Notizie 1-15 gennaio 2017
Ucid: una serata interreligiosa nella Sinagoga di Milano
MONZA - Incontri interessanti ne fa davvero tanti. Ma l'Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) di Monza e Brianza settimana scorsa ha vissuto un'esperienza unica con la visita in Sinagoga e la cena con il Rabbino Capo Rav Pedatzur Arbib
Visitare una sinagoga e cenare con un rabbino non è certo cosa da tutti i giorni. Una serata prestigiosa e indimenticabile quella vissuta dai soci dell'Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) di Monza e Brianza che giovedì sono stati ospiti a Milano della comunità ebraica di via della Guastalla.
Una serata insieme al Rabbino Capo Rav Pedatzur Arbib che dopo aver aperto le porte della Sinagoga nel cuore di Milano ha illustrato la storia e le tradizioni del popolo ebraico rispondendo alle numerose curiosità degli ospiti. Una serata iniziata con un aperitivo in tipico stile "kasher" e poi proseguita con la visita del Tempio. Un tempio che risale all'Ottocento ma che è stato sottoposto a diversi interventi di restauro, gli ultimi negli anni Novanta.
"La comunità ebraica milanese è tra le più giovani in Italia - ha spiegato - Il primo tempio a Milano è quello di via Della Stampa, ricavato inizialmente nella casa del Rabbino, per poi svilupparsi e ampliarsi nel corso del tempo".
A Milano gli ebrei sono circa 8 mila, seconda comunità dopo quella di Roma. Ben più piccole rispetto alle grandi comunità presenti in Europa, soprattutto a Parigi e a Londra.
Un tuffo nella storia, nelle tradizioni e soprattutto nella cultura e nella quotidianità del popolo ebraico quella regalata dal Rabbino Capo agli ospiti brianzoli. Rav Pedatzur Arbib ha spiegato le regole principali della religione, l'organizzazione interna del Tempio, della società e in particolare della famiglia, ripercorrendo anche - ma solo marginalmente - il dramma della Shoah che ha visto lo sterminio di milioni di ebrei e la diaspora dalla propria terra.
Grande l'interesse soprattutto quando ha illustrato le ferree regole all'interno della società ebraica. "Un vecchio ebreo russo vissuto a lungo a Milano diceva che in una comunità ebraica se sei povero non ti fanno morire ma sei ricco non ti fanno vivere - ha spiegato - C'è una grande solidarietà interna, il ricco sa che deve dare, che deve aiutare". Tra gli aspetti fondanti anche quello della cultura. "Studiare non è una scelta ma fa parte della vita ebraica - ha precisato - Lo studio è di fondamentale importanza e il Rabbino è uno studioso che deve insegnare". La centralità del sapere e della conoscenza sono state espresse perfettamente da un altro aneddoto raccontato dal Rabbino Capo "l'ambizione del ricco ebreo polacco è che la figlia sposasse un uomo studioso".
Sfatando anche stereotipi intorno al popolo d'Israele. "In primis quello sulla ricchezza. Non tutti gli ebrei sono ricchi. La ricchezza non viene demonizzata ma il ricco sa che deve dare alla comunità". Altra idea diffusa ma non veritiera è quella dell'unità. "Il popolo ebraico ha un profondo senso di appartenenza - ha precisato - Ma anche una straordinaria capacità di litigare su qualsiasi cosa".
Un tuffo in una storia millenaria e in una cultura tanto diversa dalla nostra e molto affascinante che ha catalizzato l'attenzione degli ospiti che al termine della visita in Sinagoga si sono riuniti in un'altra sala per la cena "kasher" introdotta dalla duplice benedizione: quella ebraica del Rabbino e quella cattolica di Monsignor Silvano Provasi.
Numerose le domande al termine della cena: i rapporti con Israele, le regole pratiche che ogni giorno gli ebrei devono rispettare e la condizione della donna. Con una concezione di differenza tra i due sessi, tra loro comunque complementari. Con una divisione anche fisica all'interno della Sinagoga, con ruoli ben distinti anche se, sempre più spesso, importanti cariche accademiche vengono ricoperte dalle donne.
(Qui Brianza, 15 gennaio 2017)
Gli ebrei nel Salento: tracce di un connubio
di Rosario Coluccia
Nell'ultimo decennio del sec. XIV Sabatino Russo, un mercante ebreo di Lecce (più volte si autodefinisce «judìo de Leze» ), organizza con il veneziano Biagio Dolfin una società per commerciare in Levante. Dopo un avvio favorevole, il rapporto va male perché una nave carica di frumento, di formaggio e di carne salata destinati a essere venduti viene assaltata dai predoni: si trovava «ìntru lu portu di Nyrdò» (verosimilmente l'odierna Santa Maria al Bagno, o forse Santa Caterina), salpa per rifugiarsi a Taranto (luogo più sicuro, il Mar Piccolo si difende meglio), viene raggiunta dagli assalitori perché «mancò lu ventu e ffo bynaza» ('mancò il vento e fu bonaccia'), viene depredata, con conseguente perdita dell'intero carico (e quindi delle somme investite). Questi fatti vengono riferiti dallo stesso Sabatino Russo in cinque lettere, verosimilmente autografe, indirizzate a Biagio Dolfin in Venezia, nel periodo compreso tra il 7 maggio 1392 e il 18 ottobre 1403. Ma forse le cose non andarono proprio così. Sulla verità delle affermazioni del Russo insinua pesantissimi dubbi una sesta lettera di un altro scrivente salentino, Mosè de Meli (anch'egli ebreo, a giudicare dal nome), il quale rivela al veneziano Dolfin come in realtà il Russo l'abbia truffato, fingendo che ci sia stato il furto della merce e appropriandosi invece dei denari della compagnia.
Non sapremo mai come sono effettivamente andate le cose tanti secoli addietro, non esiste altra documentazione, oltre alle lettere di Sabatino Russo e di Mosè de Meli conservate nell'Archivio di Stato di Venezia. Nulla che ci aiuti a capire si trova a Lecce e in Salento, questa è una costante della nostra storia: pochissime sono le memorie scritte o i documenti rimasti in sede, moltissimo è andato disperso o distrutto. Quello che si è salvato si deve, paradossalmente, al fatto che sia stato portato o trafugato altrove, dove altri hanno saputo custodire e conservare quello che questa terra ha trascurato. Conclusione. La storia linguistica e culturale del Salento medievale non si può fare in loco, i documenti salentini da leggere e da studiare si trovano altrove, nella Biblioteca Apostolica Vaticana, nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, nella Biblioteca Comunale "Augusta'' di Perugia, nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, nella Bibliothèque Nationale de France a Parigi, o ancora più lontano.
In un'altra occasione spiegherò come questo sia accaduto: capire alcuni frammenti del passato serve a illuminare il presente, molto spesso la storia si ripete. Con questi presupposti potremmo chiederci se davvero oggi salvaguardiamo in maniera adeguata tradizioni, cultura e ambiente del Salento, di cui a parole meniamo vanto. Di questo vorrei che parlassero quelli che si candidano ad amministrare la città, ma non trovo nulla di concreto nei programmi dei possibili candidati. A proposito: sapranno esprimere candidati credibili ed efficienti i gruppi dirigenti delle parti in campo? Terranno alla larga arrivisti e imbroglioni? Non serve questo, più d'ogni cosa, alla città?
Torniamo ai nostri ebrei salentini dei secoli scorsi da cui siamo partiti. La storia dei gruppi di lingua ebraica stanziati in Salento si interseca di continuo con quella della popolazione locale e costituisce un fenomeno affascinante di convivenza, a volte non violenta a volte intollerante, di etnie diverse. Fin dall'alto Medio Evo (e anzi già da epoca tardo-latina), una fitta rete di insediamenti ebraici si dirama in tutto il Mezzogiorno e particolarmente in Puglia, terra che rappresenta un vero fulcro della vita culturale e religiosa degli ebrei italiani.
Nelle città pugliesi si esercita l'attività di grandi scuole talmudiche, si costituiscono importanti biblioteche, si scrivono opere cronachistiche e storiografiche, filosofiche, e nasce una poesia religiosa poco nota ma non indegna, dove affiora anche qualche personalità di un certo interesse. Alla fine del sec. XIII, sotto il governo degli Angioini, l'etnia ebraica viene sottoposta a persecuzione violenta. Il fatto determina la crisi di questo fiorente mondo culturale, in parte arginata nella seconda metà del Quattrocento, sotto il più tollerante dominio degli Aragonesi: al recupero del prestigio economico-sociale di tali comunità si accompagna una ripresa della produzione scrittoria.
Proprio in questo campo si segnala la figura del facoltoso leccese Abraham de Balmes, nel 1452 medico del principe Giovanni Antonio del Balzo Orsini (quello della Torre del Parco, per capirci), successivamente nelle grazie degli Aragonesi intorno al 1470 e morto nel 1488-89. Quasi sicuramente il personaggio va identificato in quel maestro Habraam medico leccese di cui il francescano Roberto Caracciolo (1425- 1495), uno dei più grandi predicatori del Quattrocento, amico di sovrani e di principesse, parla con tono greve in uno dei suoi accessi di polemica antiebraica contenuto in una sua opera teologica, lo Specchio della fede (1490). In questo scritto il Caracciolo insiste ripetutamente su temi antisemiti, e tra gli altri racconta il seguente episodio: «Ho provato io peccatore quanto puzano gli Iudei in due exempli. E lo primo exemplo fu trovandomi in Lezze: una donna Iudea mogliere di maestro Habraam medico, mi mandò a donare certe galline ben grasse, le quali io feci stare alcuni giorni e governarle bene, poi le volse mangiare. Quando furono poste in tavola mi venne tanto fetore che bisognò che le facesse portare via ( ... )». Considerate l'apologo. Gli ebrei, che non conoscono la vera fede, puzzano, addirittura puzzano le galline da loro donate: vanno insieme puzzo metaforico (la falsa fede) e puzzo reale (i corpi di uomini e di animali), tanto più repellenti se si pensa al profumo che si diffonde dal corpo incorrotto dei santi, anche dopo la morte.
Caracciolo faceva a suo modo il suo mestiere, si proponeva di difendere la fede cattolica denigrando volgarmente gli ebrei: non è un metodo elegante, ma ci siamo abituati. Nella vita reale, per interi secoli, gli ebrei hanno ricoperto a Lecce ruoli importanti nel contesto della vita cittadina, ce lo ricorda anche la toponomastica: via Abramo Balmes, via della Sinagoga, nell'area dell'antico ghetto ebraico ammiriamo ora la grandiosa basilica cattolica di Santa Croce. A un passo da Santa Croce sorge (e in parte s'interra) Palazzo Taurino, un bel museo che raccoglie le testimonianze della presenza ebraica in Salento, a partire dalle fasi remote.
Il museo è privato. Un gruppo di amici ha creato un allestimento permanente in grado di riportare alla luce le tracce dell'antico insediamento ebraico presente nella Lecce medievale; si è avvalso della collaborazione di esperti, in particolare di Fabrizio Lelli, che insegna Lingua e letteratura ebraica presso l'Università del Salento. I locali del museo sono quelli della antica Sinagoga. Il percorso del visitatore attraversa la sala delle vasche, la sala ipogea dei bagni, la sala del granaio, l'area dei laboratori; efficaci pannelli illustrativi bilingui in italiano e in inglese richiamano personaggi, testi, usanze, riti del popolo ebraico. In una sala in fondo, un video è dedicato alle vicende più recenti: alla fine della seconda guerra mondiale molti ebrei che si erano rifugiati in Salento coronarono il loro sogno, riuscirono a raggiungere il neonato stato d'Israele.
Ho consultato rapidamente un registro esposto al pubblico per raccogliere le firme e i commenti dei visitatori del museo. Molti stranieri, pochi italiani, ancor meno salentini e leccesi. Peccato, si può fare di più. La visita è interessante, mostra un pezzo semisconosciuto del nostro passato che è giusto conoscere. Per fortuna non sono poche le scuole che scelgono di visitare il museo, con l'aiuto dei responsabili del museo docenti illuminati guidano i ragazzi, spiegano, rispondono alle domande. Queste sì che sono gite d'istruzione.
(*) Professore Ordinario di Linguistica italiana e Accademico della Crusca
(Quotidiano di Puglia, 15 gennaio 2017)
Trovato in un campo di sterminio un ciondolo legato ad Anna Frank
Ricercatori dello Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, hanno reso noto oggi di aver trovato un ciondolo molto simile a quello di Anna Frank durante gli scavi nel campo di sterminio nazista a Sobibor, in Polonia.
Il ciondolo apparteneva a Karoline Cohn, nata, come la ragazzina del famoso e commovente diario, a Francoforte nel 1929 e morta proprio a Sobibor. I ricercatori fanno notare che non è mai stato trovato un altro ciondolo come questi due e ciò potrebbe far pensare che le due ragazzine siano state in qualche modo legate tra loro.
Il ciondolo di Karoline è triangolare e su un lato reca la scritta ebraica "Mazal Tov" ("Buona fortuna" in ebraico) e la sua data di nascita. Sull'altro lato ci sono tre Stelle di David e la lettera ebraica "?" che indica Dio.
L'Israel Antiquities Authority sta effettuando scavi a Sobibor dal 2007 e ha tra l'altro scoperto le fondamenta della camera a gas. Sono più di 250.000 gli ebrei che qui trovarono la morte.
(La Stampa, 15 gennaio 2017)
Netanyahu sulla Conferenza di Parigi: "Così non serve alla pace"
"Un completo caos su quale sarà la dichiarazione finale". Secondo le indiscrezioni riportate dai media israeliani, tra i diplomatici raccoltisi a Parigi in queste ore per la Conferenza di pace in Medio Oriente c'è una forte confusione su quale testo far emergere dal summit, organizzato dalla Francia e incentrato sulla questione del conflitto israelo-palestinese. Un vertice a cui partecipano i rappresentanti di oltre 70 paesi ma tra cui spicca l'assenza dei diretti interessati - israeliani e palestinesi - seppur per motivi diversi: se Abu Mazen ha appoggiato la Conferenza, definendola "l'ultima possibilità per portare avanti la soluzione dei due Stati", il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha invece sottolineato come si tratti di un incontro schiacciato sulle posizioni palestinesi e di fatto inutile. "L'unico scopo (della Conferenza) è quello di tentare di costringere Israele ad accettare condizioni in contrasto con i nostri interessi nazionali", ha affermato Netanyahu, spiegando che il summit "danneggia la possibilità della pace, in quanto rafforza il rifiuto dei palestinesi di negoziare e permette loro di ignorare la necessità di compromessi senza porre precondizioni". Il fatto che il ministro degli Esteri francesi Jean-Marc Ayrault abbia dichiarato che il punto di partenza della Conferenza sia la Risoluzione 2334 delle Nazioni Unite, - fortemente contestata da Gerusalemme e dalla larga maggioranza del mondo ebraico - evidenzia quale sia la direzione del summit e il perché delle affermazioni di Netanyahu.
Quello che chiede la diplomazia israeliana, anche attraverso i suoi canali social, è che da Parigi emerga una chiara dichiarazione contro l'istigazione alla violenza e al terrorismo da parte della realtà palestinese. Elemento su cui, tra le altre cose, la risoluzione 2334 dell'Onu non si è invece espressa.
(moked, 15 gennaio 2017)
Se il Papa abbraccia un falso uomo di pace
Aperta in Vaticano l'ambasciata di un Paese che non esiste e dove si vessano i cristiani
di Fiamma Nirenstein
Dopo lo stupefacente successo di pochi giorni fa all'Onu con la supervisione oculata di Obama, è difficile sottrarsi alla sensazione che la visita di Abu Mazen da Papa Francesco sulla strada per Parigi dove partecipa oggi alla Conferenza voluta dal presidente Hollande cui sono invitati più di 70 ministri degli esteri all'evidente scopo di mettere Israele all'angolo, non sia parte della medesima passeggiata trionfale per cui si sono mobilitati molti leader occidentali.
Perché per quanto si sventolino le bandiere della pace e della lotta al terrorismo, un'occhiata anche superficiale alla politica di Abu Mazen rende molto difficile pensare che papa Francesco possa credere, se ha dei consiglieri informati, di avere abbracciato ieri l'uomo della pace in Medio Oriente. Di più: che sia un gesto utile quello fatto ieri di aprire un'ambasciata della «Palestina» in Vaticano. Un Paese che per ora non esiste è stato riconosciuto con i crismi della diplomazia, mentre per riconoscere Israele ci sono voluti quasi cinquant'anni e la grande coscienza europea dolente di papa Giovanni Paolo.
Dunque Abu Mazen nell'ambito di un'offensiva diplomatica a 360 gradi ha varcato ieri le soglie del
Vaticano, ha ricevuto abbracci e doni e la garanzia che il Papa vede la Palestina come uno Stato già formato e Abu Mazen come un personaggio da sostenere, un capo di Stato. Ma il Papa, che è uomo di esperienza, sa bene di che Stato si tratta: Abu Mazen domina il suo popolo col pugno di ferro dal 2005, le elezioni si sarebbero dovute tenere nel 2009 e invece si sono perse di vista, nessun Paese moderno e democratico potrebbe sopportare il regime di milizie che domina i territori palestinesi. Il ministro degli esteri Angelino Alfano, anche lui incontratosi ieri con Abu Mazen, ha vantato il dono dell'Italia di 240 milioni dal 2005 in aiuti, ma è stato sempre impossibile verificarne a fondo l'autentico utilizzo, mentre la ricchezza della leadership palestinese è nota e ostentata.
La parola d'ordine sullo sfondo della visita è stata «pace» e lo slogan «guerra al terrorismo»: ma è impossibile credere a Abu Mazen come autentico sostenitore della guerra al terrore. Si possono, certo, riportare le citazioni del suo ufficiale cordoglio per le stragi dei camion di Nizza e di Berlino, ma niente del genere si è avuto per il camion di Gerusalemme. La società palestinese è impregnata dell'impronta filo terrorista datagli prima dalla politica di Arafat e poi da quella di Abu Mazen.
Altrettanto necessario quanto una vera richiesta di impegno di pace contro il terrorismo da parte del Papa, sarebbe stata una verifica migliore delle intenzioni palestinesi verso i cristiani: i rapporti sono drammatici anche se Abu Mazen va alla messa di Natale a Betlemme: qui i pochi superstiti (dall'86 per cento negli anni Cinquanta a circa il 10 per cento oggi) raccontano pesanti discriminazioni specie verso le donne. Tanti cronisti, fra cui la sottoscritta, ne hanno raccontato in presa diretta. È una storia che la Chiesa conosce bene. E tuttavia ha mandato Abu Mazen a Parigi con una nuova medaglia. Perché?
(il Giornale, 15 gennaio 2017)
Bergoglio ne ha combinata un'altra
di Riccardo Ghezzi
Ops, l'ha fatto di nuovo. Papa Francesco ne ha combinata un'altra delle sue. Bergoglio, voce dei cattolici di tutto il mondo, ha voluto entrare a gamba tesa nei delicati scenari politici internazionali, prendendo una posizione forte che ora, fatalmente, dovrà rappresentare la posizione di tutto il mondo cattolico.
No, non ci siamo. L'insistenza per incontrare il leader dell'Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, non è solo un colpo basso nei confronti di Israele e degli ebrei, ma una indebita ingerenza della Santa Sede in una questione in cui persino il diritto internazionale fatica a raccapezzarsi.
Papa Francesco infatti non ha voluto un semplice incontro di cortesia tra due leader mondiali, com'è prassi e anche bon ton, ma ha addirittura desiderato ufficializzare il riconoscimento dello stato palestinese da parte del Vaticano.
E' un atto simbolico, che non ha praticamente alcun valore. Ma che ha un significato preciso e importante. Riconoscere lo stato palestinese significa sostanzialmente uscire dalla neutralità nel conflitto arabo-israeliano, schierandosi dalla parte dei nemici di Israele.
Questo ad un anno dalla storica apertura tra cattolici ed ebrei, suffragata dalla visita di Papa Francesco alla sinagoga di Roma. Il riconoscimento dello stato palestinese non è un gesto di neutralità, perché significa anticipare il diritto internazionale e soprattutto riconoscere uno stato palestinese a prescindere, a scatola chiusa e senza garanzie. Ossia, riconoscerlo anche se non ci sarà certezza che i palestinesi abbandonino la strada del terrorismo e la politica di aggressione nei confronti di Israele, anche se non cesseranno i razzi di Hamas e non sarà smantellata l'organizzazione terroristica che governa a Gaza e neppure l'ala militare di Fatah che spadroneggia in West Bank. Significa riconoscere la legittimità della Palestina anche se i palestinesi si rifiuteranno di riconoscere Israele.
La Santa Sede non ha chiesto nulla in cambio ai palestinesi e ad Abu Mazen. Nessuna garanzia. Proprio per questo il riconoscimento dello stato palestinese è una pericolosa violazione della neutralità, oltre che un'indebita ingerenza politica.
(Sostenitori delle Forze dell'Ordine, 15 gennaio 2017)
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Nazioni buone e nazioni cattive
Per il bene di Israele e per la pace nel mondo
Riguardo a Israele le nazioni si dividono in due: quelle buone e quelle cattive. Le cattive lo vogliono distruggere, le buone lo vogliono educare. Al discoletto Israele le nazioni buone dicono: se non vuoi che le cattive ti distruggano, devi fare quello che ti diciamo noi. Col passare del tempo però le cattive diventano sempre più cattive e le buone sempre più preoccupate. Non della cattiveria delle cattive, perché loro, che sono buone, non si permettono di giudicare le cattive. Si preoccupano invece di quello che causa la cattiveria. E scoprono che la causa si trova in Israele.
Le nazioni buone però continuano a distinguersi dalle cattive, perché queste vogliono distruggere Israele, mentre loro lo vogliono salvare. Vogliono salvarlo da sé stesso, dalla sua insensatezza che lo porta ad irritare i suoi vicini e a renderli aggressivi, con il rischio di provocare una nuova strage di ebrei.
Le nazioni buone hanno due obiettivi, entrambi buoni: la salvezza degli ebrei e l'ottenimento della pace. Con la sua politica - dicono - Israele mette a rischio entrambe le cose. L'esempio più grave è l'ottusa caparbietà con cui si ostina a voler tenere nelle sue mani il governo dell'intera Gerusalemme. In questo modo gli israeliani mettono a repentaglio la stabilità del mondo e sé stessi, perché i primi a pagarne le spese sarebbero proprio loro.
Le nazioni buone avvertono allora l'obbligo morale di fare qualcosa, non per distruggere Israele, ma per il suo bene e per la pace nel mondo. Una cosa sembra a loro sempre più chiara: non è possibile continuare a lasciare nelle mani degli ebrei il governo di Gerusalemme perché - pensano - prima o poi le nazioni cattive si avventeranno contro Israele e cercheranno di strappargli di mano il governo della Città Santa, spiritualmente rivendicata da tre grandi religioni. Con insensata ostinazione gli israeliani continuano invece a considerare Gerusalemme l'unica, eterna e indivisibile capitale del loro stato, addossandosi così il carico di una tremenda responsabilità internazionale che può condurre alla distruzione del loro stato e alla fine della pace nel mondo.
Per sventare la minaccia di un'aggressione violenta a Israele da parte delle nazioni cattive, le nazioni buone si mobilitano allora per convincere le Nazioni Unite a farsi carico in proprio del governo di Gerusalemme, togliendolo dalle mani degli insensati ebrei. Naturalmente cercano di ottenere il risultato per vie pacifiche, perché loro sono buone, e quindi usano le usuali norme stabilite dal diritto internazionale per tentare di anticipare e sventare le iniziative violente delle nazioni cattive. Alla fine ci riescono e, sia pure con diverse motivazioni e diversi obiettivi, le Nazioni Unite, cioè quelle buone insieme a quelle cattive, chiedono a Israele di lasciare a loro il governo di Gerusalemme.
Anche in questo caso le nazioni buone cercano di ottenere il risultato con le buone, appunto perché sono buone. Le nazioni cattive invece dopo un po' di tempo perdono la pazienza e minacciano di ricorrere unilateralmente alle maniere cattive. Questo mette in allarme le nazioni buone, perché le nazioni cattive che, al contrario di loro, sono cattive, non vogliono la pace: loro vogliono semplicemente la distruzione di Israele. Le nazioni buone invece vogliono salvarlo, e salvare la pace nel mondo.
Alla fine le nazioni buone riescono a convincere le Nazioni Unite che per preservare la pace nel mondo minacciata dalla cocciutaggine di Israele non bisogna permettere che singole nazioni cattive si facciano giustizia da sé. Deve essere l'organizzazione delle Nazioni Unite, rappresentante legittima di tutti i popoli della terra, a farsi carico in proprio del governo di Gerusalemme, togliendolo dalle mani del ribelle Israele con un'operazione di polizia internazionale. Non saranno dunque singole nazioni cattive a scagliarsi contro Israele per motivi illegittimi, ma sarà l'insieme ordinato di tutte le Nazioni Unite della terra a muoversi in guerra contro Gerusalemme per motivi internazionalmente legittimi, cioè per il bene di Israele e per mantenere la pace nel mondo. M.C.
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Ferramenti, sopravvivere con la musica
Gli internati del campo in Calabria, uno dei più grandi voluti dal duce, svilupparono una vita comunitaria e artistica molto ricca
di Carlo Spartaco Capogreco (*)
In concomitanza con l'ingresso del Paese nella Seconda guerra mondiale, Mussolini fece internare in campi o in località appartate migliaia di individui, italiani e stranieri, "indesiderabili" o "pericolosi". In primo luogo "sudditi nemici", dissidenti ed appartenenti alle minoranze slovena e croata; ma anche gran parte degli ebrei fuggiti dalle persecuzioni hitleriane, ai quali, negli anni precedenti, il fascismo aveva consentito l'ingresso in Italia. Gli ebrei italiani, invece, non furono internati in quanto tali, ma solo se già segnalati per motivi politico-sociali. Peraltro, le leggi antisemite fasciste degli anni 1938-39, pur fortemente lesive dei diritti civili degli ebrei, non ne prevedevano, di per sé, l'internamento.
Nel dopoguerra italiano dalle tante rimozioni, gli studi sull'internamento fascista stentarono a farsi strada. E, tra essi, anche quelli su Ferramonti, il campo che accolse il maggior numero di ebrei. Difatti, la neonata Repubblica preferì avallare l'idea che i campi di concentramento - ricondotti, tutti quanti, al sito-archetipo del Lager - fossero, "di per sé", un fenomeno tedesco. Nel 1965, ad esempio, ad una delegazione slovena giunta in Italia per rendere omaggio alle spoglie mortali di 187 propri connazionali internati a Monigo, vicino a Treviso, le autorità locali non seppero dir nulla di quel campo, e neppure seppero indicare il luogo di sepoltura degli sloveni deceduti ... Negli anni Ottanta, finalmente, il dato storico dell'esistenza di campi italiani cominciò a farsi breccia nella coscienza civile e tra gli storici. Tuttavia, ricordo che nel 1987, quando l'editrice La Giuntina pubblicò il mio Ferramonti, tra quanti recensirono quel testo (il primo libro italiano che ricostruiva le vicende di un campo fascista), pochi riuscirono a sottrarsi al "filtro" dell'universo concentrazionario nazista; ad evitare di utilizzare termini come "Lager" o, addirittura, "campo di sterminio". «Un lager per ebrei, ma all'italiana»; «Così l'Italia "importò" i lager»; «Il lager della "buona sorte"»; «Un lager dal volto umano»; «Il lager della salvezza»; Una felice eccezione nei lager di sterminio»: questi, ad esempio, erano i titoli delle recensioni apparse, rispettivamente, sui quotidiani «Il Giorno» (il 17 maggio di quell'anno), «L'Unità» (il 25 maggio), «Il Giornale» (il 16 giugno), «Il Messaggero» (il 10 luglio), «La Nazione» (il 26 agosto), «il Manifesto» (il 10 dicembre). Iscrivendo, però, l'internamento fascista in un quadro "olocaustocentrico" (magari, solo per affermare che i campi italiani sono stati dei "non- Lager") non si può capire granché di Ferramonti e delle altre strutture d'internamento operanti in Italia negli anni 1940-1943. Che, semmai, andrebbero rapportate a Ventotene e all'istituto "autarchico" del confino di polizia, non certo al nazismo e ad Auschwitz.
Quello di Ferramonti, aperto il 20 giugno 1940 in un'area malarica del paesino di Tarsia (Cosenza), fu uno dei più grandi tra quei "campi del duce" gestiti dal ministero dell'Interno: in tutto 48, concepiti e strutturati dal capo della Polizia Bocchini sul modello delle colonie di confino, ma localizzati principalmente sulla terraferma. Costituito da novantadue baracche, il campo calabrese registrò una presenza media di circa 800 internati ed ebbe due principali peculiarità: fu uno dei pochi realizzati ad hoc, ed "accolse", in larga maggioranza, ebrei. Gli internati che vi passarono furono quasi quattromila, di entrambi i sessi, tra ebrei (più di tremilatrecento, stranieri o apolidi originari dell'Europa centro-orientale) ed "ariani" (cinesi, greci, francesi, ex jugoslavi, zingari e oppositori italiani). Complessivamente (per malattia o incidenti), persero la vita nel campo una quarantina d'internati, con tasso di mortalità (dell'ordine del cinque per mille annuo), non dissimile da quello medio dei paesi del circondario. Seppure non vadano trascurate le sofferenze psicologiche degli internati (in particolare degli ebrei, assillati dall'incertezza del domani e terrorizzati dall'idea della possibile deportazione), le condizioni di vita nei 48 campi del ministero dell'Interno, delineate dal Decreto del Duce del 4 settembre 1940, non furono particolarmente dure. Soprattutto se confrontate con quelle vigenti nei campi italiani a gestione militare, istituiti dopo l'occupazione della Jugoslavia (tra essi, quello di Monigo ), in alcuni dei quali si registrarono indici di mortalità, per fame e per stenti, davvero raccapriccianti.Nei campi del ministero dell'Interno, invece, gli internati poveri ricevevano un sussidio di sopravvivenza, e, salvo rare eccezioni, nessuno subì violenze da parte delle autorità e dei custodi. Gli internati ebrei, inoltre, potevano contare sull'aiuto della "Delasem", l'apposito ente assistenziale istituito dalle comunità israelitiche.
A Ferramonti, in particolare, nonostante la segregazione, la malaria e tante altre difficoltà, grazie alla presenza di pittori e musicisti di grande talento, si poté sviluppare una vita comunitaria ed artistico-musicale particolarmente ricca ed articolata. D'altronde, allora l'internamento fascista degli ebrei non era legato alla Shoah, come invece sarebbe stato, dal 10 novembre 1943, sotto il fascismo repubblicano di Salò e gli occupanti tedeschi, che avrebbero individuato in Fossoli il campo-crocevia della deportazione dall'Italia. Ferramonti, trovandosi al Sud, non visse, fortunatamente, quest'ultimo scenario: già il 14 settembre 1943, vi giunsero gli Alleati, e non pochi ebrei decisero di continuare a vivere nel campo, ora per displaced persons e gestito dagli angloamericani. Tra il 1943 e il 44, esso diventò la più fervente comunità ebraica d'Italia, ma cominciò subito a spopolarsi, a grandi gruppi o alla spicciolata: nel 1944, in particolare, 254 ebrei lasciarono il luogo per la Palestina ed altri 240 per gli Stati Uniti. Nel gennaio 1945, la prefettura di Cosenza dichiarò ufficialmente sciolto l'ex campo di concentramento, ma l'abbandono definitivo di Ferramonti, di fatto, si sarebbe realizzato alla fine dell'anno.
(*) Professore di Storia Contemporanea, Università della Calabria
(Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2017)
Israele teme che Trump possa spifferare i suoi segreti a Putin
L'intelligence israeliana teme Donald Trump possa fornire i dati sensibili che Tel Aviv ha condiviso con Washington negli ultimi 15 anni alla Russia. Lo riferisce il quotidiano britannico The Independent, citando il giornalista israeliano Ronen Bergman. Secondo un articolo di Bergman per il giornale israeliano Yediot Ahronot, i funzionari dei servizi segreti americani hanno recentemente incontrato in segreto le loro controparti israeliane per discutere lo stato attuale delle cose. Gli americani sostengono che Putin stia facendo leva su Trump, quindi le autorità israeliane dovrebbero prestare parecchia attenzione per quanto riguarda lo scambio di informazioni classificate con la Casa Bianca e il Consiglio Nazionale di Sicurezza. Inoltre, continua Bergman, agli israeliani è stato consigliato di non condividere tutti i dati confidenziali con la Casa Bianca fino a quando non sarà accertata la mancata esistenza di legami «inappropriati» tra Trump e Mosca. Israele è particolarmente preoccupato del fatto che i suoi segreti possano finire in Iran grazie ai buoni rapporti che Mosca ha con Teheran, sottolinea il giornalista.
(Sputnik Italia, 14 gennaio 2017)
Clusone come un campo di concentramento
di Nicola Andreoletti
«Internati liberi» è uno di quegli ossimori, contraddizioni in termini, che in certi casi gli uomini s'inventano forse nell'illusione di avere la coscienza meno sporca. Quale tipo di libertà possa avere un internato è facile da capire. E, difatti, gli ebrei che durante la seconda guerra mondiale in Italia avevano questo status erano stretti tra mille vincoli.
Dal 1941 al 1945 Clusone fu, in provincia di Bergamo, il centro abitato che ospitò il maggior numero di ebrei internati liberi. Ben 57. Il numero ha portato una ricercatrice cecoslovacca a scambiare la cittadina seriana per un campo di concentramento. Sulle vicende di queste persone getta per la prima volta un fascio di luce una ricerca curata da Mino Scandella. Il volume, pubblicato a fine 2016, è il decimo della collana «Quaderni di Clubi», della biblioteca di Clusone.
Come titolo è stato scelto «Ricordate che questo è stato», chiaro riferimento al «Meditate che questo è stato» della poesia con cui Primo Levi volle aprire il suo «Se questo è un uomo». Il lavoro di Mino Scandella è contestualizzato da una doppia introduzione: Mario Brusasco si concentra sulla «Persecuzione ebraica in Europa e in Italia»; Carla Polloni sugli «Ebrei nella Bergamasca tra persecuzione e accoglienza». Il volume è poi corredato dalle foto di Ilaria Poletti.
«La ricerca è iniziata abbastanza casualmente - spiega Mino Scandella -. Un gruppo di ciclisti clusonesi che ogni anno percorre itinerari piuttosto lunghi, anche in Europa, aveva deciso di andare ad Auschwitz. Mi ha chiesto qualche notizia sugli ebrei a Clusone. Sono andato nell'archivio comunale e ho trovato parecchi fascicoli sugli ebrei internati liberi. Prima ne ho parlato in una serata, poi il materiale è finito in questo volume».
Nel libro, Mino Scandella spiega anzitutto come queste persone giunsero a Clusone. «Nel giugno del 1941, pare su pressione del Vaticano, il regime fascista diede ai gruppi familiari internati nei campi di concentramento la possibilità di essere trasferiti in alcuni piccoli centri del nord Italia, come "internati liberi", con limitazioni della libertà personale e con una serie di altri divieti ma non più in campi di concentramento chiusi e custoditi».
Vennero scelti paesi lontani dalle vie di comunicazione principali, ma con la presenza di una caserma dei carabinieri. I centri turistici più importanti erano vietati agli ebrei, tranne in casi eccezionali, per motivi di salute. Ma, scarsi gli alloggi in altri paesi bergamaschi, la questura scelse anche Clusone, proprio per i posti disponibili in quanto centro di villeggiatura.
«Tutti gli internati al loro arrivo venivano schedati in una sorta di anagrafe provvisoria», si legge ancora nel libro. Proprio questi documenti, oltre settant'anni dopo, hanno permesso a Mino Scandella di ricostruire le loro vicende. L'autore si è fatto aiutare anche da libri che raccontano la storia di queste persone, da testimonianze, da cartoline e lettere. Come la corrispondenza tra Israel Zafran e l'allora parroco di Rovetta don Giuseppe Bravi, resa nota solo nel 2015 dalla nipote del sacerdote suor Carmela.
Don Bravi accolse due famiglie internate a Clusone e le protesse. «Non parlò mai con nessuno di ciò che aveva fatto per salvare gli ebrei in pericolo». Ma furono tante le persone che, a Clusone come nei paesi vicini, si comportarono allo stesso modo, «anteponendo alla prudenza, alla convenienza e al proprio interesse la voce della coscienza e il senso di umanità».
«Non ho potuto sapere quante furono, ma la loro generosità può avere aiutato gli ebrei "salvati" a riacquistare un po' di fiducia negli esseri umani», scrive ancora Mino Scandella. Allo stesso tempo, però, «Alice Redlich, la cui storia è stata raccontata in un libro dal figlio Riccardo Schwamenthal, «ricorda che a Clusone c'erano "tante carogne" che resero difficile il soggiorno ai confinati; si riferiva soprattutto ai notabili e alle autorità comunali».
Purtroppo, c'è stato anche chi non ha potuto raccontare la propria storia, perché la sua vita è finita sul binario morto di Auschwitz. È il caso del piccolo Harry Zeuger, che appena sceso dal treno finì direttamente alle camere a gas. Mino Scandella dedica a lui le ultime parole del libro: «Quando passo in Longarete penso a quel bambino che qui abitò e forse ebbe qualche momento felice giocando con i coetanei, prima del tragico epilogo della sua breve vita».
Il libro sarà presentato in occasione del Giorno della Memoria, venerdì 27 gennaio, alle 20,45, nella Sala Legrenzi di Palazzo Marinoni Barca (via Clara Maffei, 3).
(MyValley, 14 gennaio 2017)
Siena - Nuovo incontro in Sinagoga con il rabbino Crescenzo Piattelli
Domenica 15 gennaio un percorso di conoscenza su giustizia e responsabilità sociale nella tradizione ebraica.
Proseguono gli appuntamenti alla Sinagoga di Siena per approfondire la conoscenza dell'ebraismo. Domenica 15 gennaio alle 15.30 un incontro guidato dal rabbino Crescenzo Piattelli su Zedakà. Giustizia e responsabilità sociale nella tradizione ebraica.
Dopo la prima iniziativa dedicata al tema del calendario ebraico, questo nuovo incontro accende i riflettori sui precetti di Zedakà, (giustizia equilibratrice o equità) e Mishpàt (diritto), che ricoprono una straordinaria importanza nell'ebraismo e nella concezione ebraica del mondo.
(Siena Free, 14 gennaio 2017)
Perché Israele è contro la conferenza di Parigi sul Medio Oriente
Una fonte vicina al governo ci spiega perché boicottare il meeting francese che potrebbe diventare un processo a Gerusalemme.
di Daniel Mosseri
"Un'iniziativa controproducente. Quello di cui il mondo, noi e i palestinesi abbiamo bisogno è tutt'altro: e cioè il ritorno a negoziati diretti e senza precondizioni". Israele non partecipa alla Conferenza di pace per il medio oriente organizzata domenica 15 a Parigi dal governo francese. Al Foglio una fonte vicina al governo di Gerusalemme ha spiegato le non poche ragioni della decisione. Che non è ideologica: nella storia recente dello stato ebraico la partecipazione a forum internazionali sul medio oriente non è un tabù. Al contrario, il formato inaugurato nel 1991 con la conferenza di pace di Madrid ha portato in quattro anni alla ratifica del trattato di pace fra Israele e la Giordania. Da Madrid il negoziato diretto si trasferì in segreto a Oslo, sfociando nella creazione dell'Autorità palestinese (Ap) e la suddivisione di Gaza e West Bank in tre zone a diversi livelli di cogestione fra israeliani e palestinesi. Ancora nel 2007 le due parti sedevano una di fronte all'altra alla Conferenza di Annapolis, voluta da Condoleezza Rice. "Chiunque ci abbia portato a un tavolo negoziale, egiziani, giordani o americani, ci ha fatto parlare direttamente gli uni con gli altri". Ma se il presidente palestinese Mahmoud Abbas non è cambiato dal 2005, a cambiare è stata la sua strategia.
Oggi l'Ap punta alla creazione di uno stato palestinese non con il negoziato ma a suon di raccomandazioni dell'Onu. "A Parigi ci saranno una settantina di paesi; nel migliore dei casi molti di questi non hanno nulla a che vedere con il conflitto israelo-palestinese; nel peggiore, hanno invece interesse a che il problema non sia risolto". Il governo Netanyahu non salva nulla dell'appuntamento voluto dal Quai d'Orsay. La stessa scelta di Parigi, tradizionalmente vicina al mondo arabo, avvalora la tesi della pace imposta dall'alto. Anche i tempi dell'appuntamento sono considerati sbagliati: la conferenza si tiene cinque giorni prima dell'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Per l'America ci sarà il segretario di stato uscente John Kerry - reduce da uno scontro verbale all'arma bianca con il premier Netanyahu - "ma per noi l'opinione dell'Amministrazione entrante resta di grande importanza".
Israele teme un processo e una sentenza di condanna sulla falsariga di quelle ciclicamente comminate dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu. "Oggi è invece tempo che il mondo si rivolga ai palestinesi dicendo: se volete la pace dovete tornare al tavolo con Israele, riconoscerlo come stato ebraico e mettere fine alla propaganda d'odio" che informa le attività in arabo dell'Ap, dai programmi scolastici in poi. E' la stessa risoluzione 242 dell'Onu, ricorda ancora la fonte, a chiedere che lo stato palestinese sia fondato su relazioni pacifiche con Israele: "Diversamente vuol dire che stai preparando una nuova guerra". Gerusalemme respinge anche l'accusa di minare la pace con la politica degli insediamenti. "Non dobbiamo dimostrare a nessuno che siamo pronti al compromesso: abbiamo restituito il Sinai all'Egitto, siamo usciti dalla Striscia di Gaza. Quello che ci manca è un partner per la pace. Nel 2009 abbiamo congelato gli insediamenti per dieci mesi ma Abbas non è tornato al tavolo lo stesso". Rafforzata dai successi diplomatici all'Unesco e all'Onu, l'Ap chiede che l'espansione israeliana nella West Bank sia stralciata dal negoziato e bloccata dall'esterno. Per Israele, invece, gli insediamenti sono con i profughi, i confini e Gerusalemme "solo una delle questioni sulle quali dobbiamo discutere. Insieme".
(Il Foglio, 14 gennaio 2017)
Una conferenza sbagliata, nel momento sbagliato
Finché i palestinesi si rifiutano di negoziare, e di riconoscere Israele come stato ebraico, piani e conferenze internazionali non possono produrre la pace.
E' facile per il mondo dare la colpa di tutti i suoi problemi a Israele. E' facile, per molti leader, incolpare Israele per il fallimento del processo di pace con i palestinesi. E' facile, ma non è giusto. Ed è anche un grosso sbaglio.
E' facile anche pensare che la comunità internazionale, le organizzazioni multilaterali come l'Onu e le conferenze internazionali possano imporre una soluzione alle parti e, voilà, tutti i conflitti saranno risolti. Ma se le parti non sono disponibili, se i conflitti non sono al momento risolvibili, non c'è soluzione possibile. In realtà la pace, una vera pace duratura, non può che essere il risultato di negoziati diretti tra le parti coinvolte e di accordi da esse raggiunti liberamente. La pace tra israeliani e palestinesi non ha bisogno di altri piani o di conferenze come quella che si terrà a Parigi domenica 15 gennaio. Quello di cui ha bisogno è di due parti veramente impegnate e pronte a negoziare....
(israele.net, 13 gennaio 2017)
Francia sottomessa
Non oppressi ma oppressori, così gli islamici hanno conquistato culturalmente il paese. Un'inchiesta
di Giuliano Ferrara
La Le Pen è stata tenuta in caffetteria alla Trump Tower, meno di Salvini che riuscì a spacciarsi per amico selfista del Cialtrone in chief, ma per la sua campagna elettorale, non si sa mai. E' uscito con clamore un libro importante, che potrebbe pesare. "La Francia sottomessa" è il suo titolo. Autore Georges Bensoussan, un ebreo marocchino di grande talento, storico riconosciuto della Shoah, del sionismo e dell'antisemitismo europeo, e antropologo di rilievo non solo accademico, intellettuale combattivo ma estraneo al discrimine destra-sinistra, almeno nei suoi termini autentici (le caricature e le denigrazioni sono altra cosa). Bensoussan, con l'aiuto di un gruppo di collaboratori, ha cercato per diciotto mesi di dare voce a quelli che non hanno voce, che non è la solita solfa dei senza potere. E' roba seria. Sharia, costumi islamici dominanti, intolleranze salafite negli ospedali, nei tribunali, negli uffici pubblici, nelle scuole, nei territori delle banlieue che una volta erano rosse e ora sono verdi, come il verde dell'islam.
Un'inchiesta con i fiocchi, tra sociologia e giornalismo, qui la chiamano storia immediata. Gli oppressi e i discriminati, obiettivi del "razzismo" e dell'islamofobia, ritratti come potenziali o reali oppressori che si muovono all'ombra dell'ideologia che li vittimizza e mostra la debolezza di un'eredità culturale e di un'identità nazionale in ritirata. La prima puntata era stata un caso enorme. Si chiamava "I territori perduti della République", e sollevava il tema dell'antisemitismo islamista politico quattordici anni prima dell'attentato all'Hypercacher e quattro anni prima del rapimento, tortura e assassinio del giovane ebreo Ilan Halimi in una banlieue carceraria alle porte di Parigi. All'epoca Mohammed Merah, ricorda sul Figaro Alexandre Devecchio, frequentava le scuole di odio dei territori perduti, e nel 2012 ucciderà soldati francesi e bambini ebrei davanti a una scuola giudaica di Tolosa e a Montauban. Ora a due anni da Charlie Hebdo, a un anno e poco più dal massacro del 13 novembre, dopo Nizza e lo sventramento di padre Hamel a Saint-Etienne-du-Rouvray, e in vista dello scontro su chi comanderà le istituzioni in Francia, questa inchiesta promette di essere più che un caso, una bomba. Non è cambiato niente, dice Bensoussan, tutto è peggiorato. C'era già un ritardo di vent'anni, ora la Francia sottomessa si vede a occhio nudo, e fa paura. Si vede per chi vuole vedere. Un proverbio hindu, ricorda l'autore, dice: "Raccontami belle storie e io ti crederò".
Ecco, non sono belle storie. Tra le élite mediatiche, il ceto politico gauchiste e moderato e la massa del popolo, comprese le classi medie, secondo Bensoussan, si è scavato un fossato. L'accusa di islamofobia e di razzismo fa paura: ostracismo sociale e intellettuale. Fa paura la reazione violenta degli islamisti: la maggioranza delle testimonianze raccolte sul campo è sotto pseudonimo. Fa paura la crisi degli schemi intellettuali e morali sui quali tanti hanno costruito le loro vite, spesso protette in quartieri ancora impermeabili alla presa di potere, dal basso, sociale, di islamici che odiano la Francia e il suo modo di vita e vogliono sottometterla con una "contaminazione lenta", progressiva. Paura del pericolo: negarlo, nasconderlo sembra un modo di farlo sparire. La chiave interpretativa non è nuova, in particolare per i lettori di questo giornale e dei libri di Giulio Meotti: chi odia la società aperta, egualitaria, antirazzista, non sessista, liberale libertaria libertina, secolarizzata e illuminata fino alla completa scristianizzazione, sa usare le sue armi democratiche, persino quelle del jihad giudiziario, per scassinarla e sopprimerla.
Elisabeth Badinter, letterata, femminista, grande imprenditrice, musa ispiratrice di una gauche consapevole di sé, ha scritto la prefazione drammatica a un libro tragico e disperato. Finkielkraut lo accoglie con malinconia e passione. Vedremo come ne accoglieranno le diagnosi, i fatti accertati, il panorama tremendo che ne esce, gli elettori della presidenziale. Il silenzio, la denigrazione, il rifiuto pregiudiziale non sembrano più compatibili con la realtà del discorso pubblico in Francia. Ma c'è sempre modo di chiudere gli occhi, di voltarsi da un'altra parte e fare tante chiacchiere sul salario universale per tutti, il "farniente" come nuova prospettiva liberal-gauchista: "Proletari di tutti i paesi, riposatevi!".
(Il Foglio, 14 gennaio 2017)
"Solo un cieco può negare che nella Chiesa ci sia grande confusione"
Intervista al cardinale Caffarra. "La divisione tra pastori è la causa della lettera che abbiamo spedito a Francesco. Non il suo effetto. Insulti e minacce di sanzioni canoniche sono cose indegne". "Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è più pastorale, è solo più ignorante".
di Matteo Matzuzzi
BOLOGNA - "Credo che vadano chiarite diverse cose. La lettera - e i dubia allegati - è stata lungamente riflettuta, per mesi, e lungamente discussa tra di noi. Per quanto mi riguarda, è stata anche lungamente pregata davanti al Santissimo Sacramento". Il cardinale Carlo Caffarra premette questo, prima di iniziare la lunga conversazione con il Foglio sull'ormai celebre lettera "dei quattro cardinali" inviata al Papa per chiedergli chiarimenti in relazione ad Amoris laetitia, l'esortazione che ha tirato le somme del doppio Sinodo sulla famiglia e che tanto dibattito - non sempre con garbo ed eleganza - ha scatenato dentro e fuori le mura vaticane. "Eravamo consapevoli che il gesto che stavamo compiendo era molto serio. Le nostre preoccupazioni erano due. La prima era di non scandalizzare i piccoli nella fede. Per noi pastori questo è un dovere fondamentale. La seconda preoccupazione era che nessuna persona, credente o non credente, potesse trovare nella lettera espressioni che anche lontanamente suonassero come una benché minima mancanza di rispetto verso il Papa. Il testo finale quindi è il frutto di parecchie revisioni: testi rivisti, rigettati, corretti". Fatte queste premesse, Caffarra entra in materia.
"Che cosa ci ha spinto a questo gesto? Una considerazione di carattere generale-strutturale e una di carattere contingente-congiunturale. Iniziamo dalla prima. Esiste per noi cardinali il dovere grave di consigliare il Papa nel governo della Chiesa. E' un dovere, e i doveri obbligano. Di carattere più contingente, invece, vi è il fatto - che solo un cieco può negare - che nella Chiesa esiste una grande confusione, incertezza, insicurezza causate da alcuni paragrafi di Amoris laetitia. In questi mesi sta accadendo che sulle stesse questioni fondamentali riguardanti l'economia sacramentale (matrimonio, confessione ed eucaristia) e la vita cristiana, alcuni vescovi hanno detto A, altri hanno detto il contrario di A. Con l'intenzione di interpretare bene gli stessi testi".
E "questo è un fatto, innegabile, perché i fatti sono testardi, come diceva David Hume. La via di uscita da questo 'conflitto di interpretazioni' era il ricorso ai criteri interpretativi teologici fondamentali, usando i quali penso che si possa ragionevolmente mostrare che Amoris laetitia non contraddice Familiaris consortio. Personalmente, in incontri pubblici con laici e sacerdoti ho sempre seguito questa via". Non è bastato, osserva l'arcivescovo emerito di Bologna. "Ci siamo resi conto che questo modello epistemologico non era sufficiente. Il contrasto tra queste due interpretazioni continuava. C'era un solo modo per venirne a capo: chiedere all'autore del testo interpretato in due maniere contraddittorie qual è l'interpretazione giusta. Non c'è altra via. Si poneva, di seguito, il problema del modo con cui rivolgersi al Pontefice. Abbiamo scelto una via molto tradizionale nella Chiesa, i cosiddetti dubia".
Perché? "Perché si trattava di uno strumento che, nel caso in cui secondo il suo sovrano giudizio il Santo Padre avesse voluto rispondere, non lo impegnava in risposte elaborate e lunghe. Doveva solo rispondere Sì o No. E rimandare, come spesso i Papi hanno fatto, ai provati autori (in gergo: probati auctores) o chiedere alla Dottrina della fede di emanare una dichiarazione congiunta con cui spiegare il Sì o il No. Ci sembrava la via più semplice. L'altra questione che si poneva era se farlo in privato o in pubblico. Abbiamo ragionato e convenuto che sarebbe stata una mancanza di rispetto rendere tutto pubblico fin da subito. Così si è fatto in modo privato, e solo quando abbiamo avuto la certezza che il Santo Padre non avrebbe risposto, abbiamo deciso di pubblicare".
E' questo uno dei punti su cui maggiormente s'è discusso, con relative polemiche assortite. Da ultimo, è stato il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto dell'ex Sant'Uffizio, a giudicare sbagliata la pubblicazione della lettera. Caffarra spiega: "Abbiamo interpretato il silenzio come autorizzazione a proseguire il confronto teologico. E, inoltre, il problema coinvolge così profondamente sia il magistero dei vescovi (che, non dimentichiamolo, lo esercitano non per delega del Papa ma in forza del sacramento che hanno ricevuto) sia la vita dei fedeli. Gli uni e gli altri hanno diritto di sapere. Molti fedeli e sacerdoti dicevano 'ma voi cardinali in una situazione come questa avete l'obbligo di intervenire presso il Santo Padre. Altrimenti per che cosa esistete se non aiutate il Papa in questioni così gravi?'. Cominciava a farsi strada lo scandalo di molti fedeli, quasi che noi ci comportassimo come i cani che non abbaiano di cui parla il Profeta. Questo è quanto sta dietro a quelle due pagine".
Eppure le critiche sono piovute, anche da confratelli vescovi o monsignori di curia: "Alcune persone continuano a dire che noi non siamo docili al magistero del Papa. E' falso e calunnioso. Proprio perché non vogliamo essere indocili abbiamo scritto al Papa. Io posso essere docile al magistero del Papa se so cosa il Papa insegna in materia di fede e di vita cristiana. Ma il problema è esattamente questo: che su dei punti fondamentali non si capisce bene che cosa il Papa insegna, come dimostra il conflitto di interpretazioni fra vescovi. Noi vogliamo essere docili al magistero del Papa, però il magistero del Papa deve essere chiaro. Nessuno di noi - dice l'arcivescovo emerito di Bologna - ha voluto 'obbligare' il Santo Padre a rispondere: nella lettera abbiamo parlato di sovrano giudizio. Semplicemente e rispettosamente abbiamo fatto domande. Non meritano infine attenzione le accuse di voler dividere la Chiesa. La divisione, già esistente nella Chiesa, è la causa della lettera, non il suo effetto. Cose invece indegne dentro la Chiesa sono, in un contesto come questo soprattutto, gli insulti e le minacce di sanzioni canoniche". Nella premessa alla lettera si constata "un grave smarrimento di molti fedeli e una grande confusione in merito a questioni assai importanti per la vita della Chiesa".
In che cosa consistono, nello specifico, la confusione e lo smarrimento? Risponde Caffarra: "Ho ricevuto la lettera di un parroco che è una fotografia perfetta di ciò che sta accadendo. Mi scriveva: 'Nella direzione spirituale e nella confessione non so più che cosa dire. Al penitente che mi dice: vivo a tutti gli effetti come marito con una donna che è divorziata e ora mi accosto all'eucarestia, propongo un percorso, in ordine a correggere questa situazione. Ma il penitente mi ferma e risponde subito: guardi, padre, il Papa ha detto che posso ricevere l'eucaristia, senza il proposito di vivere in continenza. Io non ne posso più di questa situazione. La Chiesa mi può chiedere tutto, ma non di tradire la mia coscienza. E la mia coscienza fa obiezione a un supposto insegnamento pontificio di ammettere all'eucaristia, date certe circostanze, chi vive more uxorio senza essere sposato'. Così scriveva il parroco. La situazione di molti pastori d'anime, intendo soprattutto i parroci - osserva il cardinale - è questa: si ritrovano sulle spalle un peso che non sono in grado di portare. E' a questo che penso quando parlo di grande smarrimento. E parlo dei parroci, ma molti fedeli restano ancor più smarriti. Stiamo parlando di questioni che non sono secondarie. Non si sta discutendo se il pesce rompe o non rompe l'astinenza. Si tratta di questioni gravissime per la vita della Chiesa e per la salvezza eterna dei fedeli. Non dimentichiamolo mai: questa è la legge suprema nella Chiesa, la salvezza eterna dei fedeli. Non altre preoccupazioni. Gesù ha fondato la sua Chiesa perché i fedeli abbiano la vita eterna, e l'abbiano in abbondanza".
La divisione cui si riferisce il cardinale Carlo Caffarra è originata innanzitutto dall'interpretazione dei paragrafi di Amoris laetitia che vanno dal numero 300 al 305. Per molti, compresi diversi vescovi, qui si trova la conferma di una svolta non solo pastorale bensì anche dottrinale. Altri, invece, che il tutto sia perfettamente inserito e in continuità con il magistero precedente. Come si esce da tale equivoco? "Farei due premesse molto importanti. Pensare una prassi pastorale non fondata e radicata nella dottrina significa fondare e radicare la prassi pastorale sull'arbitrio. Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è una Chiesa più ignorante. La Verità di cui noi parliamo non è una verità formale, ma una Verità che dona salvezza eterna: Veritas salutaris, in termini teologici. Mi spiego. Esiste una verità formale. Per esempio, voglio sapere se il fiume più lungo del mondo è il Rio delle Amazzoni o il Nilo. Risulta che è il Rio delle Amazzoni. Questa è una verità formale. Formale significa che questa conoscenza non ha nessuna relazione con il mio modo di essere libero. Anche se la risposta fosse stata il contrario, non sarebbe cambiato nulla sul mio modo di essere libero. Ma ci sono verità che io chiamo esistenziali. Se è vero - come Socrate aveva già insegnato - che è meglio subire un'ingiustizia piuttosto che compierla, enuncio una verità che provoca la mia libertà ad agire in modo molto diverso che se fosse vero il contrario. Quando la Chiesa parla di verità - aggiunge Caffarra - parla di verità del secondo tipo, la quale, se obbedita dalla libertà, genera la vera vita. Quando sento dire che è solo un cambiamento pastorale e non dottrinale, o si pensa che il comandamento che proibisce l'adulterio sia una legge puramente positiva che può essere cambiata (e penso che nessuna persona retta possa ritenere questo), oppure significa ammettere sì che il triangolo ha generalmente tre lati, ma che c'è la possibilità di costruirne uno con quattro lati. Cioè, dico una cosa assurda. Già i medievali, dopotutto, dicevano: theoria sine praxi, currus sine axi; praxis sine theoria, caecus in via".
La seconda premessa che l'arcivescovo di Bologna fa riguarda "il grande tema dell'evoluzione della dottrina, che ha sempre accompagnato il pensiero cristiano. E che sappiamo è stato ripreso in maniera splendida dal beato John Henry Newman. Se c'è un punto chiaro, è che non c'è evoluzione laddove c'è contraddizione. Se io dico che s è p e poi dico che s non è p, la seconda proposizione non sviluppa la prima ma la contraddice. Già Aristotile aveva giustamente insegnato che enunciare una proposizione universale affermativa (e. g. ogni adulterio è ingiusto) e allo stesso tempo una proposizione particolare negativa avente lo stesso soggetto e predicato (e. g. qualche adulterio non è ingiusto), non si fa un'eccezione alla prima. La si contraddice. Alla fine, se volessi definire la logica della vita cristiana, userei l'espressione di Kierkegaard: 'Muoversi sempre, rimanendo sempre fermi nello stesso punto'".
Il problema, aggiunge il porporato, "è di vedere se i famosi paragrafi nn. 300-305 di Amoris laetitia e la famosa nota n. 351 sono o non sono in contraddizione con il magistero precedente dei Pontefici che hanno affrontato la stessa questione. Secondo molti vescovi, è in contraddizione. Secondo molti altri vescovi, non si tratta di contraddizione ma di uno sviluppo. Ed è per questo che abbiamo chiesto una risposta al Papa". Si arriva così al punto più conteso e che tanto ha animato le discussioni sinodali: la possibilità di concedere ai divorziati e risposati civilmente il riaccostamento all'eucaristia. Cosa che non trova esplicitamente spazio in Amoris laetitia, ma che a giudizio di molti è un fatto implicito che rappresenta nulla di più se non un'evoluzione rispetto al n. 84 dell'esortazione Familiaris consortio di Giovanni Paolo II.
