Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 16-31 gennaio 2019


Verso un nuovo governo dell'Autorità palestinese

Si è dimesso martedì 29 gennaio il primo ministro palestinese Rami Hamdallah, a capo del governo di riconciliazione nazionale, in carica dal 2013. Il presidente Abu Mazen ha accettato le dimissioni. Si profila un nuovo governo più strettamente legato ad al-Fatah e quindi allo stesso Abu Mazen e composto esclusivamente dalle componenti dell'OLP, senza rappresentanti di Hamas e di Islamic Jihad. Fin da subito però una delle componenti storiche dell'organizzazione, il Fronte democratico per la Liberazione della Palestina, ha annunciato che non prenderà parte al nuovo esecutivo, perché l'esclusione di alcune componenti rappresenta un danno per la causa palestinese e rischia di accentuare la frattura tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Hamas a sua volta critica le scelte di al-Fatah e di Abu Mazen, sostenendo che si tratta di una operazione separatista, che porterà a una ulteriore divisione politica e territoriale della Palestina. La crisi è maturata in realtà proprio dalla difficoltà di arrivare a un accordo che superi lo scontro in atto tra Hamas, che di fatto governa a Gaza, e l'Autorità palestinese che esercita la sua autorità sulla Cisgiordania e gode di un più ampio riconoscimento internazionale. Anche il recente tentativo di mediazione dell'Egitto, che aveva riallacciato contatti con Hamas, è fallito. Tra gli esponenti politici che potrebbero guidare il nuovo governo, i media palestinesi indicano soprattutto l'economista Mohammad Shtaye, il ministro per le Questioni locali Hussein al-Sheikh, l'ex negoziatore Saeb Erekat e il consigliere di Abu Mazen Muhammad Mustafa.

(Atlante, 31 gennaio 2019)



Francia, gli antisemiti a sinistra

di Valentino Baldacci

Per il lettore italiano il maggior interesse del libro di Michel Dreyfus ("L'antisemitismo a sinistra in Francia", Edizioni Free Ebrei, Torino 2018) consiste nel poter verificare quanto più profonde - rispetto al nostro Paese - sono state in Francia le radici dell'antisemitismo moderno, sia di quello di destra, coltivato dagli ambienti cattolici e nazionalisti, sia quello di sinistra, nato ad opera di intellettuali che si situavano all'interno del movimento socialista e diffuso anche nel mondo operaio.
  Pur facendo qualche riferimento all'antisemitismo presente anche in testi settecenteschi - Voltaire, d'Olbach, alcuni Enciclopedisti - Dreyfus mette a fuoco soprattutto l'antisemitismo che a sinistra si sviluppò nel corso dell'800, soprattutto ad opera di Alphonse Toussenel e di Pierre-Joseph Proudhon, seguiti da numerosi seguaci ed epigoni. Tutto il socialismo francese dell'800 è attratto dalla figura di James de Rothschild, intorno al quale viene costruito lo stereotipo del banchiere ebreo che domina tutta l'economia francese e non solo. Lo "spirito ebraico" viene fatto consistere nella rapacità, nella volontà di accumulare enormi ricchezze a danno dei più poveri e conseguentemente nella capacità di controllare, insieme all'economia, la politica e quindi l'opinione pubblica.
  Alla costruzione da sinistra dello stereotipo antisemita fa riscontro a destra un'analoga costruzione che si nutre dei miti nazionalistici, di cui l'espressione più nota è l'opera di Edouard Drumont ("La France juive") che ebbe un successo straordinario e che mise in evidenza quanto la Francia profonda fosse pronta ad accogliere la tesi di un mondo ebraico che controllava tutti i gangli della vita del Paese.
  Secondo Michel Dreyfus fu, alla fine del secolo, il "caso Dreyfus" (la vicenda del capitano Alfred Dreyfus ingiustamente accusato di tradimento, condannato e poi riabilitato definitivamente soltanto nel 1906) che segnò uno spartiacque e consentì un'inversione di tendenza: da allora l'antisemitismo di sinistra è stato, a parere dell'autore, in costante declino, ed è stato coltivato soprattutto in ambienti dell'estrema sinistra, sindacalisti rivoluzionari e anarchici in particolare, mentre il Partito socialista (SFIO), che nasce nei primi anni del '900, ha teso sempre più a metterlo ai margini.
  Questa tendenza si interrompe e anzi si capovolge negli anni '30 del Novecento con l'affermarsi, nella sinistra, del pacifismo, nato come reazione alle immani perdite umane subite dalla Francia durante la I guerra mondiale. L'autore mette efficacemente in evidenza come il pacifismo sviluppi dentro di sé tendenze antisemite in quanto attribuisce agli ebrei la responsabilità di rifiutare ogni accordo con la Germania hitleriana in nome della difesa dei propri correligionari perseguitati dai nazisti. Questa è una delle parti più interessanti del libro, perché permette di comprendere l'apparente paradosso dell'adesione al regime pétainista di Vichy di un numero significativo di uomini politici e di intellettuali di origine socialista o comunque di sinistra.
  Con la fine della guerra e la nascita dello Stato d'Israele lo scenario cambia radicalmente. Quest'ultima parte del volume è la più discutibile, come è messo in evidenza dal titolo di uno degli ultimi capitoli: "Dalla Liberazione al 1968: la scomparsa dell'antisemitismo fra i socialisti e i comunisti". Si può sostenere questa presunta "scomparsa" solo a condizione di non considerare l'antisionismo e conseguentemente il rifiuto dell'esistenza dello Stato d'Israele come la forma contemporanea dell'antisemitismo. Ma in realtà a sinistra le cose stanno in maniera più complessa: mentre i socialisti - dopo la scivolone di Vichy - rinnovano la loro cultura politica e si schierano decisamente a favore dello Stato d'Israele, lo stesso non si può dire del Partito comunista che già dal 1949 segue la scia dell'URSS e sarà costantemente non solo ostile allo Stato ebraico ma addirittura accetterà la deriva antisemita che si manifesta in Unione Sovietica e nei Paesi satelliti nell'ultima parte della vita di Stalin.
  In realtà Michel Dreyfus è molto indulgente con i comunisti francesi, fino ai nostri giorni, sostenendo che raramente si trovano nelle parole dei leader del PCF espressioni che appartengono al lessico antisemita tradizionale. Quello che Dreyfus sembra non comprendere è che il rifiuto del diritto del popolo ebraico ad avere un proprio Stato è una forma - la più estrema - di antisemitismo, così come lo è il negare a questo Stato il diritto a difendersi.
  Più lucida è invece l'analisi del negazionismo, di cui si mette in evidenza proprio la radice di sinistra con Paul Rassinier, Pierre Guillaume e la rivista e casa editrice "La Vieille Taupe", punto di riferimento di tutto il negazionismo e l'antisemitismo di sinistra, largamente praticato nei gruppuscoli di estrema sinistra, mettendo in evidenza il ruolo di Roger Garaudy, che dopo una lunga militanza nel Partito comunista, iniziata negli anni '30 del Novecento, precipita nella denuncia del "complotto sionista", accompagnata dalla conversione all'Islam.
  Infine, maggior approfondimento avrebbe meritato una citazione da Pierre-André Taguieff - riportata da Michel Dreyfus - che ha parlato di «strumentalizzazione giudeofoba dell'antirazzismo» proveniente da «uno spazio islamo-gauchista che "nazificherebbe" Israele». Al di là del gergo usato, è innegabile che esista un problema di saldatura tra le derive antisioniste dell'estrema sinistra e una massiccia presenza islamica, ovviamente ostile allo Stato d'Israele. Che questa saldatura possa avvenire in nome di un "antirazzismo" che produce tesi e comportamenti antisemiti è testimoniata - più che da testi teorici - dagli slogan e dagli striscioni esibiti nel corso di numerose manifestazioni di piazza, e non solo in Francia.

(moked, 31 gennaiio 2019)



Bergoglio la spara grossa: "Gli Emirati Arabi modello di convivenza e fratellanza"

Dal 3 al 5 febbraio Papa Francesco è negli Emirati Arabi Uniti, un viaggio storico. E' la prima volta che un papa atterra ad Abu Dhabi una delle "petromonarchie" più ricche della penisola arabica.

Stavolta Bergoglio la spara proprio grossa. Nel video messaggio in vista del suo viaggio negli Emirati Arabi Uniti dichiara: "Gli emirati sono un modello di convivenza, di fratellanza umana e d' incontro tra diverse civiltà e culture". Ma Amnesty International, che ogni tanto si occupa sul serio di diritti umani, non la pensa così. Secondo l'ultimo rapporto 2017/2018 nel Paese islamico dove vige la sharia, è ancora in vigore la pena di morte e la libertà di espressione, i diritti delle donne e di culto vengono calpestati quotidianamente.

 Il videomessaggio del Papa
«Sono felice di poter visitare, tra pochi giorni, il vostro Paese, terra che cerca di essere un modello di convivenza, di fratellanza umana e d' incontro tra diverse civiltà e culture, dove molti trovano un posto sicuro per lavorare e vivere liberamente, nel rispetto delle diversità», ha detto il Pontefice in un videomessaggio rivolto agli Emirati.
Il Pontefice ha ringraziato Mohammad bin Nayef, cioè il fratello del sovrano, più giovane di lui di tredici anni che sarebbe il vero artefice dell'invito rivolto a Francesco.

 Tolleranza e Sharia
  Da anni si parla della tolleranza religiosa molto più accentuata qui che altrove nella penisola arabica. Tuttavia gli Emirati sono uno stato in cui la religione regola ancora le norme principali dell'ordinamento, anche qui è in vigore la Sharia, ossia la legge islamica posta alla base della giurisprudenza locale.

(Riscatto Nazionale, 31 gennaio 2019)



Ministro della Scienza brasiliano visita in Israele le centrali per la desalinizzazione dell'acqua

BRASILIA - Terzo giorno di missione in Israele per il ministro della Scienza e tecnologia brasiliano, Marcos Pontes. Il ministro si trova nel paese mediorientale con una delegazione di tecnici del ministero, con l'obiettivo di espandere la cooperazione scientifica e tecnologica con Gerusalemme, per conoscere le iniziative che trasformano la ricerca in innovazione e tecnologie applicate per migliorare la qualità della vita della popolazione e generare ricchezza per il paese. Dal suo account twitter il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, ha salutato all'iniziativa del ministro Pontes "La sua visita ha come obiettivo sviluppare partnership da poter portare in Brasile. Tutti guadagniamo alla fine. La scienza e la tecnologia a favore dell'economia e dello sviluppo del nostro paese" ha scritto il Bolsonaro.

(Agenzia Nova, 31 gennaio 2019)


Gantz punta sulla sicurezza e raddoppia i consensi

di Giordano Stabile

Benny Gantz mostra subito fiuto politico e quasi raddoppia i consensi dopo la prima grande uscita, la convention di Tel Aviv che ha lanciato la sua candidatura a premier. Il discorso di martedì sera non è piaciuto a molti commentatori, ma l'ex comandante delle Forze armate ha saputo toccare le corde dell'elettorato, con una postura da inflessibile difensore della sicurezza di Israele e una presa di posizione netta contro la «corruzione» fino all'attacco frontale al primo ministro Benjamin Netanyahu sul tema degli scandali.

 Il vento in poppa nei sondaggi
  I sondaggi condotti nella giornata di ieri hanno così registrato uno spostamento di consensi impressionante a favore del generale di ferro. Il suo partito, Hosen I'Ysrael, è accreditato ora di 24 seggi sui 120 della Knesset, con un aumento di otto rispetto alle precedenti rivelazioni. Non solo, il distacco nelle preferenze su chi debba essere il prossimo premier si è ridotto di un solo punto, con Netanyahu che riceve il 36 per cento dei consensi contro il 35 di Gantz. Erano anni che non si vedeva una sfida così serrata. A livello di partiti il Likud resta in testa con 31 seggi previsti nella prossima Knesset, ma una eventuale alleanza fra il partito di Gantz e quello dell'ex star televisiva Yair Lapid, Yesh Atid, otterrebbe 35 seggi se il generale fosse indicato come candidato premier. Ciò significa che Netanyahu ha uno sfidante serio e pericoloso, tanto più un altro sondaggio lo dà perdente se il procuratore generale Avichai Medelblit dovesse annunciare la sua decisione di incriminarlo per corruzione.
  Sarebbe un assist micidiale a Gantz. Nel suo discorso ha precisato che Netanyahu «non potrà governare» se incriminato. Anche se ama ripetere che il suo programma incentrato sullo slogan «prima Israele» non è «né di destra né di sinistra», il generale ha scavalcato a destra il premier sul tema della sicurezza. Lo ha accusato di «aver stretto la mano all'assassino seriale Arafat», e di fronte alla crisi di Gaza si è addirittura vantato di aver «riportato all'età della pietra» la Striscia durante l'ultima campagna militare nell'estate del 2014.
  La sinistra laburista, dopo la rottura fra il leader Avi Gabbay e l'ex ministro degli Esteri Tipzi Livni, sembra fuori dai giochi e alcuni sondaggi la danno addirittura sotto la soglia minima dei 4 seggi. Il nuovo quadro politico preoccupa i palestinesi, che rischiano di dover trattare dopo il voto del 9 aprile con il governo israeliano più intransigente di sempre. Il presidente Abu Mazen prepara un nuovo governo senza più ministri di «area Hamas», dopo le dimissioni del premier Rami al-Hamdallah. Una rottura totale con Gaza, ormai abbandonata da tutti.

(La Stampa, 31 gennaio 2019)


Strappo Israele-Onu: soldati via da Hebron, compresi gli italiani

di Fiamma Nirenstein

C' era una volta una forza dell'Onu che doveva tenere a bada la situazione di Hebron, uno dei punti più delicati del conflitto israelo-palestinese. Il suo none: Tiph, Temporary international presence in Hebron, ma era temporanea per modo di dire dato che esisteva dal 1979. Ovvero, ancora esiste, ma un paio di giorni fa Netanyahu stesso ha annunciato che non rinnoverà questa presenza, che deve essere confermata ogni sei mesi: andranno a casa norvegesi, svedesi, svizzeri, turchi e anche italiani, nel dispiacere del ministro degli Esteri italiano Moavero che ha espresso «rammarico» durante una sua visita di tre giorni a Gerusalemme e poi nell'Autonomia Palestinese. Ma perché rammaricarsi? In realtà, non c'è di che, certo la Tiph non ha promosso simpatia né dialogo.
   Dall'inizio questa forza ha avuto una posizione fortemente protettiva e amichevole nei confronti dei palestinesi, che per altro a Hebron hanno una forte roccaforte di Hamas e una base terrorista, ma a quel tempo ce n'era una buona ragione: la Tiph fu istituita quando un assassino ebreo, il famigerato Baruch Goldstein, un residente del sobborgo di Kiriat Arba, compì una strage di 29 musulmani in preghiera nella moschea sita nella sinagoga costruita sulla Tomba di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nel 1997, dopo una trattativa lacrime e sangue, fu proprio Netanyahu a cedere all'Autorità Palestinese l'80 per cento della città in cui vivevano 220mila palestinesi, e Israele mantenne il controllo sul 20 per cento, con una comunità molto determinata e religiosa di persone che sono stati trattati come criminali dal mondo intero e chiamati con disprezzo «coloni» solo per la loro scelta di seguitare a pensare che la città biblica dei patriarchi sia anche ebraica. Oltretutto nel 1929 fu sede di un orrido pogrom arabo contro gli ebrei. La Tiph ha trattato i cittadini ebrei di Hebron, spiegano loro, come fossero tutti epigoni di Baruch Goldstein, sospettati di violenza e tenuti a bada mentre i palestinesi venivano coccolati. Si sono viste foto di un bambino ebreo schiaffeggiato da un membro della Tiph e anche gomme squarciate dai tutori dell'ordine.
   Le denunce degli abitanti di Hebron si sono susseguite; la presenza della Turchia, odiatrice professionale di Israele, le evidenti preferenze per i palestinesi, sono diventate sempre più pesanti. I leader della Judea e della Samaria hanno insistito perché in campagna elettorale si prendono decisioni rimuginate a lungo, il ministro degli Affari strategici Gilad Erdan ha consegnato a Netanyahu un rapporto che prova che i membri della Tiph creano deliberatamente incidenti, e comunque gli attacchi anche letali a ebrei a Hebron e dintorni non sono mai stati prevenuti. Così come non sono mai state prevenute dall'Unifìl le azioni degli Hezbollah contro Israele, nemmeno la laboriosa e evidente costruzione delle gallerie sul confine del Libano. Che l'Onu non abbia nessuna simpatia per Israele? E che Israele si sia stufata di subire le sue inutili vessazioni? Sembrerebbe dimostrarlo la fuoriuscita dall'Unesco. E adesso la conclusione della storia della Tiph.

(il Giornale, 31 gennaio 2019)


Leggi razziali, al liceo Visconti targa in ricordo dei 58 alunni ebrei cacciati

Stamani la cerimonia: è la prima scuola italiana a compiere questo atto di giustizia verso le vittime della discriminazione: avevano dagli 11 ai 18 anni e nel settembre 1938 furono cancellati dai registri.

di Roberto Della Seta

Il liceo Visconti in piazza del Collegio romano
Questa mattina nel cortile del liceo Visconti verrà scoperta una targa con 58 nomi: delle ragazze e dei ragazzi dagli 11 ai 18 anni che nel settembre 1938 furono espulsi dalla scuola per le leggi razziali.
   È la prima volta che una scuola italiana compie un gesto così. Per il Visconti, liceo romano a pochi passi dal Ghetto, questa del '38 fu quasi una decimazione. Cinquantotto alunni si ritrovarono da un giorno all'altro cancellati dai registri già pronti per l'inizio dell'anno scolastico; trasformati per legge in «non cittadini». Tra loro c'erano mio padre Piero, 16 anni, sua sorella Giovanna, 13 anni, molti loro cugini e moltissimi loro amici. Tra loro c'erano anche Giancarlo Della Seta e Lello Frascati, 11 anni tutti e due, che cinque anni dopo, il 16 ottobre 1943, figureranno nell'elenco dei 1023 ebrei romani «rastrellati» dai tedeschi nel Ghetto e deportati a Auschwitz. Torneranno vivi in 16: né Giancarlo né Lello.
   In quel settembre di 71 anni fa per i 58 espulsi del Visconti, come per altre migliaia di bambini e ragazzi italiani cacciati da scuola perché ebrei, cominciò un cammino di sofferenza lungo degli anni, sempre più incerto e doloroso fino alla Liberazione. Anni passati prima da «invisibili» - ignorati ed evitati dal mondo di amici, compagni di scuola, vicini di casa non ebrei che fino al giorno prima consideravano il loro mondo - e alla fine sotto l'occupazione nazista da «clandestini». Qualcuno - Giancarlo, Lello - finì sommerso dalla tragedia della Shoah, la maggioranza le sopravvisse e più d'uno tra i sopravvissuti - Gino Fiorentino morto di recente, Piero Piperno, che stamattina racconterà la sua esperienza davanti alla targa con anche il suo nome - s'impegnerà per tenere vivo tra gli italiani, soprattutto tra i giovani, il ricordo di allora. Nella vita di tutte le vittime, dei «sommersi» come dei «salvati», il settembre delle leggi razziali segnò la fine dell'innocenza. Onorarne i nomi è un atto di giustizia. Per me e spero per tanti è anche un atto di ribellione civile contro l'antisemitismo e il razzismo, che continuano, ed è un atto di speranza in un futuro senza più invisibili e clandestini.

(Corriere della Sera, 31 gennaio 2019)


"La Bbc deve boicottare l'Eurovision". Perché? Ma è ovvio, perché sarà in Israele

L'appello del (solito) manipolo di intellettuali britannici

ROMA - Quest'anno l'Eurovision sarà ospitato da Israele. Così deve essere, la passata competizione musicale è stata vinta dall'israeliana Netta Barzilai e il regolamento prevede che sia il paese dell'ultimo vincitore a organizzare l'evento successivo. Ma si tratta di Israele - già l'anno scorso la povera Barzilai era stata accusata di tutto, anche di appropriazione culturale soltanto per essersi presentata sul palco vestita da giapponese -, la nazione che sempre, qualsiasi cosa faccia o dica, si trascina dietro critiche prevedibili e scriteriate. Così un manipolo di esponenti della cultura britannica ha inviato una lettera alla Bbc per chiedere all'emittente televisiva di cancellare la copertura dell'evento perché anche se l'Eurovision dovrebbe essere "intrattenimento, non si può essere esenti dal fare considerazioni sui diritti umani". E hanno aggiunto i firmatari: "Non possiamo ignorare la sistematica violazione israeliana dei diritti umani palestinesi". Da Vivienne Westwood a Peter Gabriel, da Mike Leigh a Julie Christie, da Maxine Peake a Roger Waters, la lettera accorata, che segue una già inviata a settembre del 2018 per chiedere agli organizzatori del festival di trasferire il concorso in un paese che ha "un rispetto maggiore per i diritti umani", chiede all'emittente di boicottare lo stato ebraico. La prossima settimana, Londra sceglierà il nome dell'artista che rappresenterà la nazione al festival e lo farà nell'ambito di una trasmissione sempre della Bbc, dal titolo "You decide", "Tu decidi". Il titolo del programma ha offerto ai firmatari lo spunto per una riflessione che rivela la mancanza di buon senso contenuta nella lettera: "Per qualsiasi artista dotato di coscienza, questo - rappresentare la propria nazione in Israele-sarebbe un dubbio onore. Loro e la Bbc dovrebbero prendere in considerazione che 'You decide' -Tu decidi-, non è un principio esteso ai palestinesi che non hanno la possibilità di decidere di mandare via l'occupazione militare israeliana e di vivere liberi dall'apartheid".
   Eurovision è un evento musicale, nato con lo scopo di offrire un programma televisivo che attraverso la musica unisca e coinvolga vari paesi. Chiedere di boicottare, oscurare, condannare il festival perché si svolge in un paese che ancora lotta per la propria esistenza, tradisce lo scopo stesso del concorso. Questa lettera si aggiunge alla serie di iniziative - di recente la Malaysia ha vietato l'ingresso agli israeliani alle Paraolimpiadi del 2020- contro Israele, uno stato democratico che le campagne di boicottaggio promosse da personaggi della cultura insegnano a odiare.

(Il Foglio, 31 gennaio 2019)


L’esercito israeliano sconfina nel sud del Libano

di Lorenzo Forlani

BEIRUT - L'Esercito israeliano stamattina ha compiuto una breve incursione in territorio libanese, oltre il fiume Wazzani, affluente del fiume Giordano. Una quindicina di soldati israeliani - secondo quanto riporta l'agenzia di stampa libanese NNA - hanno attraversato la ringhiera di separazione sul confine israelo-libanese e hanno fatto ingresso nel distretto di Marjayoun, con il fine di setacciare l'area.
   Secondo i primi resoconti l'operazione - avvenuta a pochi metri da una pattuglia dell'Esercito libanese dislocata nell'area - sarebbe durata circa un'ora, con la partecipazione di alcuni cani poliziotto e sotto la sorveglianza di un drone, che ha invaso lo spazio aereo libanese nei pressi dei villaggi di Ghajar e al Abbasieh (distretto di Tiro), oltre che sopra il versante occidentale delle Shebaa Farms, attualmente occupate dalle Israeli Defense Forces.
   A pochi chilometri, le escavatrici israeliane hanno continuato i lavori di rafforzamento del muro tra il villaggio di Al Odeisseh e il kibbutz israeliano di Miskav Am. Alcuni soldati dell'Esercito libanese sono stati inviati sul posto per monitorare i lavori israeliani, che Beirut considera una violazione della propria sovranità territoriale.

(ParsToday, 31 gennaio 2019)


L'Ucraina indice una festa nazionale in onore del militante antisemita

L'esecutivo di Gerusalemme ha espresso "costernazione" per la volontà ucraina di "celebrare i campioni dell'antisemitismo"

di Gerry Freda

Tra Ucraina e Israele si è aperto in questi giorni un duro scontro diplomatico a causa dell'introduzione, da parte del parlamento di Kiev, di una festa nazionale dedicata a un "militante antisemita".
   L'assemblea legislativa dell'ex repubblica sovietica ha infatti di recente designato il primo gennaio "solennità patriottica". In tale giorno, nel 1909, nasceva Stepan Bandera, esponente nazionalista e antisemita ucraino, il quale, durante la Seconda guerra mondiale, si sarebbe schierato al fianco della Germania hitleriana. Durante l'occupazione nazista dell'Europa orientale, costui, in base alle ricerche storiografiche, avrebbe collaborato con gli invasori tedeschi ai rastrellamenti degli ebrei. Dopo il conflitto, egli avrebbe lasciato l'Ucraina per emigrare a Monaco di Baviera, dove avrebbe fondato un movimento anticomunista e dove, nel 1959, sarebbe stato assassinato dal Kgb.
   La consacrazione del primo gennaio al ricordo del militante filo-Hitler è stata proposta, all'interno del parlamento di Kiev, dal Partito radicale e dal movimento Batkivshchyna (Madrepatria), formazioni politiche nazionaliste. I promotori dell'iniziativa in questione l'hanno presentata come "diretta a celebrare, dopo anni di oblio, un pioniere dell'indipendentismo ucraino". Il disegno di legge presentato dai due partiti ha rapidamente riscosso un consenso trasversale, nonostante le reiterate condanne pronunciate dall'ambasciatore israeliano e dai vertici Ue.
   Prima della decisione parlamentare di designare il primo gennaio a "festa nazionale" in ricordo di Bandera, l'organo legislativo dell'ex repubblica sovietica avevano indetto celebrazioni in onore di altri esponenti nazionalisti indiziati dalla storiografia mondiale di "collaborazionismo" e di "antisemitismo". Ad esempio, nei primi giorni di gennaio tale assemblea aveva accordato finanziamenti per la realizzazione di un monumento a Symon Petliura, indipendentista ucraino responsabile, negli anni Venti del Novecento, dell'organizzazione di "pogrom antiebraici".
   Petro Poroshenko, presidente del Paese slavo, non ha rilasciato commenti sulla decisione del parlamento nazionale, mentre l'esecutivo di Gerusalemme ha espresso "costernazione" per quest'ultima. Ad esempio, Tzipi Hotovely, viceministro degli Esteri dello Stato ebraico, ha bollato come "rivoltante" la volontà di Kiev di "onorare i campioni dell'antisemitismo" e ha ventilato addirittura l'ipotesi di "rivedere in maniera significativa" le relazioni diplomatiche tra Israele e Ucraina.

(il Giornale, 31 gennaio 2019)


L'informazione rifiutata

Intervista a Silvana Calvo, autrice del libro "L'informazione rifiutata. La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del genocidio degli ebrei".

di Gian Mario Gillio

 
Silvana Calvo
«Le notizie sulla reale situazione della popolazione ebraica nell'Europa tra il 1933 e il 1945 erano note in Svizzera: le deportazioni naziste e fasciste, le vessazioni, le leggi anti-ebraiche e i sentimenti antisemiti. Queste notizie arrivavano grazie alle agenzie di stampa estere, alleate, dai paesi dell'Asse, e soprattutto dalle agenzie tedesche. L'antisemitismo allora non era "un fatto" da tenere nascosto come potremmo immaginare oggi, tutt'altro, era "sbandierato" con enfasi per fare propaganda e ottenere consensi», rileva la professoressa Silvana Calvo che, introdotta da Maria Ludovica Chiambretto dell'associazione Aec (Amicizia ebraico cristiana) di Torino, ha raccontato le sue ricerche (sfociate in diversi libri, l'ultimo è proprio L'informazione rifiutata - la Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del genocidio degli ebrei, Silvio Zamorani Editore) a Torino, partecipando a due appuntamenti: uno presso la Comunità ebraica e l'altro, all'Università della terza età. Incontri importanti perché avvenuti alla viglia del 27 gennaio: il Giorno della memoria e del ricordo della Shoah.
  Riforma.it ha colto l'occasione per incontrarla e farle alcune domande.

- Da lungo tempo lei si occupa di razzismo e di antisemitismo nel Novecento, in particolare di Shoah e della situazione degli ebrei in Svizzera. Perché ha deciso di dedicare un focus particolare alla stampa con l'ultimo suo libro?
  «Proprio per indagare in profondità la relazione tra il mondo dell'informazione e i comportamenti della politica e della società. Un'indagine che si potrebbe fare nell'Europa di oggi per fotografarne l'attualità. Il mio libro, invece, propone analisi e ricerche sulla comunicazione in Svizzera negli anni tra il 1938 e il 1945. Seppur mai censurata completamente l'informazione visse come in Europa momenti bui. Già nell'estate del 1942 molti giornali riportavano notizie sul reale numero di ebrei uccisi dai nazisti, sino a quel momento un milione. Poi, la Dichiarazione congiunta anglo-russo-americana apparsa nel mese di dicembre, citava esplicitamente lo sterminio della popolazione ebraica, e non solo di quella ebraica, accusando i tedeschi di aver trasformato la Polonia in un "mattatoio". A partire dal 1943 i dispacci d'agenzia iniziarono a riportare i numeri di tale tragedia, 2 milioni, 3 milioni, 4 milioni, fino a 5 milioni di ebrei uccisi. Non si parlava solo dello sterminio, le notizie svelavano le deportazioni, la vita nei ghetti, le esecuzioni; insomma, ogni aspetto del dramma che si stava consumando in Europa, dunque nei vicini confini svizzeri. L'eco mediatica della tragedia, dunque raggiungeva la Svizzera neutrale».

- Tutto era chiaro e risaputo sin dall'inizio?
  «Certamente. L'antisemitismo fu usato come mezzo di propaganda per ottenere il potere e per "insinuarsi" anche nelle terre conquistate e da conquistare. In Svizzera il Governo aveva deciso di non abolire del tutto la libertà di stampa, ma il Consiglio Federale il 26 marzo del 1934 emise il primo decreto che, di fatto, ne riduceva la libertà. Ribadendo che gli organi di stampa che "per gravi infrazioni avessero messo in pericolo le relazioni della Svizzera con altri Paesi avrebbero subito un richiamo, e nel caso di mancato adeguamento, sarebbe sopraggiunta la sospensione, dapprima temporanea". Fu certamente la risposta utile per porre fine alle continue recriminazioni che giungevano da Berlino che riteneva vi fossero ostilità nei confronti di Hitler e del nazismo, il Governo Federale decise di imporre una sorta di "autocensura preventiva" per evitare che qualsiasi commento o giudizio morale potesse essere espresso da giornalisti, per evitare eventuali problemi diplomatici».

- Sino al quel momento la stampa svizzera criticava il regime nazista dunque?
  «Molti giornali, allora, non risparmiarono critiche sul loro "vicino arrogante" - così veniva talvolta definita la Germania nazista - e all'ideologia che ne aveva permesso l'espansione. Anche i metodi intimidatori messi in atto dalla Wehrmacht non erano tollerati, tantomeno dalla stampa. La Svizzera, seppur non temesse che la Germania potesse invaderla, ne temeva la propaganda, che stava penetrando con estrema facilità».

- La popolazione ebraica residente in Svizzera come visse quella situazione?
  «Nel settembre del 1939 in Svizzera c'erano circa diecimila ebrei in possesso del passaporto rossocrociato e novemila ebrei stranieri con il permesso di domicilio: in tutto poco meno dello 0,5% della popolazione. Otre a questi, cinquemila persone erano emigranti con un permesso provvisorio "di tolleranza" e si trattava di nuovi arrivati, fuggiti dal nazismo prima dello scoppio della guerra. Nel corso del tempo altri se ne sarebbero aggiunti, varcando la frontiera. Tutti, ovviamente, erano spaventati perché consapevoli di cosa stesse accadendo ai loro parenti e agli amici sparsi in Germania, in Francia, in Austria; temevano per le vite dei loro cari. L'Organo rappresentativo di tutto l'ebraismo all'epoca era la Federazione svizzera delle comunità israelitiche guidata da Saly Mayer, il quale sosteneva che gli interessi degli ebrei dovessero essere negoziati al vertice, dunque proprio con i rappresentanti delle Istituzioni. Le élite ebraiche erano consapevoli della diffidenza riservata loro, anche nella Svizzera "neutrale", e furono costretti a giustificare molte decisioni governative anche svantaggiose per non dover accusare ulteriori ripercussioni; fu per questo motivo che decisero di non mettere mai in discussione, o criticare, i "valori svizzeri" di allora: la neutralità e la lotta contro l'inforestierimento (termine utilizzato prevalentemente in Svizzera per indicare un aumento giudicato eccessivo della percentuale di stranieri rispetto alla popolazione indigena, ndr)».

- Quanti ebrei in fuga riuscì ad accogliere la Svizzera in quegli anni?
  «Gli ebrei profughi entrati in Svizzera nel corso della guerra furono 21.300; più di seimila gli emigranti (sempre ebrei). Solo poche decine di persone poterono entrare prima dell'estate del 1942, la quasi totalità vi riuscì nella seconda metà del periodo bellico. La Svizzera non fu sempre accogliente, infatti decise di bloccare gli ingressi nel paese, dapprima chiudendo il transito alla frontiera con L'Austria, poi edificando nel suo territorio campi di lavoro per profughi».

- Furono scelte governative... la popolazione svizzera come reagì?
  «Era necessario contrastare la propaganda mediatica in aumento e alcune azioni mirate furono utili per far passare una corretta informazione, scevra da condizionamenti politici e bellici. Oltre alla radio, al cinema, ai giornali, alle conferenze promosse dall'Esercito e Focolare, la sezione dell'esercito della Pro Helvetia - riorganizzata nel 1941 con lo scopo di informare la società svizzera -, la popolazione poté ricevere un'informazione più veritiera e diversa da quella propagandistica. Inoltre, l'informazione filtrava anche attraverso altri canali, indiretti, ad esempio attraverso le chiese e i luoghi di culto protestanti. Una figura di spicco in tempo di guerra fu infatti quella del pastore protestante evangelico Paul Vogt, un religioso combattivo che decise di contrastare l'antisemitismo, e di spendersi, in prima persona, per favorire l'accoglienza dei profughi ebrei. Il 24 agosto del 1942 dopo il blocco delle frontiere ai profughi, Vogt seppe conquistare una "mezza vittoria": far rinunciare alle autorità di espellere i profughi già presenti nel Paese. Nelle settimane successive, ebbe poi un grande impatto L'Azione dei posti liberi messa in atto dal pastore per convincere 732 famiglie svizzere ad offrire ospitalità e cure a 1.320 profughi. Attraverso i suoi sermoni, il pastore Vogt denunciò apertamente lo sterminio degli ebrei, difese i profughi, smosse le coscienze e pubblicò testi e rapporti sia sulla condizione ebraica, sia su quella dei profughi ungheresi, testi che decise di inviare anche a Benjamin Sagalowitz, allora animatore di un'attivissima agenzia d'informazione».

- Mentre da una parte pastori e preti e società civile si muovevano per fermare le violenze la Croce rossa - fondata da Jean Henri Dunant nel 1863 - la cui fama di organizzazione indipendente e sopra le parti fu smentita dai fatti. Come mai?
  «Ho dedicato quasi trenta pagine del libro al ruolo della Croce Rossa che fu davvero discutibile in tempo di guerra. Quanto agli ebrei, l'esclusione dalla loro tutela, da parte della Croce Rossa, fu decisa dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr). Gli ebrei erano allora considerati "soggetti tabù per i tedeschi e soggetto difficile per la dottrina della Croce Rossa. Gli israeliti non costituivano una nazione né nel diritto internazionale, né agli occhi del diritto umanitario e del Cicr", quest'ultimo non avrebbe dunque potuto, così si sosteneva allora, "prendere in considerazione il criterio razziale, in quanto principio d'azione, senza entrare in contradizione con la sua dottrina". Tuttavia la Croce Rossa ebbe un ruolo importante in altre Nazioni, non quella tedesca completamente assoggettata a Hitler, nel divulgare notizie sul dramma che si stava consumando sotto la piaga nazista. Ci fu una cosa per la quale in Svizzera fu fiera della Croce Rossa, seppur parzialmente, l'azione a favore dei bambini vittime della guerra, oltre 60.000, ma anche in questo caso, però, non furono soccorsi i bambini ebrei».

- Gran parte della società civile svizzera non restò a guardare.
  «No, furono tanti gli episodi di solidarietà e di accoglienza messi in atto. Ne ricordo sempre uno in particolare: ventidue ragazze di una scuola media di Rorshach in Svizzera ai confini con l'Austria e la Germania nel settembre del 1942 scrissero una lettera al Consiglio Federale di Berna nella quale lamentavano il respingimento degli ebrei che, fuggiti dalle persecuzioni razziali, venivano rispediti nella Germania dalla quale erano scappati. La giovane Heidi Weber a nome di tutte scrisse: "…Non ci saremmo mai immaginate che la Svizzera, l'Isola di pace che pretende di essere, misericordiosa, avrebbe ributtato, come bestie, oltre la frontiera, questi miseri esseri infreddoliti e tremanti". A questa lettera che poteva rimanere "una lettera morta" rispose invece il Consigliere Federale svizzero Von Steiger, reagendo malamente e dimostrando tutte le responsabilità. Proprio come accade oggi in materia di accoglienza a rifugiati e richiedenti asilo Steiger scrisse alla piccola Heidi: "Sai che finora sono stati spesi per i profughi più di 17 milioni di franchi?….Sai che prevediamo una futura disoccupazione? Sai che se accogliamo altre migliaia di profughi ognuno di essi vorrà e avrà bisogno di lavorare…. Sai che da noi s'infiltreranno elementi ambigui? Che tra questi profughi abbiamo trovato spie e agenti stranieri…."».

- Dunque, cosa ci insegna la storia?
  «La storia può insegnare, ma è bene conoscerla veramente. La storia è utile per riflettere e per ragionare su ciò che è stato, per comprendere le azioni e le cause che determinarono percorsi ed eventi. Rileggendo la storia è possibile trarre un prezioso insegnamento, quello di non ripetere gli errori del passato».

- E ai giovani di oggi, quale consiglio darebbe?
  «Di non accontentarsi, di non intraprendere solo percorsi semplici, veloci; di non accettare le soluzioni più facili; di soffermarsi a riflettere sulla complessità delle cose che li circondano. Di non agire come tifoserie, seguendo solo i facili slogan. Di studiare, sempre, anche la storia. Di essere curiosi e di leggere i segni dei tempi. Di cercare il senso nelle cose, di custodire la propria e l'altrui memoria. Di ricevere le informazioni con capacità critica, di andare a scavare oltre la notizia. Di rifiutare l'assuefazione all'indifferenza. Di non essere egoisti. Di mettersi sempre in gioco».

(Riforma.it, 30 gennaio 2019)


Il governo palestinese si dimette in blocco per isolare Hamas

di Vincenzo Nigro

Il governo palestinese guidato dal primo ministro Rami Hamdallah ha rassegnato le dimissioni, come aveva chiesto da qualche giorno il presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen. La mossa del presidente è stata decisa per mettere ancora di più nell'angolo politicamente il movimento di Hamas, che controlla la Striscia di Gaza. Il presidente ha detto che vuole formare un nuovo governo rappresentativo dei vari gruppi che compongono l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il raggruppamento politico di cui Hamas non fa parte. Il governo di "unità nazionale" di Hamdallah era stato varato nel 2014 nel tentativo di riconciliare l'Olp con Hamas, e includeva ministri concordati dalle due parti. Da allora però Hamas non ha mai permesso all'Autorità Palestinese di tornare ad agire a Gaza, come era nelle intese.

(la Repubblica, 30 gennaio 2019)



L'ex generale Gantz sfida Netanyahu alle elezioni

di Giordano Stabile

Un generale d'acciaio e un ex ministro della Difesa del Likud in rotta con Benjamin Netanyahu. È questo il ticket che si prepara a sfidare il premier, favorito alla vittoria nelle elezioni del 9 aprile e pronto a un quinto mandato. Il generale è l'ex capo delle Forze armate Benny Gantz, che ha fondato il partito Hosen L'Ysrael con lo slogan «Israele prima di tutto» e ieri ha lanciato la sua candidatura a premier in una grande convention e con un attacco frontale al premier: «Non potrà più governare se sarà incriminato». Gantz con il suo movimento «né di destra né di sinistra» punta ai voti dell'elettorato del Likud a disagio con la svolta conservatrice degli ultimi anni e inquieto per gli scandali che assediano il primo ministro. A Gantz si è unito ieri Moshe Yaalon, protagonista di una burrascosa uscita di scena nel 2016, per i dissensi sulle politiche nei Territori palestinesi.
  Yaalon ha lasciato in quell' occasione anche il Likud e da allora si è parlato di una sua discesa in campo da battitore libero. Il 2 gennaio ha formato il partito Telem, ma con l'arrivo di Gantz il centro dello schieramento politico è diventato troppo affollato. I due hanno molto in comune, perché anche Yaalon è stato a capo delle Forze armate, dal 2002 al 2005, dopo essere stato comandante di una unità di paracadutisti. Yaalon ha però anche una lunga carriera politica alle spalle e può fornire a Gantz un'esperienza di primo livello. Sui temi civili sono entrambi su posizioni liberal, per esempio a favore dei matrimoni gay.

 Il passato nel Likud
  Sul tema della sicurezza, dove Netanyahu è quasi imbattibile, Gantz e Yaalon puntano sul loro passato da generali in prima linea sia sul fronte libanese che a Gaza. Ma a differenza del premier sono più propensi a un compromesso con i palestinesi, sulla linea di Yitzhak Rabin e degli accordi di Oslo, che lunedì hanno subito un'altra picconata da parte del governo israeliano con il mancato rinnovo della missione degli osservatori internazionali a Hebron. Gantz sarà il candidato premier, mentre Yaloon avrà un ministero di massimo peso e sarà vicepremier se il ticket riuscirà a vincere. Del pacchetto farà parte anche un altro fuoriuscito del Likud, l'ex portavoce di Netanyahu Yoaz Hendel.
  Ieri Yaalon, in un discorso all'Institute for National Security Studies di Tel Aviv, ha ribadito di aver concordato con Gantz che i loro rispettivi partiti non entreranno in ogni caso «in un governo guidato da Netanyahu». Possibili alleati potrebbero essere invece il centrista Yair Lapide l'ex ministro degli Esteri Tzipi Livni, che hanno già unito le loro forze. Si profila un battaglia fra tre blocchi, dove però, in base ai sondaggi, Netanyahu resta ancora favorito nonostante il rischio di una incriminazione da parte dei giudici.

(La Stampa, 30 gennaio 2019)


*


Benny Gantz, il generale che non parlava mai lancia il suo assalto all'impero di Netanyahu

Ex capo di Stato maggiore, si candida «Ho ucciso 1364 terroristi»

Il discorso
In vista delle elezioni politiche di aprile, Gantz ha parlato ieri a Tel Aviv per mezz'ora
Il piano di battaglia
I suoi strateghi: per sottrarre i voti alla destra si deve puntare sul passato di militare

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Raccontano che la madre, sopravvissuta al campo nazista di Bergen-Belsen, gli ripetesse di non voler nascondersi dentro i rifugi mentre cadevano i razzi lanciati da Gaza. E che incitasse il figlio generale «a continuare a combattere senza smettere di mandare cibo ai palestinesi della Striscia».
   Benny Gantz è cresciuto in una comunità agricola a pochi chilometri dal corridoio di sabbia dove spadroneggiano i fondamentalisti di Hamas, un villaggio fondato dai genitori assieme ad altri ìmmìgratì romeni e ungheresi, chiamato Kfar Ahim in ricordo di due fratelli ammazzati nella prima, quella di Indipendenza, delle tante guerre israeliane. Come quasi tutti i giovani del moshav ha scelto la carriera militare, nei paracadutisti, fino a diventare capo di Stato Maggiore, con addosso la divisa ha passato 38 dei suoi 59 anni.
   In politica si è mosso con la circospezione di chi è abituato alle imboscate - a tenderne o a subirne - e in queste settimane dalla nascita del suo partito Resilienza per Israele ha adottato la tattica di un altro capo delle forze armate, riuscito a diventare primo ministro. «Niente rafforza l'autorità quanto il silenzio», ripete sempre Ehud Barak infervorato da una massima di Charles de Gaulle.
   Silenzio fino a ieri sera, a settanta giorni dalle elezioni del 9 aprile, quando Gantz ha dispiegato il suo blitz: un discorso di trenta minuti giusto all'ora dei telegiornali per annunciare di voler conquistare la poltrona di primo ministro, in sostanza di volerla togliere a Benjamin Netanyahu che la occupa ininterrottamente da dieci anni.
   Al centro della sala approntata in un magazzino del vecchio porto di Tel Aviv, accompagnato dal ritmo dance dello slogan «basta con destra e sinistra, solo Israele sopra a tutto», ha scandito: «Nessun leader israeliano è un monarca assoluto». In abito e cravatta blu già di governo, ha confermato le aspettative: «Creerò una coalizione determinata, responsabile, forte. Non guidata dalla paura». Guardando nella telecamera, si è rivolto alla minaccia più sventolata da Netanyahu: «Presidente Hassan Rouhani non permetterò agli iraniani di circondarci».
   Ehud Barak è stato l'unico a sconfiggere Netanyahu - nel 1999 ed è un segno di buon auspicio per i sostenitori di Gantz - detiene però anche il record di permanenza in carica più breve nella Storia politica del Paese. Così gli analisti si chiedono se Benny rischi la stessa fine, assieme all'alleato Moshe Yaalon, un altro ex capo di Stato Maggiore: la popolarità di chi ha guidato le truppe in una nazione dove tutti hanno dovuto indossare la divisa per il servizio obbligatorio potrebbe non bastare a sostenere un partito creato dal nulla. I sondaggi dicono che Gantz possiede il potenziale per insediare Netanyahu (38 punti di gradimento contro i 41 del premier) ma la sua formazione resta per ora a 14 seggi pronosticati, ben oltre la metà di quelli attribuiti al Likud.
   I suoi strateghi sanno che per sottrarre i voti alla destra devono puntare sull'immagine militarista: nel primo video della campagna l'ex generale si è vantato dei «1.364 terroristi uccisi» durante il conflitto contro Hamas nell'estate del 2014. L'esaltazione guerresca è stata criticata da sinistra e solo nei giorni scorsi è emersa dagli archivi dell'esercito una foto fino a oggi censurata (forse per ragioni di sicurezza) che ammorbidisce la durezza dell'ufficiale di carriera.
   Nell'inverno di cinque anni fa Gantz visita le truppe in Cisgiordania accompagnato dalle guardie del corpo. Ha appena nevicato e il capo di Stato Maggiore si ferma a chiacchierare con una famiglia palestinese. La scorta resta in allerta, teme l'agguato. L'unico assalto alla fine è a palle di neve, con Gantz che risponde ai colpi: per qualche minuto il generale e i civili cresciuti temendolo tornano bambini.

(Corriere della Sera, 30 gennaio 2019)


*


Ecco Benny Gantz, il generale di Israele che sfida Netanyahu

Silenzioso finora, l'ex capo di stato maggiore lancia la sua candidatura, incentrata su sicurezza e centrismo, per il voto di aprile.

di Rolla Scolari

MILANO - "Mette assieme un eloquio fluente, calma, modestia, senza un grammo di machismo e - un vantaggio - ha l'aria da generale". Così il giornalista Avihai Becker descriveva 17 anni fa Benny Gantz, appena nominato alla guida del Comando settentrionale, a meno di 48 mesi dal ritiro israeliano dal Libano. Quello che serve ora al fotogenico ex capo di stato maggiore di Israele, che ieri sera ha ufficialmente debuttato sulla scena politica come il più credibile rivale di Benjamin Netanyahu, è l'aria da primo ministro. "Generalmente sensibile", era il titolo dell'articolo che già allora lo descriveva come un ottimo miliare, generale a soli 42 anni, capace di costruire una solida squadra attorno a sé, ma non un "decisionista", a tratti "esitante". Così, benché la stampa di sinistra in Israele si sia innamorata dell'idea di un reale sfidante del premier Netanyahu - per la prima volta in un decennio - si chiede anche se Benny Gantz, 59 anni, abbia non tanto il carisma, che non gli manca, ma la malizia politica per diventare una minaccia reale per un primo ministro che i sondaggi danno ancora una volta vincente al voto anticipato di aprile.
   Gantz il "silenzioso" ha finalmente parlato ieri e lo ha fatto in prime time televisivo, dopo aver sapientemente costruito un'atmosfera carica di aspettative. "Non ci sono più una destra e una sinistra, c'è soltanto Israele prima di tutto", recita il jingle della sua campagna, con uno slogan che riecheggia un po' i "first" che si moltiplicano dall'America all'Europa, ma che lo inserisce in un centro già piuttosto affollato in Israele.
   Dalla sua discesa in campo, a dicembre, con la nascita del suo movimento, Hosen L'Yisrael, Resilienza per Israele, il suo silenzio era stato considerato da una parte una strategia, dall'altra il segnale di una mancanza di contenuti. In un paese dove la maggior parte dei capi di Stato maggiore una volta in pensione entrano in politica o in Parlamento, e dove due di loro- Yitzhak Rabin e Ehud Barak-sono diventati primo ministro, le credenziali militari di Gantz hanno fatto più di qualsiasi dichiarazione. E il suo partito ha chiaramente puntato sul fattore sicurezza. Due dei tre video fatti circolare nelle scorse settimane hanno inquietato e sbalordito la sinistra: immagini di Gaza rasa al suolo, e le scritte: "6.231 obiettivi di Hamas distrutti", "1.364 terroristi uccisi", senza alcun riferimento ai civili palestinesi morti durante le due operazioni condotte da Israele tra il 2011 e il 2015 nella Striscia, mentre Gantz era capo di stato maggiore. "Non è vergognoso volere la pace", dice l'ex generale in un terzo video. E' chiaro che, con il suo posizionamento al centro e i toni decisamente opposti delle poche esternazioni finora fatte, Gantz abbia come obiettivo quello di rubare voti al Likud di Mr, Sicurezza (Netanyahu) e al centro-sinistra pacifista cui manca credibilità militare e affascinato dai politici-generali. Il premier reagisce intanto a tutto questo bollando il rivale "di sinistra", appellativo che oggi nella politica israeliana, scrive il quotidiano Haaretz, è "criptonite".
   Il silenzio e l'ambiguità di Gantz hanno portato finora all'ex generale 38 punti in un sondaggio su chi sarebbe il miglior premier (contro il 41 di Netanyahu). Se si votasse oggi, però, il Likud del premier prenderebbe 30 seggi, il doppio del partito del rivale, che per essere una minaccia dovrebbe allearsi con le molte forze politiche che si accalcano al centro, tra cui i partiti di Yair Lapid, Tzipi Livni, l'ex generale Moshe Ya'alon e altri. Oppure, l'ex capo di stato maggiore, da "calmo" stratega, attende l'ultima vittoria del rivale Bibi e un invito a sedere nella coalizione di governo, magari come ministro della Difesa: una postazione di lancio per quando, presto o tardi come tutti si aspettano nel paese, il procuratore generale deciderà sull'incriminazione per corruzione del primo ministro.

(Il Foglio, 30 gennaio 2019)


lntel investe 11 miliardi di dollari per crescere in Israele

di Carlo Nicasanti

 
Moshe Kahlon, ministro delle Finanze israeliano
La strategia di Intel punta sempre di più su Israele. Tramite un tweet il ministro delle Finanze israeliano Moshe Kahlon ha fatto sapere che il gruppo americano di Santa Clara destinerà 10, 9 miliardi di dollari per realizzare una nuova fabbrica di chip in Israele: «Il management globale di Intel ci ha comunicato che ha deciso di investire altri 40 miliardi di shekel in Israele, una decisione senza precedenti che, secondo le attese, porterà alla creazione di migliaia di posti di lavoro nel sud» del Paese, ha twittato il ministro. Questo rappresenta il secondo intervento nella regione mediorientale, dopo i 5 miliardi che la società guidata da Robert H. Swan si è impegnata a investire entro il 2020 per aggiornare l'impianto esistente di Kiryat Gat, nel sud di Israele, oltre a garantire una spesa di 3 miliardi di shekel per l'approvvigionamento da fornitori locali. A conferma, quindi, della lunga tradizione di investimenti e partnership con il governo e il mondo del tech locale, così come sottolineato dallo stesso Kahlon. Anche alla luce del fatto di essere la prima azienda privata per creazione di occupazione in Israele. Qui, inoltre, ha quattro centri di ricerca situati a Haifa, Yakum, Petach Tikva e Gerusalemme, più gli stabilimenti produttivi di Kiryat Gat e Gerusalemme.
   Ma ritornando all'operazione annunciata ieri, non vi sono dettagli circa la costruzione del nuovo impianto annunciato via tweet, ma secondo quanto riferito dal quotidiano locale Globes, è molto probabile che anche questo sarà realizzato nell'area di Kiryat Gat. I motivi di questa scelta, comunque, potrebbero avere anche dei risvolti finanziari. Il quotidiano, infatti, prosegue sottolineando che il 10% della somma che Intel dovrebbe essere disposta a investire potrebbe essere coperta da una sovvenzione pubblica, ossia oltre 1 miliardo di dollari. Stando poi a quanto riportato dall'agenzia Reuters, gli americani pronti a presentare al governo di Israele il piano degli investimenti previsti per lo stabilimento di Kiryat Gat ma senza aver ancora comunicato tempi, costi e tecnologie su cui lavorerà.
   Il quotidiano israeliano riporta, poi, dell'intenzione di produrre nel nuovo stabilimento processori con una tecnologia 10 nanometri che migliorano prestazioni, output e costi per competere più efficacemente con produttori di chip asiatici come Tsmc e Samsung, già avanti sulla produzione di chip di ultima generazione.
   Oltre ai progetti in Medio Oriente, Intel starebbe poi studiando una serie di progetti tra cui la creazione di una terza sezione del suo impianto di Hilsboro, noto come DlX, entro la fine di giugno. In generale i piani strategici della società consistono nell'aumentare la capacità produttiva in vista della produzione a 10 e soprattutto 7 nanometri, in modo da lasciarsi alle spalle anni di produzione a 14 nanometri culminati con un eccesso di domanda che ha portato Intel in questi mesi a prediligere la produzione di processori Xeon e Core di fascia alta, creando uno shortage, che dovrebbe essere superata in modo definitivo nel terzo trimestre di quest'anno.

(MF, 30 gennaio 2019)


L'«ottimo principe» che sterminò gli ebrei

Il nuovo saggio di Livia Capponi ricostruisce la vicenda poco nota della rivolta giudaica sotto Traiano, un imperatore esaltato dalla tradizione storiografica. Prima la promessa di consentire il ritorno in Eretz Israel, poi la disillusione, la ribellione e la dura repressione. Nel 135 l'epilogo delle guerre giudaiche con Gerusalemme rasa al suolo dall'imperatore Adriano: una pagina che Marguerite Yourcenar non ha osato descrivere.

di Franco Cardini

L'imperatore Tito, «delizia del genere umano»; l'imperatore Traiano, «ottimo principe». Si tratta di sovrani che dalla tradizione storiografica romana senatoriale (in genere poco tenera con gli Augusti) fino ad oggi, attraverso Medioevo, Rinascimento e storiografia moderna, sono sempre stati considerati in modo si può dire unanime come abili statisti e come personaggi umanamente di alto profilo, come Marco Aurelio e non molti altri.
   Non che si debba cedere a istanze che oggi qualcuno denominerebbe - a torto, del resto - "revisionistiche". Diciamo semplicemente che la storia, come gli esami, non finisce mai. Conosciamo passabilmente bene la storia ebraica e, in particolare, gli anni tumultuosi delle due Guerre giudaiche, dalla rivolta scoppiata nel 66 ancora sotto Nerone e culminata nell'assedio a Gerusalemme da parte di Vespasiano e con la distruzione del Tempio di Gerusalemme appunto gestita nel 70 da suo figlio (e poi erede al trono imperiale) Tito - durante la quale, per quanto avesse le sue buone ragioni, la «delizia del genere umano» si comportò in maniera abbastanza pesante - sino al fatale 135 che vide Gerusalemme letteralmente rasa al suolo dall'imperatore Adriano: una pagina che Marguerite Yourcenar non ha osato descrivere nel romanzo a lui appunto dedicato. Tra queste due date corrono sessantacinque anni durante i quali la diaspora del popolo ebraico, già da prima avviata, divenne definitiva e - fino ad oggi - irreversibile: pur ammesso che quel che sta accadendo dalla fine Ottocento ad oggi, e che ha avuto un suo momento nodale nel 1948 e nella fondazione dello Stato ebraico d'Israele, possa obiettivamente venir considerata, dal punto di vista storico e antropologico, un "ritorno" e non un capitolo del tutto nuovo nella storia dell'ebraismo e nella non facile genesi della sua profonda e al tempo stesso polimorfe cultura identitaria.
   All'interno di quelle due date accaddero però molte cose: una soprattutto, un dramma non troppo studiato né conosciuto, per quanto ne trattino storici d'una qualche importanza quali Appiano e Dione Cassio nonché naturalmente le fonti ebraiche. Si tratta di una vera e propria rivolta delle comunità ebraiche di Cipro, Siria, Egitto e Cirenaica, di quelle cioè che dopo la profanazione del Tempio erano rimaste nella Città Santa o si erano tenute più vicine possibili ad essa all'interno dell'impero romano (altre avevano preferito rifugiarsi in "Babilonia'', cioè nell'impero partico).
   L'episodio è stato ora ricostruito con attenzione da Livia Capponi, docente di Storia romana nell'Università di Pavia ed esperta soprattutto di storia dell'Egitto ellenistico-romano. Già nel 2017 la professoressa Capponi ha edito un interessante studio monografico dedicato a Il ritorno della fenice. Intellettuali e potere nell'Egitto romano (Ets); ora, con il suo Il mistero del Tempio. La rivolta ebraica sotto Traiano (Salerno, pagine 128, euro 14, 50), c'introduce alla conoscenza di un evento che contribuisce fra l'altro anche a chiarire gli antefatti della Seconda guerra giudaica, deflagrata nel 132.
   Con Tito, la Giudea era stata ridotta a provincia retta da governatori di rango senatorio. Ma i confini orientali dell'impero rimanevano un problema. Traiano, dopo aver sottomesso nel 107 la Dacia con le sue straordinarie risorse auree e aver fondato l'anno prima la provincia dell'Arabia Petrea per assicurare l'instabile confine sudorientale, aveva colto al volo la crisi scatenata nell'impero partito tra il nuovo Gran Re Cosroe e suo nipote Axidare, re d'Armenia: fra 113 e 116: occupata la capitale partica Ctesifonte, egli ridusse a province l'Armenia, la Mesopotamia e l'Assiria. Durante quella campagna Traiano curò di trarre dalla sua le comunità ebraiche disseminate nell'impero partico sostenendole finanziariamente e organizzando addirittura una nuova strada che avrebbe loro consentito di rientrare in Palestina. Tuttavia, qualcosa non funzionò: le popolazioni tanto ebraiche quanto greco-siriache dell'area si resero presto conto che il nuovo padrone non solo non avrebbe facilitato il reinsediamento delle comunità ebraiche in Eretz Israel, ma sarebbe stato più duro di quello vecchio; e le comunità ebraiche sparse tra Siria, Egitto e Vicino Oriente (a cominciare da quella che ancor sussisteva a Gerusalemme dopo il saccheggio del Tempio) non poterono se non confermarlo.
   Ne nacque una rivolta che infuriò due anni circa, tra 116 e 117, interessando Cirenaica, Egitto e Mesopotamia. Gli ebrei che avevano confidato nella magnanimità romana e che perciò avevano sostenuto Traiano nella guerra contro i Parti ebbero modo di abbondantemente e amaramente ricredersi. Il libro si conclude con la magistrale rinarrazione tratta dai testi midrashici della favola del leone e della gru che Fedro aveva preso, rimaneggiandola da quella esopica, del lupo e dell'airone. Un leone aveva inghiottito un osso che gli si era conficcato in gola; chiese a una gru di liberarlo con il suo lungo becco promettendogli una ricompensa. Ma quando si trattò di riscuotere, il maestoso felino chiese al volatile se non gli bastava di aver estratto incolume la testa dalle sue terribili fauci. La morale era trasparente: mai aspettarsi qualcosa di buono da un malvagio, nemmeno se egli promette. Fedro ed Esopo, per la verità, avevano parlato di un lupo come protagonista della favola, ma i testi ebraici, sostituendo il lupo con il leone, avevano voluto con chiarezza alludere a un animale "regale": all'imperatore. Di tali testi, di solito riferiti all'età di Adriano e alla Seconda guerra giudaica, la Capponi propone una predatazione che consentirebbe di riferirli non alla violenza di Adriano, bensì alle promesse mancate di Traiano.

