese, si è accumulata una quota limitata di dosi in eccesso e quindi si è deciso di assistere con una quantità simbolica il personale medico dell'Autorità Palestinese e alcuni Paesi che si sono rivolti a noi".
   Secondo l'emittente israeliana Kan, tra i Paesi in questione vi sarebbe anche la Mauritania, con cui da mesi, sulla scia degli Accordi di Abramo, si prospetta la ripresa delle relazioni diplomatiche, avviate negli anni '90 in seguito al processo di Oslo e interrotte nel 2010. Tra gli altri Stati menzionati vi sono anche San Marino, Uganda, Kenya, Etiopia, Ciad, Maldive, Guatemala, Repubblica Ceca e Honduras. Gli ultimi due Stati recentemente hanno annunciato l'intenzione di aprire sedi diplomatiche a Gerusalemme, cosa che il Guatemala ha fatto nel 2018 in seguito al trasferimento dell'Ambasciata americana da parte di Trump. Netanyahu negli ultimi dieci anni ha investito molto nel rafforzamento delle relazioni diplomatiche con diversi Stati africani, nell'ambito di una strategia volta tra l'altro ad ampliare lo spettro delle alleanze a livello delle organizzazioni internazionali.
   La stampa israeliana parla quindi di una "diplomazia dei vaccini", sottolineando come il premier stia utilizzando il vantaggio acquisito con l'approvvigionamento anticipato di milioni di dosi dei sieri Pfizer e Moderna per avanzare gli interessi diplomatici del Paese nell'arena internazionale. Sempre secondo la stampa israeliana, la decisione è stata presa da Netanyahu senza coinvolgere né il ministero della Difesa né quello degli Esteri, un'altra dimostrazione delle tensioni politiche con cui il Paese va incontro alle elezioni del 23 marzo, le quarte in meno di due anni.
   Israele ha già vaccinato più di 4,5 milioni di persone (su una popolazione di 9 milioni di abitanti) con il siero Pfizer. Le donazioni invece provengono da una scorta di 100mila vaccini Moderna, giunta a gennaio e finora inutilizzata, se non per un invio di 2,500 dosi all'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) il mese scorso. Lunedì, il segretario di Stato americano Antony Blinken, in una telefonata con l'omologo israeliano Gabi Ashkenazi, ha invitato Israele ad assistere l'Anp nella campagna vaccinale "come segno positivo di cooperazione tra israeliani e palestinesi". Secondo un appello firmato da diverse organizzazioni internazionali, Israele sarebbe tenuta a garantire i vaccini anche ai palestinesi ottemperando "all'articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra, per cui una forza occupante ha il dovere di assicurare l'adozione e l'applicazione delle misure profilattiche e preventive necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie".
   Israele sostiene invece che a fare fede in ambito di questioni sanitarie è l'allegato 3, articolo 7 degli Accordi di Oslo firmati tra Israele e l'Anp nel 1995, che stabilisce che la questione sia di competenza del ministero della Salute palestinese, anche se lo stesso trattato invita le due parti a cooperare nella lotta contro le epidemie. Secondo quanto confermato a Repubblica dal portavoce del governo palestinese Ibrahim Milhem, l'Anp ha chiuso contratti con AstraZeneca e con la Russia, che nelle scorse settimane ha anche inviato una donazione di 10mila vaccini Sputnik.
   Giovedì scorso, una delegazione guidata da Hezi Levi, il direttore generale del ministero della Salute israeliano, si è recata a Ramallah per discutere con gli omologhi palestinesi la questione dei vaccini. I funzionari palestinesi hanno avanzato la domanda di assistenza da parte di Israele con altre 100mila dosi, che è in questi giorni all'esame del governo israeliano, mentre è stato concordato che Israele vaccinerà i circa 100mila lavoratori palestinesi che quotidianamente attraversano il confine per lavorare nelle città israeliane.
   Un altro esempio della potenza della "diplomazia dei vaccini" si è avuto la settimana scorsa quando, nell'ambito di una trattativa mediata dalla Russia per fare tornare in Israele una cittadina che aveva oltrepassato il confine con la Siria, il governo israeliano ha acquistato 250mila vaccini Sputnik per il valore di un milione di dollari, che saranno a breve consegnati da Mosca a Damasco.

(la Repubblica, 24 febbraio 2021)


Israele pronta a diventare una 'scale-up nation'

Paese di attrazione per centinaia di multinazionali interessate a ricerca e innovazione, Israele è la culla delle aziende straniere hi-tech e conta 6mila start-up. Le opportunità esistono in ogni settore in cui l'alta tecnologia è strumentale allo sviluppo: in particolare nei campi di aerospazio, energia, scienze della vita e intelligenza artificiale.




(Spreaker, 25 febbraio 2021)


Israele: dopo lo sversamento del greggio, bandita la vendita del pesce

Mossa del Ministero della Sanità. Finora raccolte 70 tonnellate catrame

Il Ministero della Sanità israeliano ha bandito, con effetto immediato e fino a nuovo ordine, la vendita al pubblico di pesci e frutti di mare del Mediterraneo. La decisione è legata - ha riferito Times of Israel - agli effetti della massiccia dose di greggio, sversata con molta probabilità da una nave ancora sconosciuta, che ha investito le coste del paese con gravi danni all'ecosistema.
La mossa - ha spiegato il ministero - è stata presa "alla luce dell'inquinamento ambientale del Mar Mediterraneo che si è manifestato tra le altre maniere in una quantità di catrame rinvenuto sulle spiagge".
Secondo dati aggiornati a ieri, finora sono stati raccolti sulle coste oltre 70 tonnellate di catrame.

(ANSA, 25 febbraio 2021)
   

In Israele il vaccino si fa (anche) all'Ikea

Fra poltrone e madie, i medici somministrano dosi di vaccino... a tappeto

 
Vaccinarsi all'IKEA
 
Un paramedico dei servizi medici israeliani, Magen David Adom, mostra una fiala del vaccino Pfizer-BioNTech COVID-19 in uno store IKEA di Beit Shemesh (22 febbraio 2021)
La campagna di vaccinazione anti-Covid 19 di Israele sta facendo il giro del mondo per qualità ed efficienza. Oltre a vaccinare a tappeto in tempi record, il governo ha trasformato ambulatori e centri in piccole arene dove radunare le persone, distribuire loro cibo gratuito e alternare esibizioni di dj fra una puntura e l'altra - come a voler ricordare la bellezza dello stare insieme. Il successo del programma vaccinale israeliano è oggi un dato di fatto: 41% in meno di contagi, e le misure di restrizione si allentano portando alla riapertura di molte attività. Yuli Edelstein, ministro della salute, ha aggiunto alla lista degli accorgimenti, una trovata tanto pop quanto geniale: coinvolgere Ikea nella campagna di vaccinazione. Così il colosso del design ha aperto alcuni dei suoi store, dove, fra poltrone e madie, i medici somministrano dosi di vaccino a tappeto.
   La collaborazione è partita domenica 21 febbraio - è stato proprio il gigante from Sweden a dichiararlo sul suo sito Web prima e a lanciarlo sui social poi. In pratica il governo israeliano e l'Ikea, insieme, stanno lavorando per rendere quanto più accessibile l'opportunità di vaccinarsi. Tanto che non c'è nemmeno bisogno di prendere un appuntamento: le stazioni anti-coronavirus sono aperte tutti i giorni dalle 10 alle 17 e ci si può recare secondo la propria agenda.
   Così Israele ha tagliato il nastro della fase 2 della sua campagna vaccinale: pensando già a come ripartire, ha anche concretizzato quel pensiero tanto comune - ovvero, che il design, oggi, possa essere utile in più modi. Questa volta e in questo luogo, lo è stato mettendo a disposizione i suoi spazi (privati). Non è da tutti.

(elledecor, 25 febbraio 2021)


«Israele e Italia più vicini grazie all'ambasciatore Meir»

L'addio

Gideon Meir, l'ambasciatore di Israele in Italia dal 2006 al 2011 appena scomparso a 74 anni, aprì le porte del suo Stato alla conoscenza del popolo italiano, conquistando stima e affetto che sono durati nel tempo. Attraverso l'arte, la musica, lo sport, riuscì a far capire a platee vastissime, non soltanto ai ristretti ambienti dei Palazzi o dei Salotti, che cosa stava avvenendo in Israele: il lancio delle start up e l'impulso politico, sociale ed economico all'innovazione. Tutto ciò che poteva attecchire, in Israele trovava l'humus e la semina di Meir in Italia è stata proprio la predisposizione culturale ad aprirsi al nuovo. Uno che aveva partecipato ai negoziati con l'Egitto di dodici anni conclusi con gli accordi di Camp David sapeva che doveva osare. Attraverso le vie della comunicazione e dei rapporti pubblici con tutta Roma e l'Italia, aprendo l'impresa all'impegno a tutto campo della moglie Amira, madre di tre figli, e del giovane nipote avvocato, Michele.
   Quando lasciò nel gennaio 2012, Roma e l'Italia lo festeggiarono con una serata all'Auditorium Conciliazione presentata da Fabrizio Frizzi alla quale parteciparono in centinaia: esponenti delle istituzioni e della politica (bipartisan, da Gianni Letta a Romano Prodi a Walter Veltroni, a Giulio Terzi di Sant'Agata, a Umberto Vattani), dell'arte, della musica, dell'imprenditoria, dello Sport con Roma e Lazio insieme in prima fila, il mondo di Israele in Italia e i diplomatici di decine di Paesi. Cantarono Noa, David D'Or e Raiz, il duo d'Opera d'Israele con le soprano Mirela Gradinaru e Hila Baggio.
   Un ambasciatore come Gideon Meir ha aperto finestre che nessuna morte potrà mai chiudere
   
(Corriere della Sera, 25 febbraio 2021)


Vaccinata oltre metà della popolazione. E in Israele ritorna la cultura col pubblico

Ma serve il certificato di immunità

I possessori del "Green pass" hanno assistito ieri sera a un concerto della cantante Nurit Galron a Tel Aviv. Le restrizioni sono state allentate per consentire a un massimo di 500 persone di frequentare all'aperto e fino a 300 al chiuso.
Dopo quasi un anno di chiusura a causa della pandemia di Covid-19, questa settimana in Israele molte istituzioni culturali hanno riaperto i battenti, accogliendo il pubblico. Non molte persone, e rigorosamente tutte provviste di «passaporto verde», cioè il certificato vaccinale o di immunità. Il ritorno alla cultura è stato possibile grazie al fatto che avendo già vaccinato quasi la metà della popolazione, i tassi di contagio in Israele sono precipitati. Oltre alle attività culturali, hanno riaperto molte attività economiche, i centri commerciali, le palestre, gli hotel.

(Avvenire, 25 febbraio 2021)


Bibi, colomba della pace per i palestinesi

Per Ramallah, Bibi è un capo di stato più conveniente di Saar e Bennett

Chi avrebbe mai detto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sarebbe stato visto come una colomba agli occhi dei palestinesi e non come un falco.
Secondo fonti palestinesi, il deputato del Likud e il vice ministro Fateen Mullah hanno trattato con il governo palestinese a Ramallah per indurlo ad esercitare la sua influenza sui cittadini arabi in Israele e li convincano a votare per Benjamin Netanyahu alle prossime elezioni e non per la lista araba. Il governo palestinese di Ramallah teme che con un’eventuale caduta di Netanyahu, alternative come Naftali Bennett o Gidon Saar possano essere ancora più pericolose. Rispetto a Bennett e Saar, Bibi è una colomba della pace. Per questo sono pronti a cercare di convincere i cittadini arabi israeliani che hanno diritto al voto a depositare nelle urne la scheda di Bibi.
Secondo Gidon Saar, il fatto che Netanyahu stia cercando di coinvolgere l'OLP nelle prossime elezioni in Israele è una linea rossa che il Likud ha attraversato ...

(israel heute, 24 febbraio 2021 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


La quinta mem di Purim: le maschere e lo strano rapporto con il carnevale

di Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

 
A Purim si usa mascherarsi, ma perché? Da dove origina questo uso? Sappiamo che tradizionalmente vi sono quattro precetti da osservare a Purim, ognuno dei quali inizia con la lettera mem: meghillà, la lettura della meghillàda fare la sera e la mattina; mattanòt la evionim, doni ai poveri, un dono ciascuno a due poveri differenti; mishloach manòt, invio di due alimenti a un amico; mIshtè, il banchetto, nel senso di un pasto in cui si abbonda con il cibo e soprattutto con il vino. A questi precetti si è aggiunta un'altra cosa, che non è un precetto, ma una consuetudine, quella di mascherarsi; maschera in ebraico si dice massekhà, e così abbiamo la quinta mem.
   Tra gli obblighi sopra citati, che hanno origine nella meghillà stessa e sono discussi e regolati nel Talmùd, e le prime notizie che abbiamo nei testi rituali sull'uso di mascherarsi, è passato un bel po' di tempo. La notizia compare, sembra per la prima volta, in una raccolta di responsa firmati da rav Yehudà Mintz, che era un illustre maestro di origine tedesca (Magonza) che da giovane si trasferì a insegnare a Padova, dove creò una importante scuola di Torà. Rav Mintz fu molto longevo e morì nel 1508. Tra i pochi testi che di lui ci sono rimasti c'è la sua risposta sulla liceità di "indossare i partzufìm come usano fare ragazzi e vergini, anziani e giovani a Purìm". Partzùf è una parola che in ebraico indica la faccia o l'effigie, di probabile origine greca, pròsopon (che in greco indicava anche la maschera teatrale, da cui in italiano "persona" e "prosopopea"), e qui nel responso indica chiaramente una maschera, anche se non si usa un termine ebraico specifico per indicarla. Il quesito rituale si poneva soprattutto rispetto al divieto biblico: "non vi sia un oggetto maschile su una donna e non indossi un uomo l'abito di una donna" (Devarìm 22:5). Rav Mintz non solo dimostra che per un'occasione come Purìm e per lo scopo di divertimento innocente del travestimento non si fa alcuna trasgressione del divieto, ma testimonia la diffusione dell'uso, senza alcuna critica rabbinica, nella sua cerchia famigliare dai tempi della sua infanzia.
   In base a questo documento gli storici hanno dedotto che l'uso di mascherarsi a Purìm, che non esisteva nell'antichità, sia stato introdotto nell'ebraismo (con grande successo e diffusione) per tramite degli ebrei italiani del nord est, che l'avrebbero fatto a imitazione del Carnevale veneto. Una tesi più recente, che si basa sulle parole di Mintz quando aggiunge un suo ricordo di giovinezza, attribuisce l'inizio dell'uso delle maschere agli ebrei tedeschi, anche loro ad imitazione del carnevale locale; dalla Germania passò in Italia e poi nel resto del mondo (escluse alcune comunità di area islamica).
   Parlare del Carnevale accostato a Purim potrebbe far venire i brividi ai custodi dell'ortodossia e non solo. Sappiamo che cosa succedeva agli ebrei durante il Carnevale, in cui erano l'oggetto degli scherni della popolazione cristiana; rav Elio Toaff ha documentato quello che succedeva a Roma, compresa la tradizione dell'ebreo messo in una botte fatta rotolare dal monte di Testaccio, o la corsa degli ebrei seminudi per le vie del Corso. Rav Toaff ricordava questi fatti agli ebrei romani che si erano dimenticati della storia e festeggiavano i giorni di Carnevale ignari del suo significato. Che è quello di un periodo festivo di remote origini in cui ricorrono temi e celebrazioni di feste pagane come i Saturnali romani e le Dionisiache greche, nelle quali erano consentite tutta una serie di trasgressioni e inversioni dei normali rapporti sociali. Il cattolicesimo ha poi assorbito, regolato e reinterpretato le celebrazioni di questo periodo. In contrasto con tutto questo il Purìm per gli ebrei è il ricordo di un avvenimento storico e il simbolo della salvezza dalle persecuzioni, e ideologicamente non ha niente a che fare con una celebrazione che è legata a tutt'altri temi.
   Malgrado le differenze, esistono però dei punti di contatto. Il primo è il periodo. Purìm cade un mese prima di Pesach, e la fine del Carnevale, il mercoledì delle Ceneri, segna l'inizio della quaresima, i 40 giorni che precedono la Pasqua cristiana che nella maggioranza degli anni cade in prossimità di Pesach. Quindi Purim di solito cade pochi giorni dopo la fine del Carnevale e solo in qualche anno un po' più tardi. Inoltre le manifestazioni di allegria del Purìm (gli eccessi alimentari, gli scherzi, le barriere sociali un po' abbattute) sono, in forma concentrata in una giornata, per alcuni aspetti simili a quelle del Carnevale. In un editto del Cardinale Vicario di Roma del 1775 (recentemente riproposto su facebook da David Pacifici) si proibivano agli ebrei di Roma in occasione della loro festa "detta in ebraico Purim (e per abuso il Carnevale)" di usare maschere, fare festini, e invitare cristiani alla loro festa. L'analogia risaltava e anche se si parla di "abuso", c'era chi, tra ebrei e cristiani, lo chiamava Carnevale (degli ebrei). Qui si inserisce il tema delle maschere, che da un certo momento della storia caratterizza il Purim e lo rende simile al Carnevale.
   Secondo gli storici, gli ebrei italiani e/o tedeschi, avrebbero alla fine del medioevo copiato i modelli cristiani, cominciando a mascherarsi, ma chissà veramente chi ha copiato da chi. Perché qui si inserisce una riflessione ebraica sul significato del mascheramento, per dimostrare quanto questo tema sia essenziale nella festa di Purìm. Se le maschere sono entrate a un certo punto nella festa, non è stata un'ingerenza estranea ma un completamento organico.
   Per capire questo concetto teniamo presente che la maschera ha essenzialmente due scopi: cancellare l'identità di una persona nascondendola, e trasformarla in un'altra persona. Sono due temi molto presenti nella tradizione e specialmente ricorrenti a Purìm. Il nome della regina Ester, in ebraico contiene la radice samekh-tau-resh, che significa nascondere. La cosa viene interpretata nel senso del nascondimento divino, il volto divino che non si rende visibile lasciando che gli eventi abbiano il loro corso; ma è nascondimento apparente, perché la provvidenza continua ad agire. Lo stesso nome divino nella meghillà non compare mai, è nascosto. Ester non rivela, se non nel drammatico secondo banchetto, la sua identità. È un'ebrea nascosta e travestita. Mordekhai viene (tra)vestito con gli abiti regali. Tutta la storia della meghillà gioca sul tema del rovesciamento (wenahafòkh) e della trasformazione.
   E ancora: maschera è una parola di etimologia molto discussa, forse di origine tedesca. Ma è molto simile al termine ebraico che rav Mintz non usava e che dopo sarebbe stato di impiego comune: masekhà (oggi impiegato anche per le mascherine facciali di protezione dal Covid). Potrebbe sembrare una parola presa in prestito da altre lingue, ma la radice ebraica a cui è collegata (samekh-waw-khaf, o samekh-khaf-he) indica la copertura, e nella Torà è frequente la parola masàkh, che è la cortina sulla porta, e la sukkà che è la capanna che protegge. E forse già in Isaia 25:7 e 28:20 ha il significato di maschera (altrove massekhà è il getto della fusione, dalla radice nun-sàmekh-khaf, con cui si fabbricano idoli metallici).
   E a pensarci bene questo tema della copertura compare in altri importanti contesti: come accennato poco sopra, nella festa di Sukkòt, dove si celebra la copertura, nel senso della protezione divina; a Kippùr, dove il nome della giornata deriva dalla radice kaf-pe-resh, che significa espiazione, nel senso della cancellazione, ma anche della copertura: i peccati sono coperti e non si vedono più; in italiano, come già Shadàl notava, "coprire" e "coperchio" hanno le stesse consonanti di kpr. A Rosh ha Shanà è la luna che si nasconde (bakèseh leyom chaghenu) e a Pesach è il mare che ricopre gli inseguitori di Israele (waykhassù maym tzarehèm). Quindi abbiamo la copertura protettiva di Israele, la copertura dei peccati, la copertura della luna e la copertura dei nemici per non renderli effettivi; il tema comune è la protezione. DI Moshè si racconta che dopo essere stato in contatto con il Signore aveva il volto tanto luminoso che le persone avevano timore di avvicinarsi a lui, e era costretto a mettersi sulla faccia un maswè, un panno di protezione, in questo caso per proteggere gli altri (Shemot 34:33-35).
   E infine il grande modello del travestimento è nella storia (Bereshit 27) di Yaaqov che si traveste da Esav per carpire la benedizione paterna, prototipo di tante situazioni, anche del desiderio di Israele di cancellare la propria identità.
   In conclusione, quale che sia l'origine delle maschere a Purìm il corredo simbolico ebraico che le accompagna è tale il riferimento al Carnevale è solo quello di una pallida analogia.

(Shalom, 24 febbraio 2021)


L'atomica iraniana La carota di Biden

Prove di dialogo in Medio Oriente tra lo scetticismo generale. La novità è che Joe Biden ha cambiato posizione rispetto a quella di Donald Trump. Dopo 20 mesi dall'abbandono dell'accordo internazionale sul programma atomico iraniano da parte degli Stati Uniti, ora Washington si è dichiarata disponibile a riaprire una qualche trattativa con Teheran.

Giuseppe D'Amato

L'Iran ha sempre affermato che il suo programma ha scopi civili, ma i vicini - in primo luogo Israele - ne hanno sempre dubitato. La comunità internazionale e Gerusalemme in particolare non vogliono che Teheran si doti dell'arma atomica. Alle Nazioni Unite, nel 2010, furono approvate pesanti sanzioni anche grazie al voto di Russia e Cina. Proprio la posizione costruttiva del Cremlino di 6 anni fa ha facilitato l'accordo del 2015: l'Iran invia in Russia il materiale nucleare utilizzato, eliminando uno dei problemi maggiori.
   Basandosi su calcoli degli ultraconservatori israeliani, Donald Trump si rese conto che, comunque, Teheran in pochi anni avrebbe potuto avere la bomba atomica. Così, nel maggio 2018, gli Usa uscirono dall'accordo internazionale, pretendendo di siglarne uno nuovo, in cui inserire anche il programma missilistico balistico e l'impegno formale ad uscire dai conflitti regionali. Gli ayatollah risposero negativamente. Risultato? L'introduzione di nuove sanzioni Usa, che hanno peggiorato la crisi economica nel Paese mediorientale.
   Il presidente Biden è tornato alla carota dopo il bastone del predecessore. La ragione è semplice: l'accordo del 2015 è praticamente fallito e gli iraniani non rispettano più da mesi i limiti definiti alle attività nucleari. Il margine temporale per raggiungere la possibile bomba atomica si è assottigliato.
   Vi sono, però, anche fini calcoli politici nella scelta del nuovo inquilino della Casa bianca: a giugno sono previste le presidenziali iraniane. Il moderato Rouhani, favorevole all'intesa, non può più candidarsi. I «duri» del regime, invece, vorrebbero che l'accordo saltasse del tutto per meglio giustificare davanti alla popolazione l'attuale grave crisi economica provocata dalle sanzioni. Le proteste negli ultimi tempi sono aumentate contemporaneamente all'elevarsi del tasso di disoccupazione.
   L'Amministrazione Biden, in sostanza, spera di sfruttare a proprio favore la finestra temporale che si è spalancata. I repubblicani Usa sono al contrario dubbiosi: temono che concedere altro tempo agli ayatollah o allentare la presa sia un errore. Israele, preoccupato, osserva gli eventi, mentre i suoi mass media scrivono che il premier Netanyahu, assai vicino a Trump, sia stato uno degli ultimi leader mondiali ad essere chiamato da Biden dopo l'insediamento alla Casa Bianca.
   Come per il prolungamento del trattato Start-3 sulla riduzione degli arsenali nucleari, definito nell'arco di pochi giorni qualche settimana fa da Mosca e Washington, anche in questa partita il rapporto tra Russia e Stati Uniti è centrale per sperare di raggiungere un qualche risultato positivo. Nel momento in cui si passa dal litigare sui valori fondamentali al trattare le questioni geostrategiche, è necessario evidenziarlo, il mondo scopre tutta la sua fragilità.

(L’Eco di Bergamo, 24 febbraio 2021)


Uno dei peggiori disastri ambientali degli ultimi decenni in Israele

È stato trovato bitume su 170 chilometri di costa del paese, ma non si sa ancora da dove sia arrivato.

 
Una tartaruga ricoperta di bitume trovata nei pressi della riserva naturale di Gador, vicino a Hadera
 
Volontari puliscono la spiaggia di Hadera, 22 febbraio
 
Soldati puliscono una spiaggia della riserva di Sharon, vicino a Gaash, 22 febbraio
 
Una coccinella sulle rocce coperte di bitume nella riserva di A Tel-Dor, a Nahsholim, 23 febbraio
È passata una settimana da quando in Israele una fuoriuscita di petrolio in mare aperto ha fatto depositare almeno mille tonnellate di bitume sulle coste del paese. Il bitume - che è il materiale solido in cui si trasforma il petrolio a basse temperature - è stato trovato su circa 170 chilometri di costa (la costa mediterranea di Israele si estende per circa 195 chilometri) e da giorni migliaia di volontari, coordinati da ONG e autorità ambientali locali, sono al lavoro per cercare di ripulire le spiagge.
   Il bitume è però talmente tanto che secondo alcuni attivisti potrebbero volerci decenni per rimuoverlo davvero tutto. Shaul Goldstein, direttore dell'autorità israeliana che si occupa dei parchi naturali e che da giorni è impegnato a ripulire le spiagge, ha detto: «Mi viene da piangere. [Il bitume] è ovunque, in alcuni punti è spesso anche 10-12 centimetri». Diversi funzionari israeliani lo hanno definito uno dei peggiori disastri ambientali degli ultimi decenni in Israele.
   Cosa abbia causato la perdita di petrolio al momento non è chiaro: secondo il ministero della Protezione ambientale è probabile che si tratti di una petroliera, ma individuarla potrebbe non essere facile, perché è possibile che stesse operando illegalmente e quindi che non fosse monitorata. La ministra per la Protezione ambientale, Gila Gamliel, ha detto che sono state individuate 10 navi da cui potrebbe essere fuoriuscito il petrolio e ha detto di ritenere che l'incidente sia avvenuto al di fuori delle acque territoriali israeliane, a circa 31 miglia dalla costa. Nel frattempo è stata avviata un'indagine che sta cercando di individuare la causa della fuoriuscita anche con l'utilizzo di immagini satellitari.
   Domenica 21 febbraio il governo ha chiuso tutte le spiagge del paese sul Mar Mediterraneo e ha stanziato 45 milioni di shekels (11,3 milioni di euro) per la pulizia delle coste. Ad alcuni volontari che stanno lavorando per rimuovere il bitume sono state date delle bombole di ossigeno a causa delle difficoltà che avevano a respirare dopo averne inalato i fumi.
   Il bitume è arrivato fino alle coste meridionali del Libano, e le autorità libanesi hanno dato la colpa a Israele, senza però mostrare di averne le prove. Non sarebbe invece arrivato sulle coste della Striscia di Gaza, secondo Yasser al-Shanti, a capo dell'autorità marittima di Gaza.
   Nel frattempo in Israele stanno proseguendo anche le operazioni di soccorso agli animali che sono stati trovati coperti di bitume: quattro tartarughe marine sono morte, secondo le autorità locali, e giovedì è stata trovata la carcassa di una balena spiaggiata, i cui polmoni erano pieni di un liquido scuro. Haaretz scrive che l'esito dell'autopsia non è ancora noto e non si sa con certezza se quel liquido fosse petrolio.
   Il fatto che la notizia della fuoriuscita di petrolio sia venuta fuori solo quando mercoledì erano stati ritrovati sulla spiaggia alcuni animali ricoperti di bitume ha fatto dubitare della capacità del governo israeliano di monitorare eventi di questo tipo. Secondo Shaul Chorev, ammiraglio della marina israeliana in pensione e ora a capo di un centro di ricerca sulle politiche marittime dell'università di Haifa, Israele non si preoccuperebbe abbastanza del controllo del mare: «Le nostre attività sono sempre incentrate sullo sventare attività terroristiche, ma non è questo il quadro completo della sicurezza in mare», ha detto al New York Times.
   Secondo Chorev Israele non dovrebbe solo investire in satelliti e altri dispositivi di localizzazione, ma anche assegnare a un ente governativo la chiara responsabilità di monitorare la costa per eventuali disastri ecologici e contenerli.
   
(il Post, 24 febbraio 2021)


Ottant'anni fa lo sciopero di Amsterdam in difesa degli ebrei

La rivolta del 25 febbraio si estese ad Haarlem, Utrecht, Hilversum, Zaandam e fu repressa nel sangue dalle SS

di Roberto Brunelli

Erano stati presi alla sprovvista, i nazisti. Uno sciopero generale, a difesa degli ebrei di Amsterdam, convocato dopo il pogrom, i rastrellamenti e le prime deportazioni lanciate dal loro quartiere, completamente isolato dal resto della città, con tanto di filo spinato, chiusura di ponti mobili e i posti di blocco. Un atto di resistenza e di eroismo che prese di contropiede gli uomini delle SS e della Wehrmacht, con le fabbriche chiuse, i negozi che abbassarono le saracinesche, i ristoranti vuoti, il traffico fermo. E la protesta che finì per allargarsi ad altre città: Haarlem, Utrecht, Hilversum, Zaandam.
  Era il 25 febbraio 1941. Sembrò l'inizio di una rivolta in tutto il Paese, occupato dalle truppe di Hitler in soli cinque giorni neanche nove mesi prima. Ad Amsterdam era stata una rapida e drammatica sequenza di eventi, in quel febbraio di ottant'anni fa, a portare allo sciopero.
  Prima, il 12 febbraio, la 'Ordnungspolizei' aveva fatto irruzione nella gelateria Koco e alcuni agenti rimasero feriti, nei giorni seguenti seguirono altri atti di ostilità nei confronti della polizia tedesca. Infine la vendetta: una rappresaglia su larga scala, 425 uomini ebrei tra i 20 e i 35 anni letteralmente strappati dalle strade, arrestati e trascinati prima al campo di concentramento di Schoorl e da lì ai lager di Buchenwald. Di questi, 389 furono poi deportati a Mauthausen. Solo due riuscirono a sopravvivere. La maggior parte morì prima della fine dell'anno.
  Quel che le forze delle SS e i collaborazionisti olandesi non avevano previsto era stata la reazione della città. A prendere l'iniziativa fu il partito comunista, che ovviamente era stato dichiarato fuori legge. Furono due militanti, Piet Nak e Willem Kran, a proporre lo sciopero durante una riunione al Noordermarkt convocata per il 24 febbraio, alla quale parteciparono anche membri dei sindacati. Vennero stampati dei volantini che invasero tutte le strade: a grandi lettere c'era scritto "Sciopero! Sciopero! Sciopero!" ("Staakt! Staakt! Staakt! in olandese), e poi "chiudiamo tutta la città di Amsterdam per un giorno".
  La mobilitazione fu sostenuta anche dal Fronte Marx-Lenin-Luxemburg, fondata da Henk Sneevliet, già sodale di Trotsky.