"Il problema nel suo nodo è il seguente", argomenta Caffarra: "Il ministro dell'eucaristia (di solito il sacerdote) può dare l'eucaristia a una persona che vive more uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, e non intende vivere nella continenza? Le risposte sono solo due: Sì oppure No. Nessuno per altro mette in questione che Familiaris consortio, Sacramentum unitatis, il Codice di diritto canonico, e il Catechismo della Chiesa cattolica alla domanda suddetta rispondano No. Un No valido finché il fedele non propone di abbandonare lo stato di convivenza more uxorio. Amoris laetitia ha insegnato che, date certe circostanze precise e fatto un certo percorso, il fedele potrebbe accostarsi all'eucaristia senza impegnarsi alla continenza? Ci sono vescovi che hanno insegnato che si può. Per una semplice questione di logica, si deve allora anche insegnare che l'adulterio non è in sé e per sé male. Non è pertinente appellarsi all'ignoranza o all'errore a riguardo dell'indissolubilità del matrimonio: un fatto purtroppo molto diffuso. Questo appello ha un valore interpretativo, non orientativo. Deve essere usato come metodo per discernere l'imputabilità delle azioni già compiute, ma non può essere principio per le azioni da compiere. Il sacerdote - dice il cardinale - ha il dovere di illuminare l'ignorante e correggere l'errante".
"Ciò che invece Amoris laetitia ha portato di nuovo su tale questione, è il richiamo ai pastori d'anime di non accontentarsi di rispondere No (non accontentarsi però non significa rispondere Sì), ma di prendere per mano la persona e aiutarla a crescere fino al punto che essa capisca che si trova in una condizione tale da non poter ricevere l'eucaristia, se non cessa dalle intimità proprie degli sposi. Ma non è che il sacerdote possa dire 'aiuto il suo cammino dandogli anche i sacramenti'. Ed è su questo che nella nota n. 351 il testo è ambiguo. Se io dico alla persona che non può avere rapporti sessuali con colui che non è suo marito o sua moglie, però per intanto, visto che fa tanto fatica, può averne
solo uno anziché tre alla settimana, non ha senso; e non uso misericordia verso questa persona. Perché per porre fine a un comportamento abituale - un habitus, direbbero i teologi - occorre che ci sia il deciso proposito di non compiere più nessun atto proprio di quel comportamento. Nel bene c'è un progresso, ma fra il lasciare il male e iniziare a compiere il bene, c'è una scelta istantanea, anche se lungamente preparata. Per un certo periodo Agostino pregava: 'Signore, dammi la castità, ma non subito'". A scorrere i dubia, pare di comprendere che in gioco, forse più di Familiaris consortio, ci sia Veritatis splendor. E' così?
"Sì", risponde Carlo Caffarra. "Qui è in questione ciò che insegna Veritatis splendor. Questa enciclica (6 agosto 1993) è un documento altamente dottrinale, nelle intenzioni del Papa san Giovanni Paolo II, al punto che - cosa eccezionale ormai nelle encicliche - è indirizzata solo ai vescovi in quanto responsabili della fede che si deve credere e vivere (cfr. no 5). A essi, alla fine, il Papa raccomanda di essere vigilanti circa le dottrine condannate o insegnate dall'enciclica stessa. Le une perché non si diffondano nelle comunità cristiane, le altre perché siano insegnate (cfr. no 116). Uno degli insegnamenti fondamentali del documento è che esistono atti i quali possono per se stessi ed in se stessi, a prescindere dalle circostanze in cui sono compiuti e dallo scopo che l'agente si propone, essere qualificati disonesti. E aggiunge che negare questo fatto può comportare di negare senso al martirio (cfr. nn. 90-94). Ogni martire infatti - sottolinea l'arcivescovo emerito di Bologna - avrebbe potuto dire: 'Ma io mi trovo in una circostanza
in tali situazioni per cui il dovere grave di professare la mia fede, o di affermare l'intangibilità di un bene morale, non mi obbliga più'. Si pensi alle difficoltà che la moglie di Tommaso Moro faceva a suo marito già condannato in prigione: 'Hai doveri verso la famiglia, verso i figli'. Non è, quindi, solo un discorso di fede. Anche se uso la sola retta ragione, vedo che negando l'esistenza di atti intrinsecamente disonesti, nego che esista un confine oltre il quale i potenti di questo mondo non possono e non devono andare. Socrate è stato il primo in occidente a comprendere questo. La questione dunque è grave, e su questo non si possono lasciare incertezze. Per questo ci siamo permessi di chiedere al Papa di fare chiarezza, poiché ci sono vescovi che sembrano negare tale fatto, richiamandosi ad Amoris laetitia. L'adulterio infatti è sempre rientrato negli atti intrinsecamente cattivi. Basta leggere quanto dice Gesù al riguardo, san Paolo e i comandamenti dati a Mosè dal Signore". Ma c'è ancora spazio, oggi, per gli atti cosiddetti "intrinsecamente cattivi". O, forse, è tempo di guardare più all'altro lato della bilancia, al fatto che tutto, dinanzi a Dio, può essere perdonato?
Attenzione, dice Caffarra: "Qui si fa una grande confusione. Tutti i peccati e le scelte intrinsecamente disoneste possono essere perdonate. Dunque 'intrinsecamente disonesti' non significa 'imperdonabili'. Gesù tuttavia non si accontenta di dire all'adultera: 'Neanch'io ti condanno'. Le dice anche: 'Va' e d'ora in poi non peccare più' (Gv. 8,10). San Tommaso, ispirandosi a sant'Agostino, fa un commento bellissimo, quando scrive che 'Avrebbe potuto dire: va' e vivi come vuoi e sii certa del mio perdono. Nonostante tutti i tuoi peccati, io ti libererò dai tormenti dell'inferno. Ma il Signore che non ama la colpa e non favorisce il peccato, condanna la colpa
dicendo: e d'ora in poi non peccare più. Appare così quanto sia tenero il Signore nella sua misericordia e giusto nella sua Verità' (cfr. Comm. a Gv. 1139). Noi siamo veramente, non per modo di dire, liberi davanti al Signore. E quindi il Signore non ci butta dietro il suo perdono. Ci deve essere un mirabile e misterioso matrimonio tra l'infinita misericordia di Dio e la libertà dell'uomo, il quale deve convertirsi se vuole essere perdonato".
Chiediamo al cardinale Caffarra se una certa confusione non derivi anche dalla convinzione, radicata pure tra tanti pastori, che la coscienza sia una facoltà per decidere autonomamente riguardo ciò che è bene e ciò che è male, e che in ultima istanza la parola decisiva spetti alla coscienza del singolo. "Ritengo che questo sia il punto più importante di tutti", risponde. "E' il luogo dove ci incontriamo e scontriamo con la colonna portante della modernità. Cominciamo col chiarire il linguaggio. La coscienza non decide, perché essa è un atto della ragione; la decisione è un atto della libertà, della volontà. La coscienza è un giudizio in cui il soggetto della proposizione che lo esprime è la scelta che sto per compiere o che ho già compiuto, e il predicato è la qualificazione morale della scelta. E' dunque un giudizio, non una decisione. Naturalmente, ogni giudizio ragionevole si esercita alla luce di criteri, altrimenti non è un giudizio, ma qualcosa d'altro. Criterio è ciò in base a cui io affermo ciò che affermo e nego ciò che nego. A questo punto risulta particolarmente illuminante un passaggio del Trattato sulla coscienza morale del beato Rosmini: 'C'è una luce che è nell'uomo e c'è una luce che è l'uomo. La luce che è nell'uomo è la legge di Verità e la grazia. La luce che è l'uomo è la retta coscienza, poiché l'uomo diventa luce quando partecipa alla luce della legge di Verità mediante la coscienza a quella luce confermata'. Ora, di fronte a questa concezione della coscienza morale si oppone la concezione che erige come tribunale inappellabile della bontà o malizia delle proprie scelte la propria soggettività. Qui, per me - dice il porporato - c'è lo scontro decisivo tra la visione della vita che è propria della Chiesa (perché è propria della Rivelazione divina) e la concezione della coscienza propria della modernità".
"Chi ha visto questo in maniera lucidissima - aggiunge - è stato il beato Newman. Nella famosa Lettera al duca di Norfolk, dice: 'La coscienza è un vicario aborigeno del Cristo. Un profeta nelle sue informazioni, un monarca nei suoi ordini, un sacerdote nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi. Per il gran mondo della filosofia di oggi, queste parole non sono che verbosità vane e sterili, prive di un significato concreto. Al tempo nostro ferve una guerra accanita, direi quasi una specie di cospirazione contro i diritti della coscienza'. Più avanti aggiunge che 'nel nome della coscienza si distrugge la vera coscienza'. Ecco perché fra i cinque dubia il dubbio numero cinque è il più importante. C'è un passaggio di Amoris laetitia, al no 303, che non è chiaro; sembra - ripeto: sembra - ammettere la possibilità che ci sia un giudizio vero della coscienza (non invincibilmente erroneo; questo è sempre stato ammesso dalla Chiesa) in contraddizione con ciò che la Chiesa insegna come attinente al deposito della divina Rivelazione. Sembra. E perciò abbiamo posto il dubbio al Papa".
"Newman - ricorda Caffarra - dice che 'se il Papa parlasse contro la coscienza presa nel vero significato della parola, commetterebbe un vero suicidio, si scaverebbe la fossa sotto i piedi'. Sono cose di una gravità sconvolgente. Si eleverebbe il giudizio privato a criterio ultimo della verità morale. Non dire mai a una persona: 'Segui sempre la tua coscienza', senza aggiungere sempre e subito: 'Ama e cerca la verità circa il bene'. Gli metteresti nelle mani l'arma più distruttiva della sua umanità".
(Il Foglio, 14 gennaio 2017)
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L'imprescindibile polisemia del linguaggio papale
di Marcello Cicchese
Il lungo articolo che precede mi è stato segnalato da un amico ebreo, e questo può sembrare strano perché il tema in questione è del tutto interno al cattolicesimo. Potrebbe invece essere un segno che gli ebrei cominciano a interessarsi del fenomeno cattolico non solo quando il papa cerca i loro abbracci, ma anche per capire meglio la poderosa entità mondiale che risponde al nome di Chiesa Cattolica Romana (CCR).
Nel 2006, commentando insieme ad altri la famosa visita di papa Ratzinger ad Auschwitz, scrivevo:
«Per quanto riguarda il rapporto della CCR con Israele e con il popolo ebraico in generale, gli amici ebrei che hanno illusioni ecumeniche farebbero bene a ricredersi. I laici "illuminati", ebrei e non ebrei, purtroppo si rifiutano di prendere in seria considerazione questioni "teologiche" e ritengono che gli atteggiamenti pragmatici siano i soli realistici. Ma non è vero, il pragmatismo può essere addirittura fatale nei rapporti con la CCR, la cui stessa esistenza è di natura intimamente teologica. Ed è una teologia che la pone in una contrapposizione strutturale e vitale con Israele. Non è una questione di atteggiamento, ma di identità. Una reale, fondamentale modifica su questo tema significherebbe per lei l'annientamento di sé. E non sembra proprio che una simile autodissoluzione stia per avvenire.»
Oggi, dopo undici anni, forse si comincia a vedere qualche sintomo di un inizio di dissoluzione, anche se non riferentesi direttamente a Israele. "Il testo è ambiguo", dicono i cardinali al papa, "ci siamo permessi di chiedere al Papa di fare chiarezza". Richiesta inopportuna, ingenua, teologicamente impossibile: il papa ovviamente l'ha ignorata. Quei cardinali non hanno ancora capito, e papa Francesco probabilmente pensa che non sia nemmeno il caso di provare a farglielo capire, che non è permesso chiedere al papa di essere chiaro, univoco e coerente, perché se lo facesse "commetterebbe un vero suicidio, si scaverebbe la fossa sotto i piedi", per usare le parole del "beato Newmann". I venerandi prelati dovrebbero ben conoscere qual è l'intima, naturale aspirazione della CCR: restare sempre al centro dell'interesse del mondo, adeguando continuamente dottrine e metodi alle variazioni della società. Per questo occorre un attento, abile uso dei gesti e del linguaggio, cosa che il gesuita Francesco ha ben capito e sa fare molto bene, ma adesso ha problemi seri con quelli dei suoi che sono rimasti indietro.
Mi permetto ancora di autocitarmi, per il solo fatto che vedo confermato quanto avevo scritto undici anni fa e penso che non valga la pena di faticare a cercare altre parole:
«L'intima natura della CCR è di essere veramente "cattolica", cioè universale, inglobante il tutto. La CCR può tollerare e sopportare quasi ogni cosa, ma non di essere emarginata, considerata irrilevante. Se si osserva la sua storia, si riconoscerà facilmente che la sua preoccupazione è sempre stata quella di mantenere o riconquistare il centro del mondo, perché questo considera essere il posto che le spetta di diritto. Le parole usate dai papi nelle loro allocuzioni devono dunque essere adeguate al raggiungimento di questo obiettivo "cattolico", universale: cioè devono contenere un po' di tutto. Tutte le corde del discorso devono essere toccate, quale in modo più forte, quale in modo più debole, in modo che le diversità di interpretazione possano essere spiegate come valutazioni diverse dell'intensità di vibrazione di tale o tal altra corda, e il continuo dibattito dei commentatori possa da una parte mantenere vivo l'interesse per la fonte delle dichiarazioni e dall'altra impedire che si attribuisca alla CCR una posizione troppo netta e precisa, con fastidiose richieste di coerenza, difficili da soddisfare. E questo è avvenuto anche in occasione della visita papale ad Auschwitz. Parole ambigue il primo giorno, pezze correttive qualche giorno dopo, naturalmente senza mai smentire nulla, conformemente al principio che un dogma, anche se imbarazzante, non si sconfessa mai: se necessario se ne aggiunge un altro e si fa scendere nella penombra il primo, mantenendone comunque la validità e tenendolo buono per un'altra occasione. Non si deve dimenticare che è parte integrante della dottrina cattolica il dogma dell'infallibilità papale. E anche se la si considera limitata ai casi in cui il papa parla "ex cathedra Petri", questo conferma che nell'autocoscienza cattolica la Cattedra di San Pietro è fonte di purissima verità. Come potrebbe allora il soglio pontificio non essere al centro dell'attenzione del mondo? Come potrebbero esserci avvenimenti di importanza mondiale che non inducano gli uomini a volgere i loro sguardi verso colui che siede al centro dell'umanità per chiedersi: che penserà? che dirà? che farà? Nel tentativo di capire, interpretare, commentare parole che cambiano continuamente di tonalità secondo il mutare delle stagioni, gli uomini saranno obbligati a correre sempre dietro al papa, senza naturalmente sperare mai di poterlo raggiungere, né tanto meno di poterlo in qualche modo influenzare.»
Papa Ratzinger, troppo teologico e cartesiano, non ce lha fatta a mantenere a lungo limprescindibile tonalità polisemica del linguaggio papale e ha ceduto le armi. Il gesuita papa Francesco indubbiamente lo sa fare molto meglio, ma non è detto che anche lui riesca a mantenersi a galla per molto tempo.
La CCR scricchiola.
(Notizie su Israele, 14 gennaio 2017)
Vaticano, il Papa incontra Abu Mazen:«Ama il popolo palestinese e la pace»
Il colloquio privato tra i due leader è durato 23 minuti. Bergoglio ha abbracciato il presidente palestinese che inaugura la sede dell'ambasciata presso la Santa Sede. Scambio di doni: al Pontefice una pietra del Golgota e una maglia di calcio
«Il Papa ama il popolo palestinese e ama la pace»: con queste parole il presidente palestinese Abu Mazen si è congedato da Francesco dopo un incontro privato in Vaticano durato 23 minuti. Un clima di grande cordialità tra i due, testimoniato da un abbraccio: «È un piacere riceverla», ha detto papa Bergoglio al suo ospite sulla soglia della biblioteca; «anche io sono contento di essere qui», ha replicato il presidente a Mahmoud Abbas.
La maglia di calcio
Al momento della presentazione del seguito, un giovane palestinese ha offerto al Papa una maglietta di calcio con i colori della Palestina, ha detto qualcosa sul San Lorenzo, la squadra argentina per cui tifa il Papa, che si è messo a ridere. Il giovane ha anche spiegato che sua moglie è argentina. Abu Mazen ha donato al Pontefice una pietra proveniente dal Golgota, una icona raffigurante il volto di Gesù, una icona raffigurante la Sacra famiglia, un documentario sulla ristrutturazione della basilica della Natività e un libro sulle relazioni tra Santa Sede e Palestina.
L'enciclica del Papa: «È tradotta?»
Il Papa ha ricambiato con la medaglia dell'anno giubilare, e copie in arabo della «Amoris laetitia» e della «Laudato sii». «È quello che ho scritto sull'amore e la famiglia, e l'altro riguarda la cura del creato», ha spiegato papa Francesco offrendo ad Abu Mazen la esortazione apostolica «Amoris laetitia» e l'enciclica «Laudato sii». «È anche tradotto?», ha chiesto il presidente, e il Papa ha risposto: «Sì, sono in arabo».
La nuova ambasciata
Tra foto e scambio di doni, Pontefice e presidente parlavano della ambasciata della Palestina presso la Santa Sede che Abu Mazen inaugura questa mattina in via di Porta Angelica.«Questo - ha commentato Abu Mazen - è il segno che il Papa ama il popolo palestinese e ama la pace». Al momento di congedarsi, papa Bergoglio e Abu Mazen si sono nuovamente abbracciati.
(Corriere della Sera, 14 gennaio 2017)
Il partigiano Edmond e i suoi sogni sul destino degli ebrei
Nel corso della Seconda guerra mondiale, il giovanissimo Edmond riesce a fuggire da un campo di sterminio e a raggiungere alcuni partigiani ebrei che tentano di resistere all'esercito tedesco nascondendosi nella foresta ucraina. Il loro scopo non è solo quello di sopravvivere, ma è anche, e soprattutto, quello di salvare il proprio popolo e raggiungere "la vetta", il luogo geografico e spirituale della loro realizzazione. E' il nuovo romanzo di Aharon Appelfeld in uscita per Guanda. Ne anticipiamo alcune pagine.
di Aharon Appelfeld
"I prossimi giorni saranno critici. L'Armata Rossa sta arrivando da noi. La questione è "se riusciremo a resistere un mese"
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Kamil non usa la parola "sacrificio". Alcune volte l'ha respinta con forza: "Noi non cerchiamo la morte ma la vita"
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I suoi genitori erano stati fra i primi a essere portati via dal ghetto. Non ne parla al passato, dice: "Mamma è puntigliosa ... "
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Stanotte usciremo per un'incursione. Le provviste si stanno esaurendo. Ora siamo centosettantatré anime. Se non ci procuriamo subito dei viveri gli scampati moriranno di fame. Hermann Cohen ha portato in cucina semola e farina in dosi razionate. Da quando gli scampati sono arrivati da noi, e da quando ha visto la figlia di sua sorella, non è più quello di prima. Fuma una sigaretta dopo l'altra. Una o due volte al giorno entra nella tenda in cui giace sua nipote e la guarda. Quell'uomo così solido, che ne ha viste di tutti i colori ed era un fantastico consigliere su questioni logistiche, ora sembra crollato. Kamil gli ha detto abbracciandolo: "Abbiamo fatto un lungo tratto di strada e ne faremo ancora. I prossimi giorni saranno critici. L'Armata Rossa sta arrivando da noi. La questione è se riusciremo a resistere un mese. Senza di te, e lo dico assumendomene la piena responsabilità, non ce la faremo". Hermann Cohen non ha reagito neanche a questo complimento. Si è coperto il volto con le mani.
Prima che partissimo per l'incursione Kamil ci ha detto così: "Quest'oggi, miei cari, il nostro destino è nelle vostre mani. Il nostro campo, che grazie a Dio è cresciuto incommensurabilmente, è ferito e dolorante, e se non la nutriremo questa gente morirà. La base ha bisogno di provviste. Di tende e bidoni da usare come stufe. Dobbiamo salvare i corpi tormentati affinché le anime possano farvi ritorno. Una volta eravamo pochi, ma oggi, grazie a Dio, siamo molti. Voi siete i messi di una buona azione, fedeli al Signore su questa terra".
Quando parla Kamil non ci si sente più soli al mondo, ma circondati di amici fedeli, e cresce il desiderio di fare di più . Kamil non usa la parola "sacrificio". Alcune volte l'ha respinta con forza: "Noi non cerchiamo la morte ma la vita. La nostra comunità è un insieme meraviglioso".
Kamil non ha rivendicazioni verso il Signore che non fa regnare la giustizia nel mondo, ma verso gli uomini che non sono degni della qualifica di esseri umani.
"I pensieri, anche quelli sublimi, non servono, bisogna concentrarsi sull'azione" dice Felix. Questo rigore, che in lui è naturale, per me è difficile. Da quando gli scampati sono arrivati da noi una parte della mia essenza è sparita. E a loro non mi sono ancora avvicinato.
Durante il giorno sono responsabile della bollitura dell'acqua e aiuto Salo, Maxi e Karl a lavare i corpi smunti degli scampati. Bisogna ammettere che si prova ribrezzo per quegli scheletri umani. Sembrano spettri spaventosi. Le mani si sforzano di fare il loro dovere, ma il cuore, come a farlo apposta, si rifiuta di immedesimarsi. Da loro emanano disperazione e morte e dentro di sé uno non trova la forza di dire che sono fratelli e sorelle e che bisogna gioire di loro.
La figura gigantesca di Danzig strappa quegli scampati all'angoscia, che levano gli occhi verso di lui come fosse un dio salvatore. Ma il più efficace per la loro resurrezione è, incredibile a dirsi, Victor, che non ha ribrezzo dell'urina e delle feci e ci insegna che cos'è l'amore per il prossimo.
Victor si sente vicino a quei sofferenti e fa di tutto per alleviare il loro dolore. Ha subito un grande cambiamento. Il contadino ucraino che è in lui trapela ancora e può darsi che in un campo di mais non ci sia alcuna differenza fra lui e i suoi compagni di tribù , ma qui, fra noi, alcuni suoi gesti fanno venire in mente un monaco che ha annullato il suo egoismo ed è dedito all'umanità, qualunque essa sia.
Kamil ogni tanto gli chiede del suo villaggio e dei paesi intorno, e di quell'ucraino e della sua compagna ammazzati, mentre la figlia è stata portata via. Victor cerca di ricordarsi, ma non gli viene in mente niente di più di quello che ha già raccontato.
Una volta sentii Kamil che gemeva:
"Pavel, Pavel, dove sei sparito?" Rividi subito Pavel, alto e agile, un combattente dai gesti precisi e pieni di un'eleganza discreta.
Facciamo un'incursione al giorno e portiamo alla base provviste, utensili, vestiti, tessuti e pelli di pecora. Nel bottino finiscono a volte una camicia da città o oggetti usati solo dagli ebrei. Durante un'incursione abbiamo trovato un paio di candelieri con sopra inciso "Sabato santo".
Per svariate ragioni non è possibile fare un'incursione in una casa dove siamo già stati. Ci spingiamo dunque sino alle dimore isolate sul costone del monte, o a quelle nascoste nei pendii.
Kamil aveva in programma di scendere ogni settimana in pianura e far deragliare i treni che portano gli ebrei ai campi. Al momento non possiamo farlo. Continuiamo con le pattuglie e gli agguati. Si annida in noi l'oscuro presentimento che d'ora in poi ci occuperemo solo di saccheggi e ruberie e i contadini alla fin fine si alleeranno, si metteranno con i tedeschi e ci stringeranno d'assedio. La loro ostilità non è da meno di quella dei tedeschi e hanno armi in abbondanza.
Il mio amico Emil si è ripreso, si regge in piedi e va al gabinetto, ma ha ancora lo sguardo fiacco e stordito. Non chiede dei miei genitori, ma mi ha raccontato dei suoi, ciechi, che passavano il tempo a intrecciare ceste e a tessere tappeti e faticavano a tirare avanti. Emil li aiutava sin da quando era bambino. Dopo la maggiorità religiosa, quando aveva cominciato a dare lezioni private, la povertà era stata scongiurata.
I suoi genitori erano stati fra i primi a essere portati via dal ghetto. Quando Emil parla dei suoi genitori si capisce che è legato a loro con tutte le fibre dell'anima. Non ne parla al passato, dice:
"Mamma è puntigliosa. Ogni tappeto che esce dalle sue mani è perfetto, senza il minimo difetto. Papà ama parlare mentre tesse. Perciò sbaglia e il prezzo della sua merce è molto inferiore".
Sin da quando era bambino osserva i genitori e qualcosa della loro cecità ha attecchito in lui. Persino adesso.
Che strano, sia noi sia quelli che sono arrivati da poco non parliamo molto delle famiglie che abbiamo lasciato. Siamo indaffarati con le incombenze quotidiane, ascoltiamo la radio, ma non ci illudiamo che presto la vita tornerà a essere quella di prima.
Nel frattempo le tende si sono piuttosto affollate. Salo e Maxi non hanno abbastanza medicine per alleviare il dolore di chi soffre. Il medico prigioniero brontola e accusa i suoi carcerieri di averlo portato via da casa e allontanato dai suoi pazienti. Felix lo ha minacciato più volte che se continua così lo uccideranno anche senza processo in tribunale.
"Non m'importa, non ho paura" dice lui senza guardare Felix negli occhi. Si fatica a capire una tale sfrontatezza, a meno di pensare che per lui occuparsi di ebrei sia una cosa umiliante. Meglio morire piuttosto che essere prigioniero degli ebrei e dover curare i loro malati.
Secondo Victor non bisogna disperare. A quindici chilometri di distanza c'è una farmacia, che fra l'altro apparteneva a un ebreo. E' ancora aperta e bisogna correre ad assalirla, guai a indugiare. Kamil ha aperto la mappa e indicato il punto preciso.
L'ufficiale tedesco continua ad avere la febbre. Non abbiamo medicine ma gli abbiamo aggiunto una coperta. Urla tutta la notte, continua a giurare che è stato fedele alla patria e al suo comandante, insulta la fidanzata mettendo in dubbio la sua fedeltà. Chiede ai genitori di darle una lezione. A quelle allucinazioni si aggiungono anche altre vicende, di donne e di onore. Tutto fra grida e ordini.
Io sono sempre stanco. Dormo in piedi, camminando a ogni occasione. Il mio sonno non è tranquillo, ma per fortuna le visioni se ne vanno quando apro gli occhi. Ieri ho visto chiaramente Anastasia, che è rimasta in me, solo che il suo corpo slanciato era coperto di una pelliccia marrone.
Volevo avvicinarmi e accarezzarla, ma capivo subito che mi avrebbe morso. In effetti si girava scoprendo i denti pieni e belli. "Anastasia" chiamavo, "non mi riconosci?" Lei mi rivolgeva uno sguardo animalesco. Non sapevo se fosse una minaccia o una offerta di intimità. Le domandavo di nuovo: "Non mi riconosci?" All'udire nuovamente la mia domanda lei sorrideva. No, mi sbagliavo. Mi fissava di nuovo con uno sguardo colmo di risentimento, come a dire: "Che ci fai qui? Tutti i segnali dicevano che te n'eri andato e non saresti tornato".
Al mio risveglio mi ricordavo benissimo il sogno. Avevo l'impressione che le truppe fossero uscite per un'azione e che io, siccome dormivo, me ne fossi scordato. Ormai non li avrei più raggiunti. Sono andato in cucina e ho visto che i combattenti erano distesi sul giaciglio di ramoscelli, a bere tè e a fumare, e mi sono sentito sollevato.
Penuria di provviste. Malgrado le poche informazioni raccolte sulla misteriosa farmacia si era deciso di assaltarla. Kamil era tutto infervorato, e dopo aver pronunciato la parola d'ordine "Medico dei malati" ci rammentò che le nostre missioni notturne servivano a salvare vite, nel vero senso della parola. "Al momento non siamo in grado di scendere in pianura a far deragliare i treni. Ma se riusciamo a prendere delle medicine, faremo del bene ai dolenti". Nevicava e il gelo faceva bruciare il viso. La limpida voce di Kamil riecheggiò nelle nostre orecchie ancora per un bel tratto di strada. Eravamo nel campo visivo della nostra pattuglia, che ci accompagnava, e se per caso fossimo caduti in un'imboscata ci avrebbe soccorso.
Non potevamo fare a meno di ripeterci, e sempre con un senso di colpa, che era più facile partire per un'operazione con Felix che con Kamil. Il suo silenzio, il suo passo regolare, le sue giuste direttive: con Felix al comando si aveva la certezza che l'operazione sarebbe andata esattamente come previsto, che saremmo tornati alla base senza esaltazione né entusiasmi soverchi, ma felici di quel che avevamo fatto.
Il tragitto fu più breve di quanto non immaginassimo. Ci fermammo a circa duecento metri da un edificio buio di modeste dimensioni che recava sulla facciata un'insegna con la scritta "Farmacia". Il nome del proprietario era stato cancellato, ma con un certo sforzo si riusciva ancora a leggere "Aharon Samuelevitch". Tutt'intorno regnava la quiete delle case circondate dalla neve alta.
Un attimo prima dell'attacco pare di saltare dentro dell'acqua scura. Il corpo trema, ma le mani si riempiono di energia e in un istante superano la paura.
Forzammo la porta sul retro senza fare alcun rumore. Penetrammo nell'oscurità e subito cominciammo a riempire i sacchi che avevamo portato con noi. Lo facemmo con metodo, uno scaffale dopo l'altro. Metà del plotone era rimasto fuori a fare la guardia. Dopo una mezz'oretta tutte le medicine erano ormai distribuite dentro sette sacchi. Uscimmo chiudendo la porta.
Felix era felice. Ma lui, diversamente da Kamil, non fa mostra della propria soddisfazione. I sacchi erano pieni, ma non pesanti. Emanavano odore di medicinali.
Quando mamma era a letto malata, papà correva da un medico all'altro, da una farmacia all'altra, e se riusciva a comprare una medicina correva a casa a perdifiato.
Mancava il denaro. All'inizio papà aveva venduto il suo orologio d'oro, poi i gioielli di mamma. Ai medici non importava, loro esigevano tutta la parcella. E anche i farmacisti non facevano sconti. Eravamo sempre stati una famiglia benestante e in un batter d'occhio eravamo finiti in rovina. Le mani di papà tremavano sul tavolo.
Io non avevo partecipato a quel dolore. Ero tutto preso della mia strana felicità e mi rifiutavo di condividere la disperata battaglia dei miei genitori.
Ora vidi improvvisamente mio padre come non l'avevo mai visto: seduto a tavola, la mano premuta contro la bocca, tutt'a un tratto alza la testa, mi guarda e domanda senza parole: "Edmond, che male ti abbiamo fatto che ti sei allontanato da noi? Non ti chiediamo di aiutarci, la tua felicità ci è assai preziosa. Ma se ti volti per un attimo e chiedi come sta mamma, fai una gran buona azione. E' molto malata, sta per essere operata, una buona parola le darà forza".
Sento lo sguardo di papà in tutte le parti del mio corpo, ma non ho la forza di fare quello che mi chiede. Lo sfuggo e corro fuori per incontrare Anastasia, che mi conquista subito con i suoi occhioni. Solo in seguito, sotto l'albero con le fronde curve sino a terra, vedo nitidamente lo sguardo di papà e la passione ardente che c'è in me si spegne, e mi prende freddo alle dita dei piedi.
Anche Isidore mi ha detto che ora non è più sicuro di aver fatto bene a scappare abbandonando i suoi genitori. La dizione di Isidore è talmente precisa da far male. Le sue preghiere provocano negli altri una grande emozione, ma evidentemente non fanno effetto su di lui. Mi ha già detto: "Le preghiere non sono mie ma di mio nonno". Io non volevo subissarlo di domande. Uno potrebbe ferire anche con una domanda prudente.
Qualche tempo fa un combattente ha alzato la voce, sembrava un grido spezzato, perché qualcuno gli aveva fatto una domanda inopportuna.
Persino Karl, robusto e taciturno com'è, ha sgridato uno che ingenuamente gli aveva chiesto quanto tempo era stato nel ghetto. Ormai sappiamo che è meglio tacere. [. . .]
Intanto in cielo si sentono dei forti tuoni. Dapprima sembravano annunciare una tempesta di neve, ma alcuni veterani della Prima guerra mondiale hanno capito subito che si tratta di cannonate.
Con il passare delle ore abbiamo avuto la certezza che è proprio l'artiglieria che risuona all'orizzonte. Kamil resta indifferente a quei segni inequivocabili. Ripete che l'attacco è imminente e che bisogna prepararsi. Felix è d'accordo con lui.
Non c'è logica, ripetono i suoi detrattori. L'Armata Rossa avanza all'attacco, l'esercito tedesco è troppo impegnato a ritirarsi per pensare che voglia continuare a far fuori gli ebrei.
"Ti sbagli, mio caro" dice Kamil rivolgendosi a un veterano, "per Hitler uccidere gli ebrei è un atto di fede. Ha giurato di annientarci. E' vero che questo contraddice la logica militare, ma che possiamo farci se la guerra contro gli ebrei proviene dalle profondità della loro tenebra, se le sue motivazioni sono incomprensibili?"
Kamil migliora in eloquenza via via che aumentano i suoi oppositori. Come ho detto, è bravo nella guerra dei pochi contro molti, e anche quando si tratta di guerra delle idee, la sua retorica è ineccepibile.
E' chiaro come il sole che l'Armata Rossa li ha colpiti e si sta avvicinando. Felix ha fatto un calcolo: sono a circa trecento chilometri da noi. Questi conti non riducono la vigilanza: alcune squadre si esercitano e altre pattugliano. Anche le incursioni vanno avanti quotidianamente. E Victor continua a ripetere: "L'uccisione degli ebrei per loro è in cima alla lista. Il loro odio non conosce freni, guai a cercare una logica nelle loro azioni".
La neve è già alta un metro. Scendere e salire dalla vetta è una fatica improba. Persino i combattenti tornano sfiniti da ogni incursione. Ma che possiamo farci? Le incursioni sono necessarie. Dobbiamo nutrire decine di persone.
Nel frattempo io ho avuto un permesso notturno e sono caduto all'istante in un sonno profondo. Nel sogno stavo andando a casa. Il timore e l'emozione mi rallentavano il passo. Notavo subito che nel sobborgo era tutto come prima. I due pioppi davanti a casa erano lì. Le foglie argentate che amavo guardare e di cui mi piaceva ascoltare il fruscio erano cadute mentre ero lontano. Dai comignoli delle case dei vicini ucraini usciva il fumo. Conoscevo bene quella pace. Al mio ritorno da scuola mi fermavo ad assaporarla. Noi eravamo diversi dagli altri vicini, nel nostro cortile non c'erano vacche o polli. Il nostro cortile aveva un tappeto erboso e delle aiuole di fiori. Nel pomeriggio ci sedevamo in veranda o in cortile. Era un'ora di grazia, tranquilla, le luci che calavano dalle acacie si confondevano nell'ombra.
Mi fermavo davanti a casa. Il cancello del cortile era chiuso ma non a chiave. Lo aprivo e non proseguivo oltre: il prato era grigio ai bordi, le acacie erano spoglie, la cuccia di Niki vuota, segno che lui se ne stava in salotto. Sentivo che mi aspettava una grande sorpresa, ma non sapevo di che genere.
Molti mesi erano passati da quando avevamo frettolosamente abbandonato casa. Temevo di entrare e chissà perché indugiavo. In cortile, comunque, non era cambiato nulla. Chissà se Nadia stava badando alla casa ... Era probabile di sì. Era molto devota a mamma. Durante la sua malattia le dava da mangiare, e diversamente da altre domestiche era rimasta a servizio anche quando era stato proibito di lavorare per gli ebrei.
Mi avvicinavo e bussavo. Nessun rumore, nessuna risposta. Bussavo di nuovo e senza rendermene conto aprivo la porta. L'ingresso era come sempre. Sull'attaccapanni erano appesi i cappotti di papà, di mamma e anche il mio berretto accanto a quello di papà: segno che la casa non era stata abbandonata e forse papà e mamma erano tornati e stavano riposando.
Avanzavo con prudenza. In salotto, comunque, qualcosa era cambiato. Invece dei disegni del famoso pittore Rosenberg c'erano appese tre icone. Questa sorpresa chissà perché non mi spaventava. Le altre cose invece erano al loro posto, anche il grammofono. In camera dei miei genitori era appesa un'icona ma il letto, il copriletto e i cuscini erano al loro posto. In camera mia non c'erano icone, tutto era al suo posto, la cartella ai piedi della scrivania.
"Mamma" chiamavo, e la voce si fermava un secondo prima di spezzarsi. Tornavo in salotto e mi sedevo sulla mia amata poltrona. E' tutto a posto, mi ripetevo. Ma dentro di me sapevo che il silenzio non era quello che avevamo lasciato noi.
La verità saltava subito fuori: sulla soglia che collegava il salotto alla cucina c'era Nadia. Mi sembrava più giovane e indossava il grembiule di mamma.
"Nadia" mi sfuggiva di bocca. "Chi sei?" domandava facendo un passo indietro. "Edmond" dicevo sottovoce. "Non mi riconosci?" Strizzava gli occhi, mi guardava, si avvicinava e fissandomi alla fine diceva: "Sei tu, e tuttavia non sei tu". "Non sono altri che Edmond" dicevo stupito di quelle mie parole. "Avevano detto che gli ebrei non sarebbero mai più tornati" diceva Nadia con la sua solita voce. "Chi l'ha detto?" "Tutti". "E tu ci hai creduto?" dicevo alzandomi in piedi. "Sinora non è tornato neanche un ebreo".
"E non mi permetteresti di entrare in casa?"
"No" diceva in tono piatto, "adesso è casa mia. Ho lavorato qui per più di vent'anni e sono l'erede legale. Il comune ha riconosciuto i miei diritti".
"E io?"
"Tu appartieni a un altro posto, il tuo posto qui è sparito. Voglio ricordarti una cosa: durante il periodo del ghetto eri preso da Anastasia. Non hai trovato neanche un quarto d'ora per stare accanto a tua madre malata e condividere le sue sofferenze".
"Anche ai miei genitori non permetterai di entrare?" "Come fai a sapere che torneranno?" "Lo suppongo". "Tu comunque non hai alcun diritto qui. Un figlio che si è estraniato dalla madre malata non ha diritto a ereditarne la casa. E' ovvio. Come se non bastasse, tutti i beni degli ebrei appartengono ora al comune. Consiglio a te e ai tuoi genitori, se torneranno, di non insistere. Il destino è questo: c'è chi vive e chi muore".
"Io sono vivo" dicevo puntando il fucile.
"Non spararmi" diceva Nadia con una voce roca e stridente che mi ha svegliato.
(Il Foglio, 14 gennaio 2017 - trad. Elena Loewenthal)
Shoah, mostra a Torino su Jan Karski
A Palazzo Cisterna dal 31 gennaio al 17 febbraio
TORINO - In occasione del Giorno della Memoria a Palazzo Dal Pozzo della Cisterna, sede della Città Metropolitana di Torino, sarà allestita una mostra dedicata a Jan Karski, il corriere dello Stato "segreto" polacco e del Governo in esilio della Repubblica Polacca durante la Seconda Guerra Mondiale. La mostra è itinerante ed stata realizzata dal Museo della Storia della Polonia e dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Polonia. L'allestimento a Torino verrà realizzato in collaborazione con la Città Metropolitana, il Consolato Generale di Polonia a Milano, il Consolato onorario di Polonia a Torino, la Comunità Ebraica di Torino e la Comunità Polacca di Torino-Ognisko Polskie w Turynie. L'inaugurazione della mostra è in programma il 30 gennaio e sarà visitabile dal 31 gennaio al 17 febbraio. Karski fu tra i primi a informare il mondo sulla politica tedesca di sterminio sistematico degli ebrei. I suoi interlocutori, purtroppo, non compresero le dimensioni dell'immane tragedia.
(ANSA, 13 gennaio 2017)
Gerusalemme - Obama tenta il colpo di coda
di Fiamma Nirenstein
Forza, veloci, non perdiamo tempo, Obama è ancora alla Casa Bianca per 10 giorni, il Consiglio di Sicurezza è là con le fauci spalancate, e chissà che non si riesca ad assestare un'altra bella botta a Israele contando sul!' eco alla risoluzione che verrà presa.
Diamogli giù adesso, è una bella occasione, un'altra grande, imponente, condanna internazionale proprio dopo l'attentato di Gerusalemme, con un'ipocrita esaltazione della famosa formula «due stati per due popoli» e la condanna della «politica degli insediamenti». Sarà una sventola a Netanyahu. Facciamolo subito. Parigi, da sempre antisraeliana, sarà di grande ispirazione: condanniamo Israele visto che mancano ancora pochi giorni prima che si cominci a ripensare, con l'insediamento di Trump il 20, la formula «due stati per due popoli». Sarebbe stato una bella idea se uno dei due non fosse tutto impregnato ideologia autoritaria, islamista e terrorista, se Hamas non fosse ormai vincente, se Abu Mazen non avesse basato il consenso sul rifiuto di ogni accordo con lo Stato d'Israele. La Conferenza di Parigi di domenica è forse l'ultima occasione per pestare lo Stato Ebraico prima che un cambiamento epocale induca a capire che quel rifiuto fatto di bombe, auto in corsa, pugnali, sequestri, rapimenti.. Comincia molto prima che i famosi «territori» fossero occupati nella guerra del '67, guerra di difesa indispensabile alla sopravvivenza contro gli aggressori, fra cui la Giordania che occupava quegli spazi, essa, e non i palestinesi che non sono mai stati una nazione.
La Conferenza di Parigi che inizia domenica riunisce nella capitale francese 77 nazioni, è accompagnata da un corteggio di «urrà» di ex ambasciatori francesi (hanno scritto un fondo su Le Monde di una vacuità sconcertante, nello stile del loro ambasciatore che a una serata londinese chiamò Israele «that shitty little country»], di intellettuali chic anche israeliani che adorano mescolarsi al politically correct che disprezza il problema della sicurezza: è lo sforzo del tramonto di Hollande, che cercò di evitare Netanyahu in corteo contro il terrorismo al tempo del Bataclan. La Francia è sempre stata antisemita, il Quai d'Orsay ha una storia d'affari e amore con il mondo arabo, sempre basati su accordi antisraeliani. Adesso, in un momento in cui sarebbe vitale una soluzione per la Siria, per la Libia, per l'Irak, per il terrorismo in Turchia, per la reviviscenza dell'Iran, ecco che la Francia si pavesa di bandiere palestinesi dopo l'attacco col camion a Gerusalemme. L'Europa crea l'alibi per i palestinesi per rifiutare qualsiasi colloquio, tanto riceveranno la pappa scodellata, e fomenta i loro attacchi nutrimento per il terrorismo in tutto il mondo. Paradosso ultimativo, l'assenza dei protagonisti: Israele sa che è una presa in giro, e i palestinesi perché esserci gli darà meno vantaggi del bla bla delle risoluzioni internazionali.
(il Giornale, 13 gennaio 2017)
I milioni del governo francese alle ong che boicottano Israele
La Piattaforma delle onlus palestinesi riceve il 40% del budget da Parigi. E spende i fondi facendo propaganda.
di Fausto Biloslavo
La Francia aiuta con milioni di euro ong palestinesi che si battono per il boicottaggio di Israele o sono collegate a gruppi del terrore. La denuncia è saltata fuori in vista della conferenza sul dialogo di pace fra palestinesi e israeliani, domenica a Parigi. Peccato che gli israeliani si siano rifiutati di partecipare e ieri il premier Netanyahu abbia bollato la conferenza come «una truffa palestinese sostenuta dalla Francia».
La Piattaforma delle Ong palestinesi in Francia riceve il 40% del suo budget dal governo per un progetto che punta a influenzare politici, media e pubblica opinione sul conflitto con Israele. E nello stesso tempo la Piattaforma appoggia il boicottaggio contro Israele violando la stessa legge francese. Nel mirino i beni prodotti negli insediamenti ebraici importati in Francia e le banche israeliane. Il governo di Parigi ha elargito 225mila euro alla Piattaforma, nel 2014, per il progetto «Meglio agire per il rispetto dei diritti in Palestina». Partner dell'iniziativa è pure l'associazione Ittijah. Il suo capo nel 2010, Amir Makhoul, è stato condannato a 9 anni di carcere per spionaggio a favore di Hezbollah. Altre 3 Ong coinvolte nel boicottaggio di Israele hanno ricevuto negli ultimi 5 anni quasi 2 milioni di euro dal governo come fondi per diversi progetti.
I l rapporto-denuncia è stato preparato da Ngo monitor un'associazione israeliana specializzata a radiografare gli aiuti, soprattutto europei, a organizzazioni palestinesi che usano come paravento i diritti e l'intervento umanitario per la lotta contro lo stato ebraico.
Le accuse più gravi riguardano i fondi del governo francese ad associazioni collegate al Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Pplp), organizzazione terroristica per gli Stati Uniti e l'Unione europea. L'Ong, Unione dei comitati di lavoro agricolo, ha potuto realizzare un ampio progetto nella zona di Hebron grazie al governo francese e al Consiglio regionale della Costa Azzurra, come principali donatori con 301.176 euro. L' associazione è stata addirittura fondata da membri dell'Fplp e considerata dall'ente di cooperazione Usa «il braccio agricolo» dell'organizzazione terroristica palestinese.
La Francia aiuta anche una nota Ong israeliana, il Centro di informazione alternativa, che accusa lo stato ebraico di «pulizia etnica» e appoggia il boicottaggio dei prodotti lanciato dai palestinesi. Anche questa Ong è accusata dagli israeliani, che controllano il mondo no profit, di collegamenti con il Fronte popolare. Fondi sono arrivati dal governo di Parigi e la presidenza della Repubblica ha insignito il Centro di informazione alternativa del premio «per i diritti dell'uomo».
Un altro caso riguarda la palestinese Al Haq, leader nella campagna di boicottaggio contro Israele. Il direttore generale, Shawan Jabarin, è stato accusato in Israele di collegamenti con il Fronte e non poteva lasciare il Paese. Nonostante ciò il ministero degli Esteri francese ha comunque donato 27.842 euro alla discussa Ong, nel 2015, per aiutarla in attività «nel campo privato e dei diritti umani».
Gerald Steinberg, presidente di Ngo monitor, è secco: «In un momento in cui la Francia è stata scelta per ospitare un vertice dedicato alla pace, questo tipo di sostegno finanziario getta dubbi significativi sulla sua capacità di imparzialità».
(il Giornale, 13 gennaio 2017)
Moretto contro il fascista. Il ghetto di Roma come un ring
Un giovane pugile ebreo e un rigattiere collaborazionista sullo sfondo della Resistenza dei perseguitati nella Capitale occupata. Un libro di Molinari e Osti Guerrazzi.
di Mirella Serri
A Roma nel dedalo di viuzze che circondano il Portico d'Ottavia, chiamato confidenzialmente la Piazza dagli ebrei romani, Elena era considerata una tipa un po' stramba, una visionaria. A tarda sera del 15 ottobre 1943, tutta scarmigliata, cominciò a bussare alle porte delle case. Il suo obiettivo? Convocare i capi famiglia. Ma quasi nessuno le diede retta. All'alba del mattino dopo, quando le SS bloccarono via di Sant'Angelo in Peschiera, via del Teatro di Marcello e gli altri accessi al Ghetto, gli ebrei romani capirono che la «matta» aveva ragione e che era in atto quella retata dei nazisti a cui la donna li sollecitava a reagire. Ma come?
Non era impossibile. C'era qualcuno in quelle strade e in quelle piazze che, fin dalla data dell'emanazione delle leggi razziali, aveva cercato di far capire ai correligionari che la rassegnazione era un passaporto per l'aldilà: si trattava di Moretto, al secolo Pacifico Di Consiglio. Questo pugile dilettante fu così uno dei pochi ebrei a mettere in atto un'eccezionale strategia di sopravvivenza: adesso a ripercorrere la vicenda di questo piccolo-grande ribelle sono Maurizio Molinari e Amedeo Osti Guerrazzi in Duello nel Ghetto (in uscita per Rizzoli, pp. 265, 6euro; 20). Un romanzo-verità che con materiali d'archivio e testimonianze inedite ricostruisce, come recita il sottotitolo, «La sfida di un ebreo contro le bande nazifasciste nella Roma occupata».
Tra i diseredati
Il libro di Molinari e Osti Guerrazzi ridà anima e corpo al prestante Pacifico e al suo scontro all'ultimo sangue con Luigi Roselli, uno dei più crudeli collaborazionisti dei nazisti. Ma la vicenda all'Ok Corral tra Moretto e il fascista s'intreccia con una narrazione corale di cui fanno parte gli Spizzichino, i Di Segni, i Pavoncello, i Di Porto e tutti gli altri esponenti della Comunità ebraica romana, costituita in gran parte da diseredati, da coloro che praticavano i mestieri più umili e vari, dagli «stracciaroli» ai «ricordari» o «urtìsti» (quelli che vendono cartoline-ricordo e statuette nel centro capitolino buttandosi «a urto» sui turisti).
È tutto un mondo unito, solidale e colorato che frequenta il bar di Monte Savello e il ristorante Il Fantino in via della Tribuna Campitelli, e che diventa protagonista di una storia fino a oggi mai raccontata: la resistenza dei «dannati della terra», dì coloro che non se ne vanno, fieri di essere italiani e ebrei. Che, quando viene applicata la legislazione antisemita, non hanno rapporti con gli alti papaveri dei ministeri, non hanno aderenze o amici importanti che permettano loro dì essere «discriminati» e di scapolarsela di fronte ai provvedimenti razziali. Che vogliono comunque dimostrare che Roma appartiene anche a loro e alla loro tradizione.
Se quindi, da un lato, l'ebreo Mario Fiorentini entra a far parte dei Gap, i Gruppi di Azione Patriottica del Partito comunista, Paolo Alatri da prima della guerra cela un deposito di armi e una tipografia clandestina e l'editore Ottolenghi crea un'organizzazione di combattenti, vi sono anche altri oppositori del regime, proprio come Moretto, ragazzo di bottega che dopo 1'8 settembre, privo di relazioni e di conoscenze, cerca senza riuscirci di aggregarsi ai primi gruppi di partigiani.
Da quando aveva compiuto 17 anni nel fatidico '38 dell'emanazione delle leggi razziali, Pacifico era un perseguitato speciale: le camicie nere del quartiere, come Roselli di professione rigattiere, non tolleravano il suo disprezzo. Il pugile Pacifico era tale di nome ma non di fatto, i suoi uppercut erano ben mirati e non chinò mai la testa di fronte alle più violente smargiassate.
Moderno Scaramouche
Dopo che è stata diffusa la notizia dell'armistizio con gli angloamericani, Moretto, impugnando una mitraglietta, è con tanti altri antifascisti a Porta San Paolo e cerca di ostacolare l'avanzata della Wehrmacht. Invece Elena «la matta», con un manipolo di ebrei, prova a procurarsi armi e munizioni. Sfuggito per un pelo al rastrellamento del 16 ottobre, Di Consiglio sarà nel mirino di Roselli il quale, dopo l'occupazione nazista della Capitale, aveva messo su una vera e propria industria della morte e del ricatto: in cambio di quattrini, prometteva agli ebrei la libertà e poi li denunciava al colonnello Kappler.
Pacifico elaborò un piano audace per aiutare gli abitanti del ghetto: sedusse la nipote di Roselli e, tramite le informazioni che gli passava la ragazza, da moderno Scaramouche si faceva beffe dei persecutori e strappava loro le vittime. L'ora fatale arrivò anche per lui: arrestato e picchiato a sangue venne portato in via Tasso e poi a Regina Coeli. Caricato su un camion con destinazione prima Fossoli e poi Auschwitz, riuscì a scappare. Però non abbandonò Roma e tornò sempre Iì dove erano le sue radici, a Portico d'Ottavia. La Comunità è falcidiata da deportazioni, lutti, miseria e Pacifico-lupo solitario sotto l'impermeabile bianco maschera la pistola per freddare nazisti e fascisti. Nel giugno 1944, quando le truppe alleate entrano nella capitale, combatte al loro fianco e aiuta i soldati americani a liberarsi degli ultimi cecchini tedeschi, quindi prenderà la tessera del Partito d'Azione. E gli aguzzini?
Un cazzotto al torturatore
Roselli e il suo gruppo di accoliti, di cui faceva parte la nota «Pantera nera», una bellissima ebrea che denunciava i correligionari, furono processati nel marzo del 1947: Moretto è uno dei testimoni determinanti per la condanna. Quando arriva in tribunale, alto un metro e ottanta e con le sue spalle possenti, si fa largo tra la folla, supera lo sbarramento dei carabinieri e molla un cazzotto in faccia a uno dei suoi ex torturatori. Gli imputati verranno condannati a pene dure ma l'amnistia voluta da Palmiro Togliatti cancellerà parecchi anni di carcere.
Nemmeno a guerra finita però Moretto «ha perso la voglia di lottare», scrivono gli autori, «e la battaglia ora si chiama memoria». Negli anni condividerà le proprie avventure e la propria esperienza con le nuove generazioni. Dunque anche grazie ai ricordi di Moretto (scomparso nel 2006) i due scrittori hanno potuto restituirci la voce e la superba Resistenza dei poveri e dannati in uno dei periodi più oscuri della storia italiana.
(La Stampa, 13 gennaio 2017)
"Israele garanzia della pace. A Parigi l'Italia sia d'esempio"
La Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni ha inteso ricapitolare, con un messaggio rivolto al Governo italiano alla vigilia della Conferenza di Parigi sulla pace in Medio Oriente, alcuni dei temi affrontati nelle scorse ore nel corso di un cordiale e approfondito incontro svoltosi alla Farnesina con il ministro degli Esteri Angelino Alfano.
"L'Italia - si legge nel documento - tramite il suo ministro degli Esteri Angelino Alfano, si appresta a partecipare alla Conferenza di Parigi dedicata al conflitto in Medio Oriente.
Al nostro governo rivolgiamo un appello che nasce dal cuore e dalla constatazione di quello che è il presente vissuto e il futuro che ci attende.
Un appello che nasce sulle due rive che si affacciano sul Mediterraneo - quella europea e quella mediorientale - quella italiana e quella israeliana.
Si tratta di un'iniziativa che si annuncia assai partecipata, con il coinvolgimento di delegazioni e rappresentanti di oltre settanta governi. In un contesto tanto affollato, mancheranno però i due principali protagonisti: Israele e i palestinesi. Un'assenza su cui è necessario riflettere.
Gli Stati nazionali e le Organizzazioni internazionali non potranno sostituirsi alle parti in causa nel definire il percorso che porterà alla necessaria convivenza, all'anelata pace, alla costruzione di uno spazio mediorientale di crescita e di sviluppo. Possono, tuttavia, assolvere un compito ineludibile: statuire i principi sulla base dei quali le parti debbano dialogare.
L'auspicio è che l'Italia, forte della sua sincera amicizia con Israele, forte del legame indissolubile saldamente incardinato nelle relazioni tra i due paesi su un piano storico, culturale e politico, possa chiaramente esprimere una posizione di sostegno al dialogo che non prescinda, ma al contrario sia fondato, sul diritto inequivocabile all'esistenza in pace e sicurezza dello Stato di Israele.
È necessario trovare il coraggio di dire che la vita viene prima di tutto. Sancire la categorica condanna del terrorismo, della cultura dell'odio sotto ogni forma.
Trovare il coraggio di dire che Israele oggi esiste. Israele ha il diritto di continuare ad esistere in sicurezza. E' un'affermazione basilare e doverosa proprio in un contesto così ampio, cosi condizionato. L'Europa e l'Italia devono prendere atto che Israele è la sola realtà che con la sua democrazia, con il suo amore per la vita, la scienza e la cultura rappresenta il futuro di ciascuno di noi che vive oggi in Europa. E' lo specchio che corrisponde alla nostra esistenza e ai nostri ideali di pace e di progresso.
Favorire un negoziato diretto, tra le due parti, senza che la comunità internazionale, e le logiche (illogiche) della strumentalizzazione prevalgano e generino distorsioni alle quali abbiamo disperatamente assistito.
Favorire i "sì" e la volontà di impegnarsi, senza precondizioni, e poi passare nelle successive fasi alla trattazione dei singoli dossier, singoli aspetti e temi. Difficili per quanto possano essere - dalle questioni idriche, alle questioni territoriali, alla questione Gerusalemme, capitale eterna di Israele - sono questioni successive.
È necessario raggiungere una soluzione che riconosca due Stati - lo Stato di Israele per il popolo ebraico, lo Stato palestinese per il popolo palestinese. Perché vogliamo vivere, vogliamo convivere, vogliamo condividere.
L'Italia con le sue radici religiose, i valori e la cultura mediterranea, con la sua vocazione, cura e impegno di garante della pace in diverse regioni, può veicolare questa sfida. Può assumere un ruolo di guida e di riferimento anche per le altre nazioni, e porsi quale interlocutore per la regione mediorientale oggi lacerata e logorata dalla guerra e dal conflitto permanente.
Attendiamo allora il domani e il dopodomani. Attendiamo fiduciosi che l'Italia, raccogliendo questo appello, sia protagonista della pace e della giustizia fra i popoli, che sappia diffonderlo e condividerlo con le numerose delegazioni presenti, che sappia affermarlo al di là di ogni esitazione".
Noemi Di Segni
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(moked, 12 gennaio 2017)
Israele-Sierra Leone: il presidente Koroma vuole recuperare le relazioni con Gerusalemme
GERUSALEMME - Il presidente della Sierra Leone, Ernest Bai Koroma è "rincuorato" dagli sforzi del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di ricostruire le relazioni con l'Africa e spera di "ravvivare" la lunga "relazione fraterna" del suo paese con Israele. I commenti di Koroma sono arrivati poco prima dell'incontro con Netanyahu, nel secondo giorno della sua visita in Israele. Koroma ha auspicato la restaurazione delle relazioni che sussistevano tra i due paesi nel periodo dell'indipendenza della Sierra Leone, nel 1961, e ha osservato che sia prima che immediatamente dopo l'indipendenza, Israele ha fornito sostegno a quel paese, costruendo numerosi edifici pubblici nella capitale Freetown. La Sierra Leone ha fatto parte di quei paesi che in seguito alla Guerra dello Yom Kippur nel 1973 hanno interrotto le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico.
(Agenzia Nova, 12 gennaio 2017)
Il soldato e il terrorista. Una condanna che fa discutere nella polveriera di Hebron
di Laura Rossi
L'opinione pubblica israeliana in questi giorni si trova drammaticamente spaccata in due a causa della condanna per omicidio colposo nei confronti del giovane soldato, oggi ventenne, Azarya Elor, decretata dalla corte marziale militare israeliana. Una condanna che fa discutere, anche perché, all'epoca dei terribili avvenimenti di Hebron (24 marzo 2016), il giovane soldato aveva solamente 19 anni e, trovandosi nel mezzo di un attentato in cui due militari suoi amici venivano accoltellati e ridotti in fin di vita, non ha esitato a sparare alla testa uccidendo il terrorista palestinese, seppur già ferito e a terra. I dubbi sulla condanna riguardano il fatto che il terrorista, nonostante gli fosse stato ordinato di non muoversi, secondo le ricostruzioni continuava a farlo destando timori sulle sue intenzioni: se avesse attivato un giubbotto esplosivo causando una carneficina? Tutti gli ufficiali presenti sulla scena hanno testimoniato a favore del giovane Azarya. Perché non si è voluto tener conto del fatto che le procedure - nel caso di un terrorista sospettato di indossare una cintura esplosiva - indicano di sparare alla testa se questo si muove o muove una mano?
Ma la giustizia israeliana ha voluto da prova di imparzialità, in un paese in cui vige lo stato di diritto retto da una magistratura indipendente, in cui anche Presidenti e i Primi Ministri vengono condannati alla galera. Resta il fatto che, a giudizio della maggior parte delle opinioni pubbliche, sia israeliane che italiane, questa condanna inflitta al giovane soldato è eccessiva.
Michael Sfaradi giornalista e scrittore, italiano di nascita ma residente in Israele da oltre 30 anni, spesso impegnato come corrispondente di guerra, in un'intervista ad un giornale svizzero afferma: "
Serviva un colpevole e un colpevole è stato servito senza attenuanti. Come attenuante non è servita la giovane età dell'imputato in servizio di leva messo in una situazione di ordine pubblico che sarebbe stato invece compito della polizia."
Sul web fanno eco altri commenti:
Silvia: "L'unico Stato al mondo dove un soldato che uccide un terrorista viene processato e condannato! Non ho parole".