(Avvenire, 30 gennaio 2019)


L'antisemita di oggi boicotta Israele e piange gli ebrei morti nella Shoah

La buona coscienza degli antisemiti, ieri scatenata contro i "perfidi giudei" e oggi contro Israele

 
Perché la Giornata della Memoria abbia un senso, anche senza cadere nelle perverse deformazioni di cui ho parlato in un articolo precedente, bisogna chiedersi che cosa sia l'antisemitismo che questa ricorrenza dovrebbe combattere. Vale la pena di richiamare qui la Working Definition of Antisemitism ("definizione operativa dell'antisemitismo"), stabilita nel 2011 dall'Agenzia europea dei diritti fondamentali:
    «L'antisemitismo è la percezione descrivibile come odio verso gli ebrei. Le manifestazioni retoriche e fisiche dell'antisemitismo sono dirette contro singoli ebrei o non ebrei, e/o contro la loro proprietà, contro le istituzioni comunitarie e contro le strutture religiose ebraiche. Inoltre tali manifestazioni possono anche avere come bersaglio Israele, concepito come una collettività di ebrei. L'antisemitismo accusa frequentemente gli ebrei di cospirare ai danni del resto dell'umanità, ed è spesso utilizzato per incolpare gli ebrei di uno o più problemi politici, sociali ed economici. Trova espressione orale, scritta e impiega stereotipi sinistri e tratti caratteriali negativi»
E' importante leggere questo testo, quello cui ha resistito per mesi il partito laburista di Corbyn, perché esso testimonia che "le manifestazioni retoriche e fisiche dell'antisemitismo […] possono anche avere come bersaglio Israele, concepito come una collettività di ebrei". Dire "possono" è oggi un eufemismo. A parte i predicatori musulmani e i terroristi arabi, che continuano a predicare e praticare l'odio degli ebrei, a parte i loro imitatori come quel "reverendo" Farrakhan, con cui non hanno mancato di farsi fotografare Obama, Clinton e gli attuali estremisti di sinistra del partito democratico americano, oggi è molto difficile che qualcuno parli esplicitamente contro gli ebrei. E' molto più comodo prendersela con Israele che, dovendo difendersi da prima della sua stessa nascita da assalti militari di tutti i tipi, deve usare le armi per evitare una nuova Shoah. A questo pretesto per l'antisemitismo, se ne aggiunge l'altro, la cosiddetta "occupazione": Israele starebbe "occupando" territori "palestinesi" in Giudea e Samaria. Peccato che non sia mai esistito uno stato palestinese di cui quei territori avrebbero fatto parte e che essi facessero parte di un mandato internazionale dedicato alla costituzione di una "patria ebraica", fossero stati occupati illegalmente per una ventina d'anni dalla Giordania e presi da Israele in una guerra di autodifesa.
   Facciamo un esempio di questo antisemitismo puntato su Israele. Qualche giorno prima della Giornata della Memoria, il parlamento irlandese ha approvato una legge che rende reato punibile con oltre 100 mila euro e fino a 5 anni di carcere il commercio con qualunque impresa abbia sedi in questi territori: un reato più grave, per intendersi, delle lesioni, del furto, della corruzione, che l'Irlanda riserva solo a Israele e che non estende né alla Cina che occupa per davvero il Tibet, né alla Russia che fa lo stesso con la Crimea, né al Marocco col Sahara occidentale né alla Turchia con Cipro nord. E' evidente il rivendicato carattere politico e di "esempio" di questa legge, che è passata con l'appoggio della Chiesa locale. Difficile pensare che non la motivi un sentimento antisemita.
   E' interessante notare che nell'inchiesta sull'antisemitismo organizzata dalla Comunità Europea, gli irlandesi sono fra i popoli che percepiscono di meno l'antisemitismo come un problema, tanto nella vita politica (solo il 20% pensa che lo sia anche in parte) nei media (23%) o in generale nel paese (21%) - sono percentuali che stanno sotto alla metà di quelle italiane, dimostrazione evidente di odio che rifiuta di definirsi tale. Vedremo se le reazioni economiche e politiche che Israele ha minacciato di adottare se la legge sarà promulgata serviranno a svegliare gli irlandesi. Peraltro bisogna aggiungere che la stessa Unione Europea, che si atteggia a virtuosa erede della lotta all'antisemitismo, finanzia largamente organizzazioni che si battono per il boicottaggio di Israele.
   Uno dei problemi dell'antisemitismo è proprio questo, che esso si ritiene in generale virtuoso e giusto. Si pensava piena di fervore religioso l'Inquisizione che bruciava gli ebrei che resistevano al tentativo di sottrarli al culto dei padri, erano lucidi e umanitari i Voltaire e i Kant e gli altri illuministi che volevano eliminare l'ebraismo, magari anche con la forza. Si presentavano come difensori del popolo contro l'usura i nazisti e ancora oggi gli antisemiti amano pensarsi come difensori di un "popolo oppresso" contro il "nuovo nazismo" di chi "ha subito Auschwitz e ora la riproduce". Ma sotto questa pretesa di virtù e bontà c'è il più fetido odio antisemita, reso più pericoloso e implacabile dalla sua "buona coscienza".

(Progetto Dreyfus, 29 gennaio 2019)


Netanyahu: "A Hebron basta osservatori internazionali"

di Giordano Stabile

Il primo ministro israeliano Netanyahu annuncia la fine della missione degli osservatori internazionali a Hebron e un altro pezzetto degli accordi Oslo viene smontato. Netanyahu ha dato l'annuncio ieri: «Non consentiremo la presenza di una forza internazionale che agisce contro di noi". Il riferimento è a una serie di «incidenti» che hanno visto penalizzati, secondoil governo israeliano, gli abitanti degli insediamenti ebraici nella città a maggioranza araba della Cisgiordania, dove sono ospitate le Tombe dei patriarchi, uno dei luoghi più sacri dell'ebraismo. Hebron conta circa 200 mila abitanti palestinesi, ma nel centro storico, adiacente alle Tombe, c'è un quartiere ebraico con 700 persone alle quali vanno aggiunti le settemila che vivono nel vicino insediamento di Qyriat Arba. Il massacro del 1994, quando l'estremista israelo-americano Baruch Goldstein uccise 19 musulmani in preghiera nella moschea costruita sopra le Tombe, ha segnato la città e portato all'intesa per istituire la missione internazionale, inserita come clausola negli accordi di Oslo.
   La Temporary International Presence in Hebron (Tiph) inizia nel 1997. Viene però rinnovata ogni sei mesi ed è in scadenza i131 gennaio. Netanyahu ha detto che non la rinnoverà. In base agli accordi circa il 20 per cento della città è sotto il controllo del forze di sicurezza israeliane, il resto è competenza di quelle palestinesi. La forza internazionale veglia sul rispetto degli accordi e cerca di smorzare gli attriti. Sono 64 uomini da Italia, Svizzera, Norvegia, Svezia e Turchia, compresi 15 carabinieri, disarmati ma muniti di macchine fotografiche e taccuini.
   I loro rapporti hanno una funzione deterrente, ma infastidiscono il governo israeliano, che li considera di parte. Due incidenti hanno fatto precipitare la situazione. In uno, secondo la polizia israeliana, un dipendente della Tiph ha forato le gomme all'auto di un abitante ebreo. In un altro un osservatore avrebbe schiaffeggiato un ragazzo. Netanyahu è però anche spinto dalla pressioni della destra religiosa, che considera Hebron incedibile, e teme un «rapporto riassuntivo» su 20 anni di attività della Tiph. Il succo è che «Hebron sta andando nella direzione opposta» rispetto a quanto concordato. Una condanna implicita dello Stato ebraico che il premier, già in rotta con l'Onu su altri fronti, non è disposto ad accettare.

(La Stampa, 29 gennaio 2019)


Ultra-ortodosse, «veterane» dell'esercito: la carica delle donne

Verso il voto in Israele. Sono già cinque i partiti in corsa per le elezioni del 9 aprile guidati da rappresentanti femminili. E la svolta è bipartisan: da destra a sinistra

di Fiammetta Martegani

La corsa verso il voto del 9 aprile in Israele rappresenta una svolta per la quantità di donne presenti ai primi posti nelle liste dei vari partiti. Nessuno escluso, da destra a sinistra, inclusi i partiti arabi e le donne che rappresentano la voce degli ultra-ortodossi. Come Adina Bar-Shalom. Non potendo diventare membro di uno dei partiti ultra-ortodossi già esistenti, poiché, per tradizione, non prevedono che donne e uomini possano sedersi insieme allo stesso tavolo delle trattative, Adina ha fondato un partito suo: ''AchiYisraeli". Come lei, un'altra ultra-ortodossa ha scelto di scendere in campo: è Michal Zernowitski, candidata nella lista del Partito Laburista (dove, a differenza dei partiti ultra-ortodossi, non c'è alcuna forma di restrizione nei confronti delle donne). Qualora riuscisse ad ottenere un seggio alla Knesset (il Parlamento) sarebbe in assoluto la prima parlamentare ultra-ortodossa a far parte del Partito Laburista dove, peraltro, spiccano i nomi di molte donne, come Stav Shaffir, la più giovane ad essere mai stata eletta, all'età di 27 anni, durante le scorse elezioni.

Adina Bar Shalom Ayelet Shaked Michal Zernowitski Miri Regev Orli Levi Abekasis Tamar Zandberg   lightbox gallery plugin by VisualLightBox.com v6.0m
La voce delle donne si fa sentire anche a destra. Ayelet Shaked, ex Ministra della Giustizia e numero due del partito di estrema destra "La Casa Ebraica'' è attualmente alla guida del neo-partito "La Nuova Destra'', fondato assieme a Naftali Bennett, che, almeno in fase di campagna elettorale, le ha voluto lasciare il piedistallo mediatico. Regina dei media resta però Miri Regev, ex Ministra della Cultura, in lista con il Likud (il partito di Netanyahu). Sembra determinata a conquistarsi un posto di primo piano, anche grazie al consolidato consenso che gode per via dei 25 anni di servizio nell'Esercito. Un cursus honorum di tutto rispetto: in Israele la carriera militare è uno dei criteri fondamentali con cui valutare chiunque e in qualunque attività, più che mai se si tratta di incarichi di governo (non a caso è proprio un generale, Benny Gantz, ex Capo di Stato maggiore, l'unica alternativa possibile, per ora, al premier Benjamin Netanyahu). Sono già cinque i partiti in corsa alle elezioni guidati da donne: oltre ad Adina Bar-Shalom e Ayelet Shaked, ci sono infatti Orli Levi Abekasis, che lasciato il partito di destra Yisrael Beiteinu per fondare "Gesher"; Tamar Zandberg, numero uno di "Meretz", il partito di estrema sinistra, e Tzipi Livni, leader del partito di centro "Hatnua".

(Avvenire, 29 gennaio 2019)


"Un'espressione di arroganza senza precedenti"

Il presidente della Knesset, Yuli Edelstein, ha respinto come "un'espressione di arroganza senza precedenti" la richiesta dell'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo di inviare osservatori internazionali per monitorare le elezioni politiche israeliane del prossimo aprile. "Non abbiamo mai accettato la presenza di osservatori esterni del nostro processo democratico e l'idea che l'avremmo mai fatto è inconcepibile", ha scritto il capo dello staff di Edelstein, Eran Sidis, a nome del presidente della Knesset, in una lettera citata lunedì da Times of Israel indirizzata all'ufficio del Segretario generale dell'organizzazione interparlamentare che raccoglie 26 parlamenti europei, nordafricani e mediorientali, compreso quello di Israele, e che ha lo status di osservatore presso le Nazioni Unite. "Da quando ha ottenuto l'indipendenza più di settant'anni fa - dice la lettera - lo Stato nazionale del popolo ebraico è stato un faro di democrazia che garantisce a tutti i suoi cittadini la libertà di riunione e di stampa, salvaguarda i diritti umani e assicura i cambiamenti di governo in modo ordinato attraverso un processo corretto, supervisionato in modo completo e indipendente dalle nostre autorità competenti".

(israele.net, 29 gennaio 2019)


Sondaggio Ipsos, l'Italia è un paese antisemita

di Matteo Zola

Ricordare non basta. Se la memoria viene imbalsamata nelle ricorrenze, negli anniversari, e viene visitata una volta all'anno come un museo, allora la memoria è cosa morta. Il Giorno della Memoria è dunque una buona occasione per parlare di un'indagine, realizzata da Ipsos, volta ad indagare quali siano oggi le opinioni e i sentimenti degli Italiani nei confronti degli ebrei. Il quadro che emerge è desolante, abbastanza da poter dire che l'Italia è un paese che sta vivendo un rigurgito antisemita sul quale, accecati dallo stereotipo "italiani brava gente", non vogliamo aprire gli occhi. Il sondaggio, oltre all'immagine e agli stereotipi sugli ebrei, indaga anche le opinioni sul conflitto israelo-palestinese e sulla Shoà.
  Alcune domande confermano la presenza di perduranti stereotipi sugli ebrei, ma sono le cifre a fare impressione. All'affermazione "Gli ebrei hanno un grande potere economico" il 22% si è detto completamente d'accordo e il 29% abbastanza d'accordo. Quindi più della metà degli italiani crede ancora a quella puttanata colossale che gli ebrei siano "i ricchi", i manovratori dell'economia, gli occulti padroni della finanza e del denaro? Ebbene sì. "Gira e rigira i soldi sono sempre in mano agli ebrei" dice il 26% degli italiani. Un quarto degli intervistati. Mentre il 34% è convinto che gli ebrei "muovono la finanza mondiale a proprio vantaggio".
  Ma non c'è limite al peggio. Il peggio è la zona grigia, quelli che si dicono "neutrali". Come si fa a essere neutrali di fronte a simili orrori? Si può. Le leggi razziali, e il fascismo persino, sono stati possibili non tanto grazie al sostegno degli ambienti antisemiti italici quanto grazie all'indifferenza, al silenzio assenso, della maggioranza della popolazione. Oggi non è cambiato niente. Di fronte alla frase "gira e rigira i soldi sono sempre in mano agli ebrei" il 43% si dice neutrale. E neutrale, cioè indifferente, disinteressato, si dice anche il 44% di fronte all'idea che gli ebrei "muovano la finanza mondiale a proprio vantaggio".
  Il vecchio Dante metteva gli ignavi all'inferno, il posto giusto per chi nella vita non hanno mai agito né nel bene né nel male, senza mai osare avere un'idea propria, ma limitandosi ad adeguarsi sempre a quella del più forte. Di questa gente dannata il nostro paese trabocca.
  E poi c'è chi crede che gli ebrei "non sono italiani fino in fondo", e sono il 25% cui si somma l'abituale quota di ignavi, pardon, neutrali: il 31%. E pensare che gli ebrei furono ferventi patrioti durante il Risorgimento, fedeli soldati sul Piave, ma non basta mai, non basta mai. E dopo averli condannati allo sterminio con le leggi razziali, gli italiani continuano a rifiutarli perché "non ci si può mai fidare del tutto degli ebrei" (9% d'accordo, 38% neutrali).
  E allora di che stupirsi se un parlamentare della Repubblica ha citato il fantomatico "Protocollo dei Savi di Sion" per pubblicizzare un libro sulle banche. Per chi non lo sapesse, il "Protocollo dei Savi di Sion" è un documento falso, redatto dalla polizia segreta zarista per giustificare i pogrom anti-ebraici, molto in voga ancora oggi nell'ultradestra e, ovviamente, tra i giallognoli beoti che attualmente guidano questo governo di italioti.
  L'antisemitismo nel nostro paese è una realtà. I dati aggregati del sondaggio mostrano come il 44% degli italiani (tra antisemiti "puri" e ambivalenti) esprima opinioni antisemite.
  C'è molto da lavorare per insegnare agli italiani a rifiutare la banalità del male e, in un clima di crescente tensione sociale e diffusa xenofobia, sembra davvero una missione impossibile. Non sorprende leggere, nello stesso sondaggio, che il 51% degli italiani esprime sentimenti contrari all'immigrazione e alla presenza di stranieri in Italia. In fondo è lo stesso male. E ora che, un passetto alla volta, si cominciano a stabilire leggi speciali per gli stranieri, con speciali obblighi e speciali attenzioni, la "brava gente" applaude. Non c'è nemmeno la zona grigia (appena un 9%). La maggioranza è d'accordo. Diceva quel tale che "coltivando tranquilla l'orribile varietà delle proprie superbie, la maggioranza sta come una malattia, come una sfortuna, come un'anestesia, come un'abitudine …".

(East Journal, 28 gennaio 2019)




Se non è amore prima o poi diventa odio

Verso Israele si possono avere tre atteggiamenti:
amore, odio o indifferenza.
Nei momenti critici l'indifferenza si trasforma in odio.

 


Papa Francesco: "Se mi schierassi sarei imprudente"

«Soffro» per quanto sta accadendo in Venezuela. E soprattutto «temo lo spargimento di sangue». Papa Francesco si dice terrorizzato dal rischio violenza a Caracas. Lo afferma durante il volo di ritorno da Panama, dove è stato per la Giornata mondiale della Gioventù. Il pontefice ribadisce di sostenere la gente del Venezuela e invoca «una soluzione giusta e pacifica, nel rispetto dei diritti umani». Perciò chiede con forza «di essere grandi a coloro che possono aiutare a risolvere il problema». Durante la tradizionale conferenza stampa sull'aereo papale gli viene domandato che cosa significhino le sue dichiarazioni di vicinanza ai venezuelani dei giorni scorsi: il riconoscimento di Juan Guaidò? Nuove elezioni? «Devo essere un pastore - risponde, mantenendo l'estrema prudenza di questi giorni - E se hanno bisogno di aiuto, che si mettano d'accordo e lo chiedano». Poi precisa: «Io appoggio tutto il popolo venezuelano, che sta soffrendo. Se mi mettessi a dire "date retta a questi Paesi o a quegli altri", mi metterei in un ruolo che non conosco». E sarebbe «un'imprudenza pastorale da parte mia. Farei danno». D. Aga.

(La Stampa, 29 gennaio 2019)


«A me Papa Bergoglio dà l'impressione di uno che ha mangiato la foglia sull'impossibilità del Vicario di Cristo di interloquire in qualche modo con il Padreterno e si sia acconciato, da buon gesuita cresciuto in Argentina a pane peronismo e terzomondismo anticolonialista e anticapitalista, a trasformare la Chiesa di Roma nella più grande Ong del pianeta specializzata nell'assicurare ai propri fedeli il "prozac" dei buoni sentimenti politicamente corretti al posto della promessa, non più proponibile, della vita eterna al cospetto di Dio.»
(da "Santità, ma possiamo continuare a dirci cristiani?" di Arturo Diaconale)


Israele: il 'fascino della divisa' contro Netanyahu

I generali vogliono sconfiggere il premier nel voto di aprile



(ANSA, 28 gennaio 2019)


Netanyahu agli insediati: non vi sradicherò mai

"Nessuno di voi verrà sradicato dalla propria casa": lo ha assicurato oggi il premier e ministro della difesa Benyamin Netanyahu agli abitanti dell'avamposto di Netiv ha-Avot, presso Betlemme in Cisgiordania.
"C'è chi pensa che per ottenere la pace con gli arabi noi dobbiamo sradicarci dalla nostra terra. Questo - ha proseguito - è il modo sicuro per ottenere l'opposto del sogno".
"Per quanto dipende da me - ha concluso il premier, a poche settimane dalle elezioni politiche del 9 aprile - nessun insediamento sarà sradicato. Non ci sarà uno stop agli insediamenti, anzi sarà proprio al contrario". Per dare maggior peso alle proprie parole Netanyahu ha piantato un albero vicino alle case del piccolo avamposto.

(tv svizzera, 28 gennaio 2019)


Giorno della memoria: come raccontare la Shoah ai bambini

Anna e Michele Sarfatti - lei maestra, lui storico - sono gli autori de “L'Albero della Memoria”, una filastrocca illustrata, pensata per avvicinare i più piccoli al grande tema dell'Olocausto

Anna e Michele Sarfatti sono due fratelli impegnati da sempre nello studio e nella trasmissione della storia ebraica in Italia. Lei scrittrice e insegnante alle scuole primarie, lui storico ed esperto delle persecuzioni nel XX secolo, hanno scritto nel 2013 un libro per bambini, dal titolo L'Albero della Memoria (Mondadori, 2013). Il testo ripercorre gli eventi realmente accaduti alle famiglie ebree durante le persecuzioni antisemite in Italia, narrati attraverso alcune figure di fantasia. Il protagonista è un ragazzino ebreo di Firenze, che vive i complessi anni del mutamento sociale appena precedenti all'Olocausto.
La storia è scritta in versi, una lunga filastrocca che tenta di avvicinare con delicatezza i bambini al grande tema della Shoah, anche attraverso le illustrazioni di Giulia Orecchio. La memoria, nel libro, è affidata simbolicamente all'albero a cui sia il bambino sia i genitori affidano i loro oggetti più preziosi. Open ha intervistato i due fratelli per capire come trasmettere ai più piccoli una conoscenza e una sensibilità nei confronti di una delle parentesi più buie della nostra storia.

- Come si può raccontare l'Olocausto ai bambini?
  «Abbiamo scelto di scrivere in rima perché la scrittura in versi porta in sé un senso di giocosità che serve nella didattica rivolta ai bambini. Una delle fonti d' ispirazione è stata un'esposizione allestita in un kibbutz (associazioni israeliane che operano per il comune, ndr) poco a nord di Haifa, in Israele. È lì che abbiamo cominciato a capire che non è necessario raccontare o mostrare tutti gli aspetti a tutte le fasce di età. Il nostro libro si chiude senza sapere cosa sia successo ai genitori del bambino protagonista. Non propone la storia integrale di quello che è avvenuto, non parla di viaggi e deportazioni né di cosa succede nei campi di sterminio. Questo perché il racconto storico deve essere fatto in modo adeguato alle età e alle aspettative. Se è vero che i genitori possono raccontare ai figli le cose per cui li ritengono pronti, nelle classi è più complicato. Ci sono diversi livelli di maturazione dei bambini e dei ragazzini. L'insegnante può insegnare molte cose anche in età precoce se il suo gruppo è pronto a riceverle, altrimenti deve tener conto delle diverse fasi di maturazione. In questo caso, il consiglio è di parlare della persecuzione anti ebraica fino agli arresti».

- Cosa cambia nei ragazzi delle superiori?
  «Intanto va ricordato che molto spesso, alle elementari, il programma scolastico non arriva sempre alla seconda guerra mondiale. La sensazione è che, laddove l'insegnante ha svolto un lavoro in classe su aspetti di questo tema - che siano storici, letterari o scientifici - i ragazzi sono interessati e hanno voglia e desiderio di capire di più nell'ambito del percorso scolastico. Diverso è quando l'insegnante delega tutto alla lezione una tantum di uno storico, o affida tutta la comprensione a una gita a tema senza aver fatto un lavoro preliminare in classe. In quel caso, non funziona praticamente mai. Per avvicinare il ragazzo alle esperienze più dirette, come possono essere gli approfondimenti dei testimoni o alla gita sui luoghi della memoria, bisogna aver fatto un lavoro di classe preliminare».

- Come si fa a far capire ai ragazzi il senso del giorno della Memoria?
  «"Giorno della Memoria" è una definizione strutturata, adatta per gli adulti. Per gli italiani e gli stranieri in età scolastica, invece, è un giorno della conoscenza, dell'apprendimento e della riflessione. La memoria civica è qualcosa che si forma: i ragazzi stanno creando, ciascuno a modo suo, il proprio concetto di italianità. Non è possibile imporgli dall'alto una direttiva che contenga questa informazione senza dargli la possibilità e il tempo di elaborarla. Ci si possono avvicinare solo tramite gli strumenti classici dell'apprendimento. Diventati adulti, è giusto che si parli di memoria. Qui in Italia abbiamo ancora memoria civica del Risorgimento e dei suoi significati, e quindi è possibile coltivare una memoria della Shoah. Ma è una cosa da adulti, da cittadini già formati».

- Alla fine del libro non si conosce il destino dei genitori del ragazzo. Per quale motivo?
  «Non volevamo un finale drammatico sia per tutelare il lettore, sia per lasciare al bambino la libertà di immaginarsi cosa potrebbe succedere. Abbiamo voluto preservare la speranza nel futuro anche a fronte di un dolore disastroso. C'è chi ha detto che i genitori sono morti e poi si ritroveranno in paradiso. Chi crede invece che Samuele, una volta tornato a casa, riceverà una lettera dai genitori che gli dicono di essere salvi e che torneranno presto. Tendenzialmente la maggior parte dei bambini fa tornare almeno uno dei genitori e questa visione ci conforta molto. Abbiamo scelto di inserire la scena dell'arresto dei genitori, la più drammatica della storia, prima della conclusione per permettere al lettore di elaborare questo senso di perdita che il bambino vive. La scelta è stata quella di proteggere i lettori e di concentrare la loro attenzione sul periodo che ha portato al dramma finale, di cercare di farli ragionare sul perché si è arrivati a questo e cosa si sarebbe potuto fare: volevamo non emozionare, ma fare ragionare».

- Come far sì che l'esperienza della Shoah diventi, per i ragazzi, un'occasione di riflessione sul futuro?
  «Premetto che io (Michele, ndr) non credo all'idea che la storia si ripeta. La storia non si ripropone mai negli stessi termini, quindi non è possibile fare un paragone immediato tra vicende passate e attuali. Tantomeno per quanto riguarda l'Olocausto, un evento drammatico che ha avuto luogo sotto governi fascisti e nazisti che, fortunatamente, ora non abbiamo. Però, se facciamo riferimento unicamente alle condizioni politiche della Shoah, si può fare un ragionamento di similitudine. A partire dal 1938, l'anno in cui viene varato il sistema delle leggi anti ebraiche in Italia, gli Stati iniziano ad adottare misure più o meno equivalenti. L'espulsione degli ebrei, la revoca della cittadinanza, il blocco degli ingressi degli ebrei stranieri. Si propone così la questione degli ebrei profughi, gli ebrei erranti, che non trovano un posto dove andare. Non hanno frontiere che li accolgono: una situazione di una drammaticità indicibile».

(Open, 28 gennaio 2019)


Mossa di Netanyahu: riconosciamo la nuova leadership

Israele si unisce a Stati Uniti, Canada e a gran parte dei Paesi dell'America latina e dell'Europa riconosce la leadership di Guaidò in Venezuela. È il premier Benjamin Netanyahu a comunicare la scelta del suo esecutivo a favore dell'autoproclamato presidente in un comunicato.
Nei giorni scorsi gli Stati Uniti avevano esercitato pressioni sul premier dello Stato ebraico ma, secondo i media, Israele aveva finora preferito un atteggiamento prudente nel timore di reazioni negative da parte di Nicolas Maduro verso la comunità ebraica del Venezuela.

(La Stampa, 28 gennaio 2019)


Quei ragazzi della scuola ebraica

L'incontro e la targa, 75 anni dopo. «Il razzismo non torni. Mai più». Luogo di resistenza e solidarietà dove chi fu cacciato dalla scuola pubblica ebbe la possibilità di formarsi, studiare e insegnare

 
I ragazzi della Scuola Ebraica di via Eupili in zona Arco della Pace durante la cerimonia
MILANO - Eupili è una via vicina all'arco della Pace, zona della movida, ma pochi sanno che ai civici 6 e 8 c'era la scuola ebraica, dalle elementari all'università, per studenti e insegnati ebrei che le leggi razziali cacciarono dalla scuola pubblica. Una scuola dove insegnò Vittore Veneziani, allora direttore del coro della Scala. Proprio perché pochi sanno di questo passato oggi, sul ponte della ferrovia vicino alle palazzine, una targa ricorda quei momenti. Ora in una di quelle palazzine si trova il Cedec ( Centro di documentazione ebraica contemporanea), mentre la scuola è in via Sally Mayer. «Questa targa - spiega Gadi Schonheit della Comunità ebraica di Milano - è un giusto ricordo di un'epoca per fortuna lontana, il ricordo di un'esperienza iniziata nel 1938 e finita nel '43, quando l'arrivo dei tedeschi li obbligò a scappare o a essere deportati su vagoni piombati. Dopo la guerra ci siamo ritrovati qui, nella stessa scuola, i figli di chi ce l'aveva fatta, un po' sorpresi di ritrovarci tutti, con lo stesso clima e la stessa gioia di essere assieme che avevano avuto i nostri genitori».
   «Tu che passi per questa tranquilla via - si legge sulla targa in cui viene ricordato cosa accadde ai cittadini ebrei milanesi dal 1938 al 1945 - ricorda che questo è stato, ogni volta che accetti che un altro abbia meno diritti di te». La targa, spiega il presidente del Consiglio comunale, Lamberto Bertolè, ricorda «che qui c'è stato un luogo di resistenza, di solidarietà, un luogo in cui le persone cacciate dalle scuole pubbliche, studenti e professori, hanno potuto studiare, formarsi e attraversare quegli anni difficili. È un luogo che molti cittadini non conoscevano: mettere una targa significa far sapere che questa cosa è avvenuta qua, sul nostro territorio dove passiamo tutti i giorni. Significa ricordare che, se è successo una volta, può succedere ancora e quindi dobbiamo essere molto attenti e rigorosi a cogliere tutti i segnali negativi». E l'assessore all'Istruzione, Laura Galimberti: «A scuola i bambini devono imparare che non devono esserci separazioni tra bambini, ma anche tra uomini perché è la dignità dell'uomo che è stata calpestata, prima di tutto con la Shoah».
   E per il giorno della Memoria è stato acceso il Pirellone, così come avverrà stasera, con la scritta "Binario 21", nel ricordo del luogo in stazione Centrale dal quale partirono i deportati. Il Consiglio regionale promuove una mostra, Viaggio nella Memoria, che sarà inaugurata domani, e un concerto.

(il Giorno - Milano, 28 gennaio 2019)



La Malaysia esclude Israele e perde i Mondiali di nuoto

Discriminazione anche nello sport paralimpico

ROMA - Non solo razzismo nel calcio. C'è un caso internazionale che tiene banco nello sport paralimpico: la Malaysia esclude dalla rassegna mondiale di nuoto Israele per motivi politici e perde l'organizzazione della rassegna iridata. La discriminazione di razza era stata messa in atto dal paese asiatico che «non aveva autorizzato la partecipazione degli atleti di Gerusalemme» alla Coppa del mondo delle discipline acquatiche in programma dal 29 luglio al 4 agosto prossimi. E ieri è arrivata la reazione durissima del Comitato paralimpico internazionale (Ipc) che ha annunciato la decisione di non far disputare in Malaysia i Mondiali. «Giusto togliere l'evento alla Malaysia. Lo sport paralimpico non può accettare esclusioni - le parole del presidente del Comitato paralimpico italiano, Luca Pancalli, tra i promotori della mozione —. La nostra mission è includere, costruire ponti e non barriere».
Ora l'Ipc è alla ricerca di una nuova location con l'obiettivo di mantenere l'evento nelle date previste. «Si tratta di un segnale importante che cade proprio in occasione della Giornata della Memoria. E nostro dovere di fronte ad ogni forma di discriminazione e intolleranza non abbassare mai la guardia» ha concluso Pancalli.

(Leggo, 28 gennaio 2019)


Il premier palestinese Hamdallah rimette mandato esecutivo nelle mani di Abbas

RAMALLAH - Il primo ministro palestinese, Rami Hamdallah, ha rimesso il mandato dell'esecutivo nelle mani del presidente palestinese Mahmoud Abbas. Attraverso un messaggio sul suo profilo ufficiale Twitter, Hamdallah ha scritto: "Mettiamo il nostro governo a disposizione del presidente Mahmoud Abbas e accogliamo le raccomandazioni della Commissione centrale di Fatah per formare un nuovo governo". Hamdallah ha espresso, inoltre, "fiducia nel successo degli sforzi per formare un nuovo esecutivo che sia in grado di rispondere alle richieste dei cittadini, riporti l'unità nazionale, ponga fine alle divisioni politiche, e conduca il nostro popolo verso il percorso della libertà e dell'indipendenza". In precedenza, l'emittente satellitare "Al Arabiya" aveva annunciato l'intenzione di Abbas di effettuare un rimpasto di governo e, con tale proposito, aveva nominato una commissione di quattro membri del movimento Fatah per avviare consultazioni sul nuovo esecutivo. L'esecutivo di Hamdallah era stato formato nel 2013 a seguito di un accordo con il movimento islamista Hamas, che dal 2007 amministra la Striscia di Gaza. Il fallimento dei successivi colloqui di riconciliazione con Hamas e l'impossibilità di estendere le prerogative del governo di Ramallah anche alla Striscia avrebbe tuttavia spinto Fatah a cambiare direzione.

(Agenzia Nova, 28 gennaio 2019)


La Puglia terra di salvezza per ebrei e iugoslavi in fuga

Stamane a Bari un libro sui campi profughi nel 1943-44

di Vito Antonio Leuzzi

Nelle settimane successive all'armistizio dell'8 settembre 1943, dopo la veloce ritirata delle truppe tedesche che commisero atrocità e devastazioni in diverse zone della Terra di Bari, della Capitanata, della Basilicata, e dopo lo sbarco anglo americano, affluirono in Puglia molti ex internati slavi ed ebrei provenienti dai campi e dalle località di internamento fascisti tra cui le Isole Tremiti, Ferramonti, Marconia (Pisticci). Il porto del capoluogo costituì anche l'approdo per una massa di ex internati iugoslavi ed ebrei, in fuga dal terrore nazista nei Balcani e nelle Isole greche.
   L'ondata di fuga degli ebrei stranieri di diverse nazionalità e di iugoslavi seguaci di Tito e di re Pietro, in base agli studi dello storico tedesco Klaus Voigt, raggiunse il culmine negli ultimi mesi del 1943 e nel '44, con una media di 4000 persone al mese che riuscirono a raggiungere su barche pericolosamente sovraffollate Bari e Brindisi. «In un anno sostiene Voigt - circa 36.000 persone raggiunsero la costa pugliese per mettersi sotto la protezione degli alleati».
   Nella Terra di Bari le prime strutture di accoglienza furono allestite dagli alleati con il concorso del governo italiano e degli organismi internazionali, in particolare la «Commissione Alleata», l'Unrra (United Nations Relief) ed in seguito l'Iro (lnternational Refugees Organization), riadattando ex campi di prigionia. Le ricerche degli storici dell'Istituto pugliese per la storia dell'antifascismo (Ipsaic) in diversi archivi nazionali ed esteri hanno consentito di ricostruire le vicende del Transit Camp. N.l di Bari Carbonara (Torre Tresca), nonché dei campi di Palese, Trani e Barletta.
   L'intera regione dalla Capitanata al Salento (Santa Maria al Bagno, Santa Maria di Leuca, Santa Cesarea, Tricase) si trasformò in un'area di accoglienza per profughi italiani e stranieri (albanesi, greci, maltesi) e per decine di migliaia di rifugiati ebrei di diversa nazionalità. La nascita a Bari della Comunità ebraica e la ricostituzione di diversi nuclei familiari ebrei, dopo le leggi razziali, la guerra e la deportazione sono ancora oggi poco conosciute. Le testimonianze del centro di documentazione dell'lpsaic mettono in luce il sistema di accoglienza ed il ruolo delle strutture di permanenza, utilizzate anche per gli italiani rimpatriati, nel dopoguerra.
   La straordinaria funzione umanitaria svolta dalla Puglia si ritrova nelle parole dello scrittore Aharon Appelfed, accolto appena adolescente nei campi pugliesi: «L'Italia è stato il luogo dove ho iniziato a pensare e a recuperare le mie emozioni, dato che per tutto il periodo precedente ero stato braccato come un cane».

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 28 gennaio 2019)


Moavero in Israele: "L'Olocausto vergogna per l'Italia"

di Giordano Stabile

Il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi arriva in Israele nel giorno del ricordo dell'Olocausto con un messaggio: «L'Italia chiede scusa e si vergogna» di quel passato. «La Shoah rappresenta una tragedia incommensurabile - ha spiegato dopo la visita allo Yad Vashem -, per l'Italia, la Giornata della Memoria non può non essere una giornata di rimorso collettivo». Il ministro ha anche partecipato all'inaugurazione di un convegno su Primo Levi nell'auditorium dello Yad Vashem.
   Moavero si è intrattenuto con la comunità italiana in Israele. Parlando delle minacce rappresentate dall'Iran il ministro ha spiegato che «l'Italia è convinta sostenitrice del diritto di Israele di vivere in sicurezza». La visita del ministro continuerà oggi con gli incontri dei vertici dello stato di Israele, il presidente israeliano Rueven Rivlin, il primo ministro e ministro degli Esteri Benjamin Netanyahu.
Domani sarà invece la volta degli incontri con l'Autorità Palestinese: il ministro Moavero incontrerà in mattinata a Ramallah il presidente dell'Anp, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), il ministro degli Esteri Riad Malki e poi visiterà il cantiere del restauro della basilica della Natività di Betlemme.

(La Stampa, 28 gennaio 2019)


Esercito israeliano in missione umanitaria in Brasile, ma non solo

Una missione umanitari dell'esercito israeliano composta da 130 uomini e volata in Brasile. Ma sono tante le missioni umanitarie del IDF nel mondo.

Nel giro di pochi giorni l'attenzione del mondo si è spostata dal Medio Oriente e dai raid israeliani sulla Siria al Sudamerica.
Invece di addentrarci sul Venezuela, dove l'attenzione è più attiva che mai dopo la proclamazione di Juan Guaidò, leader dell'opposizione, a presidente ad interim ed il suo riconoscimento da parte dei più importanti paesi occidentali, ci spostiamo un po' più giù geograficamente, in Brasile.
Con il crollo della diga di Brumadinho nello stato del Minas Gerais, gestita dalla multinazionale mineraria brasiliana Vale, la seconda più grande al mondo, Israele ha mandato un contingente di 130 soldati....

(Rights Reporters, 28 gennaio 2019)


Stare con Israele è il miglior modo per ricordare

Giorno della Memoria - Stare con Israele è il miglior modo per ricordare il genocidio ebraico

di Vittorio Feltri

Oggi è il giorno della memoria ed è bene celebrarla. Non bisogna dimenticare lo sterminio degli ebrei voluto e praticato dai nazisti, che erano tedeschi e complici dei fascisti italiani. Non dobbiamo nasconderci dietro un dito e negare di aver contribuito agli eccidi compiuti nei lager. lo sono nato nel 1943 e non posso ricordare certi accadimenti mostruosi. Tuttavia, avendo respirato l'aria fetida di quei tempi, mi sento responsabile dei massacri che mi pesano sulla coscienza anche se ero troppo piccolo sia per impedirli sia per favorirli. Provo comunque dolore e quasi disperazione per quanto è successo.
   Non riesco a darmi pace se penso che il nostro Paese approvò entusiasticamente le leggi razziali che contribuirono non poco ad agevolare la strage di uomini, donne e bambini rei di essere fedeli di una religione diversa, non migliore della nostra. Amo Israele e i suoi abitanti, ho sempre appoggiato con entusiasmo e convinzione la politica semita al punto che quella nazione mi ha dedicato un albero per premiare la mia dedizione affettuosa verso gli ebrei. Dei quali mi confermo amico senza riserve. Devo solo aggiungere che la sinistra italiana, che si proclama antirazzista, a parole, ha sistematicamente appoggiato le lotte palestinesi, senza lesinare finanziamenti importanti ai nemici israeliani che hanno creato uno Stato proprio allo scopo di vivere in un sereno Stato civile e progredito che in Medioriente costituisce una isola di spirito occidentale, un esempio mirabile di democrazia evoluta. In sintesi, i nostri radical pur proclamando si sostenitori degli ebrei, li hanno combattuti strenuamente stando dalla parte dei palestinesi in modo sfacciato. Noi viceversa senza infingimenti siamo totalmente appiattiti sulle ragioni indiscutibili dei semiti, non solo perché rammentiamo con dolore il loro passato, ma anche perché ci premono il loro presente e il loro futuro che ci auguriamo lieto.

(Libero, 27 gennaio 2019)


Per il giorno della memoria

Riceviamo da una nostra fedele lettrice

Dov'è Dio? Si grida, si cerca, s'invoca...
Dio è nella mamma che stringe forte a sé il bimbo, scendendo le scale...
Dio è nell'anziano che a stento cammina, sospinto...
Dio è nel bambino che guarda con gli occhi spauriti...
Dio è nella camera chiusa dove il veleno sta uccidendo...
Dio è con il suo popolo, proprio lì... e piange!
"Eliminiamo gli ebrei, così siamo sicuri di eliminare Dio!" Si pensa...
Sei milioni di luci splendono, hanno un posto e un nome nel luogo che Dio s'è scelto!
Dio c'è, Israele vive!!!
Meditate gente... meditate.
Carmela Palma

(Notizie su Israele, 27 gennaio 2019)


Israele e la geopolitica delle startup

Tel Aviv è tra le migliori aree al mondo per far nascere e crescere una startup. Soprattutto nel settore della sicurezza. Una leva in più per le ambizioni della politica estera di Benjamin Netanyahu.

di Umberto De Giovannangeli

Oltre il tradizionale orizzonte difensivo. Il mondo come campo di conquista, la tecnologia come carta vincente. E poi: mani libere. Per attaccare sul campo o per stringere alleanze variabili. Mani libere per abbinare la "diplomazia della forza" con quella, per certi aspetti più pervasiva e globalizzata, delle startup. Mani libere per operare su un doppio piano: quello più strettamente ideologico, rafforzando l'internazionale "sovranista" che va dall'Ungheria di Orbàn al Brasile di Bolsonaro, e, non meno importante, praticando la politica del "doppio forno": quello americano e quello, oggi il più attivo sul mercato mediorientale, russo.
  La "geopolitica delle mani libere" targata Benjamin Netanyahu. È bene chiarirlo da subito: a neanche tre mesi dal voto, non esiste in Israele una visione alternativa, nella concezione della sicurezza o delle alleanze internazionali, a quella praticata dal premier più longevo nella storia dello stato ebraico. Vi possono essere cinquanta sfumature di destra rispetto alla "geopolitica delle mani libere", ma questo fa parte del gioco elettorale.
  Nella sostanza, Israele è quello plasmato da "Bibi". Alleanze variabili significa che l'Israele di Netanyahu (perché su questo occorre indagare, visto il suicidio politico consumato dalla sinistra) guarderà ancora all'America dell'amico Trump, non fosse altro che Bibi guarda con sempre maggiore interesse al gigante cinese, anche se questo non fa piacere a The Donald.
  La Cina è il secondo partner commerciale di Israele: altri dieci miliardi fatturati nel 2017 e nel solo primo semestre 2018 già a più trenta per cento rispetto ai dodici mesi precedenti. Oltre cinquanta voli a settimana dimostrano la consistenza degli scambi, anche in chiave turistica. Numeri altamente significativi che stanno indirizzando la stagione dei rapporti bilaterali israelo-cinesi verso altre frontiere, rispetto a quelle ordinarie. Non basta.
  Il nuovo impianto commerciale di Haifa è gestito dallo Shanghai International Port Group. Haifa è tra i porti più importanti e più trafficati di Israele, e lì è la base dei suoi sottomarini in grado di lanciare missili nucleari. La vendita di tecnologia ultra-specializzata comporta anche delle criticità. Dopo l'intervento americano nel 2005 Israele ha smesso di vendere armi alla Cina. Ma esiste la tecnologia cosiddetta a doppio uso. Come l'intelligenza artificiale e i sistemi informatici che possono essere usati anche nell'attività di intelligence. E ciò preoccupa gli alleati di Israele, soprattutto gli Stati Uniti.
  Einat Lev, finanziere israeliano a Shanghai, ha spiegato così il fenomeno dell'avvicinamento dei due paesi ad Haaretz:
    Il governo cinese è incuriosito dal laboratorio Israele, di come il paese sia diventato rapidamente un campione nell'innovazione e nell'imprenditoria, Israele come Startup Nation, dal libro best seller di Saul Singer e Dan Senor.
Il South China Morning Post di Hong Kong ha scritto che Israele produce startup, la Cina le compra. È questo per esempio il caso di Alibaba, che lo scorso maggio ha investito 26,4 milioni di dollari in Sqream, un sistema innovativo di gestione dei dati (database management system) nato a Tel Aviv.
    Tel Aviv è un concentrato di tecnologia. Una combinazione di forte educazione tecnica (sostenuta dall'esperienza nelle forze armate israeliane degli imprenditori locali), alti livelli di coraggio per gli investimenti e una rete di supporto di diversi imprenditori hanno consolidato la reputazione della città nel costruire compagnie innovative.
Con queste parole inizia un articolo pubblicato sull'edizione di settembre/ottobre 2018 della rivista Wired - annota Nathan Greppi, in un documentato report per Bet Magazin Mosaico, il sito ufficiale della Comunità ebraica di Milano - che all'interno della sua lista delle cento migliori startup europee ne ha inserita una specifica sulle dieci migliori israeliane.
  1. Missbeez fondata da Maya Gura e Gil Bouhnick nel 2015, quest'app serve a prenotare trattamenti di bellezza; questa startup si è diffusa anche nel Regno Unito e a Madrid, e quest'anno aprirà un ufficio a Barcellona.
  2. Healthy.io permette di scannerizzare la propria urina per trovare malattie quali disfunzioni dei reni, cancro alla vescica o complicazioni della gravidanza. Il prodotto è già stato approvato anche nell'Unione Europea, ed è in fase di approvazione negli Stati Uniti.
  3. CommonSense Robotics è stata fondata nel 2015 da Ori Avraham, Shay Cohen ed Elram Goren. Questa startup consiste in piccoli centri dove dei robot ricevono le ordinazioni dei clienti e aiutano i lavoratori nell'imballaggio e la consegna dei prodotti.
  4. LawGeex è un software di intelligenza artificiale creato nel 2014 dall'avvocato Noory Bechor assieme a Ilan Admon, che in pochi secondi esamina numerosi documenti anche complessi, con una probabilità di successo del 94 per cento. L'idea era venuta a Bechor poiché al lavoro passava molto tempo a rivedere documenti legali: "una volta che hai visto centinaia di esempi di un tipo specifico di contratto, i concetti tendono a ripetersi. Ho pensato, 'è così ripetitivo, può essere automatizzato'".
  5. Bancor, analogamente ai bitcoin, crea monete virtuali che possono essere usate per acquistare e vendere merci.
  6. Otonomo è un mercato virtuale di dati legati al mondo delle automobili, che permette alle compagnie di organizzarsi e vendere dati a parti terze, in settori che vanno dalle assicurazioni alla vendita al dettaglio. Tra i loro clienti vi è la Daimler, una compagnia legata a Mercedes-Benz, e Otonomo ha ricevuto 43 milioni di dollari dai suoi sostenitori, tra i quali figura l'ex-vicepresidente della General Motors Steve Girsky.
  7. Zeek permette alle persone di vendere e comprare buoni acquisto a prezzi scontati. Fondata nel 2013 da Daniel Zelkind, Itay Erel e Ziv Isaiah, Zeek afferma di aver venduto oltre un milione di buoni solo nel 2017, e sta sviluppando una sua cripto-valuta.
  8. Lightricks è un'app per ritoccare foto, la più acquistata app della Apple nel 2017.
  9. Lemonade è stata fondata nel 2015 e ha sede a New York ma è stata sviluppata a Tel Aviv. Questa compagnia attraverso i suoi algoritmi ti aiuta a trovare le polizze assicurative più eque.
  10. Vayyar Imaging: offre una tecnologia che tramite sensori può creare un'immagine 3D di qualunque oggetto o spazio interno. Fondata nel 2011, essa serve per individuare tumori e visualizzare tubature dentro i muri.
Mani libere per Netanyahu significa giocare sui punti deboli, in prospettiva, dell'alleanza Mosca-Teheran in Siria. E alcuni risultati li ha già incassati. Perché il player centrale della "partita mediorientale", Vladimir Putin, sa bene che una cosa è vincere la guerra (e questo sta avvenendo) altra, e più difficile, è realizzare la "pax russa", funzionale per ciò che più interessa oggi il Cremlino: avere un posto da capotavola nella ricostruzione del devastato paese mediorientale, un affare da migliaia di miliardi.
  Per ottenere ciò, "Vladimir d'Arabia" deve contenere gli appetiti espansionistici di Teheran, tranquillizzando così sia Israele che l'Arabia Saudita, un'asse che regge nonostante l'affaire-Khashoggi che ha investito il principe ereditario Mohamed bin Salman; un'alleanza quella tra Riyadh e Gerusalemme particolarmente cara al consigliere-genere di Trump, Jared Kushner.
  Quanto a Israele, l'uscita di scena di Bashar al-Assad non è vista più, se mai lo è stata, una pregiudiziale per stabilizzare la Siria: l'interesse di Netanyahu è quello di avere a che fare con un rais "dimezzato" e comunque controllato da un "burattinaio" affidabile: l'uomo del Cremlino.
  Se questo dimezzamento dovesse passare per una destrutturazione dello stato, per Gerusalemme non vi sarebbero grossi problemi. A una condizione, però: che ciò non significhi la realizzazione di un "protettorato" sunnita sotto l'egida dei Pasdaran iraniani e degli Hezbollah libanesi.
  Quanto alle mire del "Sultano di Ankara", al secolo il presidente-padrone della Turchia Recep Tayyp Erdogan, Netanyahu è pronto ad accordarsi, sempre in funzione anti-iraniana. Di certo, Israele non si spenderà nella difesa delle milizie curdo-siriane delle Ypg.
  Per il resto, la "geopolitica delle startup" guarda a Oriente, alle nuove potenze globali come l'India e al rafforzamento dell'asse con il Brasile di Bolsonaro. L'arma commerciale non apre solo nuovi mercati ma può definire nuove alleanze strategiche, soprattutto quando la cyber sicurezza diviene la carta vincente che Israele, più di ogni altro paese al mondo, può permettersi di giocare.
  Un gioco che porta anche in Africa. E lo dimostra il recente viaggio del premier israeliano in Ciad, dove, insieme al presidente Idriss Deby Itno, ha annunciato la ripresa delle relazioni diplomatiche, interrotte dal governo di N'Djamena nel 1972.
  Annota Lorenzo Vita su Gli occhi della guerra:
    Per Israele si tratta di una strategia chiarissima. Dopo decenni di isolamento all'interno della sua roccaforte mediorientale, Netanyahu ha deciso di sfruttare il grande periodo di transizione geopolitica in atto in Medio Oriente e Africa per cambiare i rapporti con molti stati arabi e africani. Israele ha bisogno di uscire fuori dal suo guscio e sa che l'Africa, così come il mondo arabo, rappresentano partner economici e politici estremamente importanti, soprattutto in chiave anti-iraniana. E lo conferma anche la volontà di andare in Sudan (che ha autorizzato il sorvolo dell'aereo di Stato) e in Bahrein.
A N'Djamena, Netanyahu e Idriss Déby hanno siglato accordi di cooperazione militare e di intelligence che rappresentano uno snodo fondamentale nella strategia israeliana in Africa occidentale.
Startup e cooperazione militare: per Israele è il mix vincente.

(Ytali.com, 26 gennaio 2019)


Rafforzare l'argine contro l'odio antisemita

La Giornata della Memoria! Evitiamo l'indifferenza e l'ipocrisia; facciamo attenzione alla sottovalutazione di discorsi e pregiudizi che sembravano sepolti.

In campo
Non si faccia finta di niente se un calciatore si rifiuta di dare la mano a un collega ebreo
In Malaysia
Viene rifiutata la partecipazione degli atleti israeliani alle Paralimpiadi

di Pierluigi Battista

Una frontiera di decenza si stava sbriciolando, un argine al debordare dell'antisemitismo rischiava di essere travolto. Quando un senatore della maggioranza presta orecchio alla menzogna dei «Protocolli dei Savi Anziani di Sion», uno dei falsi più clamorosi della propaganda di odio antiebraico fabbricato dalla polizia segreta zarista e divulgato dai nazisti, è un bene che le istituzioni si muovano. E per fortuna, alla vigilia della G1ornata ~ Memoria, il presidente Sergio Mattarella ha messo in guardia la cittadinanza dall'uso disinvolto e micidiale di «teorie cospirative» che indicano nell'ebreo demonizzato l'oscuro burattinaio di indicibili complotti. Ma se si infrange la barriera della menzogna, se circolano con disinvoltura discorsi e pregiudizi che sembravano sepolti, allora la ricorrenza del giorno della Memoria assume un valore impensabile fino a poco tempo fa.
   Ma attenzione all'ipocrisia, al doppio standard, alla giustificazione del silenzio con cui noi in Europa abbiamo assistito a un odio antiebraico di tipo nuovo, che salda antichi pregiudizi e una smisuratezza antisionista che sconfina nell'antisemitismo più becero, fatto proprio da potenti Stati che con l'annientamento dell'«entità sionista», lo Stato di Israele, vorrebbero gettare gli ebrei nel mare. O ucciderli nel cuore della civiltà europea, dove vengono attaccate scuole ebraiche, cimiteri, sinagoghe, supermercati kosher, quartieri popolati dai «maiali ebrei».
   Una saldatura. Una connessione emozionale e sub-culturale che unisce in un circuito antiebraico i berci antisemiti degli stadi dove il nome di Anne Frank risuona addirittura come un insulto, agli spettacoli in Francia di un bieco antisemita come Dieudonné che fa crepare dalle risate oscene il popolo delle banlieue sbattendo sul palco un povero figurante rivestito con gli stracci di un deportato di Auschwitz. Una sotterranea contiguità tra chi non sente più come un limite invalicabile il richiamo alla più trita simbologia hitleriana (con grottesche magliette, nei raduni di Predappio, dove si esalta lo sterminio ebraico e si mette in ridicolo Auschwitz) e chi macchia la legittima solidarietà con il popolo palestinese con una sloganistica truce in cui l'odio per lo Stato di Israele fa tutt'uno con l'ostilità per gli ebrei in quanto tali.
   Attenzione all'ipocrisia, all'indifferenza, alla paura. Poche voci si sono sollevate quando l'Unesco (altro che la nomina di Lino Banfi che ha suscitato tanto scandalo tra i benpensanti) sotto la pressione degli odiatori antisemiti annidati nei suoi organi direttivi ha avuto l'ardire di negare il carattere ebraico della città di Gerusalemme: una vergogna che getta una luce fosca su un organismo che dovrebbe diffondere pace e cultura e che si è ridotto a portabandiera della più vieta ignoranza antisemita. Poche e flebili voci. E chi si ricorda di Ilan Halimi, il ragazzo ebreo che a Parigi, nel 2006 venne rapito, torturato per giorni e giorni, e bruciato vivo vicino a un binario della ferrovia, con gli inquirenti che fino alla fine hanno voluto negare la matrice antisemita di un delitto così atroce? Pochi se lo ricordano. Se lo ricordano gli ebrei francesi, però, che infatti in migliaia e migliaia hanno abbandonato in questi anni l'Europa perché l'aria si è fatta sempre più irrespirabile per loro, senza che l'Europa, a cominciare dalle sue istituzioni sonnacchiose e tremebonde, porgesse loro una parola di solidarietà e di allarme: perché lì il nemico è potente, ha alle spalle Stati, eserciti, gruppi armati, centrali del terrore, risorse economiche, meglio non risvegliare ostilità troppo pericolose. Attenzione all'ipocrisia, all'indifferenza. Negli Stati arabi circola una serie tv tratta dai «Protocolli» citati senza pudore da un senatore Cinque Stelle della Repubblica italiana: anche questo fa paura. In Iran si è tenuta per anni una fiera internazionale per premiare la migliore vignetta antisemita, a contorno di convegni in cui si voleva fare a pezzi la «menzogna dell'Olocausto»: anche questo fa paura, e le cancellerie internazionali fanno finta di niente, magari ostentando con finta pietas un minuto di silenzio nella Giornata della Memoria.
   Attenzione alla sottovalutazione di segnali, accettati per quieto vivere. Per dire: la Malaysia rifiuta la partecipazione degli atleti israeliani alle Paralimpiadi che dovrebbero valere per la selezione a quelle previste per Tokyo nel prossimo anno. Sarebbe bello se tutti gli organismi internazionali boicottassero questa discriminazione. E se l'Italia desse il buon esempio e si rifiutasse di mandare i nostri atleti in Malaysia se non viene revocata con atto solenne la messa al bando degli atleti israeliani. Sarebbe un buon segnale, certamente in linea con l'allarme lanciato con la sua autorevolezza dal presidente della Repubblica.
   Attenzione all'ipocrisia. Ricostruire una barriera, un argine. Non far finta di niente se la critica legittima al banchiere Soros diventa la demolizione del banchiere «ebreo» Soros. Non far finta di niente se in campo qualche calciatore si rifiuta di dar la mano a un calciatore ebreo. Se gli atleti israeliani vengono boicottati. Se il leader della comunità ebraica tedesca esorta gli ebrei a non indossare la kippah per non diventare bersaglio degli energumeni antisemiti. Se negli stadi si bercia «ebrei merde». Ricordarselo sempre, non solo nella Giornata della memoria. Evitare l'ipocrisia, l'indignazione a singhiozzo, il quieto vivere, persino la presa di distanza dagli ebrei che «fanno troppo le vittime». Evitarla sempre, non solo il 27 gennaio.