 IL CRESCENDO DELLO SCIOPERO
  Quel che segue è la narrazione di una delle più straordinarie storie di resistenza della Seconda guerra mondiale.
  Lo sciopero del 25 febbraio iniziò con gli autisti dei tram ed il personale sanitario.
  Seguirono i lavoratori del porto, poi tanta gente comune percorreva le strade suonando i campanelli delle biciclette e fermando il traffico.
  Partecipò anche il personale delle scuole così come gli impiegati di società private, tra cui tra gli altri i grandi magazzini De Bijenkorf. Si calcola che almeno 300 mila persone abbiano partecipato allo sciopero. Il giorno dopo, la protesta si allargò ad altre zone vicine, da Utrecht al Kennemerland a Bussum.
  La repressione fu immediata. Gli ultimi focolai della protesta vennero stroncati nel sangue nel giro di due giorni, finanche le granate vennero lanciate, quando non erano stati sufficienti i mitragliatori: morirono nove partecipanti allo sciopero, a decine rimasero gravemente feriti, ed entro i primi giorni di marzo furono arrestate e fucilate altre 18 persone.
  Gli storici concordano: anche se la protesta era stata soffocata, il "Februaristaking" - lo "sciopero di febbraio", come lo chiamano gli olandesi - rappresenta un giorno cruciale nella storia della Resistenza al nazi-fascismo: per la prima volta in un Paese occupato dai tedeschi la popolazione si era ribellata in modo compatto e deciso a sostegno della comunità ebraica.
  Un evento, peraltro, a cui seguì lo sciopero studentesco del novembre 1941, e successivamente, quello dell'aprile-maggio 1943, a segnare l'inizio, nei Paesi Bassi, della resistenza armata su scala nazionale.

 I NON EBREI IN PIAZZA
  Eppure quella Amsterdam è una storia particolare: non-ebrei scesi in strada a rischiare la vita a sostegno dei loro vicini di casa e concittadini ebrei.
  Quella ebraica rappresentava a quel tempo il 10% della popolazione complessiva di Amsterdam, con circa 79 mila abitanti nel 1941, di cui circa 10 mila persone di origini straniere - tra questi Anne Frank e la sua famiglia - che qui avevano trovato rifugio negli anni trenta. Il fatto è che gli ebrei olandesi si erano trovati in un vicolo cieco, senza via di scampo: tutto congiurava contro di loro, compresa la geografia, chiusi dal mare a ovest e a nord, da una frontiera in comune con la Germania e un'altra con il Belgio occupato.
  Dopo la capitolazione delle forze armate dei Paesi Bassi il 14 maggio 1940 (e dopo la fuga della regina Guglielmina dall'Aja alla volta di Londra), le prime misure antisemite prese dagli occupanti non si erano fatte attendere: prima gli ebrei furono esclusi dal servizio di difesa contraerea, poi toccò a tutti quelli che occupavano posizioni pubbliche ad essere rimossi d'ufficio, a cominciare ovviamente dalle università.
  Ci furono tensioni e atti di sangue, con il Movimento nazional-socialista che lanciò provocazioni a non finire nei quartieri ebraici, a cui seguirono scontri armati tra il suo braccio armato - il 'Weerbaarheidsafdeling' - e i gruppi di autodifesa ebrei e i loro sostenitori.

 DAI NAZISTI IL TERRORE
  Episodi ai quali la risposta nazista fu il terrore, il pogrom e le prime deportazioni. All'indomani dello sciopero e dello scioglimento dell'intero consiglio comunale della città, la scelta di Hitler e delle SS fu la progressiva e sistematica organizzazione dell'annientamento.
  Affidate le forze di polizia a Sybren Tulp, che aveva servito nell'esercito coloniale nelle Indie orientali olandesi - e che si dimostrò rapidamente un collaborazionista prezioso per il Fuehrer - si spalancarono le porte del genocidio, come nel resto dell'Europa: dall'aprile del 1942 gli ebrei olandesi furono costretti a portare la stella di David, tre mesi dopo iniziarono le deportazioni verso i campi di sterminio, a cominciare da Auschwitz-Birkenau e Sobibor.
  Molti ebrei fecero il loro passaggio verso est - come Anne Frank - nel famigerato campo di transito di Westerbork.
  Mentre i tedeschi confiscarono le proprietà lasciate dagli ebrei deportati (solo nel 1942 il contenuto di quasi 10 mila appartamenti ad Amsterdam venne espropriato e spedito in Germania), e dopo che circa 25 mila ebrei, compresi almeno 4.500 bambini, erano riusciti a nascondersi per evitare la deportazione (un terzo di questi 'clandestini' fu scoperto, arrestato e deportato), nel settembre del 1943 i tedeschi arrivarono a dichiarare Amsterdam una città "judenfrei", ossia "libera dagli ebrei". L'efficienza del genocidio non conosceva soste. Oltre tre quarti della comunità ebraica d'Olanda del 1940 non sopravvissero all'Olocausto.

(AGI, 24 febbraio 2021)


Amazon fa sparire il bestseller contro l'ideologia gender

di Giulio Meotti

ROMA - "Ora che gli elettori hanno allontanato gli autoritari Repubblicani dall'esecutivo e dal Congresso, gli americani dovrebbero aspettarsi che lo scambio aperto di idee rifiorisca. Giusto?". Non proprio, scrive il Wall Street Journal. Lo studioso conservatore Ryan Anderson ha annunciato che Amazon ha eliminato il suo libro "Quando Harry divenne Sally", una critica delle idee progressiste sul genere e in particolare sulle procedure di cambio di sesso nei bambini. "Le aziende tecnologiche sono diventate sempre più esplicite sulla loro censura ideologica", commenta il Journal. Già alla Heritage Foundation, oggi presidente dell'Ethics and Public Policy Center, Anderson ha detto a Newsweek di aver scoperto che il suo libro era scomparso da Amazon e dai venditori di libri usati, così come l'eBook dal Kindle e il podcast da Audible. Né lui né il suo editore sono stati informati da Amazon. Nel 2018, il libro ha raggiunto il primo posto in ben due classifiche dei best seller di Amazon prima ancora che fosse pubblicato. "Dobbiamo rispettare la dignità delle persone che si identificano come transgender", scrive Anderson nel libro, "ma senza incoraggiare i bambini a sottoporsi a trattamenti sperimentali di transizione e senza calpestare i bisogni e gli interessi degli altri".
  Nella stessa settimana in cui la Camera dei Rappresentanti sta per lanciare un progetto di legge transgender radicale che modifica il Civil Rights Act del 1964, Amazon cancella il libro che si oppone all'ideologia di genere. La norma proposta aggiorna la legislazione contro il razzismo del 1964 mettendo di fatto orientamento sessuale e identità di genere sullo stesso piano della razza e punendo ogni forma di discriminazione sulla base di tali criteri. "La migliore biologia, psicologia e filosofia", scrive Anderson, "supportano la comprensione del sesso come realtà corporea e del genere come manifestazione sociale del sesso corporeo. La biologia non è bigottismo". Il transgender, scrive ancora Anderson, è un sistema di credenze che "assomiglia sempre più a una religione cultuale". Tra gli accademici che Anderson cita c'è Paul McHugh, professore di Psichiatria alla Johns Hopkins University School of Medicine, famoso per aver contribuito a chiudere un pionieristico programma transgender iniziato negli anni 70 e per aver fatto pressioni contro la copertura del Medicaid per la chirurgia di cambio di genere. Descritto in un profilo sul Washington Post come "il portavoce del movimento conservatore millennial e istruito della Ivy League", Anderson era oggetto di una campagna di boicottaggio. "Amazon sta dando credibilità a un libro anti trans permettendogli di farsi strada fino al primo posto", aveva scritto il giornalista Matt Baume.
  Non è la prima volta che Amazon censura la critica al gender. Ha respinto la pubblicità su un libro dedicato ai rischi delle ragazze sottoposte a un intervento chirurgico per il cambio di sesso. Titolo del libro di Abigail Shrier dall'inglese, "Danno irreversibile: la mania transgender che seduce le nostre figlie". Amazon le ha fatto sapere che non lo avrebbe promosso "perché mette in discussione l'orientamento sessuale". Abigail Shrier ha risposto: "Se scrivi un libro che celebra le adolescenti in difficoltà che improvvisamente si scoprono 'transgender' perseguendo un regime di ormoni e di interventi chirurgici, Amazon lo promuoverà felicemente. Ma se scrivi un libro che ne indica i rischi, Amazon non vuole avere niente a che fare con te". Ieri, la modella transgender Munroe Bergdorf ha chiesto alle società del tech di agire con la censura: "Non discuto con il Ku Klux Klan come con le femministe critiche del gender". Ecco. Ma è peggio di così. Su Amazon sono in vendita memorabilia naziste, ma non un libro che ricorda l'esistenza di XX e XY.

(Il Foglio, 24 febbraio 2021)



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E Dio creò l'uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina


 


Bojo riapre (a tappe) l'Inghilterra. In Israele è libero chi ha il patentino

Il premier inglese presenta al Parlamento il piano per uscire dal lockdown: entro il 21 giugno si torna alla normalità. La Merkel pensa a un programma di ripartenza in quattro fasi.

di Caterina Belloni

La libertà potrebbe tornare in Gran Bretagna con il primo giorno d'estate, visto che dal 21 giugno potrebbero essere cancellati tutti i divieti sul distanziamento sociale. L'ultimo passaggio di un programma in quattro fasi, che Boris Johnson ha presentato ieri al Parlamento e poi alla nazione, con un discorso ufficiale.
   Oltremanica il lockdown è attivo ormai da quasi due mesi, visto che dopo Natale il governo ha imposto a tutti di rimanere a casa e ha chiuso i negozi non essenziali, i locali, le palestre, le scuole. La terza chiusura in un anno nel Paese, che ha avuto oltre 100.000 morti e dove si è sviluppata la variante inglese, che adesso minaccia anche l'Italia.
   Il piano presentato ieri da Johnson si sviluppa su quattro fasi, che si attivano a distanza di cinque settimane l'una, solo nel caso in cui alcuni parametri, come il livello di contagiosità e la distribuzione dei vaccini, vengano rispettati.
   La prima fase prevede due date chiave. L'8 marzo saranno riaperte le scuole e verrà permesso a due persone di abitazioni diverse di incontrarsi all'aperto e sedere vicino su una panchina o per un picnic. Il 29 marzo, invece, verranno autorizzati incontri tra i componenti di due famiglie o tra sei persone appartenenti a nuclei diversi, purché siano all'aperto, in un parco o nel giardino di casa. Nella stessa data ricominceranno anche gli sport all'aperto come calcio, golf e tennis.
   Il secondo passaggio è fissato per il 12 aprile e prevede la riapertura di negozi, parrucchieri, palestre e attività come ristoranti e bar, solo però se hanno spazi all'aperto. Anche gli zoo e i parchi tematici potranno accogliere di nuovi i visitatori.
   La terza fase scatterà il 17 maggio, quando sarà cancellata buona parte delle limitazioni e verrà concesso di incontrarsi al chiuso (seppur in numero ridotto). In questa data verranno riaperti gli stadi, anche se solo in parte. Sarà concesso avere 4.000 spettatori nelle strutture di medie dimensioni, mentre gli stadi maggiori, dove ad esempio si disputano le partite di Premier League, potranno lasciare spazio fino a 10.000 tifosi.
    Dopo cinque settimane, infine, il 21 giugno, appunto con l'estate, arriverà il momento di dimenticare il distanziamento sociale e riprendere una vita normale. Tanto che Johnson nei giorni scorsi ha scritto alla Uefa, offrendo la Gran Bretagna come sede ospitale per gli Europei di calcio, previsti per questa estate e che secondo i piani dovevano avere una formula itinerante. Un segnale di ottimismo, cui solo i risultati delle prossime settimane e della campagna di vaccinazioni (che ha già interessato 18 milioni di persone) potranno dare ragione.
    In altri Paesi a noi vicini, intanto, si stanno delineando posizioni diverse. Anche la Germania è in lockdown e ci rimarrà fino al 7 marzo. L'obiettivo è di scendere a 35 nuovi casi ogni 100.000 abitanti a settimana, prima di permettere la riapertura di negozi e locali, ma Angela Merkel in queste ore sta studiando un piano dettagliato in quattro fasi, che metterà come priorità l'apertura delle scuole e prevede di fare test, tracciare i contatti, indossare mascherine per contenere i contagi, specie quelli determinati dalle varianti del virus.
    In Francia, al momento le scuole sono aperte, come le biblioteche, mentre teatri e cinema sono chiusi. Ci si può incontrare all'aperto, ma con non più di sei persane, mentre le visite a casa sono vietate. Nelle ultime ore, però, un picco nella diffusione di contagi a Nizza ha determinato un lockdown parziale nella zona che va da Mentone a Théoule-sur-Mer, per una durata di quindici giorni.
    In Israele, infine, non ci sono restrizioni di movimento, ma resta un limite nel numero dei contatti. Dieci amici in casa, 20 all'aperto. Per i vaccinati, però, la vita torna (quasi) alla normalità. Chi ha un Green pass, cioè un certificato digitale di doppia vaccinazione, potrà tornare anche in piscine, palestre, cinema e teatri.
   
(La Verità, 23 febbraio 2021)


Israele, tra natura e storia punta tutto sui Parchi nazionali

Oltre 60 siti, con sicurezza sanitaria ed esperienze potenziate

Avventura, natura, esperienze dirette, sostenibilità e l'aiuto della tecnologia. Così Israele si prepara al ritorno del turismo, tra la campagna vaccinale che procede a grandi passi e l'arrivo della primavera, puntando tutto sui suoi oltre 60 parchi naturali e archeologici, molti patrimonio Unesco (www.parks.org.il).
   "Stiamo lavorando a una riapertura in totale sicurezza", racconta Orit Steinfeld, Marketing Director dell'Israel Nature and Park Authority. Per tutto il 2021, infatti, Ministero del Turismo e Ministero della Salute israeliani collaboreranno proprio per mantenere un equilibrio tra gestione sanitaria ed economia, settore di cui il turismo nel Paese è una fetta fondamentale.
   Grande "appena" quanto la Lombardia (28 mila chilometri quadrati) Israele è uno dei pochi paesi al mondo a godere dell'affaccio su quattro mari: il Mediterraneo, il Mar Rosso, il Mar Morto, considerato la più grande spa naturale al mondo, e Tiberiade. Oltre a una natura che va dal deserto del sud ai verdi boschi e foreste del nord e un crogiolo di lingue e popolazioni che incarnano il patrimonio culturale millenario, di cui ogni angolo di città e roccia del deserto sono segno e testimonianza. Senza dimenticare le sue due "perle", la capitale Gerusalemme, "ombelico del mondo", e Tel Aviv la "giovane", dove scoprire sempre nuove tendenze.
   L'Italia, a meno di quattro ore di volo, per Israele rappresenta il sesto mercato turistico mondiale e il quinto tra quelli con i migliori trend in crescita (nel 2019, su oltre 4 milioni e mezzo di presenze, sono stati 190-700 gli italiani in arrivo con un +77% sul 2017).
   Le nuove misure già avviate nei parchi del Paese vanno dal social distancing ai servizi tailor made. Proprio per evitare assembramenti pericolosi, si va dal potenziamento del sistema di prenotazioni on line per gli accessi al calcolo della capienza massima di visitatori anche nei siti all'aperto, con pacchetti (Israel Pass) che permettono di visitare anche più parchi e muoversi con i mezzi pubblici. Incrementata inoltre l'accessibilità per le persone con disabilità o ridotta capacità motoria.
   Ma Israele, chi c'è stato lo sa, è uno di quei luoghi dove tornare più volte nelle diverse fasi della propria vita. Ecco allora un moltiplicarsi anche delle nuove esperienze da vivere.
   Per gli amanti delle camminate c'è solo l'imbarazzo della scelta lungo sentieri dai panorami mozzafiato, come quello da Korazim a Cafarnao, dove Gesù iniziò la sua predicazione; o il percorso che taglia le montagne di Eilat nel deserto del Neghev (da fare in bici anche i 300 chilometri dal cratere Ramon ad Eilat), fino ai tanti siti per campeggiare sotto al cielo stellato.
   Per gli amanti della natura, accompagnati dai ranger si va alla scoperta della fauna e delle sorgenti della riserva naturale di Einot Tsukim o ci si tuffa per uno snorkeling tra le meraviglie dell'Eliat Coral Beach, la riserva di coralli più a nord del mondo. E perché no, si può anche dare una mano come volontari alle campagne di pulizia sulle spiagge della Dor Habonim Nature Reserve.
   Per gli appassionati di storia, ecco l'occasione unica di diventare "Archeologi per un giorno" al Korazim National Park, nei pressi della città sul Mar di Galilea che Gesù condannò per averlo rifiutato nonostante le possenti opere compiute. Qui, accompagnati da esperti, si può realmente provare l'emozione di riportare alla luce la Storia scavando e toccando con mano la terra narrata dalla Bibbia. E ci sono anche ultime scoperte da visitare, come la chiesa bizantina di Banias, nel parco sorto sulle tracce dell'antica città romana di Cesarea di Filippo.
   Un nuovo, spettacolare show, con proiezioni notturne sulla montagna, racconta invece l'epica storia della fortezza di Masada, mentre all'Herodium Park, proprio sopra al Teatro di Erode, speciali video ricostruiscono delicatissimi dipinti.
   Tutta rinnovata anche l'esperienza a Tel Megiddo, secondo alcune interpretazioni della Bibbia il luogo dove accadrà il Giudizio universale, ovvero l'Armageddon. Qui un cammino speciale porta il pubblico dall'epoca della Bibbia alla battaglia finale, raccontata nell'Apocalisse di Giovanni.
   Ma andare in Israele è sempre, anche per i non credenti, un viaggio attraverso se stessi e le proprie radici, culturali e spirituali. Molte le possibilità dunque di assistere a riti religiosi sui siti narrati dalla Bibbia. Come le Messe celebrate al Museo del Buon Samaritano a Ma'ale Adumim, tra i resti del monastero bizantino del Kursi National Park, il luogo del Miracolo dei porci di Gesù, all'Advat National Park o nella Riserva naturale del Banias ai piedi del monte Hermon.
   
(ANSA, 23 febbraio 2021)


La sindrome Mad Max

"I taglialingue pol. corr. fomentano i tagliateste nelle banlieue. Macron ha capito di dover agire contro l'islamo-goscismo che domina nelle università". Alexandre Del Valle vede nero nel futuro. Intervista.

di Giulio Meotti

ROMA - Un professore di filosofia che finisce sotto scorta e deve lasciare l'insegnamento, travolto dalle polemiche e dalle minacce, per aver detto che la sua città, Trappes, è "perduta". Un ministro dell'Istruzione superiore, Frédérique Vidal, che afferma che nelle università c'è l'islamo-goscismo, "una cancrena che unisce Mao Tze Tung e Khomeini". E nella stessa settimana il governo che prova a correre ai ripari con la tanto attesa legge contro il "separatismo islamista". Da quando è stato decapitato Samuel Paty, la Francia ha assistito a una martellante campagna di intimidazione. Ne parliamo con Alexandre Del Valle, saggista e analista francese, autore fra gli altri di "La stratégie de l'intimidation, du terrorisme jihadiste à l'islamiquement correct" e "Le Projet, la stratégie de conquête et d'infiltration des Frères musulmans en France et en Europe", entrambi pubblicati da L'Artilleur.
  "Dopo Samuel Paty, c'è stata una vera presa di coscienza, e devo riconoscere, pur non essendo un 'macroniano', che Emmanuel Macron ha deciso di reagire seriamente sia di fronte alle minacce inaccettabili e sempre più violente della Turchia neo-ottomana di Erdogan sia di fronte all'islamismo eversivo dei Fratelli musulmani appoggiati dalla Turchia e dal Qatar, non solo dunque al jihadismo che è la parte emersa dell'iceberg islamista totalitario. Prima che il professor Paty fosse ucciso dal jihadista ceceno che non era mai stato identificato come tale prima e che non aveva un passato radicale, c'è stata una fase di propaganda-demonizzazione del professore da parte dei Fratelli musulmani che l'accusarono di avere 'umiliato, insultato e attaccato' i musulmani e l'islam. Questa propaganda è stata diffusa da tanti militanti dei Fratelli musulmani, da moschee e centri di imam, e sulle reti social così come da Erdogan, che ha lanciato assieme al Pakistan, al Qatar e ai Fratelli musulmani una campagna mondiale di odio nei confronti di Macron e della Francia. E sappiamo che questo ha incitato il giovane jihadista ceceno a passare all'azione. In termini chiari, vuol dire che esiste una vera solidarietà e complicità o complementarità obiettiva fra i 'taglialingue' che attaccano gli 'islamofobi' e vogliono far tacere tutti quelli che osano criticare l'islam, e i 'tagliateste' che li ammazzano. I primi terrorizzano psicologicamente, strumentalizzando l'antirazzismo e la nostra cattiva coscienza, demonizzandoci, e i secondi terrorizzano fisicamente i pochi che osano criticare l'islam. La strage di Paty a Conflans e quella alla cattedrale di Nizza, dove tre cristiani furono sgozzati nella loro chiesa mentre pregavano, mostrano che più gli islamici 'pacifici' vittimizzano e rendono paranoici i musulmani addestrati a odiarci, più questo permette di creare nuove vocazioni jihadiste".
  Sta cambiando la geopolitica dei regimi che spingono di più per l'islamizzazione della Francia. "Sono gli stessi paesi che mirano a islamizzare l'Italia e l'occidente in generale", ci spiega Del Valle. "Primo il Qatar e la Turchia di Erdogan che appoggiano i Fratelli musulmani e il Milli Görüs che stanno incitando molti musulmani a rifiutare l'integrazione e a creare una comunità islamica separata; poi l'Arabia saudita che sembra essere più moderata da poco grazie al modernismo nazionalista di Mohammed bin Salman, l'erede al trono, ma che ha diffuso e sponsorizzato per cinquant'anni il wahabbismo da noi e altrove, cioè la versione saudita del salafismo, e poi il Pakistan e le sue associazioni come i Deobandi o il Tabligh, che diffondono tra le comunità indo-pakistane islamiche d'Europa un separatismo islamista antioccidentale ed endogamo. Questi poli del totalitarismo islamista non sono sempre d'accordo tra di loro ed entrano spesso in competizione, ma mirano tutti a islamizzare l'Europa. Youssouf al Qaradawi, il più importante pensatore giuresconsulto dei Fratelli musulmani, ha lanciato molte fatwe che chiamano a islamizzare Roma e a conquistare tutta l'Europa con il jihad della parola… I salafiti lo dicono da anni, Erdogan, il neo-sultano ottomano, anche lui molto nostalgico del Califfato mondiale durato cinque secoli fino alla sua abolizione da parte di Atatürk, ha invaso una parte dell'Europa mediterranea. Fratelli musulmani, salafiti turchi neo-ottomani, Qatar, Pakistan, Tabligh e Deobandi, senza sottovalutare anche il proselitismo e il revanscismo delle ex colonie francesi del Maghreb, con il loro islam malikita molto integralista e anti-miscredenti, concorrono e convergono tutti nello scopo teocratico e geopolitico di dominare l'occidente odiato e a islamizzarlo adesso che sta invecchiando, che sta diventando debole e che si apre all'immigrazione incontrollata e al proselitismo islamico senza esigere nessuna reciprocità per i cristiani nel mondo musulmano".
  Il ministro Vidal ha scatenato un putiferio con le sue dichiarazioni. "L'islamo-goscismo è una minaccia fondamentale per tutte le democrazie occidentali, in particolare in Francia, dove è al centro di una forte polemica nazionale da qualche giorno, e in America, come abbiamo visto col Black Lives Matter e la lobby dei Fratelli musulmani; o anche in paesi come la Germania, la Svezia , il Belgio e anche la Spagna, dove l'alleanza dei 'Rossi' e dei 'Verdi' (non ecologisti o leghisti, ma il colore dell'islamismo) è considerata come il primo pericolo eversivo interno dai servizi di sicurezza occidentali" dice Del Valle. "Purtroppo, la presenza egemonica della sinistra eversiva radicale marxista pro-islamismo in funzione terzomondista nelle università e nei media impedisce strutturalmente di parlare di questo pericolo enorme per tutte le società aperte. Non si può vincere l'eversione islamica totalitaria senza vincere l'eversione neomarxista, perché la seconda utilizza la prima come un'arma contro l'occidente. Le utopiche società multiculturali sono diventate le caotiche società multiculturali. Sono i due flagelli ideologico-sovversivi che hanno minato i valori fondanti delle società occidentali sin dagli anni 80: la nuova sinistra senza confini, anti poliziotti e anti stato, e il suo alleato post coloniale che è l'islamismo radicale. Ho sviluppato quest'idea in 'Rossi Verdi Neri'. Anche da voi, ogni volta che qualcuno critica o denuncia l'eversione islamica, la sinistra marxista lo insulta e lo definisce 'fascista islamofobo razzista'. La Spagna è stata appena messa a fuoco dai marxisti senza che la stampa europea osi denunciare la violenza rossa, mentre la cosiddetta violenza 'fascista' è sempre presentata come il più grande pericolo".
  E' sufficiente esaminare i profili di alcuni attacchi ai simboli francesi per capire la trasversalità del fenomeno: "L'incendio nella cattedrale di Nantes è stato rivendicato dai membri del gruppo islamista Forsane Alizza, ma commesso da un cittadino ruandese che si era offerto volontario nella diocesi e 'insoddisfatto del mancato rinnovo del permesso di soggiorno', poi salutato dagli attivisti cristianofobici e anarchici di sinistra sui social. Il cerchio è completo: leggiamo la recente prosa degli attivisti della Black African Defense League, membro attivo dei comitati Traoré e Black Lives Matter, che si sono rallegrati per l'incendio nella cattedrale: 'Fuoco sulla #CathédraledeNantes?! La cattedrale pagata dagli schiavi di Nantes con i soldi della tratta degli schiavi? Cosa ha fatto @Eglisecatho per prevenire la disumanizzazione dei nostri antenati?".
  Didier Lemaire ha detto che, in assenza di una risposta, la Francia "rischia la guerra civile e cento Samuel Paty". Per Del Valle lo scenario più realistico è un altro. "E' l'intensificazione della frattura interna etno-comunitaria, non necessariamente tramite una guerra civile, ma che si manifesterà con una balcanizzazione graduale ma sempre più violenta e con zone, città intere, che diventeranno fuori controllo, contro-società dove i jihadisti troveranno sempre più 'riserve' di manodopera terrorista… Temo una 'sindrome Mad Max'. A questo pericolo islamista radicale, che Macron ha avuto ragione a definire 'separatismo islamico', si aggiunge il Black Lives Matter generalizzato in Francia e in Europa dove ci sono migranti africani. Questo nuovo fenomeno aggiunge una dimensione eversiva e rivoluzionaria razziale, etno-tribale, al problema 'rosso-verde', e sarà sempre più aggressivo e minaccerà sempre più i 'bianchi', mentre questi ultimi invecchieranno e non sapranno fermare il suicidio demografico".
  "Una cancrena che unisce Mao e Khomeini", ha detto il ministro Vidal. Non si capisce dove sia lo scandalo. Basta ricordare Neauphle-le-Château, la villetta sulle colline alla periferia di Parigi, dove l'ayatollah Khomeini vezzeggiato notte e giorno da giornalisti e intellettuali della gauche dal tendone-moschea preparava la sua rivoluzione islamica. Andarono a trovarlo il filosofo Louis Rougier, lo storico della Rivoluzione francese Claude Manceron, il filosofo comunista convertito all'islam Roger Garaudy, l'ex attacché militare francese a Teheran convertito all'islam Vincent Monteil e il filosofo Jacques Madaule, che sul Monde definiva il khomeinismo come un "clamore dal profondo dei tempi" che rifiutava "la schiavitù". E poi l'Humanité, organo dei comunisti, che definì l'imam "il Lenin islamico" e il Partito socialista francese che organizzò una manifestazione di sostegno a Khomeini alla Maison de la Chimie. C'era anche il futuro primo ministro Lionel Jospin. Dalla Sorbona era intanto uscito l'ideologo della Rivoluzione iraniana, Ali Shariati, che aveva studiato col marxista Georges Gurvitch, tradotto in farsi "I dannati della terra" di Fanon e appreso dall'orientalista e teologo cattoislamico Louis Massignon.
  L'islamo-goscismo ha radici antiche. E' una sbornia da cui la Francia non si è mai ripresa.