Aldo:"Come si può condannare un ragazzo di 18/19 anni, che probabilmente era emozionalmente instabile
Sono dei giovani, non dei professionisti. Non è giusto, la sua condanna è surreale. Non tutti riescono a mantenere sangue freddo in condizioni di emergenza, e lui è ancora un ragazzo".
Anna:" Quando penso ai palestinesi che offrono caramelle e cioccolatini ogni volta che uccidono un ebreo mentre Israele condanna un giovane diciottenne che ha svolto il suo dovere di soldato
queste sono le contraddizioni che non capisco e che mi fanno saltare i nervi". Non è possibile non criticare certa stampa e Tg italiani che sull'uccisione del terrorista palestinese lo descrivono: "sdraiato a terra". Non stava prendendo il sole, aveva appena compiuto un attentato.
Gabriella:" Dire che era un terrorista era superfluo? Questi "giornalisti" diffusori di notizie che divulgano mezze verità".
Anna: "Non è conveniente scrivere la verità. Tutta la notizia in fondo era per ricordare agli italiani i cattivi soldati israeliani che ammazzano i poveri pacifici palestinesi! E' preferibile non leggere più certa stampa".
E proprio mentre sto per terminare questo articolo, apprendo la terribile notizia di un ennesimo attentato a Gerusalemme compiuto da un terrorista palestinese che, alla guida di un camion ha volutamente investito e ucciso quattro soldati tutti giovanissimi, appena ventenni. Tre di loro erano soldatesse. Il criminale palestinese, ha poi ingranato la retromarcia passando diverse volte sui poveri corpi, marciando avanti e indietro.
Il sangue versato oggi possiamo metterlo in relazione con i fatti accaduti e illustrati in questo articolo perché i soldati presenti oggi a Gerusalemme, si sono dimostrati talmente intimoriti da quella sentenza che hanno esitato a sparare
E' stato un civile, l'unico che ha sparato e ucciso il terrorista alla guida del camion. Le decine di soldati presenti non hanno sparato un solo colpo. Questo è il tragico effetto della condanna inflitta al giovane soldato Azarya.Altre notizie riportano che anche dei militari hanno sparato
(ferraraitalia, 12 gennaio 2017)
La Cina è il principale partner commerciale di Israele
La Cina è il principale partner commerciale di Israele. "Innovate the Future" è stato il tema di un forum che si è tenuto lo scorso mese di dicembre presso l'Università di Tel Aviv, dove decine di imprenditori, leader e innovatori provenienti dalla Cina e Israele si sono riuniti per dialogare sulla cooperazione tecnologica tra i due paesi.
Il forum ha evidenziato il fatto che la Cina sia diventata il principale partner commerciale di Israele per la somma di 11,4 miliardi di dollari all'anno.
Gli investimenti cinesi in Israele sono pari a circa 6 miliardi di dollari, mentre gli investimenti israeliani in Cina sono di circa 1 miliardo di dollari.
La Cina è particolarmente interessata all'innovazione tecnologica israeliana e al talento in campi quali cyber-sicurezza, agricoltura, intelligenza artificiale e Internet Of Things.
L'evento ha visto un dialogo tra Hu Shuli di Caixin ed il leggendario imprenditore israeliano Yossi Vardi, che ha fondato decine di aziende ed è considerato come il "braccio destro" della Startup Nation.
I partecipanti alla conferenza hanno parlato anche degli ingredienti del successo israeliano, trattando anche il tema della "hutzpah" (faccia tosta) - caratterizzata da una propensione al rischio - che dà agli israeliani un vantaggio imprenditoriale, ma non è sempre compreso nella cultura più riservata della Cina.
Amos Avner, socio fondatore a StartupEast - una piattaforma leader di gestione delle startup israeliane nei mercati asiatici - ha sottolineato come questo forum sia stato molto costruttivo grazie al "il dialogo diretto tra i responsabili politici di entrambe le parti".
(SiliconWadi, 12 gennaio 2017)
Netanyahu: la conferenza di Parigi è una 'truffa palestino-francese'
Ultimo tentativo di afferrare il passato prima che arrivi futuro
La Conferenza di Parigi per il Medio Oriente "è una truffa palestinese sotto egida francese, il cui scopo è di adottare altre posizioni anti-israeliane": lo ha affermato oggi il premier Benyamin Netanyahu ricevendo il ministro norvegese degli Esteri Borge Brende. "Dobbiamo far fronte alla grave minaccia di forze terroristiche che puntano non solo alla distruzione di Israele ma anche alla distruzione di ogni possibilità di pace", ha detto Netanyahu. "E ci sono altri sforzi che distruggono le possibilità di pace: uno di questi è la conferenza di Parigi", a cui hanno aderito una settantina di Paesi ma a cui Israele non si presenterà. "E' un residuo del passato, un ultimo tentativo di afferrare il passato, prima che arrivi il futuro", ha concluso il premier con un'allusione al prossimo ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump.
(ANSAmed, 12 gennaio 2017)
Il Monte del Tempio, dove oggi gli ebrei sono dei paria
di Niram Ferretti
E' arrivato il momento che agli ebrei sia concesso di pregare sul Monte del Tempio, ovvero sul luogo più sacro per la religione ebraica, il luogo che è conosciuto anche come Spianata delle Moschee in virtù delle due moschee musulmane edificate su di esso secoli e secoli dopo il primo e il secondo Tempio .
E' arrivato il momento che il cosiddetto status quo imposto dal 1967 è che impedisce agli ebrei di potere pregare là dove hanno ogni diritto di pregare, sia modificato. Non è più possibile, dopo 49 anni, continuare a tollerare il conculcamento di questo elementare diritto ebraico da parte di un Waqf Islamico il quale impone a un archeologo israeliano, Gabriel Barkay, di non usare le parole "Monte del Tempio" durante una conferenza a un gruppo di studenti americani. In realtà la vigilanza palestinese voleva fosse espulso, ma la polizia israeliana è giunta ad un compromesso, ed è questo, "Tu, ebreo-israeliano, non puoi qui, dove sorgeva il Tempio nemmeno citarlo se vuoi rimanere, se no te ne devi andare".
D'altronde non è stato forse l'Unesco a proclamare che la memoria ebraica sia cancellata completamente dal principale luogo santo dell'ebraismo decretando che esso venga solo chiamato con il suo nome arabo? Ed è tutto splendidamente conseguente. Coerentemente conseguente. Poiché gli ebrei "con i loro piedi sporchi" non possono "contaminare" il suolo dove si ergono le moschee di Al Aqsa e la Cupola della Roccia, come ha affermato nel 2015 il leader "moderato" dell'Autorità Palestinese, Abu Mazen, dando vita alla lunga serie di accoltellamenti che ha piagato Israele per mesi.
E sempre nel 2015, Lahav Harkov, una giornalista del Jerusalem Post che ha avuto l'ardire di manifestare un momento di commozione mentre si trovava sul Monte del Tempio, si è sentita dire sempre dalla polizia israeliana istigata dalla vigilanza palestinese, "Qui non puoi chiudere gli occhi e piangere perché chiudere gli occhi e piangere è come pregare, se lo fai te ne devi andare".
Sono solo due dei tanti episodi di bullismo e intimidazione nei confronti di ebrei che non salgono al Monte dei Tempio per provocare, e che la polizia israeliana non può fare altro che subire perché deve applicare una legge iniqua che impedisce agli ebrei di potere, in modo regolato, in giorni stabiliti, salire al proprio luogo sacro e pregare, come accade a Hebron, alla Tomba dei Patriarchi, dove ebrei e musulmani si alternano da decenni in preghiera in un luogo che entrambi considerano sacro.
Sul Monte del Tempio che è anche Spianata delle Moschee, i diritti religiosi degli ebrei sono violati da 49 anni e sono tutelati unicamente quelli musulmani. La concessione di Moshe Dayan fatta nel 1967 di garantire agli arabi il controllo amministrativo del sito nella convinzione che in questo modo esso non si sarebbe trasformato nel fulcro simbolico del nazionalismo palestinese, come tutte le concessioni fatte da Israele, si è rivelata una trappola. Oggi, il Monte del Tempio è stato di fatto requisito dalla protervia musulmana. Quello che all'epoca sembrava un saggio e doloroso accordo basato sulla realpolitik, seppure stipulato pagando un prezzo esorbitante, concedere la tutela del sito più santo per la religione ebraica all'Islam, per il quale esso rappresenta non il primo ma il terzo luogo santo della propria religione, oggi ha trasformato gli ebrei che salgono sul Monte del Tempio in paria protetti dalla polizia israeliana. Paria i quali non hanno nemmeno il diritto di pronunciare le parole "Monte del Tempio" e di commuoversi a rischio di essere cacciati.
Nell'ottobre del 2014, Yehuda Glick, uno dei sostenitori prominenti del diritto degli ebrei di potere pregare sul Monte del Tempio fu vittima di un tentativo di omicidio da parte di un giovane palestinese poi ucciso dalla polizia israeliana ed esaltato dal "moderato" Abu Mazen come un martire.
E' arrivato il momento, con il sostegno degli Stati Uniti, di concedere agli ebrei la fondamentale libertà di culto che gli spetta, là dove il primo e il secondo Tempio sono esistiti millenni prima che il conquistatore musulmano imponesse, come ha sempre fatto dove si è insediato, il proprio dominio incontrastato.
(L'informale, 11 gennaio 2017)
Falce e martello sulla tomba dell'ebreo socialista
Alla mostra a Palazzo Medici la storia del pisano Carlo Cammeo ucciso dai fascisti
di Adam Smulevich
Primavera del 1921. Molte nubi iniziano ad addensarsi sull'Italia in quella che si rivelerà l'ultima stagione di libero impegno politico e democratico per oltre un Ventennio.
Carlo Cammeo è un giovane insegnante e militante socialista. Crede nella sua militanza, ma avverte anche il pericolo di tirannia che incombe: questa almeno gli sarà risparmiata. Ma non la violenza. Vittima di un agguato, è ucciso da una squadraccia fascista fuori da scuola. Sono in tanti a piangerlo. Sulla sua tomba a Pisa, caso più unico che raro nella storia dell'ebraismo italiano, sono incisi una falce e un martello. L'ultimo omaggio del socialismo pisano al compagno caduto. Quella di Cammeo è una delle vicende meno conosciute e al tempo stesso più significative raccontate nella mostra Ebrei in Toscana (XX-XXI secolo) alla Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi, realizzata dall'Istoreco di Livorno con il sostegno della Regione Toscana. Già in giovane età Cammeo si distingue per il forte impegno politico nelle fila del partito socialista. Assume tra le altre la carica di segretario della Camera del Lavoro di Pisa ed è inoltre redattore del periodico L'Ora nostra. A risultargli fatali sono due brevi articoli. Nel primo, spiega Elena Mazzini, una delle curatrici della mostra, attacca la strumentalizzazione del concetto di patriottismo che alcuni fascisti fanno a proposito della morte di uno dei loro. Nel secondo ironizza su una grottesca sfilata di qualche giorno prima. La sentenza è scritta: a Cammeo va data una lezione che sia da esempio per tutti. La mattina del 13 aprile 1921 un gruppo di ragazze, fra cui Mary Rosselli Nissim, figlia di un'illustre famiglia ebraica di fede mazziniana e fervente nazionalista, si presenta davanti alla scuola in cui Cammeo insegna, invitandolo con prepotenza a uscire dall'aula. Giunto nel cortile, il maestro viene circondato da un gruppo di squadristi. Due spari, fatali, e in pochi istanti muore. Una vicenda emblematica per vari motivi, sottolinea Mazzini. «A mio avviso - afferma - il caso Cammeo ci dice molte cose sul periodo preMarcia su Roma, sulle violenze squadriste sul territorio toscano così come su quello nazionale. Ma ci dice qualcosa anche sugli ebrei italiani e il fascismo». L'integrazione della minoranza nella vita del paese, il suo diffuso patriottismo, il carattere prevalentemente borghese dell'ebraismo italiano e la mancanza, almeno nel fascismo delle origini, di aperte posizioni antisemite. Tutti fattori che, sostiene la studiosa, avrebbero portato i cittadini ebrei a sostenere o non sostenere Mussolini per ragioni del tutto analoghe a quelle che mossero gli altri italiani. Per la prima categoria, un tragico errore di valutazione. Il 5 settembre del '38, sempre a Pisa, nella tenuta di San Rossore, il re Vittorio Emanuele III firmò infatti le infami Leggi Razziali che esclusero gli ebrei dalla scuola, dalle professioni, dalla società. Quel giorno, anche i più ciechi sostenitori del fascismo capirono la portata del loro sbaglio.
(Corriere Fiorentino, 12 gennaio 2017)
Roma - Torna l'ottava edizione di "Memorie d'Inciampo"
Mercoledì 11 e giovedì 12 gennaio 2017 l'artista tedesco Gunter Demnig installerà 24 nuove Stolpersteine(pietre d'inciampo) nei marciapiedi antistanti le abitazioni di alcuni deportati razziali e politici
ROMA - Torna a Roma l'ottava edizione di Memorie d'Inciampo, l'appuntamento nel quale l'artista tedesco Gunter Demnig installerà 24 nuove Stolpersteine (pietre d'inciampo) nei marciapiedi antistanti le abitazioni di alcuni deportati razziali e politici. L'inaugurazione avrà luogo mercoledì 11 gennaio 2017 alle ore 16.00 in via Omero 14, presso l'Istituto Svedese di Studi Classici.
Come spiegato in una nota: "L'idea di Demnig risale al 1993 quando l'artista è invitato a Colonia per una installazione sulla deportazione di cittadini rom e sinti. All'obiezione di un'anziana signora secondo la quale a Colonia non avrebbero mai abitato rom, l'artista decide di dedicare tutto il suo lavoro alla ricerca e alla testimonianza dell'esistenza di cittadini scomparsi a seguito delle persecuzioni naziste: ebrei, politici, militari, rom, omosessuali, testimoni di Geova, disabili. Con un segno concreto e tangibile ma discreto e antimonumentale, a conferma che la memoria deve costituire parte integrante della nostra vita quotidiana. Sceglie dunque il marciapiede prospiciente la casa in cui hanno vissuto i deportati e vi installa altrettante "pietre d'inciampo", sampietrini del tipo comune e di dimensioni standard (10x10 cm.). Li distingue solo la superficie superiore, perché di ottone lucente. Su di essa sono incisi: nome e cognome del/lla deportato/a, età, data e luogo di deportazione e, quando nota, data di morte".
La definizione "inciampo" sta a sottolineare non certo un intralcio fisico, ma in qualche modo "l'obbligo" visivo e mentale a interrogarsi su quella diversità e agli attuali abitanti della casa a ricordare quanto accaduto in quel luogo e a quella data, intrecciando continuamente il passato e il presente, la memoria e l'attualità.
L'ottava edizione di Memorie d'inciampo a Roma ha, inoltre, il patrocinio dei sei municipi in cui verranno collocate le nuove 24 pietre d'inciampo: Municipio I, Municipio II, Municipio V, Municipio VIII, Municipio XII, Municipio XIII. Sommate a quelle delle sette edizioni precedenti, raggiungeranno il numero totale di 260. Il giorno e l'ora della collocazione delle pietre è annunciata agli inquilini da una lettera del Municipio in cui si spiega che il progetto vuole "ricordare abitanti del quartiere uccisi e perseguitati dai fascisti e dai nazisti, deportati, vittime del criminale programma di eutanasia o oggetto di persecuzione perché omosessuali".
Curato da Adachiara Zevi, il progetto si avvale di un comitato scientifico composto da Anna Maria Casavola, Annabella Gioia, Elisa Guida, Antonio Parisella, Liliana Picciotto, Micaela Procaccia, Michele Sarfatti e di un comitato organizzativo composto da Marina Levi Fiorentino, Annabella Gioia, Bice Migliau, Eugenio Iafrate, Sandra Terracina.
Il sito web www.memoriedinciampo.com, realizzato da Giovanni D'Ambrosio e Paolo La Farina, documenta tutte le edizioni precedenti.
Anche questa edizione sarà inoltre affiancata dal progetto didattico curato da Annabella Gioia e Sandra Terracina: ogni Municipio coinvolto sceglie una o più scuole cui affidare una ricerca storica sui perseguitati alla cui memoria sono dedicati i sampietrini. I risultati delle ricerche saranno pubblicati, come i precedenti, sul sito.
(artemagazine, 11 gennaio 2017)
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Roma - Gaffe alla Garbatella: il presidente inciampa sulla pietra d'inciampo
di Paolo Brogi
Via del Porto Fluviale 35, ieri ore 12. Niente «pietra d'inciampo» per la vittima della Shoah Alberto Di Segni ucciso a Sachsenhausen il primo gennaio del 1945. L'VIII Municipio non c'è e non ha mandato nessuno. Dalla presidenza dell'VIII, interpellata dai curatori di Arte e Memoria, giunge un laconico: «La vostra lettera? E' qua. Non l'abbiamo neanche aperta ... capita, con tutto quello che abbiamo da fare» ... Sconcerto e incredulità tra i presenti, per nulla mitigati dall'informale aggiunta fornita a Marina Levi Fiorentino di Arte e Memoria dal Municipio: «Ce ne occuperemo appena potremo, nei prossimi giorni...» Unico neo, è stato fatto osservare, è l'impossibilità di esserci per l'artista Gunter Demnig che tradizionalmente provvede in prima persona a sistemare le «pietre d'inciampo» (ne ha già messe 60 mila in tutta Europa): è venuto dalla Germania per questa nuova posa di 24 pietre prevista per ieri e oggi a Roma, poi dovrà ripartire ... La carovana della memoria ieri aveva già sistemato otto pietre in ricordo delle vittime della Shoah prima di essere costretta a dare forfait per la nona. Tutto è filato liscio nel XIII, XII e I Municipio con la partecipazione di familiari, studenti, rappresentanti municipali, esponenti della Comunità ebraica, polizia municipale. Poi in via del Porto Fluviale ecco l'intoppo. Giornataccia comunque quella di ieri all'VIII Municipio, dove la maggioranza del M5S è in piena fibrillazione, con consiglieri pro e contro la presidenza. E dove ieri, all'indomani di un incontro in Campidoglio di consiglieri in rotta con la Presidenza, il presidente Paolo Pace la ritirato le deleghe ai due assessori, Sandra Giuliani (Cultura), e Rodolfo Tisi (Urbanistica). L'atmosfera è incandescente ed è stato convocato un consiglio per venerdì. E Alberto Di Segni? Può attendere ancora.
(Corriere della Sera - Roma, 12 gennaio 2017)
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Parashà della settimana: Vayechì (Visse)
Genesi 47.28-50.26
- La parashà di Vayechì (visse) riferisce sulla vita di Giacobbe che chiude il libro della Genesi, dove si trova scritto il programma storico del popolo ebraico. Nella sua vita di peregrinazioni Giacobbe ha dovuto combattere contro Esaù per difendere la sua identità, contro Labano per mantenere il suo possesso e contro la violenza dei suoi stessi figli. La sua identità perché egli è il vero Israele, il suo possesso perché la terra d'Israele è sua proprietà e la violenza intesa come "odio gratuito"tra i fratelli.
Giacobbe scende in Egitto con la sua famiglia composta di 70 anime. In questa terra cresce e si moltiplica fino a diventare un popolo. Unico caso nella storia dei popoli di difficile comprensione umana, come pure le profezie di Giacobbe sulla fine dei tempi.
"Riunitevi e vi dirò quello che vi accadrà nei tempi a venire. Adunatevi e ascoltate" (Gen. 49.1). Rashì commenta che Giacobbe voleva rivelare ai suoi figli la fine dei tempi, ma la presenza divina si ritirò da lui e disse tutte altre parole. La tradizione orale spiega che Giacobbe ebbe un sentimento di reticenza nei confronti dei suoi figli che non avrebbero meritato di intendere questi segreti a causa dei loro "litigi" e della loro assimilazione ai costumi egiziani. Ma i figli gli risposero: "Ascolta, Israele, il Signore è nostro D-o, il Signore è Uno". Il tuo D-o è anche il nostro D-o e pertanto noi siamo meritevoli.
"Riunitevi" è il Kibbuz galuiot cioè la riunione degli esiliati e "ascoltate" è la riunione delle anime. Questo processo corrisponde alle due fasi della Redenzione. La prima consiste nel ritorno degli esiliati con la ricostruzione materiale della Nazione (Messiah figlio di Giuseppe) e una seconda fase (Messiah figlio di Davide) con la riunione "spirituale" del popolo ebraico, da cui nascerà il re Messiah. La Redenzione (Gheullà) si caratterizza in tre fasi: il ritorno, la riunione degli esiliati e l'indipendenza politica.
Il messaggio che Giacobbe trasmette ai suoi figli è chiaro. Nel momento in cui vi sarà questa riunione"spirituale" tra i fratelli, potrò svelarvi il segreto della fine dei giorni. Difatti il rapporto tra Giuseppe e Giuda è ancora un rapporto di facciata in quanto i fratelli temono la sua vendetta! La Redenzione pertanto è un processo lento e complicato, fatto di ombre e di luce, di sorprese e di miracoli. Per questa ragione Giacobbe sceglie la strada delle benedizioni, da cui si può intravedere la futura storia del popolo ebraico fino all'arrivo del Messiah figlio di Davide.
Ruben è il figlio primogenito e come tale destinato ad essere il capo. Ma Ruben non era all'altezza della situazione. Difatti nell'incidente di Bilhà (Gen. 35.22) concubina di suo padre, egli dimostra la sua mancanza di autocontrollo coabitando con questa donna.
Simone e Levi sono fratelli e le loro armi sono strumenti di violenza. "Nel loro conciliabolo non entri l'anima mia - dice Giacobbe - perché essi nella loro collera hanno ucciso un uomo" (Gen. 49.6). E' da notare che per questo crimine il testo biblico tace l'identità della vittima che secondo l'interpretazione della Chiesa cattolica è la profezia per l'uccisione di Cristo da parte degli ebrei. Invece secondo una tradizione ebraica più verosimile, la vittima sarebbe il figlio di Chamor, che Simone e Levi avevano passato a fil di spada per aver violentato la loro sorella Dina. La violenza che portano nel loro comportamento esige una precauzione e per questo vengono dispersi tra le tribù d'Israele. Simone nella futura Nazione ebraica sarà una enclave di Giuda e Levi non avrà territorio ma solo città di abitazione. Per contro l'attività spirituale di queste due tribù sarà esemplare. I leviti si occuperanno del Tempio del Signore e Simeone delle scuole di studio della santa Torah.
Giuda il quarto figlio di Lea sarà il destinato a tenere lo scettro regale. "A te i tuoi fratelli renderanno omaggio" (Gen. 49.8). Potenza politica e saggezza sono qualità necessarie perché il potere non si allontani dalle sue mani. Da Giuda verrà la linea ereditaria messianica che si trova nella benedizione pronunciata da Giacobbe nei suoi confronti.
Zavulun e Issaccar si aiuteranno a vicenda secondo le opinioni dei nostri Saggi. Il primo dominerà nei commerci e potrà sostenere il secondo agli studi di Torah per mezzo della sua ricchezza ottenuta dagli affari.
Dan sarà un serpente che morde ai talloni ed è per questo un aiuto prezioso per la Nazione. Difatti Israele si troverà obbligato nel corso della sua storia ad usare mezzi di fortuna per salvare la sua esistenza.
Gad e Ascher. Il primo sarà una sentinella sulle frontiere per prevenire ogni tentativo di violazione di confini e difendere i suoi fratelli dai pericoli, mentre il secondo avrà abbondanza di ricchezza dai prodotti della terra.
Naftalì sarà l'artista tra i suoi fratelli. Egli comunicherà con belle parole e sarà un "diplomatico" nato che non tradirà la sua missione che porterà a termine con abilità e dignità.
Giuseppe, un figlio fertile, ha mostrato una qualità rara: quella di saper dimenticare senza conservare rancore anche se giustificato. "I fratelli lo hanno amareggiato ma il suo arco è restato saldo" (Gen. 49.23). Giacobbe ha riconosciuto in Giuseppe colui che ha compreso il senso della missione dell'uomo e con l'aiuto di Giuda egli costruirà la Nazione ebraica. Una caratteristica poco nota di Giuseppe è il suo amore per la terra d'Israele, detta anima del popolo ebraico.
Beniamino è il figlio cadetto nato sulla via di Betlemme dove sua madre Rachele trovò la morte dopo il parto. E' chiamato da Giacobbe "un lupo che divora la sua preda" in riferimento ai sacrifici di animali che saranno immolati sull'altare del Signore. Difatti la tribù di Beniamino avrà in eredità il territorio di Gerusalemme dove sorgerà il Tempio. F.C.
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- Con l'ultimo capitolo del libro della Genesi si conclude la storia della famiglia patriarcale di Abramo. Quello che qui si descrive è indubbiamente un "lieto fine". Giacobbe non è "sceso con cordoglio nel soggiorno dei morti", ma in pace è stato "riunito al suo popolo" ed ha potuto essere sepolto dove desiderava: nella grotta del campo di Macpela, insieme ad Abramo, Sara, Isacco e Rebecca, accompagnato nella tomba, con grande solennità, non solo dai familiari ma anche dalle più alte autorità del paese d'Egitto.
Anche il grave dissidio tra Giuseppe e i suoi fratelli si è serenamente concluso con una esplicita richiesta di perdono da parte dei colpevoli.
Tutto bene quel che finisce bene? Tutto bene, sì, ma il bene consegnato da Giacobbe ai figli non è qualcosa che finisce con loro, perché è la benedizione che Dio ha dato ad Abramo affinché sia trasmessa alla sua progenie e diventi benedizione per tutte le famiglie della terra (Gen. 12:3).
La famiglia patriarcale di Abramo è il seme caduto in terra egiziana che porta frutto in tempi diversi: subito, con la benedizione dei granai pieni di Faraone; in seguito, con la crescita al suo interno del popolo di Dio destinato a diventare la nazione d'Israele.
Giacobbe benedice i suoi figli
Prima di essere "riunito al suo popolo", Giacobbe raduna i suoi figli intorno a sé e li benedice "dando a ciascuno la sua benedizione particolare" (Gen. 49:28).
Dunque è il popolo nella sua interezza che Giacobbe benedice: d'ora in poi sarà lui, il popolo, il collocutore di Dio; e anche se il riferimento genealogico ai padri continuerà ad avere un valore identitario fondamentale, gli intermediari di cui Dio in seguito si servirà per trattare con il popolo saranno scelti dal Lui stesso, direttamente, e in questa scelta si manifesterà sua volontà sovrana.
"Vi annuncerò ciò che avverrà nei giorni a venire" (Gen. 49:1), dice Giacobbe ai figli radunati intorno a lui. Quindi è lecito a noi, che siamo parte di questi "giorni a venire", cercare di spiegare queste parole alla luce di ciò che in seguito è avvenuto ed è presentato nel resto della Bibbia.
Sappiamo allora che nella predicazione e nelle invettive dei profeti comparirà sempre più spesso e più distintamente la figura di un personaggio particolarissimo che Dio sceglierà per la guida e la salvezza del suo popolo: il Messia.
Due benedizioni particolari
Giacobbe benedice tutti i suoi figli, ad uno ad uno, e come abbiamo già detto in questo si può vedere la benedizione per il popolo futuro nel suo complesso, anche nei suoi aspetti più fortemente negativi.
Ci sono però due benedizioni che si distinguono nettamente dalle altre: quelle di Giuda e di Giuseppe. Sono le più lunghe: 5 versetti per ciascuna delle due, mentre ogni altra ne ha al massimo 2; sono totalmente positive. E' naturale vedere in esse anticipazioni della benedizione che verrà a Israele e al mondo dalla persona del Messia.
Ma sono due benedizioni riguardanti due Messia diversi, come dice una corrente dell'ebraismo? Per comodità di esposizione e ricerca possiamo inizialmente assumere che in Giuda e Giuseppe la Scrittura abbia voluto alludere anticipatamente ai caratteri di due differenti Messia. Esaminiamoli allora.
Sovranità e grazia di Dio
Nel Messia di Giuda si distinguono chiaramente i caratteri della forza: "la tua mano sarà sulla cervice dei tuoi nemici"; e del dominio: "lo scettro non sarà rimosso da Giuda". Il riferimento poi a un misterioso "Shilo, a cui ubbidiranno i popoli" ha fatto pensare che fosse un riferimento al futuro Messia. Ed è questa l'interpretazione tradizionale in ambito ebraico, accolta anche dai cristiani.
Il Messia di Giuseppe si presenta invece in modo diverso. Lì si parla di un "ceppo di albero fruttifero... vicino a una sorgente... i suoi rami si estendono sopra il muro". E' il linguaggio del Salmo 1: un albero piantato presso a una sorgente d'acqua, quindi non bisognoso della pioggia; i suoi frutti sono a disposizione anche di altri, perché i suoi rami si estendono "sopra il muro". I nemici non vengono sconfitti e definitivamente soggiogati, anzi continuano a sparare: "Gli arcieri l'hanno provocato, gli hanno lanciato frecce, l'hanno perseguitato". Il Messia non risponde al fuoco, si dice soltanto che non è definitivamente atterrato: "ma il suo arco è rimasto saldo; le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate dalle mani del Potente di Giacobbe, da colui che è il pastore e la roccia d'Israele".
Il riferimento alla roccia (אבן) rimanda alla pietra angolare (אבן לראש פנה) del Salmo 118: "La pietra che i costruttori hanno rigettata è diventata pietra angolare" (Sal. 118:22).
Si può notare inoltre che soltanto nelle parole rivolte a Giuseppe si parla di benedizione: per ben cinque volte si usa il termine "benedizioni" e una volta il verbo "benedire"
In entrambi i casi infine ci sono riferimenti ai fratelli. A Giuda si dice: "te loderanno i tuoi fratelli"; di Giuseppe invece si dice che sarà "il principe dei suoi fratelli". Di nessun altro si dice qualcosa di simile.
Sembra chiaro dunque che con il riferimento a queste due figure la Scrittura abbia voluto lasciare l'indicazione di qualcosa di molto particolare e importante che riguarda il futuro ed è collegato a Giuda e Giuseppe.
Si pensi per esempio a quello strano episodio, che sembra del tutto estraneo alla vicenda di Giuseppe, in cui Giuda si unisce alla sua nuora Tamar credendola una prostituta. E' un'altra penosa storia di inganni e controinganni, ma proprio di qui passerà la linea del Messia, come attesta anche l'evangelista Matteo, che nella sua genealogia cita soltanto tre donne: Tamar, Rahab e Rut (Mat. 1:1-17).
Chi scrive naturalmente non crede che nelle parole di Giacobbe si alluda a due Messia diversi, ma che ci sia un unico Messia comparso la prima volta in una forma che ha i caratteri di Giuseppe, per offrire la benedizione del perdono dei peccati a Israele e al mondo, e che apparirà una seconda volta con i caratteri di Giuda, per manifestare la sua signoria su tutti: Israele prima e nazioni poi. M.C.
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(Notizie su Israele, 12 gennaio 2017)
L'accordo nucleare con l'Iran: il grande inganno di Obama
Barack Hussein Obama lo abbiamo visto la notte del 10 gennaio, mentre parlava da Chicago, lo abbiamo ascoltato elencare i suoi "successi" in politica estera, ed è stato un elenco penoso di fallimenti spacciati per grandi vittorie: l'avvicinamento a Cuba, la "cattura" delle menti degli attentati dell'11 settembre, il blocco del programma nucleare iraniano ottenuto "senza sparare neanche un colpo".
Obama si è autocelebrato, come si è autodecorato, il giorno di saluto alle forze armate, con la massima onorificenza civile.
Tutte le tre affermazioni da noi riportate non corrispondono a quella che è la realtà che noi osserviamo, ma il vero inganno di Obama è stato l'accordo nucleare con l'Iran. Obama ha parlato di una grande vittoria con l'Iran, peccato che sia stata in realtà una grande vittoria PER l'Iran.
Con questo accordo Teheran non ha rinunciato al progetto per produrre un'arma atomica, ha solo accettato di rallentare la ricerca a fini militari per alcuni anni, l'Iran ha ottenuto che tra 10 anni non avrà più alcun vincolo riguardo alla ricerca nucleare, al numero di centrifughe prodotte ed impiegate, alla produzione di acqua pesante e via dicendo. In questi anni però gli scienziati iraniani potranno studiare, su piccoli numeri (su prototipi ci verrebbe da dire) le nuove e moderne centrifughe, i nuovi reattori sperimentali, e le nuove procedure industriali per massimizzare la resa della catena produttiva della futura arma atomica islamica sciita.
Con questo accordo l'Iran, non solo non ha rinunciato a nessuna delle sue linee di ricerca nucleari, ma ha ottenuto di tornare nella rete interbancari a e poter acquistare alta tecnologia in Europa e nel resto del mondo. Grazie alla fine delle sanzioni le forze convenzionali di Teheran diventeranno temibili in tutta la regione, la dittatura teocratica sciita rafforzerà la sua presa sul paese, gli alleati di Teheran in medio oriente vedranno un flusso di denaro sempre più costante e cospicuo giungere nelle loro casse direttamente da Teheran.
In cambio l'America non ha ottenuto nulla, se non la possibilità di potersi ritrarre dagli impegni storici verso gli alleati di Washington nella regione.
Grazie alla remissività di Obama ora nello stretto di Hormuz imperversano i Pasdaran che sognano di diventare, non solo i Guardiani della Rivoluzione Islamica Khomeinista, ma di essere presto anche i guardiani dell'accesso al Golfo Persico, che l'Iran rivendica come propria pertinenza esclusiva dal primo giorno della Rivoluzione Islamica.
Ecco che la "vittoria" di Obama in realtà è una grande sconfitta degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Ma forse noi abbiamo male interpretato le parole di Obama, il presidente uscente degli USA forse intendeva dire che non è stata una vittoria per gli Stati Uniti, ma è stata una vittoria assoluta per lui e per lui solo, una vittoria Barak Hussein Obama.
(Geopolitical Center, 11 gennaio 2017)
Netanyahu: Abbiamo le prove sullo sforzo di Obama per la risoluzione Onu anti-Israele
Israele ha la prova inequivocabile che l'amministrazione Obama ha condotto lo sforzo per far passare la risoluzione anti-Israele nel Consiglio di sicurezza dell'ONU.
La risoluzione delle Nazioni Unite non è stata una riformulazione di cose che tutte le amministrazioni precedenti hanno detto, ma è stata in realtà un'importante rottura con la politica degli Stati Uniti.
Lo dichiara il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu.
(AGENPARL, 10 gennaio 2017)
La greca Energean userà il sistema Fpso per l'estrazione di gas dai giacimenti Karish e Tanin
GERUSALEMME - La società energetica greca Energean estrarrà gas dai giacimenti offshore israeliani Karish e Tanin utilizzando unità galleggianti di produzione, stoccaggio e scarico (Floating Production Storage and Offloading Unit - Fpso). Lo ha annunciato oggi Mathios Rigas, amministratore delegato di Energean, nel corso di una conferenza stampa che si è svolta a Tel Aviv oggi. Il sistema Fpso è utilizzato nell'industria petrolifera per la produzione e lo stoccaggio di petrolio o di gas naturale e la distribuzione del prodotto sulle navi-appoggio. Generalmente il sistema Fpso viene utilizzato in luoghi di produzione distanti dalla costa non raggiungibili da oleodotti o gasdotti. La società greca ha accettato ad agosto 2016 di versare 150 milioni di dollari alle società del consorzio, Noble Energy e Delek Group, nell'ottica dell'Autorità anti-trust israeliana di dare competitività al mercato energetico nazionale. Energean si è impegnata a presentare il piano di sviluppo dei due giacimenti entro maggio 2017, ed ottenere un finanziamento di circa 1,3 miliardi di dollari entro dicembre 2017. Secondo l'accordo, Energean inizierà a fornire gas all'economia israeliana entro il 2020. La scelta del sistema Fpso deriva dal fatto che l'unità navale può produrre tre miliardi di metri cubi all'anno di gas in 25 anni, ha spiegato Rigas.
Lo scorso 6 dicembre, il Consiglio petrolifero del ministero delle Infrastrutture, dell'Energia e delle risorse idriche israeliano aveva raccomandato al dicastero di approvare l'accordo che prevede la cessione dei giacimenti di gas naturale di Karish e Tanin alla società greca Energean. I giacimenti di Karish e Tanin contengono circa 60 miliardi di metri cubi di gas. Da parte sua, il ministro dell'Energia Yuval Steinitz ha commentato la vendita dei giacimenti di Karish e Tanin affermando: "Un passo importante per spezzare il monopolio nel settore del gas entro i tempi prestabiliti". L'ingresso di nuovi attori nella gestione del mercato del gas rafforzerà la competitività e la diversificazione, rafforzando la sicurezza energetica, ha aggiunto Steinitz. Infine, il ministro israeliano ha sottolineato che la competitività nel settore favorirà la sostituzione del carbone nelle centrali di Hadera con il gas naturale, migliorando la salute della popolazione israeliana.
(Agenzia Nova, 11 gennaio 2017)
Istituti Italiani di Cultura di Haifa e Tel Aviv presentano il restauro di un capolavoro di Elio Petri
Via alla quinta edizione di Another Look
Prende il via domani 12 gennaio in Israele la quinta edizione di 'Another Look' evento organizzato in collaborazione con gli Istituti Italiani di Cultura di Haifa e di Tel Aviv e con la Delegazione dell'Unione Europea in Israele. Il progetto legato al cinema si propone di sensibilizzare il pubblico locale tanto al patrimonio cinematografico europeo, quanto agli strumenti ideati e utilizzati per preservarlo. Grazie alla collaborazione della EUNIC e delle Rappresentanze dei 10 paesi partecipanti, saranno proiettati 10 film in versione restaurata digitale di altissima qualità. Le opere presentate sono state selezionate sulla base del valore artistico e del significato che esse ricoprono nel documentare l'evoluzione storica e i molteplici aspetti della cinematografia europea. Gli Istituti Italiani di Cultura di Tel Aviv e di Haifa presentano l'opera dal titolo 'La decima vittima', uno dei capolavori di Elio Petri. Il festival si aprirà alle ore 21 presso la Cineteca di Tel Aviv.Ma interesserà anche le Cineteche di Haifa, Tel Aviv, Gerusalemme, Holon e Herzliya.
(il Velino, 11 gennaio 2017)
Egitto - Il Fronte della gioventù dei Fratelli musulmani si stacca dalla "vecchia guardia"
IL CAIRO - Nuove spaccature all'interno dei Fratelli musulmani egiziani, gruppo considerato fuorilegge dalle autorità del Cairo. Secondo il quotidiano dell'opposizione "Shorouk", i dissidenti del Fronte della gioventù avrebbero deciso a dicembre 2016 di scegliere una nuova leadership, separata dalla guida spirituale Mohamed Badie, attualmente in carcere, affermando che "la tranquillità non è nei nostri principi", criticando l'atteggiamento dei vertici del gruppo. Tuttavia, secondo la ricostruzione del quotidiano, la "vecchia guardia" del gruppo islamista, guidata da Mahmoud Ezzat, ha duramente condannato questa presa di posizione, affermando che i dissidenti non sono più "né fratelli, né musulmani".
Le attività della Fratellanza sono state bandite nel settembre del 2013, dopo la deposizione dell'ex presidente Mohammed Morsi, esponente di spicco del gruppo islamico. Nell'ottobre dello stesso 2013 il governo ha formato un comitato "ad hoc" incaricato di gestire i fondi e le proprietà della Fratellanza. Tale organismo ha sequestrato finora decine di strutture - come aziende, scuole e centri islamici - del valore di miliardi di sterline egiziane come parte del giro di vite contro il gruppo considerato ormai fuorilegge in Egitto. I Fratelli musulmani egiziani hanno respinto qualsiasi ipotesi di avviare un processo di riconciliazione con il governo del presidente Abdel Fatah al Sisi. Commentando le voci su una possibile riconciliazione che si susseguono da giorni, dopo le dichiarazioni del numero due del gruppo islamico, Ibrahim Munir, possibilista in merito, il profilo Facebook dei Fratelli musulmani ha pubblicato una nota che pone fine a qualsiasi speranza di accordo tra le parti".
La giustizia egiziana ha finora scongiurato il rischio che l'ex presidente Morsi sia giustiziato. La Cassazione ha deciso infatti di commutare in ergastolo la condanna a morte inflitta nel giugno 2015 in relazione all'evasione dal carcere dei vertici della Fratellanza musulmana: ora il leader della Fratellanza dovrà sottoporsi a un nuovo processo per queste accuse. Il 16 giugno 2015 la Corte penale del Cairo aveva stabilito che Morsi, insieme ad altri cinque dirigenti della Fratellanza musulmana, fosse condannato a morte per aver consentito l'evasione dal carcere di numerosi esponenti di spicco dei Fratelli musulmani il 28 gennaio del 2011. Secondo i giudici, i Fratelli musulmani avrebbero chiesto l'aiuto di 800 combattenti del gruppo palestinese Hamas e degli sciiti di Hezbollah per favorire l'evasione di massa dalle carceri egiziane.
L'ex capo dello Stato è stato condannato anche nell'aprile del 2015 a 20 anni di detenzione per l'uccisione di dimostranti nel dicembre 2012 negli scontri di Etihadia: questa pena è stata confermata in modo definitivo e non appellabile il 22 ottobre 2016. Morsi ha ricevuto altri 40 anni di carcere lo scorso 18 giugno perché considerato una spia al servizio del Qatar. Gli avvocati hanno presentato ricorso contro questa sentenza. Nello stesso giorno Morsi ha ricevuto un altro ergastolo perché sospettato di aver agito anche per conto dei servizi segreti palestinesi di Hamas. Anche in questo caso è stato fatto ricorso in appello. L'ex presidente è sottoposto a un altro processo (il quinto) per aver insultato la corte. Anche Mohamed Badie, guida suprema della Fratellanza, era stato condannato a morte. E anche nel suo caso, come per Morsi, la Cassazione ha ordinato un nuovo processo.
(Agenzia Nova, 11 gennaio 2017)
"A Palermo, un segno importante della rinascita ebraica in Meridione"
"La concessione di uno spazio di proprietà dell'arcivescovado di Palermo ad uso di preghiera e studio per la neonata sezione ebraica nel capoluogo siciliano rappresenta un fatto storico. Una concreta testimonianza di risveglio e di rinascita ebraica a oltre 500 anni dagli infamanti editti di espulsione che misero fine, anche nel sangue, a secoli di presenza e impegno sul territorio". A sottolinearlo in una nota congiunta la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni e la presidente della Comunità ebraica di Napoli Lydia Schapirer. Parole arrivate in seguito alla recente decisione dell'arcivescovado di Palermo, monsignor Corrado Lorefice, di concedere alla realtà ebraica locale in comodato d'uso gratuito un oratorio di proprietà ecclesiastica, l'Oratorio di S. Maria del Sabato, che sorge nell'area un tempo occupata dell'antica zona ebraica della "Guzzetta" e della "Meschita". Una iniziativa che, sottolineano Di Segni e Schapirer, pongono Palermo "al centro di un intenso dialogo multiculturale e di esempio per tutto il Mediterraneo". Le due presidenti si sono dette "commosse e orgogliose per questo importante riconoscimento", sottolineando una felice coincidenza ovvero la nascita di due nuove sezioni della Comunità ebraica di Napoli: una rappresentata proprio da Palermo, e l'altra da Sannicandro Garganico.
Per quanto riguarda la concessione dell'oratorio, l'annuncio sarà dato da Raffaele Mangano, vicario episcopale, nel corso di un convegno dal titolo "Siciliani senza Sicilia. Ebrei di Sicilia in terra d'altri" che si svolgerà giovedì prossimo, presso l'Aula Damiani Almeyda dell'Archivio Storico Comunale, in occasione dell'anniversario dell'espulsione definitiva degli ebrei dall'isola, avvenuta il 12 gennaio 1493.
Si tratta di un atto unilaterale, disposto dall'arcivescovado. Comodatario dell'immobile sarà la Comunità ebraica di Napoli, che ne affiderà l'amministrazione alla neonata sezione di Palermo.
Un risultato possibile grazie al lavoro svolto dall'Istituto Siciliano di Studi Ebraici guidato da Evelyne Aouate e alla collaborazione e alla presenza ormai pluriennale in loco dell'associazione Shavei Israel.
(moked, 11 gennaio 2017)
"Una bionda ti cerca", ma è un agente di Hamas
I servizi d'intelligence del partito palestinese hanno usato questo trucco per circuire decine di militari israeliani, portandoli a scaricare un'app che conteneva un malware.
Compiaciuti per aver suscitato su Facebook e su altri social networks l'interesse di coetanee sconosciute ma di aspetto intrigante, decine di militari israeliani hanno intessuto con loro scambi di messaggi sempre più serrati. Quando poi hanno pensato fosse ora di passare a conversazioni a voce sono stati spinti a scaricare una app in apparenza innocua. Appena compiuta l'installazione però, la ragazza si è volatilizzata. E gli apparecchi dei militari sono passati (a loro insaputa) al servizio dell'intelligence di Hamas, regalando così una messe di informazioni preziose.
La trappola, ha rivelato oggi alla stampa un'alta fonte dell' intelligence militare di Israele, ha mietuto negli ultimi mesi decine di vittime: per lo più soldati di leva, ma anche diversi ufficiali. ''Il rischio potenziale non è piccolo - ha ammesso l'ufficiale - ma i danni sono stati contenuti''.
E adesso bisogna correre ai ripari, chiudere la falla. Anche in futuro i soldati israeliani potranno esprimersi su Facebook e sulle chat delle loro rispettive unità. Ma dovranno essere molto più circospetti nello scambio di messaggi con interlocutori (ed interlocutrici) che non conoscono di persona.
Come punto di partenza, gli emissari di Hamas hanno scelto pagine Facebook di militari in divisa e anche chat delle diverse unità dell'esercito (ce ne sono centinaia). Per poi farsi ospitare in quelle chat dai gestori, gli hacker di Hamas hanno rubato le identità di ragazze israeliane, americane ed europee. A quei nomi hanno collegato immagini di ragazze avvenenti con nomi dal suono 'israeliano': Albina Goren, Eliana Amar, Amit Cohen. Una volta entrati nelle chat gli hacker palestinesi hanno poi dato prova di una assoluta padronanza dello 'slang' ebraico dei giovani israeliani: chi dialogava con loro non poteva sospettare.
Come hanno saputo assorbire così bene - è stato chiesto all'ufficiale - il gergo dei giovani israeliani? Forse, è una delle ipotesi, osservando serie televisive.
Una volta stabilito un contatto, i militari sono stati indotti a visitare quello che all'intelligence è poi risultato essere ''un negozio di app di Hamas''. Installatane una, gli uomini di Hamas hanno potuto copiare la memoria dei cellulari dei soldati e la lista dei contatti, seguirli in tutti gli spostamenti, registrare dalla memoria conversazioni anche quando gli apparecchi erano spenti.
I primi sospetti sono nati quando una soldatessa ha notato per caso che una sua omonima sembrava molto attiva nell'adescare soldati. Altri militari hanno divulgato la propria inquietudine per alcuni contatti troncati repentinamente. Ma solo dopo mesi di indagini è stato possibile ricondurre quegli episodi a Hamas. Di fronte alla gravità della minaccia, i vertici militari hanno deciso di renderla pubblica: anche perchè c'è il timore che Hamas possa tentare - con messaggi concepiti ad arte - di indurre soldati a recarsi ad ''appuntamenti romantici'' dove la loro vita potrebbe essere in pericolo.
(Corriere del Ticino, 11 gennaio 2017)
La Stella di Davide a Berlino. Adesso Israele è meno solo
di Pierluigi Battista
Sì, commuove molto l'immagine della bandiera di Israele che illumina la Porta di Brandeburgo. Commuove perché la Stella di Davide omaggiata a Berlino è un fatto storico. E perché finalmente si dice, in una capitale europea, che le vittime degli attentati in Israele sono le «nostre» vittime, che il camion che ha fatto strage delle soldatesse israeliane è identico al tir che è piombato sul lungomare di Nizza e sul mercatino di Berlino alla vigilia di Natale. Che Gerusalemme è come Parigi, come Berlino, come Bruxelles, come Istanbul, come la chiesa di Rouen dove hanno sgozzato un parroco. Sembrerebbe ovvio, ma non lo è. Con il terrorismo islamista in Israele non ci si indigna, perché ancora si considera l'atto terroristico come una manifestazione di cruento, ma pur sempre legittimo indipendentismo nazionale. Che invece non c'entra niente, perché l'obiettivo è di annientare gli ebrei e i «crociati» che deturpano la terra sacra, così come in Europa si colpiscono gli infedeli. Coraggiosa la scelta di Berlino. Sarebbe bello se un coraggio analogo fosse testimoniato anche in Italia, con la bandiera di Israele proiettata, per esempio, sull'Altare della Patria o in Francia sull'Eiffel. Per solidarietà, certo, ma per dire che il terrorismo è uno e che la lotta al terrorismo deve essere di tutti e per tutti. Anche per lo Stato di Israele, colpito dal terrorismo suicida e quasi sempre lasciato solo. Ecco perché commuove quella immagine della Porta di Brandeburgo.
(Corriere della Sera, 11 gennaio 2017)
«Shir, la tua canzone è stata troppo breve»
di Deborah Fait
REHOVOT (Israele) - Lunedì abbiamo sepolto quattro ragazzi, quattro figli di Israele, quattro soldati ventenni, Shir, Shira, Erez e Yael. La sorella di Shir, nome che significa canzone, salutandola, ha detto "La tua canzone è stata troppo breve, la tua canzone è stata troppo bella e troppo amara". Domenica, 8 gennaio, un palestinese si è lanciato con un camion contro un gruppo di soldati in gita, li ha travolti poi ha fatto retromarcia ed è ripassato su quelli che erano a terra per assicurarsi che fossero veramente morti. Un'altra soldatessa di nome Maja, anche lei giovanissima, ha fermato il terrorista Fadi al-Qanbar freddandolo sul camion che guidava. La prima notizia su alcuni giornali italiani (ad esempio il Corriere) parlava di un "Camion sui soldati a Gerusalemme", evitando la parola "palestinese" perché è sempre brutto parlare di terrorismo palestinista, meglio evitare, meglio restare sul vago.
Poi, non potendolo più nascondere, hanno ammesso che il camion era guidato da un palestinista, un terrorista come quelli che hanno colpito in Europa. In Israele non è la prima volta, passata l'intifada delle stragi sugli autobus e nei locali pubblici ad opera dei kamikaze, i palestinisti si sono dedicati ai coltelli e a grossi mezzi di trasporto, il primissimo attentato del genere è stato fatto con un bulldozer, poi sono arrivate le macchine lanciate a velocità contro chi camminava tranquillamente sui marciapiedi e adesso i TIR. I media alla fine hanno anche ammesso, credo per la prima volta, che a Gaza hanno fatto festa per le
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Il funerale di Shir Hajaj |
strade. Veramente non solo a Gaza, anche nei villaggi arabi di Giudea e Samaria, anche a Ramallah e nessuno ha ricordato che lui, l'angelo della pace, Abu Mazen, si è dimenticato di mandare le condoglianze a Israele. L'ipocrita parla di dialogo e di ricominciare i colloqui di pace ma, quando un figlio maledetto uccide imbevuto della sua propaganda di odio nelle scuole dove nei libri di testo Israele non esiste, tutto è Palestina, gli ebrei vanno uccisi e gettati in mare, non manda nemmeno due false parole di cordoglio.
Ma la palma dell'odio e della nefandezza va data a Alberto Negri del Sole 24 Ore che, al TG 1 di domenica sera, in due secondi è riuscito a dire cose indecenti, sudice e inaccettabili: "la tecnica degli attentati di Nizza e Berlino è analoga a quella di Gerusalemme ma è un errore accomunare gli attentati dell'Isis con quelli palestinesi. I primi seguono la logica omicida della Jihad, mentre i palestinesi lottano per l'indipendenza dei loro territori."...quindi non sono assassini secondo lui...
Per Alberto Negri, i terroristi che colpiscono in Europa sono jhadisti omicidi, i palestinesi sono eroi che lottano per liberare i "loro" territori. Questo non può esser detto, questo non può essere accettato, non e' stata una gaffe, era, e si vedeva dall'espressione del suo volto, una sua convinzione. I territori di cui lui parla si chiamano da millenni Giudea e Samaria, non Cisgiordania, non West Bank, non Palestina, tutti nomi artificiosi, recenti e fasulli. Lottano per l'indipendenza dei loro territori? E dove sta scritto che Giudea e Samaria appartengono ai palestinisti? Da nessuna parte, signor Negri, Giudea e Samaria non sono mai stati dei palestinesi. Se vogliamo ricostruire la storia, quei territori erano abitati da ebrei fino alla pulizia etnica fatta dalla Giordania quando nel 47, durante la prima guerra di indipendenza, li occupò e scacciò tutti gli ebrei, distrusse le loro case, le loro sinagoghe, i loro cimiteri. Ancora oggi si possono vedere, a Gerusalemme le tombe distrutte e gli archi rimasti in piedi delle sinagoghe. Dopo la cacciata degli ebrei e l'assassinio di tanti, quei territori sono stati messi a disposizione degli arabi palestinisti e oggi Abu Mazen, da nove anni presidente abusivo dell'ANP, sbraita che nessun ebreo potrà mai abitarvi. Pulizia etnica su pulizia etnica.
Il Sole 24 ore è noto per essere uno dei quotidiani più astiosi verso Israele ma arrivare a fare un distinguo tra i nostri morti e i loro, in Europa, è agghiacciate e scandaloso. Per Negri i nostri quattro ragazzi non erano esseri umani assassinati da un terrorista, no, per lui, erano solo occupanti da eliminare di una Palestina mai esistita nella storia del mondo. Mi vergogno per Alberto Negri, complice dell'ingiustizia e del terrore che colpisce Israele da più di un secolo. Altri 17 ragazzi sono stati ricoverati all'ospedale, una tra loro, Aviv bat Anat era molto grave e si temeva per la sua vita ma si sta riprendendo. Forza Aviv, Israele è con te e con i tuoi compagni, guarisci presto. Lunedì , per dimostrare la loro felicità per la strage di Gerusalemme, da Gaza sono arrivati anche dei missili e le sirene hanno dato l'allarme, per fortuna nessuna conseguenza, facevano semplicemente parte dei festeggiamenti, dei dolci distribuiti per le strade di Gaza City, solita dimostrazione barbara di quello che sono i palestinisti.
Onore alla Germania che ha illuminato la Porta di Brandeburgo con la bandiera di Israele. L'Italia ancora una volta in silenzio, le solite banali parole di solidarietà del presidente Mattarella ma una presa di posizione coraggiosa nemmeno questa volta, la sindaca Raggi ha altre gatte da pelare e sappiamo che i grillini, o una buona parte di essi, non amano Israele. Chissà, forse quando i terroristi colpiranno anche il Bel Paese, capiranno. Per il momento restiamo con l'amaro in bocca e un senso di nausea. Non dimentichiamo mai le parole oscene di un giornalista che è riuscito a farsi avvelenare il cuore fino al punto da offendere la memoria di quattro ragazzi appena assassinati. Quattro ragazzi che avevano davanti tutta la vita, la felicità, l'amore del mondo. La canzone di tutti e quattro i nostri figli è stata troppo breve.
(Inviato dall'autrice, 11 gennaio 2017)
Georgia-Israele: Rivlin incontra i vertici istituzionali di Tbilisi
"Orgogliosi" dei nostri rapporti di amicizia
TBILISI - Le autorità israeliano sono orgogliose del rapporto di amicizia con la Georgia. È quanto affermato dal presidente israeliano, Reuven Rivlin, nel corso di una conferenza stampa congiunta con l'omologo georgiano, Giorgi Margvelashvili, a Tbilisi. Il capo dello stato israeliano è giunto ieri nella capitale georgiana per una visita di due giorni. "Sono in Georgia oggi per celebrare il 25mo anniversario delle relazioni diplomatiche tra i nostri due Paesi ma sono di gran lunga più di 25 gli anni che gli ebrei hanno trascorso in Georgia. La comunità ebraica locale è un ponte tra la Georgia e Israele e una dimostrazione delle relazioni amichevoli tra i nostri paesi", ha detto Rivlin. Gli ebrei georgiani sono una delle più antiche comunità nazionali, dato che risiedono nel territorio georgiano circa dal VI secolo avanti Cristo. Margvelashvili ha sottolineato l'impegno della Georgia nel garantire la pace globale. "La Georgia è un partner affidabile e un collaboratore per garantire la pace globale, nonostante il fatto che il 20 per cento del nostro territorio sia occupato dalla Russia", ha detto Margvelashvili.
(Agenzia Nova, 10 gennaio 2017)
Il settore high-tech israeliano ha registrato un incremento dell'11 per cento nel 2016
GERUSALEMME - Il settore high-tech israeliano ha registrato un volume d'affari pari a 4,8 miliardi di dollari nel 2016. Lo rivela un rapporto congiunto stilato dal centro di ricerca israeliano Ivc e dallo studio di consulenza legale Zag-S&W. Un dato in aumento di circa l'11 per cento rispetto al 2015, quando il business dell'high-tech si è attestato sui 4,3 miliardi di dollari. Se il dato annuale indica un incremento, nel quarto trimestre del 2016 il settore ha registrato un crollo dell'8 per cento negli investimenti, rispetto allo stesso trimestre del 2015. Nel quarto trimestre del 2016, le società hight-tech hanno registrato un volume d'affari di 1,02 miliardi di dollari in 151 transazioni, mentre nel quarto trimestre del 2015 era stato raggiunto il valore di 1,11 miliardi di dollari in 202 accordi. Koby Simana, amministratore delegato di Ivc, ha dichiarato che "come previsto il 2016 si è concluso come un anno record negli investimenti nel settore high-tech israeliano.
(Agenzia Nova, 10 gennaio 2017)
Sopravvissuti: nelle foto di Gosso i superstiti di deportazione e Shoah
Al primo piano della palazzina Grazia Di Veroli ha composto una cinquantina di immagini di coloro (alcuni ormai morti) che conobbero un «dopo».
di Paolo Brogi
ROMA - Volti velati da una composta e irrisolta tristezza. Volti di superstiti che man mano stanno scomparendo. Volti di partigiani, di ebrei, di militari, di sacerdoti, di donne e uomini testimoni dell'orrore di allora, ritratti davanti alle strutture della morte o con i numeri tatuati sulle braccia. Fotografie scattate a oltre 55 anni dai tragici momenti della deportazione in Germania, grazie a un fotografo torinese - Simone Gosso - che partendo da un congresso dell'Aned (l'Associazione nazionale deportati) tenuto nel 2000 nel campo di Mauthausen ha cominciato a ritrarre i «sopravvissuti» della deportazione e della Shoah.
In arrivo da Bolzano
Ne è nata una raccolta di immagini che danno corpo alla mostra «Sopravvissuti: ritratti, memorie, voci» che dopo Bolzano arriva ora a Roma per iniziativa dell'Aned e che si inaugura martedì 10 gennaio alla Casa della Memoria e della Storia, dove al primo piano della palazzina Grazia Di Veroli ha composto una cinquantina di ritratti di superstiti con le loro storie. La presentano alle 17.30 il vicepresidente nazionale dell'Aned Aldo Pavia e la docente Elsa Guida, interviene uno dei «soggetti» della mostra, Piero Terracina, preso a Monteverde con tutta la famiglia per una spiata per la Pesach del '44.
Una rassegna di volti, molti i «romani» scomparsi
Straordinaria occasione per ascoltare Terracina, ancora una volta, perché molti dei suoi compagni di sventura riuniti nella rassegna non ci sono più. Il piemontese Albino Moret non c'è più per raccontare la sua storia, quella di un militare torinese arrestato nel Cattaro e portato a Dora, con le sue caverne in cui si costruivano i V1 e V2, testimone forse unico delle impiccagioni di soldati alpini italiani in quella oscura Turingia del '44. Moret è morto, come sono morti molti dei «romani» ritratti in questa straordinaria rassegna di volti della deportazione.