(Corriere della Sera, 26 gennaio 2019)


Antisemitismo, nessuno come Svezia e Francia

di Linda Laura Sabbadini

Proprio mentre la giornata della memoria si avvicina, un allarme forte e inquietante viene dal 50% dei cittadini europei che segnalano la presenza dell'antisemitismo nel proprio Paese, come ci dice un'indagine condotta da Eurobarometro. Al primo posto - sembrerà strano - la Svezia (81%) dove una comunità ebraica di appena 18000 persone, in parte discendente dei rari sopravvissuti polacchi alla Shoah, è bersaglio continuo di violenze di matrice integralista. Segue la Francia (72%), ma è alta la preoccupazione anche in Germania (66%). Anche da noi il problema esiste per il 58% degli italiani. Tanti episodi lo confermano: le magliette con la foto di Anna Frank esposte dagli ultrà razzisti, i frequenti insulti antisemiti in rete, l'indecente post sui Savi di Sion del senatore Lannutti, che lo pongono fuori dal consesso democratico e lo rendono di fatto estraneo al nostro Parlamento.
   La crisi, lunga e difficile, non è affatto terminata, è gioco facile andare a caccia di capri espiatori, e sugli ebrei grava una stratificazione di pregiudizi e calunnie antica migliaia di anni, che oggi rigermina usando vecchie e nuove sembianze, tutte maquillage dell'antisemitismo: gli ebrei che controllano la finanza mondiale, che si sono inventati la Shoah, cui si nega il diritto a un proprio Stato, Israele, e che negano il diritto ad uno Stato per altri.
   L'avvelenamento dell'aria per soffocare le minoranze è sempre stato il preludio di catastrofi immani per tutti. «L'antisemitismo non si esaurisce mai nella sofferenza degli ebrei e basta. La storia ha dimostrato che l'antisemitismo nel mondo ha sempre annunciato sciagure per tutti. Si incomincia col tormentare gli ebrei e si finisce con il tormentare chiunque», disse la prima ministra israeliana Golda Meir.
   Le parole d'odio scavano la pietra, lasciarle scorrere senza contrastarle a ogni costo e con ogni mezzo può portare solo al peggio. Da troppo tempo l'odio dilaga sui social, in televisione, nella vita quotidiana, e viene tollerato, non adeguatamente combattuto. Se lo si legittima de facto, chiunque può essere la prossima vittima. L'odio è una fiera sempre affamata. Oggi si scaglia sull'ebreo o sull'immigrato, oppure contro l'omosessuale e la donna, vittima di misoginia. Domani divorerà chiunque altro.
   Bisogna ritrovare la forza del reagire con un nuovo slancio vitale, nell'affermazione dei valori e dei sentimenti migliori di tolleranza, empatia e solidarietà. Dobbiamo agire ora, subito, insieme all'Europa, cambiandola e rendendola più giusta, pienamente casa di tutti, anche dei più poveri ed emarginati, sempre più Europa dei diritti.
   Il ricordo della Shoah, infamia inaudita della storia, è un monito: questo è il suo significato. Piangiamo i morti, malediciamo gli aguzzini, ma soprattutto parliamo ai vivi, gridiamo contro l'indifferenza. La storia ha insegnato che chi in passato si è voltato dall'altra parte ha contribuito alla vittoria della barbarie. Gridiamo contro la rassegnazione. Reagiamo.
   Siamo tanti a voler far vivere la nostra meravigliosa Costituzione nella sua essenza più profonda, racchiusa nell'articolo 3, quello che ci vuole uguali, arricchiti dalle nostre diversità e liberi, là dove si dice che la Repubblica rimuove gli ostacoli «al pieno sviluppo della persona umana», mettendo in primo piano la «pari dignità sociale dei cittadini». Renderlo vero non è aspirazione astratta, dipende da ciascuno di noi. Eli Wiesel, premio Nobel per la Pace, diceva: «Ogni persona è dotata di strani poteri. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino può modificare il cammino della storia». Crediamoci. Dichiariamo «tolleranza zero» contro razzisti e antisemiti, contro gli omofobi e i misogini, non già contro le donne, gli uomini e i loro bambini disperati, alla ricerca di un futuro negato.

(La Stampa, 26 gennaio 2019)


Avellino - Al Carcere Borbonico "Attualità del Midrash ebraico come metodologia dialogica"

Napodano: "Commemorare la Shoah attraverso il pensiero dialogico ebraico"

Mirella Napodano
AVELLINO - Si è tenuto oggi pomeriggio [25 gen], presso la Sala Ripa del Carcere Borbonico, il laboratorio di filosofia, dal titolo "Attualità del Midrash ebraico come metodologia dialogica", organizzato dal Lions Club International e dall'associazione Amica Sofia, in collaborazione con docenti e alunni del Liceo Statale "V. De Caprariis" di Atripalda.
   A condurre l'incontro Mirella Napodano, ex presidente dell'associazione Amica Sofia e attuale membro del Lions Club Avellino Host: "La scelta di non commemorare la Shoah nella classica maniera fa parte del nostro taglio filosofico e dalla nostra volontà di diffondere il pensiero ebraico, fin poco noto. È una modalità di dialogo diversa da quella socratica, oltre che poco conosciuta. È una pratica meditativa, trasmessa da un secolo all'altro, da maestro ad allievo. È un modello che abbiamo preso sempre in considerazione in Amica Sofia per evitare quel carattere di autoritarismo che sovente impedisce il libero pensiero".
   A seguire, gli alunni del Liceo Statale "De Caprariis" hanno introdotto una lezione sull'argomento: "Il Midrash è l'espressione autentica del dialogo libero da qualsiasi condizionamento. È ricerca della propria verità, rivelazione e confronto con l'altro". In particolare, in un'epoca dove la comunicazione è rivoluzionata dall'uso dei social network e delle chat, il tentativo di recuperare il pensiero dialogico ebraico va letto come la volontà di abbattere un pregiudizio, secondo cui è possibile ricostruire con i nuovi media quel dialogo che possiamo stabilire soltanto nella vita reale. Questo perché, come sostiene la Napodano: "Nel Midrash vi deve essere una simmetria razionale, ossia ognuno è chiamato a esprimere il proprio parere e si trova sullo stesso piano comunicativo dell'altro". Secondo il Midrash, il dialogo è libertà, libero movimento di idee, meraviglia della diversità e, soprattutto, ascolto, silenzio dell'ascolto.

(Irpinia24, 25 gennaio 2019)


Israele in Ciad per arrivare all'Unione Africana e all'ONU

Ely Karmon: "Anche l'Iran, stretto dalle sanzioni, ha bisogno dell'Africa"

di Monica Mistretta

Il Ciad è un paese povero. Nessuno sbocco sul mare, si vive d'agricoltura. Il petrolio c'è, ma la corruzione dilaga e le ricchezze rimangono anno dopo anno in poche mani. L'organizzazione terrorista islamica Boko Haram attacca regolarmente villaggi, uccidendo civili e militari. Di solito, di questo paese si parla pochissimo. Ma una settimana fa il Ciad è balzato agli onori della cronaca quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è atterrato nella capitale. Adesso è uno dei pochi paesi africani ad aver riallacciato le relazioni diplomatiche con Gerusalemme: i rapporti erano interrotti dal 1972.
Nelle stesse ore della storica visita, un altro paese dell'Africa conquistava le pagine dei giornali: in Mali un gruppo terroristico attaccava una base dell'Onu uccidendo 10 soldati del Ciad. L'attacco veniva rivendicato poco dopo da Al Qaeda nel Magreb Islamico, in ritorsione per la visita del primo ministro israeliano nel vicino paese musulmano.
Era stato lo stesso primo ministro israeliano a parlare apertamente dell'ostilità per la sua visita in Ciad poco prima di salire a bordo dell'aereo che lo avrebbe portato lì. Netanyahu aveva spiegato che Iran e palestinesi avevano fatto di tutto per sabotare quella visita in un paese musulmano. E il Mali, secondo fonti ufficiali israeliane, dovrebbe essere la meta di uno dei prossimi viaggi di Netanyahu. Ely Karmon, esperto di antiterrorismo israeliano, parla del nuovo contesto diplomatico e del 'soft power' iraniano in Africa.

- Con la visita storica del primo ministro Netanyahu in Ciad i rapporti di Israele con questo paese africano sono stati ripristinati. Erano stati interrotti nel 1972. Cosa ha impedito per tanti anni di riallacciare le relazioni diplomatiche?
  È il contesto diplomatico a essere cambiato. Fino a pochi anni fa era impensabile parlare di rapporti tra Israele e paesi del Medio Oriente come il Qatar, l'Arabia Saudita o gli Emirati Arabi. Le cose sono cambiate gradualmente: sulla stampa internazionale hanno cominciato ad affiorare notizie di contatti tra Israele e alcune capitali arabe. I leader di paesi africani a maggioranza musulmana, come il Ciad, il Niger e la Mauritania, che negli anni 60 avevano ottime relazioni con Israele, hanno mostrato una maggior apertura. Poi, una settimana fa, il Ciad ha ristabilito le relazioni diplomatiche. In Africa è in corso un'offensiva diplomatica senza precedenti. E ci sono buone ragioni per impegnarsi. Nell'ultimo anno l'Europa ha tenuto un atteggiamento molto critico nei confronti di Israele. Basti pensare al successo europeo del Bds, il movimento per il boicottaggio. I nuovi rapporti con i paesi dell'Africa, oltre che dell'America Latina, aiuteranno Israele nelle sedi internazionali più complesse, come quella dell'Onu.

- Nel 2016 era stata la volta di Uganda, Etiopia, Kenya e Rwanda: cosa promette Israele ai paesi dell'Africa e cosa vuole ottenere?
  Uno degli obiettivi è quello di ottenere lo status di osservatore tra i paesi dell'Unione Africana, oltre un'accoglienza diversa di Israele all'interno dell'Onu. Naturalmente, oltre alle ragioni diplomatiche e politiche, restano valide quelle commerciali: in Nigeria e Kenya, per esempio, stanno già lavorando grosse società edili israeliane. E poi c'è il turismo. Israele, dal canto suo, ha molto da offrire ai paesi del Sahel: le tecnologie idriche, l'intelligence nella lotta al terrorismo sono in primo piano. In Ciad è attivo Boko Haram e il lungo confine in comune con la Libia, ancora instabile, non facilita la lotta al terrorismo.

- In Africa è ben presente un paese ostile a Israele: l'Iran. Adesso i quotidiani israeliani parlano della possibilità di allacciare rapporti diplomatici in Mali. Ma lì c'è anche Teheran. E il recente attentato in Mali, proprio mentre Netanyahu era in Chad, è una spia di forti tensioni. Il terreno dell'Africa è minato?
  Teheran non è solo in Mali, è ovunque in Africa. Dai tempi di Ahmadinejad l'Iran ha un piede stabile in molti paesi africani: ci è arrivato costruendo ospedali e università, spesso sotto la diretta supervisione dell'ayatollah Ali Khamenei. In Nigeria, in passato, molti studenti sono andati a studiare in Iran, hanno ricevuto una formazione militare, e sono tornati nel loro paese. È successo anche in Mali: è il 'soft power' di Teheran che si nutre principalmente di attività sociali. L'Iran, stretto dalle nuove sanzioni americane, ha più che mai bisogno di uno sbocco in Africa.

- Il volo di ritorno di Netanyahu dal Chad attraverso il Sud Sudan è stato un altro passo storico: si aprono nuove rotte verso l'Africa. Il nuovo aeroporto Ramon, recentemente inaugurato vicino a Eilat, è stato pensato anche per questi nuovi sviluppi?
  No, prima c'era solo l'aeroporto Ben Gurion, a Tel Aviv. Ramon è molto più moderno e ospiterà anche tanti voli low cost. A pochi passi da Eilat, sul Mar Rosso, porterà nuovo turismo. Quanto al problema con la Giordania, che ritiene che l'aeroporto, troppo vicino al suo confine, violi gli standard internazionali del rispetto dello spazio aereo e della sovranità territoriale, credo che si tratti più che altro di una pressione diplomatica per ottenere qualcosa in cambio.

(L’Indro, 25 gennaio 2019)




«Se anche il sale diventa insipido, con che gli si darà sapore?»

"Or molta gente andava con lui; ed egli, rivoltosi alla folla disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, e la moglie, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo. E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, infatti, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolare la spesa per vedere se ha abbastanza per poterla finire? Perché non succeda che, quando ne abbia posto le fondamenta e non la possa finire, tutti quelli che la vedranno comincino a beffarsi di lui, dicendo: "Quest'uomo ha cominciato a costruire e non ha potuto terminare". Oppure, qual è il re che, partendo per muovere guerra a un altro re, non si sieda prima a esaminare se con diecimila uomini può affrontare colui che gli viene contro con ventimila? Se no, mentre quello è ancora lontano, gli manda un'ambasciata e chiede di trattare la pace. Così dunque ognuno di voi, che non rinunzia a tutto quello che ha, non può essere mio discepolo. Il sale, certo, è buono; ma se anche il sale diventa insipido, con che cosa gli si darà sapore? Non serve né per il terreno, né per il concime; lo si butta via. Chi ha orecchi per udire oda»."

Dal Vangelo di Luca, cap. 14

 


Si strumentalizza il massacro del popolo ebraico

Lettera a "La Verità"

In questi giorni si fa un gran parlare di lager e deportazioni. Mi indigno per la assoluta mancanza di buon senso, di onestà intellettuale, di oggettività. Chi ha anche una minima infarinatura della storia sa bene cosa hanno vissuto le vittime della Shoah. In merito ho letto abbastanza da poter dire che la persecuzione degli ebrei è stata un capitolo disumano. Gli ebrei erano cittadini dei vari Paesi europei che avevano contribuito a costruire la storia di quelle nazioni. Li hanno sradicati, spogliati di tutto, umiliati, deportati, ridotti a nulla per poi ucciderli fino a eliminarne i corpi con i forni crematori. Tutto ciò premesso, paragonarlo alle situazioni dei migranti mi pare quasi offensivo nei confronti di chi e scampato ai campi di concentramento nazisti.
Sara Maiarelli

(La Verità, 26 gennaio 2019)


Prof denuncia: «Presa a sputi da un romano con la svastica tatuata, pensava fossi ebrea»

La professoressa Alessandra Veronese
Presa a sputi in faccia da un romano con la svastica tatuata. Questo perché pensava che lei, una professoressa di Storia medioevale ed ebraica all'Università di Pisa, fosse ebrea. A denunciare con un post su Facebook i fatti avvenuti a Roma è stessa docente, Alessandra Veronese, che dimostra la voglia e il coraggio di "metterci la faccia" per lottare contro queste aggressioni e queste discriminazioni. Il romano in questione conosciuto nel suo quartiere e ci sono anche testimoni: quindi non resta che attendere gli sviluppi della denuncia presentata alla Digos dalla donna.
   L'episodio, in base a quanto riferito dalla prof, è accaduto giovedì scorso intorno alle 13 a Roma: ad agire contro la docente un uomo che aveva tatuato su un avambraccio una svastica, in base a quanto riferito da alcuni testimoni. Veronese sarebbe stata scambiata per ebrea perché aveva con sé una borsa di tela con una scritta in ebraico di un corso di yiddish fatto a Tel Aviv.
   L'uomo, riferisce, le ha sputato tre volte, sul volto, sulla borsa e sul trolley che aveva con sé. Veronese ha poi raccontato quanto accaduto su Fb perché «volevo che si sapesse, volevo raccontarlo ai miei amici: mi è sembrato un gesto così grave, enorme», spiegando anche di non aver capito subito il perché di quell'aggressione, altrimenti «gli avrei assegnato un bel calcione. Invece ero confusa: i testimoni mi hanno detto che aveva la svastica, che era un fascista conosciuto nella zona, non nuovo ad aggressioni di quel tipo. Figurarsi, io neanche pensavo che avevo quella borsina. Ho presentato la denuncia alla Digos. Sono troppi i casi intolleranza».

(Il Messaggero, 25 gennaio 2019)



L'antisemitismo torna nella sua patria: l'Europa

Pazzeschi i dati della crescita dell'odio verso gli ebrei nella UE. Ma i nuovi «sovranisti» non c'entrano. C'entra chi ostracizza lo Stato d'Israele.

di Fiamma Nirenstein

La mancanza di memoria è una malattia: nei casi migliori riguarda alcuni particolari dell'evento che si cerca di ripensare, nei casi peggiori è uno svisamento totale, come quello dell'Alzheimer. Possiamo dire per esempio che la negazione della Shoah è un caso di Alzheimer culturale e morale, ed è peggiore della terribile malattia perché è volontaria. Chi la pratica molto spesso sa bene di mentire, ma lo fa in nome di una profonda avversione agli ebrei: è la sua propensione antisemita che, per paura che gli ebrei possano avvantaggiarsi (pensiero idiota) della memoria di ciò che è accaduto, preferiscono negare l'evidenza storica. D'altra parte, quando l'UNESCO nega che Gerusalemme sia legata al popolo ebraico, pratica l'Alzheimer antisemita. Non c'è scandalo in questa comparazione. Il nesso fra l'oblio della Shoah o del rapporto fra la Terra di Israele e il suo Popolo sono due forme di negazionismo finalizzate a obliterare il popolo ebraico. Quindi è molto importante e positivo che domani il Giorno della Memoria sarà celebrato in Italia con tanto impegno, con l'appassionata partecipazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con l'apporto dei ragazzi delle scuole, con l'orgogliosa rivendicazione di tutto quello che si fa quanto a programmi di educazione, viaggi ad Auschwitz, discorsi pubblici, e soprattutto, cosa che forse resta la migliore e la più importante, incontri con i sopravvissuti che ancora ci beneficano con i ricordi e la forza della loro presenza vicino a noi.
  La memoria in sé è meravigliosa, e quella della Shoah in particolare, perché contiene un carico sovrastante di insegnamenti universali sul limite estremo cui possono arrivare la malvagità umana e, per converso, l'amore della vita e dell'eroismo degli uomini e persino dei bambini di osteggiare la belluinità umana con la sopravvivenza. Penso ai miei meravigliosi parenti divorati dal fuoco di Sobibor e di Auschwitz, i polacchi e gli italiani, ai piccoli fratelli del mio babbo che ha scampato per un soffio la deportazione e l'eccidio, e il mio cuore oltre che di pena si riempie di insopportabile dolore. Ma la memoria della Shoah è anche politica, ovvero dovrebbe servire a evitare che accada di nuovo. Never again: dovrebbe, cioè, battere l'antisemitismo. Invece non funziona. La sua paradossale crescita è sotto gli occhi di tutti, e ciò che fa più specie è la dimensione ciclopica che ha preso in Europa, la madre dell'antisemitismo genocida, proprio dove lo sforzo della Memoria e delle sue varie «giornate» si è prodigato. Non indugerò sui dati: gli episodi di violenza, di disprezzo, di omicidio o di solidarietà con l'omicidio variano dai giubbotti gialli, a Corbyn, alle aggressione musulmane e neonaziste. I serial killer jihadisti in Francia hanno già ammazzato bambini ebrei e donne sopravvissute alla Shoah, giovani parigini e passanti con la kippà. Moltissimi, ebrei e non ebrei, si peritano dal frequentare occasioni palesemente ebraiche per paura di attacchi. L'emigrazione dall'Europa verso Israele ha raggiunto picchi inusitati dalla seconda guerra mondiale. La battuta antisemita è ormai pane quotidiano in ogni ambiente, è diventato legittimo negli ambienti borghesi pensare che gli ebrei siano, al minimo, una noia e al massimo un inutile ingombro nel già difficile rapporto con gli islamici immigrati. Due inchieste molto larghe segnano l'indagine sul fenomeno nella sua accezione più larga: quella della CNN fra gli Europei, e una dell'UE fra i suoi ebrei.
  Un terzo degli europei sanno poco della Shoah o addirittura ne ignora completamente l'esistenza (uno su cinque fra i 18 e i 34 anni). Vecchi pregiudizi sugli ebrei sono molto comuni: un europeo su quattro pensa che abbiano troppo peso negli affari, uno su cinque troppo nella politica. Un terzo dice che le commemorazioni della Shoah servono agli ebrei che se ne approfittano; il 54 per cento dice che Israele ha diritto di esistere, ergo il 46 non lo pensa affatto. In questo capitolo si intravede il nuovo trend confermato dalla seconda indagine: un terzo degli europei immagina che gli amici di Israele (gli ebrei, si specifica) usino l'accusa di antisemitismo per mettere a tacere le critiche, e sempre un terzo che commemorare la Shoah distragga da altre atrocità commesse oggi. Israele è il fantasma che sempre aleggia su queste opinioni, quando non si trasforma in direttamente responsabile. Un quarto degli intervistati pensa che l'antisemitismo sia frutto delle azioni di Israele. Se si va all'altra indagine, si vede che l'accusa da cui, in assoluto, gli ebrei europei si sentono più assediati (85 per cento) è la comparazione fra ciò che i nazisti hanno fatto agli ebrei e ciò che gli israeliani fanno ai palestinesi. Accanto a questa l'accusa agli ebrei di sfruttare la memoria della Shoah a loro vantaggio, e quindi a vantaggio di Israele. Il 90 per cento degli ebrei europei hanno subito una qualche violenza (messaggi di minaccia e di offesa, e ne sa qualcosa chi scrive, telefonate, commenti, gesti, oltre a veri e propri assalti fisici come quelli contro chi indossa kippà o stelle di David) e di questi il 30 per cento identifica in islamici estremisti i perpetratori, il 21 qualcuno con una visione di sinistra, il 13 di destra. La dislocazione geografica dell'antisemitismo diffuso dà da pensare a chi in questo giorno della memoria insiste nell'identificare il nuovo pericolo razzista nei nuovi poteri «sovranisti» e i loro derivati «populisti» che sfocerebbero nel razzismo. Gli ebrei che hanno sentito più forte la morsa di questo ritorno sono per il 70 per cento in Francia, Belgio, Germania e nei Paesi Bassi, cioè in Paesi occidentali in cui la democrazia tradizionale è salda; la maggiore preoccupazione per la presenza di antisemitismo nella vita politica la si sente in Inghilterra (84 per cento); con la Germania e la Svizzera, sempre la Gran Bretagna è la nazione da cui si prende più in considerazione l'emigrazione, ovvero la fuga. Chi si figura che l'antisemitismo fiorisca, dunque, soprattutto dove ha messo radici una destra sovranista si sbaglia, occorre puntare l'attenzione verso le zone di odio contro Israele, da là fuoriesce la maggior scaturigine di antisemitismo: in Polonia, in Ungheria sono meno della metà gli ebrei preoccupati, in Italia sono il 30 per cento quelli che hanno patito insulti (sempre moltissimi!) mentre il 58 per cento degli ebrei Francesi e la metà dei tedeschi hanno paura di essere attaccati ... e così via. In Ungheria, famigerata a causa di Orban, il numero degli ebrei preoccupati è precipitato in basso; leggendo anche il resto dei dati si capisce che l'antisemitismo non si combatte soltanto con la pratica della memoria, non soltanto promuovendo corsi scolastici e pellegrinaggi (sempre benvenuti, si capisce, da chi scrive) ma soprattutto promuovendo lo smantellamento della costruzione di bugie che circonda nell'Unione europea lo Stato di Israele.
  L'UE ha da poco approvato (a dicembre) in una conferenza ospitata con gran buona volontà dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz (anche lui uno dei sospettati di destra) un documento molto positivo sulla lotta all'antisemitismo in Europa, che chiama anche tutti i Paesi Europei che non l'avessero fatto ad «adottare la "working definiti.on" di antisemitismo nel campo dell'applicazione delle leggi, educazione e training», e chiede alla Commissione Europea e all'Europol di combattere l'antisemtismo on line. È una buona cosa, anche se la raccomandazione è rimasta per ora tale presso molti dei 27 stati più uno. Ma, di nuovo, il punto è che per occuparsi in termini contemporanei della memoria della Shoah e per agire contro il suo motore ideologico, l'antisemitismo, gli strumenti tradizionali non funzionano! Non funziona dire «mai più» quando si promuove in tutta Europa col BDS e i continui provvedimenti come il «labeling» dei prodotti dei territori il boicottaggio dello Stato Ebraico, si demonizza la sua autodifesa indispensabile contro un terrorismo quotidiano e crudele, si seguita a consentire che nelle scuole si immagini la storia d'Israele come una storia coloniale in cui i poveri palestinesi vengono occupati e sfruttati e i cattivi ebrei arrivano addirittura a praticare l'apartheid o peggio, il genocidio ... non può funzionare quando la cultura onusiana consente che Gerusalemme passi per città araba eventualmente occupata dagli ebrei, quando si seguita a fornire all'autonomia palestinese, ingrassando le ONG, il denaro che essa poi utilizza per il 7 per cento del suo intero budget in stipendi ai terroristi in cella o alle loro famiglie se sono morti. Non va bene se si finge di credere che i palestinesi siano vittime degli ebrei come, e torniamo al punto, gli ebrei sono state vittime dei nazisti. Israele ha cercato tre volte di porgere ai palestinesi la famosa soluzione «due stati per due popoli», resta in continua attesa di riaprire i colloqui che Abu Nazen rifiuta, non sa con chi parlare fra Fatah e Hamas, e il rifiuto sempre ricevuto significa una cosa sola: gli ebrei non hanno diritto alla loro terra, non hanno diritto come ogni altro popolo all'autodeterminazione perché sono ebrei. Quando Corbyn chiede in nome della libertà di opinione la libertà di lodare Hamas e di chiamare gli Hezbollah fratelli, non fa che dichiararsi fratello dei terroristi e delle loro teorie antisemite. Abbraccia l'ignoranza su Israele per il suo uso politico: è qui, su questa ignoranza su Israele che il Giorno della Memoria, mentre pure ricorda i nostri sei milioni assassinati, deve virare. Insieme a raccontare Auschwitz, deve ristabilire a scuola e alla tv la verità su Israele. All'inizio abbiamo parlato di come la perdita totale di memoria sia un malattia, nei casi più gravi si tratta di Alzheimer. Ebbene, in Israele si sta già sperimentando una cura per questa malattia come per tante altre ritenute incurabili. Non è una parabola, è la verità. Prendetela come un segnale di speranza di superamento dell'idra infernale dell'antisemitismo.

(il Giornale, 26 gennaio 2019)


IN HOC TURCO VINCES

"Così la Turchia ha spazzato via la cristianità. Fu un jihad ante litteram". Intervista allo storico israeliano Benny Morris sul suo nuovo libro. "Un milione e mezzo di morti in trent'anni di pulizia etnico-religiosa".

di Giulio Meotti

Siamo alla fine di dicembre 1895 a Urfa, nella moderna Turchia. Un "corpo di tagliatori di legna", armato di asce, si fa strada nel villaggio, abbattendo le porte. I soldati si precipitano dentro e sparano agli uomini. "Un certo sceicco ordinò ai suoi seguaci di portare più giovani armeni che potessero trovare. In cento furono tenuti per le mani e i piedi, mentre lo sceicco, in una combinazione di fanatismo e crudeltà, procedette, recitando i versi del Corano, a tagliare loro la gola come nel rito del sacrificio delle pecore. 'Quelli nascosti furono trascinati fuori e massacrati, lapidati, fucilati e bruciati vivi con stuoie sature di petrolio'. Altri armeni furono fucilati mentre correvano sui tetti cercando di scappare. Quando la strage ebbe fine, le case furono saccheggiate e date alle fiamme. All'avvicinarsi del tramonto, la tromba suonò di nuovo, chiamando le truppe e la folla a ritirarsi". Le atrocità ripresero il giorno dopo, con il solito suono di tromba all'alba. "Il maggior numero fu ucciso nella cattedrale armena, dove migliaia si erano radunati. Hanno sparato attraverso le finestre della chiesa, poi hanno sfondato…

(Il Foglio, 26 gennaio 2019)


Il confronto tra i due eserciti: perché Israele può battere l'Iran

di Paolo Mauri

 
Il tank israeliano Merkavat
Secondo il sito di analisi Global Firepower, l'Iran possiede un complesso militare e un apparato economico e sociale atto a sostenerlo maggiormente rispetto a quello di Israele.
  Nella classifica che viene stilata annualmente Israele occupa la sedicesima posizione mentre l'Iran la tredicesima. Rispetto all'anno precedente, il 2017, entrambi hanno visto variare la propria posizione sul totale di 137 Paesi considerati: Tel Aviv è precipitata di cinque posti mentre Teheran ne ha guadagnati sette.
  Il sito considera diversi fattori tra cui l'economia, la popolazione, la consistenza numerica degli uomini in armi, la possibilità di avere un accesso a mare e ed il rapporto delle linee di costa rispetto alla superficie totale, la disponibilità di risorse naturali. La presenza di armamenti atomici nell'arsenale non viene presa in considerazione nella generazione del coefficiente del ranking ma viene riconosciuto un bonus così come la partecipazione ad alleanze, come la Nato.

 Iran e Israele, economie a confronto
  Per capire la disparità risultata dal sito, prima di guardare alla consistenza numerica delle forze armate di entrambi i Paesi, è bene confrontare i dati economici e sulla forza lavoro, che sono indicatori considerati molto importanti in quanto stabiliscono la sostenibilità di un conflitto armato.
  L'Iran, con una popolazione di 82 milioni di abitanti, ha una forza lavoro di 30 milioni 500 mila persone, mentre Israele con poco più di 8 milioni di abitanti, ha una forza lavoro di 4 milioni persone.
  La disponibilità ed il consumo di risorse energetiche sono fondamentali secondo Global Firepower, ed anche qui il vantaggio iraniano è facilmente intuibile oltre che palese. Teheran infatti possiede riserve certe di idrocarburi per 158 miliardi e 400 milioni di barili con un consumo di poco meno di 2 milioni di barili al giorno ed una produzione di 4 milioni, facendone uno dei più grandi Paesi esportatori di petrolio e gas naturale del mondo. Israele, al contrario, nonostante le recenti scoperte nel suo offshore, ha riserve certe pari a 12 milioni 700 mila barili con una produzione di soli 390 barili al giorno ed un consumo di 240 mila, facendone così, fondamentalmente, ancora un Paese importatore di idrocarburi.
  L'Iran batte Israele anche nel numero di naviglio mercantile: sono 739 le navi battenti bandiera iraniana contro le 42 battenti quella con la Stella di Davide, fattore non propriamente secondario nel conteggio finale in quanto determina la capacità di un Paese di avere linee di navigazione efficienti che provvedano al sostentamento di una eventuale economia di guerra.
  Tel Aviv batte Teheran solo nel numero di porti di grandi dimensioni: sono quattro quelli israeliani contro tre iraniani.

 Le forze armate dei due Paesi
  Ci addentriamo ora nell'analisi più prettamente militare e puramente numerica fatta da Global Firepower in merito alle forze armate di Israele e Iran.
  Secondo il sito di analisi strategica l'Iran possiede un totale di 601 velivoli ad ala fissa (compresi quelli inefficienti ed in manutenzione) di cui 150 caccia, 158 da attacco e 192 da trasporto con una flotta di elicotteri pari a 145 macchine.
  Israele ha nei registri della Idf ben 751 composti da 252 caccia, 252 da attacco, 95 da trasporto a cui si aggiungono 147 elicotteri.
  Per quanto riguarda i carri armati, di cui non viene fatta distinzione tra carri leggeri medi e pesanti, l'Iran ne ha 1650 a fronte dei 2760 di Israele.
  I rapporti di forza vengono ribaltati solo per quanto riguarda la forza missilistica e le unità navali: sono 148 i lanciatori israeliani contro i 1533 iraniani e la Marina di Tel Aviv dispone di un totale di 65 asset (32 pattugliatori, 6 sommergibili e 3 corvette) contro i 398 della marina di Teheran (230 pattugliatori, 33 sommergibili, 3 corvette, 5 fregate).
  Anche in questo caso non è dato sapere di che tipo siano i pattugliatori considerando che sotto questa categoria vengono annoverati anche i semplici gommoni veloci armati dei Pasdaran, che mancano totalmente, perché non rientranti nella dottrina strategica israeliana, dagli arsenali israeliani.
  Per quanto riguarda gli uomini attualmente facenti parte delle forze armate, l'Iran ha 934mila soldati di cui 534mila in servizio attivo e può contare su 39 milioni 500 mila uomini in età "militare". Israele invece ha un totale di 615mila soldati di cui 170mila in servizio attivo e può contare su 3 milioni di uomini fit for service.

 Un'analisi quantitativa fuorviante
  Il limite dell'analisi di Global Firepower è palese: prende in considerazione la consistenza numerica delle forze armate senza approfondire altri fattori che sono fondamentali su di un campo di battaglia moderno, come la qualità degli asset che vengono schierati.
  Anche senza rimarcare la scelta della mancata considerazione dell'armamento atomico in un arsenale, cosa che Israele ha per certo mentre l'Iran è ancora lontano dall'ottenimento di un ordigno nucleare sebbene abbia compiuto passi notevoli in questo senso, la posizione in classifica risultante dagli analisti del sito è fuorviante così come è immotivato l'allarme che ne è scaturito in alcuni media di Tel Aviv.
  Analizziamo in dettaglio, ad esempio, le forze aeree dei due Paesi per capire meglio la necessità di un'analisi che sia non solo quantitativa ma anche qualitativa.
  Nella Iriaf (Islamic Republic of Iran Air Force) sono presenti una miscellanea di velivoli che rappresentano un salto indietro nel tempo aeronautico: oltre ai più "moderni" Mirage F-1, Sukhoi Su-24 e 25, F-14 Tomcat e qualche esemplare di Mig-29, troviamo gli ancor più vecchi F-4 Phantom, gli F-5 Tiger e i Sukhoi Su-22 oltre alla versione cinese di quest'ultimo, il Chegndu F-7.
  Tutta la flotta di Mirage F-1 ed alcuni Mig-29 provengono dai tempi della Guerra del Golfo del 1990/91 quando i caccia iracheni per sfuggire ai bombardamenti alleati si fecero internare in Iran. Gli F-14, gli F-4 e gli F-5 risalgono invece ai tempi dello Shah, quando l'Iran era alleato degli Stati Uniti, e sono mantenuti - a fatica - in condizione di volo soprattutto grazie alla cannibalizzazione dei loro fratelli ma anche grazie all'industria locale che ha visto un notevole salto in avanti tecnico rispetto ai primi decenni della Repubblica Islamica, ma che non è nulla di paragonabile agli standard occidentali odierni.
  Sotto questo aspetto si registra la prima costruzione aeronautica autoctona rappresentata dai caccia Kowsar e Saeqeh, sostanzialmente una copia dell'F-5 prodotti dalla Hesa con, rispettivamente, una deriva e due derive.
  Israele, al contrario, dispone sì di una flotta composta principalmente da F-15 ed F-16 nelle loro varie versioni, ma gli aerei di quarta generazione con la Stella di David sono aggiornati con gli ultimi sistemi avionici occidentali prodotti sia dall'industria locale sia da quella estera. Senza considerare che sono entrati in servizio, ed impiegati in azione, i caccia di quinta generazione stealth F-35 Adir, che non hanno rivali in grado di intercettarli nella flotta della Iriaf e penetrerebbero facilmente anche le difese missilistiche contraeree iraniane, affidate per la maggior parte ai vecchi missili di fabbricazione sovietica S-200 e agli americani MIM-23 Hawk anch'essi risalenti ai tempi precedenti la Rivoluzione Islamica, con l'aggiunta di una manciata di più moderni S-300 nelle versioni P e PMU-2 oltre che a produzioni locali.
  Lo stesso settore dei missili balistici e da crociera di Teheran, sebbene sia molto più eterogeneo e numeroso rispetto a quello di Tel Aviv, può contare su pochi missili moderni dotati di una precisione tale da rappresentare una minaccia. Israele ha poi dimostrato più volte, nel corso dei lanci di razzi e missili da parte delle milizie sciite presenti in Siria, di saper neutralizzare una minaccia missilistica efficacemente quando si tratta di un singolo lancio o di pochi vettori grazie al sistema di difesa Iron Dome, che però non è mai stato messo alla prova contro un attacco di saturazione e orientativamente ne verrebbe travolto. Questo però vale per tutti i sistemi antimissile e non solo per quello israeliano.
  Israele, al contrario, può disporre di pochi (circa 90) ma efficienti missili balistici della famiglia dei Jericho, nata all'inizio degli anni '60 del secolo scorso, che possono anche montare una testata nucleare all'occorrenza e che, nelle ultime versioni, sono classificati come Irbm per la loro gittata compresa tra i 4800 ed i 6500 chilometri.
  Anche il missile da crociera aviolanciabile israeliano Delilah, entrato in azione più volte contro obiettivi iraniani in Siria, ha dimostrato ampiamente la sua maturità e la sua affidabilità, cosa che ancora non si può dire per la controparte iraniana, il Soumar, svelato per la prima volta nel 2015 e derivante direttamente dal russo Kh-55 "Granat".
  Sostanzialmente quindi l'analisi di Global Firepower, così come era avvenuto l'anno scorso per il caso italiano, pecca di lacune molto importanti per poter considerare la reale efficacia e potenza delle forze armate di un Paese, pertanto riteniamo che l'allarmismo che si legge su certi media, non solo israeliani, sia del tutto ingiustificato se guardiamo all'aspetto qualitativo dei sistemi in dotazione ad entrambi i Paesi.

(Gli occhi della guerra, 25 gennaio 2019)


Israele rinforza le difese aeree intorno all'aeroporto di Tel Aviv dopo le minacce di Damasco

Secondo quanto riferito, le forze armate israeliane hanno rinforzato le loro difese aeree intorno all'aeroporto di Tel Aviv dopo le recenti minacce del governo siriano.
Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "The Times of Israel", l'esercito di Tel Aviv ha schierato il suo sistema di difesa missilistica Iron Dome nel sud e nel centro di Israele in questi ultimi giorni.
Il Times of Israel ha comunicato che una batteria è stata schierata nell'area metropolitana di Tel Aviv dopo che il governo siriano ha minacciato di colpire l'aeroporto per rappresaglia contro l'aviazione militare israeliana che ha attaccato l'aeroporto internazionale di Damasco.
L'ambasciatore della Siria alle Nazioni Unite Bashar Al-Ja'afari ha paventato questa minaccia durante una recente sessione delle Nazioni Unite questa settimana.
Le forze armate israeliane hanno anche schierato alcune batterie nella regione meridionale del paese dopo le recenti violenze nella Striscia di Gaza.

(l'AntiDiplomatico, 25 gennaio 2019)


Vita nel kibbutz, un'esperienza antica da fare nel presente

Nate oltre un secolo fa,queste società comunitarie vivono una nuova giovinezza: sono diventate mete turistiche e di volontariato, dove la condivisione non è solo virtuale e si può imparare divertendosi.

di Gabriele Eschenazi

 
La vista sulle montagne desertiche e sul Mar Morto dalla terrazza panoramica del Kibbutz Ein Gedi
L'economia della condivisione, oggi in crescita, fa pensare al kibbutz, un mito che resiste da 110 anni. Il primo, Degania, fu costituito infatti nel 1909. Lo seguirono in formule diverse (anche religiose) altri 273 in tutte le aree di Israele. Con la sua lunga storia è l'esperimento più longevo di comunità collettiva esistente al mondo, anticipando le tendenze contemporanee di sharing economy, coworking, cohousing. Basterebbe questo per spiegare come mai ancora oggi, in società fortemente individualiste, ci siano persone attratte dal suo modello di vita. Certo, nel tempo, la maggior parte di queste forme di vita comunitaria si è trasformata e il principio fondante del collettivismo - "da ognuno secondo le proprie possibilità, a ognuno secondo i propri bisogni" - è diventato via via meno stringente. Ma il contributo dei kibbutz all'economia del Paese è sempre notevole: 40 per cento della produzione agricola e dieci per cento di quella industriale. In quest'ultima rientra il turismo. Molto ben distribuiti sul territorio, sono diventati avamposti di difesa dell'ambiente, offrono attrattive proprie (musei, siti archeologici, eco-parchi) e servizi per l'ospitalità quali alloggi confortevoli, ristorazione di buon livello, itinerari guidati e no.

 Kibbutz, dalla difesa dell'ambiente all'ospitalità
  Il più esotico e adatto a chi va in cerca di relax è il kibbutz di Ein Gedi con la sua Spa sinergica: i trattamenti a base di minerali del Mar Morto si combinano con l'aria calmante carica di ossigeno e bromina e con il paesaggio delle montagne di Moab. La freschezza delle acque sorgive è la caratteristica di Nir David e di Beit Alfa, all'interno del Parco nazionale di Gan HaShlosha, uno dei dieci più belli al mondo secondo Time magazine, dove ci si può tuffare in piscine e cascate naturali. A rammentare ai visitatori il senso del luogo provvede, a Beit Alfa, il museo Davidka, dedicato a vita e professioni iniziali del kibbutz. Ma il racconto più immersivo, che si conclude con un tour guidato, è quello di Degania, la prima comunità agricola di Israele, vicino al Lago di Tiberiade: il Museo dei Fondatori ripropone l'antica atmosfera rurale con oggetti e fotografie, oggi che il vecchio pollaio è diventato, invece, un ristorante di pesce.
  Gli animali sono sempre stati parte del sistema produttivo agricolo (e dell'alimentazione) dei kibbutz. Ma in Israele, come nel resto del mondo, aumentano i vegetariani. Si mangia veg nel kibbutz Inbar, nel cuore della Galilea, la zona più verde del Paese e anche la più mistica. Sotto una quercia di cinque secoli è seppellito Rabbi Halafta, un grande studioso di Talmud del 500 d. C. E la città della Kabbalah, Safed, dista appena 26 chilometri. Albergo e ristorante di Inbar sono spartani negli arredi, ma il buffet a base di verdure, legumi e latticini locali è fantasioso. Per vegani più rigorosi a soli 16 chilometri c'è il moshav (cooperativa agricola) Amirim, fondato nel 1958 da un gruppo di pionieri della scelta vegetariana e vegana, che hanno aperto tre luoghi di ristoro. Il primo è il ristorante El Hagalil, dove in tavola arrivano i classici piattini con creme e insalate accompagnati da pane arabo. Il secondo è Hamakom shel Yshai (Il luogo di Yshai), che propone un originale hummus a base di ceci germogliati, erbe e olio extravergine di oliva. Il terzo è Bait 77 (Casa 77) un caffè-galleria d'arte con panetteria che usa solo farine integrali.

 Pensare alla comunità
  Duecento chilometri separano la Galilea dal deserto del Negev dove, nell'Arava, sono nati i kibbutz più recenti e idealisti, per vivere esperienze di volontariato. A Samar, a 34 chilometri da Eilat, accolgono solo persone disposte a rimanere minimo sei mesi: il kibbutz, 250 abitanti, produce latticini, datteri, manto erboso, sistemi automatici per agricoltura e industria. A disposizione degli ospiti quattro cavalli per l'equitazione. Trenta chilometri più a nord, il kibbutz Neot Semadar si accontenta di un minimo di otto settimane per i suoi volontari, che sono numerosi: 50 su una popolazione di 160 persone. Produzione bio e attenzione all'ecologia caratterizzano la comunità, impegnata in agricoltura sostenibile, enologia e ricerche sul riciclo dell'acqua. E si interessa anche di architetture adatte al deserto.
  Nei 22 kibbutz che accettano volontari, il lavoro è retribuito in minima parte per spese non coperte dalla collettività. Certo sono esperienze faticose e in condizioni spartane, compensate, però, dalla ricchezza dei rapporti umani e da una parentesi di vita in cui si stacca la spina. In comunità come queste sono vissuti a lungo personaggi importanti per Israele: Sde Boker nel Negev è stata la casa di David Ben Gurion, il fondatore dello Stato; lo scrittore Amos Oz (scomparso lo scorso 28 dicembre) ha abitato per trent'anni a Hulda e nel 2016 ha scritto Tre amici (Feltrinelli), romanzo ambientato in un kibbutz degli anni Cinquanta. Senza contare i volontari famosi quali l'attore e produttore britannico Sacha Baron Cohen, Sigourney Weaver, Simon Le Bon, la cantante e scrittrice americana Sandra Bernhard, Debra Winger, Bob Hoskins. E proprio Amos Oz confessò di attingere la sua scrittura dall'esperienza nel kibbutz: "In una comunità di trecento persone, di cui si sapeva ogni segreto, ho imparato più cose sulla natura umana che se avessi fatto dieci volte il giro del mondo".

(Corriere della Sera, 25 gennaio 2019)


L'appello del World Jewish Congress

"Facciamo sapere ai giovani il contributo ebraico all'Europa"

Il World Jewish Congress chiede maggiore attenzione al mondo della scuola nello spiegare il contributo ebraico dato alla costruzione dell'Europa e all'insegnamento della storia della Shoah. Una richiesta arrivata in seguito alla pubblicazione di uno speciale rapporto che ha rilevato che 1 europeo su 4 non considera l'antisemitismo come un problema. Il rapporto è stato lanciato in occasione di un evento speciale al Museo ebraico del Belgio dal Commissario europeo per la giustizia, V?ra Jourovà. La relazione misura la percezione dell'antisemitismo da parte dei cittadini di tutti i ventotto Stati membri dell'Unione Europea ponendo una serie di domande sulle manifestazioni di antisemitismo, educazione e consapevolezza, in cui si afferma che il 50% degli europei ritiene che l'antisemitismo sia un problema nel proprio paese. Ciò contrasta con i risultati di una recente indagine condotta dall'Agenzia dell'UE per i diritti fondamentali, secondo la quale l'85% degli ebrei in 12 Stati membri considera l'antisemitismo un problema serio. Commentando i risultati, il vice presidente esecutivo del Wjc Robert Singer ha sottolineato che "essendo stato per decenni coinvolto nella promozione dell'educazione ebraica a livello internazionale, mi è chiaro che occorre porre una rinnovata enfasi sull'educazione alla storia ebraica e della Shoah. Mentre l'UE e i suoi Stati membri hanno effettivamente compiuto passi importanti per proteggere le loro comunità ebraiche, va sottolineato che senza istruzione, la società europea in generale rischia di trascurare il veleno dell'antisemitismo che permane in così tanti settori della vita pubblica. Continueremo a lavorare insieme all'UE e agli Stati membri per l'attuazione pratica della recente dichiarazione del Consiglio dell'UE sulla lotta contro l'antisemitismo". È stata anche ricordata la campagna lanciata nelle scorse ore #WeRemember: un invito rivolto a tutti a fotografarsi con un cartello con su scritto We Remember e postarlo poi sui propri profili social per dare un segnale di impegno nella tutela della Memoria (alcune fotografie sono proiettate anche all'ingresso di Auschwitz e lo saranno fino al 27 gennaio).

(moked, 24 gennaio 2019)



L'Iran e la partita dell'Occidente

di Ofer Sachs*

 
Ofer Sachs, ambasciatore d'Israele in Italia
Lo scorso 13 gennaio si è conclusa l'operazione "Scudo settentrionale", con cui le forze di sicurezza di Israele hanno portato alla luce 6 tunnel che dal Libano penetravano oltre confine in territorio israeliano, con il chiaro intento di portare a compimento delle azioni terroristiche. Sebbene l'operazione costituisca un importante risultato in termini tecnologici e di intelligence, lo Stato d'Israele non può adagiarsi sugli allori di questo successo in quanto è evidente che Hezbollah non cesserà di attrezzarsi e predisporsi a un conflitto di maggiore portata. Per comprendere le ragioni degli ingenti sforzi che Hezbollah investe e distrae sistematicamente dalle risorse destinate ai residenti del Sud del Libano bisogna guardare a Oriente verso Teheran.
   Creata come longa manus dell'Iran durante il conflitto del Libano meridionale, l'organizzazione terroristica sciita di Hezbollah si ispira tutt'oggi ai principi della rivoluzione islamica del 1979 che portarono alla nascita della Repubblica Islamica, il cui governo autocratico e conservatore ha imposto una visione dello sciismo khomeinista improntata su fondamentalismo e nazionalismo. L'Iran di oggi non è soltanto un Paese che nega i diritti dell'individuo in nome di Dio, ma anche uno Stato che erge a proprio vessillo tre supreme missioni:
  • divenire la suprema autorità islamica a livello mondiale;
  • imporre la propria influenza su un'area che va da Occidente all'Eufrate;
  • dotarsi di armi nucleari come strumento per condurre questa sua guerra di religione.
L'Iran ogni anno sottrae miliardi dal già esiguo bilancio del Paese (bilancio che si impoverisce sempre di più dopo le sanzioni americane) per aiutare le organizzazioni terroristiche di Hezbollah in Libano e Siria, di Hamas a Gaza, degli Huthi in Yemen, e investe ingenti somme di denaro in un ambizioso programma missilistico. Per comprendere tutto ciò, è necessario cambiare modo di pensare, non secondo i parametri occidentali per i quali benessere e prosperità dei cittadini costituiscono la missione suprema. La missione del regime estremista di Teheran ha altri obiettivi: la vittoria nella guerra fra sciiti e sunniti e la diffusione dell'Islam khomeinista nel Medio Oriente. Una guerra di religione vera e propria.
   Israele è forse parte di questa guerra? Per la verità non esattamente. Israele, definito "Piccolo Satana" (contrapposto al "Grande Satana" che sono gli Stati Uniti) non è che un intralcio all'espansione della corrente sciita da una parte, e dall'altra uno strumento di propaganda che consente al regime al governo di ascrivere tutti i guai del cittadino iraniano alla responsabilità dell'Occidente. Israele agli occhi dell'Iran rappresenta l'Occidente e si trova in mezzo intralciando la strada verso la realizzazione territoriale, è un acerrimo nemico per sconfiggere il quale tutti gli strumenti sono ammessi. Anche scavare dei tunnel terroristici e finanziarli è un prezzo valido secondo questa logica.
   Che cosa succederebbe il giorno in cui l'Iran dovesse realizzare il suo primo obiettivo, ovvero quello di continuità territoriale tra Teheran e Beirut. Il giorno in cui gli sciiti prevalessero in Iraq, Siria e Libano, o quando la lotta dovesse essere rivolta contro l'acerrimo nemico di sempre, l'islam sunnita. Per comprendere concretamente, la guerra Iran-Iraq causò la morte di centinaia di migliaia di persone, ma non fu dirimente. Oggi la posizione dell'Iran è completamente differente, e diverso è anche l'equilibrio delle forze nella regione. Una guerra regionale del genere produrrebbe milioni di profughi, la maggior parte dei quali busserebbe alle porte dell'Europa e dell'Occidente.
   Con il suo atteggiamento indulgente nei confronti della strategia egemonica iraniana, l'Europa sarà la prima a rimetterci il giorno in cui l'intero Medio Oriente dovesse trasformarsi in un campo di battaglia fra islam sciita e islam sunnita. Tra le finalità della risoluzione Onu 1701 dell'agosto 2006 v'era quella di allontanare Hezbollah dal confine settentrionale di Israele con il Libano, allontanando di fatto l'Iran da Israele e dalla realizzazione della sua aspirazione regionale. Questo è il momento di imprimere un cambiamento decisivo agli eventi, di sostenere le forze Unifil affinché implementino a pieno il mandato d'azione e siano in grado di compiere quanto necessario nel Sud del Libano, per impedire a Hezbollah di conseguire per procura gli obiettivi regionali iraniani.
   Da parte sua, come dimostrato recentemente nella riposta al lancio di missili iraniani dalla Siria, Israele continuerà ad intraprendere tutte le necessarie azioni volte ad impedire che il terrore promosso da Teheran si instauri nella regione.

* Ambasciatore d'Israele in Italia

(Il Messaggero, 25 gennaio 2019)


Lecce - In via della Giudecca la targa in lingua ebraica

Lecce sarà la prima città in Puglia ad avere le vie della Giudecca indicate anche con la traduzione in lingua ebraica, al pari di altre città in Italia come, ad esempio, Venezia e Palermo. La presentazione del progetto «La Giudecca si illumina» e l'inaugurazione delle nuove targhe toponomastiche si terrà il 27 gennaio, alle 10, in occasione della Giornata della Memoria. con la quale si commemora ogni anno la liberazione degli ebrei dai campi di sterminio nazista. Nella zona ci sono la Basilica di Santa Croce, Palazzo dei Celestini e Palazzo Adorno.

(Corriere del Mezzogiorno, 25 gennaio 2019)


La guerra su cinque fronti che deve sostenere Israele

di Ugo Volli

Ormai è chiaro a tutti coloro che si occupano del Medio Oriente. In Siria è in atto una nuova guerra aperta e dichiarata, quella fra Iran e Israele. Essa per il momento si svolge solo fra cielo e terra, consiste in incursione aeree, lanci di missili e bombardamenti; non vi sono per il momento scontri sul terreno. In cambio la guerra ha dei teatri periferici più o meno attivi. Il primo è in Libano, dove sono basati i più importanti mercenari dell'Iran, gli Hezbollah, dove di recente c'è stato l'episodio importante della distruzione di sei tunnel d'attacco di Hezbollah che già penetravano in territorio israeliano, ma i mercenari hanno basi militari, missili, fortificazioni e truppe bene addestrate. Il secondo è a Gaza, dov'è chiaro ormai che Hamas in parte e la Jihad islamica del tutto è alle dipendenze dell'Iran e agisce come terzo fronte di disturbo, secondo le esigenze strategiche di Teheran. E anche il "terrorismo artigianale" di Giudea e Samaria ha questo senso: animato principalmente da Hamas, ma sostenuto anche da Fatah che in teoria controlla il territorio, serve a distrarre forze e a oscurare, sotto lo scudo propagandistico della "resistenza popolare" l'aggressione iraniana.
  Hamas e Fatah sono deboli sul territorio, possono solo colpire i civili israeliani con razzi, coltelli, armi da fuoco e investimenti automobilistici compiendo crimini orrendi, che però contano poco sul piano militare. Ma hanno peso sul quinto fronte della guerra, che è quello della diplomazia, della politica internazionale, delle organizzazioni internazionali, comprese quelle di giustizia. Qui sono riusciti, con l'aiuto determinante dei movimenti comunisti, islamisti e terzomondisti a occultare la loro natura terrorista e a presentarsi come rappresentanti di un "popolo oppresso" o addirittura di un'inesistente "stato occupato".
  E' una minaccia globale, che ha come scopo la distruzione dello Stato di Israele, con la conseguente nuova Shoah che ne deriverebbe. Israele reagisce efficacemente su tutti e cinque i fronti. In Siria combatte dal cielo in maniera sempre più aperta per impedire la concentrazione di truppe iraniane che potrebbero innescare una guerra sul terreno e anche per impedire i rifornimenti di arme avanzate a Hezbollah, attiva in Siria, ma soprattutto il Libano. Hezbollah è seguito attentamente, i suoi preparativi di guerra come i tunnel sono prevenuti o distrutti. Ma è probabile che se una guerra sul terreno dovesse iniziare, sarebbe probabilmente di qui. Il terzo e quarto fronte sono poco influenti dal punto di vista militare, come ho detto. Israele si limita da contenere gli assalti di Hezbollah e a esercitare limitati contrattacchi di rappresaglia quando Hamas usa armi da fuoco o missili. Israele non vuole nei limiti del possibile impantanarsi in un'operazione militare a Gaza che sarebbe costosa in termini di vite umane e di immagine internazionale e senza sbocco strategico. Chi vorrebbe operazioni più impegnative su questo fronte non sa indicare quale ne sarebbe l'obiettivo per Israele e il vantaggio strategico. Parlare di deterrenza nei confronti di Hamas ha poco senso, perché il movimento terrorista non bada all'interesse della sua popolazione e neppure alla sopravvivenza dei suoi membri, ma risponde all'Iran. La sola deterrenza possibile è nei confronti di Teheran, non di Gaza. Per quanto riguarda il terrorismo spicciolo in Giudea, Samaria e sul territorio israeliano, il tentativo è di prevenirlo e di reprimerlo quando si manifesta, minimizzando i danni: è una lotta dei servizi di informazione e del presidio del territorio.

(Progetto Dreyfus, 25 gennaio 2019)


Il Meis riceve una copia della Bibbia di Mosé da Castellazzo

Al Museo dell'Ebraismo di Ferrara la rara riproduzione ritrovata in Svizzera



Riproduzione del manoscritto
Il donatore Giulio Prigioni con Simonetta Della Seta, direttore del Meis
E' un raro manoscritto del periodo rinascimentale, noto agli studiosi come la Bibbia di Mosé da Castellazzo, e in questi giorni è stato acquisito grazie a una donazione privata dal Meis di Ferrara. Il donatore è Giulio Prigioni, già ambasciatore italiano in Lituania e Bielorussia, che ha voluto contribuire alla collezione del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah e alla preparazione della mostra «Il Rinascimento parla ebraico», che verrà allestita quest'anno. La Bibbia di Mosheh da Castellazzo è un codice illustrato, eseguito probabilmente a Venezia negli anni Venti del Cinquecento. Il manoscritto, ritrovato alla fine della Seconda guerra mondiale negli scantinati del comando della Gestapo di Varsavia e poi conservato nell'Istituto di Storia ebraica della capitale polacca, fu inviato nel 1980 a uno studio fotografico per essere riprodotto. Ma non venne più restituito alla biblioteca dov'era custodito, risultando smarrito o rubato.
   La riproduzione donata al museo è stata curata da Kurt e Ursula Schubert e pubblicata in pochissimi esemplari. Prigioni ha raccontato che, grazie all'aiuto dell'ebraista Giulio Busi, curatore della mostra sul Rinascimento che si terrà al Meis, è riuscito a trovare la rara riproduzione in un paesino sperduto della Svizzera. La «Bibbia» in questione è un documento rilevante della cultura artistica ebraica nell'Italia del '500, con illustrazioni che ampliano il dettato biblico attraverso aggiunte tratte dai «midrashim», i commenti dei maestri ebraici agli scritti biblici.
   L'autore, Mosheh da Castellazzo, nato nel 1466, fu un pittore e un disegnatore piuttosto noto, come lui stesso afferma nella richiesta di privilegio di stampa che rivolse al Senato veneziano nel 1521. In quel documento dichiarava di aver disegnato un ciclo d'illustrazioni bibliche e che intendeva far realizzare alle proprie figlie le incisioni su legno. Il privilegio gli fu accordato a quanto risulta, ma di quel ciclo sembrano essere rimaste solo due incisioni. «La mostra sul Rinascimento - annuncia Simonetta Della Seta, direttore del Meis - tratterà un periodo aureo del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo. Un fenomeno sul quale desideriamo mettere un particolare accento, avendo il Meis la missione di far comprendere come la lunga vicenda degli ebrei d'Italia possa servire da esempio di dialogo tra culture. E da Ferrara vogliamo raccontarlo al resto del mondo». P.D.D.