(Il Foglio, 23 febbraio 2021)


Abu Mazen vuole annullare le elezioni palestinesi. Minacce dalla UE

L'Europa fa la voce grossa con Abu Mazen dopo le voci di un ennesimo rinvio delle elezioni palestinesi. Ogni anno Bruxelles versa ad Abu Mazen almeno 600 milioni di Euro.

di Sarah G. Frankl

 
Quando il presidente dell'Autorità Palestinese (AP) Mahmoud Abbas annunciò finalmente che quest'anno si sarebbero svolte le elezioni palestinesi dopo 12 anni di suo governo senza mandato popolare, seppur con tanti dubbi (non è la prima volta che Abu Mazen annuncia elezioni) tutti quanti ne furono felici.
Il decreto presidenziale di gennaio che annunciava le elezioni palestinesi fissava nel 22 maggio le elezioni legislative, nel 31 luglio le elezioni presidenziali. Per il 31 agosto è fissata la scadenza per l'istituzione del Consiglio nazionale palestinese.
Ora, in un paese normale un decreto presidenziale sarebbe oro colato per tutti. Non nella cosiddetta Palestina dove Abu Mazen (o Mahmoud Abbas, a piacimento) di decreti come questi ne ha fatti a decine, salvo poi annullarli con altri decreti.
Il mandato di Mahmoud Abbas scadeva nel 2009 ma da allora i palestinesi non hanno mai più votato per il loro presidente, quindi Abu Mazen è tecnicamente un dittatore da ben 12 anni.
Nonostante questa evidenza dei fatti, tutto il mondo e soprattutto l'Unione Europea hanno continuato a elargire miliardi di dollari a fondo perduto alla cosiddetta "Palestina", molti dei quali sono finiti nei conti di Abu Mazen mentre altri sono finiti a finanziare il terrorismo e le famiglie dei terroristi.
Ma questa volta sembrerebbe diverso. Ieri, quando sono cominciate a circolare le prime voci di un annullamento delle elezioni palestinesi, l'Unione Europea ha fatto subito sapere che se ciò dovesse avvenire i fondi destinati alla cosiddetta "Palestina" verrebbero quantomeno tagliati, se non azzerati.
L'Unione Europea versa ogni anno alla cosiddetta "Palestina" almeno 600 milioni di Euro ai quali si aggiungono altre centinaia di milioni sotto altre forme di aiuto.
Negli ultimi tre anni Abu Mazen ha annunciato tre volte le elezioni salvo poi disattendere le promesse.
Durante la notte scorsa Hussein Al-Sheikh, capo dell'Autorità generale per gli affari civili dell'Autorità Palestinese, ha smentito le voci di un ripensamento di Abu Mazen ma nessuna smentita è arrivata dal dittatore palestinese.

(Rights Reporter, 22 febbraio 2021)


Marcia neonazista a Madrid: "Il nemico è sempre l'ebreo"

Una marcia neonazista è stata organizzata a Madrid, dove circa 300 persone hanno reso omaggio alla Divisione Blu, gli spagnoli che hanno combattuto con Adolf Hitler durante il secondo conflitto mondiale.
   Gli estremisti di destra hanno sfilato dalla stazione metro di Ascao al cimitero dell'Almudena dopo la convocazione dei gruppi Spagna2000, la Gioventù Patriota e La Falang al grido "Il nemico resta sempre lo stesso, l'ebreo, solo che ha maschere diverse".
   Ai più la marcia appare come una novità, ma secondo alcune associazioni locali va in scena ininterrottamente dal 2007, in coincidenza con il periodo in cui cade l'anniversario della battaglia di Krasny Bor, dove nel 1943 nazisti e franchisti combatterono insieme contro l'Armata Rossa.
   Tra i partecipanti alla manifestazione neonazista hanno colpito le presenze della 18enne Isabel Peraltra, divenuto uno dei volti nuovi dell'estrema destra spagnola, e quella di un sacerdote (di cui non ci conosce l'identità) che ha dichiarato:
"Il marxismo, come ieri, continua a turbare la pace della nostra società e del nostro spirito e, soprattutto, a turbare colui che è il principe della pace, nostro signore Gesù Cristo".
   La sfilata neonazi di Madrid è stata commentata in maniera abbastanza blanda dal portavoce all'Assemblea della capitale, Iñigo Méndez de Luna, che non ha preso posizioni sugli slogan antisemiti, difendendo però il diritto a manifestare.
   Di tutt'altro avviso il leader regionale Rocío Monasterio:
"La comunità ebraica ha tutto il nostro appoggio nella denuncia e nella condanna dell'antisemitismo. Speriamo che la giustizia agisca e che questi fatti siano puniti in maniera decisa".
   Dura la reazione dell'ambasciatrice di Israele in Spagna, Rodica Radiam Gordon, che ha definito "ripugnanti" le affermazioni antisemite pronunciate durante la manifestazione.
   I rigurgiti nazisti aumentano in continuazione. Non c'è settimana in Europa in cui non si registra un episodio legato al ricordo del Terzo Reich.

(Progetto Dreyfus, 22 febbraio 2021)


Israele: i colloqui di Washington con Teheran preoccupano Netanyahu

di Massimo Caviglia

Mentre un disastro ecologico si è abbattuto sulle coste israeliane, impegnando migliaia di volontari a rimuovere da tutte le spiagge del Paese enormi quantità di catrame a causa di una fuoriuscita di greggio da una petroliera a largo delle acque territoriali, un altro disastro - stavolta nucleare - si profila all'orizzonte. Nonostante l'accordo temporaneo con l'Agenzia per l'Energia Atomica, che consentirà agli ispettori di monitorare nei prossimi tre mesi le attività degli impianti nucleari iraniani in attesa di vedere come intenda muoversi l'amministrazione Biden, il ministro degli Esteri Zarif ha affermato che le sanzioni imposte dagli Stati Uniti all'Iran sono costate all'economia della Repubblica islamica oltre mille miliardi di dollari, e che Teheran si aspetta di essere completamente risarcita se gli Stati Uniti volessero rientrare nell'accordo nucleare.
Oltre alla revoca completa delle sanzioni, la questione del risarcimento è di primaria importanza, sostiene il ministro degli Esteri iraniano, pena l'allontanamento degli ispettori dell'Agenzia Atomica e il proseguimento senza limiti del programma nucleare. Ma la corsa dell'Iran alle armi atomiche non è mai veramente rallentata, e la Repubblica islamica non ha mai fornito all'Agenzia Atomica una spiegazione per le violazioni dell'accordo. Zarif invece ha lodato la Russia e la Cina per "essere stati amici dell'Iran" durante il periodo delle sanzioni, e ha rimproverato la Francia, la Germania e la Gran Bretagna per non aver preso "alcun impegno concreto" per mantenere i legami economici. E lo sblocco di 9 miliardi di dollari iraniani congelati in Corea del Sud a seguito delle sanzioni statunitensi, oltre ai colloqui di Washington con Teheran, condotti in queste ore tramite l'ambasciata svizzera per trattare la liberazione di alcuni ostaggi americani in Iran, preoccupano Israele che già si vede dover affrontare Teheran senza l'aiuto del suo alleato storico.

(San Marino Rtv, 23 febbraio 2021)


Marea nera minaccia le spiagge di Israele «Un disastro ecologico»

Una marea nera, sospinta con forza da onde elevate, ha raggiunto negli ultimi giorni le coste mediterranee di Israele causando quello che secondo la stampa è il peggiore disastro ecologico degli ultimi decenni. Tracce di inquinamento sono state rilevate in tratti di spiaggia in tutto il litorale dal confine col Libano a quello con Gaza, per 180 chilometri complessivi. Dopo un sopralluogo del premier Benyamin Netanyahu, il governo ha proclamato la chiusura fino a nuovo ordine di tutta la costa di Israele. Vietato bagnarsi, e proibiti anche campeggi e sport. Migliaia di volontari si sono mobilitati per ripulire almeno le spiagge da quantità di catrame. Ma hanno affrontato solo una parte del problema. Grande preoccupazione desta la sorte dei fondali marini, dei pesci e degli organismi che vi si trovano. Secondo una studiosa dell'Università di Haifa, llana Berman, l'esperienza del Messico insegna che dopo incidenti di tale portata anche molti anni di sforzi non bastano a recupere lo status quo.

(Nazione-Carlino-Giorno, 22 febbraio 2021)


Intervista all'Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, ad un anno dal suo insediamento

di Giacomo Khan

L'Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar
Sig. Ambasciatore è trascorso un anno dall'inizio della sua missione diplomatica in Italia. Un anno difficile per tutti, segnato dalla pandemia per Covid-19. Come vive questo momento e quali conseguenze le misure di separazione hanno portato nel suo lavoro?
  
"All'inizio del mio lavoro da ambasciatore, avevo ancora un po' di tempo per vivere l'Italia in giornate "normali" e questo fino a quando si è abbattuta su di noi la pandemia. I nostri saggi hanno detto nel Talmud che tre cose giungono all'uomo inavvertitamente: il Messia, il ritrovamento di un oggetto smarrito, e lo scorpione. Lo scorpione è metafora di ogni sciagura o disastro che possa abbattersi su di noi e trovarci, non voglia il cielo, impreparati. Eravamo assorti, tutti noi, ciascuno nei propri affari e nei propri sogni e, improvvisamente, mentre la nostra attenzione era altrove, è apparso lo scorpione con una corona in testa. Ma distogliere l'attenzione è anche una guida per affrontare il disastro. Questo può essere visto come un destino ineluttabile e può essere visto come un'opportunità. Distogliere l'attenzione dalle vecchie convenzioni di pensiero, per fare spazio a un nuovo paradigma di vita. Abbiamo imparato a nostre spese ad apprezzare la bellezza della quotidianità della vita, la vicinanza tra gli esseri umani, il radunarsi insieme e non dietro gli schermi, e l'espressività di un volto scoperto e non dietro una maschera. D'altra parte, abbiamo anche imparato ad apprezzare gli occhi, e quanto essi possano esprimere senza che mai ce ne accorgessimo. Abbiamo imparato a conoscere la sofferenza della solitudine di molti, dalla nostra stessa esperienza. E abbiamo imparato a conoscere il potere della speranza che ci sorregge, che ecco, ancora un piccolo sforzo, e la situazione cambierà in meglio. Per quanto riguarda il lavoro in Ambasciata, la maggior parte dei nostri programmi è stata sospesa o annullata. Lavoriamo in due gruppi separati (che chiamiamo capsule) che si alternano in presenza in ufficio. Tuttavia, ed è piuttosto interessante, il lavoro non è stato ridotto, ma viene svolto in maniera diversa. Come, per esempio, numerosi incontri svolti su piattaforme come Zoom oppure a casa mia, incontri con un numero molto ristretto di persone e nel pieno rispetto delle regole di prudenza e prevenzione".
  
- Può illustrarci i compiti di un Ambasciatore e il lavoro che sta svolgendo?
  "Il compito dell'ambasciatore è quello di rappresentare lo Stato di Israele nei confronti dell'Italia in molti settori: sicurezza, cooperazione scientifica, culturale, economica, politica e altro. A causa della crisi del Coronavirus, stiamo investendo molto tempo nella cooperazione in campo sanitario. Mi occupo anche di far conoscere sul piano politico le posizioni di Israele sia al governo italiano sia all'opinione pubblica italiana. Ogni settimana incontro personalità politiche, intellettuali, opinion leader e personaggi chiave dei media, per scambiare opinioni, imparare da loro sulla situazione in Italia e in Europa, e anche per spiegare e analizzare la situazione in Medio Oriente in generale e in Israele in particolare. Promuoviamo transazioni e rapporti commerciali tra governi e mediamo tra aziende israeliane e italiane. Promuoviamo inoltre collaborazioni scientifiche ed educative tra scuole e università. Anche in occasione dello Shabbat, cerco di avere in casa ospiti per il Kiddush e per i pasti di Shabbat. Molte volte sono italiani che partecipano per la prima volta a un Sabato ebraico. Non ci sono solo il Kiddush e i canti di Shabbat, ma proviamo anche a studiare la parashà settimanale della Torah. Per me, un ambasciatore israeliano è anche rappresentante della civiltà ebraica di fronte alle nazioni del mondo. Per questo nei miei interventi cerco di parlare anche di questioni inerenti alla cultura ebraica e alla storia del nostro popolo, e ovviamente alla Bibbia, al Talmud, alla filosofia ebraica e ai tanti tesori letterari che nessun'altra nazione ha donato ai suoi discendenti. Il popolo ebraico non è soltanto il "Popolo del Libro", ma il "Popolo dei libri". Nei secoli, abbiamo costruito un enorme grattacielo testuale, tra i cui piani abbiamo il privilegio di poter spaziare e attingere conoscenza, etica e conforto, ogni volta che vogliamo".

- Come giudica le relazioni tra Italia e Israele, sono due Paesi molto amici: quali sono i campi di collaborazione e vi sono aspetti che vanno migliorati ?
  
"Il rapporto tra l'Italia e il popolo ebraico risale all'inizio dell'Unità d'Italia, a metà del XIX secolo. Gli intellettuali ebrei che seguivano con simpatia il Risorgimento italiano ne trassero ispirazione anche per la rinascita del popolo ebraico. Il successo dell'unificazione dell'Italia fece loro sperare che anche noi saremmo stati in grado di attuare una rinascita nazionale nel nostro Paese. L'intellettuale ebreo Moses Hess pubblicò il suo libro "Roma e Gerusalemme" nel 1861. Egli vedeva una profonda connessione tra queste due città. Roma ha distrutto Gerusalemme e la ricostruzione di Roma avrebbe segnato la ricostruzione di Gerusalemme. Così scrive: "Con la liberazione della Città Eterna sulle sponde del Tevere, comincia la liberazione della Città Eterna sul Monte Moria; con il rinascimento dell'Italia comincia quello della Giudea". Ricordiamo anche che, nell'aprile 1920, a Sanremo nacque lo Stato ebraico, come disse all'epoca il futuro presidente Chaim Weizmann. A Sanremo, le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale riconobbero il diritto del popolo ebraico sulla sua antica patria, e conferirono alla Gran Bretagna il mandato di attuare la Dichiarazione Balfour. Quell'intesa di Sanremo fu firmata anche dall'allora Presidente del Consiglio italiano Francesco Nitti, ed è, tra l'altro, l'unico diritto internazionale sancito in un documento, in relazione alla Terra d'Israele. Altre dichiarazioni, secondo cui Israele violerebbe il diritto internazionale, sono dichiarazioni con valenza più politica che legale. I rapporti tra Italia e Israele sono ottimi e la cooperazione in molti settori raggiunge livelli quasi intimi. Sul piano internazionale, soprattutto nelle istituzioni dell'Onu, ogni anno si contano una ventina di voti anti-israeliani basati su menzogne, il cui obiettivo è delegittimare Israele e disconnetterlo dal cuore del Paese e da Gerusalemme. In confronto, l'Iran e la Corea del Nord avranno ricevuto forse una sola proposta di condanna. Purtroppo l'Unione Europea, Italia compresa, collabora a questo teatro dell'assurdo, o astenendosi o persino votando a favore, in alcuni casi. A proposito, in alcune delle proposte, il Monte del Tempio a Gerusalemme è menzionato solo con la sua denominazione musulmana: "Haram al-Sharif", mentre quella occidentale "Monte del Tempio" è omessa. L'intenzione è chiara: negare le radici ebraiche sul Monte del Tempio. Il problema non è solo questa eclatante menzogna storica, ma che, negando le radici ebraiche sul Monte del Tempio, si cancellano anche le radici cristiane di quel luogo. A quanto mi risulta dal Nuovo Testamento, Gesù non si aggirava nel "Haram al-Sharif". Ironia della sorte, non votando contro tali testi, l'Europa di fatto vota contro sé stessa. Israele vorrebbe vedere un cambiamento di fondo nella posizione europea e italiana, contro questo oltraggio morale".

- Recentemente il Ministro degli Esteri italiano Di Maio si è recato per la prima volta in Israele. Sono stati firmati accordi e quali temi sono stati trattati nei colloqui?
  
"Il Ministro Di Maio ha visitato Israele a fine ottobre. Era la prima visita di un ministro del secondo governo Conte. Ha incontrato il Ministro degli Esteri, il Ministro della Difesa, il Presidente, il Primo Ministro e il leader dell'opposizione. Un bel po' di cose in un solo giorno. Negli incontri si è parlato di una serie di cooperazioni tra i Paesi, nonché dello scenario Mediterraneo e dei paesi circostanti. Si è anche affrontato l'argomento degli Accordi di Abramo e del cambiamento di paradigma politico in Medio Oriente. E parte dei colloqui hanno riguardato anche la questione Covid-19, in particolare la questione dei vaccini. Sono stati firmati o rinnovati nuovi e vecchi accordi economici e culturali. Il giorno seguente, il Ministro ha visitato la Città Vecchia di Gerusalemme e il Muro Occidentale".

- Quali sono oggi le principali preoccupazioni della politica estera israeliana?
  
"Ci sono parecchie sfide politiche che il mondo pone a Israele. Qui voglio toccare un solo punto fra i tanti nel mare delle minacce. Quando guardiamo al Medio Oriente oggi, la domanda che dovrebbe preoccupare è: com'è che tutti i paesi della Mezzaluna fertile sono diventati paesi a dominazione sciita? Il Libano, inizialmente un paese con dominio cristiano, è ora sotto l'influenza sciita; la Siria era un paese a predominanza sunnita, e oggi è una dittatura alauita sotto l'influenza sciita; l'Iraq è stato per secoli sotto il dominio sunnita e ora è un paese controllato dagli sciiti. È avvenuto un cambiamento storico nell'equilibrio di potere tra la Sunnah e gli sciiti, senza precedenti dalla fondazione dell'Islam oltre 1.400 anni fa. L'intera Mezzaluna Fertile è ora aperta per l'Iran, attraverso Iraq, Siria, Libano (Hezbollah), fino al bacino orientale del Mediterraneo. Non si era visto nulla del genere in epoca moderna. Le minacce dell'Iran a Israele non sono nuove. Israele non confina con l'Iran, per cui, apparentemente, non dovrebbe esistere alcuna ragione di conflitto tra noi e loro. Eppure, stando al grado di ossessione, follia e immensi sforzi che il regime degli ayatollah ha profuso nell'odio per Israele e nel suo desiderio di colpirci e, Dio non voglia, persino di distruggerci, parrebbe quasi che questa sia la ragion d'essere di questo regime. Il leader supremo Khamenei e i suoi amici definiscono Israele un "cancro nel Medio Oriente". Khamenei ha detto: "Il virus sionista che è sopravvissuto finora non sopravvivrà a lungo. L'entità sionista non sopravvivrà, sarà eliminata". I più grandi antisemiti nel mondo di oggi hanno imparato a mascherare le loro parole e a sostituire "ebrei" con "sionisti". Ma in base alla definizione di antisemitismo accettata anche dal governo italiano lo scorso gennaio, i due tipi sono il medesimo antisemitismo. Come se 80 anni non fossero passati, ancora una volta sentiamo Hitler parlare di fronte alle masse, solo che ora il tedesco è stato sostituito dal persiano. Abbiamo imparato dalla storia che, quando un dittatore dice qualcosa, vale la pena prendere sul serio le sue parole. L'Europa crede che sia possibile raggiungere un accordo sulla bomba nucleare con questo regime sanguinario. Così si esprimeva l'Europa anche negli anni Trenta, in relazione a Hitler e alla Germania nazista. I paesi europei minimizzavano le minacce naziste e, di fatto, temevano di arrivare a un confronto con Hitler. Alla fine furono comunque costretti a uno scontro, ma da una posizione nettamente inferiore. L'Iran non è solo un problema di Israele. Esso minaccia l'intero Medio Oriente e cerca di minarne la stabilità, per ottenere maggiore influenza. Lo fa anche attraverso le sue metastasi terroristiche in quasi tutti i paesi arabi. Ma l'Iran minaccia anche l'Europa e l'intero Occidente. Speriamo che l'Europa alla fine si svegli".

- Le minacce iraniane, siriane, di Hezbollah e di Hamas non sono mai diminuite, ma allo stesso tempo una nuova straordinaria stagione di speranza si è aperta con altri Paesi arabi: Emirati Arabi, Bahrein, Qatar, Marocco e altri paesi che stanno iniziando a dialogare con Israele. Cosa è cambiato? Sulla base di quali esigenze è nata questa straordinaria pagina della storia del Medio Oriente?
  
"Rispetto al Medio Oriente, il paradigma dominante fino a poco tempo fa era che, senza risolvere il conflitto con i palestinesi, non ci sarebbe stato alcun progresso verso la normalizzazione dei rapporti di Israele con gli stati arabi. Ma i palestinesi hanno rifiutato qualsiasi piano offerto loro, anche il più generoso. Hanno detto di no per circa 100 anni, tanto da far sembrare che, di fatto, non abbiano mai veramente voluto un loro stato indipendente accanto allo Stato di Israele. Non solo hanno rifiutato proposte di compromesso, ma hanno costantemente appoggiato qualsiasi leader sanguinario che pensavano potesse soddisfare i loro desideri: lo sterminio degli ebrei, Dio non voglia. È così che hanno sostenuto Hitler negli anni '40, Saddam Hussein alla fine degli anni '80, i Fratelli Musulmani all'inizio degli anni Duemila, e ora l'Iran. Hanno sempre scelto la parte sbagliata della storia, anche contro i chiari interessi degli altri stati arabi. Gli altri paesi arabi sanno bene che la vera minaccia per loro viene dall'Iran. Comprendono che quello che fino a poco tempo fa era considerato un assioma, per cui Israele era considerato il problema, sta cambiando completamente. Ovviamente questo non era vero allora, ma ora è evidente anche ai loro occhi: Israele è la soluzione per stabilizzare il Medio Oriente, e, insieme, possiamo impedire all'Iran di realizzare le proprie intenzioni. Questi accordi di pace sono il frutto di lunghi anni di politica coerente portata avanti dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Egli si è riproposto di aggirare il veto permanente palestinese sulla normalizzazione delle relazioni israeliane con gli stati arabi, e di consolidare la forza economica e militare di Israele, rivolgendosi direttamente agli stati arabi moderati che hanno un interesse di sicurezza ed economico nella pace con Israele. Gli stati arabi affermano - ed è stato dichiarato anche pubblicamente in un'intervista dal principe saudita Binder bin Sultan - che i palestinesi non hanno mai pagato un prezzo per i propri errori, ma hanno invece sempre ricevuto supporto automatico, anche quando sceglievano alleati che minacciavano anche il mondo arabo. È proprio il fatto che Israele ha compiuto progressi senza attendere i palestinesi, che spingerà questi ultimi ad avvicinarsi al tavolo dei negoziati. In ogni caso, la storia ha una caratteristica speciale: non sta ad aspettarci".

- Quali collaborazioni stanno nascendo tra Israele e i Paesi arabi del Golfo Persico?
  
"Siamo appena all'inizio del processo di scongelamento delle relazioni. Anche se le cose sembrano molto veloci, rispetto alla normalizzazione dei rapporti con i cittadini dei vari Paesi, gli apparati statali ed economici richiedono ancora un lavoro attento e approfondito. Molte aziende israeliane hanno in programma di entrare nei nuovi mercati, e questo si fa già sentire sul campo. Naturalmente ci sono anche collaborazioni tra governi in vari campi. L'importante è la buona volontà. Dopo molti anni di boicottaggio ed esclusione, stiamo cercando di colmare il divario, per il bene del Medio Oriente e a beneficio del mondo intero".

- Davanti a questi cambiamenti, l'Europa è apparsa abbastanza tiepida certamente non entusiasta. Secondo lei perché?
  
"È stato alquanto strano seguire le reazioni dei governi europei, ogni volta che veniva annunciata la normalizzazione con un altro paese arabo. L'acrimonia era visibile persino da Gerusalemme. Nella migliore delle ipotesi, hanno accolto con favore la pace, ma si sono affrettati ad aggiungere subito il famoso "ma": ma ci aspettiamo che non si dimentichino i palestinesi e la "Soluzione dei due stati". Penso spesso che l'Europa sia ancora bloccata, in una sorta di fissazione psicologica, agli anni '80, a prima di tutti i grandi esperimenti degli Accordi di Oslo del 1993, del disimpegno da Gaza del 2005, e delle altre conferenze di pace, che, non solo non hanno pacificato la regione, ma hanno anzi aggiunto altro terrore e dolore. I paesi arabi si trovano nella stessa regione, e probabilmente comprendono qualcosa che l'Europa si rifiuta di accettare: il Medio Oriente sta cambiando sotto i nostri occhi. L'idea di stato nazionale, che l'Europa aveva concesso ai popoli arabi dopo la Prima guerra mondiale, si sta sgretolando. Le minoranze che erano tenute insieme in un solo paese, probabilmente non hanno mai voluto stare insieme, ma sono state costrette a farlo sotto le minacce dei loro dittatori: Assad padre e figlio, Saddam Hussein, Gheddafi e altri. Ora questa struttura artificiale sta crollando, e sotto di essa stanno riaffiorando le antiche strutture che hanno retto la regione per migliaia di anni: tribù, confessioni religiose, clan familiari e altro ancora. I palestinesi non differiscono dal loro ambiente circostante. A breve termine, non hanno alcuna possibilità di creare uno stato che durerà un solo attimo, prima di cadere in mano a Hamas e di altre organizzazioni islamiste estremiste. Attualmente, Israele non interferisce nelle loro vite, ma mantiene l'involucro che li circonda, proteggendo in tal modo sia i cittadini di Israele dalle cellule terroristiche, sia gli stessi palestinesi, perché non ricapiti loro quel che è avvenuto a Gaza. È un dato di fatto che questa sia la comunità più tranquilla nella zona. La storia ci ha insegnato che in Medio Oriente i processi maturano lentamente. Bisogna armarsi di pazienza. I nostri saggi hanno insegnato nel Trattato Avot del Talmud che non sta a noi portare a termine l'opera, anche se non siamo esonerati dal portarla avanti. Lasceremo qualcosa da fare alla prossima generazione".

- In Europa esistono movimenti anti israeliani, a cominciare dal BDS e questo soprattutto in quei paesi europei dove è molto forte la presenza di stranieri e cittadini islamici. Come si combatte il BDS?
  
"Dopo i due conflitti mondiali, l'élite europea ha visto il nazionalismo come un'idea problematica, la cui estremizzazione ha portato il continente a gravi disastri. Così, negli anni, è stata delegittimata anche una sana idea nazionale, che riguarda l'appartenenza a un luogo e a una società con una storia, una lingua e dei valori comuni. Giuseppe Mazzini ha insegnato a tutti noi qual è la natura di un sano nazionalismo. In epoca di globalizzazione, è difficile parlare di confini e di appartenenza particolarista a un determinato gruppo all'interno della mescolanza europea. L'Europa deve ora fare i conti con milioni di immigrati con forte senso di appartenenza a nazionalità non europee, e il cui credo religioso è evidentemente diverso dal cristianesimo occidentale. Per forza di cose, l'alienazione tra la vecchia società cristiana europea e la società degli immigrati musulmani genera tensioni e scontri. Lo abbiamo visto in centinaia e migliaia di casi di aggressioni e omicidi, sullo base della mancata accettazione dei valori liberali dell'Occidente. Di recente lo abbiamo sperimentato nuovamente in Francia. Come molte volte nella storia, i primi a beccarsi le schegge sono stati gli ebrei. A prescindere dalle autorità, gli ebrei sono percepiti come elemento più debole dal punto di vista degli immigrati musulmani, e per questo assistiamo a un incremento significativo degli incidenti di natura antisemita in Europa. Ovviamente Israele, in quanto unico stato ebraico al mondo, è al centro della propaganda ostile contro di esso. Il BDS è un modo più sofisticato per dare espressione al vecchio antisemitismo. Anziché ebrei, si può dire israeliani, anziché parlare contro l'ebraismo, si può parlare contro il Sionismo, e così via. La recente definizione di antisemitismo dell'IHRA, adottata anche dal governo italiano nel gennaio dello scorso anno, individua chiaramente questa falsa maschera, e definisce anche l'opposizione a Israele in quanto stato nazionale del popolo ebraico come una forma di antisemitismo. Questo perché, se il vecchio antisemitismo cercava di togliere di mezzo gli ebrei dal mondo, il nuovo antisemitismo cerca di far sparire dalla faccia della terra il loro unico stato, cioè di privare gli ebrei del diritto più semplice: vivere secondo la propria fede e la propria cultura, nella loro antica patria. Sappiamo anche dalla nostra esperienza che le manifestazioni anti-israeliane e anti-sioniste portano a manifestazioni antisemite e viceversa. Il modo per affrontare il BDS, e l'antisemitismo in generale, è prima di tutto rafforzare l'educazione ebraica, una connessione più profonda con le nostre radici storiche e culturali. In secondo luogo, dobbiamo ampliare la nostra conoscenza di Israele e del suo confronto con il campo ostile, al fine di stare attenti alla disinformazione diffusa da elementi anti-israeliani. Terzo, bisogna respingere l'attacco alle porte: identificare i focolai di antisemitismo e anti-israelismo, smascherarli e utilizzare tutti gli strumenti legali a nostra disposizione, denunciarli pubblicamente, sui social media e sui mezzi di comunicazione. Detto questo, è importante ricordare che siamo un popolo antico: abbiamo visto nemici peggiori, e li abbiamo superati tutti, grazie a Dio. E soprattutto, l'importante è non aver affatto paura".

- Quale ruolo secondo lei dovrebbero svolgere le comunità ebraiche della diaspora per sostenere Israele? Come giudica il supporto delle comunità ebraiche italiane?
  
"La comunità ebraica in Italia è la carne della nostra carne, siete nostri fratelli e sorelle. Lo Stato di Israele è sempre con voi, nella gioia e nel dolore. Sotto il mio mandato, l'Ambasciata sta cercando di tenersi costantemente in contatto con tutte le comunità ebraiche e di tenersi aggiornata sulla loro situazione. Ovviamente siamo in buoni rapporti con l'Unione delle Comunità Ebraiche. Nei primi anni dello Stato, Israele ha avuto bisogno dell'aiuto degli ebrei della diaspora, che erano più forti di esso. Negli anni la tendenza si è invertita, e oggi lo Stato di Israele sostiene e aiuta gli ebrei della diaspora. Lo stesso vale per la comunità ebraica in Italia, che è forse la più antica comunità ebraica del mondo, le cui radici risalgono al II secolo a.E.v., a quando, nel 161, Giuda Maccabeo inviò una delegazione diplomatica dalla Giudea al Senato della Repubblica di Roma, per stringere un'alleanza di mutua difesa. Un anno fa, in un mio intervento al Senato della Repubblica italiana, ebbi modo di dire che lo Stato di Israele è la polizza assicurativa degli ebrei, ovunque si trovino. Il governo italiano dedica molto tempo e sforzi per difendere in modo impressionante le comunità, cosa di cui siamo profondamente grati. Nel mio lavoro, ho visto molte volte come le varie comunità ebraiche si mobilitino, per difendere il nome di Israele e combattere la propaganda antisionista. Siamo anche consapevoli delle legittime critiche alla politica del governo israeliano, e per me va bene così. È lecito avere delle discussioni all'interno della famiglia. Vorrei cogliere questa occasione per augurare a tutti un anno in piena e buona salute, con la speranza di poter tornare a incontrarci e rivederci tutti il prima possibile".