Da Shlomo Venezia a Sabatino Finzi
Morto Shlomo Venezia, che a sua volta ha dato un fondamentale contributo di conoscenza sul Sonderkommando in cui fu impiegato ad Auschwitz e che si occupava del trasporto delle vittime uccise nelle camere a gas (nel ritratto mostra una sua foto da giovane). Morto Leone Sabatello che mostra una foto della sua famiglia sterminata e che allora era solo un ragazzo: straordinario il suo racconto sui treni piombati partiti dalla Tiburtina e straordinario il racconto che ha fatto della tradotta attraverso Verona. O come Romeo Salmonì, che era stato liberato a Birkenau, e come Mario Limentani che era stato liberato ad Ebensee, o come Luigi Valenzano che col fratello era finito a Regina Coeli, anche perché nipoti di Badoglio, e poi sopravvissuto a Mauthausen, o come Sabatino Finzi, uno della razzia del 16 ottobre, finito a Birkenau e poi nelle miniere di carbone, ritratto in anni recenti di fronte alla sua ditta di demolizioni al Portuense.
Le voci dei vivi
Bisognerebbe tornare ad ascoltare i vivi, allora, con Tatiana e Ambra Bucci liberate ad Auschwitz, Vera Michelin-Salomon liberata ad Aichach, Nedo Fiano superstite a Buchenwald.
(Corriere della Sera- Roma, 10 gennaio 2017)
Shabtai Shavit: per il conflitto israelo-palestinese necessaria una soluzione multilaterale
GERUSALEMME - Per risolvere il conflitto israelo-palestinese è necessario trovare una soluzione multilaterale basata sul lungo periodo. Lo ha dichiarato l'ex direttore del Mossad (servizi segreti israeliani), Shabtai Shavit, nel corso di un'intervista rilasciata al quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Shavit ha guidato il Mossad dal 1989 al 1996, anni durante i quali è stato vicino ai personaggi più importanti del panorama internazionale e ha attraversato enormi cambiamenti geopolitici. Shavit oggi ha 77 anni e ha intrapreso il suo mandato nell'intelligence israeliana nel 1964. Sul ruolo del premier israeliano Benjamin Netanyahu, Shavit ha dichiarato che il primo ministro non vuole creare due Stati per risolvere il conflitto con i palestinesi, ed anche se volesse raggiungere una soluzione gli elementi della destra nazionalista della Knesset non glielo consentirebbero. Per quanto riguarda il conflitto che da decenni oppone israeliani e palestinesi, Shavit ha dichiarato che "i negoziati diretti tra le parti, strategia predominante di Israele, hanno fallito. Ci sono stati piccoli risultati, ma nel complesso è stato un gran fallimento".
Interrogato sul futuro del conflitto mediorientale, Shavit ha dichiarato che ci sono "una serie di opportunità per trovare una soluzione, una soluzione multilaterale a lungo termine". "Oggi abbiamo una situazione molto interessante in Medio Oriente", ha spiegato Shavit. L'ex direttore del Mossad ha rivelato che i funzionari israeliani tengono regolarmente incontri sia ufficiali che non ufficiali con i funzionari di paesi come l'Arabia Saudita, e che mantengono forti legami nel settore della sicurezza con l'Egitto e con la Giordania. Shavit ha detto che fra gli "interessi comuni con i sauditi vi è la capacità nucleare dell'Iran e il sostegno di Teheran alla jihad globale". Secondo l'ex direttore del Mossad, per risolvere la questione israelo-palestinese "è necessario fare i conti con gli Stati Uniti". "Gli Usa devono dialogare con sauditi, egiziani e giordani separatamente e presentare un pacchetto completo", ha dichiarato Shavit. "La terza fase sarà la vendita del pacchetto ai palestinesi grazie a questa coalizione arabo moderata". Infine, intervenendo sulla possibile politica del presidente eletto statunitense Donald Trump, l'ex capo dell'intelligence ha dichiarato che Trump "reagisce spontaneamente alle questioni" e che dovrà esaminare gli aspetti positivi e negativi delle decisioni prese basandosi su ricerche e rapporti stilati dagli esperti.
(Agenzia Nova, 10 gennaio 2017)
Lorefice dona agli ebrei una sinagoga a Palermo
L'Oratorio di Santa Maria del Sabato - sorto in quello che fu il quartiere ebraico - verrà affidato in comodato d'uso all'Unione delle Comunità ebraiche per ridare agli ebrei una casa nel capoluogo siciliano. Il gesto nell'anniversario dell'espulsione del 1493.
di Giorgio Bernardelli
A più di cinquecento anni dall'espulsione decretata dagli spagnoli, gli ebrei torneranno ad avere una sinagoga a Palermo. Un luogo di culto che aprirà i battenti nell'Oratorio di Santa Maria del Sabato, una piccola chiesa da tempo inutilizzata per le celebrazioni liturgiche e che sorge proprio nella zona dove un tempo si trovavano gli antichi quartieri ebraici della Guzzetta e della Meschita. A volere il gesto- storico per la Sicilia - è stato l'arcivescovo Corrado Lorefice, che ha deciso di accogliere una richiesta di un luogo di studio e di culto per la comunità ebraica di Palermo avanzata da Evelyne Aouate, presidente dell'Istituto Siciliano di Studi Ebraici.
Particolarmente significativa la data e il luogo scelti per l'annuncio ufficiale: avverrà giovedì, nell'anniversario del decreto del 12 gennaio 1493 con cui gli spagnoli applicarono anche alla Sicilia il provvedimento con cui Isabella di Castiglia e Fernando d'Aragona l'anno prima avevano ordinato l'espulsione degli ebrei dai loro possedimenti. Quel giorno l'arcivescovo di Palermo sarà a Gerusalemme, dove si recherà in visita al muro Occidentale, il muro del Pianto, insieme a una delegazione proveniente dalla Sicilia. Mentre a Palermo - all'Archivio Storico Comunale, poco lontano dalla chiesa in questione - si terrà una cerimonia pubblica sulla storia dell'esilio degli ebrei siciliani, alla presenza del vicario episcopale monsignor Raffaele Mangano, della storica Serena Di Nepi e di Pierpaolo Pinhas Punturello, rappresentante per l'Italia dell'associazione ebraica Shavei Israel.
La notizia - che sarebbe dovuta rimanere riservata fino a giovedì - è stata anticipata oggi dalla Jewish Telegraphic Agency, una delle maggiori agenzie di informazione del mondo ebraico. L'Oratorio di Santa Maria del Sabato sarà ceduto in comodato d'uso all'Unione della Comunità ebraiche italiane, dal momento che attualmente a Palermo non esiste ancora una comunità ebraica. «È stato un gesto voluto personalmente dall'arcivescovo Lorefice - spiega il direttore dell'Ufficio diocesano per la pastorale dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso, don Pietro Magro -. Il senso vuole essere proprio quello di ridare una casa agli ebrei che da qui vennero espulsi. E si inserisce nel cammino più ampio di dialogo e amicizia che a Palermo vede una grande sintonia tra la comunità cattolica e le altre comunità religiose».
L'Oratorio di Santa Maria del Sabato si trova nella centralissima area tra via Maqueda e via Roma, nel complesso della chiesa di San Nicola da Tolentino, costruito proprio dove fino al 1493 sorgeva una sinagoga. «Il riferimento al sabato nel nome - spiega ancora don Magro - è dovuto al fatto che i confratelli di quell'oratorio raccoglievano di sabato le offerte per la confraternita. Non c'è dunque un legame diretto con la presenza ebraica precedente. Ma è ugualmente bello che nella sua storia questo luogo abbia mantenuto un nome che evoca lo shabbat».
(La Stampa, 10 gennaio 2017)
Sorgerà in Israele torre solare più alta del mondo
250 metri nel deserto del Negev, intorno 50.000 pannelli
ROMA - Entrerà in funzione nel 2018 la torre solare più alta del mondo, nel deserto del Negev in Israele. La centrale solare termodinamica di Ashalim, in buona parte già costruita, prevede 50.000 pannelli solari (eliostati) disposti intorno a una torre alta 250 metri. Lo riferisce il sito ambientalista TreeHugger.
I pannelli riflettono la luce solare sulla torre, scaldando un fluido speciale a temperature elevatissime: questo fluido trasforma l'acqua in vapore, che alimenta le turbine che fanno girare gli alternatori e producono elettricità.
E' un sistema alternativo per produrre energia dal sole rispetto al fotovoltaico tradizionale, dove i pannelli trasformano direttamente la luce in corrente. Il vantaggio del termodinamico rispetto al fotovoltaico è che il fluido mantiene la temperatura a lungo, e può far funzionare l'impianto anche quando il sole è tramontato.
Quando la centrale entrerà in funzione, produrrà 310 megawatt di energia, sufficienti ad alimentare 130.000 abitazioni, il 5% della popolazione di Israele. Sarà il più grande impianto di energia rinnovabile nel paese. Lo stato ebraico, pur avendo un'esposizione solare ottimale, finora non ha mai investito su questa fonte, preferendo affidarsi al gas naturale.
La centrale di Ashalim viene costruita dalla società statunitense BrightSource Energy, la stessa che ha costruito nel deserto della California la centrale solare termodinamica più grande del mondo, Ivanpah. Questa ha 170.000 eliostati, ma la torre centrale è alta solo 140 metri.
(ANSA, 10 gennaio 2017)
A Torino si ricordano gli ebrei deportati dal campo di Borgo San Dalmazzo
Giovedì 12 gennaio, in piazzetta Primo Levi, verrà presentato il volume di Adriana Muncinelli ed Elena Fallo "Oltre il nome".
Il 18 dicembre 1943 i nazisti organizzarono a Borgo San Dalmazzo un campo di concentramento per ebrei - attivo fino al 21 novembre - da cui furono deportate 357 persone, di cui 334 stranieri, discesi dopo aver valicato le montagne dalla Francia alle Valle Gesso nei giorni successivi all'8 settembre.
Per non dimenticare, in occasione del Giorno della Memoria, giovedì 12 gennaio alle 21 in piazzetta Primo Levi 12, a Torino, viene presento il volume "Oltre il nome. Storia degli ebrei stranieri deportati dal campo di Borgo San Dalmazzo" di Adriana Muncinelli ed Elena Fallo, edito da Le Chateau.
All'evento, realizzato dalla Comunità ebraica di Torino in collaborazione con l'Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea "Giorgio Agosti" e il Comitato regionale Resistenza e Costituzione, intervengono le autrici e i vicepresidenti della sezione torinese dell'Associazione nazionale ex deportati (Aned) Lucio Monaco e dell'Assemblea legislativa piemontese Nino Boeti, delegato al Comitato.
Il volume, frutto di una ricerca durata nove anni, ricostruisce le vicende individuali e familiari di quegli stranieri, a partire dalle loro località d'origine, oggi sotto ventitre Stati diversi. Dal 2006 - inoltre - un Memoriale ricorda i nomi dei deportati a chi passa alla stazione ferroviaria della città.
(targatocn, 10 gennaio 2017)
Attacchi da Egitto e Cisgiordania Il doppio fronte che minaccia Israele
L'Isis fa strage nel Sinai. Nove arresti per l'attentato a Gerusalemme
di Giordano Stabile
Il palestinese che domenica ha fatto strage di militari a Gerusalemme aveva progettato l'attacco da almeno un anno. Ma non è sicuro se fosse un sostenitore dell'Isis. Il governo israeliano ha imboccato subito la pista della Stato islamico, le autorità palestinesi frenano, e negano che i seguaci del Califfo Abu Bar al-Baghdadi si siano impiantati in Cisgiordania. Israele si sente però assediata. Anche perché al confine Sud, nella penisola del Sinai, la branca locale dell'Isis è tornata all'attacco e ha scatenato un giorno di guerra urbana nella città di El-Arish, a poche decine di chilometri dal confine (10 i morti).
Ieri le indagini a Gerusalemme si sono concentrate a Jabel Mukaber, il quartiere del terrorista Fadi al-Qanbar, 28 anni. Nove persone sono state arrestate, compresi cinque familiari. Molti altri sono stati interrogati. È stata la sorella di Al-Qanbar a fornire i maggiori dettagli. Il fratello era sposato, con due figlie piccole, e avrebbe deciso di passare all'azione dopo un sermone in moschea incentrato sulla decisione del nuovo presidente Usa Donald Trump di spostare l'ambasciata statunitense a Gerusalemme.
L'idea di seguire le istruzioni propagandate dall'Isis sul Web, come quella di usare auto e camion per stragi di pedoni, era stata presa però almeno un anno fa, quando Al-Qanbar ha comprato il camion poi usato nell'attacco.
La pista della vendetta per la questione dell'ambasciata non è da escludere. La nuova sede si troverà probabilmente non lontano dalla Promenade Armon Hanatziv, dove è avvenuto il massacro. Trump potrebbe annunciarlo subito dopo l'insediamento il 20 gennaio. L'Autorità palestinese teme un'esplosione di violenze incontrollabile. Abu Mazen ha scritto al presidente eletto e gli ha chiesto di fermarsi perché la sua decisione potrebbe avere «conseguenze disastrose» in tutto il Medio Oriente. Un clima che favorirebbe solo la radicalizzazione dei giovani palestinesi, con Hamas e l'Isis in competizione nel reclutamento, proprio in quartieri come Jabel Mukaber.
Il rione palestinese in cima a una ripida collina è uno dei centri caldi della cosiddetta «Intifada dei coltelli». Dal Jabel Mukaber si sono mossi, il 13 ottobre 2015, Bilal Abu-Ghanem e Bahaa Alian, armati con una pistola e un coltello, per assalire un autobus sull'Armon Hanatziv: tre passeggeri rimasero uccisi. Sempre da Jabel Mukaber veniva Alla Abu Jamal, che lo stesso giorno del 2015 ha investito e ucciso il rabbino Yeshayahu Krishevsky, 59 anni, a Gerusalemme Ovest.
(La Stampa, 10 gennaio 2017)
Il movimento anticoloni
«Il movimento anticoloni è sostanzialmente antisemita: vivere sulle colline dell'Israele biblica è un atto di orgoglio e la massima espressione di realizzazione in senso ebraico. Chi odia i coloni odia l'autonomia e la forza di un popolo in grado di prendersi cura di sé».
Orit Arfa
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Il terrore degli altri stati islamici
La missione di un'autrice tra Israele e Berlino contro il terrore.
di Daniel Mosseri
BERLINO - Ha deciso di trasferirsi a Berlino dopo la terza visita nella capitale tedesca. La prima, ricorda Orit Arfa, l'aveva compiuta nel 2014 assieme a suo padre, nato a Hannover da ebrei di origine polacca sopravvissuti allo sterminio. "E' stata la classica gita terrificante di una famiglia ebraica sulle tracce dell'Olocausto, dove ti senti circondato dai fantasmi. Per me Berlino era solo la vecchia capitale del Terzo Reich". La seconda volta è stato per lavoro: Orit aveva appena finito il suo primo romanzo, The Settler, e stava concludendo la registrazione del cd allegato al libro. "La produzione è avvenuta qui a Berlino", racconta, ricordando di aver percepito soltanto allora la frenesia culturale e artistica della capitale "povera ma sexy" decantata dal suo ex sindaco Klaus Wowereit. L'ultima volta, un anno fa, per una relazione romantica: "Alla fine non ha funzionato, ma io intanto mi sono innamorata della città". Ed è rimasta.
A Berlino Orit Arfa si è fatta notare scrivendo una lettera d'amore alla Germania, invitandola, dopo gli attacchi terroristici dello scorso luglio, a "lasciare il sentiero dell'autodistruzione". Nata a Los Angeles da madre israeliana di origine irachena, Orit è scrittrice, giornalista, saggista, cantante. Nell'immaginario degli israeliani moderni, Berlino non fa solo rima con Shoah ma è anche l'emblema di una vita meno frenetica di quella di casa, dettata dai tempi del servizio militare, dello studio, del lavoro, del faccio almeno tre figli e mi difendo dagli attentati dei nemici. Solo di recente la vecchia Europa ha iniziato a sperimentare il terrore jihadista a teatro, allo stadio, al mercatino di Natale. "E' stato triste provare gli stessi sentimenti di nuovo, anche qua: ma dopo l'ultima strage col Tir ho raggiunto la piena consapevolezza che non si sfugge al terrore islamico". Per gli israeliani è sempre stato così. Nel 2000, durante la Seconda Intifada, l'uomo con cui Orit aveva da poco iniziato una relazione muore a Gerusalemme nell'attentato a un ristorante. "Avevamo appena iniziato a conoscerci. Solo dopo la sua morte ho appreso dai giornali che persona profonda e interessante fosse".
Orit non è ascrivibile agli israeliani che si trasferiscono in Europa dopo ogni vittoria elettorale del premier Benjamin Netanyahu, ma è a Berlino in missione: "Voglio aiutare tedeschi e israeliani a fare i conti con l'Olocausto. Insieme". Orit è convinta che i tedeschi per primi non abbiano davvero elaborato lo sterminio di cui si sono fatti promotori: "Il passaggio mancante li sta danneggiando". Il suo messaggio è diretto: "I tedeschi hanno bisogno di sentirsi dire da un'israeliana nipote di sopravvissuti che combattere il terrore va bene, e che se reagisci alla violenza non sei un nazista". La scrittrice porta le prove della sua analisi definendo la recente apertura delle frontiere ai profughi mediorientali "una reazione emotiva con un occhio al passato". I tedeschi in sostanza accolgono i rifugiati islamici solo per provare a loro stessi di non essere più nazisti. "E tuttavia", osserva, "se avessero davvero integrato la lezione dell'Olocausto ci penserebbero due volte prima di lasciare entrare in casa loro tante persone che probabilmente ammirano Hitler". Un'ammirazione, insiste Orit, molto diffusa nel mondo arabo e pericolosa per la Germania moderna. Oggi i tedeschi convivono con centinaia di migliaia di persone "cresciute in un clima antisemita, con una religione che cozza con le libertà della persona ed è corredata da una propria agenda politica". Orit riconosce il dovere di aiutare chi è in difficoltà, "ma i tedeschi non hanno effettuato nessun controllo alle frontiere. E' da irresponsabili". Poi cita un esempio molto berlinese: "Hanno organizzato un referendum per sapere cosa fare dell'ex aeroporto di Tempelhof, ma su una decisione destinata a cambiare il profilo del paese non hanno nemmeno discusso".
Orit non ha timore di andare controcorrente. Nel suo The Settler - da declinare al femminile - l'autrice narra la storia di una donna israeliana che, a seguito del piano di disimpegno unilaterale voluto dall'ex premier Ariel Sharon nel 2005, lascia l'insediamento di Gush Katif, nella Striscia di Gaza. Nel romanzo si legge dello stigma che colpisce la protagonista, cresciuta in un mondo nazionalista e religioso, una volta trasferita nella laica e cosmopolita Tel Aviv. La scrittrice non si unisce al tiro al colono tornato di recente in voga anche al Consiglio di sicurezza dell'Onu. "Il movimento anticoloni è sostanzialmente antisemita: vivere sulle colline dell'Israele biblica è un atto di orgoglio e la massima espressione di realizzazione in senso ebraico. Chi odia i coloni odia l'autonomia e la forza di un popolo in grado di prendersi cura di sé". Orit respinge le etichette politiche e aggiunge che "si può discutere quale forma di governo sia la migliore per quella zona", ma poiché ritiene che gli arabi abbiano il diritto di vivere in Israele non vede perché gli ebrei non possano vivere oltre la Linea verde.
A Berlino Orit Arfa sta lavorando al suo nuovo romanzo. "Terza generazione" racconta la storia di amore fra una ragazza dell'insediamento di Ariel e un giovane tedesco. Il tema è quello di una riconciliazione vera post sterminio, corredato da quello della complementarità: "Israeliani e tedeschi non potrebbero essere più diversi. E gli opposti si attraggono". Poi torna sulla sua "missione" in Germania. "Da Heinrich Heine in poi, gli autori ebrei tedeschi hanno sempre avuto la capacità di descrivere la società, di far aprire gli occhi ai loro connazionali, dotandoli di nuove capacità di introspezione; forse è per questo che Hitler li ha sempre odiati tanto". Oggi è tempo di fare lo stesso, spiega. Orit respinge con forza ogni paragone fra Angela Merkel e Adolf Hitler e tuttavia traccia un'analogia fra la situazione di allora e quella di oggi: "In ciascuno dei due casi, il bene dello stato, del Vaterland, prevale su quello dell'individuo, i cui bisogni vengono dopo quello dell'ente collettivo. E oggi a causa della politica di accoglienza tanti tedeschi hanno paura".
(Il Foglio, 10 gennaio 2017)
La bandiera dello Stato ebraico illumina Berlino
Dopo l'attentato
In segno di solidarietà per l'attentato a Gerusalemme, la Porta di Brandeburgo, a Berlino, è stata illuminata ieri con i colori della bandiera israeliana. «Grazie Germania di starci a fianco in questa comune battaglia contro il terrorismo», ha scritto su Twitter il premier israeliano Benjamin Netanyahu. È divenuta una triste consuetudine quella di riflettere sul più famoso monumento berlinese le bandiere dei Paesi colpiti da atti terroristici. L'ultima volta era stata la bandiera turca, dopo la strage di Capodanno.
(Corriere della Sera, 10 gennaio 2017)
Israele importa seimila cinesi dalla Cina
Da occupare nella sua edilizia. Israele punta sui lavoratori cinesi per far ripartire il settore
Israele «importerà» 6 mila lavoratori cinesi nel corso del primo semestre dell'anno per far fronte alla penuria di manodopera del settore immobiliare, in crisi ormai dal 2008. L'accordo firmato dalle autorità dei due paesi prevede che, a termine, 20 mila operai cinesi siano autorizzati a lavorare nello stato ebraico. Il ministro israeliano delle finanze, Moshe Kahlon, spera che questo afflusso contribuisca alla fine a far diminuire il costo degli alloggi, che l'anno scorso è progredito dell'8%. L'assunzione di operai cinesi da parte delle imprese israeliane era diventata praticamente impossibile da quando Israele ha deciso, ormai quattro anni fa, di regolamentare l'immigrazione dei lavoratori. L'obiettivo era quello di lottare contro le pratiche illegali di alcuni intermediari che, esigendo anche diverse decine di migliaia di dollari in cambio di un permesso di lavoro, avevano indotto gli Stati Uniti a minacciare di iscrivere Israele sulla lista dei paesi che praticano la tratta di esseri umani.
L'accoglienza dei lavoratori stranieri è da allora subordinata alla firma di accordi bilaterali volti a garantire i loro diritti. Durante le trattative preliminari le autorità cinesi avevano invocato ragioni di sicurezza per chiedere che i propri lavoratori non venissero impiegati nei territori occupati. Attualmente circa 9.500 lavoratori stranieri, principalmente originari dell'Est Europa, si guadagnano da vivere in Israele.
(ItaliaOggi, 10 gennaio 2017)
Francia: circa 5000 ebrei hanno emigrato in Israele nel 2016
Sono circa cinquemila gli ebrei francesi che nel 2016 hanno deciso di emigrare in Israele: è quanto riferisce l'Agenzia ebraica di Francia.
La tendenza è in diminuzione rispetto al 2014 e al 2015, anche se il dato resta tra i più alti dalla fondazione dello Stato ebraico nel 1948.
L'emigrazione ebraica verso Israele, la cosiddetta 'Aliyah', ha segnato un forte aumento in Francia dall'inizio della nuova ondata di attentati cominciata con gli omicidi perpetrati nel 2012 dallo jihadista di Tolosa, Mohamed Merah.
Nel 2014 gli ebrei francesi sono stati la prima comunità in arrivo in Israele con 7'231 'Aliyah'. Nel 2015, anno, tra l'altro, dell'attentato all'HyperCacher della Porte de Vincennes, questo numero è salito a 7'900.
In totale, dal 2006, sono stati 40'000 ad aver lasciato la Francia per Israele. La comunità ebraica di Francia è la prima in Europa con circa mezzo milione di persone.
(swissinfo.ch, 9 gennaio 2017)
Berlino ricorda
In Germania "affittare un ebreo" a scopo informativo è il miglior vaccino contro l'antisemitismo
di Daniel Mosseri
BERLINO. Noleggiare un ebreo a scopo informativo. Conversare con un esponente del popolo d'Israele per porre domande, capire usi e costumi odierni di una cultura ultramillenaria. Accade oggi in Germania. Si chiama "Rent a Jew" ed è un'iniziativa della Europäische Janusz Korczac Akademie. Fondata nel 2009 e dedicata al medico, pedagogo e letterato polacco Janusz Korczac (nato a Varsavia nel 1878 e ucciso a Treblinka nel 1942), l'accademia con sede a Monaco di Baviera "fornisce educazione formale e informale", spiega al Foglio il Program Director dell'Ejka Alexander Rasumny, "con programmi culturali per il mondo ebraico". In questo senso Rent a Jew esula dalle iniziative ordinarie dell'istituto perché rivolto a un pubblico non ebraico, "e tuttavia nel prepararsi per le conferenze anche i nostri docenti hanno la possibilità di imparare di più su se stessi". L'origine del programma è duplice. La demografia innanzitutto: se nel 1990 gli ebrei in Germania erano 25 mila, oggi sono dieci volte tanto.
Il collasso dell'Urss ha permesso a centinaia di migliaia di ebrei sovietici di trasferirsi in Israele, in America e in Canada. Non pochi, però, si sono fermati a Monaco o a Berlino, e oggi il 90 per cento degli ebrei tedeschi è di madrelingua russa. Poi c'è la questione antisemitismo, che non è morto nel bunker con Hitler. Al contrario, in un paese sempre più percorso da fremiti xenofobici, gli atti di natura antiebraica sono in netta ripresa. Lo Judenhass, l'odio per gli ebrei, oggi mette d'accordo sia i fanatici di destra nell'est rimasto indietro sul piano economico e sostanzialmente mai denazistificato sotto la Ddr, sia i gruppi di antisionisti islamici che in occasione dell'ultimo conflitto Israele-Hamas (2014) sono scesi in strada urlando slogan ferocemente antisemiti. La Ejka punta alla diffusione della conoscenza come vaccino contro il pregiudizio.
"I tedeschi studiano gli ebrei parlando dello sterminio a scuola, poi visitano un museo ebraico o un memoriale dedicato a ebrei che non ci sono più", osserva Rasumny. Poco per un paese responsabile della Shoah, un tema a tratti considerato ancora tabù. "Il tema è noto, in tanti ne parlano malvolentieri, alcuni non parlerebbero d'altro. Per tutti però la storia degli ebrei in Germania inizia con la Repubblica di Weimar e finisce con il nazionalsocialismo". I secoli di presenza ebraica in Germania sono semplicemente ignorati: "Nessuno sa cos'è Shum, crasi per Spira, Worms e Magonza, fertili centri di vita e cultura ebraica nell'alto medioevo". Alle scuole visitate dai propri docenti fra i 20 e i 40 anni, l'accademia non offre tuttavia lezioni di storia. "Vogliamo far sapere che oggi come allora gli ebrei sono i vicini di casa dei tedeschi". Sebbene più strutturata, l'iniziativa ricorda quella del "Jew in the box", dell'ebreo dentro a una cabina di vetro che anni fa rispondeva alle domande dei visitatori del Museo ebraico di Berlino: l'ironia yiddish nel nome è la stessa.
Oggi la Ejka racconta la diversità in seno alla comunità ebraica tedesca, liberal o ultraortodossa, germanofona o post-sovietica. Le domande ricorrenti? "Quelle più semplici, come per esempio cosa vuol dire mangiare kasher". Oltre che a dare risposte, Rent a Jew si occupa di suscitare domande: "Ai nostri ascoltatori chiediamo di parlarci dei loro pregiudizi". Argomenti come l'Olocausto o l'antisionismo non sono invece toccati dai docenti. "Sappiamo come rispondere", afferma Rasumny nel ricordare i programmi dell'accademia per il monitoraggio dei media e la lotta contro la delegittimazione dello stato d'Israele, "ma con Rent a Jew non vogliamo andare altrove nel tempo o nello spazio, vogliamo concentrarci invece sugli ebrei qui, oggi".
(Il Foglio, 9 gennaio 2017)
Israele sotto choc
(RaiNews, 9 gennaio 2017)
Le giovani vite spezzate dal terrore. L'addio a Erez, Shir, Yael e Shira
"Questi sono tutti nostri figli. Li mandiamo a fare l'esercito e sappiamo che potrebbero non tornare. Ho mai pensato che potesse succedere a me? No, mai". Sono le parole cariche di dolore inviate al Capo di Stato Maggiore Gadi Eizenkot dal padre di Shir Hajaj, giovane soldatessa tra le quattro vittime dell'attentato di ieri a Gerusalemme. Un sentimento, quello del padre della ventiduenne Shir, che rispecchia il lutto delle famiglie e degli amici di Yael Yekutiel (20 anni), Shira Tzur (20 anni) e Erez Orbach (20 anni), le altre tre vittime dell'attacco terroristico compiuto da un palestinese nella Capitale d'Israele. L'attentatore, residente a Gerusalemme Est, ha investito con un tir un gruppo di soldati nei pressi di una fermata di autobus, uccidendo i quattro giovani e ferendone altri 16....
(moked, 9 gennaio 2017)
Lo spettro dell'Isis su Israele e l'incubo camion
Netanyahu parla di "un filo comune" con attacchi Nizza e Berlino
A poche ore dall'attentato di Gerusalemme in Israele, si fa strada la sensazione che lo Stato islamico stia cercando di inserirsi nel conflitto israelo-palestinese. "Secondo tutti i segni raccolti finora - ha detto il premier Benyamin Netanyahu - l'attentatore è un sostenitore dell'Isis. Sappiamo che c'è un filo comune di attentati, e certamente è possibile che ci sia anche un legame fra di loro: dalla Francia a Berlino, adesso a Gerusalemme".
Da tempo i seguaci del Califfato premono lungo i confini di Israele. Hanno sparato razzi da Gaza e dal Sinai egiziano verso il Neghev. Altri miliziani prendono minacciosamente posizione nella Siria meridionale, a ridosso del Golan. E i messaggi mediatici dell'Isis raggiungono anche i palestinesi dei Territori e gli arabi cittadini di Israele.
"Proprio oggi - fa notare Aviad Mandelboim, un ricercatore del Centro di studi strategici Inss di Tel Aviv - ricorre l'anniversario dell'uccisione di Nashat Milhelm. Forse l'attentato di Gerusalemme era anche in suo omaggio". Nel gennaio 2016 Milhelm - un arabo israeliano - uccise a sorpresa due avventori di un caffè nel centro di Tel Aviv e si dileguò.
Dopo la sua uccisione, da parte di un'unità scelta israeliana, l'Isis affermò che era un suo militante. Il camion lanciato contro la folla fa pensare agli attentati di Nizza (14 luglio) e di Berlino (19 dicembre), rivendicati dall'Isis. E' possibile che l'attentatore che ha colpito a Gerusalemme, Fadi al-Qanbar, ne sia stato influenzato. Ma negli anni 2014-15, ricorda Mandelboim, camion ed altri automezzi guidati da palestinesi fecero vittime fra gli israeliani.
Sventare attacchi del genere, magari scandagliando le reti sociali con algoritmi ad hoc, è difficile. Molto più spesso l'attentato giunge a sorpresa e allora si può solo cercare di limitare la quantità delle vittime. A Nizza il camion che si lanciò sulla folla proseguì la sua corsa per 45 secondi: i morti furono 84. A Berlino, il tir che ha colpito il mercatino natalizio percorse un tragitto di 50-80 metri prima di bloccarsi: i morti furono 12. A Gerusalemme al-Qanbar ha imperversato contro i soldati per una decina di secondi prima di essere ucciso. I morti sono stati quattro, i feriti una quindicina. Dunque - osserva Mandelboim - la rapidità della reazione è cruciale per limitare l'entità delle perdite. La protezione con blocchi di cemento dei luoghi a rischio (come le fermate di autobus) e la presenza massiccia di forze dell'ordine sono altri elementi di supporto. Ma c'è sempre da temere che il terrorista potenziale scopra un tallone d'Achille: appunto come ha fatto al-Qanbar.
Hamas, la Jihad islamica e altre organizzazione inneggiano adesso al 'Camion dell'Intifadà e deridono i soldati israeliani visti in fuga. Il rischio dell'emulazione è molto forte ed in Israele lo stato di allerta è stato elevato.
(L'Huffington Post, 8 gennaio 2017)
Attacco a Gerusalemme. Camion killer fa strage. Uccisi quattro militari
Un palestinese travolge i giovani in divisa. poi viene abbattuto. Netanyahu: legato all'Isis. Per Hamas, che pure a Gaza reprime le cellule lsis, è stato «eroismo».
di Fausto Biloslavo
Il camion è piombato a tutta velocità su un gruppo di soldati, che avevano appena finito un giro turistico nella città vecchia, il cuore di Gerusalemme. Le immagini in bianco e nero riprese da una telecamere di sorveglianza sono drammatiche. Il mezzo pesante falcia i militari come birilli, ma il palestinese alla guida non si accontenta. Dopo il primo impatto fa retromarcia per macellare meglio i corpi già a terra e gira a semicerchio per finire i feriti o colpire altri soldati israeliani. Il bilancio è di quattro morti (tre donne in divisa), tutti sui 20 anni e 15 feriti, alcuni gravi. Dopo Nizza e Berlino tocca a Gerusalemme l'attentato con il camion killer, anche se non è una novità per Israele. In passato un terrorista ha usato anche un bulldozer per seminare morte e distruzione.
Il governo israeliano ha puntato subito il dito contro le bandiere nere sostenendo che l'attentatore palestinese era un seguace dello Stato islamico. Il gruppo integralista palestinese, Hamas, che comanda nella striscia di Gaza, ha elogiato l' atto «eroico». Un segnale che confermerebbe l'esistenza di un recente patto del diavolo fra Hamas e bandiere nere, dopo anni di feroce repressione a Gaza delle cellule del Califfo.
L'attacco è avvenuto sulla popolare passeggiata Armon Hanatziv, che sovrasta la città vecchia. Fadi al Qunbar, che sarebbe stato rilasciato dalle carceri israeliane, abita in un quartiere vicino ed è al volante del mezzo pesante a caccia delle sue prede. A una fermata vede un gruppo di cadetti che stanno salendo su un bus, non proprio in servizio, ma impegnati in un giro culturale organizzato dal comando. La strage è un attimo, ma colpisce che quasi tutte le decine di soldati armati fuggono a gambe levate. Probabilmente temono che il camion sia zeppo di esplosivo. Eytan Rond, una guardia di sicurezza civile, è il primo a far fuoco sul camion. «Ho iniziato a sparare alle gomme, ma capivo che non aveva senso, perché il camion ne aveva molte - racconta -. Allora sono corso davanti alla cabina per colpire l'uomo che guidava. Ho fatto fuori l'intero caricatore. Poi hanno iniziato a sparare anche altri militari». Così Al Qunbar, il palestinese al volante, è stato ucciso.
L'attentatore viveva a Gerusalemme est. I corpi speciali hanno fatto irruzione a casa sua arrestando 9 persone compresi 5 familiari. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, giunto poco dopo sul posto, ha subito puntato il dito contro le bandiere nere: «Conosciamo l'identità dell'assalitore, secondo tutti i segnali è un sostenitore dello Stato islamico». Anche il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, è convinto che si tratti «di un attacco ispirato dall'Isis,
Abdul-Latif Qanou, uno dei portavoce di Hamas, ha elogiato !'«eroico» attacco e invitato i palestinesi ad «intensificare la resistenza». L'ala militare, le Brigate Ezzeddine al Qassam, ha emesso un comunicato: «L'operazione di Gerusalemme conferma che l'intifada non è un dato casuale e non si può far fallire in quanto rappresenta la volontà del popolo palestinese di ottenere la sua libertà».
Lo scorso settembre i servizi segreti non solo israeliani avevano fatto trapelare la notizia di un patto fra Abu Bilal al Gazaui, esponente di spicco della costola armata di Hamas e Abed Rahman Barhame emiro dello Stato islamico nella penisola del Sinai. Il nemico comune è il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. A Gaza gli uomini di Hamas avevano sterminato le cellule che si ispiravano alle bandiere nere temendo che potessero incrinare il loro potere. Se fosse confermata la pista dello Stato islamico per l'attacco di ieri a Gerusalemme, gli elogi di Hamas aprono scenari inquietanti. Non a caso il premier israeliano si è riunito con il ministro delle Difesa e i capi dell'intelligence per studiare possibili rappresaglie.
Il grave attentato insanguina Gerusalemme una settimana prima della conferenza di pace di Parigi, che dovrebbe riattivare il dialogo fra palestinesi e israeliani. In realtà l'iniziativa sembra nata già morta. Secondo Lieberman «non è una conferenza di pace, ma un processo a Israele», che potrebbe portare a una nuova condanna degli insediamenti israeliani, dopo quella dell'Onu di fine anno riguardante proprio Gerusalemme.
(il Giornale, 9 gennaio 2017)
A Gerusalemme come a Nizza e a Berlino
Va di moda la strage con il Tir. Un terrorista palestinese falcia quattro militari di Tsahal con un camion: Netanyahu: «Era simpatizzante dell'Isis».
di Daniel Mosseri
Dal lungomare di Nizza al cuore di Berlino ovest, e da qua alle mura di Gerusalemme. Il terrorismo torna a colpire con i camion lanciati sui pedoni ai margini della strada. A rimetterci la vita sono stati, domenica in un quartiere orientale della Città Santa, quattro militari israeliani appena scesi da un autobus. Altre 16 persone sono rimaste ferite, due delle quali in modo grave, «ma nessuno è in immediato pericolo di vita», ha informato il direttore del Hadassah Medicai Center, Yoram Weiss. L'attacco è avvenuto sulla passeggiata di Armon HaN atziv, settore sudorientale di Gerusalemme strappato da Israele alla Giordania nel 1967. La passeggiata locale porta a un memoriale che ricorda quella battaglia e la zona era particolarmente affollata di militari: ieri era il 10 di tevet nel calendario ebraico, un giorno che ricorda l'inizio dell'assedio di Gerusalemme da parte del sovrano babilonese Nabuccodonosor nel 687 a.C.
Le telecamere della zona hanno ripreso la scena: un pullman dell'esercito è accostato al marciapiede. Lanciato a tutta velocità, un tir scarta l'autobus e piomba sui giovani militari appena scesi, travolgendoli. Poi si ferma pochi metri più avanti. Nell'impatto perdono la vita tre ragazzi e una ragazza - in Israele il servizio militare è obbligatorio per entrambi i sessi - tutti sulla ventina. L'impatto è così repentino che un gruppetto di militari poco distanti non si accorge della tragedia in corso.L'autista del tir non è però ancora soddisfatto e torna all'attacco in retromarcia. Prima di riuscire a mietere nuove vittime, l'uomo è ucciso da un civile armato presente sul luogo. E qui le differenze con Nizza e Berlino svaniscono: l'attentatore non era uno straniero venuto da lontano ma un residente di Gerusalemme est.
«Conosciamo l'identità dell'attentatore e tutti i segnali puntano a indicarlo come un sostenitore dello Stato islamico», ha detto premier israeliano Benjamin Netanyahu giunto sul luogo della strage. Dando immediata applicazione a una recente disposizione del governo, il ministro della Pubblica sicurezza Gilad Erdan ha dato ordine alla polizia di non restituire la salma dell'attentatore alla sua famiglia. «Quello di oggi è un crimine particolarmente odioso, grave e doloroso, che potrebbe portare a fenomeni di emulazione. Noi non permetteremo che un terrorista vigliacco e la sua famiglia abbiano un funerale che possa tributargli il rispetto che poi incoraggi altri assalitori».
L'uomo, riferiscono i media israeliani, è stato poi identificato come Fadi al-Qanbar, del vicino quartiere di Jebl Mukaber. Il capo della polizia, Roni Alsheich, ha riferito ai media di non aver ricevuto alcun segnale sull'imminenza di un attacco di questo tipo. Neppure Netanyahu ha voluto aggiungere altro: prima di convocare d'urgenza il gabinetto di sicurezza, il premier si è limitato a un «stiamo prendendo altre misure, che non voglio dettagliare in questa sede, per assicurarci che attacchi di questo tipo non si producano più». Più polemico il suo ministro della Difesa, A vigdor Liberman. Con riferimento alla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu contro gli insediamenti israeliani (approvata grazie all'astensione degli Usa), Liberman ha detto che l'attacco non è stato fomentato dagli insediamenti, ma dal semplice fatto «che siamo ebrei e viviamo in Israele. Non c'è bisogno di andare alla ricerca di alcun motivo: si è trattato di un attacco ispirato dall'Isis».
Da parte loro le brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas, il movimento islamico al potere nella Striscia di Gaza, hanno reso noto che al-Qanbar era un ex prigioniero di Israele, poi rilasciato, e lo hanno definito un «mujahìd», un combattente per il jihad. A rinfocolare le polemiche anche l'intervento in tv di Eitan Rund, il civile che ha ucciso l'attentatore. «Mi sono chiesto perché in presenza di tanti militari, il primo a dover sparare sia stato un civile di 30 anni». La risposta che Rund si è dato è il caso di Elor Azaria, il militare israeliano condannato la settimana scorsa per omicidio dopo aver ucciso un attentatore palestinese che giaceva a terra già ferito. Secondo Rund il timore di essere condannati come Azaria è stato «senza ombra di dubbio» uno dei motivi della reazione lenta dei militari.
(Libero, 9 gennaio 2017)
Ma chi colpisce Israele non riesce a farla franca
L'autodifesa efficace
di Carlo Panella
Non c'è scampo, non c'è difesa: quando la morte terrorista ti arriva addosso con un camion mentre scendi da un autobus, o ti schiaccia con un'automobile, mentre aspetti sotto una pensilina o, con una coltellata a tradimento mentre passeggi per strada, non c'è nulla da fare. Neanche a Gerusalemme o Tel Aviv, le città più presidiate e controllate del mondo. Ben quaranta sono gli israeliani che sino a ieri erano già stati uccisi dai terroristi dal 2015 e oggi si aggiungono altre vittime. L'unica differenza tra Israele e Berlino è che a Gerusalemme il jihadista killer è stato freddato immediatamente, prima ancora che riuscisse a continuare la strage innestando la retromarcia. A Berlino Anis Amri non solo ha agito indisturbato, ma si è allontanato senza che nessuno lo inseguisse. L'unica, notevole novità di quest'ultima strage è l'indicazione delle autorità israeliane: è un attentato dell'Isis. Non più dunque un «cane sciolto» radicalizzato sul web (come la maggior parte degli attentatori in Israele degli ultimi due anni), non un miliziano di Hamas o del Jihad Islamico. La capacità dell'Isis di fare proseliti a Gaza e in Cisgiordania era stata segnalata già da mesi dai Servizi Israeliani, sintomo della perdita di egemonia sia di Hamas, che delle organizzazioni jihadisti palestinesi minori. Ma la capacità di colpire al cuore di Gerusalemme, per di più facendo strage di soldati israeliani, segna un salto di qualità indubbio.
L'Isis dispone di una rete universale, come testimonia l'ultima diabolica sequenza di attentati: a Berlino, subito dopo a Istanbul, poi a Baghdad, poi a Damasco e ora a Gerusalemme. Sempre più si avvera la previsione che ci consegnarono i massimi dirigenti della Security israeliana: «Il terrorista che getta di colpo un autoveicolo sulla folla è imprevedibile, inintercettabile, inevitabile. L'unica cosa che si può fare è stendere una tale rete di sicurezza nelle città, che lo fermi al più presto, o che l'arresti. O che lo uccida». Resta la terribile evidenza: Berlino è come Gerusalemme e Gerusalemme è come Berlino. E a Berlino non vi sono coloni che occupano terreni palestinesi, né un soldato tedesco ha mai sparato su un miliziano dell'Isis. Siamo tutti target, qualsiasi cosa abbiamo fatto o non fatto. Solo perché siamo «cristiani» o ebrei. Ed è bene non dimenticarci che il presidio dell'Occidente, a ridosso del-l'Isis è Israele. Nonostante l'Onu, nonostante Obama.
(Libero, 9 gennaio 2017)
Facile dare la colpa ai coloni d'Israele
Ma qui nessuno ascolta più cosa dicono Obama e Kerry
da Times of lsrael
Amezz'ora dall'inizio della conferenza del segretario di stato americano John Kerry, Canale 2, la tv più popolare in Israele, ha cessato la diretta e ha dato spazio ad altri programmi. Le altre due principali emittenti televisive del paese, Canale 1 e Canale 10, lo avevano già fatto". Si apre così l'editoriale di David Horovitz, direttore di Times of Israel. "Trascurando la radicalità dell'opposizione palestinese al fatto stesso che esista uno stato ebraico, il segretario e il suo presidente hanno perso da tempo gran parte del pubblico israeliano, anche molti di quegli israeliani che sono critici nei confronti degli insediamenti. Pochi israeliani resteranno conquistati dal discorso di commiato di Kerry, con la sua prevedibile fissazione sugli insediamenti. Il presidente e il suo segretario sottovalutano continuamente le cicatrici - fisiche e psicologiche - che l'opinione pubblica israeliana ha accumulato in decenni di guerre, terrorismi e demonizzazioni, mentre i palestinesi e coloro che li sostengono perseguivano la cancellazione di Israele. L'amministrazione Obama non ha mai veramente interiorizzato l'impatto di questi interminabili decenni passati a combattere il tentativo di distruggerci. Ed evidentemente Kerry non ha veramente interiorizzato che, nel crudele e sanguinario medio oriente di questi ultimi anni, per la maggior parte degli israeliani parlare dell'eventualità di cedere il controllo sulla adiacente Cisgiordania - con la sua recente storia di fabbriche di bombe suicide, con Hamas che aspetta solo di prenderne il controllo, con il nemico Iran imbaldanzito a est dall'accordo nucleare di Obama - è proprio questo: soltanto chiacchiere".
Continua il direttore e fondatore del giornale israeliano: "Abbiamo lasciato il sud del Libano e Hezbollah ne ha preso il controllo. Abbiamo lasciato la striscia di Gaza e Hamas ne ha preso il controllo. Quando Kerry esprime la sua 'totale fiducia' che le esigenze di sicurezza di Israele in Cisgiordania possano essere soddisfatte con sofisticate difese di confine e roba del genere, semplicemente perde l'opinione pubblica di Israele. Kerry ha impiegato ben poca parte del suo discorso per parlare della violenza e del terrorismo palestinese contro Israele, e ne ha impiegato una gran parte per attaccare gli insediamenti. In definitiva, quella di Kerry è stata un'ammissione di fallimento: ha implicitamente riconosciuto di non essere stato capace di far avanzare la pace tra israeliani e palestinesi. Avrebbe avuto più possibilità di successo se si fosse concentrato sul clima tossico che vige fra i palestinesi, implacabilmente indottrinati alla illegittimità di Israele, ribadita in modo martellante in tutte le case da massmedia e social network, dalla loro dirigenza politica e spirituale, spesso nelle loro scuole".
Il segretario di stato americano Kerry, conclude Horovitz, "non ha mai veramente fatto i conti con tutto questo. Più facile dare tutta la colpa ai coloni, che ai palestinesi. O magari a se stessi".
(Il Foglio, 9 gennaio 2017)
Nahum: "Sumaya va espulsa dal partito"
«Sumaya Abdel Qader va espulsa dal Pd»: Daniele Nahum non va per il sottile. Dopo gli scontri «interni» durante l'ultima campagna elettorale delle amministrative, l'esponente dem ed ex vicepresidente della comunità ebraica chiede l'allontanamento dal partito della consigliera comunale. L'affondo arriva su Facebook. «Se una persona è antisionista è anche antisemita (leggere il celebre discorso di Giorgio Napolitano). Poi scrive Nahum può essere ipercritico sulle politiche dei governi israeliani, ci mancherebbe. Però se sei un dirigente del Pd, specialmente se sei un parlamentare o un consigliere regionale/comunale, e sei ambiguo sull'antisionismo, vai semplicemente espulso». Il riferimento è all'intervento di Sumaya durante una recente apparizione tv a proposito del presunto antisemitismo delle comunità musulmane europee. E in particolare alla distinzione da parte dell'eletta musulmana del Pd tra antisemitismo e antisionismo. «Deve essere chiara su questa questione. Non lo è mai stata», intima Nahum.
Le parole della consigliera comunale musulmana avevano già provocato la reazione di Emanuele Fiano. «Scegliere la chiave della traduzione antisionista le aveva scritto il parlamentare dem peggiora la cosa. Non essere indulgente con chi sbaglia gravemente nella comunità musulmana». Il «caso Sumaya» aveva tenuto banco in campagna elettorale. Nahum e Maryan Ismail, poi uscita in polemica dal partito, avevano fortemente criticato il Pd milanese per il sostegno a Sumaya, accusata di vicinanza alla contestata Fratellanza musulmana.
(Corriere della Sera, 9 gennaio 2017)
Le tre armi impugnate dal Califfo
di Maurizio Molinari
Mettendo a segno una raffica di attentati ed azioni militari in tre Continenti nell'arco di appena 21 giorni lo Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi si è affermato come lo spietato protagonista del passaggio al nuovo anno: si tratta di un prepotente ritorno che smentisce chi lo aveva frettolosamente descritto in dissoluzione, travolto dalle pesanti sconfitte subite sul terreno in Iraq, Siria e Libia nel corso del 2016.
L'analisi degli attacchi jihadisti suggerisce che la forza del Califfato si genera da tre motivi convergenti: abilità tattica nella guerra del deserto, presenza di efficienti network salafiti in più Paesi ed una feroce carica ideologica.
L'abilità tattica è dimostrata da quanto avvenuto a Palmira, dove l'11 dicembre Isis ha costretto alla fuga i reparti russi e siriani grazie ad un attacco progressivo ovvero messo in atto con raid dalle periferie di piccole unità in rapido aumento, e da quanto sta avvenendo a Mosul, dove i jihadisti resistono con successo all'assedio iniziato in ottobre da iracheni, curdi e milizie sciite grazie all'uso massiccio di cecchini ed autobombe che ha decimato la «Golden Brigate» - le unità scelte di Baghdad - obbligando il premier Haider al-Abadi a ripiegare, inviando in prima linea la polizia. A queste ammissioni di debolezza da parte di Baghdad, il Califfo ha reagito moltiplicando gli attentati: con le autobombe nel mercato sciita di Sinak nella capitale e l'assalto al quartier generale della polizia a Samarra per un bilancio di quasi cento morti che ha fatto apparire le roccaforti del governo più vulnerabili di quelle jihadiste.
Nelle guerre del deserto il conflitto è permanente, non vi sono scontri decisivi e ciò che conta è fiaccare al massimo il nemico per guadagnare tempo e spazio: è una tattica tribale nelle quale i jihadisti del Califfo eccellono, guidati da ex ufficiali di Saddam Hussein addestrati alla guerriglia che possono contare sulla manovalanza delle tribù sunnite dell'Anbar, timorose della pulizia etnica condotta contro di loro dai reparti sciiti che rispondono agli ordini di Qassem Soleimani, capo della Forza Al Qods dell'Iran.
La presenza di network salafiti dormienti ed efficienti è dimostrata dall'attacco del 20 dicembre contro il castello di Karak, nella prima azione coordinata di un commando nella vulnerabile Giordania di re Abdallah, come anche dalla capacità dei singoli jihadisti di Berlino e Istanbul di colpire, sopravvivere all'attacco e darsi alla fuga grazie a una evidente rete di sostegni che attraversa l'intera Europa, dalla Manica al Bosforo. Per non parlare dell'attacco degli Al-Shabaab somali - che aderiscono a Isis - contro l'aeroporto di Mogadiscio adoperato dalle forze speciali anti-terrorismo di più Paesi occidentali.
Ma è il terzo elemento - la ferocia della carica ideologica - a indicare ciò che più sostiene il Califfato jihadista a dispetto delle ingenti perdite di territorio, uomini e mezzi subite da Ramadi a Tikrit, fino e Sirte. A suggerire di cosa si tratta è la sequenza fra l'attentato di Anis Amri sulla Breitscheidplatz di Berlino nel giorno di Natale e la strage al nightclub Reina di Istanbul nella notte di Capodanno: il bilancio complessivo di almeno 52 vittime e 126 feriti nasce dalla volontà del Califfo di portare la morte in coincidenza con le feste che più rappresentano la Cristianità. Il Califfato impedisce di celebrarle sui suoi territori perché le considera un'offesa all'Islam, ed ora dimostra di riuscire ad aggredirle anche sui territori di Stati occidentali «infedeli» e musulmani «apostati». E' come se la legge della Jihad riuscisse a imporsi ovunque, umiliando i cristiani in Occidente come
già avviene nel mondo arabo. In questa maniera il Califfato rafforza la propria legittimità, basata sulla violenza, agli occhi dei seguaci e moltiplica la capacità di reclutamento da cui dipende l'alimentazione della propria guerra permanente. A confermare la capacità di penetrazione ideologica del Califfato c'è l'assassinio ad Ankara dell'ambasciatore russo Andrey Karlov perché il killer, un ex agente della sicurezza di Recep Tayyp Erdogan, prima di sparargli ha urlato «Allah hu-Akbar» richiamandosi alle vittime di Aleppo ovvero uno dei campi di battaglia jihadisti. Che il killer fosse o meno dell'Isis conta assai meno del fatto che ne ha de facto espresso il credo ideologico al momento del «martirio».
Se il Califfo riesce a cogliere tali e tanti risultati è anche a seguito di errori e mosse false dei suoi maggiori avversari, a cominciare dagli Stati Uniti. Il presidente americano Barack H. Obama ha condotto contro Isis dal giugno del 2014 la più inefficace delle campagne aeree e nelle ultime settimane di mandato non ha accresciuto la pressione militare, continuando ad avere un basso profilo contro il terrorismo jihadista e preferendo agire per indebolire politicamente due Paesi - Israele e Russia - molto esposti nel combatterlo. Quali che siano i motivi di tali iniziative di Obama, l'impatto in Medio Oriente è stato di confermare il distacco Usa dal conflitto contro Isis.L'interrogativo è se il successore, Donald J. Trump, dal 20 gennaio vorrà e saprà rovesciare tale approccio restituendo all'America il ruolo di Paese leader nella guerra ai jihadisti frutto dell'attacco subito l'11settembre 2001: assegnando alla Nato la nuova missione di cui ha bisogno per tornare protagonista, rafforzando la cooperazione strategica con Israele e coniando un'intesa proprio con la Russia di Vladimir Putin, trasformandola da avversario nel cyberspazio ad alleato nel conflitto del deserto per sconfiggere il Califfo del terrore.
(La Stampa, 8 gennaio 2017)
Sionista o no, Kafka fa sempre discutere
Un'interessante opera documentaria e biografica di Stach aiuta a comprendere le idee sulla questione ebraica e la complessa personalità dello scrittore praghese. E non mancano testi che gettano luce sui suoi sentimenti.
di Vito Punzi
Un'idea arguta, la decisione di passare al setaccio la complessa materia biografica di uno dei più grandi scrittori del Novecento, Franz Kafka, per raccogliere testimonianze che, per oscurità o brillantezza, siano d'aiuto nella lettura della sua opera, ma anche nello scandaglio della sua complessa personalità. Così ha fatto Reiner Stach, che al boemo di lingua tedesca ha dedicato decenni di studi, pubblicando infine una biografia in tre volumi edita in Germania tra il 2002 e il 2014 e ora arrivata in Italia, per i tipi di Adelphi, col titolo Questo è Kafka? (traduzione di Silvia Dimarco e Roberto Cazzola, Adelphi, pagine 360, euro 28). Risultato di quel setaccio è questa raccolta di 99 reperti: foto, riproduzioni di documenti, memorie, frammenti letterari, il tutto corredato da apparato con informazioni sui personaggi citati, fonti e note. Come solo un attento biografo poteva fare, evidentemente. Raccolti all'interno di otto capitoli tematici, va detto che non tutti risultano rivelatori di tratti significativi della personalità kafkiana. Molti testi sono poi più che noti ai lettori del praghese, perché tratti da opere edite (carteggi compresi), sue o di altri.
C'è il Kafka che trascrive e invia a Brod una canzone (Addio piccola stradina), perché «di grande purezza», «semplice», di cui «ogni strofa è un'esclamazione e un reclinare il capo». Una canzone che ha cantato, ma, come confesserà più tardi a Felice Bauer, non ricorda la melodia, perché privo di memoria musicale. C'è il Kafka che interviene sull'amministrazione di una fabbrica di amianto di cui era comproprietario per manifestare le proprie divergenze, nel «vano tentativo» di far fronte al suo «senso di responsabilità». Ma c'è anche il Kafka commovente presente nei ricordi di Dora Diamant, l'ultima delle sue fidanzate, la quale racconta del boemo che, incrociata in un parco una bambina che aveva perduto la sua bambola, per giorni, per consolarla, s'impegnò a scrivere lettere alla bambina, come fossero firmate dalla bambola, facendosi carico così di convincere la piccola che quella si fosse allontanata per un motivo molto serio. «Franz scrisse ogni frase di quel romanzo - sottolinea la Diamant - con tale accuratezza e tanto spirito, che la situazione della bambola divenne assolutamente comprensibile». Peccato che le lettere scritte e consegnate a quella bambina non sono mai state ritrovate.
Da ultimo segnaliamo il Kafka cultore della lingua ebraica e osservatore attento di ciò che accadeva in Palestina, così come emerge da una lettera-articolo scritta da Georg Mordechai Langer nel 1941 per ricordare l'amico praghese conosciuto nel 1914. Langer getta luce sul tema Kafka e il sionismo e più di una volta sottolinea come egli non lo fosse: «Non era un sionista, ma invidiava profondamente coloro che realizzano di persona il grande principio del sionismo: emigrare in Eretz Israel». Max Brod, il curatore dell'opera postuma di Kafka (i suoi testi pubblicati in vita furono pochissimi), invece, sostenne sempre il sionismo dell'amico Franz. E a proposito di un tema così delicato anche un biografo così attento come Stach tralascia di ricordare come, inizialmente, Brod non fu da solo a mettere mano all'edizione postuma dell'opera kafkiana. Con lui lavorò, almeno fino a un certo punto, lo storico delle religioni Hans-Joachim Schoeps (1909- 1980), tedesco anch'esso d'origine ebraica, fieramente filoprussiano e critico del sionismo. Fautore convinto dell'integrazione ebraico- tedesca, proprio per questo motivo fu attratto giovanissimo dalla personalità e dall'opera di Kafka. Nelle memorie di Schoeps è infatti possibile leggere di quando, appena ventenne, ebbe modo di lavorare per giorni al lascito kafkiano nel caveau di una banca di Praga, nel 1929, cercando di «mettere ordine nei frammenti di Kafka».
La collaborazione tra Brod e Schoeps, documentata anche da un interessante scambio epistolare, produsse la pubblicazione a Berlino, nel 1931, di una serie di 19 racconti e di due serie di aforismi kafkiani dal lascito, tutti risalenti al 1917, anno per tanti versi decisivo nella biografia di Kafka. La stessa postfazione a quel volume fu firmata da entrambi i curatori e il progetto a cui i due stavano lavorando non era cosa segreta, tanto da essere ben noto anche a Walter Benjamin e Gershom Scholem. Ciò che divise Brod e Schoeps, costringendo quest'ultimo all'esclusione dalla successiva opera di pubblicazione degli inediti kafkiani, fu proprio l'intento, da parte di Brod, di reclamare Kafka alle ragioni del sionismo.
(Avvenire, 8 gennaio 2017)
"Camion Intifada", l'odio palestinese contro Israele
di Elena de Giorgio
Mette i brividi guardare il video dell'attentato di oggi a Gerusalemme. Un gruppo di soldati israeliani sta scendendo da un autobus, durante un giro turistico nella città. Hanno formato un piccolo capannello, prendono i loro zaini, parlano tra loro. Finché un camion non piomba a grande velocità sul gruppo, facendo morti e feriti. E' la jihad dei camion e delle auto killer, ne sanno qualcosa Nizza e Berlino, ma non è il primo attacco del genere che avviene in Israele. Il killer è un palestinese dei territori contesi, vive a Gerusalemme Est. Secondo il sito di Ynet il killer è stato ucciso da due militari e alcuni civili armati presenti sulla scena.