(Corriere di Bologna, 25 gennaio 2019)



Ignorate le minacce dell'Iran a Israele

Lettera a Libero

La televisione ci mostra le celebrazioni in commemorazione della Shoah. Tutte le massime autorità, Mattarella in testa, si prodigano in discorsi più o meno di routine. Bene, benissimo.
Ma c'è un silenzio assordante: ce ne fosse stata una, di queste autorità, che avesse speso una parola sulle minacce di una nuova shoah che proprio in questi giorni uno Stato sovrano, ossia l'Iran, (e non un qualunque opinionista) ha espresso su Israele, che «deve essere cancellato dalla faccia della terra».
Dove siete, difensori a senso alternato?
Oltranzisti quando si difende l'ebreo contro il nazismo, e muti invece quando a minacciare è l'islam più integrale?
Gino Crociani

(Libero, 25 gennaio 2019)


"Io, scampato all'orrore dei campi nazisti. Ho capito che ogni passo è una conquista"

L'ex maratoneta Shaul Ladany sopravvissuto allo sterminio sarà testimonial domenica della "Run for Mem" a Torino.

di Lidia Catalano

 
Shaul Ladany in azione
TORINO - «Una cosa è certa, nella mia vita non mi sono mai annoiato per un solo istante». La casa di famiglia distrutta dai bombardamenti a tappeto su Belgrado, la prigionia nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, la fuga miracolosa durante l'attacco terroristico ai Giochi di Monaco del 1972.
   Oggi, a 82 anni, Shaul Ladany può permettersi di guardare al passato con un filo di ironia. «C'era sempre qualche minaccia in agguato, non si poteva mai abbassare la guardia». È così, mantenendo sempre alta l'attenzione e dosando le energie, che ha maturato il suo motto: «I vincenti non si fermano, chi si ferma non vince». Lo stesso principio che l'ha sostenuto nella carriera di marciatore olimpionico per la Nazionale israeliana. «Il grande alleato della mia vita - confida - è stato il coraggio. Dopo aver visto l'orrore dei campi di sterminio a 8 anni non ho mai più avuto paura di niente».
   Per il terzo anno consecutivo sarà lui, il sopravvissuto che nonostante un by-pass coronarico festeggia ogni compleanno percorrendo una distanza pari alla sua età, il testimonial della Run For Mem, la corsa per la Memoria promossa dall'Ucei (l'Unione delle Comunità Ebraiche italiane). Dopo le edizioni di Roma 2017 e Bologna 2018, l'evento podistico non competitivo per la prima volta fa tappa a Torino. L'appuntamento è domenica 27 dicembre, Giorno internazionale della Memoria 2019, con un duplice itinerario - uno da otto chilometri per i più allenati e uno da quattro per chi preferisce una passeggiata poco impegnativa - attraverso un percorso che incrocia i luoghi simbolo della storia. «La prima tappa sarà davanti alla Sinagoga di piazzetta Primo Levi, centro della vita ebraica torinese di oggi», spiega Giulio Disegni, vicepresidente dell'Ucei. Poi, attraverso corso Vittorio Emanuele e via Roma, un altro momento di riflessione sarà in piazza Cln. «Lì - ricorda Disegni - c'era l'albergo Nazionale, un luogo dove nel '43 e '44 la polizia perquisiva, interrogava e torturava ebrei e oppositori politici». Quindi una sosta davanti alla caserma di Via Asti, altro luogo di torture. E in piazza Carlina, «dove l'anno scorso è stata posata una pietra d'inciampo in ricordo di Silvio Segre, un neurologo deportato ad Auschwitz. Un passaggio obbligato, poi, sarà davanti alla Mole Antonelliana. «Fu concepita come sinagoga - racconta Disegni - per donare un luogo di culto agli ebrei usciti dal ghetto in cui erano stati confinati a lungo, tra il 1679 e il 1848».

(La Stampa, 25 gennaio 2019)


La Baviera commemora la Shoah. I deputati AfD abbandonano l'aula

La destra lascia il Parlamento durante l'intervento della sopravvissuta Charlotte Knobloch

di Walter Rauhe

L'intervento di Charlotte Knobloch, presidente della comunità ebraica, al Parlamento della Baviera a Monaco
Hanno abbandonato in gruppo la cerimonia commemorativa in ricordo delle vittime dell'Olocausto e sono tornati in aula solo al termine dell'evento. La destra populista dell'Alternative für Deutschland torna a far parlare di sé con un gesto a dir poco provocatorio e di cattivo gusto. È accaduto ieri nel parlamento regionale della Baviera, in occasione della tradizionale seduta dei deputati per la Giornata della memoria in onore delle vittime della Shoah.
  A parlare ai deputati è, per l'occasione, la sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti e presidente della comunità ebraica dell'Alta Baviera, Charlotte Knobloch, che senza tergiversare si rivolge direttamente ai deputati dell'ultra-destra populista, invitandoli a rispettare gli articoli elencati sulle pagine della Costituzione tedesca, il testo sul quale hanno prestato giuramento nel momento del loro ingresso nel Parlamento.
  Knobloch critica aspramente le posizioni negazioniste assunte da diversi esponenti del partito, la loro minimizzazione dei crimini commessi dalla Germania di Adolf Hitler, le loro visite organizzate all'interno dei campi nazisti, nel corso delle quali diversi deputati dell'AfD hanno messo in discussione l'esistenza stessa delle camere a gas.

 Democrazia in pericolo
  «Simili partiti calpestano con i piedi i valori della nostra Costituzione e della nostra società civile», ha dichiarato Charlotte Knobloch nel suo discorso, sostenendo che alcune frange del Partito rappresenterebbero un pericolo per la stessa democrazia. A questo punto, gran parte dei deputati del partito si è alzato in piedi e ha lasciato in segno di dimostrazione e chiassosamente l'aula parlamentare per protestare contro il discorso della presidente della comunità ebraica. Un'azione a dir poco provocatoria, mirata a disturbare la solenne cerimonia dando precedenza al proprio orgoglio ferito, piuttosto che al rispetto dei milioni di vittime del nazionalsocialismo.

 Ombre di neonazismo
  I rappresentanti di tutti gli altri partiti hanno risposto all'azione dell'ultra-destra alzandosi in piedi e applaudendo in segno di solidarietà a Charlotte Knobloch.
  Ma è probabilmente anche a causa di simili comportamenti che i servizi segreti interni del Bundesverfassungsschutz hanno deciso la settimana scorsa di prendere in esame più attentamente le attività del partito populista e i discorsi di alcuni suoi esponenti più radicali. Secondo l'intelligence tedesca, alcune frange del partito e la sua federazione giovanile Junge Alternative avrebbero mostrato tendenze estremiste e sovversive, e sarebbero in stretto contatto anche con gli ambienti dell'estrema destra neonazista. In seguito alla drastica misura annunciata dai servizi segreti, il partito ha perso diversi punti scendendo nei sondaggi a quota 13%, il risultato più basso da un anno a questa parte.
  Negli ultimi mesi, inoltre, il partito è finito nell'occhio del ciclone anche a causa di tutta una serie di scandali attorno a finanziamenti illeciti provenienti dalla Svizzera e mai dichiarati pubblicamente, come prescritto dalla legge sul finanziamento dei partiti.

(La Stampa, 24 gennaio 2019)


Israele teme di fare la fine del Canada nella guerra commerciale tra Usa e Cina

di Antonio Albanese

 
L'incertezza sulle relazioni della Cina con Israele sta crescendo, poiché gli Stati Uniti esercitano pressioni sui suoi alleati per far irrigidire la loro posizione su Pechino, mentre stanno peggiorando le tensioni commerciali e geopolitiche tra Washington e Pechino.
   Mentre Cina e Israele si preparano a celebrare il 27o anniversario dei legami diplomatici, si teme, riporta Scmp, che le loro relazioni vengano messe in crisi. Come la maggior parte degli altri paesi, Israele vuole mantenere buone relazioni sia con gli Stati Uniti che con la Cina ed è preoccupato per la crescente rivalità che ha creato una situazione estremamente scomoda in cui sono costretti a schierarsi. Molti temono di fare la fine del Canada coinvolto nella guerra Usa contro Huawei.
   Nelle ultime settimane, alti funzionari statunitensi hanno aumentato la pressione su Israele per riconsiderare gli investimenti della Cina in infrastrutture e settori ad alta tecnologia. Due settimane fa il consigliere statunitense per la sicurezza nazionale John Bolton ha esortato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a procedere con cautela nei confronti di società di telecomunicazioni cinesi, come Huawei e Zte, a causa di problemi di sicurezza nazionale.
   Bloomberg ha lanciato la settimana scorsa un avvertimento a Israele secondo cui gli investimenti cinesi nelle infrastrutture nazionali di Israele, come il porto di Haifa, potrebbero compromettere la condivisione delle informazioni con gli Stati Uniti. Il ministero degli Esteri cinese ha descritto gli avvertimenti di Bolton come "ridicoli": «Gli Stati Uniti hanno abusato dell'idea di "sicurezza nazionale", calunniando e abbattendo le normali attività commerciali delle imprese cinesi». Il rapporto sino-israeliano è molto diverso dai legami tra Pechino e i paesi mediorientali ricchi di petrolio come Arabia Saudita, Qatar, Iran e Iraq.
   Oltre alle sue industrie hi-tech, Israele ha un significativo ruolo militare e politico in Medio Oriente. Pechino sta cercando di aumentare la sua presenza nella regione mentre gli Stati Uniti progettano di ritirare le truppe dalla Siria e dall'Afghanistan, Israele, e i suoi legami speciali con Washington lo rendono particolarmente importante per Pechino. La Cina per Israele ha un grande potenziale come mercato, fonte di investimenti, partner commerciale e turistico. I legami tra Cina e Israele sono migliorati negli ultimi anni, soprattutto per quanto riguarda il commercio, gli investimenti, l'istruzione e il turismo.
   Durante una visita a Pechino nel 2017, Netanyahu ha detto che la Cina ha rappresentato un terzo degli investimenti nelle industrie hi-tech israeliane.
   Citando un rapporto dell'Israel Venture Capital Research Centre, Reuters ha detto che le start-up tecnologiche israeliane hanno raccolto 325 milioni di dollari da investitori cinesi nei primi tre trimestri del 2018, in crescita del 37% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
   E durante una visita a Gerusalemme del vice presidente cinese Wang Qishan ad ottobre 2018, Netanyahu ha detto che i due paesi completeranno un accordo di libero scambio quest'anno. Secondo un rapporto dell'Istituto israeliano per gli studi sulla sicurezza nazionale nel 2017, infine, «la Cina è anche coinvolta nella costruzione di infrastrutture in Israele, come lo scavo dei tunnel stradali del Carmelo ad Haifa, la posa di una ferrovia leggera a Tel Aviv e l'espansione dei porti marittimi di Ashdod e Haifa».

(agonews, 24 gennaio 2019)


Napoli - La Comunità ebraica contro il Comune: "Ritiri l'appoggio al movimento antisemita"

Polemica su un convegno

L'Unione delle Comunità ebraiche italiane e la Comunità di Napoli chiedono al sindaco Luigi de Magistris, alla sua giunta, ai rappresentanti delle Acli campane e dell'Università Federico II di non partecipare il 29 gennaio a un dibattito sulla crisi palestinese «promosso tra gli altri dal movimento Bds, rete internazionale che sostiene il boicottaggio dello Stato ebraico».
Nella nota firmata da Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, e Lydia Schapirer, presidente Comunità di Napoli è scritto: «Siamo venute a sapere con sconcerto che il prossimo 29 gennaio, nella sede solenne del Maschio Angioino, è prevista una conferenza dal titolo "La tragedia palestinese nella crisi del diritto internazionale" durante la quale sarà illustrato l'ordine del giorno del Consiglio comunale di Napoli per l'embargo militare a Israele. Un evento che è promosso tra gli altri dal Movimento Bds, rete internazionale che sostiene il boicottaggio dello Stato ebraico e le cui posizioni sono molto spesso caratterizzate da un aperto e viscerale antisemitismo. Nella definizione di antisemitismo formulata dall'International Holocaust Remembrance Alliance spiccano la negazione al popolo ebraico del diritto all'autodeterminazione e l'equiparazione tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti».
«Queste posizioni - scrivono Di Segni e Schapirer - sono entrambe ricorrenti nelle iniziative promosse dal Bds e attraverso questa iniziativa anche le vostre istituzioni sembrano avvalorarle».

(la Repubblica - Napoli, 24 gennaio 2019)



Eden e l'antisemitismo a scuola. «Non tutti i prof mi aiutano»

Da Pisa ad Auschwitz con la classe: alcuni compagni mi hanno ferita.

di Marco Gasperetti

Eden, liceale pisana, in viaggio con altri 500 studenti toscani con il treno della memoria ad Auschwitz
Davanti al filo spinato l'emozione è cosi forte che gli studenti non riescono neppure a capire che il termometro è sceso a -10 gradi. Per Eden Donitza, 18 anni, studentessa pisana, Auschwitz è qualcosa di ancora più oscuro. E non solo perché Eden è di religione ebraica ed è la prima volta che visita il campo di sterminio polacco, ma perché l'antisemitismo, l'intolleranza, il razzismo lo vive anche lei, sulla sua pelle. «Sì, mi hanno offesa e rifiutata perché ebrea», denuncia. E accaduto più volte e i protagonisti dei vergognosi episodi, gli aguzzini, non erano antisemiti dichiarati, ma semplici compagni di scuola.
   «La prima volta è accaduto in terza elementare - ricorda la studentessa che frequenta il quinto anno del liceo Ulisse Dini di Pisa ed è arrivata ad Auschwitz con il Treno della memoria insieme a settecento compagni-, stavamo parlando in classe di Anna Frank quando, alla fine della lezione, una mia compagna di otto anni mi disse che avrebbero fatto bene a bruciare anche me come ebrea».
   Le offese antisemite sarebbero tornate, inesorabili, anni dopo alle scuole medie. «Parole e frasi più affilate di un coltello - ricorda Eden -, pronunciate da ragazzini solo perché le avevano sentite a casa». Come le orribili barzellette sui forni crematori e persino sulle sofferenze dei bambini con la Stella di David sul petto. «L'antisemitismo non è morto - spiega la studentessa - è sempre qui, tra noi, come una belva che a volte può sembrare in letargo, ma è pronta a vomitare veleno. E la ferita più profonda non me l'hanno inflitta da bambina, ma due anni fa da ragazza al liceo che sto frequentando».
   La classe sta discutendo dove andare in gita. E i ragazzi si scambiano messaggi anche
sui social. Si sceglie l'Isola d'Elba, si fanno piani, si sognano avventure. Chi sarà presente? Marco, Filippo, Daniela, Manuela, Francesco. Poi arrivano due messaggi. «L'ebrea non deve venire, l'ebrea resta a casa».
   Eden non è una ragazza che si arrende. Racconta tutto a genitori e professori. I responsabili sono individuati. Puniti? «No, ma non mi interessa - continua la studentessa -, credo che alla fine fossero inconsapevoli. Non era un gesto di odio verso la politica di Israele e non erano neppure simpatizzanti dell'estrema destra. Quello era proprio antisemitismo allo stato puro, magari subliminale, inconscio, replicato così senza un barlume di razionalità. Uno di loro ha raccontato di aver detto quello che sentiva in famiglia».
   E gli insegnanti? «Tanti mi sono stati vicini, mi hanno difeso a priori», risponde Eden. Che poi ha come un turbamento: «Altri, però, non erano molto contenti che io avessi denunciato, minimizzavano. Dicevano che stavo creando una storia troppo grande, che esageravo e che non era una cosa così importante». Negli anni successivi sarebbero accadute altre vergogne: un coro antisemita, una svastica sul telefonino.
   «Io ho perso dodici tra nonni e bisnonni dentro i campi di sterminio - riflette Eden - e non riesco ancora a darmi una spiegazione di tutto questo odio. So però quale può essere un antidoto ad antisemitismo e razzismo: per esempio visitare questi luoghi di dolore e di memoria straziante. Avrei voluto tanto ci fossero anche quei ragazzi che non volevano che Eden l'ebrea andasse in gita».
   Forse non hanno avuto il coraggio di salire su quel treno.

(Corriere della Sera, 24 gennaio 2019)


Un medico israeliano ha salvato Abu Mazen

Un medico israeliano ha contribuito a salvare la vita ad Abu Mazen. Nel maggio del 2018, il presidente palestinese (83 anni) venne ricoverato, per la seconda volta in 24 ore, in ospedale a Ramallah (Cisgiordania) per una grave polmonite che allarmò i sanitari, vista l'età del paziente e la sua forte dipendenza dal fumo. Secondo il quotidiano Yediot Ahronot, Israele propose che Abu Mazen fosse ricoverato d'urgenza in un ospedale israeliano per cure più avanzate. La dirigenza palestinese rifiutò temendo critiche dall'opinione pubblica interna. Ma gli israeliani insistettero. Cosi fu concordato l'invio di uno specialista a Ramallah, che entrò nell'équipe dei medici stranieri sul posto. Dopo due giorni di cure intensive, il presidente Abu Mazen migliorò e una settimana dopo fu dimesso.

(Avvenire, 24 gennaio 2019)


Antisemitismo e caso Lannutti, sarà Anselmo a fare la querela

L'avvocato ferrarese incaricato dallo scrittore Dalai: "E' istigazione all'odio razziale"

Sarà l'avvocato ferrarese Fabio Anselmo a preparare il fascicolo per denunciare il senatore del M5s Elio Lannutti.
Lannutti è finito al centro della polemica politica per aver pubblicato sui social network un link di un sito antisemita tirando in ballo i banchieri Rothschild e i "Protocolli dei Savi di Sion", il celebre falso creato agli inizi del XX secolo dalla polizia zarista per far credere a un complotto giudaico-massonico per impadronirsi del mondo.
Retorica antiebraica nota e arcinota, ma forse non per il parlamentare pentastellato, di cui mezzo parlamento ora chiede le dimissioni.
Fuori dal parlamento invece si nota l'iniziativa dello scrittore e conduttore televisivo Michele Dalai, che - sempre via social - rende noto di aver dato mandato all'avvocato Anselmo di "querelare l'onorevole Lannutti per istigazione all'odio razziale, manifestata nel suo tweet sui Protocolli dei Savi di Sion".
"Mi faccio parte diligente - spiega Dalai - perché non ne posso più e perché le mancate dimissioni di un parlamentare che fa propaganda antisemita sono un punto di non ritorno. Vi invito a fare altrettanto, indignarsi sui social network non basta più".
"Ieri ho pubblicato un link sui banchieri Rothschild, senza alcun commento - questa la difesa di Lannutti -. Poiché non avevo alcuna volontà di offendere alcuno, tantomeno le comunità ebraiche od altri, mi scuso se il link ha urtato la sensibilità. Condividere un link non significa condividere i contenuti, da cui comunque prendo le distanze. Ci tengo a sottolineare che non sono, ne' sarò mai antisemita".

(estense.com, 24 gennaio 2019)


Antisemitismo in crescita, l'Europa lancia l'allarme

Preoccupano soprattutto i dati sull'indifferenza verso il negazionismo

BOLZANO - L'antisemitismo preoccupa per il 58% degli italiani e il 31% pensa che sia aumentato negli ultimi 5 anni. A rivelarlo è l' ultimo Eurobarometro presentato ieri dalla Commissione Ue al museo ebraico di Bruxelles e condotto nel dicembre 2018 su un campione di oltre 27mila europei. Il sentimento italiano ricalca quello dell' Europa intera, dove il 50% dei cittadini ritiene che l' antisemitismo sia un problema. I picchi si registrano in Svezia (81%), Francia (72%), Germania (66%), Paesi Bassi (65%), Regno Unito (62%). A preoccupare i cittadini europei sono in particolare la negazione dell' Olocausto, l' antisemitismo online, i graffiti antisemiti su palazzi e istituzioni e le minacce agli ebrei nei luoghi pubblici. «Di tutte le espressioni antisemite, la negazione dell' Olocausto è la più preoccupante», ha sottolineato la commissaria Ue alla Giustizia, Vera Jourova. Sale nell' Ue, rispetto all' Italia, la percentuale di chi ritiene che il fenomeno sia aumentato negli ultimi 5 anni.

 Percezione differente.
  In base alla rilevazione, questa sensazione è diffusa nel 36% degli europei, in particolare in Svezia (73%), Germania (61%), Paesi Bassi (55%), Francia (51%) e Danimarca (50%). I risultati dell' Eurobarometro, pubblicato in vista della Giornata della memoria, mostrano come in Europa ci sia una diversa percezione dell' antisemitismo: ben l' 89% degli ebrei afferma infatti che il fenomeno è aumentato negli ultimi 5 anni, contro il 36% degli europei. «A 74 anni dalla fine dell' Olocausto, sappiamo che non è scontata la presenza della comunità ebraica», ha sottolineato Jourova, ammonendo che la lotta all' antisemitismo «deve rimanere in cima all' agenda politica» e chiedendo che la dichiarazione congiunta dei ministri degli Interni dei Ventotto - adottata lo scorso dicembre - venga «attuata» per trasformare l' azione congiunta dell'Ue in un «punto di svolta per il popolo ebraico in Europa». Quando si parla di minacce antisemite concrete, gli europei mettono ai primi posti la negazione dell' Olocausto (53%) e la diffusione dell' antisemitismo online e sui social network (51%). In 8 Stati membri, la maggioranza degli intervistati si riferisce al negazionismo come a un problema diffuso nel proprio Paese. La negazione dell' Olocausto inquieta particolarmente i cittadini di Svezia (79%), Francia (78%), Germania (71%) e Italia (61%), ma molti europei intervistati dichiarano di non sapere che il negazionismo è ritenuto un crimine per la legge del proprio Paese. In altre parole: ad una preoccupante ignoranza storica e culturale si aggiunge anche una mancanza di conoscenza del quadro normativo. C'è infatti una buona fetta di europei che non sa che l'ordinamento giuridico del Paese in cui vivono contiene dispositivi di legge di contrasto all' odio. Se sei europei su dieci sanno che esiste una legge nel loro paese che criminalizza l'incitamento alla violenza o l'odio nei confronti degli ebrei, vuol dire che ce ne sono quattro che invece non lo sanno. E non sono pochi. In media, comunque, solo 4 europei su 10 (43%) pensano che l' Olocausto sia sufficientemente insegnato nelle scuole. Visti i risultati difficile dargli torto, anche se la sensazione è che la scuola faccia in fondo la sua parte, ma che il problema sia all'esterno del circuito scolastico.

 Allarme negazionismo.
  L' antisemitismo online, invece, è avvertito come diffuso in particolare in Svezia (78%), Francia (74%), Germania (67%), Paesi Bassi (66%), Belgio (61%) e Italia (59%). «Mentre gli ultimi sopravvissuti all' Olocausto stanno scomparendo, la responsabilità di mantenere vivo il ricordo delle pagine più buie della nostra storia è sulle nostre spalle e su quelle delle generazioni future», onorando «la memoria di sei milioni di vittime, in modo che non vengano dimenticati e che gli orrori del passato non siano ripetuti», ha commentato il primo vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans. Vale la pena di sottolineare in particolare un dato emerso dall' Eurobarometro: un europeo su due non condanna il negazionismo. Alla domanda "se le persone che negano il genocidio del popolo ebraico, l'Olocausto, sono un problema nel loro Paese", a livello comunitario, dice «sì» solo il 53% di coloro che rispondono. Il 38% dice «no», mentre il 9% non sa che dire. Di fatto il negazionismo non viene condannato da un europeo su due. È una situazione che lascia senza parole, soprattutto se si guarda l' istogramma che riporta le risposte Paese per Paese con le relative percentuali (che riportiamo interamente qui sopra, ndr) e che vede grandi Paesi come la Spagna, il Portogallo, l'Irlanda, la Finlandia - in buona compagnia, va detto - con percentuali di condanna del negazionismo che scendono anche sotto la soglia del 20%. Fanalino di coda, Malta, dove il negazionismo è un problema appena per il 6% della popolazione. La commissaria europea per la Giustizia, Vera Jourova avverte: «Dobbiamo essere vigili e ricordare le parole di Primo Levi: "Quelli che negano Auschwitz sarebbero pronti a rifarlo"».

 La situazione italiana.
  Le persone interpellate in Italia offrono l'immagine di un Paese un po' diverso dal resto d'Europa, ma non così tanto. C'è maggiore consapevolezza sull'antisemitismo come problema (58%, contro la media Ue del 50%), ma c'è anche l'impressione della difficoltà del problema: sette persone su dieci (69%) ritengono che la situazione non sia migliorata negli ultimi cinque anni. A ritenere il negazionismo motivo di preoccupazione sono sei intervistati su dieci (61%, contro il 51% dell'Ue), al pari di dichiarazioni ostili nei luoghi pubblici (61%), atti di vandalismo (60%) e aggressioni (60%).

 I dati della FRA.
  I dati dell'Eurobarometro seguono quelli pubblicati il 10 dicembre scorso dell' Agenzia dell' Unione europea per i diritti fondamentali, la FRA (Fundamental Rights Agency). «A distanza di decenni dall'Olocausto, i livelli di antisemitismo stanno aumentando in modo sconcertante e continuano ad affliggere l'UE - aveva dichiarato il direttore dell'agenzia Michael O'Flaherty - Gli Stati membri devono prendere atto di ciò che sta accadendo e devono intensificare i loro sforzi per prevenire e combattere l'antisemitismo». La relazione della FRA dal titolo "Experiences and perceptions of antisemitism - Second survey on discrimination and hate crime against Jews in the EU" , ovvero "Esperienze e percezioni di antisemitismo - Seconda indagine sulla discriminazione e sui reati generati dall'odio contro gli Ebrei nell'UE", indica livelli di antisemitismo crescenti. Circa il 90 % degli intervistati ritiene che questo fenomeno sia in aumento nel proprio paese. La stessa percentuale di persone consultate crede anche che sia particolarmente problematico online, mentre circa il 70 % menziona gli spazi pubblici, i media e la politica come fonti comuni di avversione contro gli Ebrei. Quasi il 30% degli intervistati è stato molestato e, fra questi, i più colpiti sono stati coloro che erano "riconoscibili" come Ebrei. L'antisemitismo europeo sembra così profondamente radicato nella società che le molestie costanti sono diventate parte della vita quotidiana di questi cittadini. Quasi l'80 per cento di loro non riferisce incidenti gravi alla polizia né ad altre autorità, spesso perché è convinto che sia inutile e che non cambierà nulla.

(Trentino, 23 gennaio 2019)



La Giornata della Memoria e le sue contraddizioni

di Ugo Volli

L'utilità della Giornata della Memoria, che ricorre domenica prossima, è discussa da molti. E' troppo generico il suo tema, troppo ambiguo, troppo pietistico. Staccare il ricordo della Shoah dal suo sfondo antigiudaico prima cristiano e poi anche laico progressista, legarlo solo al genocidio e non alla demonizzazione e alla ghettizzazione degli ebrei da cui esso è nato, si presta a quelle letture che fanno del male assoluto una "banalità" (secondo l'oscena proposta di Hannah Arendt), un atto di follia di un capo indemoniato o infine un gesto derivante solo dalla barbarie nazifascita, assolvendo i suoi antagonisti politici. Infine nella Giornata della Memoria gli ebrei sono ricordati solo come vittime, mentre nel ricordo di Israele (che si svolge in una data fra il ricordo della liberazione dall'Egitto, cioè la festività di Pesach e la data che ricorda la fondazione dello stato di Israele), è messa in rilievo anche l'eroismo di coloro che riuscirono a resistere, per esempio nella rivolta del Ghetto di Varsavia. Altri invece dicono che è meglio un ricordo parziale ma pubblico, un gesto solenne della comunità internazionale (che però si celebra soprattutto in Italia) piuttosto del silenzio.
Non voglio trarre qui una conclusione netta, ma penso sia opportuno diffondere notizia di tre episodi molto anomali che renderanno ancora più dubbia questa giornata della Memoria.
  Il primo si svolgerà a una ventina di chilometri da Roma, nella cittadina di Aprilia, martedì 29 gennaio alle ore 17 nell'aula magna della scuola "Toscanini" in Via Amburgo 5 (scrivo questi dati nella speranza che qualcuno abbia voglia di assistervi). La celebrazione sarà tenuta, oltre che dall'assessore alla cultura del comune, da Alessandro Portelli, ex professore di Letteratura angloamericana alla Sapienza, da Mario Lai "della comunità di San Egidio" e infine Salameh Ashour, "presidente della Comunità Palestinese del Lazio". Va citato anche l'ente organizzatore, una sezione dell'Anpi che è dedicata addirittura a Vittorio Arrigoni, il fanatico estremista antisraeliano che fu ammazzato a Gaza dai suoi amici islamisti, a quanto pare perché il suo stile di vita era, diciamo così, troppo disinvolto e fuori dalle regole musulmane. L'Anpi è ormai chiaramente un ente inutile, non più composto da partigiani ma da estremisti così irragionevoli da far male anche alle forze politiche di sinistra (ricordiamoci il loro no al referendum perduto da Renzi che fu la premessa per la sconfitta del Pd alle politiche). Ma chi avrebbe potuto immaginare che gente che abusa del nome di partigiani arrivasse a sostituire i palestinesi agli ebrei, usando subdolamente i classici argomenti degli antisemiti d'oggi, per cui sono i palestinesi a subire "violenze inaccettabili"mentre Israele è colpevole di "degrado umano e deriva di potenza"?
  Il secondo caso è per certi versi analogo, nel senso che usa la giornata della Memoria per nascondere il genocidio ebraico e sostituirlo con qualcosa d'altro, che in questo caso sono… gli indiani d'America. Siamo a Lugano, protagonista questa volta l'"Associazione Ticinese degli Insegnanti di Storia"… idea bizzarra che è difficile commentare seriamente. Forse hanno visto troppi film western. Meglio - o peggio - pensare che gli insegnanti ticinesi di storia siano alla ricerca di alibi per quel che è successo alla frontiera della confederazione intorno a ottant'anni fa.
  Il terzo caso è per certi versi il più grave, perché abolisce non solo gli ebrei, ma anche la stessa Giornata e lo fa in una grande città che ha avuto il merito di ribellarsi ai nazisti. Qui, come scrivono la presidente della comunità ebraica di Napoli Lydia Shapirer e quella dell'Ucei, Noemi di Segni:
    "Siamo venute a sapere con sconcerto che il prossimo 29 gennaio, nella sede solenne del Maschio Angioino, è prevista una conferenza dal titolo 'La tragedia palestinese nella crisi del diritto internazionale' durante la quale sarà illustrato l'ordine del giorno del Consiglio comunale di Napoli per l'embargo militare a Israele. Un evento che è promosso tra gli altri dal Movimento BDS, rete internazionale che sostiene il boicottaggio dello Stato ebraico e le cui posizioni sono molto spesso caratterizzate da un aperto e viscerale antisemitismo."
Nessuna meraviglia che fra i sostenitori figuri il sindaco di Napoli De Magistris, che non perde mai occasione di mostrare il suo livore per Israele.
Vale la pena di fare manifestazioni che ricordano gli ebrei morti durante la Shoah se poi vengono fuori questi orrori? O forse se non ci fosse la Giornata della Memoria, l'odio per lo stato ebraico sarebbe più facile, perché non dovrebbe neanche superare l'ostacolo di una solidarietà con gli ebrei, per quanto retoricamente proclamata? Difficile dire. Una cosa è certa, non bisogna smettere di denunciare la contraddizione e la falsità di coloro che dicono di celebrare gli ebrei uccisi nel passato alleandosi con quelli che vogliono ammazzarli ora.

(Progetto Dreyfus, 22 gennaio 2019)



La Siria minaccia Israele: "Stop agli attacchi o bombarderemo l'aeroporto di Tel Aviv"

L'annuncio dell'ambasciatore di Damasco all'Onu. Venti morti in raid della coalizione, trovate fosse comuni a Raqqa. Oggi Erdogan da Putin


NEW YORK - La Siria potrebbe rispondere all'attacco israeliano all'aeroporto di Damasco con un attacco 'simmetrico' allo scalo di Tel Aviv. Lo ha detto l'ambasciatore di Damasco all'Onu, Bashar Jafaari, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza. "Se il Consiglio non adotta misure per fermare la ripetuta aggressione israeliana in Siria - ha detto Jafaari - Damasco eserciterà il suo legittimo diritto all'autodifesa e risponderà all'aggressione all'aeroporto di Damasco nello stesso modo, attaccando l'aeroporto di Tel Aviv".
Continuano intanto i bombardamenti della coalizione anti-Isis nel sud-est del Paese. Secondo notizie dell'agenzia governativa Sana, confermate da fonti sul terreno, venti persone tra cui donne e bambini, sono state uccise in raid aerei nella Siria sud-orientale. Le vittime erano civili in fuga dall'ultima zona di territorio tra l'Eufrate e il confine iracheno ancora in mano all'Isis. Secondo le prime ricostruzioni, i bombardamenti aerei hanno colpito un convoglio di mezzi sui quali viaggiavano le famiglie provenienti dalla zona di Baghuz, dove sono in corso scontri tra Isis e forze curdo-siriane appoggiate dalla Coalizione a guida Usa.
A Raqqa, ex quartier generale dell'Isis in Siria riconquistato, sono stati rinvenuti tra 600 e 800 corpi sepolti in una fossa comune. "Sono ancora in corso le operazioni di recupero delle salme dalla fossa scoperta nel villaggio di Fakhiha, a sud di Raqqa", ha spiegato il direttore delle squadre di pronto intervento, Yasser al Khamis. Negli ultimi giorni sono stati recuperati nella provincia 3.310 corpi, di cui 550 sono stati identificati. Si stima che l'Isis si sia lasciato dietro, nell'area di Raqqa, almeno 15 fosse comuni.
E per discutere dell'annunciato ritiro degli Stati Uniti, che guidano la coalizione, oggi a Mosca arriva il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che incontrerà l'omologo russo Vladimir Putin.

(la Repubblica, 23 gennaio 2019)


"Elementi sospetti", storie di ebrei nella Sicilia fascista

Il violinista che vide l'arresto del padre e che non poté frequentare il Conservatorio, l'antiquario a cui fu sequestrata l'attività, il medico a cui fu negata l'abilitazione: così le leggi razziali colpirono i palermitani.

"Vennero a prendere mio padre nella nostra casa di via Fonderia Oretea: si nascose ma lo trovarono" Alexander Hoffmann si occupava di esportazione di agrumi fu arrestato in via Villafranca

di Marta Occhipinti

 
Aldo Mausner
Mi chiamo Aldo Mausner». Oggi lo dice ad alta voce nella casa di via Mariano Stabile, dove in soggiorno ha appeso un suo ritratto mentre suona il violino. Lui che per trent'anni ha fatto parte dell'orchestra del Teatro Massimo, per diplomarsi al conservatorio ha dovuto aspettare la fine del fascismo, dopo anni trascorsi tra la gioia di vivere e la paura di pronunciare il proprio nome in pubblico, lontano da Palermo, da dove fu costretto a partire, perché ebreo, all'età di nove anni.
   Suo padre Federico Mausner era uno dei diecimila ebrei stranieri in Italia. Nato in Polonia, fu ingaggiato alla fine degli anni Trenta come rappresentante di una ditta tedesca per l'esportazione di agrumi dalla Sicilia. Stesso lavoro faceva il collega e amico Alexander Hoffmann, ebreo proveniente da una famiglia di ricchi albergatori di Norderney, isole tedesche del Mar del Nord, arrivato a Palermo negli anni Dieci per esportare gli agrumi dell'Isola per conto della ditta "Fratelli Yung". Ma fu proprie la loro identità di immigrati ebrei a farli vittime delle prime leggi razziali applicate tra il 1938 e il 1943.
   «Ricordo ancora quando portarono via mio padre per la prima volta - racconta Aldo Mausner - vennero due carabinieri con mitra al collo nella nostra casa di via Fonderia Oretea. Mio padre si nascose dietro un armadio di casa, ma i soldati lo catturarono e lo portarono all'Ucciardone».
   Con Federico Mausner c'era anche Alexander Hoffmann, arrestato insieme ad altri quattordici ebrei in via Villafranca e poi assegnato ai campi di concentramento di Campagna, in provincia di Salerno. Costretti a rinunciare al loro lavoro, strappati da una quotidiana normalità per entrare nell'orrore della follia nazi- fascista.
   Strano destino quello della famiglia Hoffmann: mentre il padre era detenuto, il figlio Giusto, giovane sportivo che conosceva quattro lingue, compreso il tedesco, fu arruolato nell'esercito e alla fine della guerra, fece parte dei trenta ragazzi assunti dagli alleati a Radio Palermo, ex Eiar, in piazza Bellini.
   Ma, si sa, le storie non sono tutte a lieto fine. Nel 1940 a Palermo fu arrestato, detenuto all'Ucciardone e infine portato in un campo di concentramento il giovane Giuseppe Lewsztein, dottore in medicina laureato all'Università di Palermo ed ebreo polacco, segnalato dalla Prefettura come «elemento pericoloso e sospetto di esercitare attività contraria all'interesse nazionale». Le leggi razziali gli impedirono di sostenere l'esame per l'abilitazione professionale, Giuseppe si ammalò di nefrite e dopo anni di sofferenze nei campi di concentramento d'Italia fu assassinato dalle SS nell'eccidio dell'aeroporto di Forlì, azzittito da una sola fucilata.
   Vittima delle leggi razziali a Palermo fu anche Otto Rosenberg, ebreo antiquario residente in città dal 1922, in via Beati Paoli, al Capo, nei piani nobili di Palazzo Tortorici, edificio oggi scomparso. Fu accusato di essere una spia, gli fu sequestrata l'attività, fu arrestato e deportato a Chieti. Rosenberg morì nelle camere a gas, perché anziano e ammalato: era il febbraio del 1944, dopo un lungo viaggio in un vagone con la scritta "Auschwitz bei Katowice" partito da Milano. Era lo stesso convoglio dove viaggiò Liliana Segre. Di Rosenberg non resta neppure una foto, solo il nome e una scheda dettagliata redatta dalla milizia, che lo pedinava per sospetti di spionaggio: «Era un uomo di statura media, corporatura tarchiata, capelli castani, viso largo, naso schiacciato».
   Storie di sommersi e di salvati. Chi di loro ancora è in vita non si stanca di fare testimonianza. «Io ero solo un bambino, andavo alla quinta elementare e per me non c'era nessuna differenza - dice Aldo Mausner - avevo molti amici e nessuno mi evitava perché ebreo. Ero stato battezzato con rito cristiano a Palermo e indossavo persino la divisa dei figli della lupa. Ma questo non mi risparmiò. Adesso nelle scuole parlo di umanità». Mausner e famiglia rimasero internati a Palermo grazie a un'agevolazione chiesta dalla duchessa di Arenella, amica di famiglia, alla regina Elena. Ma dopo neppure un anno il padre fu portato al campo di concentramento di Servigliano, in provincia di Ascoli Piceno e la famiglia lo seguì. «Mio padre fu un coraggioso - racconta - scappò dal campo nella notte aiutato da tre soldati americani. E iniziò per noi, sino alla fine della guerra, una vita di vagabondaggio tra le campagne delle Marche: ospitati da partigiani o da contadini che ci sfrattavano per paura dei fascisti. Non potevo pronunciare nemmeno il mio nome, avevo paura, la guerra aveva calpestato la nostra dignità».
   Quella della famiglia Mausner però è una storia a lieto fine. Finita la guerra, dopo tre anni passati a San Benedetto del Tronto, tornarono a Palermo senza trovare più nulla, a parte una città bombardata, ma si ricostruirono presto una vita.
   Tra chi tornò, c'era anche Maria Di Gesù, monrealese e insegnante di Lettere. Non era ebrea, ma a un ebreo per amore dedicò tutta la sua vita. Fu arrestata per il reato di "coraggio delle proprie idee", deportata ad Auschwitz tra i prigionieri politici, lei che teneva con sé le lettere del fidanzato ebreo partigiano. Costretta ai lavori forzati, scavava a mani nude nelle fogne del campo. Ma riuscì a salvarsi. Tornata a Palermo, nel 1946, il suo primo atto nella nuova vita fu il giuramento di fedeltà alla Repubblica Italiana.

(la Repubblica - Palermo, 23 gennaio 2019)



La ferita europea

Nei dati sull'antisemitismo c'è il racconto della frattura attuale dell'Europa. La memoria evapora, l'odio aumenta: gli ebrei non si sentono più al sicuro in Europa. I sommozzatori nel Danubio

di Paola Peduzzi

Il memoriale dell'Olocausto sulla riva del Danubio a Budapest
MILANO - I sommozzatori israeliani hanno iniziato a scandagliare il letto del Danubio, a Budapest, per cercare i resti delle migliaia di ebrei uccisi sulle rive del fiume durante la Seconda guerra mondiale e dar loro una sepoltura: almeno ventimila persone, dice la comunità ebraica ungherese, costrette a spogliarsi, occhi al Danubio, uccisi dalle Croci frecciate con un colpo alle spalle - c'è un memoriale oggi, tra il ponte delle Catene e il ponte Margherita, dietro al Parlamento, che è un urlo secco che si sente a ogni sguardo: delle scarpe abbandonate sulla riva, le scarpe degli ebrei, che ci dicono di non dimenticare. I sommozzatori non hanno ancora trovato nulla, a febbraio è prevista un'altra missione.
  La decisione del governo di Viktor Orbàn di assecondare una richiesta che Israele aveva iniziato a fare tre anni fa è stata letta come una rassicurazione: siamo amici di Israele, siamo amici degli ebrei, l'accusa di antisemitismo nei nostri confronti è infondata. La questione è molto dibattuta, c'è chi dice che non basta un sonar sul fondo del Danubio a capovolgere una politica orbaniana che ha risvegliato l'antisemitismo - a dicembre, Ira Forman ha scritto sull'Atlantic: "Orbàn rivendica la propria policy 'tolleranza zero' sull'antisemitismo mentre usa il fischietto per i cani per risvegliare gli antisemiti" - e chi dice che invece Budapest sta facendo i conti con la propria identità e il proprio passato e non ha un approccio assolutorio. I due mondi come ormai capita su ogni tema non dialogano e non si confrontano, e in questa polarizzazione finisce per duplicarsi il problema: la memoria si affievolisce e l'odio aumenta. Ieri è stato pubblicato il documento definitivo dell'indagine Eurobarometro sull'antisemitismo in Europa (alcuni dati erano già stati anticipati a dicembre) e Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, ha sottolineato in un thread su Twitter la gravità dell'esito di questo sondaggio:
  "L'antisemitismo sta rialzando la sua orribile testa in Europa. Mentre l'odio è diventato uno strumento politico, le nostre comunità ebraiche vivono nella paura di essere l'obiettivo finale della discriminazione, degli abusi e della violenza". Per Timmermans, "visto che i sopravvissuti dell'Olocausto stanno via via morendo", la responsabilità di mantenere la memoria resta sulle nostre spalle, ed è una responsabilità enorme. I dati dell'Eurobarometro sono preoccupanti: la percezione dell'antisemitismo è lo specchio esatto dei vasi non comunicanti della nostra politica e della nostra società. Per il 50 per cento degli intervistati, l'antisemitismo è assolutamente un problema; per il 43 non lo è per niente. Cresce l'antisemitismo? Per il 36 per cento sì, per il 39 è sempre lo stesso. Mentre soltanto per un europeo su due, la negazione dell'Olocausto è antisemitismo (dentro le comunità ebraiche la percentuale è al 95 per cento). In un discorso al museo ebraico di Bruxelles, la commissaria europea alla Giustizia, la ceca Vera Jourova, ha ricordato che 4 ebrei su 10 pensano di lasciare il nostro continente e se per 9 ebrei su 10 l'antisemitismo nei nostri paesi è in aumento è, secondo la Jourova, "una vergogna europea". Per la commissaria bisogna investire sull'istruzione, l'unico modo per tenere viva la memoria dell'orrore antisemita, sul lavoro del coordinatore contro l'antisemitismo già nominato assieme a Timmermans, e sul riconoscimento della definizione dell'International Holocaust Remembrance Alliance, che per ora è stata approvata soltanto da Regno Unito, Germania, Austria, Lituania, Slovacchia, Romania e Bulgaria.
  L'iniziativa europea è spesso criticata: troppo poco e troppo tardi. Ma oltre a un problema di memoria c'è anche quello dell'odio come strumento politico, che viene utilizzato in molti paesi senza che l'Europa possa fare granché.Non si tratta di accusare questo o quell'altro leader di antisemitismo, bensì di valutare come la propaganda politica abbia fatto riemergere complottismi e odi antichi, a cominciare proprio dall'antisemitismo. Il governo ungherese ha speso 260 milioni di euro in propaganda politica negli ultimi otto anni, secondo un report del sito indipendente Atlatszò.hu, 40,5 soltanto nel 2017 e soltanto contro George Soros. Il rapporto tra Orbàn e il magnate liberal è ben più complesso del semplice attacco antisemita: Soros fece studiare con una borsa di studio a Oxford l'attuale premier ungherese e gli fornì il primo ufficio con stampante per il partito Fidesz. Poi le loro strade si sono separate, ma la campagna contro Soros è piena di riferimenti a quello che la comunità ebraica a Budapest definisce "stereotipo contro la nostra comunità". Se alla demonizzazione di Soros si aggiunge la statua eretta lo scorso anno a Miklòs Horthy, che era reggente di Ungheria mentre 400 mila ebrei venivano deportati e a migliaia denudati e uccisi sulla riva del Danubio, diventa chiaro che tra memoria che svanisce, rivisitazione della storia in chiave nazionalista e odio come strumento politico, l'Europa rischia di non essere più una casa sicura per gli ebrei.

(Il Foglio, 23 gennaio 2019)


Eden, 18 anni: io, ebrea, discriminata ancora oggi

Da Pisa ad Auschwitz col Treno della Memoria: «Se chi insulta venisse qui cambierebbe».

di Edoardo Lusena

La domanda fatta dai giornalisti di Toscana- notizie - testata giornalistica della Regione - ai ragazzi sul Treno della Memoria, suonava più o meno così: il razzismo oggi c'è? E tu l'hai mai incontrato?
   Eden, 18 anni di Pisa, non ha esitato: «Mi è capitato di essere esclusa perché ebrea». Un macigno in qualsiasi situazione, che qui, davanti ai cancelli del campo di Auschwitz, lanciato con la leggerezza della sua età pesa il doppio. Racconta, mentre sta vivendo la seconda giornata del viaggio organizzato dalla Regione Toscana, di aver subito quelle parole cattive negli anni, dalle elementari fino al liceo. E «anche se a volte si preferisce il silenzio per far finta che tutto vada bene», altre volte invece si parla. E per lei il percorso era sempre lo stesso: «Prima parlavo coi miei genitori, sono il mio punto di riferimento. Poi con i professori, a volte col preside: è fondamentale il loro ruolo per far capire la gravità di certe cose, magari sentite a casa, e ripetute a cuor leggero». Ma poi, «poi non cambiava nulla, anzi. Arrivavano le scuse, spesso obbligate, ma poi ci si gira dall'altra parte, preferiscono restare della loro idea».
   Come se il confronto, o il rimprovero scivolasse addosso. Eppure cambiare a volte si può, lei lo ha visto coi suoi occhi: «Non pensavo - racconta al telefono - ma in appena 48 ore i miei compagni di viaggio ed io siamo cambiati. Siamo partiti chiacchieroni, scherzosi, ora c'è il silenzio di chi ha visto ciò che non si aspettava. Anzi, in tanti sono proprio stremati». Così, ne è convinta, Eden: «Sì, forse se quei miei compagni che mi hanno insultata fossero stati a bordo del Treno della Memoria avrebbero capito. A maggior ragione mi ha fatto male che alcuni di classe mia - frequenta il liceo scientifico Ulisse Dini - non abbiano voluto nemmeno provare a partecipare, e mi dispiace che due che volevano esserci non siano entrati in graduatoria». Un viaggio - il diciottesimo promosso da Ugo Caffaz, anima del Treno - che Eden ha voluto fare, che oggi finirà dopo la commemorazione di ieri al Campo con l'omaggio alle vittime della vice governatrice Monica Barni e l'incontro, il pomeriggio con i testimoni, tra cui le sorelle Andra e Tatiana Bucci, in un cinema di Cracovia.
   Tra poche ore Eden tornerà tra i banchi del Dini: «Se mi chiederanno a scuola di raccontare l'esperienza partirò dalle foto, vedendo coi propri occhi si capisce dove può arrivare l'uomo».

(Corriere Fiorentino, 23 gennaio 2019)


L'Unione Europea chiede (finalmente) nuove elezioni palestinesi

I capi missione UE esprimono "preoccupazione" dopo che il presidente palestinese, decaduto da 10 anni, ha sciolto il parlamento, decaduto da 9 anni

di Tovah Lazaroff, Khaled Abu Toameh

 
Sede del Consiglio Legislativo palestinese a Ramallah. Una seconda sede si trova a Gaza
L'Unione Europea ha esortato l'Autorità Palestinese a indire elezioni, esprimendo preoccupazione per l'assenza di qualsiasi organismo democraticamente eletto nei territori palestinesi, e in particolare in Cisgiordania.
I capi missione UE a Gerusalemme e Ramallah hanno rilasciato lunedì scorso una dichiarazione, dopo che il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha sciolto d'autorità il Consiglio Legislativo palestinese, alla fine di dicembre, affermando che nuove elezioni si terranno entro sei mesi. La manovra di Abu Mazen ha lasciato in pratica i palestinesi senza alcun organismo governativo eletto. "Lo scioglimento pone ufficialmente fine al mandato dell'unico organo di governo eletto dell'Autorità Palestinese - affermano i rappresentanti UE - Uno sviluppo che le missioni dell'Unione Europea considerano con preoccupazione".
L'Unione Europea non manca di notare che il Consiglio Legislativo palestinese, che comprendeva membri sia di Fatah che di Hamas, esisteva ormai solo di nome: non si era più riunito dal 2007, quando Hamas aveva preso il controllo della striscia di Gaza con un sanguinoso colpo di stato rendendo impossibile la convocazione del "parlamento" palestinese. Tuttavia, osservano i rappresentanti dell'Unione Europea, il mandato del Consiglio Legislativo palestinese svolgeva un ruolo simbolico, anche se il mandato dei suoi membri era scaduto sin dal 2010. Dal canto suo, il mandato di quattro anni di Abu Mazen è scaduto sin dal 2009.
Alla luce della continua lotta di potere tra Fatah e Hamas, la prospettiva che si tengano regolari elezioni in Cisgiordania e nella striscia di Gaza appare remota se non del tutto nulla. L'Unione Europea esorta comunque Fatah e Hamas a ricongiungersi e il governo palestinese ad "adoperarsi per elezioni autentiche e democratiche per tutti i palestinesi". E aggiunge che tali elezioni democratiche sarebbero di importanza "cruciale" per la "istituzione di uno stato palestinese vitale e sovrano". L'Unione Europea esorta quindi "tutte le fazioni palestinesi ad impegnarsi in buona fede nel processo di riconciliazione, elemento importante per arrivare alla soluzione a due stati", e sottolinea che "l'Autorità Palestinese deve riprendere pienamente le sue funzioni governative a Gaza, in quanto parte integrante di un futuro stato palestinese".

da Jerusalem Post, 21.1.19

(israele.net, 23 gennaio 2019)


Gli ebrei di Libia. Memoria e consapevolezza

Le Leggi razziali vennero estese anche alla colonia, nonostante l'opposizione di Balbo. Gli studi di Giordana Terracina

di Asmae Dachan

«Guarda, queste sono le pietre d'inciampo». Giordana Terracina, un'amica ebrea, mi indica alcuni sanpietrini davanti agli usci di case dell'antico ghetto romano. Sulle lastre di ottone che li coprono ci sono i nomi delle persone che abitavano lì prima di essere deportate. Su quelle pietre d'inciampo è il cuore a cadere, in un misto tra imbarazzo e dolore. Giordana è consulente scientifica al Museo della Shoah di Roma e ricercatrice al master di II livello sulla Didattica della Shoah all'Università Roma Tre. In questo periodo sta ricostruendo in particolare la storia degli ebrei nella Libia colonizzata. Ci incontriamo a Roma nei luoghi dove si è consumata questa pagina dolorosa della storia. Entriamo al Museo della Shoah e al suo interno non c'è bisogno di parlare. Affissi alle pareti ci sono manifesti e articoli inneggianti alla discriminazione e all'odio verso gli ebrei. Ci sono foto, lettere e oggetti personali appartenuti a insegnanti, scrittori, atleti, militari e gente comune, discriminati per la propria fede, esclusi dalla vita pubblica e poi mandati a morire. Visitando poi il Museo Ebraico Giordana mi spiega tradizioni, usi e simbologie della sua cultura. Ci sediamo in una stanza dove sono esposti alcuni oggetti e foto dell'antica comunità ebraica di Libia, e Giordana mi racconta alcuni risultati dei suoi studi sull'applicazione delle leggi razziali nelle colonie di Tripoli e Bengasi.
  Nel 1876 la comunità italiana a Tripoli era in crescita e c'era una grande necessità di scolarizzazione, così si chiese l'invio di un maestro dall'Italia, che venne scelto nella persona di Giannetta Poggi, un noto docente ebreo. Nel 1938, quando vennero approvate le leggi razziali, emerse il problema di come applicare tali norme anche alle colonie. Si decise così di applicare agli ebrei italiani in Libia le stesse leggi vigenti in Italia, con la cacciata da scuole e luoghi di lavoro, mentre per gli ebrei di altre nazionalità nelle colonie vennero varate norme ad hoc. Balbo, che in quel periodo governava la Libia, disse a Mussolini che non poteva privarsi degli ebrei perché erano istruiti e coprivano incarichi fondamentali in ambito medico-sanitario, nel commercio, nell'interpretariato. Senza di loro le colonie non potevano funzionare. Vennero istituite scuole speciali per i maestri e gli studenti ebrei, un albo per gli avvocati, mentre gli spedizionieri vennero cacciati.
  Oggi che si denuncia la presenza di campi di concentramento di migranti in Libia, non ci si può dimenticare che di campi di concentramento e internamento la Libia era già piena. Nel 1940, infatti, vennero creati campi, in particolare a Zuetina e Buerat El Sun dove furono rinchiusi ebrei inglesi, francesi e greci. Gli ebrei inglesi e anglo- maltesi vennero deportati in Italia, mentre gli ebrei turchi, greci e di altre nazionalità furono rimandati nei Paesi d'origine. Gli ebrei arrivati in Italia vennero smistati dal porto di Napoli verso i sessantaquattro campi di concentramento e i internamento libero. Gli ebrei inglesi furono portati principalmente nei campi di Civitella del Tronto e Camerino, dove molti restarono fino a maggio del 1944, dove poi, passando per Fossoli, proseguirono per il campo di concentramento di Bergen-Belsen. Molti servirono per scambi di prigionieri con gli alleati. Tramite i programmi in arabo di Radio Bari la propaganda fascista si diffondeva in Nord Africa e Medio Oriente. Circa quattromila ebrei francesi subirono la deportazione in Tunisia, per finire poi, alcuni di loro, sterminati nei campi tedeschi. Prima di partire venne imposto agli ebrei francesi di fare il censimento di tutti i loro beni e della composizione della famiglia. Nel momento della deportazione tutto venne sequestrato.
  Il master all'interno del quale Giordana ha svolto le sue ricerche propone una prospettiva sull'Olocausto in chiave interdisciplinare con focus su diversi contesti, dall'Europa Centrale e dell'Est, al Mediterraneo e mondo arabo. Si tratta di un lavoro scientifico dedicato alla ricerca e formazione, che ha già laureato centoventi specialisti. L'obiettivo principale di Giordana e dei suoi docenti è aprire nuove prospettive, per coniugare la ricerca della memoria a un progetto educativo che aiuti a prendere una nuova consapevolezza dei fatti.«È importante favorire un cambiamento della rappresentazione - conclude Giordana -. L'Europa ha ritrovato unità nell'elaborazione del lutto. Lo studio della tragedia ci dà una diversa rappresentazione di noi stessi».
  Visitando la sinagoga mi fermo davanti alla lapide che ricorda il piccolo Stefano Taché, il bambino di due anni ucciso all'uscita del luogo di culto in un attentato terroristico nel 1982. Ho bisogno in cuor mio di chiedergli scusa. Nessun bambino dovrebbe essere ucciso, mai e poi mai. Faccio tesoro delle parole di David Meghnagi, docente e mentore di Giordana: «Per guardare a un futuro possibile bisogna restituire voce alla speranza, curando in primo luogo le parole malate, valorizzando la memoria dei giusti delle nazioni in ogni luogo e di ogni fede». Condivido il suo pensiero e credo che la presenza stessa dei superstiti dell'antica comunità ebraica romana in quello che è stato il loro ghetto, sembra oggi un atto di eroica resilienza. Un inno alla vita che non si arrende.

(Avvenire, 23 gennaio 2019)



Prove di accordo sul bilancio Usa. E Trump ritenta ancora sul muro

Intanto Israele e Stati Uniti hanno l'arma anti-lran

di Daniel Mosseri

Segnali di distensione tra democratici e repubblicani arrivano da Washington sullo "shutdown" che da cinque settimane tiene bloccate le attività amministrative negli Usa. Al Senato, infatti, si parla di un possibile accordo sulla proposta del presidente Trump di finanziare il muro al confine con il Messico e un disegno di legge «per finanziare il governo fino all'8 febbraio». Domani, con il voto al Senato, si scoprirà se la tesi di un accordo, sostenuta dal New York Times, è veritiera o meno.
   Intanto, martedì mattina le Israeli Defense Forces (Idf) hanno testato con successo il sistema missilistico Arrow 3 destinato a intercettare i missili balistici al di fuori dell'atmosfera. Le Idf hanno effettuato il test assieme all'Agenzia di difesa missilistica Usa abbattendo un missile "bersaglio" lanciato appositamente. Attualmente le Idf hanno in dotazione l' Arrow 2, ma l' Arrow 3, capace di colpire bersagli in arrivo da altezze e velocità maggiori, dovrebbe permettere alle Idf di affrontare scenari più complessi. Non è un mistero che Israele teme un attacco missilistico da parte dell'Iran, che minaccia di distruggere lo Stato ebraico. L'annuncio del test arriva un giorno dopo che Israele ha attaccato obiettivi iraniani in Siria, ore dopo che il suo sistema di difesa Iran Dome aveva intercettato un missile lanciato dalla Siria. Il lancio del missile seguiva un attacco su un aeroporto nel sud della Siria, azione che la Russia ha attribuito a Israele. Mentre l'Iran Dome ha abbattuto il missile iraniano, lunedì i caccia israeliani hanno colpito il comando della base area iraniana T 4 nei pressi di Homs, in Siria: almeno quattro pasdaran sono rimasti uccisi ma secondo fonti russe sarebbero undici. Nelle stesse ore il premier israeliano Netanyahu annunciava da N'djamena il ripristino delle relazioni diplomatiche fra Israele e il Ciad, che le aveva interrotte nel 1972: «Facciamo passi avanti con il mondo islamico». Nonostante la distanza non enorme, il volo da Tel Aviv al Ciad è durato otto ore perché il Sudan non permette a Israele di entrare nel suo spazio aereo. Il velivolo del premier ha così dovuto aggirarlo prima di entrare nello spazio aereo del Ciad. Al ritorno invece il Sudan ha permesso a Netanyahu di sorvolare il Sud Sudan accorciando di un'ora il volo.

(Libero, 23 gennaio 2019)


Ucraina e Israele firmano un accordo storico di libero scambio

Il presidente ucraino Petro Poroshenko e il presidente israeliano Reuven Rivlin
Ucraina e Israele hanno siglato un accordo di libero scambio commerciale. L'intesa è stata sottoscritta dal vice primo ministro ucraino e ministro per lo Sviluppo economico e il commercio, Stepan Kubiv, e il ministro israeliano dell'Economia e dell'industria, Eli Cohen. La sottoscrizione è avvenuta nel corso della visita ufficiale in Israele che si è appena conclusa del presidente ucraino, Petro Poroshenko. Secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa ucraina Ukrinoform, Poroshenko ha sottolineato che si è trattato di una giornata storica nelle relazioni tra Ucraina e Israele, aggiungendo che l'accordo di libero scambio eliminerà tutte le barriere nelle relazioni economiche tra i due Paesi.
   Secondo le stime del ministero per lo Sviluppo economico e il commercio, l'accordo contribuirà ad aumentare nel prossimo futuro le esportazioni dell'Ucraina verso Israele e a migliorare l'equilibrio commerciale tra i due Paesi. L'effetto dell'accordo di libero scambio non si applicherà ai territori temporaneamente occupati della Crimea, della città di Sebastopoli e di alcune aree delle regioni di Donetsk e di Luhansk fino al completo ripristino dell'ordine costituzionale, riferisce ancora l'agenzia di stampa Ukrinform.
   Secondo la Strategia di esportazione dell'Ucraina, in particolare la Road Map per lo sviluppo strategico per il commercio nel periodo 2017-2021, Israele è tra i primi 20 mercati più promettenti per l'esportazione di prodotti ucraini ed è anche uno dei principali partner commerciali dell'Ucraina nella regione del Medio Oriente. I settori con maggiori possibilità di sviluppo per la cooperazione sono l'agricoltura, il turismo, la lavorazione degli idrocarburi, le comunicazioni, la medicina, l'efficienza energetica e l'ecologia.