(Shalom, 22 febbraio 2021)


Addio a Lisetta Muggia, ultima esponente della comunità ebraica di Busseto

di Paolo panni

Elisa Long Muggia
Busseto piange la scomparsa di Elisa Long Muggia e vede chiudersi, così, una straordinaria e ultrasecolare pagina di storia, quella legata alla locale comunità ebraica di cui lei, da tutti affettuosamente conosciuta come Lisetta, era l'ultima rappresentante.
   Lo aveva ricordato anche nel 2013, durante una conferenza nel salone Barezzi, in occasione de «I martedì della storia» affermando: «Io sono l'ultima esponente della comunità ebraica di Busseto e la cosa mi mette molta malinconia». Nella terra di Verdi, nonostante da anni vivesse a Milano, era molto conosciuta e stimata e vi tornerà, per riposarvi per sempre, nel piccolo e antico cimitero ebraico. Era esponente della famiglia Muggia che per molti anni a Busseto portò avanti l'omonima e storica azienda dolciaria da cui nel 1867, mentre il maestro Giuseppe Verdi componeva il «Don Carlos», come ricordato pure dal sindaco Giancarlo Contini, nacque la celebre spongata Muggia (dolce di antichissime tradizioni ebraiche). Pasticceria, la Muggia, celebre anche per la produzione dei liquori (su tutti il nocino) nella quale anche lei, per alcuni anni, aveva lavorato. «Educata e colta - ha detto ancora il sindaco - trattava i dipendenti con la gentilezza che contraddistingue la signorilità. Addirittura offriva il tè alle cinque per alleviare le loro fatiche. Quando andavo a trovarla - ha detto - la chiamavo semplicemente Lisetta e ammiravo sempre la sua abitazione in cui spiccavano i simboli della tradizione ebraica». Dopo la parentesi nella storica azienda di famiglia, e dopo aver spesso collaborato con la madre Alice nella gestione della drogheria che sorgeva in pieno centro, si è sempre dedicata all'insegnamento di greco e latino, al liceo Manin di Cremona prima, al liceo Sanvitale a Parma e a Milano poi. Laureata in lettere classiche a Bologna, era una grande appassionata di arte, cultura, musica, era collezionista di monete antiche e, in passato, assidua frequentatrice degli eventi promossi dall'associazione Amici di Verdi.
   Insieme alla mamma Alice era appunto l'ultima esponente della comunità ebraica di Busseto e nella sua genealogia spiccano anche alcuni famosi rabbini. Tra questi Flaminio Servi, rabbino capo di Monticelli D'Ongina prima e di Casale Monferrato poi, nonché direttore del Vessillo Israelitico. Quella degli ebrei a Busseto è stata una presenza molto propositiva e integrata che ha sempre e a lungo operato e collaborato scrivendo pagine di storia, politica, cultura ed economia locale. «Busseto - aveva detto la stessa Lisetta Long durante la conferenza del 2013 in salone Barezzi - è stato un centro ebraico estremamente importante. È stato un centro di studi: pensate che ben 25 documenti che fanno capo a Busseto si trovano in musei sparsi in tutto il mondo, a Londra, New York, Kiev, Mosca, Gerusalemme. C'è anche una splendida Ketubah ritrovata a Busseto». In quella stessa occasione aveva anche parlato della sinagoga (che aveva sede in via Del Ferro), trasferita nel 1964 a Gerusalemme. Da non dimenticare, infine, nel 2017, la donazione, da parte sua, al Museo Ebraico di Soragna, di alcune delle ultime memorie e degli oggetti della comunità ebraica bussetana di cui è stata depositaria per tutta la sua esistenza. Tra gli oggetti donati anche la chiave dell'Aron, l'antica mappa del cimitero di Busseto risalente alla seconda metà dell'Ottocento, un bozzetto del pittore Gioacchino Levi con la Creazione di Adamo e diversi e preziosi libri antichi.
   Elisa Long Muggia tornerà nella sua Busseto domani dove sarà inumata all'interno del cimitero ebraico.

(Gazzetta di Parma, 22 febbraio 2021)


Le fragranti spongate bussetane di Angelo Muggia apprezzate anche dal Maestro Verdi


Israele, Gran Bretagna e America cominciano ad assaporare la libertà

Iniziano a levare i divieti dopo aver fatto iniezioni a raffica

La vaccinazione di massa prosegue nel mondo a ritmi serrati. Israele svetta per numero di vaccinati e si avvia rapidamente al traguardo dell'immunità di gregge. L'11 dicembre 2020, quando è arrivata dall'americana Fda il passi al vaccino Pfizer, il governo israeliano aveva già ordinato milioni di dosi, 9 giorni dopo è iniziata la campagna vaccinale. In Israele la vaccinazione in atto ha fatto del Paese il primo al mondo in rapporto ai circa 9 milioni di abitanti. Ad oggi sono oltre 4300.000 gli israeliani (dai 16 anni in su), che hanno avuto la prima dose e quasi 3 milioni quelli che hanno avuto anche la seconda.
   Ed Israele può permettersi, dopo aver somministrato dosi a più di un terzo della sua popolazione compresi gli abitanti delle colonie in Cisgiordania e compresi gli arabi israeliani e i palestinesi di Gerusalemme Est, anche di fornire 2mila dosi del vaccino Moderna all'Autorità Nazionale Palestinese (Anp), di iniziare a vaccinare gli operatori sanitari.
   Dopo mesi di chiusura alternata, gli israeliani hanno ritrovato aperti negozi, centri commerciali, mercati all'aperto, musei, librerie e scuole fino ad un certo grado. Ma soprattutto per quelli che hanno avuto la doppia vaccinazione e la tanto agognata certificazione della doppia vaccinazione o che sono guariti dall'infezione, in ebraico tav iarok (etichetta verde), si sono spalancate anche le porte di piscine, palestre, hotel, eventi culturali e sportivi.
   Secondo gli ultimi dati del ministero della sanità israeliano la doppia dose di vaccino previene nel 98.9% le forme gravi della malattia e nel 95.8% anche l'infezione stessa. L'immunizzazione - pur non obbligatoria- è a portata di mano di tutti e gratuita, residenti stranieri compresi. Il Comune di Tel Aviv per richiamare i giovani distratti o pigri ha inaugurato postazioni mobili vicine ai bar più frequentati. Con l'incentivo, a dose iniettata, di un bonus da spendere presso lo stesso locale.
   A buon punto anche gli Usa di Joe Biden, che aveva promesso 100 milioni di vaccinati entro i primi 100 giorni dall'insediamento. Gli Stati Uniti hanno cominciato a vaccinare a Capodanno: personale sanitario, polizia, pompieri e chi lavora col pubblico. Poi sono passati agli over 65 e dal 15 febbraio hanno aperto alle donne incinte e a chi ha malattie gravi o croniche. Si procede al ritmo di 1,7 milioni di somministrazioni al giorno, negli Usa ci vorranno otto mesi per arrivare al 75% della popolazione. A Pasqua si arriverà al 20%.
   In Europa spicca la Gran Bretagna di Boris Johnson, che per prima nel Vecchio Continente ha dato il via alla campagna di immunizzazione. Nel Regno Unito oltre 18 milioni di persone hanno già ricevuto almeno la prima dose di uno dei vaccini autorizzati, l'equivalente di quasi il 30% della popolazione. E già entro la fine di maggio - secondo le previsioni del governo - tutta la popolazione sarà vaccinata. Il governo britannico guarda al futuro e negli scorsi giorni, dati di vaccinazione alla mano, ha presentato ai vertici della Uefa in vista della prossima rassegna continentale la proposta di ospitare l'intero torneo. Proposta che segue anche la richiesta di riaprire gli stadi per tutti gli eventi sportivi.

(Libero, 22 febbraio 2021)


Israele, la corsa per avere il pass che dà libertà di movimento

Riservato a guariti o vaccinati

In Israele, primo al mondo per numero dl vaccinati in relazione alla popolazione, si inizia a respirare aria di normalità grazie al «green pass» e all'allentamento del lockdown. Cosi sono stati riaperti centri commerciali, negozi, mercati all'aperto, musei, librerie e molte scuole. I cittadini con il «green pass», attestante la guarigione da Covid o la doppia vaccinazione, possono frequentare piscine, palestre, hotel, eventi culturali e sportivi. L'App che doveva rilasciare un codice a barre è andata in tilt e il ministero della Sanità ha dato l'ok a una certificazione cartacea che ha provocato ritardi. «Il green pass — ha detto il premier Benyamin Netanyahu, visitando una palestra in Israele — porterà alla riapertura graduale del Paese. Per favore usatelo».

(Corriere della Sera, 22 febbraio 2021)


Pfizer previene anche l'infezione. La conferma dai dati israeliani

Stop al contagi. Per gli immunizzati ok a cinema, palestre e viaggi

Da uno dei Paesi più in affanno nella lotta al Covid, a uno di quelli avviati prima degli altri verso un rapido ritorno alla normalità. Israele, dove è stata vaccinata almeno con la prima dose quasi la metà della popolazione, rappresenta ora un punto di riferimento importante per la comunità scientifica che sta studiando l'efficacia dei vaccini in circolazione.
   Tutti gli occhi sono puntati sullo stato ebraico che, da quando ha cominciato la vaccinazione di massa lo scorso 20 dicembre e dopo un lockdown durato due mesi, ha cominciato a registrare un progressivo calo dei contagi e dei ricoveri. Anche se il virus continua a correre tra i non vaccinati, ora si stanno allentando le restrizioni dovute alla pandemia.
   E' l'effetto del vaccino Pfizer/BionTech che - secondo i primi studi - sembra fermare in coloro che l'hanno ricevuto anche il contagio, non solo la malattia. Per la prima volta c'è un'indicazione concreta, basata sui fatti, che l'immunizzazione frenerà la trasmissione del coronavirus. Finora non c'era un consenso unico sul fatto che le inoculazioni delle dosi impedissero ai portatori asintomatici di diffondere il virus. Pur non essendo stati ancora sottoposti alla «peer-reviewed», la procedura di valutazione da parte degli specialisti della comunità scientifica, i dati arrivati dal ministero della salute israeliano - che ha lavorato a quattro mani con le due aziende - sembrano confermare un'efficacia all'89,4 per cento del vaccino Pfizer-BionTech nell'evitare il contagio. I risultati, pubblicati anche da Der Spiegel, sono l'ennesimo segnale positivo emerso da quel che sta succedendo in Israele, il Paese che dopo aver condotto la campagna vaccinale più rapida al mondo sta cominciando a pensare ad una sorta di patente vaccinale che consenta a chi è immune di riprendere a vivere.
   Il piano allo studio prevede che le persone vaccinate possano partecipare a eventi culturali, volare all'estero e recarsi in centri benessere e ristoranti. E stato il primo ministro Benjamin Netanyahu, a spiegare in conferenza stampa che i vaccinati nei prossimi giorni potranno scaricare il «bollino verde», una sorta di «distintivo che sta gradualmente aprendo il Paese». Anche se il governo non può impedire ai non vaccinati di frequentare luoghi come cliniche mediche, farmacie e supermercati, altri servizi saranno consentiti solo a coloro che hanno ricevuto due dosi di vaccino.
   In questi giorni stanno riaprendo negozi al dettaglio, centri commerciali, palestre, alcune classi delle scuole medie e altri servizi pubblici, con accessi limitati. Il principale aeroporto internazionale di Israele, invece, rimane chiuso a quasi tutto il traffico aereo, a causa delle preoccupazioni per le varianti.

(il Giornale, 22 febbraio 2021)


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Il perfido Israele

"Tutti gli occhi sono puntati sullo stato ebraico". Questo è il guaio. Per un breve tempo è sembrato che il mondo avesse distolto lo sguardo dal "perfido Israele": c'era altro a cui pensare. Inoltre, anche Israele era stato toccato, non meno degli altri. Così il dispiacere per i guai in Israele poteva essere parzialmente attenuato dal fatto che "almeno questa volta non diranno che sono stati gli ebrei". Ci si poteva domandare tuttavia quando sarebbe avvenuto che Israele sarebbe stato rimesso di nuovo al centro dell'interesse mondiale, e proprio in relazione alla pandemia. E' avvenuto! Israele adesso è al centro dell'interesse mondiale. Non perché è il capo degli untori, come avveniva nel passato, ma al contrario, perché è il capo dei guaritori. Vedremo quanto durerà l'ammirazione e che taglio prenderà la trasformazione.
   Possibili interpretazioni del prodigioso successo dello stato ebraico in tema di pandemia:
  1. La più diabolica. Sono stati proprio loro a creare e mettere in circolazione il virus, facendolo arrivare da altre parti per non dare nell'occhio. Avevano già pronto il vaccino fin dall'inizio, e anche quello l'hanno fatto arrivare da lontano. Così avverrà come ai tempi di Giuseppe e il Faraone: il mondo subirà anni di pandemia e alla fine se i popoli vorranno sopravvivere dovranno venire a fare elemosina di vaccini in Israele.
  2. La mediamente diabolica. No, non sono stati loro a generare il virus, ma quando il contagio si è diffuso e la gente ha preso ad aspettare il vaccino come si aspetta il messia, hanno pensato che il brevetto del concetto di messia appartiene a loro. Quindi hanno esaminato bene la cosa, e usando la loro arma preferita, cioè i soldi, hanno fatto incetta di vaccini ad esclusivo proprio beneficio, infischiandosi delle altre nazioni costrette a spigolare tra i vaccini rimasti in giro qua là. Come risultato vale lo stesso dell'interpretazione precedente.
  3. La superumana quasi diabolica. Essendo riusciti ad avere in mano la scorta più grande ed efficace di vaccini, hanno cominciato a persuadere, minacciare, ricattare i propri stessi cittadini, costringendoli con la forza a farsi vaccinare tutti, proprio tutti, assolutamente tutti, nessuno escluso. In questo modo si sono costituiti come esempio per tutte le nazioni, avvertendole che se vogliono guarire devono fare come loro: costringere i propri cittadini con la forza. E se non capaci di farlo, possono sempre ricevere aiuto sottomettendosi come nazioni ad Israele. Realizzando così l'occulto proposito ebraico smascherato dal Protocollo dei Savi Anziani di Sion.
   Fantapolitica? Effervescenza fantastica? Forse, ma rappresentare in forma immaginosa il futuro può servire a misurare poi di quanto i fatti immaginati si discostano dalla realtà. E di quanto no. M.C.

(Notizie su Israele, 22 febbraio 2021)


"Amos Oz, un violento". La figlia Galia accusa

Fanno scalpore le parole contenute nel memoir appena uscito in Israele

di Sharon Nizza

Galia e Amos Oz
TEL AVIV - «Un meraviglioso uomo di famiglia e un uomo di pace e moderazione», così Fania, la figlia maggiore di Amos Oz, si separava dal padre, mancato nel 2018 a causa di un tumore. A sconvolgere l'immaginario collettivo su uno degli intellettuali israeliani più amati, noto in tutto il mondo per la sua prosa tradotta in trenta lingue e per l'impegno civile contro il fanatismo, è la secondogenita di Oz, Galia, 56 anni, anche lei scrittrice, che ha pubblicato un libro autobiografico, Qualcosa travestito da amore, in cui denuncia i «continui abusi, fisici e mentali», subiti dal padre.
   «Durante la mia infanzia, mio padre mi ha picchiato, insultato e umiliato. Era una violenza creativa: mi trascinava dentro casa e mi buttava fuori. Mi chiamava spazzatura. Non si trattava di una perdita di controllo passeggera o di uno schiaffo qui e lì, ma di una routine di abusi sadici. Il mio crimine ero io stessa, quindi la punizione era interminabile. Aveva bisogno di assicurarsi che mi sarei spezzata». Con questo durissimo j'accuse si apre il libro uscito ieri in Israele, tra lo sconcerto generale del grande pubblico e degli intellettuali israeliani. Fama Oz-Salzberger, la figlia maggiore, storica con cui Oz intratteneva un rapporto molto stretto che li ha portati anche a pubblicazioni congiunte, ha rilasciato una dichiarazione a nome della famiglia: «Abbiamo conosciuto un padre diverso, caloroso, affettuoso, che ha amato la sua famiglia con un amore profondo pieno di preoccupazione, devozione e sacrificio. La maggior parte delle accuse che Galia gli lancia contraddice completamente i nostri ricordi. Galia ha scelto di tagliare ogni rapporto con noi sette anni fa. Papà, pur non riconoscendosi nelle sue accuse, ha cercato fino all'ultimo suo giorno di parlarle e di capirla. Il dolore di Galia probabilmente è vero e struggente, ma noi abbiamo ricordi diversi. Totalmente». In un post molto intimo, il figlio minore, Daniel, poeta 42enne, pur chiedendo di non giudicare Galia e sostenendo di poter intravedere un nucleo di verità nelle sue parole, ha descritto il padre come «la persona più buona che abbia mai conosciuto». «C'è un arcano nella mia vita» ha continuato. «Non so veramente cosa abbia ucciso lentamente mio padre: il cancro o il fatto che mia madre vivesse il lutto "di una figlia morta"».
   Nili, l'inseparabile compagna con cui Oz ha condiviso 66 annidi vita, è descritta nel libro della figlia come vittima della stessa violenza. «Posso garantire che nessuno ha fatto del male ai miei figli» ha dichiarato alla radio. «Io so cosa è successo. E una storia problematica. Ma non intendo dire nulla al riguardo. Il problema è di chi ha scritto quelle parole».
   Tra i pochi a esprimersi apertamente sulla vicenda, lo scrittore Yehuda Atias, molto vicino a Galia Oz, che ha detto di essere a conoscenza di questi racconti: «Evidentemente anche la luna ha un lato oscuro». Dorit Silverman, scrittrice e studiosa delle opere di Oz — nonché parente della moglie dello scrittore — a colloquio con Repubblica non nasconde il turbamento. «Shock. Siamo tutti scioccati». Racconta che, quando sette anni fa Galia ruppe con il padre e poi con il resto della famiglia — impedendo anche ai figli di interagirvi — , Oz le rivelò solamente di aver detto «qualcosa che non avrei dovuto dire e non sono più riuscito a farmi perdonare». «Voglio pensare come Amos ci ha insegnato, quando dei palestinesi diceva che era necessario sentire il dolore delle due parti e non giudicare. Ecco, scelgo di non giudicare».

(la Repubblica, 22 febbraio 2021)


Israele paga Assad in siero russo. In cambio, liberata una prigioniera

Secondo quanto riportato dal Times of Israel, lo Stato ebraico avrebbe acquistato dosi per un milione di dollari del vaccino russo Sputnik da utilizzare in Siria in cambio della liberazione di alcuni ostaggi del regime di Assad. A conferma del possibile accordo, venerdì scorso Damasco ha rilasciato una donna israeliana, detenuta dopo aver passato íl confine con la Siria il 2 febbraio, ai piedi del Monte Hermon. La venticinquenne, che parla fluentemente l'arabo, è atterrata all'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv con un volo proveniente dalla Russia. Dopo l'ingresso illegale della donna, infatti, Damasco ha informato Mosca, che ha trasmesso le informazioni a Israele, attivando i negoziati per il rilascio. Nel fine settimana la giovane è stata interrogata dagli agenti dello Shin Bet, l'agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele. I colloqui continueranno anche nei prossimi giorni. Il regime di Assad, da parte sua, ha negato l'esistenza di un accordo di scambio tra vaccini e prigionieri, affermando in una dichiarazione rilasciata sabato dall'agenzia di stampa statale Sana che la pubblicazione dl questi dettagli faceva parte di un «tentativo di dipingere Israele come un Paese umano». A ogni modo, in cambio della libertà della donna, Gerusalemme avrebbe rilasciato altri tre prigionieri siriani.

(La Verità, 21 febbraio 2021)


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Vaccini per una prigioniera, dubbi sull'accordo Siria-Israele

La stampa israeliana rilancia la notizia, Damasco smentisce. Dietro forse c'è Putin. Una giovane ultraortodossa in fuga in cambio di centinaia di migliaia di dosi.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Accertare la fondatezza della notizia non è facile. Anche considerando la fonte, il quotidiano saudita AI Sharq alAwsat, apertamente ostile alla Siria e sempre pronto a metterla in cattiva luce. Ciò nonostante il presunto scoop è degno di attenzione. Israele, scrive il giornale, comprerà o avrebbe già comprato centinaia di migliaia di dosi del vaccino Sputnik per mandarle in Siria via Russia. E lo avrebbe fatto in cambio della liberazione, mediata da Mosca e avvenuta a metà settimana, di una 25enne israeliana - fuggita dalla comunità religiosa ultraortodossa dell'insediamento coloniale di Modiin Illit - arrestata per essere entrata illegalmente il 2 febbraio in territorio siriano.
   Damasco ha già smentito ufficialmente. Sono «notizie fabbricate> per «diffamare» la Siria e far apparire Israele come uno Stato con una funzione «umanitaria» nella regione, afferma un comunicato del governo diffuso dall'agenzia Sana. La smentita non ha frenato i media israeliani dal riferire la notizia con una evidenza eccezionale. Ynetnews parla di milioni di dollari spesi per l'acquisto dei vaccini destinati a Damasco. E anche Haaretz sembra dare credito a quanto scrive il giornale saudita.
   Il fatto che una parte dell'intesa di qualche giorno fa sia stata secretata dalle autorità israeliane alimenta il sospetto che ci sia qualcosa di più rispetto al modesto scambio di prigionieri avvenuto tra i due paesi.
   Non sembra plausibile che la Siria, presa di mira dai caccia israeliani e tenuta sotto pressione dalle sanzioni approvate l'anno scorso dall'amministrazione Trump, si sia accontentata della liberazione di due pastori sconfinati in Israele e della revoca degli arresti domiciliari per un'attivista drusa nel Golan occupato. Come è improbabile che la Russia di Vladimir Putin - alleata di Bashar Assad ma anche amica del premier israeliano Netanyahu - si sia impegnata per così poco.
   Tra le ipotesi più gettonate c'è quella che vorrebbe Mosca impegnata dietro le quinte a cucire il primo lembo di un dialogo a distanza tra Tel Aviv e Damasco, per rafforzare la sua posizione di player principale nella regione e ridimensionare il peso e la presenza iraniana in Siria. Il mese scorso il settimanale The Arab Weekly aveva riferito di un incontro segreto siro-israeliano nella base russa di Hmeimim vicino alla città costiera di Latakia. Un faccia a faccia - smentito dai siriani - volto a discutere le condizioni per la cessazione dei bombardamenti aerei israeliani contro presunti obiettivi iraniani in Siria. Un'altra ipotesi vede nel rilascio della donna israeliana un segnale inviato da Assad non tanto al nemico Netanyahu quanto a Joe Biden.
   A Damasco si teme che la muova amministrazione scelga una posizione ancora più dura contro la Siria per compensare agli occhi di Israele e degli alleati arabi la linea moderata che intende adottare con l'Iran. Qualcuno non manca di ricordare che lo scorso ottobre, in un'intervista all'agenzia Rossiya Segodnya, Assad non escluse categoricamente un accordo con Israele e, in riferimento al Golan, ricordò che la linea siriana è «molto chiara dall'inizio dei colloqui (con Israele) negli anni '90, quando abbiamo detto che la pace per la Siria riguarda i diritti. Il nostro diritto è la nostra terra. Possiamo avere rapporti normali con Israele solo quando avremo indietro la nostra terra. È molto semplice.
   Per l'analista Mouin Rabbani non si deve correre troppo con l'immaginazione. «Dietro lo scambio di prigionieri e la storia tutta da verificare dei vaccini russi comprati da Israele per la Siria, probabilmente c'è poco - diceva ieri al manifesto - Che Mosca voglia contenere la presenza dell'Iran in Siria per limitare l'aggressività di Israele è noto da tempo ma che punti all'uscita totale delle forze di Teheran (dalla Siria) è inverosimile. L'Iran è un buon alleato della Russia e, in ogni caso, non ha alcuna intenzione di ritirare i suoi uomini dalla Siria. Quanto a Bashar Assad ha bisogno dell'aiuto economico e militare degli iraniani però, non c'è dubbio, vedrebbe con molto favore l'allentamento della tensione con Israele.

(il manifesto, 21 febbraio 2021)


I palestinesi e il tentativo di distruggere la memoria storica ebraica

di Ugo Volli

Oltre alle battaglie militari, a quelle diplomatiche, giuridiche e commerciali, nel tormentato Medio Oriente vi sono anche le battaglie archeologiche. Molti ricorderanno le cannonate dei talebani contro le antiche statue di Buddha in Afghanistan, o la distruzione ad opera dello Stato Islamico (ISIS) dei resti romani di Palmira (compreso l'omicidio dell'archeologo che ne curava la conservazione) o dei resti assiri di Ninive. La ragione è la stessa espressa, a quanto si dice, dal primo governatore musulmano dell'Egitto che fece bruciare la biblioteca di Alessandria, il più venerabile e vasto archivio letterario dell'antichità: "se quel che dicono questi oggetti corrisponde all'insegnamento islamico, sono inutili, perché tutto è già nel Corano, e quindi si possono tranquillamente distruggere. Se lo contraddicono (come i resti pagani fanno per definizione) sono oggetti malefici e devono essere fatti sparire".
   Ma l'Autorità Palestinese ha una ragione in più per distruggere i resti antichi nei luoghi che controlla in Giudea e Samaria: essi testimoniano dell'antica storia ebraica, corrispondono alle narrazioni bibliche e quindi sono ostacoli alla riscrittura della storia che essa persegue, per cui vi sarebbero sempre stati in Terra di Israele i palestinesi e gli ebrei sarebbero comparsi improvvisamente venendo dall'Europa un secolo fa. Per questo i palestinisti hanno distrutto i resti trovati nei loro scavi sul Monte del Tempio, per questo cercano di distruggere tombe e monumenti antichi dove li trovano.
   L'ultimo caso è stato quello dell'altare attribuito a Joshua ben Nun (Giosuè) sul monte Ebel a nord di Shechem (Nablus) in Samaria. Col pretesto di prendere materiali per costruire una strada, gli operai dell'Autorità Palestinese hanno distrutto un muraglione di sostegno risalente al secondo millennio prima della nostra era. In seguito all'allarme suscitato sulla stampa israeliana si sono fermati e hanno detto che si trattava di un "equivoco" e che non si sapeva cosa fosse quel monumento - una giustificazione palesemente falsa, perché basta consultare la rete per vedere che la municipalità locale da alcuni anni voleva attribuirlo al "patrimonio storico palestinese". Questa battaglia insomma è stata bloccata, ma la guerra alla memoria ebraica continua.

(Shalom, 21 febbraio 2021)


Come funziona il passaporto vaccinale in Israele

In Israele, dove quasi il 50% degli abitanti sono stati vaccinati contro il Covid, è stato istituito un certificato — il «Green Pass» — che consente di accedere ad alcuni servizi. Potrebbe servire anche per viaggi all'estero? O diventare uno standard internazionale?

di Davide Frattini

Netanyahu e il Green Pass
GERUSALEMME - Palestre, hotel, piscine, eventi pubblici sportivi e culturali. Da oggi gli israeliani possono tornare a una sorta di normalità. Non tutti: solo chi può esibire un certificato per dimostrare di aver ricevuto la seconda dose del vaccino almeno una settimana fa.
All'inizio il governo aveva pensato di chiamare «passaporto verde» questo lasciapassare dell'immunizzazione. Creava confusione, avrebbe spinto la gente a credere di poterlo utilizzare all'estero, adesso è definito «Green Pass» («pass verde») e il ministero della Sanità precisa che ha validità solo per la giurisdizione israeliana.
Per ora: il premier Benjamin Netanyahu sta cercando di mettersi d'accordo con Grecia e Cipro per aprire le frontiere ai vaccinati in primavera.
La procedura per ottenere la «carta verde» (dura sei mesi) è semplice, basta inserire il numero di carta d'identità nel sito allestito apposta: è crollato nelle prime ore, troppe richieste, gli israeliani che sono già stati inoculati due volte sono quasi 4 milioni e mezzo.
Per muoversi liberamente — sempre con mascherina — possono per ora usare il certificato di vaccinazione: il codice a barre di identificazione va presentato all'ingresso attraverso una app o stampato. Ammesso nei locali anche chi è stato contagiato e non sia più malato.
Gli altri - di fatto chi rifiuta di vaccinarsi e i minori di 16 anni che non sono previsti nella campagna e non hanno mai preso il Covid-19 - da oggi possono frequentare negozi, supermercati, musei, biblioteche.
Il governo ha deciso di non punire i no-vax, «ma gli insegnanti che non accettano stanno abbandonando i loro studenti» ha commentato Yuli Edelstein, il ministro della Sanità. Rischi penali invece per i trafficanti di falsi certificati verdi, mercato già diffuso via Telegram.
Il Paese non riapre del tutto: restano bloccati i voli internazionali almeno fino al 6 marzo e tornano a scuola i bambini delle elementari e i più grandi, negli ultimi due anni del liceo. I ragazzi delle medie ancora a casa tra le proteste dei genitori: «Perché le palestre sì e le classi no?».