"Quando il mondo realizzerà che il problema è l'odio palestinese?", scrive su Twitter Emmanuel Nahshon, portavoce del ministero degli Esteri israeliano. L'attacco non è casuale, avviene nel giorno in cui gli ebrei ricordano la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Ed è una conseguenza diretta del vergognoso voto negazionista in consiglio di sicurezza all'Onu su Israele, passato con l'astensione degli Stati Uniti obamiani, e successivo a quello altrettanto sbagliato dell'Unesco: con la scusa del problema degli insediamenti nei territori, si negano le radici ebraiche e cristiane di Gerusalemme. Il premier israeliano Banjamin Netanyahu intanto spiega che l'attentatore era un simpatizzante dello Stato islamico, Isis.
Sul web i palestinesi di Hamas esultano all'attacco, "eroico", con "il camion della Intifada". Il sito Shehab scrive: "Guardate il camion lanciato a Jabel Mukhaber, a Gerusalemme; la fuga dei militari dell'occupazione, che abbandonano i loro compagni durante l'operazione". Si teme un effetto copycat, che altri possano emulare il gesto del killer. L'attacco, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, dimostra come sia del tutto estemporaneo continuare a parlare di "processo di pace" e della soluzione "due popoli due stati", quando l'Anp, i palestinesi che gestiscono i territori contesi, non sono in grado di evitare che avvengano attentati del genere contro Israele.
Senza rispetto della libertà, della sicurezza e delle basi dello stato di diritto, non è possibile immaginare uno stato palestinese. Per inciso, il killer, Fadi al-Kanabir, era stato rilasciato dalle carceri israeliane. Le forze di sicurezza della Autorità nazionale palestinese lo tenevano sotto controllo o no?
(l'Occidentale, 8 gennaio 2017)
Gerusalemme, torna il terrorismo. "Vergognosa la gioia palestinese"
La violenza terroristica palestinese si abbatte nuovamente contro Gerusalemme. Come è accaduto a Nizza e così come era successo in passato in Israele, ad essere utilizzato come arma un tir, lanciato contro una fermata di autobus in cui erano radunati diversi soldati israeliani. Quattro le vittime al momento accertate dell'attacco nella Capitale israeliana (oltre al terrorista) mentre sono almeno 16 i feriti, di cui alcuni gravi. Il Maghen David Adom - che ha chiesto alla cittadinanza di aiutare i feriti recandosi a donare il sangue - ha dichiarato che le vittime, tre ragazze e un ragazzo, erano tutti ventenni. Secondo le ricostruzioni, i soldati erano in visita nella Capitale come parte di un'iniziativa culturale promossa dall'esercito.
"Gli ebrei italiani si uniscono al dolore e allo strazio per quanto abbiamo assistito a Gerusalemme - ha dichiarato la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni - Siamo abituati a tornare alla normalità ma quando accadono tragedie simili ricadiamo in un lutto collettivo che attraversa l'ebraismo di tutto il mondo, legato a Israele e a Gerusalemme". Un attentato terroristico di estrema gravità, ha sottolineato la presidente dell'Unione, che costituisce un segnale che anche i vertici internazionali devono prendere in esame, in particolare in vista del summit organizzato a Parigi sulla questione del conflitto tra israeliani e palestinesi. "In questo momento di dolore, girando lo sguardo a pochi chilometri dall'attentato vediamo gli inni di gioia dei palestinesi, un comportamento che fa capire l'abisso culturale in cui viviamo e che sfida ogni processo di pace", dichiara la presidente Di Segni, in riferimento ai vergognosi festeggiamenti inscenati da parte palestinese dopo la notizia dell'attentato. Da registrare anche una sdegnata condanna dell'attentato da parte della presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello.
Sulla scena dell'attentato sono arrivati nelle scorse ore anche il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Avigdor Lieberman. In serata si terrà un Consiglio di sicurezza per analizzare la questione. Intanto l'ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite Danny Danon si è rivolto all'Onu - sia al nuovo Segretario Antonio Guterres sia al Consiglio di Sicurezza - chiedendo di condannare l'attacco.
(moked, 8 gennaio 2017)
Attentato a Gerusalemme, camion guidato da palestinese contro israeliani: 4 morti
L'aggressore, che secondo le Brigate Qassam "era stato rilasciato dalle prigioni israeliane", è stato ucciso. Hamas rivendica: "Avanti con Intifada". Portavoce del ministero degli Esteri Israele: "Quando il mondo capirà che il problema è l'odio palestinese?"
TEL AVIV - Quattro soldati israeliani (tre donne e un uomo) sono stati uccisi da un camion guidato da un palestinese che è piombato su di loro. Il luogo dell'attentato si trova in un quartiere ebraico della parte sud di Gerusalemme est. Quindici i feriti. Hamas rivendica e definisce "eroico" l'attacco "con un camion dell'Intifada". Israele condanna "l'odio palestinese". Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha convocato il Consiglio di difesa del governo per le 17.30 locali, le 16.30 in Italia.
Per le autorità si tratta di un atto di terrorismo. L'autista, Fadi al-Qanbar, 28 anni ("Era stato rilasciato dalle prigioni israeliane", fanno sapere le 'Brigate Qassam'), è stato ucciso dalla polizia. Aveva una patente israeliana e guidava un veicolo con targa di Israele, proveniva dal quartiere di Gerusalemme est Jabal Mukaber, non lontano da dove è avvenuto l'attacco. L'esercito israeliano ha perquisito la sua abitazione.
(la Repubblica, 8 gennaio 2017)
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Hamas benedice l'attacco a Gerusalemme est
GERUSALEMME - Il gruppo palestinese di Hamas ha "benedetto" l'attacco condotto oggi a Gerusalemme est dove un autista palestinese a bordo di un camion ha investito un gruppo di israeliani uccidendone 4 e ferendone 14. In una comunicato diffuso dal gruppo che controlla la striscia di Gaza, si legge che "l'operazione di Gerusalemme conferma che l'intifada non è un dato casuale e non si può far fallire in quanto rappresenta la volontà del popolo palestinese di ottenere la sua libertà. L'operazione di oggi è una risposta naturale ai crimini dell'occupazione e una rivoluzione popolare continua sull'occupazione". Secondo i media israeliani il palestinese alla guida camion si chiama Sami al Kanbar. Si tratta di un ex detenuto proveniente dalla zona di Jabel el Mukhaber a Gerusalemme Est. Tra le persone morte ci sono 3 donne e un giovane di 20 anni.
(Agenzia Nova, 8 gennaio 2017)
L'Onu blocca, Israele non paga
Netanyahu taglia i fondi al Palazzo di Vetro. II Congresso Usa condanna la risoluzione dell'Onu
di Daniel Mosseri
Uno-due contro le Nazioni Unite e contro Barack Obama da parte del Congresso Usa e del governo israeliano. Giovedì la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato una mozione contro la risoluzione di fine dicembre del Consiglio di Sicurezza dell'Onu che ha condannato la politica degli insediamenti condona da Israele. Con un'ampia maggioranza bipartisan (342 a favo-re e 80 contrari), i deputati a stelle e strisce hanno definito il testo congedato dal Palazzo di Vetro «di parte e contro Israele».
La risoluzione Onu era stata approvata grazie all'astensione degli Usa che, per la prima volta negli ultimi 36 anni, non hanno usato il loro diritto di veto per bloccare il testo anti-Israele, avanzato da Malesia, Nuova Zelanda, Senegal e Venezuela. Se per le Nazioni Unite gli insediamenti israeliani «sono privi di validità legale e rappresentano una flagrante violazione della legalità internazionale», secondo la Camera Usa la risoluzione 2334 «fornisce legittimità agli sforzi dell'Autorità palestinese per imporre la sua soluzione [al conflitto] attraverso le organizzazioni internazionali e attraverso ingiustificate campagne di boicottaggio e di disinvestimento contro Israele». Il testo chiede anche «l'annullamento o la modifica sostanziale» della 2334.
Poche ore dopo, la decisione dell'esecutivo israeliano: «E irragionevole per Israele finanziare entità che agiscono contro di noi all'Onu», ha dichiarato l'ambasciatore al Palazzo di Vetro, Danny Danon. Parole a cui ha fatto seguito un taglio per sei milioni di dollari al contributo da 40 milioni che annualmente il governo di Gerusalemme versa nelle casse dell'Onu. Un taglio proporzionato al budget che le Nazioni Unite assegnano a quattro commissioni sulla questione palestinese: «Vogliamo mettere fine alla pratica per cui l'Onu è utilizzata solo come un forum per attacchi senza fine contro Israele». La decisione del governo guidato da Benjamin Netanyahu - da tempo «ansioso» di collaborare con l'amministrazione entrante - e il voto della Camera, presto imitata dal Senato come promesso dai senatori Kindsey Graham e Ted Cruz - danno il senso di una transizione difficile fra Barack Obama e Donald Trump. La convergenza di tanti deputati democratici sulla mozione anti-Onu è poi il segnale di come, con il mancato veto, il presidente uscente abbia strattonato il suo stesso partito. La netta scelta anti-Israele dettata da Obama a fine mandato sa invece di «fatto compiuto», destinato a legittimare azioni parimenti clamorose da parte di Trump.
Fra queste l'atteso trasferimento dell'ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv, sede della maggior parte delle missioni diplomatiche, a Gerusalemme, considerata da Israele «capitale unica e indivisibile» dello Stato ebraico. Poiché lo status dei quartieri orientali, annessi da Israele in seguito alla Guerra dei Sei Giorni (1967), è contestato dai palestinesi, il mondo si è ben guardato dal riconoscere Gerusalemme come capitale. Nel 1995, tuttavia, il Congresso Usa approvò il Jerusalem Embassy Act stabilendo lo spostamento della missione americana proprio nella Città Santa. La decisione congressuale è rimasta lettera morta ma già in campagna elettorale Trump ha promesso di spostare l'ambasciata.
Contro di lui si è espresso il duo Kerry-Abbas. Intervistato dalla Cbs, il segretario di Stato americano ha detto che la mossa potrebbe causare «un'esplosione assoluta nella regione e non solo nella West Bank ma forse anche nelle stessa Israele». Parole che suonano più come un incitamento alla rivolta che non l'espressione della ponderata preoccupazione da parte del capo della diplomazia americana. Con lui presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas: «Qualsiasi dichiarazione (o azione) che alteri lo status di Gerusalemme è una linea rossa che non accetteremo» e il suo superamento, ha aggiunto, potrebbe minare le chance di ripresa del processo di pace.
(Libero, 8 gennaio 2017)
Caso Elor Azaria - "Chi paga il prezzo più alto è l'anello più debole della catena"
Intervista a Michael Sfaradi
di Francesco De Maria.
- Elor Azaria è stato condannato. Giustizia è fatta!
Dipende a quale giustizia si riferisce, se la sentenza è stata emessa secondo il codice militare israeliano in tempo di guerra, secondo le Convenzioni di Ginevra oppure in base alle enormi pressioni internazionali e giornalistiche che hanno accompagnato questi mesi di indagine e di processo. In ogni caso giustizia non è stata fatta o è stata fatta solo in parte e chi paga il prezzo più caro, l'ho già spiegato nel mio articolo pubblicato su Ticino Live, è l'anello più debole della catena. Questa ingiustizia, di fatto, inficia la sentenza e la rende politica.
- Lei accetta l'evidenza della "prova filmata"? Oppure la respinge, la confuta?
La prova filmata che ha fatto il giro del mondo, quella che per intenderci è stata pubblicata anche sul sito del Corriere della Sera, è di pochi secondi e riprende solo il momento dello sparo. Chi l'ha fatta arrivare alla Reuters, e da lì al resto del mondo, è una ONG che si chiama B'Teselem che da anni tiene fisse le sue telecamere sull'operato dei militari israeliani e che, come ho detto centinaia di volte, non ha mai mandato in onda una foto o una semplice immagine di uno qualsiasi degli attentati, e in questi anni ce ne sono stati a centinaia, che la popolazione israeliana ha dovuto subire. Solo il filmato della B'Teselem è stato preso in considerazione dalla stampa internazionale perché meglio si adatta a infangare Israele e il suo esercito. Tutte le altre riprese, e mi riferisco ad almeno un'ora e mezzo di filmato, che sono state girate prima e dopo lo sparo e che davano un quadro complessivamente più chiaro dei fatti, sono state completamente ignorate. Da qui pare la manipolazione dei modi e dei tempi in cui il tutto si è svolto e la conseguente pressione internazionale che ha fatto diventare sia l'inchiesta che il processo una procedura scontata.
- La tesi del "giubbetto esplosivo", fondamentale per la difesa, sembra poco convincente (e il tribunale non l'ha ammessa). Le immagini mostrano chiaramente che tra i militari che attorniano il terrorista a terra non vi è alcun timore di un'esplosione. A un certo punto Azaria prende la mira, spara e uccide l'uomo a terra.
Mi ricollego a quello che ho appena affermato, lei ha visto pochi secondi di filmato, per cui devo raccontare quello che si vede nelle intere riprese. Dopo il doppio accoltellamento da parte dei due palestinesi e la reazione dei militari israeliani, arrivano sul luogo due ambulanze. Gli infermieri si prendono cura dei due militari feriti, e a terra si vedono i corpi dei terroristi, il primo senza vita e il secondo ferito e svenuto. Si sente anche chiaramente la voce di uno dei paramedici che avverte di non avvicinarsi al ferito palestinese prima che arrivi l'artificiere che deve controllare che non ci siano esplosivi sul corpo. Per i primi sette minuti circa il ferito a terra è svenuto e non si muove, poi si riprende e comincia a muovere le gambe e le braccia. Si sentono delle grida in arabo che gli intimano di non muovere le mani e l'avvertimento viene ripetuto almeno tre o quattro volte prima dello sparo. Tra l'altro il colpo mirato alla testa fa parte delle regole di ingaggio nel caso in cui ci sia il sospetto che un terrorista abbia addosso un corpetto esplosivo e lo voglia innescare. Mirare al bersaglio grosso è un errore perché attiverebbe l'esplosione, cosa che si deve evitare a ogni costo.
- Secondo me l'esercito e la magistratura hanno fatto bene.
È una sua opinione, io credo che il lavoro non sia completo e che le responsabilità non siano venute tutte alla luce anche perché, questo mi è stato riferito non l'ho potuto vedere in prima persona, i giudici non hanno preso in considerazione dichiarazioni di Alti Ufficiali dell'esercito che hanno deposto a favore dell'imputato. Mentre hanno dato grande importanza, neanche fosse stato il Vangelo, alle dichiarazioni di un Capitano che ha deposto per l'accusa.
- Con la loro azione hanno dimostrato di essere capaci di sanzionare un crimine di guerra, rendendo giustizia anche ai nemici.
No, nelle 93 pagine della sentenza, troppe per un caso che per i giustizialisti è stato palese fin dal primo istante, sicuramente vi sono nascoste responsabilità che vanno oltre a quelle di un sergente di leva di diciannove anni. 93 pagine scritte tutte dalla giudice a latere e solamente controfirmate dagli altri giudici, anche questo, se permette, mi lascia dubbioso su ciò che può essere accaduto in Camera di Consiglio.
- Quanto può nuocere a Israele un video come questo, riproposto migliaia di volte, visto da milioni di persone?
Non lo so e neanche mi interessa. Questo video, come altri, in maggioranza falsi creati a tavolino da una fabbrica che in Israele chiamiamo Pallywood, servono soltanto a mantenere alta l'attenzione sulle 'malefatte israeliane', vere, presunte o false, il caso Al Dura docet. Nel contempo servono anche a giustificare il terrorismo palestinese che in Europa già da tempo non si nomina più. Il terrorismo palestinese ha assunto varie denominazioni politicamente corrette e anche se accoltella persone innocenti o si fa esplodere nei luoghi affollati trova subito dei difensori che giustificano ogni sua malefatta. Chi conosce Israele non cambierà certamente idea a causa di questo filmato, se permette Israele è molto di più. Israele è e continuerà ad essere il faro della libertà e della democrazia in medioriente nonostante questo o altri filmati, nonostante la U.E. della Mogherini e della Catherine Ashton prima di lei, nonostante la Svezia, la Norvegia, la Francia, l'ONU, la Nuova Zelanda, la Lega Araba, Obama e John Kerry.
- Netanyahu si è comportato in modo errato? Stessa domanda per certi alti ufficiali dell'esercito.
Io credo che Azaria abbia sbagliato, ma le responsabilità non possono rimanere tutte sulle spalle di un ragazzo appena maggiorenne chiamato a fare il suo dovere di militare in uno dei più difficili scacchieri di guerra al mondo. Lo sparo è stato illegale? Sicuramente sì, ma Azaria non ha sparato a un passante innocente, ha ucciso un terrorista che pochi minuti prima voleva uccidere lui e i suoi commilitoni a coltellate. Noi oggi giudichiamo in base a un metro che potrebbe presto cambiare, non solo in medioriente, ma in ogni angolo di mondo. Israele non è la sola vittima del terrorismo, anche Parigi, Nizza, Berlino, Bruxelles, Madrid e Londra hanno conosciuto le devastazioni terroristiche, e quello che ha fatto Azaria oggi potrebbe essere ripetuto domani da un qualsiasi poliziotto o militare europeo in un momento di sconforto davanti al corpo ferito di chi ha mietuto vittime innocenti. Mi duole dirlo, ma in questa guerra asimmetrica i parametri comportamentali potrebbero essere stravolti, ecco perché all'inizio di questa intervista ho citato anche le Convenzioni di Ginevra. Detto questo sono assolutamente convinto che un esame di coscienza profondo debba essere fatto sia dalla classe politica israeliana che dallo Stato Maggiore dell'Esercito I.D.F., perché non è possibile che dei ragazzi prestino servizio senza che ci sia con loro almeno un ufficiale con esperienza sul campo, soprattutto in un periodo come quello dell'intifada dei coltelli. Non è possibile prevedere le reazioni dei ragazzi davanti al sangue. Azaria ha sbagliato? Sicuramente sì, ma nessuno potrà mai sapere cosa è passato nella sua testa mentre uno dei suoi amici era in fin di vita per una coltellata alla gola, coltellata che era stata inferta proprio dall'uomo che ha poi ucciso. Nessuno di noi lo può sapere perché nessuno di noi è stato al suo posto. Solo la presenza di ufficiali, di ordini chiari e di regole di ingaggio precise poteva forse, e sottolineo forse, evitare quello che è poi successo. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il suo Ministro della Difesa Moshe Ya'alon hanno sbagliato a condannare il fatto davanti ai media a meno di un'ora dall'accaduto e prima ancora che le indagini fossero state avviate. Anziché difendere un loro soldato, o almeno attendere i risultati preliminari dell'inchiesta, hanno pensato a pararsi e ad offrire la vittima sacrificale. Sono sicuro che quelle dichiarazioni abbiano in qualche modo influenzato i risultati.
- Molti vedono in arrivo la soluzione "morbida". Il soldato viene condannato (così giustizia è fatta e l'onore dell'esercito è salvo) ma riceve la grazia (andando esente da pena). È una soluzione probabile? È una buona soluzione?
Non so se è probabile, solo il tempo ce lo può dire, personalmente non credo che sia buona. Certo, soprattutto per come si sono messe le cose, per Azaria sarebbe l'ideale. Colpevole e congedato con disonore ma con una vita fuori dalla cella. Per la nazione e per l'esercito sarebbe invece un errore che si aggiunge all'errore certificando, di fatto, che le colpe di quanto accaduto non erano solo del sergente e che ci sono altri responsabili che, purtroppo, ne sono usciti puliti. Io amo la mia nazione e il mio esercito e se ci sono altri perseguibili ne vorrei conoscere i nomi, i cognomi, i gradi e gli incarichi. Solo in questo modo giustizia sarebbe fatta davvero.
- Che cosa direbbe a un israeliano che giudichi la sentenza equa?
Che è una sua opinione che probabilmente verrà poi smentita dalla storia, non sarebbe il primo caso. Per esempio non dimentichiamoci che la commissione di inchiesta parlamentare sulla guerra del Kippur del 1973 ritenne il governo di Golda Meir estraneo da colpe sull'impreparazione dell'esercito incolpando in toto il Capo di Stato Maggiore Generale David Elazar. Anche quella fu una sentenza che la maggioranza degli israeliani non hanno mai preso per buona.
- Quale sarebbe stata, a suo avviso, la soluzione più giusta di questo spinoso caso?
Io sono un giornalista e uno scrittore, non un giudice. A questa domanda non so davvero come rispondere. So solo che avrei voluto un processo diverso a prescindere dalla sentenza, con più fatti e testimonianze e senza pressioni internazionali perché Israele per quanto se ne dica, non deve dimostrare nulla a nessuno. Il mondo guarda con il microscopio quello che succede nello Stato Ebraico e nei suoi confini, e grida a ogni cosa mentre ciò che accade, di gran lunga più grave e sanguinoso, in altre parti del mondo passa costantemente sotto silenzio. Un mio famosissimo correligionario, perché Yoshua di Nazareth era ebreo e non palestinese, disse: "Non giudicate per non essere giudicati, perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati e con la misura con la quale misurate sarete misurati".
(TICINOlive, 7 gennaio 2017)
Ammonimenti a Trump
di Niram Ferretti
L'annuncio di Donald Trump di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme fatto all'AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) l'anno scorso durante la campagna elettorale e poi ribadito dal neoeletto ambasciatore americano in Israele David Friedman è stato un ballon d'essai oppure no? Si tratterà di misurare in parte la consistenza del nuovo presidente americano su un annuncio così impegnativo e foriero di reazioni sicuramente non amichevoli nel mondo arabo. Tenute sottotraccia fino ad ora, con l'approssimarsi del suo insediamento iniziano a manifestarsi.
Da Ramallah, Abu Mazen ha già lanciato i suoi avvertimenti: "La invitiamo a non dare seguito alla sua dichiarazione perché la consideriamo una dichiarazione aggressiva". In stile puramente para mafioso Abu Mazen ha poi aggiunto che un eventuale trasferimento dell'ambasciata sancirebbe il superamento di una "linea rossa" e che le conseguenze di una simile decisione sarebbero "irreversibili". L'Autorità Palestinese non starebbe a guardare e prenderebbe delle iniziative. E' forse la minaccia di una nuova intifada?
Saeb Erekat, il negoziatore dell'Autorità Palestinese nonché diffamatore professionale di Israele, il mese scorso ha dichiarato che se l'ambasciata verrà trasferita si dimetterà, che il processo di pace terminerà per sempre, che l'OLP disconoscerà il suo riconoscimento di Israele e che nel mondo arabo tutte le ambasciate americane e israeliane saranno costrette a chiudere i battenti. L'apocalittico Erekat, non ha considerato che le sue dimissioni provocherebbero un battito di ciglia, così come si dimentica di dire che il processo di pace non è mai realmente cominciato, che l'OLP non ha mai riconosciuto in nessun documento ufficiale Israele (è riconosciuta di fatto la sua sola esistenza, ma non la sua effettività come Stato ebraico), e che buona parte del mondo arabo, Arabia Saudita in testa, è da tempo stanco della "causa palestinese" e molto più interessato a mantenere legami proficui, economici e strategici con gli Stati Uniti.
Anche da Amman arrivano ammonimenti sulle conseguenze "catastrofiche" della mossa. Per la Giordania si tratterebbe di un regalo agli estremisti e di una provocazione che incendierebbe la regione.
Due cose vanno dette. Un eventuale spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, (proposta insediata al Congresso americano da decenni ma mai fatta passare) significherebbe una plateale sconfessione della Risoluzione 2334 votata il mese scorso dal Consiglio di Sicurezza ONU con il placet astensionista degli USA. Per la risoluzione, ricordiamolo, il quartiere ebraico e il Kotel (Muro del Pianto) riconquistati da Israele alla Giordania nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, sono "territori palestinesi occupati". Ricollocare l'ambasciata americana in quella che il popolo ebraico considera da sempre la propria capitale eterna romperebbe il costante neutralismo statunitense sulla questione e sancirebbe de facto il riconoscimento americano nei confronti della rivendicazione israeliana.
Si tratterebbe dunque di una mossa dal dirompente valore simbolico la quale avrebbe un senso solo se la nuova amministrazione americana sarà pronta a impegnarsi contestualmente in una politica di risoluto sostegno politico nei confronti di Israele e della sua guerra perdurante contro il terrorismo palestinese-islamico che lo logora da sempre.
(L'Informale, 7 gennaio 2017)
Fallito vertice tra Hamas e Fatah a Doha sulla riconciliazione
RAMALLAH - E' fallito il vertice che le delegazioni dei partiti palestinesi di Hamas e Fatah hanno tenuto l'altro ieri a Doha per tentare di superare gli ostacoli presenti sulla strada della riconciliazione nazionale. Secondo quanto rivela un funzionario palestinese al giornale arabo "al Hayat", "avevamo grosse speranze nell'incontro che c'è stato in Qatar tra Azzam al Ahmed di Fatah con il capo dell'ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal, ma in base alle informazioni in mio possesso non c'è stato alcun passo in avanti". Era previsto un annuncio ufficiale da parte dei due movimenti politici palestinesi relativo all'avvio dell'applicazione degli accordi di riconciliazione ultimi, ma ciò non è avvenuto. A Doha si è discusso delle questioni in sospeso come la nascita del governo unitario, il governo di Gaza, la gestione degli impiegati pubblici e del parlamento, senza arrivare a nessun accordo. Il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, secondo la fonte "ha dato indicazioni precise ad Ahmed in base alle quali il nuovo governo dovrà rispettare un programma politico, come condizione alla quale non si può rinunciare, cosa che Hamas non accetta".
(Agenzia Nova, 7 gennaio 2017)
E questo sarebbe lo Stato palestinese che rivendica come sua capitale Gerusalemme!
Yokneam, dove nascono le start-up
di Piera Di Segni
Yokneam è una piccola cittadina sulle colline della Galilea, alle spalle del Monte Carmelo: con Itzhak Rabin primo ministro, negli anni'90, insieme ad altre località in Israele, venne considerata zona prioritaria per lo sviluppo tecnologico. Sgravi fiscali e incentivi hanno accelerato in due decenni lo sviluppo della città. "Mi raccontava una persona del posto che venti anni fa qui c'era solo un lampione e una fermata dell'autobus" ci dice Astorre Modena: fisico, nato a Milano, in Israele da molti anni, è manager di Terralab, incubatore tecnologico che ha sede proprio a Yokneam.
Il paese è diviso in due dalla statale 70: da una parte il villaggio residenziale, palazzine bianche in mezzo al verde, con parabole e pannelli solari sui tetti. Dall'altra la zona industriale, con moderni palazzi in vetro e cemento. ospitano le sedi di oltre cento società che operano nel campo dell'hi tech, dell'informatica, delle tecnologie applicate all'agricoltura e alla medicina. Tra queste c'è l'ufficio di Terralab: spazi ampi, moderni e luminosi dove un piccolo gruppo di segretarie e amministrativi supportano il lavoro di alcune start up. L'incubatore Terralab è gestito dal fondo Terraventure, del quale Modena è manager, e attualmente vi operano una decina di start up. Fa parte di quindici incubatori tecnologici sovvenzionati direttamente dallo Stato. "Noi abbiamo la possibilità di investire in società start up con un rischio bassissimo grazie al contributo dello stato che, su 100.000 dollari investiti da privati, impegna 600.000 dollari, quasi a fondo perduto; dobbiamo restituirli negli anni successivi, ma a condizioni molto ragionevoli". Le start up rimangono a Yokneam un anno e mezzo o due e sviluppano le loro idee e il loro prodotto: il team le sostiene in questa prima fase. Qui i ricercatori, soprattutto giovani, hanno la possibilità di scambiare idee, opinioni ed esperienze, trovano partners. investitori e fornitori. Poi prendono uffici da altre parti, continuano a crescere, e diventano autonomi. Terralab si è focalizzato su alcuni settori specifici come le energie rinnovabili, l'efficienza energetica, le tecnologie legate all'acqua e all'ambiente, software applicati ai processi produttivi, all'agricoltura, ma anche all'industria tradizionale. Importante la ricerca nel campo medico e ospedaliero, per sviluppare prodotti innovativi e non invasivi a livello diagnostico o terapeutico. un esempio viene da Nissan Elimelech, ingegnere biomedico con dieci anni di esperienza nell'industria della strumentazione medica. Ha lavorato per molte grandi aziende internazionali, poi è partito con la start up Augmetics. Sta mettendo a punto uno strumento, il Vizor, per rendere più sicure e indolori le operazioni alla spina dorsale. Elimelech ci mostra una cuffia con occhiali speciali: "Il chirurgo indossa il Vizor durante l'operazione. Deve calibrare le lenti di 'realtà aumentata', sono lenti trasparenti che permettono di vedere la realtà ma anche immagini virtuali in 3D". Durante la simulazione Elimelech inserisce uno strumento endoscopico dotato di una piccola telecamera nel manichino che riproduce il tronco umano. Vede ogni dettaglio negli occhiali e nel monitor - ossa, midollo, muscoli, vasi - e mostra come il chirurgo potrà operare nella massima sicurezza, senza chirurgia. Al momento il Vizor è in fase di sperimentazione sugli animali ma tra qualche mese partirà quella sull'uomo. se funzionerà il Vizor sarà un altro prodotto di una start up israeliana destinato al successo.
Un esempio in questo senso viene da Smartap, una società che ha sede in una zona industriale vicino a Haifa. Assaf Shaltiel è il CEO di questa start up che si occupa di acqua: in un paese come Israele nel quale questa è un bene raro e prezioso l'obiettivo della società è di limitare i consumi e l'energia. "Il mio lavoro consiste nel rivoluzionare il bagno. se si osserva attentamente la tecnologia della doccia si può notare che è la stessa da secoli, la meccanica è sempre la stessa. Oggi tutto si evolve, abbiamo i cellulari, le automobili che si guidano da sole, allora perché non ottenere maggiore comodità e sicurezza all'interno della doccia? Noi ci abbiamo provato". Il risultato è una doccia intelligente. Shaltiel ce ne dà una dimostrazione. "Alexa. doccia!" è il comando rivolto al piccolo computer cilindrico accanto al box. A seconda del tipo di doccia scelta il computer imposta la portata, la pressione, la temperatura dell'acqua. Ed è anche in grado di segnalare su un monitor se chi sta usando la doccia si è sentito male, ha problemi o sta usando troppa acqua. Un'applicazione molto utile per case di riposo e comunità, già messa in commercio e usata in diversi hotel, anche in Europa. Fantasia, determinazione. competenza sono gli ingredienti del successo delle start up in tutto il mondo.
Ma perché Israele è considerato un modello di eccellenza in questo campo? "Ci sono molti motivi - risponde Astorre Modena - Il primo è che in Israele è molto diffusa la cultura della novità, dell'innovazione. C'è la disponibilità ad assumere rischi senza aver paura di essere accusati, se qualcosa non funziona, di fallimento. Poi c'è un sistema gerarchico molto piatto nel quale ognuno può dire la sua. C'è un fortissimo aiuto statale, i talenti vengono individuati e coltivati". In Israele ci sono ottime università, come il Technion di Haifa; le forze armate coltivano a loro volta ricerca e innovazione con ricadute positive nella sfera civile. "E poi la forte immigrazione dalla Russia negli anni '90 - aggiunge Modena - ha portato decine di ingegneri, scienziati, matematici che hanno aiutato molto questa crescita". Otto milioni di abitanti, un'economia solida con il 4% di crescita, Israele è oggi il paese con il maggior numero al mondo di società quotate al Nasdaq, con oltre 6.000 start up. una realtà dinamica proiettata verso il futuro, in un paese sempre in movimento.
(Pagine Ebraiche, gennaio 2017)
A proposito della recente risoluzione dell'UNESCO
Segnaliamo un lungo articolo comparso su un sito che ha come sottotitolo "Le notizie viste da una prospettiva cristiana". E' un'analisi puntuale, con molti riferimenti storici, della risoluzione UNESCO dell'ottobre scorso. Diversamente dal solito, non riportiamo la parte iniziale ma quella finale. NsI
[...] Noi come cristiani non dovremmo mai permettere che le notizie che leggiamo o sentiamo attraverso la televisione diventino un'assoluta verità di quello che accade ogni giorno nel tormentato Medio Oriente. Sappiamo bene, infatti, che le notizie possono essere facilmente distorte sulla base di determinate convenienze politiche: Israele, purtroppo, è stato e sarà ancora costantemente e ripetutamente discriminato, accusato e diffamato, mentre gli arabi palestinesi vengono, viceversa, considerati quasi degli eroi, delle povere vittime dei "soprusi" perpetrati dal "cattivo" popolo ebraico, ed è per questa ragione che dobbiamo sempre stare dalla parte della verità, denunciando ogni tipo di menzogna! Quindi ricordiamoci di pregare e di benedire Israele, affinché i progetti di Dio per questo popolo si avverino.
Shaalu shalom Yerushalaiym (Pregate per la pace di Gerusalemme).
(Notizie cristiane.com, 5 gennaio 2017)
Perché Israele vuole la pace senza i diktat
di Yair Lapid (*)
Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, di cui ora l'Italia fa parte, recentemente ha approvato una risoluzione che dichiara illegali gli insediamenti israeliani - compresa la nostra capitale Gerusalemme e la spianata delle Moschee, dove sorgeva il Tempio - e chiede a Israele di lasciarli.
Quando i membri del Consiglio si sono resi conto che la decisione ha indignato la grande maggioranza degli israeliani, compresa l'opposizione, hanno fatto finta di non capire. «Non è una decisione contro Israele» ci hanno detto i capi di governo di diversi Paesi, «riguarda solo gli insediamenti».
È come se Israele annunciasse il suo appoggio alla Lega Nord che rivendica l'indipendenza del Nord Italia. «Non è una decisione contro l'Italia» potremmo dire ai nostri amici italiani, «si tratta solo di Milano».
Credo che perfino i simpatizzanti della Lega Nord ci direbbero che è una grave interferenza negli affari interni italiani. L'ambasciatore israeliano sarebbe convocato dal ministro degli Esteri italiano e cortesemente invitato a non immischiarsi più in argomenti di cui non sa nulla.
Ed è proprio così che ci sentiamo.
Ci sono molti ostacoli che bloccano il processo diplomatico tra Israele e i palestinesi. Quello centrale è che per almeno tre volte i palestinesi hanno rifiutato di accettare uno Stato che comprendeva il 90% del territorio. Se davvero volevano uno stato bastava dire: «Sì».
Invece hanno detto «No». Perché? Perché il Consiglio di Sicurezza dell'Onu li ha convinti che non c'è motivo di fare uno sforzo per raggiungere un compromesso che porterà alla pace. Tutto quello che devono fare è dire «no» e le pressioni su Israele cresceranno ancora.
Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha dimenticato che ogni volta che ai palestinesi è stata data l'opportunità di autogovernarsi hanno preferito ripiegare sul terrorismo. L'ultima volta è stato nel 2005 quando Israele si è ritirato dalla Striscia di Gaza senza lasciarvi nemmeno un soldato o un colono. I palestinesi hanno risposto eleggendo Hamas, un'organizzazione terroristica, e lanciando oltre 15 mila razzi sui civili israeliani.
Se rivolgiamo lo sguardo a Nord, al nostro confine con la Siria, vediamo cosa accade ai Paesi che hanno perso il controllo della loro stessa sicurezza. Più di 400 mila persone sono state uccise in quella guerra civile e il Consiglio di Sicurezza si è limitato a esprimere educatamente il suo disappunto. Per qualche motivo il Consiglio di Sicurezza ha ritenuto più urgente attaccare Israele, un Paese che vuole la pace ed è ligio alla democrazia.
Israele era, e rimane, intenzionato a cercare una soluzione diplomatica; semplicemente non vogliamo obbedire a ultimatum che arrivano dall'estero. I membri del Consiglio di Sicurezza probabilmente non si fanno problemi a mettere a rischio la nostra sicurezza ma se perdono la scommessa nessuno lancerà i prossimi 15 mila razzi sui bambini italiani. I bersagli saranno i bambini israeliani. I nostri figli.
Per il futuro ci aspettiamo dall'Italia, nostra stretta amica e alleata, l'apporto di una voce più equilibrata e ragionevole in seno al Consiglio di Sicurezza.
(*) Presidente di Yesh Atid, ex membro del Consiglio di Sicurezza israeliano, fa parte della Commissione Affari esteri e Difesa
(La Stampa, 7 gennaio 2017)
Lo Stato palestinese e gli accordi di Oslo
Lettera a La Stampa
L'articolo di Abraham B. Yehoshua pubblicato il 5 gennaio contiene una affermazione («La zona orientale di Gerusalemme, che secondo gli accordi di Oslo dovrebbe diventare la capitale dello Stato palestinese») che, uscita dalla penna di uno scrittore come Yehoshua, che dovrebbe essere bene informato, mi sembra strana. Chiunque si prenda infatti la briga di consultare su Google il testo integrale degli accordi di Oslo può constatare che non si parla mai di uno «Stato palestinese», e nemmeno di una Gerusalemme frazionabile («la zona orientale di Gerusalemme») il cui «status definitivo sarà lasciato ai negoziati successivi», come scritto nel testo degli accordi.
Emanuel Segre Amar
Presidente Gruppo Sionistico Piemontese
(La Stampa, 7 gennaio 2017)
I letterati israeliani presenti in Italia si dimostrano spesso colpevolmente ignoranti su temi che dovrebbero conoscere bene e su cui dovrebbero essere molto attenti e puntuali. Lapprossimazione storica, nella maggior parte dei casi colpevolmente deformata, sulle questioni di diritto internazionale riguardanti il cosiddetto Stato palestinese, mai esistito e tuttora non esistente, ha favorito il radicarsi di una menzogna sulla questione israeliana ormai talmente grande che non sanno più vederla nemmeno quelli che vi si trovano dentro, come i romanzieri Abraham B. Yehoshua, David Grossman, Amos Oz e altri nomi di riconosciuto prestigio universitario. Il fatto di essere nati e vissuti in Israele anche da più di cinquantanni non garantisce affatto che siano seriamente informati sui fatti essenziali che riguardano il loro paese e, soprattutto, che li abbiano davvero capiti. Spesso chi vive dallinterno unesperienza sociale particolarmente grave e non facilmente inquadrabile negli usuali schemi interpretativi capisce quello che sta succedendo meno di chi si trova allesterno. E successo più volte nella storia degli ebrei, ed è successo ultimamente anche nella storia del cristianesimo evangelico. Durante il nazismo i cristiani evangelici tedeschi, proprio quelli che vivevano dallinterno il fenomeno entusiasmante della crescita della Germania, non hanno capito niente di quello che stava succedendo con Hitler. Ma tentavano di spiegare agli evangelici esteri come stavano realmente le cose, perché secondo loro dallesterno le cose non si potevano capire, anche a causa delle propagandistiche menzogne diffuse dallebraismo internazionale. Ma quello che gli evangelici non avevano capito, lavevano capito benissimo i nazisti, che hanno saputo sfruttare in modo davvero magistrale la dabbenaggine cristiana.
Non sorprende allora che oggi ci possa essere anche una dabbenaggine ebraico-israeliana di pari caratura. E particolarmente diffusa tra letterati e artisti di vario genere. M.C.
Fede e gloria mondana coesistono. La lezione del rabbino Soloveitchik
Il rapporto tra dominio e trascendenza
di Michele Silenzi
La solitudine dell'uomo di fede", del rabbino Joseph B. Soloveitchik, una delle figure più influenti nell'ebraismo americano e internazionale del Novecento, recentemente pubblicato in italiano da Belforte Salomone nella bella traduzione di Vittorio Robiati Bendaud, è un intrigante testo religioso che riesce a parlare a tutti gli uomini di fede, non solo a quelli del mondo ebraico.
Come si capisce dal titolo, l'attenzione della riflessione del rabbino non è focalizzata sull'esperienza religiosa tout court, per intenderci quella vissuta da coloro che percepiscono una vaga presenza divina nel mondo, nelle piante o nelle stelle e vivono sommariamente la loro religiosità sfogandola in un confuso panteismo animistico e orientaleggiante. Il testo, piuttosto, è imperniato sull'uomo di fede e di preghiera, inserito all'interno di una comunità di fedeli, che si interroga su quale sia il suo compito e il suo ruolo all'interno di una società ipersecolarizzata come la nostra. Al centro del testo stanno i due diversi racconti offerti dalla Bibbia sulla creazione dell'uomo. Nel primo racconto, Dio crea l'uomo a sua immagine e somiglianza, maschio e femmina, e dice loro di moltiplicarsi, di riempire la terra e di dominare su di essa. Nel secondo racconto, Dio crea l'uomo dalla polvere, gli ispira nelle radici il soffio vitale e lo mette nel giardino dell'Eden così che lui possa coltivarlo e custodirlo. Le differenze nei due racconti sono sostanziali, il Primo Adamo sarà un dominatore, modellerà il mondo in base alla sua volontà e alle sue esigenze. Il Secondo Adamo, invece, sarà un uomo pio e laborioso che dovrà soltanto custodire ciò che Dio gli ha già dato. Il testo è tutto costruito nella tensione tra questi due aspetti dell'essere umano e nel complesso tentativo di conciliarli perché uno non può e non deve esistere senza l'altro. Mentre si può facilmente intuire la centralità che il libro dà all'uomo di fede, è sorprendente, soprattutto per noi abituati a un Papa che parla dei frutti dell'industriosità e della creatività dell'uomo come di sterco del demonio, l'esaltazione che il rabbino Soloveitchik fa del Primo Adamo. Egli agisce sul mondo, lo modifica e lo reinventa rendendolo un posto migliore con i suoi progressi e la sua tecnologia. L'uomo vive la terra, dà forma a essa, la costruisce e la rende divina con la sua presenza. Poi rivolge gli occhi al cielo e non resta soltanto in contemplazione ma pensa a come allargare la sua prospettiva allo spazio. E non è un delirio di grandezza, al contrario, per il rabbino questo è il modo in cui l'uomo trova se stesso e viene riconosciuto per le sue capacità dalla comunità di appartenenza. Ma l'uomo, allo stesso tempo, non è solo questo, non è soltanto il Primo Adamo. Non si può ridurre l'uomo al suo desiderio di espandersi e migliorarsi e al riconoscimento ricevuto dalla società. Il Primo Adamo non è "ontologicamente completo", la sua condizione è quella dell'imperfezione, della necessità del completamento. E allora qui entra in campo il Secondo Adamo, l'uomo di fede. Lui "conosce l'arte della preghiera, dal momento che egli mette Dio dinanzi alla suppliche di molti. Il Primo Adamo, autoreferenziale, egocentrico e imprigionato in se stesso" viene incluso nella comunità spirituale, la comunità dell'alleanza, attraverso l'uomo di fede. In questo modo i due Adamo si riuniscono in un corpo unico che è quello della comunità alleata con Dio. Un'unione in cui l'uomo supera la sua solitudine esistenziale. Il rispetto del rabbino è profondissimo per entrambi gli Adamo. Ma è il compito dell'uomo di fede a essere il più duro e il più solitario, tanto più all'interno della nostra società ipersecolarizzata, perché deve farsi carico della spiritualità intera del Primo Adamo che, tutto preso dall'esercizio del suo necessario dominio sul mondo, la dimentica. Il rabbino descrive l'esperienza di fede in modo eroico. Il testo ci accompagna in una riappropriazione della grandezza della fede, della sua solennità, della sua drammatica trascendenza. Una lezione dal mondo ebraico in un momento in cui la religiosità cristiana sembra essere nient'altro che un supplemento della vita civile, un surrogato delle organizzazioni umanitarie con la sua idea di essere diventata, essenzialmente, un ospedale da campo. Un'idea questa che è il parto naturale di una comunità che dall'esperienza di fede sembra desiderare "più un ethos sociale che un imperativo divino". Ma così il divino si ritira e scompare.
(Il Foglio, 7 gennaio 2017)
Israele, soldato condannato dimostrazione di democrazia
Lettera a Il Secolo XIX
La condanna da parte di un tribunale israeliano di un soldato giudicato colpevole di aver ucciso un palestinese che lo aveva attaccato dimostra la civiltà dell'unica democrazia esistente nel medio oriente. Negli stati arabi, compresa la Palestina, i diritti umani sono straviolati senza che spesso nessun occidentale si adiri, anche quando gli arabi si scannano tra di loro e massacrano bambini, donne ed anziani, oltre che uomini più o meno in armi. Ogni occasione è invece utile per attaccare Israele, come fa periodicamente il lettore Bono, ultimamente per la presunta liberalizzazione di costruzioni nei territori cosiddetti occupati (i media hanno poi ignorato che è stata bloccata dai comuni competenti). In lunghe lettere sfoga il suo astio verso lo stato ebraico ma mai ha avuto un solo cenno di condanna verso Hamas, stato terrorista che ha nella sua costituzione la distruzione di Israele, loda ed aiuta chi uccide gli ebrei, accumula e lancia missili, scava tunnel per scopi chiaramente militari ma gode del favore di tanti stati e cittadini, e lettori, occidentali. Ora tutti condannano Israele perché non rispetta le risoluzioni dell'Onu e dimenticano che, nel 1948, se i Paesi arabi ne avessero rispettato una invece di andare alla guerra, da 60 anni esisterebbero in Palestina due popoli e due Stati in pace.
Veronica Durazzo
(Il Secolo XIX, 7 gennaio 2017)
Letteratura USA, i più bravi rimangono sempre gli autori ebrei
Il nuovo romanzo di Paul Auster, «4321 », è un capolavoro annunciato. Sulla scia di maestri quali Singer, Bellow, Roth e Chabon. A dimostrazione che forse nella narrativa un popolo eletto c'è davvero.
di Pino Farinotti
La produzione letteraria americana è assai prolifica. Ciclicamente viene annunciato il capolavoro. Certo, non basta l'annuncio: il bestseller ha regole strane, illogiche e imprevedibili. Ma a volte le premesse sono tali - per storia, per statistica o per... fortuna - che davvero possono esserci le condizioni per prevedere il grande libro. È in uscita, negli Stati Uniti e nel mondo 4321, il nuovo romanzo di Paul Auster. E se si ragiona in termini di storia e di crediti, Auster presenta tutte le coccarde che descrivono il grande successo, anche preventivo.
È sempre azzardato, e improprio, stilare gerarchie di qualità, ma se dico che Paul Auster è uno dei maggiori scrittori americani, credo che nessuno si possa alzare a contraddirne; mentre se dico che è «il più grande», allora qualcuno obietterà e farà altri nomi. Fermiamoci dunque all'eccellenza, alla parte più alta del cartello. La sua è la storia di un superdotato. 4321 è, forse, il suggello di un percorso, un cerchio che si chiude; ma può riaprirsi, Auster, a 70 anni, ha ancora il tempo per farlo.
Vediamo la trama. Nel marzo del 1947 a Newark - guarda caso l'anno e il luogo di nascita dello stesso Auster - nell'ospedale di Beth Israel nasce Archibald Isaac Ferguson, unico figlio di Rose e Stanley Ferguson. Da quel momento la vita di Isaac prende quattro strade immaginarie, simultanee e indipendenti. Quattro identici Ferguson con lo stesso Dna, quattro umani che sono lo stesso umano, con vite diverse. Lo spunto è magnifico, certo complesso, ma nessuno come Auster è in grado di svilupparlo. La critica americana lo ha a priori esaltato rilevando «una passione, un realismo e una tenerezza che sorpassano lo stile, che conosciamo, dell'autore ebreo».
Ecco, «ebreo» è fondamentale. Quello status è decisivo, lo sappiamo. Se sei ebreo, dovunque tu abbia vissuto, hai dovuto capire al volo, interpretare e difenderti. Sei stato costretto a essere intelligente, più degli altri. E se dal tuo Paese sei arrivato in altriPaesi, in America per esempio, allora eri in possesso di una dotazione, di un bagaglio derivante dal vissuto detto sopra e dalla coscienza ancestrale di appartenere a un popolo eletto. Essere dovunque uno straniero dotato ha permesso di interpretare e rappresentare al meglio la nazione, la civiltà, che ti ospita. Sei avvantaggiato da una prospettiva alta e completa. Per questa ragione, parlo di America, alcuni dei più grandi autori, non solo di letteratura, sono ebrei.
Paul Auster è probabilmente la punta avanzata in questo momento. Ma a quel pool, chiamiamolo così, appartengono alcuni dei maggiori autori americani. Molti "acquisiti". Isaac Singer (1904-1991), polacco naturalizzato americano, scrittore prima in jiddish e poi in inglese, racconta, in chiave visionaria e di invenzioni linguistiche, l'eterno contrasto fra bene e male. I suoi teatri sono la Galizia e la Polonia e quindi il Paese che lo ha accolto. Nel 1978 gli è stato attribuito il Nobel. Fra i molti titoli spiccano: Satana a Goray, La famiglia Moskat e La fortezza.
Saul Bellow (1915-2005) era figlio di ebrei russi emigrati in Canada, naturalizzato statunitense. La sua ricerca è soprattutto sugli effetti della tensione che governa la civiltà urbana e che riduce la coscienza del singolo alla paranoia, all'impotenza e all'alienazione. Altro gigante, maestro con adepti rilevanti e altro premio Nobel. Titoli apicali: Herzog, Il dono di Humboldt.
Michael Chabon (1963), sempre attento al tema dell'ebraismo, ha firmato, molto giovane, un romanzo che fu un caso letterario, I misteri di Pittsburgh. Era un prediletto della nostra Fernanda Pivano. Nel 2012 ha vinto il premio a lei intitolato. Nel 2001 si era aggiudicato il Pulitzer per la narrativa.
Philip Roth (1933) è da anni nelle presunte nomination per il premio Nobel. È probabile che prima o poi gli venga dato. Come Auster, è nato a Newark Figlio di genitori rigorosamente osservanti, condizionato da quell'educazione, nella sua ricerca tende a esorcizzare quella radice etnica, magari attraverso un deterrente comico e grottesco. Raccontando il contrasto fra la condizione ebraica e il contesto newyorchese, ricco e dinamico e disordinato. Fra i molti romanzi: Il lamento di Portnoy e Pastorale americana.
Torniamo per ad Auster. È un «americano/ americano», vive a New York. E la Trilogia di New York è l'opera rimasta nella memoria della scrittura e anche in quella popolare. Ma Auster ha scritto molto, ha scritto tutto. Fra le tante definizioni che lo riguardano, per le solite ragioni di spazio, estraggo «poeta della GrandeMela».Accomunato in questo senso a un Woody Allen, anche pervia della parentela cinematografica, perché Auster è uno degli scrittori, rari in verità, che ha capito il cinema. Prima ha sceneggiato, poi ha diretto.
Nella mia personale cineteca del cuore c'è Smoke del 1995. Lo scenario è un crocicchio di New York, una tabaccheria tenuta da Hervey Keitel e frequentata da varia umanità. C'è anche uno scrittore triste (William Hurt), che ha perso la moglie in un incidente. Culture diverse dei due protagonisti. Piccole vicende metropolitane che proiettano significati profondi. E tutti fumano.
In Smoke ad Auster riesce un virtuosismo cine-letterario quasi impossibile. Per circa cinque minuti Keitel racconta una storia piccola, cittadina. È un primo piano con un leggero movimento della cinecamera a zoomare. Solo parole per tanto tempo.Non reggerebbero se non fosse per lo scrittore Austere per l'attore Keitel. Nella sequenza successiva la vicenda - una vecchia cieca passa il Natale con uno sconosciuto che crede suo nipote - è filmata, senza parole. Ma con un sostegno potente, il blues rapinoso Innocent when you dream cantato da Tom Waits. Scrittura e immagine, parola e silenzio. E musica. Una chimica completa, un grandissimo momento di cinema, esclusivo di quel talento superdotato di Paul Auster. Aspettando di leggere 4321.
(Libero, 7 gennaio 2017)
Taglio di finanziamenti all'Onu, «Ente che opera contro di noi»
Israele ha annunciato il taglio di sei milioni dollari in finanziamenti alle Nazioni Unite per protestare contro la risoluzione di condanna del Consiglio di sicurezza contro gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. «Non è ragionevole per Israele finanziare enti che operano contro di noi alle Nazioni Unite», ha spiegato l'ambasciatore israeliano Danny Danon in un comunicato. In occasione del voto all'Onu, il 23 dicembre, gli Stati Uniti si sono astenuti e per la prima volta non hanno posto il loro veto a una risoluzione di questo genere. Giovedì la Camera dei rappresentanti Usa ha approvato un provvedimento di condanna della risoluzione Onu, circostanza accolta ieri con soddisfazione dal premier israeliano Benjamin Netanyahu.
(Avvenire, 7 gennaio 2017)
Giorgio Pressburger: vita, innovazione e opere di un protagonista discreto della cultura
A una settimana dalla presentazione a Budapest del suo ultimo film, Il profumo del tempo delle favole, Vincenzo Basile incontra l'autore ungherese nella casa dove vive da trent'anni, tra le colline che circondano il Golfo di Trieste.
di Vincenzo Basile
- Una domanda ovvia ma forse poco gradita.
Certo, tanto se non voglio poi non le rispondo.
- Se dovesse esprimere un'impressione complessiva sul passato regime socialista in Ungheria cosa le andrebbe di dire?
Le racconto la mia esperienza personale: io venivo da una famiglia di ebrei, molto poveri, perseguitati già prima della fine della seconda guerra mondiale. A diciotto anni, nel '55 presi la licenza liceale. Ero molto bravo ed avevo degli ottimi voti, pertanto decisi di andare a studiare sia all'Università che all'Accademia di Teatro, quella vicina al Cinema Urania. Fatti entrambi gli esami di ammissione, dagli Istituti mi risposero che ero idoneo ma che non c'erano posti disponibili. Ero un bravissimo studente, può immaginare come presi questa notizia. Allora, nella domanda di ammissione che faceva seguito al superamento degli esami, bisognava menzionare la propria "origine di classe". Mio padre non aveva mai fatto né il contadino, né l' operaio. Aveva invece fatto l'autore di enigmistica, il calciatore, l'aiuto fornaio, di tutto insomma; lui era un personaggio molto singolare. Eravamo davvero molto poveri. In un appartamento grande come questa stanza, eravamo in cinque, tre fratelli, padre e madre, senza gabinetto, niente; Non avendo altra scelta fui dunque obbligato a qualificarmi borghese e così non mi ammisero all'Università. - Faccia parlare il suo registratore a proposito di questo! - E con questo ho già detto tutto. Io non ero un feroce dissidente, uno di quelli che dice "ora gliela faccio vedere io a questi comunisti". Essendo così povero non potevo dire niente, né pro né contro. Ero però molto colto, avevo letto tanti, tanti libri, sapevo già bene l'inglese, il francese, il tedesco e quindi, quando scoppiò il '56, insieme a Nicola, il mio fratello gemello, decidemmo di andarcene via. Ero cosi' amareggiato dalla persecuzione nazista prima e poi da queste vicende che non avevo più voglia di star lì. Ricordo che per la disperazione mi sedetti in un caffè del centro, mangiai una ventina di paste e bevvi del rum. Tanto! Poi, insieme al mio gemello e a nostra sorella venimmo via a bordo di un camion che ci portò fino al confine con l'Austria. Tra mille altre peripezie giungemmo finalmente a Vienna e subito ci presentammo all'ambasciata italiana. Parlavamo un po' la lingua e chiedemmo il visto per l'Italia. Ci arrivammo grazie alla Croce Rossa. Sarebbe cominciata lì una nuova vita. Vivo da 30 anni in Italia. I primi 10, andando su e giù da Budapest e poi in pianta stabile. Infine mi sono stabilito definitivamente qui a Trieste. Gli Italiani mi hanno accolto molto, molto bene. Nessuna forma di discriminazione del tipo questo viene a mangiare il nostro pane, gli italiani non sono razzisti. A Roma poi ebbi tanta fortuna, mi aiutarono degli amici italiani che mi consideravano con benevolenza perché rispetto a tanti miei coetanei avevo letto tanto e poi ero timido, non facevo casini e quindi mi presero a ben volere. Riuscii a iscrivermi all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico e così potei studiare alcuni anni senza problemi di sussistenza, grazie alla borsa di studio di quella Scuola. Ma finiti i corsi mi ritrovai di nuovo al punto di partenza. Per fortuna mi venne in aiuto uno degli assistenti alla cattedra di Regia che mi segnalò alla televisione. Era Andrea Camilleri. Fu quello l'iniziò della mia carriera. Alla Silvio D'Amico tornai poi come docente dal '68 al '76. Durante quel periodo, per alcuni anni, tenni anche dei corsi all'Università di Lecce nel '71 e di Roma nel '74.
- Può farmi il nome di qualche altro docente dell'Accademia in quegli anni?
Tra i colleghi avevo Roberto Herlitzka, Mario Monicelli; io facevo dei corsi ultra-sperimentali tanto che dovevo poi vedermela con quei colleghi che invece preferivano andare sul sicuro: allestii anche alcuni spettacoli che piacquero molto agli studenti.
- C'è mai stato nella sua vita o nella sua carriera qualcuno che ha considerato, non dico un modello ma piuttosto diciamo, un punto di riferimento artistico o morale o di qualsiasi altro genere ?
Si, fu un musicista, io lavoravo molto nel campo della musica. Ho fatto regie alla Scala, alla Fenice. Un compositore, si chiamava Bruno Maderna, veneziano. Morì giovane, a 52 anni, fumava tanto poveraccio, era un uomo irrequieto, scherzoso scherzosissimo, si trova in quel mio libro (Storie Umane e Inumane).Lui era il mio modello. Ne parlo con molto affetto, gli volevo bene. Era un grande musicista e compositore, direttore d'orchestra, Don Giovanni e ubriacone della più bell'acqua, era un tipo assolutamente benevolo verso l'umanità, non parlava mai male di nessuno, era conosciuto in tutto il mondo. Ecco lui è stato uno dei miei modelli, io avrei voluto essere come lui. Un pochettino lo sono stato, come lui ma in misura minore della sua. Io poi mi occupavo di letteratura e lui d'altro.
- Avete mai fatto qualcosa insieme?
Come no, alla Rai, lo può trovare negli archivi, si chiama Ages, Le età, è una composizione basata su una battuta di Shakespeare tratta da As you like, dove racconta, sul modello della letteratura latina, non ricordo il poeta, le sette età. Famosissima la battuta "tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori
" e lui scrisse la musica. Io scomposi le parole del testo originario e le rimontai ma il risultato fu piuttosto commovente ma allo stesso tempo amaro perché descriveva la vecchiaia come un ritorno alla prima infanzia. Beh questo è l'artista il cui modello ho più stimato. Quello che ha combinato in musica lo può trovare sul web, è qualcosa di magnifico. Lavorai con lui e con una altro grande italiano del secolo passato, Luciano Berio.
- E cosa ha fatto con lui?
Ah Ah, con Berio ho fatto una composizione per la radio, praticamente una suite, che si chiama Diario Immaginario e che è tratto dal Malato Immaginario di Moliere. E' davvero molto interessante. C'è un attore che recita una serie di battute, un violoncello che riproduce tutte le sue intonazioni e infine un'orchestra e il coro che completano la performance. Queste due opere hanno vinto il Premio Italia, che è un premio istituito dalla Rai al quale concorrono però artisti provenienti da tutto il mondo, eh! Quattro volte l'ho vinto io. Due di queste con Maderna ('72) e con Berio ('75) e due ('70 e '88) con opere scritte interamente da me. Composi poi un lavoro di tre quarti d'ora, Aimez-vous Bach?, (citando l'Aimez-Vous Brahms della Sagan) per il quale, oltre le musiche, utilizzai come materiale 52 nomi di musicisti della famiglia Bach di varie generazioni.
- Cioè, lei manipolava acusticamente i suoni dei nomi dei musicisti, mischiandoli alla musica
?
Utilizzavo lo studio di fonologia della radio, pensi che ho fatto una cosa che ancora oggi ridanno due o tre volte l'anno, dove io lavoravo con la musica elettronica. Ero un po' un pioniere. Da un quadro di Breugel, si chiama Giochi di Fanciulli, ho tratto un radiodramma, dove non succede niente altro se non il rumore e le voci di un centinaio di bambini che giocano in una grande piazza. Questa grande piazza era ciò che era diventato un grande studio radiofonico, dopo averlo fatto riempire di terra. Mi avevano preso per matto. Si sentivano questi passetti che correvano e dei bimbi che giocavano i giochi che si vedono nei quadro di Peter Bruegel il vecchio.
- E tutto l'insieme produceva, immagino, una sua originale e un po' caotica musicalità?