(ANSA, 22 gennaio 2019)


Siria, Israele non si nasconde: «Nostri gli attacchi all'Iran»

Netanyahu rivendica il blitz. L'obiettivo è Teheran, che vuole estendere la propria influenza su Damasco

Le bombe
L'offensiva all'alba contro obiettivi nell'aeroporto della capitale: 11 morti
La minaccia degli ayatollah
«I nostri giovani piloti non vedono l'ora di eliminare il regime sionista»

di Fiamma Nirenstein

"Siamo veramente impazienti di eliminare il regime sionista. I nostri giovani piloti non vedono l'ora di scontrarsi col regime sionista e di eliminarlo dalla faccia della terra". Così ieri Aziz Nasirzadeh, uno dei generali delle Forze di Quds, la sezione estera delle Guardie della Rivoluzione, poche ore dopo che i caccia israeliani hanno lanciato all'alba un attacco massiccio contro obiettivi iraniani all'aeroporto di Damasco in cui sono rimasti uccisi 11 soldati secondo le fonti siriane, 4 secondo quelle russe. Niente di nuovo nelle dichiarazioni di antisemitismo genocida dell'Iran, ormai una autentica antologia di ottusa ferocia. E nemmeno negli attacchi di Israele alle strutture iraniane (depositi di armi, strutture di intelligence...) in Siria, che secondo il capo di Stato maggiore uscente Gadi Eisenkot sono migliaia. Ma di cose nuove invece ce ne sono parecchie in ciò che è accaduto nelle ultime ore, e nessuna promette bene.
  La prima: qualche ora prima dell'ultima tornata di scontri che è in corso da tre giorni prima il Capo di Stato maggiore e poi il Primo ministro Benjamin Netanyahu stesso hanno rivendicato pubblicamente a Israele la paternità degli attacchi. Un gesto che contraddice decenni di ambiguità, che invita il nemico a confrontarsi direttamente con una richiesta che da parte di Israele è sempre la stessa ma è sempre più dura: vattene dal mio confine, non consentiremo che sia stabilito qui uno Stato siriano vassallo delle Guardie della Rivoluzione. In particolare, chi doveva ascoltare l'invito stavolta era il grande generale cui è affidata l'espansione dell'Iran impegnato nella rivoluzione islamica mondiale, Qasem Suleimani. Dopo che Israele aveva causato il ritorno in Iran di un aereo carico di suoi colleghi della Guardia di Quds diretto a Damasco, piccato dall'atteggiamento israeliano diretto e minaccioso e preoccupato forse che Khamenei lo giudicasse indeciso rispetto alla tenuta sciita in Siria, ha deciso per il lancio di un missile terra-terra di grandi dimensioni, capace di una gittata di 300 chilometri, lanciato non su obiettivi militari ma sui campi di sci (gli unici di Israele, molto frequentati in questi giorni di neve) del Monte Hermon. Per fortuna "Iron Dome" il sistema israeliano di difesa antimissile ha bloccato l'attacco. Suleimani, pare, aveva preparato quel missile speciale: un analista famoso, Ron Ben Yshai, ritiene che ne abbia curato il lancio personalmente.
  I russi domenica pomeriggio dopo aver avvertito l'aereo iraniano della minaccia e averlo indotto a non atterrare hanno ancora trasferito un messaggio israeliano, stavolta ai siriani, chiedendo di non attivare le batterie quando gli F15 hanno attaccato in risposta al missile terra-terra. Ma Assad non ha accettato e perciò, più tardi, altra novità, Israele ha colpito le batterie anti aeree siriane dopo aver abbattuto vari obiettivi iraniani. La Russia non ha condannato Israele, ma non è contenta della situazione infuocata. Putin si accontenta di dominare la Siria, non gli interessa affatto consegnarlo all'Iran, né trovarsi impicciato in una guerra che coinvolga Israele e Ayatollah. Israele forse sta pensando che le conviene tornare a una politica di ambiguità in modo da evitare che ci siano ripercussioni dirette dei suoi atti che comunque devono tenere gli iraniani per lo meno a 80 chilometri dal confine, come concordato (e non mantenuto) con Putin. Per ora ce la sta facendo? Sembra di sì. Sono anni ormai che l'Iran ha mandato i suoi uomini e le armi sul confine di quel Paese che è la sua più ambita preda, e per ora sembra non aver davvero combinato un gran ché. Costruisce e gli viene distrutto, fra i suoi ci sono morti e feriti, la sua forza internazionale ha perso colpi, dopo la fine dell'accordo stabilito da Trump, anche in Europa. Se Soleimani volesse dar fuoco alle polveri, questo potrebbe indurre gli americani a ripensare la loro ritirata dalla Siria, in cui adesso i topi ballano, e potrebbe anche mettere in pericolo Assad.

(il Giornale, 22 gennaio 2019)


*


Israele colpisce i Pasdaran in Siria: cacceremo l'Iran

Dopo i missili delle milizie sciite sul Golan scatta il raid Netanyahu: chiunque ci minaccia pagherà le conseguenze.

di Giordano Stabile

 
«Iran, forse ti sei perso». L'esercito israeliano sfida con ironia sul suo account Twitter il regime di Teheran. «Questo è il territorio che appartiene all'Iran», si legge e invece «sta qui, con una freccia che indica la Siria.
La battaglia aerea fra Israele e Iran in Siria si gioca per la prima volta a viso aperto, con lo Stato ebraico che rivendica gli ultimi raid come mai ha fatto prima e illustra le operazioni con tweet, foto e filmati per dimostrare che è in grado di contrastare i Pasdaran fino alle porte di Damasco, e che il prossimo ritiro americano dal territorio siriano non pregiudicherà la sua volontà di impedire «il radicamento iraniano» a poche decine di chilometri dalle sue frontiere.
   L'ultimo scambio fra le due potenze regionali in lotta si articola fra domenica e l'alba di ieri. Prima «da sei a otto missili» vengono lanciati a Sud della capitale, diretti verso la base di Kiswah. Parte degli ordigni sono intercettati e sembra finita lì. Ma nel pomeriggio milizie sciite, o gli stessi Pasdaran, lanciano razzi e missili verso il Golan. Uno viene abbattuto dal sistema Iron Dome di fronte al Monte Hermon e filmato persino da alcuni sciatori. Poco prima dell'alba di ieri scatta la rappresaglia dei cacciabombardieri con la Stella di David, con almeno «tre ondate di missili e bombe teleguidate», su basi iraniane e depositi all'aeroporto internazionale di Damasco.
   Le difese vengono attivate con tutta la loro forza. Trenta ordigni, secondo i comandi militari russi, sono «abbattuti». La reazione allarga ancor più il conflitto. Gli israeliani, come hanno poi precisato in un comunicato ufficiale, avevano preavvisato i siriani di non «interferire». A questo punto prendono di mira anche le batterie anti-aeree. Almeno due, compresa una di moderni Pantsir S-1, sono distrutte. Le stesse forze armate israeliane mostrano i filmati, registrati da telecamere montate sulle bombe, dei mezzi disintegrati dalle esplosioni. In questa fase almeno quattro militari siriani rimangono uccisi, mentre il bilancio complessivo, secondo l'Osserva torio siriano per i diritti umani, è di undici vittime, alcune civili, forse anche consiglieri militari iraniani.
   Ma è soprattutto la comunicazione israeliana a colpire. Per anni, per lo meno dal 2013,jet e missili terra-terra hanno preso di mira postazioni Hezbollah, convogli di armi, poi basi con presenza di Pasdaran delle forze d'élite Al-Quds. Israele non ha mai negato né confermato, fino all'abbattimento di un suo F-16 il 10 febbraio 2018. Dopo di ché, prima l'ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman e poi il premier Benjamin Netanyahu hanno ammesso che «centinaia» di raid erano stati compiuti. Ora però il nuovo capo delle Forze armate Aviv Kochavi parla di «migliaia» di obiettivi colpiti e tutto viene pubblicizzato come ai tempi dell'operazione americana Tempesta nel Deserto in Iraq. Il messaggio all'Iran è chiaro. Anche se gli Usa si ritirano, gli ayatollah non avranno campo libero in Siria.
   La replica arriva dal comandante delle Forze aeree iraniane, generale Aziz Nasirzadeh, che assicura come «le attuali e future generazioni di piloti sono impazienti e pronte a combattere Israele per cancellarlo dalla faccia della Terra».
   Alla provocazione risponde Benjamin Netanyahu. Colpiremo, ribatte, «chiunque cerchi di farci del male, chiunque minacci di eliminarci ne pagherà le conseguenze». Analisti israeliani, come Anshel Pfeffer, notano però il «disinteresse» americano, mentre la Russia non va oltre il plauso all'efficacia dei sistemi anti-aerei, tutta da verificare. Mosca, nonostante abbia fornito a Damasco i più potenti S-300, evita di usarli per non innescare una escalation incontrollabile.
   A complicare ancora di più lo scenario è il fronte iracheno. L'Intelligence occidentale ha notato nell'autunno scorso lavori per costruire rampe di lancio per missili a media-lunga gittata vicino a Baghdad. Già nel 1991 Saddam Hussein riuscì a raggiungere Israele con i suoi Scud posizionati nella parte occidentale del Paese e ora Teheran dispone di missili più sofisticati, come gli ultimi Zulfiqar, con una portata di 700 chilometri.
   Questi ordigni sono stati testati dall'Iran contro obiettivi dell'Isis in Siria, lo scorso novembre. Dall'Iraq potrebbero raggiungere lo Stato ebraico. In più, se l'Iran ha la possibilità di colpire il territorio israeliano, Israele non ha la stessa libertà d'azione, perché lo spazio aereo attorno alla Repubblica islamica è controllato dagli Stati Uniti ed eventuali raid dovrebbero essere coordinati e concordati con Washington.

(La Stampa, 22 gennaio 2019)


*


Israele muove guerra alla "Pasdaran holding" in Siria

Sale la tensione, Israele: "Elimineremo gli iraniani in Siria". Teheran: "Vi distruggeremo"

di Umberto De Giovannangeli

"La nostra politica è eliminare la presenza iraniana in Siria": Benjamin Netanyahu, primo ministro d'Israele. "Siamo pronti per la guerra decisiva che porterà alla scomparsa di Israele. Le nostre forze armate sono preparate per il giorno in cui Israele sarà distrutto": Aziz Nasirzadeh, capo dell'aeronautica iraniana (secondo la tv di Stato di Teheran, parole riportate dal sito Times of Israel ). Almeno nei proclami, la red line tra Israele e Iran è stata superata. E la Siria diventa il campo di battaglia di una guerra diretta che rischia di far esplodere la polveriera mediorientale. Le affermazioni del generale Nasirzadeh arrivano dopo gli attacchi israeliani in Siria contro presidi militari iraniani. Da parte sua, Israele ha precisato che "il missile terra-terra di media gittata contro le Alture del Golan controllate da Israele è di produzione iraniana e non è mai stato usato all'interno della guerra in Siria". Il portavoce militare israeliano Jonathan Conricus lo ha spiegato ai giornalisti sottolineando che "il missile è stato portato in Siria dall'Iran con l'intento di colpire nel futuro Israele. Quello di domenica sul Monte Hermon è stato un attacco premeditato in un'aerea dove c'erano migliaia di civili israeliani". Le forze armate israeliane, ha avvertito il portavoce, "restano determinate ad agire per impedire il rafforzamento iraniano in Siria".
  Il portavoce militare ha precisato che l'aviazione israeliana ha colpito in Siria diversi obiettivi della forza 'Quds' iraniana fra cui "magazzini di munizioni ed installazioni vicine all'aeroporto di Damasco, un sito dell'intelligence ed un campo di addestramento delle forze armate iraniane". Durante l'attacco verso i jet israeliani sono stati lanciati decine di razzi terra-aria siriani e di conseguenza sono state colpite anche batterie della difesa aerea della Siria. Secondo la radio militare, tutti gli aerei israeliani sono rientrati indenni alle loro basi. Per ragioni prudenziali, il sito sciistico israeliano del Monte Hermon - dove ieri al momento del lancio del razzo iraniano si trovavano circa 5.000 escursionisti - oggi è rimasto chiuso. Nel suo comunicato il portavoce militare afferma che "sparando ieri verso Israele l'Iran ha dato la prova definitiva delle sue reali intenzioni in Siria" ed ha aggiunto che da parte sua il regime siriano resta responsabile per tutto quanto avviene nel suo territorio.
  Tsahal, l'esercito dello Stato ebraico, ha dunque rivendicato apertamente la responsabilità degli attacchi contro la forza Quds delle Guardie della rivoluzione iraniana. "Abbiamo la costante politica di danneggiare l'arroccamento dell'Iran in Siria e di colpire chiunque provi a danneggiarci. Una politica che non cambia, sia se sono in Israele o in visita storica al Ciad", ribadisce Netanyahu evocando così, seppure indirettamente, l'attacco israeliano di ieri. "In Siria, dove si è ritirato l'Isis, è entrato l'Iran. E questo mina la nostra sicurezza e destabilizza il Medio Oriente", insiste il premier che fa sempre più del confronto (militare) col Grande Nemico iraniano, il centro della sua campagna elettorale in vista del voto del 9 aprile. Non c'è più riservatezza. L'attacco si fa e lo si rivendica pubblicamente: ecco spiegato perché Netanyahu abbia tenuto a sé, ad interim, il ministero della Difesa dopo le polemiche dimissioni del super falco Avigdor Lieberman. Yuval Steinitz, ministro dell'Energia e delle Risorse idriche, tra i più vicini a Netanyahu, è ancora più esplicito "Da tempo e in ogni consesso internazionale denunciamo la pericolosità del regime iraniano e la sua determinazione ad assumere una posizione di comando in Medio Oriente. Non si tratta solo del dossier nucleare. Non c'è Paese del Medio Oriente in cui Teheran non ha allungato i suoi tentacoli, direttamente, come in Siria, Iraq e Yemen, o indirettamente, come in Libano attraverso Hezbollah o a Gaza con Hamas", dice ad HuffPost che l'ha raggiunto telefonicamente nel suo ufficio a Gerusalemme. Lo scontro israelo-iraniano s'intreccia con il ritiro, sia pur diluito nel tempo, delle truppe statunitensi di stanza in Siria.
  "La presenza delle truppe statunitensi nelle aree controllate dai curdi nella Siria orientale ha finora impedito a Teheran di completare quell'arco sciita che porterebbe l'influenza dell'Iran fino al Mediterraneo, passando senza soluzione di continuità attraverso l'Iraq, la Siria e il Libano - rimarca sul Jerusalem Post Herb Keimon, analista di punta del JP -. La presenza degli Stati Uniti nella Siria orientale era ciò che impediva a Teheran di trasportare armi moderne e potenti via terra, lungo quell'arco, fin nelle smaniose mani di Hezbollah in Libano. Era dunque una zona cuscinetto di importanza cruciale. Come ha detto l'ex vice capo di stato maggiore israeliano Yair Golan in una conferenza sul Mediterraneo orientale la scorsa settimana, 'abbiamo bisogno della massima presenza possibile degli Stati Uniti nella regione, soprattutto in Iraq e nella parte orientale della Siria: con la presenza americana e il sostegno americano ai curdi, possiamo in qualche modo contenere il peso dell'Iran nella regione, cosa che è estremamente importante'". Per proseguire: "La presenza americana era anche una carta che poteva essere giocata con i russi per convincerli a sospingere gli iraniani fuori dalla Siria. I russi non gradiscono la presenza americana nell'area e, di conseguenza, gli Stati Uniti potevano dire: "Usate la vostra influenza per far uscire l'Iran, e noi ce ne andremo".
  Ma ora gli Stati Uniti se ne stanno andando senza che i russi - perlomeno a quanto è dato sapere - stiano facendo nulla per far uscire gli iraniani". Le conclusioni a cui giunge l'analista del Jerusalem Post aprono scenari inquietanti quanto realistici: "Israele, ha affermato Netanyahu rilasciando un commento molto contenuto all'annuncio americano, saprà come difendersi anche con le truppe Usa fuori dalla Siria e lasciato da solo ad affrontare le enormi sfide e minacce che si profilano in Siria: dalla presenza russa a quella dell'Iran. Uno dei modi a cui Israele potrebbe fare ricorso per difendersi è quello di agire contro il braccio iraniano rappresentato da Hezbollah in Libano". O puntare direttamente contro i Pasdaran in Siria. I Pasdaran iraniani sono sempre più massicciamente presenti sul Golan siriano mentre Hezbollah continua con l'opera di fortificazione dei villaggi libanesi vicini al confine con Israele. Un rapporto del Mossad parla di decine di abitazioni civili trasformate in depositi di armi e postazioni di lancio per missili.
  Gli uomini di Hezbollah sono ormai talmente fidati per l'Iran che, secondo un comandante che ha parlato con Buzz Feed, circa duemila di loro sono in Iraq per fare formazione alle decine di migliaia di nuove reclute. Questo programma di addestramento e accompagnamento, scrive Daragahi, è talmente opaco da non avere un nome specifico: è però frutto di un progetto minuzioso, che segue attentamente ogni reclutato, con un mix di misticismo - sono i "Protettori dei Santi", dicono i media di Stato - e obiettivi politici per creare un nuovo ordine regionale. A chi si arruola anche una ricompensa materiale: stipendi decenti rispetto agli standard, ma regole rigorose e continua sorveglianza. Spiega un ex ufficiale israeliano al giornalista del sito americano che è una strategia tremenda, perché "non importa se tu hai F-16 o F-35?, non puoi combattere contro soldati che si confondono con la popolazione; che sono la popolazione. Nel Golan siriano le Guardie della Rivoluzione iraniana sono diventate stanziali e stanno cercando di fare di tutto per aprire un corridoio diretto che attraverso la Siria e l'Iraq permetta alle forze iraniane di trasferirsi facilmente al confine con Israele. Tutto fa pensare che l'Iran stia posizionando le sue pedine per dare scacco allo Stato ebraico. E naturalmente Israele non lo può permettere.
  Di certo, Hezbollah e gli sponsor iraniani hanno deciso di sfruttare il caos siriano e di allargare il fronte e i siti di lancio alle alture del Golan tagliate dal confine tra Israele e Siria e lo hanno anche annunciato ai giornalisti locali. Scrive Ron Ben Yishai, tra i più autorevoli analisti militari israeliani, sul quotidiano Yedioth Ahronoth: "Hezbollah e gli iraniani hanno più o meno esaurito il potenziale del Libano di diventare la base delle operazioni contro il fronte nord israeliano e contro le comunità di civili. Per questo hanno bisogno di un nuovo fronte sul Golan, da cui lanciare missili sulla fascia centrale di Israele e anche incursioni di terra contro il nord e contro gli abitanti delle aree adiacenti al confine". "Israele - rimarca ancora Ben Yishai si sta già preparando all'opzione militare, acquistando armi avanzate e potenziando le proprie capacità. Israele - conclude - rafforzerà l'intelligence sull'Iran per minimizzare il rischio di una sorpresa strategica, migliorerà la difesa missilistica, così come gli attacchi aerei e navali, si preparerà per un potenziale attacco preventivo contro gli impianti nucleari iraniani e Hezbollah, che dovrà essere attaccato allo stesso tempo, perché è chiaro che avrà un ruolo proattivo nel conflitto tra Israele e Iran".
  Per sostenere direttamente il regime di Assad, l'Iran, come Stato, attraverso le proprie banche, ha investito oltre 4,6 miliardi di dollari, che non includono gli armamenti scaricati quotidianamente da aerei cargo iraniani all'aeroporto di Damasco, destinanti principalmente ai Guardiani della Rivoluzione impegnati, assieme agli hezbollah, a fianco dell'esercito lealista. Non basta. Almeno 50mila pasdaran hanno combattuto in questi anni in Siria, ricevendo un salario mensile di 300 dollari. Lo Stato iraniano ha pagato loro anche armi, viaggi e sussistenza. E così è avvenuto anche per i miliziani del Partito di Dio. "Sono anni che l'Iran paga tutte le spese degli Hezbollah libanesi e ora anche dei ribelli Houthi yemeniti - afferma Shirin Ebadi, avvocata, attivista dei diritti umani, premio Nobel per la pace 2003 - Abbiamo speso molto denaro nella guerra in Siria e in Iraq, fondi che avrebbero dovuto essere convogliati al miglioramento delle condizioni di vita del mio popolo e che, invece, hanno creato ulteriore povertà nel Paese e nella regione".
  Ritirarsi dalla Siria, ora che hanno contribuito alla vittoria sul campo di Bashar al-Assad, per Teheran significherebbe per i Pasdaran rinunciare a partecipare, da vincitore, alla partita che più conta: quella della ricostruzione. Una partita multimiliardaria, vitale per mantenere in piedi, dentro e fuori l'Iran, la "Pasdaran holding". "L'escalation di domenica a Damasco - annota Anshel Pfeffer, tra le firme più autorevoli di Haaretz - dimostra cosa succede quando l'inazione delle due potenze globali (Usa e Russia) - crea un vuoto in Medio Oriente". Un vuoto esplosivo.

(L'HuffPost, 22 gennaio 2019)


*


Israele e Iran si sparano in Siria. Mogherini-&c. tifano ayatollah

Netanyahu colpisce i pasdaran. Teheran: pronti per la guerra decisiva contro lo Stato ebraico. I vertici della Ue vogliono che i nuovi nazisti abbiano il nucleare.

di Giovanni Sallusti

Godetevi le dichiarazioni di ieri del generale Aziz Nasirzadeh, capo dell'aeronautica iraniana. «Siamo pronti per la guerra decisiva che porterà alla scomparsa di Israele». Perché che «il giorno promesso» arrivi è fuori discussione, nella personale teologia del generale e degli ayatollah. Per cui l'Iran è «impaziente di combattere il regime sionista» onde «eliminarlo dalla Terra».
  Da quando è scomparso un celebre imbianchino austriaco, non si ricordano affermazioni d'intenti così coerentemente antisemite. Beh ma questo sicario con le stellette e i suoi mandanti, l'oligarchia teocratica islamista di Teheran, saranno dei paria internazionali, osteggiati dall'intero mondo civile, in primis quelle anime belle progressiste sempre pronte a tirare in ballo la Shoah al primo barcone di migranti in difficoltà.
  Macché. Ali Khamenei, la Guida Suprema del regime, i suoi gerarchi, i suoi generali che dichiarano in mondovisione di puntare alla cancellazione dello Stato ebraico dalla carta geografica, sono ad esempio i cocchi dell'Unione Europea, quel Politburo così ossessionato dall'avanzata elettorale dei "sovranisti", da perdersi per strada l'avanzata strategica e militare dei nuovi nazisti.

 Contro gli Usa
  Per ricordare solo l'ultima puntata di questa saga di amorosi sensi, rispetto a cui il patto di Monaco assume i contorni di un momento dignitoso: le istituzioni europee, ha rivelato recentemente il Wall Street Journal, non parteciperanno al summit sul Medio Oriente organizzato dagli Stati Uniti in Polonia per metà febbraio. Come hanno poi confermato sotto anonimato parecchi eurodiplomatici, la scelta è «espressione della volontà di non unirsi al fronte anti-iraniano capeggiato da Trump». Nessuna urgenza di imbastire un fronte del mondo (in teoria) libero contro un totalitarismo religioso che mira a "eliminare" l'unica democrazia dalla mappa del Medio Oriente, l'odiato Stato degli odiati ebrei.
  Tra le graziose politiche di buon vicinato adottate da Teheran figurano: finanziamento e sostegno militare ad Hezbollah, perennemente intenta a scavare tunnel attraverso cui portare morte e attentati dentro le viscere d'Israele.

 Soldi ad Hamas
L'Alto rappresentante per gli affari esteri dell'Unione Europea...
.... si abbassa davanti all'altissimo rappresentante della Repubblica islamica dell'Iran
Finanziamento e sostegno militare ad Hamas, nel cui statuto è scolpito che Israele «rimarrà in esistenza finché l'islam non lo ponga nel nulla». Presenza e attività anti-israeliana sul suolo siriano della Forza Quds, l'unità speciale del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica addetta alle operazioni all' estero. Responsabile di quella che il governo Netanyahu ha indicato come l'ultima escalation: il lancio di un missile terra-terra di media gittata contro le alture del Golan. «Un attacco premeditato in un'aerea dove c'erano migliaia di civili israeliani», ha detto il portavoce militare da Tel Aviv. Sono quei civili di cui non leggete mai nei nostri giornaloni, che anche ieri indugiavano sui raid aerei israeliani in Siria omettendo la lievissima postilla per cui si trattava della risposta al lancio del suddetto missile. Nessuna meraviglia: il coro del Giornale Unico è stato tutto a favore dell'accordo sul nucleare coi nuovi nazisti, zelante ripetitore delle tesi dell'Unione Europea. L'Alto rappresentante Ue per gli affari esteri (non ridete, così è) Federica Mogherini all'indomani dell'accordo si precipitò in visita omaggiante con velo d'ordinanza e proclamò che «con l'Iran è il momento di costruire un'alleanza di civilizzazioni», una frase che poteva stare bene in bocca al dottor Goebbels, visto l'antisemitismo radicale degli interlocutori.

 Juncker dixit
  Ma anche Jean-Claude Juncker si è difeso, quanto a sottomissione volontaria, ribadendo recentemente che «l'Ue è determinata a salvare l'accordo con l'Iran» nonostante la fuoriuscita e le sanzioni degli Stati Uniti imposte da Donald Trump. Sanzioni che del resto la Ue aggira esplicitamente, da quando ha annunciato la creazione di un canale speciale per «facilitare i pagamenti legati alle esportazioni iraniane».
  Non sappiamo quanti missili da scaraventare sulle teste dei cittadini israeliani siano stati costruiti con tali "pagamenti". Sappiamo però che eurocrati, giornaloni, intellettuali avvezzi a menarcela con la causa palestinese, domenica prossima, Giorno della Memoria, si affolleranno tutti sul pulpito ad ammonirci sull'Olocausto di ieri, mentre tengono bordone a chi prepara l'Olocausto di oggi. Si chiama ipocrisia, e fa un po' schifo.

(Libero, 22 gennaio 2019)


Israele e USA testano con successo il nuovo sistema di difesa missilistica

Secondo il ministero della Difesa israeliano, il lancio del test è iniziato poco prima delle 6:45 (ora locale) mentre un missile finto veniva lanciato al largo delle coste israeliane.
"Dopo il lancio, il radar di Arrow ha individuato l'obiettivo sul suo array radar e ha trasferito i dati al suo centro di gestione che lo ha analizzato e pianificato completamente l'intercettazione. Una volta che la pianificazione è stata completata, un intercettore Arrow 3 è stato sparato contro il bersaglio, che ha completato la sua missione con pieno successo", ha riferito il ministero in una dichiarazione citata dal quotidiano israeliano 'The Times of Israel'.
"Il test è stato condotto dalla Difesa missilistica del Ministero della Difesa e dall'Agenzia statunitense per la difesa missilistica, con l'assistenza dell'Aviazione israeliana e delle industrie aerospaziali israeliane, che produce l'Arrow 3", si legge sul The Times of Israel.
"Questo test di successo fornisce fiducia nella capacità di Israele di proteggersi dalle minacce esistenti nella regione", ha affermato il direttore della MDA, il generale Samuel Greaves.
"Mi congratulo con la Israel Missile Defense Organization, l'Israeli Air Force, il nostro team MDA e i nostri partner industriali. Siamo impegnati ad assistere il governo di Israele nel migliorare la sua capacità di difesa missilistica nazionale contro le minacce emergenti", ha aggiunto.
Secondo il Times of Israel, "il sistema Arrow 3, un modello più avanzato dei modelli Arrow e Arrow 2, è stato dichiarato operativo a gennaio 2017. Il sistema di difesa aerea, sviluppato come progetto congiunto con gli Stati Uniti, è progettato per abbattere i missili balistici - come quelli che Israele teme che l'Iran possa un giorno lanciare - mentre il proiettile in arrivo è ancora al di fuori dell'atmosfera terrestre."
"Il successo di questo test rappresenta un'importante pietra miliare nelle capacità operative dello Stato di Israele nel difendersi dalle attuali e future minacce esistenziali", ha aggiunto il ministero della Difesa.

(l'AntiDiplomatico, 22 gennaio 2019)



Il generale Gantz e la modella Levy, ecco chi sfiderà Bibi alla guida d'Israele

La soldatessa e il generale
Il generale Gantz si esibisce durante
una festa dell'indipendenza di Israele
Orla Levy
Oltre Hamas, oltre Hezbollah, oltre l'Iran. Al di là delle guerre "vere" che il premier di Israele è costretto a combattere c'è la campagna elettorale, lo scontro politico che culminerà nelle elezioni del 9 aprile. Domenica scorsa i militanti del Likud hanno innalzato lungo le strade di Tel Aviv i cartelloni che additano l'ultimo "nemico" del premier: i quattro giornalisti che secondo Bibi, assieme ai giudici e alla polizia, hanno portato il paese a vivere una campagna elettorale che sembra appesa a un solo evento: Netanyahu verrà incriminato per corruzione? Ma la questione giudiziaria naturalmente non ha cancellato del tutto la battaglia politica. Netanyahu, uno degli uomini politici più contrastati ma anche di maggior successo nella vita di Israele, ha pochi rivali diretti, capaci di organizzare un partito in grado di sfidarlo. L'unico forse è Benny Gantz, un ex generale dei paracadutisti alto 1,92, un uomo che grazie al modo in cui ha comandato per 4 anni l'esercito israeliano gode di un rispetto che adesso ha deciso di verificare fondando un suo partito. Il gruppo politico di Gantz negli ultimi sondaggi è sempre stato in seconda posizione, con 14/18 seggi dietro i 29/32 del Likud (i deputati della Knesset sono 120).
Il curriculum di Gantz sotto le armi è notevole: tutti gli israeliani sanno che a 21 anni partecipò al primo assalto contro un campo di terroristi in Libano. Poi, mentre seguiva un corso negli Usa con i "berretti verdi" americani, chiese di ritornare in patria per combattere durante la guerra in Libano del 1982 e guidò 200 uomini di un reggimento che diede l'assalto a Beirut. Come ricorda il Jerusalem Post, anche le credenziali sioniste di Gantz sono impeccabili: è figlio di una ebrea bulgara sopravvissuta al campo di concentramento di Bergen Belsen; la mamma incontrò il suo futuro marito nato in Romania mentre entrambi viaggiavano su una nave per Israele. Da capo delle forze armate, Gantz è stato un incredibile innovatore: ha rivisto le priorità nell'assegnare le risorse per le unità combattenti, ha sviluppato il sistema anti-missile "Iron dome", ha ristrutturato i comandi regionali dell'esercito. Dei 19 capi di stato maggiore che hanno servito prima di lui, 10 sono stati ministri e 2 - Rabin e Barak - premier. Gantz potrebbe farcela? Non è detto: finora sulla fiducia, leggendo solo il suo curriculum da militare, il popolo di Israele gli assegna un buon livello nei sondaggi. Ma alla prova del voto Bibi Netanyahu saprà bene come combattere contro questo generale.
Altro personaggio che verrà fuori in queste elezioni di aprile è una donna, figlia di David Levy, ex ministro degli Esteri la cui famiglia immigrò dal Marocco. Orli Levy-Abekasis ha 45 anni, è stata una modella, ha lavorato come anchor in televisione, ma da quando è in politica la sua forza è stata la capacità con cui ha lavorato sui temi del welfare, della sanità, delle scuole, sui temi sociali che dopo la sicurezza sono il grande argomento per gli elettori. La Levy ha organizzato un partitino, "Gesher" (il ponte), che in tutti i sondaggi viaggia sugli 8/10 seggi. Alla Knesset è moltissimo. Orli Levy alla testa del suo gruppo laico potrebbe essere decisiva nel decidere chi sarà il nuovo primo ministro. Un generale e una ex modella, solo due dei combattenti che Bibi incrocerà in questa lunga corsa verso la nuova Knesset di Israele.

(la Repubblica, 22 gennaio 2019)


Esportare il modello di Israele. Il segreto del successo di Israele


Storici, imprenditori e intellettuali spiegano perché una democrazia in guerra da 70 anni può insegnare molto all'Italia e all'Europa. Fa il doppio dei figli di noi, l'economia cresce il triplo della nostra, il debito cala, il lavoro aumenta e ora è il terzo paese più innovativo al mondo. Uno stato sotto assedio che non vive della spada, ma della ricerca e dello sviluppo. Uno stato di rifugiati diventato potenza mondiale.
David Schueftan": Gli europei sono andati in vacanza rispetto al mondo reale". Yossi Klein Halevi: "L'Europa è fatalista, pessimista, noi ebrei abbiamo scelto la vita". Nahum Barnea: "Il destino del nostro paese è sempre anche una questione personale".

di Giulio Meotti

Nessuno lo ha mai visto, ma l'unicorno vive in molte leggende occidentali. E' il celebre animale con un corpo di cavallo, la coda leonina e sulla fronte un unicorno attorcigliato. E' presente sullo stemma reale inglese e negli arazzi dei più raffinati musei e palazzi del mondo, dai Cloisters a New York a Cluny in Francia. Lo si è incrociato sul grande schermo in "Fantasia" di Walt Disney o in "Images" di Robert Altman. Nel mondo della tecnologia, gli unicorni invece sono molto reali e indicano le start-up che valgono almeno un miliardo di dollari. Il termine è stato coniato dalla venture capitalist americana Aileen Lee nell'articolo "Welcome to the Unicorn Club" e da allora è decollato. Gli Stati Uniti e la Cina hanno 125 e 77 unicorni.
  L'Europa ne ha 30. Gli israeliani, secondo il database di TechAviv, hanno creato ben 18 unicorni. Al recente concorso delle Nazioni Unite per le migliori start-up del turismo (tremila partecipanti da 132 paesi), quattro su dieci erano israeliane. Come è possibile che un paese di nove milioni di abitanti faccia in proporzione molto meglio di un continente di cinquecento milioni di persone?
  Il banchiere ebreo-tedesco Siegmund Warburg, durante la Guerra dei sei giorni del 1967, paragonò Israele alla Prussia del XVIII secolo. Warburg rimase colpito dal Weizmann Institute a Rehovot, il centro di ricerca fondato dal famoso chimico israeliano che diverrà primo presidente dello stato. Nell'anfiteatro di Rehovot, Warburg si soffermò su una citazione incisa su tavole di pietra: "La scienza porterà in questa terra sia la pace sia il rinnovamento, creando qui le sorgenti di una nuova vita materiale e spirituale".
  La pace Israele ancora non l'ha trovata, ma il suo rinnovamento è senza precedenti fra le democrazie occidentali. Come ha detto l'oracolo del capitalismo americano Warren Buffett quando ha investito cinque miliardi di dollari in Israele, "non è importante se un missile distruggerà uno stabilimento, perché lo si ricostruisce: ciò che è importante è il talento dei lavoratori". Il piccolo Israele è il più talentuoso dei paesi occidentali.
 
  Il paese è stato appena nominato il terzo più innovativo al mondo dal World Economie Forum. Israele raccoglie venture capital pro capite a un ritmo trenta volte superiore all'Europa. Israele è da poco diventato il terzo paese al mondo per numero di start-up sull'intelligenza artificiale, secondo solo a Stati Uniti e Cina, mentre Tel Aviv è il terzo maggiore hub dopo San Francisco e Londra. Israele ha il più grande giacimento al mondo, ma non di petrolio, quanto di cervelli e idee. Al Global Innovation Awards di Pechino, due start-up israeliane sono arrivate prima e seconda. Alvaro Pereira, capo economista dell'Ocse, ha detto che "negli ultimi quindici anni l'economia israeliana è cresciuta più rapidamente e in modo più coerente di quasi ogni altro paese". Non sono soltanto ricette economiche, è un modello culturale e di società.
  Sembra che Israele abbia da insegnare molto ai paesi europei: Israele, il paese che detiene l'uno per cento della popolazione e il due per cento della terra di tutto il medio oriente, ma che tutti sognano di voler cancellare dalla mappa? Israele, condannato all'Onu ventuno volte di più del gulag nordcoreano? Il paese dei checkpoint, delle maschere antigas, delle batterie antimissile, dei rifugi, degli accoltellamenti, delle Intifade in cui c'erano più candidati al martirio che giubbetti esplosivi, dei confini chiusi, delle siringhe di atropina in caso di guerra chimica, dei riservisti e della leva obbligatoria?
  "In Israele siamo isolati, non abbiamo niente, né il petrolio né le risorse, così dobbiamo darci da fare", dice al Foglio Ben Dror Yemini, columnist del principale quotidiano ebraico, Yedioth Ahronoth. "Appena hanno messo piede in questa terra, gli ebrei dovevano concentrarsi sulla costruzione di un paese. Ci siamo concentrati sulla desalinizzazione, l'energia solare e altro. Non avevamo opzioni. E questo è parte dell'ottimismo israeliano. Molti europei stanno andando bene, ma qui a Parigi dove mi trovo vedo molta depressione, non solo per i gilet gialli, gli europei non sorridono quasi mai. Noi israeliani oggi siamo leader mondiali in molti campi. E' questo che noi non abbiamo, l'autoflagellazione. E anche gli arabi in Israele con cui puoi parlare non ti diranno di apartheid e sionismo, ma di quanto si trovano bene. Mia nonna è arrivata cento anni fa dal più primitivo dei paesi arabi, lo Yemen, non avevano niente. A Gaza oggi hanno i soldi, molti soldi, ma li impiegano nei tunnel. Paragona quanto investono nella vita delle persone e nell'industria della morte che è il terrorismo. Nessuno impedisce loro di leggere, informarsi, studiare, ma pensano solo alla vendetta e alla morte. In Israele abbiamo creato dal niente qualcosa che non ha uguali o precedenti al mondo. Per questo sorridiamo".
  Israele stato dei paradossi. "Siamo il paese che più ha contribuito all'umanità e il paese più odiato da quella stessa umanità", continua con il Foglio Ben Dror Yemini. "Israele è uno dei leader mondiali nello sviluppo di farmaci, sistemi di irrigazione (il primo al mondo nel trattamento delle acque reflue), nei brevetti (primo al mondo per quelli medici) e nelle pubblicazioni scientifiche (secondo al mondo nelle tre riviste più importanti). Non esiste un indice di 'contributo pro capite all'umanità'. Ma se esistesse, Israele sarebbe al primo posto".
  Milioni di persone devono la vita ai sistemi di irrigazione e ai prodotti agricoli provenienti da Israele. "Non solo il Terzo mondo", continua conversando con il Foglio il giornalista Ben Dror Yemini. "Israele è lontano dall'essere perfetto. Ma nonostante tutti i problemi, è un miracolo. Uno stato fondato da settanta comunità della diaspora, la maggior parte delle quali non sapeva nulla della democrazia. Uno stato di poveri rifugiati diventato una potenza mondiale nell'agricoltura e nell'irrigazione e nella depurazione delle acque e negli sviluppi dell'alta tecnologia. Uno stato che non vive della spada, ma della ricerca, dello sviluppo e dell'imprenditorialità. Uno stato in cui i discorsi sul boicottaggio e la sospensione degli investimenti nascondono il fatto che è il paese dove si investe di più al mondo".
  Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ad aprile affronta le elezioni più difficile della sua lunga storia politica, otto anni fa disse che Israele sarebbe entrato nel club dei quindici paesi più ricchi del mondo. Secondo l'Organizzazione per lo sviluppo economico, in un rapporto pubblicato pochi mesi fa, Israele ora è il numero ventuno e potrebbe raggiungere l'obiettivo prefissato da Netanyahu nei prossimi quarant'anni.
Israele guida il mondo in termini di riduzione del debito pubblico, ha appena avuto la doppia AA da Standard & Poor's, ha raggiunto la piena occupazione, cresce ininterrottamente da dieci anni e spende in sviluppo più di qualsiasi altri paese industrializzato. Come ci è arrivato?
Scorgere così lontano nel futuro è un'attività rischiosa, specie per un paese minacciato di distruzione come Israele, ma l'Ocse non prevede gli eventi. Si concentra sulle tendenze a lungo termine, in particolare quelle demografiche. Già, la demografia.
  A Netanya, sulla costa israeliana, c'è appena stata la fiera "Baby Land". In tre giorni, 50 mila persone hanno percorso il centro congressi con i passeggini da tre bambini. Religiosi e laici, arabi ed ebrei, tutti in missione: comprare pannolini scontati, latte in polvere, lenzuola. Israele ha il più alto tasso di crescita della popolazione nel mondo ricco e sviluppato. Le famiglie israeliane hanno 3,1 bambini rispetto a 1,7 in altri paesi sviluppati e 1,3 in Italia. A questo ritmo la popolazione di Israele, oggi di quasi nove milioni di abitanti, salirà a 15 milioni nel 2048, senza contare l'immigrazione. Sarà grande come un medio paese europeo, mentre l'Europa sta perdendo popolazione. Anche tra gli ebrei laici, tre bambini sono la norma. Le famiglie con uno o due figli sono guardate con curiosità. Elly Teman, antropologa medica e docente al Ruppin College, dice che "in Israele l'intera base della società è familiare". L'atteggiamento israeliano verso i bambini contamina anche gli immigrati, dice Teman. E fa l'esempio dell'ondata di immigrati arrivati dall'ex Unione Sovietica. Arrivarono con un solo figlio, plasmati dal declino demografico russo. Oggi mediamente ne hanno tre.
  Alcuni esperti israeliani ora paventano la minaccia opposta a quella dell'occidente colpito dalla birth dearth, la carestia delle nascite: Israele rischia l'esplosione demografica. All'Israel Forum for Population, Environment and Society (in ebraico Tsafuf, affollato), l'urbanista Rachelle Alterman ha tenuto una conferenza che descrive Israele fra quindici anni. Una distesa di cemento da Ashkelon, al sud verso Gaza, a Nahariya, a nord verso il Libano, sul modello di Singapore, Hong Kong, i Paesi Bassi e il Belgio. La Shoresh Institution, guidata dall'economista Dan Ben-David, ritiene che Israele sarà la nazione più affollata del mondo. In Israele di sicuro la crescita demografica è il grande traino dello sviluppo economico impetuoso.
  Israele è l'unico paese occidentale che ha ridotto il proprio debito in percentuale del pil nel 2012, quando il debito aumentava in tutti i paesi occidentali e in alcuni (come l'Italia) schizzava alle stelle. A causa del declino del debito, Israele è l'unico paese occidentale il cui rating è sempre aumentato dal 2008, quando scoppiò la crisi dei mutui subprime e il rating di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Austria, Belgio e Giappone si riduceva a causa di un enorme aumento dei debiti. Quando fu sottoscritto il trattato di Maastricht, i debiti di Israele erano il cento per cento del pil. Oggi sono la metà, tanto che il ministro delle Finanze Yuval Steinitz dichiara che "Israele guida il mondo in termini di riduzione del debito".
  Il suo mercato del lavoro è alla piena occupazione. Il tasso di disoccupazione nel paese è di 4,1, come gli Stati Uniti, rispetto al 6,8 dell'Unione europea. "Israele è passato da un enorme debito e un'inflazione galoppante a un'eccedenza nella bilancia dei pagamenti e un'inflazione che vorremmo fosse più alta", ha detto il governatore della Banca d'Israele, Karnit Flug. A novembre, il ministro dell'Economia Eli Cohen ha detto che Israele mira a entrare a far parte dei primi dieci paesi al mondo per pil pro capite. L'agenzia di rating Standard and Poor's ha aggiornato il rating di Israele alla doppia AA, il più alto che Israele abbia mai avuto, come la Germania e altri 17 paesi. L'agenzia di rating, come aveva fatto già Moody's, stima che l'economia israeliana crescerà del 3,3 per cento tra il 2018 e il 2021. Il settore dell'innovazione tecnologica israeliano sta crescendo più velocemente dell'offerta, portando a una carenza di 15 mila lavoratori necessari per coprire le posizioni, come ha rivelato uno studio dell'Israel Innovation Authority.
  Un rapporto di Deloitte&Touche ha dimostrato che in sei campi chiave - telecomunicazioni, microchip, software, biofarmaceutica, dispositivi medici ed energia pulita - Israele è secondo solo agli Stati Uniti per innovazione. Come riporta il Financial Times, "Israele spende di più in ricerca e sviluppo di qualsiasi altro paese sviluppato" e ha superato anche la tigre Corea del Sud, trasformando lo stato ebraico nella Hong Kong del medio oriente.
  Un programma statale che ha facilitato la crescita in questo settore è "Yozma" (in ebraico, iniziativa), istituito per liberare l'economia israeliana da un'eccessiva dipendenza dal settore pubblico. Secondo l'Ocse, è "il programma di maggior successo nella storia della politica di innovazione di Israele". Ogni anno, le autorità israeliane organizzano la Fuel Choices and Smart Mobile Initiative, radunando start-up e innovatori da ogni parte del mondo. Senza dubbio Israele è più trivellazioni e mega infrastrutture. La recente scoperta di immense risorse di gas naturale al largo delle coste israeliane è stata una svolta per l'economia, e ha portato il paese all'indipendenza energetica. Il giacimento di gas naturale Tamar, con dieci trilioni di metri cubi di gas naturale, ora soddisfa il 95 per cento della domanda del paese.
  Centinaia di chilometri di linee ferroviarie saranno costruiti nel centro di Israele: è il più grande progetto infrastrutturale pianificato per i prossimi decenni, costerà centinaia di miliardi e permetterà di collegare regioni e città a Tel Aviv. Il paese non si ferma mai.
  Secondo Yaron Samid, uno dei grandi nomi delle start-up israeliane, imprenditore tecnologico direttore di consigli di amministrazione di aziende del valore di 500 milioni di dollari, fondatore di Bill Guard che ha
Parla Yaron Samid, turbocapitalista di Tel Aviv: "Qui se fallisci, provi con una nuova start-up. In Italia se fallisci, sei finito". In un solo anno Israele è migliorato di otto posizioni nell'elenco del Forum economico mondiale sulla competitività e per la prima volta è fra i primi venti al mondo.
aperto la strada al crowdsourcing per proteggere i consumatori (una delle applicazioni di finanza personale in più rapida crescita nella storia), l'Europa ha molto da imparare da Israele. Lo stato ebraico è al 16esimo posto nel rapporto 2017-2018 del Forum economico mondiale sulla competitività, migliorando di otto posizioni la propria performance rispetto all'anno precedente. E' la prima volta che Israele è tra i primi venti. "Israele è densamente popolato, è un grande cluster di compagnie tecnologiche, un microsistema, da Tel Aviv a Herzliya in dieci minuti di auto hai il 90 per cento delle start-up israeliane", dice Samid al Foglio. "Questo è sicuramente un vantaggio che l'Europa non ha. E' come la Silicon Valley per gli Stati Uniti. Ma c'è un aspetto culturale israeliano, che risale a 70 anni fa. Sto parlando con lei da un grattacielo di Tel Aviv, ma allora qui c'era il deserto e la gente venne a costruire un paese dal niente. I miei nonni sono tutti morti nella Shoah, in Germania, in Polonia, e i loro figli hanno fatto tutto dal niente. Un terzo elemento culturale è la facilità nell'ottenere denaro per aprire una start-up, e se fallisce ne apri un'altra. In Europa se fallisci, sei finito. Voi europei avete paura di fallire, in Israele no. Questa è cultura. Il quarto elemento è il servizio militare che si basa molto sull'high tech. Un diciottenne qui entra subito a contatto con un mondo speciale, e quando finisce entra nella società civile con una consapevolezza molto forte. Un ventunenne israeliano che ha finito il militare è il frutto di questa cultura. In Europa non sapete neppure cosa sia l'esercito. In Israele la prima domanda che ti fanno è: 'Da quale unità vieni?' In Israele entri in un qualsiasi bar e senti parlare di start-up".
  Come si è arrivati a tutto questo partendo da una economia socialista fatiscente? "Il più grande evento in 70 anni di storia economica israeliana si è verificato il 1 luglio 1985", scrive Sami Peretz su Haaretz. "Quel giorno, l'economia ha subito un cambio di sesso: la più drammatica transizione da un'economia socialista a una capitalista che conosciamo". Fu l'inizio del "programma di stabilizzazione economica" di Shimon Peres (il pil sarebbe passato da 30 miliardi nel 1984 a 300 nel 2014). L'economia fu aperta alle importazioni, il mercato valutario liberalizzato, il deficit ridotto e le imprese statali privatizzate. Ma già nel 1977 il ministro delle Finanze, Simcha Ehrlich, aveva avuto un'idea: liberare l'economia e rendere la vita migliore per la gente comune. Ehrlich, che possedeva una piccola fabbrica di ottica a Tel Aviv, era un uomo basso, dalle guance rosate e molto laconico. I media presero a chiamarlo "il seguace di Milton Friedman", il guru del libero mercato che aveva vinto il Nobel per l'Economia. Ma Ehrlich non sapeva leggere e scrivere in inglese, né conosceva Friedman. Però aveva una visione: "Israele è troppo piccolo e troppo povero per mantenere uno stato sociale". Al tempo, l'economia israeliana aveva più cose in comune con i paesi comunisti che con i paesi occidentali. La vignetta di un giornale israeliano, il Jerusalem Post, rifletteva bene le ansie del paese. Un israeliano cerca di spiegare il significato delle riforme liberiste a un altro. "E' semplice", dice il primo. "Lasciamo che la moneta israeliana diminuisca di valore, consenta lo scambio in dollari, le esportazioni diventano a basso costo e nel lungo periodo l'economia si rafforza". "E nel breve?", chiede il secondo. "Facciamo la fame", risponde il primo. Le riforme di Ehrlich furono meno ambiziose del previsto, ma un vero "seguace di Friedman" come Benjamin Netanyahu, che si servì dell'aiuto dell'economista di George W. Bush John Snow come consulente, se ne sarebbe ispirato.
  Sotto Netanyahu, Israele ha calato le tasse dal 60 al 49 percento, ha ridotto drasticamente il welfare, ha alzato l'età pensionabile da 65 a 67 anni, ha privatizzato la compagnia aerea El Al, ha ridotto il ruolo dello stato nel settore telefonico, dell'elettricità e delle banche. Al tempo, l'economia di Israele era una bizzarra combinazione di cronico assistenzialismo e di high tech fiorito alla fine degli anni Novanta. Come scrive l'economista americano George Gilder in "The Israel Test", "il governo negli anni Novanta possedeva
Bibi Netanyahu è riuscito nella "più travolgente trasformazione nella storia dell'economia". Ha bloccato le assunzioni nel settore pubblico, ridotto il welfare, convinto i disoccupati a cercare lavoro, venduto tutto il vendibile dello stato. Un paese socialista fatiscente è diventato una potenza globale
quattro grandi banche, duecento società e gran parte della terra. Le tasse di Israele salirono al 56 per cento dei guadagni totali, fra le più alte del mondo". Da ministro delle Finanze, Netanyahu si trovò di fronte a un settore pubblico che rappresentava il 55 per cento dell'economia israeliana, rispetto al 45 per cento del settore privato, in netto calo. E lo paragonò a un uomo magro e in forma, il privato, costretto a portare un uomo pesante sulle spalle, il pubblico. "Se non cambiamo lo scenario, collasseremo", disse Bibi. Così bloccò le assunzioni nel settore pubblico, ridusse la rete di protezione sociale, convinse i disoccupati a cercare lavoro, vendette il vendibile e costrinse i porti a competere. Come scrive Gilder, "in 25 anni - a partire da quelle prime modeste riforme fiscali della metà degli anni Ottanta - Israele ha compiuto la più travolgente trasformazione nella storia dell'economia".
  L'arrivo tra il 1989 e il 2000 di un milione di immigrati avrebbe dato un'altra sterzata all'economia. La società ha assorbito tutti e oggi mostra livelli di coesione interna assente, ad esempio, in un paese come la Francia. Basta leggersi l'Israeli Democracy Index 2018. La percentuale di israeliani che definiscono la situazione generale del paese come "buona" o "molto buona" è la più alta mai registrata. Anche il 64 per cento dei cittadini arabi è soddisfatto. L'Indice di Sviluppo umano dell'Onu che da trent'anni assegna ai paesi un punteggio calcolato sulla base di parametri come reddito, aspettativa di vita e istruzione, colloca Israele in 18esima posizione su 188 paesi, entrando a pieno titolo nella categoria dei paesi a "sviluppo umano molto elevato". Solo gli abitanti di Svizzera, Danimarca e Islanda risultano più soddisfatti della propria vita dei solitamente lamentosi israeliani.
  "La storia di Israele lo rende un'eccezione tra le nazioni", dice al Foglio Nahum Barnea, decano del giornalismo israeliano, editorialista principe del maggiore quotidiano del paese, Yedioth Ahronoth. Nel 1996, Barnea perse il figlio Yonatan in un attentato terroristico di Hamas a Gerusalemme, quando su un autobus saltarono in aria 17 israeliani. "Sono passati 70 anni dall'istituzione dello stato, ma vediamo ancora il nostro paese come un progetto, una visione da realizzare, un sogno che dovrebbe diventare realtà", dice Barnea al Foglio. "Questo è uno dei motivi per cui la maggior parte degli israeliani non dà per scontato il proprio paese, il proprio stato. Il suo destino, crescita, fallimento, successo, sono diventati una questione personale. Abbiamo assistito a un lungo periodo di successo economico, basato principalmente sul nostro settore hi-tech. La sicurezza, una questione importante in Israele, è migliorata. La vita è migliore che in qualsiasi momento nel passato. Come nazione di emigrati che sono venuti in Israele a mani vuote, possiamo apprezzare la differenza tra passato e presente. Ciò non significa che il nostro problema, come stato e come società, sia svanito. Israele è un paese senza confini riconosciuti. Un accordo che porrà fine al nostro conflitto centenario con i palestinesi non è in vista e ha effetti negativi sulla nostra sicurezza, morale e politica. L'Iran è un altro grosso problema". Secondo Barnea, Israele come paese occidentale ha molte qualità da offrire alle altre democrazie: "Non sono sicuro se possiamo servire da modello ad altri paesi occidentali. Ogni paese ha la sua forza e le sue debolezze. Posso citare alcune delle nostre qualità: innovazione, ambizione, pensare fuori dagli schemi, scetticismo, spirito democratico, unità nazionale in tempi di emergenza".
  "Ci sono differenze molto chiare fra la società israeliana e quasi tutte le società occidentali, siamo un paese occidentale - studi, innovazione, economia, Nobel - l'israeliano medio è come un italiano medio, vanta uno stile di vita occidentale, ma stranamente la demografia va da un'altra parte", dice al Foglio Ofir Haivry, storico, vicepresidente dello Herzl Institute di Gerusalemme, fra i fondatori dello Shalem College, autore di saggi come "John Selden and the Western Political Tradition" per la Cambridge University Press. Haivry parla di un aspetto decisivo di Israele: il minor ruolo del welfare, rispetto all'occidente. "Negli ultimi anni, il tasso di natalità sta crescendo fra le famiglie laiche, non quelle religiose. Ci sono due elementi. In una società in conflitto, il tasso di natalità è più evoluto e forte, il boom delle nascite dell'Europa è stato dopo la Seconda guerra mondiale. Più una società si sente sicura, senza pericoli, più il tasso demografico scende. Puoi dare più risorse a te stesso quando sei in pace. In America dopo l'11 settembre 2001 c'è stato un forte tasso demografico, che negli ultimi anni è sceso. Oggi l'America è come l'Europa. Una società in conflitto è più coesa, porta più capitale sociale ad avere più figli. L'elemento centrale della società israeliana è la famiglia in una dimensione diversa da quella classica. In Israele, la famiglia è molto più importante e centrale dello stato. Nei paesi europei ci sono molti movimenti contro la centralità della famiglia. La religione ebraica ha festività in gran parte familiari, la Pasqua, il Capodanno, a parte il Kippur che è individuale, tutte le altre feste sono in casa. La continuità familiare in Israele è centrale, mentre in occidente non lo è più. Per il 90 per cento degli israeliani, la maggioranza assoluta dei laici, quando c'è la Pasqua si festeggia in famiglia. In Israele l'individualismo è molto temperato. Non è esasperato come in occidente. Le donne single che hanno un figlio in occidente sono molto comuni. Il padre non esiste. In Israele questo fenomeno è irrilevante. Anche le coppie gay in Israele sono quelle che hanno più figli di tutto il mondo occidentale. Fino al 2000-2001, in Israele esisteva un sostegno alla famiglia per ogni figlio. La crisi spinse Netanyahu a tagliare il welfare. E questo portò al crollo demografico fra gli arabi, che passarono da sei a tre figli, mentre fra gli ebrei aumentò".
  La grande differenza fra Europa e Israele è dunque la relazione fra welfare e società. "L'Italia quando era un paese più povero e con meno welfare, aveva molti figli. Lo stato sociale in Italia e in occidente ha preso il posto della famiglia. Gli italiani hanno dimenticato come camminare da soli. In Israele quando lo stato sociale ha avuto meno soldi e risorse, c'erano ancora le tradizioni familiari a sostenere la società. Ogni responsabilità che si prende il welfare, la trasporta in società e l'individuo si sente deresponsabilizzato. Mio padre, orfano a nove anni, a quattordici è andato a lavorare. Il senso di responsabilità dell'educazione dei figli in Israele appartiene alla famiglia. La società in cui lo stato è più piccolo ha bisogno di aiuto dalle persone e dà una spinta alle persone, nel volontariato ad esempio, che in Israele è molto forte. Qui c'è sempre bisogno di difendere lo stato dai nemici, in occidente il senso del pericolo è scomparso, e la leva militare è un laboratorio sociale importante. Per i nostri giovani, lo stato non è una estensione dei diritti, ma della famiglia e della nazione".
  Poi c'è l'aspetto religioso, forte in Israele e fragile in Europa. "L'Italia un tempo era cattolica, anche i comunisti erano cattolici. A tutti era chiaro che la cultura italiana era ispirata al cattolicesimo occidentale.Negli anni si è imposta l'idea che lo stato deve essere neutrale, secolarizzato. Avete chi vuole togliere i crocifissi, ma l'opinione pubblica è legata all'identità. Come in America c'è un laicismo esasperato. In Israele non è mai esistita una identità religiosa che non sia anche culturale e nazionale, ma gli ebrei nel mondo e in Israele sono in maggioranza laici, secondo standard occidentali. Il 90 per cento degli israeliani partecipa alla tradizione religiosa: la circoncisione non è obbligatoria ma il 97 per cento di noi la esegue, così come la mezuzah alla porta è nel 99 per cento delle case. E' un po' come fino a due generazioni fa la storia inglese che era intimamente connessa alla Church of England".
  Uno studio del Jewish People Policy Institute ha rilevato che l'83 per cento dei cittadini ebrei di Israele considera la propria nazionalità "significativa" per l'identità. L'80 per cento dice che la cultura ebraica è "significativa". Più dei due terzi (69 per cento) cita la tradizione ebraica come importante. "E questo rafforza Israele" continua lo storico Ofir Haivry. "C'è una connessione diversa fra uno stato civile e astratto e uno stato nazionale. Lo stato di Locke e Hobbes è uno in cui nessuno vuole combattere, lo stato occidentale è un apparato tecnico, a cui pago le tasse e che mi fornisce diritti. E' una visione che crea un abisso fra l'individuo e la società. Invece fra gli israeliani lo stato è lo 'stato della nazione ebraica', e questo crea una realtà dove non puoi dividere lo stato dall'identità nazionale e culturale. In molti paesi europei, quello che lo stato ti fa sentire tutto il tempo è 'non solo non sono interessato alla tradizione, ma la voglio combattere'. E' questo ad esempio un difetto dell'Unione europea. Ho fatto il dottorato a Londra e ho visto come in un paese europeo tutti i sistemi statali siano indirizzati a combattere la cultura. In Israele è il contrario. Prendi l'immigrazione. In occidente c'è questa idea delle élite che lo stato deve essere 'cieco'. Devo ricevere ogni migrante, anche se viene dalla società dove esiste la poligamia, e questa persona deve poterne beneficiare anche qui. Lo stato occidentale però non ha cultura e non sa come opporsi. In Israele siamo contrari a una immigrazione 'cieca'. Se vogliono venire qui, noi diciamo che come ogni stato abbiamo il diritto di stabilire i criteri per l'accesso. In Inghilterra questi criteri sono professionali. Anche in occidente si potrebbe fare una forma di 'legge del ritorno' come in Israele per gli ebrei, ma solo se gli stati occidentali valorizzassero la cultura. Può l'Italia decidere ad esempio che vuole migranti che appartengono alla propria cultura? In Israele per questa ragione abbiamo ricevuto centomila neri dall'Africa di origine ebraica. I migranti africani economici invece non li abbiamo accettati. Ma tutti e due sono di colore. Abbiamo preso un milione di migranti dall'Unione Sovietica, l'equivalente della Francia che emigra in America, che ha portato a una crisi economica forte a causa di questa ondata, ma erano parte della nostra cultura. Come stato devo decidere quale migrante voglio. Poiché Israele è sempre più lo stato della nazione ebraica, e non ha un welfare state cieco all'identità, questo non lo porta a ingraziarsi la minoranza araba. E' anche la forza dell'identità: la minoranza è protetta, sta bene, tutelata, ma resta una minoranza, non come in Europa".
  In Israele non esiste il multiculturalismo alla europea. "Per avere successo, il multiculturalismo deve cancellare l'identità della maggioranza. L'egemonia deve finire. Poiché ci saranno dei bambini musulmani in classe, allora togliamo il crocifisso. Cosa comporta? Il multiculturalismo è un terzomondismo trapiantato in occidente. Gli europei, cattivi col colonialismo, devono accettare il trapianto anche in occidente. In Israele guardiamo a tutto questo come a un suicidio culturale. Posso capire la Germania che, a causa del nazismo, voglia cancellare la propria identità. Ma la storia italiana, coi suoi mille anni, non deve essere cancellata. Eppure questo fa il multiculturalismo".
  Poi c'è la questione dell'innovazione. "Un fattore culturale di alto tasso di innovazione fra gli ebrei fa parte della nostra storia", prosegue Haivry. "Ma anche nell'Europa occidentale fino a molti anni fa c'era molta innovazione, che è finita. La cultura occidentale è diventata anti innovazione. Il welfare crea anche qui una passività culturale e sociale che non aiuta l'innovazione. Gli israeliani diventano indipendenti molto presto, a 18 anni escono di casa. In Israele un trentenne che sta con i genitori, come in Italia, è impensabile. Dopo la leva da noi un ragazzo fa un viaggio all'estero per sei mesi o un anno. Non rientra quasi mai a casa dei genitori. Da noi non esiste il brain drain, la fuga dei cervelli, mentre in Italia siete diventati esperti in questo. In Israele abbiamo tagliato molto il numero di dipendenti dello stato, abbiamo alzato l'età pensionabile, abbiamo deregolamentato, abbiamo tagliato molti sussidi sociali. Non abbiamo inventato niente. E lo facemmo durante la Seconda Intifada, quando la nostra economia è entrata in recessione. Avevamo di fronte una scelta: cambiamento o declino. La rana se la metti nell'acqua bollente
"Siamo al centro di tutti i paradossi umani. Come coniugare sicurezza e democrazia? Siamo al centro fra laicità e tradizione religiosa. Siamo stato laico in terra santa. Siamo al centro degli scontri fra le norme democratiche e il bisogno delle persone di uno spazio culturale collettivo"
salta via. Se la metti a fuoco lento, ci muore senza accorgersene. Noi siamo saltati fuori. All'Europa direi: più identità e più responsabilità portano a più coesione, è questo che vi manca di più. Scrollatevi di dosso il multiculturalismo che sta vincendo la battaglia e vi fa perdere la guerra. In ebraico c'è un detto: 'L'intervento chirurgico ha avuto successo ma il paziente è morto'. E' questa l'Europa".
  Secondo Yossi Klein Halevy, intellettuale ebreoamericano fra i più noti a Gerusalemme, collaboratore del New York Times e altre testate, Israele ha avuto successo perché ha saputo gestire le contraddizioni. "Siamo al centro dei paradossi umani", dice Klein Halevy al Foglio. "Come coniugare sicurezza e democrazia? Siamo una democrazia sotto assalto dalla nascita. Siamo al centro fra laicità e religione. Siamo stato laico in terra santa. Siamo fra oriente e occidente. Siamo al centro degli scontri fra norme democratiche e bisogno di uno spazio culturale collettivo. E potrei andare avanti. La natura dell'identità israeliana è la gestione delle contraddizioni. Ho paura del futuro della democrazia israeliana e noi siamo più vulnerabili a causa della pressione delle minacce su di noi. Oltre i propri confini, Israele ha missili e tunnel che hanno il preciso scopo di distruggere il sogno israeliano, non di abbracciarlo come vorrebbero fare i messicani in America. Ma se guardo a questi 70 anni di esistenza di Israele, vedo la capacità di gestire la tensione. Se prendiamo la Cisgiordania, ritirarsi a un confine di dieci chilometri o mettere a rischio la democrazia e restare. Ho molte ansie. Ma l'Europa ha qualcosa da imparare da noi. Facciamo ogni giorno compromessi fra ideale e reale".
  La tentazione europea è dividersi lungo gli estremi politici, come sull'immigrazione, conclude parlando con il Foglio Yossi Klein Halevy, "Capisco la paura sull'immigrazione, ma l'estremismo politico non è più una opzione per l'Europa. Avete perso questa possibilità e avete bisogno di pragmatismo. C'è bisogno di sobrietà politica che è l'equilibrio fra autodifesa e principi. L'Europa e gli ebrei sono emersi dalla Seconda guerra mondiale con due strade opposte: l'Europa ha abdicato alla forza, gli ebrei hanno deciso di difendersi, l'Europa è fatalista, pessimista, noi ebrei che abbiamo perso un terzo della nostra popolazione abbiamo scelto la vita. Non è una decisione consapevole, conscia. L'Europa ha un 'death wish', noi israeliani l'opposto. Mio padre è un sopravvissuto alla Shoah, aveva quel tipo di pessimismo, nel 1945 decise di non voler mettere figli al mondo dopo quello che aveva visto. Ma alla fine ha avuto due figli. La nostra innovazione viene dalla qualità dell'immigrazione che abbiamo avuto dall'Unione Sovietica, che era l'élite della superpotenza sovietica. A quel tempo, Israele stava declinando economicamente e quell'immigrazione fu una forza enorme. Un'altra ragione è la centralità dell'esperienza militare in Israele, è un paese fondato sull'esercito ma informale, non militarizzato, saluti gli ufficiali con il nome e mai i gradi, è la capacità della società israeliana di sacrificarsi, coraggio, innovazione, che poi si rovescia nel settore civile. La creatività è strategica. Non conosciamo conformismo come in Europa".
  Secondo David Schueftan, scienziato politico fra i più stimati in Israele, reduce da due anni di insegnamento alla Georgetown University e di cattedra all'Università di Tel Aviv e Haifa, dove dirige il programma internazionale di studi per la sicurezza, Israele sarebbe un grande modello "se soltanto l'Europa non ci odiasse. Sono sorpreso che ci sia un livello altissimo di antisemitismo in Europa. Voi europei non capite come mai abbiamo così tanto successo. Noi israeliani abbiamo imparato tanto dall'Europa, ora è il turno dell'Europa di imparare da noi israeliani. La nostra unicità viene da un mix di millenni di cultura ebraica, e dall'essere in un ambiente molto ostile e barbarico in cui dobbiamo difenderci. L'Europa non si difende più, pensa che sia compito degli Stati Uniti. Noi rispettiamo l'Europa per la sua cultura ed economia, ma non possiamo rispettarla quando cessa di battersi per quello in cui crede. Noi israeliani siamo arroganti, voi europei siete narcisisti. L'ottimismo in Israele si riflette nel numero dei bambini, il pessimismo dell'Europa nel suo suicidio demografico. Voi italiani avete un tasso di 1,3 nascite, Israele ne ha il doppio anche escludendo gli ultra ortodossi. Noi israeliani facciamo più del doppio dei bambini di voi italiani. Voi italiani siete così simili a noi israeliani, più dei tedeschi. E la ragione è l'ottimismo. Eppure ora avete bisogno di immigrati che vengono da una cultura radicalmente diversa. Ma state distruggendo la vostra cultura e retaggio. In Israele abbiamo portato qui un milione di persone dall'Unione Sovietica. Sono arrivati con un figlio o nessuno e oggi solo il 17 per cento dei russi ha un solo figlio. Si sono assimilati rapidamente. Grazie all'orgoglio nazionale".
  Qui Schueftan introduce un altro aspetto. "L'Europa oggi è post nazionale e per molti europei la cultura nazionale è un male. Il nazionalismo non è sciovinismo o fascismo, è un grande elemento di solidarietà collettiva. E' una forma di patriottismo temperato da una forte tradizione democratica e liberale. L'Europa
"Abbiamo imparato tanto dall'Europa. E oggi Israele sarebbe un grande modello se solo l'Europa non ci odiasse"
si è persuasa che esista invece una solidarietà universale. Forse una piccola élite occidentale lo crede, ma le opinioni pubbliche no. Gli immigrati dal Nord Africa o dalle regioni subsahariane non possono far parte di questa solidarietà. L'Europa, come Israele, deve rivalutare l'importanza della cultura nazionale. Gli israeliani non sono fascisti o sciovinisti. La terza questione è limitare il liberalismo culturale, che è molto buono in teoria, ma che oggi è diventato radicalismo: negli Stati Uniti si chiama progressismo. Questa radicalizzazione porta a una rivolta populista. Serve una combinazione fra liberalismo e nazionalismo, come in Israele. Noi non abbiamo una polarizzazione della società come in Europa, con pezzi dell'opinione pubblica che non si parlano. In Israele incoraggiamo le persone a pensare da sole, senza disciplina, fin dalla prima età. Ai miei figli ho detto fin da piccoli che ero per loro un padre che si doveva conquistare il rispetto. I bambini israeliani domandano, non danno nulla per scontato. E questo porta a una cultura dell'innovazione e dell'imprenditorialità. A scuola, a casa, nell'esercito, nella società, impari a non essere d'accordo, a sfidare tutto, ogni opinione e idea consolidata. L'innovazione inizia quando dici 'ho un'idea migliore'. Gli europei sono andati in vacanza rispetto al mondo reale, prigionieri della fantasia. Pensano che esista una cosa chiamata 'comunità internazionale'. Imparate dal nostro realismo e uscite dalla vostra La La Land".
  Jack Ma, il leggendario fondatore di Alibaba, è appena stato a Tel Aviv, dove a un forum economico ha detto: "Israele sa che la risorsa più preziosa al mondo non è il petrolio o il gas, ma il cervello umano. In Israele, l'innovazione è ovunque. Gli altri innovano per il successo. Israele innova per la sopravvivenza". Considerando che ora si discute della sopravvivenza a rischio dell'Europa, che si crogiola nel proprio torpore e décadence, non ci farebbe male prendere a esempio da Israele. Che la La La Land diventi una Baby Land.