(Corriere della Sera, 21 febbraio 2021)


Le modeste proposte di Biden sul conflitto israelo-palestinese

di Yael Mizrahi-Arnaud

Il presidente Trump è entrato in carica con la dichiarazione che voleva liberare l'America dalla sua ormai trentennale preoccupazione per il Medio Oriente, come parte della sua visione "America First".Ha scelto l'Arabia Saudita come prima tappa del suo viaggio inaugurale all'estero; la sua fotografia con il re Salman e il presidente egiziano Sisi che guardano in cagnesco un globo incandescente ha preparato il terreno affinché l'America consegnasse le chiavi della sicurezza regionale a governanti autocratici e monarchici. La nozione dell'America come presunto garante del cosiddetto ordine internazionale liberale non era una missione che intendeva portare avanti. Sebbene Trump abbia ereditato dall'amministrazione Obama una politica statunitense già rotta in Medio Oriente, la determinazione a promuovere le norme internazionali sui diritti umani o i valori democratici non sarebbe più né difesa né incoraggiata.
  L'amministrazione Trump era in gran parte disinteressata alla politica regionale, salvo per due questioni: contrastare l'Iran e sostenere Israele.
Jared Kushner, insieme all'ambasciatore statunitense in Israele David Friedman, ha elaborato una politica statunitense lodata come la più filo-israeliana nella storia americana.
Che le politiche di Trump fossero "buone" per Israele dipende molto spesso da dove ti siedi a guardarle, ma ciò nonostante, hanno consegnato a Israele molti obiettivi a lungo ambiti.
L'impressione a Washington è che Biden non dedicherà e non dovrebbe dedicare la stessa attenzione delle amministrazioni Obama o Trump al portafoglio Israele-Palestina.
La prima priorità di Biden è affrontare questioni interne più impegnative e urgenti e la questione di politica estera numero uno nella regione sarà negoziare un ritorno all'accordo nucleare iraniano; una mossa che i leader israeliani hanno già detto di non apprezzare.
  Il mese scorso, l' ambasciatore americano presso le Nazioni Unite Richard Mills ha delineato l'agenda dell'amministrazione Biden sul conflitto israelo-palestinese in un discorso al Consiglio di sicurezza . La proposta include il rinnovo dei finanziamenti alla Autorità Palestinese e alla UNRWA, la riapertura dell'ufficio dell'OLP a Washington DC e il consolato a Gerusalemme. Il presunto obiettivo alla base di queste politiche è preservare la fattibilità della soluzione dei due stati. Il discorso ha invitato Israele ad evitare l'annessione, la costruzione di insediamenti e la demolizione delle case palestinesi oltre la linea verde. Rivolgendosi ai palestinesi, Mills ha fatto riferimento alla questione dei pagamenti mensili del welfare ai prigionieri palestinesi e alle famiglie dei martiri, conosciuti a Washington in modo ignominioso come "paga per uccidere", che i rapporti indicano che i palestinesi hanno già iniziato ad affrontare.
  Sebbene queste proposte siano progettate per invertire le politiche distorte dell'amministrazione Trump, rappresentano il minimo indispensabile per tornare allo status quo ante. Mills ha articolato il calcolo di base secondo cui investire personale di alto livello, come un inviato speciale dedicato, sarebbe inutile perché "le rispettive leadership sono molto distanti sulle questioni relative allo stato finale, la politica israeliana e palestinese è tesa e la fiducia tra le due parti è molto bassa". Ha concluso il suo discorso applaudendo gli accordi di normalizzazione tra Israele e il mondo arabo, affermando che gli Stati Uniti continueranno a sollecitare altri paesi nella stessa direzione perché sperano che "la normalizzazione possa procedere in un modo da sbloccare nuove possibilità per far avanzare la soluzione a due Stati".
  Washington si è esonerata dalla responsabilità di principale mediatore, e la modesta proposta politica di Biden dimostra che vogliono evitare di innescare qualsiasi controversia importante sulle relazioni israelo-palestinesi. Le sezioni seguenti illustreranno tre aree chiave in cui la politica di Biden si muoverà e dove dovrà affrontare le sue sfide.

 LO STATUS DI GERUSALEMME
  Il segretario di Stato Anthony Blinken, quando gli è stato chiesto durante la sua audizione di conferma al Senato, ha chiarito che l'ambasciata americana rimarrà a Gerusalemme e che non intendono revocare la decisione dell'amministrazione Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Questa mossa ha segnalato la tacita accettazione da parte degli Stati Uniti della sovranità israeliana su tutta Gerusalemme, che equivale a una legittimazione del controllo di Israele sulla Gerusalemme est occupata. Biden ha l'opportunità di rimediare a ciò riaffermando le clausole concordate nella Dichiarazione di principi degli accordi di Oslo del 1993, dove Gerusalemme Est è una questione di status finale fondamentale da risolvere mediante negoziati bilaterali. Un ulteriore passo avanti sarebbe l'annuncio di Gerusalemme Est come capitale di un futuro stato palestinese; anche se ciò significherebbe guadare acque precarie ed è sicuro che scatenerà una dura risposta israeliana.
  Il governo israeliano si opporrà al piano di riapertura del consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme Est, che è stato fuso in una sub-unità dell'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme nel 2019.
L'ambasciatore uscente in Israele David Friedman, nel suo ultimo discorso al Comitato Affari Esteri della Knesset , ha protestato contro la riapertura, sostenendo che un consolato è ridondante poiché la città ospita già un'ambasciata americana. C'è anche un dibattito legale sul fatto che gli Stati Uniti possano farlo, e la mossa sarà logisticamente impossibile da eseguire senza l'approvazione israeliana.
  L'apertura di un consolato a Gerusalemme Est ha implicazioni sia pratiche che simboliche: creerebbe un canale indipendente tra i palestinesi e il Dipartimento di Stato e segnalerebbe agli Stati Uniti il punto di vista di Gerusalemme Est come la capitale di un futuro Stato palestinese.
Farebbe molto per ripristinare le relazioni degli Stati Uniti con i palestinesi e riaffermare i parametri concordati a livello internazionale della soluzione dei due Stati, che sono stati minati dal rimodellamento dell'amministrazione Trump nell'iniziativa di pace "Peace to Prosperity". La mancata riapertura del consolato, che consentirà il controllo continuo e senza restrizioni di Israele su tutta Gerusalemme, dimostra che la pretesa dell'amministrazione Biden di sostenere la soluzione dei due stati è inefficace.

 IL FUTURO DEGLI ACCORDI DI ABRAHAM
  Un'altra eredità dell'amministrazione Trump con cui Biden dovrà fare i conti sono i quattro accordi di normalizzazione mediati da Jared Kushner tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco.
  Conosciuti come gli accordi di Abraham, questi accordi minano uno degli unici punti di leva rimanenti dei palestinesi delineati nell'Iniziativa per la pace araba , la promessa di una piena normalizzazione delle relazioni tra gli Stati arabi e Israele subordinata alla creazione di uno stato palestinese entro i confini del 1967.
  Gli Emirati hanno effettivamente distrutto l'Iniziativa per la pace araba, giustificando la loro decisione con l'affermazione che, in cambio della pace, Israele ha accettato di fermare i suoi presunti piani di annessione dei territori in Cisgiordania.
  In cambio, gli Emirati hanno ricevuto un impegno dagli Stati Uniti a vendere loro fino a 50 F-35 Joint Strike Fighter, oltre a 18 MQ-9 Reapers e munizioni avanzate, per un totale di oltre 23 miliardi di dollari.
  Anche gli altri paesi che hanno firmato accordi di normalizzazione hanno ricevuto incentivi dagli Stati Uniti, il Sudan è stato rimosso dalla lista degli sponsor statali del terrore e al Marocco hanno concesso il riconoscimento della sovranità sul Sahara occidentale . Gli accordi sono stati mediati per promuovere specifici interessi nazionali strategici, rinunciando a qualsiasi impegno a promuovere la causa nazionale palestinese.
  Pubblicizzato da Netanyahu e Trump come mosse storiche, e "l'alba di un nuovo Medio Oriente", anche Biden ha espresso un forte sostegno a questi accordi. Il vice consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha ribadito la convinzione dell'amministrazione che gli accordi riflettano uno sviluppo positivo per il cittadino statunitense interessi e sicurezza e sviluppo economico nella regione.
  Eppure, il Dipartimento di Stato ha annunciato che gli accordi erano in corso di revisione per garantire che la nuova amministrazione abbia una chiara comprensione degli impegni coinvolti. Ciò include le vendite di F-35, temporaneamente in attesa con la rassicurazione che si tratta di una procedura amministrativa di routine. Mentre questi accordi godono del sostegno bipartisan del Congresso, la vendita di armi ai sauditi e agli Emirati è diventata un punto critico a causa della continua devastazione della guerra ormai decennale in Yemen, resa possibile in gran parte grazie alle armi statunitensi.
  Nel luglio 2019, Trump ha posto il veto agli sforzi bipartisan del Congresso per fermare le vendite di armi per miliardi di dollari agli Stati arabi del Golfo. Ma Biden ha annunciato che interromperà gli aiuti militari statunitensi alla coalizione guidata dai sauditi nello Yemen, anche se al momento i dettagli rimangono oscuri. Inoltre, gli Stati Uniti hanno reimpostato una tariffa del dieci per cento sull'acciaio degli Emirati Arabi Uniti che Trump aveva revocato a gennaio. Nonostante ciò, è improbabile che gli Emirati rinneghino l'accordo; la normalizzazione fornisce loro un nuovo partner nella loro coalizione anti-Iran e una relazione rafforzata con Washington.
  Per quanto riguarda Riyadh, alcuni stanno valutando la possibilità che la strada per Washington passi attraverso Gerusalemme, e a Gerusalemme la normalizzazione con l'Arabia Saudita rimane il gold standard. Tuttavia, questo percorso sembra improbabile nel prossimo futuro finché Re Salman rimane sul trono.

 NESSUN ARRESTO DEGLI INSEDIAMENTI
  Nel 2019, il Dipartimento di Stato ha ribaltato la posizione di lunga data degli Stati Uniti di non prendere posizione sulla legalità degli insediamenti israeliani in Cisgiordania dichiarando che gli insediamenti "non erano di per sé incompatibili con il diritto internazionale". Questa mossa si è coalizzata con il piano di pace di Kushner che ha dato il via libera all'annessione israeliana di circa il trenta percento della Cisgiordania. Biden non intende togliere questo accordo dal tavolo e l'amministrazione affronterà il suo primo test su questo tema con gare d'appalto per 1.257 unità abitative da costruire nel controverso quartiere di Gerusalemme Est Givat Hamatos, che collega Gerusalemme a Betlemme e alla Cisgiordania meridionale. Se l'accordo fosse completato, renderebbe quasi impossibile una contigua capitale palestinese a Gerusalemme est. Netanyahu si è astenuto dal portare avanti questi piani in passato a causa della ferma condanna internazionale e l'UE ha già espresso la sua grave preoccupazione. Oltre a rilasciare una dichiarazione di opposizione, è improbabile che Biden porti avanti altre azioni sostanziali per scoraggiare la costruzione di insediamenti come il congelamento degli insediamenti. Mentre altri candidati alla presidenza avevano lanciato l'idea di condizionare gli aiuti statunitensi alla fine dell'espansione degli insediamenti, Biden è categoricamente contrario.

 CONCLUSIONE
  Scegliendo un approccio modesto e "di mezzo", Biden accetta implicitamente che l'amministrazione Trump abbia distrutto il ruolo principale dell'America nel processo di pace israelo-palestinese.
  La strumentalizzazione della politica statunitense per far avanzare l'agenda dei coloni di estrema destra di Israele e il rifiuto di parametri concordati a livello internazionale hanno alterato i fatti sul terreno in modi che minacciano, se non sradicano, la fattibilità della soluzione dei due stati. Rianimare le relazioni USA-Palestina e migliorare il suo status a qualcosa di più di un "satellite" del conflitto è quindi un obiettivo significativo. Ma è impossibile giudicare l'impatto di queste politiche individuali, per quanto importanti possano essere per il benessere dei palestinesi, a parte il quadro più ampio se questi risultati saranno sufficienti per preservare il futuro di una soluzione a due stati. Nel frattempo, il Congresso ha approvato un pacchetto di finanziamenti da 250 milioni di dollari per progetti di pace e riconciliazione israelo-palestinesi e piani per sostenere l'economia palestinese. Sebbene questa notizia non offra molte speranze a breve termine e impallidisca in confronto agli sforzi diplomatici di alto livello, la leadership degli Stati Uniti potrebbe forgiare un nuovo approccio dalla sua ex arroganza sicura di sé, adattando le sue ipotesi e politiche per adattarsi a una diversa realtà mediorientale.

Articolo pubblicato sul Forum for Regional Thinking

(Rights Reporter, 21 febbraio 2021)


Israele scopre la fratellanza araba

Dopo gli Accordi di Abramo. Per la prima volta si visitano i Paesi arabi per l'industria hi-tech, i musei progettati dalle archistar, il divertimento e l'evasione: la contemporaneità assoluta. Ci sono star israeliane di musica araba. Poeti che scrivono "Sono ebreo" in arabo. E attrici israeliane che lavorano sul recupero di preghiere e vecchi canti dal Maghreb.

di Wicidek Goldkorn

Qualche mese fa, tre palestinesi, cittadini israeliani, hanno postato su YouTube un filmato: vestiti da arabi degli Emirati del Golfo, con tanto di kefiah (lo scialle tradizionale) ricamata di rosso e kandura (la lunga tunica) candida, passeggiavano per le strade di Herzliya, una cittadina al mare a nord di Tel-Aviv. Si trattava, hanno spiegato, di un esperimento sociale e culturale. Volevano documentare come i concittadini ebrei avrebbero reagito (bene) alla presenza di turisti arabi. Negli stessi giorni, ogni mattina e per alcune settimane, finché un lungo lockdown non ha interrotto il fenomeno, dall'aeroporto Ben Gurion partiva una dozzina di aerei diretti a Dubai, pieni di israeliani. Che cosa andavano a vedere? La domanda non riguarda tanto le conseguenze geopolitiche di quelli che vengono chiamati "gli accordi di Abramo", una pace fra Paesi che non hanno mai combattuto fra di loro, fatta in funzione della politica di contenimento dell'Iran dell'ex presidente Donald Trump e della strategia di Benjamin Netanyahu, atta a non cercare una soluzione del conflitto con i palestinesi. La questione riguarda invece le ripercussioni di quella pace sull'identità degli israeliani e sul loro modo di stare in mezzo al mondo arabo.
  Anni fa, Ehud Barak, ex premier laburista, paragonò Israele a «una villa in mezzo alla giungla». Figlio delle élite di discendenza europea, cresciuto in un kibbutz, pianista brillante, soldato eccellente, insomma l'uomo modello del pioniere, combattente, artista, voleva probabilmente dire: Noi siamo la cultura, loro la barbarie. Ora, per restare nell'ambito dell'infelice parabola, gli israeliani visitando gli Emirati, scoprono, nel mondo arabo, l'esistenza di un'altra villa. Dubai, con i suoi grattacieli, con l'industria del divertimento, con i musei progettati da designer celebri - per non parlare di hi-tech e connessi - è uno specchio di Tel Aviv, anzi, un luogo ancora più postmoderno. E poi, parlando degli specchi, forse non è l'unico posto della zona che va dal Golfo e fino al Maghreb, in cui vedono riprodotta la propria immagine. Stiamo parlando dei rapporti con il Marocco e della nostalgia dell'Iraq. Ci torneremo.
  «Intanto negli Emirati non si va per scoprire la letteratura di qualità o la musica sofisticata di una cantante leggendaria come Umm Kulthum», avverte però lo scrittore Etgar Keret, osservatore attento della cultura quotidiana del suo Paese. «Si va, per lo più, per giocare al casinò, affittare per poche ore una macchina di lusso, divertirsi senza sforzo di immaginazione. Si tratta di gite nella contemporaneità assoluta». In altre parole: evasione. Sottoponiamo allora il problema a Eva Illouz, sociologa e una delle pensatrici più originali del momento: nata a Fez in Marocco, vive fra Parigi e Israele.
  Il lato transeunte delle visite negli Emirati ha pure un significato culturale e identitario? Illouz ci tiene a sottolineare una certa vicinanza fra Israele e le monarchie del Golfo (Arabia Saudita compresa) per quanto riguarda il mix pericoloso fra tecnica e religione, rimarca quanto Israele sia disposto a collaborare con Paesi che non brillano per il rispetto dei diritti umani, insiste sulla realtà dell'occupazione dei Territori. E poi dice: «Quei viaggi, per gli israeliani sono un'uscita da una specie di spazio chiuso, da un ghetto. Da questo punto di vista sono una svolta». E in questo senso hanno a che fare con l'identità, perché non è un'uscita verso l'Europa o l'America, ma un viaggio nel cuore del mondo arabo e islamico. Certo, i confini terrestri con i Paesi vicini, l'Egitto e la Giordania, sono aperti da anni. C'è pace. Però manca il calore. Le memorie della guerra sono fresche e, nel caso della Giordania, la presenza dei palestinesi fa sì che il conflitto sia sempre latente. Né al Cairo, né tanto meno ad Amman, ci si sente a casa.
  Abbiamo detto casa. Ecco, la nostalgia di una casa non cinta da alte mura, e invece in mezzo ad altri è tanta. Quale casa? Dove? Certo, nei luoghi del mondo arabo e islamico dove la presenza ebraica era nel passato massiccia e culturalmente significativa, come l'Iraq e il Marocco. O se vogliamo, la vicenda di Dubai si inserisce nel processo della rinascita della cultura "mizrahi" (orientali), come vengono chiamati gli ebrei provenienti dal mondo islamico. Una cultura, che a lungo, in Israele, era disprezzata e che per i suoi stessi portatori, era spesso motivo di vergogna. Ma attenti, la nostalgia è un sentimento delicato e ambivalente. La condizione per essere nostalgici è la certezza che tutto resti immaginario, che il passato non torni. La nostalgia è prima di tutto la costruzione della memoria come base per ricostruire la propria identità, ferita. Senza tornare ad abitare a Baghdad o Casablanca. Israele è la patria. Anche se a Baghdad e Casablanca si rimpiange l'assenza degli ebrei, e in una serie trasmessa dalla tv saudita girata da un regista del Bahrein, "Um Haroun" (la madre di Aronne), si racconta con toni kitsch della convivenza armoniosa fra ebrei e arabi, nel passato.
  Ecco, ci sono oggi star della musica araba, israeliane. E, si sa, attraverso la musica passa molta memoria. Prendiamo come esempio Dudu Tassa. Qualche anno fa, una sua canzone, "Esule" (titolo non casuale), è stata una piccola rivoluzione. Lui è nato in Israele ed è nipote di Daud El-Kuwaiti. Daud El Kuwaiti, a sua volta, assieme al fratello Saleh era considerato il fondatore della musica araba irachena moderna. I due, negli anni Trenta, erano ammirati e invidiati nell'intero mondo arabo. Spesso erano ospiti a pranzo alla corte del re a Baghdad. La loro vicenda segue le memorie degli ebrei iracheni: molti erano scrittori, artisti, attivisti politici. Poi, nel 1941 arriva un pogrom a Baghdad, 180 sono le vittime: finisce con l'esodo di quasi tutti gli ebrei, dopo la nascita dello Stato ebraico nel 1948. Arrivati in Israele, i fratelli El Kuwaiti da monarchi dei palcoscenici e dei cuori si ridussero a suonatori ai matrimoni. Ora Tassa canta le loro canzoni, rielaborate. I commenti sui social media sono all'insegna -> -> non solo di apprezzamento in Israele ma anche di parole degli utenti arabi, a Baghdad o Bassora, che dicono: «Tornate qui, fratelli ebrei».
  Ma non c'è solo la musica. Ecco il caso del poeta Almog Behar, 42 anni, nato in Israele. Pure lui uno dei 450 mila ebrei di discendenza irachena. In uno dei suoi poemi in ebraico, scrive il verso "Sono un ebreo", ma lo fa in lingua araba, a sottolineare il rispecchiarsi l'una nell'altra delle due identità. Qualche anno fa ha pubblicato un volume dal titolo "Sefer Baghdad" (Il libro di Baghdad), dove esprime l'amore e il lutto per la perdita di un mondo mitologico, eppure molto concreto. Behar ama sottolineare quanto la lingua ebraica debba all'arabo e a quello che lui chiama «la simbiosi ebraico araba». E ancora, un anzianissimo e molto apprezzato scrittore israeliano, sempre in ebraico, Sami Michael, si considera (anche) un autore arabo iracheno (si veda "Victoria", edito con Giuntina). Un altro autore quotato e premiato, di origini irachene, Eli Amir, nel romanzo "Yasmine" (Einaudi) narra una simbiosi amorosa: un funzionario di Stato israeliano originario di Baghdad, per cui la cultura araba è più vicina di quella israeliana, si infatua di una palestinese di Gerusalemme Est, appena dopo la conquista della città nel 1967.
  Tre mesi fa il Marocco ha deciso di instaurare pieni rapporti diplomatici con Israele. Alla firma degli accordi, il rappresentante dello Stato degli ebrei, Meir Ben Shabbat, si rivolse al re Mohammed VI, in lingua locale, con le parole: «Lunga vita al mio sovrano». Un esercizio di retorica, ai fini geopolitici? È lecito pensare che non sia solo così. Ben Shabbat, alto funzionario dei servizi di sicurezza israeliani, fa parte di una comunità di quasi un milione di marocchini di quel Paese. E molti di loro rivendicano il legame con la dinastia e la fedeltà al re. Ogni anno, a decine di migliaia visitano il Marocco. Sono attratti da quelli che, parafrasando lo storico Pierre Norra, possiamo chiamare "i luoghi della memoria", i quartieri delle città una volta abitati dagli ebrei o le tombe dei rabbini in odore di santità. E ora, con i rapporti diplomatici sarà più facile e per niente lacerante avere perfino la doppia cittadinanza, a sigillo sempre di un'identità declinata al plurale.
  Neta Alkayam, nonni venuti dal Marocco, è un'attrice e cantante israeliana. Da anni lavora al recupero dei vecchi canti e delle antiche preghiere. Ecco, andare a sentire la sua canzone "Muhal Nensa" (Impossibile dimenticare), vedere i commenti, da Israele e dai Paesi arabi e dal Maghreb, nei social media, per capire la potenza del fenomeno. No, nessun progetto di tornare e vivere in Marocco, ma una ricerca per riallacciare il filo spazzato della memoria, con un occhio all'avvenire. Un avvenire da vivere senza la necessità di provare a chiunque che si fa parte della "villa" e non della "giungla". Alkayam è regolarmente ospite del Festival ebraico di Cracovia, dove uno sforzo analogo (per quanto riguarda l'Europa) viene fatto da artisti di origini ebraiche polacche. La differenza fra le due situazioni? Sentiamo ancora una volta lo scrittore Keret, che in Polonia, Paese natio dei suoi genitori, torna spesso. La risposta è lapidaria: «Nel caso degli ebrei marocchini si tratta di una memoria senza ombra della Shoah». Certo, ci sono state violenze anti-ebraiche anche nel Maghreb (a Fez nel 1912, a Jerada e Oujda nel 1948), ma quel mondo non è mai stato distrutto, solo trasportato nelle valigie e nelle teste degli immigrati in Israele. Ecco perché si tratta una memoria piena di potenzialità.
  E per tornare all'inizio. La nostalgia non si traduce immediatamente in politica. Da ambedue le parti. La riscoperta della "fratellanza" non sposta il modo di votare dei discendenti di coloro che da quel mondo provengono né li rende sull'istante empatici con i palestinesi. E molti intellettuali arabi hanno difficoltà a riconoscere la legittimità di Israele. Eva Illouz così chiosa e riassume il nesso fra le storie dei viaggi nel postmoderno: «Il mondo oggi è un universo che con una metafora potrei definire androgino e ambivalente. Il nemico può essere amico, il superiore inferiore, gli sfruttatori sfruttati . È una situazione non facile da comprendere ma che apre tutto lo spazio all'immaginazione».

(l’Espresso, 21 febbraio 2021)



Invito ad acquistare saggezza

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 4.
  1. Figlioli, ascoltate l'istruzione di un padre,
    state attenti a imparare la saggezza;
  2. perché io vi do una buona dottrina;
    non abbandonate il mio insegnamento.
  3. Quand'ero ancora bambino presso mio padre,
    tenero e unico presso mia madre,
  4. egli mi insegnava dicendomi:
    «Il tuo cuore conservi le mie parole;
    osserva i miei comandamenti e vivrai;
  5. acquista saggezza, acquista intelligenza;
    non dimenticare le parole della mia bocca e non te ne sviare;
  6. non abbandonare la saggezza, ed essa ti custodirà;
    amala, ed essa ti proteggerà;
  7. il principio della saggezza è: Acquista la saggezza;
    sì, a costo di quanto possiedi, acquista l'intelligenza;
  8. esaltala, ed essa t'innalzerà;
    essa ti coprirà di gloria quando l'avrai abbracciata;
  9. essa ti metterà sul capo un fregio di grazia,
    ti farà dono di una corona di gloria».
  1. Figlioli, ascoltate l'istruzione di un padre,
    state attenti a imparare la saggezza;

    Si ripresentano insieme i due termini istruzione e saggezza che sono apparsi per la prima volta in 1.2 (ved. commento). L'esortazione avviene adesso nella forma di un padre che parla ai figli (al plurale). E' la voce dell'esperienza che si fa sentire. Il collegamento voluto da Dio tra chi è vissuto prima e chi vive dopo avviene attraverso la parola. Il padre sta assolvendo il compito che gli spetta: parlare ai figli. Ad essi compete la responsabilità di ascoltare, e non per semplice rispetto verso la persona anziana, ma per l'interesse che portano alla vita che sta loro davanti. State attenti, dice il padre ai figli, perché la saggezza non è un bene che si trasmette biologicamente per via ereditaria: la saggezza si impara.

  2. perché io vi do una buona dottrina;
    non abbandonate il mio insegnamento.

    I figli a cui questo padre si rivolge non potranno mai dire di essere stati male consigliati e male indirizzati. Hanno ricevuto e stanno ancora ricevendo una buona dottrina. Questo aumenta la loro responsabilità. L'istruzione non produce frutto per il semplice fatto di essere stata impartita: essa deve anche essere accolta. E chi la riceve deve anche preoccuparsi di conservarla e accrescerla, perché rimane sempre il rischio di lasciarsi fuorviare da nuovi pensieri e nuove "morali" (2.13). Si comprende allora la preoccupazione del padre saggio: Non abbandonate il mio insegnamento.

  3. Quand'ero ancora bambino presso mio padre,
    tenero e unico presso mia madre,

    Nel discorso familiare si inserisce il riferimento alla generazione precedente. Il padre che ora istruisce i figli ricorda di essere stato anche lui un bambino, sottolineando l'amore tenero e dolce che ha potuto ricevere dai suoi genitori. Il suo parlare non è dunque motivato da una legalistica severità a cui ha dovuto suo malgrado sottoporsi e che adesso cerca a sua volta di imporre a chi viene dopo di lui, ma dall'amore di cui è stato oggetto nella sua infanzia.

  4. egli mi insegnava dicendomi:
    «Il tuo cuore conservi le mie parole;
    osserva i miei comandamenti e vivrai;

    Il vero amore dei genitori verso i figli si esprime nella trasmissione di parole di sapienza (De 4.9). Il padre che qui parla vuole rafforzare la sua esortazione con il racconto della sua esperienza. Fin da bambino gli sono stati impartiti buoni insegnamenti, insieme con la raccomandazione di conservare le parole udite e di osservare i comandamenti ricevuti. Egli lo ha fatto e non ha dovuto pentirsene, tutt'altro. Le istruzioni ricevute nella famiglia gli sono servite per vivere nel senso vero e pieno della parola. Per questo può fare adesso la stessa raccomandazione a ciascuno dei suoi figli, unita ad una splendida promessa: vivrai!. Nell'originale si trova l'imperativo, e quindi il termine può anche essere tradotto: vivi! Si tratta dunque di una parola di benedizione che un padre saggio pronuncia su di un figlio con l'autorità che gli viene dalla parola di Dio (Ge 27.4 ss., 49.28 ss.).
    Nel piano di Dio la sapienza passa di generazione in generazione. Non c'è nulla di nuovo da scoprire per quanto riguarda la vita e la morte, il bene e il male, la giustizia e l'ingiustizia. La saggezza rivelata da Dio e tramandata attraverso i Suoi servitori fedeli deve essere conservata, non inventata. Il giusto rapporto tra genitori e figli è stato vissuto in modo perfetto dal Signore Gesù, il quale si è nutrito delle parole del Padre celeste e le ha trasmesse agli uomini così come le ha ricevute (Gv 12.49-50). E' vero che nella situazione di male in cui vive oggi l'umanità molti padri non trasmettono ai figli l'autentica sapienza di Dio. Questo però deve essere vissuto come una carenza dovuta al peccato degli uomini, non come un incentivo a ricercare o inventare una sapienza del tutto nuova e adeguata ai tempi. A chi vuol fare la Sua volontà Dio sa provvedere padri e madri spirituali capaci di trasmettere, per averne fatto esperienza personale, l'autentica saggezza basata sulla fede "che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre" (Gd 3). Grande è invece la responsabilità di chi, pur avendo ricevuto in famiglia un insegnamento basato sulla "verità che è conforme alla pietà" (Ti 1.1), non ha conservato le buone parole dei suoi genitori e non ha osservato i comandamenti da loro ricevuti. Avendo "conosciuto la volontà" di Dio e non avendo fatto nulla per compierla, nel giorno del giudizio "riceverà molte percosse" (Lu 12.47).

  5. acquista saggezza, acquista intelligenza;
    non dimenticare le parole della mia bocca e non te ne sviare;

    Non è naturale collegare un bene spirituale come la sapienza con un'operazione commerciale come l'acquisto di un oggetto. Eppure questo accostamento compare diverse volte nel libro dei Proverbi (4.7, 15.32, 16.16, 17.16, 18.15, 19.8, 23.23): il che significa che l'immagine esprime un aspetto importante della relazione che ci deve essere tra la sapienza e l'uomo. Chi vuole comprare deve essere disposto a pagare, e quindi a rinunciare ad altre possibilità di acquisto pur di venire in possesso del bene desiderato. L'esortazione ad acquistare sapienza e intelligenza fa risaltare la preziosità di questi beni. Se il procedere del saggio gli fa perdere soldi, può sempre dire che quei soldi sono stati spesi per acquistare sapienza (1.5). E la qualità del prodotto ottenuto non gli farà rimpiangere i soldi spesi.
    All'esortazione positiva, segue quella negativa: non dimenticare, non te ne sviare. Anche queste sono ammonizioni che si ripetono spesso nel libro. Ma è così perché sono necessarie. Il padre continua a ripetere di non dimenticare le sue parole proprio perché sa che senza di questo il figlio le dimenticherebbe. E se dice: "Non te ne sviare" è perché sa che per arrivare alla meta non basta avviarsi nella direzione giusta: bisogna anche continuamente decidere di non cambiarla durante il cammino.