Si, a parte che ci sono piccoli brani suonati da bambini su strumenti rozzi e improvvisati, la musicalità è data da queste vocine che scandiscono le parole dei vari giochi. Io volli fare uno studio su quel quadro. Andai a Firenze, dove la Casa di Michelangelo era diretta dallo storico dell'arte ungherese Karoly von Tolnai. Questi, dopo aver cambiato nome in Charles de Tolnay, si trasferì da Budapest all'Università di Princeton e da lì, nel 1966, fu chiamato a dirigere il prestigioso istituto fiorentino, dove poi rimase per i successivi 13 anni. Era uno studioso di Michelangelo ma anche di Bruegel e fu lui a darmi le indicazioni più interessanti. Quelle in base alle quali ho potuto costruire questo radiodrammino per bambini.
- A proposito di musica e d'Ungheria, una mia personale curiosità: ha mai conosciuto Gyorgy Ligeti o è stato in qualche modo interessato alla sua musica?
Ho messo in scena una sua opera. Eravamo grandi amici. Mi chiese un libretto per una sua composizione ma rifiutai. La mia pigrizia mi aveva dissuaso, ma anche la sua ben nota pignoleria. Non avevo alcuna intenzione di impelagarmi per un tempo indefinibile in quel lavoro. Alla fine accettai comunque la regia di quella che è stata forse la sua opera più grande, Le grand macabre. Lei non può avere idea di come io abbia messo in scena quell'opera. Tutto era talmente movimentato che
alla fine fu un trionfo. Pensi che durante la prima rappresentazione, uno dei tenori del Teatro Comunale di Bologna si alzò e a scena aperta, dal centro della platea gridò: " Ci vendicheremo! " Evidentemente era un passatista. Però lo ripeto, fu un grande successo. Lo spettacolo fu replicato per due mesi di fila. Scene e costumi di un grande grafico che avevo fatto invitare io da Parigi , Roland Topor, poi diventato molto noto. Anche con lui eravamo diventati amici, era piccoletto, brutto.
- Lei è molto apprezzato anche in patria. All'Istituto italiano di Cultura di Budapest tutti la ricordano ancora per l'importante contributo che ha dato.
Si, l'Istituto l'ho rilanciato moltissimo, adesso non so come funzioni ma ho sentito che una collega, la dott.ssa Vallensise, ex direttrice del Foglio, ha diretto l'Istituto francese duplicandone la dotazione economica con fondi francesi; io a Budapest la quintuplicai; con fondi italiani, tedeschi e ungheresi, stabilìi contatti e collaborazioni con quasi tutti gli istituti stranieri in città, organizzando incontri di rilievo. In quegli anni insegnai anche all'Università di Szeged, aprendo anche lì un Istituto di Italianistica. Non so se è ancora aperto e in funzione oppure no. Mi sono davvero fatto in quattro; è stato forse il periodo più bello e intenso della mia vita. Anche lì sono stato fortunato, sono andato avanti nell'incarico senza pensare agli anni brutti che avevo trascorso lì.
- E' stato impegnativo per lei gestire tutti quei rapporti durante un rimpatrio immagino, emotivamente così travagliato?
Beh, non poi troppo, perché per prima cosa le persone con cui trattavo non erano ancora nate ai tempi dei fatti del '56 e poi perché, in quattro anni non ho incontrato una sola persona razzista; se non una ragazza che era in procinto di sposarsi. Ricordo che felicitandomi con lei per il passo che stava per compiere, le chiesi se aveva già preso casa. Lei mi rispose che non lo aveva ancora fatto ma che voleva sbrigarsi perché la sua mamma le aveva raccomandato di far presto
"prima che se le comprassero tutte gli ebrei". Una sola! Ma non la presi sul serio. Ricordo che le leggi razziali uscirono un anno più tardi in Ungheria rispetto che in Italia. Gli italiani non sono razzisti e nemmeno gli ungheresi. Io ho molta stima degli ungheresi; in generale non li reputo assolutamente dei razzisti, anche se in realtà, c'era una piccola percentuale di essi che lo fu. D'altra parte non potrebbero esserlo perché c'è di tutto tra questo gruppo umano che si chiama Ungheresi: Slovacchi, Russi, Tedeschi
Il razzismo non è scoppiato lì. E' scoppiato da Mein Kampf; quindi quello che succede adesso e di cui so molto poco, non è che un'eco grottesca di quel passato.
- Uno psicoanalista azzarderebbe che il razzismo è il prodotto del bisogno, per alcune persone, di avere un nemico su cui scaricare le proprie ansie, paure, insicurezze.
Sì però tutto ciò, trasposto in quegli anni quaranta, fu feroce. Lo racconto nel mio ultimo film Il profumo del tempo delle favole: mia madre poveraccia non sapeva cosa fare, aveva tre bambini piccoli e mio padre era stato deportato in Transilvania a lavorare nelle miniere. E' stata durissima per entrambi ma sono sopravvissuti anche se lei poi ha sofferto tutta la vita di una forma grave di depressione. E' morta qui a Trieste dove l'avevo portata negli ultimi mesi della sua vita. A Budapest le erano rimaste solo delle zie anziane, lei 80 anni e loro tra i 90 e i 95, non ce la facevano a trattare questi suoi disturbi. Mi chiedevano spesso di portarla via e così ho fatto. Adesso riposa qui, nel cimitero ebraico dove è sepolto anche mio fratello gemello e dove ho riservato un posto ance per me. Gli ebrei hanno questa usanza.
- Non le chiedo se è credente perché si è già espresso chiaramente nel film ma se è praticante.
Beh diciamo
blandamente praticante.
- Frequenta lo shabbat?
Ogni tanto, non sempre, non sono un fanatico. Ho riflettuto molto sulla religione ebraica, vent'anni fa ho scritto anche quel librettino ("Sulla Fede"), dal quale è tratto in parte il film, che non parla solo di ebraismo ma anche della Fede in generale, cioè del credere in qualcosa della cui esistenza non abbiamo prove. Come diceva Simone Weil, si può amare anche ciò che non esiste. Ci sono tanti scritti su questo argomento tra i quali, adesso, anche il mio.
- Posso chiederle a questo punto un'anticipazione sul suo prossimo progetto?
Deve uscire un libro grosso, di 500 pagine, e un altro film.
- Da quello stesso libro?
No da un altro che si chiama "La Legge degli Spazi Bianchi", un mio racconto di 25 anni fa. Il libro attuale è diviso per il momento in due volumi ma uscirà intero.
- Vuole anticipare qualcosa, almeno sulla trama? Ha un titolo provvisorio?
Sì ed è il nome del protagonista ma questo non dice niente del contenuto.
- Non sarà un romanzo borghese ovviamente ?
No, come tutti i miei ultimi due romanzi sarà fortemente sperimentale, una storia di incontri immaginari con i personaggi più importanti del '900 o, almeno, quelli che io ritengo tali. Ho poi anche una collaborazione con il Corriere della Sera ma sono molto pigro, scrivo solo se ho qualcosa che mi interessi davvero molto.
- Beh non si direbbe che è poi così pigro visto quello che ha fatto finora e che continua ancora a produrre. Diciamo che ha la possibilità di scegliere tra molti spunti quelli che la stimolano maggiormente.
Mi ritengo fortunato, baciato in fronte dalla fortuna, per certe cose che sono riuscito a fare nella vita, Il libro uscirà a marzo, tra tre mesi.
- E' già ultimato?
Si. Adesso l'ho finito ma lo modifico in continuazione; se non lo pubblicano presto diventerà un altro libro. Avvicinandomi agli ottant'anni, mi succede che la mattina, quando faccio il bagno nella vasca, mi vengono in mente delle canzoncine ungheresi che cantavo da bambino. Le traduco in italiano rispettandone il ritmo e fino a quando non finisco di lavorare su ognuna una di esse, rimango li a rimuginare con la memoria.
- Ha mai preso in considerazione la possibilità di raccoglierle per inciderle o sceneggiarle, magari insieme con Mario Caputo, il suo regista?
Sa cos'è che ha colpito tanto gli spettatori e i critici dei miei ultimi due film? La mia voce. Non si aspettavano una voce così, non artefatta.
- Son d'accordo, è la voce narrante più adatta per introdurre e accompagnare la narrazione filmica mantenendone l'autenticità del vissuto.
Infatti, tutti e due i film puntano proprio sull'autenticità.
- Anche qui a Trieste professore, e nella regione che ha scelto, si è dato un bel po' da fare.
Beh si; a Cividale del Friuli, nell'ambito di una rassegna che ho fondato io una ventina di anni fa e che si chiama Mittelfest, ho allestito in forma di teatro stradale, Danubio, il bel libro di Claudio Magris.Ho chiamato una serie di collaboratori, tra i quali Lorenzo Codelli, con il quale eravamo diventati amici. Partendo da un'idea vaga, molto vaga, e cioè che le strade di una città sono come un fiume dove fluiscono le vie. E così percorrendo le strade di Cividale, gli spettatori seguivano, molti dei quali affacciati alle finestre e ai balconi, gli attori che interpretavano brani del libro. Il pubblico era divenuto il Danubio. Avevo avuto chiaro dall'inizio quest'idea ma non riuscivo a formularla così chiaramente nella mia testa fino a quando, guardando lo spettacolo mi sono reso poi conto che era giusta. C'erano circa 2000 persone che camminavano, camminavano e sembravano proprio un fiume che scorreva.
- Beh immagino e spero siano state fatte delle suggestive riprese di quell'evento.
E invece no, purtroppo, perché tutti i giorni in cui sono state fatte le prove pioveva. Il giorno della manifestazione ci sorprese un sole magnifico. Non ce lo aspettavamo. Ma è rimasto famoso quello spettacolo sa?
- Nella sua carriera ha mai incontrato la fotografia come mezzo espressivo?
Beh si, proprio per Danubio ho messo poi su un altro libro di immagini, Microcosmi. E si, ho settantanove anni e mezzo e mi sono immischiato in tante cose nella mia vita; come pochi eh?
- Docente universitario in vari Atenei e Accademie, scrittore di romanzi, traduttore, regista di opere liriche, prosa, radio, televisione e tanti altri progetti che sta tuttora conducendo; è più facile scrivere su cosa non ha fatto professore.
Lui, il Professore, ride divertito.
(Agenzia Radicale, 7 gennaio 2017)
Schiaffo degli Usa all'Onu. Bocciata la risoluzione di dicembre contro Israele
di Alessandra Danieli
Colpo di teatro. La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha votato, a stragrande maggioranza, una risoluzione con la quale condanna il testo approvato dall'Onu prima di Natale che definisce "illegali" gli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi in Cisgiordania. Il documento era stato approvato una prima volta grazie all'astensione degli Stati Uniti dello scorso 23 dicembre. L'astensione degli Stati Uniti al Palazzo di Vetro il 23 dicembre scorso aveva provocato un ulteriore irrigidimento dei rapporti con Israele, che aveva tra l'altro richiamato in patria gli ambasciatori in alcuni dei Paesi che avevano votato a favore della risoluzione. Contro il testo si era schierato il presidente eletto Donald Trump, che aveva definito le Nazioni Unite "un club dove si chiacchiera".
Gli Usa contro l'Onu, il cambio di marcia
La bocciatura americana della risoluzione Onu è passata con 342 voti a favore (compresi 31 democratici) e 80 contrari, quindi con un appoggio bipartisan che ha bollato come «di parte e contro Israele» la risoluzione 2334 approvata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il mese scorso con la storica astensione degli Usa. Il testo passato all'Onu dichiara gli insediamenti nei Territori occupati nella guerra del 1967, compresa Gerusalemme Est come «illegali secondo la legge internazionale». Israele ha protestato affermando che la risoluzione è «sbilanciata e non favorisce la pace» dal momento che toglie ogni incentivo ai palestinesi per negoziare. Inoltre considera come «occupati» zone legate storicamente a Israele come il quartiere ebraico della Città Vecchia e il Muro del Pianto.
Le accuse di Israele contro Obama
Un chiaro segnale del cambio di marcia della nuova amministrazione Trump. Israele aveva accusato Barack Obama di tradimento mentre Trump ha promesso che le cose sarebbero cambiate dopo il suo insediamento, il prossimo 20 gennaio. «Il nostro governo ha abbandonato il nostro alleato Israele proprio quando ne aveva più bisogno. È il momento di porre rimedio a questo lavoro mal condotto all'Onu», è stato il commento dello Speaker della Camera, Paul Ryan, dopo il via libera dei deputati alla mozione di condanna. Una simile misura è stata presentata in Senato. L'ambasciatore di Israele all'Onu, Denny Danon, ha ringraziato per la mozione votata dalla Camera Usa e, via Twitter, si è detto «ansioso di poter lavorare con la nuova amministrazione americana per porre fine alla faziosità contro Israele all'Onu».
(Il Secolo d'Italia, 6 gennaio 2017)
Rivlin: "Partiti xenofobi europei, Israele non può averci a che fare"
Chi rappresenta Israele deve tenersi lontano dall'estrema destra, da tutti quei movimenti e partiti che sono "contaminati da una storia di antisemitismo, negazionismo, che hanno promosso restrizioni contro pratiche religiose così come odio razziale e intolleranza". A scriverlo in una lettera indirizzata alla Comunità ebraica austriaca, il Presidente d'Israele Reuven Rivlin. Nella missiva, datata 20 dicembre ma resa pubblica nelle scorse ore, Rivlin accoglie le preoccupazioni dell'ebraismo austriaco che aveva contestato la disponibilità dimostrata da alcuni politici israeliani nell'incontrare rappresentanti di partiti dell'estrema destra europea. A protestare nello specifico erano stati il vicepresidente del Congresso mondiale ebraico Ariel Muzicant e il presidente della Comunità ebraica di Vienna Oskar Deutch. Scrivendo al Presidente israeliano, i due avevano chiesto a tutti i rappresentanti dello Stato ebraico di "marcare una chiara linea rossa tra noi e coloro che rappresentano l'odio, il nazismo e l'antisemitismo". Un loro in cui Muzicant e Deutch avevano inserito anche il Partito della Libertà austriaco, fondato nel dopoguerra da ex ufficiali nazisti. Il partito oggi si definisce di destra ma tra i suoi sostenitori, sottolinea tra gli altri il Times of Israel, ci sono i gruppi neonazisti.
Lo scorso anno il Partito della Libertà ha organizzato un incontro dal titolo "Il nuovo antisemitismo in Europa", nel corso del quale il leader Heinz-Christian Strache aveva accusato "l'immigrazione incontrollata" di "importare l'antisemitismo islamico" in Europa. Secondo il partito al convegno erano presenti anche diversi ex parlamentari della Knesset. Lo stesso Strache aveva incontrato in Israele alcuni membri del Likud, il partito del Primo ministro Benjamin Netanyahu.
Sulla falsa riga di quanto affermato da Rivlin - no a incontri con chi propugna l'odio antisemita e l'intolleranza - recentemente il ministero degli Esteri aveva fatto circolare una direttiva per i ministri israeliani in cui si invitava a non incontrare Kristina Winberg, membro di un partito di estrema destra svedese in visita in Israele come parte di una delegazione di parlamentari europei e statunitensi.
(moked, 6 gennaio 2017)
Sulle carte palestinesi Israele non esiste
di Andrea Mercenaro
Armon Gross e Ron-ni Shaked, ricercatori presso il Center for Near East Policy Research del-l'Harry Truman Research Institute dell'Università di Gerusalemme, hanno presentato la loro indagine sui libri scolastici redatti dal Ministero della Pubblica Istruzione dell Autorità Palestinese e usati nelle scuole palestinesi gestite dall'Onu sia in Cisgiordania che a Gaza. In quei libri, Israele non esiste: né entro i confini teorici proposti dall'Onu nel 1947, né entro le linee armistiziali del periodo '49-'67, né entro alcun altra linea di confine. Tel Aviv, fondata da sessanta famiglie ebraiche nel 1909, nei testi palestinesi-Onu per i ragazzi viene spacciata per città araba col nome di Tel al-Rabia. Le stesse scritte in ebraico sui francobolli sono state cancellate. Restano quelle in arabo. Per l'Autorità Palestinese, insomma, non solo per Hamas, Israele è scomparsa. E questo è il meno. E' che ancora non sa, Abu Mazen, come dirlo a D'Alema.
(Il Foglio, 6 gennaio 2017)
Jesurum, pioniere della pubblicità
Manager brillante, creativo e internazionale, Napoleone Yehuda Jesurum, nato nel 1929 e scomparso nel gennaio scorso, è stato responsabile della pubblicità e dei periodici in Rizzoli, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Estroverso e gran signore, lo ricorda il giornalista Paolo Occhipinti che ha lavorato con lui in quegli anni. E animato da una «frenesia del fare» che, come ha riconosciuto poi lo stesso Jesurum in un libro autobiografico (Storia di una normalità negata) lo portava a inseguire una voglia di normalità che a lui, giovane ebreo negli anni difficili delle persecuzioni razziali, le vicende della storia non avevano concesso: e difatti nel libro ricorda l'espulsione dalla scuola elementare, la fuga in Svizzera e il ritorno in un'Italia ormai sconosciuta. Soltanto quando, negli anni Novanta, Jesurum è riapprodato nella sua Venezia e ha riallacciato più profondamente i contatti con le sue radici, quel grumo frenetico si è sciolto e nella comunità ebraica cittadina, di cui è diventato segretario e consigliere, ha trovato di nuovo casa. «Condividevamo lo stesso sentimento per le tradizioni, a cui era molto legato così come era legato alla sua Keillah» ha ricordato Elia Richetti, ex rabbino capo di Venezia.
(Corriere della Sera, 6 gennaio 2017)
Israele e la guerra in Siria
di Giancarlo Elia Valori
Primo punto da studiare attentamente: la guerra in Siria, dopo l'entrata in quel quadrante della Federazione Russa, presuppone una connessione tra Mosca e Teheran che è, per Israele, sommamente pericolosa.
Gran parte delle sortite aeree russe sul terreno siriano provengono infatti dalla base iraniana di Hamadan, 175 miglia a sud di Teheran, la storica tomba, tra l'altro, di Ester e di Mordechai, pellegrinaggio tradizionale degli ebrei iraniani.
Se, poi, la Russia vuole davvero evitare che le tradizionali potenze occidentali ritornino a gestire gli equilibri del Grande Medio Oriente, non può non favorire il rafforzamento di una "mezzaluna sciita" che va dall'Iran, appunto, all'area alawita in Siria fino al Libano meridionale del "partito di Dio", Hezb'ollah.
Ma se Mosca lascia tutto il lavoro in mano degli iraniani e dei loro alleati, deve poter contare poi su un Israele forte che gli permetta di rimanere in gioco su tutto il territorio siriano.
Peraltro, Putin vuole bloccare ogni tentazione occidentale nel condurre altre "primavere arabe" in Medio Oriente o rivolte di piazza che, il leader russo lo sa bene, verrebbero prima o poi utilizzate contro il suo regime, all'interno della Federazione Russa.
Putin ha bloccato ogni possibilità di "strategia indiretta" da parte degli occidentali, e questa è già una sua rilevante vittoria.
Putin ha infatti stabilizzato, con l'annessione della Crimea del 18 Marzo 2014 e la sua controrivoluzione in Ucraina, lo stesso anno, la proiezione di potenza russa da sud, per la copertura delle sue principali reti per la distribuzione di idrocarburi verso l'Occidente e il Mediterraneo.
La presa, da parte dei russi, della Siria e quindi dell'intero Grande Medio Oriente è il necessario "secondo cerchio" di questa nuova securizzazione.
I russi ragionano per Paesi, mentre gli occidentali e, soprattutto, gli americani, pensano per etnie, gruppi religiosi, aree tribali.
E' anche questo un punto di forza, per Mosca.
Ecco perché il continuo frazionarsi dei fronti di scontro ha prodotto non l'egemonia Usa, ma la sconfitta ormai definitiva degli americani in tutto il Medio Oriente.
Quindi, Mosca è certamente interessata alla nuova espansione dell'economia e dell'influenza geostrategica iraniana, ma Teheran vuole ancora Bashar el Assad come leader unitario della Siria.
Però la Federazione Russa vuole ancora Assad al potere perché ciò permette la massima sicurezza delle sue basi marittime sul Mediterraneo siriano.
Al contrario l'Iran intende mantenere Assad e il suo regime sciita perché esso gli consente la massima continuità strategica con gli Hezb'ollah libanesi.
Naturalmente, Israele non ha alcun interesse ad entrare nel conflitto siriano.
La presenza dello stato ebraico catalizzerebbe una alleanza tra sunniti e sciiti contro Gerusalemme e non farebbe il gioco né della Russia né, tantomeno, dello stesso Israele.
Peraltro, Gerusalemme ha fornito aiuto umanitario e medico ai siriani feriti che arrivavano ai confini delle Alture del Golan ed ha autorizzato il passaggio di convogli umanitari attraverso i suoi confini.
Le forze armate israeliane hanno comunque colpito singoli obiettivi all'interno del territorio siriano, durante il conflitto; e la programmazione militare dello stato ebraico presuppone che, pur con il sostegno russo, non vi possa essere mai e in nessun caso una continuità strategica tra le forze di Bashar el Assad e il "partito di Dio" degli sciiti libanesi.
E la Russia ha finora mostrato interesse verso la tutela dei confini israeliani, per una serie di importanti motivi.
In primo luogo, nello stato ebraico vivono oltre un milione di cittadini russi di religione ebraica.
La slavofilia vale anche per gli Ebrei russi, nella cultura ortodossa e nazionalista russa.
Poi, il collegamento economico tra Mosca e Gerusalemme è di primario interesse, anche e soprattutto per i russi.
I contatti economici tra Russia e Israele valgono oggi circa 4 miliardi di Usd, una cifra ben superiore a quella, per esempio, degli interscambi tra Mosca e il Cairo.
E si tratta quasi sempre di scambi economici che riguardano beni ad alto valore tecnologico.
Inoltre, Putin potrebbe essere il miglior broker possibile, oggi, per una trattativa seria e definitiva tra Gerusalemme e i palestinesi.
Ormai l'America di Obama non vuole più occuparsi direttamente di Medio Oriente e a Washington vi è un clima sempre più teso nei confronti di Israele, della sua lobby politica interna, dei suoi interessi strategici nella regione; che non collimano con la politica USA di sostegno incontrastato alle monarchie del Golfo.
Gli americani hanno demandato ai sunniti la protezione dei loro interessi in Medio Oriente, una mossa azzardata e pericolosa.
Ed anche in questo caso, i meccanismi decisionali di Washington sono stati ambigui.
Se, da un lato, il marzo 2016 ha visto la firma di un accordo militare Usa-Israele da 38 miliardi di Usd in dieci anni, con alcune concessioni politiche da parte di Gerusalemme per i palestinesi, dall'altro mai come durante l'era di Obama vi è stato attrito costante tra Washington e Gerusalemme.
Ma Putin e Netanyahu hanno invece posto in essere un accordo di mutuo scambio di informazioni strategiche durante la guerra in Siria, che funziona bene e potrebbe essere il primo gradino per uno scambio politico-militare stabile tra i due Paesi.
Gli americani desiderano questo? E come potrebbero allora contrastare la crescita della Russia come broker di Israele nel mondo arabo e islamico?
Peraltro, se Gerusalemme vorrà contare in un futuro ridisegno della Siria, è solo con Mosca che dovrà trattare, visto che gli occidentali si baloccano ancora con i jihadisti "moderati" e, pur senza contare alcunché sul terreno, vogliono la regionalizzazione di una futura Siria pacificata.
E poi, senza gli alleati occidentali presenti nel quadrante siriano, Israele non può non trattare con l'unico potere credibile non islamico, ovvero quello russo.
Se poi andiamo a vedere come sono cambiati i punti di crisi della dislocazione di forze israeliana, vediamo che la guerra in Siria ha reso il Libano molto pericoloso, la Striscia di Gaza ancora più instabile ma ha trasformato completamente la struttura militare e politica delle Alture del Golan.
Le Alture, conquistate ai siriani durante la Guerra del 1967, sono state per oltre 40 anni il confine israeliano più calmo.
La UNDOF, la forza di peacekeeping dell'ONU in area, collabora alla stabilizzazione del confine, insieme a forze israeliane e siriane dislocate nelle retrovie.
I Drusi e gli israeliani che vivono tra le alture del Golan sono comunque oltre 40.000.
Un fronte molto dinamico, quello tra Israele e Siria, in cui si sono già verificate operazioni del Daesh/Isis e attacchi alle zone delle Alture più vicine alla Giordania.
Assad non ha alcun interesse a risvegliare il leone di Israele, i jihadisti non vogliono pagare il prezzo di reazioni durissime delle forze israeliane, Gerusalemme non vuole, in nessun modo, essere chiamata dentro il conflitto sciita-sunnita.
Due i veri pericoli strategici: una azione di profondità sciita o sunnita nelle sole alture del Golan oppure una correlazione di forze tra fronte delle Alture, Libano del Sud e Striscia di Gaza.
Prima dello scoppio della guerra in Siria, infatti, il dibattito strategico tra i decisori israeliani era semplice: sarebbe stato un bene per Israele che i sunniti vincessero le forze di Assad, il che avrebbe rotto il legame tra gli alawiti del regime siriano e l'Iran.
Oppure, i sunniti avrebbero costruito un corridoio strategico dalla Turchia alle alture del Golan, con il sostegno del Qatar e dell'Arabia Saudita?
Una prospettiva che avrebbe portato il Daesh o i vari "fronti" jihadisti sui confini di Israele.
Meglio "il diavolo che conosciamo già" o una nuova forma della stessa pericolosa presenza?
Assad, peraltro, che è un uomo accorto, non ha mai attaccato direttamente le forze di Gerusalemme sulle Alture, per paura delle prevedibili e potenti azioni di risposta; ma ha comunque fatto passare armi iraniane verso Hezb'ollah utilizzando il suo confine meridionale con Israele.
Il rifiuto da parte dello stato ebraico di seguire una delle due vie, per poi poter gestire con il vincitore russo un equilibrio favorevole, è stata la scelta vincente, per ora.
Evitare quindi di eccitare sia i turchi che i russi nell'area, anche se Israele ha deciso, nelle more della guerra siriana, di sostenere alcuni gruppi sunniti al suo confine siriano, per evitare la stabilizzazione di posizioni di Hezb'ollah immediatamente dietro le proprie linee di difesa.
Gruppi sunniti che, peraltro, sono sostenuti, sempre davanti alle Alture del Golan, dall'Arabia Saudita e non dalla Turchia.
Gli attacchi israeliani sono sempre stati duri e precisi, verso gli ufficiali iraniani e i dirigenti del "partito di Dio" libanese operanti sul confine del Golan, a partire dal gennaio 2015 fino ad oggi.
Le attività degli sciiti libanesi sono però diventate più difficili da quando i russi hanno fornito alla Siria i loro radar evoluti e i missili antiaereo S-400.
L'accordo tra Israele e Mosca è stato infatti immediato, a questo punto, indice del rilievo che lo stato ebraico ha per i russi.
Gli iraniani non potevano fornire Hezb'ollah con armi evolute e, se l'avessero fatto, Israele avrebbe avuto diritto alla reazione militare immediata in territorio siriano.
Sempre riferendoci al dibattito tra i decisori strategici israeliani, vi sono molti segni secondo i quali Gerusalemme starebbe cambiando la sua valutazione degli scontri in Siria.
Se il conflitto continua, come tutto oggi fa prevedere, le forze siriane saranno appena l'ombra di quello che sono state, mentre il "partito di Dio" libanese deve sostenere pesantemente il suo alleato Assad, diminuendo quindi la sua pressione sugli obiettivi israeliani.
Per molti analisti di Gerusalemme, quindi, una guerra che consuma definitivamente tutti i nemici settentrionali dello stato ebraico è l'equazione strategica ottimale.
D'altro lato, vi è il pericolo che Israele, per evitare la vittoria degli alawiti di Bashar el Assad, sostenuti dai russi, abbia una sorta di "riflesso condizionato" di tipo americano, ovvero che inizi a sostenere, contro Assad, l'Iran e Hezb'ollah, i famosi "ribelli" sunniti tanto cari all'ebetudine strategica occidentale.
I quali, dopo aver ricevuto il sostegno, si rivolterebbero immediatamente contro la mano che li ha protetti.
Non ci dice proprio nulla la storia della fondazione del Daesh/Isis?
Una alternativa razionale, sempre per lo stato ebraico, sarebbe quella di sostenere i curdi oppure, con un pensiero più ampio, auspicare un frazionamento dell'attuale stato siriano, una sua "cantonizzazione".
Ma si può pensare anche alla grande opportunità geopolitica che l'intervento russo permette ad Israele.
Salvare Assad, per i russi, significa marginalizzare gli Usa in tutto il Medio Oriente e quindi diventare un attore strategico globale.
Peraltro, l'obiettivo secondario di questa operazione di Mosca è quella di mantenere l'alleato-chiave nell'area, appunto Assad ma, soprattutto, eliminare ogni possibilità di islamizzazione radicale delle aree sunnite e, quindi, di non permettere una influenza marcata in Siria di Turchia, Qatar, Arabia Saudita, tre potenze vicine agli Usa, peraltro.
Quindi, la Russia può volere, e non sappiamo ancora bene quale sarà la scelta di Mosca, tre cose diverse.
O una Siria piccolissima e unita, un alawistan per proteggere le zone militari russe sul Mediterraneo, oppure ancora una meno piccola Siria, con Assad che regna su Aleppo, Homs, Hama e Damasco e, infine, una grande Siria ma senza Assad.
Le alternative, sempre per Israele, potrebbero essere quelle di sostenere con il silenzio le azioni russe in Siria e, contemporaneamente, riaprire i rapporti tra lo stato ebraico e alcuni paesi sunniti, per giocarli in contrasto con l'espansione egemonica di Teheran tra l'Iran e il Libano Meridionale.
Oppure, ancora, Israele potrebbe trattare direttamente con Mosca una disposizione di forze dentro la Siria che permettesse il sostanziale disinnesco del pericolo iraniano-sciita sulle Alture del Golan.
Ma quale sarà la moneta di scambio con Mosca e gli altri players regionali, posto che gli Usa non sono più presenti in quel quadrante?
(Il Denaro, 6 gennaio 2017)
La Sardegna (in bottiglia) conquista Israele
Il Tiros di Siddùra tra i premiati al «Terravino 2016»
Una giovane etichetta sarda è fra i vini premiati con la medaglia d'oro al Terravino 2016 in Israele. Si tratta del rosso Tlros dell'azienda Siddùra (foto), attiva da sei anni in Gallura a Luogosanto. Questo lgt Colli del Limbara del 2013 -selezionato a Tel Aviv da una giuria fra 615 vini di tutto il mondo - ha diviso il podio con altre tre bottiglie di storiche cantine italiane: il Lugana Riserva 2013 di Zenato, nota etichetta della Valpolicella, e i toscani Brancaia 2010, della famiglia Widmer e Memoro dell'antica azienda Piccini. Una doppia medaglia d'oro è andata invece all'Amarone Classico 2009 di Zenato e al Brunello di Montalcino 2008 di Biondi Santi, premiato anche come miglior vino importato in Israele.
(Corriere della Sera, 6 gennaio 2017)
70 nazioni si ritrovano a Parigi per fare di Israele il grande imputato internazionale
Per Gerusalemme è "un nuovo processo Dreyfus"
di Giulio Meotti
Il loquace ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha invitato tutti gli ebrei di Francia a lasciare il paese europeo in segno di protesta contro la prossima conferenza di Parigi del 15 gennaio, dove i rappresentanti di settanta paesi si riuniranno per un "summit della pace" che Israele ha deciso di boicottare. "Forse è il momento di dire agli ebrei di Francia, 'questo non è il vostro paese, venite in Israele'", ha dichiarato Lieberman, il quale ha descritto la conferenza come un nuovo "processo Dreyfus" e "un tribunale contro lo stato di Israele": "Invece di un ebreo a essere sotto processo sarà l'intero popolo ebraico e lo stato di Israele". Shimon Samuels, a capo delle relazioni internazionali del Centro Wiesenthal, ha paragonato la conferenza di Parigi a quella di Monaco del 1938: "La conferenza si svolgerà in assenza del personaggio principale, Israele, come quella di Monaco fu organizzata in assenza della Cecoslovacchia".
Il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc Ayrault, ha detto che la Francia è determinata a tenere la conferenza, nonostante il caos diplomatico seguito alla risoluzione con cui le Nazioni Unite hanno condannato Israele per la costruzione di insediamenti. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha avvertito che la comunità internazionale saprà come usare l'appuntamento di Parigi: "La conferenza è irrilevante, ma ci sono segnali che trasformeranno le decisioni prese in un'altra risoluzione del Consiglio di Sicurezza", ha detto ieri Netanyahu. Due giorni fa il presidente del Parlamento francese, Gérard Larcher, era a Gerusalemme per convincere gli israeliani a prendere parte alla conferenza. La prossima risoluzione potrebbe arrivare il 17 gennaio, tre giorni prima dell'insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump. "Gli strumenti che abbiamo oggi sono la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza, il discorso di Kerry e la conferenza di Parigi", ha fatto sapere un galvanizzato Husam Zumlot, consigliere del presidente palestinese Abu Mazen. A Parigi saranno offerti "incentivi" a israeliani e palestinesi per riprendere i negoziati. Svedesi, tedeschi e norvegesi saranno i protagonisti del summit e questo non lascia sperare niente di buono: Stoccolma e Oslo, infatti, sono le due capitali europee del risentimento antisraeliano. Israele teme che, dopo il Consiglio di sicurezza dell'Onu, anche il "Quartetto per il medio oriente", composto da Stati Uniti, Onu, Russia e Unione europea, possa adottare una mozione antisraeliana.
Intanto il Consiglio dei diritti umani di Ginevra ha appena stanziato una cifra iniziale di 138.700 dollari per compilare una "lista nera" delle aziende che fanno affari con gli israeliani oltre le linee del 1967. La conferenza di Parigi si basa sulla "proposta di pace saudita", cioè l'impossibile ritiro di Israele sui confini del 1967, chiamati da Abba Eban "i confini di Auschwitz", la stretta fascia costiera che va da Hadera a Ashdod di appena dieci chilometri e su cui ha sempre pesato la minaccia di morte. La proposta saudita prevede anche il ritorno dei profughi, cioè la rinuncia al carattere ebraico dello stato. Il gran cerimoniere della conferenza di Parigi, il ministro degli Esteri Ayrault, non ha fatto mistero di avere una posizione antisraeliana, sostenendo che il conflitto con i palestinesi "alimenta le tensioni regionali e la propaganda dell'Isis". "Tra il 2002 e il 2014, la colonizzazione israeliana è esplosa", ha detto Ayrault, mentre Saeb Erekat, segretario generale dell'Olp, ha descritto la conferenza di Parigi nei seguenti termini: "Il mondo ha deciso di restituire alla Palestina il suo posto sulla mappa del mondo". Sì, al posto di Israele. E con il plauso delle democrazie. Come a Monaco.
(Il Foglio, 5 gennaio 2017)
La lezione di Israele: assassinare un terrorista è comunque omicidio
Il soldato ha sparato a un jihadista inerme. Il Paese sta con lui, ma il diritto non fa sconti
di Fiamma Nirenstein
Brutta aria
Il sergente, 19 enne, rischia 20 anni di carcere Le lacrime della famiglia
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Un grosso problema
Governo e opposizione costernati. C'è chi chiede l'amnistia ad personam
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C'è voluto un anno di scontri e di sofferenza morale, e adesso il sergente Elor Azaria, abbracciato in tribunale dalla sua mamma Oshra in lacrime, mentre il suo babbo disperato, il poliziotto Charlie, si mette le mani nei capelli e una folla disperata urla a sostegno di Elor «l'esercito è finito», è stato accusato di omicidio. Azaria ha 19 anni. Il ministro delle Difesa Yvette Lieberman come tanti altri politici dice di accettare a malincuore, ma di accogliere la decisione del tribunale. Ci vorrà un mese circa per arrivare alla inevitabile condanna che può arrivare fino a vent'anni; e fino ad allora sarà un corteo continuo, una marcia senza fine della parte più popolare di Israele; degli amici di Ramla, il paese povero in cui si trova la casa della famiglia Azaria; di uscite pubbliche dei tifosi della squadra Beitar Yerushalaim, la più radicale e strillona del Paese; e sarà il tempo delle prese di posizioni di politici di tutti i colori, strappati fra la necessità di onorare il corpo giudiziario, sempre venerato, del Paese, e invece la rabbia di vedere un soldato in estrema difficoltà condannato con un'accusa tanto pesante e, tuttavia, motivata punto per punto. Molti politici, compresa l'esponente della sinistra Shelly Yechimociv, chiedono che si proceda subito con un'amnistia ad personam, perché le colpe certo non sono tutte di Azaria, dicono, e «un soldato non può essere lasciato solo».
La folla infuriata fuori del tribunale ha fatto capire quanto la rottura sia profonda, quanto sia difficile accogliere un codice morale così retto, così monumentale e costruito con tanta determinazione così da diventare l'unico testo di un esercito, l'Idf, a contenere il dovere di preservare al massimo la vita umana e la purezza delle armi, ovvero la moderazione nell'uso della forza.
Con 97 pagine di sentenza la giudice Maya Heller a nome dei tre giudici che hanno votato all'unanimità il testo, ha respinto la linea di difesa di Azaria e l'ha accusato di omicidio. Il giovane di stanza a Hebron il 24 marzo dell'anno scorso era presente quando un terrorista si è gettato sui suoi compagni e ne ha ferito due con un accuminato coltello. Il terrorista poi è stato atterrato e ferito tanto da non essere in grado, secondo la giudice di compiere ulteriori atti di aggressione. Invece, secondo la difesa, il soldato ha sostenuto di aver pensato che il terrorista fosse ancora pericoloso e per questo gli ha sparato addosso. Di fatto il terrorista non era più in grado di colpire, e non era ancora morto, secondo i giudici. Azaria quindi, ha stabilito il tribunale, l'ha ucciso. Si capisce molto bene come la difesa del giovane abbia avuto successo: si basa nell'esperienza del pericolo senza fine, delle lunghe giornale di guerra dove in ogni angolo, si nasconde un rischio. Si nasconde nella rabbia profonda quando i compagni vengono uccisi; nella giovanissima età in cui si va per tre anni nell'esercito. Ti perseguita la memoria dei compagni che non ci sono più, i comandanti ti mettono mille volte in guardia dai pericoli e ti comandano di combattere cercando tuttavia di calmare ogni istinto aggressivo. Difficile, talvolta troppo difficile, soprattutto quando sei a Hebron, una città in cui i pochissimi ebrei rimati dopo lo sgombero (anche Hebron, come più del 90 per cento dei territori disputati è stata sgomberata) vivono in uno stato di assedio punteggiato di attacchi continui. Ma proprio martedì scorso il capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot ha detto: «Un soldato non è il bambino di tutti noi ( come ha detto il padre di Azaria, ndr), è un guerriero, un soldato, che deve dedicare la sua vita a portare avanti il compito che gli è stato affidato. Non deve esserci nessuna confusione su questo».
E non ce n'è nel codice di comportamento: vi si scrive che «non tratterai mai le persone pensando al tuo beneficio, chiunque siano, ma sempre pensando alla loro essenza di persone». Ma è difficile farlo in questo Paese così perseguitato, che proprio oggi vede sorridere dalle pagine dei giornali la bellissima faccia del maggiore Hagay Ben Ari, comandante dei paracadutisti, morto a 31 anni in ospedale dopo due anni e mezzo di sofferenze dopo essere stato ferito a Gaza, dove combatteva per fare cessare la pioggia di missili sul suo Paese. Lo si ricorda come un eroe. Lascia la moglie e tre bambini.
(il Giornale, 5 gennaio 2017)
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La lezione di Israele che condanna un suo soldato
di Riccardo Ghezzi
Elor Azaria, 20 anni, è un soldato dell'Idf, le forze di difesa israeliane. Un esercito tra i più efficienti al mondo, se non il più efficiente. Ma anche con regole d'ingaggio rigide e severe, indispensabili in uno scenario come quello israeliano in cui atteggiamenti e comportamenti dei militari si possono ripercuotere sulla sicurezza dei civili.
Eventuali errori dei soldati dovuti a qualche "testa calda" di troppo potrebbero mettere in serio rischio l'incolumità dei civili israeliani, ai danni dei quali potrebbero aumentare le aggressioni da parte dei palestinesi per qualche atteggiamento sopra le righe dei soldati dell'Idf.
Proprio per questo, gli israeliani in divisa sono sostanzialmente costretti a non sbagliare. Mai. A non farsi dominare dallo stress, dalla rabbia, nemmeno dalla paura. A non avere reazioni istintive o dovute alla delicatezza della situazione. In ogni frangente devono mantenere le calma e soprattutto eseguire gli ordini.
Elor Azaria non l'ha fatto. Ha sparato ad un palestinese a terra, ferito e ormai inoffensivo, sostanzialmente impossibilitato a muoversi. Un terrorista, che aveva apena aggredito degli altri soldati. Quel terrorista era stato ormai neutralizzato, c'era già un'ambulanza sul posto e la situazione era sotto controllo. Ma Elor Azaria ha preso la mira e ha sparato. L'ha freddato con un ultimo colpo. Un'esecuzione.
L'opinione pubblica israeliana si è divisa tra chi avrebbe voluto un'assoluzione del soldato perché, in fondo, ha ucciso un terrorista, e chi invece rimarca la differenza tra democrazia israeliana e paesi arabi, in cui invece i "martiri" assassini vengono premiati con vitalizi.
Qualcuno ha anche definito un eroe quel soldato, accusando Israele di aver abbandonato un proprio figlio. Non è stato così.
La condanna per omicidio colposo, già di per sé tenue rispetto alla dinamica dei fatti che lascerebbero pensare ad un omicidio volontario, è un segnale di Israele a tutti: non si cede all'opinione pubblica, lo stato di diritto israeliano non sarà sconfitto dalle continue aggressioni subite.
E i soldati che sbagliano pagano, anche per premiare i tanti che, nella stessa situazione, invece si comportano in modo irreprensibile.
(Sostenitori delle Forze dellOrdine, 5 gennaio 2017)
Prima dell'addio, Obama sfascia la Casa Bianca
Fino al 20 gennaio Barack farà di tutto per disturbare il prossimo presidente. E gli consegnerà il proprio fallimento. Nobel della scorrettezza.
di Fausto Carioti
Condannato dagli elettori a lasciare il posto a Donald Trump, il Barack Obama di oggi è la versione oscura e rancorosa dell'uomo sorridente che otto anni fa divenne presidente degli Stati Uniti e subito, sulla fiducia che ispirava quel sorriso contagioso, si vide recapitato il Nobel per la Pace. Trascorre le sue ultime giornate alla Casa Bianca piazzando ovunque «roadblocks», provvedimenti varati d'urgenza e con procedure mai adottate prima che, come blocchi stradali, dovranno rallentare la partenza di Trump: la battuta che gira a Washington è che Obama ha lavorato più in queste settimane che in tutti gli anni passati. Tra i due, malgrado l'improbabile pettinatura, Trump riluce come maestro di stile e aplomb istituzionale. Riesce a reprimere la rabbia per i guai che l'altro gli combina e rassicura via Twitter elettori e Paesi amici: «Resistete, il 20 gennaio è vicino!».
Il polemista conservatore Erick Ericsson scrive che «Obama e John Kerry», il responsabile della politica estera, «sono come inquilini che sfasciano la casa quando vengono sfrattati». Per il repubblicano Newt Gingrich «altre tre settimane così e chi sarà l'estremista? Trump o Obama?». Ma l'imbarazzo inizia a diventare evidente anche nei media vicini al partito democratico. II New York Times, che il 26 settembre aveva pubblicato un editoriale intitolato «Perché Donald Trump non deve essere presidente», nel quale del futuro vincitore diceva tutto il male che si può immaginare, adesso riconosce che Obama «sta usando ogni potere a disposizione per cementare la propria eredità e fissare le proprie priorità come legge delle leggi».
E' lo stesso quotidiano della Grande Mela a fare l'elenco dei risultati prodotti fin qui dalla frenesia obamiana. 11 presidente uscente ha vietato le trivellazioni in vaste aree dell'Artico e dell'Atlantico, invocando «una oscura disposizione di una legge del 1953, che secondo lui gli dà l'autorità di agire unilateralmente». Veti imposti con una procedura mai usata prima da altri presidenti, che Trump non potrà rimuovere con altrettanta facilità.
Dalle elezioni che hanno segnato la sconfitta di Hillary Clinton a oggi, Obama ha nominato 103 persone di propria fiducia negli alti livelli della pubblica amministrazione. Ha commutato la pena per 232 detenuti federali e ne ha graziati altri 78. Ieri ha incontrato i parlamentari democratici per stendere il piano di guerra con cui impedire che Trump possa cancellare (come ha promesso di fare) la Obamacare, la costosissima riforma sanitaria che per il presidente nato alle Hawaii rappresenta il culmine di otto anni di lavoro. Identico valore che sul fronte internazionale attribuisce all'accordo che ha autorizzato l'Iran a riprendere il progetto nucleare: altra intesa che potrebbe avere i giorni contad.
Obama è quasi riuscito a fare perdere la pazienza in pubblico al successore quando ha annunciato il rilascio di altri detenuti dalla prigione di Guantanamo, almeno uno dei quali dovrà essere accolto in Italia, in base agli accordi presi con Matteo Renzi alla Casa Bianca. «Non devono esserci altre scarcerazioni da Gitmo. Sono persone estremamente pericolose e non devono tomare sul campo di battaglia», ha twittato un molto infastidito Trump. Senza risultato: sino al 20 gennaio comanda Obama e i suoi hanno subito fatto sapere che il programma di scarcerazioni va avanti.
Lo sfizio della vendetta il presidente democratico se lo è tolto cacciando dagli Stati Uniti 35 diplomatici russi con le loro famiglie. Nella cupa paranoia che lo divora dall'8 novembre, Obama è davvero convinto che siano stati gli uomini di Vladimir Putin a decidere lo scontro tra Trump e la Clinton, ottenendo, grazie agli hacker del Cremlino, le mail della candidata democratica e girandole a Julian Assange, l'uomo dietro al sito Wikileaks, che poi le ha diffuse. Assange nega tutto, ma quel che più conta è che Obama, al momento di tirare fuori le prove definitive del coinvolgimento di Mosca, non ha mostrato nessuna pistola fumante, ma solo indizi deboli che semmai hanno instillato il dubbio in chi prima credeva nella colpa dei russi.
L'altro grande pasticcio di politica estera lo ha combinato assieme a John Kerry, il suo segretario di Stato, consentendo - grazie alla clamorosa astensione del rappresentante di Washington - l'approvazione di una risoluzione delle Nazioni Unite che condanna gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Per sovrappiù, Kerry ha accusato Israele di avere « il governo più di destra della storia, la cui agenda è guidata dagli elementi più estremisti»: un discorso scomposto che è riuscito a fare irritare il primo ministro britannico Theresa May, la quale ha ricordato all'amministrazione Obama che il governo israeliano è figlio della democrazia.
Se l'asse tra gli Stati Uniti e Israele non si rompe è solo perché il passaggio di consegne alla Casa Bianca è vicino. Trump assicura che tra pochi giorni la musica cambierà: «Non possiamo continuare a permettere che Israele sia trattato con totale disprezzo e mancanza di rispetto. Erano abituati ad avere un grande amico negli Stati Uniti...». L'idea di trasferire l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, cioè di riconoscere quest'ultima come capitale d'Israele, prendendo così parte nella storica disputa, non è nuova nella politica statunitense, ma se c'è uno che potrebbe mantenere la promessa fatta in campagna elettorale è proprio il presidente col ciuffo. Anche per questo il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è uno dei tanti nel mondo che aspettano il 20 gennaio per festeggiare la liberazione da Obama.
(Libero, 5 gennaio 2017)
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Parashà della settimana: Va-iggash (Si avvicinò)
Genesi 44:18-47:27
- "Giuda si avvicinò (va-iggash) a Giuseppe e gli disse: «Permettimi, o signore, di dirti qualcosa senza che ti adiri contro il tuo servo»" (Gen. 44.18).
Questi due personaggi titanici si incontrano e si affrontano. Non si tratta solo dell'incontro tra due individui ma di due visioni diverse della storia del mondo. Giuda rappresenta la Redenzione che passa unicamente per la "santità" senza affrontare il male mentre Giuseppe ritiene che per arrivare alla Redenzione bisogna trasformare le forze del male verso il bene. La battaglia tra Giuda e Giuseppe viene descritta dal Midrasch come una lotta tra il leone e il toro animali possenti e simboli delle loro rispettive tribù. La regalità di Giuseppe rappresenta "il mondo materiale visibile" mentre la regalità di Giuda è quella del "mondo spirituale nascosto". La regalità di Giuseppe si esprime in Egitto (mitsraim) tra i limiti della natura, mentre quella di Giuda si esprime in terra d'Israele dove i limiti della materia vengono superati. Il conflitto tra i due fratelli cade nella lettura della Torah durante la festa di Hannukà dove le "otto luci" della menorah rappresentano queste due dimensioni. Le prime sette incarnano la materia mentre l'ottava luce rappresenta la spiritualità. Dall'unione di queste due dimensioni simboleggiate da Giuda e Giuseppe viene illuminata la notte dell'esilio con il ritorno del popolo ebraico nella Giudea-Samaria che sono rispettivamente le tribù di Giuda e di Giuseppe.
C'è ora da domandarsi: "Come mai tutte le Nazioni del mondo vogliono sradicare gli ebrei proprio dalla Giudea-Samaria?" Perché questa terra è la terra della promessa fatta da D-o ad Abramo quando da Ur Cassidim è arrivato in Shekem (Samaria) e quando in Hevron (Giudea) il padre del popolo ebraico per merito della circoncisione ha ricevuto da D-o il dono eterno della Terra d'Israele. Sono queste due tribù che faranno la storia del popolo ebraico e la "Bibbia" ne parla in modo chiaro ed inequivocabile.
Giuseppe si fa riconoscere ai suoi fratelli. "Egli alzò la voce in pianto e lo udirono gli Egiziani" Gen.45.2
Questi desiste dalla lotta perché ha capito che i suoi fratelli sono pronti al pentimento per riunire la famiglia. Tutto il libro della Genesi (Bereshit) non è altro che la ricerca della fraternità perduta dopo la morte di Abele e la vendita di Giuseppe, che è l'unico tra i grandi personaggi biblici che piange. Va notato che egli non piange durante i momenti difficili della sua vita, ma nei momenti di gioia insperata, dove le sue lacrime non possono essere trattenute. Piange quando ascolta i fratelli giunti in Egitto per comprare gli alimenti, che parlando in ebraico, si autoaccusano per aver peccato contro di lui.
"Giuseppe si tirò in disparte per non essere visto e pianse" (Gen. 42.24). Piange all'inizio di questa parashà dopo il commovente discorso di Giuda in favore di Beniamino. Piange sul collo del padre Giacobbe in Egitto e da ultimo quando apprende la richiesta di "perdono" da parte dei suoi fratelli per la loro colpa (Gen.50.15).
Le lacrime esprimono sentimenti genuini che lo stesso individuo non sa di possedere. Giuseppe durante la sua permanenza in Egitto credeva di aver dimenticato la sua famiglia e le sue tradizioni. Egli veste abiti egiziani, ha preso un nome egiziano (Tsafenat Paneah) sposa un'egiziana e a suo figlio dà il nome di Manasseh (che dimentica). Giuseppe dunque aveva sepolto ogni sentimento di attaccamento alla sua famiglia e avrebbe voluto punire i suoi fratelli per la loro crudeltà. Ma così non fu. Il pianto gli ha insegnato che nonostante le sue ragioni, egli non può recidere le radici con la sua famiglia. La vita di Giuseppe è simile a quella di molti ebrei che si sono allontanati dal loro popolo per ascoltare le "sirene" dell'assimilazione. Questi nostri ebrei alla fine comprenderanno che non si possono negare i sentimenti di appartenenza e ritorneranno alle loro origini, per recuperare la propria perduta identità.
Il Faraone e Giacobbe
L'incontro tra questi due uomini avviene in un clima di uguaglianza e di amicizia. Le parole del Faraone dirette a Giacobbe dimostrano la conoscenza che il re d'Egitto aveva nei confronti del patriarca. "Quanti sono gli anni della tua vita?" chiese il Faraone. La risposta di Giacobbe è piena di saggezza "Gli anni delle mie peregrinazioni sono centotrenta. Pochi e cattivi gli anni della mia vita" (Gen.47.8).
Con modestia Giacobbe distingue tra i giorni delle sue tribolazioni, delle sue prove e i giorni della sua vita in cui ha potuto realizzare i suoi progetti con l'aiuto di D-o. La sua missione era quella di fare il proprio dovere anche nella sventura per garantire un futuro alla sua famiglia (settanta anime scese in Egitto) da cui nascerà il popolo ebraico. F.C.
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- Abbiamo già detto che la storia d'Israele può essere vista come la politica di Dio, che naturalmente interferisce con quella degli uomini. La Torre di Babele, per esempio, era un progetto politico degli uomini; ma il Signore, che aveva la sua politica, li ha dispersi sulla faccia della terra e ha fatto nascere le nazioni. Dopo di che, per continuare a svolgere la sua politica in mezzo agli uomini Dio ha pensato di far nascere, si potrebbe proprio dire: "di mettere al mondo", la sua propria nazione: Israele.
Politica estera e politica interna di Dio s'intrecciano in modo davvero magistrale nella storia d'Israele. Dopo il concepimento avvenuto nel rapporto di Dio con i patriarchi, arriva il momento della gestazione, che deve servire a trasformare la tribù familiare in popolo. Entra in gioco allora la politica estera di Dio, il suo rapporto con la più grande potenza politica del momento: l'Egitto.
Giuseppe si trova in Egitto come conseguenza di una lotta fratricida dei figli di Lea contro i figli di Rachele, il che è una questione di politica interna; ma alla fine si ottiene che un membro della famiglia di Abramo diventa praticamente il padrone di tutto l'Egitto, e questo è un clamoroso risultato di politica estera.
Quando Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli ripete per ben tre volte, con insistenza: "Dio mi ha mandato davanti a voi" (Gen. 45:5,7,8). Perché? "Per conservarvi in vita", aggiunge Giuseppe. Questo è politica interna, perché è giusto che Dio si preoccupi di mantenere in vita il suo popolo. Ma non faceva prima, il Signore, a far cessare del tutto la carestia, o a provvedere in qualche modo miracoloso alla sopravvivenza della sua famiglia patriarcale senza che avvenisse quella serie di drammatici avvenimenti che per poco fanno morire di crepacuore il povero Giacobbe? E' una buona domanda. La risposta dovrà essere cercata indagando con attenzione "le vie di Dio" che, come ci viene detto nella Scrittura, non sono "le nostre vie" (Isaia 55:8).
Una prima risposta la dà Dio stesso quando appare in visione notturna a Giacobbe mentre si trova a Beer Sheba (Gen. 46:1-4). E' l'ultima volta che Dio appare a Giacobbe, e anche in questo caso mentre si trova in viaggio; a Giuseppe invece non è apparso mai. "Io sono Dio, il Dio di tuo padre. Non temere di scendere in Egitto", dice il Signore a Giacobbe. A Isacco invece nella precedente carestia Dio aveva detto "Non scendere in Egitto; dimora nel paese che io ti dirò" (Gen. 26:2). Adesso è giunto il momento stabilito e a Giacobbe Dio spiega il motivo per cui non deve esitare a scendere in Egitto: "perché là ti farò diventare una grande nazione". A Giuseppe Dio non aveva detto nulla, ma di lui è scritto che "l'Eterno era con lui"; a Giacobbe invece Dio stesso dice di persona: "Io scenderò con te in Egitto". Questo significa che la più potente nazione di quel tempo ha avuto l'onore di essere visitata da Dio, e per due volte il grandissimo Faraone pagano è stato benedetto da un semplice ebreo: "E Giacobbe benedisse Faraone" (Gen. 47:7,10).
Un problema di politica interna
Dio aveva dichiarato che nella progenie di Abramo sarebbero state benedette tutte le famiglie della terra. Come continuerà allora la linea della benedizione dopo Giacobbe? Proprio questo è il problema "politico" che sta alla base del contrasto tra Giuseppe e i suoi fratelli, o meglio: tra Giuseppe e Beniamino da una parte e tutti gli altri dall'altra. Giuda, quando nella sua commovente supplica si offre di restare schiavo in Egitto al posto di Beniamino, parla di "un giovane figlio... che è rimasto lui solo dei figli di sua madre e suo padre l'ama" (44:20). Si pensa subito all'aspetto affettivo della cosa, che certamente non sarà mancato, ma si dimentica che la Bibbia vuole presentare anzitutto la "linea politica" di Dio. Sara aveva chiesto di cacciare via Ismaele perché "il figlio di questa serva non deve essere erede con mio figlio Isacco" (Gen. 21:10). E il Signore ha approvato questo. Giacobbe aveva contrattato con Esaù l'eredità della benedizione di Abramo; poi nella sua lotta notturna con l'angelo aveva dimostrato come fosse attaccato alla benedizione. Come si può credere dunque che non avesse pensato a chi avrebbe dovuto raccogliere questa eredità? Dopo la morte presunta di Giuseppe, Giacobbe "ama" l'altro figlio di Rachele, cioè vede in lui l'erede. Nella sua supplica Giuda arriva a dire che "la sua anima (nefesh) è legata alla sua anima"
(ונפשו קשורה בנפשו) (Gen. 44:30); e ai fratelli che gli chiedono di lasciar andare con loro Beniamino risponde che se durante il viaggio gli capitasse qualche disgrazia "voi fareste scendere con cordoglio la mia canizie nel soggiorno dei morti" (Gen. 42:38). Per Giacobbe questo significherebbe lasciare questa vita nella tristezza, portando il lutto per la morte dell'erede, quindi senza avere un futuro di speranza, con la convinzione che la linea della benedizione si è spezzata.
I fratelli di Giuseppe si erano davvero pentiti del tremendo crimine commesso e sarebbero volentieri tornati indietro, ma ormai non era più possibile. Il dolore inconsolabile del padre era poi un peso continuo che ricordava loro di avere rotto per sempre l'unità della famiglia. Le ultime parole di supplica che Giuda dice a Giuseppe sono decisive: "Come farei a risalire da mio padre senza avere con me il ragazzo? Ah, che io non veda il dolore che ne verrebbe a mio padre" (Gen. 44:34).
A queste parole Giuseppe grida di far uscire tutti, prorompe in pianto e si fa riconoscere dai suoi fratelli. La riconciliazione fra le due parti della famiglia è avvenuta: Giuda è disposto a rimanere schiavo per liberare Beniamino, il fratello di Giuseppe, che lui aveva proposto di vendere come schiavo agli Amalechiti. E Giuseppe si rivela come colui che perdona, non come colui che si vendica.
A Giacobbe Dio aveva detto in visione: "Io scenderò con te in Egitto, e te ne farò anche sicuramente risalire; e Giuseppe ti chiuderà gli occhi" (Gen. 46:4). Questo significa che Giacobbe non scenderà con cordoglio nel soggiorno dei morti, ma sarà serenamente "riunito al suo popolo" (Gen. 49:33), come era avvenuto per Abramo ed Isacco.
Un problema aperto?
Resta però in sospeso una questione: a chi andrà l'eredità spirituale? come proseguirà la linea della benedizione? Giuda, figlio di Lea, e Giuseppe, figlio di Rachele, si trovano l'uno davanti all'altro, ma non più in posizione di contesa. Non finirà con l'indicazione di uno e l'esclusione dell'altro.
Dopo Giacobbe la tribù familiare si avvia a diventare un popolo, prima di arrivare ad essere una nazione, e la linea della benedizione promessa alla progenie sarà destinata a diventare la linea messianica. E' noto allora che in un parte non trascurabile dell'ebraismo si parla di due distinte figure di Messia: Mashiach ben Yosef (figlio di Giuseppe) e Mashiach ben David (figlio di Davide). E' una tesi che non si può scartare con poche battute perché vuol rendere ragione del fatto indiscutibile che la Bibbia presenta un Messia che soffre e un Messia che trionfa. Sono due Messia? Alcuni dicono di sì. Altri invece dicono che è lo stesso Messia che si presenta in due momenti diversi. E tra questi si trovano gli scrittori dei quattro Vangeli.