(Il Foglio, 21 gennaio 2019)


Tu Bishvat 5779 (21 gennaio 2019)

Tu BiShvat (o Rosh Hashana Lailanot) è una festività anche chiamata

 L'origine di Tu-bishvat
Il nome della festività significa 15 del mese di Shevat, ovvero il giorno centrale del mese ebraico di Shevat. Anche quest'anno, all'inizio dell'estate, dovremo, nostro malgrado, fare la nostra dichiarazione dei redditi. E lo faremo raccogliendo tutta la documentazione di quanto abbiamo guadagnato e speso nell'anno precedente, dal 1 gennaio al 31 dicembre. Ciò che sta prima e dopo queste date non conta. Conta solo l'anno fiscale, che comincia e finisce in momenti precisi.
  Per quanto possa sembrare strano, la ricorrenza del Tu-bishvat, 15 del mese di Shevat, è strettamente legata al concetto di anno fiscale. Anche nell'antica società ebraica si pagavano le tasse, e questo certo non sorprende. Il calendario era diviso in cicli di sette anni, e in ogni anno bisognava prelevare una "decima" sul prodotto agricolo. La "prima decima" spettava ogni anno ai Leviti. Sul prodotto che rimaneva dopo il prelievo si applica una seconda decima; nel primo, secondo, quarto e quinto anno questa decima rimaneva al produttore, ma con l'obbligo di consumarla (direttamente o nel suo equivalente valore economico) a Gerusalemme; nel terzo e sesto anno veniva invece versata ai poveri. Si noti per inciso come l'entità di queste tasse fosse molto più modesta di quelle che ci impone uno stato moderno.
  Era quindi importante stabilire a quale anno appartenesse un certo prodotto; se ad esempio era del secondo anno, rimaneva al produttore con l'obbligo di portarlo a Gerusalemme, se era dell'anno dopo doveva essere dato ai poveri. Ma come si faceva a valutare se un prodotto era di un certo anno? E ancora: la Torà proibisce di mangiare i frutti prodotti nei primi tre anni di vita di un albero ('orlà): ma come si calcola l'età di un albero e di un frutto? È necessario stabilire delle date di inizio dell'anno, che sono strettamente legate al ciclo agricolo. Come capodanno per la frutta prodotta dall'albero viene considerato il momento d'inizio della formazione di gemme, dopo la pausa invernale. Ogni frutto che è nato (o che ha iniziato a maturare, secondo alcune opinioni) prima della data stabilita come capodanno, appartiene all'anno precedente, se è nato dopo è dell'anno in corso.
  Nel clima della terra d'Israele il capodanno (fiscale) degli alberi è strettamente legato al momento in cui la maggior parte delle precipitazioni piovose (che avvengono quasi totalmente in autunno e in inverno) sono passate. La Mishnà (la prima del trattato di Rosh haShanà) indica quali sono i diversi capi d'anno del calendario ebraico e riferisce, a proposito degli alberi, una divergenza tra la scuola di Shammai e quella di Hillel; i primi fissano il capodanno al 1 di Shevat, i secondi al 15. La regola, come sappiamo , segue l'opinione di Hillel, quindi si inizia il 15. Ma se si tratta di una data legata al flusso delle piogge, è difficile capire i motivi del dissenso tra le due scuole. Uno studio recente, basato sui dati attuali di piovosità - che si presume non si discostino molto da quelli di duemila anni fa -, spiega che in Eretz Israel esistono fasce climatiche molto differenti; in tutta la pianura costiera le piogge maggiori terminano alla data fissata da Shammai, mentre nelle colline della Giudea e a Gerusalemme in particolare la data è spostata avanti di 15 giorni. Questo significa in pratica che noi fissiamo il calendario fiscale degli alberi in base al clima di Gerusalemme.
  Quando si parla di tasse e ancora di più quando si pagano non si è molto allegri e in linea di principio non si capisce perché, dopo tutto, Tu-bishvat sia diventata una piccola festa. Per questo ci sono diverse spiegazioni. Intanto le tasse non si pagano a Tu-bishvat, ma a raccolto avvenuto; quando si celebra un capodanno, quale che sia, si sta in allegria e non si pensa che è l'inizio e la fine di un anno fiscale, piuttosto ci si augura che il raccolto o il guadagno dell'anno che inizia sia migliore di quello dell'anno precedente.
  A parte questo, la storia della celebrazione del Tu-bishvat mostra una certa evoluzione e indica che c'è voluto molto tempo prima che si creassero modi speciali di ricordare e festeggiare questo giorno. Come festa minore è sempre stato un giorno in cui il lavoro è permesso, ma sono proibite alcune manifestazioni di tristezza, come le orazioni funebri o la lettura del tachannun. Ma c'è voluto molto tempo per arrivare a forme di celebrazione attiva, e in questo è stato determinante il contributo dei cabalisti di Safed, nel XVI secolo. L'uso più semplice e antico, probabilmente risalente all'alto medioevo, e ormai diffuso in tutto il mondo, è quello di mangiare in questo giorno frutta di tipi diversi, in particolare i prodotti dell'albero per cui nella Torà è celebrata la Terra d'Israele: uva, fichi, melograni, olive, datteri; oltre a questi altri frutti menzionati nella Bibbia, come mandorle, pistacchi, noci, tappuchim (che nella Bibbia non sono le mele, come si ritiene comunemente e come oggi si indica nell'ebraico moderno, ma sono agrumi), e poi ogni altro tipo di frutto dell'albero.
  Un rito vero e proprio, risalente almeno agli inizi del XVIII secolo è documentato per la prima volta nell'opera cabalistica Chemdat Yamim, e consiste in una specie di Seder (o Tikkùn) in cui si alterna il consumo di frutta diversa, in un ordine speciale, e di vino (bianco e rosso), alla lettura e al commento di brani biblici, rabbinici e della letteratura mistica. Questo rito, da tempo dimenticato in Italia, è stato reintrodotto di recente da Rav Shalom Bahbout che ha anche curato la stampa del testo con traduzione italiana e commenti: ne sono uscite già due edizioni, la prima nel 5746 (1986): Seder Tu Bishvat per il Capodanno degli alberi, la seconda (edizioni Lamed) nel 5760 (2000); il nostro pubblico ha accolto con piacere questa reintroduzione e ormai il Seder si fa in molte famiglie.
  Altri modi di ricordare questo giorno sono cerimonie di piantagione di alberi; sono iniziate in Eretz Israel nei primi decenni del secolo scorso, come testimonianza di attaccamento alla terra e all'importanza della ripresa della vita agricola, e della riforestazione in particolare. Forse non è stato estraneo un influsso di cultura americana (arbor day), ma in ogni caso hanno avuto la prevalenza nella società ebraica i valori positivi specificamente interni, collegati al rapporto con Eretz Israel, la sua ricostruzione, e l'importanza tradizionale degli alberi, specialmente quelli da frutta. Per educare a questi valori si usa in molti luoghi anche fuori da Eretz Israel di piantare simbolicamente un albero a Tu-bishvat.

 I significati simbolici
  Ricordando il Tu-bishvat vengono richiamate e sottolineate alcune idee molto importanti nella coscienza ebraica.
  Il rapporto con le realtà nascoste: la mistica ebraica parla delle realtà a noi invisibili, che spesso paragona ad un albero, come paragona le diverse forme di frutta (buccia commestibile o no, nucleo duro o morbido ecc.) ai simboli dei mondi diversi. La "buccia" (qelippà) è anche simbolo del male. Per questo i cabalisti propongono un percorso simbolico tra le diverse specie di frutta e i colori del vino, suggerendo un viaggio tra i mondi diversi, tra la Giustizia e la Misericordia, con l'intenzione di contribuire a riparare (tikkùn) il mondo visibile dove viviamo. Sono messaggi e insegnamenti che per essere compresi richiedono conoscenze e sensibilità speciali, ma che non possono essere trascurati nella ricchezza di simboli che questo giorno propone alla comunità ebraica.

(Comunità Ebraica di Bologna, 21 gennaio 2019)


Il viaggio di Netanyahu in Ciad. La strategia per fermare la jihad

Dopo l'Oman, il premier israeliano a N'Djamena per ripristinare le relazioni internazionali in Africa. "Avanziamo nel mondo musulmano: non piacerà all'Iran". E ora punta a Sudan e Bahrein.

di Rolla Scolari

Benjamin Netanyahu è volato ieri in Ciad per ripristinare le relazioni diplomatiche con la nazione africana, interrotte da decenni.
   Il premier israeliano ha parlato di «momento storico», ed è stato molto esplicito sul perché la sua visita rappresenti per lui una svolta: «Israele avanza nel mondo islamico», e la tappa in Ciad «è parte di un cambiamento drammatico che stiamo facendo nel mondo arabo e islamico», «un cambiamento che disturba, e perfino fa infuriare l'Iran e i palestinesi, che tentano di prevenirlo».
   Circondato da vicini inquieti - a Nord la Libia, a Est il Sudan, a Ovest il Niger, a Sud la Repubblica Centrafricana e a Sud-ovest il Camerun e la Nigeria-, con 15 milioni di abitanti e una popolazione a maggioranza musulmana, il Ciad è tra le 30 nazioni più povere del pianeta (dati del Fondo monetario internazionale), e tra i cinque Paesi meno democratici al mondo (fonte EIU Democracy Index 2018).

 La lotta comune
  Il premier Netanyahu ha giustificato l'interesse per la ritrovata amicizia, interrotta nel 1972 all'apice delle tensioni tra israeliani e palestinesi, nella comune lotta al terrorismo.
Il Ciad, infatti, principale alleato francese nell'area, con il sostegno finanziario e logistico di Parigi è l'esercito più importante all'interno del cosiddetto GS Sahel: un dispositivo militare creato nel 2014 che riunisce anche gli eserciti di Mali, Mauritania Niger e Burkina Faso e ha l'obiettivo di contenere le spinte di gruppi jihadisti come Boko Haram e le filali locali di Stato islamico e Al Qaeda. Nella capitale N'Djamena, Netanyahu e il presidente Idriss Déby hanno siglato accordi securitari e di cooperazione, e nei mesi passati funzionari della sicurezza ciadiana hanno rivelato alla stampa internazionale che gli israeliani avrebbero fornito equipaggiamento militare alle truppe nazionali per contrastare i ribelli ai confini settentrionali.

 Sicurezza e tecnologia
  Negli ultimi anni, Israele ha ampliato la cooperazione securitaria e tecnologica (soprattutto nel campo dell'agricoltura) con Paesi africani musulmani che tradizionalmente in seno alle Nazioni Unite hanno votato con i palestinesi.
   La nuova strategia del premier, che cerca l'ennesima rielezione nel voto anticipato di aprile, è quella di cercare relazioni diplomatiche con nazioni musulmane che non riconoscono Israele, sfruttando il fatto che da anni il conflitto israelo-palestinese non è più al centro delle priorità geopolitiche della comunità internazionale.
   E se ora secondo la stampa israeliana Netanyahu punta a Sudan e Bahrein, il 2018 è già stato un anno di viaggi ed eventi soltanto fino a pochi anni fa impensabili: la ministra israeliana dello Sport Miri Regev in lacrime ad Abu Dhabi accanto a un judoka israeliano sul podio, mentre suona l'Hatikva, l'inno d'Israele, per la prima volta nel mondo arabo; il ministro dei Trasporti Yisrael Katz ospite in Oman a parlare del progetto di una ferrovia che colleghi Israele al Golfo; un altro ministro israeliano, quello delle Comunicazioni, Ayoub Kara, a una conferenza a Dubai.
   Un recente studio del Tony Blair Institute For Global Change parla inoltre di un miliardo di dollari di esportazioni da Israele verso il Golfo via Paesi terzi nel 2016. Per decenni, la condizione per l'attivazione o il ripristino di relazioni diplomatiche tra Paesi arabi e musulmani e Israele è stato il raggiungimento di un accordo di pace tra israeliani e palestinesi e la nascita di uno Stato palestinese. La strategia di Netanyahu cerca invece la normalizzazione di questi rapporti senza passare da negoziati, da anni ormai in stallo.

(La Stampa, 21 gennaio 2019)


*


"Ciad importante per Israele, per aprirsi al mondo islamico"

Mentre sul fronte interno la politica israeliana si accende in vista delle elezione del 9 aprile, sul fronte internazionale arrivano segnali di distensione. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente del Ciad Idriss Déby hanno annunciato nelle scorse ore la ripresa delle relazioni diplomatiche, portando a 161 il numero di paesi con cui Israele ha legami formali.
   "Il Ciad è un paese molto importante", ha detto Netanyahu durante un'apparizione congiunta con Déby al palazzo presidenziale di N'Djamena. "C'è molto che possiamo fare insieme. Abbiamo discusso i modi per approfondire la nostra cooperazione in ogni campo, a cominciare dalla sicurezza, ma anche agricoltura, cibo, acqua, energia, salute e molto altro ancora". "Siamo stati accolti qui con rispetto, così come abbiamo accolto il presidente Déby con grande rispetto in Israele", ha proseguito Netanyahu. "Israele sta entrando nel mondo islamico. Questo è il risultato di un grande sforzo degli ultimi anni. Stiamo facendo la storia e stiamo trasformando Israele in una potenza mondiale in ascesa".
   Il Ciad aveva interrotto i legami con Israele nel 1972 a causa delle pressioni de leader libico Muammar Gheddafi. Il presidente del Ciad Déby ha detto che il suo paese e Israele hanno accettato non solo di rinnovare i legami diplomatici, ma anche di aumentare la cooperazione bilaterale in una vasta gamma di settori.
   "La nostra amicizia con Israele non sostituisce le nostre preoccupazioni sulla questione palestinese - ha aggiunto il presidente africano - Siamo favorevoli a portare avanti un processo di pace tra israeliani e palestinesi. E quindi rinnovo il mio appello allo Stato di Israele affinché si impegni in un processo di pace….. basato su accordi precedenti" affinché Israele possa "vivere in pace e sicurezza accanto a uno Stato palestinese".

(moked, 20 gennaio 2019)
*


Cosa ci guadagna Israele dai rapporti diplomatici con il Ciad?

In effetti non sono pochi i vantaggi politici, diplomatici e strategici

Quando paesi come la Cina e l'India esprimono interesse in un significativo miglioramento dei legami con Israele, come hanno fatto negli ultimi anni, inevitabilmente sorgono domande su quale sia esattamente il loro tornaconto. È chiaro il motivo per cui Israele aspira a rapporti migliori con paesi che sono potenze mondiali e mercati di oltre un miliardo di persone. Ma perché questi paesi sono interessati a rapporti con il piccolo Israele? La risposta è sempre la stessa: sicurezza, intelligence, tecnologia e una corsia diplomatica verso Washington.
Ma nel caso del primo ministro Benjamin Netanyahu che è andato in Ciad domenica a ristabilire formalmente i rapporti con il paese centro-africano, la domanda deve essere rovesciata. E' chiaro cosa vuole da Israele il Ciad, un paese povero, assetato di acqua e impegnato in una lotta con Boko Haram nella zona del Lago Ciad: vuole competenza e intelligence in fatto di armi e sicurezza, vuole imparare dall'esperienza israeliana su come difendere i confini, vuole avvantaggiarsi del know-how tecnologico d'Israele in fatto di acqua e agricoltura, vuole migliorare i legami con l'America. Ma cosa può ricevere Israele dal Ciad? Come mai il ristabilimento di rapporti diplomatici con un paese dittatoriale, povero e senza sbocchi sul mare è così importante da spingere Netanyahu a dedicargli un viaggio lampo di 23 ore, di cui 16 di volo (bisogna aggirare lo spazio aereo di paesi come Libia e Sudan ndr) e solo sette sul suolo ciadiano?...

(israele.net, 21 gennaio 2019)


Tensioni e lanci di razzi tra Siria e Israele. Gli attacchi neutralizzati dalle contraeree

Domenica di tensione tra Tel Aviv e Damasco: un razzo partito dalla Siria e diretto verso le alture del Golan è stato intercettato dal sistema Iron Dome. "Una risposta agli oltre dieci missili dei jet israeliani", secondo i media siriani.

Un razzo lanciato dalla Siria verso Israele e missili lanciati da Israele verso la Siria. Sono i rispettivi eserciti a rendere noti gli attacchi incrociati, neutralizzati dalle stesse forze armate. L'esercito di Israele ha annunciato che un razzo lanciato dalla Siria "verso le zone settentrionali delle alture del Golan" è stato intercettato dal sistema di difesa aerea Iron Dome ("Cupola di ferro").
   Poco prima, Damasco aveva denunciato di avere intercettato e distrutti diversi missili ("almeno dieci", per l'Osservatorio siriano per i diritti umani) lanciati dai jet israeliani verso il sud della Siria, in particolare verso l'aeroporto internazionale della capitale, come affermato da una fonte militare all'agenzia Dpa."La zona presa di mira si trova nell'area sud di Damasco, vicino al settore della Kesswa, in cui si trovano depositi di armi di Hezbollah come pure combattenti iraniani". Per i media di Stato siriani, il razzo lanciato contro Israele è una "risposta ai raid israeliani che hanno preso di mira le regioni del sud". Entrambi gli attacchi sono falliti.
   Israele, ufficialmente in stato di guerra con la Siria, occupa dal 1967 la maggior parte delle Alture del Golan, che ha annesso nel 1981. Questa annessione non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale. Negli ultimi anni l'esercito israeliano ha colpito più volte in Siria gli obiettivi dell'Iran e del suo alleato, il gruppo libanese Hezbollah. I due nemici di Israele hanno aiutato a loro volta il regime del presidente siriano Bashar Assad ad avere la meglio sui ribelli e sui jihadisti nel corso della guerra civile. Il portavoce dell'esercito israeliano ha rifiutato di reagire all'annuncio di questi raid da parte della Siria: "Non commentiamo le informazioni provenienti dall'estero", ha detto. Dal canto suo, Netanyahu afferma spesso che non lascerà che l'Iran si serva della Siria come testa di ponte contro Israele. Mentre Teheran smentisce l'invio di soldati dell'esercito regolare per battersi in Siria, affermando che a fianco delle forze del regime siriano sono presenti solo consiglieri militari o "volontari" iraniani o afghani.

(il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2019)


Israele, occhi a Oriente e cuore a Usa ed Europa

La nuova global strategy di Gerusalemme. Apertura economica ma anche politica verso l'Asia, senza lasciare Usa e Ue

di Giancarlo Elia Valori*

Giancarlo Elia Valori
In primo luogo, se vogliamo studiare le posizioni politico-militari di Israele, dobbiamo analizzare la Siria.
  E il problema In Siria, per Gerusalemme, si chiama Mosca, anche se apparentemente si chiama Teheran. Una delle aree di de-escalation si trova infatti nel Golan, e lo Stato ebraico non apprezza certo che Iran e Hezb'ollah possano operare tranquillamente nel Golan, anche senza compiere atti bellici ma sotto la protezione russa, che è peraltro la garante di tutta quell'area.
  Il governo di Gerusalemme vuole, soprattutto, che la Federazione Russa non intervenga mai a favore dell'Iran.
  Ma, se vanno via dalla Siria gli iraniani e le forze sciite, si indebolisce, fino forse a diventare periclitante, Il controllo stesso della Russia per garantire la stabilità siriana.
  Quindi, Israele vuole che siano i russi e perfino i siriani che allontanino l'Iran dallo stesso quadrante di Damasco, minacciando una guerra vera e propria sul suolo siriano. insieme agli Usa.
  Americani e israeliani potrebbero buttar giù Assad dal potere e, comunque, allontanare la Russia dall'area, e quindi dal Medio Oriente. E questo è un obiettivo primario di Mosca, ovvero rimanere, con un forte e decisivo potere, nel grande Medio Oriente e nel Mediterraneo.

- Ma gli Usa ci starebbero, a questa operazione antirussa?
  Non credo. Gli americani parteciperebbero, per poi allontanarsi, dopo aver compiuto le prime operazioni con successo. Letti i primi titoli sul New York Tìmes, ritornerebbero a casa. Gli Usa o fanno una usucapione ventennale, come in Afghanistan, oppure si limitano a una sveltina strategica.

- Ma gli Stati Uniti saranno comunque un partner affidabile per Gerusalemme, in questo frangente siriano, a parte la possibile guerra?
  È probabile di no. Washington ha già in mano i suoi curdi che, dopo l'uscita degli Usa dalla Siria, sono subito andati tra le braccia di Assad, in funzione antiturca.

- E quale sarebbe, poi, la configurazione del sistema siriano-iranico dopo questo assalto al potere baathista siriano?
  Probabilmente più pericolosa ancora di quanto non lo sia oggi. Per distruggere le pulsioni egemoniche dell'Iran sciita ci vuole una grande coalizione, certo con gli Usa ma anche e soprattutto con partner islamici, e non mi riferisco solo all'Arabia Saudita.
  E Mosca non accetterebbe mai nemmeno un millesimo di questo progetto. La Russia non vuole non solo la stabilizzazione della Siria attuale, che è infatti, ormai, un 'client state' russo, ma nemmeno una nuova guerra nel Grande Medio Oriente, per nessun motivo.
  Allora, una amicizia di Gerusalemme con Mosca è possibile e auspicabile, ma l'unica vera possibilità, realistica, di contenimento dell'Iran dentro la Siria, ovvero sui confini di Israele, è comunque un isolamento forte del potere sciita dentro l'area di Assad, il che può essere anche l'obiettivo di Mosca.
  Questo anche per saldare i rapporti, sempre più stretti, della Federazione Russa con l'Arabia Saudita, competitor acerrimo dell'Iran, un avversario di Teheran che potrebbe essere decisivo in una ricomposizione postbellica del quadrante siriano.
  Quindi, ogni strategia realistica di duro 'containment' dell'Iran presuppone un accordo tra la Russia e Israele. Ed è bene ricordare che Mosca ha un assoluto bisogno, economico, tecnologico, strategico, dello Stato ebraico.
  Questi argomenti, come altri, li ho fin qui trattati con quella durezza che pertiene alla amichevole chiarezza, con il mio amico Moshe Ya'alon. quando ho presentato recentemente a Gerusalemme l'edizione israeliana del mio più recente volume.

- Una guerra preventiva, quindi, sulla Siria, per distruggere l'asse Iran-Hezbollah?
  Probabile, come credo potrebbe essere probabile un sostanziale disinteresse militare della Russia, che si troverebbe così a non avere più molti contatti proprio con un pericoloso concorrente petrolifero, l'Iran, che ha politiche ben diverse da Mosca sugli idrocarburi.
  Senza dimenticare, peraltro, che i sauditi stanno facendo già la loro guerra nello Yemen, certo per evitare la pressione di un gruppo sciita come gli Houthy, ma anche e soprattutto per venire in possesso delle nuove (e colossali) riserve petrolifere di Kharkhir e di Najran, a parte il fatto che il 60% del petrolio yemenita è oggi già 'rubato' dall'Arabia Saudita, tramite l'ex-presidente yemenita Mansour Hadi.
  E, ovviamente, lo scontro nello Yemen riguarda anche il controllo dello stretto di Bab-el-Mandeb, il passaggio via mare per 3mila 800 milioni di barili di greggio mediorientale.
  Ma la Stria è comunque grande, polimorfa, da sempre politicamente instabile e, comunque, con aree minoritarie cristiane, druse e sciite o para-sciite che potrebbero rivelarsi un osso troppo duro per realizzare quella guerra-lampo che è sempre nelle corde del pensiero strategico israeliano.
  E, inoltre, data la presenza, oggi, di numerosi armamenti iraniani in Libano e, probabilmente, nelle Alture del Golan, un attacco molto rapido dovrebbe basarsi su un'analisi estremamente attenta delle postazioni e delle forze dei gruppi sciiti da parte dei Servizi israeliani.
  E, comunque, un attacco rapido dovrebbe evitare la contromossa sui confini Nord dello Stato ebraico.
  Quindi, l'unica operazione logica sarebbe, a tutt'oggi, quella di impostare una geopolitica siriana comune con Mosca, che ha interessi paralleli e controlla, sul terreno, le forze sciite. Che è in cerca, proprio Mosca, di un alleato affidabile per contrastare l'ipoteca territoriale iraniana sulla stessa Siria.
  L'accordo di Israele con gli Usa e la Russia, della fine del luglio 2018, ha permesso poi l'accettazione, da parte di Gerusalemme, della presenza dell'esercito siriano al confine del Golan, ma a poco più di ottanta chilometri dalla linea di confine.
  Il che implica che le Forze armate israeliane non entreranno in guerra per minare le prospettive di Mosca e le operazioni siriane, fuori dai confini con Israele. Un'evidente accettazione della protezione russa sulle armate di Assad.
  Gli americani hanno ormai abbandonato anche i loro 'clientes' meridionali, ovvero gli 'jlhadlstl democratici', beato chi ci crede, segno di una ormai verificata impossibilità, da parte degli Usa, di pensare in modo strategicamente corretto.
  Infatti, sia Mosca che Gerusalemme sanno che lo scontro siriano è una guerra che può riguardare tutto il globo. Non il solo Medio Oriente o la solita storia della 'democrazia' contro il 'terrorismo'.
  È stato l'innesco, lo scontro siriano, di una possibile guerra mondiale. Washington ha invece letto la guerra In Siria come una semplice 'war on terror', una sorta di Tavor geopolitico.

- Certo, Israele ha rafforzato molto le sue postazioni nel Golan, ma basterà?
  Non credo. La possibilità dell'Iran (che finanzia e addestra anche il Jihad Islamico a sud di Israele) di avviare uno scontro regionale contro lo Stato ebraico anche dalla Striscia di Gaza è tale da non permettere un'eccessiva fiducia nell'attuale status quo.
  Intanto, c'è l'apertura di Israele in Asia, economica ma anche politica.
  Ovvio, la motivazione di Gerusalemme risiede nel fatto che l'Asia sarà la regione dominante, per l'economia ma anche in senso politico-militare. E qui c'è l'opportunità, da sfruttare in un prossimo futuro, di un nesso geopolitico tra Pechino e Gerusalemme, che potrebbe condizionare facilmente anche il Grande Medio Oriente.
  Le relazioni ufficiali di Israele con i paesi asiatici risalgono tutte, a parte Singapore e Burma, dal periodo successivo alla caduta dell'Urss. L'interscambio economico con la Cina e le altre potenze asiatiche è già rilevante, si tratta infatti di 15 miliardi di dollari. Con le attuali tensioni commerciali tra Cina e Usa, il rapporto tra Cina e Israele potrebbe diventare determinante, soprattutto nel campo dell'alta tecnologia.
  C'è anche in ballo il progetto di una ferrovia Eilat-Ashdod, la Med-Red, una linea che potrebbe una alternativa terrestre al canale di Suez, con effetti strategici notevolissimi e appena immaginabili, oggi. Dove gli Investimenti cinesi sarebbero rilevanti, vista la simmetria geografica e politica della Red-Med con la Nuova Via della Seta.
  Se l'Ue, con le sue attuali leggi commerciali, sostanzialmente punitive nei confronti dello Stato ebraico, rimane un'area sostanzialmente nemica, allora è proprio Israele a aprirsi al commercio asiatico e, in particolare, cinese, che largamente sostituisce l'interscambio con l'Ue.
  Fatti economici, questi, che hanno ampie derivazioni strategiche: Israele si lega,diversamente dalla vecchia Europa 'renana', non raggiunta dalla nuova 'Via della Seta', alla grande area di sviluppo dell'Asta centrale e, quindi, rallenta i suoi legami con gli Usa e, ancora di più, con l'Europa, ormai ipocritamente antisemita.
  L'Asia è quindi una sorta di polizza di assicurazione, anche geopolitica, dello Stato ebraico nel confronti dell'Occidente, che sarà sempre meno amichevole in futuro. E, in ogni caso, Israele potrà sempre aprirsi canali preferenziali ad Est, qualora essi si chiudano ad Ovest.
  Ma lo stato ebraico non vuole certo diminuire oggi i suoi rapporti con gli Usa e con l'Europa, anche se aumenteranno certamente le relazioni, anche di tipo securitario, di Gerusalemme con l'Est.
  Se, quindi, i rapporti con Washington si raffredderanno, anche dal punto di vista politico, Israele potrebbe aprire buoni contatti con l'India, mentre la Cina, a causa dei suoi ottimi rapporti con l'Iran, potrebbe non essere il partner esclusivo di Gerusalemme con l'Oriente.
  Sempre sul plano regionale, potrebbe essere utile una soluzione a lungo termine, se non definitiva, della questione palestinese.
  Se non si securizzano i confini tra lo stato ebraico e l'Autorità nazionale palestinese (Anp), quel nesso strategico sarà sempre usato come spina nel fianco nei confronti di Israele, che non potrà mai diventare attore globale se non si libererà rapidamente delle vecchie memorie geopolitiche di tante guerre regionali.

- Come si può risolvere la tensione con i palestinesi, che potrebbe essere sfruttata, in futuro, da chiunque voglia indebolire lo stato ebraico?
  La soluzione di mettere l'Anp in mano alla Giordania è poco razionale. Il regno bashemita non ha la solidità economica e, forse, nemmeno quella militare, per ingoiare tutta l'area palestinese. Può certo diventare, Amman, un elemento di controllo dei territori palestinesi, ma non di più.
  La soluzione dello Stato da costruire è comunque ormai fallita, e non certo per colpa di Israele.

- Allora?
  Si potrebbe pensare ad un'area controllata, sostenuta economicamente dai Paesi islamici, pro quota, ma non certamente dall'Iran.
  Altre vie non le vedo. Certo, però, è che il rafforzamento di buone relazioni economiche con l'Egitto, la Giordania, persino con l'Arabia Saudita, sarebbe utile anche per la risoluzione della querelle palestinese.
  Un altro elemento da non dimenticare è la superiorità strategica dello Stato ebraico nell'ambito della cybersecurity attiva e passiva, che può eliminare duramente molte tensioni prima che sorgano.
  Certamente, la guerra cyber è, per lo Stato ebraico, la possibilità di depotenziare le reti infrastrutturali e protettive del nemico tanto da non renderlo capace di combattere. È anche certo che Israele è un leader mondiale in questo settore, ma deve sempre mantenere il passo, la rapidità delle trasformazioni in questo campo è massima.
  Ma stanno anche arrivando i cyber-mercenari, e qui ci sarà da lavorare moltissimo. Ovviamente, anche se l'eccellenza della cyber strategy israeliana è notoria, occorrerà mantenere e migliorare ancora il livello e, soprattutto, dirigere le operazioni a distanza verso nemici e avversari, anche temporaneamente, ma nuovi e mai attenzionati prima.
  I nemici cambiano, ma è bene non fidarsi mai dell'amicizia eterna.
  Sarà bene, comunque, allontanarsi oggi dal modello occidentale della 'società spettacolo', che porta fuori dalla formazione tecnica, scientifica, razionale e storica i giovani, come oggi accade anche in Israele, e ritornare allo stile dei padri e dei nonni, con una migliore formazione scolastica e, quindi, una più efficace 'nazionalizzazione delle masse' anche nelle Forze armate.
  Sarà poi necessario investire ancora di più nella scuola e nell'università anche se, in Israele, non sono ancora arrivati allo stato disastroso di moltissimi stati europei e, soprattutto, dell'Italia.
  Sarà anche molto utile migliorare il rapporto tra università e sistema produttivo e militare. È molto difficile tutto questo, ma credo proprio che lo Stato ebraico ce la farà, ancora una volta.

* Honorable de l'Académie des Sciences de l'Institut de France; presidente di Intemational World Group

(Nuovo Corriere Nazionale, 20 gennaio 2019)


Shoah, il treno dei lager arriva a Ostia

di Arianna Di Cori

 
Non un evento di un giorno. Commemorare la tragedia dell'Olocausto è un esercizio collettivo che deve trovare una continuità del tempo. E la decima edizione della rassegna "Arte in Memoria", curata da Annachiara Zevi, punta proprio a questo: coinvolgere la comunità degli artisti perché trasformi un luogo di culto in luogo di cultura, ripopolandolo con visioni ispirate alla storia e radicate nell'attualità. Alla mostra, da oggi fino al 14 aprile nella sinagoga di Ostia Antica, quest'anno partecipano l'italiana Ruth Beraha, l'austriaco Norbert Hinterberger, il polacco Zbìgniew Libera, Karyn Olivier (Trinidad e Tobago) che, così come i 46 artisti che hanno esposto nelle 9 edizioni precedenti, creeranno un lavoro appositamente per il luogo sul tema della memoria. Grandi installazioni: dalla lunghissima rotaia di Libera a fianco del cancello (nella foto) al grande muro-lavagna di Olivier lungo la cancellata che separa la Sinagoga dalla strada ad alta percorrenza, fino alla grande buca dove è caduto Golia colpito da Davide di Beraha e l'anomalo capitello poggiato da Hinterberger in prossimità delle quattro alte colonne all'ingresso della Sinagoga. Peccato che in 20 anni di storia di una rassegna che nelle scorse edizioni ha ospitato, tra gli altri, Sol Le Witt e Liliana Moro, le istituzioni pubbliche sembrino defilarsi, almeno dal punto di vista economico. «È scandaloso che un evento come questo debba rivolgersi agli istituti di cultura stranieri - chiosa Zevi - nemmeno il Comune di Roma ha contribuito». Eppure il Campidoglio ha finanziato il ripristino delle 20 pietre d'inciampo rubate a Rione Monti lo scorso dicembre, progetto anch'esso curato da Arte in Memoria. "Il motivo è che le pietre d'inciampo danno al Comune più visibilità", conclude Zevi.

(la Repubblica - Roma, 20 gennaio 2019)



Dialogo tra cattolici ed ebrei: l'attualità del libro di Ester

di Michela Altoviti

E' una donna, Ester, la protagonista del libro biblico scelto per orientare le riflessioni della XXX Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che è stata celebrata il 17 gennaio. In diocesi ha avuto luogo nel pomeriggio un incontro alla Pontificia Università Lateranense: in un dialogo a due voci, si sono confrontati sul significato della vicenda di questa giovane orfana ebrea deportata in terra straniera - la cui situazione a un certo punto cambia in modo radicale tanto da diventare la regina e la salvatrice di una grande potenza mondiale - Riccardo Di Segni rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, e Nuria Calduch Benages, docente di Antico Testamento alla Pontificia Università Gregoriana e membro della Pontificia commissione biblica. A moderare i lavori, monsignor Giuseppe Pulcinelli, biblista e responsabile diocesano per i rapporti con l'ebraismo. «Questo piccolo-grande rotolo», ha chiosato Di Segni mostrando una pergamena antica, «assume nell'ebraismo un ruolo liturgico e istituzionale ben preciso e se è vero che anche gli altri quattro rotoli sono legati ciascuno ad una ricorrenza del calendario ebraico, nel caso di Ester il legame è più forte ed è attestato da un obbligo preciso di lettura ripetuta e preceduta da formule di benedizione». In particolare, l'esegesi rabbinica evidenzia in questo testo «la dinamica tra ciò che appare e il nascondersi - ha continuato -: non compare mai esplicitamente un nome divino, solo una volta con una tenue allusione, e ciò rappresenta l'apparente invisibilità e assenza di Dio nella storia, in contrasto con la prepotente presenza del potere umano». La storia di Ester è infatti alla base della festa ebraica di Purim in cui si fa memoria della presenza velata e salvifica di Dio".
   Ancora, Di Segni ha posto l'attenzione sulla protagonista femminile sottolineando come la tradizione accosti la figura di Ester a quella della matriarca Sara: di entrambe il testo biblico sottolinea la bellezza fisica e la saggezza morale.
   Anche Calduch-Benages ha associato il personaggio di Ester a quello di altre due donne sagge della Bibbia, identificate unicamente con la propria città di origine. A differenza della regina Ester, la donna di Tekoa e quella di Abel «non eccedono per la loro bellezza - ha sottolineato - né per la loro condizione sociale» mentre «tutte e tre si distinguono, invece, per la loro sapienza, manifestata nell'abilità oratoria: servendosene, queste donne lavorano e operano per la salvezza e la pace del loro popolo, rischiando la vita e mettendosi a servizio del bene comune con coraggio».
   Monsignor Marco Gnavi, incaricato dell'Ufficio diocesano per l'ecumenismo, il dialogo interreligioso e i nuovi culti, al termine dell'incontro ha evidenziato l'importanza delle provocazioni proposte dai relatori e come «il tema della insperata liberazione del popolo ebraico dallo sterminio stabilito dal primo ministro Haman, sventato per mano della regina Ester, sia quanto mai attuale a motivo delle minacce che la comunità ebraica subisce purtroppo ancora oggi».

(Avvenire, 20 gennaio 2019)


E' vero che...?
  1. E' vero che il popolo ebraico è stato formato da Dio in modo unico e diverso da tutti gli altri ed è un suo strumento per la sua azione nel mondo?
  2. E' vero che il Messia promesso nelle Sacre Scritture del popolo ebraico è il Gesù di cui parlano i Vangeli?
  3. E' vero che la terra ora indicata come Israele e Palestina appartiene di diritto biblico e giuridico al popolo ebraico, quali che siano i fatti storici passati e presenti che possano far pensare il contrario?
Questa redazione risponde SÌ a tutte e tre le domande, ma si può essere certi che il complesso delle risposte dividerebbe trasversalmente tutte le società: quella ebraica, quella cristiana e quella laica.
L'articolo che presentiamo qui di seguito in cornice è stato scritto nel marzo del 2001, proprio quando cominciava a nascere "Notizie su Israele", a conferma del fatto che in questo sito la "questione ebraica" è sempre stata intesa come una questione di verità, non di modi. NsI


E' violenta la verità?

di Marcello Cicchese
    Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Pilato gli disse: «Che cos'è verità?» (Giovanni 18.37-38)
 E' utile parlare di verità?
  Il pretorio di un governatore romano, con la folla fuori che rumoreggia e le autorità religiose che chiedono la condanna a morte di un loro connazionale, non sembra essere il luogo adatto per un'ordinata e pacata discussione sulla verità. Così almeno potrebbe sembrare a noi, che dagli anni passati a scuola abbiamo forse ereditato l'impressione che discutere sul tema della verità sia un'esercitazione intellettuale da lasciare a persone che hanno tempo e voglia di farlo o, al massimo, da riservare a momenti particolarmente tranquilli della nostra vita.
  Di verità invece bisogna parlare, e bisogna parlarne come ne parla la Scrittura, perché è tutt'altro che un argomento ozioso. Oggi si preferisce parlare d'amore, perché nell'opinione corrente l'amore unisce, mentre la verità divide. Salvo poi a scoprire, davanti a un tribunale, che l'amore di cui tanto si parlava non era vero amore. La disprezzata verità entra allora in scena e a questo punto si rivela utile, perché viene impugnata come un randello per bastonare l'altro con il lungo elenco dei suoi veri torti.
  Dopo di che intervengono i professionisti del soccorso psicologico, i quali spiegano ai contendenti che nelle disturbate relazioni interpersonali l'elemento che più di altri contribuisce a peggiorare la situazione è proprio il riferimento alla verità.
    "Il fatto di introdurre dei concetti "vero o falso", "bugia o verità", immette all'interno di qualsiasi relazione un elemento molto negativo e fastidioso; nel caso della relazione di aiuto, dove uno è un professionista e l'altro è la persona che chiede aiuto, la situazione diventa veramente molto grave".
Chi si richiama alla verità è un "dogmatico" - secondo questa visione - e il suo dogmatismo lo rende rigido, intollerante, tendenzialmente violento, perché convinto di potersi e doversi riferire a una realtà esterna, oggettiva, al di sopra delle parti. Ma per alcuni questo non è possibile, e quindi lo stesso professionista deve stare ben attento a non assumere l'atteggiamento dogmatico di chi pensa di avere una verità da trasmettere alla persona che sta curando, perché è proprio il dogmatismo la malattia più grave da cui il paziente deve essere guarito.
    "In realtà noi non possiamo passare al paziente niente di nostro, possiamo solo aiutarlo a trasformarsi da dogmatico in scettico".
Conseguenza inevitabile e disastrosa del dogmatismo è il moralismo, con il quale si vorrebbe dire ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
    "Il rischio più grave è il tentativo di «moralizzare»: in un rapporto di aiuto non deve infatti esistere nessun tipo di giudizio di valore".
    "Tutte le volte che si dice «devi», «bisogna», «si deve», «ma come si fa a non capire che...», tutte le volte che si introducono elementi di questo tipo si introduce un giudizio di valore, un giudizio morale. In una relazione di aiuto questo è disastroso. La gente non desidera essere giudicata, e men che meno desidera essere duramente castigata. Quasi sempre si è già data da sola dei giudizi di valore, e in ogni caso non viene a cercare aiuto perché qualcuno alzi il dito e gli dica cosa dovrebbe fare".

 Dogmatici intransigenti e scettici tolleranti
  Dogmatismo e moralismo sarebbero dunque conseguenze inevitabili e nocive del richiamo ad una verità assoluta, immutabile nel tempo e universale nello spazio.
  Convinzioni di questo tipo sono correnti non solo nell'ambito della cura psicologica della persona, ma anche nella sfera delle relazioni politiche. Un esempio eloquente è dato dall'attuale crisi mediorientale. Due popoli, gli ebrei e gli arabi, rischiano di provocare una carneficina mondiale perché entrambi si riferiscono ad una verità religiosa assoluta e immutabile che li obbliga a rivendicare per sé il medesimo pezzo di terra. Il loro dogmatismo intransigente, basato sulla pretesa di sapere con certezza assoluta a chi Dio ha dato quella terra, li spinge alla violenza. Se qualcuno potesse guarirli dal loro dogmatismo e riuscisse a trasformarli in scettici tolleranti molti guai potrebbero essere evitati. Così pensano alcuni, anche tra gli ebrei e gli arabi "illuminati".
  La domanda "Che cos'è verità?" è quindi tutt'altro che l'esercitazione oziosa di una mente troppo filosofica. Alcuni sostengono che nel mondo biblico-ebraico il termine "verità" ha una connotazione più morale che conoscitiva. In parte questo può essere vero. Nella Bibbia infatti il contrario di verità non è "errore", ma "menzogna", con tutti gli aspetti di colpevolezza che questo termine implica. Gesù parlò di verità quando disse ai Giudei: "Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Giovanni 8.31-32). E nominando il diavolo come colui che si oppone alla verità disse: "Egli è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c'è verità in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è suo perché è bugiardo e padre della menzogna" (Giovanni 8.44).
  Ma non bisogna credere che il tema della verità possa esaurirsi in una discussione sui corretti comportamenti che popoli e persone dovrebbero tenere per assicurare a tutti una pacifica e civile convivenza. Questo è ciò che pensano gli scettici laici del nostro tempo, che intimamente si compiacciono del loro pragmatismo utilitarista e considerano le cosiddette verità religiose assolute come moleste pastoie che possono essere benevolmente sopportate fino a che si presentano in forma di folcloristici costumi locali, ma che devono essere fermamente combattute quando minacciano la tranquillità della vita sociale.

 La natura personale-giuridica della verità
  La verità di cui parla la Bibbia ha un carattere che si potrebbe dire personale-giuridico. Non risponde in primo luogo alla domanda "che cosa?" (atteggiamento teoretico) o alla domanda "come?" (atteggiamento utilitaristico-morale), ma a domande del tipo: "Chi?", "Chi è?"; e subito dopo: "Che cosa ha detto?", "Che cosa ha fatto?", "Che cosa vuole?". E' in risposta a domande come queste che si pone il problema della verità e della menzogna. I popoli antichi non mettevano in dubbio che ci fossero degli dèi, cioè delle potenze celesti che avevano potere sugli uomini e sulla terra, ma la domanda era: "Chi è il più forte?", "Chi comanda?". "Chi bisogna ingraziarsi?". La Scrittura risponde che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è l'unico che "nel principio" "creò i cieli e la terra" (Genesi 1.1), e di conseguenza "gli dèi che non hanno fatto i cieli e la terra scompariranno dalla terra e da sotto il cielo" (Genesi 10.11). Questa è la verità, e chi dice il contrario mente.
  Ma questo Dio, che è l'unico Creatore dei cieli e della terra, ha parlato e tuttora parla. Sorgono allora altre domande: "A chi ha parlato?", "Che cosa ha detto?" "Che cosa dice?" La verità si trova nella risposta a queste domande, perché la verità è, per definizione, quello che il Creatore del cielo e della terra dice, cioè la sua Parola. Chi non accetta questa parola e ne diffonde un'altra si trova automaticamente fuori dalla verità, e non è soltanto qualcuno che sbaglia in buona fede, ma è un bugiardo.
  Il problema della verità si pone dunque in relazione alla Persona di "Colui che parla" (Ebrei 12.25) ("Chi è?") e al contenuto della sua Parola ("Che cosa ha detto?").
  Cominciò per primo il serpente, nel giardino di Eden, a fare domande intorno alla verità quando chiese alla donna: "Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?" (Genesi 3.1). Ecco il problema: "Che cosa ha detto Dio?" E qui fa il suo ingresso nel mondo il contrario della verità, cioè la menzogna. "No, non morirete affatto" (Genesi 3.4), disse il serpente, e si rivelò come "bugiardo e padre della menzogna" (Giovanni 8.44).
  Il problema della verità fu posto ancora dal faraone d'Egitto in un contesto tutt'altro che filosofico. A Mosé ed Aaronne che gli comunicavano:"Così dice il Signore, il Dio d'Israele: Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto", il faraone rispose con durezza: "Chi è il Signore che io debba ubbidire alla sua voce e lasciare andare Israele? Io non conosco il Signore e non lascerò affatto andare Israele" (Esodo 5.1-2), e concluse negando la verità delle parole udite dicendo: "Questa gente sia caricata di lavoro e si occupi di quello, senza badare a parole bugiarde" (Esodo 5.9).