  6. non abbandonare la saggezza, ed essa ti custodirà;
    amala, ed essa ti proteggerà;

    Vengono fatte due esortazioni, di importanza crescente. La prima è negativa: non abbandonare la saggezza; la seconda positiva: amala. Ad esse corrispondono due promesse: la sapienza ti custodirà e ti proteggerà. La capacità protettiva della salvezza è stata già presentata in 2.11, e l'esortazione a non abbandonare la saggezza è stata sostanzialmente già fatta in 4.2. Nuovo e significativo è l'invito ad amare la saggezza. Ama la saggezza chi ama la parola che gliela comunica. Per questo il salmista può dire: "La tua parola è pura d'ogni scoria; perciò il tuo servo l'ama" (Sl 119.140). E ama la parola che gli viene comunicata soltanto colui che ama chi gliela comunica. In ultima istanza, ama veramente la saggezza soltanto chi osserva "il grande e primo comandamento": "Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente" (Mt 22.37).

  7. il principio della saggezza è: Acquista la saggezza;
    sì, a costo di quanto possiedi, acquista l'intelligenza;

    In 4.5 era già stato fatto l'invito ad acquistare saggezza. Adesso viene indicato anche il prezzo che l'acquirente deve essere disposto a pagare. Su quella particolare merce che è la saggezza è esposto un cartellino con la seguente scritta: Tutto quello che possiedi. Il motivo è semplice, ed è contenuto in un versetto del libro dell'Ecclesiaste: "La saggezza fa vivere quelli che la possiedono" (Ec 7.12). Si tratta dunque di una questione di vita o di morte. Poiché Cristo è la sapienza che viene da Dio, acquistare la vera sapienza significa accettare la vita eterna che in Lui viene donata. Per questo Gesù dice: "E che giova all'uomo se guadagna tutto il mondo e perde l'anima sua?" (Mt 8.36). E l'apostolo Paolo dichiara: "Ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all'eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto" (Fi 3.8).

  8. esaltala, ed essa t'innalzerà;
    essa ti coprirà di gloria quando l'avrai abbracciata;

    Il discorso assume ora toni più forti. Prima si chiedeva di non abbandonare la saggezza e si prometteva custodia e protezione da parte sua. Adesso si chiede di esaltare e abbracciare la saggezza per ottenerne in cambio innalzamento e gloria. Il modo migliore per sfuggire alla tentazione di abbandonare la sapienza che viene da Dio per seguire le vie della propria stoltezza è quello di avere un atteggiamento di trasporto amoroso verso le parole di grazia e verità (Gv 1.14) che ci vengono offerte nella persona del Signore Gesù. Un esempio eloquente si trova in Maria di Betania che, seduta ai piedi del Maestro, ne ascolta le parole con intensa attenzione (Lc 10.39) e ottiene la gloria di essere ricordata "in tutto il mondo, dovunque sarà predicato il vangelo"(Mr 14.9).

  9. essa ti metterà sul capo un fregio di grazia,
    ti farà dono di una corona di gloria».

    Quando il figlio prodigo della parabola di Gesù (Lu 15.11 ss.) tornò a casa pentito, il padre non si limitò ad accoglierlo dandogli cibo e riparo, cioè i beni indispensabili alla sopravvivenza, ma gli diede anche onore e gloria facendo portare per lui "la veste più bella" e un anello da mettere al dito e dei calzari da mettere ai piedi. A chi si rivolge a Lui con semplice fiducia, Dio concede, oltre a tutto il resto, anche il dono della bellezza. Una bellezza abbagliante che conferisce gloria a chi la riceve e manifesta la grandezza di chi la dona.

    M.C.

 

Sanificare gli ambienti con l'ozono elimina il Coronavirus

Lo ha dimostrato uno studio israeliano. Sanificare gli ambienti con l'ozono elimina le possibilità di diffusione del Coronavirus.

di Valentina Mericio

L'ozono elimina il coronavirus: lo dimostra uno studio israeliano. Stando a quanto riporta lo studio condotto da un team di ricerca dell'Università di Tel Aviv, in collaborazione con l'Università Bar Ilan di Safed e il Dipartimento di Ingegneria dei Materiali delle Azrieli College of Engineering di Gerusalemme, sanificare gli ambienti con l'Ozono ridurrebbe la carica virale del Covid-19 del 99% nel giro di 30 minuti.
   "Il suo vantaggio rispetto ai comuni disinfettanti è la sua capacità di disinfettare oggetti e aerosol all'interno di una stanza e non solo le superfici esposte, rapidamente e senza pericolo per la salute pubblica", ha dichiarato Ines Zucker dell'Università di Tel Aviv.
   Si tratta di un lavoro fondamentale che ha permesso ai ricercatori di dimostrare l'efficacia dell'ozono, già ampiamente utilizzato durante le disinfestazioni e le sanificazioni dell'ambiente, nell'abbassare la carica virale del Coronavirus e quindi di eliminarlo .
   Lo studio israeliano è stato effettuato osservando l'azione dell'ozono a partire dalla sua applicazione in sei comuni superfici della casa quali ad esempio il vetro, il rame, il nichel o ancora l'acciaio inossidabile. A questo proposito il team di ricerca ha dichiarato che i materiali "sono stati scelti in base alla loro abbondanza sulle superfici di uso comune". I ricercatori hanno poi evidenziato che dalla ricerca è emerso che "l'ozono neutralizza il virus in un'ampia gamma di concentrazioni e tempi di esposizione. Il materiale ha avuto un effetto notevole sulla disinfezione, con superfici in vetro, acciaio inossidabile e leghe di alluminio che hanno risposto meglio alla disinfezione rispetto alle altre superfici".

(notizie.it, 20 febbraio 2021)


Iniezioni al bar a Tel Aviv: birra in regalo a chi si immunizza

In Israele 7 milioni (su 9) hanno già ricevuto la prima dose, inclusi i palestinesi.

di Pietro De Leo

 
Per incoraggiare i giovani a farsi amministrare il vaccino, a Tel Aviv si offre un drink analcolico dopo l’iniezione
Israele continua con successo la sua campagna di vaccinazione, che vede un ripiegamento nella diffusione del virus. Su una popolazione circa 9 milioni di persone, 7 milioni di dosi del siero Pfizer sono già state somministrate e 2 milioni di cittadini le hanno già ricevute entrambe. Sul piano demografico, si è arrivati al 90% circa degli over 60 vaccinati. Con una capillarità nella somministrazione garantita anche attraverso formule accattivanti. Alcuni locali di Tel Aviv, infatti, hanno lanciato l'abbinata tra drink e somministrazione. Un modo per agevolare l'adesione dei più giovani alla campagna di immunizzazione.
  Nei riflessi geopolitici della lotta al Covid c'è anche l'intreccio con la crisi israelo-palestinese. Tre giorni fa un primo lotto di duemila dosi di vaccino Sputnik, spedito dall'Autorità Nazionale Palestinese, è arrivato nella Striscia di Gaza e su questo invio si era innescato uno scontro politico. Il carico, infatti, era stato bloccato a un checkpoint israeliano e da lì era partita la giostra delle accuse contro il governo di Tel Aviv.

 Linciaggio politico
  Il ministro della salute dell'Anp, Mai al Kalila, aveva puntato il dito contro una decisione definita "arbitraria", dandone una lettura politica, ma andando al dettaglio la questione era ben diversa. Come ha rivelato al Guardian una fonte della sicurezza israeliana, la richiesta di invio del lotto era stata inoltrata al consiglio di sicurezza di Gerusalemme, ma doveva giungere ancora al nulla osta nel momento in cui il carico è stato spedito.
  Dunque saremmo di fronte a uno sfalsamento di tempistiche, con un invio prima di ottenere il via libera, alla base di quella che si prefigurava come l'ennesima operazione di linciaggio mediatico-politico su Israele. In cui si era innestato subito Hamas, che ha il controllo della Striscia Secondo la stampa locale, infatti, il gruppo estremista e la Jihad islamica avrebbero ventilato un possibile aumento di intensità delle violenze anti israeliane nel caso in cui il blocco delle fiale si fosse protratto.

 Estremisti privilegiati
  E poi c'è un altro dato a rendere tutto più problematico, ossia il sospetto, serpeggiante nel mondo politico israeliano, che le iniezioni non verranno somministrate al personale sanitario che opera nell'area, come annunciato dal ministro della salute dell'Anp, ma saranno poi dirottate sui leader politici di Hamas.
  Nessun gesto di ostilità pregiudiziale da parte di Israele anche perché, come ha affermato all'Associated Press un funzionario della difesa, il Paese non ha alcun interesse che a Gaza ci sia un peggioramento della condizione sanitaria. E nei prossimi giorni nell'area potrebbero arrivare altre 20mila dosi del vaccino Sputnik, inviate dagli Emirati Arabi Uniti per via egiziana e su intercessione di Mohammed Dahlan, rivale politico di Abu Mazen.
  E dunque chiaro come la campagna vaccinale si intreccia con le prossime elezioni legislative, riproponendo una costante (il legame tra lotta al Covid e passaggi politici) ben conosciuta in tutto il mondo.

(Libero, 20 febbraio 2021)


In Israele il siero Pfizer tiene a bada anche la variante inglese

di Enrico Bucci

Quel grande laboratorio di vaccinologia ed epidemiologia che è lo stato di Israele sta continuando a fornire dati interessantissimi e molto utili. Uno studio appena pubblicato su Lancet riporta che dopo aver vaccinato con il vaccino Pfizer/BioNtech 9.109 dipendenti del più grande ospedale israeliano, lo Sheba Medical Center, nel periodo compreso tra i 15 e i 28 giorni dopo la prima dose si sono osservate una diminuzione del 75 per cento delle infezioni e dell'85 per cento dei casi di infezione sintomatica. Ricordiamo che dopo la seconda dose, la malattia sintomatica è riportata in calo di un ulteriore 10 per cento, arrivando a una diminuzione del 95 per cento.
   Un secondo studio non ancora sottoposto a peer-review, condotto dal ministero della Salute israeliano e dalla Pfizer, riportato dai siti di informazione israeliani come fondato sui database elettronici dei cittadini di quel paese che avevano ricevuto entrambe le dosi fra il 17 gennaio ed il 6 febbraio, mostrano una riduzione complessiva dopo il completamento della vaccinazione pari rispettivamente all'89,4 per cento e al 93,7 per cento per le infezioni e per i casi sintomatici. Per quanto riguarda lo studio pubblicato su Lancet vi sono dei caveat: i soggetti considerati sono mediamente più giovani della popolazione nel suo complesso e in secondo luogo, trattandosi di un ambiente ospedaliero, le precauzioni contro le infezioni sono più alte che nella media, il che rende difficile il paragone con i dati ricavati dal complesso della popolazione non vaccinata. Pur trattandosi di migliaia di persone il numero di casi verificatisi è piccolo, così che il potere statistico di questo studio osservazionale è basso. Per questo, Eran Kopel, epidemiologo dell'Università di Tel Aviv, ha dichiarato che non si possono ancora trarre conclusioni epidemiologiche chiare, né stime che abbiano senso circa l'efficacia di una sola dose di vaccino o di un ritardo prolungato tra la prima e la seconda dose. Questo perché i dati di osservazione dell'efficacia di una singola dose non vanno oltre i 28 giorni, limite entro cui i soggetti inclusi nello studio hanno comunque ricevuto la seconda dose. Tuttavia, abbiamo per la prima volta uno studio molto solido, con tutti i dati necessari a ripetere le analisi accessibili e che mostra un forte effetto sulla trasmissibilità del virus da parte di uno dei vaccini disponibili. E' un risultato che potrà certo essere ridimensionato guardando a popolazioni più ampie ed eterogenee, ma è improbabile che l'effetto svanisca o diventi poco significativo. Inoltre - e questa è davvero una buona notizia - questo forte declino di trasmissione del virus fra i vaccinati si osserva in un paese ove la variante inglese B.1.1.7 ha una circolazione sostenuta; dunque la vaccinazione rapida e massiccia riuscirà a contrastare anche questa variante come si era già intuito guardando ai dati pubblicati sulla capacità neutralizzante del siero dei vaccinati nei confronti del virus mutato. Non preoccupiamoci dell'arrivo delle varianti: preoccupiamoci invece di fare presto a vaccinare con i vaccini migliori la maggior parte della popolazione.

(Il Foglio, 20 febbraio 2021)


Presentandosi, o essendo presentato, come il primo della classe in fatto di contrasto alla pandemia con un uso superintelligente dei vaccini, Israele si sta esponendo molto. Di questo successo e della "decisione" con cui si minacciano coloro che non si attengono alle disposizioni date si sono già formate, e cominciano a diffondersi, interpretazioni maligne che probabilmente alimenteranno la prossima forma di antisemitismo. M.C.


Israele, un green pass ai vaccinati per tornare alla normalità. E domenica il Paese riapre

Oltre 4 milioni di cittadini già immunizzati. Severe misure del governo per evitare contraffazioni dei certificati: «Per chi viola c'è il carcere».

"Green pass": due parole per tornare in Israele ad una vita quasi normale ai tempi del Covid. Detta in italiano, significa la certificazione che attesta la doppia vaccinazione. E in concreto la possibilità di accedere, a partire da domenica prossima - con l'ulteriore allentamento del lockdown - a piscine, palestre, eventi sportivi e culturali e agli hotel. Con l'obbligo per le strutture di dotarsi di strumentazioni per l'accertamento elettronico del codice a barre della certificazione.
   Il documento è destinato a diventare indispensabile anche per i viaggi all'estero: Israele di recente ha firmato con Grecia e Cipro accordi per lo scambio di turisti immunizzati. Un documento talmente indispensabile che alcuni cyber esperti hanno espresso il timore di possibili contraffazioni. L'avviso alle autorità è stato chiaro: il Green Pass, hanno ammonito, è facilmente alterabile. Il ministro della Sanità Yuli Edelstein non ha perso tempo ed ha avvertito, senza mezzi termini, che per chi falsifica c'è il carcere. «Quelli che pensano che questo sia un gioco e che possono - ha detto riferendosi ad alcune offerte di false immunizzazioni già apparse sul web - stampare un certificato di vaccinazione senza che lo siano stati veramente saranno individuati e le loro attività potranno finire per portarli in carcere». Ma se tutto va bene «questo è il primo passo verso vite quasi normali», ha spiegato, precisando che tuttavia per un po' anche i vaccinati dovranno continuare a portare le mascherine.
   La certificazione si può ottenere dal ministero della Sanità tramite un'app o dalla cassa mutua che ha gestito la vaccinazione. Israele - dove le nuove infezioni sono in calo, come i casi gravi, rispetto all'inizio del terzo lockdown - ad ora ha immunizzato il 45,3% della propria popolazione (circa 9 milioni di residenti) con almeno una dose, ovvero 4.138.000 cittadini. Ad avere avuto anche la seconda dose sono stati in 2.762.000, circa il 30,2% della popolazione. Solo nelle passate 24 ore i vaccinati sono stati 135 mila (61 mila prima dose, 74 mila seconda): un dato che rilancia la campagna, un poco in affanno nei giorni passati.
   Una recente inchiesta ha indicato che di quelli non vaccinati, il 41% ha detto di avere timore di possibili effetti indesiderati, il 30% non è sicuro che il vaccino sia efficace, il 27% che non si vaccinerà presto e il 10% ha citato a questo proposito informazioni dei media o reperite sul web. Nonostante la campagna vaccinale sia l'obiettivo primario del governo e del premier Benyamin Netanyahu, il ministro della Sanità ha confermato che in Israele «non c'è e non ci sarà in futuro l'obbligo di vaccinazione. Chi sceglie di non vaccinarsi si avvale di un suo diritto. Non ci saranno sanzioni». Questo non vuol dire che la scelta della mancata immunizzazione sia senza conseguenze: proprio il ministero della Sanità ha allo studio una proposta di legge da presentare in Parlamento secondo la quale gli impiegati in determinati settori non potranno recarsi a lavorare in presenza fino a che non saranno immunizzati.

(La Stampa, 18 febbraio 2021)


Scritta «forza Hitler» sull'automobile di una insegnante di origine ebrea

 
Una scritta neonazista, "forza Hitler", è apparsa sull'auto di una insegnante che appartiene a una famiglia di origine ebrea, a Rosate (Milano). Daniele Del Ben, sindaco del paese, di cui è cittadina onoraria la senatrice Liliana Segre, ha subito espresso solidarietà alla donna.
L'episodio è accaduto sabato scorso ma se ne è avuta notizia nelle ultime ore. La donna ha trovato la sua auto posteggiata con la scritta "forza Hitler" fatta a mano, con un pennarello indelebile, sul cofano. Solo la sua vettura era stata imbrattata, e non ci sono dubbi sul fatto che fosse stata presa di mira. «Se lo incontrassi gli direi di studiare la storia», avrebbe detto la docente, che ha sporto denuncia, e che insegna in una scuola elementare a Milano.
La sezione milanese dell'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia) ha condannato «con fermezza» il gesto, che il presidente Roberto Cenati ha definito un «ignobile episodio». «Ci uniamo al sindaco di Rosate nell'esprimere solidarietà e vicinanza alla famiglia così duramente colpita», ha aggiunto Cenati. Proprio giovedì il sindaco Daniele Del Ben ha pubblicato un post su Facebook con la foto della scritta per sottolineare che «la comunità rosatese ribadisce la propria opposizione a qualsiasi forma di intolleranza e di discriminazione di tipo razziale ed esprime solidarietà ai cittadini coinvolti. Ricordo ai responsabili che Rosate si vanta di avere tra i propri cittadini onorari la senatrice Liliana Segre; qui — ha quindi concluso il presidente dell'Anpi Milano — non c'è spazio per sentimenti xenofobi e antisemiti».

(Avvenire, 20 febbraio 2021)


Israele proroga la chiusura dello scalo Ben Gurion fino al 6 marzo

Il governo israeliano ha approvato il prolungamento della chiusura dell'aeroporto Ben Gurion ai voli in partenza e in arrivo fino al 6 marzo. Lo scalo era stato bloccato lo scorso 25 gennaio fino al 21 febbraio: ora il nuovo fermo, eccetto che per motivi urgenti.
   Il ministero dei trasporti ha consentito l'arrivo di 6 voli che portano in Israele circa 900 immigranti da Etiopia, Francia, Russia, Ucraina e America del sud. Estesa anche la norma che prevede, con alcune eccezioni, la quarantena in appositi hotel per i passeggeri dei voli speciali che riportano in patria gli israeliani all'estero.

(Travelnostop, 19 febbraio 2021)


Israele: La nuova politica estera parte dal gas

di Francesco Salesio Schiavi

Le recenti scoperte di importanti riserve di gas naturale nel Mediterraneo orientale hanno impresso un profondo cambiamento all'assetto energetico e geopolitico di Israele, segnando l'inizio di una vera e propria "rivoluzione del gas", in termini sia di consumi che di export. Se storicamente Israele ha fatto affidamento su importazioni dall'estero per soddisfare la maggior parte del proprio fabbisogno energetico[1], l'accesso al gas naturale ha dotato Tel Aviv di un'importante fonte di sicurezza energetica e di conseguente proiezione strategica, avviando il Paese verso una leadership in ascesa nell'esportazione gassifera della regione.

 La strategia
  Tra i giacimenti di gas naturale che Israele gestisce i più capienti in termini di risorse sono Tamar, divenuto operativo dal 2013, e Leviathan, che ha iniziato la produzione nel 2019 (l'estrazione dal giacimento Karish è prevista entro la fine del 2021). L'attuale riserva offshore di gas di Israele è stimata a circa 900 miliardi di metri cubi (bcm), in grado di rendere il Paese autosufficiente dal punto di vista energetico per diversi decenni.
  Una simile disponibilità ha richiesto importanti provvedimenti da parte delle autorità israeliane per stabilire una strategia ottimale di sfruttamento della produzione di gas, secondo una prospettiva che assicuri un corretto bilanciamento della relazione tra import-export. Questa strategia[2] mira a garantire il rapido sviluppo del mercato dell'export israeliano del gas naturale, pur preservandone una quantità sufficiente per il consumo interno. Rispetto al 2010, la domanda interna israeliana di gas è raddoppiata[3] e se ne prevede un significativo aumento nei prossimi decenni (fino a 20 bcm entro il 2030). In virtù dell'aumento dei consumi, il programma del governo prevede l'assegnazione al mercato interno di una fornitura di circa 500 bcm, sufficienti ad assicurare l'autosufficienza energetica nazionale per i prossimi 25 anni[4].
  Allo stesso tempo, questa ripartizione è funzionale alla politica di transizione energetica e di progressiva riduzione delle emissioni pianificata dalle autorità israeliane, in linea con gli impegni stretti da Israele per il raggiungimento degli obiettivi ambientali concordati in occasione della COP21. Dal 2018 infatti il ministero dell'Energia israeliano persegue gli "Obiettivi dell'economia energetica per l'anno 2030", che stabiliscono entro quella data l'ambizioso traguardo del 70% della necessità energetica nazionale generata dal gas naturale e il rimanente 30% ottenuta da fonti rinnovabili. A tal fine, il governo israeliano prevede, oltre al notevole aumento delle infrastrutture a energia solare (fino a tre volte quelle attuali), la riduzione entro 10 anni dell'uso di combustibili fossili inquinanti attraverso la cessazione dell'impiego del carbone nella produzione di elettricità (fino al 2014 la principale fonte di produzione di elettricità israeliana) e il conseguente passaggio all'elettricità prodotta dall'utilizzo di gas naturale.

 Le direttrici dell'export
  Nel corso degli ultimi cinque anni, Israele ha avviato esportazioni di gas naturale estratto dai giacimenti offshore Tamar e Leviathan verso Giordania (dal 2015) ed Egitto (dal 2020), per un totale di oltre 130 bcm[5]. Per gli israeliani, questo è un indiscutibile traguardo, a partire dalle significative entrate annuali dello Stato (stimate dal ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, tra i 100 e i 150 milioni di dollari per i prossimi 30 anni).
  Questa trasformazione avviene in un momento particolare per il mercato energetico levantino, che vede un crescente interesse da parte delle grandi compagnie energetiche internazionali, come testimonia la scelta recentemente compiuta da Chevron. Nell'estate del 2020, il colosso americano (che nell'ottobre 2020 ha superato la Exxon Mobil come più grande compagnia petrolifera degli Stati Uniti per valore di mercato) ha infatti acquistato la Noble Energy Inc. (che detiene una quota di partecipazione sui giacimenti offshore Leviathan e Tamar[6]) e ha avviato una campagna di espansione dell'industria gassifera israeliana con lo stanziamento di 235 milioni di dollari per la costruzione di un gasdotto che unisca le città costiere israeliane di Ashdod e Ashkelon. La distensione nei rapporti tra Tel Aviv e alcune monarchie del Golfo (Emirati Arabi Uniti e Bahrein) ha senza dubbio contribuito a trasformare le percezioni delle compagnie petrolifere sul futuro ruolo di Israele nelle dinamiche energetiche e geoeconomiche dell'area mediorientale.

 Le conseguenze geopolitiche delle scoperte
  La direttrice strategica israeliana non tiene conto solo delle esportazioni. Le autorità israeliane hanno infatti cercato di tradurre le nuove disponibilità di gas in uno strumento strategico per aumentare l'influenza regionale e internazionale del Paese, attraverso la stesura di accordi che leghino Israele ai suoi vicini in un rapporto di progressiva interdipendenza. Da questa prospettiva il risultato più significativo è l'accordo di esportazione del gas naturale verso l'Egitto, siglato nel gennaio del 2020, che ha segnato un capovolgimento da parte israeliana dei rapporti di interdipendenza nei confronti del Cairo (da cui Israele importava circa il 40% del proprio fabbisogno energetico di gas) e ha rafforzato le relazioni bilaterali tra i due Paesi. Un simile risultato è dovuto soprattutto alle crescenti difficoltà egiziane di soddisfare la domanda interna in rapida ascesa e alla disponibilità dell'Egitto di appositi impianti per la lavorazione del gas naturale liquefatto (GNL) nelle città costiere di Damietta e Idku.
  Accordi simili sono attesi anche nei confronti della Giordania, priva di riserve energetiche nazionali. Oltre al potenziale per nuove forniture di gas, la dipendenza di Amman dalle importazioni israeliane potrebbe fornire a Israele uno strumento di influenza, limitando o disincentivando eventuali obiezioni giordane verso la politica israeliana nei confronti delle comunità palestinesi della Cisgiordania. Sul piano regionale, Israele ambisce infine a una convergenza geopolitica tra gli Stati che condividono interessi energetici e geopolitici nel Mediterraneo orientale. La creazione nel 2019 dell'Eastern Mediterranean Gas Forum (EMGF), con l'obiettivo di collegare il Mediterraneo orientale all'Europa come soluzione naturale per diversificare le importazioni di gas dell'Unione, rappresenta indubbiamente un notevole passo in questa direzione[7].
  Nonostante Israele tragga indubbi vantaggi dalla sua industria del gas, non vi sono garanzie che i suoi obiettivi strategici non possano subire battute d'arresto a causa del precario equilibrio del contesto mediorientale. Pesa innanzitutto l'insicurezza interna dell'Egitto, attraversato da tensioni sociali dovute alle politiche autoritarie del regime, ulteriormente esacerbate dalle conseguenze economiche della pandemia. A queste si aggiungono i frequenti attacchi ai gasdotti nella penisola del Sinai (almeno quattro nel corso del 2020) da parte dei gruppi jihadisti legati alla cellula egiziana di IS, e l'incertezza legata a eventuali mosse di Israele volte ad annettere i territori palestinesi nella Cisgiordania, possibilità che ha suscitato una forte condanna pubblica nei confronti di Israele, tanto in Giordania quanto in Egitto.

NOTE
[1] Come il carbone di provenienza russa e il gas egiziano.
[2] formulata sulla base delle raccomandazioni stilate dal comitato Tzemach nel 2013 e poi riviste nel 2018.
[3] La crescita sostenuta del consumo di gas naturale in Israele dovrebbe continuare nei prossimi anni, passando dagli 11 bcm del 2020 a 14-15 bcm nel 2025 e a 18-19 BCM entro il 2030.
[4] Secondo stime del 2018, fino al 2042.
[5] Di cui 48,14 bcm alla Giordania e 85,3 all'Egitto.
[6] Rispettivamente del 39,7% e del 32,5%.
[7] Il forum riunisce Israele, Cipro, Egitto, Grecia, Italia, Giordania e Palestina, nel tentativo di rafforzare la cooperazione regionale nello sviluppo delle riserve di gas del Mediterraneo orientale.

(ISPI, 19 febbraio 2021)


Birra gratis per chi si vaccina, succede a Tel Aviv: ecco come funziona

di Martino Grassi

Certo non si può dire che agli israeliani manchi la fantasia...
Birra gratis per chi si vaccina, è questa la nuova trovata di Tel Aviv per incentivare i giovani a farsi somministrare il vaccino contro il coronavirus. Nella capitale della movida dello stato Israeliano sono stati organizzati dei bar in cui è possibile effettuare il vaccino.
  In sostanza "se i giovani non verranno a farsi vaccinare, i vaccini verranno da loro", ha detto Maya Nouri, membro del consiglio comunale di Tel Aviv e titolare del portafoglio dei giovani residenti.
  Al momento lo stato di Israele fa da capofila nel numero di vaccini somministrati, dove la prima dose del vaccino di Pfizer è stata inoculata a più del 43% dei 9 milioni di abitanti.

 Birra gratis per chi si vaccina a Tel Aviv: come funziona
   L'iniziativa nasce per incoraggiare la popolazione israeliana a vaccinarsi in modo tale da poter tornare alla normalità. Il vaccino potrà essere somministrato solamente a chi dovrà ancora ricevere la prima dose.
  La somministrazione del vaccino sarà completamente gratuita e non ci sarà bisogno di prendere appuntamento. Al progetto partecipano 7 bar situati nella zona della movida, che forniranno un buono per una consumazione gratuita a tutte le persone che si faranno somministrare il vaccino contro il coronavirus.
  Il dottor Daniel Shepshelovich, il coordinatore della vaccinazione all'ospedale Ichilov di Tel Aviv ha fatto sapere che "il tasso di vaccinazione è andato considerevolmente più lento e questo è la preoccupazione adesso è come convincere le persone giovani e sane a farsi vaccinare". Sembra infatti che i giovani siano più restii a farsi vaccinare in quanto sono preoccupati per la sicurezza del vaccino oppure perché non vedono il Covid-19 come un rischio serio per loro.
  I funzionari della città di Tel Aviv hanno fatto sapere, anche attraverso i social che le unità mobili di vaccinazione saranno collocate in sette luoghi popolari in tutta la città questo fine settimana, compreso il lungomare.

 Le vaccinazioni in Israele
  In Israele le vaccinazioni procedono a gonfie vele, e se tutto continua a procedere come adesso alla fine di marzo potrebbe riuscire a vaccinare tutti gli abitanti. Ad ora il vaccino è stato somministrato a circa 4.138.000 cittadini, il 45,5% della popolazione, mentre 2.762.000 hanno ricevuto anche la seconda dose (il 30,2% della popolazione).
  Nelle ultime 24 ore il vaccino è stato iniettato a 135.000 persone, di cui circa 61.000 hanno ricevuto la prima dose, mentre le restanti 74.000 la seconda. Dopo giorni in cui era stato registrato un leggero calo adesso sembra che la campagna sia ripartita.

(money.it, 19 febbraio 2021)


Israele al top per inoculazioni. Crescono i Paesi che usano i vaccini cinesi

di Marco Capponi

 
L'andamento globale delle vaccinazioni mostra che la questione non è più solo sanitaria: appare al contrario come un intreccio di sottili strategie diplomatiche. Scorrendo i numeri di Our World in Data emerge infatti che Israele, da subito ai vertici mondiali nella somministrazione dei vaccini, è riuscito nel totale cumulativo a salire al 79% di copertura della popolazione, pur tenendo conto della doppia dose necessaria prevista per il Pfizer/Biontech. Merito di un approccio che ha coniugato un rapporto trasparente (il contratto coi produttori è stato reso pubblico dopo la firma) e un prezzo per dose alto: circa 23 euro per l'antidoto di Pfizer-Biontech, contro i 12 pagati dall'Ue.
   Ma la vera notizia è un'altra: nelle prime posizioni in classifica figurano Emirati Arabi, Cile e Turchia. Paesi che hanno già approvato e ordinato milioni di dosi dalla Cina. Dato interessante se correlato con le nuove vaccinazioni giornaliere: il Messico, fino alla scorsa settimana fanalino di coda con un valore di 0,01, figura oggi nelle prime posizioni, a 0,19 (anche se il cumulativo è ancora basso). La svolta? La scorsa settimana, quando il Paese ha approvato due dei sieri di Pechino. Considerando che per arrivare entro fine anno a un terzo della popolazione globale questo valore deve essere superiore a 0,18, ricorrere ai farmaci cinesi può rappresentare la soluzione. L'Italia, tra i fanalini di coda con 0,12, resta lontana dall'obiettivo.