Un'interpretazione della storia di Giuseppe data da un ebreo a un altro ebreo. M.C.
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(Notizie su Israele, 5 gennaio 2017)
'Buona scivolata nel 2017': se i tedeschi si augurano buon anno in yiddish
di Rossella Tercatin
"Buona scivolata". È questo il curioso augurio che si scambiano i tedeschi per celebrare l'inizio dell'anno nuovo. Alcuni lo attribuiscono a una certa superstizione legata alla tipica condizione delle strade di Germania a fine dicembre: con ghiaccio e neve dappertutto il rischio di scivolare non manca, e augurandoselo, per una sorta di legge del contrappasso, non accadrà. Altri linguisti tuttavia avanzano una spiegazione diversa: che la parola "rutsch", scivolata appunto, suoni in fondo molto simile all'ebraica "rosh", testa, che come in italiano indica anche il capodanno (Rosh HaShanah). "Ma i tedeschi il 31 dicembre si augurano Shanah Tovah?" si è così chiesto Cnaan Liphshiz, corrispondente europeo della Jewish Telegraphic Agency.
"Molti sostengono che 'guten rutsch' sia uno delle centinaia di esempi di influenza sulle lingue germaniche del loro cugino di ceppo semita yiddish - spiega - Chi sostiene che 'rutsch' sia una deformazione di 'rosh' fa in parte affidamento sul fatto che il modo di dire sia relativamente nuovo, essendo stato documentato per la prima volta nel 1900 circa, e questo è compatibile con la teoria dell'origine yiddish perché la fine dell'Ottocento è stato un periodo di relativa apertura e reciproco influsso tra la cultura ebraica e tedesca in seguito al movimento dell'Haskalah (Illuminismo ebraico)".
Tra i linguisti che si dichiarano concordi con questa posizione ci sono Heidi Stern, Leo Rosten, Alfred Klepsch and Petr Subrt.
E tuttavia, fa notare ancora Liphshiz, se anche il popolare augurio per il nuovo anno non derivasse davvero dall'yiddish, il legame tra le due lingue rimane innegabile.
"Nella sua 'Enciclopedia delle parole tedesche di provenienza yiddish', il linguista Hans Peter Althaus ha compilato una lista di 1100 termini, compresi alcuni chiaramente presi in prestito come 'schlamassel' e 'meschugge', che significano 'fallimento' e 'pazzo' - ma anche contributi più sottili". Tra quelli menzionati, 'miese' che vuol dire brutto tempo e deriva da 'misken', 'povero', oppure 'betucht', 'sicuro' che in tedesco descrive i quartieri della città più agiati. Per non parlare dell'olandese 'tof', usato come esclamazione per dire 'fantastico!' e chiaramente legato a 'tov', 'buono'.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, la maggior parte della popolazione di lingua yiddish d'Europa è stata spazzata via. E se alcune comunità numericamente rilevanti sopravvivono in alcune città d'Europa, tra cui Vienna, Londra e Anversa, le influenze yiddish continuano ad arrivare provenienti soprattutto da un'altra fonte: l'inglese dei film, delle serie televisive e della musica americana. Perché negli Stati Uniti, dal bagel (il tipico panino a forma di ciambella), al lox (il salmone), l'yiddish permea il linguaggio a tavola e fuori, mentre il primo dizionario inglese-yiddish in 50 anni è stato pubblicato negli scorsi mesi dalla Indiana University Press. Una speranza per una lingua che ha fatto la storia ebraica. Ma anche, non va dimenticato, quella di tanti paesi, dall'Europa all'America.
(moked, 5 gennaio 2017)
Il memoriale ritrovato del primo ebreo che raccontò il Nuovo mondo
Risolto il giallo del manoscritto che svela la vera storia d'America del Cinquecento. Rubato nel 1932, il testo ha dimensioni minuscole per poterlo nascondere meglio all'Inquisizione.
di Joseph Berger
E' forse la testimonianza più significativa dell'arrivo degli ebrei nel Nuovo mondo: un piccolo, logoro taccuino di 180 pagine, scritte in grafia microscopica da Luis de Carvajal il giovane, di cui il testo narra la vita e le sofferenze. Fino al 1932, il manoscritto di de Carvajal, ebreo in segreto, messo al rogo nel 1596 dall'Inquisizione nella colonia spagnola del Messico, fu custodito presso gli archivi nazionali di quel paese. Poi sparì. Il furto lo rese oggetto ambitissimo da tutta una schiera di studiosi dell'Inquisizione e di collezionisti di libri rari. Non se n'è saputo nulla per più di ottant'anni, finché non è ricomparso 13 mesi fa, in una casa d'aste di Londra, che lo ha venduto per 1.500 dollari, senza comprenderne il valore.
Ma quando è stato rimesso in vendita a Manhattan, da Swann Galleries, a un prezzo 50 volte superiore a quello pagato in Inghilterra solo pochi mesi prima, non è sfuggito a Leonard Milberg, importante collezionista di pubblicazioni ebraiche. Milberg ha consultato una serie di esperti che hanno confermato che poteva trattarsi in effetti del prezioso manoscritto, del valore stimato di 500.000 dollari. E che però risultava rubato.
Nel marzo prossimo, il manoscritto farà ritorno in Messico. Fino al 12 di quel mese, in base agli accordi stipulati dal collezionista, sarà esposto alla New York Historical Society, in occasione di una mostra che narra l'esperienza dei primi ebrei in America del Nord e del Sud. «È la primissima testimonianza narrativa superstite di un ebreo del Nuovo Mondo», spiega David Szewczyk, esperto di libri antichi, «nonché il più antico manoscritto religioso esistente che narra l'arrivo nel Nuovo Mondo».
L'odissea del taccuino, da quando venne scritto in Messico al suo ritrovamento a Manhattan, è ricca di misteri. De Carvajal era un ebreo spacciatosi per cattolico nella Nuova Spagna, l'attuale Messico, in un periodo in cui l'Inquisizione perseguitava gli eretici e i finti convertiti deportandoli, imprigionandoli, torturandoli e inscenando macabre esecuzioni pubbliche. De Carvajal, un mercante, venne arrestato nel 1590 con l'accusa di svolgere attività di proselitismo ebraico e in carcere scrisse un' autobiografia, Memorias, su fogli di dieci centimetri per sette, in cui si cambiò il suo nome in Joseph Lurnbroso-Giuseppe l'illuminato. L'incipit recita: «Salvato dal Signore da terribili pericoli, io, Joseph Lumbroso, di nazione ebraica e dei Pellegrini nelle Indie occidentali, grato della misericordia ricevuta dalle mani dell'Altissimo, mi rivolgo a tutti coloro che credono nel Santo dei Santi e che sperano in grandi grazie».
Il memoriale racconta come Joseph avesse appreso dal padre di essere ebreo, si fosse circonciso con un vecchio paio di forbici, avesse abbracciato la fede e persuaso i suoi fratelli a fare altrettanto. Venne rimesso in libertà per un periodo di tempo -probabilmente perché le autorità potessero individuarne i contatti segreti con altri ebrei - e terminò il suo memoir inserendovi una serie di preghiere, i dieci comandamenti e 13 principi del filosofo ebreo Maimonide. Gli studiosi pensano che la decisione di realizzare il memoriale in miniatura fosse legata alla necessità di poterlo nascondere sotto un mantello o in tasca. Nel 1596, dopo essere stato nuovamente giudicato colpevole di praticare l'ebraismo, fu messo al rogo. Aveva trent'anni. Il manoscritto, ritrovato tra i suoi indumenti, fini negli Archivi azionali messicani che negli anni Trenta del '900 erano situati in un edificio adiacente al palazzo presidenziale.
La scomparsa del libro resta un mistero. All'epoca erano almeno tre gli studiosi che consultavano i voluminosi atti dell'Inquisizione contro de Carvajal. Tutti sono stati sospettati in un modo o nell'altro nel corso degli anni. Uno di loro, uno storico, dipendente dell'archivio, che stava scrivendo un libro sulla famiglia Carvajal, accusò del furto un rivale, Jacob Nachbin, polacco di lingua Yiddish, docente di storia ebraica presso la Northwestern University dell'Illinois e l'attuale New Mexico State University di Las Cruces. Quest'ultimo trascorse circa tre mesi in carcere e fu poi rilasciato per insufficienza di prove. C'è chi pensa che il vero colpevole fosse il suo accusatore. Non si sa cosa sia stato del manoscritto fino al momento del ritrovamento a Londra. Il rabbino Martin A. Cohen dell'Hebrew Union College di New York, sostiene in un'intervista che pensa di averlo letto durante le ricerche condotte presso gli archivi messicani negli anni Cinquanta, in preparazione alla stesura di un libro su de Carvajal. Altri studiosi reputano più probabile che abbia consultato una trascrizione del testo originale.
A Londra nel dicembre 2015, nel catalogo della casa d'aste Bloomsbury erano presenti «tre piccoli manoscritti religiosi». Il nostro manoscritto era descritto come «proveniente dalla biblioteca di una famiglia del Michigan che ne ha il possesso da molti decenni». Il successivo acquirente, identificato da un dirigente di Swann Galleries come mercante di libri rari, portò il manoscritto alla galleria che gli attribuì un valore oscillante tra 50mila 75mila dollari. Nonostante alcuni esperti valutino il manoscritto di de Carvajal nell'ordine dei 500mila dollari, Swann, pensando che si trattasse di una trascrizione - antica - lo prezzò come tale in catalogo.
È così la scorsa estate l' ottantacinquenne Milberg, originario di Brooklyn, proprietario di una finanziaria nonché collezionista di pubblicazioni ebraiche e poesia irlandese, lo ha trovato. Ha deciso di acquistare la "copia" del manoscritto e di inserirla nella mostra della New York Historical Society, in cui sarebbero stati esposti numerosi pezzi della sua collezione. In seguito pensava di donarla alla Princeton University, di cui è ex alunno. Ma gli esperti consultati lo hanno convinto che il manoscritto era autentico e che era stato rubato. (uno dei motivi per cui Milberg reputa che si tratti dell'originale è che nessun copista si sarebbe dato la pena di riprodurlo in grafia tanto minuscola). Swann infine ha ritirato il manoscritto dalla vendita e i curatori messicani ne hanno confermato l'autenticità.
Rick Stattler, resposabile della sezione libri rari di Swann, dice che nel momento in cui si è reso conto di avere davanti l'originale di de Carvajal ha provato un'emozione incredibile. Intanto Milberg ha concordato con il console generale messicano a New York, Diego Gomez Pickering, la restituzione del manoscritto. Milberg ha anche voluto che fossero realizzate copie digitali del testo per Princeton e la sinagoga ispano-portoghese di Manhattan, definendo l'operazione un suo personale atto di vendetta contro l'antisemitismo. «Voglio dimostrare che gli ebrei erano inseriti nel tessuto vitale del Nuovo mondo», dice. «Questo libro è stato scritto prima dell'avvento dei Padri Pellegrini».
(la Repubblica, 4 gennaio 20179
Israele cancellato dai libri di testo delle scuole palestinesi gestite dall'Onu
Agli alunni palestinesi vengono persino propinati documenti storici deliberatamente falsificati
Un'indagine israeliana sui libri scolastici usati nelle scuole palestinesi gestite dalle Nazioni Unite ha rilevato una costante e sistematica opera di delegittimazione e demonizzazione dello stato di Israele.
Si tratta di libri di testo redatti dal Ministero della Pubblica Istruzione dell'Autorità Palestinese che vengono utilizzati nelle scuole gestite dall'Unrwa, l'agenzia Onu per i profughi palestinesi, sia in Cisgiordania che nella striscia di Gaza.
Dall'esame dei testi si capisce che le scuole finanziate dalle Nazioni Unite non insegnano ai bambini palestinesi a riconoscere Israele come un paese esistente: né entro i confini teorici proposti dall'Onu nel 1947, né entro le linee armistiziali del periodo '49-'67, né entro alcun altra linea di confine....
(israele.net, 5 gennaio 2017)
Le belle parole
di Francesco Lucrezi
Nonostante gli auguri di rito, non c'è dubbio che questo nuovo anno inizi, per quel che riguarda le relazioni di Israele - e, più in generale, dell'ebraismo - con il resto del mondo, decisamente male. Il senso della famosa risoluzione, ONU, su cui già tanto si è detto, è infatti inequivocabile. Israele è solo, è alla sbarra, è sotto accusa, e, se prima c'era qualcuno, forte e potente, che lo difendeva per principio, su questa difesa "a scatola chiusa" non c'è più da fare affidamento. E, se l'America non difende più automaticamente l'alleato sul piano diplomatico, ancora meno ci sarà da fare affidamento - nel malaugurato caso di necessità - su un aiuto di tipo militare. Le belle parole non costano nulla, il Presidente eletto americano è stato prodigo di parole di amore per Israele - sia pure infarcite, dato il personaggio, di qualche gaffe di dubbio gusto -, ma ci penserebbe certamente dieci volte prima di impegnare gli Stati Uniti militarmente, essendo tutto il suo programma incentrato fondamentalmente sull'esclusiva protezione degli interessi dell'America (anzi, di una precisa parte dell'America). E di ciò, naturalmente, tutti i nemici di Israele non potranno che compiacersi. Israele è solo, la sua maggiore o minore vulnerabilità dipende esclusivamente dalla sua intrinseca forza o debolezza, non da aiuti esterni, che non ci sono e non ci saranno. Meglio esserne ben consapevoli.
Riguardo alla natura di tale solitudine, non ci sarebbe neanche bisogno di rispondere alle solite dichiarazioni secondo cui "non è vero, Israele ha tanti amici, ma i veri amici non dicono sempre di sì, perseguire la soluzione 'due popoli due stati' è nello stesso interesse dello Stato ebraico, gli insediamenti sono un ostacolo alla pace, pronunciarsi contro gli insediamenti non vuol dire pronunciarsi contro Israele" ecc. ecc. Non ce ne sarebbe bisogno, tanto queste eterne chiacchiere, trite e ritrite, sono quello che sono, dei castelli di carta, bolle di sapone gonfiate solo da ipocrisia e malafede. Ma ricapitoliamo comunque, scusandoci di dover ripetere cose già dette mille volte, quelli che appaiono i punti salienti della questione:
a) Gli insediamenti (indipendentemente dai comportamenti e dall'estremismo di alcuni dei loro abitanti) sono una conseguenza del conflitto (scaturente dal rifiuto arabo alla stessa esistenza di Israele come Stato ebraico, sovrano e indipendente, al di là di ogni questione di confini), e non la sua causa: prima del '67 non c'era neanche l'ombra di un solo ebreo al di là delle linea verde, e si è visto cos'è successo; allo stesso modo, quando, nel 2005, Israele si è ritirato da Gaza, si è vista, di nuovo, la risposta. Qualcuno ha forse notato un qualche cambiamento nelle successive posizioni della dirigenza palestinese (o nella generale disposizione d'animo del mondo arabo nei confronti dello Stato ebraico)? Il fronte del perenne rifiuto, della totale negazione e della sistematica criminalizzazione si è, se mai, rafforzato, non certo affievolito. Non ci vuole davvero molta fantasia per immaginare cosa accadrebbe, oggi come oggi, in una Cisgiordania finalmente "liberata", quali ringraziamenti arriverebbero.
b) Che i suoi nemici dicano che Israele deve iniziare a smantellare gli insediamenti, per poi "essere smantellato", in altro modo, in tutto il resto, è un programma manifesto e chiarissimo, che è stato dichiarato apertamente in tutti i modi, anche se molto preferiscono fare finta di non sentire. Questi signori fanno benissimo il loro mestiere, sono lucidi e coerenti, è normale che all'ONU firmino le loro dichiarazioni in questo senso, sarebbe strano se non lo facessero; risoluzioni, bombe, coltelli, boicottaggi, si prende e si usa quel che passa il convento, tutto fa brodo.
c) Che invece queste risoluzioni, con la pretesa di smantellamenti incondizionati e unilaterali, senza neanche una pallida finzione di negoziato e di trattativa, un timido accenno di minima richiesta alla controparte, un simbolico straccio di garanzia sulle conseguenze e sul futuro (anzi, con l'assoluta certezza che un Israele indebolito sarebbe nuovamente attaccato, resterebbe solo da vedere quando, probabilmente molto presto), siano firmate o non ostacolate anche da parte dei presunti amici, è davvero qualcosa di surreale. Israele non solo è criminale, ma deve andare sul patibolo con le sue gambe, deve collaborare docilmente al proprio "suicidio assistito".
(moked, 4 gennaio 2017)
Spagna-Israele: cala il gelo su relazioni bilaterali contraddistinte da alti e bassi
MADRID - Dopo la condanna del Consiglio di sicurezza dell'Onu agli insediamenti in Cisgiordania, la Spagna è uno dei paesi con cui Israele ha congelato le relazioni. Da qui parte il quotidiano "Abc" per tracciare un bilancio delle relazioni tra i due paesi, aperte ufficialmente 31 anni fa. Il lungo articolo poggia sulle riflessioni dell'ex ministro degli Esteri Miguel Anguel Moratinos che dà una sostanziale sufficienza al rapporto, apprezzando il grande livello di scambi economici e di cooperazione sviluppato ad esempio tra i servizi di intelligence per la lotta contro il terrorismo. Madrid, è la critica dell'ex ministro, avrebbe potuto impegnarsi di più nella regione e nel rapporto tra Israele e i paesi vicini. Spazio anche all'analisi di Florentino Portero, storico ed ex direttore del Centro Sefarad-Israel. In questa relazione la Spagna paga una simpatia per i palestinesi che ha attraversato i governi di tutti i colori politici: "la difesa spagnola della causa palestinese era in realtà un modo di accontentare i paesi arabi, da cui aveva ingressi commerciali".
(Agenzia Nova, 4 gennaio 2017)
Lo zar Vladimir Putin: io bombardo da solo
Lettera a Furio Colombo
Caro Furio Colombo,
quasi all'improvviso, verso la fine della presidenza Obama, Putin è andato a occupare il centro della scena, come protagonista e come regista di una storia di cui non conosciamo la trama. Nessuno, mi sembra, si sta domandando il perché.
Elio
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È un fatto che in tanti sembrano accettare il pretenzioso attivismo di Putin senza fare domande.Il suo schierarsi con Assad, uno dei peggiori e più feroci personaggi di governo del Medio Oriente, è stato valutato sul piano della strategia (ottima scelta, alla fine vince e incassa statura e autorità internazionale) ma non su quello della tragedia siriana che conserva intatto il suo male, prosegue con altri mezzi la sua guerra, ha piena libertà di persecuzione e impedisce il ritorno della marea di profughi. "Io bombardo da solo" è stato il logo del nuovo Cremlino. E il mondo lo ha lasciato libero di procedere alla distruzione completa di Aleppo, senza interferire e senza obiezioni.
Le Nazioni Unite hanno lasciato un uomo solo sul campo, Staffan de Mistura, che ha diminuito le stragi e salvato famiglie in fuga, ma è stato abbandonato senza mezzi per ogni altro tentativo di fermare o di salvare. In apparenza tutto è chiaro: Putin vuole che la sua Russia conti molto di più, e che ogni suo passo o iniziativa, d'ora in poi, meritino attenzione e rispetto.
Vuole comandare negli spazi lasciati liberi dalla tendenza americana (almeno ai tempi di Obama) di non affidarsi più alle guerre.
Lo spazio è libero. Ma per conto di chi? Questa domanda non è "dietrismo". È motivata dal fatto che nelle grandi questioni internazionali, e soprattutto nelle guerre, nessuno si muove da solo. O ha qualcuno sopra (interessi, mercati, lobby, produzioni, oppure alleanze ideologiche); o ha qualcuno sotto, un nuovo progetto di egemonia, regionale o mondiale.
Queste due condizioni sembrano mancare o almeno non si vedono. E allora la Russia appare come un agente solitario che provoca qualcosa di enorme e di incontrollabile che però favorisce la Russia stessa solo fino al punto di dichiararsi un agente di portata mondiale. Ma poi? Qualcuno nasconde la mano di qualcosa che potrebbe essere più grande di Putin e della sua conquista e alleanza di Assad. Naturalmente sta per arrivare Trump, proprio per merito dell'aiuto di Putin. Bisogna ammettere che i due hanno giocato bene. Nessuno, al momento, ha alcuna idea della strana intesa o alleanza o collaborazione che sta per nascere.
(il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2017)
A Castelnuovo il concerto "Klezmerata Fiorentina" per "Note di Passaggio"
Domenica 8 gennaio alle 17, in Sala delle Mura, torna l'appuntamento con la rassegna "Note di Passaggio". Il concerto "Klezmerata fiorentina" proporrà musiche della tradizione ebraica dell'Est Europa.
La Klezmerata Fiorentina è stata fondata nel 2005 da quattro solisti di una delle più prestigiose orchestre italiane, il Maggio Musicale Fiorentino, e si è guadagnata il riconoscimento internazionale per il suo innovativo approccio all'autentica musica strumentale popolare degli ebrei ucraini, patrimonio artistico del violinista del gruppo, Igor Polesitsky. Il quartetto crea elaborate composizioni che trattano le melodie tradizionali, raccolte all'inizio del ventesimo secolo da pochi pionieri dell'etnomusicologia russo-ebraica, come un microcosmo emotivo della complessa, affascinante ed antica civiltà yiddish est-europea. La Klezmerata, fin dalla sua prima apparizione al Marta Argerich Project a Lugano, in Svizzera, si è conquistata l'attenzione e il supporto di alcune delle più importanti personalità della musica classica. Zubin Mehta descrive l'arte del gruppo come la «perfetta espressione tanto della gioia come del dolore. Non è solo ottimo intrattenimento, è alta creazione musicale!»
Tre prime parti dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino conducono un viaggio attraverso la musica klezmer. Come dice Igor Polesitsky, fondatore del gruppo, il klezmer non è un marchio generico e scontato per indicare musica di vaga sembianza balcanica, tzigana. I suoi strumenti, invece, "parlano yiddish, la nostra lingua dell'esilio, trasmettono quel senso dell'immenso dolore e, nello stesso tempo, dell'altrettanta immensa gioia della vita, che da sempre significa per me l'essenza della vera musica ebraica".
Nel concerto castelnovese si esibiranno Riccardo Crocilla al clarinetto, Francesco Furlanich alla fisarmonica e Riccardo Donati al contrabbasso.
L'iniziativa è organizzata dal Comune di Castelnuovo Rangone e dall'associazione "Amici della Musica Modena", l'ingresso al concerto è gratuito.
(Sassuolo 2000, 4 gennaio 2017
Ci conquisteranno facendo figli
Giulio Meotti: fra gli strumenti di conquista dell'Europa da parte dei musulmani c'è anche la loro natalità. In Francia si stanno aprendo tre moschee alla settimana.
di Goffredo Pistelli
Da qui al 2050 avremo un 20% di europei di fede islamica. Da un lato, ci saranno 80 europei su 100, in gran parte vecchi ed esausti e dall'altro 20 europei giovani, credenti, imbevuti magari di islam politico
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In molti paesi europei c'è il crollo della fertilità. Eppure questi sono paesi che hanno goduto di 70 anni di pace, di disponibilità di qualsiasi bene materiale, di libertà individuali che non hanno riscontri nei secoli precedenti
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Si nasce in meno, non per il disagio sociale. Abbiamo smesso di fare figli agli inizi degli anni 80 mentre lo sboom comincia nel 1985. Le condi- zioni allora erano eccellenti. Lo stato e gli enti locali spandevano con allegria
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In tutta Europa diminuiscono i figli pro-capite mentre aumentano le vacanze, le auto, i telefonini. Nei supermercati, ad esempio, i reparti per i prodotti per gli animali sono diventati più grandi di quelli dedicati ai neonati.
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La scristianizzazione dell'Europa si lega all'ascesa dell'Islam europeo. Fateci caso, in Europa, non si parla d'altro: dal burkini, alle vignette su Maometto, all'Isis. Il nostro immaginario è dominato dalla questione musulmana
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Coloro che 40 anni fa si battevano contro l'oscurantismo cristiano sono gli stessi che considerano il burka un simbolo da rispettare, fregandosene dei diritti delle donne. Per una certa sinistra gli immigrati hanno sostituito il proletariato
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Giulio Meotti ci riprova. Il giornalista di Il Foglio, 37 anni, aretino, grande esperto di Medio Oriente e noto per le sue simpatie, mai nascoste, per Israele e la sua democrazia, torna in libreria con un lavoro destinato a far discutere, La fine dell'Europa (Cantagalli), il cui sottotitolo dice già molto: Nuove moschee e chiese abbandonate. In 220 pagine sempre molto documentate, Meotti spiega come l'Europa e gli europei si stiano preparando a un futuro come quello descritto da Michel Houllebecq in Sottomissione (Bompiani) per la Francia, ossia una islamizzazione per via politica.
- Domanda. Meotti, lei parte dalla demografia: la chiave della conquista islamica del Vecchio Continente starebbe nel fatto che gli europei non vogliono più far figli mentre i musulmani ne fanno.
I dati sono molto chiari: a parte Francia e Gran Bretagna, che fanno storia a sé, sono almeno 30 anni che in molti Paesi europei, dalla Spagna, all'Italia, alla Polonia, alla Germania, stiamo assistendo al crollo della fertilità, eppure ...
- Eppure?
Eppure questi Paesi hanno goduto di 70 anni di pace, di disponibilità di qualsiasi bene materiale, cli libertà individuali che non hanno riscontri nei secoli precedenti, da ogni punto d vista. La fertilità è dimezzata, però.
- Spesso si associa la decisione di non far figli alle difficoltà economiche.
Certo, la lettura mainstream di certi demografi è il disagio sociale: la mancanza di lavoro, di asili. La solita logica materialistica.
- Sbagliata?
Lo dicono i dati. Prenda il caso italiano. Abbiamo smesso di fare figli all'inizio degli anni '80, lo «sboom» comincia fra il 1982 al 1985, vale a dire in condizioni economiche eccellenti, con debito pubblico da paura, in cui si spendeva e spandeva anche a livello di Stato. Mio fratello che, allora andava all'asilo, aveva lo scuolabus che veniva a prenderlo sotto casa, gratuitamente ovvio.
- Insomma, condizioni ideali per far figli.
Eppure si continuò a non farne, e la tendenza accrebbe negli anni 90. E da allora si è continuato. Come osserva l'economista americano Nicholas Eberstadt, in tutta Europa diminuiscono i figli pro-capite mentre aumentano le vacanze, le auto, i telefonini per persona. Un fenomeno cominciato da tempo, anche nella cattolicissima Polonia, e che accadeva nella ricchissima Germania Ovest anteriunificazione. Ma il problema si può vedere il anche osservando le eccezioni in occidente.
- Del tipo?
Penso agli Stati Uniti, dove la protezione sociale per le famiglie è bassa e tutto è basato sull'individuo. Eppure si fanno ancora figli. O a Israele, paese occidentale, aldilà della collocazione geografica, capitalistico, industrializzato, dove si fanno 3-4 figli a testa. E non stiamo parlando solo dei religiosi ortodossi. Il punto è da noi, in Europa, c'è un crollo della fiducia. Mai, quanto oggi, la parola «occidente» è associata al crepuscolo.
- Anche laddove di figli se ne fanno un po' di più, come in Francia e Gran Bretagna?
Sì, perché là la demografia tiene per il fatto che ci sono grandi comunità musulmane che credono nella famiglia e fanno figli.
- A cosa è dovuta la perdita di fiducia degli europei, Meotti?
C'è stato il crollo della religiosità e una corrispondente ondata di secolarizzazione. Lo svuotamento delle chiese è andato di pari passo al precipizio della fertilità. Ora, non è dimostrabile un legame diretto, fra i due fenomeni, ma l'osservazione della realtà è chiara.
- Laddove si crede meno, si smette di far figli, dice?
Laddove individualismo ed edonismo prevalgono, i figli calano. Prenda la Spagna, che aveva, negli anni '70, un tasso demografico elevato, fra il 2,6 e il 2,7, in parte anche perché la dittatura franchista incentivava la maternità. Successivamente è piombata al record negativo di un tasso del 1,3-1,4: perderanno il 12-13% della popolazione nei prossimi 30-40 anni. E come se il periodo di massimo splendore della civiltà europea fosse stato raggiunto e fosse iniziato un declino inarrestabile.
- In tutto questo, le campagne tipo Fertility Day, fanno piuttosto arrabbiare.
Sono un tabù vero. Quella del ministro Beatrice Lorenzin era stata una campagna piuttosto goffa, però in Italia del tema dell'inverno demografico non si può parlare. Non si può parlare dei nostri elevati tassi d'aborto, non si può osservare che i raparti per gli animali, nei supermarket, siano ormai più grandi di quelli dedicati ai neonati. Guai a osservare che, se apri la tv, trovi un talk show in cui c'è un sindacalista che parla di pensioni e quasi mai di aiuti alla famiglia.
- Lei, nel libro, parla di «peste bianca».
Le epidemie del Medioevo, di peste nera appunto, ci decimarono. Quella attuale non sanguina, non fa morti, ma svuota i reparti di maternità. Ci sono paesi della vecchia Europa destinati a morire: come Ungheria, Romania, Repubblica Ceca. E anche la Russia, per quanto Vladimir Putin provi a invertire la tendenza con campagne un po' plebiscitarie, perderà milioni di persone.
- Poc'anzi lei annetteva la tendenza alla parallela secolarizzazione. Nel libro, associa poi fuga dal cristianesimo a crescita dell'Islam
Lo scenario è questo: alla scristianizzazione dell'Europea si lega l'ascesa dell'Islam europeo. Non si parla d'altro: dal burkini alle vignette su Maometto, il nostro immaginario è dominato dalla questione musulmana.
- Una religione in ascesa.
In Francia si aprono tre moschee alla settimana, lo dicono i dati ufficiali. In parallelo, le chiese, ormai vuote, vengono riconvertite in moschee, palestre, centri commerciali. Ne parlavo tempo fa con Rémi Brague, l'intellettuale cattolico francese, il quale ha individuato il declino del cristianesimo in una delle ragioni che hanno indotto i terroristi islamici ad attaccare a Parigi, a Marsiglia, a Rouen: un paese che non crede più, che non ha futuro, ripiegato su stesso, è un obiettivo interessante.
- E a livello europeo, la scristianizzazione che avanza di pari passo alla islamizzazione, che cosa comporterà?
Comporterà che, di qui al 2050, avremo un 20% di europei di fede islamica, che non sarà l'Eurabia, preconizzata da Oriana Fallaci, ma lei immagini, da un lato, 80 europei su 100, vecchi ed esausti, e dall'altro, 20 europei giovani, credenti, imbevuti magari di Islam politico. Che ripercussioni si possono immaginare sulla vita pubblica?
- Il romanzo di Houellebecq che si avvera. Anzi, la profezia del leader algerino Houari Boumedienne, in un discorso all'Onu degli anni 70: «Vi conquisteremo facendo figli».
Come notava l'orientalista britannico Bernard Lewis, sarà il terzo tentativo di conquista dell'Europa, stavolta riuscito, dopo che, a Poitiers e a Vienna, i musulmani erano stati fermati nei secoli scorsi.
- Una sottomissione politica, lei dice?
Una sottomissione incruenta, soft. In prospettiva, gli islamisti ci disprezzano già per questo. Quando quelli dell'Isis dicono «noi amiamo la morte, voi la vita"» si riferiscono alla nostra stanchezza, al fatto che non reagiamo, non dico militarmente, ma neppure culturalmente. La considerazione dell'Europa è 'zero', come diceva Abdelhamiid Abaaoud, mente dell'assalto al Bataclan. C'è paradossalmente molto più rispetto per Israele.
- Paradosso per paradosso: tutta la nostra militata apertura non sembra servire a molto.
A be', l'islamofilia imperversa. Gli stessi che 40 anni fa si battevano contro l'oscurantismo cristiano-cattolico, che fanno dell'antisemitismo un mantra, sono i primi che considerano il burka un simbolo di differenza da rispettare, fregandosene dei diritti delle donne. Gli stessi che si inalberano quando la Francia, con una decisione peraltro grottesca, vieta il burkini.
- Un'islamofilia che imperversa a sinistra.
Per una certa sinistra benpensante, gli immigrati hanno sostituto il proletariato, sono un bacino sentimentale, per così dire, i nuovi dannati della terra. E di qui scatta l'appeasement: docili e indulgenti con coloro che ci stanno divorando. Insomma stiamo sfamando il coccodrillo. Del resto il Corano cantato in chiesa l'abbiamo già avuto, a Firenze mi pare. Per carità, un'ibridazione anche suggestiva, sapendo però cosa c'è da perdere e da guadagnare.
- La Chiesa di Francesco mi pare non si faccia soverchi problemi.
Siamo al relativismo teologico, all'equivalenza sostanziale fra Bibbia e Corano. Io, che sono laico, lo posso dire senza problemi.
- Del resto Papa Bergoglio insiste sovente sul fatto che Dio non sia cattolico.
Infatti. La sua visione è chiara. D'altra parte, dopo il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, praticamente non trova traccia della parola Islam nei discorsi di un pontefice. Lo stesso Ratzinger, per aver fatto quel discorso sull'Islam che si affermava con la spada, fu linciato pubblicamente, con le uccisioni di religiose e di don Andrea Santoro in Turchia, e poi la diplomazia vaticana lo obbligò alla visita riparatoria alla Moschea blu di Istanbul.
- Anche sul terrorismo, Francesco è stato netto: non è religioso ma colpa dei trafficanti d'armi.
Sì, ricordando subito che i cristiani hanno i femminicidi. No, dopo Ratzinger che cercò di suonare la sveglia, l'approccio della Chiesa è cambiato radicalmente, a scapito dei cristiani di oriente, di comunità millenarie.
- Complessivamente mi pare pessimista. Non è invece che gli islamici andranno sempre più occidentalizzandosi?
No, non vedo integrazione. Non sta avvenendo. In Francia, su sei milioni di musulmani, un buon 30% è di idee radicalsalafite: si rende conto quanti sono?
- L'assimilazione, tentata dai francesi in vari decenni, è fallita.
Non ha funzionato. Anche perché, appunto, in Francia c'è questa idea di laicità un po' paradossale, che consisterebbe nell'abbracciare i valori dell'Illuminismo al canto della Marsigliese: eh no, il Corano è un po' più forte.
- E dunque sottomissione inevitabile, anche in Europa
Finirà che introietteremo sempre più Islam nella vita sociale.
- D'altronde, se un europeo su cinque sarà musulmano ...
Infatti, i figli di quella sinistra che, per 40 anni, ci hanno venduto la liberazione sessuale e l'aborto di massa, insomma i discendenti di questi secolaristi impenitenti, si troveranno a negoziare con gli imam di turno. Solo che ...
- Solo che?
A quegli incontri si berrà rigorosamente succo d'arancia, mentre ai loro padri piaceva più il vino (ride).
- A parte quello, che Europa sarà?
Un'Europa che abdicherà alla sua grandezza culturale e artistica, per tornare al settimo secolo dell'Arabia Saudita. Addio a Bach, addio a Brunelleschi, per non parlare di quell'islamofobo di Dante. Avremo sobrietà di costumi, separazione di uomini e donne, emarginazione degli omosessuali. Insomma, non mi pare il migliore dei mondi possibili.
(ItaliaOggi, 4 gennaio 2017)
Pio IX e i predatori del bambino perduto
La storia di Edgardo Mortara, il piccolo ebreo bolognese battezzato in segreto e sottratto alla famiglia per volontà del Papa, diventerà un film di Spielberg Nell'800 originò una battaglia politica e culturale che divise l'Italia e l'Europa.
di Elena Loewenthal
E' una storia terribile e spietata, ma anche carica di una malinconia straziante e persino di una strana, assurda dolcezza. È un incrocio fatale di destino personale e interessi pubblici, un gomitolo di contraddizioni che non c'è modo di sciogliere. È una storia oscena nel senso originario dell'aggettivo: l'assurda implosione di qualcosa che non doveva accadere e invece accade e diventa un pubblico scandalo. È, prima di tutto questo, una storia di dolore insopportabile, detto e taciuto, come ben racconta il quadro di Moritz Oppenheimer che ritrae la scena madre: un bambino smarrito ma al centro di tutto, conteso da mani e abiti talari. E una donna straziata. Chissà se in questo magnifico e tragico dipinto troverà ispirazione Steven Spielberg, che fra poche settimane inizierà in Italia le riprese del film basato su questa storia da cui è rimasto folgorato appena l'ha letta.
Ordinato prete a 23 anni
Il 23 giugno 1858 il piccolo Edgardo Mortara, neanche sette anni, viene prelevato per sempre dalla sua casa di Bologna. E ebreo, ma un giorno era stato segretamente battezzato dalla giovane domestica di casa, Anna Morisi, poco più che una bambina pure lei, tredici o quattordici anni. Tempo dopo l'Inquisizione di Bologna, città che all'epoca si trovava an- cora entro i confini dello Stato Pontificio, avvia le ricerche e ottenuta conferma dell'accaduto invia i gendarmi a prelevare il bambino per portarlo nella casa dei Catecumeni - istituzione creata apposta per neoconvertiti e mantenuta grazie a una tassazione imposta alle comunità ebraiche - così da avviare la sua «ineludibile» educazione cattolica.
Perché? Per una terribile catena di incongruenze. I Mortara avevano in casa una domestica cattolica anche se agli ebrei ciò era vietato. Anna battezza il bambino (Edgardo aveva un anno soltanto, allora) per il terrore che muoia privo del sacramento, anche se ai cattolici era vietato battezzare ebrei di nascosto. Stando a una ferrea logica della fede, tutto era ormai irreparabile: entrato all'insaputa nella comunità di Cristo, il bambino andava strappato al suo mondo perché non incorresse nel peccato di apostasia. Doveva essere educato cristianamente, lontano da quel mondo di «perfidi» (nel senso di «infedeli») ebrei cui non apparteneva più dal momento in cui aveva ricevuto il battesimo.
Da quel giorno i suoi genitori non lo videro quasi più, se non per brevi e strazianti sprazzi. Il piccolo Edgardo Mortara fu ordinato prete a ventitré anni, e prese il nome di Pio - lo stesso di quel Papa che lo aveva strappato alle sue radici, a sé stesso. Viaggiò a lungo nei panni di evangelizzatore e missionario. Trascorse gli ultimi anni di vita rinchiuso in un monastero e morì a Liegi nel marzo del 1940, mentre il nazismo imperversava in Europa.
«Non possumus»
Chissà quale e quanta solitudine attraversarono quel bambino e l'uomo che divenne: prima nel rapimento, poi nella vocazione, infine dentro la cella del monastero. Negli sporadici scambi di sguardi e parole con i genitori e i fratelli. Perché in realtà al piccolo Edgardo la vita fu rubata due volte, non una. La prima quel giorno in cui lo portarono via di casa perché vedesse la luce di quella fede che il battesimo gli aveva donato senza che lui lo sapesse. La seconda, e forse fu ancor più feroce, perché il suo divenne «il caso Mortara»: una battaglia culturale e politica che vedeva schierata da una parte la Chiesa più conservatrice e dall'altra le forze politiche e intellettuali - compresa una parte di clero - che premevano per far respirare al mondo il liberalismo. Quando la notizia del ratto prese a circolare si levarono proteste in tutta Europa. Si disse che al conte di Cavour il fattaccio facesse buon gioco per mettere in cattiva luce papa Pio IX e rinforzare le ragioni del Regno di Sardegna. «Non possumus», rispose puntualmente il Pontefice ogni volta che gli chiedevano di restituire il piccolo alla sua famiglia, al suo mondo.
Uno scontro di civiltà
E poi c'era lui: il piccolo Edgardo che ben presto incominciò a parlare di illuminazione, di grazia della Provvidenza. Che da quando venne ordinato prete passò la vita e la vocazione a cercare di convertire ebrei. Che ancor prima dell'ordinazione non ne volle più sapere di tornare a casa, anche quando all'indomani del 20 settembre 1870 - presa di Porta Pia e fine dello Stato Pontificio - ne avrebbe avuto facoltà.
Lo scontro di civiltà che si combatté intorno alla vita di Edgardo Mortara segna quel delicatissimo momento di passaggio verso il liberalismo, accompagna il processo di Emancipazione degli ebrei d'Europa e più in generale la conquista collettiva dei diritti civili. E spesso, nei lunghi strascichi della storia, nell'eco di dolore e rabbia ch'essa porta con sé, nella contemplazione disarmata di tutta quella assurdità, ci si dimentica che al centro c'è lui, quel bambino e quell'uomo che dal buio del giorno in cui lo portarono via da casa in poi e anche nella lunga stagione di una fede vissuta con dichiarata pienezza, conserva dentro di sé qualcosa di ermetico. Chissà qual era per lui il sapore della nostalgia, chissà quali ricordi di casa serbava nell'animo. Chissà se sapeva chi era. Chissà che cosa la sua fede incrollabile gli rivelava, e che cosa gli teneva nascosto.
(La Stampa, 4 gennaio 2017)
Hacker arabi scatenati in Italia: siti istituzionali abruzzesi sotto attacco
Cancellati quelli di Montesilvano, Roccascalegna, Mozzagrogna
ABRUZZO - Sito istituzionale scomparso, sfondo colorato con l'inconfondibile stemma di Anonymous "Arabe" ed una musica orientale ipnotica.
Consiste in questo l'attacco dimostrativo di una organizzazione molto attiva in Occidente che mira a lanciare messaggi per dimostrare la propria esistenza e combattere "l'invasore" occidentale, ma anche per far capire di poter fare anche altro.
L'organizzazione è attiva da diversi mesi e si ispira agli ideali arabi e alla cultura musulmana rigettando cultura e principi occidentali e filo israeliani. Al centro dei loro pensieri la questione palestinese irrisolta da 80 anni e l'odio per gli israeliani considerati usurpatori.
Ieri hanno attaccato numerosi siti, circa un centinaia, di cui una trentina in Italia, e circa 7 in Abruzzo.
Hanno fatto sparire il sito del Comune di Montesilvano ma anche quello di Mozzagrogna e quello di Roccascalegna e Castelfrentano. Sotto attacco anche alcuni altri siti di imprese private come quella di una agenzia di viaggi o di una officina meccanica ma c'è anche qualche studio di avvocato.
(PrimaDaNoi, 4 gennaio 2017)
Fiabe all'indice
Negli Stati Uniti è censura di libri per bambini. Il politicamente corretto fa strage di titoli
di Giulio Meotti
ROMA - In Francia, i giacobini originali sono impegnati a sfornare libri per bambini dai titoli edificanti: "Ho due papà che si amano", "Papà porta la gonna", "Signora Zazie, ha il pistolino?" e "La nuova gonna di Bill". In America, i "nuovi giacobini", come li definisce il Wall Street Journal, sono scatenati a purgare fiabe e libri illustrati per l'infanzia. Il Journal racconta quanto sta accadendo nel mondo della grande editoria americana con un articolo dal titolo: "La polizia del politicamente corretto si abbatte sui... libri per bambini". La "diversità" è diventata collera e si è trasformata in ripudio dei libri.
Il primo caso è stato "A Birthday Cake for George Washington", libro per bambini "reo" di aver ritratto gli schiavi a casa del presidente americano come sorridenti e dunque sottomessi. Il fatto che il libro sia stato scritto da Ramin Ganeshram, una autrice iraniana di Trinidad, e illustrato da due afroamericane, non lo ha salvato dal macero. "Non crediamo che questo titolo soddisfi gli standard di adeguata presentazione delle informazioni per i bambini più piccoli", hanno detto dalla casa editrice Scholastic Publishing dopo le critiche al libro. C'era stata pure una petizione su Change.org per la sua rimozione dalle librerie.
Poi è toccato al libro "A fine dessert" di Emily Jenkins, anch'esso colpevole di aver "degradato" gli schiavi mostrandoli felici nel preparare i dolcetti. E pensare che era stato scelto come uno dei migliori libri illustrati dal New York Times, con il recensore John Lithgow che aveva difeso "la scelta coraggiosa di ritrarre una donna schiava sorridente". Ma la campagna ideologica era già partita, e Reading While White, un blog letterario sul tema del razzismo nei libri per bambini, aveva accusato il volume di "perpetuare le immagini dolorose degli schiavi 'felici"'. Alla fine, pure l'autrice, Emily Jenkins, ha fatto autodafé, chiedendo scusa ai lettori in quanto era stata "insensibile". Lo schiavo nero deve essere sempre triste.
"There Isa Tribe ofKids" di Lane Smith aveva avuto l'ardire di mostrare dei bambini che "giocano a fare gli indiani". Al macero pure questo titolo! Poi sono state ritirate dal commercio tutte le copie di "When We Was Fierce" di E. E. Charlton-Trujillo, dove uno slang è stato ritenuto "profondamente insensibile". Al macero, nonostante Publisher Weekly lo avesse elogiato come "una storia americana moderna, straziante e potente". "The continent" di Keira Drake è stato censurato perché mostrava con condiscendenza i popoli "incivili". E pochi giorni fa è stata fermata la pubblicazione di "Bad little children's books".
Dalle cesoie del Catone a stelle e strisce passarono per primi, nel 1992, il "vecchio cinese" della "Pastorella e lo spazzacamino" (convertito nel "vecchio uomo"), mentre "Gli abiti nuovi dell'imperatore" sacrificarono pessimismo e tristezza. Prese questa decisione il Chronicle Book, l'editore statunitense, spingendo Glyn Jones, il miglior conoscitore della letteratura danese, a troncare ogni rapporto con l'editore dopo che gli era stato chiesto di cambiare il finale della "Piccola fiammiferaia" "per rendere la storia più allegra".
Echi di quel Sessantotto in cui la fiaba doveva essere demistificata e Cappuccetto non poteva più vestirsi di rosso, ma doveva cambiare in giallo e in blu. Così, nel giro di qualche anno, le fiabe diventarono pedagogiche. E mortalmente noiose. E si finì con la ministra tedesca della Famiglia, Kristina Schròder, che se la prese con le favole dei fratelli Grimm, "sessiste e razziste", e con gli attivisti di Black Lives Matter che ora decidono persino cosa debbano leggere i bimbi d'America prima di addormentarsi.
(Il Foglio, 4 gennaio 2017)
I cristiani fanno da capri espiatori in Turchia. Arrestato pastore protestante
Andrew Brunson è stato incarcerato il 7 ottobre, con l'accusa di essere un «terrorista» gulenista. Da tempo Erdogan accusa i cristiani di voler rovesciare il suo governo.
di Leone Grotti
Andrew Brunson è un pastore protestante americano e per 23 anni ha vissuto in Turchia, a Izmir, senza mai «avere avuto problemi di alcun genere». Poi il 7 ottobre è stato convocato dal ministero degli Interni e da allora non è ancora uscito dal carcere della città.
Accuse di terrorismo
La moglie Norine è stata detenuta per due settimane, e poi rilasciata, mentre Brunson è rimasto nella struttura detentiva dell'ufficio immigrazione per due mesi senza poter contattare il suo avvocato. Fino a quando, l'8 dicembre, non è stato trasferito in un centro antiterrorismo e accusato formalmente di «essere membro di un'organizzazione terrorista armata». Quale? Non si sa. Accusato in base a quali prove? Non si sa.
Gulenista
«La cosa più frustrante è che non ci danno nessuna informazione», ha dichiarato l'avvocato di Brunson, che vuole restare anonimo, al Wall Street Journal. Sembra però che sia stato bollato come gulenista, dal nome dell'imam che vive in America e che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha accusato di aver organizzato il colpo di Stato fallito di luglio. Da allora, decine di migliaia di persone sono state arrestate con l'accusa di essere "gulenisti".
Teoria della cospirazione cristiana
Dopo i poliziotti, i giudici, i pubblici ministeri, i giornalisti, i docenti e i membri dell'esercito, ora anche i religiosi sarebbero "gulenisti". Secondo Aykan Erdemir, ex parlamentare turco, «Erdogan sta diffondendo la teoria della cospirazione dei cristiani per aumentare il sostegno popolare al suo governo». C'è più di un segnale a sostegno di questa ipotesi: a luglio un editorialista turco vicino al governo ha scritto che la madre di Gulen sarebbe ebrea e il padre armeno. Gulen stesso è stato accusato di essere «un membro del Consiglio vaticano». Altri giornali hanno ipotizzato che i gulenisti trovino facile riparo «nelle chiese in Turchia», mentre un altro ancora ha riportato che Gulen in realtà non è un imam ma un prete cattolico.
«Mandria di infedeli»
L'avvocato di Brunson ha presentato ricorso contro la carcerazione preventiva del suo assistito, invano. In attesa che il processo si concluda, dunque, dovrà restare in carcere. Brunson non è l'unico ad avere avuto problemi all'indomani del colpo di Stato: molti altri pastori, secondo il segretario generale dell'Unione delle chiese protestanti, «hanno ricevuto minacce di morte sui loro telefonini», mentre dal palco delle manifestazioni a favore di Erdogan, leader politici e islamici hanno accusato del golpe «l'esercito dei crociati, cristiani ed ebrei, quella mandria di infedeli».
(Tempi, 4 gennaio 2017)
Huawei in trattative per acquistare israeliana HexaTier
Huawei, il produttore cinese di smartphone che sta progressivamente conquistando il mercato globale della telefonia, sta negoziando l'acquisizione di HexaTier una startup israeliana, la cui tecnologia protegge i database nel cloud.
Hexatier si concentra sulla cybersicurezza, il mascheramento dei dati dinamici, attività di monitoraggio, e la "discovery of sensitive data", ovvero l'identificazione dei dati che è il primo passo fondamentale in qualsiasi programma di sicurezza delle informazioni efficace. Inoltre, il software consente al sistema di creare restrizioni d'accesso sulla base di una serie di fattori come l'indirizzo IP, l'anzianità e la geografia.
Questa indiscrezione è emersa da fonti anonime del settore, le quali hanno anche rivelato che sembra che la trattativa stia per raggiungere una ottima conclusione.
Huawei collaborerà con HexaTier al fine di istituire un centro di ricerca e sviluppo in Israele per i database in cloud.
I negoziati seguono una visita da parte del CEO di Huawei Ren Zhengfei in Israele, avvenuta alcune settimane fa. I funzionari HexaTier e Huawei si sono celati dietro un no comment.
HexaTier, è stata fondata nel 2009 dal CEO Amir Sadeh, ha 40 dipendenti suddivisi tra gli uffici a Tel Aviv, Boston, e la California ed ha recentemente raccolto un finanziamento pari a circa 14,5 milioni di dollari da fondi di Venture Capital israeliani tra cui JVP e Magma and Rhodium.
(SiliconWadi, 4 gennaio 2017)
Contraddizioni a sinistra
di Gianluca Pontecorvo
Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Quella che oggi si fa chiamare "sinistra" mi sembra sia afflitta da una strana e ormai diffusa malattia: l'autolesionismo. In Italia uno degli ultimi politici di lungo corso, Massimo D'Alema, l'unica missione in cui è riuscito con successo è stato far cadere dall'interno i governi di sinistra. In America il presidente Obama a fine mandato ne ha combinata una dietro l'altra: ha contribuito a far perdere le elezioni alla sua candidata Hillary Clinton e ha attaccato politicamente la Russia di Putin riguardo le interferenze russe durante le elezioni. Putin si è riccamente beffato di Obama e questo ha provocato un'attesa e una speranza in Trump che nemmeno "The Donald" sperava di avere.
Nel mentre le sinistre Europee non riescono a mettersi sedute per concordare una politica comune che riesca fattivamente ad arginare le derive antieuropeiste, xenofobe e nazionaliste. Troppo importanti il valore storico della sinistra dell'accoglienza, anche se tirano Tir su mercatini di natale che uccidono donne, anziani e bambini. Insomma, uno disastro totale.
Gli uomini che fanno qui politica volgendo lo sguardo ai valori della sinistra però li conosciamo bene; pieni di sé che il petto rischia di scoppiare ma il maglione a collo alto è la tenuta d'ordinanza, utilizzano un registro linguistico molto alto proprio per sottolineare la differenza tra loro e il resto del mondo che Umberto Eco levati ma, al tempo stesso, sono sempre pronti a darti del fascista quando non segui pedissequamente le loro teorie.
La sinistra difende altissimi valori e principi, molti dei quali sento miei e che condivido, ma aveva altri personaggi a rappresentarla una volta. I personaggi di oggi sono infatti, se vogliamo trovare un punto di riferimento nel contesto israeliano, lontani anni luce dal "Ben Gurion pensiero". Peccato comunque che il concetto politico di destra e sinistra per come lo conosciamo noi oggi sia morto e sepolto. Loro però ancora hanno falce e martello in testa e concetti come terzomondismo, antiamericanismo, difesa dei più deboli (i palestinesi per esempio) sono mode che nella loro testa non sono da riporre in soffitta.
Il mondo ebraico italiano non è certo salvo da questo fenomeno. Anche noi abbiamo i nostri intellettuali che dalla loro tastiera pontificano teorie ormai dimostrate assurde dai fatti. C'è anche chi ha il coraggio di attaccare costantemente l'operato del governo Netanyahu qualsiasi cosa faccia, accusandolo addirittura di "maleducazione" a seguito della recente votazione all'ONU e del successivo colloquio con alcuni ambasciatori nel giorno del natale. Una linea politica inconsciamente autolesionista che mi fa pensare: "Netanyahu fa rodere il fegato a chi non ce l'ha".
(moked, 3 gennaio 2017)
Israele non restituirà più i corpi dei terroristi abbattuti
Ritorsioni contro Hamas, la guerra degli ostaggi e delle salme
I corpi dei terroristi di Hamas abbattuti dalle Israeli Defense Forces non saranno più restituiti ai loro famigliari ma ora sarà il governo israeliano a occuparsi della loro sepoltura. Questa la risposta di Netanyahu al video diffuso da Hamas in cui si vede un prigioniero israeliano (modello Gilad Shalit) legato davanti a una torta con tre candeline. Titolo: «Tre anni nelle mani di Hamas e la responsabilità è del governo israeliano». Sul volto del prigioniero è stato photoshoppato quello di Shaul Oron, giovane militare israeliano dato per morto e la cui salma sarebbe ancora nelle mani del movimento islamico. Il video prosegue con l'ingresso nel luogo di prigionia di Oron di un Netanyahu travestito da clown. In passato Hamas aveva anche inviato lettere contraffatte ai genitori di Oron, senza però dimostrare se il giovane sia ancora in vita.
(Libero, 3 gennaio 2017)
Aprite gli occhi, occidentali: ecco le nostre "colonie" che voi odiate Articolo OTTIMO!
di Jonathan Pacifici
Quando il sole tramonta Gerusalemme si tinge d'oro. Noi siamo sul Monte Scupus, appena dietro l'Università Ebraica, quando l'importante uomo politico italiano, ammirando la bellezza del deserto della Giudea all'imbrunire, stende il braccio verso il Mar Morto, quasi a voler toccare le graziose case in lontananza. "E quel quartiere meraviglioso, cos'è Jonathan?", mi chiede. "Quello è Malè HaAdumim" rispondo io, "ciò che voi chiamate una colonia". "Non è possibile" dice il mio ospite. "Non può essere". Non riusciva a capacitarsi che un si' bel quartiere con le sue case ordinate, i giardini, i palazzi, le scuole e i centri commerciali fosse "una colonia", il male supremo secondo le cancellerie occidentali. Il problema dei problemi del pianeta. Un male talmente enorme da far si' che il segretario di Stato americano gli dedicasse tutto il suo discorso di fine mandato. Non era solo quel politico a essere confuso. Lo sono tutti coloro con un briciolo di onestà intellettuale, con un minimo di resistenza al pregiudizio e con un filo di simpatia per un popolo, il popolo ebraico, che ha dato all'umanità così tanto ricevendo quasi sempre in ritorno persecuzioni, ingiustizie e violenza. Ma che diamine sono queste "colonie"? E allora parliamone. Parliamone una volta per tutte. Magari andiamoci anche, andiamo a vedere con i nostri occhi cosa c'è a meno di tre minuti dall'Università che custodisce l'eredità di Albert Einstein.
Ebbene ci sono persone normali. Persone che crescono famiglie splendide, che lavorano, che studiano e che creano. Ci sono agricoltori e ingegneri hi-tech, professori universitari e dipendenti pubblici. Ci sono tanti bambini che studiano in scuole moderne e affiancano lezioni di informatica e stampa 3D, con la Bibbia e la Mishnà. Che studiano la storia ebraica e la filosofia europea e che vengono educati al rispetto della dignità umana, all'importanza sacra della vita. Ci sono fabbriche nelle quali operai palestinesi lavorano a fianco di operai ebrei con pari salario, pensione e assicurazione medica. Ci sono serre hitech tra le più avanzate del pianeta e Università, ospedali e parchi industriali. C'è la legge, il diritto alla proprietà, tribunali che giudicano, scuole che educano e servizi pubblici che funzionano. Ci sono trasporti moderni, sanità, strade, ponti e fognature. C'è insomma tutto quello che ci si aspetta in un posto civile. E non è scontato in questa parte del pianeta. A pochi chilometri da qui si consuma nell'indifferenza di tutti la guerra civile siriana con le sue centinaia di migliaia di morti. A sud l'Egitto con le sue rivoluzioni, a nord la polveriera libanese con i terroristi di Hezbollah, e poi Hamas a Gaza. Quelle che voi chiamate "Colonie" sono semplicemente posti dove vivono ebrei. Persone normali che cercano di migliorare la propria società e il mondo. Persone che si alzano la mattina con buoni propositi e vanno a dormire la sera con buoni risultati. Posti normali in una regione anormale.
Volete smantellare tutto in nome di una non meglio specificata pace, che non si capisce con chi andrebbe fatta, perché i palestinesi hanno sempre e solo detto di no. Ma poi, va bene, facciamo la pace, facciamo un bello Stato palestinese. Per ottenere cosa? Un'altra Siria? Un altro Libano? Un altra Gaza? Non ci sono abbastanza stati arabi dove vengono represse le più basilari libertà? Davvero l'odio per gli ebrei è ancora così forte da preferire un altro luogo nel quale lapidare gli omosessuali, mutilare i genitali delle bambine e sgozzare gli infedeli? Davvero vi sono così simpatici i mafiosi corrotti della Anp che si spartiscono i miliardi di euro dei contribuenti (anche italiani) estorti con la falsa promessa dell'immunità dal terrorismo? (Si veda il Lodo Moro di cui ha parlato il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga). I paesi arabi sono un tale successo da andarsene a inventare un altro? E' quello che manca oggi? Un altro posto dove scannarsi a vicenda tra sunniti e sciiti, Fatah e Hamas, Jiad e martiti di Al Aqsa e con l'occasione programamre la Jiad contro ebrei e cristiani?
Siamo nel teatro dell'assurdo nel quale mentre non si riesce a fare nulla per le centinaia di migliaia di morti in Siria si condanna Israele per l'occupazione del Golan e si chiede all'Onu la restituzione alla Siria! Alla Siria! Ma a chi? Ad Assad e i suoi macellai? All'Isis? Ci odiate talmente che preferite le fiamme dell'inferno siriano ai campi coltivati e gli ospedali israeliani dove i bambini siriani vengono curati? Davvero non vedete che l'unico posto in medioriente dove un arabo può votare, può ricevere una assistenza medica e realizzarsi professionalmente è Israele?
Ritiratevi, ci dite. Ci siamo ritirarti da Gaza e abbiamo ricevuto migliaia di missili mentre il mondo ci condannava se ci difendevamo. C'erano le serre e la civiltà ora ci sono solo le macerie lasciate da Hamas, i tunnel e gli arsenali dei terroristi. Ci siamo ritirati dal sud del Libano, è venuta l'Onu, ha tracciato la Linea blu. Era il 2000. Eppure questa settimana il neo premier Libanese Hariri ha giurato lotta a Israele "fino alla liberazione delle terre libanesi occupate". Ma quali sarebbero queste terre se persino l'Onu ha dovuto dire che non esistono? Ma è chiaro: qualsiasi posto dove vive un ebreo.