 La verità si è manifestata agli uomini
  l problema della verità si è presentato al mondo, insieme con la sua soluzione, in modo decisivo e definitivo quando "la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità" (Giovanni 1.14). A un certo punto del suo ministero Gesù chiese ai discepoli: "Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo?" ed essi risposero: "Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti". E allora rivolse loro direttamente la domanda: "E voi, chi dite che io sia?" . Conosciamo la risposta di Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Matteo 16.13-16).
  La verità dunque è apparsa agli uomini nella Parola di Dio fatta carne, e davanti alla domanda: "Chi è Gesù?", Simon Pietro, per rivelazione del "Padre che è nei cieli", rispose secondo verità. Si potrebbe dire, usando un linguaggio attuale, che Pietro fece una corretta "confessione di fede". Non sembra però che questo sia stato sufficiente per fare di lui un fedele seguace di Gesù.
  Usando le parole del faraone, si potrebbe dire che Pietro, dopo aver riconosciuto chi è Gesù, si rifiutò di ubbidire alla sua voce. Nell'episodio della trasfigurazione il Padre rese testimonianza a Gesù dicendo: "Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo" (Matteo 17.5). Non basta dire la verità su chi è Gesù; bisogna anche ascoltarlo, cioè agire in modo conforme alla verità della sua parola. Dopo aver riconosciuto chi è Gesù, Pietro avrebbe dovuto "camminare nella verità" (2 Giovanni 1.4) ascoltando le parole di Colui che aveva riconosciuto come Messia e Figlio del Dio vivente. Invece da quel momento cominciò a contrastare ripetutamente le parole di Gesù, mostrando di essere piuttosto all'ascolto dei suggerimenti di Satana, il padre della menzogna, fino al punto di farsi suo portavoce presso Gesù. Questo conferma che si può "professare di conoscere Dio" e "rinnegarlo con i fatti" (Tito 1.16). Pietro sfuggì alla tentazione di Satana soltanto quando riconobbe, con umiliazione, la verità delle parole di Gesù: "Prima che il gallo abbia cantato due volte, tu mi rinnegherai tre volte" (Marco 14.72).
  Il problema della verità si presentò a Pilato, in una forma chiaramente personale-giuridica, quando gli misero davanti quel Rabbi giudeo di controversa fama. In qualità di magistrato romano, Pilato doveva prendere le sue decisioni sulla base di risposte a domande come: "Chi è Gesù?", "Che cosa ha detto?", "Che cosa ha fatto?", "Che cosa vuole?" Si stava svolgendo un processo, sia pure sommario, e l'aula di un tribunale è la sede adatta per discutere il problema della verità. Tutte le persone coinvolte sono tenute a dire o a riconoscere la verità; dopo di che si esegue la sentenza.
  Nel processo di Gesù la verità fu ripetutamente calpestata da diversi falsi testimoni, ma non fu questo che fece condannare il Signore Gesù: la sua morte non fu la conseguenza di un errore giudiziario. Alle domande: "Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?" (Marco 14.61), "Sei tu il re dei Giudei?" (Marco 15.2) Gesù rispose con verità, dicendo che era venuto nel mondo "per testimoniare della verità" (Giovanni 18.37). E per questo fu condannato. Non furono le menzogne dei falsi testimoni a provocare la morte di Gesù, ma la verità uscita dalla sua bocca.
  Questo conferma la natura personale-giuridica della verità, che viene contrastata non dall'errore teoretico-scientifico, ma dalla menzogna che provoca ingiustizia. Se Dio ha parlato e attraverso la Sacra Scrittura da Lui ispirata ha rivelato agli uomini la verità intorno a fatti storici, naturali, morali, chi si oppone alla sua rivelazione in nome di qualche altra autorità non è un onesto ricercatore che vuole stabilire il reale svolgersi dei fatti o un sincero pensatore che vuole comprendere il mutare dei costumi, ma è un bugiardo, un falso testimone che sostituisce la parola di verità proveniente da Dio con la parola di menzogna proveniente da uomini. Un giorno la verità sarà ristabilita, e a questo non seguirà la pubblicazione di un articolo su qualche rivista scientifica o teologica, ma la verbalizzazione di una sentenza pronunciata dalla giuria di un tribunale. Gli uomini non sanno che con le loro dissertazioni culturali e morali riempiono verbali che un giorno saranno letti, esaminati e valutati. E il tutto si concluderà con una sentenza definitiva a cui non si potrà interporre appello.

 La verità soffocata dall'ingiustizia
  Ma oggi, nel tempo della pazienza di Dio, le parti si presentano invertite. Spesso, come nel caso di Gesù davanti a Pilato, è la verità ad essere posta sotto accusa da qualche tribunale umano. Ma le sedi giuridiche in cui gli uomini tentano di soffocare la verità con l'ingiustizia sono anche i luoghi in cui Dio vuole che i suoi servitori siano testimoni della verità, avendo la promessa di una particolare assistenza da parte dello Spirito Santo (Marco 13.9-11). "Dare la propria testimonianza" significa essere testimoni di Gesù Cristo, non di sé stessi, ed è bene ricordare che il termine "testimone" appartiene al linguaggio giuridico dei tribunali, non a quello artistico dei teatri. Alle testimonianze segue una sentenza, non un applauso.
  Eppure Pilato non voleva condannare Gesù. Da buon cittadino romano era attento soprattutto alle questioni di potere; quanto alle cose religiose poteva essere considerato uno scettico tollerante. Fosse stato per lui, Gesù avrebbe potuto essere liberato. In bocca sua la frase "Che cos'è verità?" forse significava: "Piantiamola una buona volta con tutte queste beghe intorno alla verità e cerchiamo di essere persone pratiche e di buon senso". Ma il fanatismo religioso dei Giudei e l'insistenza con cui Gesù continuava a presentarsi come testimone della verità gli avevano reso impossibile resistere alla pressione delle autorità religiose e della folla, pena il rischio di essere denunciato come nemico di Cesare. Non era certo un pacifista integrale, Pilato, ma in quel caso la violenza gli sembrava proprio inutile. Non voleva crocifiggere Gesù e avrebbe potuto non farlo. E tuttavia lo fece. Perché? Quale forza glielo impose?
  Erode e Pilato divennero amici dopo la condanna di Gesù (Luca 23.12), forse perché le loro storie avevano qualcosa in comune. Entrambi erano stati spinti a uccidere qualcuno contro la loro volontà. Erode non avrebbe voluto uccidere Giovanni Battista e Pilato non avrebbe voluto uccidere Gesù, ma entrambi lo fecero perché non vollero ascoltare la voce della verità che li spingeva ad agire secondo giustizia. Di conseguenza furono costretti a praticare l'ingiustizia soffocando la verità (Romani 1.18). Gesù aveva detto: "Per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce" (Giovanni 18.37). Davanti alla verità che gli stava davanti nella persona e nelle parole di Gesù, Pilato aveva voluto rimanere in una posizione neutrale, distaccata, e di fatto era caduto sotto il potere della menzogna. Non aveva capito in che senso Gesù si proclamava re dei Giudei, ma certamente aveva capito che glielo avevano consegnato "per invidia" (Marco 15.18) e che i suoi accusatori mentivano. Ma invece di mettersi decisamente dalla parte della verità liberando Gesù e castigando i testimoni bugiardi (Deuteronomio 19.16-19), Pilato aveva cercato un compromesso con la menzogna: non lo avrebbe ucciso e non lo avrebbe assolto, si sarebbe limitato a farlo flagellare. Ma il suo tentativo di rimanere equidistante dagli "opposti estremismi" di coloro che forse considerava come fanatici religiosi non gli riuscì: poiché non era interessato alla verità ma al potere, fu costretto da colui che è il "padre della menzogna" (Giovanni 8.44) a usare il potere per soffocare la verità con l'ingiustizia.

 Da che parte viene la violenza?
  E' dunque violenta la verità? Viene inevitabilmente spinto alla violenza chi vuole attenersi alla verità? Nel processo di Gesù chi ha finito per usare violenza?
  Non è la verità che genera violenza, ma la menzogna, sia quando assume la forma dogmatica della contrapposizione frontale alla verità in nome di un'altra "verità" con la quale si vogliono difendere interessi inconfessabili, come hanno fatto i Giudei con Gesù, sia quando assume la forma dello scetticismo tollerante che mira a dissolvere il concetto stesso di verità per sostituirlo con un nebuloso e bonario pragmatismo che qualcuno vorrebbe chiamare "amore", mentre in realtà è soltanto voglia di potere, come mostra l'esempio di Pilato.
  Chi non "è dalla verità" (Giovanni 18.37) non si trova sul terreno di una pacifica neutralità ma su quello della violenta menzogna, che può essere religiosamente dogmatica o laicamente scettica. Se in altri tempi (medioevo "cristiano") e in altre culture (islam) la menzogna ha usato e usa ancora la violenza brandendo l'arma di una verità distorta, nel nostro tempo e nella nostra cultura postmoderna la menzogna sta producendo germi di violenza che si sviluppano sulla carcassa di una verità dissolta. Osservatori attenti, anche tra i non cristiani, da tempo avvertono che il vuoto prodotto dall'abbandono del riferimento ad una verità assoluta sarà prima o poi colmato dall'assunzione di un potere assoluto. Il clima "dolce" promosso e diffuso dalla New Age si presta bene a disgregare, insieme con la verità, anche la personalità degli individui e a renderli adatti per essere asserviti a un potere tirannico.
    "Se un giorno sorgerà un governo mondiale, avrà sicuramente bisogno di un'ideologia per legittimarsi e vi sono buone possibilità che la New Age possa rappresentare questa ideologia. Possiamo sorridere a questa idea e pensare che quel giorno è ancora lontano. Conviene però fare molta attenzione, perché questi fantasmi planetari non sono solo innocenti fantasie ... La nostra ipotesi è che la New Age stia per varare una nuova forma di totalitarismo."
E' un'ipotesi che non dovrebbe sembrare strana a noi cristiani. Non dice forse la Scrittura che un giorno farà la sua comparsa in scena "l'uomo del peccato, il figlio della perdizione, l'avversario, colui che s'innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando sé stesso e proclamandosi Dio" (2 Tessalonicesi 2.3-4)?
  Gesù, che è la verità e davanti a Pilato ha testimoniato della verità, non ha usato violenza, ma l'ha subita. La verità di Dio porta amore, non violenza; ma chi resiste all'amore di Dio si oppone alla verità con la forza della menzogna, ed è questa che genera violenza. Chi vuole comunicare agli uomini la verità dell'amore di Dio, manifestatosi nella persona del Signore Gesù, deve essere pronto a subire violenza, non a farla.

 Il compito di chi annuncia il vangelo
  E' necessario allora che gli annunciatori del vangelo abbiano la franchezza di dire sempre che la verità è una sola. Non è sufficiente che io dica: "Gesù è il mio Signore e il mio Salvatore", perché alle orecchie di molti questo significa che ho voluto comunicare loro la mia verità, quella mi ha soddisfatto e reso felice. Di questo tutti sono disposti a rallegrarsi, come quando mi sentono dire con orgoglio, mentre sollevo un bambino di pochi mesi: "Questo è mio figlio". Ma guai a me se poi aggiungo che "c'è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo" (1 Timoteo 2.5) e che "in nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati" (Atti 4.12). Questo può dare fastidio e provocare stizzite reazioni, che un giorno potrebbero anche portare a forme di repressione.
  Ma proprio per questo coloro che vogliono annunciare agli altri l'unica buona notizia che può salvare gli uomini dall'eterna perdizione, e vogliono farlo in modo onesto e credibile, devono mantenersi in una posizione di umana debolezza, che può anche significare essere fraintesi e disprezzati. Devono essere disposti a patire torti, non cercare di ottenere privilegi. In un mondo dominato dalle informazioni, questo può anche significare la rinuncia a curare premurosamente la propria immagine pubblica. Voler attirare troppo l'attenzione sulla propria "identità" rivela soltanto il desiderio di avere un piedistallo su cui salire per essere approvati e ammirati. Si comincia col dire che si sale per predicare meglio la verità e si finisce con il rimanerci perché si sta più comodi. E una volta che si è preso gusto alla comodità, anche la verità comincia ad essere guardata con altri occhi. Il "buon deposito" resta tale, ma nell'annuncio si comincia a selezionarne i contenuti, accantonando quelli "secondari" e "negativi" per sottolineare quelli "fondamentali" e "positivi", che spesso sono anche quelli che non provocano noie e consentono di rimanere sul piedistallo.
  Il testimone è chiamato a dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità. La verità che annuncia è una realtà d'amore che porta la vita agli uomini, ma il testimone fedele sa che potrebbe incontrare la reazione d'odio della morte. In quel caso non reagirà con violenza, ma sarà disposto a subire violenza, sapendo che anche questo darà forza alla verità del messaggio di Gesù Cristo , morto in croce per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione.

"... portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo; infatti, noi che viviamo siamo sempre esposti alla morte per amor di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Di modo che la morte opera in noi, ma la vita in voi" (2 Corinzi 4.10-12).
(da "Il Cristiano", marzo 2001)

In formato PDF


 


Monito russo a Israele: «Gli attacchi all'aeroporto di Damasco devono cessare»

Gli attacchi israeliani all'aeroporto di Damasco non verranno più tollerati. E' questo il monito lanciato da alcuni funzionari russi a Israele attraverso le pagine del giornale arabo con sede a Londra Al-Quds Al-Arabi subito ripreso dai media israeliani.
Secondo il quotidiano arabo i russi sarebbero infuriati con Israele in special modo dopo l'ultimo attacco israeliano all'aeroporto di Damasco che ha distrutto un importante deposito di armi e missili iraniani probabilmente destinati a Hezbollah.
Citando quelli che sono definiti "tecnici russi" il giornale arabo riferisce che il nervosismo russo sarebbe dovuto al fatto la Russia sta cercando di riportare l'aeroporto di Damasco alla completa funzionalità e alla normalità, due operazioni che sarebbero rese difficili dagli attacchi aerei israeliani.
Più probabilmente il disappunto russo è dovuto al fatto che nonostante il posizionamento di batterie di missili S-300 gli israeliani hanno continuato imperterriti a colpire obiettivi iraniani in Siria senza incontrare il minimo problema.
Non si spiega altrimenti il monito rivolto a Israele per i suoi attacchi e il contemporaneo silenzio sui voli iraniani carichi di armi e missili che atterrano regolarmente a Damasco, che poi sono all'origine degli attacchi israeliani.

 Il silenzio di Gerusalemme
  Quello riportato dal giornale arabo è solo l'ultimo dei moniti lanciati da Mosca nei confronti di Israele. In altre occasioni la Russia si era fatta sentire protestando vivacemente per gli attacchi israeliani in Siria arrivando infine a trasferire alcune batterie di S-300 in Siria a seguito di un incidente che portò all'abbattimento di un aereo russo da parte della contraerea siriana.
Israele non ha mai replicato a parole alle minacce russe. In compenso ha proseguito con i suoi attacchi contro obiettivi iraniani e di Hezbollah in Siria senza curarsi degli S-300.
Anche in questo caso a Gerusalemme tutto tace nonostante le richieste di una risposta da parte di alcuni media israeliani. La strategia non cambia e colpire obiettivi iraniani e di Hezbollah in Siria rimane prioritario a dispetto delle minacce russe.
Tra i denti si sussurra solamente che se i russi vogliono che Israele interrompa i suoi attacchi contro le infrastrutture iraniane in Siria dovrebbero impedire agli iraniani di trasferire armi in territorio siriano. Insomma, chi è causa del suo mal pianga se stesso.

(The World News, 19 gennaio 2019)


Un metro di neve nei monti d'Israele

Fortissime nevicate hanno colpito nei giorni scorsi le alture del Libano ed Israele, provocando forti disagi alla circolazione ed alla popolazione.
Non tutti sanno che esistono stazioni sciistiche anche in Israele ed in Libano, grazie alla posizione delle montagne che, durante l'inverno, intercettano i venti umidi e freddi provenienti dall'Egeo, scaricando abbondanti nevicate sulle cime dei rilievi.
Tuttavia, e abbastanza raro che possa giungere una tempesta come quella avvenuta lo scorso 9 gennaio, quando oltre un metro di neve fresca e caduto sul Monte Hermon, in Israele.
Il Monte Hermon, è un'altura posta al confine tra Israele, Siria e Libano, e raggiunge la considerevole altezza di 2814 metri.
Già citato nella Bibbia, la neve cade piuttosto abbondante nella stagione invernale, e, grazie all'altitudine, la montagna resta priva di neve solamente d'estate.
Da qui nascono diversi fiumi, tra cui il noto fiume Giordano, che sbocca nel Mar Morto, un bacino d'acqua salata che è posto a ben 397 metri al di sotto del livello del mare.
Proprio a causa delle abbondanti precipitazioni, il Mare di Galilea e aumentato di 20 cm di altezza, avvicinandosi al limite rosso di pericolo di esondazione.
Alcune zone del Fiume Giordano hanno avuto un flusso di portata di 100 m/cubi al secondo, un record per gli ultimi 5 anni.
Le parti più basse del Monte Hermon hanno visto cadere 90 cm di neve in tre giorni di bufera, un evento che non capitava da parecchi anni.
Si prevede l'apertura della locale stazione sciistica in tempi brevissimi.

(Previsioni Meteo, 19 gennaio 2019)


Un ex generale sfida Netanyahu: "Israele prima di ogni cosa"

 
                                                                Per me Israele viene prima di tutto.
                                                                Unisciti a noi e apriremo una nuova via.
                                                                Perché abbiamo bisogno di cose diverse
                                                                e faremo cose diverse...
                                                                Penso di aver parlato troppo

Questa volta niente basco rosso in testa, niente divisa addosso: Binyamin Gantz si mostra agli israeliani senza l'uniforme dei paracadutisti che l'ha sempre contraddistinto nelle immagini pubbliche, parlando in un video di 17 secondi in cui annuncia la sua candidatura. È tempo di elezioni in Israele, il 9 aprile si vota e dunque ad un Benjamin Netanyahu che corre per una riconferma fanno da contraltare i suoi sfidanti. Tra questi, per l'appunto, dalle scorse ore c'è Binyamin Gantz.

 Chi è Binyamin Gantz
  Il suo è un nome noto in Israele in quanto per anni è stato capo delle forze armate. Dal 2011 al 2015 è lui il ventesimo capo di stato maggiore dell'esercito israeliano, apice di una carriera militare iniziata nel 1977 tra i paracadutisti. Ed è lì che si forma, partecipando a tutte le varie più importanti operazioni militari che il paese ebraico affronta negli ultimi trent'anni. Classe 1959, tra gli incarichi più delicati a lui affidati, figura quello di comandante della divisione Giudea e Samaria tra il 2000 ed il 2002 e dunque nel pieno della seconda intifada. Diverse anche le mansioni nel delicato confine settentrionale, infine per l'appunto la direzione dell'esercito israeliano. Un incarico quello affidatogli da Ehud Barak, all'epoca ministro della difesa e leader dei laburisti.
  E Gantz avrebbe, anche se dal passato non emergono conferme del diretto interessato in merito, delle preferenze per il partito laburista negli anni della sua carriera militare. Adesso la svolta in politica, ma a capo di un partito di recente formazione. Il suo obiettivo è puntare molto sul proprio livello di popolarità: la fama tra gli israeliani infatti è quella di un militare integerrimo, un baluardo contro la dilagante corruzione.

 La corsa con Hosen L'Yisrael
  "Israele prima di ogni cosa" è il motto che pronuncia Binyamin Gantz nel suo video e che scorre nelle immagini al termine dei suoi diciassette secondi di discorso. Uno slogan che potrebbe sembrare trumpiano e che proietterebbe a prima vista il suo partito verso destra. In realtà la formazione politica, novità di queste elezioni, si proclama centrista: Hosen L'Yisrael, Resistenza per Israele, vuole raccogliere i voti moderati di chi appare sfiduciato dai dieci anni di Netanyahu al potere. Quest'ultimo però non sembra preoccupato. Il sistema elettorale israeliano al momento gli permette di dormire sonni tranquilli: il suo Likud è accreditato secondo i sondaggi della maggioranza relativa, almeno 31 seggi su 120 alla Knesset. Raschiando tra i vari partiti di centro destra e della destra religiosa, non dovrebbe avere difficoltà a mettere in piedi una coalizione di almeno 61 membri per avere la maggioranza e quindi il nuovo incarico. Lo stesso premier ha affermato che, in caso di maggioranza relativa del Likud, la coalizione nella prossima legislatura sarà una fotocopia dell'uscente.
  Ma Gantz non si dà per vinto. È bene ricordare che in Israele non esiste l'elezione diretta del primo ministro, ma la popolarità di cui gode l'ex militare potrebbe essergli ugualmente d'aiuto. Il suo obiettivo infatti è fa guadagnare più seggi possibili ad Hosen L'Yisrael, per poi formare un vasto cartello centrista con il partito Yesh Atid, guidato dall'ex star televisiva Yair Lapid. Se quello di Gantz attualmente è accreditato di 13 seggi, il partito di Lapid invece dovrebbe ottenerne 10. Con il lancio della sua candidatura, l'ex capo di stato maggiore mira a far ottenere alla sua formazione più dei 13 seggi previsti e sperare, in tandem con Yesh Atid, di insidiare i 31 seggi attualmente dati al Likud. Sono solo sondaggi, ma di certo il quadro israeliano, con i laburisti molto in basso che non dovrebbero andare oltre i dieci seggi, sembra parlare chiaro: nonostante le indagini per presunta corruzione e qualche altra ombra, le alternative a Netanyahu appaiono molto limitate. Tra queste, a spiccare è senza dubbio Gantz. La campagna elettorale è comunque solo all'inizio.

(Gli occhi della guerra, 19 gennaio 2019)


Trump inventa la "formula-Gerusalemme": una sovranità per due città

Tra gli obiettivi del presidente Usa il "piano del secolo": la pace tra Israele e Palestina

di Umberto De Giovannangeli

Ha ottenuto il via libera delle monarchie del Golfo, con i loro miliardi fondamentali per la ricostruzione di Gaza e per il mantenimento in vita degli apparati palestinesi, sia in versione Hamas che in quella dell'Autorità nazionale palestinese del presidente Mahmoud Abbas. Ha garantito all'amico Netanyahu il sostegno incondizionato da parte americana ad ogni operazione che Israele intenda continuare a portare avanti per contrastare la presenza dei Pasdaran iraniani in Siria. In cambio, però, Donald Trump ha preteso un sì del premier israeliano a non ostacolare quei "sacrifici" necessari per dare realizzazione al "Piano del secolo": quello che nelle ambizioni dei suoi ideatori alla Casa Bianca dovrà portare alla pace in Palestina. Un piano che nel corso del tempo ha subito correzioni e postulato varianti su questioni strategiche. Una di queste, a quanto risulta ad HuffPost attraverso una verifica incrociata di fonti israeliane e palestinesi, riguarda la possibilità di costituire una Confederazione giordano-palestinese, con un sovrano riconosciuto, Abdullah II, e la Cisgiordania come un cantone con ampissima autonomia amministrativa e legislativa.
  Ma il punto di svolta nell'ultima bozza dell'"Accordo del secolo" riguarda un tema che Netanyahu e i suoi alleati di destra avevano ormai ritenuto definitivamente archiviato: il tema-Gerusalemme. Così non è. Nell'ultima formulazione del piano-Trump, che l'amministrazione Usa intenderebbe presentare prima delle elezioni anticipate in Israele del 9 Aprile, la quadratura del cerchio sarebbe la seguente: "due Gerusalemme, unica sovranità". La traduzione è complicata da spiegare anche per coloro che, a Gerusalemme come a Ramallah, ne hanno sentito parlare o hanno avuto la possibilità di prenderne visione: la sovranità sulla città resterebbe a Israele, ma la parte della Città vecchia, con annessi i luoghi sacri per i musulmani (la Spianata delle Moschee, al Haram al Sharif in arabo, con la Moschea di al-Aqsa e la Cupola della roccia, è considerata dai musulmani il terzo luogo sacro al mondo, dopo Mecca e Medina), farebbe parte di una amministrazione ad hoc palestinese legata all'Autorità nazionale. Insomma, controllo, gestione, ma non sovranità. O meglio, una sovranità "differita" di qualche chilometro: una decina per la precisione, quelli che separano Gerusalemme dalla città di Abu Dis, la quale sarebbe poi collegata con la Spianata delle Mosche da un avveniristico. sistema viario sotterraneo. Dell'ultima versione del "Piano del secolo" hanno parlato anche il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton nelle loro recenti missioni nella regione. La nuova formula "una sovranità, due città", escogitata dal team mediorientale di Trump, porta con sé un elemento di valenza strategica che ora viene messo nero su bianco: l'amministrazione Usa fa sua, rimodulandola, la soluzione a due Stati.
  Il 26 settembre, durante un incontro con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a New York, a margine dell'Assemblea Generale della Nazioni Unite, Trump aveva espresso esplicitamente, per la prima volta, il suo sostegno alla soluzione a due Stati, che prevede la creazione di uno Stato Palestinese indipendente. In quell'occasione, l'inquilino della Casa Bianca aveva dichiarato di ritenere che, a suo avviso, questa è la soluzione che "funzionerebbe meglio". Tuttavia, poco dopo, Netanyahu ha replicato ai commenti del presidente americano, ribadendo che la sicurezza, innanzitutto nei territori a ovest della Giordania, che includono la Cisgiordania occupata, rimane la priorità di Israele in qualsiasi accordo di pace con i Palestinesi. "Sono disposto ad accettare che i Palestinesi abbiano l'autorità di governarsi, ma non avranno l'autorità di farci del male", ha affermato in quell'occasione il leader israeliano.
  Nei nuovi confini d'Israele entrerebbero a far parte tre grandi blocchi d'insediamenti oggi parte dei territori palestinesi occupati, ma dello Stato palestinese entrerebbero a far parte territori oggi limitrofi a Gaza dei quali l'Egitto del presidente al-Sisi cederebbe la sovranità (in cambio di una fetta importante della torta miliardaria della ricostruzione della Striscia di Gaza. I soldi la fanno da padrone nell'"Accordo del secolo". Gran parte del quale si concentrerà sul rafforzamento dell'economia palestinese e dei suoi legami con Israele. Quanto allo Stato palestinese per una fase transitoria sarebbe smilitarizzato con garanzie internazionali sui confini. Diverse fonti al di fuori dell'amministrazione che hanno parlato con Haaretz nelle ultime settimane hanno confermato che la Casa Bianca sta attualmente "limando" un documento alquanto ponderoso, "molto più lungo di alcuni piani precedenti di questo tipo", secondo una fonte diplomatica coinvolta nella stesura. discussioni. Il piano dell'amministrazione Trump comincia a prendere forma a metà del 2017, quando Jason Greeenblatt, l'inviato speciale di The Donald per il processo di pace , fa il suo primo viaggio nella regione.
  Le fonti che sono state in contatto con Greenblatt durante questo periodo hanno detto ad Haaretz che il principale obiettivo del suo primo viaggio era lo stretto allineamento degli interessi tra Israele e il mondo arabo, che a suo avviso rappresentava una rara opportunità per una svolta nei negoziati. E' questo un punto nodale del "piano Trump": coinvolgere quei Paesi arabi che, nel quadro regionale, hanno interessi strategici convergenti con Israele. Una fonte governativa israeliana li elenca ad HuffPost: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania. Paesi del fronte sunnita che, con Israele, condividono la necessità di arginare la penetrazione iraniana in Medio Oriente, contrastando l'affermarsi della mezzaluna rossa sciita sulla direttrice Baghdad, Damasco, Beirut. E Gaza. A questo è particolarmente interessato l'erede al trono saudita, il giovane e ambizioso principe Mohammad bin Salman Al-Sa'ud, fautore dell'avvicinamento, in funzione anti-iraniana, di Riyadh a Tel Aviv: per il futuro sovrano, e attuale Primo vice primo ministro e ministro della Difesa saudita, togliere ai suoi nemici regionali la "carta palestinese" sarebbe un risultato rilevante, da far pesare nella definizione dei nuovi equilibri regionali. Un approccio condiviso dalle petromonarchie del Golfo- dagli Emirati Arabi Uniti al Qatar - che hanno una potente arma di convinzione di massa: i miliardi da investire sulla ricostruzione di Gaza e il sostegno all'economia palestinese ormai sull'orlo del collasso. "È ovvio che la regione è cambiata rispetto a pochi anni fa", dice ad Haaretz un funzionario dell'amministrazione Usa . "Il mondo arabo e Israele hanno molti interessi e obiettivi comuni, così come minacce comuni nelle attività destabilizzanti dell'Iran nella regione".
  Fonti esterne all'amministrazione coinvolte nelle discussioni sul piano hanno affermato al quotidiano di Tel Aviv che il gruppo mediorientale di Trump ritiene che il piano in fase di completamento potrebbe essere il primo a ricevere una risposta positiva sia da Israele che dai principali Paesi arabi, indipendentemente dalla posizione palestinese. Il cuore di questo piano, rivelano le fonti, sarà in Cisgiordania e a Gaza. "Vorremmo che il piano parlasse da solo - confida una fonte dell'amministrazione Usa al quotidiano di Tel Aviv - la gente capirà che dopo l'accordo staranno tutti meglio che senza: crediamo che le persone coinvolte siano interessate al loro futuro e al futuro dei loro figli. Questo piano darà molte più opportunità a tutti in futuro rispetto alla situazione che hanno ora". L'amministrazione Usa sta cercando di promuovere progetti economici nel Sinai settentrionale che potrebbero migliorare la situazione, sempre più degradata, nella Striscia. Nell'immediato, l'obiettivo principale di Washington è vedere l'Autorità nazionale palestinese ripristinare il proprio controllo sull'enclave costiera, da undici anni in mano ad Hamas. A questo fine, nella visione statunitense, saranno decisivi i finanziamenti delle petromonarchie del Golfo per la ricostruzione di Gaza. L'amministrazione Usa ha provato lo scorso anno a promuovere una serie di iniziative minori che potrebbero creare uno slancio positivo per il processo di pace e mostrare segni di progresso sul terreno. Alcune di queste iniziative sono riuscite - ad esempio, un accordo idrico congiunto israelo-palestinese firmato l'estate scorsa - ma altri sono falliti a causa di ostacoli politici a Gerusalemme e Ramallah. Ad esempio, il ministero della Difesa israeliano aveva proposto un piano l'anno scorso, fortemente sostenuto dai vertici militari, per ingrandire la città palestinese di Qalqilya, situata nella West Bank, a ridosso di Gerusalemme.
  Il piano di Qalqilya avrebbe permesso alla municipalità palestinese di costruire nuove case per migliaia di residenti. Il piano è stato respinto dal governo israeliano a causa delle pressioni esercitate dal partito di destra Habayit Hayehudi e da alcuni membri della Knesset del Likud. Ma la Casa Bianca quel progetto non lo ha accantonato ma, al contrario, lo ha inserito nel "Piano del secolo". Il'" Piano del secolo" permetterebbe alla popolazione di Gaza di tornare a respirare. Il che significa anche agire su Israele per porre fine ad un embargo pluridecennale. Ed è questo uno dei punti del "piano Trump" che potrebbe essere indigesto per la destra oltranzista israeliana. D'altro canto, The Donald ad oggi ha molto dato all'amico Netanyahu, a cominciare dallo spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, e poco riavuto indietro. Ora sembra giunto il momento dell'incasso. Per entrare nella Storia.

(L'HuffPost, 19 gennaio 2019)


Netanyahu invita l'omologo romeno a trasferire l'ambasciata a Gerusalemme

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha invitato l'omologo romeno, Viorica Dancila, a trasferire l'ambasciata della Romania da Tel Aviv a Gerusalemme. Lo riferisce il quotidiano israeliano "The Times of Israel" a margine dell'incontro fra i due premier. La Dancila è presidente di turno del Consiglio dell'Unione europea per questa ragione l'invito di Netanyahu è esteso anche ad altri paesi europei. "Spero che agisca per fermare le risoluzioni negative contro Israele presso l'Ue, e ovviamente per trasferire l'ambasciata del suo paese e altre ambasciate a Gerusalemme", ha precisato Netanyahu. Lo scorso anno, il governo romeno aveva adottato una bozza di risoluzione con la proposta di trasferire l'ambasciata in Israele sull'onda della decisione del presidente statunitense Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale ufficiale dello Stato ebraico e spostarvi l'ambasciata Usa.

(Agenzia Nova, 18 gennaio 2019)


L'Università delle LiberEtà si gemella con Israele

A Udine, una delegazione della città di Modi'In, riconosciuta dall'Unesco come Learning City

 
Continua il fitto lavoro di relazione tra Udine e Israele, intessuto dall'Università delle LiberEtà del Fvg. Da martedì 22 gennaio, infatti, è prevista proprio la visita di una delegazione israeliana capeggiata dal sindaco di Modi'In, Haim Bibas, anche presidente dell'Unione delle Municipalità israeliane. Questa visita è frutto di un progetto regionale e, soprattutto, delle ottime e costruttive relazioni e della lunga collaborazione con l'Università delle LiberEtà oltre che delle importanti relazioni internazionali, nazionali e locali della presidente, Pina Raso, che ha assunto per l'occasione il ruolo di "ambasciatrice" informale.
   Bibas è una figura di primo piano in Israele sia per la sua carica, che lo porta a rapporti diretti con il primo ministro e con il parlamento, sia per il grande carisma che ha permesso alla sua municipalità di farsi conoscere anche fuori dal paese. Haim Bibas sarà accompagnato anche da Orna Mager, direttrice del Centro Mutlidisciplinare di Modi'In, gemellato con l'Università delle LiberEta, che rappresenta il fiore all'occhiello della politica del sindaco Bibas in un Paese in cui si spende il 50% del Pil per l'istruzione.
   La città di Modi'In è, infatti, riconosciuta dall'Unesco come Learning City, fatto che attesta l'importanza di questa visita proprio a Udine, città che grazie alle attività dell'Università delle LiberEtà ha fatto molti progressi in questo ambito di educazione permanente. Orna Mager, direttrice del centro, è altresì una figura di livello nazionale per l'impegno nella promulgazione dell'educazione degli adulti e per l'impegno rispetto alla parità di genere: è stata lei a creare, grazie al finanziamento del governo a un suo progetto, una rete nazionale di Learning City.
   Ha anche creato l'Associazione Nazionale delle Consigliere di Parità, di cui è stata la prima presidente. È stata inoltre eletta per ben due volte donna dell'anno a livello nazionale. Orna Mager ha un rapporto di amicizia consolidata e di stretta collaborazione con l'Università delle LiberEtà e con la sua presidente, Pina Raso, con cui ha un continuo scambio culturale e progettuale.
   Questa collaborazione, ormai quindicennale, ha avuto il suo momento clou nel triplice gemellaggio culturale tra l'Università delle LiberEtà, la città di Mod'In e la città a maggioranza araba di Daburjia. La visita della delegazione israeliana, che durerà fino al 27 gennaio, arriva a conclusione di un progetto volto alla promozione delle "soft skills" elaborato dalla dirigente della Regione Fvg Ketty Segatti.
   Dopo aver incontrato i rappresentanti dell'Agenzia Nazionale Erasmus+ a Firenze, la delegazione arriverà a Udine martedì 22, quando incontrerà il Consiglio Direttivo, lo staff e gli insegnanti delle LiberEtà nella sede di via Napoli. Seguiranno poi incontri istituzionali con la giunta comunale e regionale.

(il Friuli, 18 gennaio 2019)



L'alleanza che non ti aspetti tra Pechino e Israele

La Cina punta al Mediterraneo e considera Tel Aviv un elemento fondante per la visione marittima della nuova Via della Seta

La visita nello scorso ottobre del vicepresidente cinese Wang Qishan in Israele per un summit hi-tech ha dimostrato la svolta nelle relazioni tra i due Paesi. In meno di vent'anni (dalla visita nel 2000 dell'allora leader Jiang Zemin) commercio, investimenti, cooperazione tecnologica e turismo hanno alimentato un rapporto che proietta Pechino nel Mediterraneo, ma spaventa, per ragioni di sicurezza, gli Stati Uniti. Gli scambi tra i due Paesi sono passati dai 50 milioni di dollari nel 1992 (anno della normalizzazione dei rapporti) agli oltre 13 miliardi nel 2017. Parallelamente, gli investimenti cinesi in Israele hanno raggiunto i 16 miliardi nel 2016.
   La Cina ormai considera Israele al pari del canale di Suez e del porto greco del Pireo (già nelle sue mani) come elementi fondanti per la visione marittima della sua nuova Via della Seta. La società SIPG di Shanghai ha vinto una concessione da 25 anni per l'allargamento del porto di Haifa, operativo dal 2021. Un'altra azienda del Dragone, la PMEC, costruirà un nuovo porto ad Ashdod, a Sud di Tel Aviv. E Pechino ha messo gli occhi anche sulla linea ferrovia ad alta velocità Red-Med, che avvicinerà Mar Rosso e Mediterraneo collegando Eilat e Ashdod.
   Dopo anni di isolamento nello scacchiere mediorientale, il piccolo Stato di Israele sta percorrendo la nuova Via della Seta - in direzione opposta rispetto all'amico Dragone - per riaprire il dialogo con gli sceicchi del Golfo: una ferrovia collegherà Haifa e la capitale omanita Mascate; i sauditi si affidano alla tecnologia israeliana (leggi: droni) per proteggersi da possibili attacchi; il Qatar tratta con lo Stato ebraico per inviare aiuti nella Striscia di Gaza; nell'emiratina Dubai è sorta la prima sinagoga; il Bahrein sostiene gli sforzi di Gerusalemme contro Hezbollah.
   C'è sì un comune obiettivo strategico che ha favorito la distensione tra Israele e gli sceicchi (isolare l'Iran sciita), ma c'è anche una ragione geopolitica: il riconoscimento (ecco l'elemento nuovo e rivoluzionario) dell'importanza dello Stato ebraico come collegamento tra l'Oriente (Estremo, Medio o Vicino che sia) e il Mediterraneo su cui Pechino ha messo gli occhi. La partita è appena iniziata, ma potrebbe portare a riscrivere gli equilibri dell'intera regione.

(Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2019)


Non serve a niente gridare "Basta con l'occupazione"

Non esistono ricette facili e gli slogan superficiali non aiutano. Vediamo perché Israele non può semplicemente "andarsene" dalla Cisgiordania.

"Basta con l'occupazione! - mi ha gridato un uomo di mezza età durante una mia recente conferenza - E' così semplice, finitela con l'occupazione!". Siamo nell'era dell'impazienza, nell'era delle risposte istantanee su Twitter, delle notizie a portata di mano, di "pace subito" e così via. Magari fosse così semplice.
Mentre aspettiamo tutti l'"accordo del secolo" del presidente Donald Trump, dobbiamo essere realisti e tenere a mente alcune cose. Non sto parlando dell'eterno dibattito su diritti storici e religiosi: diritti che sono ampiamente menzionati da politici e osservatori, e fonte di ispirazione per tante polemiche, ma che non costituiscono i fattori di real-politik in gioco per arrivare a un accordo definitivo tra israeliani e palestinesi. Sono questioni importanti, ma non servono per capire le sfide e le difficoltà con cui dobbiamo fare i conti, di fronte alla pressante domanda da parte di organizzazioni nazionali e internazionali di "porre fine all'occupazione". In Israele, anche quello che ama definirsi "il campo della pace" non dispone di una ricetta pronta per arrivare alla pace: e questo è dovuto al fatto che non riesce a cogliere le vere sfide con cui Israele deve fare i conti....

(israele.net, 18 gennaio 2019)


Paralimpiadi, quel no della Malesia ai nuotatori israeliani: è bufera

Negato il permesso ad Israele di poter gareggiare all'evento per le qualificazioni alle Paralimpiadi di Tokyo 2020. Caso diplomatico. Le reazioni.

Un caso internazionale diplomatico a sfondo sportivo, definito "odioso e del tutto contrario allo spirito olimpico. Israele condanna questa decisione ispirata senza alcun dubbio dal furioso antisemitismo del premier malese, Mahathir Mohamad». Lo dice il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nahshon, facendo riferimento al divieto imposto da Kuala Lumpur agli sportivi israeliani di partecipare alle gare sul suo territorio. Un comunicato del ministero di Israele ha sottolineato che la squadra di nuoto del Paese non potrà gareggiare alla competizione organizzata dal Comitato paralimpico internazionale in Malesia. "Chiediamo al Comitato paralimpico internazionale di cambiare questa decisione sbagliata o di cambiare il luogo di questo evento", ha aggiunto il portavoce israeliano, senza precisare la data della gara. La Malesia, dove l'Islam è religione di Stato, non ha rapporti diplomatici con lo Stato ebraico. Il "rabbioso antisemitismo" era nell'aria dopo che già la settimana scorsa Mohamad aveva annunciato che sarebbe stato negato l'ingresso ai nuotatori israeliani per un torneo di qualificazioni alle Paralimpiadi 2020 di Tokyo.
  Posizione poi confermata dal ministro degli Esteri, Saifuddin Abdullah: "Si tratta di una lotta a favore degli oppressi", ha detto il ministro.
  Da qui la reazione di Israele, che ha definito la decisione "vergognosa", e l'appello al Comitato internazionale paralimpico affinché si impegni a "far cambiare questa decisione sbagliata". La Malesia è uno dei Paesi a prevalenza musulmana che non hanno formali relazioni diplomatiche con Israele. Già in passato il Paese aveva negato ad atleti israeliani a competere a eventi sportivi. Il nuoto israeliano è cresciuto molto in questi anni e fa parte della Len, la federazione europea del nuoto, il cui presidente Paolo Barelli dice: "Apprendo con sconcerto, ritengo inaccettabile e condanno fortemente il divieto imposto agli atleti israeliani di partecipare ad eventi sportivi in Malesia. Mi sento colpito come presidente della Len, la Lega Europea di Nuoto, di cui la Federazione israeliana è membro; come presidente della Federazione italiana nuoto, che ha sempre rifiutato e contrastato ogni discriminazione di qualsiasi genere, etnica, linguistica, di religione e di sesso come prescrive fin dall'origine la Carta Olimpica e come appartiene all'essenza dello sport; come parlamentare della Repubblica italiana che ugualmente pone la tolleranza alla base dei diritti civili. Come uomo ed ex atleta olimpico che ha sempre ritenuto lo sport un ponte e non un muro, uno strumento di fratellanza e rispetto a prescindere da razza, religione, usi e costumi".
  Questa odiosa discriminazione antisemita, in un momento in cui è sotto gli occhi di tutti il rigurgito di sentimenti che speravamo fossero per sempre scomparsi, è particolarmente da combattere. Lo dimostrano anche recenti episodi di cronaca che purtroppo hanno portato nuovamente all'attenzione generale momenti di violenza originati da minoranze, ma non per questo insignificanti frange". Lo sport - aggiunge Barelli - è sempre stato in prima fila nella lotta all'intolleranza, votato alla pacifica convivenza, all'integrazione; è riuscito dove molti avevano fallito, come ha potuto di recente l'azione del Comitato Internazionale Olimpico nel tentativo di avvicinare le due Coree che, sempre più spesso, si presentano nelle grandi competizioni mondiali con una squadra unificata". "Dobbiamo tutti insieme continuare ad opporci ad azioni di chiusura, non dobbiamo cedere a nessuna prevaricazione; lottare affinché i sacrosanti principi dello sport non vengano stracciati in questa come in tutte le altre occasioni. Credo che dal punto di vista dello sport, l'intervento del Cio - conclude Barelli - e delle Federazioni mondiali e continentali sia indispensabile, insieme con eventuali azioni di diplomazia politica".

(La Gazzetta dello Sport, 18 gennaio 2019)


"Gerusalemme divisa ma la sovranità a Israele"

Il piano di pace proposto dagli Usa per la soluzione dei due stati

di Giordano Stabile

La rivelazione bomba è stata lanciata da un decano del giornalismo politico israeliano, BarakRavid, sulla tv Reshet 13. Un «leak» ottenuto da un «funzionario della Casa Bianca» con i dettagli dell'atteso piano di pace americano per il Medio Oriente. Le speculazioni si sono succedute in questi due anni a ritmo serrato, assieme a tweet sibillini di Donald Trump, come quello sul fatto che Israele, dopo aver ottenuto il trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme, dovesse fare «concessioni importanti» ai palestinesi.
  I dettagli emersi in parte confermano. Il piano prevede «un massiccio allargamento» delle zone «A» e «B» della Cisgiordania, quelle sotto controllo parziale o totale dei palestinesi, e questo dovrebbe portate alla nascita di uno Stato palestinese «sul 90 per cento della Cisgiordania». Israele conserverà gli insediamenti costruiti lungo la frontiera del 1967 ma dovrà evacuare o «congelare» quelli all'interno. In cambio otterrà la sovranità sulla Città vecchia di Gerusalemme e sulla Spianata delle moschee, che però sarà gestita in accordo con la Giordania e forse «altri Stati arabi». La capitale della Palestina si stenderà sulla «maggior parte dei sobborghi arabi» della Città Santa.

 Tutti scontenti
  È un piano destinato a scontentare tutti. Nel 2000 Arafat, per esempio, aveva rifiutato l'offerta del 97 per cento della Cisgiordania. E per la stragrande maggioranza dei partiti politici israeliani Gerusalemme «capitale unica e indivisibile» è un dogma intoccabile. Lo stesso funzionario della Casa Bianca avrebbe ammesso che secondo il team di negoziatori della Casa Bianca il piano è destinato «a essere rigettato dei palestinesi». Ma gli americani avrebbero invitato i dirigenti israeliani ad accettarlo, come segno di «buona volontà a impegnarsi nella trattative».
  La Casa Bianca ha liquidato il leak come «speculazioni». Uno dei tre negoziatori, l'inviato della Casa Bianca Jason Greenblatt, ha aggiunto che «anche se rispetto Barak Ravid, questo servizio non è preciso, le speculazioni sul contenuto del piano non aiutano, pochissime persone sul nostro Pianeta sanno che cosa c'è dentro, per ora».

 Le reazioni israeliane
  Le reazioni dei politici israeliani sono state più prudenti, anche se i partiti della destra religiosa hanno messo in chiaro che «non accetteranno di negoziare la divisione di Gerusalemme». Ma una chiave di lettura è stata data dall'ex ambasciatore a Washington Dan Shapiro che ha parlato di ballon d'essai, indiscrezioni lasciate trapelare per tastare il terreno.
  «E' certo che nessun piano di pace verrà presentato prima delle elezioni e la formazione di un nuovo governo israeliano - ha spiegato -. Ma la presentazione di una proposta articolata può servire a tenere in vita l'ipotesi dei due Stati, in vista dell'emergere di nuove leadership», sia in Israele che fra i palestinesi. Una modo per non far precipitare la situazione da qui al 9 marzo, quando sono previste le elezioni israeliane.
  Ieri, con la candidatura ufficiale dell'ex capo della Forze armate Benny Gantz, il fronte centrista ha per la prima volta visto la possibilità di battere Netanyahu, anche se resta una impresa difficilissima. E un generale d'acciaio, come a suo tempo Yitzhak Rabin, potrebbe essere propenso alle «grandi concessioni» necessarie per lo storico compromesso.

(La Stampa, 18 gennaio 2019)


Shlomo nel Sonderkommando. Il destino che Primo Levi non capì

Auschwitz. Addetto al trasporto dei corpi ai forni, testimone assoluto della Shoah. Sbagliato parlare di "zona grigia"

di Donatella Di Cesare

 
Shlomo Venezia
Svastiche nere, impudenti e minacciose, erano comparse d'un tratto a segnare i negozi degli ebrei lungo viale Libia e nelle strade attigue del quartiere romano. Di là Shlomo ci passava ogni giorno per tornare a casa. La vista di quelle croci uncinate lo straziò, lo afflisse. Era all'inizio degli anni Novanta. Non voleva, non poteva crederci. Ma qualche tempo dopo, mentre camminava, si trovò faccia a faccia con alcuni fascisti che volantinavano sbraitando. La tensione era forte. Qualche passante rifiutava il volantino, rispondeva per le rime. I fascisti erano pronti alla violenza. Per un attimo ebbe l'impulso di intervenire. Poi pensò che la risposta sarebbe stata un'altra. Nel 1992 Shlomo Venezia cominciò a parlare.
   Dunque esisteva un membro del Sonderkommando, di quelle Squadre speciali, costrette a operare tra la camera a gas e il forno crematorio! Era, anzi, un ebreo italiano. Quel nome, «Venezia», rievocava il tempo in cui i suoi antenati, espulsi dalla Spagna nel 1492, si erano fermati nella città della laguna, prima di proseguire per le coste greche. Shlomo era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923. Il padre aveva trasmesso ai figli la cittadinanza italiana, quasi fosse una difesa che avrebbe dovuto proteggerli. In casa si parlava ladino, o meglio, giudeo-spagnolo, ricordo di quel leggendario passato perduto. La famiglia tentò di fuggire durante l'occupazione nazista; furono, però, catturati e deportati ad Auschwitz, dove giunsero 1'11 aprile 1944. A Shlomo fu «iniettato» il numero 182727. Passate le prime selezioni, gli fu proposto un «lavoro supplementare» per una doppia razione di cibo. «Se avessi saputo che quel lavoro consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al crematorio, avrei preferito morire di fame; ( ... ) quando compresi era troppo tardi». Così ha confessato nel libro Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 in Italia da Rizzoli e tradotto in moltissime lingue.
   Impossibile immaginare che cosa dovette provare un ventenne costretto a vivere per mesi accanto ai forni crematori. Quando scrive Shlomo non indugia su di sé, sulle sue emozioni, sul suo dolore. Con «onestà irreprensibile» - come ha notato Simone Veil nelle pagine introduttive dell'edizione francese - ricostruisce la catena dell'annientamento: dalla discesa negli spogliatoi all'avvio nelle camere spacciate per «docce», dal trasporto nei forni fino all'incinerazione. Chi voglia capire che cos'è stata davvero la Shoah, questa ignominiosa fabbricazione di cadaveri, questa degradazione della morte, deve leggere la sua testimonianza che non può essere paragonata ad altre.
   Shlomo lo sapeva. Perciò aveva taciuto così a lungo. I nazisti avrebbero voluto eliminare l'ebreo e il testimone. Lui invece era sopravvissuto non solo per raccontare la rivolta del Sonderkommando, la marcia attraverso la neve, la liberazione, ma anche per dire quel che nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Era consapevole di essere il superstite assoluto. Perché era stato in quel luogo, tra la camera a gas e il forno crematorio, peculiarità dello sterminio hitleriano, che sarebbe stato sempre decisamente negato. Shlomo Venezia è il superstite, non nel senso del testimone terzo, bensì in quello del superteste, in grado di parlare, per sé e per gli annientati, perché è sopra-vissuto, rimasto oltre - oltre la camera a gas, il crematorio, lo sterminio. Unica e preziosa, la sua testimonianza sarebbe stata perciò la più temuta dai negazionisti.
   È tempo, però, anche di sollevare una questione troppo a lungo tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo «terribile segreto» solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato l'indice contro i membri delle Squadre speciali ricorrendo a termini molto duri, a verdetti non di rado sprezzanti. Proprio in quel contesto aveva coniato l'espressione «zona grigia» con cui rinviava alla «complicità» di coloro che erano stati costretti alla colpa.
   Aveva ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo». Ma per il resto lui, che parlava da Auschwitz-Monowitz, campo di concentramento, non di sterminio, avrebbe forse dovuto rivedere il suo giudizio a partire dalla testimonianza di Shlomo Venezia. Quell'industrializzazione della morte, che nelle officine hitleriane ha evitato il faccia a faccia con le vittime, è stato il sapiente trionfo dell'anonimato e l'intenzionale frantumazione della responsabilità. Così i criminali tentarono in seguito di definirsi innocenti. E oggi sappiamo che, se c'è stata resistenza, se c'è stata rivolta, ciò è avvenuto grazie ai membri del Sonderkommando.
   Chi l'ha conosciuto, sa quanto soffrisse di un'angoscia tetra, di una disperazione sorda, che rischiavano di logorarlo. Dopo il filo spinato del lager, il pericolo era il silenzio in cui avrebbero potuto spegnersi le sue parole. Eppure Shlomo, combattente instancabile, ha vinto la sua battaglia.

(Corriere della Sera, 18 gennaio 2019)


Il premier Conte in visita alla Sinagoga di Roma

"Ribadisco l'impegno dell'Italia per la tutela della libertà religiosa e la lotta alla discriminazione. Il governo farà la sua parte". Così il premier, Giuseppe Conte, in visita al Tempio Maggiore di Roma per un incontro con la comunità ebraica. Il premier ha indossato la tradizionale kippah, il copricapo obbligatoriamente usato dagli uomini nei luoghi di culto ebraico. Prima di fare il suo ingresso nella Sinagoga, Conte ha reso omaggio alla giovane vittima di due anni e ai 40 feriti dell'attentato dell'82, in un momento di raccoglimento davanti alla targa affissa all'ingresso del Tempio Maggiore dove è stata deposta una corona di fiori. "Ancora oggi, mentre assistiamo a volte colpevolmente indifferenti all'antisemitismo, dobbiamo trarre insegnamento dal passato", ha aggiunto Conte ricordando i "molti episodi di cronaca degli ultimi mesi, come i cori razzisti negli stadi o le testimonianze di privati cittadini" che denunciano episodi discriminatori.
   Parlando alla comunità ebraica di Roma, il premier ha detto che "al cospetto dell'immane tragedia dell'Olocausto, non è il silenzio la risposta all'abisso del male". "La memoria dei sopravvissuti ai campi di sterminio ha bisogno di parole per essere trasmesso alle generazioni" e giungere "fino a noi come monito. Come è possibile che nella culla dei diritti si sperimentasse un ottundimento delle coscienze di tale portata?". "Ogni forma di antisemitismo è una forma di suicidio dell'uomo europeo che rifiuta se stesso", ha affermato ancora, perché "nega una componente fondamentale della sua identità". Il presidente del Consiglio ha ricordato ripetutamente lo "straordinario contributo di civiltà" offerto dalla comunità ebraica: "Credo che un modo forse ancor più autentico per onorare la memoria e non ricadere negli errori del passato sia quello di ricordare il patrimonio culturale ebraico", anche in termini di "educazione europea".
   Nel corso dell'incontro con il presidente del Consiglio, Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma, ha manifestato "preoccupazione per la tenuta sociale del Paese". Dureghello ha denunciato "l'animosità del dibattito pubblico" e la "violenza nei linguaggi", rimarcando come "in questo clima generale", non manchino "episodi di antisemitismo che continuano a trovare spazio e terreno fertile negli ambienti più disparati": "Dagli spalti degli Stadi, nelle aule universitarie fino ai social network, dove ormai il fenomeno ha assunto numeri e misure incontrollabili e l'uso di linguaggi vessatori se non intimidatori di matrice razzista e antisemita sono ormai una costante". Per Dureghello, occorrono dunque "atti concreti e scelte significative per meglio definire gli ambiti di legalità e non lasciare spazio ad alcuna ambiguità o minimizzazione".
   Dureghello ha parlato anche dell'immigrazione, rilevando che "per quanto complicato gestire il fenomeno, la salvezza delle vite umane viene prima di tutto". La presidente della comunità ebraica di Roma è tornata sulla vicenda della Sea Watch, ringraziando il presidente del Consiglio "per il suo personale sforzo di trovare una soluzione dignitosa nei confronti di quelle persone" per settimane in balia del mare.

(Adnkronos, 18 gennaio 2019)


*


Conte visita la Comunità Ebraica di Roma: "L'antisemitismo è il suicidio dell'uomo europeo"

Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha deposto una corona di fiori alla lapide commemorativa dell'attentato alla Sinagoga di Roma nell' '82 e si è trattenuto anche con il sopravvissuto ai campi di sterminio, Sami Modiano

di Ariela Piattelli

 
Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte e il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni
 
 
E' iniziata con la deposizione di una corona di fiori alla lapide commemorativa dell'attentato alla Sinagoga di Roma nell' '82, la prima visita del Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte alla comunità ebraica di Roma. Accolto dal Rabbino Capo Riccardo Di Segni, dalla Presidente della comunità ebraica Ruth Dureghello e dalla Presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni, Conte, prima di entrare in Sinagoga, ha voluto così, per prima cosa, ricordare Stefano Gaj Tachè, il bambino di soli due anni rimasto ucciso nell'attentato.
   A pochi giorni dalle celebrazioni del Giorno della Memoria, e dopo essersi trattenuto in una conversazione con il sopravvissuto ai campi di sterminio Sami Modiano, il Presidente del Consiglio ha parlato, nel Museo Ebraico di Roma, della Shoah come «la notte più buia della storia», del contributo degli ebrei alla cultura e all'identità dell'Europa, del pericolo dell'antisemitismo e dell'impegno del Governo nella difesa della libertà religiosa e contro ogni forma di intolleranza.
   «Ogni forma di antisemitismo è una forma di suicidio dell'uomo europeo che rifiuta se stesso - ha detto Conte - perché nega una componente fondamentale della sua identità». Riferendosi poi ai cori razzisti negli stadi e agli episodi degli ultimi mesi, come il furto delle pietre d'inciampo a Roma, ha affermato che «assistiamo spesso impotenti e talvolta colpevolmente indifferenti al riaffiorare di forme latenti o esplicite di antisemitismo, dobbiamo trarre insegnamento dal passato nella consapevolezza che i più grandi orrori sono sempre l'esito di una rassegnazione, talvolta inconsapevole, alla inevitabilità degli eventi e una resa dei presidi morali che sorreggono e devono proteggere i nostri ordinamenti giuridici».
   «Conosciamo l'impegno delle istituzioni per contrastare l'antisemitismo - ha detto la Presidente della comunità ebraica Ruth Dureghello - , ma occorrono atti concreti e scelte significative». A tale proposito Dureghello e la presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni, rivolgendosi a Conte, hanno entrambe sottolineato l'urgenza di adottare anche in Italia la definizione sull'antisemitismo dell'IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), «compresi i riferimenti alle subdole forme di antisemitismo che boicottano Israele e le associano gli atroci atti commessi dal nazismo e dal fascismo» ha spiegato Di Segni. «Questo governo farà la sua parte» ha assicurato Conte.

(La Stampa, 18 gennaio 2019)


Israeliani interdetti ai Mondiali di nuoto

La Malaysia ne impedisce l'ingresso e i paesi liberi hanno il dovere di reagire

Sport e politica dovrebbero essere separati", recita l'adagio. Eppure continuano a mischiarsi. Esaurita la polemica sulla Supercoppa italiana in Arabia Saudita, se ne apre un'altra. Il governo della Malaysia ha interdetto l'ingresso ai cittadini di Israele. Il provvedimento di Kuala Lumpur è inteso a escludere i cittadini israeliani dai Mondiali di nuoto per disabili che si svolgeranno nel paese a luglio. Il ministro degli Esteri Saifuddin Abdullah ha ribadito ieri che non intende ritirare il divieto di ingresso agli israeliani per il campionato di nuoto valevole per le qualificazioni alle Paralimpiadi del 2020, e che anzi da oggi nessun rappresentante israeliano potrà entrare in Malaysia per eventi di qualsiasi tipo.
   Tristemente ironico, visto che le Paralimpiadi sono state create da un ebreo tedesco scampato alla Shoah, Ludwig Guttmann. Nel 1958 Guttmann decide insieme a Antonio Maglio, medico italiano che si occupava di riabilitazione dei disabili, di portare le Paralimpiadi a Roma nel 1960. E' la prima volta che Olimpiadi e Paralimpiadi si svolsero nella stessa città.
   La Malaysia è un paese il cui primo ministro Mahathir ha detto che gli ebrei hanno il naso adunco in una intervista alla Bbc di qualche mese fa. La sua leadership è antisemita. Il punto sono le dirigenze sportive internazionali. A fronte di un simile boicottaggio, che nello sport mondiale colpisce soltanto lo stato ebraico, i paesi civili non possono rispondere con mera retorica. Si deve fare altro. Si può condizionare ad esempio lo svolgimento dei Giochi in quel paese al diritto di ingresso per gli israeliani. A ottobre scorso, le note dell'inno israeliano sono risuonate per la prima volta ad Abu Dhabi quando un judoka israeliano ha vinto la medaglia d'oro in una competizione internazionale. L'attitudine del mondo islamico verso Israele sta attraversando un piccolo disgelo, attraverso i rapporti diplomatici con paesi come Dubai e Oman (ieri il premier Netanyahu ha annunciato una visita nel Ciad). Spetta anche all'occidente far sì che questa distensione possa estendersi ad altri paesi. Ma non potrà accadere se si accettano odiosi diktat come quelli malesiani.