(Milano Finanza, 19 febbraio 2021)


Ma l'Iran è uno stato canaglia oppure no?

La domanda non è retorica visto la corsa americana a normalizzare i rapporti con gli Ayatollah nonostante il loro sostegno al terrorismo islamico e quello che facciano in tutto il mondo.

di Franco Londei

L'Iran è uno stato canaglia oppure no? Qui bisogna decidere in fretta cosa si vuol fare con Teheran, se cioè gli si vuole permettere di continuare a sostenere il terrorismo e nel frattempo costruirsi una bomba atomica, oppure si vogliono fermare gli Ayatollah.
No perché, con tutti i suoi difetti, almeno su questo punto la politica di Donald Trump era chiarissima. L'Iran è uno stato canaglia e non solo per la sua spasmodica ricerca della bomba atomica, ma perché finanzia e sostiene il terrorismo islamico e alimenta diversi conflitti.
   Tutto questo invece non sembra essere ben chiaro al Presidente Joe Biden, almeno stando alle agenzie che arrivano in queste ore.
   Biden sta facendo lo stesso errore fatto a suo tempo da Obama, non tanto per l'accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), un vero e proprio favore agli Ayatollah, quanto piuttosto per tutto quello che rappresenta l'Iran nel complesso.
   Ci si concentra unicamente sul "fattore nucleare", che è importantissimo, ma non l'unico problema sul quale dover guardare.
   Le sanzioni imposte dalla Amministrazione Trump, tra le quali un embargo sulle armi convenzionali, forti restrizioni nel settore finanziario ecc. ecc. erano state impostate proprio perché Teheran oltre a cercare di ottenere ordigni nucleari alimentava e foraggiava il terrorismo islamico in diverse nazioni mediorientali, africane e sudamericane.
   Tutto questo per Biden sembra non esistere tanto che è di ieri la notizia che le suddette sanzioni verranno rimosse.
   Ora, si dà il caso che i militari iraniani siano a pochissimi Km dal confine israeliano, che Teheran grazie ai soldi di cui è tornata in possesso a seguito del JCPOA ha riempito gli arsenali Hezbollah con missili di ogni tipo. Si dà il caso che Teheran sia co-responsabile (insieme ai sauditi) della sanguinosa guerra in Yemen. È stabilmente presente con i Guardiani della Rivoluzione in Siria, in Iraq e in Libano. Tramite Hezbollah controlla il mercato della cocaina dal Sud America e non solo.
   Quindi (e mi fermo qui perché ci sarebbe molto da dire), l'Iran è o non è uno Stato canaglia? No perché sembrerebbe che per l'amministrazione Biden non lo sia, almeno a giudicare dalla corsa a regolarizzare i rapporti con Teheran e a togliere le sanzioni che in qualche modo avevano messo in difficoltà i rifornimenti ai terroristi.

(Rights Reporter, 19 febbraio 2021)


Ok a lavori di ampliamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme

di Giacomo Kahn

Le autorita' di Gerusalemme hanno dato il via libera ai progetti di ampliamento dell'ambasciata americana nel quartiere di Arnona, tra cui la costruzione di un edificio di 10 piani. L'intenzione e' creare un intero spazio urbano nella zona destinato al settore diplomatico. Il progetto dovrebbe presto vedere l'avvio per concludersi entro il 2026. Non tutti i residenti sono contenti, ha riferito il Jerusalem Post: "E' inconcepibile che un permesso accelerato originariamente concesso nel 2018 per una modifica limitata sia esteso per la costruzione di un complesso da 50 mila metri quadri", si e' lamentata Miryam Shomrat, ex ambasciatore israeliano nei Paesi scandinavi. Nel 2018, l'allora presidente americano Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d'Israele e ha ordinato lo spostamento dell'ambasciata fino a quel momento localizzata a Tel Aviv. La decisione ha aperto la strada a una serie di altri Paesi, come Kosovo e Honduras, che hanno annunciato iniziative analoghe. La nuova amministrazione Usa, con il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha confermato che l'ambasciata Usa restera' a Gerusalemme.

(Shalom, 18 febbraio 2021)


Olocausto, nel 1941 prove dell'orrore. Cento ebrei olandesi nella camera a gas 'segreta'

di Alessandro Cavaglià

 
Soldati tedeschi radunano ebrei sulla Jonas Danièl Meijerplein ad Amsterdam, il 22 febbraio 1941
Un centinaio di ebrei olandesi, catturati nella razzia di Amsterdam il 22 e 23 febbraio 1941, furono uccisi in una camera a gas 'segreta'. Un anno prima che i nazisti iniziassero le deportazioni di massa in tutta Europa. La loro tragica vicenda fu una sorta di drammatico esperimento raccontato oggi dalla storica olandese, Wally de Lang. La Germania invase i Paesi Bassi nel maggio 1940 e negli anni successivi più di tre quarti della popolazione ebraica venne deportata. Oltre 100 mila persone uccise nei campi di sterminio di Auschwitz e Sobibor, a partire dal luglio 1942. Fino a quell'ultimo atroce convoglio che, nel settembre 1944, portò nel lager in Polonia la famiglia di Anna Frank. Tre anni prima nella capitale olandese i tedeschi e i loro sodali locali effettuarono il primo rastrellamento su larga scala. Fu la vendetta per l'uccisione in uno scontro di uno squadrista della formazione filo-nazista NSB, durante una delle tante aggressioni contro il quartiere ebraico di Amsterdam.

 Treno
  Vennero catturati in 425, per lo più giovani, molti commercianti e sarti. Vennero trasferiti prima nel campo di transito olandese di Schoorl e poi in quello tedesco di Buchenwald. "Finora si riteneva che il primo treno carico di ebrei fosse partito nel luglio 1942. In realtà - spiega de Lang alla BBC - questi uomini furono deportati il 27 febbraio 1941". Alla fine, su 425, ne sopravviveranno soltanto in due. Le prime vittime caddero per la fatica del lavoro forzato nelle cave di Buchenwald. Poi il 22 maggio 1941 i restanti 340 furono inviati a sud, nel campo di concentramento di Mauthausen in Austria. Nei pressi del lager si trovava il famigerato castello di Hartheim, dove dal 1940 i nazisti avevano avviato il programma di eliminazione di decine di migliaia di persone affette da disabilità fisiche e da malattie mentali o genetiche. Successivamente cominciò l'eliminazione dei prigionieri provenienti dai vicini campi di concentramento e dichiarati non più idonei al lavoro. Oppositori politici, comunisti, prigionieri di guerra tra cui molti polacchi. Tra il 1940 e il 1944 vennero quindi assassinate ad Hartheim circa 30 mila persone, di queste oltre 300 furono gli italiani.

 Registri
  Nel castello della morte i nazisti sperimentarono segretamente una camera a gas e il forno crematorio per eliminare i cadaveri. "Quello che non si sapeva era che molti degli ebrei olandesi razziati ad Amsterdam - ricorda de Lang - furono uccisi nell'agosto successivo nella camera a gas di Hartheim. Alle famiglie venivano date false cause di morte, magari per avvelenamento da piombo nelle miniere". La storica ha ritrovato i registri in cui successivamente gli aguzzini riportarono metodicamente in ordine alfabetico i nomi di 108 assassinati. Hartheim "era una specie di laboratorio per i nazisti. Per migliorare la loro conoscenza di tutto ciò che realizzarono poi ad Auschwitz su scala molto, molto più grande". Fu nel gennaio 1942, nella macabra conferenza di Wannsee, che Hitler e gli alti gerarchi nazisti decisero la cosiddetta "soluzione finale", il genocidio degli ebrei. I tedeschi hanno distrutto gran parte dell'archivio di Hartheim. De Lang ha potuto anche identificare un certo numero di persone tra quelle ritratte nelle foto d'epoca del rastrellamento. John Spel, il nipote di Aron Smeer, uno dei deportati, ha detto alla rete pubblica olandese NOS: "Per anni tutto quello che ho avuto era un nome. Ora ha anche una faccia. Ho iniziato a cercare trent'anni fa. Ora so molto, ma più invecchio più è difficile. Tutto questo ti lascia senza parole".

(in20righe, 18 febbraio 2021)


Il do maggiore razzista

Nella cancel culture Heinrich Schenker, musicista ebreo sotto Hitler, è un suprematista bianco.

di Giulio Meotti

ROMA - Un periodico dedicato a un musicologo morto quasi un secolo fa, il Journal of Schenkerian Studies con una tiratura di trenta copie all'anno, è al centro di una battaglia esplosiva sulla razza e la libertà di parola in America. La vicenda sta distruggendo la reputazione di Timothy Jackson, un professore di Teoria musicale all'Università del North Texas che fino a oggi dirigeva quella rivista, e ora si invocano misure per chiudere il giornale.
   La vicenda, racconta il New York Times, inizia nell'autunno di due anni fa, quando Philip Ewell, professore afroamericano di Teoria musicale all'Hunter College, parla alla Society for Music Theory di Columbus, in Ohio (così chiamata fino a che non diventerà Flavortown). Ewell descrive la Teoria musicale come dominata dai bianchi e malata di razzismo. Sostiene che Heinrich Schenker, morto in Austria nel 1935, era un "razzista virulento", perché un po' come tutti al tempo parlava di "popoli primitivi e inferiori". Ewell accusa gli studiosi di Schenker di cercare di "sbianchettarne" il razzismo. Ewell aveva già scritto che Beethoven "è stato sostenuto dalla whiteness e dalla mascolinità per duecento anni".
   I membri della società - bianchi per il 94 per cento - rispondono con una standing ovation all'attacco di Ewell e chiedono di smantellare le "mitologie bianche" aprendo alle forme musicali non europee. "Riconosciamo umilmente che abbiamo molto lavoro da fare per smantellare il razzismo sistemico che modella profondamente la nostra disciplina", dichiarano nel loro autodafé. All'Università del Texas, il professor Jackson guarda il video e non la prende bene. Nipote di migranti ebrei che ha perso molti parenti durante l'Olocausto, Jackson ha una passione speciale: cercare le opere perdute di compositori ebrei perseguitati dai nazisti. Schenker, risponde Jackson, non era un "bianco privilegiato", ma un ebreo nella Germania prebellica e poi in quella nazista. I nazisti distrussero gran parte del suo lavoro e sua moglie morì nel lager di Theresienstadt. Jackson accusa anche Ewell di "antisemitismo afroamericano". "Ewell attacca Schenker solo come pretesto per il suo argomento principale: che il liberalismo è una cospirazione razzista per negare i diritti alle persone di colore.
   Jackson viene subito rimosso dal Journal of Schenkerian Studies. Novecento professori firmano una lettera in cui denunciano i redattori della rivista. Gli studenti dell'Università del Texas pubblicano un manifesto chiedendo lo scioglimento della rivista e la "rimozione" dei membri della facoltà che l'hanno utilizzata "per promuovere il razzismo", come Jackson. Jennifer Evans-Cowley, rettrice dell'università, dice che prenderà provvedimenti disciplinari contro il professor Jackson.
   "La mafia di Twitter è come uno stato di polizia quasi fascista", dice Jackson al New York Times. "Qualsiasi imputazione di razzismo è un anatema e quindi deve essere esorcizzata".
   Dopo il caso di Dan-el Padilla, il professore classicista di Princeton che vuole cancellare i classici come Cicerone perché sono la base del "suprematismo bianco", arriva il processo alla musica classica (il British Museum vuole eliminare il busto di Beethoven, simbolo della "supremazia della civiltà occidentale", mentre all'Opera di Parigi si "ricontestualizzeranno" "Lo schiaccianoci" e "Il lago dei cigni"). Gli antisemiti Bach e Chopin, il nazista Richard Strauss, il razzista Verdi, ce n'è per tutti... Senza dimenticare Mozart, che nel Flauto Magico scrive "weil ein Schwarzer hässlich ist" (perché un Negro è brutto) e "ein Weib tut wenig, plaudert viel" (una donna fa poco e parla molto). In 1984 di George Orwell il "buco della memoria" è il meccanismo ideato per far sparire foto, parole e documenti, con l'intento di far sì che non siano mai esistiti. Ora scopriamo che il buco esiste davvero. La rivista Bon Appetit, del gruppo Condé Nast, sta spulciando i numeri passati per cancellare e cambiare eventuali termini oggi moralmente sconvenienti, come "cucina etnica". Servirà un buco nero per accogliere tutto il materiale che i woke vorranno cancellare.

(Il Foglio, 18 febbraio 2021)


Caritas Baby Hospital Betlemme, iniziata la campagna di vaccinazione

 
Caritas Baby Hospital di Betlemme
Il Caritas Baby Hospital di Betlemme ha iniziato la sua campagna di vaccinazione, i primi a ricevere la dose di vaccino sono stati i collaboratori che operano a stretto contatto con i pazienti. Lo rende noto lo stesso ospedale pediatrico, fondato nel 1952 dal prete svizzero Ernst Schnydrig, assieme al medico palestinese Antoine Dabdoub e alla cittadina svizzera Hedwig Vetter. La scorsa settimana sono state ordinate le prime dosi di vaccino anti Covid-19 per il personale sanitario in Palestina. Il Caritas Baby Hospital di Betlemme, in collaborazione con il Ministero della Sanità palestinese, ha fatto poi partire la campagna di vaccinazione sui suoi dipendenti: quarantasei di loro, quelli che operano più a contatto con i pazienti, hanno già ricevuto la prima dose.
   "Mi ritengo fortunata per essere stata vaccinata - afferma Sahar Abu Aita, infermiera nell'unità di Terapia intensiva neonatale -. L'aspetto fondamentale nella mia professione è quello di garantire la sicurezza ai pazienti. Ora posso svolgere il mio lavoro senza temere ripercussioni fatali per me o i piccoli che seguo". Il direttore del laboratorio Mousa Hindiyeh precisa: "Il vaccino anti Covid-19 è arrivato in Palestina al momento giusto per scongiurare la quarta ondata della pandemia. La comparsa della variante mutata avrebbe messo a rischio la vita di migliaia di persone". Negli ultimi tempi i casi di contagio e i decessi in Cisgiordania sono scesi grazie anche alle severe restrizioni. La campagna di vaccinazione nazionale è partita dopo che lo Stato aveva ricevuto 2.000 dosi del vaccino Moderna, a cui sono seguite altre 5.000 di quello russo, lo Sputnik. Altre 37.000 dosi si attendono grazie all'iniziativa Covax, che ne promuove una corretta distribuzione anche nei Paesi più poveri. "Se il Caritas Baby Hospital anche in tempi di crisi è in grado di portare avanti la sua missione, salvare tante piccole vite e distinguersi per l'elevata qualità dell'assistenza sanitaria - ricordano dall'ospedale pediatrico - è solo grazie alla generosità di tanti benefattori".
   Nella regione, il Caritas Baby Hospital rappresenta una struttura insostituibile. Ogni anno dal poliambulatorio del Caritas Baby Hospital passano 48.000 bambini. Nei 74 letti dei reparti vengono accolti quasi 5.000 piccoli degenti. A fine 2019 è partita la costruzione della nuova Unità di osservazione pediatrica breve. Negli ultimi anni è stata creata l'Unità di Terapia intensiva: l'ospedale è ben attrezzato anche per la gestione delle emergenze e il trattamento di piccoli pazienti in condizioni critiche.

(Servizio Informazione Religiosa, 18 febbraio 2021)


Prime dosi del vaccino consegnate a Gaza

Israele ha autorizzato l'ingresso a Gaza di duemila dosi del vaccino russo Sputnik V provenienti dal ministero della sanità di Ramallah. Sono le prime dosi di vaccino che giungono a Gaza dall'inizio della pandemia e saranno somministrate principalmente allo staff medico e ai pazienti a rischio. Immediate le critiche della destra israeliana. Ha chiesto al governo di subordinare l'invio del vaccino al rilascio di due civili israeliani che si ritiene siano tenuti prigionieri a Gaza e alla restituzione dei corpi di due soldati israeliani uccisi nel 2014. Nel frattempo, il governo israeliano continua la somministrazione del vaccino Pfizer, con più 6,4 milioni di dosi inoculate su nove milioni di abitanti.

(Domani, 18 febbraio 2021)


Primo colloquio tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu: "Telefonata amichevole"

La chiamata è arrivata 27 giorni dopo l'insediamento del presidente degli Stati Uniti. Il premier israeliano l'ha definita "calorosa".

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha avuto una telefonata con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, ha fatto sapere l'ufficio di Netanyahu in una dichiarazione, la prima chiamata pubblica da quando Biden è entrato in carica.
   "La conversazione è stata molto amichevole e calorosa ed è durata circa un'ora. I due leader hanno detto che lavoreranno insieme per rafforzare ulteriormente le strette relazioni tra Israele e gli Stati Uniti", afferma il comunicato.
   Ventisette giorni dopo il suo insediamento, il presidente americano Joe Biden ha finalmente contattato il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, malgrado gli stretti rapporti fra i due paesi alleati la chiamata stentava ad arrivare. Il ritardo in Israele è stato notato e sottolineato qualche giorno fa da un goffo tweet dell'ex ambasciatore israeliano presso l'Onu Danny Danon, costretto poi ad esprimere il suo rincrescimento.
   Joe Biden ha già chiamato i leader di dieci paesi, "non sarebbe ora di chiamare il leader di Israele, il più stretto alleato degli Stati Uniti?", aveva twittato Danon. L'ex ambasciatore è stato poi costretto a chiarire che il tweet "non è stato coordinato con il primo ministro o i suoi avversari", ha scritto Times of Israel.
   Quando è stato scritto, Biden aveva già parlato con i leader di Canada, Messico, Gran Bretagna, India, Francia, Germania, Giappone, Australia, Corea del Sud e Russia. Alla lista, che appare sul tweet, si è poi aggiunta la Cina. Vicinissimo a Donald Trump, Netanyahu aveva avuto un rapporto molto teso con Barack Obama, di cui Biden era vice presidente.

(la Repubblica, 17 febbraio 2021)


Il vino in Israele

Dai vigneti delle alture del Golan alle colline della Galilea, dal Sauvignon Blanc al Sangiovese

di Alessandra Calzecchi Onesti

 
Dai vigneti delle alture del Golan alle colline della Galilea, dalle produzioni dei Kibbutz al vino Kasher. Il clima caldo, con alture che a nord arrivano anche ai mille metri, terreni diversi che vanno dal suolo vulcanico all'argilloso, dalle pietre alla terra rossa, fino ad arrivare al mare. In un bicchiere di vino israeliano si degusta il territorio, si assaporano le afose estati, si sente la frutta matura che scoppia sotto il sole cocente, si masticano i tannini delle uve rosse. I vini israeliani hanno uno standard qualitativo molto alto, pochissimi difetti organolettici, ottima bevibilità, in alcuni casi struttura perfetta. Armoniosi, aromatici e fruttati i bianchi, tra cui svetta il Sauvignon Blanc che in queste terre dà un ottimo risultato, tannici e ben strutturati i rossi, spesso a base di Carignan, Syrah, Pinot noir o Cabernet Sauvignon. Frequenti anche esperimenti con vitigni particolari come il Pinotage (vitigno sudafricano frutto dell'incrocio tra Pinot Nero e l'Ottavianello, più conosciuto come Cinsaut) o vitigni italiani che qui sembrano dare risultati apprezzabili come il Sangiovese o il Nebbiolo. I
Fai crescere il fieno per gli armenti e l'erba al servizio dell'uomo, perché tragga alimento dalla terra: il vino che allieta il cuore dell'uomo, l'olio che fa brillare il suo volto e il pane che sostiene il suo vigore.

Salmo 87,10 - Ebrei 12,1
vitigni autoctoni sono quasi inesistenti: durante la dominazione islamica quasi tutte le viti furono estirpate.
Nonostante le prime testimonianze scritte che attestano la presenza della viticoltura e della produzione di vino risalgano alla Galilea del 1000 a.C., la viticoltura moderna ha infatti radici piuttosto recenti. È grazie al lavoro del Barone Edmond de Rothschild di origini ebraiche, che nel 1882 fonda la prima azienda israeliana (la "Carmel") e porta i primi due vitigni (il Chenin Blanc e il Carmignano), che si dà il via alla nuova viticoltura israeliana. Nel 1983, quasi cento anni dopo, fu fondata la Golan Heights Winery sulle alture del Golan, una delle zone più vocate del paese insieme all'alta Galilea e all'area di Gerusalemme. Notevoli i risultati enologici di questa bella azienda, la prima a puntare sulla qualità. Dalla fine degli anni '80 si è registrato un proliferare di aziende, che vanno dalle più grandi certificate Kasher fino alle piccole wine boutique. Le aziende attive in Israele sono 250, di cui solo 190 quelle kasher. Una buona parte della produzione è rivolta al mercato locale, con un valore complessivo che si aggira sui 180 milioni di dollari, ma un mercato altrettanto consistente è rappresentato dagli Stati Uniti, dal Belgio e dalla Francia.

(Città del Vino, 18 febbraio 2021)


Le risposte di Israele

Gerusalemme traccia la strada per la riapertura: un pass in mano per la nuova normalità

di Micol Flammini

ROMA - Quasi tre milioni di israeliani hanno ricevuto le due dosi del vaccino contro il Covid-19 e il paese comincia sul serio a riorganizzare la ripartenza, la normalità nuova, che almeno finché i paesi saranno divisi tra vaccinati e non, non può di certo essere uguale a quella vecchia. Israele pensa a riaprire, lo farà domenica, e dopo essersi sottoposta a una lunga e intermittente chiusura e aver puntato tutto su una campagna di vaccinazione rapida e ambiziosa sta iniziando a mettere in fila i pilastri di questa nuova vita, che è ancora tutta da immaginare.
   I negozi, i mercati, i musei, le biblioteche e i centri commerciali saranno accessibili a tutti, ma lo stesso discorso non sarà valido, per esempio, per le palestre o le piscine, che potranno essere utilizzate soltanto da chi è stato vaccinato o è già stato contagiato dal coronavirus negli ultimi mesi. Ci vorrà una prova, un pass che, ha detto Nachman Ash, l'architetto della strategia contro il Covid in Israele, potrà essere fornito tramite una app. Come funzionerà l'ha spiegato Channel 12: i cittadini potranno inserire i dati personali ed entro poco riceveranno un pass che verrà emesso dal ministero della Salute. Per chi non ha uno smartphone ci sarà un certificato da stampare e in tanti sono già preoccupati dalla corsa ai certificati contraffatti. Ci si prepara a considerare che il pass sarà una cosa molto ambita e per chi presenta certificati falsi ci saranno delle multe. E' così che il futuro inizia a delinearsi in Israele: una cesura tra il mondo conosciuto nell'ultimo anno e quello che si sta formando ora con il vaccino, i vaccinati da una parte e i non vaccinati dall'altra.
   Con quasi il 43 per cento dei cittadini che ha ricevuto almeno una dose di vaccino, con i dati che confermano le previsioni della Pfizer sull'efficacia del vaccino, Israele è diventata un laboratorio che adesso può permettersi di ricominciare in anticipo a fare attività dimenticate durante la pandemia, ma con un codice diverso. Lo aveva promesso anche il premier Benjamin Netanyahu, quando a fine dicembre, dopo aver annunciato la campagna di vaccinazione e indetto contemporaneamente un nuovo lockdown, aveva detto che vaccini e chiusura avrebbero assicurato a Israele la vittoria contro il virus: "Le due cose insieme ci faranno uscire dalla pandemia per primi al mondo".
   Anche per i viaggi Israele ha incominciato a stringere accordi con altre nazioni per il riconoscimento reciproco dei passaporti vaccinali, argomento che ha diviso molto l'Unione europea e promosso molto dalla Grecia. Atene non è riuscita a sensibilizzare gli europei, impegnati in questo momento in altre decisioni e con la testa rivolta più alla lotta contro la pandemia che alla riapertura, ma assieme a Cipro si è accordata con Israele.
   Non si può ancora dire che Gerusalemme abbia vinto contro la pandemia - rimangono decisioni importantissime da prendere che riguardano varie attività e soprattutto la scuola - ma ha tracciato una strada che nessun altro è riuscito a seguire finora, un modello eccezionale, anche perché complicato da applicare altrove, che porta dritti verso una nuova normalità, fatta di nuovi rituali, di passaporti, di pass, di certificati di immunità ai quali bisognerà abituarsi.
   Questo scorcio sul mondo che sarà nei prossimi mesi da trascorrere con il patentino di immunità tra le mani potrebbe anche essere un modo per convincere chi in Israele è riluttante al vaccino, soprattutto tra i giovani. Ieri il premier su Twitter ha postato la foto dei polmoni durante la malattia con la scritta "ragazzi vaccinatevi". Anche in questo il modello israeliano potrà mostrare la strada per capire se finalmente questo pass che dà accesso alla normalità non sarà forse la strategia più efficace per convincere i No vax rimasti.

(Il Foglio, 17 febbraio 2021)


Perché «solo le persone di buonsenso impazziscono»

di Francesco Romanetti

Dice una nota storiella ebraica: "Metti a discutere due rabbini e ne verranno fuori tre opinioni diverse". Geniale perfidia giudaica. Ora, prendete il caso che l'ebreo sia uno solo, che non sia un rabbino, ma un laicissimo poeta e scrittore, polacco ma d'ascendenza viennese-galiziana, comunista ma libertario, uno — tanto per dire il personaggio - riuscito a fuggire da un lager nazista travestito da SS: avrete così la folgorante arguzia di Stanislaw Jerzy Lec. Ingegnoso creatore di aforismi. Ironico, poetico, filosofico. Ma c'è aforisma e aforisma: Lec non scrive semplicemente cose che fanno ridere, semmai svela quanto le cose siano risibili. Diciamo "cose": si intenda "religione", "morale", "istituzione", "politica". "Prima di nascere, sono stato cauto fino al punto di chiedere: 'Chi governa ora?'". Così si presenta nella noterella autobiografica che introduce i suoi "Pensieri spettinati". Culturalmente meticcio, strutturalmente anti-razzista, anti-autoritario e anti-borghese, dentro la sua raccolta di qualche migliaio di motti e pensieri, Stanislaw Lec inzeppa sapere mitteleuropeo, talmudico, eretico ("Peccato che per andare in paradiso si debba salire sul carro funebre"). Saggezza sorniona, dalle origini remote: "Lei mi chiede, bella signora, quanto tempo ci mettono i miei pensieri a nascere. Seimila anni, o adorabile!".
   Quando nel 1965 uscì in Italia una prima versione del libro, fu titolata da Bompiani "Pensieri proibiti": allusione alla carica dissidente dello scrittore, punzecchiatore del regime stalinista polacco ("Il trionfo della conoscenza dell'uomo: i dossier della polizia segreta"; "Anche un manganello può indicare la strada"). Eppure, emigrato in Israele, Lec fece dietrofront dopo un paio d'anni, per rivalicare a ritroso la Cortina di Ferro e tornare nella sua Polonia. Dove continuò a sfruculiare il Potere. Ma non solo. Il fatto è che all'intelligenza critica sta stretta la stessa natura umana: "II cannibale non disprezza l'uomo". E gli aforismi di Lec, in fondo, ridacchiano contro tutt'intera la realtà "Solo le persone di buonsenso impazziscono"; Il surrealismo cessa di essere tale una volta realizzato?"; "Ho sognato Freud. Che significa?"; "Perfino nel suo silenzio c'erano errori linguistici"). Verrebbe voglia di riferirne a centinaia di queste illuminazioni. Ma siamo arrivati alla fine dell'articoletto. Dunque, leggasi il libro. (E comunque: "Rifletti, prima di pensare!").

(Il Mattino, 17 febbraio 2021)

Altri esempi di “Pensieri spettinati”:
  • La costituzione di uno Stato dovrebbe essere tale da non ledere la costituzione del cittadino.
  • La Rivoluzione francese ha dimostrato che restano sconfitti coloro che perdono la testa.
  • So da dove viene la leggenda della ricchezza degli ebrei. Sono loro che pagano per tutti.
  • Come è difficile provocare un'eco nelle teste vuote!
  • Anche una busta vuota ma sigillata contiene un segreto.
  • Il gallo canta persino la mattina in cui finisce in pentola.
  • Forse un giorno saremo in grado di sfruttare industrialmente le anime umane! (Google, ndr)

Favola Karatsev, il giramondo conteso da Russia e Israele

Il numero 114 dell'ATP vola in semifinale agli australian open: è il primo debuttante a riuscirci. Tel Aviv si mangia le mani

di Piero Valesio

Dopo Shapovalov, Karatsev. In Israele hanno, pare, qualche problema a trattenere i ragazzi che arrivano a Tel Aviv con le loro famiglie dall'estero e li iniziano col tennis. Ma poi, per effetto del destino, quegli stessi ragazzi volano altrove e la locale federazione resta con un palmo di naso. Le storie hanno molto in comune. Dennis Shapovalov giunse nel paese di Davide all'inizio degli anni '90 proveniente dalla Russia. Sua madre, Tessa Shapovalova, tennista di un qualche valore, è ebrea mentre suo padre è ortodosso. Li Dennis prese conoscenza della nobile arte: ma dopo alcuni anni Tessa decise di emigrare un'altra volta e si trasferì a Toronto, dove c'è una foltissima comunità ebraica. E Dennis (che si identifica con la religione del padre) trovò consacrazione: oggi il Canada, anche grazie a lui, è una delle superpotenze del tennis mondiale.
   Karatsev, che ieri ha sorprendentemente superato in quattro set (2-6 6-4 6-1 6-2) un acciaccato Dimitrov, ha lasciato Vladikavkaz, in Ossezia, quando aveva 3 anni. A muovere i suoi genitori (la mamma è ebrea) è stato lo stesso movimento migratorio che ha portato la quasi totalità degli osseti ebrei, a inizio anni '90, a trasferirsi in Israele. Anche lui a Tel Aviv e pure lui ha iniziato a giocare a tennis in riva al Mediterraneo. Il giovane Karatsev giocò con Amir Weintraub che sarebbe poi diventato un buon prof: ma a sua differenza la famiglia Karatsev non se la passava benissimo sul piano economico. E dieci anni dopo, mentre mamma e sorella, rimanevano in Israele, il giovane Asian tornò in Russia con suo padre e si stabili a Rostov. Poi a Mosca, ad Halle, e infine a Barcellona Li si infortuno al ginocchio, meditò di mollare tutto non prima di affidarsi al quasi coetaneo coach bielorusso Yatzhik, a Minsk Alla ripresa dell'attività, l'anno scorso, ha vinto due Challenger (Praga e Ostrava) e poi si è concesso un viaggio in Israele dove l'antico sodale Weintraub e il presidente della locale federazione Peretz hanno tentato di convincerlo a giocare la Davis con loro, ma ormai era già stato aggregato alla squadra russa e non se nè fatto nulla. Karatsev è il primo tennista dell'era Open a raggiungere la semifinale alla sua prima apparizione in uno Slam. E prima di lui solo 4 giocatori avevano raggiunto le semi di uno Slam provenendo dalle qualificazioni. In semi troverà Djokovic che a 12 anni ha lasciato la Serbia in guerra per spostarsi in Germania e Italia La vita è come la palla che si ferma sul nastro e ci mette un attimo a decidere da che parte della rete cadere.