Continuate a sbandierare il diritto internazionale, che guardacaso si applica solo a noi. Però non vi interessa l'opinione di rinomati giuristi internazionali come il professor Eugene Rostow, il giudice Arthur Goldberg e Stephen Schwebel che ha presieduto la Corte internazionale di Giustizia che dissentono sulla definizione stessa di Territori occupati. Ma perché approfondire se John Kerry e Federica Mogherini hanno già deciso che gli ebrei hanno torto. Ma tanto abbiamo sempre torto. Solo per il giorno della Memoria siamo simpatici. Solo se siamo morti o stiamo morendo. Se siamo vivi no.
E non capite che è esattamente questo l'antisemitismo. L'antisemitismo non è solo la scritta sul muro o la battuta razzista. E' anche trascurare tutti i problemi del pianeta e ossessionarsi a voler trovare qualcosa su cui criticare gli ebrei. Gli ebrei, non Israele o il governo Netanyahu. Gli ebrei e solo gli ebrei. Davvero non c'era altro di cui parlare che le colonie? Il mondo non ha altri problemi su cui un intervento di Kerry sarebbe stato utile?
Lo aveva capito perfettamente Martin Luhter King: "Tu dichiari, amico mio, di non odiare gli ebrei, di essere semplicemente "antisionista". E io dico, lascia che la verità risuoni alta dalle montagne, lascia che echeggi attraverso le valli della verde terra di Dio: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei, questa e' la verità di Dio. Tutti gli uomini di buona volontà esulteranno nel compimento della promessa di Dio, che il suo Popolo sarebbe ritornato nella gioia per ricostruire la terra di cui era stato depredato. Questo è il sionismo, niente di più, niente di meno... E che cos'è l'antisionismo? E' negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che rivendichiamo giustamente per la gente dell'Africa e accordiamo senza riserve alle altre nazioni del globo. E' una discriminazione nei confronti degli ebrei per il fatto che sono ebrei, amico mio. In poche parole, è antisemitismo
Lascia che le mie parole echeggino nel profondo della tua anima: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei, puoi starne certo".
(Il Foglio, 3 gennaio 2017)
Aleppo, la città che non esisterà più
Devastata come Dresda nella seconda guerra mondiale, la sua bellezza è ormai perduta. Restano soltanto rovine, e tutto è avvenuto sotto lo sguardo dell'Occidente.
di Fiamma Nirenstein
La si guarda, e non ci si crede: com'era bella Aleppo con le piscine azzurre, la folla di turisti nel suk, i lampioni alti fatti a spirale, le scale leggiadre, le palme e i cedri del Libano a ombreggiare i viali e le piazze assolate, le grandi strade del centro trafficate e affollate di negozi, i marciapiedi dove passeggiavano a braccetto i vecchi e i bambini prendevano aria, com'erano onorevoli quelle moschee dove il rosa era il colore dominante, deliziose le cornici di marmo delle finestre e i rosoni orientali sulle facciate, magnifici i tappeti di pietra colorata delle piazze e i pulvini fatti per il culto, imponenti le torri guerriere delle mura armate, ma anche tranquillizzante il quotidiano traffico delle auto.
E oggi? Un gioco semplice di sovrapposizione di immagini di ieri e di oggi non può che travolgere ogni nostra convinzione. Per la mente contemporanea le immagini incredibili della distruzione di Aleppo sono semplicemente impossibili: siamo cresciuti nell'idea, anzi, nella convinzione progressista che dove erano rovine avremmo costruito, dove erano i morti sarebbero nati i bambini, dove la polvere della distruzione occupava il panorama, là si sarebbero costruite nuove abitazioni, templi, chiese, fabbriche, ospedali, scuole. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale la distruzione di Dresda - che fu operata dalle forze Reali Britanniche - rimase come un sanguinoso punto interrogativo, persino se si trattava di sconfiggere il nazismo, la scelta spaventosa di radere al suolo la popolazione e la struttura stessa di un'antica città tedesca. Chi ha visitato la città dopo la ricostruzione, ha visto le lisce spianate cariche di senso di colpa che testimoniano l'inconcepibilità di quanto era stato fatto.
Oggi Aleppo è come Dresda, la sua popolazione è stata decimata, i bambini sepolti nelle macerie, le bombe hanno seguitato a martellare gli edifici al di là di ogni comprensibile strategia, se non quella di spiaccicare il nemico. Le immagini di Aleppo bombardata assumono un rilievo, appunto, al fosforo, ancora più crudeli perché quell'anno 2016 è passato così, mentre si faceva tutto a pezzi, e nessuno ci ha potuto e voluto far nulla. Per la nostra mente occidentale le immagini che vediamo qui ripetono ciò che volevamo pensare finito per sempre.
La città di Aleppo era bella e grande, oggi è un mucchio di mattoni e polvere impastati col sangue. E tutto questo è avvenuto sotto i nostri occhi: dell'Unione Europea non parleremo, non mette conto immaginare una strategia di intervento di questo corpo paralizzato; le Nazioni Unite hanno persino rifiutato, nel Consiglio di Sicurezza, di votare una no fly zone, preferendo occupazioni futili come i ripetuti voti contro Israele; Obama ha optato le sue personali ossessioni e la sua politica di appeasement, rinunciando a ottemperare alla promessa di reagire contro l'uso di gas chimici contro i civili. Certo, i terroristi dell'Isis ci hanno messo del loro, ma anche i suoi nemici che hanno sfruttato l'occasione per una vera pulizia etnica della parte sunnita, estremista o meno: Assad il tiranno dal volto improbabile che persegue a qualsiasi costo il suo potere; l'Iran, che come una tigre caccia ogni possibile preda per il suo potere sciita; i suoi valvassori, gli hezbollah. E alla loro testa, senza remore, il monolite Putin, un abilissimo personaggio costruitosi tutto intorno alla impellente necessità di entrare nei libri di storia come il vero discendende dello zar, o anche di Lenin e Stalin, non importa. Questo è il panorama, senza dimenticare Erdogan che spinge la Turchia in avventure che letteralmente gli scoppiano sempre in mano: prima migliore amico di Assad, poi pronto a odiarlo sopra ad ogni altro, addirittura gli aiuti all'Isis, infine al fianco dei russi per sconfiggere il Califfato.
Mentre scriviamo da Gerusalemme, su Aleppo cade la notte della tregua che speriamo, comunque, duri almeno un po': il tempo di uscire dalle rovine, guardare la luna, montare su qualche veicolo, portare i bambini lontano. Così che odano i prossimi bombardamenti, perché ci saranno, come un'eco di tuono antico, finito. Questo resta di Aleppo. Questo resta della Siria, e nessuno si è mosso.
E non facciamoci illusioni: un'alleanza Putin, Assad, Khamenei, Nasrallah è la migliore garanzia che altre rovine si aggiungeranno ai mattoni sbreccati di Aleppo.
(il Giornale, 3 gennaio 2017)
Mezza Turchia sorride per la strage di Istanbul
Le autorità religiose e il partito di Erdogan guidavano una dura campagna contro il Natale e il Capodanno. E ora molti esultano: puniti i blasfemi cristiani.
di Carlo Panella
La notizia più sconvolgente del «giorno dopo» dell'attentato al night club Reina di Istanbul è che in Turchia a molti è piaciuto e che non pochi l'hanno approvato, come testimoniano i tanti tweet e pagine Facebook entusiasti. La ragione della popolarità di quel macello è semplice: ha punito i « blasfemi cristiani» che festeggiavano una festività deprecata da una massiccia campagna scatenata nelle ultime settimane dalle massime autorità religiose della Turchia, col pieno avvallo del Akp, il partito di governo di Erdogan. «Müslüman Noel kutlamaz», «Müslüman yilbasi kutlamaz»: «un musulmano non può festeggiare il Natale; un musulmano non può festeggiare il Capodanno», questi gli slogan ripetuti ossessivamente dalla Diyanet, l'Autorità per gli Affari Religiosi, l'organo che gestisce l'amministrazione del culto islamico nel Paese. Mehmet Gormez, il direttore della Diyanet ha quindi ordinato che nel sermone di venerdì 30 gli 80 mila imam di altrettante moschee della Turchia invitassero i musulmani a non «assumere atteggiamenti contrari alle loro usanze e agli ambienti di provenienza», con esplicito riferimento ai festeggiamenti per l'arrivo del 2017, che «rischiano di corrompere lo spirito del popolo turco».
Alla campagna dell'Islam di Stato, si è poi aggiunta quella, ancora più aggressiva, degli Alperen Ocaklari, gli eredi dei Lupi Grigi, iper nazionalisti e musulmani, che hanno affisso manifesti in cui un vigoroso turco in costume tradizionale stende con un vigoroso pugno in faccia un povero Santa Claus, incuranti del fatto che San Nicolò, Santa Claus, nacque proprio in Turchia e che la sua casa è meta di pellegrinaggi. In alcuni quartieri di Istanbul, poi, vi sono stati episodi di violenza e manifestazioni con centinaia di aderenti contro la celebrazione di Yilbasi, il Capodanno, mentre molti negozi che tradizionalmente vendevano gli addobbi per gli alberi di Natale hanno cessato di venderli. Va tenuto presente che in Turchia il giorno di Natale non è ovviamente una festività, è un giorno feriale, ma nel corso degli ultimi decenni la festività di Yilbasi ha attecchito al punto tale che gli alberi di Natale in suo onore venivano preparati settimane prima e la notte del 31 dicembre è sempre stata occasione di grandi festeggiamenti. Ma per l'Islam fondamentalista seguito da Erdogan e dalla sua Akp, non solo quello jihadista, l' albero di Natale è un idolo venerato e quindi rappresenta il peggior peccato che possa compiere un musulmano, ma addirittura lo stesso calendario gregoriano, che Ataturk introdusse, è abusivo, è «cristiano» e quindi da rigettare. Per i musulmani infatti, siamo nel 1438, gli anni che intercorrono dal 622, anno dell'Egira, la fuga di Maometto dalla Mecca. In apparenza i conti non tornano (1438 più 622 fa infatti 2060) per la semplice ragione che secondo le prescrizioni di Maometto l'anno va calcolato sui cicli della luna ed è quindi di 354 giorni, più un giorno bisestile ogni tre anni. Così, festeggiare il 31 dicembre è doppio segnale di apostasia e di cedimento alle usanze idolatriche dei cristiani.
Dunque, l'attentato del 31 dicembre arriva al culmine di una poderosa e intollerabile campagna anticristiana che ha coinvolto tutta la Turchia sotto la regìa del governo che ha dato precise istruzioni alle autorità religiose che controlla. Da qui, l'apprezzamento per la strage del Reina espressa in Rete o in tante, troppe coscienze. Definitivo e irrecuperabile passo per l'allontanamento della Turchia di Erdogan dall'Europa. Segnale pericolosissimo dell'allargamento a grandi strati popolari del più basso sentimento anticristiano.
Ben cosciente di questo retroterra, l'Isis, non per la prima volta, ha dato prova di sapere ottenere consenso per le sue stragi (fenomeno che si era già largamente verificato nella comunità araba e islamica in Francia dopo gli attentati a Charlie Hebdo e del Bataclàn). La rivendicazione dell'Isis della strage del Reina, giunta ieri, è infatti chiarissima: «Per continuare le operazioni benedette che lo Stato Islamico sta conducendo contro la protettrice della croce, la Turchia, un soldato eroico del Califfato ha colpito uno dei più famosi night club dove i cristiani celebravano la loro vacanza apostata». Dunque, punizione della «apostasia» dei cristiani, ma anche avvertimento di sangue ad un governo turco che, nonostante le sue condanne delle festività cristiane, si è alleato in Siria con la «Santa Madre Russa» del cristianissimo Vladimir Putin per combattere i jihadisti e l'Isis stessa.
Dunque, una rivendicazione che illustra meglio di un manuale i disastri della politica di Erdogan, che da un lato prepara il terreno per un consenso popolare alle infami e sanguinose punizioni dei «cristiani» messe in atto dall'Isis, e dall'altro non riesce a garantire minimamente la sicurezza dei suoi cittadini puniti con una serie ormai infinta di attentati a causa delle sue giravolte nella politica estera e nella guerra civile siriana: prima a fianco dei jihadisti e ora dei «cristiani» russi che li bombardano.
(Libero, 3 gennaio 2017)
I mercenari palestinesi al servizio di Assad
La comunità internazionale, sempre pronta a indignarsi per i palestinesi, preferisce ignorare che migliaia di miliziani palestinesi collaborano alla carneficina del popolo siriano.
Probabilmente non è un caso se, nel corso dell'ultimo secolo, i vari dirigenti palestinesi hanno sempre privilegiato alleanze internazionali non particolarmente felici e non particolarmente vantaggiose nemmeno per loro.
Si consideri l'alleanza formata dal Gran Muftì di Gerusalemme durante il Mandato britannico, Hajj Amin al-Husseini, che durante la seconda guerra mondiale sostenne attivamente Adolf Hitler e il Terzo Reich. Al-Husseini sperava che i tedeschi vincessero la guerra e che Hitler diventasse il Fuhrer del Medio Oriente. Dopo la sconfitta dei nazisti, tuttavia, l'Occidente non dimenticò completamente il ruolo svolto da al-Husseini, il che danneggiò gravemente la causa palestinese per oltre due decenni....
(israele.net, 3 gennaio 2017)
L'Ospedale Israelitico di Roma verso il rilancio, nominato il nuovo direttore generale
Giovanni Naccarato ha partecipato al risanamento di grandi gruppi. Verrà riaperta un'altra sede
di Valeria Arnaldi
ROMA - Un mese fa circa, l'insediamento del nuovo Cda. Ieri, quello del nuovo direttore generale, Giovanni Naccarato, 44 anni. Nuovo corso per l'ospedale Israelitico, in piazza San Bartolomeo all'Isola, sull'isola Tiberina, che circa tredici mesi fa era stato commissariato a seguito dello scandalo giudiziario che ha portato all'arresto dell'ex-direttore generale. Dopo un periodo decisamente difficile, complicato dalla sospensione durata alcuni mesi delle autorizzazioni sanitarie della Regione Lazio, che ha determinato una inevitabile sofferenza finanziaria - non sono stati effettuati tagli al personale, né agli stipendi - ora si lavora al rilancio della struttura. Non a caso, Naccarato vanta una forte esperienza manageriale: dottore commercialista e revisore contabile, ha partecipato al risanamento e alla ristrutturazione di primari gruppi italiani quotati su mercati regolamentati. A lui il compito di risollevare la situazione finanziaria grazie a nuove strategie manageriali e a una attenta pianificazione delle attività sanitarie.
I progetti
Molti gli impegni in agenda, a partire dalla riapertura di una delle quattro sedi dell'Ospedale, quella in via Veronese 53, ancora in attesa che siano conclusi gli iter burocratici per il rilascio delle necessarie autorizzazioni. Non solo ripristino. L'attività di rilancio prevede nuovi interventi. Entro primavera saranno aperte tre librerie ebraiche all'interno delle sale d'attesa delle tre sedi dell'Ospedale attualmente aperte. In catalogo, testi del Talmud, massime sulla vita ebraica, romanzi, libri per bambini. Obiettivo, fornire modi e strumenti per approfondire la cultura ebraica nei suoi molteplici aspetti. Nel piano culturale pure la valorizzazione dello storico Tempio dei Giovani, sull'Isola.
La mostra
«L'ospedale rischiava di chiudere - ha ricordato il presidente dell'Ospedale Israelitico, Bruno Sed, nei giorni scorsi, in occasione dell'accensione pubblica della Hanukkah - Abbiamo lottato. Ha lottato la Comunità e hanno lottato soprattutto i dipendenti che hanno creduto in una storia che affonda le sue radici nel Seicento. Ce l'abbiamo fatta: ora la struttura è completamente restituita ai cittadini». E ancora: «Non è stato facile, eppure siamo riusciti a tornare un ospedale vivo, punto di riferimento di una sanità al servizio dei cittadini». Mentre si guarda al domani con interventi sul breve e medio periodo, non si trascura il programma di appuntamenti. Tra i primi, una mostra sulla storia della pubblicità dei medicinali tra gli anni Trenta e Sessanta, nonché la pubblicazione di un volume sull'Ospedale, realizzata in collaborazione con il Dipartimento Cultura della Comunità Ebraica di Roma per raccontare una pagina importante di storia della città.
(Il Messaggero, 3 gennaio 2017)
Ebrei, armeni e razzisti, il mito del sangue
Una rilettura analitica degli anni '30 del Novecento vista da un'originale prospettiva in un recente libro di Enrico Ferri. Ne parliamo con l'autore, docente alla Cusano.
È recentemente uscito negli USA, edito dalla Nova Publishers di New York, lo studio "Armenians-Aryans", che ha per sottotitolo "Il 'mito del sangue' le leggi razziali del 1938 e la comunità armena in Italia''. L'autore del libro, Enrico Ferri, insegna Filosofia del diritto e Storia dei Paesi Islamici ®. A partire da un episodio poco conosciuto degli anni Trenta dello scorso secolo, la questione dell'appartenenza o meno degli Armeni alla presunta razza ariana, si ricostruisce il dibattito che in quegli anni coinvolse la Germania, l'Italia e molte nazioni europee, sui criteri per definire la presunta razza di un popolo, con la prima importante distinzione tra ariani e non ariani, Non si trattava di un dibattito puramente teorico, poiché la classificazione razziale di un popolo comportava il riconoscimento o la perdita di una serie di diritti fondamentali.
- Professor Ferri, vorrei cominciare dalla questione di fondo del suo libro, il razzismo. Lei parla del razzismo come di una forma estrema e degenerata di etnocentrismo. Vuole definire in sintesi questa differenza?
«Etnocentrismo significa riconoscere la centralità della propria comunità di appartenenza, dei suoi valori e della sua cultura. Se però si ritiene il gruppo a cui si appartiene, la sua cultura e la sua storia, come la più alta espressione della civiltà, quindi come il solo veramente legittimo, le caratteristiche della propria comunità sono prese come metro di misura del valore e del disvalore. In altre parole, per il razzista le altre comunità sono giudicate secondo la maggiore o minore vicinanza alla propria cultura e alle proprie caratteristiche. L'originalità, la diversità non costituiscono un valore, ma piuttosto un limite».
- Nel suo studio pubblicato negli USA lei analizza le vicende della comunità armena in Italia, proprio a partire dalla legislazione razzista promulgata prima in Germania, a partire dal 1933, e poi in Italia, nel 1938.
«Sì, con una formulazione molto ambigua si parlò di leggi in "difesa della razza'; come fossero delle misure di salvaguardia e di protezione. Vennero definite "leggi razziali'; non razziste, come se fossero finalizzate a una scolastica classificazione delle razze e non a una discriminatoria selezione».
- "Le leggi a difesa della razza'' partivano dal presupposto che l'umanità era divisa in razze con diverse culture e valori, classificabili in modo gerarchico e chele razze superiori andavano protette dalla "contaminazione" e dagli incroci con le razze inferiori. È cosi?
«Sì, a partire da una macro classificazione, fra ariani e non ariani, Gli ariani o indoeuropei erano considerati ai vertici della gerarchia raziale, mentre i semiti, cioè gli ebrei, e i neri erano descritti come l'antitesi degli ariani».
- Lei, però, nel suo libro mette bene in evidenza che categorie classificatorie come quelle di ariano non avevano una base scientifica credibile.
«Si partiva dal fatto che in quasi tutte le lingue europee ci sono una serie di caratteristiche comuni e da questo si deduceva che ci sarebbe stata una lingua originaria comune e, di deduzione in deduzione, un popolo che la parlava. Se c'era stato un popolo con la sua lingua e cultura c'era sicuramente stata anche una sua terra originaria. Questa però è una costruzione ideologica, non c'è nessuna prova che esistesse né una lingua, né un popolo, né una patria originaria. Era difficile persino trovare un nome certo per definire questo popolo originario, chiamato volta per volta indo-europeo, indo-iranico, indo-germano, ariano ... Senza considerare la presunta terra d'origine: l'India, il nord della Germania, l'alto Danubio, il Polo Nord, l'Atlantide ...».
- In che modo gli armeni che vivevano in Italia furono coinvolti dalla legislazione razziale?
«Se fossero stati considerati non ariani avrebbero perso una serie di diritti fondamentali: avrebbero avuto un destino simile a quello degli ebrei: discriminati prima, perseguitati poi».
- Quali furono gli argomenti a favore e/o contro la loro presunta arianità?
«Secondo alcuni razzisti gli Armeni erano simili agli Ebrei, entrambi popoli diasporici e con una spiccata vocazione mercantile. Altri razzisti, invece, sottolinearono che gli Armeni erano il primo popolo ad aver adottato il cristianesimo e che nel medio-oriente rappresentavano un popolo con una cultura e un'identità europee».
- Lei però evidenzia anche una serie di altri motivi che ebbero un ruolo importante nella classificazione razziale degli armeni, alla fine considerati ariani.
«Sì, ma non solo in quest'occasione. Basti pensare che i Giapponesi, asiatici non ariani, furono i principali alleati dell'Italia fascista e della Germania nazista e che Mussolini si proclamò come la "spada dell'Islam" e il protettore degli arabi, che erano semiti. Nel caso degli Armeni giocarono fattori storici importanti: erano stati perseguitati e sterminati dai Turchi nel 1915, contro i quali l'Italia aveva combattuto nella Prima guerra mondiale e tra le due nazioni c'erano stati importanti legami storici che risalivano ai tempi di Roma, senza considerare la limitata presenza degli armeni in Italia che non superava le 2000 unità».
- Esiste una riflessione che può riassumere il senso della sua ricerca?
«Che si deve sempre ricorrere alla falsificazione e all'ideologia quando si vuole negare un dato elementare che Cicerone riassume con la frase che riporto all'inizio del mio libro: "Quale che sia la definizione di uomo che adottiamo, essa è valida per ogni uomo».
(Corriere dello Sport, 3 gennaio 2017)
A Roma gli ebrei avevano la stoffa anche quella di Cristina di Svezia
In un libro sulle antiche mappòt usate per avvolgere i rotoli della Torah i volti e le voci della comunità riprendono vita come in un film.
di Ariela Piattelli
Con ago e filo le donne del ghetto di Roma hanno liberato la creatività per lunghi secoli, quando agli ebrei era proibito ogni mestiere d'arte. Cucivano a mano, nelle loro case, perché il telaio era uno strumento troppo rumoroso. La storia delle famiglie ebraiche di Roma è scritta sulle mappòt (plurale di mappà), i drappi che rivestono la Torah (Pentateuco) e che le famiglie donavano alle sinagoghe per celebrare avvenimenti, ricorrenze, anniversari.
Sono oltre 200 le mappòt custodite nel Museo Ebraico di Roma, che ne possiede la collezione più grande al mondo: un tesoro unico, che rivela storie, nomi e destini su tessuti pregiati, dalla fine del '500 a oggi. Alcuni giorni fa è stato presentato alla biblioteca degli Uffizi di Firenze il volume Antiche mappòt romane. Il prezioso archivio tessile del Museo Ebraico di Roma (ed. Campisano), a cura di Doretta Davanzo Poli, Olga Melasecchi e Amedeo Spagnoletto, che corona un grande progetto di Daniela Di Castro, la direttrice del Museo Ebraico scomparsa prematuramente nel 2010.
«Ciò che emerge dalle mappòt romane è la fedeltà tenace a un'identità minacciata. Questi tessuti erano una forma di resilienza», spiega Alessandra Di Castro, direttrice del Museo Ebraico dal 2012. «Scorrendo il volume sembra di vivere un film in cui riprendono vita voci e personaggi di cui si percepiscono le preoccupazioni, ma soprattutto la profonda spiritualità». Un film «girato» con tecnologie all'avanguardia: il fotografo di opere d'arte Araldo De Luca ha inventato un carrello computerizzato per ottenere le immagini dei lunghi drappi.
«Con il direttore degli Uffizi Eike Schmidt», annuncia Di Castro, «abbiamo deciso di fare una mostra delle mappòt nel 2018 proprio nel prestigioso museo di Firenze». Manufatti di tessuti pregiati con su ricamati gli stemmi delle famiglie, circondati da iscrizioni in ebraico, che comunicavano un avvenimento all'intera comunità, quando il Sefer, ovvero il rotolo della Torah, veniva innalzato, avvolto dalla mappà, in una sinagoga nel momento solenne della preghiera.
«Nelle mappòt è scritta la storia di molte famiglie: le donavano alle sinagoghe in varie occasioni. Festività, eventi straordinari, nascite, festeggiamenti per un matrimonio, guarigioni da malattie, o in ricordo degli estinti», spiega la curatrice del museo Olga Melasecchi. «Ognuno di questi manufatti "ricuce" una storia, e in alcuni casi, intrecciando vari dati, è possibile ricostruire vicende delle singole famiglie».
Nel corso dello studio sono state fatte vere e proprie scoperte. Come quella sull'addobbamento per il Sefer donato da Tranquillo Corcos, che era stato nominato rabbino capo della comunità nel 1703: «Per l'addobbamento era stata utilizzata una preziosa stoffa appartenuta a Cristina di Svezia. Daniela Di Castro riconobbe i simboli della famiglia reale, e infatti quel tessuto rivestiva l'interno della carrozza della regina».
Poi c'è una mappà donata a una sinagoga nel 1749 dal padre di Anna Del Monte, la giovane rapita nel ghetto di Roma e rinchiusa della casa dei catecumeni con l'obiettivo, poi mancato, di convertirla al cristianesimo. «Il drappo, su cui è scritto il passo di Isaia "Sion verrà riscattata con il diritto e quelli che fanno ritorno con la giustizia", celebra il ritorno a casa della ragazza che ha difeso la sua identità», racconta Amedeo Spagnoletto. «A volte con le mappòt si celebravano eventi storici: ne abbiamo una che gli ebrei di Roma avevano deciso di donare alla comunità ebraica di Addis Abeba per il primo anno dell'impero italiano, ma questa non fu mai recapitata. Le mappòt erano uno strumento di comunicazione: con questi tessuti a quel tempo era possibile condividere informazioni, status e ispirare donazioni alle sinagoghe».
La tradizione della mappà arriva dalla Spagna, ma a Roma assume caratteristiche uniche per l'uso dei tessuti e per l'arte del ricamo. «Le donne ebree del ghetto di Roma avevano maturato una competenza straordinaria nell'arte del ricamo e del cucito», spiega la storica dell'arte Doretta Davanzo Poli, «venivano addirittura impiegate nella cucitura dei tessuti destinati ai Pontefici, malgrado non fosse loro concesso. Era l'unico mezzo per esprimere creatività e fede dal profondo dell'anima. La loro arte del ricamo è unica, colorata, vistosa e in rilievo. L'attività di tessitura con filati coloratissimi, metalli nobili, quali oro e argento, viene realizzata con una tecnica che rende un effetto ottico straordinario, diverso da tutte le altre mappòt realizzate nel mondo. E la lavorazione a mano ha permesso a questi preziosi drappi di conservarsi e di arrivare ai giorni nostri».
(La Stampa, 3 gennaio 2017)
Netanyahu potrebbe svolgere un ruolo di mediazione tra Trump e Putin
GERUSALEMME - Alcuni consiglieri del presidente eletto statunitense Donald Trump gli avrebbero proposto di invitare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alla cerimonia di insediamento alla Casa Bianca del 20 gennaio. Lo riferiscono fonti Usa riprese dal quotidiano israeliano "Haaretz", precisando che l'ufficio del premier israeliano afferma di non aver ricevuto nessun invito. L'editoriale del quotidiano israeliano mette in relazione questa notizia con la seconda telefonata avvenuta nel corso dell'ultima settimana tra Netanyahu ed il presidente russo Vladimir Putin. L'analisi sostiene che tra le due notizie esisterebbe un nesso. Netanyahu, infatti, potrebbe rivelarsi un alleato indispensabile per Trump nel suo sforzo di conseguire un riavvicinamento diplomatico tra Washington e Mosca. Netanyahu potrebbe contribuire ad alleviare la resistenza dei senatori repubblicani statunitensi favorevoli alla linea dura contro la Russia, e rivelarsi così fondamentale al conseguimento di una distensione che dovrebbe passare necessariamente per la revoca delle sanzioni contro la Russia approvate dal presidente uscente degli Stati Uniti, Barack Obama nel 2014 e 2015.
(Agenzia Nova, 2 gennaio 2017)
L'odio per Israele unisce le forze oscure
L'antisemitismo è sopravvissuto alla Shoah. Il virus è mutato.
da Times (19/12/2016)
Come si fa a sapere se uno è antisemita?" Inizia così la column dell'ex ministro dell'Istruzione inglese, Michael Gove, uno dei leader della Brexit. "Ma l'antisemitismo non è un pregiudizio limitato a Richard Spencer, Hassan Nasrallah e l'ayatollah Ali Khamenei. Come si addice all'odio più antico e più durevole del mondo, esso ha molti più aderenti e assume molte forme diverse". In epoca medievale, quando gli individui avevano un senso del loro mondo attraverso il prisma della fede, l'antisemitismo era un pregiudizio religioso. Nel XIX e XX secolo - l'età del darwinismo - l'antisemitismo ha vestito il camice bianco dello scienziato. Le metafore biologiche sono state impiegate per modernizzare l'odio. Gli ebrei erano portatori di "contaminazione razziale", che doveva essere eliminato come una minaccia patologica per il futuro dell'umanità. "Questa convinzione ha portato al più grande crimine della storia. L'antisemitismo sarebbe dovuto morire nei forni della Shoah. Ma l'odio è sopravvissuto. E, come un virus, ha mutato". L'antisemitismo è passato da essere odio verso gli ebrei per motivi religiosi o razziali a ostilità verso la più orgogliosa espressione dell'identità ebraica: Israele. "Il boicottaggio è una forza crescente nelle nostre strade e campus. I suoi sostenitori dicono che dovremmo ignorare le idee di pensatori ebrei se quei pensatori provengono da Israele e trattare il commercio ebraico come una impresa criminale se tale attività è svolta in Israele. Si tratta di antisemitismo. E' l'ultima recrudescenza della questione secolare secondo cui l'ebreo può vivere solo a condizioni stabilite da altri. Una volta gli ebrei dovevano vivere nel ghetto, ora non possono vivere nella loro patria storica".
Gove continua raccontando di Israele. "Circondato da nemici che hanno cercato di strangolarlo dalla nascita, continuamente minacciato dalla guerra e costantemente sotto attacco terroristico, una nazione a malapena delle dimensioni del Galles, senza risorse naturali, la cui metà del territorio è desertica, è diventata una democrazia fiorente, un centro di innovazione scientifica, uno dei principali fornitori al mondo di aiuti umanitari internazionali e l'unico stato da Casablanca a Kabul con una stampa libera, una magistratura libera, una fiorente economia, una libera impresa e la libertà per le persone di ogni orientamento sessuale a vivere e amare come vogliono. E questo è il motivo per cui attrae tale ostilità. Non a causa di ciò che fa Israele. Ma a causa di quello che è.
E come funziona l'antisemitismo oggi? "Mantenendo vivi i pregiudizi, sbarazzandosi dei fatti, riducendo il sostegno a Israele, facendone l'unico paese al mondo il cui diritto di esistere è continuamente in discussione, denunciando l'università britannica di essere un 'avamposto sionista"'. Conclude Gove: "Le forze più oscure del nostro tempo sono unite da una cosa prima di tutto: il loro odio per il popolo ebraico e la loro patria".
(Il Foglio, 2 gennaio 2017)
"L'antisemitismo è come l'acqua"
Ebraismo, Giardino domande a Ferrara
Piante aromatiche e specie bibliche per avvicinarsi alla cultura
FERRARA - Alloro, mirto, timo, lavanda e maggiorana: le piante aromatiche utilizzate per l'Havdalah, la preghiera che si recita al termine dello Shabbat, ci sono già tutte e saranno presto affiancate da frumento, orzo, olivo, vite, melograno, fico e palma da datteri, le sette specie bibliche. Il luogo in cui queste essenze trovano dimora è il 'Giardino delle domande', nel comprensorio del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah a Ferrara.
"Con questo progetto, unico in Italia - spiega Simonetta Della Seta, direttore del Museo - vogliamo invitare il pubblico ad avvicinarsi alla cultura ebraica anche attraverso i suoi odori e i suoi sapori. Nel Giardino, inaugurato in primavera, si parlerà delle spezie presenti nella Bibbia e dei sentieri dell'alimentazione ebraica. L'approccio coinvolgerà i cinque sensi, facendo riflettere sulle differenze e sulle molte somiglianze con altre tradizioni". Il Giardino servirà anche a rispondere alle curiosità e alle domande più diffuse sull'alimentazione degli ebrei.
(ANSA, 2 gennaio 2017)
Una piazza sopra l'antico cimitero ebraico. I rabbini da Israele e Usa contro l'archistar
Mantova - Il progetto, firmato dall'archistar Stefano Boeri, si chiama «Piazza della terra» e sorgerà sull'antico cimitero ebraico. Per fermare il piano si sono mossi i rabbini dagli Usa e Israele. La giunta: «Troveremo una mediazione».
di Sabrina Pinardi
Per salvare l'antico cimitero di San Nicolò, a Mantova, dove riposano i resti di alcuni tra i più illustri cabalisti italiani, si sono scomodati rabbini dagli Stati Uniti e da Israele. Intenzionati a fermare le ruspe e mettere i paletti al progetto del Comune, che su un'area di 25 mila quadrati a ridosso del Lago Inferiore, che include anche il cimitero, vorrebbe una «Piazza della terra» con laboratori dedicati all'ambiente, un mercato per la promozione di prodotti agricoli locali e spazi per l'accoglienza dei disabili. Progetto firmato dall'archistar Stefano Boeri. Un piano di riqualificazione che ha ottenuto un finanziamento di 18 milioni di euro dalla Presidenza del Consiglio dei ministri grazie al Bando periferie, ma che preoccupa la Comunità ebraica mantovana e non solo: della vicenda si sta interessando anche l'Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane), che per voce della sua presidente Noemi ili Segni chiede di interrompere eventuali attività di demolizione per tutelare un luogo sacro.
Nel cimitero di San Nicolò furono sepolti, a fine Seicento, Azariah Da Fano e Rabbi Moshè Zacuto, due tra i più eminenti cabalisti italiani. Oltre a tanti ebrei della comunità mantovana, che fino a metà Ottocento, con più di 2.000 componenti, era una delle più importanti d'Italia. L'antico cimitero, autorizzato da Francesco Gonzaga nel 1442 e chiuso nel 1786, era stato venduto dalla Comunità ebraica al genio militare austriaco nel 1852, ma ad alcune condizioni messe nere su bianco nell'atto notarile: tra queste che il terreno dovesse rimanere un prato, che venissero conservate le lapidi e fosse assicurato il diritto di entrarvi per poter rendere omaggi ai defunti. In seguito, su parte dell'area furono costruiti i capannoni della caserma del Gradaro, che ospitavano gli artiglieri del 4o Reggimento contraerei. Mentre durante la guerra, dal '43, divenne campo di concentramento per i militari italiani.
Di proprietà del Demanio fino allo scorso agosto, quando è stata ceduto al Comune in concessione gratuita, oggi dell'antico cimitero non rimane nulla. Solo un'iscrizione in ebraico ricorda la passata destinazione di quel terreno. Ma per la Comunità ebraica, presieduta da Emanuele Colorni, rimane comunque un luogo della memoria da tutelare. E qui, secondo lo studioso, dovrebbe sorgere un grande giardino, senza le costruzioni volute dai nazisti, disegnato secondo le regole delle «sefìrot», gli strumenti di Dio secondo la cabala. «Stiamo organizzando un secondo momento tecnico per capire che spazi di mediazione ci sono - spiega l'assessore all'Urbanistica Andrea Murari - ma non intendiamo fermare il piano di riqualificazione dell'area, in stato di degrado assoluto. Il progetto è stato presentato e finanziato. Non possiamo permetterci di fermarlo». Intanto, prima di Natale, le ruspe sono entrate a pulire l'area e «renderla accessibile dopo anni di incuria». E i vincoli citati nell'atto di vendita di fine Ottocento? «Non stravolgeremo il luogo - chiude Murari - ci limiteremo a recuperarne gli spazi, compresi i capannoni ammalorati. E su eventuali vincoli si esprimerà la Soprintendenza archeologica».
(Corriere della Sera - Milano, 2 gennaio 2017)
"Mantova - Città capitale della cabala. Seppelliti qui i grandi maestri"
Artrosi: Il metodo israeliano
Il gigante farmaceutico con sede a Mumbai, la Sun Pharmaceutical Industries, ha firmato un accordo di licenza in esclusiva, per sviluppare un nuovo trattamento creato dall'israeliana Moebius Medical, per il dolore causato dall'osteoartrosi (secondo la corrente terminologia anglofona, anche osteoartrite).
L'iniezione MM-II lubrifica le articolazioni del ginocchio, riducendo l'attrito e il dolore causati da un'osteoartrosi (o artrosi) lieve-moderata.
L'osteoartrosi è una delle principali cause di dolore e disabilità tra gli adulti e colpisce più di 100 milioni di persone al mondo. Per comprendere ancora meglio la sua diffusione, basta pensare che più di 20 milioni di cittadini americani soffrono di artrosi del ginocchio.
Queste le parole di Moshe Weinstein, CEO di Moebius Medical:
Il fatto che la nostra nuova tecnologia sia stata concepita in Israele e sviluppata all'interno del RAD Biomed Accelerator, conferma la qualità unica dell'ecosistema biotecnologico del paese. La nostra tecnologia è nata dalla collaborazione multidisciplinare tra alcuni professori delle più prestigiose istituzioni di ricerca di Israele: il Prof. Yechezkel Barenholz dell'Università Ebraica di Gerusalemme, il Prof. Izhak Etzion del Technion di Haifa e la Prof.ssa Dorit Nitzan dell'Hadassah Medical Center.
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La Sun Pharma è la quinta più grande azienda farmaceutica al mondo e finanzierà un ulteriore sviluppo della tecnologia MM-II al fine di intraprendere la commercializzazione a livello globale.
Grazie agli studi effettuati presso l'Hadassah Medical Center, la Moebius ha dimostrato l'alto potenziale di questa tecnica che risulta essere anche più sicura rispetto agli attuali trattamenti effettuati mediante iniezione di acido ialuronico.
(SiliconWadi, 2 gennaio 2017)
Erdogan sta pagando il conto della sua politica filo-jihadista
di Carlo Panella
Poche centinaia di metri separano il night club Reina che si affaccia sul Bosforo, nel quale la notte del 1 gennaio un jihadista armato ha fatto un massacro sparando ad alzo zero sulla folla, dallo stadio Arena Vodafone di Besiktas, davanti al quale il 10 dicembre, un autobomba e un kamikaze fecero 38 vittime, ma pare proprio che i due fatti di sangue abbiano ben diversi autori. L'attentato allo stadio è stato rivendicato dal gruppo crudo Tak, ancora più estremista del Pkk, invece, quest'ultimo pare abbia tutte le caratteristiche di un'azione dell'Isis, già responsabile dei 40 morti del!' attentato ali' aeroporto dì Istanbul del 28 giugno, che fece 48 morti. Attribuzione legata al target ben diverso. Davanti allo stadio, l'obbiettivo erano chiaramente i poliziotti del servizio d'ordine (28 uccisi), tipico degli attentati curdi, mentre al nightclub Reina e all'aeroporto le vittime prescelte sono stati civili e turisti, tipico target dell'Isis, come già al Bataclan e a Parigi il 13 novembre 2015. Al nightclub Reina infatti, è stata evidente la volontà di uccidere chi pratica "attività peccaminose" e condannate dalla sharia come "il ballo promiscuo" e la musica, bandita dalla più rigida legge islamica.
In attesa di una rivendicazione - che spesso non arriva - il dato certo è che la Turchia vive l'ennesima giornata di sangue, l'ennesimo attentato che sfregia Istanbul, così come da due anni in qua sono state sfregiate più volte la capitale Ankara, Goziantep e altre città turche. È questa senza dubbio la conseguenza del contagio siriano, malamente gestito dal presidente Tayyp Erdogan. Da cinque anni infatti, la Turchia è il retroterra logistico e politico della guerra civile siriana, affrontata con un atteggiamento ondeggiante e spesso irresponsabile da un Erdogan che in una prima fase, dal 2011 al 2015 con l'obiettivo di provocare la fine del regime di Assad, ha favorito il transito di decine di migliaia di jihadisti attraverso la frontiera con la Siria tanto che è stata documentata addirittura una grossa fornitura di armi ai jihadisti attraverso la frontiera, sotto la protezione dei Servizi turchi. Ma dal 2015 in poi, questa cinica e mal calcolata complicità con i jihadisti si è ribaltata in un contrasto diretto, incluso un intervento militare turco di terra nel nord della Siria. Nel 2016 poi, a seguito del fallito colpo di Stato di luglio, Erdogan ha addirittura ribaltato la sua strategia estera ed ha finito per allearsi con Putin, sono ad allora suo diretto avversario nella crisi siriana - del quale aveva addirittura abbattuto un jet mesi prima - nel sostanziale appoggio a Assad, consolidato dal triumvirato Russia-Iran-Turchia che ha sancito l'espulsione degli Usa dal Medio Oriente (grazie alla pessima politica di Obama) e conseguito la conquista della strategica Aleppo. Nel corso di queste giravolte strategiche, Erdogan è riuscito nel capolavoro di moltiplicare i suoi nemici interni ed esterni e di fornire sempre più motivazioni ai jihadisti per "punire a morte" il suo Paese. Anche perché dal 2014 in poi ha intrecciato le sue strategie ondivaghe sulla Siria con la scelta di cercare una soluzione solo militare della questione curda, contrapponendo all'avventurismo suicida del Pkk una repressione feroce. Repressione che gli è stata molto utile per vincere le elezioni politiche, ma che ha ripiombato la Turchia nella guerra civile interna con migliaia di morti.
La clamorosa uccisione a favor di telecamera da parte di un poliziotto dell'ambasciatore russo ad Ankara, è prova del caos incontrollato che regna oggi in Turchia, come della totale inefficienza delle forze di sicurezza turche. Anche in questo, è palese la responsabilità diretta di Erdogan che dopo il golpe fallito di luglio ha arrestato centinaia di generali e dirigenti dei Servizi, della polizia, della magistratura rendendo caotico e inefficace tutto il sistema di sicurezza interna. La facilità con cui un solo uomo ha potuto compiere il massacro di Capodanno ne è sconcertante prova.
(Libero, 2 gennaio 2017)
Hello, Trump
Berto l'edicolante
di Mario Pacifici
Berto non era uno chef, ma aveva un buon rapporto con la cucina. Niente cibi spazzatura, a casa sua, niente surgelati preconfezionati, niente panini a scappar via. Faceva la spesa giorno per giorno e poi la sera si metteva ai fornelli e s'industriava a preparare ogni volta qualcosa di speciale.
Era un rito quello. Un'arma contro la depressione. Un modo per sentire la casa ancora viva.
Apparecchiava la tavola, stappava una bottiglia e si lasciava coccolare dal calore del cibo e del vino.
Poi si schiantava sul divano e con una tavoletta di cioccolata amara e un buon bicchiere di whiskey, metteva fine alla sua giornata, accendendo la televisione.
Berto detestava le fiction, non amava i film e del calcio non si curava affatto. Più che altro faceva zapping fra i talk-show, lasciandosi cullare dall'accidioso chiacchiericcio di ospiti e conduttori, in attesa di essere sopraffatto dal sonno. A volte però, tirava le ore piccole, intrigato dallo scontro di tesi opposte e inconciliabili.
Ultimamente gli era successo con le elezioni americane.
Lui ne aveva seguito gli sviluppi fin dalle primarie. Aveva visto cadere ad uno ad uno molti dei candidati dati per favoriti: politici sostenuti dagli establishment; pargoli di dinastie blasonate dalla ricchezza e dal potere; giovani rampanti, sostenuti da vaste minoranze. Nessuno aveva retto al ciclone Trump da una parte, o allo strapotere economico della Clinton dall'altra.
Berto non aveva tifato per quei due ma li aveva visti avanzare come rulli compressori, fino a conquistare la sospirata candidatura. E a quel punto aveva provato sgomento. Possibile che una grande democrazia come quella degli USA non fosse stata capace di esprimere contendenti moralmente più qualificati? Dove era finito l'orgoglio americano? Chi avrebbe incarnato il sogno di libertà, democrazia e uguaglianza, additandolo al mondo come la strada maestra dello sviluppo e del progresso? Certo non quei due che avevano calpestato, ognuno a modo suo, quell'etica civica e politica che dovrebbe essere il più essenziale requisito di un Presidente.
Berto, a quel punto, era entrato in fissa e in attesa delle elezioni, aveva preso a seguire tutti i talk show, cercando in quel bailamme di chiacchiere qualche brandello di comprensione.
Chi avrebbe vinto? Quali sarebbero state le politiche dell'uno o dell'altro? Cosa ci si poteva attendere?
I conduttori guidavano il gioco e come novelli aruspici divinavano il futuro, facendosi forti di traballanti sondaggi. Ma tutto il loro gran parlare era vanificato, agli occhi di Berto, dalla singolare propensione a vaticinare Hillary come la sicura vincitrice dello scontro elettorale. E a palesare un unanime sollievo per l'inevitabile sconfitta di Trump. Ora, era più che plausibile che qualcuno la pensasse a quel modo. Ma quello sembrava un pensiero unico. Nessuno se ne discostava.
Berto, che per natura era diffidente, era insospettito da un così unanime consenso. Chi era Trump? E se era vero tutto quello che si diceva di lui, come aveva potuto cogliere tanto consenso alle primarie?
E, d'altro canto, chi era la Clinton? Poteva davvero guardare dall'alto al basso quel miliardario spocchioso che parlava a ruota libera, disseminando i suoi interventi di offese ed ingiurie? Dove aveva nascosto tutti gli scheletri che avevano costellato la sua carriera politica? Perché nessuno parlava del suo ruolo nella tragedia di Bengasi? O dei finanziamenti opachi che la sua fondazione raccoglieva dai satrapi del Medio Oriente?
Qualcosa non funzionava in quello schieramento monolitico. Berto lo sentiva a pelle. Trump era l'uomo nero e i conduttori lo scacciavano come fanno i bambini: mettendosi le mani davanti agli occhi. Lo delegittimavano, lo irridevano, ne certificavano l'irrilevanza. La sua era solo spazzatura e gli elettori ne avrebbero fatto scempio. E dunque via con i sondaggi, con le mappe colorate di blu e di rosso, con le interviste ai soloni del politically correct. La sentenza era sempre la stessa: Trump aveva già perso.
Poi le elezioni e il colpo di scena: l'Impresentabile aveva vinto e la Predestinata era caduta dal piedistallo.
Le redazioni erano entrate nel panico ma avevano corretto il tiro con invidiabile prontezza.
Trump, di punto in bianco, era diventato meno impresentabile. Vedrete, era tutta propaganda ... Ora che è Presidente cederà al pragmatismo, diventerà più moderato, si rimangerà le promesse ...
Non erano loro che si avvicinavano al vincitore. Era lui che si sarebbe piegato, per liberarsi dagli stereotipi che gli avevano cucito addosso.
Berto assisteva divertito a quei contorsionismi. Il flop dei pronostici non aveva insegnato nulla.
Il pagliaccio era sparito ma il Presidente che ne aveva preso il posto sembrava tutt'altro che remissivo.
Che ci si credesse o no, aveva intenzione di cambiare il mondo. A modo suo, certo, ma senza cedere nemmeno di una virgola a chi gli chiedeva di essere più morbido e malleabile. Non aveva alcuna intenzione di calarsi nelle politiche della Clinton. Quella roba lì, lui voleva cacciarla nella pattumiera della storia e non avrebbe salvato nulla dell'eredità di Obama. Lo aveva promesso e non avrebbe fatto sconti.
Come sempre, Berto valutava i fatti con la bussola del proprio buonsenso.
Trump avrebbe trasformato l'America con l'accetta, non con il cesello. E se questo induceva qualcuno alla speranza, lui se ne sentiva piuttosto spaventato.
Molte delle promesse che quell'uomo andava sbandierando gli sembravano minacciosi avvertimenti. E la sua ostinata avversione per la difesa dell'ambiente lo faceva rabbrividire.
Eppure, sotto sotto, c'era qualcosa che Berto amava in quel bislacco nuovo Presidente: la sua profonda avversione per il Politically Correct.
Smantellare quel risibile galateo della politica, gli sembrava una formidabile innovazione. Avrebbe liberato il campo dall'insopportabile zavorra di un imperforabile conformismo ideologico trasversale.
Berto aveva poche reminiscenze dei suoi fallimentari studi per la conversione, ma ricordava bene una delle massime del Talmud che lo avevano impressionato: l'ammonimento a non forzare la giustizia in favore del povero e a discapito del ricco. Non era quella un'esemplare condanna dei comportamenti tarati non sull'etica ma sulle convenzioni?
Spazzare via quelle convenzioni avrebbe dato nuovo vigore alla politica. L'avrebbe resa più etica. Avrebbe reso più evidente lo spartiacque fra verità e menzogna.
Nel pensar questo, Berto andava con la mente alle oscene sceneggiate delle Commissioni all'ONU, dove la verità era cacciata fuori della porta in forza di un consenso prestabilito. Per essere politically correct i paesi membri accettavano di sottoscrivere le più disonorevoli menzogne e si piegavano alle maggioranze precostituite senza nemmeno gridare il proprio dissenso. Abbattere quel totem, quel simulacro insopportabile di una verità prestabilita, avrebbe ristabilito ad ogni livello gli equilibri della dialettica.
Berto sorrise al faccione di Trump sul piccolo schermo e sollevò verso di lui il bicchiere di whiskey, prima di berne l'ultimo sorso.
Con la sua irruenza, pensava, Trump ha liberato il bimbo che c'è in noi.
E nessuno potrà più impedirci di gridare, quando occorra: "Il re è nudo!"
(Shalom, dicembre 2016)
Il 65% dei palestinesi non vuole soluzione a due stati, il 53% preferisce la lotta armata
Il giornalista arabo israeliano Khaled Abu Toameh sabato scorso ha twittato una serie di dati riguardanti l'opinione pubblica araba e la situazione in Giudea, Samaria e Gaza, tra cui una dichiarazione del presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, che ha fatto sapere di essere pronto a lavorare con l'amministrazione Trump per raggiungere un accordo di pace sulla base di una soluzione a due stati e la disponibilità di riconoscere ad Israele il diritto di esistere. Questo significherebbe che Israele dovrebbe restituire interamente i cosiddetti "territori liberati" del 1967 in cambio del riconoscimento da parte degli stati arabi.
Allo stesso tempo, secondo Abu Toameh, il 64% dei palestinesi vorrebbe le dimissioni di Abbas. Anche se i tweet del giornalista che riportano i risultati del sondaggio risultano senza fonte, Abu Toameh è considerato un professionista affidabile ed imparziale.
Sempre secondo il giornalista, lo stesso sondaggio ha rilevato che il 65% degli arabi che vivono nei territori dell'Autorità Nazionale Palestinesi ritiene che la soluzione a due stati non sia più praticabile e il 62% sarebbe favorevole ad abbandonare gli accordi di Oslo. Addirittura il 53% di loro sarebbe disposto a sostenere una intifada armata contro Israele.
Infine, secondo Abu Toameh, il 37% degli arabi che vivono nei territori dell'Autorità Nazionale Palestinese ritiene che un'azione armata contro Israele possa risultare la soluzione più efficace per ottenere risultati, mentre i negoziati finalizzati a riconoscere uno stato palestinese sarebbero una buona idea solo per il 33% di loro.
Cola a picco quindi la popolarità di Mahmoud Abbas detto Abu Mazen, anche nei territori della cosiddetta West Bank. L'attuale presidente dell'ANP sarebbe considerato troppo moderato dalla maggioranza della popolazione araba palestinese. La maggior parte degli arabi che popolano i territori della Cisgiordania ora rinnega gli accordi di Oslo e soprattutto preferirebbe una lotta armata ad un qualsiasi tentativo di negoziato per giungere alla soluzione a due stati.
((L'informale, 1 gennaio 2017)
Terrorismo a Istanbul: se tutti imparassimo da Israele
Apprendo le notizie dell'attacco terroristico di Istanbul da Tel Aviv, dove ho trascorso un capodanno sentendomi molto sicura. L'Europa dovrebbe capire che una convivenza tra Islam moderato e Occidente è assolutamente possibile, basta visitare Israele per capire come ebrei, cristiani e musulmani possono prosperare nella sicurezza. L'ennesima strage in Turchia dopo quella di Berlino dovrebbe aprirci gli occhi su come si combatte il terrorismo.
di Valentina Rebecca Soluri
Queste mie riflessioni davvero estemporanee potrebbero non essere molto popolari, e non credo che riceverò troppi "mi piace", ma sento comunque il dovere di condividere la mia esperienza, come cittadina europea e anche come giornalista. Scrivo da Tel Aviv, dove ieri sera sono andata a una bella festa di Capodanno, una festa affollata e divertente come migliaia di feste nel mondo, e come quella dove purtroppo hanno lasciato la vita 39 persone a Istanbul. Facciamo un passo indietro.
Un paio di anni fa, durante un mio precedente soggiorno in Israele, la polizia aeroportuale mi ha torchiato per cinque minuti buoni, esclusivamente perché avevo sul passaporto un timbro turco, avendo fatto scalo a Istanbul diretta a un'altra destinazione. Quando, mesi dopo, mi sono accorta un po' alla volta di quanti attentati stavano capitando continuamente in Turchia, ho capito che i servizi segreti israeliani sono davvero eccellenti, perché sapendo che cosa potrebbe succedere, tutelano la sicurezza dei propri cittadini anche a costo di perdere cinque minuti su qualsiasi turista insospettabile, nel mio caso una ragazza alta un metro e sessanta, senza precedenti penali e senza alcuna connessione al mondo musulmano. Oggi leggo naturalmente le prime sciocchezze sul web di qualcuno che vorrebbe vedere un coinvolgimento diretto, indiretto o occulto di Israele persino in questa ennesima folle strage. Chiedo veramente all'Europa di aprire gli occhi.
Aprire gli occhi non significa mettere all'indice la popolazione musulmana, ovvero circa due miliardi di persone; ci rendiamo conto, voglio sperare, che la percentuale di poveri pazzi che si fanno saltare in aria, si schiantano con un tir o fanno una strage con un kalashnikov è assolutamente infinitesimale. Dare inizio a una caccia alle streghe contro i musulmani tout court, recente delirio di molti, sarebbe una reazione politica stupida, cieca e figlia del razzismo e dell'ignoranza. Allo stesso tempo è necessario rendersi conto che esistono frange di Islam radicale che sfuggono completamente al nostro concetto occidentale del bene e del male; sono culture integraliste, mostruosamente violente nei confronti della donna e capaci di provocare centinaia di migliaia di morti - sono 200.000 in cinque anni i morti nello scontro tra sciiti e sunniti in Siria.
Per capire invece che una convivenza tra Islam moderato e Occidente è assolutamente possibile vorrei che tutti visitassero Israele. Vedrebbero che a Gerusalemme vivono, prosperano e commerciano insieme ebrei, cristiani e musulmani; vedrebbero città completamente arabe come Nazareth, dove nessuno mette in discussione il diritto della popolazione araba a vivere esattamente come i cittadini israeliani. Vedrebbero gli arabi israeliani impegnarsi in tre anni di servizio militare obbligatorio esattamente come gli ebrei; e tra parentesi, anche se io parlo per una generazione di pappemolli che il servizio militare in Italia non l'ha proprio visto, vi assicuro che ci si sente più sicuri in un paese dove qualsiasi ragazzo o ragazza è stato addestrato a riconoscere un sospetto, e per esempio a immobilizzarlo. Senza niente togliere all'importanza delle ragioni geopolitiche palesi o latenti che possono essere alla base dei continui attentati in Turchia, viene anche il dubbio che le loro forze di polizia e loro servizi segreti facciano acqua da tutte le parti, e che le famiglie che oggi piangono gli ennesimi morti civili lo debbano anche a una totale incapacità di gestione da parte delle forze di sicurezza.
Forse bisognerebbe anche aprire gli occhi sul fatto che continuare a ostracizzare Israele, ad esempio nelle varie risoluzioni ONU che ultimamente hanno visto scelte quantomeno discutibili, compiute per esempio dagli Stati Uniti, non è altro che un contentino ai paesi arabi signori del petrolio, spesso conniventi con l'Islam fanatico e radicale. Ebbene sì, i nostri governi scambiano un pochino della nostra sicurezza, ai mercatini di Natale, nelle discoteche, negli stadi, per non scontentare chi vende il prezioso oro nero, mentre della reale situazione dei palestinesi state tranquilli che non frega niente a nessuno. Perché altrimenti si capirebbe una buona volta che la popolazione civile palestinese avrebbe ogni interesse, per il momento e nella situazione geopolitica attuale così instabile, a essere governata da Israele anziché da un'autorità autonoma improvvisata che diventerebbe immediatamente satellite dello stato islamico. Ieri un ragazzo che aveva fatto il servizio militare a Gaza mi ha detto queste parole: "non è facile distinguere un terrorista da un civile, e non puoi sparare sui civili, perché il terrorista prende il civile, gli punta una pistola alla testa e poi gli dice, fai questo o quello per me".
Stamattina mi sveglio e leggo di un terribile attentato, e mi trovo a chiedermi se sarebbe potuto succedere anche a me, e mi trovo a rispondermi che per fortuna, probabilmente no, perché qui la polizia e servizi segreti funzionano, e il terrorismo hanno imparato a combatterlo. Le persone della mia età - la generazione nata negli anni '70 e '80 - soffrono ancora pericolosissimi pregiudizi contro Israele (il cosiddetto "antisionismo" che spesso maschera il buon vecchio antisemitismo), ma vi assicuro che chi oggi ha diciotto o vent'anni, gli adulti di domani per intenderci, inizia ad avere idee politiche completamente diverse, e sa di poter mettersi lo zaino in spalla e visitare Israele. Come ho fatto tante volte io, che oggi posso svegliarmi sapendo che mia madre ha dormito sonni tranquilli, mentre sua figlia faceva festa, al sicuro, a Tel Aviv.
(La Voce di New York, 1 gennaio 2017)
Israele, stime esportazioni 2016, più 3 per cento
GERUSALEMME - L'Istituto delle esportazioni israeliano prevede una crescita del settore del 6 per cento nell'anno nel 2017. Lo rivela un rapporto che traccia gli andamenti delle esportazioni di beni e servizi nel 2016, che hanno raggiunto un ammontare di 95 miliardi di dollari. Escludendo i proventi ottenuti dalle start-up e dalla vendita di diamanti, le esportazioni hanno registrato un più 2 per cento nel 2016 rispetto al 2015 (pari ad un valore di 86 miliardi di dollari). Le esportazioni di prodotti high-tech, che secondo le stime rappresentano il 43 per cento del totale delle esportazioni, hanno registrato un più 4 per cento (pari ad un volume d'affari di 41 miliardi di dollari). L'andamento positivo del settore tecnologico è dovuto al rapido incremento delle vendite di computer e software. Secondo le previsioni dell'istituto che monitora le esportazioni, nel 2017 è prevista una crescita del 6 per cento, quando le esportazioni potrebbe raggiungere un volume d'affari di circa 100 miliardi di dollari. Gli esperti prevedono un aumento del 4 per cento nelle esportazioni reali.
(Agenzia Nova, 1 gennaio 2017)
Audizione Seminario Kamea Dance Company - Israele
di Monica Boetti
Kamea Dance Company ha indetto uno speciale seminario audizione nella sede della compagnia a Beer Sheva, in Israele. I candidati selezionati potranno vivere in prima persona l'esperienza diretta della vita in compagnia nelle sue moderne sale danza. Durante i due giorni di seminario i partecipanti avranno l'opportunità di incontrare il coreografo Tamir Ginz, i ballerini e i maestri della compagnia e tutto lo staff.
Alla fine del seminario potrete avere una chiara immagine della vita in una delle compagnie top in Israele. Ai candidati selezionati verrà offerto un contratto per le stagioni 2017-2019.
Il seminario si svolgerà il 2 e 3 marzo 2017 a Beer Sheva (Israele), presso gli studi della Kamea Dance Company, HaShalom 13 Street. Il seminario include:
lezioni di danza classica
lezioni di danza contemporanea
workshops intensivo di repertorio
la possibilità di assistere alle prove di presentazione della compagnia
a colloqui con il direttore artistico Tamir Ginz
interviste per i candidati selezionati.
(Dancehall News, 1 gennaio 2017)
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