(Il Foglio, 18 gennaio 2019)


Alle origini del Sabbatianismo

Studiosi di alto livello a confronto a Roma, nelle sedi di Unione delle Comunità ebraiche Italiane e Università La Sapienza, per un convegno internazionale sul Sabbatianismo in Italia, organizzato dall'Università del Maryland, da Johns Hopkins University di Baltimora e da un gruppo di ricerca sull'antisemitismo finanziato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca.
   "Sabbateanism in Italy and its Mediterranean Context", il titolo della prestigiosa conferenza. Durante la stessa saranno discussi e presentati i risultati di una serie di ricerche innovative sulla storia degli ebrei in Italia.
   Come si ricorderà nel corso del convegno, il movimento sabbatiano nasce nella primavera del 1665 quando il cabalista ebreo Sabbatai Zevi di Smirne (l'odierna İzmir in Turchia) proclamò di essere l'atteso messia degli ebrei. In poche settimane si raccolse attorno a lui un impetuoso movimento di fedeli di cui si parlò in tutto il Medio Oriente e in Europa. Nel febbraio 1666 Sabbatai si recò a Istanbul dove venne arrestato e condannato a morte. Gli venne però offerta la salvezza nel caso si fosse convertito all'Islam. Clamorosamente Sabbatai accettò di farsi musulmano. I suoi fedeli si divisero tra quanti credevano che la sua conversione all'Islam fosse una calunnia, quelli che ritenevano che la sua apostasia fosse parte di un dramma apocalittico che al momento solo lui poteva comprendere ma che in seguito sarebbe stato rivelato a tutti e quanti invece pensavano che a convertirsi fosse stata la sua ombra e che lui fosse invece asceso in cielo. Nel 1672, a causa della sua ambiguità religiosa, Sabbatai venne esiliato in Montenegro dove morì il 17 settembre 1676. Quanti ancora credevano in lui, pur facendosi passare per musulmani, vennero chiamati i dönmeh (in turco "convertiti") e continuarono a vivere in semi-clandestinità sino almeno ai primi anni del '900.
   L'Italia ebraica, spiega la professoressa Serena Di Nepi, svolse un ruolo di primo piano nella diffusione del movimento sabbatiano, che finora è stato trascurato dagli storici nonostante la proliferazione dei circoli sabbatiani e nonostante lo stesso Gershom Sholem avesse dedicato alla questione italiana pagine molto importanti nel suo classico lavoro su Zevi (Sabbetay Sevi: il messia mistico 1626-1676, Torino: Einaudi, 2001). Il convegno romano rappresenta così la prima iniziativa dedicata all'impatto del sabbatianesimo sull'Italia e al peso specifico delle comunità ebraiche italiane nella complessa evoluzione del fenomeno. Al centro dei lavori sarà la ridefinizione dell'Italia di età moderna da una prospettiva ebraica: terra di transizione, spazio privilegiato di discussione rabbinica e di costruzione di nuove forme di sociabilità (le confraternite e le accademie ebraiche, ad esempio) ma anche tassello essenziale delle reti della diaspore sefardite.
   Gli studi più recenti vanno, infatti, ridefinendo le categorie tradizionali che consideravano gli ebrei italiani come soggetti passivi, chiusi nei ghetti e dunque isolati dai grandi fatti della storia italiana e anche da quelli della storia ebraica. Come il caso del sabbatianesimo che verrà presentato a Roma chiaramente dimostra, i ghetti segnarono una trasformazione profonda e costruirono modelli di interazione "attraverso le mura" che coinvolsero, in forme sempre variabili, tanto la maggioranza cristiana quanto la collettività ebraica sul piano nazionale e internazionale.

(moked, 18 gennaio 2019)


La Shoah come insulto tra due club israeliani

Punito l'Hapoel Tel Aviv

ROMA - "Shoah" per il Maccabi. L'insulto rivolto dai tifosi dell'Hapoel Tel Aviv contro i rivali durante il derby di lunedì scorso nel campionato israeliano, e per il lancio di oggetti in campo, il club dell'Hapoel Tel Aviv è stato sanzionato con una multa di 25 mila shekel (circa 6 mila euro). Il giudice sportivo, nella sua motivazione, ha criticato duramente l'episodio e la dirigenza della squadra, invitando i tifosi dell'Hapoel ad andare in visita al memoriale dell'Olocausto dello Yad Vashem a Gerusalemme. Erez Naaman, portavoce dell'Hapoel, ha detto che quanto accaduto è stato un incidente isolato e che i tifosi non hanno citato l'Olocausto come attacco al popolo ebraico ma come espressione di odio profondo. Per quanto riguarda il lancio di oggetti in campo, il giudice sportivo ha raccomandato che la dirigenza dell'Hapoel incontri i funzionari per la sicurezza di altre squadre, come il Maccabi Tel Aviv,e impari da loro come prevenire tali episodi in futuro.

(Il Messaggero, 18 gennaio 2019)


Per studiare l'ebraico ci vogliono tre C: consapevolezza, conoscenza e cultura

È la lingua della Torà che unisce ebrei di Israele ed ebrei della diaspora.

di Luisa Basevi*

L’identità individuale, di un gruppo e di un popolo è composta da vari elementi fra cui la lingua. La lingua, oltre ad essere mezzo di comunicazione, è veicolo di cultura, quindi un popolo lontano dalla propria lingua è lontano dalla sua cultura e dalla sua identità più profonda. Nel caso della lingua ebraica, la questione è ancora più complicata; storicamente, nella Diaspora, l'identità si è conservata proprio attraverso la ritualità e la lettura dei testi scritti in Leshon HaKodesh, l'ebraico, elemento unificante del popolo ebraico, e quindi l'ebraico è stato l'unico spazio fisico di un popolo lontano dalla propria terra, unico luogo possibile per mantenere viva la memoria del passato e per continuare ad esistere, nonostante i numerosi e continui tentativi di cancellazione. Da un centinaio di anni, però, e soprattutto dalla nascita dello Stato di Israele, l'ebraico rinnovato e parlato si è affermato come lingua nazionale di un popolo che parla la sua lingua nel suo spazio fisico. Terra e lingua si sono ritrovate e in Israele si parla, si scrive, si studia, si inventa, si commercia, si crea tecnologia in ebraico. Esiste un intero mondo espresso in ebraico, eppure la distanza con gli ebrei della Diaspora continua ad esserci, proprio perché non si parla, letteralmente, la stessa lingua. Si dice spesso che l'ebraico di Israele è un altro ebraico rispetto a quello che si conosce qui, ma non è così. L'ebraico è una unica lingua, con i suoi registri e le sue contaminazioni, come tutte le lingue vive.
   Come insegnante di lingua ebraica al Liceo Renzo Levi, al Collegio Rabbinico e ai corsi online dell'Uceì per le Comunità di tutta Italia, posso testimoniare lo stupore di molti studenti giovani e meno giovani nel ritrovare in testi contemporanei vocaboli o espressioni conosciuti nella Torah, nella Tefillah o nella Mishnali e collocati in altri contesti, più discorsivi. La lingua ebraica, infatti, è impregnata di citazioni e di riferimenti biblici e questo proprio in virtù del fatto che la lingua rinnovata da Eliezer Ben Yehuda e dagli altri, non meno importanti, appassionati sostenitori dell'ebraico come unica lingua del popolo ebraico in Terra di Israele, è la lingua della Torah. L'ebreo diasporico continua ad avere il cuore e la mente rivolti verso Sion e l'amore per Israele è un dato di fatto, ma tale sentimento, seppur nobile, non basta. Bisogna mettere in campo le tre C: consapevolezza, conoscenza e cultura, che vanno alimentate attraverso lo studio della lingua. La consapevolezza della propria posizione nel mondo è di sicuro il primo passo per non perdere l'identità ebraica. Chi sono io, da dove vengo, dove sono.
   La conoscenza della storia e delle regole della vita ebraica consolida la posizione dell'ebreo e lo differenzia dagli altri. Questo sono io, in qualsiasi parte del mondo.
   La cultura, infine, è la risposta più completa per costruire un'identità individuale e collettiva.
   Nel corso dei secoli è stata prodotta una quantità infinita di scritti, musiche, poesie, e, in epoca più moderna, in Terra di Israele e nello Stato di Israele, pièce di teatro, film; dunque la cultura in lingua ebraica in Israele è la cultura di confluenza delle varie Diaspore, è il luogo in cui si crea l'unità ed è il luogo dove ci si guarda negli occhi, chiedendosi: chi sono io e chi sei tu?
   Ora, lo spazio dedicato allo studio della lingua ebraica nelle nostre Comunità è davvero troppo ristretto per poter raggiungere un livello necessariamente alto per capire un commento a un testo sacro, un articolo, una poesia di un autore contemporaneo, un racconto mediamente alto, per vedere un film in ebraico. A scuola si studia l'ebraico fin dalla prima classe e al Liceo, dove insegniamo secondo il programma dell'Università Ebraica di Gerusalemme, la quale certifica i nostri ragazzi con diplomi universitari, le ore a nostra disposizione sono troppo poche per far acquisire agli alunni la sicurezza necessaria per immergersi nella cultura israeliana. Eppure, molti dei nostri ragazzi, durante e dopo il liceo. vanno in Israele per studiare o per arruolarsi nell'esercito e ciò a riprova del riferimento culturale che Israele rappresenta per tutti noi. E allora, ancora una volta, e proprio per il bene delle nostre Comunità, potenziamo l'ebraico, in modo da creare una vera fusione fra noi e Israel. Se non capiamo i testi sacri che leggiamo, come è possibile sentirci forti della nostra identità culturale, riconoscendo, anche, le tendenziose traduzioni e interpretazioni, che hanno creato una cultura antisemita? Se non capiamo la lingua dei parlamentari israeliani, come facciamo a capire la loro politica e a formarci una coscienza critica? Come possiamo apprezzare le parole delle canzoni, se non le capiamo? Cosa sappiamo della zavà e della storia di Israele? Che mezzi abbiamo per spiegare cosa succede in Israele a chi non lo sa, se le nostre fonti di informazione sono quelle locali, censurate o manipolate? Spesso ci difendiamo con argomentazioni retoriche e zoppicanti. Ma la retorica è facilmente attaccabile da altre retoriche, mentre la cultura è la sola risposta del popolo del libro. È il vero orgoglio ed è l'unica, vera hasbarà.

* Insegnante Scuole Ebraiche di Roma

(Shalom, gennaio 2019)


Sono arrivati in Israele i tre carabinieri assediati a Gaza

di Giordano Stabile

Ha mediato anche il Qatar per sbloccare la situazione dei tre carabinieri italiani assediati da Hamas a Gaza. Lo ha rivelato il portavoce del ministero degli Interni della Striscia, Yiad al-Bozum, nel ringraziare «quanti hanno partecipato alla soluzione della vicenda» e cioè «l'inviato speciale dell'Onu Nickolay Mladenov, il consolato generale italiano e l'ambasciatore del Qatar». Già nella tarda notte di martedì, dopo gli interventi diplomatici, la tensione era scesa attorno alla sede dell'Onu nel centro della città, dove si erano rifugiati i tre. Gli uomini di Hamas hanno controllato i documenti dei nostri militari e chiarito l'equivoco. Non erano «forze speciali israeliane» infiltrate, come sospettavano, ma gli uomini del Nucleo Scorte del consolato italiano a Gerusalemme, nella Striscia per un sopralluogo in vista di una visita del console generale.
   I carabinieri non si erano fermati a un controllo non previsto e i miliziani avevano sparato in aria e inseguito il fuoristrada Toyota sul quale viaggiavano. I militari avevano passaporti diplomatici e non erano tenuti a sottoporsi a ispezioni, se non in casi di emergenza. Il ministero degli Interni di Gaza ha spiegato che si è creata la necessità di controllare il veicolo «transitato in un'area in cui si erano verificati spari», poi inseguito fino all'ingresso dell'agenzia Onu. «Dopo che abbiamo compiuto verifiche, è emerso che si trattava di cittadini italiani, entrati peraltro nella Striscia in maniera regolare, e che il loro veicolo non era collegato agli spari», ha concluso.
   I tre carabinieri sono usciti dal valico di Erez poco dopo le 14 locali diretti a Gerusalemme. L'incidente nasce anche dal fatto che il livello di tensione nella Striscia è molto più elevato del solito. Il 12 novembre scorso i miliziani hanno intercettato un gruppo di uomini armati, che si fingevano palestinesi. Erano dell'esercito israeliano, in missione di ricognizione. Ne è scaturito un conflitto a fuoco, con sette militanti e un colonnello israeliano uccisi. Il blitz ha fatto alzare il livello di guardia e contribuito all'equivoco che ha coinvolto i nostri militari. Ma c'entra anche il clima avvelenato fra Hamas e l'Autorità nazionale palestinese guidata dal presidente Abu Mazen. I miliziani si sentono sotto un triplice assedio, da parte di Israele, dell'Egitto e di Al-Fatah, il partito di Abu Mazen che fino al 2007 governava la Striscia. In questo clima anche un sopralluogo di routine diventa una missione ad alta tensione.

(La Stampa, 17 gennaio 2019)


La Malaysia vieta l'ingresso nel proprio territorio agli israeliani

Tra le prime "vittime" del provvedimento restrittivo varato da Kuala Lumpur ai danni dei cittadini israeliani vi saranno degli "atleti paraolimpici".

di Gerry Freda

 
Saifuddin Abdullah, ministro degli Esteri della Malaysia
Il governo della Malaysia ha in questi giorni interdetto l'ingresso nel Paese ai cittadini di Israele.
   La nazione islamica è da sempre strenua sostenitrice dei diritti dei Palestinesi e non ha mai instaurato relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico.
   Saifuddin Abdullah, ministro degli Esteri di Kuala Lumpur, ha recentemente annunciato che, da oggi in poi, il territorio del suo Paese "non accoglierà più Israeliani" e ha presentato tale divieto come una "ritorsione più che proporzionata" alle "reiterate umiliazioni subite dagli abitanti di Gaza e della Cisgiordania ad opera dell'esecutivo Netanyahu". Secondo il capo della diplomazia malaysiana, le "brutalità" perpetrate dai militari dello Stato ebraico ai danni dei Palestinesi avrebbero ormai "superato ogni limite".
   Il ministro ha poi evidenziato un ulteriore motivo alla base del recente divieto: la decisione di alcune nazioni occidentali di riconoscere Gerusalemme come "capitale di Israele". Ad avviso dell'esponente del governo di Kuala Lumpur, tale riconoscimento, effettuato, tra gli altri, da Usa, Brasile e Australia, costituirebbe una "criminale revisione della storia". L'interdizione disposta ultimamente dalle autorità malaysiane sarebbe quindi anche una reazione a tale "brutale attentato alla verità storica", promosso, a detta di Abdullah, da una "cricca revisionista capeggiata da Netanyahu".
   Tra le prime "vittime" del provvedimento restrittivo varato da Kuala Lumpur ai danni dei cittadini israeliani vi saranno degli "atleti paraolimpici". La delegazione sportiva dello Stato ebraico, in virtù della ritorsione decisa dalla nazione islamica, non potrà infatti prendere parte ai mondiali di nuoto per disabili. La manifestazione si svolgerà il prossimo luglio proprio in Malesia.
   La reazione di Gerusalemme non si è fatta attendere. Dichiarazioni di condanna nei riguardi del Paese asiatico sono state pronunciate da numerosi componenti dell'esecutivo Netanyahu. Ad esempio, Yisrael Katz, ministro dell'Intelligence, ha bollato il divieto disposto da Kuala Lumpur come una "vigliacca aggressione ai danni del popolo israeliano", mentre Miri Regev, ministro della Cultura e dello Sport, ha tratto spunto dalla vicenda degli atleti paraolimpici per accusare le autorità malaysiane di "calpestare i diritti dei disabili in nome del fanatismo e dei pregiudizi politici".

(il Giornale, 17 gennaio 2019)


Se il sabato ebraico è la festa del mondo
      Articolo OTTIMO!


Benjamin Gross, da poco scomparso, fu l'ultimo dei grandi maestri ebrei di oggi. Esce ora una sua analisi teologica sul tema che segna l'identità del popolo eletto. È nello Shabbat che si fa memoria congiunta di due eventi distinti ma paralleli, uno naturale e universale e uno storico, inscindibili nell'economia del racconto biblico: la creazione del mondo e l'uscita di Israele dall'Egitto. Due memorie che convergono nell'unico giorno che Dio ha voluto "santo".

di Massimo Giuliani

Nessuno può dire di conoscere l'ebraismo se non ha davvero compreso cosa sia il Sabato ebraico, e nessuno può dire di averlo capito se non ha vissuto, almeno una volta, lo spirito e le norme dello shabbat. È il segreto palese, se mi è concesso l'ossimoro, della vita ebraica più autentica, ma proprio perché è sotto gli occhi di tutti e perché non si possono leggere le Scritture senza imbattersi continuamente nella santificazione del Sabato (che è esplicitamente uno dei dieci comandamenti), questo precetto è anche tra i più trascurati, per non dire il più frainteso. Molta cultura cristiana pensa che la domenica sia il "sabato degli cristiani". Ma se non si capisce cos'è lo shabbat ebraico, la metafora resta vuota non solo di prassi ma soprattutto di senso. E tradurlo con il termine "festa" è estremamente riduttivo: non è una festa, ma la festa nel senso più pieno. Celebra infatti il compimento divino del più grande miracolo umanamente immaginabile: l'esistenza del mondo. Non solo, del mondo questo giorno settimo, che Dio ha comandato di santificare, rivela il senso e la vocazione nonché la trascendenza. Nel ricordo del riposo divino - shabbat vuol dire cessazione e riposo - sono inscritte la finalità e la speranza del creato, inteso come unità di natura e storia. Non è esagerato affermare che, se esiste, la metafisica dell'ebraismo sta tutta nei valori e nella prassi che costituiscono lo shabbat. Non a caso i rabbini hanno sempre insegnato: «Non è Israele che custodisce il Sabato ma il Sabato che custodisce e preserva e fa sopravvivere Israele», né è un caso che nelle lingue derivate dal latino questo giorno settimanale abbia fino ad oggi mantenuto il suo nome ebraico.
  Il filosofo francese-israeliano Benjamin Gross, da poco scomparso, è l'ultimo dei grandi maestri ebrei contemporanei, sulla scia di Franz Rosenzweig, Joseph Soloveitchik e Avraham Joshua Heschel, ad aver scritto sul valore cosmico e religioso del Sabato nella tradizione ebraica. Nel volume Momento di eternità (appena pubblicato dalle Edb nella collana "cristiani ed ebrei"), Gross sostiene che esiste un preciso parallelo tra Israele e il Sabato: «La nascita della società ebraica, all'epoca dell'esodo dall'Egitto, rappresenta sul piano della storia ciò che lo shabbat rappresenta sul piano della natura: una traccia della trascendenza inserita nell'universo per testimoniare l'Origine ossia il Creatore. Lo shabbat e Israele sono consustanziali». In questo giorno si fa memoria congiunta di due eventi distinti ma paralleli, uno naturale e universale e uno storico e particolare, inscindibili nell'economia del racconto biblico: la creazione del mondo e l'uscita di Israele dall'Egitto. Due memorie che convergono nell'unico giorno che Dio ha voluto "santo", che cioè ha separato dagli altri elevandolo a memoriale vivente.
  Il precetto di santificare questo giorno sta nella lista dei doveri verso Dio, che simbolicamente si trova nella prima delle due tavole dei comandamenti. Ma ciò non significa che esso non racchiuda alcuni doveri verso il prossimo o non veicoli un messaggio sociale e politico. Anzi, di tutti i comandamenti è proprio quello che contiene la rivoluzione politica più radicale che sia mai stata annunciata: nel giorno del Sabato, infatti, l'obbligo del riposo e della celebrazione investe alla pari uomini e donne, genitori e figli, padroni e servi, esseri umani e animali domestici. Di fatto, sottolinea Gross, lo shabbat prospetta ciò che in linguaggio moderno chiameremmo "l'abolizione della divisione delle classi, l'insubordinazione verso le leggi dell'economia e il superamento dell'alienazione causata dalla necessità del lavoro quotidiano". Un'utopia marxiana ante litteram (non dimentichiamo le radici ebraiche del pur ateo Marx) ma che meglio si comprende alla luce della categoria dello shalom messianico. Come potrebbe lo spirito del Sabato ebraico non includere questa prospettiva escatologica di giustizia, integrità e armonia per tutti gli esseri viventi, animali inclusi? Lo shabbat è, per i maestri di Israele, un sessantesimo del mondo futuro, del paradiso, della redenzione finale; è un anticipo e funge una promessa di ciò che può già essere gustato quaggiù e che diventa modello e ispirazione per i riscatti e le piccole redenzioni di cui necessitano i sei giorni di quotidiano lavoro, che dallo shabbat ricevono luce e orientamento.
  Per esplicitare questo senso etico universale, contenuto nella prassi sabbatica, il teologo chassidico Heschel aveva scritto il suo libro più famoso Il sabato e il suo significato per l'uomo moderno, un classico della spiritualità occidentale. L'ebraismo privilegia la santificazione del tempo alla monumentalizazzione dello spazio: non ha lasciato piramidi o cattedrali ma ha consegnato all'umanità un'architettura temporale ossia il suo calendario liturgico e la sacralità del riposo settimanale e dalla speranza messianica. All'uomo contemporaneo, stressato dalla conquista dello spazio e della visibilità, Heschel contrappone la conquista del tempo, che è interiorità e persino nascondimento, perché i valori e i significati profondi dell'esistenza non sono merce da trattativa mercatile. Non si comprano né si vendono, possono solo essere coltivati, curati e condivisi. Lo shabbat, nell'idea di astenersi dal lavoro e nel porsi un limite, ammonisce l'homo faber a coltivarsi anche e soprattutto come creatura, in una passività che preserva e dà senso alla stessa attività lavorativa. Emmanuel Levinas ha fatto di questa passività, cifra positiva del riposo sabbatico, una parola chiave della sua riflessione etica, eredità dei profeti che i rabbini hanno sviluppato in dettaglio nello studio del Talmud. Solo un approccio superficiale può liquidare quei dettagli come formalismo o mera esteriorità; al contrario, ogni singola norma per la santificazione del Sabato è spia e rivelazione di una dedizione piena a compiere il progetto divino sul mondo. E nella visione profetico-rabbinica, il valore e la prassi dello shabbat sono un messaggio per tutti, non solo per gli ebrei. Isaia al capitolo 56 ricorda che eunuchi e stranieri, nella misura in cui "si guarderanno dal profanare il Sabato", verranno condotti sul santo monte di Sion, casa della preghiera e luogo dove anch'essi offriranno sacrifici. In Geremia l'osservanza assoluta dell'astensione dal lavoro nel giorno santo non è meno forte e anticipa le prescrizioni del trattato talmudico che porta appunto il nome di Shabbat. Un precetto universale, dunque, che sintetizza quell'imitatio Dei in cui consiste la religiosità ebraica. «Lo shabbat è stato osservato da Dio prima che dall'uomo, scriveva nel XIX secolo il rabbino livornese Elia Benamozegh, ed è proprio perché Dio lo ha osservato che è stato comandato all'uomo di osservarlo a sua volta». È utile, poi, sapere che l'insegnamento di Gesù sul «sabato che è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato» era un'idea diffusa in tutto il giudaismo farisaico dei primi secoli. La si ritrova, con spiegazione annessa, nel Talmud, trattato Yomà, che è dedicato al "sabato dei sabati" ossia al giorno di Kippur: «A voi uomini è stato dato lo shabbat: ciò comporta che ci sono situazioni in cui si deve osservare lo shabbat e situazioni in cui si può profanarlo non osservandolo se ciò è richiesto dalla salvaguardia della vita». Quanti fraintendimenti e quanto pregiudizio antiebraico è stato costruito su quest'affermazione evangelica, che comparando le fonti trova invece Gesù e i farisei in piena sintonia di vedute.
  La cifra del Sabato ebraico è il doppio. I maestri di Israele si spingono a ritenere che «all'ingresso del sabato, ogni uomo riceve un'anima supplementare». Ma cos'è questo raddoppio dell'anima umana se non il dono di un'intelligenza nuova, quasi un surplus di coscienza e di consapevolezza circa quel che davvero siamo e soprattutto perché siamo al mondo? Un doppio che viene ritualmente ricordato nell'accensione di due lumi, nella benedizione su due pani (ciascuno doppiamente intrecciato) e nei due verbi, zakor e shamor, ricorda e osserva, che ne comandano la santificazione.
  L'attesa messianica, nell'ebraismo, è frutto della fede che "quel giorno", il giorno storico della redenzione ultima, sarà "tutto shabbat", perché sarà il giorno in cui tutti i popoli saliranno con Israele a Sion. E come la Torà è stata data sul monte Sinai nel giorno di shabbat, ricorda Benjamin Gross, così sarà in uno shabbat senza fine dove l'umanità intera abbraccerà «il giogo del regno dei cieli». Se non è metafisica questa.

(Avvenire, 17 gennaio 2019)


Incontro a Torino con Magdi Allam per il Giorno della Memoria

“Chiamata di Mezzanotte” organizza un incontro, Domenica 27 gennaio a Torino, per il “Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione degli ebrei e la loro deportazione. E’ un giorno in cui tutti siamo chiamati a ripensare a ciò che è accaduto affinché non vengano mai più scritte pagine di storia come questa.
In modo particolare prenderemo in considerazione una crescente forma di antisemitismo che si può osservare oggi in Italia e in Europa.
Magdi Cristiano Allam illustrerà il suo ultimo libro “Il Corano senza veli”.
Introdurrà Marcello Cicchese.
Luogo: Hotel “Il Fortino”, via del Fortino 36 - Torino - info 011 283966
Giorno: 27 gennaio, ore 17

(Chiamata di Mezzanotte, 17 gennaio 2019)



Israele: il food & wine mercato di riferimento importante

L'ente del turismo ha organizzato una Cooking Challenge a Milano, in cui un nutrito gruppo di agenti di viaggi si è sfidato tra i fornelli, a colpi di ricette e pietanze tipiche israeliane.

Conoscere Israele attraverso il cibo e i sapori, questa l'idea alla base della Israel Cooking Challenge, organizzata dall'ente del Turismo, che si è svolta ieri sera a Milano e che ha visto un nutrito gruppo di agenti di viaggi sfidarsi (simpaticamente) tra i fornelli, a colpi di ricette e pietanze tipiche israeliane. I partecipanti sono stati divisi in due squadre, guidati dai sapienti consigli di due chef, si sono cimentati nella preparazione di alcuni dei piatti più famosi del Paese, scoprendo anche tante curiosità, usi e costumi di Israele e della sua cucina.
   Un modo per conoscere sempre più da vicino il Paese, partendo dal cibo, in quanto "il cibo israeliano è come Israele, un insieme di gusti, sapori, colori e profumi perché arriva un po' da tutto il mondo come influenze, esattamente da oltre 130 Paesi diversi", ha dichiarato Avital Kotzer Adari, consigliere per gli affari turistici Ambasciata d'Israele nel corso della serata.
   Il piatto che si mangia riflette le influenze delle diverse culture. "Il piatto è una festa - commenta Adari -. Il nostro è un Paese molto dinamico, come si può vedere dalle diverse campagne che stiamo facendo tra tram, metrò ed anche tv, per questo abbiamo pensato allo spunto della cucina per conoscerlo meglio". Non solo, il food & wine "non è più solo un segmento, ma è diventato un mercato di riferimento importante, con tanti progetti da portare avanti".
   E i numeri lo dimostrano. Per esempio a Tel Aviv vi sono più di 1.700 ristoranti, caffè, bar, locali. Non solo, conta anche più di 400 ristoranti vegani, vanta uno street food di alto livello. Tra le possibili esperienze che i turisti possono vivere vi è la visita dei mercati, "che possono diventare dei tour guidati o per individuali, assaggiando i prodotti tipici in sette diversi mercati, da quelli più tradizionali a quelli più chic, che sono aperti anche di notte. Dopo Tokyo e Ny, Tel Aviv è la città con il maggior numero di shushi bar al mondo. Tra le tendenze forti c'è anche quella della birreria boutique, non solo, i ristoranti diventano location per ospitare eventi culturali, come in occasione di Eat Tel Aviv, che si terrà nel mese di maggio".
   Gerusalemme non è da meno nella sua offerta. Vi si respira un'atmosfera internazionale, in quanto ospita tanti studenti, grazie alla presenza dell'Università ebraica. Ha una sua zona storica per il vino che è la Giudea, ma vanta anche ristoranti moderni o che propongono le ricette citate nella Bibbia. I mercati la sera diventano location per ascoltare la musica. s.v.

(Guida Viaggi, 17 gennaio 2019)


Il piano di Trump: stato palestinese in West Bank con Gerusalemme est capitale

Giudea e Samaria quasi completamente ai palestinesi oltre a una parte di Gerusalemme Est. Sarebbe questo, secondo Reshet 13 TV, il "piano del secolo" studiato da Trump per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Non proprio un piano "amico di Israele".

Il cosiddetto "piano del secolo" annunciato da mesi dal Presidente Trump prevederebbe uno Stato palestinese nella West Bank (Giudea e Samaria) con Gerusalemme Est come capitale. A sostenerlo è un report della Tv israeliana Reshet 13 TV.
Secondo quanto appreso da Reshet 13 TV il piano di Trump prevederebbe la creazione di uno Stato palestinese in buona parte della West Bank (circa il 90%) che abbia come capitale una parte di Gerusalemme Est. I grandi insediamenti sarebbero annessi da Israele mentre quelli più piccoli sarebbero fatti evacuare....

(Rights Reporters, 17 gennaio 2019)


*


Un discorso tra amici

In un articolo del 4 gennaio 2018 sul quotidiano “il Giornale”, Fiamma Nirenstein commentava con soddisfazione le scelte di Trump contro le pretese palestinesi e a favore di Israele. Diceva:
    «Show me your money, mostrami i soldi, è un modo di dire per verificare le intenzioni dell'interlocutore. Non si scherza coi soldi. Trump è un businessman e lo fa sapere ai suoi elettori, come quando rivede il bilancio del suo Paese, tagliando di qua (clima, sanità), aumentando di là (difesa). [...] Trump ha anche detto che la questione di Gerusalemme avrebbe richiesto un prezzo elevato anche da Israele. Come a segnalare che Netanyahu avrebbe dovuto, se i palestinesi avessero accettato la trattativa, cedere qualcosa di importante».
All'articolo seguiva un commento:
    «Che cosa avrebbe dovuto cedere Netanyahu, per la precisione? Qualcuno lo sa? Forse non lo sa nemmeno Trump, perché nel suo pragmatismo, da buon businessman avrà voluto aspettare che il gioco si chiarisse prima di far sapere che cosa era disposto a dare e che cosa avrebbe voluto chiedere in cambio. Fino a questo momento, Trump ha soltanto enunciato una cosa ovvia: che Gerusalemme è la capitale di Israele. E questa ovvietà linguistica ha scatenato un finimondo altrettanto linguistico. Ma non ha detto, il Presidente degli Stati Uniti, quanto è grande questa capitale e fino a dove arriva. Comprende tutta Gerusalemme Est? Non l'ha detto. Comprende tutto il Monte del Tempio, chiamato da alcuni per convinzione, da altri per prudenza Spianata delle Moschee? Non l'ha detto. Finora ha detto soltanto che il Muro del Pianto appartiene a Israele. Contenti gli israeliani? Non so. Ma supponiamo che il businessman chieda a Netanyahu: "Show me your money, quanti soldi hai per chiedermi che io ti dia il resto di Gerusalemme? Ti ho dato il Muro del Pianto, e sai bene quanto mi è costato imporlo ad Abu Mazen; che cosa vuoi di più? In fondo, se gli ebrei hanno pianto per duemila anni lontani da Gerusalemme e in terra straniera, adesso potranno continuare a farlo per qualche altro migliaio di anni davanti al muro, nel mezzo di Gerusalemme, in un pezzo di terra tutto loro. Ma che vogliono questi ebrei?»
Forse si avvicina il momento in cui Trump chiederà chiaro e tondo a Netanyahu: «Show me your money, mostrami i soldi!». E avendo visto che sono troppo pochi chiuderà il discorso su Gerusalemme e dirà al capo d'Israele: "Goditi quello che hai già e accontentati". "Gerusalemme capitale unica e indivisibile di Israele!" griderà convinto il nazionalista Netanyahu. "Spiacente, l'affare è svantaggioso per me", risponderà tranquillo il businessman Trump. Un discorso tra amici? Sì, certo. E vatti a fidare degli amici! M.C.

(Notizie su Israele, 17 gennaio 2019)


Il lancio del satellite iraniano che preoccupa Stati Uniti e Israele

di Emanuele Rossi

Un misterioso satellite iraniano non è riuscito a raggiungere l'orbita stabilita, precipitando nell'oceano Indiano. L'episodio ha riacceso le polemiche sul programma missilistico di Teheran. Washington e Gerusalemme hanno alzato i toni, ma Rouhani tira dritto.

 
Un innocuo satellite "non militare" per Teheran. "Il primo stadio di un missile intercontinentale" per Tel Aviv. "Una minaccia alla comunità internazionale" per Washington. Sono le tre diverse letture del fallito lancio spaziale iraniano, che ieri ha riacceso il dibattito relativo al programma missilistico di Teheran, tra l'altro proprio in un momento in cui la tensione con Israele è tornata ad alzarsi sul complesso dossier siriano.

 Cosa è successo
  A comunicare il fallito lancio è stata la tv di Stato iraniana, che ha riportato le parole del ministro della Telecomunicazioni Mohammad Javad Azari Jahromi. Partito dalla base spaziale Imam Khomeini, situata nella provincia settentrionale di Semnan, il vettore Simorgh (che in farsi significa "fenice") non è riuscito a "raggiungere la velocità necessaria" al suo terzo stadio, anche se avrebbe condotto con successo le prime due fasi di volo. A bordo c'era il satellite per telerilevamento Payam ("messaggio"), destinato secondo Teheran a scopi "non militari" e prevalentemente per applicazioni in campo agricolo. Eppure, il suo destino è stato diverso, con un brusco e imprevisto rientro nell'oceano indiano. Tra l'altro, Payam è stato progettato insieme a Doosti ("amicizia"), sulla cui partenza potrebbe influire ora il fallito lancio. Solitamente, l'Iran concentra le sue attività spaziali tra gennaio e febbraio, in modo da inserirle nei festeggiamenti per l'anniversario della Rivoluzione del 1979.

 Il programma spaziale iraniano
  Così è stato per quasi tutti i lanci oltre l'atmosfera, eseguiti in passato soprattutto con il programma Safir ("ambasciatore"), al debutto spaziale nel 2009. Particolari furono i due lanci nel 2013, con cui Teheran sparò in orbita due scimmie, mentre già nel 2010 l'allora presidente Mahmud Ahmadinejad annunciava che il primo astronauta iraniano avrebbe raggiunto lo spazio su un veicolo spaziale iraniano entro il 2019 (cosa ad ora molto improbabile). Come per ogni altro Paese con ambizioni di potenza regionale, anche l'Iran ha conservato obiettivi spaziali carichi di significato simbolico più che scientifico. Prima di apprendere il fallimento, la tv di Stato aveva celebrato la partenza del Simorgh come "un messaggio di orgoglio, autostima e forza di volontà della gioventù iraniana nel mondo".

 Il punto di Mike Pompeo
  Ad ogni modo, il fallito lancio ha riattivato tutte le polemiche e le preoccupazioni relative al programma missilistico iraniano. Una ferma condanna è arrivata dal dipartimento di Stato Usa, che ha definito l'azione "una sfida alla comunità internazionale e la risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite". In un comunicato stampa, Mike Pompeo ha definito la tecnologia di lancio "virtualmente identica e intercambiabile con quella usata nei missili balistici, inclusi i missili balistici intercontinentali". Perciò, ha aggiunto, gli Stati Uniti stanno lavorando con i suoi partner "per contrastare le numerose minacce della Repubblica islamica, incluso il suo programma missilistico, che minaccia l'Europa e il Medio Oriente". Simili accuse erano arrivate anche in occasione di altri lanci iraniani, sempre concernenti il fatto che il programma di vettori spaziali nascondesse in realtà l'obiettivo di perfezionare razzi in grado di trasportare testate nucleari.

 La risposta di Teheran
  In passato, era stato lo stesso presidente Hassan Rouhani a non nascondere una simile ambizione: "I missili oggi sono il nostro unico modo per difenderci e siamo orgogliosi del nostro programma". D'altra parte, anche quando il Joint comprehensive plan of action (Jcpoa) era nella delicata fase di negoziazione, Teheran ha portato avanti con decisione il programma missilistico. Nonostante le parole di Pompeo, sono in molti a dubitare che l'Iran violi le norme internazionale. Il Jcopa, da cui gli Usa sono usciti a maggio, riguarda il programma nucleare e le percentuali di arricchimento dell'uranio (e il loro rispetto è confermato periodicamente dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica dal 2015), non i missili. Ad essi è dedicata per l'appunto la risoluzione 2231 del 2015 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, la quale però "invita" (e non "obbliga" come la precedente 1929 del 2010) l'Iran a sospendere ogni attività sui missili balistici. Ciò lascia ampi spazi alle ambizioni balistiche di Teheran, soprattutto a quelle che il governo definisce "non concepite per trasportare armi nucleari", proprio come il programma spaziale.

 Le proteste di Netanyahu
  Non ha però dubbi il presidente israeliano Benjamin Netanyahu: l'Iran vuole costruire missili nucleari. Il satellite lanciato da Teheran non sarebbe altro che "il primo stadio di un vettore intercontinentale", ha spiegato. La bugia sul lancio, tra l'altro, sarebbe solo una delle "tante menzogne del governo iraniano", tra cui andrebbe annoverato soprattutto "il tentativo di sviluppare armi nucleari". Nei giorni scorsi, la tensione era aumentata sul dossier siriano. "Andate via velocemente, perché non smetteremo di colpire", aveva detto Netanyahu partecipando alla cerimonia di insediamento del nuovo capo di Stato maggiore della Difesa, in risposta a quanto dichiarato dal portavoce della diplomazia iraniana Bahram Qasemi, secondo cui l'Iran "non ha basi militari e non ha truppe presenti nel Paese".

(formiche, 16 gennaio 2019)


«La barbarie delle leggi razziali»

Storie e tragedie degli ebrei bolognesi perseguitati dai nazisti, nel libro "Barbarie sotto le Due Torri" di Lucio Pardo, già presidente della Comunità Ebraica di Bologna. Il libro sarà presentato lunedì 28 gennaio, nei locali della Sinagoga di via Mario Finzi.

di Luca Orsi

La memoria contro l'oblio. Fissare i ricordi perché chi verrà dopo di noi sappia. E non dimentichi. Perché gli orrori della Storia non si ripetano. Lucio Pardo, già presidente della Comunità ebraica, mette nero su bianco in un libro le storie e le parole di tanti ebrei bolognesi che - a partire dalla prima retata dei nazisti nella nostra città, il 7 novembre 1943 - vennero perseguitati e deportati con il pretesto della razza.
   Nelle pagine di Barbarie sotto le Due Torri (che sarà presentato lunedì 28 gennaio, alle 16, nei locali della sinagoga, in via Mario Finzi) riecheggiano le voci di intere famiglie che abitavano in città, le loro sofferenze quotidiane: come i Calò e i Saralvo, completamente annientate dalla Endlösung, la «soluzione finale» voluta da Adolf Hitler; rivivono le tragedie di Mario Finzi e di Moisè Alberto Rossi, del rabbino Orvieto e della famiglia Sermoneta. Secondo alcuni calcoli, gli ebrei bolognesi morti nei lager furono 114, su circa 150 deportati.
   Il libro - un volume-testimonianza edito con la collaborazione dell'assemblea legislativa della Regione, pubblicato in concomitanza con il Giorno della Memoria - parla di tutto questo. E «dell'infamia dell'Ovra (la polizia segreta fascista, ndr) e dei nazisti da un lato, e dall'altro dell'impegno della brava gente di Bologna, che capì e si oppose», spiega Pardo.
   La tragedia delle «leggi per la difesa della razza» si abbatté anche sopra la nostra città, dove la comunità ebraica era bene inserita, tanto da avere una sinagoga, da annoverare tra i propri iscritti alcuni dei nomi più illustri dell'Università, delle categorie produttive e delle libere professioni più in vista.
   «Le leggi razziali furono la pagina più nefasta della Storia patria, per le tragiche conseguenze che quel provvedimento portò agli italiani», scrive nella prefazione del volume Simonetta Saliera, presidente dell'assemblea legislativa regionale.
   In occasione della Giornata della Memoria 2019, «come assemblea legislativa abbiamo sentito la necessità di collaborare con la comunità ebraica per realizzare una pubblicazione in cui Pardo intreccia il proprio racconto con una ricostruzione storiografica dei principali fatti di quei drammatici anni: ricordare è un modo per non dimenticare ed evitare il ripetersi di ignobili tragedie».
   Per la prima volta, la Comunità ebraica bolognese ha aperto i propri archivi. E Pardo ha potuto pubblicare scritti finora inediti di testimoni diretti della persecuzione degli ebrei in città. Come quelli, datati 7 novembre '43, di Ubaldo Lopes Pegna, decente di filosofia nella scuola ebraica; e di Loris Goldstaub, docente di disegno. «Per gli ebrei - scrive Pardo - non restava che un'alternativa: o restare al proprio posto e farsi uccidere, lontano da casa chissà dove, chissà quando;, oppure allontanarsi, mimetizzarsi, sparire. Allontanarsi cioè abbandonare la propria abitazione, il cui indirizzo compariva negli schedari della polizia italiana destinati a cadere nelle mani della polizia tedesca. Mimetizzarsi significava procurarsi una nuova identità con relativi nuovi documenti falsi, coerenti con la propria persona e con il nuovo luogo, ove da sconosciuti si andrà a stare».

(Il Resto del Carlino, 17 gennaio 2019)


In «scioccante aumento» la persecuzione dei cristiani

Pubblicata la World Watch List 2019, il rapporto annuale della Ong Porte Aperte. Preoccupante la situazione in Asia.

La persecuzione dei cristiani nel mondo è in «scioccante aumento»: circa 245 milioni i cristiani perseguitati nel mondo a causa della propria fede. È quanto viene fuori dal rapporto annuale pubblicato ieri dalla Ong Open Doors. Secondo i dati della World Watch List 2019, a destare particolare preoccupazione è la situazione in Asia dove la persecuzione sta registrando un notevole aumento. In Cina, che è salita di 16 posti al numero 27, alcune nuove leggi stanno cercando di controllare tutte le espressioni religiose.
   L'amministratore delegato di Open Doors UK e Irlanda, Henrietta Blyth, ha dichiarato: «La nostra ricerca svela un aumento scioccante della persecuzione dei cristiani a livello globale. In Cina le cifre indicano che la persecuzione è la peggiore da oltre un decennio - in modo allarmante alcuni leader della chiesa dichiarano che è la situazione peggiore da quando la Rivoluzione culturale si è conclusa nel 1976. Nel mondo, i nostri dati rivelano che il 13,9% in più di cristiani sta vivendo livelli elevati di persecuzione rispetto all'anno scorso. Sono 30 milioni di persone in più.
   L'India, la più grande democrazia del mondo, è entrata per la prima volta nella Top 10 dei World Watch List: qui gli estremisti indù agiscono con impunità compiendo violenti attacchi contro cristiani e chiese. Ciò è guidato dal crescente ultra nazionalismo, che ha portato ondate di violenza contro le significative minoranze religiose non indù».
   L'aumento del nazionalismo sta portando a simili persecuzioni in altri paesi come il Bhutan, il Myanmar e il Nepal, dove l'identità nazionale è legata alla religione e coloro che appartengono a fedi minoritarie diventano bersagli delle violenze estremiste.
   A soffrirne maggiormente sono i cristiani nelle zone rurali remote. Blyth ha dichiarato: «È sconvolgente che l'India - il paese che ha insegnato al mondo la via della "non violenza" - ora si affianchi nella nostra World Watch List a paesi come l'Iran. Per molti cristiani in India, la vita quotidiana è ora piena di paura, completamente diversa da soli quattro o cinque anni fa».
   La persecuzione in Corea del Nord è peggiore di qualsiasi altro paese al mondo e dura da 18 anni. Cinque anni fa, solo la Corea del Nord era nella categoria estrema per il livello di persecuzioni subite dai cristiani. Quest'anno i primi 11 paesi della World Watch List in cui la persecuzione contro i cristiani è estrema sono: Corea del Nord, Afghanistan, Somalia, Libia, Pakistan, Sudan, Eritrea, Yemen, Iran, India e Siria.
   Nel 2018 oltre 4.305 cristiani sono stati uccisi semplicemente a causa delle loro convinzioni, con la Nigeria ancora principale terra di massacri, non solo per mano dei terroristi islamici di Boko Haram.
   Nella fascia settentrionale della Nigeria, almeno 3.700 cristiani sono stati uccisi per la loro fede - quasi il doppio di un anno fa (circa 2.000).
   Il maggior numero di decessi è stato registrato nello Stato di Plateau (1885), dove le morti cristiane per mano di mandriani musulmani sono state dichiarate «genocidio» dalla Camera nigeriana dei deputati.
   Dalla ricerca emerge che la persecuzione di genere è utilizzata per colpire la comunità cristiana. Nei primi cinque paesi dove per i cristiani è più difficili vivere, l'esperienza femminile della persecuzione è caratterizzata da violenza sessuale, stupri e matrimoni forzati. Ciò significa che le donne e le ragazze cristiane affrontano maggiori persecuzioni in ambito familiare e sociale, mentre gli uomini cristiani hanno maggiori probabilità di essere detenuti senza processo o uccisi sommariamente dalle autorità o dalle milizie.
   In continuità con la ricerca dello scorso anno, la persecuzione degli uomini è, in generale, «concentrata, severa e visibile», mentre quella delle donne è «complessa, violenta e nascosta.

(Riforma.it, 16 gennaio 2019)



Israele, esempio per far crescere l'economia

di Carlo Alberto Pratesi

Come far crescere un'economia se non si hanno risorse naturali da sfruttare? Investendo sulla ricerca e sulle imprese che producono l'innovazione di cui il mercato ha sempre più bisogno. Lo Stato, in questa ottica, deve finanziare sia gli imprenditori che si assumono il rischio relativo allo sviluppo delle nuove tecnologie, sia le università che producono talenti e brevetti. Questo, in sintesi, è quello che l'ambasciatore d'Israele Ofer Sachs ha spiegato nell'incontro organizzato da Comin & Partners su «Startup e innovazione». Il suo Paese, adottando questa strategia, in 30 anni ha aumentato di sette volte il reddito pro-capite, azzerato l'inflazione e ridotto a un terzo il debito pubblico. Oltre 340 multinazionali che hanno situato lì i loro centri di ricerca e migliaia di startup nate in Israele oggi sono a caccia di laureati (soprattutto ingegneri) e sono interessate a qualunque tipo di collaborazione con le università romane.

(Corriere della Sera - Roma, 16 gennaio 2019)



Austria - Kurz: «I cittadini ebrei non si sentono sicuri in Europa»

Il cancelliere austriaco ha chiesto agli Stati un'«azione coesa» contro l'antisemitismo «Preoccupazione» della Commissione

STRASBURGO - «Ci sono dei cittadini ebrei che non si «sentono al sicuro in alcuni Paesi d'Europa». A sollevare la questione della persistenza dell'antisemitismo nel Vecchio Continente - a pochi giorni dal 27 gennaio, Giornata della Memoria - durante la plenaria del Parlamento di Strasburgo, è stato il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, leader del Partito Popolare.
   La lotta all'antisemitismo e all'antisionismo è una «questione fondamentale» per Vienna, ha sottolineato. Ricordando che nella capitale austriaca si è svolta a novembre «la prima conferenza europea su questo tema, con tutte la comunità ebraiche d'Europa». «Ancora, però - ha rilevato - alcuni cittadini ebrei si sentono nel mirino. È dunque cruciale un'azione coesa e decisa di Bruxelles». Un'indagine esclusiva della Cnn, realizzata a novembre con rilevazioni in Germania, Austria, Gran Bretagna, Ungheria, Francia, Polonia e Svezia, rivelava che per un europeo su cinque l'antisemitismo sarebbe «colpa degli ebrei». Un quarto degli intervistati - spiegava il rapporto - ritiene poi «eccessiva» l'influenza degli ebrei negli affari e nella finanza. Il sondaggio non parlava solo di una «resistenza» dei vecchi pregiudizi. Mostrava anche la progressiva perdita della memoria della Shoah: un quinto dei giovani tra i 18 e i 34 anni non ne ha mai sentito parlare. In Austria, tale quota arriva al 12 per cento. Un successivo studio dell'Agenzia dei diritti fondamentali dell'Ue ha confermato l'allarme. In base alla rilevazione - condotta su un campione di 16mila ebrei sopra i 16 anni - il 90 per cento degli intervistati ha rilevato un aumento dell'antisemitismo, mentre il 28 per cento ha denunciato di aver subito una qualche forma di discriminazione.
   Alle affermazioni di Kurz, ha risposto il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker. «È molto preoccupante che dei cittadini ebrei abbiano paura di professare la propria fede, e che l'antisemitismo dilaghi. Non credevo di poter rivedere una cosa del genere nella mia vita. Ma abbiamo dimostrato che siamo in grado di lottare e dobbiamo continuare a farlo», ha detto.

(Avvenire, 16 gennaio 2019)


Sanata la ferita alla storia

di Paolo Conti

Oggi viene sanata a Roma una gravissima ferita alla Memoria e alla Storia. Le strade della Capitale, in queste ore, accoglieranno altre ventisei pietre d'inciampo dedicate alla memoria delle vittime del nazifascismo. Ma c'è un atto riparatorio molto significativo, che avviene alla presenza della sindaca Virginia Raggi: la ricollocazione delle venti pietre rubate il 10 dicembre 2018 in via Madonna dei Monti 82 e dedicate ai deportati nei campi di sterminio delle famiglie Di Castro e Di Consiglio. Un atto violento, odioso, un autentico sfregio progettato e consapevole. Dunque nulla che abbia a che fare con il solito teppismo che, purtroppo, lascia le sue tracce quotidiane in tutta Roma. Noemi Di Segni, presentando recentemente a palazzo Chigi le manifestazioni per la Giornata della Memoria, ha invitato tutti a non sottovalutare le nuove forme di antisemitismo e di razzismo che si manifestano in Italia e in Europa. Il ritorno di queste pietre d'inciampo appare come una giusta e doverosa risposta a questo timore, come aveva scritto recentemente Pierluigi Battista sollecitando un rapido ritorno di quei segnali-monumento.
   Dunque stavolta Roma, nel suo complesso, ha reagito bene. E stata capace di chiudere un orribile capitolo in tempi ragionevoli, dimostrando compattezza e unità d'intenti.
   E il Campidoglio, va doverosamente sottolineato, si è mosso esattamente come dovrebbe fare sempre, mostrando fermezza, rapidità e anche capacità organizzativa. In una Capitale «normale» dovrebbe essere la regola, ma Roma - lo sappiamo - sta facendo i conti con una stagione drammatica e angosciosa, dove il degrado sembra stia vincendo su tutto e su tutti. L'episodio delle Pietre d'Inciampo, nei suoi tanti ed evidenti simboli, porta anche questo segno: la possibilità di tornare alla «normalità», a una capacità amministrativa quale si merita una grande Capitale europea. Le pietre d'inciampo riguardano tutti noi: per la Memoria, per l'orrore della Shoah, per nutrire la Memoria. Ma anche perché indicano a Roma una possibile via d'uscita dall'immobilismo e dal Brutto che ci opprime.

(Corriere della Sera - Roma, 16 gennaio 2019)



Israele: crisi nel sistema giudiziario, indagini e un arresto

Presidentessa della Corte Suprema: 'Faremo piena luce'

L'unità di elite della polizia israeliana, la 433, ha avviato un'indagine su possibili infrazioni compiute nella nomina di giudici. Lo ha reso noto il portavoce della polizia. E' la prima conferma di voci insistenti diffusesi nei giorni scorsi su internet circa un grave scandalo che sarebbe maturato nel sistema giudiziario.
Il portavoce ha precisato che un avvocato, sospettato di essere coinvolto nella vicenda, è stato arrestato oggi. Inoltre una donna-giudice di un tribunale di pace ed una avvocatessa sono state convocate oggi dalla 433, come testimoni. Agenti hanno anche compiuto perquisizioni e requisito documenti e computer. La presidentessa della Corte Suprema Ester Hayut e la ministra della giustizia Ayelet Shaked hanno assicurato che l'inchiesta farà piena luce e hanno espresso fiducia che si concluderà al più presto "per assicurare la fiducia del pubblico nel sistema giudiziario". Secondo la radio statale, il presidente dell'ordine degli avvocati Effi Naveh starebbe per rassegnare le dimissioni, ma finora da parte sua non c'e' conferma.

(ANSAmed, 16 gennaio 2019)


Gaza, tre carabinieri italiani assediati da Hamas

Dopo un controllo a un checkpoint. L'inseguimento e gli spari: asserragliati nella sede Onu dei territori.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Tre carabinieri italiani si sono rifugiati a Gaza nella sede dell'Unrwa, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, dopo un drammatico inseguimento da parte degli uomini armati di Hamas che ancora ieri sera, da lunedì, li tenevano sotto assedio. Sembra che la pattuglia italiana fosse entrata a Gaza per una missione Onu, che la loro auto in movimento abbia suscitato i sospetti delle forze di Hamas, e che esse abbiano intimato l'alt. Da questo rifiuto è nato un inseguimento accompagnato da uno scontro a fuoco, e fra glispari i nostri connazionali sono riusciti a trovare rifugio nell' edificio dell'Onu.
   Hamas non si è tirato indietro di fronte alle mura della istituzione internazionale e ha chiesto la consegna dei tre militari, riuscendo nel corso della trattativa a verificarne l'identità coi documenti, a interrogarli, a esaminarne le armi. I tre ora sono nella pericolosa condizione di assediati e di sospettati: perché la polizia di Hamas, secondo Arab21, nonostante l'Onu abbia ripetuto che s«i tratta di tre cittadini con passaporto italiano in missione autorizzata a Gaza» sospetta un' operazione coperta di forze israeliane, e dice che «i tre potrebbero essere membri delle forze speciali israeliane».
   Hamas ha circondato la sede delle Nazioni Unite. Da Gaza si riferisce che droni dell' esercito israeliano volano sulla città e che anche che jet militari sorvolano la zona, esplodendo dei colpi a salve di avvertimento.
   L'atteggiamento sospettoso di Hamas nei confronti di eventuali operazioni coperte all'interno della Striscia perdura da quando nel novembre scontro l'avvistamento di un'auto suscitò sospetti e una reazione molto aggressiva da parte delle forze di Hamas, fino allo scontro armato con l'uccisione, molto sofferta da Israele, del capo di una importante operazione israeliana sotto copertura, la fuga avventurosa del resto del gruppo di infiltrati e l'uccisione, nello scontro, di sette uomini di Hamas. Da allora l'allerta e la ricerca sulla base dell'operazione compiuta prosegue, mentre anche ieri a seguito di rinnovati bombardamenti da parte di Hamas sul territorio israeliano, la situazione resta molto tesa.
   I metodi di Hamas non sono certo garantiti da uno sfondo giuridico condiviso e sicuro: si può solo sperare che Hamas si convinca rapidamente che l'inclusione nei suoi problemi interni di forze a carattere internazionale non gli giova. Tuttavia allo spregiudicato atteggiamento che gioca sulla vita di donne e bambini può far gioco che la partita si allarghi cercando di impelagare Israele nelle difficoltà che possano nascere in questa situazione. La diplomazia italiana, che per quel che riguarda le questioni palestinesi fa capo al consolato di Gerusalemme, è al lavoro.

(il Giornale, 16 gennaio 2019)


*


"Sbloccata la vicenda dei carabinieri italiani" a Gaza

Secondo i media Hamas ha accertato la loro identità. Presto sarà possibile l'uscita dalla Striscia

Si è sbloccata la vicenda dei tre carabinieri italiani rifugiatisi nella sede dell'Onu a Gaza. Lo riferiscono media palestinesi e israeliani, secondo cui Hamas ha tolto l'assedio dopo aver accertato la loro identità di italiani e non di israeliani, come sospettato in precedenza.
Fonti stampa hanno aggiunto che con la riapertura del valico di Eretz con Israele i carabinieri dovrebbero poter uscire da Gaza e fare ritorno a Gerusalemme. Non ci sono al momento conferme ufficiali.
I tre carabinieri del nucleo scorte del consolato a Gerusalemme si trovavano nella sede dell'Onu di Gaza City da ieri notte, circondati dalle forze di sicurezza di Hamas che sospettavano appartenessero invece alle forze speciali israeliane.
La vicenda era iniziata, secondo le ricostruzioni locali, con il mancato arresto la notte scorsa ad un posto di controllo nel centro di Gaza dell'auto con a bordo i tre che si sono poi rifugiati nella sede delle Nazioni Unite.
L'Onu stessa aveva confermato, tramite canali ufficiali con il ministero dell'Interno a Gaza, la nazionalità dei tre carabinieri e fonti della sicurezza di Hamas, riportate da media della Striscia, avevano riferito che anche l'Italia aveva inviato informazioni al ministero dell'Interno a Gaza spiegando che si trattava di "cittadini italiani entrati in missione ufficiale".
Dopo la mezzanotte locale, lo sblocco della situazione, con la decisione di Hamas di interrompere l'assedio, dopo aver concluso gli accertamenti sulla loro identità.

(RaiNews, 16 gennaio 2019)


Sub israeliani nel Danubio in cerca dei resti degli ebrei trucidati nel '44

Noemi Di Segni, Presidente Ucei: «Per la nostra religione il corpo è sacro, va seppellito anche a distanza di secoli»

di Francesca Nunberg

 Il caso
  Il memoriale dell'Olocausto degli ebrei ungheresi è un'installazione lungo il Danubio fatta con 60 paia di scarpe in bronzo di uomini, donne e bambini. Prima di essere uccise a gruppi di tre, con un colpo alla nuca, le vittime venivano costrette a togliersi le scarpe e i cadaveri poi buttati nel fiume. A 75 anni da quell'eccidio, consumato tra il novembre del 1944 e il gennaio del '45 dai miliziani filonazisti e antisemiti delle "Croci frecciate", adesso si cercherà ciò che resta di quei corpi. A immergersi nelle acque del Danubio saranno i sommozzatori israeliani di Zaka, l'associazione di volontari specializzata nel soccorso e nel recupero delle vittime di attentati, che dopo tre anni di negoziati internazionali ha ottenuto il permesso per questo recupero senza precedenti.

 Il precedente
  Ad annunciare l'accordo è stato il ministro degli Interni israeliano Aryeh Dari dopo un incontro con la sua controparte magiara Sàndor Pinter. Verrebbe da chiedersi cosa possa mai emergere dopo tutto questo tempo, ma in realtà alcune ossa sono già state trovate nel 2011 in occasione dei lavori di restauro del Margit Bridge; se adesso ne dovessero venir fuori altre (le ricerche cominceranno tra oggi e domani) verrebbero portate in Israele e seppellite con tutti i crismi.
  Secondo Yad Vashem, gli ebrei ungheresi morti nella Shoah sono stati 600 mila: centinaia di loro sono stati trucidati sulle rive del Danubio tra la fine del '44 e il gennaio del '45. «A prescindere dall'entità dei ritrovamenti - chiarisce Noemi Di Segni, presidente dell'Uniofil del'ie"comunità ebraiche italiafil- dal punto di vista ebraico questa ricerca ha molto senso. I resti umani sono sacri e degni di sepoltura anche a distanza di secoli. A Roma abbiamo avviato un progetto per la risistemazione delle ossa delle catacombe di Villa Torlonia che hanno duemila anni, e lo stesso accade per un cimitero del '700 di Mantova e per uno di Bologna: le ossa vanno adagiate su un terriccio particolare, separate le une dalle altre e riseppellite recitando le preghiere».

(Il Messaggero, 16 gennaio 2019)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.