(Il Messaggero, 17 febbraio 2021)


Lasciò l'Iran per le minacce di morte, il judoka Mollaei si batterà in Israele

Nel 2019 Teheran lo aveva costretto a perdere volontariamente le semifinali per evitare di combattere con un avversario di Netanya. Esiliato in Germania, ora parteciperà allo "Grande Slam" di Tel Aviv con i colori della Mongolia.

di Sharon Nizza

TEL AVIV - "Momento storico". Così descrivono in Israele l'arrivo del judoka iraniano Saied Mollaei, già campione del mondo nel 2018, atterrato ieri mattina a Tel Aviv per partecipare alla competizione "Judo Grand Slam", con centinaia di atleti da 63 Paesi.
Nel 2019 Mollaei aveva ottenuto lo status di rifugiato in Germania dopo le minacce ricevute durante il campionato mondiale di Tokyo, quando la sua stessa nazionale lo spinse a perdere volontariamente alle semifinali per evitare di confrontarsi con il judoka israeliano Sagi Muki che quell'anno si guadagnò l'oro.
   Distrutto dalla più assurda delle richieste che si possa fare a uno sportivo, Mollaei non ha più fatto rientro in Iran, iniziando a gareggiare con lo status di rifugiato per il Comitato Olimpico Internazionale e poi con la bandiera della Mongolia che gli ha concesso la cittadinanza.
   Con lui è atterrato a Tel Aviv anche il suo storico istruttore, Mohammad Mansouri, già allenatore della nazionale di judo iraniana ed egli stesso in esilio in Germania.
   In un'intervista a Radio Farda l'anno scorso, Mansouri aveva raccontato di aver perso la motivazione nel suo lavoro dopo la perdita deliberata di Mollaei in Giappone, rivelando che non si era trattato del primo incidente del genere a cui aveva assistito nella sua carriera di sportivo.
   La Federazione Internazionale di Judo ha sospeso l'Iran a tempo indeterminato dopo i fatti di Tokyo e Mansouri. Mollaei e Vahid Sarlak - altra cintura nera iraniana che aveva affrontato lo stesso destino nel 2009 e che oggi è l'allenatore della nazionale del Tajikista - hanno testimoniato contro il loro Paese natale in un recente procedimento che si è tenuto, tra misure di sicurezza non indifferenti, al Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna, dopo che l'Iran ha cercato di contestare la scelta della Federazione.
   La Federazione ha sostenuto che Mollaei era stato sottoposto alla pressione diretta dell'allora vice ministro dello sport iraniano Davar Zani e del presidente del Comitato olimpico Reza Salehi Amiri, che, poco prima della semifinale, gli avevano fatto sapere che "i servizi di sicurezza iraniani si stavano recando a casa dei suoi genitori a Teheran", secondo quanto riportato da Deutsche Welle.
   Ora, proprio a Tel Aviv, Mollaei spera di avere l'occasione di sfidare Muki, che volevano trasformare nella sua nemesi e invece in questi anni è diventato un amico nella vita, e solo un sano rivale sul campo. "La sua presenza qui è la semplice dimostrazione di come lo sport possa unire le persone e rompere i confini. È un grande messaggio per il mondo", ha detto Muki nel dargli il benvenuto in casa.
   Il judoka iraniano, che al momento è in isolamento in hotel, ha chiesto di concentrarsi in vista della competizione, che si aprirà giovedì. "Sono molto contento di essere qui" ha detto timidamente all'arrivo. "Mi sento sicuro. Ora è il tempo di scendere in campo".
   La denuncia pubblica di Mollaei, è stato il più mediatico di una lunga serie di boicottaggi di atleti israeliani imposta dall'Iran ai propri sportivi. Episodi simili si sono registrati anche con diversi atleti arabi, in particolare dal Libano, dove è in vigore una legge che vieta qualsiasi contatto con cittadini israeliani.

(la Repubblica, 17 febbraio 2021)


Vaccinazioni e farmaco sperimentale: Israele superstar anti-Covid

di Jonathan Pacifici*

Il vaccino non solo funziona ma è l'unico strumento per tornare alla normalità. Gli ultimi dati che arrivano da Israele sono inequivocabili. La Maccabbi, una delle principali HMOs israeliane, ha pubblicato dati estremamente positivi che aprono nuovi scenari nella lotta al Covid. Si tratta del primo studio a tappeto effettuato tracciando il primo mezzo milione di assicurati Maccabbi inoculati con entrambe le dosi del vaccino Pfizer. Secondo i dati, solo 544 persone (0,1%) sono state successivamente diagnosticate con il Coronavirus, ci sono stati quattro casi gravi e nessun morto. «Questi dati dimostrano che il vaccino è molto efficace e non abbiamo dubbi che abbia salvato la vita a molti israeliani», ha detto Miri Mizrahi-Reuveni, funzionario del Maccabi.
   Ciò rafforza la policy del governo israeliano: vaccinazione totale del Paese come unica strada per uscire dalla pandemia. Dopo una flessione nel ritmo delle vaccinazioni il ministero della Sanità ha dichiarato venerdì scorso che 147.000 persone erano state vaccinate nella giornata di giovedì, in aumento rispetto al minimo che il Paese aveva registrato nell'ultima settimana. Il ministero ha poi riferito che solo 75.990 persone sono state vaccinate venerdì e altre 35.133 sabato, anche se generalmente i numeri del weekend sono relativamente bassi.
   In totale a oggi su 9,2 milioni di abitanti più di 4 milioni hanno ricevuto almeno una dose del vaccino e altri 2,6 milioni anche la seconda dose. Quest'ultimo dato è estremamente importante. Significa che circa 1,5 milioni di persone riceveranno la seconda dose e si aggiungeranno nelle prossime due otre settimane al gruppo dei «protetti dal vaccino». Va anche ricordato che Israele ha una popolazione molto giovane, con 2.6 milioni dr under-16 al momento non vaccinabili. Negli ultimi giorni si è già cominciato a vaccinare bambini potenzialmente ad alto rischio e si sta pensando di abbassare l'età in termini assoluti. In ogni modo, se i numeri continueranno a essere quelli dello studio Maccabbi, è lecito supporre che vedremo un importante calo dei casi gravi. E per questo che il governo le sta provando tutte, buone e cattive, per incrementare il numero dei vaccinati, ad onor del vero di tutto rispetto se confrontato con gli altri Paesi. Sul fronte degli incentivi, forti dell'efficienza della macchina operativa delle HMOs (che hanno logiche pnvate), si è deciso di dare a queste un bonus per ogni vaccinato, con un superbonus per i vaccinati in casa, lasciando a loro la scelta della strategia per convincere gli scettici.
   Al contempo, mentre il Paese inizia un lento percorso di riapertura, l'esecutivo sembra pronto anche a varare sanzioni per coloro che non si vaccinano. C'è l'intenzione di limitare l'accesso a palestre, hotel, ristoranti ed eventi culturali e sportivi per coloro che rifiutano di essere vaccinati. Il messaggio è chiaro: se vuoi tornare alla normalità, ti devi vaccinare. E per questo che il premier Netanyahu è andato lunedì sera negli studi del tg del canale 12, il più seguito, per rivolgere un appello alla popolazione: la sfida è sul mezzo milione di over-50 ancora non vaccinati. Ne conosci qualcuno? Portalo a vaccinarsi ora. In parallelo, c'è grande attenzione per gli sviluppi del farmaco sperimentale Excrd24 del professor Nadir Arber dell'Ospedale Ichilov di Tel Aviv. La notizia dei suoi effetti ha fatto il giro del mondo, con 29 pazienti medio-gravi su 30 guariti in due tre giorni e il trentesimo dopo poco più di una settimana. II medicinale combatte l' ipercitochinemia, una reazione immunitaria potenzialmente letale all'infezione da Coronavirus che si ritiene sia responsabile di gran parte dei decessi associati alla malattia. Nei prossimi giorni si procederà a test aggiuntivi per rendere il farmaco disponi quanto prima. Se i risultati saranno confermati, potremmo essere a una svolta a livello globale.
   Sul fronte economico non si ferma la corsa del comparto tecnologico, la locomotiva del Paese. Dopo i record del 2020, gennaio ha registrato il record di 1,44 miliardi di dollari di investimenti in società tech con 8 nuovi «unicorni» in appena 40 giorni. Tra i round di finanziamento più importanti: lo sviluppatore di reti di pagamento Rapyd (300 milioni $), la società di reti software native per il cloud DriveNets (208 milioni), la società di backup automatico su cloud OwnBackup (167,5 milioni), l'app di telemedicina K Health (132 milioni), l'e-commerce Resident (130 milioni) e la società di pagamenti B2B Melio (1 10 milioni). Il trend continua anche a febbraio: è appena stato reso noto che il colosso Palo Alto Networks ha acquisito la Bridgecrew per 200 milioni $.
   Proprio la tenuta del comparto tecnologico è considerata in Israele la chiave per il postCovid. Storicamente il successo di queste società ha generato un importante indotto facendo crescere tutta l'economia a un ritmo vorticoso nell'ultimo ventennio. Gli esperti ritengono che la grande liquidità delle aziende tech inizierà presto a circolare (non appena le condizioni sanitarie lo consentiranno) e ciò rappresenterà un grande boost per il resto delle attività economiche.

* Presidente del Jewish Economic Forum e general partner di Sixth Millennium Venture Partners

(MF, 17 febbraio 2021)


"Israele riapre", tra i vaccinati casi con sintomi ridotti del 94%

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Con quasi 4 milioni di vaccinati — 2,5 milioni con due dosi — su 9,2 milioni di abitanti, Israele è il laboratorio che fornisce al mondo i dati più aggiornati sull'efficacia del vaccino. Con 100.000 inoculazioni Pfizer al giorno in media, si confermano le previsioni dell'azienda, che aveva certificato un'efficacia del 95%. Ieri sono stati pubblicati i dati di Clalit, la più grande tra le quattro casse mutue responsabili della campagna: nel confronto tra 600.000 vaccinati e altrettanti che non lo sono ancora, è stata dimostrata la riduzione del 94% dei contagi sintomatici, e del 92% dei casi gravi.
   «Con i colleghi di Harvard, abbiamo condotto una serie di controlli che ci consentono di affermare che il vaccino Pfizer è efficace a una settimana dalla somministrazione della seconda dose», ha affermato il professor Ran Balicer, direttore dell'istituto di Clalit. «I dati dimostrano ancora più efficacia dopo due settimane dal richiamo», ha aggiunto. AI momento Israele fornisce Il certificato vaccinale — su Internet — a una settimana dalla seconda dose.
   Altri dati rilasciati dalla cassa mutua Maccabi indicano che meno dello 0,1% dei vaccinati ha contratto il virus e nessuno in modo grave. Particolarmente incoraggiante il calo dei contagi tra gli over 60, del 64% da gennaio e del 48% per l'incidenza sui malati gravi, secondo i dati del professor Eran Segal, del Weizman Institute. Al contempo, il Paese vede un aumento record dei contagi tra gli under 40, che sono risultati il 75% del positivi nell'ultima settimana, e 1 su 6 dei nuovi malati gravi. La causa è direttamente legata all'effetto vaccini, in quanto i primi inoculati sotto stati gli over 60 che ora risultano più immunizzati (tra questi, gli over 80, i soggetti più a rischio tra cui si registrava il 93% della morbilità grave, sono stati immunizzati al 90%). Ma tra gli esperti si pensa sia anche l'effetto della variante inglese, che è responsabile dell'80% dei casi israeliani, più contagiosa e probabilmente più letale, se si considera che a gennaio i decessi sono stati il 30% di quelli registrati dall'inizio della pandemia (5.403).
   Ieri il governo ha dato il via all'apertura, da domenica, di buona parte dei settori dell'economia: hotel, teatri, eventi sportivi, musei, palestre, centri commerciali chiusi da più di un mese dopo il terzo lockdown. L'aeroporto, che tre settimane fa era stato chiuso con 24 ore di preavviso, lasciando migliaia di israeliani bloccati all'estero, verrà riaperto solo parzialmente, consentendo l'atterraggio di 2.000 persone al giorno, e mantenendo l'obbligo di quarantena negli hotel Covid. E cominciano a farsi spazio le polemiche su vincoli e benefit legati ai vaccini: per incoraggiare la campagna, l'ingresso a parte dei servizi sarà vincolato alla presentazione del certificato vaccinale o di guarigione.

(la Repubblica, 16 febbraio 2021)


Ha giurato il primo ambasciatore degli Emirati Arabi in Israele

Il giuramento ad Abu Dhabi di Mohammed Mahmoud Al-Khaja, primo ambasciatore degli Emirati Arabi in Israele
Mohammed Mahmoud Al-Khaja
Ha giurato il primo ambasciatore degli Emirati Arabi in Israele, Mohammed Mahmoud Al-Khaja. Il diplomatico ha prestato giuramento dinanzi al vice presidente degli Emirati Arabi Uniti, Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum. Lo hanno riferito diversi media locali. Il gabinetto degli Emirati Arabi Uniti il mese scorso aveva approvato l'istituzione di un'ambasciata a Tel Aviv. Israele, dal canto suo, ha annunciato l'apertura dell'ambasciata ad Abu Dhabi, dopo che i due Paesi, la scorsa estate, hanno ripreso le reciproche relazioni diplomatiche a seguito della storica firma dei cosiddetti "Accordi di Abramo". Da allora moltissimi israeliani hanno cominciato a volare verso gli Emirati per visitare lo stato del Golfo anche se poi, a causa della chiusura dei confini da parte di Israele per contenere l'arrivo dall'estero delle nuove e preoccupanti varianti del Covid 19 (in particolare quella inglese e quella sudafricana) centinaia di israeliani sono rimasti bloccati a Dubai e Abu Dhabi senza poter rientrare nel loro Paese. In ogni caso i ministeri del Turismo dei due Paesi sperano, non appena i tassi di infezione diminuiranno e la situazione sara' piu' tranquilla, di favorire e incentivare i flussi turistici.
   Oltre al turismo, Israele e gli Emirati Arabi Uniti stanno attualmente costruendo relazioni in diversi settori, dall'hi-tech all'esplorazione spaziale e al settore tecnologico applicato all'agricoltura. Il successo della sonda spaziale emiratina Hope Probe, entrata nell'orbita intorno a Marte la scorsa settimana, colloca l'emirato tra i cinque Paesi che sono stati in grado di raggiungere il pianeta rosso finora. Israele non e' da meno e infatti il progetto lunare israeliano Beresheet dovrebbe consentire di lanciare una seconda missione entro un arco di tre anni. La cooperazione scientifica tra la "Start Up Nation" sara' inoltre probabilmente al centro dei colloqui tra i diplomatici e i think tank di entrambi i Paesi nel prossimo futuro. I due Paesi hanno in comune molti interessi ed entrambi sono pionieri in settori cruciali come quello dei prodotti tecnologici e della tecnologia alimentare. (AGI)

(Shalom, 16 febbraio 2021)


Cyber esercito in campo contro i «no-vax»

di Davide Frattini

GERUSALEMME - A Bnei Brak gli Infermieri distribuiscono vaccini e cholent, la zuppa di carne con patate che gli ultraortodossi cucinano per il giorno sacro di Shabbat. A Jaffa il camioncino piazzato dal comune offre le dosi assieme a un piatto di hummus, la crema di ceci passione e orgoglio degli arabi. A ognuno la ricetta preferita per tentare di attrarre gli indecisi, quelli che non si sono ancora presentati in uno dei centri allestiti in tutto il Paese. Ai no-vax che si oppongono alla campagna di massa il governo prova invece a proporre cibo per la mente.
   Informazioni scientifiche che devono contrastare i messaggi catastrofisti e le teorie del complotto pubblicati sui social media. Una lista di fake news in disordine sparso: con il liquido vengono iniettati dei microchip per pedinare la gente; il farmaco può causare la morte e danneggia i feti; sarebbe tutto un esperimento per ridurre la popolazione.
   Le notizie infondate si diffondono attraverso Facebook (che ha già cancellato migliaia di post su richiesta del ministero della Giustizia Israeliano) e soprattutto Telegram «perché garantisce l'anonimato e rende quasi impossibile fermare la catena di bugie», spiega Amit Goldstein al quotidiano Haaretz. Amit guida la squadra di giovani — presto se ne aggiungeranno 7 - che è stata incaricata di combattere la cyberguerra contro la disinformazione. Qualcuno dei ragazzi è ancora in divisa, altri l'hanno messa nell'armadio da poco. Sono stati addestrati nell'esercito a monitorare i canali usati dai terroristi o dagli Stati nemici, lavorano dall'alba alla mezzanotte in una sala tutta schermi allestita in un centro congressi dalle parti dell'aeroporto, a pochi chilometri da Tel Aviv, e si occupano di fare la caccia «a quei dati che vengono presentati come ufficiali», dice Einav Shimron del ministero della Sanità. «Abbiamo fatto rimuovere documenti che riportavano il timbro della Food and Drug Administration americana o della casa farmaceutica Pfizer». II premier Benjamin Netanyahu bolla i «non vaccinati» come i nuovi nemici, valuta sanzioni e annuncia benefici per incentivare i cittadini: da domenica riaprono cinema, teatri, palestre, eventi pubblici. Sarà ammesso solo chi può dimostrare di essere immunizzato.

(Corriere della Sera, 16 febbraio 2021)


Comincia proprio in Israele la guerra dei «sì-vax» contro i «no-vax». C’è qualcosa di morboso in questa smania di combattere la malattia combattendo i sani. M.C.


"Il politicamente corretto è sovietico"

Natan Sharansky, nove anni di carcere da ebreo refusenik, nell'autobiografia traccia un parallelo tra il "pensiero di gruppo" di allora e di oggi. "Mio padre si costruì una doppia vita per sfuggire alla repressione".

di Giulio Meotti

 
Negli anni in cui Natan Sharansky organizzava un movimento ebraico di resistenza alla repressione sovietica, sulla stampa il sionismo era bollato come "pornografia" e la tv di stato russa definiva i refusenik come lui "mercanti di anime". Il Kgb arrestò Sharansky con l'accusa di essere una spia. Fu condannato a tredici anni. Fuori dal tribunale, decine di ebrei intonarono l'inno di Israele, l'Hatikvah. In prigione, Sharansky fu messo a pulire i bagni. Per le feste di Chanukkah accendeva le candele in segno di protesta. Ogni volta veniva punito. Osservava continui scioperi della fame e, per non perdere le facoltà mentali, giocava a scacchi con se stesso, senza pezzi, né scacchiera. Si ammalò gravemente, rischiando di morire, e gli furono confiscati i libri di ebraico. Il grande fisico Edward Teller da New York lo definirà uno dei "martiri" del 900. Nel febbraio del 1986 Sharansky venne scambiato con altre spie nelle mani degli americani sul ponte di Glinicke, a Berlino. Di libertà di parola qualcosa dunque ne sa, Sharansky.
  "Mio padre era fiducioso", scrive Sharansky nella sua autobiografia "Never alone: prison, politics and my people", in un brano pubblicato su Tablet. "I comunisti avevano promesso che sarebbe nata una nuova vita di piena uguaglianza, senza restrizioni educative e, cosa più importante, con pari opportunità per tutti. Chi non l'avrebbe voluta?". Uno dei fratelli del padre aveva scoperto il sionismo ed era andato nell'allora Palestina mandataria. Il padre di Sharansky "era entusiasta di costruire un mondo di giustizia sociale e uguaglianza più a casa sua. Da quando era bambino, mio padre amava inventare storie. Immagina il brivido quando, a vent'anni, ha visto milioni di persone guardare una sceneggiatura che aveva scritto. Ovviamente, per avere successo nella sua carriera di sceneggiatore ha dovuto seguire alcune regole. Le sue sceneggiature, come ogni altra opera d'arte, dovevano seguire la rivoluzione bolscevica, vedendo il mondo attraverso la lente della lotta e dello sfruttamento di classe. Il vecchio mondo e i suoi valori retrogradi dovevano essere distrutti per produrre la giustizia sociale. Oggi, una visione simile potrebbe essere chiamata 'Critical Class Theory'". Qui Sharansky tira già una prima spallata alla proliferazione di "teorie critiche" nelle nostre università, paragonandole all'ortodossia sovietica.
  "Tutto doveva servire all'ideologia comunista: ogni istituzione, ogni mezzo, ogni forma d'arte. Lenin aveva particolarmente apprezzato il potenziale di propaganda dei film, dichiarando: 'Il cinema per noi è la più importante delle arti'. Il termine 'politicamente corretto', oggi così popolare, è emerso alla fine degli anni 20, per descrivere la necessità di correggere il pensiero di alcuni 'deviazionisti' e adattarli alla linea del Partito comunista. Qualsiasi personaggio positivo con origini borghesi doveva alla fine controllare il proprio privilegio, condannare il proprio passato di oppressore e assumersi pubblicamente la responsabilità dei propri peccati".
  All'inizio, i veri credenti che sostenevano i nobili obiettivi della rivoluzione accettarono facilmente queste restrizioni. "Ma con il Terrore Rosso, i crescenti attacchi alla religione, al nazionalismo e alla proprietà privata hanno distrutto le illusioni della maggior parte delle persone. Il numero dei credenti continuava a diminuire, mentre la paura continuava a diffondersi. Eppure, in mezzo alla disillusione, nessuno voleva sacrificare i propri sogni personali. Volevi ancora vedere il tuo lavoro realizzato. Per far sì che le sue storie fossero approvate e per ridurre il rischio di rifiuto - o esposizione - mio padre ha setacciato la stampa sovietica ufficiale alla ricerca di eroi pre-approvati".
  Ma un giornale locale pubblicò un articolo sulle origini borghesi del giovane sceneggiatore e sui suoi "legami sionisti", a causa di quel fratello che si era trasferito a Gerusalemme. "Mio padre venne così cancellato. Temendo per la sua vita, mio padre fuggì dall'industria cinematografica, da Odessa, e dal suo amato mondo creativo, nel 1929. Arrivando in un oscuro centro industriale ucraino, che oggi è noto come Donetsk, trascorse il resto della sua carriera di scrittore come giornalista, celebrando i proletari che costruivano il nuovo mondo sovietico in una serie di riviste industriali".
  Ogni articolo che scriveva perpetuava la doppia vita. "Sapendo che qualsiasi deviazione dalla visione ideologica sarebbe stata liquidata come 'bugia borghese', mio padre divenne parte di una vasta catena di montaggio che produceva la versione sovietica delle fake news". Sharansky è nato vent'anni dopo, nel 1948. "Ogni giorno mio padre andava alla ricerca di storie interessanti. Ma, quando si trattava di scriverle, la sua immaginazione doveva ridursi, la sua bocca chiudersi, la sua mano farsi prendere dai crampi, mentre produceva ciò che il Partito richiedeva". Molti colleghi buttavano i soldi nella vodka; il vizio del padre erano i libri. "Amava comprare libri, leggere i classici, gettarsi in realtà alternative, dove la sua immaginazione poteva vagare libera, senza un prezzo da pagare o una linea di Partito da sostenere. Ascoltava regolarmente, in segreto, 'Voice of America', o la Bbc, o qualsiasi altro canale radiofonico occidentale. Essere un letterato in un mare di paura significava preoccuparsi di annegare costantemente".
  Stalin aveva ucciso il poeta Osip Mandelstam. Alcuni si erano uccisi, come la poetessa Marina Cvetaeva. Altri vivevano quotidianamente con la paura dell'arresto, o all'ombra delle purghe, come Anna Akhmatova. Altri ancora, come il romanziere Mikhail Bulgakov, avevano accettato che i loro libri rimanessero inediti. "Il suo 'Il maestro e Margherita' non avrebbe visto la luce per decenni. Altri, come Boris Pasternak, cercarono lettori altrove e ne pagarono il prezzo a casa. Ma la lezione che ho imparato dagli scrittori della generazione di mio padre è che coloro che resistettero al doppio pensiero sono quelli che continuano a influenzarci".
  Nel 1962, durante il breve periodo di "disgelo" di Krusciov, la famiglia Sharansky fu entusiasta quando Aleksandr Solzhenitsyn pubblicò, sulla rivista Novy Mir, un racconto bruciante che descriveva la sofferenza nel gulag: "Una giornata nella vita di Ivan Denisovic". "Ma nessuno era mai del tutto sicuro di cosa sarebbe stato permesso o no, quale linea rossa avrebbero attraversato domani; di quale 'macroaggressione' o 'microaggressione' potevano essere reputati colpevoli".
  Se nelle prime generazioni dopo il 1917 la scelta era stata tra essere un credente e avere un "doppio pensiero", nella generazione di Natan Sharansky erano rimasti pochi credenti. "Il tuo campo visivo doveva essere davvero molto ristretto per vedere ancora la società in rovina intorno a te come una sorta di paradiso comunista. I miei colleghi stavano scegliendo tra 'doppio pensiero' e 'dissenso'. E' vero, dopo che il Partito si è allontanato dalla politica di epurazioni omicide di Stalin, il dissenso di solito ti costava la carriera o la libertà, non la vita. Tuttavia, pochi erano disposti a oltrepassare il confine tra 'doppio pensiero' e 'dissenso'".
  Tuttavia, era difficile individuare chi aveva scelto la doppiezza. "Chi osservava milioni di cittadini marciare lealmente nelle manifestazioni del 1° maggio, salutando i loro leader, concludevano che eravamo tutti veri credenti. La polizia segreta, tuttavia, sapeva quanto pochi fossero sinceri. Il Kgb così ha trasformato la nostra vita quotidiana in una serie di test. C'erano sondaggi costanti, alcuni sottili, altri diretti, per determinare la lealtà. Dovevi guardare la lingua, i gesti, le reazioni, le amicizie, perché 'loro' ti osservavano sempre". Poi entra in scena Andrei Sakharov, lo scienziato numero uno. "Nel maggio 1968, questo famoso scienziato fece circolare un manifesto di diecimila parole che distrusse la mia vita compiaciuta. 'La libertà intellettuale è essenziale per la società umana', dichiarò Sakharov. Denunciando coraggiosamente il controllo del pensiero sovietico, derise 'il dogmatismo ossificato di un'oligarchia burocratica e la sua arma preferita, la censura ideologica'. Sakharov aveva avvertito che la scienza sovietica era in pericolo senza 'la ricerca della verità'. Immaginava 'due sciatori che corrono nella neve'. Mentre lo sciatore sovietico aveva iniziato a raggiungere quello americano la nostra soffocante mancanza di libertà ci faceva crescere più lentamente. A quel tempo, erano pochi quelli che potevano capire la profondità di questa critica. Sakharov ci ha aiutato a capire che le restrizioni sovietiche al pensiero erano profonde. Gli scienziati sovietici passavano così tanto tempo a guardarsi le spalle negli specchietti retrovisori che non potevano correre in avanti e raggiungere i loro coetanei occidentali. Sakharov stava avvertendo me e i miei coetanei che non c'era nessun posto dove scappare per sfuggire alla realtà soffocante che aveva ostacolato il lavoro di mio padre".
  Sharansky dalla storia della sua famiglia trae delle conclusioni sull'attualità. "Puoi esprimere le tue opinioni ad alta voce, in pubblico, senza paura di essere punito formalmente o in altro modo? Se sì, vivi in una società libera; se no, vivi in una società della paura. In occidente oggi la pressione a conformarsi non viene dall'alto, i nostri leader politici non sono dittatori stalinisti. Viene dai fanatici intorno a noi, spesso tramite Twitter-Shaming, per spingere le persone al silenzio o a un finto conformismo politicamente corretto".
  Abbiamo bisogno di un Twitter Test che sfidi il totalitarismo culturale. "Nella società democratica in cui vivi, puoi esprimere le tue opinioni individuali ad alta voce, in pubblico e in privato, sui social media e nei raduni, senza paura di essere svergognato, scomunicato o cancellato? In definitiva, se vivi con un 'doppio pensiero' non dipende dalle autorità o dalle corporation che gestiscono le piattaforme: dipende da te. Ognuno di noi decide individualmente se vuole sottomettersi o spezzare le catene che ci impediscono di esprimerci".
  Mentre Sharansky si faceva la galera in quanto ebreo, Vladimir Bukovskij, che tra manicomio e carcere trascorse più anni della giovinezza da detenuto che da uomo libero, subiva una delle più dure condanne per reati politici mai inflitte dopo la morte di Stalin (dodici anni). E solo per avere organizzato dei reading di poesia. Anche lui, come Sharansky, sarà "ceduto" dall'Unione Sovietica all'occidente in cambio del leader comunista cileno Luis Corvalàn. E, come a Sharansky, neanche a Bukovskij piaceva come era diventato sempre meno libero quello che un tempo si chiamava, ammirandolo, il "mondo libero". "L'Unione Sovietica era uno stato governato dall'ideologia" dirà Bukovskij dal suo esilio a Cambridge. "Oggi osservo con molta attenzione come il politicamente corretto si diffonde e diventa un'ideologia oppressiva".

(Il Foglio, 16 febbraio 2021)


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